Cavalcare la Tempesta III - Nel Vento

di Lantheros
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Sogni di Stelle ***
Capitolo 3: *** Cenere all'aria ***
Capitolo 4: *** Cadere senz'ali ***
Capitolo 5: *** Stupido pegaso ***
Capitolo 6: *** L'ultimo saluto ***
Capitolo 7: *** Sognatori ***
Capitolo 8: *** Nuvole dal cielo ***
Capitolo 9: *** Semplici parole ***
Capitolo 10: *** Di tutte le ricchezze ***
Capitolo 11: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


    Rainbow Dash trottò affannosamente sulla sabbia zuppa, nel buio quasi assoluto e sollevando spruzzi di acqua nerastra ad ogni falcata. Il vento scorreva impetuoso, gettando di lato la pioggia che, incessante, continuava a martellare il terreno. Gli alberi nei dintorni erano poco più di agglomerati sferzati dall’aria, illuminati sporadicamente dai lampi nel cielo e seguiti dai rispettivi boati dei tuoni.

Il rumore del temporale sovrastava ogni cosa.

La puledra, completamente fradicia, cercò di ripararsi il volto con una zampa.

“ICARUUUS!!”, urlò.

Un lampo illuminò ad intermittenza la sagoma del compagno. Il pony grigio era seduto sul terreno, non molto distante da lei, con i lunghi crini zuppi che gli colavano lungo il collo. Il volto era scolpito in un’espressione difficile da decifrare. Il puledro sembrava vagamente preoccupato per qualcosa, eppure… eppure le sorrideva dolcemente.

Dash rallentò, a pochi metri da lui, con il fiatone. I due si osservarono intensamente, durante i brevi intervalli dei lampi.

L’amica corrugò lo sguardo e, con una foga del tutto impulsiva, urlò: “…PERCHÉ, ICARUS? PERCHÈ??”.

L’altro abbassò lo sguardo, osservando le gocce che si infrangevano sul fango. La sua criniera venne lambita dall’ennesimo colpo di vento. Tornò quindi ad osservarla, con lo stesso, dolce sorriso di prima.

“PERCHÉ, ICARUS? PERCHÉ L’HAI FATTO?”.

Il puledro, di nuovo, non rispose.

“PERCHÉ NON POTEVI LASCIARE TUTTO COM’ERA?? Cosa… COSA C’ERA CHE NON ANDAVA??”.

Il compagno scosse il capo e, con voce appena udibile, in mezzo al fragore del temporale, dichiarò: “Io… dovevo farlo”.

“NO CHE NON DOVEVI!!”, lo interruppe bruscamente, quasi sull’orlo di una disperazione incontenibile. “NON AVRESTI MAI DOVUTO NEMMENO PENSARE AD UNA COSA SIMILE!!”.

Icarus capì benissimo lo stato d’animo dell’amica. Lo comprese fino in fondo.

Non l’avrebbe biasimata per l’odio verso di lui. Per poterlo detestare con tutto il cuore. Avrebbe accettato tutto di lei, a quel punto. Anche se l’istinto l’avesse spinta a rifilargli una zoccolata in pieno muso.

Rainbow si avvicinò, senza trattenere la propria foga: “ICARUS!! MI STAI ASCOLTANDO??”.

“Sì… Dashie… ti ascolto. Ho sempre ascoltato ogni tua singola parola. Sempre…”, rispose con pacatezza.

“SMETTILA DI SORRIDERMI IN QUEL MODO!!”, ruggì l’ex-pegaso, come se non sopportasse la gentilezza che Icarus continuava ad esternare.

La frequenza del respiro le crebbe in corpo.

Gli occhi si inumidirono, lasciando però alla pioggia il compito di dissimulare alla perfezione il fenomeno.

La sua fronte si corrugò di nuovo, questa volta incastonandole progressivamente il volto in un’espressione di sofferenza.

“…p-perché, Icarus?”, gli disse infine, avvicinandosi a pochi centimetri da lui, osservandolo dritto negli occhi viola. “Non… non ti andavano bene le cose? Perché… perché non me l’hai detto prima? Non… non ti andava bene la tua vita…? Non ti andavo bene… io?”.

Il sorriso del compagno iniziò a vacillare, combattuto da una crescente commozione che iniziò a sua volta a salirgli dal petto. Icarus cercò di dissimulare, in un vano tentativo di forzare i muscoli facciali.

Alla fine… le sue labbra si contrassero e gli occhi iniziarono a chiudersi e riaprirsi rapidamente.

Il pegaso grigio si allungò verso di lei e l’abbracciò con tutte le forze che aveva, proprio in concomitanza di un altro fulmine.

Quando giunse il tuono, Rainbow si svegliò.

 

    La puledra si drizzò ritta sulla schiena, con un urlo inspirato e occhi sgranati.

Il bagliore del giorno la accecò quasi all’istante, costringendola ad alzare uno zoccolo verso il cielo azzurro.

Sbatté un paio di volte la palpebre e, quando le pupille si furono abituate… notò una volta celeste come l’aveva vista in rarissime occasioni.

Azzurra.

Profondissima.

Quasi blu.

Non vi era una sola nuvola.

    Riportò quindi l’attenzione attorno a sé.

Tastò il terreno. Era soffice.

Si guardò attorno e si rese conto di trovarsi nel bel mezzo di un prato rigoglioso.

Vigeva la calma quasi assoluta.

Sullo sfondo: le montagne dalle cime scarsamente innevate, con il progressivo verdeggiare delle foreste che si estendeva a poche centinaia di metri da lei.

Aleggiava un caldo venticello estivo, che dolcemente smuoveva i fili d’erba sul terreno.

 

Rainbow rimase così, seduta sul posto, come imbambolata ad osservare il moto ondoso nel prato e il suo tenue fruscio. Ad udire il canto di alcuni uccelli lontani.  A percepire il tepore della brezza sulla propria pelle. Le palpebre si serrarono lentamente ma poi, all’improvviso, una vocetta la riportò al presente.

 

“DAAASH!!”, urlò una puledra lontana.

Il pony blu si girò.

Scootaloo giunse trottando verso di lei, col volto vagamente preoccupato.

“DASH! STAI BENE??”, continuò ad urlare, finché non le fu praticamente addosso, obbligandola a gettarsi di schiena sull’erba.

“DASH!!”, ripeté.

“Sto bene, sto bene!!”, si apprestò ad informarla.

“D-davvero??”.

“Ti dico di sì…”.

Scoot tirò un sospiro di sollievo, puntò gli occhi al cielo e si ritrasse: “Oh… grazie a Celestia…”.

Rainbow si grattò il capo e constatò come il suo corpo fosse un po’ sporco d’erba e di terriccio.

“Che… uh… cos’è successo?”.

L’altra riprese fiato e le spiego: “Come cos’è successo?? C’è stato quel… quel… e tu sei franata lungo il prato!”.

“Cavolo…”.

“Non ti sei fatta nulla? Una lussazione? Un…”.

“No, no. Sto bene…”.

“Da lontano… sembrava dormissi… Dovevi aver perso i sensi”.

Il volto della puledra dalla chioma arcobaleno divenne serio: “…sì… sì, io… penso di essere svenuta…”.

“Beh ma… alla fine stai bene, vero?”, chiese con insicurezza Scootaloo, prendendo quindi a scrutare cielo e dintorni.

La mente di  Dash tornò al sogno. Anzi, a tutti i sogni che aveva avuto di recente.

“…s-sai, Scoot?”, balbettò timidamente, sorridendole appena.

“…cosa?”.

“…ho… ho rifatto il sogno…”.

L’altra sembrò un po’ a disagio: “Ti riferisci a…”.

“Sì… a…”.

 

In quel preciso momento, il pegaso grigio giunse dietro di loro, con il fiato cortissimo.

La preoccupazione si leggeva chiaramente nel suo volto.

 

Quando Dash vide il pony dalla folta chioma, percepì un profondo calore nel petto. Tutto parve svanire. Tranne una minuscola sensazione di sofferenza che continuò a pungerle un angolino del petto.

 

La puledra sorrise con tutta la dolcezza che spontaneamente le venne fuori dall’animo.

 

Osservò la coppia che aveva d’innanzi.

 

Sentì il calore del sole.

 

Percepì la brezza tra i crini.

 

Il lieve fragore del vento tra le orecchie.

 

E capì.

 

Capì che quello era tutto ciò che mai avrebbe potuto desiderare.


Si rialzò da terra, mettendosi sulle quattro zampe.

Prima di ripartire, disse loro un’ultima cosa: “…non ha alcuna importanza, ora. Non importa più, ormai”.

Rainbow Dash diede le spalle ai due.

Osservò il cielo.

Chiuse gli occhi.

 

“Il nostro sogno… il vero sogno… comincia adesso”.



…e il vento soffiò più forte di prima.

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Capitolo 2
*** Sogni di Stelle ***


Equestria, tredici anni prima; alle porte di un inverno che sarebbe presto sopraggiunto.

 

    Il pony rosa saltellò allegramente all’interno della carrozza, per quanto liberamente si potesse saltellare lungo il vagone di un treno in corsa. Il suo volto ad occhi chiusi sprizzava gioia e allegria. Stava trasportando qualcosa di non meglio definito, attraverso una doppia borsa a tracolla.

Pinkie dovette però fermarsi: il corridoio era affollatissimo e così si fece strada con un po’ di insistenza.

“Permesso! Mi scusi!”, iniziò a blaterare, introducendosi a forza tra gli occupanti, che non gradirono. “Può farsi da parte? Trattenga il respiro che ci passiamo anche in due! Oplà! Ehy, lei invece dovrebbe proprio mettersi a dieta!”.

La puledra riuscì a raggiungere la porticina dello snodo, sommersa dagli insulti e dagli improperi di coloro che aveva appena superato. Aprì l’uscio e dovette affrontare il breve tratto esterno, lambita dal vento e frastornata dal rumore metallico delle rotaie.

Constatò anche come il paesaggio scorresse veloce, attorno a lei, con il castello di Canterlot ormai un puntino lontano all’orizzonte.

Entrò nella carrozza successiva, chiudendo la seconda porta e lasciandosi alle spalle il baccano delle lamentele e dei rumori esterni.

Le amiche si voltarono ad osservarla.

 

    “Uff!”, sbuffò, improvvisamente esasperata. “Non capisco cosa ci provi di bello la gente nel viaggiare ammassata tutta assieme!”.

Applejack, comodamente sdraiata sul lettino, diede un colpetto al cappello sul volto e disse: “Pinkie… Non è che vogliono viaggiare ammassati. È che la nostra carrozza è privata”.

“Uhh… e perché?”.

Twilight distolse lo sguardo dal finestrino e lo portò sull’amica rosa, sorridendole: “Perché il caramello è fragile, Pinkie”. Spike era seduto accanto a lei.

“Ah già! Che stupida che sono!”, ammise, colpendosi la fronte con uno zoccolo.

Rarity era invece impegnata a tessere qualcosa con ago e rocchetto, sollevati tramite la magia, nonostante le difficoltà del viaggio in treno. Il suo sguardo era assorto nell’impresa: indossava gli occhialini per i lavori di precisione e un pezzetto di lingua le ciondolava all’angolo della bocca.

“Sono d’accordo con te, mia cara”, commentò, senza distogliere lo sguardo dall’indumento ancora incompleto.

“CHE BELLO COS’È???”, strillò improvvisamente la puledra dalla chioma riccioluta, facendo sobbalzare l’unicorno e mandandole all’aria tutto quanto.

Rarity strinse i denti, li sfregò rumorosamente tra loro, cercando di contenere la rabbia. Si tolse quindi gli occhiali e la osservò negli occhi, con voce calma e sbattendo amabilmente le palpebre.

“…è un… sono dei pigiami, mia cara. O meglio… vorrei che lo fossero prima del nostro arrivo…”, rispose con garbo.

“Ohh! Che idea carina!! Anche io voglio preparare qualcosa!!”.

Una timida voce si intromise nella discussione: “Uh… li hai… ritrovati?”, chiese cortesemente Fluttershy.

“Sìì!!”, dichiarò festosamente l’amica pasticcera, compiendo un balzello. “Li avevo dimenticati sull’altra carrozza! Meno male che il controllore mi ha avvisata per tempo e non li ha gonfiati!”.

Applejack risollevò la punta del cappello: “…uh… e perché avrebbe dovuto?”.

Pinkie slacciò la cinghia e ne rivelò il contenuto: due scatole ricolme di palloncini.

“Che domanda sciocca!”, le disse con leggerezza. “Avrebbe potuto gonfiarli e attaccarli alla locomotiva! Chi non vorrebbe un treno volante, scusa??”.

La puledra arancione si rituffò nel sonnellino: “…ed io che mi metto pure a chiederti spiegazioni…”.

“Palloncini?”, chiese Fluttershy.

“Certo!! Voglio che abbia il migliorerrimo benvenuto di sempre! Il più semprerrimo di meglio!”.

Il pegaso osservò meglio i contenitori: “Ma… uh… sono di due colori diversi. Come fai a sapere quali…”.

“Oh, anche tu fai domande sciocchine, allora!”, ribadì, mettendosi le zampe sui fianchi e ruotando gli occhi al soffitto. “Posso sempre gonfiarli tutti e poi scoppiare la metà che non serve!”.

Rarity, intanto, si era rimessa pazientemente a lavorare sul pigiama.

“Certo che”, riprese la stilista, infilando la fibra nella cruna dopo un paio di tentativi, “potevano anche avvertirci un po’ prima, eh… Non è propriamente una cosa da poco…”.

Sparkle si immerse nella discussione: “Hai ragione… ma sai… abbiamo saputo della notizia giusto un mese fa. Stanno facendo gli straordinari per mantenersi a galla. Probabilmente avranno avuto pochissimo tempo per prepararsi e ancor meno per avvertirci”.

L’amica unicorno smise per un istante il lavoro a maglia ed iniziò a parlare, compiendo la consueta pantomima a mezz’aria: “Mia cara… non saprei. Se non è un evento importante questo… allora quale lo sarebbe?”.

“Ma infatti siamo partiti appena possibile”, concluse la puledra viola.

“Sì ma, per Celestia! A saperlo un po’ prima uno si organizzava! Ora ho solo poche ore per preparare questi indumenti e dovrò farli in entrambe le versioni visto che non sapp…”.

    Un altro urlo, questa volta più energico e arrogante, proruppe alle spalle della stilista. Rainbow Dash sbucò dal sedile accanto, eccitata come non mai. Il cuore di Rarity le finì in gola e il lavoro a maglia sfumò per la seconda volta.

“AH! Ma ci pensate??”, sbottò con foga l’ex pegaso, stritolandosi le guance tra i suoi stessi zoccoli. “Ancora non posso crederci!!”.

Rarity sospirò rassegnata.

Spike si grattò il capo: “Ma sappiamo… cioè… uh… dove e quando?”.

“In effetti”, riprese Twilight dubbiosa, “abbiamo solo una manciata di lettere e l’avviso che sarebbe potuto succedere a breve. Poi non ci sono più arrivate notizie”.

“Magari”, buttò lì Fluttershy, “potrebbe già essere successo. O… oppure succederà a breve. Io, con i miei animali, ho imparato che non si può mai dire con sicurezza…”.

“Appunto!”, ribadì Dash, battendo uno zoccolo sul poggiaschiena (che era gemellato con quello della stilista, la quale non gradì l’ennesima interruzione). “L’unica cosa che sappiamo è che dovrebbe accadere a breve e tanto ci basta! Saremo là, prima o dopo non ha importanza!”.

Spike continuò ad esternare i propri dubbi: “Ma almeno sappiamo dove andare?”.

“No Spike”, rispose l’allieva della Principessa. “Sappiamo solo che lavorano dai parenti al Rusty’s: l’unico modo che hanno attualmente per coprirsi dai debiti”.

Pinkie riprese a saltellare per la carrozza: “Non ha importanza dove si trovino!! Andremo nella città che puzza e li cercheremo!”.

“Già!”, rafforzò Rainbow, colpendo di nuovo il sedile (Rarity, capendo l’antifona, aveva cambiato di posto). “Potremo trovarli al Rusty’s! In caso contrario ci diranno dove sono!”.

Twilight sorrise: “Sono sicura che andrà così. Con tutti i grattacapi che hanno avuto ultimamente, di sicuro non avranno fatto in tempo a prepararsi a dovere. Magari li troveremo nella clinica più vicina”.

La puledra dalla chioma arcobaleno balzò a terra, scrutando i presenti con sguardo fiero e deciso: “Questo è parlare! Non abbiamo nulla di cui preoccuparci! E poi stiamo parlando dei genitori di Icarus! Questi sono pegasi tosti tosti!”.

La puledra si voltò verso un angolo della cabina: “Non è vero, Icarus??”.

 

    Il pegaso dal manto grigio era seduto pacatamente ad uno dei sedili, rivolto verso il paesaggio che scorreva veloce. Aveva il mento poggiato ad uno zoccolo, a sua volta puntellato sul davanzale del finestrino. Gli occhi erano vagamente tristi e parzialmente riflessi dal vetro che aveva d’innanzi.

 

Era passato quasi un anno da allora.

 

Da quella notte. Dal suo primo, ultimo volo.

Da allora le cose, per lui, erano cambiate in modo radicale.

Si era lasciato alle spalle un passato fatto di solitudine e sofferenze.

Di lotte estenuanti e delusioni.

La sua vita (e quella di una puledra per lui molto speciale) non erano più state le stesse.

Tutto sembrava essersi ribaltato. In meglio, stranamente.

Purtroppo, però, gli acciacchi della malattia non tardarono a tornare. A ricordare che, con o senza ali, lui rimaneva pur sempre il pegaso con le ali di caramello. Un caramello speciale ma anche molto fragile. Un caramello che, col tempo, sarebbe divenuto sempre più sottile e delicato.

La compagnia delle sue amiche, tuttavia, riusciva a distrarlo, a mantenerlo concentrato sulla vita e su ciò che il mondo poteva offrirgli di bello.

 

Nonostante certe notti, tuttavia…

 

Ma anche le cose più brutte vacillavano, di fronte a lei. Di fronte all’isola di stabilità in cui pensava di essere approdato.

Un luogo sicuro, dove trascorrere con un po’ di serenità il proprio tempo.

 

E poi…

Quella notizia.

Così drastica, imprevista.

L’ennesimo fulmine a ciel sereno.

L’ennesimo terremoto, forse? No… non era qualcosa di così brutto.

Ma rimaneva comunque drastica.

Imprevedibile.


    “Ehy, Casanova?”.

La voce di Rainbow lo riportò al presente. L’ex pegaso era accanto a lui e lo osservava con aria interrogativa. Anche la amiche erano ammutolite ad osservarlo.

Il puledro si sentì l’attenzione di tutti addosso e farfugliò impreparato: “Uhhh… c-che succede? Ho… ho qualcosa di strano in faccia?”.

Dash lo squadrò con aria di sufficienza: “Sì… hai in faccia la tua tipica espressione da ho qualcosa che mi preoccupa ma tanto non è vero”.

“Ma non è vero!”, protestò.

“Visto?”.

“Ehy, zuccherino”, intervenne Applejack, avvicinandosi a lui. “Tranquillo, nessuna insinuazione. Devi ammettere, però, che sei taciturno da quando siamo partiti”.

“Sei zitto zitto!”, dichiarò Pinkie dispiaciuta.

“Già”, commentò Spike. “Di solito ci ammazzi di noia con i tuoi bla bla scientifici, peggio di Twilight”. L’unicorno viola gli diede uno spintone.

Icarus abbassò lo sguardo e cercò di inventarsi qualcosa: “Ecco… ecco io…”.

Rarity, dal suo angolino di stoffe e tessuti, intervenne spazientita: “Oh insomma! Quanto siete insistenti! È un evento importantissimo e sarà sicuramente stressato, tutto qui!”.

Icarus colse la palla al balzo: “Uh… e-esatto! Sono solo… un po’ nervoso…”.

“Beh è normale”, lo tranquillizzò dolcemente Fluttershy. “Sono cose che accadono poche volte nella vita. Beh… tranne quando hai a che fare con i coniglietti. A primavera scopro che, con i coniglietti, accade veramente tante… uh… certe volte troppe volte nella vita…”. Per un istante, uno scenario di devastazione da roditori, fatto di vegetazione divorata e distese di conigli, si palesò nella mente del pegaso giallo. Cercò di non pensarci.

    Dash ed Icarus si osservarono negli occhi. L’amico inarcò le sopracciglia, sperando con ogni cellula del proprio corpo che Rainbow credesse alla sua versione. L’altra, tuttavia, lo conosceva bene e sapeva leggerlo come un libro aperto. Qualcosa lo rodeva da dentro. Decise però di non insistere. Con lui non funzionava. Se voleva parlare, lo avrebbe fatto spontaneamente.

I due, dopo quasi un anno di convivenza, avevano sostanzialmente imparato a comunicare con il semplice sguardo.

Non me la conti giusta, disse un’occhiataccia di Dash.

Ti assicuro che va tutto bene, rispose lo sguardo di Icarus.

Una contrazione degli zigomi blu ribadì: come vuoi ma tanto non mi freghi e lo sai.

Un’ultima scrollata della chioma viola concluse: mai una volta che ti fidi di me.

 

    “Va bene, va bene”, dichiarò l’ex pegaso, voltandosi verso le amiche e preparandosi a distogliere l’attenzione dal compagno. “Facciamoci gli affari nostri e prepariamoci. Tra meno di due ore saremo a Steamdale”.

“SOLTANTO DUE ORE??”, sbraitò Rarity, questa volta mandando lei stessa in frantumi l’ennesimo tentativo di cucito.

“Chi mi aiuta a gonfiare i palloncini??”, trillò Pinkie Pie, spargendoli per tutta la stanza. “Se ce ne infiliamo uno per narice ci mettiamo la metà del tempo!”.

Icarus tirò un sospiro di sollievo ma incrociò inavvertitamente lo sguardo di Dash, poco prima che decidesse anche lei di allontanarsi.

L’amica gli sussurrò qualcosa, in modo che solo lui potesse sentire: “…lo sai che… che se vuoi parlare… io ci sono”.

L’altro le sorrise e le rispose con sincerità: “…lo so… chioma stramba. Non ti preoccupare”.

Un oggetto saettò improvvisamente tra i due, sgonfiandosi poi poco lontano e producendo un rumore imbarazzante. I due si voltarono perplessi.

“Ops”, ammise Pinkie, grattandosi la chioma e con un palloncino infilato nel naso. “Colpa mia…”.

 

*** ***** ***

 

    I freni del treno fischiarono rumorosamente, una volta raggiunta la destinazione.

Pinkie cercò più volte di pulire il vetro del finestrino, solo per accorgersi che la patina grigiastra non era sporco, bensì la cappa di smog all’esterno del mezzo.

Le porte si spalancarono e i controllori esortarono gli occupanti ad abbandonare le carrozze.

Le amiche si incamminarono e altrettanto fece Icarus, non prima di aver inspirato profondamente, come se stesse per affrontare qualcosa di estremamente importante.

Uscirono e gli zoccoli impattarono col freddo pavimento metallico della stazione.

Il vociare e il camminare dell’andirivieni di pony era tutto ciò che si poteva udire. Il sole filtrava a fatica, attraverso la densa nube che ovattava quasi ogni cosa.

Poi, forse per una folata di vento improvvisa, forse per una semplice coincidenza, la cappa iniziò pian piano a diradarsi. I visitatori ammutolirono, spalancando le bocche e alzando progressivamente il muso verso l’alto.

Steamdale, a quasi un anno di distanza, si era ingigantita oltremisura.

I palazzi rugginosi svettavano alti come non mai, ammassati l’uno sull’altro senza un ordine preciso. Il fumo delle ciminiere sostituiva l’azzurro del cielo, creando i canonici giochi di luce con il sole, dalle tonalità terrose e vermiglie. E gli zeppelin… erano ovunque, ancor più grossi e variegati di quanto si ricordassero dalla loro ultima visita. Le parti non ancora corrose degli edifici riflettevano il tenue bagliore di un sole che sembrava sul procinto di spegnersi.

I velivoli solcavano i vapori dei comignoli, quasi fossero imbarcazioni lambite da un mare denso e fumoso. Si muovevano grazie ai sistemi di propulsione più curiosi e disparati mai visti: eliche, getti di vapore o grosse ali di tela mosse meccanicamente.

Una raffica di piccole esplosioni raso terra fece sobbalzare gli osservatori, riportando l’attenzione sulla strada: vigeva un intricato traffico di mezzi su ruote, sospinti da caldaie e altri curiosi alambicchi. I guidatori erano agghindati come aviatori e anneriti dalle mefitiche esalazioni dei loro stessi veicoli.

Anche i semplici pedoni riportavano su di sé i segni della costante esposizione all’inquinamento: vestiti d’altri tempi anneriti, sgualciti, dai risvolti intrisi d’olio e adorni da strani marchingegni meccanici.

Il progresso, a Steamdale (se così si poteva definire), aveva compiuto falcate da giganti, causando un boom demografico della città a dir poco strabiliante. Ma un’espansione così rapida era accompagnata altresì dai segni del capitalismo sconsiderato, come edifici popolari mascherati dalla facciata di grattacieli all’avanguardia. Gli ingranaggi rumorosi sbucavano ovunque, tra pareti e viottoli, così come le tubature, gli sbuffi di vapore e mucchi di ciarpame metallico sparsi per i budelli.

    Rarity, a quella visione, ebbe un mancamento. Si sorresse a Fluttershy e sentenziò: “…Celestia… dammi la forza…”.

Uno dei numerosi veicoli a carbone passò accanto al gruppetto e riversò un’esalazione di combusto in faccia ad Icarus, annerendolo completamente. Il pegaso riaprì le palpebre, con non poche difficoltà, quindi commentò con sincerità: “…fantastico…”.

Spike lo osservò basito: “Fantasticamente degradante, vorrai dire…”.

L’altro si perse ad osservare i curiosi marchingegni che gli passavano d’innanzi: “…no… fantastico…un perfetto uso dell’energia termica convertita in potenziale cinetico”.

Twilight si illuminò: “Hai ragione! Mi chiedo se operino a regime isotermico o per gradiente puntuale!”.

Decine di pony agghindati orribilmente, odori terrificanti e caos tutt’altro che lindo spinsero l’unicorno bianco ad assumere il controllo della situazione. La stilista si portò in testa alla formazione, spintonando Sparkle con un colpo di sedere.

“Sentite, voglio rimanere in questo cimitero del buongusto il minor tempo possibile! Per cui vediamo di darci una mossa e in fretta!”.

Con quelle parole, Rarity attraversò la strada, solo per udire uno stridio metallico e una strombazzata. Uno dei veicoli aveva frenato bruscamente, rischiando di investirla.

“Aò!”, urlò il guidatore, togliendosi gli occhialoni e rivelando il naturale colorito del pelo. “Vedi dove cammini, principessa??”.

L’altra lo osservò con tutto l’odio che riuscì a trovare. Il corno bianco si illuminò e così fecero i comandi del curioso mezzo su ruote, che prese poi a sgasare e sparare valvole e bulloni in ogni direzione, emettendo infine un piccolo botto dalla ciminiera, assieme ad un funghetto fumoso. L’autista si coprì la testa con le zampe.

“Buongiorno anche a lei!”, concluse infine la stilista, riprendendo a trottare a muso alto.

Le amiche gli sorrisero imbarazzate e si apprestarono a seguirla.

“…turisti”, farfugliò lo sventurato.

    Twilight si portò a fianco dell’amica, seguendola con passo spedito.

“Ehm, Rarity?”.

L’altra manco la guardò in faccia: “Senti non voglio sentire niente. Voglio solo abbandonare queste strade fetenti e trovare ‘sto benedetto Rusty’s!!”.

Dash diede una gomitata accennata alla spalla di Icarus: “Ah! Lei pensa che quel trogolo sia meglio di quello che c’è qui!”. Si accorse quindi di come il compagno avesse appena sorriso alla sua osservazione, come se un profondo senso di tristezza e preoccupazione gli impedisse di esprimersi al meglio.

La compagna se ne accorse immediatamente ma sapeva che quello non era il momento, né il luogo. Decise di non pensarci.

 

    Il gruppetto continuò la propria marcia, spostandosi lungo le vie secondarie, in mezzo al caos tipico di una metropoli. Fluttershy tentò persino di svolazzare un po’ ma il repentino fischio di un vigile la fece svanire in mezzo alla folla, dalla paura. Steamdale rimaneva una zona a volo proibito, per i pegasi. Le motivazioni non vennero mai chiarite, nonostante molti pensassero fosse la semplice rivalsa di una popolazione costituita prevalentemente da inventori e unicorni, tutti indaffarati a rendere il volo una “esclusiva” non solo per chi nasceva con le piume ai fianchi.

Rainbow aiutò la combriccola a districarsi nei budelli.

Molte cose erano cambiate anche per lei, dall’ultima volta, e non le fu facile riconoscere il percorso per il Rusty’s. L’odore, il rumore, l’ambiente… tutto le riportò addosso una valanga di ricordi. Per un istante, si fermò addirittura ad osservare i grattacieli, sperando di riconoscerne uno… particolare.

Il luogo in cui, in un modo o nell’altro, qualcosa era scattato dentro di lei.

Il luogo in cui perse la volontà di lottare solo per se stessa, decidendo che certe cose avrebbero assunto valore solo se condivise… Ma non lo vide o forse non lo riconobbe, probabilmente ingoiato dalla moltitudine dei nuovi palazzi, ancor più alti. Sperò addirittura di ritrovare il locale in cui bevvero il famigerato SnowCherry, ma quello sarebbe stato davvero impossibile in una città così grande e così mutevole.

 

    Dopo parecchi minuti (e mantenendo una faccia da poker pensando di essersi smarrita), l’ex pegaso individuò il vicoletto del Rusty’s e indirizzò i pony verso la giusta direzione.

Rarity si fermò un istante, con volto estremamente preoccupato. Osservò le pozze sul ciglio stradale, si tenne alla larga dai vapori dei tombini, scrutò con sospetto alcune ronzanti insegne al neon e, infine, si ritrasse da un tizio che le sorrise con pochi denti in bocca, emerso da un ammasso di bidoni a bordo strada.

“Rainbow Dash!”, le sussurrò rapidamente all’orecchio, continuando a scrutare i dintorni con nervosismo.  “Dove cavolo ci stai portando?? Credevo saremmo andati dai parenti di Icarus!”.

“Ma questa È la via dove stanno i parenti di Icarus”, le rispose beffardamente.

“Cos…”.

Applejack la superò, con aria di superiorità: “Ahh! Niente male, qui! Certo, non è come l’aperta campagna, ma è un ambiente grezzo e due volte meno puzzolente del recinto dei polli!”.

Pinkie e Fluttershy, invece, si stavano intristendo a vicenda.

    I pony giunsero di fronte al locale. Non era cambiato per nulla. La scritta “Rusty’s” torreggiava sull’ingresso ed era un po’ più sbiadita. Le vetrate presentavano un grazioso effetto fumé, dovuto in realtà alla scarsa igiene del posto.

L’unicorno bianco si preparò a sentire urla agghiaccianti provenire dall’interno, da un momento all’altro. Oppure spari d’arma da fuoco e altri fenomeni poco rassicuranti.

Il pegaso grigio giunse lentamente, zoppicando molto più di un tempo e con molta più fatica. A nulla erano serviti i tentativi per convincerlo: di usare una sedia a rotelle manco se ne parlava. Diceva che avrebbe preferito trascinarsi col mento, piuttosto che risalirci sopra. Troppi brutti ricordi.

Icarus si fermò d’innanzi alla facciata principale, avvertendo una strana sensazione al petto. Un’emozione simile a quella provata da Rainbow, quando era andata a cercarlo all’Emerald Lake, più di un anno prima. Ma lui non poteva saperlo.

Fu l’ex pegaso a prendere l’iniziativa: spalancò la porta e un campanello appeso ad un filo ne annunciò l’ingresso.

 

    L’interno si presentò quasi identico al suo primo arrivo.

Era in penombra, sudicio e con qualche tavolino sporco. La clientela poco raccomandabile, tuttavia, non c’era più… per il semplice fatto che non vi erano avventori.

Oltre il bancone in fondo alla stanza, Brutus presidiava imperioso il proprio posto. Stava riordinando alcuni bicchieri sulle mensole, dando le spalle all’ingresso.

Lo stallone indossava probabilmente lo stesso grembiule dell’ultima volta (Dash pensò che non se lo fosse letteralmente tolto di dosso).

Il suo vocione saturò l’ambiente: “Siamo chiusi. Non hai letto il cartello?”.

La puledra corrugò lo sguardo e controllò i dintorni. Noto quindi un foglio di carta stropicciato, per terra.

“Non sapevo sapessi scrivere…”, rispose ironicamente.

Le orecchie dell’altro si drizzarono e si voltò lentamente.

“…quella voce… Zia Ermengilda!!”, tuonò con gioia. Si accorse quindi che non era sua zia e il volto barbuto tramutò in un’ulteriore espressione di incredulità. “…m-ma… ma tu… sei…”.

Dash sorrise.

“AH!”, urlò il proprietario con foga, battendo un pugno sul tavolo e facendo tremare la vetreria su di esso. “Riconoscerei quella chioma ridicola tra mille!!”.

“Anche io sono scontenta di rivederti, puzzone”, lo schernì entrando.

Le amiche, con un po’ di titubanza, iniziarono ad occupare il locale.

“E vedo che hai portato il circo con te!”, concluse con ilarità.

“Circo? Dove??”, domandò Pinkie entusiasta, guardando ovunque, persino sotto i tavoli.

Quando Icarus fece la sua comparsa, Brutus si illuminò di gioia. Scavalcò il bancone e si fiondò con prepotenza su di lui. Il gracile pegaso strinse i denti dal terrore, immaginandosi spezzato in due come un fuscello. Dash lo bloccò in tempo.

“Uoh, uoh… frena palafreno! Così me lo rompi tutto!”.

“Ah… uh… giusto…”, balbettò improvvisamente mite e mansueto, stropicciandosi il camice tra gli zoccoli.

Il puledro dalla chioma viola sorrise imbarazzato: “Oh… ehm… c-ciao… Brutus…”.

“Ah! Icarus bello!!”, esultò, cercando di trattenersi. “È… è da così tanto tempo che non ti vedo!”.

“Già…”, rispose. “Un… sacco di tempo”.

    Raggi di luce celestiali e un improvviso rallentamento temporale introdussero invece l’ultimo dei visitatori: una puledra bianca dalle lunghe ciglia, che aprì la porta d’ingresso con la magia e si presentò con faccia schifata dalla sporcizia. Per Brutus fu un colpo al cuore e il suo volto nerboruto si paralizzò ad osservarla.

L’unicorno richiuse l’uscio dietro di sé e si osservò uno zoccolo, con volto disgustato: “…non voglio manco sapere cosa posso aver calpestato venendo qui…”.

Lo stallone fulvo continuò ad osservarla e ad annodare il grembiule tra le zampe, fino a renderlo un contorto ammasso di fibre.

Un colpetto di Dash lo fece rinsavire.
“Ehm, coso? Ci sei?”.

“Ah. Uh. Sì. Azzurri”, balbettò Brutus, continuando ad osservare le pupille della stilista, che manco ci fece caso.

L’ex pegaso controllò il locale, vagamente dispiaciuta.

“Vedo… vedo che non hai molti clienti…”.

L’altro riuscì a distaccarsi momentaneamente dallo sguardo della puledra bianca e Spike, dietro a tutte, iniziò a guardarlo in cagnesco.

“Oh, il locale? Sì… sì, io… l’ho chiuso momentaneamente…”.

Icarus corrugò la fronte: “Chiuso? E… perché mai?”.

“Ah beh, ecco…”, cercò di spiegare, puntando il muso verso il pavimento unto. “Prima… riuscivamo a tenere in funzione il servizio. Avevamo qualche zampa in più ad aiutarci ma… ma ora…”.

“Aspetta”, lo interruppe il parente. “Avevamo? Cosa… Dove sono mamma e papà?”.

Il bestione parve ravvedersi in una frazione di secondo e berciò: “Per tutti i sidro, Icarus, è vero!! Tu non sai niente!”.

“Non so cosa??”, domandò innervosendosi.

“Sunshine e… e il damerino…”.

“…papà”.

“Sì! Cucciola e mister doppiopetto! Sono dovuti andar via da poco!”.

“Ma… dove… perché…”.

Brutus cercò di spiegarsi al meglio: “Sono… sono andati in una clinica locale non molto tempo fa, per dei controlli! Quando sono tornati, mi hanno riferito che il medico aveva diagnosticato possibili complicazioni…”.

Icarus avvertì un fulmine folgorargli il cuore, come se si fosse fermato per un istante. Anche le amiche rimasero zitte ad ascoltare, decisamente preoccupate.

“C… complicazioni…? M-ma… Stanno… sta bene?”.

“Io… io non ne capisco di queste cose”, continuò l’altro. “So solo che il medico conosceva i… insomma…”. Lo stallone puntò gli occhi nocciola verso quelli viola, con un’improvvisa difficoltà nel parlare. “…i-insomma… conosceva i precedenti… cioè…”.

Icarus sembrò spazientirsi: “Ho capito! Sapeva di me e del mio fisico sgangherato. Ora puoi arrivare al punto??”.

“S-sì, scusa. Dicevo… sapeva dei precedenti e… e quindi, per evitare problemi, ha consigliato di mandare tua madre in una clinica specializzata, dove potessero tenerla sotto osservazione fino… fino al…”.

“Osservazione? Dove?”.

“…all’Emerald Lake…”.

Il puledro trasalì e si mise le zampe tra i crini: “COSA?? Avete mandato mamma in quel posto??”.

“Vedi Icarus… devi capire che non… che non navighiamo nell’oro… anzi… e… e l’Emerald Lake ti ha tenuto sotto cure per un sacco di tempo e…”.

“Lo so bene, per Celestia!!”, sbottò furioso. “Ecco perché non voglio che mia madre sia in un posto simile!”.

“Ma lì sono pronti ad ogni evenienza! Possono partire già preparati!”.

“Preparati? PREPARATI?? Hai visto cosa sono riusciti a fare quei pagliacci in camice, con me?? Cos’hanno risolto??”.

Rainbow gli mise le zampe attorno alle spalle: “Calmati, Icarus…”.

“Non è solo questo”, precisò Brutus. “La clinica, proprio per… insomma… per il tuo fallimento… ha offerto assistenza gratuita a cucciola…”.

“Cosa?”, chiese retoricamente. “L’Emerald Lake? Impossibile! Almeno che non abbiano silurato quel pallone gonfiato del primario!”.

“Beh”, disse Dash sorridendo. “Tecnicamente io l’ho fatto…”.

“Non so che dirti, Icarus bello!”, rispose il proprietario del Rusty’s, alzando le zampe a mezz’aria. “Questo è tutto quello che so!”.

“Quando sono partiti?”, domandò il pegaso.

“Uhh… tre giorni fa”.

“Quando si dice il tempismo…”, sussurrò Applejack.

 

    Icarus abbassò il muso e si fece pensieroso, scuotendo il capo: “… all’Emerald Lake… non posso crederci”.

“Beh…”, cercò di intromettersi Twilight. “Forse… forse è davvero la soluzione migliore per…”.

L’amico le lanciò un’occhiataccia e l’unicorno si tappò la bocca da sola.

“Devi insegnarmelo…”, gli disse Spike.

“Ascolta, Icarus”, riprese Brutus, mettendogli la grossa zampa sulla schiena. “Cosa pensavi che potesse accadere se… se fosse rimasta qui? I dottori in città non se la sono sentita di darci certezze. Se nemmeno loro erano sicuri… cos’altro… cos’altro avremmo potuto fare?”.

Il puledro non rispose e si limitò a mostrare un volto decisamente adirato.

    “Va bene. Ormai la frittata e fatta”, disse infine Icarus. “Torniamo in quel tugurio di matti e vediamo se…”.

“…ora?”, domandò Rainbow.

“Sì, ora. Perché?”.

“No, cioè…”, ammise. “Siamo appena arrivate dopo un viaggio di quasi dieci ore… Per andare all’Emerald Lake dobbiamo tornare dalla stazione degli zeppelin e farci un altro viaggio… Noi siamo stanche e tu ti reggi a malapena sulle zampe e…”.

“Preoccupati delle tue, che alle mie ossa ci penso io”, rispose stizzito.

Rainbow provò l’irrefrenabile voglia di rispondergli per le rime. Ma comprese il turbamento che lo aveva letteralmente aggredito dall’interno.

Fluttershy, che fino a quel momento aveva cercato di mimetizzarsi nell’ambiente, decise di farsi avanti: “Uh… p-perdona se… se ti dico che… forse sarebbe meglio se aspettassimo almeno per questa notte. Andare a cercare i tuoi genitori in queste condizioni credo sarebbe più deleterio che altro e…”.

L’amico la osservò intensamente e il pegaso paglierino pensò che sarebbe esploso di rabbia. Ma Icarus rimase spiazzato dalla delicatezza e la dolcezza del pony di fronte a sé e sbuffò: “Uff… va bene, va bene. Dormiamo e poi partiamo per la prigione sul lago. Come volete”. Si mise a zampe conserte e assunse un atteggiamento schivo.

“Potete fermarvi qui!”, propose Brutus.

Un brivido di gelo si diffuse per la colonna vertebrale di Rainbow. Anche Rarity percepì una brutta sensazione, dentro di sé.

“D-dormire qui?”, balbettò l’ex pegaso.

“Certo! Le stanze sono vuote, fatta eccezione per un tizio baffuto nella numero tre! Ma non vi preoccupate, lo sbatto fuori in due secondi!”.

“M-ma… non è il caso”, buttò lì. Quella volta potevano permettersi di alloggiare dove preferivano.

“INSISTO!!”, ruggì Brutus, sfondandole i timpani. “AMANDA!!”.

“Che c’è??”, urlò una giumenta al piano di sopra.

“Porta delle lenzuola extra!”.

“E perché?? Prenditele da solo, lavativo!”.

“Icarus e le sue amiche stramboidi si fermano a dormire qui!!”.

“…ah. Ok. Finisco la maschera di bellezza e arrivo…”.

    Rarity sfoggiò un sorriso ironico: “Ragazze… non penserete mica che io…”.

Brutus si strusciò rapidamente le zampe sul pelo, come se quel gesto potesse renderle meno lerce. Si fece avanti, afferrando uno zoccolo della stilista e sfoggiando uno sguardo da conquistatore (più simile ad un mulo con paresi facciale, in realtà).

“Madàmm”, le disse, improvvisando un terribile francese. “Le assicuro che si troverà benissimo presso la nostra umile stamberga”.

L’altra sfoderò un fintissimo sorriso di circostanza.

“Andiamo, Rarity”, la schernì Applejack, incamminandosi per i corridoi. “Non vorrai mica rifiutare l’ospitalità dei parenti di Icarus, vero?”.

“Ah… m-ma io… non… oserei mai…”, balbettò incerta.

“Non se ne pentirà!”, concluse ammiccando.

La puledra deglutì.

 

*** ***** ***

 

    Il gruppetto seguì Brutus su per le scale, giungendo quindi in un corridoio con alcune porte.

Lo stallone andò d’innanzi alla numero tre e la percosse con violenza.

Dopo qualche minuto si udì uno scattare metallico e un pony si affacciò sull’uscio. Aveva due grossi baffi grigi, monocolo e cilindro sul capo.

“I signori desider…”.

“Fuori di qui, baffolo”, lo esortò lo scimmione, senza tanti complimenti.

“C-come? Ma ho diritto alla stanza fino a…”.

Brutus lo afferrò per la collottola e lo mandò via a calci: “Sì? Beh, i giorni dispari della settimana non serviamo i tizi coi baffi”.

“Ma che modi!”, protestò, ricevendo poi la sua stessa valigia al volo.

“Guarda che non era il caso, Brutus…”, affermò il pegaso grigio.

“Bah. Stava andando avanti a pagherò da almeno tre giorni. Ora ho una buona scusa per levarmelo dalle scatole. Comunque ho tre stanze libere. Dividetevi pure come preferite”.

Applejack non si fece soffiare la ghiotta occasione e abbrancò prontamente Rarity e Pinkie tra le zampe: “Io sto con la bella e la bestia!”.

La puledra bianca inorridì: “COSA?? Starai scherz…”.

“Applejack!”, protestò Pinkie. “Rarity non è poi così brutta, dai!”.

“Oh, allora per lei, mia dolce puledra”, spiegò con cortesia lo stallone, “le riservo la camera migliore”. Le aprì la porta, presentandola ad un monolocale identico agli altri, fatta eccezione per le tendine alle finestre, che erano state lavate da meno di un mese.

Twilight si rivolse quindi al suo aiutante ed a Fluttershy: “Noi staremo insieme, allora”.

I due compagni annuirono.

Brutus tornò da Rainbow ed Icarus: “Ah! Per voi due allora riservo la stessa stanza che diedi a chioma stramba l’ultima volta! Chissà quanti ricordi!”.

Dash ripensò alla bruttissima esperienza: “Già… indimenticabili, proprio”.

“Mi raccomando, Icarus!”, lo riprese l’altro. “Se hai bisogno di qualsiasi cosa, non hai che da chiederlo!”.

“…grazie, Brutus”, gli rispose con sincerità. “Lo apprezzo molto”.

“Io un po’ meno”, farfugliò Rarity a denti stretti.

 

    Il proprietario diede le ultime raccomandazioni e le informò che, senza certezza alcuna, le lenzuola (quasi) pulite sarebbero dovute arrivare entro l’alba.

Le fece anche cenare rapidamente nel locale a pian terreno, fornendo un pasto che Spike non esitò a definire “mostruosamente insolito”.

Calò quindi il sole e, dopo gli ultimi saluti (e qualche protesta), ognuno si avviò verso la propria stanza.

 

    Dash constatò con piacere come la finestra fosse stata riparata.

L’ingranaggio rumoroso all’esterno non emetteva più alcun suono, per il semplice fatto che era stato estirpato malamente dalla sua sede. Qualcuno doveva averne avuto abbastanza.

Il materasso era sozzo uguale e, sulla vasca da bagno, era stato affisso un cartello definitivo “Non usare. Utilizzare al massimo come contenitore”.

E così la puledra si ritrovò nella stessa bettola di allora: piccola, scura e con un’unica lampadina che penzolava dal soffitto. La carta da parati non si vedeva nemmeno più, tanto era logora.

Icarus chiuse la porta e controllò pensieroso l’ambiente.

“Quindi tu hai dormito qui, uh?”.

“Scherzi? Ci ho passato notti insonni e basta”, rispose, saggiando la durezza del materasso.

L’amico parve rabbuiarsi un po’: “…sai… se penso che… che mamma e papà sono stati un anno a lavorare qui… in questo stato. Per… per sostenere i debiti che si sono accollati… a causa… a causa mia…”.

Rainbow si girò verso di lui, spazientita: “Senti… non ricominciare con la solita solfa”.

“No, no. Tranquilla. Però… non nego che la cosa mi lasci tutto tranne che indifferente”.

“Ti capisco, Icarus. Ma meglio avere un lavoro modesto, piuttosto che non avercelo affatto”.

“Lo so, lo so. Sono solo stufo di dover sempre pesare sulle spalle di qualc…”.

L’ex pegaso gli lanciò un’occhiataccia terribile e il puledro avvertì un brivido lungo la schiena. Si voltò verso la finestra, cambiando completamente discorso.

“Dicevo… il sole è particolarmente spento, stanotte”, improvvisò, sperando che la cosa finisse lì.

    La coppia cercò quindi di sistemare al meglio i giacigli e si preparò a dormire.

Icarus, volente o nolente, non era assolutamente in grado di sistemare il proprio letto, così lasciò fare alla compagna. Stette ad osservarla alle spalle, intristendosi progressivamente. Quando l’altra ebbe finito, si voltò e lo vide.

“Uh…”, buttò lì il pony dagli occhi viola. “Senti… v-volevo… volevo scusarmi…”.

“Mh. Per quale delle tante cose che avresti detto o fatto?”.

“Per stasera. Per come… per come ti ho risposto”. Abbassò lo sguardo, con evidenti difficoltà nell’essere sincero. “Non avrei dovuto. È che… ero arrabbiato e…”.

Dash gli sfiorò delicatamente il muso con uno zoccolo, come per zittirlo. Gli sorrise.

“Sai… in realtà mi piace quando cerchi di scusarti. Sei così dolce”.

L’altro si ritrasse, arrossendo visibilmente: “M-MA!! MA COSA STAI DIC…”.

“Però ormai ti conosco. Sei una testa calda. Se non fossi in grado di sopportarti, ti avrei già tirato fuori dalla finestra come feci con il dottor Pane&pepe”.

Icarus si grattò la chioma e distolse lo sguardo: “Sì… beh… comunque scusa, ok? Quando mi arrabbio non riesco più a controllarmi… E quella notizia mi ha fatto arrabbiare parecchio”.

La puledra tirò la coperta coi denti e si apprestò a balzare sul materasso.

“Sì… ma… Icarus, capisco il motivo per cui non vuoi avere più niente a che fare con quel posto…”.

“Infatti…”.

“Ma rimane pur sempre un centro medico. Panpipe o meno, ci sono sicuramente dei bravi dottori, lì…”.

“Sì, ci sono…”.

“Ecco”, ammise, sistemandosi nel letto e cercando di entusiasmarlo un po’. “Significa che sono in buone zampe”.

Ma l’amico non si entusiasmò affatto. Anzi. Si avvicinò al proprio materasso e si bloccò d’innanzi ad esso, con sguardo spento.

“…sai cos’è, Dash?”, le domandò infine, ruotando il capo.

“…dimmi”.

“Sapere… il motivo per cui sono stato lì… e… e sapere il motivo per cui c’è andata mia madre… c-cioè…”.

Rainbow sospettava fosse quello il motivo dei suoi turbamenti. Ora ne aveva la conferma e tentò di rassicurarlo, ben sapendo quanto difficile potesse essere.

“Ho capito, Icarus. Ma hai sentito cosa ha detto Brutus, no? È solo per una questione preventiva. Non hanno diagnosticato nulla”.

“Anche a me inizialmente non diagnosticarono nulla”.

“Ma perché non si poteva sapere. Ora… ora, invece…”.

Il pegaso vuotò il sacco. Sollevò le zampe nell’aria ed iniziò a gesticolare con foga.

“Ma cosa gli è saltato in mente??”, sbottò. “C-cioè… cosa… per quale motivo in Equestria si sono presi un rischio simile?? Perché?? Si sono forse bevuti il cervello??”.

“Icarus, certe volte succede e basta… Non credo che i tuoi genitori abbiano deciso di assumersi una tale responsabilità per nulla”.

“Per tutti i cirri, lo spero!!”, commentò impulsivamente.

“Dai. Domani andremo a trovarli e vedrai che… che sarà tutto a posto”.

Icarus avrebbe voluto continuare a parlare e mettere a nudo tutto ciò che percepiva nel petto. Alla fine si trattenne e decise a sua volta di salire a fatica sul giaciglio.

“…va bene, Dashie. Vedremo domani”, disse, sdraiandosi su un fianco e dandole le spalle.

L’amica lo osservò in silenzio, quindi allungò uno zoccolo verso un interruttore a muro.

“…comunque”, aggiunse, prima di spegnere la luce, “ricordati sempre che… che si vola assieme… ok?”.

“…lo so… assieme”.

 

La luce si spense.

 

*** ***** ***

 

    Passarono i minuti. Ai minuti subentrarono le ore.

Il giovane pony non riusciva assolutamente a dormire.

Un caotico ribollire di pensieri ed emozioni lo lambivano dall’interno, impedendogli qualsivoglia tentativo di prender sonno.

Superata una certa ora e con le tende completamente tirate, persino il pernottamento a Steamdale poteva definirsi passabile, nonostante il costante ronzio dei macchinari lontani e delle tubature.

Icarus si girò più volte nel letto, puntando infine gli occhi al soffitto, dopo un lungo sospiro.

    Udì quindi un rumore ovattato provenire dal muro accanto alle proprie orecchie.

Si voltò incuriosito. Qualcuno stava parlando, nella camera limitrofa, e le pareti erano così malridotte da rendere lo spionaggio un atto pressoché involontario.

Sapeva che non avrebbe dovuto impicciarsi ma la notte era ancora lunga e tanto valeva impegnare un po’ il tempo.

Accostò il capo. Dopo qualche istante riconobbe le voci: erano Twilight e Spike che parlavano tra loro, pensando che la voce fosse bassa a sufficienza. Cercò di concentrarsi, per cogliere ogni singola parola.

 

“…no, non è quello che intendevo. Cioè… è davvero una bella notizia”. Era la voce del piccolo drago.

“E allora di cosa ti preoccupi, Spike?”.

“Non è che sono… preoccupato… Sono solo… un po’… perplesso, ecco…”.

“Sunshine è assieme a Daedalus in un centro molto facoltoso. È assolutamente fuori pericolo”.

 

Icarus razionalizzò e cercò di rasserenarsi, udendo quelle parole.

Spike riprese il discorso dopo una breve pausa. Dal tono si capiva come avesse qualche difficoltà nel comunicare.

 

“Lo so, Twilight. Cioè… è vero. Ma…”.

“Cosa, Spike?”.

“…ecco. Mi stavo chiedendo… se… se Icarus è nato con quel… problema… allora non credi… Insomma, non pensi che potrebbe avercelo anche lui… o lei?”.

 

Il cuore, nel minuto petto grigio, ebbe un sussulto.

 

“È… è una faccenda molto delicata, Spike. Parliamo di una malattia unica e praticamente sconosciuta. È molto… difficile fare delle previsioni…”.

“…capisco”.

 

La voce dell’unicorno parve riaccendersi.

 

“Secondo me, le probabilità che si verifichi due volte di fila… Cioè, non me ne intendo molto ma… penso sia molto difficile che possa accadere”.

“Mah. Lo spero tanto…”.

“Anche io Spike. Ma ora è inutile farsi mille domande. Domani ne sapremo di più”.

“Sì. Sì, hai ragione”.

“Allora… buonanotte, Spike”.

“…buonanotte”.

 

Calò il silenzio.

 

    Il respiro di Icarus era forte, dannatamente forte.

Il pegaso si rimise sul letto, con gli occhi sbarrati.

Cercò di fare ordine nel turbinio di emozioni ma non vi riuscì. Tentò di calmarsi.

 

Dentro di sé si rese conto di cosa sarebbe potuto accadere.

 

Un pegaso con i suoi stessi problemi.

Qualcuno che sarebbe stato esattamente come lui.

Che avrebbe vissuto i suoi stessi guai. I suoi stessi malesseri.

Isolato, forse, dal resto del mondo.

 

“Perché?”, si domandò nella mente, stringendosi la testa tra le zampe.

“Perché azzardarsi tanto?”. Potevano essere stati… così egoisti?

 

Icarus ebbe poi un pensiero molto particolare, che lo indusse a riporre lentamente le zampe lungo i fianchi.

 

E se…

 

E se fosse stato sano?

 

Un pony… normale.

Un pegaso esattamente come tutti gli altri.

Senza ossa di caramello.

Senza ali di vetro.

Senza zampe storte o altri problemi.

 

Dentro di lui si fece strada una fastidiosa consapevolezza. Qualcosa che lo spinse a provare odio per se stesso.

 

Perché un pegaso sano sarebbe stata l’opportunità che i suoi genitori non avevano mai avuto.

Costantemente impelagati con un pegaso da rottamare… Un padre senza aver mai avuto  l’occasione di insegnare alla propria progenie cosa significhi… volare.

 

Scosse il capo.

 

Era forse quello?

Si erano probabilmente stufati di un figlio in quelle condizioni?

Perché non provare ad averne uno perfettamente sano, dopotutto? Come dar loro torto.

 

Un figlio sano.

Qualcuno a cui dedicarsi e su cui investire al meglio le proprie energie.

“Se fosse stato così”, pensò infine, “allora non c’erano dubbi”.


Sarebbe stato meglio se non avesse potuto volare.


    Icarus si colpì le tempie e scese repentinamente dal letto.

“No, no, no”, si disse. “Ma cosa diavolo sto pensando??”.

Le sue zampe iniziarono a tremare.

“Come posso sperare in una cosa così terribile?”.

Il volto si imperlò di sudore.

E il pegaso grigio si accasciò lentamente a terra, con cuore e respiro a mille.

 

Quello che temeva stava accadendo.

Un attacco acuto. Uno dei tanti che, da qualche mese a quella parte, erano subentrati nella sua vita. E di cui non aveva mai parlato a nessuno.

I muscoli si contrassero dolorosamente, impedendogli qualsiasi movimento. Strizzò gli occhi.

Si era agitato troppo, un po’ come accadde la prima volta con Scootaloo. Ma la cosa era andata via via peggiorando nel tempo.

 

Con calma, con moltissima calma, provò a riassumere il controllo.

Il respiro rallentò. Il cuore divenne più regolare.

E, dopo lunghi, interminabili minuti… i muscoli tornarono a rilassarsi.

 

Emise un sospiro di sollievo e, sudato e tremante, cercò di rimettersi sulle quattro zampe.

Rimase immobile, sperando che il peggio fosse passato.

 

Alzò quindi lo sguardo e la vide.

Rainbow Dash era appisolata nel letto, su un fianco. Aveva il muso infilato tra le zampe anteriori.

 

Non gli importava se l’avrebbe svegliata. Non gli importava cosa avrebbe pensato al mattino.

Era troppo agitato e spaventato per fare qualsiasi altra cosa.

Si avvicinò al giaciglio e prese faticosamente posto accanto a lei, cercando di non svegliarla. L’altra mugugnò appena ma non si destò.

Il pegaso grigio poggiò il capo contro di lei, cercando di rilassarsi e di non pensare ad altro.

 

Il calore del suo corpo.

Il rumore del suo respiro.

L’odore dell’ozono prima dei temporali.

 

Le passò le zampe attorno ai fianchi e si strinse a lei.

Non sapeva perché gli fosse così difficile parlare con qualcuno, persino con lei, quando era in quello stato d’animo. Era fatto così. Quando qualcosa lo turbava dal profondo si chiudeva a riccio. E diventava intrattabile.

Sapeva che non era giusto. Sapeva che era la cosa sbagliata, specialmente con lei, che così tanto aveva fatto per lui. Che così tanto cercava di supportarlo in ogni cosa.

Ma quella notizia lo spaventava. Lo spaventava come mai avrebbe immaginato.

Poteva davvero… provare risentimento oppure odio? Per qualcuno sangue del suo sangue, oltretutto?

La semplice paura di affrontare quei pensieri gli impediva di dare una risposta a se stesso… figuriamoci se avrebbe avuto la faccia per confessarlo anche a lei.

E così… preferì non dire nulla. Non voleva apparire freddo o eccessivamente introverso.

Non ebbe semplicemente il coraggio di affrontare ciò che lo affliggeva.

 

Chiuse gli occhi  e cercò di non pensarci.

Tentò semplicemente di percepire il battito del suo cuore, come se quel tenue rumore ritmato potesse calmarlo un po’.

 

La sua tensione iniziò progressivamente a placarsi.

Il sonno riuscì a far breccia in quel fugace attimo di pace.

 

La calma si diffuse nel suo animo.



E i sogni divennero stelle.

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Capitolo 3
*** Cenere all'aria ***


Lo strato di nubi scomparve e lo zeppelin numero otto compì il tragitto come di consueto: Greywood, Highcliff e poi… l’Emerald Lake.

Icarus e le sue amiche erano seduti all’interno della cabina collocata sotto il velivolo. Il puledro osservava imperscrutabile il paesaggio, attraverso uno dei finestrini. Era riuscito a dormire, quella notte, nonostante tutto. Non si era però svegliato di buonumore: il pensiero di quello che avrebbe potuto scoprire in giornata gli aveva messo addosso più ansia che mai.

Non sapeva inoltre come Dash avesse reagito al proprio risveglio. Quando lui aveva aperto gli occhi, l’amica era già scesa e si stava preparando per uscire. Non gli aveva accennato assolutamente nulla.

Chi doveva invece aver passato una notte insonne era con ogni probabilità Rarity. La puledra indossava un paio di occhialoni scuri, per nascondere le vene dei bulbi arrossati e le profonde occhiaie. Anche la criniera era leggermente arruffata, nonostante i numerosi colpi di spazzola. Proiettava una palpabile aura d’ira e nessuno osò parlarle per l’intera mattinata.

Pinkie si era invece legata una dozzina di palloncini alla vita, metà azzurri e metà rosa. Sembrava dovesse spiccare il volo da un momento all’altro.

    Il pegaso continuò ad osservare l’orizzonte, perdendo lo sguardo oltre le foreste collinari sparse per il paesaggio. Non sapeva come avrebbe reagito, vedendo di nuovo quel luogo.

Il posto dove per tanto tempo vi era rimasto e in cui aveva vissuto le delusioni più grandi della sua vita. Sapeva che non era colpa dell’istituto in sé, ma l’associazione era avvenuta a livello inconscio. Anche per Dash fu un tuffo nel passato, riportandole alla mente il giorno in cui si imbarcò per andare a trovare l’amico, senza sapere se lo avrebbe trovato e in che condizioni. Comprese come, per lui, dovesse trattarsi di un’esperienza analoga.

 

    Quindi apparve: un piccolo punto bianco immerso nel verde lussureggiante.

Il pony grigio sospirò, avvertendo un nodo in gola. Da una parte il luogo gli rievocava brutti ricordi, dall’altra… avrebbe finalmente scoperto come stava sua madre. E, forse, avrebbe affrontato la questione che gli turbinava nel cuore ormai da tempo… e da cui fuggiva per paura dei suoi stessi pensieri in merito.

 

    Il mezzo perse quota fino ad atterrare.

Icarus si fece forza e uscì all’esterno.

Vi era la solita stradina sterrata, che costeggiava un fianco della montagna e conduceva direttamente al lago.

I presenti ammutolirono e Spike si stropicciò gli occhi.

    Il posto era colmo di pony, non soltanto lungo la strada ma anche tutt’attorno al lago. Diversi cartelli sparsi in giro suggerivano come il luogo fosse divenuto un’ambita meta di piacere, di recente.

Le sponde brulicavano di attività, tra vari andirivieni e sporadici bagni nell’acqua dolce. La vegetazione si era rinfoltita e uccelli e farfalle colorati svolazzavano ovunque, in uno sbocciar di vita come mai si era visto da quelle parti.

Qualcuno colpì una spalla di Icarus.

“Ehy, Casanova”, gli disse Dash sorridendo. “Hai visto che hai combinato? Quella è tutta colpa tua”.

L’altro non riuscì a trattenere una certa soddisfazione ma cercò di minimizzare: “Io che c’entro? Sei tu quella che ha portato una tempesta direttamente addosso ai degenti”.

Pinkie saltellò più volte: “Sìì!! Io mi ricordo! Quando ti chiamarono la scema del meteo!”.

“Ehy!”, ruggì Rainbow. “Era la matta del meteo!”.

Fluttershy, intanto, si era lasciata rapire dagli animaletti locali e prese a svolazzare a pochi metri da terra, simpatizzando col regno animale.

    Il gruppo continuò per la propria strada.

“Allora, campione!”, lo richiamò Applejack, camminando al suo fianco. “Sei pronto per l’evento?? Io ne so qualcosa, sai? Quando nacque la piccoletta gialla! Certo ero molto più giovane di te!”.

“Uhh… certo che son pronto”, mentì spudoratamente.

“Un po’ agitato, eh?”.

L’amico cercò di sorriderle: “Beh… sì, un po’…”.

“È più che normale”, cercò di rassicurarlo. “Molte cose cambieranno, d’ora in poi”.

“…tu… tu dici?”, chiese titubante, come se i suoi timori non fossero poi così infondati.

“Sì ma non ti devi preoccupare. Causerà solo qualche sconquasso i primi tempi. Poi tutto diverrà normale. Fidati! Ci sono passata anche io!”.

“Ok…”.

Il breve scambio di battute lo rese ancora più irrequieto.

    Proseguirono lungo il sentiero, giungendo infine d’innanzi alle bianche mura perimetrali.

Tutti constatarono come fossero state ampliate, delimitando un tratto di percorso che conduceva direttamente al lago e in cui venivano saltuariamente condotti i pazienti. La rinascita del luogo aveva evidentemente indotto i medici ad utilizzare il lago stesso come parte di alcune terapie.

Per un singolo istante, Icarus ipotizzò davvero di aver fatto molto più di quanto avesse inizialmente pensato, con la faccenda del temporale: l’Emerald Lake non era mai stato così bello. Non sembrava nemmeno più un centro di cura, per certi versi.

Ma com’era possibile? Panpipe non avrebbe mai autorizzato una cosa simile. Era forse stato sostituito?

I pony si fermarono d’innanzi alla cancellata scura. Era l’orario delle visite e la guardiola li fece passare senza troppi problemi.

Il gruppetto avanzò attraverso il giardino nel cortile, unitamente ad alcuni degenti che passeggiavano, accompagnati da una piccola scorta medica.

Icarus rivisse parte del proprio passato, in mezzo a quel luogo. Era passato quasi un anno ma i ricordi erano vividi nella sua mente. Poco era cambiato. Le stesse mura bianche. Le stesse piante. C’era persino il grosso salice a cui si era quasi affezionato: lo aveva ormai associato alle poche ore di aria fresca che gli erano state concesse durante la terapia. Ai tempi aveva preso l’abitudine di farsi portare lì, sulla carrozzina, per poi alzare lo sguardo tra le fronde e farsi quasi ipnotizzare dal moto ondoso dei rami; gli spicchi di sole luccicavano attraverso di essi, creando un cangiante mosaico luminoso.

Ma ora era lì nelle vesti del visitatore. E non del ricoverato.

 

    Un urlo bestiale scaturì improvvisamente dal nulla e qualcosa o qualcuno saettò verso i pony.

Fluttershy strinse i denti e si gettò dietro il primo cespuglio che trovò.

Un puledro si fiondò addosso ad Icarus, blaterando frasi senza senso: “Determinato deterrente deteriorante dermatiti!!”.

L’altro, sulle prime, rimase scombussolato, poi si accese di stupore: “…Ate?? Vecchio pazzo sei davvero tu??”.

“Tutti tumuli tumefatti!!”.

“Per tutti i cirri!”, continuò il pegaso, stringendolo a sé. “Sei ancora rinchiuso in questo trogolo di schizzati!!”.

“Weee!”, esultò Pinkie, unendosi immotivatamente nell’abbraccio. Le altre rimasero basite ad osservarli.

“Oh, Ate!”, riprese Icarus, fissando gli occhi da matto del pony con la barbetta. “Non sai quanto son contento di rivederti!”.

“Mi ero dimenticato del pazzo dei pazzi”, commentò Spike.

Una voce femminile proruppe da uno dei vialetti. Qualcuno stava affannosamente cercando il ricoverato: “Ate! Ate, dove diamine ti sei cacciato??”. Una puledra bianca sbucò da una frasca.

Non ci volle molto affinché Rainbow e Icarus la riconoscessero. Era proprio lei.

Quando l’infermiera e l’ex paziente incrociarono gli sguardi, caddero in un mutuo silenzio. Chestnut si mise le zampe sul muso, come se fosse caduta dal pero, mentre il pony grigio assunse un’espressione vagamente sorridente.

“…Icarus??”, domandò stranita.

“Buongiorno… signorina Cheescake”, le rispose.

“Oh… b… buongiorno…”.

Il sorriso del pegaso assunse un accenno di amarezza: “Vedo che dovete sempre badare ai pazienti… qui all’Emerald Lake”.

L’altra sembrò inspiegabilmente a disagio. Abbassò lo sguardo e prese nervosamente a lisciarsi i crini lungo una spalla: “Ah… ecco… i-io…”.

Il puledro pensò ai pomeriggi passati con lei in tediose e disinteressate conversazioni. Nonostante non si fosse mai prodigata molto per lui, era comunque sempre stata disponibile, pur mantenendo un distacco emotivo forse eccessivo, nei confronti del pegaso.

Chestnut incrociò quindi gli occhi magenta dell’amica blu.

“Oh…”, esclamò. “Vedo che… ci sei anche tu”.

“Quindi ti ricordi ancora di noi”, affermò Dash.

L’infermiera parve riguadagnare un po’ sicurezza: “Beh… dopo… dopo il marasma che avete portato qui all’istituto… come avremmo potuto dimenticarci di voi?”.

Icarus si voltò verso il lago non molto distante e prese ad osservare intensamente le attività che i pony intrattenevano lungo le sponde.

“Devo dire”, ammise, “che non mi sarei mai aspettato… tutto questo”.

Chestnut sorrise appena: “…sai, effettivamente sono cambiate alcune cose da quando…”. La puledra si interruppe, come se provasse un profondo senso di inadeguatezza.

L’altro  la squadrò con aria interrogativa, quindi sorrise a sua volta e replicò: “…da quando abbiamo riempito quel buco senza vita con due gocce d’acqua?”.

“…non mi riferisco solo a quello…”, precisò mollemente.

“In effetti ora si respira un’aria più tranquilla… rilassata. Non aleggia più quell’alone di inviolabilità che c’era prima. Non ditemi che quel simpaticone del primario è stato internato nel suo stesso reparto di psichiatria?”.

Chestnut scosse il capo e prese a raccontare: “Panpipe è ancora il primario. Il fallimento della tua cura si è ritorta su di lui solo in parte. Ha percorso vie legali traverse e la faccenda è tutt’ora irrisolta”.

“Te l’avevo detto, Dashie”, commentò il puledro, rivolgendosi amaramente all’amica blu. “Quando hai i soldi non importa quanta magia puoi scatenare dal corno che hai in fronte…”.

“Ti capisco”, disse l’infermiera. “Ma ha comunque dovuto viaggiare a testa bassa per un po’. Sai… quando gli è giunta notizia della nomina di Campioni che vi ha affibbiato la Principessa…”.

“Cos’è? Ha avuto paura?”, domandò Rainbow.

“Non saprei. Ma si è sicuramente dato una calmata. Ha allentato la presa sui controlli e sul regime di sicurezza. Ha mantenuto un basso profilo per evitare che il caso sulle cure di Icarus si riaprisse. Forse temeva un contraccolpo legale…”.

Il pegaso alzò lo sguardo verso l’ultimo piano dell’edificio, proprio dove si trovava l’ufficio di Panpipe.

Chestnut prese quindi a tergiversare, finché non si decise a vuotare il sacco, in una sorta di gesto liberatorio. “Senti… Mi… mi dispiace molto per come… per come sono andate le cose, Icarus… Anche… per come mi sono comportata. Per come avrei dovuto darti più supporto e non soltanto considerarti un… un pegaso… che non…”.

“Che barba…”, sbottò il puledro grigio, puntando gli occhi al cielo.

“Non farci caso”, la rassicurò Rainbow. “Lui non sopporta questo genere di discorsi”.

“Beh, lo capisco… intendevo solo dire che… che mi dispiace…”.

Icarus si preparò a snocciolare uno dei suoi sermoni ma ciò che intravide alle spalle dell’infermiera, sullo sfondo, lo fece repentinamente desistere.

Il pony dagli occhi viola assunse un’espressione a metà tra il perplesso e il preoccupato. Si estraniò completamente dalla discussione e si allontanò zoppicante.

Le amiche lo seguirono con lo sguardo e poi… capirono.

 

    Un pegaso dal manto bianco era uscito dalla porta principale dell’istituto, sedendosi quindi sul bordo della stradina e prendendo ad osservare il paesaggio montano. Non si era accorto dei visitatori, tantomeno del figlio che si avvicinò a lui con passo incerto.

Quando fu sufficientemente vicino, Daedalus udì il rumore degli zoccoli sul terreno e si voltò.

Padre e figlio incrociarono lo sguardo, dopo mesi di semplice corrispondenza postale.

Icarus ebbe un tuffo al cuore quando vide le guance dello stallone solcate da due rivoli luccicanti.

“I-Icarus…?”, balbettò, completamente spiazzato.

L’altro rimase ad osservare i suoi occhi lucidi e non seppe cosa dire.

Daedalus si passò rapidamente il dorso degli zoccoli lungo il volto, ma era troppo tardi, ormai, per mascherare le lacrime.

“Icarus… i-io… Sei… sei qui… Sei giunto fin qui…”.

Il puledro cercò la forza di parlare, come se avesse paura di venire a conoscenza di qualsivoglia risposta. Dash e gli altri pony si avvicinarono ai due.

“…papà?”, tentennò infine.

Daedalus cercò di ricomporsi e di darsi un contegno. Si schiarì la voce: “…sono… sono molto contento di… di sapere che sei qui… Icarus…”.

“…sono… cioè… siamo venuti il prima possibile. Abbiamo ricevuto le varie lettere e… e poi quell’ultimo avviso scritto in fretta e furia…”.

“Oh… oh sì, scusa non era mia intenzione farvi correre qui, così su due zampe… e…”.

Icarus scosse il capo, con il cuore che gli batteva forte: “Era tutto… così poco chiaro. Alla fine siamo stati costretti a venire qui… o non avremmo saputo nient’altro…”.

Il pegaso bianco si portò sulle quattro zampe e cercò di spiegare le proprie ragioni, perdendo la calma autoritaria che lo aveva da sempre contraddistinto: “Ah… s-sì, vi chiedo di nuovo scusa… Siamo stati così presi dal lavoro, dalle faccende… i debiti… E… e poi il parere del medico, le possibili complicazioni…”.

“Complicazioni?”, lo interruppe preoccupato. “Che genere di complicazioni?? Brutus ci aveva accennato a qualcosa e…”.

“Siete stati al Rusty’s?”.

Il figlio iniziò di nuovo a perdere la calma: “Certo che siamo andati al Rusty’s! Non sapevamo nulla! Se non fosse stato per lui saremmo andati a zonzo per Steamdale come degli imbranati!”.

“Calma, Icarus”, intervenne Dash.

“No. No, ha ragione”, rispose il padre. “Ma… è avvenuto tutto… così in fretta…”.

Il puledro tornò ad osservare le guance bagnate di Daedalus. Era forse la seconda volta in tutta la vita che lo aveva visto piangere.

Il volto di Icarus divenne estremamente serio, quasi dovesse prepararsi al peggio: “…papà… cosa… cos’è successo…?”.

Solo in quell’istante lo stallone si rese conto come quella situazione fosse fraintendibile. Riprese ad asciugarsi il muso più velocemente possibile e si affrettò a spiegare meglio l’accaduto: “Oh… n-no, non è successo nulla di grave, te lo giuro…”.

“…davvero? Non mentirmi…”.

Daedalus riuscì finalmente a sorridere: “…no, Icarus. Te lo assicuro. È andato tutto per il meglio… Era solo… da tanto tempo… che… che non mi emozionavo così tanto… È… è avvenuto giusto stanotte…”.

L’altro rimase in silenzio.

“VUOI DIRE CHE…??”, strillò Pinkie, invadendo la scena con la propria presenza (e il grappolo di palloncini volanti).

Lo stallone sorrise di nuovo, questa volta in un’espressione addolcita e molto più naturale.

“…perché non venite dentro?”, chiese loro.

 

*** ***** ***

 

    L’androne dell’istituto venne invaso da ben dieci pony e un drago in miniatura.

Daedalus era in testa e faceva da guida tra i numerosi corridoi.

A chiudere la fila c’erano Pinkie e Ate, quest’ultimo assolutamente rapito dal moto ondeggiante dei palloni. Chestnut lo marcava stretto, preparata a qualsiasi tipo di reazione imprevista.

Icarus seguì pazientemente il padre, che avanzò con decisione lungo il percorso, senza voltarsi nemmeno una volta. Non sapeva cosa pensare, né cosa aspettarsi.

    Giunsero infine in un reparto in cui vi era molto meno caos, rispetto alle altre sezioni dell’ospedale.

Daedalus si portò d’innanzi ad una porta celeste, quindi si fermò.

Ate si allungò, per cercare di afferrare uno degli oggetti fluttuanti ma Chestnut lo trattenne a forza.

“Ah… ehm…”, puntualizzò l’infermiera ai presenti, nell’intento di placare la curiosità del paziente barbuto. “Sarebbe meglio non entraste tutti assieme…”.

Il pegaso bianco si rivolse al figlio e poi si soffermò su Dash: “…vuoi… cioè… volete… entrare prima voi?”.

“Ah…”, biascicò la puledra, non aspettandosi una simile proposta. “Ma io non… non credo di avere molto a che fare con… cioè…”.

La zampa dello stallone si poggiò sulla sua spalla: “…in verità… ci terrei molto… che ci fossi anche tu, assieme ad Icarus…”.

L’ex pegaso si guardò attorno spaesato. Le amiche le rimandarono uno sguardo fiducioso.

“Avanti!”, la esortò Applejack. “Hai cavalcato le tempeste, ora non ti farai mica mettere in soggezione da una porta chiusa?”.

Dash cercò di risponderle ma l’unica cosa che riuscì a fare fu deglutire.

Icarus prese inaspettatamente l’iniziativa.

Si mosse verso la porta, molto lentamente, e decise di aprirla con delicatezza.

Non disse nulla. Qualcosa lo spinse semplicemente ad entrare. Si fermò, giusto un istante prima di varcare la soglia. Si voltò verso Dash e, dopo un rapido gioco di sguardi, entrambi decisero di entrare.

 

    La stanza era piccola e accoglieva un unico paziente, al suo interno. Era stata evidentemente adibita a luogo di massima priorità. Vi erano due grossi tavoli, lungo le pareti, su cui erano stati disposti diversi plichi di appunti e documenti.

In un angolo, proprio a ridosso di una finestra, si trovava un letto ospedaliero con un comodino a fianco. I raggi del sole filtravano dolcemente dal vetro, illuminando un piccolo vaso di calendule disposto sul mobiletto.

Una puledra dal manto dorato era accoccolata tra le coperte e stringeva un piccolo fagotto tra le zampe.

 

In quel preciso istante, il tempo e il mondo stesso, attorno ad Icarus, parvero fermarsi di colpo.

 

La madre sorrise dolcemente, nonostante avesse un volto stanco e provato da un’evidente fatica.

Aprì lentamente le palpebre e mise a fuoco le immagini.

Il sorriso si rafforzò: “…i miei due campioni…”, disse, con un filo di voce.

“…buon… buongiorno…”, esclamò Dash, non sapendo esattamente cosa rispondere, imbambolata da quell’istante così singolare. Era una situazione in cui mai si era trovata.

Ancor più agitato era sicuramente l’amico, che rimase con il volto sbarrato per tutto il tempo, assorto in chissà quali pensieri o emozioni.

Era da così tanto tempo che non rivedeva la madre… eppure non riuscì a dire alcunché. Nemmeno una parola o un fiato.

Riprese a camminare, portandosi a fianco del letto e cercando di scorgere cosa la giumenta reggesse in grembo.

Sunshine osservò il figlio con volto contento: “Ciao… Icarus… Sapevo che saresti venuto… Scommetto che tuo padre si è fatto prendere dal panico come al solito… e che non è riuscito nemmeno a spedirvi due lettere decenti…”.

“In… in effetti…”, commentò, senza riuscire a nascondere una certa ansia.

“…vuoi vederla…?”, gli chiese.

L’altro spalancò gli occhi. Dash si mise le zampe sul muso e provò una sensazione indescrivibile.

“È… è una…?”, balbettò il pegaso dalla criniera viola.

 

Sunshine scostò un lembo del fagotto e rivelò un cucciolo appisolato su se stesso.


Era un piccolo pegaso dal manto grigio, quasi identico a quello del fratello, forse appena più chiaro. Chioma e coda, tuttavia, possedevano le colorazioni della terra di siena, con qualche riflesso ambrato lungo le punte dei crini. Le ali piumate erano ripiegate lungo i fianchi.


Icarus non seppe di nuovo cosa dire.

Non riuscì nemmeno a pensare.

Le emozioni esplosero dentro di lui, riversandogli sensazioni d’ogni sorta, dentro al petto.

Anche Dash si avvicinò al cucciolo, assolutamente incapace di far nulla se non osservarlo con mascella cascante.

 

“Vi presento la piccola Iris…”, riprese sottovoce la madre.

A quelle parole, la nuova nata spalancò lentamente gli occhi e li sollevò con curiosità verso la coppia di visitatori.

Erano due grossi occhi color magenta, quasi identici a quelli di Rainbow.

La puledra blu si riportò gli zoccoli al muso, provando l’esigenza di piangere ma senza riuscire a comprenderne chiaramente il motivo… un’emozione assolutamente nuova e ingestibile, per lei.

A quel punto Icarus capì. Si voltò verso l’amica e le disse: “…Iris, nella mitologia… è… è l’incarnazione dell’arcobaleno… nonché una delle divinità del cielo…”.

Dash non riuscì a crederci.

La madre riprese la parola: “…quando ho visto i suoi occhioni… mi sei subito venuta in mente tu. E… mi è venuto spontaneo… darle quel nome…”.

L’altra scosse il capo, con mento tremante: “…i-io… io non… non so cosa dire…”.

La madre fissò intensamente Icarus nel volto: “…allora? Nemmeno tu hai niente da dire?”.

“…eh?... Cos…”.

“Vuoi prenderla in braccio?”, gli chiese, porgendogliela delicatamente.

Il fratello maggiore cadde nel panico più totale: “N-no! Per carità… i-io non penso… cioè… ho la forza di un puledrino di due anni… c-ci manca ancora che…”.

Ma la madre non sentì ragioni e allungò il fagottino, obbligando il puledro a reggerla tra le zampe.

“Suvvia”, gli disse. “Ora non fare come tuo padre…”.

 

Il pegaso dalle ossa di caramello, imbarazzatissimo, si ritrovò il piccolo pony tra gli zoccoli. Pensava fosse più leggera… ma non ebbe problemi a reggerla.

Era piccola. Calda. Col pelo leggermente arruffato e dal vago sentore di latte, tipico dei pargoli appena nati.

Iris non fece una piega, era davvero molto mansueta. Si limitò ad osservarlo in silenzio, a muso basso e occhi curiosi, forse appena timorosi.

Dash si allontanò per un istante, schiarendosi la voce e cercando di mascherare l’insorgere di un singhiozzo.

Qualcuno entrò. Era Daedalus. Si portò di fianco ad Icarus e prese a sua volta ad osservare la figlia in silenzio.

“Io…”, buttò lì il pegaso grigio.

 

Passarono alcuni minuti, in cui i genitori cercarono di decifrare le sensazioni del figlio, senza tuttavia riuscirci.

Icarus parve quindi tornare in sé e si affrettò a riconsegnare la piccola tra le braccia della madre.

“…devo… devo uscire un attimo”, affermò nervosamente, e si diresse nel corridoio.

Daedalus e la moglie si osservarono con aria interrogativa, finché lo stallone decise di seguire il figlio, facendo cenno a Dash di rimanere nella stanza.

Di lì a poco, anche le amiche iniziarono ad entrare, sollevando un vociare farcito di esclamazioni di gioia e felicitazioni. La più invasiva di tutte fu Pinkie, ovviamente, che non trattenne le più rumorose e caotiche manifestazioni di sorpresa. Tutte fecero cerchio attorno al letto, completamente rapite da quanto stavano vivendo.

 

Icarus, tuttavia, non riuscì a far altro che allontanarsi e appoggiarsi al muro del corridoio. Ate, accanto a lui, lo scrutò con aria interrogativa.

Daedalus sopraggiunse poco dopo.

“Icarus”, dichiarò preoccupato. “Stai bene?”.

L’altro aveva il fiato accelerato e non sembrava in grado di parlare scorrevolmente.

Dopo un lungo sospiro si girò lentamente verso il padre. Il suo volto era tornato serio e vagamente contratto da una sensazione di dolore (impossibile dire se fosse fisico o interiore).

“…papà… devo sapere una cosa…”.

“...dimmi…”.

Il puledro cercò in ogni modo di parlare chiaramente: “…devi… devi dirmi... se è sana. O… o se ha…”.

Daedalus non si scompose: “È presto per trarre delle conclusioni affrettate, Icarus… ma… I medici hanno eseguito tutte le analisi del caso. Erano pronti a qualsiasi evenienza”.

Ci fu un attimo di pausa, interrotto nuovamente dallo stallone.

 

“…ma… da quanto si sa fino ad ora… è sana, Icarus. È un pegaso in perfetta salute”.

 

    Ci sono situazioni in cui è sempre difficile riuscire a capire cosa si sta provando nel proprio cuore.

Le emozioni si susseguono rapidamente, una dopo l’altra, e tutto ciò che si percepisce è una travolgente sensazione che ci attraversa il corpo.

Pochi secondi si possono trasformare in una eterna battaglia di ragionamenti; un perpetuo tentativo di discernere i mille pensieri che giungono nella nostra mente.

 

Quello fu ciò che successe ad Icarus, in quell’istante.

 

Il pegaso dalle ossa di caramello non riuscì a capire cosa stesse provando.

 

Non si rese conto se si sentì risollevato, da quella notizia; o se, in cuor suo, covasse una forma ben diversa di accettazione.

 

Il figlio che lui mai sarebbe stato… era nato.

 

Un piccolo pegaso apparentemente sano.

 

Un uccello che avrebbe potuto realmente saltare dal nido, senza il rischio di sbriciolarsi le ali come cenere all’aria.

 

Il figlio che mai avrebbe perso le proprie ali di cera, volando troppo vicino al sole.

Che mai sarebbe precipitato al suolo.


    Icarus osservò il padre dritto negli occhi e sorrise.

“Sono contento di sapere che sta bene…”.

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Capitolo 4
*** Cadere senz'ali ***


    “Bubu… settete!!”, canzonò allegramente Pinkie, facendo scorrere le zampe di fronte al muso.

Iris era in grembo alla madre e scrutava la puledra rosa con una vaga espressione di perplessità.

“…bubu… SETTETE!!”, riprovò l’altra, senza sortire alcun effetto.

Il rumore delle ruote sui binari era di nuovo tornato a far da padrone alla scena.

Dopo qualche giorno di controlli, l’istituto aveva dimesso la madre, permettendole di tornare a casa o ovunque avesse voluto.

I medici erano stati chiari. Iris non presentava alcun segno apparente di malattia. Avrebbero condotto accertamenti periodici, basandosi su quanto avevano scoperto sul fratello maggiore ma, fino a quel momento, nulla lasciava presagire al peggio.

Il ritorno vide quindi una coppia di pegasi aggiuntivi, in carrozza: Sunshine con la piccola Iris.

“…bubu… SETT…”.

“Ma la vuoi piantare??”, intervenne Rarity scocciata. “Non vedi che non la fai ridere nemmeno un po’?”.

“Uffa…”, protestò l’amica, sbuffando tristemente. “È impossibile che Pinkie non riesca a far ridere un cucciolo. Forse mi si è rotto qualcosa? Non funziono più come una volta?”, si chiese, osservandosi sospettosamente le zampe e il corpo in generale.

“Non credo”, rispose la madre divertita. “Penso che Iris sia semplicemente un pegaso parecchio timido”.

Dash diede una vigorosa pacca sulla schiena di Fluttershy.

“Ah!”, berciò. “Visto, Flutter? Ora non sarai più la timidona del gruppo!”.

“Oh… uhm… yay?”.

“Oddio ma non è un amore??”, farfugliò l’unicorno bianco, immaginandosi le decine di modi con cui avrebbe potuto agghindarla.

Sunshine si rivolse quindi ad Applejack, che era seduta su uno dei tanti lettini del vagone.

“Ti ringrazio davvero tanto, Applejack… Non so proprio come sdebitarmi…”.

Il pony arancione si sistemò il copricapo e rispose con nonchalance: “Bah, fandonie. Per me non sarà un problema. Abbiamo un sacco di spazio inutilizzato e, anche se c’è il lavoro nei campi, abbiamo l’espertissima Granny Smith, con noi! Quella giumenta è più tosta di quanto sembri! Si è dovuta accollare tre nipotini quasi da sola e sa benissimo come gestire i cuccioli. Figuriamoci poi una nanerottola tranquilla come Iris!”.

La madre si voltò lentamente verso il finestrino e scorse i grattacieli lontani della fumosa città di Steamdale. Era così distante da sembrare un organo di una cattedrale dalle canne contorte e poste disordinatamente tra loro.

Sospirò.

“…in verità sono molto contenta di questa opportunità… Avremmo potuto rimanere al Rusty’s. Brutus è stato molto gentile a riguardo”. Il pegaso dorato riportò quindi lo sguardo su Applejack. “Ma se devo essere sincera con voi… non voglio che mia figlia cresca in un posto come quello. Caos, smog… una città dove non è permesso ai pegasi di volare… Preferisco molto di più che si sbucci le ginocchia correndo in un cortile pieno di terra”.

“La terra è proprio quello che non manca, da noi!”, le rispose ironicamente l’interlocutrice.

“E Daedalus?”, chiese Rainbow, avvicinandosi ad Iris e sperando di spupazzarsela un po’.

“Oh lui rimarrà un po’ da Brutus a fare gli straordinari”.

L’ex pegaso trattenne una risata immaginandosi l’imperioso stallone, agghindato come una puledra delle pulizie con tanto di grembiulino, intento a scrostare una colonna di piatti sporchi, sotto il vigile sguardo del proprietario barbuto.

“Ci raggiungerà tra qualche giorno”, concluse Sunshine.

    Rainbow allungò una zampa verso il cucciolo e provò a sfiorarlo appena. Quando Iris sentì la pressione dello zoccolo sul pelo, fece una faccia vagamente spaventata, si irrigidì e tuffò il musetto tra il petto della madre.

L’ex pegaso sorrise: “È davvero timida…”.

“Su, su…”, la rassicurò la giumenta, baciandola poi sulla fronte.

 

    L’allegria e la spensieratezza aleggiava tra il gruppo. Le amiche, e anche Spike, erano ancora emozionate per la nascita della sorellina di Icarus e non si trattenevano di certo dal dimostrarlo in ogni modo.

La famiglia del pegaso grigio versava in pessime condizioni economiche e i pony avevano deciso di aiutarla in tutto e per tutto.

Applejack le avrebbe offerto un tetto sopra la testa e Rarity avrebbe pensato ai vestiti per il cucciolo. Pinkie e Fluttershy non avrebbero avuto problemi a dare una zampa di tanto in tanto, così come Rainbow, Twilight e l’aiutante.

L’unico a non sembrare entusiasta, paradossalmente… era proprio Icarus.

    Il puledro era seduto in un angolino del vagone, il più lontano possibile dal gruppetto. Osservava la scena con volto inespressivo, assolutamente indecifrabile.

Udiva le chiacchiere, gli schiamazzi dell’amica rosa, i commenti… Vedeva come la piccola Iris avesse su di sé le attenzioni di tutto e di tutti.

Di nuovo, non riuscì a capire esattamente cosa stesse provando. Sapeva semplicemente di percepire una profonda sensazione di disagio, un senso di inadeguatezza per quell’evento che mai era riuscito ad accettare. Nemmeno dopo mesi di lettere che lo preannunciavano.

Non capiva o forse non voleva accettare le proprie emozioni. Non lo sapeva.

 

L’unica certezza era che… mai si era sentito in quel modo. Così confuso.

Mai avrebbe pensato di trovarsi in una situazione di quel tipo.

 

Riprese ad osservare il paesaggio, in muto silenzio.

L’immagine di Dash gli apparve riflessa nel lunotto del finestrino.

 

“Ti deve piacere davvero tanto osservare il paesaggio di Equestria…”, gli disse ironicamente.

Icarus non rispose. Non si mosse di un millimetro.

Rainbow si avvicinò a lui.

“…sei davvero sicuro di voler rimanere qui in silenzio fino all’arrivo?”.

“Sono solo… stanco”.

“Sei così da quando siamo partiti. Chiunque noterebbe che hai qualcosa che ti turba. Io ti conosco, sono abituata alla tua testa di legno… ma…”.

“…cosa?”, le domandò, girandosi improvvisamente verso di lei.

“…tua… la tua sorellina è qui, nel tuo stesso vagone. È a pochi metri da te e tu non fai altro che startene il più lontano possibile…”, spiegò, con volto dispiaciuto.

L’amico si mise una zampa in fronte, chiuse gli occhi e scosse il capo. “…io… Senti anche io ti conosco, ormai. Ma… davvero, Dashie, non è questo il momento. Non ho voglia di parlare. Non qui, almeno…”.

L’ex pegaso sospirò: “…va bene, Icarus. Vedi solo di non tenerti tutto dentro come hai fatto più volte. Non ha senso. E ti fai solo del male”.

“Lo terrò a mente…”.

    Rainbow gli sorrise appena, quindi gli sfiorò una spalla con la zampa. Si allontanò lentamente, per tornare da Sunshine, in mezzo alla calca di pony che brulicava attorno alla piccola Iris.

Icarus le osservò per pochi istanti, riportando infine l’attenzione sul paesaggio che scorreva veloce. Poggiò il mento sul davanzale.

Fece un profondo respiro.

 

    Passarono i minuti e le voci delle amiche iniziarono a rimbombargli nelle orecchie. Non stava nemmeno seguendo i discorsi ma decise che sarebbe stato meglio uscire a prendere una boccata d’aria.

Stando attento che nessuno lo notasse (e Iris faceva da calamita per gli sguardi), guadagnò l’uscita attraverso il portello di raccordo.

    Si spostò lungo la passerella laterale del vagone, con il vento che gli scorreva impetuoso addosso e la lunga criniera scompigliata disordinatamente. Il rumore delle rotaie aumentò di intensità.

Si sedette nella zona apicale della carrozza esterna e riprese ad osservare il paesaggio.

Chiuse quindi gli occhi e si concentrò.

Si focalizzò sull’aria che gli scorreva sulla pelle, attraverso i crini e le piume trattenute dalla cintura.

Per un istante, si ricordò della notte in cui poté volare per un’unica ora. L’emozione era più o meno la stessa ma ciò che mancava era la sensazione di leggerezza e libertà nel poter solcare i cieli ad ali spiegate. Non aveva dubbi: quello era il destino dei pegasi.

Volare.

In quel momento, invece, si sentiva pesante. Debole. Costretto a terra dalla gravità e da un fisico che non lo aiutava per niente. Anche solo camminare stava diventando sempre più difficile. I muscoli sempre più deboli. Le ossa sempre più fragili.

    Un sesto senso gli suggerì di voltarsi.

Spike era appoggiato alla ringhiera, con il muso sulle zampe.

Icarus lo guardò e non disse nulla. Fu il drago a prendere la parola.

“Certo che… avete proprio la fissa di starvene fuori in mezzo al vento, voi due. Vi somigliate davvero un sacco”.

“…in che senso?”, gli domandò incuriosendosi.

“Mh. Niente. Dico solo che avete tante cose in comune, tu e Dash”.

Il pegaso ripensò agli eventi di un anno prima: “Già… ora più che mai…”.

Ci fu una pausa.

“Sei un tipo strano, Icarus…”, riprese Spike.

“Non mi dici nulla di nuovo”.

“No, intendo… Per me è molto difficile capirti”.

“Nessuno ci riesce davvero…”.

“Nemmeno Rainbow?”.

Il pony abbassò lo sguardo e non rispose.

“Centra forse… tua sorella?”.

Silenzio.

“…hai paura… che possa avere anche lei la tua stessa malattia?”.

“…non lo so, Spike. Non… non riesco nemmeno a ragionare con chiarezza, in queste ore…”.

“Beh, è normale. Credo…”.

Icarus sollevò lo sguardo al cielo azzurro. Notò il sole accecante parzialmente occultato da alcune nubi bianche.

“…mi sento… come mai mi sono sentito prima d’ora. Dovrei essere felice. E… non capisco. Continuo a non capire… È come se, improvvisamente, non sapessi più chi sono. Forse… mi stavo crogiolando nella situazione che mi si era creata attorno negli ultimi tempi…”.

“…situazione?”, chiese perplesso.

L’altro sembrò in evidente difficoltà: “Te lo ripeto, Spike… non so bene cosa pensare. Pensavo di aver trovato una sorta di stabilità. Forse ero abituato a… ad essere il figlio di una famiglia con cui mai avrebbero potuto volare. Ora… ora invece…”.

L’aiutante dell’unicorno capì cosa stesse cercando di dire: “Quindi… Più che paura che non possa volare… tu temi… che lei…”.

Icarus si ritrasse all’improvviso, per far ritorno all’interno: “Non lo so”, tagliò corto allontanandosi e dandogli le spalle, tramite un gesto che fece trapelare un evidente dispiacere.

 

Spike lo osservò mentre rientrava.

Si grattò le scaglie sul capo.

 

E anche lui, in quel momento, non seppe esattamente cosa pensare.

 

*** ***** ***

 

    L’arrivo a Ponyville fu abbastanza tranquillo.

Le amiche decisero di accompagnare Sunshine nella sua nuova abitazione, prima di far ritorno alle rispettive, per riposare e riprendersi dal lungo ed emozionante viaggio da Steamdale.

Il gruppetto usufruì dell’assistenza di un carro di fieno, che transitava dalla piazza cittadina fino alla tenuta Apple, fornendo alla madre e ai figli un trasporto relativamente agevole.

Giunsero a destinazione verso metà pomeriggio.

Il sole luccicava nel cielo e un vento gentile scuoteva le fronde dei meli.

   

    Applebloom corse felicitante verso la sorellona, quando la vide, schiamazzando come una matta. Si bloccò però all’improvviso, alla vista della giumenta dal manto dorato, nell’intento di passare delicatamente il cucciolo a Twilight. Iris scrutava i dintorni con sguardo timoroso ed era parzialmente infagottata in un panno.

“Ossantocielo chebella!!”, pigolò la puledrina, trottando verso di lei.

Big Mac e la nonna giunsero poco dopo e tutti fecero di nuovo cerchio attorno alla madre. Tutti tranne Icarus.

“Cos’è?? Com’è?? Chi è?? È una maschio?? È una femmina??”, domandò Applebloom a mitraglia, cercando di osservarla meglio.

“Si chiama Iris”, le rispose la madre, carezzandola appena.

“Che Sheleshtia mi rubi la dentiera she quello non è il più tenero shcricciolo alato che abbia mai visto in Equestria!”, berciò Granny.

“Eeeyup!”.

La piccola rimase in braccio alla madre e controllò la marea di pony che aveva attorno, con volto estremamente sospettoso.

    Un leggero colpo di vento mosse la criniera di Sunshine, la quale alzò lo sguardo verso la tenuta. L’erba venne mossa gentilmente dalla brezza, creando il tipico frusciare accennato. Il sole picchiava così forte che dovette socchiudere gli occhi, per non venirne abbagliata.

Sorrise e si voltò verso Applejack.

“Questo è decisamente un posto migliore di Steamdale…”.

L’amica col cappello raccolse una spiga con i denti e se la strinse tra le labbra: “Verde, natura e ortiche che ti irritano il sedere se ti appoggi nel posto sbagliato. Non potrebbe esserci nulla di meglio nel raggio di chilometri!”.

Sunshine decise di azzardare un po’ e tolse il panno con cui reggeva la figlia.

Era la prima volta che la piccola metteva zoccolo per terra: la cinse per le ascelle e la poggiò delicatamente sul manto erboso, in modo che toccasse prima con la zampe posteriori e poi quelle anteriori.

“Sembra un sacco di patate!”, ridacchiò Applebloom.

Tutti si allargarono, in modo da lasciarle un po’ di spazio.

    Iris rimase immobile, stranita. Si voltò verso la madre, proprio dietro di lei, e puntò gli occhioni rossi in quelli gialli.

Sunshine continuò a sorriderle dolcemente.

Icarus osservò la scena da lontano, in muto silenzio. Mai aveva visto la madre così contenta e rilassata come in quei giorni.

La giumenta diede un colpetto leggero sul fianco di Iris: “Su! C’è un prato enorme in cui puoi muoverti! Non vorrai mica stare tutto il giorno piantata lì a guardarmi?”.

L’altra, ovviamente, non capì quelle parole. Ma l’istinto si preoccupò di tutto il resto.

    Con volto titubante e un accenno di sforzo fisico, Iris provò ad avanzare i primi, tremanti passi.

Tutti trattennero il respiro.

Il cucciolo scrutò lo spazio aperto che aveva di fronte e, colta da un improvviso impeto di energia, si lanciò repentinamente in un trotto liberatorio.

Fece giusto qualche metro, impacciandosi nel suo stesso passo scoordinato e traballante. Finì col musetto a terra, il sedere per aria e le ali parzialmente spiegate (aperte d’istinto per non perdere l’equilibrio).

Dash si mosse immediatamente verso di lei, preoccupata, ma Sunshine le mise una zampa davanti al petto, bloccandola.

“M-ma…”.

“Rainbow”, la riprese scherzosamente. “Non è il primo figlio che allevo, suvvia!”.

Iris ebbe giusto due singhiozzi. Poi, quando vide che nessuno veniva a soccorrerla, si portò sulle zampe e ricominciò a correre e cadere più volte. Il processo continuò finché non riuscì a trotterellare per svariati metri, lasciando libero sfogo a tutta la voglia di muoversi che un cucciolo potesse avere.

I presenti la osservarono felicitanti.

Icarus parve incupirsi.

 

Cadere e rialzarsi.

 

Correre e scalciare.

 

Divertirsi nell’erba.

 

Essere la gioia per gli occhi della propria madre.

Vederla sorridere come mai aveva avuto memoria.

 

Lasciando che il mondo scorresse attorno a quel piccolo pegaso, come se si fosse trattato di qualcosa che le apparteneva. Che era lì solo per lei. Per dargli l’occasione, un giorno, di fare ciò per cui era nata.

 

In quel mondo dove il sole sempre tornava a splendere dopo una tempesta.

Una tempesta rapida e fugace.


Che, per alcuni, sarebbe durata appena un battito d’ali.

 

*** ***** ***

 

    Passarono alcuni giorni, in cui madre e figlia iniziarono ad abituarsi alla loro nuova sistemazione. Vennero collocati in una stanza all’ultimo piano. Era un po’ vecchia e in disuso ma, con qualche  lavoretto di poco conto, venne resa di nuovo carina ed accogliente.

La madre era ovviamente impegnata a gestire la piccola ma non sentì ragioni quando si propose per aiutare in semplici faccende di casa e in cucina. Non amava farsi accudire da un’intera famiglia. Granny Smith, da quel punto di vista, le diede l’aiuto più grande di tutti. L’anziana sapeva davvero il fatto suo su come tirare su i puledrini. Non era però abituata a gestire un pegaso.

Quando mise Iris nella tinozza, per farle il bagno, questa drizzò il pelo come un gatto e prese a sbattere freneticamente le ali in ogni direzione, rendendo di fatto impossibile trattenerla e lavando la povera nonna da criniera a zoccolo.

Ma quello non era niente se confrontato al piacere nell’avere di nuovo un piccolo puledrino che trotterellava gioiosamente per casa o nel giardino.

La timida Iris, di tanto in tanto, si lasciava trasportare in vere e proprie manifestazioni di euforia, magari giocando a rincorrersi con Applebloom o con Winona (per quanto la sua potesse definirsi corsa), oppure combinando mille pasticci in giro per la tenuta.

E Sunshine… tornò davvero a sorridere, in quei giorni.

A staccare la testa per un po’ dai problemi…

Dai debiti…

…da…


    Icarus aprì lentamente un occhio. Emise un verso sommesso.

Era sdraiato su un materasso di nuvole e si portò le zampe alle palpebre, per stropicciarle un po’. Una fitta alla scapola, tuttavia, lo fece desistere, oltre che lanciare un urlo soffocato di dolore.

Si sentiva pesante. Vagamente rintronato.

Gli occhi erano stanchi e un po’ arrossati.

Aveva dormito poco. E male.

Si spostò lungo un fianco e si diede una spinta, per scendere.

Si trovava nella stanza da letto di Rainbow, com’era ormai abitudine da circa un anno a quella parte. Lei, tuttavia, non c’era.

“Strano”, pensò. “Di solito Dash esce prima solo quando ha affari impellenti col meteo”.

Poi ebbe un sospetto.

Che fosse andata da…?

Mise le zampe sul pavimento nebuloso. Quando il peso del corpo si caricò sulle giunture, strinse i denti e per poco non rischiò di franare su se stesso.

“M…maledizione…”, sibilò tra le labbra, ad occhi chiusi.

 

Alcuni giorni andava meglio.

 

Altri… molto meno.

 

Quello doveva essere uno di quei “giorni no”.

 

Il puledro iniziò a muoversi. Ogni passo gli restituiva una bruciante sensazione di dolore lungo alcune articolazioni e lo stiramento sulla scapola ancora si faceva sentire.

Si fermò e chiuse gli occhi.

Fece un lungo sospiro a muso basso.

 

Attorno lui vigeva la calma più assoluta. La casa era deserta e immersa nella semioscurità.

Si diresse presso delle tendine e le ripiegò, facendo sì che la lucentezza dei raggi solari d’alta quota facessero energicamente capolino nell’ambiente.

Icarus si sedette ed osservò il cielo azzurro con sguardo pensieroso.

Per un istante, gli sembrò di essere tornato nella sua vecchia abitazione accanto a Cloudsdale. Quando viveva solo ed isolato, all’ultimo piano della villetta. Immerso nella pace e nel silenzio. Senza che nessuno potesse… o volesse disturbarlo.

Fu una strana sensazione.

Tutto tranne che piacevole.

 

Non aveva mai avuto l’attenzione di qualcuno su di sé. Mai.

E poi, da un giorno all’altro, era arrivata Rainbow, prendendo la sua vita e rovesciandogliela come un calzino. Gettando all’aria tutto ciò di cui si era convinto. Da allora sempre più pony avevano visto qualcosa in lui. Dash aveva aiutato gli altri ad andare oltre. A superare la barriera di arroganza e saccenza… Era riuscita a farlo brillare nel suo cielo. Non era più un semplice pegaso incapace di volare. Era diventato Icarus, in tutto e per tutto. Persino Celestia ne aveva riconosciuto il valore.

 

Cos’altro avrebbe potuto desiderare, allora?

 

Ruotò lo sguardo verso un comodino e vide appoggiato un ciondolo con una piuma blu.

 

Già…

Cos’altro avrebbe potuto desiderare?

Eppure… Ora le cose avevano iniziato a mutare.

 

Iris.

La piccola Iris.

Un cucciolo di pegaso come qualsiasi altro. Sorella. Figlia dei suoi genitori.

Un piccolo dono di felicità.

Involontariamente, si rituffò in ricordi lontani. Portò alla mente il volto in lacrime della madre, per tutte le brutte cose che erano successe a causa dei suoi problemi fisici e che tanto l’avevano fatta soffrire. Ripensò al padre, un tempo impettito e fiero, ora stanco e provato, obbligato a lavare piatti in una stamberga.

Rimembrò di lei. Della sua Dashie. Che da sempre le era stata vicino. Sempre. Non lo aveva abbandonato un solo istante. Dal primo giorno in cui si incontrarono dopo la gara… fino all’ultimo, splendido volo. In uno dei gesti più belli e sconsiderati che mai avrebbe potuto compiere.

Ma anni ed anni di isolamento… avevano lasciato cicatrici indelebili dentro di lui. Dash aveva avuto successo in ciò che nessuno era mai riuscito a fare: era riuscita a chiuder poco per volta quelle ferite.

Ma ora si erano inaspettatamente riaperte. Le complicazioni fisiche sempre più gravose… una rinnovata sensazione di abbandono… Sapeva benissimo che non era così. Ma certe cose non sono razionali. Non possono essere controllate. E non poté fare a meno di percepire su di sé il peso del periodo buio della sua vita. Di nuovo.

 

Iris. Era bastata lei.

Lei era esattamente ciò che serviva, per far tornare tutti a sorridere.

 

E così, pur consapevole di quanto fosse contorto il suo ragionamento, Icarus si sentì nuovamente… fuori posto.

Per un istante… pensò che ci fosse stato uno sbaglio. Che Iris sarebbe dovuta nascere al posto suo, molto tempo prima. Forse, così, avrebbe risparmiato sofferenze e sacrifici a tutti.

Semplicemente senza di lui.

 

    Scosse il capo.

“Finiamola con questi pensieri…”, disse a se stesso.

Ma non bastarono di certo due parole per auto convincersi, e il gracile pony grigio si sarebbe portato con sé tale disagio ancora per molto tempo.

Uscì, dirigendosi verso il limitare del tappeto nuvoloso esterno. Una Cirrus (la seconda di due esemplari sopravvissuti al fallimento aziendale di Daedalus) fluttuava dolcemente.

Attese. Qualche pegaso sarebbe di sicuro passato di lì, succedeva sempre.

E allora avrebbe chiesto un passaggio.

 

*** ***** ***

 

    La nuvola giunse alla tenuta Apple in poche decine di minuti, sospinta da un pegaso che Icarus ringraziò cortesemente.

Non era affatto sicuro che avrebbe trovato Rainbow… finché non vide la seconda Cirrus accanto al capanno di Applejack.

 

Si incupì.

 

Allora era andata davvero lì, senza dirgli nulla.

Si mosse lungo il sentiero, varcando la staccionata e avvicinandosi al caseggiato.

Cercò inizialmente di raggiungere la porta ma una serie di schiamazzi lontani attirò la sua attenzione. Il pony seguì i rumori, percorrendo il perimetro esterno della struttura e giungendo infine nel giardino sul retro. Si fermò.

 

Erano lì.

Applejack, i suoi famigliari, Sunshine, Rainbow. C’erano anche Pinkie e Fluttershy.

E la piccola Iris.

Ognuna era seduta sull’erba (a parte la puledra rosa, come al solito coinvolta in vani tentativi di strappare una risata al cucciolo) e parlava con tranquillità con qualcuno accanto.

Sembrava quasi una riunione tra parenti.

Icarus rimase ad osservarle in silenzio, senza farsi notare.

Fu Applejack a scorgerlo. Alzò una zampa e si sbracciò, facendogli cenno di avvicinarsi.

L’altro ubbidì, cercando di mascherare il muso lungo, senza grande successo.

Le amiche lo salutarono e poi riportarono l’attenzione su Iris.

“Ciao, Icarus”, lo accolse la madre.

“Ehy, Casanova”, disse l’ex pegaso, interrompendo la discussione che stava intrattenendo con Sunshine.

“Ciao… Dashie. Non ti ho… non ti ho sentito uscire, stamattina…”, dichiarò con un filo di voce, strofinandosi gli zoccoli tra loro.

L’amica si chinò verso il pony dai suoi stessi occhi, intenzionata a giocarci un po’. Iris era seduta sull’erba.

“Dormivi così profondamente…”, gli rispose, inscenando qualche buffa faccia verso la piccola. “Mi sembrava un peccato svegliarti”.

“Ah… o-ok…”.

“Spero ti vadano bene…”, si intromise timidamente Fluttershy, rivolgendosi alla madre.

Un piccolo cestino ricolmo di frutta e verdura era collocato accanto a lei.

“Certo, ti ringrazio molto. Sei davvero gentile. Mi serviranno per recuperare le forze”.

Icarus si rese conto di come fosse tornato ad isolarsi dal mondo, in quei giorni. Sua madre aveva avuto un figlio da poco e lui non si era quasi fatto vedere.

“Uh… mamma? Va tutto bene?”, chiese con impaccio.

“Certo. Perché?”.

“No è che… niente. Volevo solo saperlo. Non ci siamo… parlati molto… da…”.

“In effetti, Icarus”, continuò l’altra, “sei stato piuttosto assente, ultimamente. Forse dovrei essere io a chiederti se va tutto bene”.

Ci aveva preso. Non poteva nascondere ciò che provava, perlomeno non alla madre che lo aveva accudito per quasi vent’anni.

“Ah… no, io…”, cercò di spiegare. “Mi sono riposato un po’ più del solito”.

E poi c’era il problema della salute che peggiorava. Nemmeno lei lo sapeva.

“Capisco…”, ribatté, poco convinta.

 

    Un urlo lontano attirò la loro attenzione.

Applebloom si era affacciata dall’uscio del retro.

“Chi vuole la tortaaa?? È calda di forno!”, sbraitò allegramente.

“Torta??”, berciò Dash, sfregandosi gli zoccoli e leccandosi i baffi.

“Sììì! Tortaaa!!”, rincarò Pinkie, rimbalzando come una palla.

Tutti si incamminarono verso l’abitazione ma si fermarono ad osservare Icarus quando questo non mosse un passo.

“…tu non vieni?”, domandò Dash.

“Uhm… no, grazie. Non ho fame”, buttò lì.

Il volto di Sunshine parve illuminarsi. Forse poteva essere l’occasione per far recuperare il tempo perso ai due.

“Senti, Icarus”, gli propose. “Perché non rimani qui con Iris, mentre noi andiamo a mangiare un po’ di dolce?”.

“Cos…”.

“È un’idea fantasticherrima!!”, disse la puledra rosa, osservando entusiasta i volti dei presenti.

“M-ma io… io non so nulla su…”.

“Sa fare tutto lei, non devi preoccuparti”, lo tranquillizzò Sunshine, con un sorriso.

Icarus si voltò verso la sorellina. Era nella stessa posizione di prima: seduta sull’erba, con occhi curiosi.

“E… e se scappa via? Io non posso di certo correrle dietro!”.

“Ah!”, lo informò Applejack. “Questa nanetta non può fare più di cinque metri senza intralciarsi da sola. Ma poi le vedi quelle staccionate laggiù?”. Il puledro controllò il perimetro. “Circondano tutto il cortile. Dai, stai tranquillo! Passa un po’ di tempo con lo scricciolo! Non vi ho quasi mai visti insieme”.

Icarus cercò di nuovo di controbattere ma non seppe più che scusa inventarsi.

Le amiche ripresero a raggiungere l’ambita torta. Sunshine si congedò, lanciando al duo un ultimo sorriso.

Dopo pochi istanti rimasero soli in mezzo all’erba.

 

    Il fratello maggiore si girò lentamente.

L’altra era immobile. Non aveva mosso un muscolo. Puntava i suoi grossi occhi magenta nei profondi occhi viola.

Icarus provò un insolito imbarazzo.

Era solo un cucciolo, dopotutto, no?

Eppure… qualcosa lo metteva in evidente disagio.

Quella era Iris.

Sua sorella.

 

Il pegaso sano di una famiglia devastata dalla incurabile malattia del primogenito.

 

Un vortice di emozioni gli risalì prepotente, come un pugno al petto.

Si grattò la chioma. Scosse il capo. Cercò di distrarsi in qualsiasi modo… perché non voleva pensarci. Sentiva benissimo che, in mezzo al caotico turbinio di sensazioni… vi era qualcosa che non gli piaceva per niente.

 

Risentimento.

Invidia, forse?

Non poteva di certo…

 

…odiare la sua sorellina?

 

Iris inclinò leggermente il capo.

L’altro sbuffò dalle narici e assunse un’espressione vagamente scocciata: “..beh? Cosa sei, una statua?”.

La coppia rimase a fissarsi in silenzio, per lunghi attimi. Solo i crini e fili d’erba ondeggiavano flebilmente, mossi da un po’ d’aria.

Il pony dalla chioma viola si guardò attorno, sperando che vi fosse qualcuno.

No.

Erano davvero soli.

 

Improvvisamente, Iris venne attirata da una piccola farfalla e la sua curiosità esplose.

La seguì prima con lo sguardo. Poi, quando fu lontana da lui, non poté trattenersi ed iniziò a rincorrerla senza coordinazione. Sembrava un gatto impacciato che balzellava tra i ciuffi d’erba nel tentativo di afferrarla.

Una punta di tenerezza sopraggiunse nel cuore del puledro.

 

Ma poi avvenne: un’emozione ben più grande e ingestibile, che sommerse la precedente.

Iris era così agile. Perfettamente a suo agio nel proprio corpo.

Mentre saltellava, apriva sporadicamente le ali. L’altro notò come fossero belle, e anche ben sviluppate.

Un fisico sano.

Un volto vispo e vivace.

Lei aveva tutto.

Avrebbe dato tutto ciò che lui, a proprio avviso, mai sarebbe stato.

 

Nel cielo.

 

Nel vento.

 

Lei si sarebbe librata.

 

Sostenuta dai propri genitori.

Che finalmente avrebbero assaporato la gioia…

…di insegnare al proprio figlio cosa significasse…

 

…volare.

 

Iris, in quell’esatto momento, gli franò involontariamente addosso, distratta dall’insetto.

 

E Icarus agì in un modo che mai si sarebbe anche solo immaginato.

 

Senza pensare, con volto frustrato e seguendo solo un impeto di rabbia irrazionale… Icarus allontanò la sorellina con una zampata.

La piccola fece una giravolta all’indietro e atterrò col muso sull’erba.

Non si fece quasi nulla ma iniziò immediatamente a singhiozzare. I suoi occhi si inumidirono, quindi proruppe in un pianto infantile.

 

Icarus sgranò gli occhi. Si irrigidì.

Si ritrasse, portando la zampa al petto.

 

Non poteva crederci.

Cos’aveva appena fatto?

 

Un’emozione terribile gli esplose in corpo.

Una sensazione che lo fece star male. Malissimo. Peggio ancora della sfuriata di Dash, quando rispose male a Fluttershy la prima volta.

Osservò la sorellina in lacrime. Scosse il capo.

Non poteva averlo fatto.

 

Non poteva.

 

Dispiacere… paura… incredulità…

Provò tutto insieme, in una miscela emotiva devastante.

Tutto in pochissimi secondi.

 

Allungò una zampa tremante verso il cucciolo, con volto assolutamente esterrefatto per il gesto… non tanto quello fisico… ma per il fatto che lo identificò come un rifiuto di sdegno nei confronti della piccola.

Un rumore dietro di lui lo fece voltare.

La porta della casa si stava aprendo.

Qualcuno, forse, aveva udito i pianti e stava sopraggiungendo per controllare.

E Icarus fece la seconda cosa che mai si sarebbe immaginato.

 

Colto dal panico, improvvisamente soverchiato dalla sensazione di inadeguatezza verso se stesso… Icarus… si alzò. E accelerò il passo per allontanarsi.

 

Non seppe perché lo fece.

Qualcosa, dentro, lo spinse a fuggire da quella situazione.

 

Tutto ciò che riteneva essere.

 

Tutto ciò che pensava di aver imparato in quel periodo…

…gli crollò addosso all’improvviso.

 

Il pegaso che aveva imparato a volare anche senz’ali… era precipitato al suolo a peso morto.

Questo era ciò che pensò, in quell’istante.

 

    Corse via, zoppicando. Più veloce che poteva.

Ignorò i segnali di dolore al corpo. Ignorò cosa avrebbero pensato di lui.

Sapeva che la sorellina non sarebbe rimasta sola, col sopraggiungere degli altri.

Ma non poteva.

Non ci sarebbe riuscito.

 

Fin dalla prima lettera che gli avevano mandato i genitori… lui aveva sempre distolto lo sguardo.

Mostrato un volto amareggiato.

Da sempre aveva evitato la questione.

Ora, però, gli era letteralmente cascata addosso.

E comprese come non fosse affatto preparato nell’affrontarla.

 

Comprese… come si ritenesse un vigliacco, per quanto avesse appena fatto.

Ancor più vigliacco per volersene andare. Per non affrontare la faccenda.

Poteva un fratello provare una simile sensazione d’odio per un cucciolo? Poteva essersi comportato in modo così impulsivo ed egoista, dopo tutto ciò che credeva di aver imparato?

 

E così, spaventato da se stesso, fuggì.

Non si voltò.

Imboccò lo sterrato e poi prese una stradina secondaria tra i meleti, sperando che non lo vedessero o che non lo seguissero.

 

Iniziò a respirare affannosamente. Si sforzò al di là delle proprie capacità.

Il corpo gli inviò chiari segnali di allarma ma, agitato e con l’adrenalina a mille, quasi non li sentì.

Zoppicò tra le piante.

Vide i raggi del sole saettare tra le fronde, come abbaglianti puntini luminosi.

 

Scivolò.

Cadde su un ginocchio e percepì una fitta all’articolazione.

Strinse i denti. Si rimise sulle zampe. Continuò a trottare, più impacciato di prima.

Non gli importava.

 

Voleva solo andarsene.

Fuggire.

Come se, in quel modo, potesse lasciar dietro di sé ciò che aveva appena fatto.

Ciò in cui ancora non riusciva a credere.

 

Il pegaso, si ripeté, è precipitato al suolo.



Mi illudevo di aver imparato a volare anche senza ali.

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Capitolo 5
*** Stupido pegaso ***


    Icarus si sentì vagamente risollevato quando vide le case di Ponyville sbucare oltre alcuni cespugli.

Anche in mezzo all’affanno sapeva benissimo che, se fosse rimasto isolato e gli fosse successo qualcosa… non sarebbe affatto finita bene.

Il suo volto era leggermente imperlato di sudore e il cuore gli batteva all’impazzata.

Si mosse per raggiungere alcune case della periferia cittadina.

Solo in quel momento, consecutivo alla breve pausa, si rese conto di come ogni singola fibra del corpo gli dolesse. Solo in quel momento… capì di come fosse stato fortunato a non rompersi qualche osso durante la precedente caduta, in mezzo alla vegetazione.

Controllò la zampa e cercò di togliere la terra sul ginocchio, sperando non si notasse la sbucciatura.

Provò a calmarsi.

    Ancora non sapeva cosa pensare.

Cosa avrebbe fatto. Come avrebbe potuto ripresentarsi agli altri.

Cosa avrebbe detto loro…

 

Per un istante, non seppe quasi più chi fosse.

 

    Si fece coraggio.

Prese un lungo respiro e decise di camminare, sperando di dissimulare al meglio la sua spiacevole disavventura.

Doveva sedersi da qualche parte e aveva assoluto bisogno di bere un po’ d’acqua.

Non voleva tuttavia attirare troppa attenzione, quindi si tenne lontano dal centro e puntò ad un piccolo bar scarsamente frequentato.

Ridusse le distanze verso un tavolino con un ombrellone a spicchi bianchi e blu, come tanti ve n’erano accanto. Poca gente. Tanti posti liberi.

“Perfetto”, pensò.

Gli avventori erano esigui e il grosso dei pony camminava per le stradine, passeggiando o dirigendosi da qualche parte.

    Si avvicinò al tavolo, con volto un po’ guardingo. Prese posto, con il fiato ancora molto accelerato.

Si sedette, percependo alcune fitte ai muscoli. Strizzò gli occhi e tentò di nascondere l’espressione di sofferenza.

Una cameriera dal manto blu scuro, un unicorno, sopraggiunse in pochi secondi.

“Il signore desid… oh… ciao Icarus!”, lo salutò, dopo averlo riconosciuto.

Era quasi un anno che viveva nei dintorni di Ponyville e, anche grazie alla nomina di Celestia, quasi tutti avevano imparato a conoscerlo.

“…ciao, Moonlight”, gli rispose, cercando di mostrarsi sorridente.

“Cosa posso portarti?”.

“…ecco… senti… non… non voglio sembrarti uno scroccone se… cioè sono uscito di fretta e… e non ho soldi con me. Volevo sapere se potessi portarmi… anche solo un bicchiere d’acqua…”.

“Ma certo!”, lo rassicurò prontamente. “Anzi ti porto un’intera bottiglia, se vuoi!”.

“Beh… grazie, se non ti è di disturb…”.

“Arriva subito!”.

Moonlight tornò dopo pochi minuti, con il corno luminescente e bottiglia e bicchiere che fluttuavano magicamente a mezz’aria. Li posò cortesemente sul ripiano.

“Grazie, Moon…”.

“Figurati! Se c’è altro che posso fare per te, non esitare a chiederlo, ok?”, dichiarò con volto felice.

“Certo… ti ringrazio ancora…”.

Quando la cameriera si congedò, il puledro afferrò il contenitore e lo vuotò avidamente, tutto d’un fiato. Si sentì vagamente meglio.

Poggiò quindi le zampe sul tavolino e chiuse gli occhi, per riprendere fiato.

 

Il pensiero di quanto era appena successo.

Di ciò che aveva appena fatto.

 

La piccola Iris… allontanata da lui in quel modo.

Quel gesto di rifiuto.

Terribile.

 

Per un istante si immaginò come si sarebbe potuto sentire il cucciolo… respinto dal suo stesso fratello. Sperò che fosse davvero troppo piccola, per rendersene realmente conto.

 

E i suoi occhi umidi.

Quel pianto, non certo di dolore… Ma pur sempre il pianto della sorellina.

 

Icarus poggiò i gomiti e si strinse il volto tra gli zoccoli, all’altezza delle tempie.

I lunghi crini viola penzolarono sul ripiano.

Rimase fermo a lungo, completamente estraneo al mondo che aveva attorno.

 

Stava ancora metabolizzando quanto accaduto.

Ancora non riusciva a capacitarsene.

 

“Possibile…”, sussurrò, avvertendo una lancinante sensazione di dispiacere sopraggiungere, “…che… che io sia stata la causa… del primo pianto… della mia sorellina…? Come… come ho potuto…”.

 

“…Icarus?”, proruppe una vocina femminile nei dintorni.

 

    Il puledro tornò in sé e risollevò lo sguardo, cercando di ricomporsi.

Scrutò i dintorni, cercando di capire chi lo avesse chiamato.

Una coppia seduta ad un tavolo. Qualche passante. No, non erano loro.

Allora chi…

 

Poi la vide.

Dovette sforzarsi un attimo per riconoscerla.

Ma era lei.

 

    Una puledra viola chiaro si fece largo tra la calca di passanti, secondo una traiettoria dalla meta incerta. Possedeva una criniera dalle tonalità simili al pelo ma molto più scura e con qualche riflesso argentato. La capigliatura non era molto lunga, rispetto ad un pony qualsiasi, e un corno appuntito sbucava tra i crini.

I suoi occhi erano bianchissimi, del tutto vitrei e praticamente privi di pupilla.

“…Velvet??”, proruppe incredulo. Era cresciuta tantissimo, in un solo anno.

L’altra, udendo le sue parole, si accese di gioia.

“ICARUS!!”, strillò, trottando verso di lui.

L’amico scese rapidamente dalla sedia e spalancò le zampe, pronta a stritolarla con volto felicitante. L’unicorno, tuttavia, sbagliò traiettoria di mezzo metro e abbracciò calorosamente uno stallone di passaggio.

Il tizio si guardò attorno, con volto preoccupato, quindi diede qualche colpetto sulla testa del pony viola e farfugliò: “…uhhh… ciao?”.

“Velvet!”, la riprese l’altro, cingendola per le spalle e voltandola. “Sono qui!”.

La puledra gli saltò addosso dalla gioia e i due quasi caddero a terra.

“ICARUS!!... ICARUS!!”.

“S-sì, Velvet… sono io!”, balbettò emozionato, mentre l’altra lo stringeva fino a fargli male.

“Oh, Icarus…”, aggiunse, leggermente più calma, con occhi rivolti in un punto indefinito verso di lui. “Mi sei mancato… tantissimo…”.

Icarus venne travolto dall’ennesima emozione della giornata. La strinse a sé con forza, serrando le palpebre e senza nascondere la commozione.

“Anche… anche tu mi sei mancata un sacco, Velvet…”. La scostò quindi leggermente. Si sfregò una guancia col dorso di uno zoccolo e aggiunse: “…però pensavo si dicesse… tantissimissimo!”.

L’altra rise e poi lo abbracciò di nuovo. Ebbe quindi una sorta di folgorazione, come se qualcosa di bellissimo le fosse appena venuto alla mente.

“Aspetta, aspetta!!”, dichiarò con frenesia.

Icarus la osservò con curiosità.

Velvet frugò con la zampa in una piccola borsa a fianco della groppa. Nel farlo, fece cadere a terra un sacco di piccoli oggetti e chincaglierie, finché non trovò ciò che cercava.

Era la pietra celeste che si illuminava.

“Guarda!! Te la ricordi??”, domandò entusiasta, mostrandogliela.

Icarus rimase senza parole. Allungò una zampa sul monile e lo sfiorò appena.

“Tu… tu l’hai tenuta?”, le chiese titubante, fissandola negli occhi bianchi.

“Certo che sì!”, gli spiegò. “Non sai… non sai le volte che… che mi sono sentita sola. E… e l’ho accesa! Perché… mi ricordava te. Mi ricordava le notti passati all’ospedale… con… con te… con l’infermiera… con Crumple…”.

Le zampe dei due erano a stretto contatto e qualcosa o qualcuno ne approfittò.

Un piccolo topolino balzò sull’arto del suo vecchio padrone e gli corse sul corpo, prendendo poi a zampettargli in cerchio attorno al collo.

Icarus cadde preda di una risata incontenibile e per poco non rischiò di nuovo di cadere all’indietro.

“Per tutti i cirri!!”, esclamò. “Nicodemo!!”.

Il roditore continuò a correre come un matto da tutte le parti, rendendo di fatto impossibile anche solo accarezzarlo. Le risate del pegaso si levarono in ogni direzione e i passanti e gli avventori si girarono per osservare quella scena alquanto curiosa… per non dire assurda.

“Non ci posso credere!”, concluse, riprendendo fiato. “È… è bellissimo, Velvet! Ci siete tu, Nicodemo… Hai… hai ancora la pietra…”.

 

    Lo sguardo di Velvet mutò lentamente in dolcissimo sorriso, reso ancor più particolare dall’impossibilità nel poter osservare direttamente chi aveva di fronte.

“Sì, Icarus. Quella luce mi ha tenuto compagnia… non sai quante volte. Finché… finché ha smesso del tutto di brillare, per me”.

L’altro divenne serio: “…cosa… cosa intendi dire?”.

L’amico rimasse allibito di fronte alla naturalezza della puledra viola. Di fronte alla pacatezza nell’affermare quelle stesse parole.

“Ormai non vedo più niente, Icarus”.

Il pegaso spalancò leggermente la bocca: “C-come…?”.

Velvet gli sorrise ancor più intensamente: “Sono mesi, ormai, che è così. All’inizio distinguevo ancora le sagome e i colori. Potevo ancora vedere quella luce brillare”.

Icarus continuò ad ascoltarla in silenzio, ancora spiazzato dal modo gentile di parlare della sua amica.

“Un giorno, poi, si è spenta”.

“Io…”.

“Non è un problema, sai?”, ribatté, con espressione gioiosa. “Posso ancora sentirla”.

“…sentirla?”.

“Sì”, rispose, accendendola con un gesto. “Sento ciò che è. Ciò che mi comunica. Sento le emozioni legate ad essa. Capisco quando è accesa. Quando è spenta”.

Nicodemo tornò sulla sua spalla ed osservò il pony grigio.

“Quando quella luce è scomparsa”, continuò Velvet, portandosela d’innanzi agli occhi, “è come se si fosse spento l’ultimo muro che mi teneva separata da me stessa”.

L’altro scosse il capo: “…non capisco…”.

L’unicorno spense la pietra: “Quando certe cose le senti”, gli spiegò, “allora la luce non è che un abbaglio. Quando percepisci la sostanza del mondo che ti circonda… allora l’apparenza non conta più. E capisci che luce e tenebra non erano che le illusioni che ne nascondevano il contenuto…”.

L’interlocutore sgranò gli occhi.

Scrutò la puledra con intensità.

 

Un piccolo unicorno dagli occhi bianchi. Un topo su una spalla. Una pietra magica tra le zampe.

E un dolce sorriso disarmante sul volto.

In quel preciso istante… capì che quella non era più la stessa Velvet di un anno addietro. Qualcosa era cambiato. In lei. E una stranissima aura la accompagnava costantemente. Qualcosa di incomprensibile… di impalpabile e non meglio definito. Qualcosa che la rendeva a suo modo strana… e splendidamente unica.

 

“Ma non parliamo di me!”, disse infine, riponendo l’oggetto.

“Come sarebbe a dire?”, la schernì l’altro, concentrandosi sull’amica ritrovata. “Cioè… come… come hai fatto a sapere dove cercarmi? A giungere fin qui?”.

“Dopo che me ne sono andata dall’istituto, tornando a casa… sono successe alcune cose. Ho dovuto scontrarmi con una realtà… non proprio accomodante. Ma non ho mai smesso di pensare a te. Mai. Non parlo solo della pietra. Ma di tutte le cose che mi hai detto”.

Icarus inclinò il capo, cercando di capire a cosa si riferisse: “…uh, io dico tante cose. Spesso sono una marea di sciocchezze”.

Velvet divenne molto seria e gli diede un altro abbraccio, questa volta molto più lento e ponderato.

“No Icarus”, lo informò, con volto appena melanconico. “Tu non sai quanto mi sei stato d’aiuto in quei giorni…”.

“Io…”.

“I discorsi che facevi… le storie che mi raccontavi… Come quelle cose sui draghi. Suoi tuoi combattimenti… E poi quella sera. Che mai dimenticherò”.

“Intendi…”.

L’abbracciò si intensificò.

“La sera in cui Crumple… volò via”.

L’amico la cinse per le spalle e la osservò in volto: “Oh, Velvet… non volevo… prenderti in giro… è che…”.

“Non hai capito”, precisò contenta. “Sei riuscito a… a dirmi tutto ciò che andava detto. A farmi sentire un unicorno normale… a… a comunicarmi la realtà dell’istituto semplicemente facendo sembrare tutto… come una fiaba. Non mi hai mentito. Mi hai aiutato davvero a… a sentire. A vedere oltre le apparenze. Oltre quelle mura tristi dell’ospedale…”.

“…io… io avrei fatto questo?”.

“…sì, Icarus”.

    Dopo la delusione per la sorellina, il pegaso impiegò qualche minuto per assimilare del tutto la notizia. Era pienamente convinto di essere davvero un pessimo individuo. Non gli importava quanto avesse appena detto Velvet. Non riuscì pertanto a sentirsi particolarmente risollevato.

“Come ti dicevo”, riprese la giovane, “sono tornata a casa. Sono riuscita a superare i primi problemi. Non è stato facile”. Velvet lo scrollò con energia. “E ho sempre tenuto a mente te! Icarus! L’uccisore di draghi”.

Il pony grigio si sforzò di sorridere, anche se lei non avrebbe potuto vederlo.

L’altra continuò: “So che qualche volta mi avevi parlato del posto in cui vivevi… ma non me lo ricordavo. Poi, un giorno, la mamma ha letto sul Daily di una certa carica che la Principessa avrebbe elargito ad una coppia di pegasi. Mi fece sapere della cosa, dicendomi che sembrava quasi si riferisse a te. Sai… ho parlato tanto di te ai miei genitori”.

“Davvero?”.

“Sì! E così abbiamo scoperto che eri proprio tu! E la matta del meteo!”.

Icarus sorrise di nuovo.

“Ho implorato i miei di portarmi a Ponyville, per cercarti. Non ho nemmeno dovuto insistere tanto”.

“Quindi ci sono i tuoi genitori, qui?”.

“Sìsì! Guardati attorno. Vedi una puledra celeste, con la chioma color ruggine?”.

L’amico iniziò a scrutare i dintorni e, ad un tavolino poco distante, vide un unicorno che li osservava con sguardo addolcito. Era di fronte a due coppe di gelato e poggiava le guance sulle zampe, con i gomiti sulla superficie del ripiano. Lo salutò da lontano, semplicemente muovendo la zampa.

Icarus rispose con un gesto simile, visibilmente imbarazzato.

“Credo… di averla vista”.

 

Velvet gli afferrò gli zoccoli e li strinse tra i suoi, con un sorriso a mille denti: “E tu, Icarus! Dimmi di te?? Cos’è successo da quando sei uscito dall’Emerald Lake?? Sei tornato a volare?”.

Il puledro si bloccò, non sapendo esattamente cosa risponderle. L’altra attese pazientemente la risposta, senza scomporsi.

“Ecco…”.

“Dai, dimmi la verità. Non indorarmi la pillola. Qualsiasi cosa sia successa… dimmela e basta!”, lo incoraggiò, solare in modo quasi innaturale.

Il pegaso raccolse coraggio e si decise ad essere completamente sincero con lei: “No, Velvet. Non ha funzionato”.

“Ah!”, esclamò, con una nota di trepidazione. “Questo vuol dire che faremo come avevi detto tu!”.

Icarus non comprese la reazione della puledra: “S-sarebbe, scusa?”.

“Massì, dai! Non ti ricordi?? Tu sulla carrozzina e io che ti spingo, senza vedere dove stiamo andando! Tu che mi dici svolta a sinistra, frena, accelera, attenta alla vecchietta!”.

L’altro non si capacitò dell’allegria che Velvet riusciva a mettere in ogni cosa. Si sarebbe aspettato i soliti commenti dispiaciuti e invece… Non solo aveva perso la vista ma sembrava che ogni cosa, per lei, fosse motivo di gioco e di felicità.

“Beh… sì… ma ti avverto che io voglio andare veloce”, precisò il pegaso dagli occhi viola, ritrovando un po’ della sua tipica arroganza e voglia di scherzare. “Quindi dovrai essere più che rapida con quelle gambette!”.

“Oh, guarda, andiamo presso qualche discesa scoscesa e vedi come filiamo giù come un treno!”.

“Guarda che sono un tipo delicato. Mi rompo facilmente”.

“Vorrà dire che, quando sarai ingessato sul lettino di una clinica, useremo quello come skateboard gigante. Giù per le scale dell’ospedale!”.

Icarus rise: “Me lo meriterei proprio!”.

“In che senso?”.

Il puledro si incupì e tornò serio, ripensando a quanto era da poco successo.

Fece un sospiro e si massaggiò il dorso del collo.

“Non… non vado molto fiero…”, le spiegò, “…di alcune cose che ho fatto ultimamente”.

“Hai portato una tempesta in una clinica per malati psicolabili, stavolta?”.

“No, Velvet”, le confessò tristemente. “Non sto scherzando. Ho fatto una cosa… davvero molto brutta”.

L’altra portò le zampe dell’amico al proprio petto e gli sorrise per l’ennesima volta.

 

Icarus faticò ad accettare il comportamento della giovanissima puledra: così innocente, allegro, comprensivo. Sarà stata piccola ma, nel corso di quell’anno, era maturata in modo impressionante. Vedendola, chiunque l’avrebbe scambiata per una puledrina in grado di giocare con le bambole o poco altro.

Velvet era diversa. Molto diversa.

 

“Se vuoi parlare, io ti ascolto. E non ti giudicherò”. È tutto ciò che gli disse.

 

L’amico grigio sembrò riportare alla memoria i ricordi di quel pomeriggio e il suo volto si contrasse in una leggera smorfia di dispiacere.

“…ho fatto… del male a qualcuno a me molto… vicino…”.

“L’hai ferito?”.

“Sì… Intendo… non fisicamente. Figurati. Persino una vecchietta potrebbe suonarmele. È già successo…”.

Velvet, di punto in bianco, mollò la presa sulle sue zampe e mise gli zoccoli ai fianchi. Gonfiò le guance, in un’espressione rabbiosa, quindi sentenziò: “Icarus!! Non mi piace quando qualcuno mi mente! Specialmente se quel qualcuno sei tu!”.

“Cosa?? Ma guarda che è successo davv…”.

“AH!”, lo zittì, mettendosi quindi a zampe conserte e con sguardo ammonitore (pur rimanendo rivolto ad una zona imprecisa). “Nonono. Tu menti. Tu non puoi fare del male a qualcuno”.

“Invece l’ho fatto…”.

“No. Mi hai appena detto che hai fatto del male a qualcuno. Quindi non puoi averlo fatto”.

Ok. Velvet era pazza.

“Ma che stai dicendo?”, protestò.

L’unicorno si avvicinò a lui: “Io ti conosco. E sei hai capito di aver fatto del male a qualcuno… sono sicura che rimedierai. E che quel male verrà sostituito da qualcosa di bellissimo”.

“Ma…”.

“Senti, Icarus”, tagliò corto. “Non mi freghi. Per quanto ti sforzi di apparire arrogante, saccente, testardo… tu possiedi un animo buono”.

“Animo buono?”, domandò spiazzato.

Velvet tornò a sorridergli: “Sì. Al mondo ognuno è libero di fare quello che vuole. Tu, Icarus… sei uno di quelli che può fare soltanto una cosa. È la tua caratteristica. La tua condanna”.

L’interlocutrice gli sfiorò il petto all’altezza del cuore: “Tu farai la cosa giusta. L’hai sempre fatto. Sempre lo farai. Non puoi cambiare. Potrai sbagliare. Potrai pensare cose brutte. Su di te. Sugli altri. Ma poi… tornerai sempre sulla tua strada. Rimedierai ai tuoi errori. Questo fanno gli animi buoni. Sbagliano. Soffrono. Si interrogano. Cercano un rimedio e una risposta. E, proprio per questo… finiranno per trovarla”.

 

Il pony dalle ossa di caramello la osservò intensamente.

Non poteva credere a ciò che gli aveva appena detto. Erano parole bellissime, come raramente gli erano state rivolte.

“…non so come fai a dirlo. Non mi conosci poi così bene…”, commentò infine.

“Guarda!”, replicò con foga. “Se mi sbaglio, prometto che mi mangio la pietra che si illumina e tingo Nicodemo di rosso vergogna!”.

Il topolino continuava ad annuire ad ogni frase della padroncina, finché udì quelle ultime parole e trasalì in uno squittio terrorizzato.

“Ok… vado a preparare la tinta, allora…”, la schernì, cercando di sdrammatizzare.

 

    “E tua moglie??”, domandò a quel punto Velvet, cambiando discordo.

“Dashie?”.

“Sì! La matta del meteo! Come sta? È ancora così stupida da stare con un tizio come te?”.

“…a quanto pare”, rispose.

“E fa sempre piovere in giro?”.

“Lei… lei, sì. Diciamo che, in un modo o nell’altro, continua sempre a far piovere in giro”.

“Icarus!”, lo riprese, in modo simile a prima. “Non me la conti di nuovo giusta! Guarda che se mi arrabbio ti metto le zampe addosso, non mi faccio problemi, eh!!”, e gli diede un colpo ad una spalla.

“Aò!”, si lamentò, massaggiandosi la zona colpita. “Ma come cavolo fai a vedermi?? Hai un sensore?”.

Velvet ridacchiò: si portò uno zoccolo davanti agli occhi e poi lo ruotò verso di lui, come a dire “guarda che ti osservo da vicino”.

“Va bene, va bene. Ti dirò tutto”.

“Mh. Così va meglio!”.

Questa volta fu Icarus a sorriderle: “Ma è una storia un po’ lunga”.

“Oh, ne ho di tempo per stare a sentirti!”.

“Va bene. Ma è una storia particolare. Ti ricordi quando ti raccontavo quelle cose fiabesche, all’Emerald Lake?”.

“Certo!”.

 

“Bene. Perché questa… è una favola molto singolare…”.

 

*** ***** ***

 

    Qualcuno bussò alla porta.

La padrona di casa chiese cortesemente all’amico di andare a vedere chi fosse.

Quando Spike spalancò l’uscio, vide Rainbow Dash di fronte a sé, con sguardo vagamente irrequieto.

“Oh. Ciao RD”, la salutò.

“Ciao Spike”, gli rispose, cercando di sbirciare all’interno.

Il drago sembrò non capire: “Stai… uh… stai bene? Tutto ok?”.

“Sì, tutto a posto”, dichiarò distrattamente. “Hai… avete visto Icarus?”.

“Mhh. No. Perché?”.

“Non l’ha visto nemmeno Twilight?”.

“…non… saprei…”, farfugliò continuando a non comprendere il suo comportamento.

“Puoi chiederglielo?”.

“Uhm… perché invece non entri? Così glielo chiedi direttamente tu?”.

L’altra non si fece pregare e, non appena mise zoccolo sul pavimento, iniziò a controllare gli angoli della libreria, aspettandosi di trovarlo lì.

Spike chiuse la porta e sollevò gli occhi al cielo. Non era la prima volta che i due litigavano. Pensava stesse accadendo di nuovo.

Il problema era che, puntualmente, le cose andavano a finire male, con danni collaterali (per chi stava attorno alla coppia) decisamente imprevedibili.

L’ex pegaso, tuttavia, trovò soltanto l’unicorno viola, intenta a scartabellare qualche volume.

“Ciao, Rainbow Dash!”, la accolse con gioia. “Posso esserti d’aiuto?”.

“Sì. Uh, sì. Puoi”, rispose, ficcanasando in ogni anfratto, persino sotto le scrivanie.

“Mhh. Stai… cercando… qualcosa?”, chiese preoccupata.

“Già. Una testa di legno”.

“Oh no, Dash!”, sbottò, portandosi le zampe alla fronte. “Non di nuovo, ti prego! L’ultima volta ho dovuto disincantare mezza casa, dopo il vostro passaggio!”.

“Non è colpa mia se i pegasi testardi hanno l’abitudine di nascondersi qui da te. MI HAI SENTITO??”, ruggì, pensando fosse davvero lì da lei e che potesse udirla.

“Dash!”, ribadì. “Ti assicuro che non è qui!”.

“L’hai nascosto dentro qualche botola? Lo hai reso invisibile con un incantesimo? Perché se è così guarda che io…”.

Sparkle perse la pazienza e serrò gli zoccoli attorno alle guance blu. Si portò muso a muso con lei, con volto ammonitore.

“Dash… Icarus. Non. È. Qui. Hai capito?”.

L’amica si guardò attorno un po’ spaesata e, con le labbra stritolate dalla presa dell’unicorno viola, rispose: “…fhì”.

“Sia lode a Celestia…”, e la rilasciò.

Rainbow si massaggiò la mascella, quindi le diede le spalle: “…allora mi toccherà cercarlo da qualche altra parte. Potrebbe anche essersi nascosto in un cassonetto. Anzi no. È troppo fanatico della pulizia per poter…”.

“Ma cos’è successo, stavolta?”.

La puledra dalla chioma arcobaleno rispose con scarsa energia: “Guarda Twily… Questa volta non l’ho capita davvero”.

“Avete nuovamente bisticciato? Per cosa? Avevate gusti differenti sul colore delle tendine?”.

Spike, intanto, prese a ramazzare in giro.

“No, stavolta non abbiamo litigato”.

“Davvero?”.

“Te lo assicuro”, puntualizzò Dash, prendendo a raccontare. “Eravamo da AJ, da Sunshine per la precisione. Stavamo facendo le stupide con Iris e poi è arrivato lui”.

“…e?”.

“E niente. Lo abbiamo salutato. E, te lo giuro sui miei sei colori che ho in testa, lo sapevo che si teneva qualcosa dentro da un pezzo. Oh, se lo sapevo!”.

“Sì. Anche io avevo notato qualcosa…”.

“Qualcosa??”, berciò. “È da quando Daedalus ha iniziato a mandar lettere che era così… nervoso. Taciturno”.

“Beh… posso immaginare il perché…”.

“Sì, anche io. Ma lo conosco. So come fa lui… stupido pegaso. Si tiene tutto dentro. Fa il bel tenebroso. Accumula, accumula… finché sbotta e fa una sciocchezza. Poi si ravvede e cerca di rimediare”.

Spike smise per un istante di spazzare e alzò un sopracciglio: “…bel tenebroso?”.

“Ma cos’è successo, esattamente?”, ribadì Twilight, capendoci ben poco.

Rainbow scosse il capo, con volto tutt’altro che sereno. Abbassò lo sguardo.

“Lo… lo abbiamo lasciato con la sorellina e… siamo andate a mangiare della torta con Sunshine, in cucina. Ad un certo punto abbiamo sentito la piccola piangere. Siamo uscite e… e lei era lì. In mezzo all’erba, con gli occhi lucidi e il singhiozzo per le lacrime”.

“…cosa?”.

“Già. Sunshine e le altre sono andate da lei. Io sono corsa a cercare Icarus, invece. L’ho visto imboccare il sentiero per Ponyville e gli son corsa dietro. Ma non l’ho trovato… Forse si era infilato tra i meleti… non saprei”.

Twilight si grattò la chioma: “…non… non capisco. Cosa può essere accaduto?”.

“Io… io non lo so, Twily”, rispose dispiaciuta. “Non ne ho idea. Può anche essere… che Icarus abbia reagito male?”.

“Con Iris, intendi? Non credo… Insomma, non penso che lui potrebbe…”.

“Icarus non farebbe del male ad anima viva. Lo conosco fin troppo bene. Ma è un tipo impulsivo. E che si fa… che si causa un sacco di sofferenze con i suoi stessi ragionamenti. E questa cosa andava avanti da settimane. Non so se… se abbia sbottato. Se si sia… cioè… non lo so, davvero…”.

“Capisco…”.

Rainbow alzò lo sguardo verso l’amica e l’unicorno si rese conto di quanto fosse davvero preoccupata.

“Però… non sappiamo dove sia, Twilight… Lui… Sai che problemi ha al fisico. Se quel… quello stupido pegaso testardo si agita troppo…”, farfugliò, con voce appena tremante. “Ora lo stiamo cercando. Di solito viene qui, nella tua biblioteca. Ma… ma questa volta…”.

“Ti assicuro che non l’ho visto per tutto il giorno, Dash…”.

“Sì ho capito…”, concluse mollemente l’ospite, incupendosi ancora di più. “Vorrei solo… sapere se sta bene. Alla fine… non è successo niente. Qualsiasi cosa possa aver fatto… non c’è problema. Non era il caso di… di… andar via in quel modo. Possiamo risolvere tutto parlandone…”.

“Doveva essere davvero… sconvolto, forse…”.

“Già… Ha abbastanza problemi di suo… Perché continua ancora a non voler chiedere aiuto, quando qualcosa lo fa stare in pensiero…? Perché è così… così testardo…?”.

Sparkle sospirò: “Forse… sono gli acciacchi del suo passato, che ancora si fanno sentire…”.

“Sì… però…”.

“Senti. Non preoccuparti. Chiederò ad alcuni abitanti di darci una zampa a cercarlo, ok?”.

La puledra blu sorrise debolmente: “Grazie, Twily… Mi faresti un enorme piacere. AJ e gli altri stanno già controllando i dintorni della fattoria”.

L’unicorno cercò di rasserenarla un po’: “Dai! Stai tranquilla. Icarus è un testone ma non è il tipo da farci stare in ansia. Non troppo a lungo, almeno…”.

“Sì. Sì, lo so… Ho solo paura… che… che possa essersi fatto male. O… o che…”.

Il respiro dell’ex pegaso iniziò ad accelerare. Sparkle le poggiò le zampe sulle spalle.

“Ehy…”, la scosse. “Ora non fare come lui, fasciandoti la testa prima del tempo…”.

L’amica parve tranquillizzarsi un po’.

“O-ok. Hai ragione”.

 

    Le due si incamminarono verso l’uscio, quando Rainbow si bloccò all’improvviso. Lo sguardo le era caduto casualmente su un oggetto molto… particolare.

Twilight si voltò per capire meglio: “Dash?”.

L’ex pegaso stava osservando intensamente un punto preciso della biblioteca. Da lì intuì cosa potesse essere.

Rainbow sfoggiò un viso piuttosto inespressivo: “…vedo che… che ce l’hai ancora”.

“Ti riferisci… a…”.

“Quel simbolo sulla copertina”, continuò con lentezza. “Non credo che… che potrò mai scordarmelo. Mi rimanda ad un sacco di… di emozioni…”.

L’unicorno non disse nulla.

Spike, facendo finta di nulla, si spostò con la scopa in un’altra stanza. Non voleva essere in mezzo a simili discorsi.

“Già…” disse Sparkle. “Un… un libro davvero… potente. Lo tengo lì. Ma forse… forse dovrei metterlo via”.

“Perché?”.

“Anche a me rimanda ad un sacco di emozioni…”.

La puledra blu sembrò sorpresa: “Davvero? Come mai?”.

Questa volta fu l’unicorno ad intristirsi. Puntò il muso verso il pavimento, facendo poi saettare lo sguardo tra il parquet e la giovane amica.

“È che… ecco…”.

Dash mostrò un volto interrogativo.

Twilight decise di dirle la verità: “Il fatto è che… insomma… un po’ mi sento responsabile anche io… per quello che è accaduto…”.

“…come, scusa?”.

“Intendo… Se… se io non ti avessi parlato del libro. Se non ti avessi spiegato come funziona. Se non ti avessi… enunciato le sue potenzialità… magari… magari tu…”.

Rainbow tornò ad arrabbiarsi: “Oh, ti prego! Anche tu no! Non farmi questo!”.

“Ma io…”.

“Twilight!!”, protestò, visibilmente stufa. “Sono stanca di questa solfa! C’è già Icarus che, nonostante tutto, continua a sentirsi in colpa per quanto successo! È una faccenda trita e ritrita!”.

“Lo so, lo so, Dash. Non fraintendermi. Non voglio fare del vittimismo gratuito. Era solo per dirti… che…”. L’unicorno si sforzò di parlare chiaramente, anche se con visibile disagio. “…che certe cose… insomma… puoi accettarle. Razionalmente, dico. Ma… in cuor tuo… ti rimarrà sempre la sensazione di… di aver contribuito a… ad un sacrificio…”.

“E quindi?”.

“Niente… cercavo solo di spiegarti che… anche se Icarus può aver ormai accettato ciò che tu hai fatto per lui… dentro di sé, inconsciamente, si sentirà sempre in dovere di qualcosa. Credo sia normale… Così come io so benissimo che non è stata una mia diretta responsabilità sulle tue scelte. Ma non posso… non posso negare che, in un modo o nell’altro… cioè… Capisci cosa cerco di dirti?”.

Rainbow sbuffò e ammise: “…sì. Sì, capisco…”.

 

Ci fu un attimo di stallo, in cui il duo rimase in muto e reciproco silenzio.

Il pony viola si decise a riprendere il cammino verso l’uscio ma una zampa di Rainbow la fermò per un’ultima volta.

“Twily…”, le sussurrò, con volto molto serio.

L’altra la fissò intensamente: “…dimmi”.

“Sii sincera. Da amica ad amica, intendo…”.

“…ok…”, commentò, iniziando a preoccuparsi un po’.

“Tu… tu cosa pensi… di quello che ho fatto?”.

“…in che senso?”.

Passarono alcuni secondi.

“…pensi che abbia fatto la cosa giusta?”.

“Non puoi chiedermelo, Dash. Lo sai”.

L’altra non disse nulla.

“Tu pensi di aver fatto la cosa giusta?”, ribatté l’incantatrice.

“…sì. Per quanto io rimpianga il volo… per quanto io… certe volte… punti lo sguardo al cielo azzurro… e…”. L’ex pegaso diresse lo sguardo verso la volta celeste, attraverso una finestra lì accanto. “…e per quanto certe volte io… io mi senta… vuota… segregata a terra… Allora arriva lui. E… e quello che mi fa più male… è che certe volte sembra non rendersi conto di quanto lui sia importante per me. Sembra quasi non credere come lui… sia davvero le mie ali, Twilight. E che vorrei solo… vederlo un po’ felice…”.

“Allora ti sei risposta da sola, Rainbow”, concluse sorridendole. “E per Icarus… temo sia sempre il suo passato… che torna a tormentarlo. Ma ci sei tu. Con te lui riesce a sentirsi meglio. È lampante. Sei in grado di fargli cambiare umore ad un batter di zoccolo… E non è poco, con una testa di legno come lui!”.

“Già…”.

    La coppia tornò quindi a concentrarsi verso il libro sullo scaffale.

“Per quanto concerne quel tomo, invece…”, riprese Sparkle, decisa però a non menarla troppo per le lunghe. “I sacrifici… sono potenti chiavi d’incantamento. Sono strumenti pericolosi”.

“Icarus mi disse… che nulla di buono può arrivare da un Sacrificet…”.

“Aveva ragione… Cioè… puoi usare un sacrificio per fare del bene. Ma richiede sempre un prezzo. I sacrifici sono tra i catalizzatori magici più potenti. Più grande è il sacrificio… più grande è il risultato”.

“Fino ad un certo punto. Icarus ha volato per un’ora soltanto. E il sacrificio sappiamo tutti cos’è stato”.

“Sì. Ma… vedi… I sacrifici non si basano solo su ciò che viene materialmente donato. Vengono amplificati delle emozioni. Dalle sensazioni. Da ciò a cui teniamo. Rinunciare ad un palazzo d’oro serve a nulla se non ce ne importa. È questo il meccanismo dei Sacrificet”.

“Quindi, secondo te… le mie ali sono state sufficienti a farlo volare per un’ora soltanto…?”.

“No, Dashie. Il fatto è che nemmeno io conosco appieno cosa si celi dietro questi incantesimi. Molte cose sono custodite all’interno dei Sacrificet… e solamente i sacrifici più grandiosi possono apportare risultati degni di un miracolo. Qualcosa che nessuno di noi potrà mai fare, nemmeno volendolo. Per il semplice fatto che non disponiamo dei poteri per metterli in atto”.

“Quindi… neanche avessi voluto… avrei potuto…”.

“No, Rainbow. È inutile che ti ci arrovelli. Non avresti mai potuto farlo volare per tutta la vita. Sarebbe stato un sacrificio troppo grande. Avrebbe richiesto un potere che io stessa nemmeno conosco”.

L’amica si sentì vagamente risollevata.

“Dai, ora basta ciance”, la esortò l’unicorno. “Andiamo a cercarlo”.

 

    Twilight lasciò la casa in custodia a Spike e accompagnò la puledra blu all’esterno.

Non era il caso di tergiversare oltre e l’unica cosa che volevano era scoprire dove fosse Icarus e se stesse bene.

“Allora! Da dove vogliamo iniz…”.

Un poderoso battito d’ali sopraggiunse alle loro spalle. Le criniere vennero scompigliate da una folata di vento.

Si voltarono. Twilight spalancò la bocca e Dash sbarrò lo sguardo.

Il nuovo arrivato scrutò attentamente l’ex pegaso.

Poi, con volto davvero sorpreso, il nuovo arrivato dichiarò: “…allora… è vero, Dash”.

 

“….Gilda??”, sbottò la puledra.

 

*** ***** ***

 

    Era ormai notte fonda quando Icarus decise di ripresentarsi alla tenuta Apple.

Giunse a piedi.

Non ebbe memoria di un giorno in cui si sentì così stanco e a pezzi. Sarebbe potuto crollare da un momento all’altro. Ma tenne duro.

Accanto a lui vi era una giovane puledra dagli occhi vitrei, con un tenue bagliore che prorompeva dal corno e che impediva al pegaso di andare a sbattere contro qualche pianta o di inciampare nelle sterpaglie a terra. A lei, invece, non cambiava assolutamente nulla.

La casa si stagliava poco distante da loro, con uno spicchio di luna sullo sfondo, parzialmente occultato dalle nubi. Il frinire dei grilli faceva da colonna sonora.

Dietro di loro, a svariati metri di distanza, la madre attendeva il ritorno della figlia dal corno luminoso.

“Grazie per avermi accompagnato fin qui, Velvet…”, le disse con sentimento.

“Lo dicevo io che avresti fatto la cosa giusta!”.

“La cosa giusta sarebbe andare a dormire. E sappi che vorrei chiamarti nana, come una volta. Sia dannato il metabolismo di crescita”.

L’unicorno sbadigliò sguaiatamente: “Tranquillo, ammazzadraghi. Tu stai qui al buio e io me ne vado a nanna al calduccio”.

“Brava”.

Il pony grigio afferrò l’amica per le spalle e la ruotò in direzione della madre.

“Sempre dritto”, la informò.

“Che prove ho che non mi hai puntata verso una pozza di fango…? O un platano?”.

“Non eri tu quella con il radar anti-menzogne?”.

“Mh. Per ‘sta volta ti credo”, concluse, girandosi di nuovo e dandogli un abbraccio, come gesto di saluto.

“…sono… sono stata contentissimissima di rivederti, Icarus…”, gli sussurrò ad un orecchio.

“Anche io. Pseudonana”.

Si separarono.

“Mi raccomando”, puntualizzò la puledra, prima di congedarsi. “I prossimi giorni dobbiamo vederci e recuperare un anno di assenza, ok?”.

“Contaci”.

“Ciao, faccia imbronciata”.

“Ciao, domatrice di topi”.

Lo scalpiccio degli zoccoli divenne lontano, finché Icarus capì che era rimasto solo.

 

    Scrutò il caseggiato. Era tutto tranquillo. Le luci spente.

Si portò all’ingresso sul retro, sperando che Winona non fosse nei paraggi.

Si avvicinò alla porta, quindi scostò un asse del muro e si impadronì della chiave d’ingresso. Era uno dei pochi a sapere della cosa, semplicemente perché madre e sorella abitavano ormai lì. Applejack trovò opportuno informarlo.

Cercò di fare più piano possibile. Introdusse l’oggetto nella serratura e la fece scattare.

Si portò quindi all’interno, sperando che nessuno fosse sveglio o lo sentisse. Avanzò nell’oscurità. Con gli occhi abituati al buio, non fu nemmeno troppo difficile.

Salì quindi le scale, per raggiungere l’ultimo piano. I gradini scricchiolarono alcune volte ma nessuno parve notare la cosa e il profondo russare di Big Mac, da qualche parte nei corridoi, creava un diversivo perfetto per mascherare i suoi movimenti.

    Terminata la scalata, con non poca fatica, si trovò d’innanzi alla porta socchiusa della camera della madre, che era poi la stessa della sorellina. Buttò un occhio all’interno. Tutto sembrava tranquillo.

Accese la luce nel corridoio, in modo da poter vedere nella stanza e senza correre il rischio di svegliarne gli occupanti.

Notò il letto, in cui Sunshine dormiva profondamente. Accanto vi era il giaciglio con le barriere di protezione, in cui si trovava invece la piccola Iris.

Icarus avvertì un tuffo al cuore. Il ricordo del pomeriggio fece ritorno prepotente.

Il modo con cui aveva reagito. Con cui l’aveva trattata.

Scosse il capo.

Basta.

Basta con quei pensieri.

Non era di certo giunto fin lì per quello.

Non se la sentì tuttavia di svegliare la madre o chiunque altro. Nonostante tutto, ancora non si sentiva pronto per affrontare la questione. Non era passato nemmeno un giorno.

Ma una cosa… poteva farla.

Doveva farla.

 

    Entrò lentamente nella stanza.

Si avvicinò al lettino e la vide.

Il piccolo pegaso dalla chioma ramata dormiva accoccolato su se stesso.

In quel preciso istante… capì.

Capì quali fossero le emozioni che gli turbinavano in corpo, ogni volta che la vedeva.

Risentimento.

Invidia

Sì. Anche odio.

Ma non per lei.

Perché la sensazione di amore e tenerezza che percepì chiaramente in quel momento fece svanire ogni singolo dubbio.

Icarus allungò le zampe verso il cucciolo.

 

L’altra spalancò gli occhi, un istante prima che la toccasse.

 

Il fratello impietrì.

Ma Iris non fece assolutamente nulla e rimase in silenzio ad osservarlo.

Il cuore di Icarus batteva forte. Dannatamente forte.

Raccolse il coraggio. Respirò a fondo. E la afferrò delicatamente.

La sorellina si lasciò manovrare senza emettere un fiato.

    Icarus se la portò in grembo e si sedette.

I due si osservarono intensamente e il pegaso venne travolto da un’emozione indescrivibile.

Mai si sarebbe immaginato di arrivare a detestare e amare così tanto qualcuno, nello stesso giorno.

E in quel momento… non vi era traccia di brutte sensazioni.

Soltanto un caldissimo calore nel petto, proprio dove Iris appoggiò le zampine per sorreggersi.

 

    Icarus le carezzò il capo, con una delicatezza spiazzante.

Ancora non poteva credere al modo in cui l’aveva trattata, giusto alcune ore prima. Ma era passato.

Ora Iris era tra le sue zampe, senza schiodargli gli occhi di dosso.

Occhi che erano quasi identici a quelli di Dash. Il muso, invece, gli parve vagamente imbronciato e la cosa lo fece quasi ridere. Sangue del sue sangue, in tutto e per tutto.

Mansueta.

Dolce.

Un viso dai lineamenti morbidi e distinti.

 

Il labbro del pegaso dalla chioma viola tremò.

Sbatté più volte le palpebre.

Gli occhi divennero lucidi.

Non capì perché. E, proprio come aveva fatto raramente in passato, decise di non pensare. Si lasciò semplicemente guidare dalle emozioni.

 

Strinse a sé la sorella, lasciando che una piccola goccia di liquido gli sgorgasse da un angolo delle palpebre serrate.

 

“Mi dispiace… mi dispiace tantissimo, piccola…”, sussurrò.

Percepì il piccolo corpicino tra le sue zampe.

Il suo respiro. Il cuore. Minuto ma forte.

Strofinò il capo contro il suo.

 

La baciò con tenerezza sulla fronte.

 

“Mi spiace per quello che ho fatto…”, ripeté, sorridendo e piangendo allo stesso tempo.

“Tutti… tutti devono sempre perdonare questa testa di legno… che fa un sacco di cose stupide… E ora dovrai farlo anche tu…”.

E non erano semplici parole.

 

In quel momento capì di reggere tra gli zoccoli un bene prezioso.

 

Un pony unico e speciale, che sapeva avrebbe donato qualcosa di bello, nella vita sua e dei suoi genitori.

 

Altre lacrime gli uscirono dagli occhi.

 

La strinse di nuovo a sé, ondeggiando debolmente su se stesso e sfregandole uno zoccolo sulla schiena.

Passarono i minuti e gli occhi della sorellina si fecero pesanti.

Icarus sentì chiaramente i muscoli del piccolo pegaso rilassarsi.

Il cucciolo chinò il capo e lo poggiò contro il suo petto.

 

Il pegaso dalle ossa di caramello pianse.

In silenzio.

Il dolore per l’accaduto era ancora forte ma la dolcezza e l’affetto per Iris lo stavano cacciando via, come un torrente in piena.

 

“Ti prometto”, affermò con convinzione il fratello, con le guance solcate dalle lacrime, “che farò ogni cosa… ogni cosa… pur di assicurarmi che tu abbia tutto ciò che io mai ho potuto avere. Se io non potrò volare… lo farai tu, per me. Finché avrò forza in corpo… finché non mi si sbricioleranno tutte le ossa… farò in modo che tu possa essere fiera di me, piccola”.

Puntò quindi lo sguardo prima sulla madre addormentata e poi alla luna attraverso la finestra.

“Anzi… farò di tutto… affinché chi mi ha voluto bene… possa volare serenamente con te. Non importa quanto tempo mi rimarrà. Non ha alcuna importanza”.

 

“Mi hanno detto che non sarei durato più di qualche mese. E sono ancora qui, dopo anni”.

 

“Mi hanno detto che mai avrei volato. E ho cavalcato le tempeste”.

 

“Mi hanno detto tante brutte cose. E le ho respinte tutte, colpo su colpo”.

 

“E se ora pensano… che passerò i miei ultimi momenti… piegato su me stesso… inerme… senza far nulla. Beh. Si sbagliano anche su questo”.

 

    Iris, intanto, si era appisolata tra i suoi zoccoli.

Icarus sorrise e le diede un altro bacio sulla criniera.

La rimise attentamente nel letto e la coprì con cura.

Si asciugò frettolosamente le lacrime, come se qualcuno potesse vederlo da un momento all’altro.

 

Si portò all’uscio. Controllò un’ultima volta la sorellina.

 

Sorrise.

 

E uscì.

 

*** ***** ***

 

    Il puledro compì la medesima strada del ritorno, ritrovandosi nella notte buia.

Non sapeva esattamente cosa avrebbe fatto, a quel punto. Non aveva modo di tornare nella casa tra le nuvole e di certo non si sarebbe messo a dormire di straforo nella tenuta Apple.

Chiedere ad Applejack?

No. Non si sentiva ancora pronto per parlare con qualcuno.

Che fare allora?

 

    La risposta giunse inaspettata e rumorosa.

Qualcosa planò rapidamente dal cielo, troppo buio per poterla distinguere chiaramente.

Qualunque cosa fosse, atterrò sul prato umido e tirò dritto, come un sasso lanciato sul ghiaccio. Icarus udì un urlo terrorizzato, quindi un tonfo e una serie di imprecazioni. Lo riconobbe.

Daedalus si rialzò, lanciando improperi sulla fanghiglia e la clorofilla, così difficile da lavar via.

Non si era accorto della presenza del figlio. Aveva un anche un leggero fiatone.

“Meglio così”, pensò il puledro, cercando di allontanarsi non visto, sulla punta delle zampe.

Ma il zoppicare non è un buon modo per passare inosservati e il padre notò la sua sagoma scura balzellare, appena illuminata dalla luce lunare. Aguzzò lo sguardo.

“…Icarus?”.

L’altro si fermò, chiudendo gli occhi e stringendo i denti.
Beccato.

“Oh… ehm… ciao… papà!”, blaterò, con una giravolta di centottanta gradi.

“M-ma cosa… cosa ci fai fuori, a quest’ora di notte e… e in aperta campagna?”.

Il figlio non seppe cosa rispondere. Si osservò attorno innervosito, quindi replicò: “…ecco… anche… anche tu sei fuori, in aperta campagna e… ed è notte!”.

Daedalus riprese fiato.

“Sono tornato da Steamdale… Ho preso il primo treno che ho potuto. Non ne potevo più di stare da quel bestione di Brutus…”.

“Ah…”, commentò incredulo.

“Mi stava sfruttando come fossi il suo schiavo!!”, berciò, sbracciandosi come un matto.

Solo in quel momento Icarus notò che il padre ancora indossava il grembiule da inserviente.

“Bel completino, papà”.

“Uh? Cos…”, e si affretto a slacciarlo.

Icarus sperò di poter andare via senza troppe polemiche ma, ovviamente, il padre volle saperne di più.

“Non mi hai ancora detto cosa ci fai qui…”, ripeté lo stallone, strofinando con il panno le zone infangate.

“Io… Niente. Zoppicavo in giro. Come sempre”, buttò lì.

“Mh. Capisco. Quindi non hai problemi ad accompagnarmi dentro, vero?”.

“Ah… i-io…”.

“Questa è la tenuta Apple, giusto?”, chiese, sollevando il muso verso il grosso edificio. “Non sapevo bene come trovarla. Il gorilla barbuto mi ha detto che sareste stati da Applejack. Quando sono arrivato in stazione, stanotte, ho chiesto informazioni per strada… Ma puoi immaginare quanta gente circoli in questo posto, a quest’ora…”.

Il pony grigio non rispose.

Il padre continuò: “Ho cercato di capirci qualcosa dai cartelli e dopo qualche volo sono atterrato qui. In un pantano, a quanto pare...”.

“…ok”, sussurrò l’altro.

Daedalus divenne serio: “Come… come stanno… tua madre e…”.

“Stanno bene”.

“Sono là dentro?”.

“Sì. Alla fine sei atterrato nel pantano giusto…”.

Il rapporto impersonale padre-figlio era lampante.

Non erano mai riusciti a passare molto tempo assieme.

Quando Icarus era sotto cure, il padre lavorava come un matto, per pagare le spese. Dopo la vicenda fallimentare all’Emerald Lake, Daedalus si ritrovò senza più un soldo e cominciò a fare le ore piccole per coprire i debiti; poi la nascita della piccola Iris e le altre faccende di cui occuparsi. In un modo o nell’altro non erano più riusciti a vedersi, se non il giorno in cui il padre venne appositamente a cercarlo. Per poi ripartire poco dopo.

 

Daedalus aveva ancora in testa il fatto di non essersi comportato come un padre esemplare. Dentro di sé non era mai riuscito ad accettare il fallimento della cura. Il tempo e le sofferenze patite dal figlio per sottoporsi a quella cura che avrebbe dovuto ridargli nuova vita. E che invece non era servita ad altro se non a deluderlo e farlo soffrire di più.

Ma oltre ogni cosa gli dispiaceva di averlo tenuto lontano da Rainbow, durante l’ultima settimana di degenza.

Soltanto dopo capì quanto importante lei fosse per il figlio.

Quando poi seppe della notizia del sacrificio… non poté semplicemente crederci.

Non riuscì a capacitarsi di come qualcuno fosse giunto a rinunciare tanto per il figlio, arrivando addirittura a rinunciare alle proprie ali di pegaso… pur di regalargli una singola ora di volo.

Tutto quello.

Per un’unica ora di vero volo.

 

    “Icarus…”, gli disse.

“Uh… sì?”, dichiarò preoccupato, con un piccolo sobbalzo, temendo qualche domanda inquisitoria.

Il pegaso bianco parve cadere in un profondo imbarazzo. Compì alcuni gesti che quasi mai gli aveva visto fare. Si gratto la chioma. Colpì gli zoccoli tra loro. Disegnò cerchi nell’erba con ampi gesti di una zampa.

Non era certo il padre che era abituato a vedere: impettito, autoritario e fiero.

“…senti… non… non voglio sapere cosa stavi facendo qui fuori”, confessò, cercando una sintonia col figlio che mai si era sforzato di trovare. “Se non vuoi parlarmene… non c’è problema. Voglio solo sapere se… se va tutto bene. Se… se tu stai bene…”.

Icarus rimase stupito a guardarlo. Notò i suoi occhi sinceri, vagamente dispiaciuti. Le nubi si diradarono, permettendo alla luce lunare di illuminare un po’ di più i rispettivi tratti.

“Icarus ma… ma tu hai… pianto…”, commentò il padre, accorgendosi delle sue guance umide.

“Ah… n-no… io non…”, balbettò, cercando qualche tipo di scusa.

Cadde il silenzio.

Era una di quelle situazioni che il padre mai si era trovato ad affrontare. In quasi venti anni col figlio… mai aveva avuto una singola occasione per poterlo sostenere.

Si ricordò del giorno in cui gli comunicarono il suo problema. Il giorno in cui si chiuse in camera. Il giorno in cui… lui stesso non ebbe il coraggio di aprire quella porta e di affrontare la sofferenza di Icarus.

 

Sì.

Daedalus lo sapeva.

Non aveva avuto il coraggio.

Per certi versi… aveva avuto paura di affrontare suo figlio.

Non sapeva cosa dire o come comportarsi. Era sempre stata Sunshine ad accollarsi la parte “emotiva” del rapporto genitori-figlio.

 

Ora, però…

 

“Non è niente papà… davvero…”.

Il pegaso bianco si sforzò di essere empatico: “Sei… sicuro?”.

“…sì. Ora dovrei soltanto… tornare a casa”.

“Beh… ma… è… è qui…”.

“…da Dashie, intendo”.

“Oh! Già, giusto… vero…”, blaterò, cascando dal pero. Si sentì ancor peggio per essersi dimenticato di una faccenda così importante. Era come se tutto fosse rimasto fermo a quando Icarus era ancora un puledrino. Ma era invece cresciuto… senza che quasi se ne accorgesse… e ora viveva in casa con la puledra che aveva sacrificato le ali per lui. Quante cose doveva essersi perso…

“Puoi darmi uno strappo…?”, propose il figlio, interrompendo i suoi pensieri.

“Ah… certo”, rispose celermente.

 

    Icarus condusse il padre accanto alla Cirrus, con cui era sopraggiunto nel primo pomeriggio. L’avevano lasciata lì, forse sperando che sarebbe davvero tornato entro il tramonto.

Daedalus cercò di aiutarlo a salire ma l’altro fece tutto da solo. Lo stallone si limitò quindi ad aprire le ali… e a spingerlo verso la sommità dei cieli.

    La coppia salì di quota, immergendosi nelle scure nubi notturne e sbucando dall’altro lato degli strati più bassi. Un tappeto nebuloso si palesò tutt’attorno, sotto di loro, fin dove l’occhio poteva vedere. Una luna crescente generava un flebile riverbero biancastro nella zona a sé limitrofa e le stelle brillavano, immerse nel silenzio.

Lo stallone iniziò a muoversi verso la direzione che gli indicò Icarus, con ampi ed eleganti colpi d’ali. Quello era il suo modo di volare. Lento. Ritmato. Poderoso ma al tempo stesso delicato.

Icarus provò una strana sensazione quando pensò che, un giorno, quel pegaso avrebbe insegnato ad Iris… a volare. Ma non fu invidia o altro.

Fu inaspettatamente… gioia.

    Ad un certo punto, i due si fermarono.

Icarus si voltò per capirne il motivo e vide il padre, con uno strano volto afflitto, osservarlo intensamente.

“…p-papà?”.

Daedalus si avvicinò delicatamente al figlio e si sedette sulla Cirrus, accanto a lui.

 

I due si ritrovarono immersi nel cielo, su una nuvoletta in mezzo al nulla.

Le sagome illuminate dal satellite sullo sfondo.

Un mare nero a centinaia di metri sotto di loro.

 

Lo stallone, per svariati minuti, non disse nulla. Era seduto proprio a fianco di Icarus, entrambi rivolti verso un punto indefinito del paesaggio.

“Mi… mi dispiace…”, sussurrò infine, chiudendo gli occhi e contraendo i muscoli facciali dal dispiacere.

“…come?”.

Daedalus riaprì gli occhi e li indirizzò nel vuoto: “Mi dispiace tanto… di… di non essere stato… un buon padre, Icarus”.

“Papà…”, cercò di spiegare, “…guarda che tu…”.

“Lo so Icarus”, lo interruppe sorridendo. “Lo so che tu non lo pensi. Ma io… io non posso ignorare questa sensazione… non posso…”.

L’altro intuì di cosa stesse parlando.

Ci sono volte in cui non conta cosa si dice o le spiegazioni che si danno.

Certe volte… si crede semplicemente di aver fatto qualcosa che non avremmo voluto.

Timorati da questi pensieri, ci si poteva autoconvincere di qualsiasi cosa.

“Non potevi sapere… che la cura non avrebbe funzionato…”.

“Non è solo per la cura, Icarus”, gli spiegò, fissandolo intensamente negli occhi. “È per… per non esserti stato vicino. Per aver…”. Deglutì. “…per aver avuto… paura…”.

“…paura?”, domandò con stupore.

“…sì”, gli rispose con volto sincero. “Tu non sai… quanto io abbia sempre avuto paura… di… di affrontare la realtà con te… Non avrei mai voluto che ti succedessero certe cose. E… come un vigliacco… me ne sono sempre tenuto alla larga. Non ho mai trovato il coraggio di… di guardarti con serenità negli occhi…”.

Quel discorso colpì particolarmente il gracile pony grigio, che si sentì a sua volta in vena di confessioni: “…in verità… anche io ho fatto delle cose… non proprio belle. Anche io ho avuto… paura…”.

“Cosa intendi?”.

Icarus abbassò il muso: “…io… sono scappato, papà. Non ho avuto il coraggio. Nemmeno io… Non sono riuscito a guardarla negli occhi… finché non mi sono deciso ad affrontare i miei timori…”.

“Ma di che stai parlando?”.

    Il figlio fece un profondo respiro.

“Sai, papà…? Io mi… mi son sempre chiesto… se… Se fossi io il figlio che tu e mamma avreste meritato…”.

Daedalus scosse il capo: “…che diamine stai dicendo?”, commentò a bassa voce, con volto quasi severo.

“Anche se so che per voi non è così… anche se so che mi volete bene… mi sono sempre chiesto… cosa sarebbe successo… se non fossi mai nato. Se un pegaso sano e forte avesse preso il mio posto”.

Lo stallone scattò e lo strinse istintivamente per le spalle: “Icarus! Non devi nemmeno pensare a certe cose!”.

L’altro gli sorrise debolmente: “…oggi Iris stava giocando nel prato. Mi è finita addosso per sbaglio e… e io… l’ho spinta via, quasi come se l’avessi… rifiutata”.

Daedalus rimase visibilmente sorpreso.

“Quindi sono scappato. Non ho avuto il… il coraggio di affrontarla. E sai qual è la cosa buffa? Che non ho MAI avuto il coraggio di affrontarla, fin dal primo giorno in cui mi mandasti le lettere per informarci…”. Il giovane pegaso mise uno zoccolo su una delle zampe protese del padre. “Ecco perché… mi son sempre domandato… come mai sia nata Iris. Se… se foste stufi di me. Dei miei acciacchi. Della mia rabbia. Dei miei problemi. Dei…”.

Daedalus non riuscì più a trattenersi e lo abbracciò con energia.

“…come… come puoi pensare ad una cosa così, Icarus…? Come… come puoi anche solo immaginarla… I-io… io ti voglio un bene dell’anima… Soltanto… non… non sono mai riuscito a dimostrartelo come avrei voluto. Ma… ma non per questo tu devi pensare che…”.

Il figliò si scostò leggermente e lo fissò dritto negli occhi. Si sentì abbastanza a disagio per l’affetto che il padre riuscì a dimostrargli in quell’istante, come mai era riuscito a fare prima di allora. Ma doveva avere delle conferme.

“Papà… sinceramente… perché avete voluto Iris? Se… se volevate avere un pegaso sano… con cui… con cui volare… guarda che puoi dirmelo. Cioè… non sarebbe un problema se… se voi…”.

“…quella puledra blu aveva davvero ragione…”, disse, trattenendo una debole risata.

“…come?”.

“…sei… sei davvero una testa di legno”. Il padre lo abbracciò di nuovo, questa volta molto più a suo agio. “Icarus… non c’è stato un motivo. È successo e basta. Tu non hai nulla a che vedere con la sua nascita”.

“Davvero? Voglio la verità…”.

“Te lo assicuro, Icarus… Tu… tu sei… sei un figlio perfetto”, gli disse, sfregandosi uno zigomo con uno zoccolo. “Tra tutti i pegasi che… che ho incontrato in vita mia… tu… tu sei semplicemente… meraviglioso. E… e non lo dico solo perché sei mio figlio… o come frase di circostanza… Tu sei davvero unico, Icarus. Hai qualcosa dentro che sconvolge sempre tutti quelli che ti incontrano”.

“Non… non so se sia un bene…”, commentò ironicamente.

“Già”, ridacchiò. “Fai un sacco di casini, ovunque tu vada! Ed è questo che mi piace di te. Non si può mai stare tranquilli… e ti sei fatto forza in situazioni… dove io stesso non avrei saputo come reagire…”.

“In realtà… non ho fatto tutto da solo. Anche Dashie ha…”.

“Sì. Sì, lo so. Ma non dare a lei tutto il merito. So benissimo che la tempesta all’Emerald Lake è stata una tua idea”.

“Oh, beh. Anche la decisione di cavalcarle. La fuga dall’ospedale. Il grattac…”.

“Ok. Messaggio ricevuto”, tagliò corto, come se ancora non potesse accettare i pericoli che aveva corso. “Ora, comunque… con Iris va…. tutto bene?”.

“Sì papà”, lo rassicurò. “Credo sia tutto sistemato. Certo… dovrò trovare la faccia di incontrare le altre e parlar loro, dopo questa figura… Ma a parte quello…”.

“Allora è meglio se ti riporto da quella sconsiderata dalla chioma multicolore. Così potrà darti una strigliata prima dell’alba”, scherzò, lasciandosi cadere dalla nuvola e prendendo a fluttuare nel vuoto.

Icarus ritrovò il buonumore: “Guarda che dico a mamma che ti sei impantanato nel giardino sul retro…”.

“Facciamo un accordo, allora”, propose, riprendendo a spingere. “Tu non parli. Io non parlo. Uno zoccolo lava l’altro”.

 

    Daedalus fu molto contento di quel breve riavvicinamento col figlio.

Continuò a muovere lentamente la nuvola nel cielo, con il figlio che gli dava le spalle ed osservava l’orizzonte. Lo spicchio di luna era d’innanzi a loro. Sembrava quasi lo stesse portando al suo interno, con il ritmico sbatter d’ali come unico rumore ad udirsi nei dintorni.

Passarono alcuni minuti e poi, con estrema lentezza, Icarus ruotò appena il collo e lo osservò con la coda dell’occhio. Aveva un tenue sorriso scolpito sulle labbra.

“Sai, papà?”.

“Cosa?”, gli domandò.

 

“L’unica cosa che mi spiace di tutto questo… è che non potrò vedervi volare assieme nel cielo”.

 

Daedalus si fermò.

“Icarus…”.

Ma l’altro si limitò ad intensificare il sorriso e riportò il muso nella direzione di prima.

 

Il padre rimase a fluttuare per parecchi secondi, con volto inespressivo, prima di ricominciare a spingere.

 

*** ***** ***

 

    Non ci volle molto prima che padre e figlio raggiungessero la casa di Dash.

Icarus abbandonò il velivolo e i due si ritrovarono più in imbarazzo di prima, a doversi salutare.

Un intero dialogo liberatorio e poi… una coppia di statue.

Cercarono in qualche modo di comunicare l’uno verso l’altro ma l’unica cosa che riuscirono a fare fu darsi un fugace e virile abbraccio.

Si lasciarono con la promessa di incontrarsi a breve, presso la tenuta di Applejack.

    Il pegaso fece quindi il proprio ingresso nell’abitazione di nuvole. Aprì parzialmente la porta d’ingresso e controllò l’interno. Avrebbe fatto esattamente come da Iris: sarebbe entrato lentamente e avrebbe cercato un posto dove dormire, senza destare l’occupante. Magari si sarebbe steso sul divano. O anche il pavimento stesso, tanto era fatto di nuvole.

Nuvole, già. Non avrebbe nemmeno dovuto fare attenzione allo scricchiolio del parquet sotto gli zoccoli.

Varcò la soglia e richiuse delicatamente la porta dietro di sé. Quando si voltò, tuttavia, un improvviso bagliore giallastro si palesò nella stanza. Il pony dalla chioma viola ebbe un sussulto.

Rainbow era poco distante da lui, con un barattolo colmo di lucciole appoggiato su un tavolino.

“Oh… c-ciao… Dashie…”, balbettò imbarazzato.

L’amica si mosse lentamente verso di lui, con volto inespressivo.

“Ah. Ehm… senti…”, raffazzonò il compagno. “Riguardo ad oggi…”.

Una zoccolata lo investì in pieno muso, senza tanti riguardi per le sue ossa o quant’altro. Sarebbe potuta andarci più pesante. Ma sarebbe anche potuta andarci più leggera.

“A… ahio…”, farfugliò inebetito, osservandola con assoluto sbigottimento e passandosi una zampa sul volto. Non aveva mai reagito in modo così drastico.

“QUESTO È PER ESSERE SCOMPARSO PER UNA GIORNATA INTERA!!”, lo minacciò, con sguardo rabbioso e picchiettandogli il petto.

Lo afferrò quindi tra le zampe e gli diede un bacio sulla guancia dolente. Lo strinse a sé con energia, ad occhi chiusi.

“…e questo è… per essere un arrogante… stupido… pegaso…”, aggiunse, con voce soffocata tra le sue spalle.

Icarus non disse nulla.

Si limitò a sollevare delicatamente gli zoccoli e a ricambiare il gesto.

Dash strofinò alcune volte la fronte contro il suo collo.


“Stupido… stupido pegaso…”.

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Capitolo 6
*** L'ultimo saluto ***


    Twilight posò magicamente il cesto da picnic accanto ad un’enorme tovaglia a scacchi bianchi e rossi, distesa sul manto erboso.

Ad esso si aggiunsero le torte di Applejack, un’enorme scodella di insalata di Fluttershy e decine di dolcetti di Pinkie Pie. Rarity si assicurò che tutto fosse in ordine, assistita dal fido Spike, mentre le giovanissime Cutie Mark Crusaders contribuirono con alcuni manicaretti caserecci e qualche gioco di società.

Rainbow Dash alzò gli occhi al cielo, osservando il sole attraverso le fronde dell’enorme salice sotto cui si erano accomodate. Nonostante fossero alle porte dell’inverno, non faceva poi così freddo e le piante sempreverdi, come quella, erano perfette per lo scopo. Si era inoltre assicurata che la giornata si sarebbe svolta sgombra da nuvole e qualsivoglia ripercussione meteorologica.

Tutto lasciava presagire ad un piacevole pomeriggio in compagnia.

Le amiche si sedettero, iniziando a parlare del più e del meno, in attesa di ospiti alquanto speciali. L’unica ad essere un po’ nervosa era Scootaloo, per motivi che nessuno era riuscito a comprendere chiaramente.

 

    Dopo una decina di minuti, sbucando da un piccolo avvallamento, giunsero infine gli ultimi invitati.

La prima cosa che i presenti videro fu il ciuffone viola di Icarus. Era seduto sulla sua Cirrus, mentre il padre lo spingeva dolcemente da dietro, fluttuando lentamente da terra. Il giovane puledro reggeva qualcosa tra le zampe: una piccola nanerottola grigia, trattenuta per le ascelle (e quindi con il sedere poggiato sulla morbida nuvola).

Iris era immobile, come suo solito, ed osservava il mondo attorno a sé con un’espressione combattuta tra la curiosità e un vago timore. Attorno al collo aveva avvolta una sciarpa color ciliegia, mentre sul capo le era stata collocata una cuffia un po’ troppo grande per lei, con un lungo pompon che le ciondolava ritmicamente davanti agli occhioni.

Accanto al trio, Sunshine camminava con tranquillità e volto sereno. Stava al passo di un giovane unicorno dagli occhi vitrei, che si lasciava guidare con il tocco e il semplice rumore degli zoccoli sul terreno.

Quando Dash li vide sembrò cader preda di innumerevoli gesti di nervosismo, come se le emozioni scaturite in quell’istante le impedissero di stare ferma immobile.

Tutti notarono come, a differenza di quanto accadeva normalmente, Icarus mostrasse completa assenza di vergogna o timidezza, che sembravano essersi trasferiti in tutto e per tutto al padre.

Daedalus, lo stallone fiero e autoritario, non era infatti abituato a simili situazioni. Il suo mondo, meno di un anno addietro, iniziava e finiva tra le mura di una fabbrica fumosa, lasciando che la sua tempra da imprenditore facesse il resto. Ma lì non c’erano finanziatori o progetti impellenti da realizzare. Non c’erano burocrati o schiere di compratori. C’erano dei pony qualsiasi, se si escludeva quanto di importante erano riusciti a portare nella sua vita. Specialmente in quella del figlio.

“S… sono le tue amiche, giusto?”, bisbigliò il padre alle orecchie del giovane pony.

L’altro controllò che la piccola Iris fosse sufficientemente imbacuccata e, senza voltarsli, gli rispose: “O sono loro oppure qualcuno dannatamente bravo ad imitarle”.

“…ok”.

“Sembri nervoso…”.

“No… no, io…”.

Si accorse quindi di come fossero arrivati a destinazione.

Ripiegò le ali ai fianchi e si bloccò come uno stoccafisso a guardarle, senza sapere come comportarsi.

Spike diede un colpetto al fianco di Twilight e, coprendosi la bocca con una mano, le comunicò: “…ed io che credevo che Icarus fosse il disadattato sociale, qui…”.

Le amiche li accolsero con un grande, caloroso benvenuto. Rarity, in particolar modo, constatò l’eleganza e il portamento del pegaso bianco e fu contenta di trovare qualcuno con una certa dose di stile.

“Buongiorno a tutte”, rispose Icarus.

Pinkie, invece, non disse nulla. Balzellò verso il salice e iniziò a trafficare con qualcosa occultato dal grosso tronco legnoso.

Il pegaso dalle ossa di caramello, con completa nonchalance, si girò verso il padre e lo scrutò da capo a zoccolo: “Spero tu non stia indossando il tuo doppiopetto migliore. E anche che tu abbia dei buoni riflessi”.

“Uh… cos…”.

In quel preciso istante, la puledra rosa confetto sbucò dalla pianta con un enorme cannone tra le zampe. Daedalus digrignò i denti.

“DA PONYVILLE: UN BENVENUTERRIMO ALLO STALLONE MUSONEEE!!”, e azionò l’innesco.

Icarus si limitò a sporgersi su un fianco, tenendo al riparo la sorellina. Velvet, presagendo il pericolo già parecchi secondi prima, innalzò una barriera che protesse sia lei che Sunshine. L’unico ad essere investito fu quindi Daedalus, che vide qualche chilo di crema pasticcera arrivargli dritto in faccia, accompagnato da un boato. Il preparato dolciario si spappolò contro di lui, sommergendogli muso e crini in una profumata fanghiglia gialla. Rimase parecchi secondi imbambolato, senza nemmeno riaprire gli occhi.

“PINKIE!!”, la rimproverò Rarity. “Ma ti sembra il modo??”.

“Lo so…”, rispose l’altra estremamente dispiaciuta. “…è che avevo finito il ripieno al cioccolato…”.

“Ah!”, ridacchiò Applejack. “Nessuno può sottrarsi al benvenuto canonico di Ponyville!”.

Rainbow si soffermò quindi sulla giovane Velvet. Non poteva credere ai propri occhi. Era cresciuta tantissimo! E la criniera le donava un aspetto completamente diverso da come se la ricordava. Non riuscendo a trattenersi oltre, si mise sulle quattro zampe e trottò verso di lei.

Un istante prima di intercettarla con un abbraccio, l’unicorno sollevò una zampa di fronte a lei, bloccandola. L’ex pegaso frenò improvvisamente, con volto perplesso.

Velvet chinò il muso e aggrottò le sopracciglia.

“Mhh…”, mugugnò. “Sentore di ozono… camminata da maschiaccio… e il tipico rumore di chi porta una ridicola chioma in testa”.

Rainbow sorrise.

“…anche io sono contenta di vederti, Velvet…”.

Quando udì quelle parole, la giovane le balzò letteralmente al collo: “La matta del meteo!! Sei proprio tu!!”.

Sunshine, intanto, aveva afferrato un tovagliolo tra i denti e si era avvicinata al marito, che non si era ancora mosso di un millimetro e grondava di crema. Iniziò a ripulirlo, cercando di trattenere le risate.

Quando parte del viso tornò visibile, lo stallone aprì lentamente un occhio e balbettò: “C… cos’è… cos’è stato?”.

“Il comitato di benvenuto, mettiamola così”, gli rispose sorridendo.

Icarus cercò di scendere dal cirro e, al tempo stesso, di trattenere Iris tra le zampe. Rischiò tuttavia di cadere e Dash sopraggiunse prontamente a sostenerlo.

“Uff… grazie…”, sbuffò.

“Vuoi sempre strafare… stupido…”.

“In verità avrei preferito evitare di giungere sul cirro. Ma in questi giorni mi sono… agitato un po’ troppo… ed ora sembra che una mandria di bufali mi sia passata sopra”.

“Perché sei stupido, te l’ho detto”, ribadì con volto severo.

“Invece di star lì ad inveire contro un povero paraplegico, perché non ti rendi utile?”.

Le allungò quindi il cucciolo. L’altra trasalì e la afferrò con la massima delicatezza possibile. Ancora non si era abituata ad avere a che fare con quel piccolo pegaso dai crini color terra. Ogni volta un’emozione ingestibile le scaturiva nel petto.

Una volta sceso, Icarus riprese la sorellina con sé e la mise a terra, mantenendo costantemente le zampe anteriori attorno al suo piccolo corpo, come una cintura di sicurezza.

Immancabilmente, i presenti si avvicinarono ai due, colti dall’irrefrenabile impulso di osservare nuovamente Iris.

Il cucciolo provò nuovamente timore e si girò verso il fratello, nascondendo il volto contro di lui, esattamente come fece con la madre alcuni giorni prima. Nel gesto, perse inavvertitamente la cuffia e Icarus gliela rimise pazientemente sui crini. Gliela abbassò fino al muso, infagottandole scherzosamente tutta la testa: “Tò. Così non vedrai più questi brutti cattivoni. Specialmente quella con quella stupida chioma multicolore…”.

Fluttershy venne colta da un improvviso attacco di diabete: “…ohmammachecarini…”, squittì con gli ultrasuoni. Nicodemo drizzò le orecchie, spaesato, quindi riconobbe il pegaso che lo aveva allevato fin da quando era spelacchiato. Balzò a terra e corse trepidante verso di lei.

“Nicodemo!!”, strillò, acchiappando al volo il roditore, che le saltò addosso.

“Aww!”, commentò emozionata Applejack, osservando la coppia di pegasi. “Ora… ditemi se non è il più bel quadretto che abbiate mai visto nell’intera Equestria!”.

Icarus sfregò alcune volte la schiena del cucciolo che, timidamente, tornò a voltarsi verso le amiche, sporgendo gli occhi magenta al di sotto della cuffia.

Il pony dalla chioma viola sorrise dolcemente.

“Già…”, disse a bassa voce. “È anche per questo… che ho voluto vedervi tutte…”.

 

    I presenti lo osservarono con attenzione.

Icarus sembrò cercare il coraggio per parlare. Percepì quindi qualcosa sfiorargli un fianco.

Era Velvet.

“…lo dicevo che avresti fatto la cosa giusta…”, dichiarò con un sorriso.

L’amico le sorrise di rimando.

Scootaloo, invece, assunse un atteggiamento sospettoso.

Si avvicinò a Rainbow Dash e, sicura di non essere sentita, le domandò nervosamente: “…ma chi è ‘sta tizia?”.

“Mi chiamo Velvet”, rispose prontamente l’altra, causando una discreta dose di stupore al giovane pegaso arancione.

“Come stavo dicendo…”, riprese lentamente il pony grigio, “ho voluto vedervi tutte, non solo per passare del tempo con voi… ma… ma anche per…”. Icarus ebbe il canonico attacco di timidezza e disagio. “I… insomma…”, farfugliò, stringendo la sorellina a sé con forza sempre maggiore, senza rendersene conto. “Quanto… quanto successo alla tenuta Apple… Quel… quel giorno io…”.

Le altre lo ascoltarono con espressione un po’ basita.

Icarus prese ad agitarsi leggermente. Liberò Iris dalla presa e cominciò a gesticolare, facendo del proprio meglio per esprimersi chiaramente: “I-insomma… io… io mi sono comportato… come… come…”.

“Come uno scemo?”, suggerì tranquillamente Dash.

“Sì, come uno sc… EHY!!”, sbottò arrabbiato.

“Uno zoppo con problemi articolari che fugge in mezzo ai boschi io lo chiamo uno scemo…”.

“Non mi riferivo a quello!”, precisò. “Ma… ma a ciò che… che ho fatto a…”.

Twilight lo interruppe immediatamente: “Scusa, Icarus…”. L’altro si fermò ad ascoltarla. “Io… io non so cosa tu abbia pensato… cosa ti abbia spinto a compiere quel gesto”.

“Ma… io…”.

“Quello che vorrei fosse chiaro”, continuò Sparkle, con tono estremamente gentile, “è che… qui nessuno di noi ti ha giudicato male per questo”.

“Già, zuccherino!”, si intromise Applejack. “Ormai ti conosciamo. Non devi spiegare alcunché”.

L’altro le osservò in silenzio. Non si sarebbe aspettato una simile comprensione.

“È che… è che io sono scappato… Ho… ho fatto una cosa molto brutta e…”.

“Io non la vedo così”, aggiunse il draghetto. “La cosa importante è che tu sia tornato sui tuoi passi. Il resto non conta”.

“Concordo”, ammise Rarity a muso alto.

Anche Daedalus (che iniziò inconsciamente a leccarsi uno zoccolo sporco di crema) rimase colpito da una simile manifestazione di affetto. Iniziò a capire come mai il figlio si fosse affezionato così tanto a quel gruppetto di pony.

Il puledro abbassò il muso e, con volto realmente contratto in un’espressione di disagio, sussurrò: “…davvero?”.

“Certo che davvero!”, proruppe Pinkie. “Si sbaglia solo quando non si pone rimedio agli sbagli!”. Il pony dalla criniera cotonosa divenne quindi incerta.  “…oppure era… Si rimedia davvero quando si sbaglia ai rimedi? Aspetta… Si sbaraglia davvero quando si rimbalza… no… si sbadiglia quando non si rimasuglia… aspetta, aspetta…”.

Il pony strinse nuovamente a sé la piccola Iris e si focalizzò sul gruppo di amiche che aveva d’innanzi. Si estraniò parzialmente dalla realtà, scorgendo solamente i loro volti sorridenti. Vide Rarity rimproverare Pinkie per la sua incapacità di dire cose apparentemente sensate, senza udire in modo chiaro le loro parole, come se fossero ovattate.

 

In quel preciso istante, Icarus si sentì come raramente gli era capitato in passato.

 

Si sentì fortunato.

Immensamente fortunato.

Nonostante tutto ciò che aveva dovuto passare…

Nonostante gli innumerevoli errori commessi…

Attorno a sé aveva degli individui disposti ad accettarlo per ciò che era.

Che non gli avrebbero chiesto spiegazioni.

Che mai lo avrebbero trattato con pregiudizi o supponenza.

 

In quel preciso momento… pensò davvero di essere il pegaso più fortunato nel mondo intero.

 

Cercò di dire qualcosa, di ringraziarle in qualsiasi modo gli venisse in mente.

Ma era sempre così difficile, per lui…

Rainbow gli si piazzò davanti, osservandolo con volto sorridente.

“…non devi dire niente… stupido pegaso”.

Icarus scosse la testa: “Mhf… come diamine fai ogni volta… a leggermi come un libro aperto?”.

“Cos’è? Ti senti vulnerabile?”, gli chiese altezzosamente.

“…sì. Con te… mi sento sempre come se potessi prendere ogni parte più intima di me… e farci quello che vuoi…”.

“Ah…”, rispose l’altra, vagamente dispiaciuta. “Non… non volevo metterti a disagio… è che…”.

Il compagno le sfiorò una spalla: “…e non voglio che tu smetta”. Rainbow, sulle prime, non capì. “Continua a fare quello che fai”, continuò, mostrando una dolcezza assai rara per lui. “Aiutami a non chiudermi a riccio come facevo un tempo… Prendimi… strattonami… insultami… fai quello che hai sempre fatto…”.

Icarus si avvicinò all’ex pegaso e la abbracciò delicatamente. Iris si ritrovò con la testa pinzata tra i due e cercò impacciatamente di divincolarsi.

“…continua a farmi… sentire vivo…”, concluse sottovoce.

Dash ricambiò il gesto, non sapendo cosa rispondergli.

    La puledra decise infine di ritrarsi e, con rinnovato entusiasmo e sguardo di sfida, proruppe: “Mhf. Insultarti è la cosa che mi riesce meglio, quindi non preoccuparti di questo. E ora basta con le chiacchiere… o ci farai morire tutti dalla noia”.

“Mi associo”, commentò Spike, alzando una zampa.

“Dai”, lo rassicurò Dash. “Questo è un picnic. Mangiamo e divertiamoci”.

Twilight sollevò magicamente una fetta di torta: “Vedrai come ti sentirai vivo dopo quest’overdose di zuccheri!”.

 

Il pony dai crini viola sorrise.

Tutti presero posto attorno alla tovaglia.

Iniziarono a levarsi alcuni schiamazzi di gioia.

I cestini vennero aperti. Alcuni boccali si riempirono di sidro.

 

E il pegaso dalle ossa di caramello si sentì realmente più vivo che mai.


    Il pomeriggio trascorse all’insegna della spensieratezza e del divertimento.

Daedalus fu quello più schivo di tutti. Sembrava la copia di Icarus di circa un anno prima.

I pony consumarono i pasti, alzarono più volte i boccali e poi si organizzarono nel modo che più avrebbero preferito.

Pinkie Pie volle a tutti i costi preparare diversi giochi di società, tra cui una gara di mimica, in cui il marito di Sunshine ottenne il punteggio più basso: continuò ad imitare uno stoccafisso per tutto il tempo.

Icarus e Velvet presero quindi a narrare le loro curiose avventure all’Emerald Lake, durante il periodo del ricovero. Tra le esagerazioni del puledro e le visioni distorte dell’unicorno, sembrò quasi che avessero vissuto in un universo onirico per mesi. Tanto fu lo stupore per quei racconti che Applebloom e Sweetiebelle rimasero letteralmente imbambolate ad ascoltarli. Scootaloo, invece, tenne le distanze, apparentemente infastidita dalla presenza del pony dagli occhi vitrei.

 

    Icarus si fermò più volte ad osservare la scena.

Tutti si divertivano. Tutti passavano piacevolmente il tempo insieme.

Non si ricordò un solo istante in cui la madre gli sembrò felice come allora. Il padre fu inaspettatamente il più impacciato tra tutti. Mai si sarebbe aspettato di vederlo così in imbarazzo. Così… normale. Per anni lo aveva sempre considerato come uno stallone severo ed autoritario, quasi sempre assente da casa.

 

In quell’istante… Icarus sentì di appartenere a qualcosa di più grande.

Gli sembrò di essere in un’enorme, felice famiglia.

Sunshine sorrideva. Le amiche erano contente. Le puledrine giocavano tra loro e si divertivano con la piccola Iris. Applejack e la sua famiglia avrebbero badato a tutto, finché ce ne sarebbe stata la necessità. Aveva già ricevuto un invito esteso a tempo indefinito per venirli a trovare, come e quando avesse voluto. Avrebbero magari cenato sotto lo stesso tetto, dormito in stanze vicine…

Qualcosa che in tutto e per tutto si discostava dalla vita di isolamento in cui si era barcamenato fino ad un anno prima.

 

E non riuscì ad evitarlo…

Immerso nei propri pensieri… sovrastato da quelle emozioni… posò lo sguardo su Dash.

La puledra stava parlando con Fluttershy, intenta a sua volta a svolazzare a circa mezzo metro da terra, cercando di inseguire Nicodemo attorno al salice piangente. Il pony blu, invece, era fermo sull’erba, costretto dalla gravità.

Gli tornò in mente tutto ciò che aveva fatto per lui.

 

Chissà cosa gli sarebbe successo se non l’avesse incontrata?

Se lei non avesse…

 

    Stimolato da un’immensa sensazione di affetto, decise di muoversi verso di lei, incerto su cosa le avrebbe detto.

Con la coda dell’occhio notò tuttavia la piccola Iris poco lontano, seduta accanto alla tovaglia da picnic. La sorellina teneva il muso alto e seguiva con curiosità qualcosa che le ronzava attorno.

Il pony dagli occhi viola la riconobbe: una vespa solitaria, forse una delle ultime che ancora non si era ritirata in letargo nel nido.

Il fratello venne colto da un improvviso senso di urgenza. Emise qualche verso incomprensibile, cercando al tempo stesso di avvicinarsi goffamente a lei e sbracciandosi per avvertire i presenti. Rainbow lo vide e lo scrutò basita, senza capire.

Quando Icarus la raggiunse, iniziò a dimenare rapidamente la zampa, per scacciare l’insetto. Questo, per tutta risposta, cercò di evitarlo e, alla fine, lo punse su uno zoccolo e si allontanò.

Icarus si infilò l’estremità dolente direttamente in bocca e prese a mugugnare sofferente, con una gocciolina luccicante sul bordo di un occhio.

Iris lo osservò incuriosita. Il fratello si sforzò di sorriderle.

Rainbow sopraggiunse poco dopo: “Fai il pagliaccio per intrattenere la tua sorellina, mh? Ti riesce bene”.

L’altro si osservò lo zoccolo, su cui era comparsa una bolla arrossata.

“Per tutti i cirri… che male…”, farfugliò, inspirando tra i denti.

“Fa vedere”, rispose la compagna, afferrando lo zoccolo tra i suoi. “Bah. Niente di che. Non fare il principino ferito…”.

“Sai quanto fa male??”, si difese con energia. “Senza contare che potrebbe causare shock anafilattico per allergia!”.

Dash sembrò per nulla preoccupata: “E tu sei allergico?”.

“…no”.

“Visto? Sei una puledrina. Sai quante punture mi son buscata io, quando mi divertivo tra i boschi da piccola?”.

“Sono lieto di conoscere il tuo passato da cavernicola in mezzo alla foresta… e di come questo abbia accresciuto il tuo ego…”.

Iris scrutò quindi un bicchiere vuoto che era poggiato accanto alle vettovaglie. Si avvicinò curiosa e vi infilò il muso, cercando di capire cosa fosse quell’odore mai sentito. L’oggetto si incastrò attorno al musetto cinerino. La piccola non capì cosa fosse successo e si voltò preoccupata verso i due, con il bicchiere fisso sul volto.

Icarus non poté fare a meno di avvertire una sorta di dolce morsa al petto.

“…che scema che sei…”, le disse, rimuovendo delicatamente il bicchiere. Si assicurò quindi che la sciarpa fosse ben stretta al collo.

Rainbow Dash rimase in silenzio ad osservarli, quindi commentò sorridendo: “Certo che… sbaglio o ti stai davvero affezionando a questo cosetto?”.

Il puledro la fissò intensamente negli occhi, quindi tornò a guardare le amiche e i suoi genitori, intenti a parlare e giocare tra loro.

“…vuoi la verità, Dash?”, mormorò, senza smettere di fissarli.

“Tanto se menti lo capisco”.

“Io… io non…”, balbettò. “Io non ho mai avuto qualcosa di simile”.

“Intendi… una famiglia?”.

“Una famiglia… e… e qualcuno così stupido da volermi rimanere accanto nonostante tutto, sempre e comunque…”, concluse, puntando gli occhi viola in quelli magenta.

Rainbow cercò di minimizzare: “In verità… non ho mai voluto dirtelo ma… tua madre mi paga sottobanco affinché io continui a frequentarti”.

“Ne dubito”, dichiarò amaramente. “Almeno che non ti stia pagando in aria. Non abbiamo più un soldo…”.

L’amica si accorse di aver inavvertitamente toccato un tasto dolente.

“Ah…”, si scusò, strofinandosi la criniera. “Sì io… non intendevo…”.

“Mamma e papà hanno dato tutto per me”, la interruppe, soffermandosi sui genitori: Sunshine chiacchierava con Twilight, mentre il padre sembrava finalmente a proprio agio, discutendo probabilmente di abiti raffinati con Rarity.

“Lo sai che non è colpa tua…”, lo tranquillizzò.

“Sì. Lo so. È solo che…”.

“…solo che?”.

 

    Icarus percepì una strana sensazione di dolore interiore, come se un pensiero spiacevole gli avesse improvvisamente trapassato la mente.

Guardò la piccola Iris. Si soffermò sulle sue ali ripiegate ai fianchi.

E provò dispiacere.

Non per il fatto che lei potesse volare e lui no…

Ma, semplicemente, perché…

 

“Senti Dashie”, le domandò infine.

“Dimmi”.

“Vorrei chiederti un grosso favore…”.

“…tu e favore siete cose che insieme significano grossi guai…”, gli rispose preoccupata.

“Se non vuoi ascoltarmi basta dirlo, eh…”, borbottò stizzito.

L’ex pegaso scosse il capo e chiuse gli occhi: “Mhf. In realtà sto cominciando ad abituarmi ai tuoi attacchi di follia”.

“Io non sono pazzo. Ho solo manie egocentriche dettate da disturbo della personalità congenito”.

“Va bene, come vuoi. Ma non farò nulla che coinvolga il rapimento. O Pinkie Pie”, specificò.

 

Il puledro puntò lo sguardo in direzione della lontana fabbrica di pioggia di Cloudsdale, in mezzo al cielo azzurro.

 

“Ci sto”, concluse Icarus annuendo. “Opteremo per un furto, allora”.

“…come, scusa?”, chiese perplessa.

 

*** ***** ***

 

    Passarono i giorni. Giorni in cui il pony dalle ossa di caramello poté finalmente rilassarsi un po’ e assaporare serenamente la presenza di una famiglia riunita, come mai era successo.

Icarus, tuttavia, fu ben lontano dal vivere le proprie giornate lontano da pensieri e preoccupazioni.

Gli ultimi avvenimenti gli avevano dato di che riflettere.

Tutti si erano dedicati a lui, negli ultimi mesi, lasciando finalmente che la sua luce potesse vibrare spontaneamente nel cielo. Forte di quella situazione, il pegaso dagli occhi viola si era sentito per la prima volta in grado di poter affrontare il mondo intero.

Lui era Icarus, uno dei Campioni di Equestria.

Era anche Icarus, uno dei pony più arroganti e altezzosi che mai fossero comparsi al mondo, lo sapeva bene. Nonostante l’umiltà fosse una dote a lui intimamente gradita, non poté negare di essersi abituato ad una realtà tutto tranne che spiacevole: si era sentito amato. Accettato. Apprezzato.

Ma gli acciacchi di un fisico lontano dalla guarigione gli ricordarono quanto potesse essere fragile. La piccola Iris, con un tempismo perfetto, era inoltre riuscita a gettargli in aria ogni certezza, ogni convinzione.

 

E, alla fine, capì che non avrebbe potuto desiderare di meglio.

 

Perché, con lei, comprese cosa avesse realmente valore, nella propria vita e in quella dei pony a lui cari. Capì che c’erano tante cose che avrebbe potuto e voluto fare.

Dove tutti si erano prodigati per renderlo felice… Ebbene: ora lui avrebbe ricambiato e restituito tutto quell’amore. Non aveva dubbi.

 

Accostandosi a quel mondo dove il sole sempre torna a sorgere, dopo un temporale, Icarus fece una scelta. Ci pensò a lungo. Pianificò tutto meticolosamente e prese in considerazione ogni variabile e conseguenza. E alla fine si convinse.

   

    Il puledro continuò a vivere con Rainbow Dash, visitando il più possibile la tenuta Apple e la sua famiglia, passando con loro attimi di indimenticabile gioia. Il padre ripartì poco dopo, dovendo recarsi al Rusty’s per riprendere a lavorare.

Icarus divenne anche improvvisamente attivo, nonostante il proprio handicap, ed iniziò a farsi scarrozzare sulla Cirrus per tutta Ponyville. A fare cosa, nessuno lo comprese con esattezza.

Da Ponyville estese quindi le proprie visite anche ad altre parti di Equestria, specialmente Cloudsdale e Canterlot.

Dash si offrì più volte di accompagnarlo ma raramente l’altro acconsentì. A detta del pegaso grigio: erano faccende che avrebbe dovuto risolvere lui personalmente. Rainbow, sulle prime, fu piuttosto dispiaciuta ma sapeva che sarebbe stato inutile discutere con quella testa di legno. Il pegaso avrebbe inoltre avuto i suoi buoni motivi, quindi tanto valeva lasciarlo fare.

 

Un giorno, tuttavia, Icarus riscattò la promessa del favore che era riuscito a strapparle il giorno del picnic.

Presero un treno diretto a Steamdale e, in compagnia di Scootaloo e della giovane Velvet, partirono in direzione del distretto industriale.

 

*** ***** ***

 

La pesante porta di metallo si aprì lentamente, producendo un cigolio a causa dei cardini arrugginiti. Icarus spinse con energia ma dovette intervenire Dash, per spalancarla completamente. La puledra indossava una doppia sacca a tracolla.

La stanza di fronte a loro era al buio. Viste dall’interno, le loro sagome scure creavano un netto contrasto con l’abbagliante luce solare esterna. Le rispettive ombre si protraevano lunghe, sul pavimento polveroso, fondendosi poi con l’oscurità circostante.

Il puledro rimase in silenzio a scrutare il luogo, finché non si abituò al buio e non iniziò a distinguere alcuni grossi oggetti.

Non erano elementi d’arredo, bensì grossi macchinari dotati di centinaia di tubi, valvole, misuratori e svariati leveraggi. L’intero complesso ne ospitava almeno una decina, occupando buona parte dello spazio.

Tutto era silenzioso e sommerso da un discreto strato di polvere.

Le numerose finestre, alcune delle quali rotte, risultavano ricoperte da assi un po’ marce, attaccate senza particolare cura.

Icarus sospirò.

“Quindi è qui…”, commentò debolmente, “che papà…”.

“Uao…”, ammise la compagna, aguzzando lo sguardo e facendo rimbombare la voce. “Questo posto è davvero enorme. Non credevo che… che tuo padre gestisse una cosa di simili dimensioni…”.

“Già… sapevo avesse una fabbrica ma non pensavo nemmeno io che…”.

“Dove? Dove? Dove??”, strillò una puledrina, immettendosi a forza tra i due. “Anche io voglio vedere!!”.

Scootaloo fece il suo ingresso nello stabile, curiosissima, per poi incupirsi di fronte a quell’ambiente triste.

Poco dopo, con passo molto più calmo e sguardo inespressivo, giunse invece Velvet. Nicodemo stava ritto sulla sua testa. Sembrava quasi potesse aggrapparsi al corno, usandolo come joystick per dirigere il pony viola.

“Ma qui non c’è niente!”, protestò sconsolato il pegaso arancione.

Icarus avanzò, facendo risuonare i suoi passi scoordinati sul pavimento in piastrelle.

Dash lo seguì, fino ad arrivare dalle finestre sbarrate. L’amico tentò di strappare uno degli assi dal muro ma l’altra intervenne e iniziò a schiodarli uno dopo l’altro, finché non ci fu luce a sufficienza per vedere.

Tutti controllarono meglio l’ambiente: ricordava una grossa fabbrica dismessa, che avrebbe potuto accogliere diverse decine di lavoratori.

Alcuni prodotti incompleti erano ancora presenti vicino ai macchinari, probabilmente abbandonati nel mezzo di un’opera incompiuta.

La coppia iniziò a camminare lentamente tra le macchine, osservando ogni singolo particolare.

Anche Velvet fece come loro. Ogni volta che parve andare a sbattere contro qualcosa, Nicodemo le dava un colpetto sulla fronte o una tirata di corno, e lei cambiava traiettoria.

“Questo luogo…”, commentò la nonvedente, continuando a muoversi, “…è davvero… ricco di sensazioni…”.

Dash osservò perplessa il pony grigio, il quale si limitò a sorriderle e scuotere il capo.

Anche Scootaloo la guardò con vago sospetto, avvicinandosi poi a Rainbow. Sembrava covare una sorta di fastidio per il pony viola. L’ex pegaso abbassò il capo e la piccola le sussurrò in un orecchio: “… ma quella lì… doveva proprio venire con noi? Con me e Icarus?”.

“Mi ha chiesto lui di venire”, rispose Velvet ad alta voce, con noncuranza e continuando la propria ispezione.

Il pegaso alzò le sopracciglia. Era di nuovo riuscita a sentirla?

Dash sorrise. Ci avrebbe scommesso: Scoot era gelosa. O poco ci mancava.

Si rivolse poi al compagno: “Ma esattamente cosa faceva tuo padre, qui dentro?”.

“Non c’ero mai stato, prima d’ora”, le spiegò, alzando lo sguardo verso l’altissimo soffitto. “So che si occupava di fornire i componenti meccanici per gli zeppelin e alcuni meccanismi d’uso urbanistico”.

“Uso urbanistico?”.

“Sì. Ingranaggi. Sistemi idraulici. Roba da città… vaporosa”.

“Capisco…”.

“Poi”, continuò, “so che aveva abbandonato la fabbrica a se stessa, per dedicarsi alla ricerche per la mia guarigione”.

“Strano che sia… fallita. Sembra davvero colossale”.

“Eh. Ma sai… Anche se non sembra, Steamdale ha subìto un’evoluzione tecnologica, nel corso del tempo. L’uso della forza-vapore è stato affinato. I componenti si sono dovuti adattare ai nuovi progetti. Papà, invece, è rimasto esterno a tutto ciò. Credeva che l’azienda potesse andare avanti con una tecnologia sempre più vetusta, completamente assorto dal mio problema. Quando si rese conto che i produttori non prendevano più i suoi componenti poiché obsoleti… era troppo tardi”.

“So che a te queste cose danno fastidio… ma sappi che mi dispiace”, lo informò con sincerità.

“Già. E… pur non essendo una mia diretta responsabilità… non posso fare a meno di pensare ai pony che hanno perso il lavoro…”.

“Ora è acqua passata”.

“Sì. Ma, forse, c’è ancora qualcosa che potrei fare”.

“Cosa?”.

“Seguimi…”.

 

    Icarus si incamminò verso alcune porticine in fondo alla sala, per esplorare meglio l’edificio.

Le altre lo seguirono. A Velvet bastò sentire i passi sul pavimento.

Un intricato sistema di corridoi si palesò d’innanzi al pony dagli occhi viola. Si grattò il mento.

“E ora, o mio coraggioso esploratore?”, gli chiese Dash.

“Io andrei a destra”, si intromise Velvet, senza motivo apparente.

Icarus non ci pensò due volte e seguì il suo consiglio.

Rainbow sapeva bene che non sarebbe servito a molto bisbigliare, quindi fu schietta: “Ti fidi molto di lei”.

“Abbastanza”, rispose, muovendosi nel corridoio indicatogli.

“Si fida ciecamente di me!”, esultò con orgoglio Velvet. “Ah! Ciecamente! L’avete capita?”.

“Non fa ridere…”, bofonchiò Scootaloo, in fondo alla coda, sentendosi esclusa.

    Dopo qualche attimo, finirono d’innanzi ad una porta in legno, con una targhetta su di essa.

La puledra blu la strofinò per legger meglio.

Ufficio Dirigenti – Daedalus

“Perfetto, Velvet”, si complimentò.

L’altra alzò uno zoccolo all’altezza della fronte e Nicodemo le diede il cinque.

“Comunque poi mi dovrete spiegare come c’è riuscita…”, concluse Dash, decisamente esterrefatta.

“Se vi dico che ho tirato a indovinare va bene lo stesso?”, rispose l’unicorno.

 

    Varcarono la soglia e una stanzetta con alcune scrivanie si palesò loro.

Era piuttosto piccola e scarsamente arredata: un tempo doveva esserlo stata molto di più ma, con ogni probabilità, i mobili erano stati venduti e semplicemente trafugati.

Rimaneva soltanto qualche tavolo senza valore e fogli sparsi ovunque, sia per terra che affissi alle pareti.

“Velvet”, sussurrò l’amico.

L’altra focalizzò la magia nel corno e questo si illuminò. Le pupille del topolino si restrinsero di colpo e Nicodemo cadde all’indietro abbagliato, emettendo un verso di dolore.

“Ops. Scusa…”.

Il pegaso iniziò quindi a controllare il materiale cartaceo, molto minuziosamente. Corrugò lo sguardo, cercando di capirci qualcosa. E, in effetti, lui era l’unico in grado di farlo; l’unico a possedere le competenze e le informazioni per decifrare quella marea di appunti e scarabocchi apparentemente senza senso.

Dash si sentì vagamente inutile, in quell’istante. Non ci capiva niente.

“Bingo!!”, esultò l’amico.

Rainbow ebbe un sussulto. Afferrò repentinamente il documento tra i denti e poi lo infilò nella sacca, senza che la notassero.

Icarus si protese verso il muro e staccò alcuni fogli. Li unì quindi ad altri documenti che aveva racimolato sul tavolo.

“…se devo essere sincero…”, commentò felice, “non ci speravo affatto”.

“Hai trovato ciò che cercavi?”, chiese Scootaloo.

“Credo di sì. C’è più o meno tutto”, affermò, consegnando il materiale a Dash, che iniziò a metterlo nella borsa.

“Ah se non lo sai tu…”, disse la puledra dalla chioma arcobaleno. “Poi mi dovrai spiegare che è tutta ‘sta roba e cosa vorresti farne”.

“Invece non ti dico un bel niente”, la schernì.

“Ehy!”, proruppe. “Sto pure facendo il mulo da soma, per te! Potresti almeno parlarmi gentilmente!”.

“Zitta e sfacchina, donna. E dopo mi farai un panino al fieno fritto”, tagliò corto il puledro, ricontrollando alcuni fogli e sapendo che l’avrebbe fatta infuriare.

E così fu, ovviamente.

Scootaloo si grattò la testa: “Mhh… ci siamo fatte tutte quelle ore di treno… per prendere una manciata di fogli in questo buco?”.

L’ex pegaso alzò le spalle: “Non so che dirti. Ne so meno di te”.

Icarus, senza dire nulla, abbandonò la stanza e fece cenno alle amiche di seguirlo.

 

    Il gruppetto ripercorse i corridoi a ritroso, ritrovandosi nello stanzone di prima.

Il puledro iniziò a controllare nuovamente l’ambiente, finché non individuò un portone arrugginito che conduceva apparentemente ad un piano inferiore, tramite una rampa di scale in ferro.

L’ambiente era buio e la luce esclusa dal complesso, quindi dovette di nuovo intervenire Velvet con la propria magia.

Dash e il pegaso arancione controllarono l’ambiente oscuro e una vaga espressione preoccupata si dipinse sui rispettivi volti.

“…ma sai dove stiamo andando?”, borbottò la compagna con scetticismo.

“So dove vorrei arrivare. Il come posso dedurlo ma non prevederlo”.

“…eh?”, domandò Scootaloo, senza comprendere le sue parole.

“In pratica”, le spiegò Rainbow con supponenza, “sta dicendo che sta girando a casaccio”.

“È così buio…”, ribadì la piccola.

“Non sarà un problema!”, esultò Velvet. Fece quindi qualche passo e per poco non perse l’equilibrio e rotolò giù per le scale. “Ehm… conducete voi?”.

    Icarus iniziò a scendere i gradini, lasciando che l’unicorno lo seguisse, illuminando la via.

Gli zoccoli dei presenti risuonarono e rimbombarono per l’intera struttura metallica, lasciando intuire come facesse parte di un’impalcatura ben più massiccia.

Scesero di parecchi metri, seguirono un corridoio angusto e sbucarono infine in una sala ancor più grossa della precedente. Era anche leggermente inquietante poiché, a ridosso di ciascuna parete, vi erano dei giganteschi forni neri, simili a bocche spalancate. Accanto ad essi si trovavano mucchi di carbone sparsi un po’ ovunque, nonché qualche pala infilata di punta.

Tutto era fermo e silente, donando al luogo un’apparente aura di inviolabilità.

I giochi di luce ed ombre, per via del corno scintillante, creavano continue apparizioni in grado di stimolare la fantasia (e i timori) dei visitatori, specialmente di Scootaloo. Anche Nicodemo ebbe paura, immergendosi completamente tra i crini della padroncina.

Ogni singolo suono o respiro rimbombava e si amplificava oltremisura.

Icarus squadrò attentamente i forni e le enormi condotte che si dipanavano ovunque, generando un intreccio di tubi terminanti nelle pareti.

“Mhh… che posto accogliente”, commentò Rainbow.

“Questo è il cuore pulsante di ogni industria a vapore che si rispetti”, le spiegò l’amico. “Il reparto caldaie”.

“Fa davvero così paura?”, domandò Velvet curiosa.

“Paura? Certo che no…”, mentì Scootaloo.

L’ex pegaso controllò meglio i macchinari: “…chissà quanto movimento, quando questi apparecchi erano in funzione”.

“Già”, continuò Icarus. “Tutto ciò mi fa pensare a quanti pony dovessero lavorare qui, un tempo”.

“È questo che stavi cercando? La sala caldaie?”.

“Sì”.

“Non sapevo volessi dedicarti all’attività di bassa manovalanza, Icarus”, lo derise. “È davvero ammirevole da parte tua”.

Il pony dalle ali di caramello controllò ognuna delle caldaie, finché non ne scelse una in particolare, in cui vi era ancora una cospicua quantità di carbone incombusto.

“Questa potrebbe andare”, sussurrò.

Dash si avvicinò a lui: “Cos’è? Vuoi riavviare la fabbrica?”.

“No. Non è possibile. Questo posto è chiuso da quasi un anno ed è tagliato fuori dal rifornimento idrico. E, senza acqua, non ci può essere vapore per azionare le parti mobili. Senza contare che siamo entrati di straforo in un’area dismessa…”.

“E allora… perché…”.

“Velvet, potresti venire qui un momento?”.

L’amica ubbidì.

“Potresti incendiare il carbone di questo forno?”.

Il pony blu continuò a non capire.

“Beh”, rispose Velvet. “Sì, posso… ma vedi di indirizzarmi nella direzione giusta. Non mi riterrò responsabile di edifici in fiamme o chiappe ustionate”.

“Tranquilla”.

    L’unicorno si concentrò e un raggio, simile alla luce del sole focalizzata da una lente, si proiettò verso le pepite nere.

Dopo alcuni secondi, un piccolo rivolo di fumo iniziò a ondeggiare nel punto di contatto, finché un lumino rossastro non prese a diffondersi con vigoria sempre maggiore.

Passarono i minuti e il fuoco incominciò a crepitare lentamente. Velvet interruppe la magia e lasciò che le fiamme si spandessero spontaneamente.

Dash socchiuse il portello forato della caldaia, come protezione.

“Se non c’è acqua… allora perché hai riacceso questi forni, scusa?”, domandò.

Icarus mantenne un’espressione molto seria e rivolse il muso alle condotte che avrebbero dovuto convogliare il vapore fino al soffitto, per poi riversarlo nelle ciminiere e, da lì, al cielo.

“In un certo senso…”, spiegò sottovoce, mentre le fiamme acquisivano sempre più forza, “è grazie a questa fabbrica se mi son potuto godere la casa tra le nuvole, con tutti i comfort possibili. È grazie a lei se, nonostante la mia malattia, sono stato trattato quasi da Re. Se mi è stata data la possibilità di viaggiare sopra cirri incantati. È grazie a lei…”. Il puledro fece una pausa e si voltò verso l’amica dagli occhi rossi. “…se ho potuto incontrarti, potremmo dire. In realtà sono venuto qui per prendere quei documenti. Ma vorrei anche porgere… un ultimo saluto a questo grosso edificio… che per tanti anni ha dato del lavoro a decine, forse centinaia di pony. Che mi ha permesso di vivere la mia malattia in un ambiente che altri si sarebbero solo sognati. Un ultimo saluto…”.

Rainbow lo ascoltò con attenzione, quindi pensò di capire: “È per questo, quindi… che… che mi hai chiesto…”.

“Sì…”.

La puledra slacciò la sacca in cui non aveva infilato i fogli ed estrasse una grossa ampolla, con estrema delicatezza.

    All’interno del contenitore, brillando di luce propria, vi era un liquido dalle mille sfumature. Erano ben visibili i colori dell’iride stratificati. Muovendo il vetro, tuttavia, i colori si miscelavano momentaneamente tra loro, per poi ricomporsi nella forma originale.

“Hai avuto problemi ad ottenerla?”, le chiese Icarus.

“No. Ne ho preso un po’ alla fabbrica di pioggia e nessuno mi ha detto niente”.

“Quindi non hai dovuto uccidere nessuno?”.

“Nessuno di importante”.

“Immagino tu voglia…”, e gliela porse.

Il puledro si impadronì dell’oggetto, si avvicinò alla caldaia dell’acqua e svitò un tappo di metallo.

Aprì la bottiglietta e infilò il collo nel foro così rivelato, lasciando che il contenuto fluisse all’interno.

“…e ora? Che succede?”, domandò Scootaloo, non sapendo cosa aspettarsi.

 

    I quattro risalirono le scale, attraversarono la sala macchine e si diressero all’esterno dello stabile.

Si trovarono in un ampio stradone intasato dallo smog. Il quartiere residenziale di Steamdale poteva essere sporco e inquinato ma impallidiva di fronte alla mole di ciminiere e scarti di lavorazioni della zona industriale.

Non appena misero piede sul lastricato, si trovarono inghiottiti dalle decine e decine di fabbriche attorno a loro, intente a riversare i rispettivi combusti in cielo. Erano costruzioni minimaliste e fatiscenti, costituite da mattoni consumati e lamiere arrugginite.

I pony percepirono una fastidiosa sensazione di bruciore alla gola. Scootaloo tossì alcune volte e Nicodemo oscillò sulla chioma viola, preda di capogiri.

Si allontanarono  dalla fabbrica e si voltarono infine verso di essa, potendo rimirarla in tutta la sua imponenza: era davvero una struttura impressionante, con una facciata di quattro piani e comignoli alti quanto grattacieli, che si perdevano tra le coltri fumose.

Icarus, appena illuminato da un sole che sembrava sul procinto di estinguersi, per via delle dense esalazioni, si concentrò con attenzione sull’industria.

Vide l’enorme insegna in ferro battuto che sovrastava il portone d’ingresso. Era vecchia e arrugginita ma ancora leggibile.

 

Hephaestus

 

Sotto, in caratteri più piccoli, era riportata una placca in basso rilievo con una scritta in lingua morta.

Il puledro la fissò e poi divenne silenzioso, restando immobile per diversi secondi.

“Cosa dice?”, le domandò Dash.

Il compagno abbassò lo sguardo.

Fece un profondo respiro.

“…ascolta le parole che vengono dal cuore”.

“È una… bella frase”, ammise. “Un po’ strana per un’industria, forse…”.

“Sai, Dashie?”, disse, con voce un po’ spenta, riprendendo ad osservare l’edificio e le enormi canne fumarie. “Mio padre non mi ha mai detto molto, di questa fabbrica. E il poco che so me lo ha confessato di recente, quando era ormai chiusa da tempo”.

Icarus sospirò di nuovo. “Anche se può sembrare strano… so che lui e i suoi parenti ci tenevano davvero molto a questo posto. Per loro… per lui, soprattutto… permettere ai pony di volare, tramite i componenti per i velivoli, era davvero tutto”.

Le amiche lo ascoltarono assorte.

Il pony dalle ossa di caramello si rivolse al cielo e agli zeppelin lontani.

Sorrise appena.

“Mio padre è sempre stato affascinato dal volo… dall’aria… dalla possibilità di sconfiggere i limiti imposti dalla gravità. Lui è pegaso… ma ho capito che avrebbe sempre desiderato un mondo dove tutti avessero avuto la possibilità di volare, in un modo o nell’altro. Per lui… la fabbrica non era solo una fonte di guadagno. Era la possibilità di realizzare questo sogno”.

Icarus fece una pausa e Rainbow notò i suoi occhi inumidirsi appena.

“Lo sai che la Cirrus è un suo progetto?”, continuò.

“Sì… me lo avevi accennato”.

Il volto dell’amico si accese quindi di commozione. Tutte, persino Velvet che non poteva vederlo, notarono come si fosse rituffato nelle sue memorie e come, colto dall’emozione, le stesse letteralmente tirando fuori.

“Mi ricordo che una volta, da puledrino… quando ancora non ci eravamo trasferiti nella casa sopra Ponyville… entrai nel suo studio, nella nostra prima abitazione. E… rimasi affascinato ad osservare la stanza. Era piena di fogli, progetti, modellini… Mi trovai circondato da piccole nuvole in miniatura, soffici come zucchero filato. Erano i primi prototipi della Cirrus. Lui… lui era sempre stato affascinato dai cirri. Ogni tanto, lo sapevo, spiccava il volo… e si spingeva fin dove l’atmosfera diveniva rarefatta… fin dove il freddo non ti raggelava il fiato sul muso… dove tutte le nuvole scomparivano. Tutte… tranne i cirri”. La sua voce tremò per un secondo. “Un luogo che non riuscì mai a raggiungere veramente, confine per tutti i pegasi. Riuscì soltanto a sfiorarlo… e a prendere un po’ di quell’effimera massa condensata. Per il suo sogno. Per lui. Per coloro che non potevano volare. E per… per me…”.

La puledra blu lo scrutò in viso e notò una piccola goccia scendergli dalla guancia. L’amico si girò quindi verso di lei.

“Lui… lui pensa di non essere stato un buon padre. E… e non sa… che non… che non è vero. Perché quel giorno… nel suo studio… trovai il pavimento pieno di lettere accartocciate. Mi ricordo che… ne presi qualcuna… e la lessi”.

“…cosa… cosa dicevano?”, domandò timidamente Scootaloo.

Icarus proruppe in una risata mista ad un pianto soffocato: “Tutte… tutte iniziavano con le parole caro Icarus. In ogni versione, poi, seguivano delle confessioni… su come stesse soffrendo per me. Su come si sentisse impotente e incapace di dirmelo a parole. E su come… avrebbe voluto urlare al cielo stesso la sua rabbia… Lo stesso cielo che rappresentava il sogno che da sempre lui aveva inseguito… e che io mai avrei potuto vivere”.

Rainbow Dash si avvicinò delicatamente a lui e chiuse gli occhi, strofinando delicatamente la fronte contro la guancia color cenere.

“E su una di quelle lettere… trovai una frase… che mai dimenticherò. Dopo aver espresso il suo risentimento nei confronti del fato stesso… papà… cioè… mio padre… mi disse di non preoccuparmi… che non avrei dovuto invidiare coloro che volavano rapidi tra le nuvole… perché… perché tanto più voliamo veloci…”.

La compagna completò la frase: “…tanto più ci allontaniamo da coloro che non possono volare”.

Il volto del pegaso tornò cupo: “Lui non lo sa. Non gli ho mai parlato… di quella lettera che trovai per caso. E solo dopo mi resi conto di quanto dovesse essere importante questa fabbrica, per lui. Doverla chiudere… dopo aver investito tutte le sue energie per me… deve essere stato come… come rinunciare ai suoi sogni… alle sue aspirazioni. E, nonostante tutto… senza di lui… senza questo posto… io non avrei mai solcato i cieli. Io non avrei mai potuto… giungere dove sono ora”.

“Vola solo chi osa farlo”, rispose Velvet, con volto assolutamente indecifrabile.

L’uccisore di draghi si asciugò le lacrime e sorrise: “…vedo che oggi gli aforismi si sprecano”.

“Sei tu che mi contagi con la tua filosofia spicciola”, ribatté l’unicorno.

Icarus prese quindi uno zoccolo di Dash tra i suoi: “Ora… capisci perché questo posto è così importante per me, nonostante non lo abbia quasi mai visto… e perché io… voglia porgergli quest’ultimo saluto…”.

“Però non sta accadendo nulla”, lo informò il pegaso arancione, con gli occhi al cielo.

 

    Tutti si focalizzarono sulle ciminiere dell’Hephaestus, che in quel momento erano completamente inattive e silenti.

Poi, proprio quando la speranza sembrò vacillare, una tenue lingua grigia salì lentamente dalla sommità lontana.

Dopo alcuni secondi, il comignolo emise una scarica di vapore.

Le luci elettriche esterne iniziarono ad accendersi ad intermittenza, una dopo l’altra.

Clangori metallici provennero dalle mura, con ritmi via via crescenti.

Quindi avvenne.

 

Una scia dalle incredibili tonalità multicolore emerse lentamente dalla ciminiera in funzione.

Il filamento cromatico assunse sempre più sostanza ed iniziò a dipanarsi all’interno della pesante cappa di smog scuro.

Scootaloo spalancò gli occhi e aprì la bocca.

Una vera e propria condensa colorata si stava dipingendo nel cielo, come se un pittore avesse versato inavvertitamente tutti i colori della tavolozza sulla tela.

In mezzo a quell’ambiente triste e sterile, la colonna arcobaleno risaltò come una cometa nella notte. Quando poi ricoprì il sole, iniziò a proiettare tenui bagliori lungo l’intero complesso di edifici, come se la gigantesca vetrata di una cattedrale si fosse affacciata per un istante dalla volta celeste.

Icarus osservò intensamente il fenomeno.

 

Quello sarebbe stato l’ultimo respiro della fabbrica.

La sua ultima corsa.

In un certo senso… il suo ultimo volo.

 

“Mi dispiace che tu non possa vedere questa meraviglia, Velvet…”, ammise con rammarico.

L’altra, tuttavia, mostrò un viso esterrefatto quanto il suo: “In verità… è come se sentissi la vostra meraviglia vibrare come corde pizzicate nell’aria…”.

“…certo che tu sei strana…”, borbottò Scootaloo.

L’unicorno le rispose con un grande sorriso.

 

    Poi, così come si era avviata, la fabbrica si spense lentamente.

I macchinari persero di intensità e si chetarono.

Le luci tremarono un’ultima volta e poi svanirono una dopo l’altra.

Il vapore colorato cessò di uscire dalla canna, lasciando però che la condensa rimanesse a lungo nell’atmosfera. L’ammasso cromatico si dipanò sempre di più e i colori iniziarono a mescolarsi tra loro, perdendo poco per volta di intensità.

 

Con un ultimo stridio metallico, le macchine si fermarono del tutto e il luogo ripiombò nel silenzio.

Il gigante cadde in un letargo da cui non si sarebbe mai più risvegliato.

 

I quattro rimasero fermi a lungo, senza dire nulla.

Il muso di Icarus si bloccò in un’espressione molto seria, difficile da decifrare e comprendere.

“Va bene”, disse infine, dando le spalle alla facciata con l’insegna, come se non riuscisse più a star lì. “Ho trovato quello che mi serviva. E sono riuscito a fare quest’ultima, stupida cosa…”.

“Non è stata stupida…”, gli sussurrò Rainbow, allontanandosi assieme a lui.

“Ok”, le rispose, riconquistando un po’ di arroganza. “Comunque è fatta. Ora devo concludere altre faccende, qui a Steamdale. E tu non sei invitata”.

“Lo immaginavo”, replicò sorridendo. “Per questo motivo mi sono tenuta il pomeriggio libero. Ho infatti appuntamento in uno dei bar di Steamdale”.

Icarus drizzò le orecchie. Pensava che la compagna avrebbe insistito per accompagnarlo. E invece…

“Mh. Ti vedi con qualche stallone?”, insinuò, cercando di nascondere il sospetto nei suoi confronti.

“Ovvio. Due, per la verità”.

“Capisco…”.

“Non è che puoi presentarmene uno??”, domandò trepidante Velvet. “Possibilmente bello e ricco!”.

“Fossi matta! Me li tengo tutti per me! Tu e Scoot non siete comprese!”.

Il compagno allungò le zampe verso le due e le tirò a sé: “Venite con me, ragazze. Lei se ne va con due stalloni e io me ne vado con le mie due puledre preferite, tzè”.

“Non credo sarà una cosa lunga”, precisò Dash.

“Nessuno ti vuole… mettici pure tutto il tempo che ti pare”, rispose imbronciato.

“Va bene”, replicò, cercando di baciarlo sulla guancia, prima di andarsene.

L’altro, tuttavia, la respinse dimenando goffamente gli zoccoli davanti a sé: “Non li voglio i tuoi bacetti, fedifraga!”.

La compagna gli sorrise: “Come vuoi. Vorrà dire che li darò ai miei due pretendenti, allora”.

“Ecco, brava! Va via!”.

La puledra gli diede le spalle ma si fermò un ultimo istante, scrutandolo con la coda dell’occhio: “…rendezvous al Rusty’s?”.

“Se non scappi con i tuoi pretendenti… va bene”.

“…anche io ti voglio bene… stupido pegaso…”.

 

E si allontanò.


    In quel preciso momento, in un piccolo locale non molto lontano dalla fabbrica e dai suoi visitatori, un pegaso bianco fece il suo ingresso, con passo lento e affaticato.

Indossava un copricapo un po’ logoro, che appese mollemente ad un attaccapanni situato accanto all’uscio.

La stanza comprendeva un bancone da bar, alcuni sgabelli, qualche tavolo e un pugno di clienti, chini sui propri beveraggi. Presentavano un’aria annoiata e piuttosto abbattuta.

Daedalus scrutò i commensali e nessuno di loro ebbe nemmeno la voglia o la forza di vedere chi fosse entrato.

Lo stallone aveva lo sguardo provato, incorniciato da due profonde occhiaie e con la barba incolta (cosa impensabile, tipicamente, per uno come lui).

Trascinò le zampe fino al banco, quindi prese posto, provando un’incredibile senso di sollievo quando il posteriore si poggiò sull’imbottitura.

Slacciò la cintura e due pesanti ventiquattrore laterali cascarono sul pavimento.

“Oh Celestia…”, sospirò risollevato. “Sono… davvero distrutto”.

Espirò con forza, poggiando quindi la fronte sul ripiano.

Chiuse gli occhi.

“Ehy, Ded”, esclamò qualcuno di fronte a lui. L’altro risollevò lo sguardo, con le palpebre che facevano di tutto per richiudersi. Era il gestore: un tizio magrolino con dei grossi baffoni scuri. “Ded”, continuò. “Cavolo… non ti ho mai visto così… così…”.

“…così ammaccato?”, sussurrò il pony bianco.   

“Stavo per dire… affaticato”.

“È lo stesso…”.

“Mh…”.

Daedalus incominciò a ciondolare, come se stesse per addormentarsi da un momento all’altro. L’inserviente colpì un paio di volte il bancone, cercando di tenerlo sveglio.

“Eh? Uh…?”, esclamò sconclusionatamente.

“Sempre a fare gli straordinari, eh?”, gli chiese sorridendo.

“Sì… più o meno…”.

“Lavori sempre dai parenti di tua moglie?”, cercò di informarsi, prendendo a pulire alcuni boccali con un panno.

L’interlocutore poggiò la guancia su uno zoccolo e usò il ripiano come supporto: “Uhm… sì… sì, sempre lì…”.

“Com’è che si chiama? Rusty’s, dico bene?”.

“Già”.

“Non potevi prenderti da bere là? Cioè, non mi fraintendere. Mi fa piacere che tu venga qui ma non è un po’ lont…”.

“Fossi matto!”, esplose all’improvviso. “Ci passo quasi tutto il giorno, là dentro! E una manticora mi mangi la testa se mai oserò prendere qualcosa che servono in quella bettola!”.

“Uao. Dev’essere proprio un bel posto…”.

“Bah. Non parliamone”, mugugnò, tornando ad appoggiarsi.

“Il solito?”, chiese il pony baffuto, avvicinandosi ad una spillatrice.

“Sì, grazie… ma solo una piccola. Ho le tasche bucate, ormai…”, gli rispose, osservando con amarezza un punto casuale di fianco a lui.

Un istante prima di aprire la valvola, il gestore si bloccò e gli chiese: “Ehy… aspetta un attimo… Sbaglio o tua moglie era in dolce attesa, l’ultima volta che ci siamo sentiti?”.

“Sun… Sunshine? Sì… cioè lei…”.

“Oh… e… e quanto manca?”.

“Ehm… è… è già nato… e…”.

“COSA??”, berciò, facendo sobbalzare qualche cliente assopito. “E lo dici così??”.

“Eh… sì, scusa, è che ultimamente è tutto così…”.

Il tizio mise da parte il boccale piccolo e ne prese uno decisamente sovradimensionato.

“Ehy, ehy…”, protestò Daedalus. “Frena… non me lo posso permettere…”.

“Al diavolo, Ded!”, lo incitò, iniziando a spillare sidro. “Sei diventato papà per la seconda volta!! Offro io!”.

“S… sei diventato padre?”, domandò uno sconosciuto, mezzo ubriaco. Era appostato al bancone accanto al pegaso dai crini viola.

Daedalus iniziò a sfregare gli zoccoli tra loro: “Beh… sì, io…”.

“Ehy, brutta gente”, disse quindi il cliente, rivolgendosi agli altri pony nel locale. “Piantatela di schiantarvi il fegato da soli, venite qui. Questo damerino è appena diventato padre”.

I bevitori iniziarono a ridestarsi dal rispettivo imbambolamento etilico e, uno dopo l’altro, presero a sedersi accanto allo stallone bianco.

“Uao… sei davvero diventato padre?”, domandò uno, con volto martoriato dal sonno ma sorridente.

Un altro si intromise: “E… ed è… un maschio? Una femmina?”.

Daedalus si trovò circondato da un piccolo numero di curiosi, con un grosso boccale d’innanzi a sé.

“E… uh… sì… cioè, io…”, balbettò, cercando di contenere l’imbarazzo. “Sì è un… è una femmina. Si chiama Iris”.

Gli ubriaconi esplosero in un verso di intenerimento. Qualcuno gli allungò persino una bottiglia mezza vuota ma, cercando di nascondere il ribrezzo, la rifiutò prontamente.

“Non mi hai più detto niente, Ded!”, riprese il padrone del bar.

“Lo… lo so. È che c’è stato un sacco di… di… insomma sono stato molto impegnato. E poi… è successo tutto così in fretta. Dal lago son dovuto tornare a Steamdale e da Steamdale a Ponyville”.

“Ponyville? Dov’è?”.

“È un piccolo villaggio non molto lontano da Canterlot. È lì che Sunshine si è recata, con… con la piccola Iris… in un luogo in mezzo alle campagne”.

“Ohh! Capisco! Beh, secondo me hai fatto proprio bene! Eee… dimmi! Com’è ‘sta puledrina?? È carina?”.

Il volto del padre si accese improvvisamente di entusiasmo. Afferrò una delle valigie e la aprì, cercando energicamente tra le varie scartoffie al suo interno. Alla fine si stufò, la vuotò rovinosamente sul bancone, finché non trovò una piccola fotografia.

La mostrò con orgoglio ai presenti, che intonarono il secondo verso di emozione della giornata.

“Mammamia bella! È un pasticcino!!”.

“Dannazione me la mangerei tutta!”.

“Che musetto! Avete mai visto un musetto come questo??”.

Il gestore controllò l’immagine e poi dichiarò: “Uao… è… è davvero… Sono senza parole, Ded! Congratulazioni!”, e gli diede una vigorosa pacca sulla schiena.

“Io… uh… g-grazie…”. Si portò quindi il boccale alle labbra e trangugiò un sorso.

“…e questo chi è?”, domandò uno dei tizi, con un’altra foto tra gli zoccoli. “Sei tu da giovane?”.

Daedalus posò il contenitore, si asciugò con il dorso di una zampa e cercò di capire a cosa si stesse riferendo.

Il suo volto cambiò repentinamente, divenendo all’improvviso serio e taciturno.

“Quello…”, rispose con estrema lentezza. “No, quello… quello è… è l’altro mio figlio. Icarus…”.

Il barista non disse nulla. Conosceva i precedenti del pony bianco e si limitò a tacere.

“Beh”, continuò lo sconosciuto. “Un domani sarete voi due ad insegnare alla piccola come si vola! È una bella opportunità!”.

Il festeggiato si spense, posando gli occhi sull’immagine del figlio.

 

Icarus era in una delle pose più fiere e autoritarie che avesse mai visto. Era una foto scattata poco prima di iniziare la terapia all’Emerald Lake, quando l’entusiasmo e la combattività gli sprizzavano da tutti i pori. Sembrava quasi sorridere con arroganza.

Daedalus si concesse una lunga pausa.

Risollevò quindi il muso verso l’interlocutore e disse: “No… no lui… lui ha una malattia molto… particolare. Non può volare”.

 

Tutti sgranarono gli occhi e si chetarono, osservandolo intensamente.

“Oh… m-mi dispiace…”, si scusò l’altro. “Non volevo…”.

“Tranquillo”, lo rassicurò, alzando una zampa. “Non fa nulla…”.

Iniziò quindi a scrutare il proprio riflesso, distorto dal liquido ambrato contenuto nel bicchiere.

Emise alcuni sospiri e la sua attenzione si spostò più volte dal boccale alla foto di Icarus, sistemata proprio di fianco ad esso.

Passarono lunghi attimi di silenzio.

Lo stallone distese le zampe anteriori, puntellandole contro il bancone, e si allontanò.

“Scusate”, farfugliò, cercando di nascondere il volto.

Gli altri lo osservarono e non fecero nulla.

Daedalus camminò lentamente tra i tavoli, avvicinandosi ad una delle finestre del locale.

Quando fu d’innanzi ad esse, potendo scorgere il proprio muso riflesso, puntò gli occhi al cielo, lambito dalle centinaia di esalazioni delle fabbriche all’orizzonte.

 

Una strana sensazione si fece strada nella sua mente… e nel suo cuore.

 

Sai, papà?”.

 

Cosa?”.

 

L’unica cosa che mi spiace di tutto questo…

…è che non potrò vedervi volare assieme nel cielo”.

 

Il pegaso sbatté più volte le palpebre, con volto bloccato in un’espressione difficile da comprendere.

“Ded…”, si intromise delicatamente il padrone del locale, dietro di lui. “Va tutto… va tutto bene? Vuoi che… che ti lasciamo un po’ da solo?”.

“No…”, rispose, cercando di tornare alla realtà. “No, va tutto… va tutto bene”.

“Sicuro…?”.

Daedalus sembrò pensarci a lungo, combattuto tra l’esigenza di confidarsi e di non esternare la propria emotività.

Alla fine… cedette.

Tornò con lo sguardo al cielo.

“Hai presente…”, riprese con pacatezza, “…quando da piccolo ti dicono… di non… di non smettere mai di sognare? Di credere sempre nei tuoi sogni? Di sperare fino all’ultimo?”.

“…beh… sì”.

Il pony dagli occhi viola si focalizzò sul sole lontano: “Io… io ci ho provato. Io ci ho creduto. Ma… ma alla fine… non sono riuscito a fare nulla… se non a…”.

“Aspetta, Ded”, lo interruppe. “Ora non tirarti addosso colpe che non…”.

“Io non c’ero”, dichiarò con fermezza, voltandosi verso di lui. “Io non c’ero quando… quando lui ne aveva bisogno. Sono rimasto per anni chiuso dentro quella fabbrica. E… e non sono mai riuscito a far nulla. Se non a stare lontano da lui”.

“Hai cercato di aiutarlo, Daedalus. Hai fatto tutto quello che ritenevi giusto…”.

“Sì… ma non lo è stato”, ammise con rassegnazione, voltandosi verso la vetrata. “Ho perso tempo. Ho perso soldi. E quel che è peggio… mi sono perso… mio figlio. Un figlio che… che nonostante tutto… continua a combattere”. Gli occhi del padre divennero lucidi. “Che si sforza sempre… di… di andare avanti... E adesso proprio come allora… io… io non posso fare altro… che… che stare a guardarlo… Non… non posso fare niente… niente per lui…”.

Il pony con i baffi abbassò il muso, vagamente dispiaciuto.

“Il massimo che sono riuscito a fare… è stato chiudermi in una stupida fabbrica per anni ed anni… mentre lui… affrontava la sua battaglia da solo…”.

“Io mi ricordo di quel posto”, cercò di consolarlo l’altro. “E non era una stupida fabbrica. Ti conosco. Per te era molto di più…”.

Lo stallone chiuse gli occhi, con la fronte contratta dalla sofferenza: “Non lo so… Ormai… non so più cosa ci sia rimasto di buono in me…”.

 

    Il barista lo ascoltò con attenzione ma, alla fine, non seppe assolutamente come tirarlo su di morale.

Poi… qualcosa attirò la sua attenzione, là fuori, da qualche parte.

Si avvicinò al vetro e aguzzò lo sguardo. Si mise uno zoccolo all’altezza delle sopracciglia, per proteggersi dal sole. Daedalus, intanto, restava ad occhi chiusi, forse per cercare di contenere la tristezza.

“E-ehy… Ded…”, balbettò.

“…cosa?”.

“Quel… quell’affare… non sta uscendo da…”.

Il pegaso sollevò le palpebre e il grigio paesaggio di Steamdale tornò a fare da padrone alla scena.

“Di cosa parli…?”, chiese, con voce triste.

“Ded… quel fumo”, precisò, puntando la zampa verso un punto esterno. “Non… non sta uscendo dalla tua vecchia fabbrica? Dall’Haephestus?”.

“Fumo? Ma che vai farneticando? La fabbrica è chiusa da un anno, ormai”.

“Allora devono avermi fornito un sidro più forte del solito, all’ultimo importo… Perché, che mi esplodano tutti i barili, quella roba sta uscendo dalla tua industria…”.

Daedalus parve innervosirsi e scrutò l’orizzonte con maggior attenzione.

 

Lo vide.

 

I suoi occhi si spalancarono.

Sembrò non volerci credere.

 

Si allontanò dalla finestra e uscì rapidamente dal locale, seguito da alcuni clienti, per osservare meglio.

Si riversarono in strada, fermandosi a pochi metri di distanza dalla porta.

Il pegaso era immerso in un’espressione di assoluto stupore.

Eppure non aveva dubbi… conosceva quel posto come le sue zampe.

 

Quella lingua di fumo colorata stava proprio uscendo da uno dei comignoli dell’Haephestus.

 

“Che diamine è?”, chiese qualcuno.

“…però ha dei bei colori…”.

“…sarà una roba chimica?”.

 

Daedalus scosse il capo.

Non capì cosa fosse.

Non se lo domandò neppure.

Ma qualcosa di piccolo e impercettibile scattò, dentro di lui.

 

Una strana sensazione, simile ad un commovente senso di nostalgia.

 

E così, per la prima volta in vita sua, Daedalus non cercò di trovare una spiegazione.

Non fece nulla se non sedersi ed osservare l’arcobaleno gassoso spargersi nel grigio smog delle industrie.

 

Un piccolo batuffolo colorato.

Assolutamente unico, in mezzo a quel denso mare di abbandono.

 

*** ***** ***

 

    Lo zeppelin su cui viaggiava Rainbow Dash fece tappa presso una zona periferica di Steamdale e la passeggera ne approfittò per scendere e recarsi al proprio “appuntamento”.

Il luogo dell’incontro non era stato deciso da lei e si trattava di un piccolo bar su una balconata di uno dei più alti (e recenti) grattacieli dell’intera città.

Per salirci, dovette sfruttare un sistema di elevazione simile a quello che utilizzarono lei ed Icarus l’ultima volta. Qui, tuttavia, c’era molto più caos e il posto brulicava di pony.

Dash si sentì immediatamente fuori luogo, in quell’ambiente. Indossavano tutti strambi vestiti d’altri tempi e, da quanto aveva capito, l’edificio altro non era che un fitto assembramento di negozi, in cui i visitatori potevano spendere i propri risparmi in oggetti che mai aveva visto da altre parti.

Nonostante avesse residenza a Cloudsdale, rimaneva pur sempre un semplice pony di campagna, abituata a pochi abitanti e una piccola cittadina.

    L’ascensore giunse al livello desiderato e riversò parte degli occupanti in un colossale terrazzo che si protendeva dall’edificio. La struttura era stata collocata in modo che, da quella angolazione, si potesse effettivamente godere di un paesaggio decente, persino per una città inquinata come quella. Erano così in alto da aver oltrepassato il primo strato di smog.

All’ex pegaso tornò in mente l’avventura di quel pomeriggio. A ripensarci: avevano corso un pericolo non indifferente.

La calca della folla era soverchiante.

Perlomeno si trovavano all’esterno: si poteva respirare e il vociare non rimbombava tra le pareti di un corridoio.

Notò quindi l’insegna del locale in cui avrebbe dovuto recarsi: era un bar, per l’appunto, che aveva disposto una serie di sedie e tavolini lungo la ringhiera della zona più esterna della balconata. Erano quasi tutti occupati, così Rainbow attese pazientemente che qualche posto si liberasse e si sedette, collocando la sacca accanto a sé.

Da quella posizione poteva rimirare a perdita d’occhio l’enorme distesa di edifici metallici che componevano Steamdale. Era davvero impressionante quanto si fosse ingrandita la città in così poco tempo. Soltanto pochi grattacieli superavano in altezza il colosso su cui lei stessa si trovava, e i comignoli fumosi facevano venire il mal di testa, tanto erano numerosi.

Tirava anche un venticello leggero ma nulla che si potesse paragonare all’aria pulita di Ponyville e dintorni.

Il sole brillava, apprestandosi a calare per lasciar spazio alla sera.

    Uno stallone fece la sua comparsa: “La signorina desidera?”, le domandò un tizio, con baffetti riccioluti e agghindato da damerino. Reggeva un piccolo taccuino e il corno in fronte luccicava, facendo levitare una matita.

“Ah. Uh…”.

Dov’era finita? Quello non era di certo un posto adatto a lei.

“Sto… sto aspettando qualcuno… Potrebbe attendere e ripassare tra un po’?”, chiese gentilmente.

L’altro alzò le sopracciglia, come segno di supponenza.

“D’accordo… signorina. Ma che non sia una scusa per occupare abusivamente codesto spazio ivi circoscritto!”, e si allontanò impettito.

“È stato un piacere anche per me…”, ironizzò l’altra, che non sopportava simili atteggiamenti. “…spero che quei baffi ti si arriccino fino agli occhi…”, sottolineò a bassa voce.

 

    Passarono i minuti e nessuno arrivò.

Notò quindi qualcuno sopraggiungere all’orizzonte, volando sulle proprie ali. In pochi istanti planò verso di lei e le spalancò, creando un boato d’aria che le permise di collocarsi sulla sedia di fronte alla puledra. La criniera multicolore sventolò all’indietro e alcuni occupanti protestarono.

“Ehy, Dash”, berciò Gilda, con suo solito fare strafottente.

“…Gilda”, rispose l’ex pegaso, risistemandosi la criniera.

“Scusa il ritardo”, si affrettò a precisare, posando le zampe artigliate sul tavolino. “Ho avuto qualche contrattempo”.

“Credevo che Steamdale fosse zona a volo limitato…”, insinuò a mezze palpebre.

“Che ci provino a dirmi qualcosa! E poi vale solo per i pegasi”. La creatura dal capo aquilino si soffermò ad osservare il pony. “Ma per te non sarà più un problema, mi sa”.

L’altra non ebbe la minima reazione. La frecciata le scivolò addosso come acqua su un ciottolo.

“Ma arriveremo a parlare anche di quello”, la rassicurò Gilda, voltandosi all’indietro e preparandosi ad urlare. “Cameriere. CAMERIERE!! Cos’è, battiamo la fiacca??”.

Il tizio di prima fece prontamente ritorno, visibilmente indisposto. Portò la matita accanto ai fogli.

“Le… signorine desiderano?”.

“Un sidro! Il più forte che avete!!”, rispose, battendo un pugno sul tavolo. “E tu, Rain? Che prendi? Dai, offro io”.

“Quello che ti pare”, rispose annoiata, come se non gradisse particolarmente la presenza della sua vecchia amica di volo.

“Allora ci porti due BitterPitch!”.

“Arrivano subito”, ribatté il cameriere, annotando l’ordine e allontanandosi.

Gilda si lanciò in un ultimo richiamo: “E che siano belle fredde, altrimenti col cavolo che ve le pago!!”.

La puledra incrociò gli zoccoli e vi poggiò il mento sopra: “Ti vedo in forma”.

“Già. Beh, faccio del mio meglio”, le disse con altezzosità, lisciandosi le piume sul capo.

“Decisa come un’aquila e strafottente come il re della giungla. Esattamente come un anno fa”.

“Mh. Tu invece mi sembri un po’ diversa. Cosa ti è successo? Hai cambiato pettinatura? Ti sei messa a dieta? Devi dirmi il tuo segreto. Sempre più magra, longilinea. Specialmente sui fianchi”.

Rainbow le sorrise, senza scomporsi: “Sai, dopo un anno non faccio nemmeno più caso ai commenti. Puoi parlarne finché vuoi”.

“Cavolo”, berciò rifilando un altro pugno. “Sei anche cambiata dentro! Una volta saresti montata su tutte le furie”.

“In effetti su una cosa hai ragione. Sono cambiate molte cose”.

“Non mi dire. Ti lascio da sola per un anno… e ti ritrovo in questo stato. Pensavo  che quel circolo di amichette che avevi ti avesse rammollito. Ora non lo penso più. Ne ho la certezza”.

“Attualmente non mi rimangono che le certezze dei dubbi”.

Il grifone piegò il capo su un lato, questa volta visibilmente spiazzato: “Uhh… sei cambiata sul serio. Adesso ti metti a snocciolare proverbi? Ma che ti piglia? Sapevo che eri stata per un po’ dall’istituto di cura all’Emerald Lake… ma non pensavo fosse per una visita psichiatrica…”.

    Due boccali, contenenti un liquido marrone scuro, vennero poggiati sul ripiano, tramite la levitazione.

“Due BitterPitch”, le informò l’inserviente, più simile ad un maggiordomo. “E qui c’è il conto”, aggiunse, collocando un foglietto tra i due contenitori. Se ne andò.

“Spero per te che siano fresche o te le tiro in testa!!”, lo minacciò, tanto per far scena.

Dash ne afferrò una, osservò la consistenza del fluido, e poi lo avvicinò alla bocca: “…ora mi ricordo perché quando ero con te bevevo più del solito. Così era più facile sopportarti”.

“Ah! Brava! Bevi!”, e ne trangugiò metà in un sol sorso. Si passò il dorso di una zampa piumata sotto al becco ed emise un verso di soddisfazione: “Ahh! Sì che ci voleva”.

Anche l’altra ne bevve qualche sorso, in modo più contenuto. Poggiò quindi il boccale e le chiese: “È abbastanza fresca?”.

“Cavolo Dash!!”, ruggì, battendo più volte un artiglio su tavolo e facendo un fracasso infernale. “Questo mi rimanda ai vecchi tempi! Quando ci trovavamo a combinarne delle belle. Io e te, a piantar grane in giro per Cloudsdale. Ti ricordi?”.

“Sì. Sì, mi ricordo”.

“Svolazzavamo come due sceme tra i palazzi. Ci fermavamo… facevamo qualche pasticcio e poi ripartivamo, pronte a ricominciare!”.

Il pony dalla chioma colorata si soffermò ad osservare la schiuma nel boccale. Sorrise appena, giusto un istante, lasciando che una piccola dose di nostalgia e ricordi le filtrasse nella mente.

“C’era stata addirittura quella volta che ci avevano sbattute fuori dall’accademia di volo!”.

L’accaduto le tornò alla memoria come un fulmine.

Dash non poté fare a meno di sobbalzare leggermente, preda di una timida risata.

“Tu eri stata sbattuta fuori dall’accademia”, replicò l’altra. “Io mi ero nascosta nei bagni dei puledri”.

Gilda ebbe un sussulto, durante un’altra sorsata, e soffiò sidro da tutte le parti: “…ecco perché avevano beccato solo me, all’inizio!”.

 

    Le due si scambiarono un’altra serie di battute sui tempi trascorsi e Dash, leggermente corroborata dall’alcol, si fece trasportare dalla nostalgia. Rimasero per più di un’ora al tavolino, facendo a gara a chi l’avesse combinata più grossa. Gilda poteva essere una testa calda, con il senso del tatto di un drago con l’ulcera, ma poteva anche risultare di compagnia, quando voleva.

Il sole divenne rosso, iniziando a calare definitivamente oltre gli edifici lontani.

Anche la calca di visitatori diminuì, lasciando meno avventori e permettendo alle due di comunicare più liberamente.

Erano entrambe al secondo giro di sidro.

 

“…e poi mi son ficcata sotto il carro. Non mi hanno vista finché il tizio non l’ha trainato via!”, raccontò il grifone, asciugandosi una lacrima sul bordo di un occhio.

La puledra aveva una zampa sopra al tavolo e una guancia appoggiata ad essa. Con l’altra reggeva il boccale quasi vuoto. Il blu del suo volto mostrava un’accennata tonalità di rosso.

“Già”, commentò. “Bei tempi…”.

Gilda vuotò il bicchiere e si asciugò di nuovo il becco. Ci furono alcuni momenti di silenzio.

La creatura mitologica sembrò quindi divenire più seria del solito. Scrutò il cielo vermiglio, quindi riportò l’attenzione sul pony dagli occhi (e muso) rossi.

“Dash. Senti un po’…”.

“Cosa?”.

Gilda sembrò sforzarsi di apparire un po’ meno spaccona del solito: “…seriamente. Perché?”.

Rainbow si zittì. Il suo volto divenne inespressivo e abbassò gli occhi.

“Ti ho lasciata”, continuò il grifone, “che eri una campionessa dei cieli. Un asso del volo. Poi ho saputo di quella strana nomina. All’inizio non ci volevo credere. Non potevo pensare che avessi fatto una cosa così… così stupida…”.

Dash iniziò a passare delicatamente uno zoccolo attorno al bordo del bicchiere. Quando udì quell’affermazione, continuò ad osservare intensamente l’oggetto e sorrise.

“Come puoi averlo fatto??”, domandò l’altra, prendendo a dimenare gli artigli con foga. “Come puoi… aver rinunciato a ciò che eri? Come puoi aver gettato via tutto?”.

L’interlocutrice continuò a compiere quel ritmico gesto.

Sempre senza guardarla, rispose: “Me l’hanno chiesto tante di quelle volte. Non sai quante”.

“E vorrei ben vedere!”.

“E io ogni volta rispondevo sempre la stessa cosa”.

“Mh. E cosa?”.

La zampa si fermò.

Rainbow alzò gli occhi sulla compagna di bevute: “…era la cosa giusta da fare”.

“Giusta da fare??”, sbottò. “Ma ti senti quando ti ascolti? Hai dato via le TUE ali! Per… per un pegaso… Malato per giunta…”.

“Già”. Riprese a muovere la zampa e ad osservare il bicchiere. Rise. “È proprio una cosa… che non senti tutti i giorni”.

“E non ti manca il volo, scusa?”.

“Sì. Tantissimo”.

“E… e allora… perché??”, cercò di capire.

“Perché… perché sono nata pegaso. E sempre avrò il desiderio di tornare a volare”.

“Appunto, razza di testa di legno!!”.

Rainbow sorrise ancora di più.

L’altra continuò: “Oh, dannazione! Mi sembra di parlare con un vecchietto dell’ospizio. Senti… parlami di lui. Di questo… Icarus, giusto?”.

“Cosa vuoi sapere di lui?”.

“Chessò. Che tipo è. È bello? Ha un magnetismo animale? È ricco? Dovrà esser valso le tue ali, no?”.

“Oh no”, si affrettò a precisare, scuotendo il capo. “Lui è… magro. Esile. Riesce a malapena a trascinarsi in giro”.

Gilda iniziò a spalancare il becco.

“Non ha un soldo. La sua famiglia è praticamente sul lastrico. È sboccato. Arrogante. Antipatico. Testardo. Non sa relazionarsi quasi con nessuno. Però, glielo concedo… ha un viso fine. A modo suo credo sia un… un pegaso niente male”.

“Cioè, fammi capire…”, la interruppe, pinzandosi lo spazio tra gli occhi con gli artigli. “Hai rinunciato alle ali per uno… che ha un viso fine? Tutto lì? Una sorta di disadattato sociale senza un soldo?”.

Non sapeva se fosse per via dell’alcol in corpo. Due boccali. Non erano poi tanti, per lei.

Dash si appoggiò lentamente col viso sul tavolo. La bocca era leggermente aperta. Il suo guardo vagamente assente, intento ad osservare la sua stessa zampa che continuava a ruotare attorno al bordo del contenitore.

“Lui…”, sussurrò, come fosse fuori dalla realtà. “Lui… è Icarus. Non ho mai incontrato qualcuno come lui. Lui è… forte. È gentile. È sensibile. È… buono… dolce…”.

“Ma… hai appena detto che lui…”.

Rainbow continuò, come se nemmeno l’avesse sentita: “…lui si fa tanto male. Tanto, tanto male”. Le scappò una lieve risata e poi si rattristò progressivamente. “È orgogliosissimo. Ma certe volte… pensa soltanto di non essere degno di nulla. Non so se sia per via del suo passato... o se ci sia dell’altro. Ed è questa la cosa che più mi spiace per lui. Il fatto che lui… non si ritenga… mai degno di alcuna felicità…”.

    Gilda le strappò di zampa il boccale e lo finì al posto suo.

Dash tornò alla realtà e la osservò con volto interdetto.

“Bah”, commentò il grifone, gettando il bicchiere giù dalla balconata, alle proprie spalle.

“Ehy… e se passasse qualcuno…”.

“Non sei nemmeno più in grado di reggere due pallottole. Ti sei rammollita più di quanto pensassi”.

Batté un altro pugno sul tavolo. Questa volta, però, fu per un motivo diverso. Quando ritrasse la zampa, rivelò la manciata di monete che sanciva il conto.

Si alzò e si voltò, dandole la schiena leonina.

“E sei diventata anche tremendamente noiosa”.

L’altra rimase seduta a guardarla, senza dir nulla.

Ci fu una lunga pausa.

Il grifone chinò il capo e, con voce stranamente calma, senza più girarsi, le comunicò: “È stato bello rivederti, Dash…”.

“…in un certo senso… anche per me”.

“Dimmi solo più una cosa”. Mostrò il volto aquilino di profilo, illuminato dai rossi raggi del tramonto. “Tu hai fatto la tua scelta. Non la capisco. Non la rispetto nemmeno, sarò sincera con te”.

“Come sempre…”.

“Ma dimmi. Questo… Icarus… è entrato nella tua vita, ormai. Questo mi sembra chiaro”.

“Peggio di un treno in corsa”.

“…pensi di passare la tua vita con lui?”.

Gli occhi di Rainbow Dash si spalancarono e un’improvvisa consapevolezza le fulminò la mente. Gilda non sapeva nulla della sua malattia. Non sapeva che fosse…

“Hai rinunciato alle tue ali, Dash”, ripeté. “Hai distrutto anni di preparazione al volo. Per lui. Distrutto le fondamenta, e con esse un promettente futuro. Spero tu ne abbia gettate di nuove e altrettanto solide”.

La puledra non rispose.

“D’accordo”. Concluse Gilda, riportando lo sguardo davanti a sé. “Non ne vuoi parlare”.

“Non è quello…”.

“Non importa”, rispose, spalancando le ali. “Come ho detto… è stato bello parlare di nuovo con te, Rain. Ci si becca in giro”. E spiccò il volo, spandendo qualche piuma nell’aria.

 

L’ex pegaso rimase ad osservarla in silenzio.

Vide la sagoma dell’amica farsi lontana, sempre più distante.

 

Fino a scomparire, ingoiata da un sole di fuoco.

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Capitolo 7
*** Sognatori ***


    Riaprì gli occhi.

 

La volta celeste era mutata in un oscuro cielo puntinato di stelle luminose.

 

Non sapeva quanto tempo fosse passato.

Non sapeva dove si trovasse.

 

Per un attimo, nemmeno si ricordò come fosse finito lì.


    La sua schiena era fredda. Anzi, quasi tutto il suo corpo sentiva freddo.

Capì che era sdraiato.

Capì di essere finito pancia all’aria.

Quando aveva spalancato le palpebre, si era trovato il cielo notturno di fronte a sé.

Non vedeva altro, da quella posizione. Riusciva a scorgere a malapena le scure sagome degli alberi nel buio.

I grilli non frinivano, poiché tirava un debole vento gelido.

 

Era per quello che aveva freddo?

 

Mosse la testa su un lato.

Fango.

Era finito in mezzo al fango. La terra bagnata aveva in parte attutito la caduta ma ora gli era finita tutt’attorno, raggelandogli il corpo.

 

Si stropicciò gli occhi, come ripresosi da un profondissimo sonno.

Aveva dormito?

Aveva forse perso i sensi?

E per quanto?

 

Ci avrebbe pensato dopo.

Ora l’unica cosa importante era andarsene da lì.

Cercò di issarsi dal piccolo pantano.


Icarus sgranò gli occhi, completamente atterrito da ciò che non riuscì a fare.


    Si sforzò di contrarre i muscoli della schiena, per voltarsi su un lato.

Non ci riuscì.

Riprovò.

Cercò di far leva con le zampe anteriori.

Troppo faticoso. Niente.

 

Alzò appena il capo e notò il suo corpo disteso nel fango.

La coda impiastricciata di terra.

Gli arti inferiori, inclinati leggermente su un fianco.

Ruotò la testa dall’altra parte.

Notò un piccolo dislivello nell’erba, appena illuminato dalla tenue luce lunare.

Vide alcuni solchi nel terreno umido.

E tutto gli tornò in mente.

 

La sensazione di dolore che udì al petto.

I muscoli contrarsi. Di nuovo.

Il tentativo per non perdere l’equilibrio.

 

E…

 

Lo scivolone.

 

Poi più niente.


    Tornò a controllare le proprie zampe posteriori.

Cercò di muoverle. Nessuna risposta.

E la cosa che più lo preoccupò… fu che sentiva freddo. Dappertutto.

 

Tranne che a quelle zampe.

 

Rimase fermo. Senza dire nulla.

La schiena gli doleva, ma nemmeno più del solito.

Era forse un buon segno?

 

O no?

 

Si puntellò sugli arti anteriori, che ancora riusciva a muovere, e cercò di trascinarsi all’indietro. Emise un verso di dolore.

Gli zoccoli scivolarono sul fango bagnato e la testa gli cadde di nuovo con la criniera nel fango.

 

Deglutì.

Il respiro iniziò a crescergli in corpo.

 

Da quella posizione non poté far altro che scrutare le stelle nel cielo, l’unica cosa in grado di vedere.

Notò gli aliti del fiato condensarsi appena.

 

Richiamò i muscoli delle zampe inferiori. Di nuovo.

E, di nuovo, non si mossero di un millimetro.

Come se non esistessero nemmeno.

 

Si portò gli zoccoli alla fronte, con gli occhi sbarrati verso il cielo.

 

Non sapeva cosa fare.

Non sapeva cosa pensare.

Percepì un crescente senso di agitazione farsi strada dentro di lui.

 

Il vento soffiò, leggermente più forte.

 

Rimase lì.

 

Nel fango.

 

Con il respiro sempre più corto.

 

Lo spazio oscuro e farcito di punti scintillanti come unico paesaggio concessogli.

 

Scrutò i dintorni.

Erba.

Alberi.

Cespugli.

Il sentiero da cui era caduto, che si districava nel sottobosco.

 

Nient’altro.


    Si strinse nelle spalle, massaggiandosele.

La terra era gelida.

Il vento era gelido.

 

Minuto dopo minuto, la sensibilità degli zoccoli iniziò a calare.

La condensa del fiato divenne ben evidente.

 

Icarus chiuse gli occhi.


Non udiva nulla, se non il movimento delle fronde della vegetazione.

 

Per il resto… il silenzio assoluto.


    Passarono i minuti.

Tanti, interminabili minuti.

Icarus si chiese… cosa sarebbe successo.

Cosa ne sarebbe stato di lui.


Ebbe paura.

 

Iniziò ad avere i tremori per il freddo.

 

Un pegaso isolato, disperso nelle campagne.

In piena notte.

Senza potersi muovere.

A chissà quante ore dall’alba.

 

E se anche fosse sopraggiunta a breve…

Quante possibilità c’erano che qualcuno lo incrociasse lungo quel piccolo sentiero?

 

La speranza cercò di non farlo demordere ma la sua razionalità, implacabile e quasi infallibile, iniziò a corroderlo dall’interno.

Come sarebbe potuta finire? La ragione lasciava pochi spazi ai dubbi.

 

I tremori aumentarono e andò in iperventilazione.

Il terrore crebbe sempre di più.

Il cuore iniziò a battere forte.

 

Riaprì lentamente le palpebre.


E lo vide.


    Lo stesso cielo di prima.

Identico, in tutto e per tutto.

Ma a lui, in quell’istante, sembrò stranamente diverso.

 

Il silenzio.

 

Le stelle. Con la loro luce gentile e appena ballerina.

 

Il vento tra gli alberi.

 

L’odore della terra che gli giungeva praticamente da ogni direzione.

 

Non seppe perché.

Non riuscì a spiegarselo ma, in quel preciso momento… un’innaturale sensazione di calma si fece strada nel petto. Il respiro si attenuò. Il battito tornò più regolare.

Le zampe si scostarono dalle spalle: una scivolò lungo il petto. L’altra si collocò sul fango, a fianco del corpo.

 

I muscoli del viso del pegaso si rilassarono e continuò ad osservare il cielo.

Quel cielo stellato… che gli regalò un inaspettato attimo di pace.

Una pace che mai aveva provato prima di allora. Che mai si sarebbe aspettato di vivere in una situazione simile.

 

Eppure… stava accadendo.


    Non pensò più a cosa sarebbe successo.

Non pensò più a niente.

Ebbe solamente un debole sussulto al cuore, quando un’ultima immagine gli apparve nella mente.

 

Un pegaso blu, dalla chioma arcobaleno, che solcava il cielo.

 

Possedeva due ali grandi.

Grandissime.

 

E si destreggiava nell’atmosfera eterea.

 

Con grazia ed eleganza.

 

Con forza e decisione.

 

Quasi fosse uno spirito del vento.

 

Strinse la piuma blu che aveva al petto.

 

Gli occhi del pony grigio si chiusero lentamente.

 

*** ***** ***

 

    Rainbow Dash galoppò con decisione lungo il piccolo corridoio.

La puledra aveva il fiatone e il suo volto era a dir poco preoccupato.

Sfrecciò accanto ad un malato, che quasi ebbe un coccolone per lo spavento. Voltò l’angolo, evitando all’ultimo momento il carrello dei pasti. Il tizio che lo spingeva cercò di schivarla e urtò alcuni vassoi, che caddero rumorosamente per terra.

L’ex pegaso continuò a correre come un matto.

Superò alcuni dormitori e capì di essere arrivata quando, di fronte ad una delle tante porte, scorse Scootaloo, Fluttershy e Twilight. Le tre erano sedute accanto all’uscio, con volto tutt’altro che sereno. Appena la videro, drizzarono le orecchie e cercarono di dirle qualcosa.

Ma la foga dell’amica prevaricò su tutto: la puledra galoppò con ancor più energia.

“Rainbow!!”, la richiamò Sparkle, con uno zoccolo protratto.

L’altra la ignorò e aprì di prepotenza la porta, con una spallata.

Si ritrovò in mezzo ad alcuni lettini, ciascuno di essi con una tendina blu estensibile, per la privacy.

Icarus era sdraiato su uno dei giacigli. Non erano soli. Altri pazienti erano ricoverati, opportunamente occultati dalle tende. Un unicorno in camice era accanto al pegaso e gli stava controllando la flebo attaccata alla zampa. L’irruzione di Dash lo fece sobbalzare.

L’amico era sveglio.

Sembrava fosse uscito da una lotta nel fango.

Ma era sveglio.

 

    Rainbow si puntellò con le zampe al pavimento. Lo fissò a muso basso e bocca aperta, per via del fiato accelerato.

“P-prego?”, balbettò il medico, visibilmente intimidito.

Icarus era sdraiato di schiena, con il collo poggiato su diversi strati di cuscini. La osservò senza dir nulla. Il suo volto era visibilmente provato, con più occhiaie del solito e sporco di terra. Quando la vide… non riuscì a trattenere un sorriso.

“…Icarus…”, farfugliò l’altra, tra un respiro e l’altro.

Il dottore tentò di ricomporsi: “…l-lei… lei è qui per… vedere il paziente?”.

“Sì…”, rispose. “Mi… mi scusi per… per l’irruzione…”.

La voce di Icarus, stanca e meno vispa del solito, fuoriuscì dalla sua bocca: “…tanto tu sei sempre irruenta…”.

Quelle parole la risollevarono leggermente. Ma Icarus sapeva essere ironico anche nelle situazioni più nere, quindi non cantò vittoria tanto in fretta.

    Quando si fu calmata, chiuse la porta dietro di sé e si avvicinò ai due. Scrutò attentamente l’amico ma, anche in quel modo, non riuscì a farsi una chiara idea di cosa fosse accaduto.

Chiese quindi al medico.

“Cosa… Sta… sta bene?”.

“Sì, sto bene…”, rispose Icarus.

“Non l’ho chiesto a te…”, lo liquidò rapidamente.

L’unicorno rimase un po’ perplesso a sorbirsi lo scambio di battute, quindi sollevò magicamente una cartellina e se la portò sotto al muso.

“Il… uh… Icarus… è in… lieve disidratazione. Le sue condizioni attuali, tuttavia, sono stabili e sembrano esserci dei segnali di miglioramento”.

“…ma si può sapere cos’è successo??”.

“Il paziente”, la informò diligentemente l’altro, “ci è giunto questa mattina. È stato portato qui da una coppia di stalloni. Le sue condizioni iniziali erano preoccupanti. Aveva un principio di ipotermia. I suoi sensi erano appannati e…”.

“IPOTERMIA??”, urlò l’amica.

“…uh… sì, ipotermia e… potenziali lesioni agli arti e alla spina dorsale”.

Dash sentì il fiato in corpo venirle meno e, udendo quelle parole, si coprì il muso con entrambi gli zoccoli. Il suo volto divenne sofferente. Scosse il capo.

“…e?”, chiese, timorosa della risposta.

Il volto del medico si incupì: prese qualche istante per sfogliare il referto, quindi osservò intensamente il pony negli occhi magenta.

“Non riusciva a muovere gli arti inferiori. Sospettavamo lesioni permanenti e abbiamo eseguito le analisi opportune. I risultati sono arrivati giusto un’ora fa”. Rainbow lo ascoltò con apprensione. “Sono stati identificati lievi traumi a livello muscolare, più alcune ustioni minori dovute al freddo. Nessun danno permanente a ossa o articolazioni”.

Gli zoccoli passarono dal volto della puledra al petto.

Chiuse le palpebre e tirò un sospiro di sollievo.

L’altro concluse il proprio discorso: “È possibile che l’immobilità temporanea fosse dovuta al trauma. O al freddo. Poi sono arrivate alcune sue amiche e ci hanno informati della sua… condizione particolare. Non conosciamo minimamente questo tipo di malattia. È quindi assumibile che la cosa abbia influito sul danno da caduta, causandogli questi problemi”.

“…quindi… quindi è tutto a posto?”.

“Uhh”, rispose, cercando di essere il più professionale possibile. “Le analisi sono rassicuranti. Ora riesce di nuovo a muovere le articolazioni. È rimasto isolato per parecchie ore. Non sappiamo se la sua malattia possa condurre a peggioramenti nel breve termine. Sappiamo solo che sta bene e che non ci sono danni rilevanti”.

Dash si calmò ulteriormente: “…la ringrazio molto, dottore”.

“Si figuri”.

    La puledra osservò l’amico, che non fece nulla a parte osservarla di rimando.

“Volete che vi lasci un attimo soli?”, domandò loro.

“Sarebbe possibile? Sono per un attimo…”.

“Certo. Faremo ancora qualche accertamento e lo terremo in osservazione per almeno altre ventiquattro ore. Poi, se non insorgono problemi, penso potrà essere dimesso”.

“Grazie. Grazie mille…”, ripeté.

“Dovere”, e uscì dalla stanza.

 

    Rainbow, quando fu certa che fosse uscito, tirò la tendina, in modo che i due rimanessero isolati.

Si avvicinò al lettino.

Icarus si sarebbe aspettato di tutto. Avrebbe potuto strapazzarlo di coccole come riempirlo di insulti e botte in testa.

Rainbow, all’inizio, si limitò a guardarlo in silenzio.

Poi prese la parola, con evidenti sforzi per mantenersi calma.

“…si può sapere… cosa diamine è successo?”.

Icarus sfoggiò un volto a metà tra l’imbarazzato e il rasserenato: “…ho… uh… avuto un… piiiccolo incidente. Niente di cui…”.

“Piccolo incidente??”, ruggì. La sua calma era durata più del previsto, in ogni caso. “QUESTO lo chiami un piccolo incidente?!”.

“Sono scivolato”, minimizzò.

L’altra prese ad inalberarsi. Puntò il muso al soffitto e si mise le zampe tra i crini.

“Oh, Celestia!! Ma perché non puoi avere un po’ di sale in zucca come tutti i pony del Creato??”.

“Lo sai che io ho la testa fatta di legno, me lo dici sempre. Al massimo c’è la segatura al posto del sale…”.

“Icarus!”, si impuntò minacciosa. “Piantala di scherzare! Hai la più pallida… idea?? Sai cosa cavolo ho pensato quando mi è arrivata la notizia??”.

“Io…”.

“E tu questo lo chiami un piccolo incidente??”.

“Guarda che ‘sta volta non c’entrano follie di sorta. È successo è basta”.

“Follie? Icarus! È da quando sei scappato dalla tenuta Apple! È da quel giorno che non fai altro che andare a zonzo per mezza Equestria, senza fermarti un attimo! Dovresti startene tranquillo sulle nubi e invece no! Pigli e vai a spasso. A Steamdale. Nella fabbrica a prendere quei dannati fogli. Poi torni a Ponyville. Poi sparisci. Poi ritorni…”.

“Con me non ci si annoia mai, eh?”.

L’altra sembrò arrabbiarsi sul serio. Fece una leggera impennata e batté rumorosamente gli zoccoli sul pavimento. Icarus non l’aveva mai vista così furiosa.

“Non è un gioco!! Qui c’è di mezzo la tua salute!!”.

“Credi che non lo sappia?”.

“E allora perché ti lanci in queste scemenze??”.

“Non sono scemenze”, replicò con convinzione.

“E allora cosa sono? Perché vai in giro e non stai un attimo fermo?”.

“…ho delle… cose da fare…”, rispose poco convinto.

“Cose da fare! Cose da fare…! Tu hai sempre strane idee in testa. Non puoi una buona volta fermarti e cercare di vivere con tranquillità?”.

L’altro divenne silenzioso, quindi le rispose: “No. Non voglio… non posso… fermarmi…”.

Rainbow Dash si stropicciò gli occhi con uno zoccolo. Certe volte era davvero difficile avere a che fare con lui.

Si prese qualche istante per calmarsi.

    “Ok, senti”, riprese la compagna dal manto blu. “Tu. Hai. Una. Malattia. Ok??”.

“Ma non mi dire”.

“Bene. Allora evita di strafare. Evita di ritrovarti in una situazione come questa. Viaggiando da solo, in mezzo a chissà dove”.

“Insomma mi stai dicendo che devo andare in giro con una balia?”.

“Santo cielo, Icarus!”, ribatté, di nuovo in agitazione. “Non sei invincibile! Hai fatto un sacco di cose assurde, persino per qualcuno senza i tuoi problemi! Continua così e ti ritroverai…”. La puledra non riuscì a terminare la frase.

L’altro la osservò con volto spaventosamente serio: “…mi ritroverò… cosa?”.

“…ti farai del male”, gli disse, con un filo di voce, distogliendo appena lo sguardo.

“Senti Dash. Non contiamoci storie”. Questa volta fu Icarus ad essere leggermente più aggressivo. “Sappiamo benissimo entrambi come stanno le cose. Più andremo avanti e più avrò sicuramente bisogno di una balia…”.

“Icarus… non torniamo su questi discorsi”.

L’altro ripensò agli attacchi acuti che, ultimamente, gli arrivavano sempre più di frequente. E di cui lei non sapeva nulla. Non sapeva che fu proprio a causa di uno di quei malanni se l’amico era finito in quella situazione.

“No. È il caso se ci torniamo, invece…”.

La compagna ruotò spazientita gli occhi al soffitto.

Il ricoverato continuò: “Pensi che basti non parlarne, affinché tutto vada bene?”.

“Non ho detto questo…”.

“E allora perché…”.

Dash lo interruppe con foga: “Vorrei solo che evitassi di strafare nelle tue condizioni! Che la smettessi di affaticarti! Chiedo solo un po’ di buonsenso da parte tua. Non mi sembra una richiesta così assurda!”.

“Non voglio strafare”.

“Sì che lo vuoi! Sennò staresti un po’ più tranquillo. Con me o con i tuoi parenti. Così eviteresti queste situazioni”.

 

    Icarus sospirò e chiuse gli occhi, preparando bene il discorso da farle.

“Senti, Dash”, intervenne con calma.

“…cosa?”.

“Se… se mi vedi fare tutte queste cose… è… è proprio… proprio per via di situazioni come questa”.

“…cosa intendi dire?”.

Il pegaso ebbe evidenti difficoltà a parlare con naturalezza. Ma quella volta doveva farlo. Doveva essere chiaro.

“Quanto… quanto tempo pensi mi rimanga, ancora, Dash? Quante di queste situazioni pensi io vivrò ancora prima che…”.

“Ti ho detto di piantarla. Finiscila con questa faccenda”, replicò stizzita.

“Dash…”, ribadì Icarus con calma. “Io… io non voglio passare il tempo che mi resta… inerme. Fermo a far nulla. Dove invece potrei agire”.

“Agire??”, chiese retoricamente l’ex pegaso. “Ma di cosa stai parlando? Hai mille cose che potresti fare! Hai una famiglia! Una sorellina! Pony che ti vogliono bene! Hai… Ci… ci sono io…”.

Icarus deglutì.

Decise di giocarsi il tutto per tutto.

La fissò intensamente negli occhi.

“Già…”, commentò con esitazione. “Ci sei tu. E… e proprio per questo… sarei… molto… molto più sereno se tu… se tu…”.

“…se io cosa?”.

“…se tu pensassi seriamente al tuo futuro”.

“…che diamine vai blaterando?”.

Il pegaso cercò di essere esaustivo: “Calma, Rainbow. Non arrabbiarti. Fammi finire… Volevo solo dire… che… che penso sarebbe giusto… se tu iniziassi… a costruire il tuo futuro su… su qualcosa che… insomma a costruire su qualcosa che non sia il… il caramello…”.

Dash perse le staffe: “Lo sapevo! Lo sapevo che volevi andare a parare di nuovo lì! Cos’è?? Hai parlato con un grifone, di recente??”.

“…cosa? Dashie, ascolta…”.

“No, ascoltami tu!! È ancora per la storia del sacrificio, vero? Per la mia scelta di vita… vero?? Non puoi ancora accettare quello che ho fatto per te!”.

“Non è quello, Dashie”.

“E allora cos’è?? Perché non puoi vivere serenamente con me? Quella mia scelta ti ha condannato ad un’eternità di malessere interiore, forse??”.

Icarus decise di essere ancor più diretto: “E cosa pensi di costruire, con me? Tu avevi un sogno. Il volo. Non starò qui a discutere della tua scelta. Come ti ho già detto… l’ho accettata. Ma rimane il fatto che, con me, tu non hai un futuro. Non hai certezze. Non hai niente se non un pegaso magro e malato”.

“Piantala! Lo sai benissimo che non è così…”, rispose. La sua voce, tuttavia, lasciò trasparire una certa dose di dolore, come se sapesse che il discorso del compagno (discorso che da sempre lei aveva evitato) nascondesse in realtà una profonda dose di verità.

“Non è così? Davvero? E allora com’è, Dashie? Dimmelo tu”.

L’altra si sforzò di sorridere: “Beh… è… è semplice… Tu, io, la tua famiglia… ci sono tante cose che possiamo fare. Tante cose su cui costruire”.

“La mia famiglia non potrà mai essere la TUA vera famiglia, Dash. Lo sai meglio di me…”.

La puledra si prese qualche istante per rispondere. Si strofinò nervosamente una zampa, quindi riportò lo sguardo verso di lui.

“C’è… c’è sempre la piccola Scoot…”.

Icarus rimase interdetto. Non se lo sarebbe mai aspettato. Non in quel modo così diretto, almeno.

“Lei…”, continuò Rainbow, “…lei parla un sacco di te. Sempre. Viene a cercarti ogni volta che può. Sta bene con te. E… e con me. Insomma… sta bene con… con noi…”.

“Quindi…”, azzardò il pegaso, “…è questo… è questo quello che tu chiami… costruire per il tuo futuro?”.

Rainbow cadde in una profonda sensazione di inadeguatezza, come se in quel momento il sogno in cui avrebbe voluto vivere venisse smascherato da una realtà che non desiderava vedere.

L’amico proseguì nel discorso: “…te, più un pegaso in procinto di rompersi da un momento all’altro e… quella puledrina?”.

L’altra non rispose e si limitò a guardarlo, con volto vagamente dispiaciuto.

Gli occhi magenta divennero sempre più lucidi.

 

Si sentì una stupida.

Ebbe un singhiozzo.

 

Si girò e fece per allontanarsi, scostando la tenda.

 

    “Dash!”, la richiamò Icarus.

“… che c’è?”, domandò, cercando di nascondere il terremoto emotivo che la stava esplodendo in corpo. Si girò verso di lui.

L’amico la scrutava con volto provato.

Si era issato, facendo leva su un gomito. Le zampe gli tremavano.

“Dash… non… non andare via…”.

L’altra fece ritorno da lui.

Si avvicinò al letto. Icarus le protese una zampa e l’amica portò il proprio capo accanto al suo, fronte conto fronte.

Si osservarono dritti negli occhi.

“…stanotte… stanotte ho avuto… davvero tanta paura…”, le confessò, perdendo qualsiasi nota di arroganza o altezzosità nella voce.

Il piccolo pegaso grigio… decise di abbattere ogni residuo di difesa emotiva che gli era rimasta.

Rainbow rimase basita. Di colpo l’amico aveva perso completamente la sua caratteristica aria di superiorità. Lo vide soltanto una volta altrettanto indifeso… altrettanto inerme… e fu quando caddero per la prima volta dalla tempesta. Quando lui gli confessò quanto si fosse sentito vivo, grazie a lei, persino con un’ala rotta.

“…ho avuto paura…”, continuò. “Paura… per ciò che sarebbe successo. Per ciò che non avrei più potuto vedere. Ho avuto paura… per me. Per la mia vita. Semplice paura…”. La puledra cercò di contenere un accenno di pianto. “Ho avuto paura che non avrei più rivisto i miei genitori. Che non avrei più rivisto Iris. E… e la piccola Scootaloo. Paura che non avrei più rivisto te…”.

    Il pony dalla chioma arcobaleno non riuscì a rispondergli. Si limitò ad abbracciarlo con delicatezza, immergendo il volto tra i suoi crini ancora un po’ sporchi di terra.

Icarus fece altrettanto.

“Il fatto”, continuò con emozione, “che tu mi consideri… parte del tuo futuro… mi… mi riempie di gioia, Dash. Non sai quanto. Continui a darmi così tanto… mentre io… ti… ti faccio solo stare in pena…”.

“…sta zitto… scemo…”, sussurrò.

Icarus la scostò da sé e la strinse per le spalle: “Io… vorrei… anzi io… voglio far parte del tuo futuro… di quello scenario… che hai appena dipinto. Il solo pensiero mi scalda il cuore, come il camino in un gelido inverno”.

Rainbow si strofinò gli zigomi e sorrise.

“Ma… non sempre le cose vanno come vorremmo”.

“Io… io…”, balbettò Rainbow rabbiosa. Ma non era una rabbia rivolta al suo amico. Bensì alla sua condizione. “…vorrei solo… che tu fossi felice, Icarus. Che tutto questo non dovesse accadere. Ne hai già passate… così tante…”.

“Ne abbiamo passate tante…”.

“Sì, abbiamo… Ma è… è comunque… una cosa…”.

“Ascoltami”, le disse, con assoluta serietà. “Ascoltami bene, Dash. Io non sono il tipo che si arrende, lo sai benissimo”.

Alcune lacrime sfuggirono dagli occhi della puledra: “…sì… sì, lo so…”.

“Lotterò e farò di tutto affinché cioè che io desidero… e che tu desideri… possa avverarsi. Ma il mio futuro è incerto. E non sto facendo il fatalista”.
“…lo so”, ripeté.

Durante il discorso, lo sguardo di Icarus cadde sul comodino a fianco.

La collana con la piuma blu, un po’ sporca, giaceva su di esso.

L’amico tornò a fissare gli occhi bagnati della puledra. Le sorrise con una dolcezza inusuale per lui.

“Sai una cosa, Dashie?”.

L’amica scosse appena il capo.

“Questa notte… in mezzo a quel campo… mi è successa una cosa molto strana. Ero disteso. Infreddolito. E avevo paura. Ma in mezzo a quella disperazione… ho riaperto gli occhi”. Icarus sollevò il muso al soffitto, come se stesse rivivendo quell’attimo. “Ho visto il cielo stellato. Lo stesso cielo che era sopra di noi… tutte le notti che qualcosa di assurdo è entrato nelle nostre vite. Quando mi portasti a cavalcare la tempesta. Quando mi donasti l’ultimo volo. Quel cielo era di nuovo lì. E mi sei venuta in mente tu. Così, all’improvviso. E, non so per quale razza di motivo… la cosa mi ha inspiegabilmente calmato. Ho percepito un calore all’altezza del petto”.

Icarus le sfiorò la fronte con la propria.

“Non so se sia stato per quello. Sai che sono un tipo razionale, io. Non credo in… cose miracolose o simili… ma…”.

“Non smettere mai di credere e di sperare”, gli disse lei, con improvvisa naturalezza. “Non rassegnarti. Non smettere. Qualsiasi cosa accada… non smettere”.

“…non lo farò”.

“Tu riesci sempre a fare la cosa giusta. Non so come… ma ci riesci…”, affermò l’altra con sicurezza. “Sempre”.

 

Il discorso di Velvet gli tornò improvvisamente alla memoria.

 

“E io… io mi fido ciecamente di te”, concluse Rainbow.

“…davvero?”.

“Sì”, rispose con sincerità, sfoderando un enorme sorriso. “Finisci sempre col farmi ricredere su tutto. Quindi… qualsiasi cosa tu stia facendo… va bene… non smettere di farla. Soltanto… non dirmi mai più che dovrei costruire il mio futuro… su qualcosa di diverso. Mai più…”.

“…ti ringrazio tanto Dashie…”.

“…fanno cinquanta monete”, gli rispose, passandosi ancora una volta le zampe sulle guance e prorompendo in una leggera risata.

“Davvero, Rainbow. Grazie. Grazie per… per tutto. Per esserci. Se non fosse per te… io non avrei mai fatto nulla”.

“Già… con tutte le tizie in giro… dovevi capitare proprio a me…”.

L’amico si rasserenò a sua volta.

“In realtà a me piace la tua amica. Fluttershy. Tutto ciò che è successo fino ad oggi era una tattica per arrivare a lei…”.

 

La puledra blu continuò a sorridergli, fissandolo negli occhi.

 

Occhi viola.

Profondi.

Decisi.

Caparbi.

Quasi arroganti.

 

I suoi occhi.

 

La porta si spalancò all’improvviso, obbligandoli a voltarsi di scatto.

L’irruenza di Scootaloo, di poco inferiore a quella dell’amica dal manto blu, fece capolino nella stanza. La giovane trottò verso il letto, visibilmente preoccupata.

Dopo di lei, con passo molto più lento e ponderato, si palesò invece Velvet.

“Icarus!!”, sbottò il pegaso arancione, puntellandosi con le zampe anteriori per frenare. “Icarus stai bene??”.

“Ciao arancino”, gli rispose l’altro, contento di vederla.

“C-cos’è successo??”, domandò la piccola con foga, poggiando gli zoccoli sul bordo del letto. “Abbiamo saputo che eri finito all’ospedale e…”.

Il pony grigio le sfregò energicamente la criniera con una zampa: “Sto bene, nana”.

Velvet sembrava estremamente calma ma quella era una sua caratteristica: riuscire a dissimulare ogni sua sensazione. Non lo faceva apposta; sembrava semplicemente che vivesse dentro di sé qualsiasi tipo di terremoto emotivo.

“Sì ma”, continuò Scootaloo affranta, “perché sei finito qui? Che è accaduto?”.

Icarus si grattò il collo: “Uhm… i-io… niente. Ho avuto un calo di zuccheri…”.

“Io invece ho osservato gli uccellini volare…”, rispose prontamente Velvet, con sguardo ammonitore.

“…dimenticavo che ora c’è il radar anti menzogne”, borbottò il pegaso.

Scootaloo divenne ancor più impaziente. Balzò letteralmente sul lettino a affondò il muso contro quello dell’amico, che si ritrasse spaventato: “Se è successo qualcosa di grave lo voglio sapere!!”.

Rainbow la acchiappò e la rimise a terra.

“O-ok!”, farfugliò Icarus, facendole segno di calmarsi. “Ti dico tutto…! Sono… sono caduto, ecco. Ho battuto forte la schiena e… e pensavano che mi fossi fatto molto male… ecco cos’è successo”.

Il piccolo pony si coprì il muso per la paura: “M-ma… ma ti sei fatto davvero male?”.

L’amico scosse il capo: “Fortunatamente no. Una brutta botta. Tanta paura. Tanto spavento. E un po’ di fango tra i crini”.

“Sei caduto? Come? Dove?”.

“Mhh… niente di eccezionale. Sono scivolato”.

Il muso di Scootaloo divenne sofferente: “…non… non è che ti è venuta una di quelle… cose? Come era successo tempo fa al lago?”.

Rainbow corrugò la fronte: “Al… lago? Di cosa sta parlando?”.

Il pegaso dagli occhi viola sudò freddo. Osservò preoccupato la compagna, quindi decise di improvvisare: “Uh… ni… niente. Mi ha semplicemente visto affaticato dopo che stavo per affogare come un puledrino effeminato”.

“No, stavi proprio mal…”.

“MAAaaa la cosa importante è che non sia successo niente”, la sovrastò con prepotenza.

Velvet intuì come stesse mentendo spudoratamente. Ma decise di non dire nulla. Rainbow sembrò non soffermarcisi troppo.

Il pony dalla chioma magenta sospirò: “Quindi… quindi ora stai bene?”.

“Ho solo un po’ di dolore al fondoschiena. Per il resto credo mi dimetteranno tra uno o due giorni massimo”.

“Ti ho visto più tempo all’ospedale che in giro”, lo derise Velvet, cercando di portare un po’ di buonumore.

“Hai proprio ragione!”, ammise Icarus con un sorriso. Colpì gli zoccoli tra loro ed esclamò: “Infatti ora devo recuperare tutto il tempo perso!”.

“Calma, calma…”, lo frenò Dash, con volto serio. “Va bene l’entusiasmo e tutto il resto, però…”.

“Dai, Rainbow. Ne abbiamo appena parlato…”.

“Sì… sì, è che…”, sussurrò, sentendosi combattuta. “Non so cosa tu voglia fare… ma… ma se proprio ci tieni a muovere le zampe… ci sono tante cose a cui puoi dedicarti. La tua sorellina. Scoot. Velvet…”.

 

Quelle parole ebbero uno strano effetto sul puledro.

Icarus, per un istante, tornò a pensare al padre. Allo stallone bianco e fiero che per tutta la vita era rimasto distante dal figlio per inseguire la possibilità della cura.

Lui, esattamente come Daedalus, aveva tante cose in mente. Tanti piccoli progetti per le persone a lui care, che avrebbe voluto portare a termine.

 

Si voltò verso la finestra e notò il cielo plumbeo. Una grigia giornata d’inverno.

Già.

L’inverno.

A pensarci bene… non sapeva nemmeno se sarebbe arrivato a vederlo.

Ormai lui viveva così, contando il passare delle stagioni.

Chiedendosi se mai avrebbe rivisto quella successiva.

Contrariamente ai suoi timori… c’era riuscito. Ma le circostanze non lasciavano ben sperare.

Poi era arrivata Iris e, con lei, tornò a capire quanto di importante potesse ancora fare per coloro che aveva attorno. Anche se fosse vissuto altri mille anni… non aveva dubbi. C’erano delle faccende che avrebbe dovuto portare a termine. Anche se alcune…

 

Dopo quell’ultimo episodio…

Dopo essere stato così vicino alla fine…

Dopo aver creduto che tutto fosse perso per sempre… allora capì.

Capì che allontanarsi dagli altri, pur con l’intento di aiutarli, forse non era affatto la scelta giusta. Che un padre rinchiuso in una fabbrica non stava realmente aiutando il figlio… ma si stava allontanando sempre di più da esso, esattamente come ora lui si stava allontanando dalle persone che lo amavano, per portare a termine ciò che si era prefissato.

 

Che si fosse… sbagliato?

 

Tu riesci sempre a fare la cosa giusta. Non so come… ma ci riesci. Finisci sempre col farmi ricredere su tutto. Quindi… qualsiasi cosa tu stia facendo… va bene… non smettere di farla.

 

Icarus scosse il capo. Osservò il volto leggermente sofferente della compagna.

 

E sorrise.

 

“Va bene”, le disse con tranquillità, chiudendo gli occhi.

“Cosa?”.

“Ascolterò tutte e due le tue parti”.

La compagna inclinò il capo, non capendoci assolutamente nulla.

Velvet si avvicinò a Scootaloo e le sussurrò in un orecchio: “…io penso che dovrebbero fargli degli accertamenti anche al cervello…”.

L’amico spiegò ciò che voleva dire: “Sì… da un lato c’è Rainbow Dash. Il pony arrogante, spaccone e maschiaccio. Quella che riconosce in me un gran figo e che mi sprona a seguire il mio infallibile istinto”.

L’ex pegaso si mise a zampe conserte: “Hai dimenticato di dire che ti considero l’incarnazione della modestia…”.

“Dall’altra…”, concluse, sollevando uno zoccolo a mezz’aria. “C’è… Dashie… il pony dolce e sensibile che non vuole che vada a bighellonare in giro, per paura che mi faccia male”.

“Io non sono così…”, commentò l’amica, sentendosi in lieve imbarazzo.

“E io… io farò come vogliono entrambe. Perché questa volta, e ci tengo a sottolineare che è un evento più unico che raro… credo che abbia ragione Dashie…”.

“Ti… ti darai una calmata?”, chiese speranzosa Dashie.

“Anche… ma prima dovrò assecondare Rainbow Dash. Perché ci sono alcune cose che devo realmente fare… non posso sottrarmi…”.

“Mh. E ti pareva…”.

 

Icarus si puntellò con una zampa tremante e gli porse l’altra, sfoderando un sorriso sincero.

L’amica scattò prontamente verso di lui e lo sorresse.

“Soltanto…”, le confessò l’altro, con volto emozionato e mettendo da parte ogni forma d’orgoglio. “Questa volta ho bisogno di te...”. Portò delicatamente lo zoccolo grigio contro quello blu, applicando una lieve pressione.

 

Ci fu un attimo di silenzio.

Velvet, pur non vedendo nulla, percepì qualcosa scaldarle il petto.

 

“Perché si vola insieme… giusto?”, le chiese il compagno.

Dash abbassò lo sguardo, quindi lo riportò verso gli occhi di lui.

 

“…giusto”.

 

*** ***** ***

 

    Alcuni giorni dopo, sperando che la brutta faccenda della caduta venisse presto dimenticata, una coppia di pony si palesò d’innanzi alle mura perimetrali di un edificio molto singolare.

Uno era un pegaso grigio, adagiato su una soffice nuvola simile a nebbia; l’altra era una giovane puledra dal manto blu chiaro, intenta a spingere l’amico grazie al curioso velivolo fluttuante.

Si fermarono di fronte ad una cancellata scura.

Icarus osservò intensamente la struttura e, non propriamente entusiasta, dichiarò: “…sai… pensavo che in questo posto non ci sarei mai più dovuto venire. E invece…”.

“Beh”, rispose la compagna, “questa volta sei tu che l’hai voluto. E ancora non riesco bene a capire cosa tu abbia in mente…”.

“Non ti preoccupare”, la rassicurò.

“Certo che mi preoccupo. Se ci sei tu di mezzo, c’è sempre da preoccuparsi, bello mio…”.

“Non è vero. Non sono tuo”.

“Pensavo mi dicessi che non è vero che sei bello…”.

“Perché dovrei mentire? Io sono bellissimo”.

La guardia al cancello rimase allibita ad ascoltare i due.

“Sei nella media”.

“Ponderata o matematica? No perché c’è differenza…”.

Rainbow si colpì la fronte con uno zoccolo, sconsolata: “Ok. Sei bellissimo”.

“Ottimo. Hai preso tutto?”.

“Sì”, rispose, controllando la stessa sacca a tracolla che aveva portato all’Haephestus. “Anzi, non l’ho nemmeno aperta. Tutte le scartoffie che abbiamo trovato a Steamdale sono qui”.

“Perfetto. Ora spingi, femmina”, concluse, indicandole la direzione con una zampa.

Dash sembrò non mandar giù l’ennesimo commento volutamente (e scherzosamente) sessista. Assunse un’espressione servile, si scrocchiò il collo e quindi caricò un poderoso colpo di zampe: “Come vuole, sua maestà”.

Il tizio di guardia vide il pegaso schizzare come un missile, letteralmente avvinghiato alla nuvola.

“NON COSI’ FORTEEEHHEEE!!!”, strillò, sfrecciandogli sotto il naso e fermandosi per inerzia parecchi metri dopo, all’interno del giardino dell’Emerald Lake.

Il pony blu, con fare alquanto compiaciuto, trotterellò allegramente attraverso la cancellata.

“Potevi farmi cadere!!”, protestò l’altro arrabbiato.

“Beh, nel caso saremmo stati a due passi dall’ospedale. Non vedo il motivo per preoccuparsi tanto. Vostra maestà”.

“Avresti danneggiato uno dei Campioni di Equestria”, ammise impettito. “Ora sono patrimonio nazionale, non lo sai? Ho amici potenti a Canterlot. Avrei anche potuto sguinzagliarti contro i pegasi imperiali e farti rinchiudere nelle prigioni a fieno e acqua”.

Dash si rivolse alla guardiola, sforzandosi di apparire dispiaciuta: “Guardi… è così da quando ha picchiato forte la testa contro una pianta. Fortuna che erano fatte tutte e due di legno. Ma da allora parla a vanvera. Pensa di essere un Campione di Equestria, un uccisore di draghi e altre amenità…”.

“Guarda che ti sento!”, la minacciò.

Il pony in camice sembrò essere comprensivo. Si avvicinò, le mise una zampa sulla spalla e, con fare empatico, le disse: “Capisco… ne vediamo tanti, in queste condizioni. Sono sicuro che ha fatto bene a portarlo qui…”.

“Lei si che mi capisce…”, rispose, facendogli gli occhioni dolci.

“EHY!!”, berciò Icarus, iniziando a scaldarsi.

“Ora devo scappare”, concluse Rainbow Dash, tornando dall’amico e riprendendo a spingere. Un attimo prima di andarsene, girò un’ultima volta la testa verso il pony e aggiunse sorridendo: “…magari dopo possiamo andare a prendere un caffè insieme, che ne dice?”.

“Oh… beh… perché… perché n…”.

Una raffica di zoccolate grigie arrivò in testa alla puledra: “PIANTALA DI FLIRTARE CON QUEL CICISBEO!!”, starnazzò il pegaso.

Dash cercò di proteggersi il capo e si mise a ridere: “E va bene! Va bene! Scherzavo!”.

 

I due varcarono la soglia d’ingresso, ritrovandosi nella sala d’aspetto, più o meno farcita da infermieri e degenti.

 

“Cos’è sei geloso?”, chiese maliziosamente Rainbow, continuando a spingere.

L’altro le diede le spalle e si mise a zampe conserte: “Macché. Semplicemente non volevo perdere tempo…”.

“Oh. Ok. Quindi dopo non è un problema se vado a prendere un caf…”.

Icarus trasalì di nuovo e la minacciò a zoccolo sollevato: “PIANTALA!!”.

“Sennò che fai? Mi tempesti di colpetti come un secondo fa?”.

Una voce femminile si intromise nella diatriba: “Ehm… s-scusate?”.

Era una receptionist occhialuta, vagamente preoccupata.

“…tanto non finisce qui…”, dichiarò lapidariamente Icarus. Si voltò quindi verso la puledra: “Uhm… sì, abbiamo un appuntamento con il dottor Panpipe, fissato alle tre di questo pomeriggio”.

L’altra sembrò incredula: “Uuhhh… ok. Il vostro nome?”.

“Sono il signor Storm Rider”, rispose con altezzosità.

“S… Storm Rider?”, balbettò la inserviente.

“Sì. Perché? Non le piace il nome??”, sbottò.

“No no… a-aspetti che controllo…”, e si portò alla scrivania una cartellina. Controllò una lista, fermandosi con la punta di uno zoccolo sopra un nome scritto a penna.

“Ah… è… è vero. Storm Rider… in veci di…”. La puledra abbassò il muso e si tolse gli occhiali, scrutando Icarus con sorpresa. “…di rappresentante farmaceutico?”.

“Già”, continuò il pegaso, atteggiandosi a grande pony. “Sono il signor Storm Rider, noto affarista e consulente medico per la vendita di prodotti a base di Icaricina”.

“Ica… ricina?”.

“Sì, mia cara! È un principio attivo in grado di ringalluzzire i malati. Diciamo pure che è in grado di metterti le ali anche se non ce le hai”.

Rainbow Dash si era appoggiata alla parete, scuotendo la testa rassegnata. Decise di intervenire, con voce annoiata: “Però tra gli effetti collaterali ci sono anche irascibilità, alterazione dello stato emotivo e impulsività congenita”.

La tizia puntò una zampa verso il pony blu, con occhi un po’ sospettosi: “…e lei sarebbe?”.

“Lei è la mia assistente”, rispose prontamente Icarus. “Nonché mia moglie. La signora Rombo Dosh”.

“Sì ma ho già chiesto il divorzio, ci tengo a precisarlo”.

“Oook…”, sussurrò infine la segretaria, più confusa che altro. “Allora… vi faccio passare…”.

“Ottimo! Eccellente!”, inscenò Icarus. “Sentito?? Spingi, donna!”.

Rainbow esplose in un sorriso malevolo. Si avvicinò energicamente al cirro, scrocchiandosi nuovamente le giunture.

“VOLEVO DIRE”, la bloccò il compagno. “…potresti gentilmente… avviare la nuvoletta… uh… cara?”.

“…così va meglio”, rispose, prendendo a muovere il cirro con delicatezza.

I due si avviarono per le scale, sotto gli occhi increduli della puledra.

 

    Si udì quindi un urlo soffocato.

La coppia si girò verso il rumore, un istante prima che l’infermiera Chestnut acchiappasse al volo il barbuto Ate. Il ricoverato avrebbe altrimenti travolto Icarus con la propria foga. Di nuovo.

“Ate!!”, lo accolse, spalancando le zampe. “Ci incontriamo di nuovo!”.

“Nuotando nubi numerose!”.
“Ma davvero?? E quando è successo?”.

“Successivamente succinta succedendo!”.

“Ma pensa! E tu che gli hai fatto?”.

“Fattorino fattorie fattispecie!”.

La compagna gli mise una zampa sulla spalla, preoccupata: “…non dirmi che riesci a parlare con lui? O ti sei realmente bevuto il poco cervello rimasto?”.

“Sicché. Sto scherzando. Ma lui è contento così”.

Chestnut, intanto, faceva del proprio meglio per contenere l’energia del puledro, che non la smetteva di dimenarsi. Quando vide il pegaso, gli sorrise con sincerità: “C-ciao… Icarus. Vedo che sei di nuovo qui a… a farci visita…”.

“Già. Ormai sono un cliente abituale. Offrite una tessera fedeltà, per caso?”.

L’infermiera cercò di nascondere un altro sorriso e, con un lieve nervosismo, gli chiese: “…tua madre sta bene? Anche la piccola?”.

“Sì. Loro stanno bene”.

“Come mai sei qui, allora?”.

Icarus si tenne sul vago: “Devo parlare con un tizio…”.

“Ah… un ricoverato?”.

“Diciamo che dovrebbero ricoverarlo. Ma no. Lavora qui”.

“Non sarà…”, domandò scettica.

Il pony grigio fece cenno a Rainbow di spingerlo lungo la rampa di scale.

“Ne parleremo dopo, signorina Cheescake”, concluse, imitando tono e pantomima di un primario a lei molto conosciuto.

Un attimo prima di andarsene, il puledro aggiunse: “Ah, un’ultima cosa…”.

“Dimmi”, dichiarò Chestnut, cercando di trattenere Ate, che voleva seguire l’amico a tutti i costi.

“Tu… tu ultimamente ti occupi molto di lui, vero?”.

L’infermiera osservò il paziente che stringeva tra le zampe: “Intendi dire… Ate?”.

Il volto dell’interlocutore parve rabbuiarsi leggermente: “Sì. Intendo lui…”.

“Beh… diciamo che lo conosco da tanto tempo e che sono la più adatta ad occuparmi di lui”.

“Esattamente… cos’ha? Perché è ancora qui, all’Emerald Lake, dopo tutto questo tempo?”.

Chestnut iniziò a sfregarsi una zampa con l’altro zoccolo: “Mhh… Non sono una dottoressa… ma conosco la sua cartella clinica. Ate soffre di qualche disturbo della personalità. Un caso non molto comune e che richiede un’osservazione medica costante”.

“Lo state curando?”.

La puledra bianca sospirò: “In verità… lui è qui solo sotto osservazione”.

Icarus storse il muso: “Aspetta… intendi dire che sono anni che… che tenete semplicemente Ate sotto osservazione?”.

“Se vuoi la risposta breve… sì”.

“Ma… non… cioè… non ci sono cure? Dei rimedi?”.

“Da quanto ne so qualcosa ci sarebbe. Ma… si tratta di farmaci abbastanza costosi. E credo che nessuno stia pagando la cura per lui”.

“Non ha parenti? Qualcuno che se ne occupi?”.

Chestnut sorrise con amarezza: “Ci arrivano dei versamenti periodici, giusto per mantenerlo qui. Ma… ma nessuno lo viene a trovare da anni. La cura costa. E… Non lo so. Forse non ha parenti stretti… o… o forse… si sono semplicemente stancati di… di venire qui a sentirlo farneticare frasi senza senso”.

“Mh. Già. La solita storia, eh? Le cure costano e si fa prima a dimenticarsi di qualcuno, piuttosto che aiutarlo…”.

L’altra lo guardò con aria rassegnata, come se condividesse le sue parole ma non trovasse alcuna soluzione a quel problema.

“Grazie lo stesso, Chestnut”, la salutò, facendosi trasportare su per la rampa di gradini.

Ate allungò una zampa verso di lui e fece di tutto per raggiungerlo ma l’infermiera dovette impedirglielo.

Il pony barbuto osservò con estremo rammarico l’amico mentre si allontanava.

Icarus lo intravide appena, con la coda dell’occhio. Non fece nulla, semplicemente perché avrebbe sofferto troppo nell’allontanarlo da lui, visto che non poteva seguirlo.

 

    In mezzo alle scale, Dash decise di domandargli qualcosa.

“Ci tieni… davvero tanto, a quel pony… vero?”.

Il volto dell’amico si spense. Non rispose.

“Devi volergli bene…”.

Icarus si girò lentamente: “…il fatto, Dashie… è che… quando giunsi qui, all’Emerald Lake… ero pieno di speranze. Di ottimismo. Avevo anche paura, ovvio… ma l’idea di poter guarire… di poter tornare a volare… era tutto per me. Poi”, continuò, facendosi sempre più serio, “iniziò la cura. Iniziarono i giorni di isolamento. Ai giorni subentrarono le settimane. E io mi resi conto di come… di come fosse difficile… perché ogni giorno… dovevo sottopormi a quella tortura. Gli aghi. Le medicine. Strani intrugli di qualche unicorno pazzo, per quanto ne so. E… e non mi fecero più uscire dalla mia camera. I risultati non arrivarono. Il mio fisico, per via del trattamento… divenne sempre più debole. Iniziai a stancarmi… a perdere persino le piume…”.

L’amica lo ascoltò con attenzione, percependo il dolore e l’apprensione dentro di sé, come se lo stesse vivendo attraverso le sue parole.

Il viso dell’amico si accese leggermente: “Poi però… mi ricordo che mi permisero di uscire e di andare in giardino. Giusto un’oretta a settimana. Ma a me sembrò… come se fossi venuto al mondo una seconda volta. Fu da allora che iniziai a farmi portare all’ombra del grosso salice che abbiamo incrociato venendo qui. Mi piaceva star lì. E… e poi, un giorno… vidi quel pony mezzo schizzato saltellare per le aiuole, sedendosi quindi accanto a me. Nessuno parlava con me, nella clinica. Così decisi di scambiare due parole con lui. E… e mi rispose. Ad ogni cosa che dicevo o chiedevo, lui rispondeva. E ci metteva anche una gran foga!”, le spiegò Icarus, rafforzando il racconto con i movimenti degli zoccoli.

“Sì ma… erano frasi senza senso, immagino…”.

“Non lo so, Dashie”, ammise con scetticismo. “Io credo che… che Ate non sia completamente pazzo. È come… come se si esprimesse a modo suo. Non farnetica solo parole a caso…”.

“Se lo dici tu…”, borbottò, terminando gli scalini e iniziando a percorrere un lungo corridoio bianco.

“Resta il fatto che Ate c’era sempre. Non mi ha mai dato fastidio. Non mi ha mai chiesto nulla. Ma c’è sempre stato, quando ero giù di morale. Mi ha sempre ascoltato. E io ascoltavo lui”.

 

    La coppia sopraggiunse d’innanzi ad una porta con le vetrate opache. Su di essa era stata incisa la scritta “Dott. Panpipe”.

I due si fermarono ed Icarus scese attentamente dal cirro.

“Sono proprio curiosa di sapere perché sei voluto tornare dal signor Pane&Pepe”.

“Lo vedrai”.

“Potresti anticiparmi qualcosa, almeno, non ti pare?”.

Il compagno le lanciò uno sguardo d’intesa: “Se te lo avessi detto prima allora non avresti mai accettato di venire”.

“Mh. Cos’è? Vuoi che lo picchi? Perché sappi che potrei farlo”.

Il pegaso raccolse fiato e coraggio e bussò alla porta.

Dopo pochi secondi, una vocetta gracchiante e vagamente famigliare provenne dall’altra parte.

“Avanti!”.

Icarus ruotò la maniglia ed entrò. Rainbow lo seguì, spingendo delicatamente il cirro attraverso l’uscio. La nuvola, per un attimo, parve incastrarsi ma poi si liberò, producendo un rumore gommoso.

    I visitatori si trovarono nel bel mezzo di uno sfarzoso ufficio ampiamente arredato.

Vi erano tavolini antichi, un’imponente scrivania in marmo, soprammobili raffinati, diverse librerie e, a completare la scena del cattivo gusto, un gigantesco quadro sovrastante una poltrona, raffigurante Panpipe in posa accattivante. L’ufficio, tuttavia, era vuoto.

“Oh Celestia…”, commentò Rainbow Dash, con un tic nervoso all’occhio, osservando l’ambiente.

Icarus, invece, cercò il dottore. Lo intravide attraverso una portafinestra semichiusa, che conduceva ad un ampio balconcino esterno.

L’unicorno verde era seduto ad un tavolo circolare e dava loro le spalle. Probabilmente stava sorseggiando qualcosa.

“Prego! Prego!”, ripeté con educazione, senza nemmeno voltarsi. “Venga pure qui fuori! Oggi è una splendida giornata!”.

Il pegaso non disse nulla: si limitò a fare un cenno a Dash, con il capo, invitandola a seguirlo.

Scostarono le tende e sbucarono sulla terrazzina privata del Dottor Panpipe.

Nonostante fosse inverno, da quella angolazione, il sole inviava i propri caldi raggi con estrema efficienza. Si godeva inoltre di una vista mozzafiato, con le montagne lontane all’orizzonte e il lago scintillante poco distante dal centro di cura.

L’anziano pony era comodamente stravaccato su una sedia in legno. Sul tavolo erano ordinatamente disposte alcune tazzine e una teiera fumante. Dal lato opposto era invece collocata una sedia vuota.

L’unicorno, ad occhi chiusi e con un sorrisetto sul volto, fece levitare una tazza fino alle labbra e ne bevve un sorso. Ancora non li aveva nemmeno degnati di uno sguardo.

“Su, si accomodi!”, disse. “Non faccia complimenti”.

Icarus e Dash si osservarono reciprocamente negli occhi. Il puledro si avvicinò quindi al posto a lui riservatogli e si sedette. Poggiò le zampe sul tavolo e iniziò ad osservare il medico, sollevando le sopracciglia.

L’altro continuò a bere beatamente. Quando riaprì le palpebre, tuttavia, strabuzzò gli occhi, ebbe un singulto e si voltò di lato, spruzzando un fiotto di caffè dalla bocca.

Iniziò a tossire, visibilmente impreparato.

“Oh… Ach… uh…”, balbettò, colpendosi più volte il petto e cercando di riguadagnare contegno. “I… Icarus…!”.
“…dottore”.

Rainbow camminò lentamente verso il compagno, mettendosi al suo fianco e palesandosi al pony verde.

“Oh! E… e vedo che… che c’è anche la… la Matta del Meteo, giusto?”.

“Per lei sono Rainbow Dash e basta”, tagliò corto, con volto severo.

“Ma… ma cosa ci fate qui?”, domandò confuso. “Avevo appuntamento con… con un certo Storm R…”.

Qualcosa scattò nella mente del dottore, come se un’illuminazione lo avesse colto all’improvviso, e Icarus gli rispose con un’espressione saccente.

Panpipe si passò uno zoccolo sul volto: “…Storm Rider… perché non l’ho notato prima…?”.

Il pegaso controllò i dintorni e commentò con leggerezza: “È un piacere rivederla, dottore. Noto anche che si è sistemato bene. È carino qui. C’è il sole. Una bella vista. E si può godere del lago in tutta la sua maestosità”.

L’altro sembrò visibilmente scocciato nel vederli ma sapeva di non poter fare la voce grossa, quindi decise di assecondarli, sperando che se ne sarebbero andati il prima possibile.

“Uh… sì”, farfugliò, ripristinando lentamente la propria calma e autorità. “È un… bel posto”.

Icarus si voltò, concentrandosi sui pony che giocavano e si divertivano al lago. Alcuni erano in camice e stavano accompagnando alcuni degenti in rilassanti camminate lungo le sponde. Erano addirittura stati aperti dei piccoli locali che offrivano ristoro e piccole chincaglierie.

“E pensare che un tempo questo era un buco triste e arido…”, lo informò ironicamente il puledro.

“…già”, ribatté Panpipe, cercando di contenere il fastidio.

Calò il silenzio.

Panpipe riempì un’altra tazzina e la bevve come se nulla fosse.

Icarus continuò invece ad osservarlo senza fiatare e la cosa parve renderlo ancor più nervoso.

Dash allungò una zampa verso di lui. Panpipe, completamente impreparato, mandò all’aria la tazzina e si coprì con entrambi gli zoccoli, scattando all’indietro come una molla.

“TI PREGO NON FARLO!!”, strillò impulsivamente. “IN QUESTO PERIODO L’ACQUA È FREDDISSIMA!!”.

L’ex pegaso, tuttavia, si limitò a versarsi un po’ di bevanda e portarsela alla bocca. Vi soffiò sopra con naturalezza, per freddarla.

“Volevo solo un po’ di caffè”, lo tranquillizzò, con ghigno malevolo.

“Ah…”.

“Siamo nervosetti?”, lo punzecchiò Icarus.

“Sentite!”, ragliò il primario, decidendo di farla finita. “Si può sapere cosa volete, da me? Volete picchiarmi? Ricattarmi? Inveirmi contro?”.

“Di tutte e tre, la prima è quella che mi alletta di più”, rispose Rainbow con nonchalance, bevendo a muso basso.

“No, stia tranquillo”, intervenne il puledro grigio. “Niente di tutto ciò”.

“E allora? Perché siete qui?”, domandò stizzito.

Icarus riportò lo sguardo verso il lago: “Vorrei farle… una proposta, dottore”.

“Una… proposta?”.

“Sì. Non pensavo avrei mai potuto dirlo ma… credo ci sia una cosa che ci accomuni, Dottor Panpipe. Qualcosa che potrebbe aiutarci entrambi, in un modo o nell’altro”.

Il primario corrugò la fronte, non sapendo cosa aspettarsi.

“Non mi fraintenda”, precisò l’ex paziente. “Lei è l’ultima persona che avrei voluto rivedere in vita mia. Ma, a quanto pare… ci sono alcune cose che potrebbero essere utili a lei. E a me”.

“E sarebbero?”, domandò sospettoso.

L’altro iniziò a spiegargli cosa aveva in mente, con tono estremamente calmo e deciso: “So che lei, dopo la mia sfortunata vicenda, ha avuto… alcune ripercussioni mediche. Per non parlare di quelle legali”.

L’attenzione di Panpipe si focalizzò completamente sul suo discorso.

“Non conosco i dettagli, sia chiaro. Ma so che, ultimamente, ha avuto notevoli grattacapi per quanto concerne la cura fallita, determinate linee di condotta e di gestione… per non parlare di alcune voci riguardanti un traffico di farmaci decisamente poco eff…”.

“Ho capito dove vuoi arrivare”, lo interruppe con arroganza. “Vuoi davvero ricattarmi, quindi, mh? Vuoi usare la tua nomina e la tua situazione per farmi affondare, non è così? Beh sappi che…”.

“No, no. È completamente fuori strada”, dichiarò con sincerità. “A differenza sua, Dottore… non ho alcun vantaggio nell’accanirmi contro di lei”.

“Come no…”.

“Dico davvero. Non per una questione morale, sia chiaro. Cioè… se lei fosse bloccato in un incendio e io avessi un bicchiere d’acqua tra le zampe… beh, la berrei”.

Panpipe ebbe una terribile visione di se stesso, intrappolato urlante tra macerie in fiamme, non molto distante da Icarus. Il pegaso reggeva un bicchiere e, dopo una terrificante risata malvagia, lo svuotava tutto d’un sorso, lanciandogli un’occhiataccia divertita. Tuoni e saette si palesavano da una finestra alle sue spalle.

Scosse il capo e cancellò l’immagine.

“Il punto”, riprese il pony grigio, “è che è lei a mandare avanti la baracca. Se lei se ne va… chi sovvenzionerebbe questo centro di cura privato?”.

“Qualcuno migliore di lui…”, dichiarò Rainbow.

Il medico scosse il capo, con aria di sufficienza: “Fandonie… Perché, cosa credi? Che ora mi sia rimasta chissà quale fortuna? Hai idea dei soldi che ho perso, per queste diatribe legali? Per… per evitare di colare a picco?”.

“Beh… il suo ufficio non mi sembra propriamente economico, tanto per fare un esempio…”.

“Ho ancora dei soldi. Ma non è più come un tempo. È già tanto che l’istituto non abbia chiuso i battenti”.

Rainbow si arrabbiò sul serio. Gettò la tazzina a terra, mandandola in mille pezzi, e si avvicinò minacciosa al primario. Icarus cercò di trattenerla, per quanto fosse sostanzialmente inutile.

“Ma senti un po’ la marea di fesserie che mi tocca sentire!!”, sbottò la puledra dalla chioma arcobaleno, intimorendolo. Puntò quindi una zampa in direzione del lago. “Non riesco nemmeno ad immaginare il flusso di turisti che la rinascita dell’Emerald Lake ha portato a lei e al suo facoltosissimo istituto! E ora mi tira fuori che vive in ristrettezze economiche??”.

“B-beh… io…”.

“Non scaldiamoci troppo…”, disse Icarus.

L’amica emise un verso di rassegnazione e si appoggiò maleducatamente al parapetto in pietra.

“Dottore… non mi interessa sapere dei suoi conti in banca illeciti e delle sue fonti di guadagno illegali”, tagliò corto il pony grigio. “So semplicemente che lei ha comunque dovuto tirare un po’ la cinghia e fare dei tagli. E di sicuro l’ultima cosa che desidera è avere ulteriori problemi e spese inutili”.

“Non capisco dove vuoi arrivare…”, rispose, aggiustandosi il colletto del camice.

“Dash? Ti spiace?”, chiese alla compagna.

   

    L’ex pegaso si avvicinò al tavolo, aprì la sacca e riversò sul ripiano una montagnola di scartoffie.

Panpipe osservò basito la scena. Scrutò con sospetto il pony di fronte a sé, quindi estrasse magicamente degli occhialini, li indossò, e si accinse a leggere.

Dopo alcuni minuti, in cui parve capirci poco o niente, berciò: “Non capisco. Che è ‘sta cartaccia?”.

Icarus si mise a zampe conserte: “Quella cartaccia, dottore, è l’insieme dei progetti originali della CirrusHigh, ovvero della nuvola qui al mio fianco.

Rainbow aggrottò le sopracciglia. Che diavolo aveva in mente quel pegaso?

“Mh. E allora?”.

“Questi sono progetti unici. E completi. Riportano passo passo tutte le procedure per avviare una fabbricazione su vasta scala di queste piccole meraviglie”.

“Ancora non seguo il discorso. Che dovrei farmene?”.

“Non esistono nuvole così in tutta Equestria, dottore… Lei sarebbe l’unico a possederle. E l’unico a poterne trarre profitto”.

A quelle parole, l’attenzione di Panpipe si ravvivò improvvisamente.

“Non vedo come potrei ricavarci qualcosa da delle nuvolette…”.

“Davvero? Ci pensi un attimo… Il suo istituto è in grado di accogliere i casi più rari e sconosciuti. I pazienti possono essere trasportati qui via terra e, volendo, anche via aerea, tramite gli zeppelin. Ma sono velivoli lenti, rumorosi e inadatti ai degenti. Queste nuvole invece… sono piccole. Soffici. Molto soffici, glielo posso assicurare. Sono ideali per il trasporto immediato di casi più o meno urgenti”.

Il primario non parve convinto: “Ci sono le barelle. Mentre i pegasi possono già usufruire degli ospedali nelle città volanti”.

“Già”, cercò di convincerlo. “È questo sa cosa significa? Che, con queste nuvole… lei sarebbe il primo dottore in Equestria a disporre di una struttura per il ricovero urgente dell’intera gamma di pazienti. Non importa se pegasi o no. Lei potrebbe avviare il trasporto istantaneo dei casi urgenti, mettere al noleggio queste nuvole per i pegasi e non solo, esattamente come si fa con una carrozzina. Potrebbero giungere da terra, da cielo… non ci sarebbero più distinzioni, per lei”.

L’altro non rispose e si fece pensieroso.

Il pony dalla chioma viola snocciolò tutta la sua abilità oratoria, lasciando basita persino Dash: “L’unico istituto. Le uniche nuvole. I progetti completamente suoi. Potrebbe avviare un vero e proprio monopolio. E, non mi fraintenda di nuovo… non faccio tutto questo solo per arricchirla. In un modo o nell’altro… so che sarebbe qualcosa di cui potrebbero beneficiare tutti coloro che ne hanno bisogno”.

“E perché lo chiedi proprio a me?”, domandò in modo estremamente sincero, come forse Icarus mai aveva visto. “Non prendiamoci in giro. Tra noi due non scorre di certo simpatia…”.

“Beh, abbiamo un’altra cosa in comune, visto? Ma la verità è che non ci sono molti acquirenti interessati a questi progetti, poiché le applicazioni al di fuori dell’ambito sanitario sono molto limitate. Lei, invece, conosce il mio caso. Anche se lo fa in modo che non condivido, sta comunque mandando avanti un istituto di cura; un posto dove la gente viene aiutata e guarita. Un luogo dove trattate malattie rare o sconosciute. Quindi non credo che in nessun altro posto potrebbero utilizzare nuvole come questa”.

Panpipe mosse più volte la mascella lungo i lati, chiuse magicamente gli occhiali e li infilò nel taschino. Si sfregò quindi un accenno di barbetta con il dorso dello zoccolo.

“In più…”, aggiunse Icarus. “Io la conosco. So che ha fiuto per gli affari. Immagino che ora lei stia pensando a tutte le possibili applicazioni. A questo ci aggiungo il fatto che sarebbe l’unico a detenerne i diritti. Non avrebbe concorrenza. Da un lato ci sarebbe un vasto ritorno monetario. Dall’altro… io che chiedo solamente un pagamento per concederle questo materiale. E… e avrei la possibilità di vedere il sogno di mio padre realizzato. Poter aiutare i pony che… che non possono volare”.

Terminando la frase, Rainbow non poté fare a meno di percepire una lieve nota di tristezza, in quelle parole.

L’unicorno rimase parecchi secondi a pensarci.

“Quindi vorresti vendermi i progetti?”.

“Sì”.

“Che garanzie ho che siano affidabili? E che non esistano altre nuvole come questa, in giro?”.

“Lei vuole proprio l’esclusiva assoluta, eh?”, chiese retoricamente. Panpipe non si smentiva: era rimasto l’arrivista spilorcio di sempre.

“Sarebbe apprezzabile…”.

“Beh… non sono un ente legale, quindi non posso darle garanzie certe… Può solo fidarsi della mia parola. Dopotutto… in un modo o nell’altro sarebbe la parola di uno dei Campioni di Equestria. Dovrà pur valere qualcosa”. L’altro parve annuire. In realtà non gli importava molto della garanzia di parola. Era molto più preoccupato del fatto che due pony vicini alla Principessa, come lo erano loro, potessero causargli più problemi che altro. Decise di non calcare troppo lo zoccolo. “Per quanto concerne la nuvola”, lo informò il pegaso, “gliela venderò con i progetti. Così sarà sicuro che non ce ne siano altre e potrà anche avere un esemplare funzionante”.

Dash spalancò la bocca, colta da spiazzamento improvviso: “Cosa?? Icarus! M-ma… ma è la tua Cirrus!”.

L’amico parve ignorarla: “Io le concederò i progetti, interpretabili da qualsiasi equipe specializzata, e includo anche la mia unica nuvola. Niente di più. Niente di meno”.

Il pony grigio gli passò quindi un foglietto ripiegato, facendolo scorrere sul tavolo.

Panpipe lo lesse.

“Questa è la somma che le chiedo. Con una piccola percentuale in contanti”, concluse Icarus.

“Mh. È una bella cifra”, ammise il medico. “Non sono sicuro che un investimento così rischioso valga tale prezzo…”.

Il pony dalle ossa di caramello assunse un atteggiamento incredibilmente autoritario. Si impettì e puntò gli occhi viola dritti in quelli del primario. A Dash, per un istante, sembrò di vedere la fotocopia di Daedalus, la prima volta che i due si incontrarono.

“Non sono trattabili. Tra mezz’ora ho lo zeppelin per tornare. L’offerta è valida fino ad allora. Poi me ne andrò”.

Panpipe mosse lo sguardo più volte sulla Cirrus e sui progetti.

Sembrava che l’indecisione fosse divenuta leggibile sul suo volto.

Fece un lungo sospiro, quindi si alzò lentamente dal tavolo.

“Vorrei cinque minuti per pensarci…”, dichiarò, dirigendosi poi all’interno dello studio.

“Faccia con comodo”.

 

    Quando l’unicorno fu all’interno, Rainbow cinse Icarus per le spalle, trattandolo come uno dei ricoverati psichiatrici dell’istituto.

“Ma ti sei rincretinito del tutto??”, esclamò scuotendolo.

“No”.

“Come no?? Hai… hai appena deciso di… di dar via i progetti di tuo padre e… e la tua Cirrus! So quanto ci sei affezionato! Senza contare che ti è fondamentale per muoverti!”.

“Lo so. Ma non ha importanza. È la cosa giusta da fare”.

“Icarus…”.

L’amico posò gli zoccoli sulle zampe di lei e scrutò il muso della compagna con intensità: “Ascolta, Dashie… Hai… hai detto che ti fidi di me, non è vero?”.

“Sì… ma…”, rispose, visibilmente a disagio.

“…che riesco sempre a fare la cosa giusta. Bene… allora… credi ancora in me. So cosa sto facendo”.

Rainbow si sentì combattuta. Pensava che Icarus stesse compiendo un’enorme sciocchezza… eppure… i suoi occhi erano determinati come non mai. Nessuna forza in terra sarebbe riuscita a fargli cambiare idea. E poi… era vero… Ogni volta che lui aveva quello sguardo… ogni volta che sembrava compiere un gesto insensato… tutto, alla fine, assumeva una curiosa piega positiva.

Quel pensiero, tuttavia, non bastò a farla ricredere sui propri pensieri. Ma decise di dargli fiducia.

Non rispose. Si limitò ad annuire con scarso entusiasmo.

“E poi”, la tranquillizzò il pegaso, “non è vero che è l’ultima nuvola. C’è sempre l’altra che ho tenuto per te”.

“Già… non mi aspettavo ti mettessi a mentire…”, rispose sorridendo.

“Una piccola bugia a fin di bene. Non mi sarei mai sognato di togliere anche a te l’unico mezzo di trasporto, dalla terra alle nuvole e viceversa. Quella nuvola è e resterà tua. Per sempre”.

“E tu come farai, scemo?”.

“Me la presterai ogni tanto! Oppure viaggeremo in due. Si sta un po’ strettini ma funziona”.

“E se non volessi viaggiare assieme a te, mh?”.

“Vorrà dire che prenderò in affitto qualche zeppelin. Se Panpipe ci sta… noleggiare uno zeppelin potrebbe divenire realmente possibile…”.

“Pensi che acconsentirà?”.

“Ne sono sicuro”, dichiarò. “Se conosco Panpipe… il suo problema non sarà se comprare i progetti della Cirrus… ma quanto potrà lucrarci sopra per gonfiare le proprie tasche…”.

    Non ebbe il tempo di terminare il discorso che Panpipe fece ritorno. Camminava a passo spedito e, tramite la levitazione, si stava portando appresso un paio di sacchi tintinnanti e un piccolo foglietto.

Si accomodò beatamente, ripose gli oggetti e mantenne il foglio a fluttuare d’innanzi ai propri occhi. Poggiò i gomiti sul tavolo, portandosi quindi gli zoccoli al muso.

“Ci ho riflettuto…”.

“E…?”.

“Eee… penso che si possa fare. I progetti. La tua nuvola. Per questa somma. Una piccola parte in denaro contante, come stabilito”.

Il pegaso si girò per un istante verso l’amica, con un’espressione sul muso come a dirle: “visto?”.

“Quindi abbiamo un accordo?”, gli domandò Icarus, porgendogli la zampa.

L’unicorno sembrò riluttante a siglare quella sorta di patto. Avvicinò appena il proprio zoccolo e colpì con debolezza quello del puledro.

“Bene. Qui ci sono i progetti”, disse Icarus, passandoglieli.

“E qui c’è l’assegno”, ribatté il primario.

 

Il pony grigio non riuscì a nascondere una crescente sensazione di dispiacere e nostalgia quando i progetti passarono definitivamente alle zampe di Panpipe.

 

Ancor più straziante fu vedere la Cirrus… la compagna di mille avventure e peripezie… abbandonarlo per sempre.

 

Una delle nuvole che lo aveva accompagnato fin dai primi anni della sua malattia, permettendogli di spostarsi per il mondo, nonostante tutto; pronta ad alleviare e lenire i suoi dolori alle articolazioni, i suoi acciacchi, i suoi malesseri…

 

Ma ora… non lo avrebbe più trasportato.

 

Con un po’ di fortuna… sarebbe stata la salvezza per altri pony che, come lui, sperduti in chissà quale angolo di Equestria, forse avrebbero potuto beneficiarne.

 

Rainbow dovette trattenersi per non dire nulla, durante quella transazione per lei incomprensibile.

Ma era fatta.

Panpipe sollevò la miriade di fogli ed iniziò a raccoglierli ordinatamente. Icarus si sarebbe aspettato di sentire il rumore di un tintinnante registro di cassa provenire dal medico, da un momento all’altro.

 

Il puledro fece un cenno alla compagna che, a malincuore, sistemò le due sacche di soldi nei tasconi laterali, mettendo poi al sicuro il prezioso assegno.

 

“Direi che non abbiamo altro da dirci”, concluse l’unicorno, senza nemmeno guardarli, immaginandosi i cento e uno modi con cui avrebbe potuto far soldi con quelle nuvole.

Icarus scese dalla sedia e si avviò zoppicando verso l’ufficio.

Dash lo osservò con sgomento.

Fino ad un attimo prima era comodamente seduto sulla soffice nuvola. Ora, invece…

La puledra scosse il capo.

 

“In verità”, aggiunse il pegaso, ruotando appena il capo verso il suo ex medico curante, “vorrei ancora chiederle una cosa, se fosse possibile”.

“Mh. In fretta, che ho da fare”.

“Qui avete… un ricoverato. Un tizio nel reparto di cura psichiatrica, che farnetica frasi senza senso”.

“Come tutti i ricoverati del reparto psichiatria, d’altronde”, lo liquidò, assorto nei progetti e riprendendo a sorseggiare caffè con noncuranza.

“Un tizio con la barbetta. Si chiama Ate”.

“Credo di aver presente. Beh, qual è il problema?”.

“Vorrei che venisse dimesso”.

Panpipe si bloccò. Continuò a dar loro le spalle e la cosa gli permise di nascondere il ghigno sardonico sul suo volto. Aveva da tempo intuito come quel paziente stesse a cuore ad Icarus. Ed ora… lui non aveva più doveri nei suoi confronti. Il patto era stato stipulato. Per una becera questione di ripicca personale, decise che non gli avrebbe più concesso alcunché. Sarebbe stato il suo piccolo, ultimo gesto di vendetta nei confronti del pegaso. Il fantomatico Campione di Equestria era già riuscito a metterlo in cattiva luce, in passato, ed ora era persino arrivato a farsi pagare fior di quattrini per una nuvola incantata.

Il medico inscenò una faccia da poker e, con apparente fare professionale, unì gli zoccoli tra loro e si girò verso i due.

“Oh… mi dispiace informarti che i pazienti sotto cure psichiatriche raramente possono essere allontanati dall’istituto. E Ate potrebbe essere un pericolo, oltre che per se stesso, anche per i pony attorno a lui”.

“Sa benissimo che non è vero”, puntualizzò fermamente Icarus, intuendo la sua malevolenza. “E poi posso pagare, ora. Posso farlo uscire e fornirgli i farmaci di cui ha bisogno”.

Certo, avrebbe potuto pagare. Ma Panpipe decise di non acconsentire. Non gli importava quanti soldi avrebbe ricevuto di ritorno.

Non avrebbe più concesso nulla ad Icarus.

Mai più.

“Sono desolato… è una questione di sicurezza. Ate dovrà rimanere qui, dove sarà al sicuro e non potrà nuocere a suoi coetanei”.

Il pegaso dovette trattenere il ribrezzo nei suoi confronti.

“…non c’è modo di farle cambiare idea?”.

“Mi dispiace”, mentì, con un sorrisetto. “Non dipende da me”.

“D’accordo. Ho capito, dottore”, rispose, con voce calante e riprendendo a zoppicare lentamente. “Le auguro ogni fortuna”. Guadagnò l’uscita.

Rainbow, invece, rimase immobile ad osservare l’amico, quindi si rivolse un’ultima volta a Panpipe, con volto assolutamente contorto dalla rabbia.

“…lei… lei è… uno degli individui più spregevoli che io abbia mai incontrato”, gli inveì contro, cercando nonostante tutto di contenersi.

“Ok. Non sbattete la porta, quando uscite”.

La puledra non desistette: “Poteva almeno concedergli quest’ultimo favore! Le… le ha appena dato la sua nuvola! Il mezzo che gli permetteva di muoversi senza dover zoppicare o trascinarsi le zampe! Sa quanto ci era affezionato??”.

“Gli affari sono affari. E tutto ha un prezzo”.

Rainbow rifilò una poderosa zoccolata sul tavolino, facendo cadere caffettiera e tazzine. I nervi di Panpipe lo fecero sobbalzare: i fogli gli fuggirono dalle zampe e svolazzarono alla rinfusa.

“Un giorno, mio caro dottore”, gli spiegò, con tono conciso, “imparerà che ci sono cose che non si possono comprare. E in quel momento… lei capirà di essere rimasto solo. Solo con le sue ricchezze, come un insetto intrappolato in un palazzo dorato e completamente vuoto…”.

Panpipe la osservò preoccupato, non sapendo cosa risponderle.

Dash ritrovò un po’ di calma e si incamminò a sua volta verso l’uscita.

Se ne andò.

E non sbatté nemmeno la porta.

 

    Nel corridoio esterno, Icarus aveva preso la via del ritorno, con passo lento e traballante.

Dash gli trottò incontro e si portò al suo fianco.

L’amico zoppicava a muso basso, con un’espressione di assoluta neutralità sul volto.

Il pony dagli occhi magenta lo seguì senza dire nulla.

Dopo un po’, il pegaso si trovò a dover affrontare la prima rampa di gradini. Rimase un po’ in silenzio, a fissarli, quindi iniziò la discesa, con evidente sforzo. Ad un certo punto, una zampa cedette e Rainbow dovette intervenire per sorreggerlo o sarebbe rotolato giù come un barile di mele.

Icarus si fermò e scrutò il muso della compagna, immortalato in una smorfia d’ammonimento.

Il puledro ridacchiò sotto i baffi: “…so cosa stai pensando… che sono un imbecille”.

“…imbecille… e idiota. E scemo”.

La vicinanza della compagna impedì al suo umore di finire sotto gli zoccoli.

“Senti, Dashie, io…”.

“Ma perché lo hai fatto??”, esplose infine, cingendolo per la spalle. “Perché hai… hai rinunciato a…”.

“Senti, non pretendo che tu mi capisca a fondo... È che…”.

“Era per i soldi??”, chiese con foga. “Non dirmi che era solo per il progetto di tuo padre… perché non credo che avresti comunque dato le bozze a quel pallone gonfiato del primario!”.

“Ascoltami, Dashie…”, le comunicò, mostrandole un radioso sorriso. “È… è una cosa mia. Ti prego, credimi… ho fatto la cosa giusta”.

“Ma… ma come puoi dirlo?”.

Gli occhi dell’amico si illuminarono di fervore: “Per… per tutta la vita ho visto pony attorno a me deridermi e rifiutarmi. Mi hanno fatto star male. Malissimo. Ma… tra questi… ce ne sono stati alcuni che non hanno fatto altro che dedicare le loro vite… a me. Solo per cercare di farmi star meglio…”.

“Intendi… i tuoi…”.

La convinzione del puledro era assoluta e Rainbow non poté fare a meno di lasciarsi coinvolgere nel suo discorso.

“Se… se ripenso al passato… mi chiedo cosa ne sarebbe stato di me… se… se non fossi stato aiutato. E questo aiuto è costato un prezzo altissimo a tutti coloro che hanno avuto a che fare con me…”.

“Icarus… non devi ragionare in questo modo. Se non avessero voluto aiutarti, consapevoli delle loro scelte, non lo avrebbero fatto…”.

L’interlocutore mostrò un volto visibilmente commosso ed emozionato: “È questo il punto, Dashie! I-io… io sono rimasto semplicemente… spiazzato dall’amore che… che i miei genitori mi hanno dato… sacrificando tutto… solo per me. All’amore che… che tu…”. Icarus si fermò e la compagna lo scrutò con volto interrogativo. “Dicevo”, riprese il pegaso, schiarendosi la voce. “È… è stata una gioia immensa… così grande da… da riempire ogni cellula del mio corpo…”.

“Non… non credevo che… che tu… covassi queste sensazioni, dentro di te. È che ti vedo spesso… sofferente… taciturno…”.

L’amico sembrò cader preda di un lieve imbarazzo: “…e invece… è così, Dashie. Mi dispiace… è che io… non sono bravo a dimostrarlo a parole… I miei genitori hanno dato la loro vita, per le mie ali. E adesso… dopo tutto l’amore che mi hanno e che mi avete donato… voglio poter restituire qualcosa anche io. Voglio… voglio poter dare qualcosa anche io…”.

“Ti capisco… però… la tua nuvola… era come le tue seconde ali, per te…”.

Il sorriso di Icarus parve intenerirsi. La fissò con occhi leggermente lucidi.

“Dimmi una cosa, Dashie… Tu… perché hai voluto sacrificare le tue ali per me?”.

Rainbow si ritrasse leggermente: “Pe… perché…”, balbettò emozionata, strofinandosi la criniera. “…perché… volevo vederti… felice. In quel momento… era l’unica cosa che mi importava. Volare non sarebbe più servito a nulla… se tu non fossi stato… felice…”, ammise con difficoltà.

Il pony passò le zampe di caramello attorno al collo blu, portandosi fronte a fronte con lei.

“E allora…”, le rispose Icarus, “stupido pegaso cocciuto… ora sai perché ho voluto dar via le mie seconde ali… per coloro che voglio vedere felici”.

 

Rainbow provò una strana sensazione, in quell’istante.

Per la prima volta in vita sua… le parve che qualcuno fosse entrato nella sua stessa condizione.

 

Un pegaso che, in un modo o nell’altro, poteva volare… e che aveva deciso deliberatamente di rinunciarvi per qualcuno.

Proprio come aveva fatto lei.

 

“Lo so che in passato ho messo in dubbio le tue scelte”, le confessò con sincerità. “Ma ora… ora ho capito. Non avere più dubbi. Il tuo mondo… è come il mio. In tutto e per tutto”.

 

Dash non riuscì a rispondergli.

L’unica cosa che fece fu mascherare al meglio un singhiozzo accennato. Lo strinse a sé con energia, cercando di portare a sé quel pegaso che così tanto aveva sconvolto la sua vita.

 

E che non finiva mai di stupirla.

 

“S-senti…”, farfugliò Icarus, riprendendo impacciatamente le distanze. “Dovremmo andare… o… o perderemo lo zeppelin…”.

“Già…”, gli rispose il Campione dai crini multicolore. “Dovremmo andare…”.

“E poi… voglio solo salutare un’ultima volta qualcuno…”.

 

    I due si mossero lentamente lungo le scale.

Con calma. Molta calma. Rainbow non ebbe fretta e aiutò l’amico a scendere con sicurezza i gradini.

Dopo l’impresa, Icarus cercò il suo vecchio compagno barbuto e lo ritrovò in un angolino della sala d’attesa, intento ad assillare qualche sventurato con le sua farneticazioni. Chestnut, imbarazzata, cercava di tenerlo calmo.

Quando il ricoverato vide il pegaso grigio, tuttavia, scattò come una molla verso di lui. Iniziò a galoppare come un treno, sfuggendo alle grinfie di Chestnut: l’infermiera si aspettava che travolgesse il puledro dai crini viola da un momento all’altro.

Quando fu a pochi centimetri da lui… Icarus lo abbracciò.

Ate divenne rigido come uno stoccafisso, impreparato ad un simile gesto.

“Mi… mi dispiace, amico…”, gli sussurrò Icarus, realmente affranto. “Io… io ci ho provato… mi dispiace…”.

Chestnut capì che qualcosa non era andato come previsto e si avvicinò lentamente ai tre.

“È andato tutto… bene?”, domandò titubante.

L’altro sorrise appena: “Poteva andare meglio… poteva andare peggio…”.

Il degente puntò gli occhi da pazzo in quelli viola, come se attendesse qualcosa da lui.

“Mi… mi dispiace, Ate…”, ripeté, scuotendo il capo.

Una struggente sensazione iniziò a corroderlo dall’interno.

Ora… avrebbe dovuto lasciarlo. Era entrato con l’idea di convincere Panpipe ad estrometterlo. Pensava che, con i soldi, avrebbe estorto qualsiasi cosa al primario. Ma così non era stato.

L’infermiera non ci capì granché: “Ma… cos’è successo?”.

Icarus mise una zampa sulla spalla di Ate e l’altra sulla spalla di Chestnut.

Fissò la puledra con sguardo sincero: “Niente. Volevo solo assicurarmi… che Ate fosse in buoni zoccoli. E… penso sia così”.

“Ma… ma io…”.

“E ti chiedo scusa…”, continuò sorridendole, “…se le prime volte ti ho trattata male. So cosa hai fatto per me e per noi. So che…”.

La puledra bianca si passò nervosamente gli zoccoli tra i crini, decidendo infine di confessare ciò che avrebbe sempre voluto dirgli: “Icarus… In verità… sono io a dovermi scusare per come ti ho trattato certe volte… Ti chiedo… sinceramente scusa… davvero. È solo che… con i pazienti… e… e i doveri… il primario che avanza pretese… il coinvolgimento emotivo che… che certe volte ti strazia… e così, io…”.

“Sei una brava infermiera, Chestnut. Non lo dico solo per sviolinarti…”.

“C… come?”.

“Quando qualcuno sta male come stai tu ora… è perché sta usando il cuore. E non solo il cervello. Sono convinto che Ate starà bene, finché ci sarai tu ad accudirlo”.

“Ah… ma io…”.

Icarus si rivolse quindi al suo amico: “E noi due… vecchio pazzo… dobbiamo lasciarci”. Ate scosse il capo, come se non volesse ascoltarlo. Rainbow iniziò davvero a credere che quel pony fosse meno folle di quanto pensasse. “È stato… un onore e un piacere… avere te al mio fianco, nei momenti più bui della mia vita”.

“…no”, rispose Ate. “No. NO. NOOOO!!”. Il ricoverato prese ad agitarsi in modo incontrollato. “NOTTAMBULI NOTTURNI NORMALMENTE!!”.

Chestnut intervenne di nuovo, per placarlo.

Icarus sentì un dolore all’altezza del petto. Ma doveva andarsene. Più stava lì e più si sarebbe sentito peggio.

Gli sfiorò una zampa protesa, prendendo poi le distanze da lui: “…a-addio… vecchio navigatore dell’ignoto”.

“NOTTETEMPO!! NOBILTA’!!”, continuò a strillare l’altro, facendo di tutto per raggiungerlo. Un altro medico dovette intervenire per trattenerlo o Chestnut, da sola, non sarebbe bastata. La puledra osservò basita i due, mentre si allontanavano.

Una marea di emozioni contrastanti le esplose nel petto.

 

    Icarus e Dash abbandonarono l’istituto.

Il pony dalle ali di caramello si sforzò di non voltarsi indietro, pur udendo le urla strazianti dell’amico.

“Via”, tagliò corto, cercando di accelerare il passo. “Qui non c’è più nulla da fare”.

    Giunsero al piccolo molo d’attracco degli zeppelin, non molto distante dal lago. Il velivolo era già a terra e le eliche in lenta rotazione, sintomo che sarebbe partito a minuti.

I due presero posto, con Icarus estremamente triste ed affranto, nonostante ora avesse ultimato un compito molto importante.

“Mi dispiace molto per Ate”, cercò di consolarlo Dash, passandogli una zampa sulla schiena. “Ho capito che tenevi davvero tanto a lui…”.

L’amico rispose con un debole sorriso e prese ad osservare l’Emerald Lake attraversò l’oblò al suo fianco.

 

    Nell’istituto, intanto, la scenata isterica non si era di certo placata.

Ate continuava a starnazzare e sembrava quasi impossibile calmarlo.

“NOOO!! NONOSTANTE NOMADI!!”.

Qualcuno sopraggiunse di gran fretta dalle scale. Era Panpipe.

“Ehy!! Che è ‘sto fracasso??”, ragliò, tappandosi entrambe le orecchie.

Quando vide la scena, sembrò innervosirsi ancora di più: “Perché quel paziente sta urlando così, signorina Cheescake??”.

“Ecco… ecco lui…”.

Il collega, intanto, era riuscito a bloccarlo momentaneamente a terra ma il pazzoide non ne voleva sapere di tranquillizzarsi.

“Senta…”, intervenne il primario, estraendo magicamente una siringa dalle tasche interne del camice. Chestnut la afferrò tra gli zoccoli, con volto interdetto. “Gli faccia una di queste sulla coscia. Così si addormenterà come un agnellino. E la smetterà di spaccare i timpani a mezzo reparto!”.

L’infermiera non sembrò per nulla convinta.

Panpipe, tuttavia, la osservava con espressione severa, come se fosse un insegnante durante un’interrogazione.

La giovane mosse qualche passo incerto verso il paziente e sollevò la siringa, con zampa tremante.

Ate, in posizione di sottomissione, le lanciò un’ultima occhiata.

 

Chestnut vide i suoi occhi.

Percepì una fiamma di follia.

 

E capì.

 

Non ebbe più dubbi.

 

Infilò l’ago nella coscia e premette lo stantuffo.

Era la cosa giusta da fare.

 

“Ottimo lavoro, signorina”, si complimentò l’unicorno. “Ora se vuole scusarmi, io…”.

Il tizio che tratteneva Ate, contrariamente ad ogni previsione, si ritrasse stupito. Si osservò il fianco e, poco prima di cadere faccia a terra con espressione imbambolata, constatò come lo strumento medico fosse finito sul posteriore sbagliato. Franò sul pavimento.

 

E Ate si ritrovò improvvisamente libero.

Non lo realizzò immediatamente ma Chestnut si prodigò affinché non perdesse tempo.

“Corri, Ate!! CORRI!!”, gli urlò, con volto che esplose improvvisamente di gioia.

“C-cosa?!”, sbottò Panpipe. “M-m-ma…!”.

Il pony barbuto non se lo fece ripetere: si issò repentinamente da terra e prese a galoppare come sapeva fare lui. Un paio di unicorni in camice cercò di acchiapparlo ma Ate fu più rapido e sgusciò in mezzo ai due.

 

    Non molto lontano, lo zeppelin iniziò lentamente a muoversi parallelamente al terreno. Non appena ottenuta un po’ di velocità, avrebbe spiccato il volo.

Icarus era appoggiato al bracciolo della seggiola, assicurato alla stessa tramite le apposite cinture, così come tutti i passeggeri. Continuava ad osservare l’istituto: da un lato, era contento di lasciarlo, forse per sempre. Ma dall’altra…

Poi il suo viso sembrò acquisire energia.

Drizzò le orecchie.

Si stropicciò gli occhi.

Senza osservarla, diede un’energica strattonata all’amica blu, seduta nel posto vicino al suo.

“D-Dash!”.

“Mh?”.

“DASH!”.

“Cosa? Che c’è?”.

“Dash, guarda!!”.

L’ex pegaso si sporse verso il finestrino e la sua bocca si spalancò: “Oh… per Celestia…”.

 

Ate stava galoppando verso di loro, con una coppia di infermieri alle calcagna.

Quasi sicuramente urlava ma il rumore delle eliche era troppo forte.

 

“Dash!! Sta tornando!”, esclamò con gioia. “Dobbiamo farlo salire!”.

“Cosa?? Sei matto? Questo affare sta per decollare! Saremo già ad un paio di metri da terra!”.

“Dash! Dashie!”, insistette. “Deve salire!”.

“Ehy!!”, intervenne un controllore, anch’egli assicurato ad un sedile. “Non fatevi venire strane idee! Non ci si muove durante il volo!”.

“Visto?”, lo esortò il pony blu.

“…se non vuoi farlo salire tu”, borbottò il pegaso, contorcendosi fino a slacciare la cintura, “allora ci penserò io!!”.

“Icarus!!”.

Il pony grigio si liberò dall’impaccio e si mosse verso la portella di sicurezza della cabina. L’apparecchio volante, tuttavia, vibrava e oscillava, impedendogli di camminare dritto e rischiando di farlo cadere ad ogni passo.

“Ehy!! Si fermi!! Torni al suo posto!!”, lo ammonì il controllore.

Ma Icarus nemmeno lo sentì. Raggiunse la portella, con estrema fatica, sotto gli occhi preoccupati di tutti i presenti, e cercò di ruotare il grosso meccanismo di chiusura. Ma era durissimo.

Un paio di zampe blu si unì alle sue.

“Tu sei tutto scemo!!”, gli inveì contro Dash.

“Scemo io o scema tu che aiuti lo scemo??”.

Con lo sforzo congiunto dei due, la portella finalmente si aprì e il vento entrò prepotente nella cabina. I passeggeri iniziarono ad urlare e preoccuparsi.

Icarus, mise la testa fuori: vide l’erba scorrere veloce, a pochi metri dallo scafo. Poco più indietro, Ate non la smetteva di correre e strillare.

“ATEEE!!”, gridò, corroborato dalla contentezza. Gli allungò una zampa. “ATE!! CORRI!!”.

“CORRIDOIO!! CORRIDOIO!!”, ripeté col fiatone, facendosi sempre più vicino.

Gli infermieri dietro di lui, tuttavia, stavano riducendo le distanze e la preoccupazione si dipinse sul volto del pony dagli occhi viola.

“Daaash!! Così lo prenderanno!”.

Il rumore e il frastuono del vento era assordante.

“E cosa posso farci, io??”.

Icarus doveva decidere in fretta. Si guardò nervosamente attorno, sperando che qualcosa potesse fornirgli una soluzione. Alla fine… la trovò.

Senza indugi, senza nemmeno pensarci troppo, il puledro diede un colpo di denti al sistema di chiusura di uno dei tasconi di Rainbow. Il contenitore si aprì e uno dei sacchi di monete volò via, finendo direttamente contro le eliche in rotazione.

L’impatto fece esplodere l’involucro e spanse una vera e propria pioggia dorata a poppa del velivolo a vapore.

Ate chiuse gli occhi e galoppò in mezzo ad una grandinata di denaro.

La coppia dietro di lui, invece, osservò meravigliata la pioggia fortunata che li investì a breve. Interruppero immediatamente la corsa, prendendo quindi a raccattare ogni singolo oggetto dorato che videro.

 

E il pazzo… galoppò… galoppò con ogni energia che aveva in corpo. Alla fine… con un ultimo, spettacolare saltò, si fiondò contro la portella. Rainbow lo agguantò per un soffio e i due ruzzolarono all’interno.

 

Icarus si mise le zampe tra i crini ed esplose nella più rumorosa e sguaiata risata che la compagna mai avesse udito.

La puledra, tuttavia, sembrò più spaventata che festante. Il cuore le batteva fortissimo in petto. Ate era riverso contro di lei, in una posizione ridicola; ancora si chiedeva come avesse potuto acconsentire all’ennesima pazzia.

Ma quando Icarus e Ate si ritrovarono… quando si abbracciarono, prendendo a ridere come matti, non riuscì a non farsi contagiare.

E si unì a loro.

Alle loro urla.

Alla loro gioia.

Alle risate di tre pazzi.

 

Tre pazzi in un mondo altrettanto folle.

 

In un luogo dove nessuno mai sarebbe giunto, se non fendendo l’ignoto come avevano fatto loro.

In un luogo che soltanto ai sognatori si addice.


    A terra, intanto, non molto distante dallo zeppelin che ormai si stava librando nel cielo, due pony in camice finivano di agguantare gli spiccioli tra i ciuffi d’erba.

Sopraggiunse anche una puledra accompagnata da un unicorno piuttosto adirato.

“È… è scappato!! Non ci posso credere, signorina Cheescake!! Non posso credere a quello che ha appena fatto!!”.

L’altra, tuttavia, rimase silente ad osservare lo zeppelin immerso nell’azzurro, con un dolce sorriso sulle labbra.

“Mi ha sentito??”.

“Sì. Sì, la sento”.

“Bene!! Perché non penserà mica di poterla passare liscia, vero?? Si aspetti una immediata sospensione, seguita da riduzione di stipendio e…”.

Chestnut si girò verso di lui e, con atteggiamento assolutamente sereno e naturale, gli disse: “Non sarà il caso, dottore”.

“P-prego?”, farfugliò, interrotto sul crescere della sua lamentela.

“Mi licenzio”.

“Si… si licenzia…? Ma…”.

Il pony bianco tornò ad osservare la macchina volante.

Sorrise di nuovo.

“Già. Ho deciso che ne ho abbastanza”.

“A… abbastanza di cosa?”.

I due si osservarono negli occhi: “Non voglio più obbedire alle sue direttive, dottore. Io volevo aiutare il prossimo. Non ridurmi ad acconsentire ad ogni suo capriccio. Penso sarò molto più utile e in pace con me stessa andando a lavorare in qualche piccola clinica. O ovunque ci sarà bisogno di me…”.

“M-ma… non precipitiamo gli eventi…”. Dopotutto, Chestnut era piuttosto utile al suo ospedale. Non voleva perderla, stava solo facendo la voce grossa.

“Stia tranquillo. Ormai ho deciso”.

Panpipe capì che non sarebbe riuscito a farle cambiare idea, così si impuntò ancora di più: “Al… allora mi restituisca il camice!”.

“No”, rispose con volto serio, prima di andarsene. “Questo camice bianco rappresenta ancora qualcosa, per me. Fa parte del mio desiderio di aiutare gli altri, prima ancora di metterli da parte per arricchirmi. Cosa che lei deve aver dimenticato piuttosto in fretta”.

Il primario rimase senza parole. Cercò qualche frase con cui risponderle. Un insulto velato. Una frecciatina. Non gli venne in mente nulla.

Fu invece la giovane ad avere l’ultima parola: “Un giorno, dottore, si renderà conto di essere rimasto solo. Solo in mezzo ai suoi soldi. E con i soldi non comprerà mai l’affetto di cui sentirà il bisogno”.

Chestnut si allontanò, senza più voltarsi.

“Bene! Se ne vada! Ne trovo altre cento, come lei! Anzi, no! Più brave di lei!”, blaterò inviperito.

“E voi due!”, ruggì contro gli infermieri rimasti. “Piantatela di perder tempo e tornate a…”.

“Col cavolo!”, disse uno, andandosene di gran lena. “Con questi soldi non ho più bisogno di fare lo sguattero per lei!”.

“Esatto!”, ribadì l’altro, seguendolo. “Anzi, per prima cosa mi sa che andrò a rilassarmi un po’ al lago!”.

 

Panpipe perse completamente la propria baldanza.

Il suo mento tremò.

Le frasi uscirono spezzate o appena accennate.

“M-ma… ma è… è innammisb… immaniss… inn… in…”.

Il suo volto si spense.

Le rughe d’età si fecero ancor più evidenti.

Il dottore, primario dell’istituto dell’Emerald Lake, sembrò mutare in un docile vecchietto dallo sguardo spaventato, come se si fosse perso in un labirinto.

 

Panpipe rimase solo.

Circondato da un piccolo mare di erba mosso dal vento montano.

Solo. In mezzo ai suoi soldi.

 

Come un insetto in un palazzo dorato.

 

*** ***** ***

 

    Pochi giorni dopo, in una piccola cittadina ai piedi delle colline, una giumenta si incamminò verso un piccolo edificio a ridosso della piazza principale.

Era una struttura modesta, che fungeva da cassa di risparmio per piccoli centri abitati. Non si poteva definire una banca, vista la densità di popolazione piuttosto esigua. Ma serviva allo scopo.

“Allora me la puoi tenere un attimo?”, chiese cortesemente Sunshine, ponendo la piccola Iris tra le zampe di un vecchio pony rugoso.

“Ma shi puoi shcommettere, dolshezza!”, rispose Granny Smith con decisione.

“Grazie di cuore”, ribatté con un sorriso.

“Figurati! Per me è un piashere tenere questo shcricciolo alato!”.

Iris si allungò verso la madre ed emise un verso di sofferenza. Non voleva separarsi da lei.

“Su, su… Mamma torna subito. Devo andare a prendere un po’ di soldi che il tuo papà ha guadagnato con tanta fatica…”.

“Vanno un po’ meglio le coshe?”, chiese la nonna.

Sunshine alzò le spalle: “Più o meno. Daedalus è davvero un tesoro. Si sta facendo in quattro per mettere da parte un po’ di soldi, che a malapena servono a coprire i debiti e a permettermi le cose per Iris… E se non ci foste stati voi e Brutus… non saprei veramente come avremmo fatto…”.

“Bah! Shiamo shempre dishponibili a dare una sampa agli amishi!”.

“Grazie, Granny. Lo apprezzo molto. Non sai quanto…”.

“Bubbole! Ora vai, io rimango qui con la piccola Shirshi”.

“Si chiama Iris…”.

“Se ama i ghiri? Ooh! Non lo sho! Quando imparerà a parlare, glielo chiederemo!”.

“Ook…”, sussurrò la giumenta, ruotando gli occhi al cielo.

Entrò nel locale.

    Il pegaso dorato andò ad uno sportello e si inserì in una modica fila di due pony. Quando fu il suo turno, l’inserviente la riconobbe subito. Veniva quasi tutte le settimane a prendere i soldi necessari per la figlia.

“Buongiorno, signora Sunshine!”, la accolse una puledra unicorno.

“Buongiorno Sirup”.

“La vedo rilassata! Va tutto bene con la piccola?”.

“Sì. Sì, le cose stanno andando piuttosto bene, ora”.

“Sono contenta di sentirlo! Vuole il solito?”.

“Sì, ti ringrazio. Fammi l’estratto conto e da lì vedrò quanto posso prelevare. Dobbiamo pure lasciare qualche quattrino ai nostri mariti sgobboni, non credi?”.

“Ah! Maschi! Non me ne parli… se penso che solo ieri stavo con quel cafone di…”.

L’unicorno si bloccò. Prese i documenti che stava leggendo e li ricontrollò più volte, con espressione stranita.

“…va tutto bene, cara?”, le domandò la cliente.

“Uhh… i-io…”.

Sunshine parve preoccuparsi: “Non… non dirmi che ci sono problemi col conto? Non siamo mica in rosso??”.

“In… in verità no…”, balbettò.

“C’è meno del solito, allora. Lo sapevo!”, si inalberò. “Non dovevo prendere quell’extra per il pigiamino… potevo usare quello che già aveva. È solo che una mamma vuole il meglio per i figli e…”.

“No… no, non ha capito”, la riprese.

“Ah… e… allora? Cosa c’è che non va?”.

“Il… il suo conto è… uh… discretamente salito, dall’ultima volta…”.

“Salito? Dedy ha fatto gli extra a lavoro, forse?”.

Sirup scosse il capo, perplessa: “Signora Sunshine… io non credo che… che qualche serata di lavoro extra  possano aver prodotto un simile introito…”.

“Insomma!”, sbottò spazientita. “Basta, fammi vedere!”, e afferrò il foglio tra le zampe. “Ci sono un sacco di numeracci. Dove vedo l’estratto?”.

“È… è la scritta sottolineata, signora Sunshine…”.

Il pegaso strizzò gli occhi, per leggere meglio: “Mfh. Sottolineata… sottolineata… sott…”.

Si bloccò.

Rialzò il muso verso Sirup.

Aprì la bocca.

Sirup fece spallucce e inscenò un risolino.

Sunshine tornò con lo sguardo sul documento.

Il suo voltò cascò quindi all’indietro e le pupille ruotarono verso l’alto.

La giumenta si accasciò al suolo, priva di sensi.


“Oh Celestia!! OH CELESTIA!!”, si impanicò l’inserviente, con le zampe in testa. “HO APPENA UCCISO IL NOSTRO NUOVO MIGLIOR CLIENTE!!”.

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Capitolo 8
*** Nuvole dal cielo ***


    L’inverno alle porte decise di varcare la soglia senza nemmeno bussare, riversando freddo e neve per quasi tutta Equestria. Ponyville mantenne un clima mite fino all’ultimo ma, alla fine, dovette arrendersi d’innanzi al repentino cambiamento stagionale.

 

    La vita, nella piccola cittadina, parve continuare come se nulla fosse.

Per una strana famiglia, tuttavia, le cose parvero cambiare improvvisamente in meglio.

Daedalus e Sunshine videro un piccolo patrimonio affluire nel conto famigliare, il che permise loro di coprire completamente i debiti e conservare una quantità sufficiente di liquidità per dare una svolta alle loro vite.

Non seppero mai da dove arrivò il versamento. Icarus non diede informazione e fece promettere a Dash di non rivelare alcunché.

Il padre decise da andarsene da Steamdale, non prima di aver ringraziato Brutus con una lauta somma in denaro, cosa che gli permise di riavviare l’attività da zero: il pony nerboruto chiuse il locale e si trasferì in uno più piccolo, collocato però nelle zone benestanti della città fumosa. Nonostante il suo temperamento burbero ed arrogante, imparò ben presto qualche buona maniera e i clienti non tardarono ad arrivare, portando un po’ di flusso in cassa.

Ebbe poi un leggero contraccolpo quando, svegliandosi una mattina nel suo letto per due… notò che la sua Amanda non c’era più. La giumenta era andata via, portando con sé l’incasso di una settimana.

Brutus riuscì a riemergere anche da quella fregatura e maledì con tutto il cuore l’ex compagna. Di notte, tuttavia, lo si poteva vedere rimirare la luna con il cuore spezzato.

Un bestione grande e grosso… con la sensibilità di un puledrino.

    Daedalus si stabilì momentaneamente dalla fattoria Apple, insieme alla moglie e alla figlia. Collaborando con Sunshine, iniziarono a progettare il proprio futuro. Non erano ricchi, non dopo aver estinto i debiti, ma rimaneva loro denaro a sufficienza per comprare una piccola casetta, magari usata, e poter permettere ai figli un solido futuro.

Dopo un’attenta riflessione, decisero di cercar casa proprio a Ponyville. Non andarono a Cloudsdale, come tutti si sarebbero aspettati.

Non svelarono mai il motivo.

Sunshine, nonostante fosse ancora in maternità, iniziò a chiedere informazioni per un lavoro, mentre Daedalus venne momentaneamente assunto come consulente artistico e finanziario da Rarity. L’unicorno bianco, in verità, riteneva che Daedalus possedesse un talento naturale per il vestiario elegante. Questo, unito alle sue capacità imprenditoriali, lo rendeva perfetto per lo scopo.

E Icarus…

 

    Icarus si sentì ebbro di soddisfazioni, come mai gli era capitato in passato.

Finalmente non si ritenne più in debito verso coloro che lo avevano aiutato, pur continuando a ringraziarli in eterno per ciò che erano riusciti a fare per lui.

Nonostante la malattia… nonostante gli acciacchi sempre più debilitanti… Icarus fu realmente felice. Felice di vivere in una famiglia riunita. Felice di essere riuscito a donare qualcosa di concretamente utile ai suoi cari.

Con il tempo, poi, divenne l’ombra di Iris, sviluppando un attaccamento quasi morboso verso la sorellina. La piccola divenne il suo impegno a tempo pieno. La andò a trovare più volte che poteva, assistendola, giocandoci ed iniziando ad insegnarle cose che, lo sapeva bene, non avrebbe capito per l’età che aveva. Ma a lui andava bene così.

 

Perché, in quel piccolo pony grigio, Icarus riversò tutto ciò che avrebbe voluto dal mondo.

 

E lo sapeva bene.

Lui, in mezzo ai suoi problemi, era stato fortunato. Immensamente fortunato.

Ed ora c’era qualcuno che avrebbe potuto volare ad ali spiegate, dove lui mai sarebbe arrivato.

Senza invidia.

Senza risentimento.

 

Rainbow rimase al suo fianco per tutto il tempo, offrendogli vitto e alloggio.

Il compagno, tuttavia, tenne per sé una somma di denaro, che utilizzò per dividere le spese con l’amica. L’ex pegaso, sulle prime, fece di tutto per rifiutare. Ma tanta fu l’insistenza del compagno che, alla fine, dovette cedere.

Lui era fatto così.

 

Ora aveva la possibilità di non dover più pesare sulle spalle di nessuno, almeno per un po’.

I suoi genitori erano riemersi dai debiti e si erano tuffati nelle prospettive future.

Iris era perfettamente sana e si affezionò tantissimo al fratello maggiore.

 

Il pegaso dalle ossa di caramello si sentì ricco.

Ricco come non mai.

 

Padrone di una ricchezza che pensava mai avrebbe avuto.

Sbagliando, cadendo e rialzandosi… aveva trovato la risposta che tanto stava cercando.

 

    Una mattina, infine, si recò con la sua amica blu a trovare i genitori, presso la famiglia Apple.

Verso pranzo iniziò a nevicare copiosamente e il fenomeno continuò imperituro.

Quando il sole calò oltre le montagne, la neve ancora scendeva abbondante e i due decisero di restar lì per la notte.

 

E la neve continuò a cadere.

 

Il mattino seguente, alzandosi prima di tutti gli altri, Icarus si portò alle finestre, da cui proveniva un accecante riverbero bianco.

Scostò le tende e dovette nascondere le pupille dilatate dietro ad una zampa: non nevicava più; tutta la zona, tuttavia, era stata sommersa da un soffice e spesso strato di candida neve.

Tutto, dalle montagne alle pianure, era imbiancato come se le nubi fossero letteralmente cascate dal cielo, ricoprendo ogni cosa.

Il pegaso sorrise.

    Senza farsi sentire, sgattaiolò nella stanza della madre e rapì la piccola Iris, che tuttavia non oppose la benché minima resistenza.

La imbacuccò da testa a zoccoli, rendendola di fatto un ridicolo ammasso di sciarpe, cappottini e un doppio strato di cuffie. Pensò di aver esagerato. Di essere un po’ troppo iperprotettivo. Scosse il capo e fece spallucce.

Quella era la prima nevicata della piccola.

Doveva assolutamente viverla assieme a lei.

Si infilò a sua volta una sciarpa blu attorno al collo.

 

Spalancò l’uscio.

 

*** ***** ***

 

    Un universo bianco si palesò agli occhi dei due.

 

Icarus osservò con enorme piacere l’enorme distesa immacolata che si stagliava d’innanzi ai suoi occhi. Soffice cotone sembrava essere cresciuto sui rami degli alberi, inclusi i sempreverdi in lontananza; senza le asperità naturali, sarebbe stato uno sconfinato tappeto d’avorio.

Faceva freddo, ma non freddissimo, proprio come si addice alle tipiche giornate nevose.

E vigeva un silenzio innaturale, completamente ovattato dalla superficie porosa delle particelle ghiacciate.

Ogni tanto, qualche saltuario e minuscolo puntino bianco scendeva giù dal cielo, come un minuscolo frammento di cristallo. Stava nevischiando appena.

 

    Il puledro si beò dell’attimo, quindi inspirò a pieni polmoni, facendo entrare l’aria gelida dentro di sé e sentendosi più vivo che mai. Poi, come un vecchietto che scatarra come una motoretta, tossì più e più volte, voltandosi dalla parte opposta ad Iris, che reggeva tra le zampe.

Si schiarì la gola: “Mh. Un altro colpo di tosse così e dovrai essere tu a portare me, nanetta”, le disse sorridendo.

La mise delicatamente a terra.

    Il cucciolo sembrava un pony giocattolo, rigido come una statua. Era talmente ricoperta da strati di vestiti da non potersi nemmeno muovere. Di visibile c’erano solo i suoi grossi occhi magenta, incorniciati da un elmo (la doppia cuffia) e una visiera (il triplo giro di sciarpa).

Le sue zampe affondarono rigide nella neve.

Rimase così. Immobile. Senza poter dire o fare nulla.

Icarus si grattò la chioma.

La sorellina tentò quindi di girare il capo verso di lui e mostrò due bulbi oculari estremamente affranti.

“Mhh… mi sa che ti ho vestita un po’ troppo…”.

Il fratello le tolse una cuffia, il copri-cappotto (una sua invenzione del momento) e allentò la sciarpa. Eliminò anche i tripli calzettoni e le ginocchiere.

Dopo alcuni minuti, da un lato vi era un mucchio di vestiti sparsi alla rinfusa e, dall’altro, un pegaso con cuffietta e sciarpa, che si diede una energica scrollata di pelo, come un cane.

“Ora va meglio, eh?”.

Iris si girò a guardarlo.

 

E il cuore di Icarus sembrò fermarsi all’improvviso.

 

La piccola gli fece il sorriso più dolce che lui avesse mai visto prima di allora, circondata dalla luce diffratta da ogni direzione.

Gli sembrò quasi una strana scena surreale.

 

Una volta al suo fianco, iniziò a camminare ma l’altra rimase ferma: continuava a scrutare intimorita quell’universo a lei completamente nuovo.

“Dai, su. È la neve!”, la incitò. “È una cosa bellissima!”.

La risposta fu un musetto poco convinto.

L’altro ribatté con viso imbronciato: “Uff. Come ti convinco?”.

Si rimise quindi a fianco del cucciolo e le allungò una zampa.

Iris controllò lo zoccolo, alzò lo sguardo al fratello, che sorrise, e poi la sfiorò per un istante.

Il pony dalle ossa di caramello le passò delicatamente l’arto sulla schiena, invogliandola a muoversi e presero finalmente a camminare insieme.

Ad ogni passo, Iris sprofondava goffamente nella neve. Dall’essere intimorita passò poi all’arrabbiarsi: cavolo! L’ultima volta non era così difficile andare in giro!

Quando la pazienza giunse al limite… Iris cominciò a trottare e scalciare come aveva fatto non molto tempo prima nell’erba.

Icarus si mise le zampe tra i crini e si tuffò verso di lei. La neve gli attutì la caduta. L’aveva agguantata per una zampina posteriore.

Iris si voltò incuriosita, come a chiedergli: “perché?”.

Il pony dagli occhi viola sollevò il muso sporco di neve: “N… non… cioè… se… se corri così… potresti… e… e poi c’è la neve… fa… fa freddo…”.

Rimasero in silenzio ad osservarsi.

Il pegaso grigio guadagnò a sua volta un sorriso sempre più ampio.

Aveva paura per lei. Che potesse farsi male o prendere freddo. Ma era un giovane pegaso in salute e debitamente coperto. Non correva alcun pericolo, lo sapeva bene. Ma comprese… cosa volesse dire… tenere a qualcuno che dipendeva da te.

 

Gli venne in mente un ricordo della madre lontano… quando lo aveva obbligato a mettersi la cuffia in testa per uscire. Cuffia che si era prontamente tolto una volta lontano da occhi indiscreti.

Ed ora… lui stava ripetendo la stessa cosa.

 

Con una certa indecisione iniziale… allentò delicatamente la presa, liberandola

Iris ridacchiò e riprese a trottare.

La visione della sorellina che saltellava, cadeva nella neve spaventandosi… ma ricominciando poi a correre più forte di prima, scalciare e urlare… gli riempì il petto di calore.

Dentro di sé, lo sentiva.

Iris sarebbe stato un pegaso… un grande pegaso. Era vispa, vivace, attenta… un po’ troppo timida, a volte… ma avrebbe fatto di tutto, nei limiti delle sue possibilità, per guidarla. Per insegnarle le cose che lui aveva appreso.

 

    Era così assorto nei propri pensieri che non udì un pony giungere alle sue spalle.

“Quando ho notato i vestitini sparsi sulla neve”, si introdusse Dash, “pensavo che la tua sorellina fosse evaporata. Invece eri solo tu ad essere un fratello un po’ imbranato”. Lei, al contrario, non indossava abiti invernali. Si riteneva troppo in gamba per averne bisogno.

“Buongiorno Rainbow. Anche io sono contento di vederti”, le rispose con un sorriso.

I due si sedettero ad osservare “Iris la tormenta di neve”, intenta a lanciare risate e gridolini di gioia, mentre scopriva i mille e uno modi con cui divertirsi con la neve.

“Direi che l’energia non le manca”, commentò la puledra.

“Già. Nemmeno il senso del pericolo”, puntualizzò, dopo che Iris andò a sbattere di testa contro un melo. Si massaggiò il capo dolente, ebbe qualche singhiozzo, e poi riprese a correre come una matta.

 

“Ehy! Bella coppietta!!”, urlò una voce femminile alle loro spalle. Si voltarono. “Non abbiamo interrotto nulla, vero??”.

Era Twilight con l’intero manipolo di amiche al seguito, Spike incluso. Erano giunte anche Scootaloo, Sweetiebelle e l’unicorno dagli occhi bianchi.

Dash sollevò una zampa e le salutò.

“WEEE!!”, trillò Pinkie, compiendo un balzo e svanendo in un buco nella neve, che creò all’impatto. Il suo verso di gioia continuò lo stesso, anche se ovattato.

Rarity indossava le galosce da neve, di uno splendido (almeno secondo lei) giallo dorato, mentre tutte le altre si erano portate i basilari capi d’abbigliamento invernali. Persino Nicodemo era stato abbellito con un minuscolo cappuccio di lana, a strisce bianche e rosse.

Qualcosa emerse dalla neve, sommergendo Rarity con una pseudovalanga.

“AVETE VISTO QUANTA NEVE!?”, esultò il pony rosa. “Sarà nevantastico!”. Senza dover attendere troppo, anche l’uscio della tenuta si aprì, rivelando Applejack e la sua famiglia, tutti preparatissimi al freddo invernale.

Dall’interno, tuttavia, uno stallone era riverso sul letto e osservava la scena da una finestra con tendine.

Daedalus era sdraiato sotto un piumone, con la borsa dell’acqua calda tra le zampe e un termometro in bocca. Mostrava due profonde occhiaie.

Sunshine, accanto a lui, reggeva una ciotola di minestra e lo imboccava come una nonna paziente.

“Toh. Bevi”, gli ordinò, passandogli una cucchiaiata.

Lo stallone osservò la posata con sospetto.

“…ci hai soffiato sopra?”.

Il pegaso giallo abbassò le palpebre e sospirò: “A-ah… e…? Vuoi anche che te lo faccia girare in aria, prima di imboccarti?”. Sunshine iniziò a muovere il cucchiaio con ampie giravolte: “Brrrum! Ecco lo zeppelin che arriva! Brum! Brum!”.

“Eppiantala, dai!”, protestò, con voce roca. Tossì un paio di volte. “Ti ho solo chiesto se era bollente…”.

“Iris fa meno storie di te, quando le do’ il latte…”.

Daedalus si sentì decisamente infantile. Si strinse nelle spalle e sprofondò nel piumone, facendo sbucare soltanto gli occhi.

“Beh?”, domandò Sunshine.

“Con te non ci parlo…”, borbottò il marito.

 

    “La neve!!”, proruppe Applebloom, spintonando la sorellona e riversandosi nel cortile.

Velvet, con volto decisamente contento, sembrava immobile ma in realtà non la smetteva di sollevare e riporre le zampe nella coltre di ghiaccio, senza sosta. Non poteva vedere la neve.

Ma poteva sentirla.

Fece scrocchiare i cristalli d’acqua sotto gli zoccoli.

“Che strana sensazione…! Così… è questa la neve!”.

Scootaloo si voltò perplessa: “Vuoi dire che non hai mai visto la neve?”.

L’unicorno scosse il capo: “Forse qualche volta, quando ero troppo piccola per ricordare. Per il resto sono sempre stata in viaggio o in terapia… e Steamdale, anche nelle zone montuose, possiede un clima del tutto inadatto alle nevicate”.

Twilight e le sue amiche attaccarono quindi bottone con la famiglia Apple. Rarity, che disdegnava oltretutto il freddo, decise di entrare per sincerarsi delle condizioni del suo prezioso consulente.

Fluttershy, invece, sgridò Nicodemo per non essere andato in letargo come tutti i bravi topolini.

Rainbow Dash, infine, iniziò a spiegare il perché di quella nevicata, elargendo informazioni a tutti i presenti, anche più del necessario (era pure sempre a capo di una delle squadre meteorologiche di Cloudsdale).

 

    L’amico grigio, intanto, era assorto nel rimirare la sorellina, intenta a dar sfogo alla più completa e assoluta voglia di vivere.

Il volto dagli occhi viola si arricchì di una nota di tenerezza.

Una puledra si sedette accanto a lui.

“Ti sento… sereno”, lo informò Velvet, fissando il vuoto di fronte a sé.

“Mh. Forse…”, sussurrò l’altro.

“No, no. Lo sei per davvero. Ricordati che con me non si mente”.

“Potresti sempre fare cilecca, prima o poi, non credi?”.

“Cos’è che ti rende così felice? Sono le tue amiche che chiacchierano tra loro? La tua sorellina che scorrazza sulla neve? O è semplicemente il freddo che ti ha rallentato la circolazione sanguigna, inducendoti un’ebbra sensazione estatica?”.

“Inizi a parlare come me…”.

“No. Tu, con ogni probabilità, avresti tirato in ballo il sistema neuronale, i gradienti di temperatura e altre baracche lette su qualche libro di scienza”.

“Non sono baracche!”, sbottò. “La scienza è coerenza e dimostrazione logica. Permette semplicemente di fornire spiegazioni per ogni cosa”.

L’amica si girò verso la sua voce e sorrise: “Spiega anche chi vola senz’ali o vede senza gli occhi, mh?”.

Icarus emise una vocale strozzata e si bloccò a mascella spalancata. Era pronto ad iniziare uno dei suoi sermoni ma la domanda dell’unicorno lo lasciò spiazzato.

Quando Velvet percepì il suo silenzio, sorrise con ancor più energia.

Poi, senza che se ne accorgesse, sentì qualcosa avvolgerla e stringerla a sé. Il pegaso grigio l’aveva appena abbracciata.

“Sei… davvero speciale, Velvet”, le disse lentamente, senza farsi udire dagli altri. “E… e io… non sono mai stato felice come in questo periodo… nel… nel vederci tutti insieme. Tutti riuniti. È… semplicemente splendido. Mai avrei pensato… che il sole tornasse davvero a splendere, dopo l’eterno temporale che ho passato…”.

La giovane si fece cogliere dall’emozione e ricambiò il gesto: “…grazie a te… per tutto quello che hai fatto per me all’Emerald Lake… e non solo…”.

    I due parlarono ancora per qualche minuto e si scambiarono qualche risata.

Ad un certo punto, improvvisamente preoccupata, Velvet iniziò ad attirare l’attenzione di Rainbow.

“DASH! DASH!!”, urlò più volte.

La puledra blu e i presenti si voltarono verso di lei.

Icarus era riverso nella neve, immobile. Iris lo osservava con volto perplesso.

Una morsa terribile serrò il cuore del pony blu.

“DASH! VIENI, PRESTO!!”, continuò.

L’ex pegaso non se lo fece ripetere due volte.

Scattò con irruenza verso i due, assolutamente impreparata alla situazione.

“ICARUS!!”, strillò. “ICARUS CHE…”.

 

Il pegaso dalle ossa di caramello si alzò di scatto e le rifilò una palla di neve dritta sul muso.

Rainbow si bloccò di colpo e si scrollò la neve dal muso, ancora atterrita dallo spavento.

“Ah! Fregata!”, la derise.

“M… ma! BRUTTO CRETINO!!”, ruggì furibonda. “Ti sembra uno scherzo da fare??”.

Le amiche, a loro volta preoccupate, tirarono un sospiro di sollievo (Fluttershy, invece, rimase svenuta per parecchi minuti).

Icarus diede un colpetto all’amica cieca: “Te l’avevo detto che non se la sarebbe presa poi così tanto…”.

“E tu! Velvet!!”, la sgridò. “Mi meraviglio di te! Acconsentire alle stupide idee di questo stupido pegaso!”. Il pony viola si grattò la chioma: forse avevano esagerato un po’ troppo.

“Beh ora siete in due… Eddai, Dash, non prendertela con lei. Ok… scusa, era un po’ eccessivo…”.

“Dannazione…”, ribadì, mettendosi una zampa sul petto e sollevando gli occhi al cielo. “Per poco non mi fai prendere un colpo…”.

Icarus abbassò leggermente il capo e mostrò due grossi occhioni da cucciolo: la stessa tattica che aveva usato per convincerla a portarlo fuori dall’istituto di cura.

“…allora… scusa?”, buttò lì, cercando di intenerirla.

Rainbow, per tutta risposta, decise di voltarsi e andarsene stizzita.

Non appena lo fece, una seconda palla di neve la colpì a tradimento.

In un impeto d’ira, riportò l’attenzione sul compagno.

“Ah è così, eh?!”. Affondò le zampe nella neve, ne raccolse una quantità industriale e si preparò a sparargliela in fronte, dopo averla a debitamente pressata.

“Aspetta!”, dichiarò il puledro, un istante prima che Dash scaricasse il colpo.

“Implora finché vuoi. Questa ha il tuo nome scritto sopra”.

“No, no”, le spiegò. “Ben lieto di farmi bersagliare dalla tua ira funesta. Soltanto… se dobbiamo fare una cosa simile… facciamola come si deve”.

Dash sembrò rilassare le zampe e prese a strizzare leggermente gli occhi.

 

“…cosa intendi dire?”.

 

*** ***** ***

 

    Un leggero venticello sollevava tenui e fugaci lingue biancastre, per l’interno campo innevato, accompagnato da un ululato accennato.

La zona era priva della benché minima forma di vita.

Sullo sfondo, a ridosso di un avvallamento, si ergeva la tenuta Apple, completamente immacolata. Le piante, tutt’attorno, formavano una sorta di perimetro, saltuariamente scosso dalla fredda aria invernale.

Per il resto tutto era vuoto.

Tutto taceva.

 

Un cespuglio di secche sterpaglie si mosse lievemente. Si trovava ai piedi di un pino ed era parzialmente ricoperto dalla neve. Al suo interno, una coppia di grossi occhi smeraldo scrutava con estrema attenzione il campo.

Lo sguardo era serio e concentrato.

 

Passarono i secondi.

Passarono i minuti.

Solamente il vento continuò a dar sfoggio della propria presenza.

 

L’osservatore decise di aver atteso troppo.

Applejack si ritrasse strisciando sul ventre, facendo estrema attenzione a produrre il minimo rumore possibile. Tenne il capo chino, in modo che cespugli e asperità nella neve la nascondessero al nemico. Raccolse il cappello che aveva appoggiato accanto al pino, lo indossò e infine si fece scivolare in un tunnel a cielo aperto, scavato nella neve.

La loro trincea.

 

Non appena mise gli zoccoli a terra, iniziò a trottare, stando sempre attenta a non esporsi troppo: la galleria era troppo bassa per proteggerla completamente.

Continuò a muoversi, facendo scrocchiare la neve sotto le zampe, voltando infine un angolo.

Vide Twilight e Fluttershy appoggiate di schiena contro un dosso, anche loro a debito riparo dal tiro nemico.

Quando l’amica arancione si palesò, Sparkle alzò magicamente una sfera di neve e si preparò a far fuoco.

“Uò! Uò!”, esclamò Applejack, alzando le zampe. “Sono io, Twily”.

L’altra tirò un sospiro di sollievo e ripose l’arma.

Fluttershy non fece altro che tremare e proteggersi il muso a zampe ripiegate su di sé.

“Oh… s-scusa AJ… È che… sono così nervosa…”.

L’unicorno sollevò il capo dal riparo, per un secondo appena, e vide il campo di battaglia completamente sgombro.

“Tu hai visto niente, ad est?”, chiese al pony col cappello.

“Nnnope. Zona pulita”.

Le tre sembravano vagamente agitate e nervose, con i batuffoli del fiato condensato che si creavano e scomparivano a ritmi sempre più serrati.

“Dannazione!”, sbottò Twilight. “Se il fianco est è pulito… che stiano tentando un raggiro?”.

“Dove? Ad ovest?”.

Fluttershy parlò con voce terrorizzata: “M-m-ma… ad o-ovest non ci sono…”.

“Sì”, confermò Sparkle. “Se dovessero passare da lì verrebbero subito intercettati…”.

“Però è strano…”, continuò Applejack, massaggiandosi il mento. “Quale tattica stanno adottan…?”.

 

Una serie di sibili improvvisi fece ravvedere il trio, che si buttò improvvisamente pancia a terra.

Una gragnuola di proiettili bianchi piovve letteralmente verso di loro, sfiorando di taglio i ripari e sollevando spruzzi e frammenti di ghiaccio ovunque.

“DISPERDERSI!!”, ordinò la puledra viola. Applejack ubbidì celermente mentre Fluttershy si impietrì, colta dal panico.

Il pony dalla chioma dorata fece dietro front verso l’amica, cercando di schivare i colpi in arrivo: “FLUTTERSHY!! TOGLITI DI LI’!!”.

“N-N-NON CI RIESCO!!”.

L’amica si buttò e la travolse, portandola in una zona sicura.

“Fluttershy! Fluttershy stai bene?? Ti hanno colpita??”, urlò, rimanendo riversa su di lei.

L’altra prese a sfregarsi forsennatamente il petto ma non sentì traccia di neve.

“N-no! I-io… io credo non mi abbiano colpita!!”.

Una palla passò a pochi centimetri dalla fronte del pony dagli occhi verdi.

“E allora muoviti!!”, la rimproverò, sollevandola a forza.

Twilight, intanto, era rimasta separata e si era appostata a ridosso della trincea. I colpi nemici, tuttavia, continuavano ad arrivare.

Decise di intervenire.

Illuminò il corno e sollevò mezza dozzina di sfere bianche, quindi raccolse il coraggio e si sporse dalla copertura.

La vide.

    Rainbow Dash stava galoppando verso le loro linee, coperta da una pioggia di pallottole glaciali proveniente alle sue spalle.

“NEMICO AD ORE UNDICI!!”, strillò l’unicorno, un istante prima di aprire il fuoco.

L’ex pegaso sgranò gli occhi ma non perse la calma.

Fece una derapata, sollevando uno spruzzo di neve che la occultò per un istante, quindi si gettò di lato, schivando gli attacchi a mitraglia dell’unicorno. Terminò la capriola in posizione d’attacco e con due palle di neve, una per zoccolo.

Una la indirizzò con precisione millimetrica verso Sparkle, che si abbassò per un soffio.

Apparve quindi Applejack e la seconda palla finì contro il suo cappello, costringendola a tornare immediatamente con il muso a terra.

“Quasi!”, sussurrò a se stessa la puledra blu, riprendendo a galoppare di gran lena. L’avvicinamento era fallito. La cosa migliore, ora, sarebbe stato buttarsi nelle pinete.

“Inseguiamola!!”, tuonò Twilight. “Tu, Fluttershy! Rimani qui a presidiare l’avamposto!”. Corse via, insieme ad Applejack.

“I-i-io… COSA?!”, balbettò il pegaso paglierino, improvvisamente solo.

 

    Non molto distante dal luogo d’ingaggio, il secondo distaccamento del Comandante Twilight Sparkle si era asserragliato a ridosso di un grosso pagliaio.

Sweetiebelle era di fianco ad esso, completamente sommersa dalla neve, se non per il musetto. Sembrava parecchio scocciata.

Rarity si sporse leggermente dal mucchio di erba secca.

“Ehy…”, comunicò alla sorella minore, cercando di non fare troppo rumore.

Nessuna risposta.

“Ehy!”, ripeté, alzando la voce.

“Che c’è??”, rispose stizzita l’altra.

“Shht, non urlare! Vedi qualcosa?”.

“No! Non vedo un accidenti di niente!”.

“Sei sicura?”.

“Ma certo che sono sicura, dannazione!”, berciò innervosendosi.

“Non agitarti o farai saltare la tua copertura!”.

“Copertura?? Sì! Di neve! Mi spieghi perché devo stare qui sommersa??”.

“Perché sei bianca e ti confondi bene nella neve”.

“Anche tu sei bianca!! Perché non ci vieni tu, qui al gelo??”.

“Shht!!”.

La sorellina tornò ad osservare la zona, decisamente arrabbiata, quindi notò qualcosa in mezzo alle piante in letargo. Qualcosa che non aveva scorto prima.

“E-ehy!”, balbettò, in direzione della stilista.

Rarity si sporse di nuovo: “Non ricominciare, Sweetie! Ci stai tu, nella neve, non io!”.

“Vedo… vedo qualcosa!”.

“…e cosa vedi?”.

“Un pony!”.

“Un pony? Dove??”.

“Tra le piante!”.

“E cosa fa?”.

“È… è troppo lontano. Non riesco a capirlo… non lo vedo bene…”.

“Vedilo meglio!”.

“Io devo star qui a fare la vedetta, se vuoi sapere chi è e cosa fa, muovi le zampe e vacci tu!”.

“Uff… ok, ok. Va bene…”, sbuffò.

Tornò in copertura.

    Dietro di lei, in silente attesa, c’erano la piccola Applebloom e la rosa Pinkie Pie (quest’ultima stava in realtà producendo graziosi castelli di neve).

“D’accordo, uomini! Cioè… uh… puledre!”, dichiarò, con tono marziale.

“Aye aye, ma’am!”, rispose la giovane, mettendosi sull’attenti.

Pinkie, invece, non si scompose: “Ti piacciono le mie costruzioni, Rarity?? Non sono fant…”.

L’unicorno demolì le opere di Pinkie con una zoccolata a terra.

“PINKIE!!”, la riprese.

“Ma… ma… i miei castell…”.

Rarity la afferrò per le guance, agguerritissima: “Siamo in guerra, Pinkie!! Datti un contegno! Credi che sia un gioco??”.

“Uh… veramente…”.

Rarity rilasciò la presa e l’amica cadde sulla neve.

“Il nemico viene qui ad invadere la nostra terra!”, dichiarò con sguardo fiero. “E l’unico modo per impedirglielo… siamo noi!”.

“Ma… i miei castelli…”, sussurrò Pinkie sconsolata.

“Pinkie…”, continuò la puledra bianca, ponendole una zampa sulla spalla. “Se non li respingiamo… non ci saranno mai più castelli… mai più…”.

Il labbro rosa tremò per qualche secondo, quindi si contrasse in una smorfia da guerra: “OK!! Hai ragione!! Non hanno il diritto di farci tutto questo!!”.

“No che non ce l’hanno!!”.

“Gli farò vedere io!! Dove sono??”, chiese minacciosamente. “Ditemi dove sono che li riempio di neve!!”.

“Da quella parte, cara”, la informò amabilmente Rarity, puntando la zampa in direzione della boscaglia. “Vai avanti tu, fai strada. Sennò mi si potrebbe impigliare la sciarpa in qualche rametto…”.

“WAAAH!!”, ruggì Pinkie Pie, gettandosi a capofitto tra i rami e beccandosi un sacco di graffi. “ONORE E MUFFIIIIN!!”.

“Seguiamola, dolcezza”, concluse infine, rivolgendosi ad Applebloom.

“Ehy!!”, esordì Sweetiebelle, emergendo parzialmente dal nascondiglio. “E io che faccio??”.

Rarity si fermò un istante, prima di sparire nel sottobosco: “Tu tieni la posizione!”.

“Cosa?? Sempre nella neve??”.

 

    Un raffica di sfere si spappolò sull’albero che Rainbow usava come copertura.

L’ex pegaso stava appallottolando una serie di munizioni, in modo da crearsi una piccola fornitura a portata di zoccolo.

Ma le avversarie erano due e avrebbero potuto facilmente chiuderla da due lati.

Twilight, infatti, aveva correttamente indirizzato Applejack sul fianco destro, mentre lei teneva impegnata frontalmente l’avversaria.

Il pony arancione compì un ampio giro esterno, riparata dalla vegetazione innevata.

Quando si accorse che stava fiancheggiando il nemico, decise di rallentare e di avvicinarsi senza fare rumore.

Si accostò ai rami, si allontanò con attenzione, producendo un crepitare accennato.

Respirò col fiatone, per via della corsa, creando nuvolette di vapore acqueo di fronte a sé.

Ecco il bersaglio.

Rainbow Dash era ingaggiata con Sparkle.

Sarebbe stato fin troppo facile ma non poteva permettersi errori.

Con calma, molta calma, raccolse una zampata di neve e prese a schiacciarla con lenta e meticolosa efficienza. Aveva bisogno di un proiettile piccolo e compresso, per un tiro di precisione sulla distanza.

Chiuse un occhio e sollevò la zampa, pronta far fuoco.

“Ancora un attimo…”, disse a se stessa sottovoce. “Non ancora… non ancora… ORA!!”. E fece partire il colpo.

    Una macchietta viola si paleso accanto a Dash, accompagnato da una vampata di fuoco verdastro. Il calore fu sufficiente a sciogliere il proiettile in arrivo.

Applejack, esterrefatta, ebbe appena il tempo di capire cos’era successo: a fiammata terminata, Spike caricò e spedì una palla di neve addosso alla puledra, colpendola su una guancia.

Sparkle si accorse dell’accaduto e non perse tempo: Spike era esposto, doveva eliminarlo.

Uscì dal riparo e spedì un colpo al suo assistente, ribaltandolo all’indietro.

Anche Rainbow capì che si sarebbe giocata tutto nella prossima mossa. Sparkle sarebbe stata a guardia abbassata e senza munizioni. Doveva approfittarne.

Afferrò una coppia di sfere e si gettò oltre l’albero.

Ma la sua avversaria era pur sempre un unicorno decisamente astuto.

Il volto dell’ex pegaso si arricchì di terrore.

Sparkle la osservava con aria di sfida; alle sue spalle, una decina di palle di neve fluttuava magicamente.

Il corno emise una bolla di luce e gli oggetti partirono come una batteria di missili.

Rainbow, che era più un pony d’azione che non riflessivo, fece la cosa più assurda di tutte. Galoppò verso la selva di pallottole, con volto concentrato; un istante prima che la intercettassero, spiccò un balzo e le schivò tutte quante con una piroetta in aria, quasi fosse una scena a rallentatore.

L’amica viola rimase a bocca aperta.

Quando fu a terra, Rainbow rotolò su se stessa e terminò la manovra schiantando la neve appena raccolta sul corpo del nemico.

 

    Rarity, intanto, stava seguendo il percorso che l’amica rosa aveva aperto a suon di salti e balzelli. Applebloom la seguiva in silenzio, controllando che nei dintorni non ci fosse nessuno.

Alla fine, Pinkie si fermò, con volto molto serio. Le tre si riunirono.

“Che c’è? Perché ti sei fermata?”, le domandò.

La puledra dalla chioma riccioluta puntò una zampa verso alcuni alberelli lontani: “Là! Un distruttore di castelli!”.

Era Icarus. Non l’avevano notato subito, dato il colorito del pelo, ma la chioma viola non lasciava dubbi. Era davvero lui e aveva lo sguardo rivolto alla vegetazione.

“Mhh…”, borbottò Rarity pensosa. “Potrebbe essere una trappola…”.

“Io dico di prenderlo e fargli mangiare tanta di quella neve fino a farlo divenire blu!!”, si inalberò Pinkie. “Così impara a distruggere i castelli che non ho ancora fatto!!”.

“Un assalto frontale sarebbe rischioso…”.

Applebloom alzò uno zoccolo: “E se… se mi avvicinassi piano piano… senza far rumore… Potrei eliminarlo da vicino. Voi potreste coprirmi”.

“Con cosa? Non ho coperte, io…”, puntualizzò l’amica rosa.

La stilista si prese ancora qualche secondo e poi ammise: “Potrebbe funzionare…”.

“Dai, mettetevi in posizione. Io vado!”, dichiarò con convinzione.

    Le due compagne si appostarono tra gli alberi e prepararono le munizioni, mentre Applebloom iniziò a strisciare a terra, come una pantera (anche se sottodimensionata).

Si mosse con estrema cautela, producendo pochissimo rumore. E la zona era calma e silente.

Fin troppo.

Arrivò vicinissima al pegaso grigio. Icarus sembrava assorto in qualche ragionamento, osservando un punto indefinito tra i rami.

Non capì cosa stesse facendo ma, in quei casi, era meglio agire che non pensare.

Sbucò dalle frasche e rifilò una pallata addosso all’avversario, centrandolo in pieno.

“Ah!”, esultò.

Ma qualcosa non andava.

Il pegaso rimase immobile.

La sua immagine, quindi, prese a tremolare. Il colore di manto e crini sembrò sciogliersi e la sua figura si disgregò in un informe ammasso di neve.

“Ma… ma cosa…”, farfugliò terrorizzata Applebloom.

Una zampa arancione la afferrò da dietro e l’altra le spiaccicò una chiazza di neve sul petto.

Applebloom, con sguardo tremante, si passò uno zoccolo sul pelo e osservò la neve. Si accasciò a terra, producendo un verso strozzato.

    “Ma… ma cosa sta succedendo? Era… era una copia magica?!”, si domandò Rarity lontana, assottigliando gli occhi, non riuscendo a capire cosa stesse succedendo.

Si udì quindi un rumore di rami secchi alle loro spalle.

Si voltarono.

Icarus era in mezzo al sentiero e sorrideva malignamente.

“DISTRUGGICASTELLIII!!”, strillò Pinkie, preparandosi a lanciare.

“E se fosse un’altra copia??”, berciò Rarity preoccupata.

“Di me ce n’è solo uno!”, ammise altezzosamente il pegaso, allontanandosi con passo sconnesso.

Le due lanciarono le palle ed Icarus le vide mancarlo per un soffio.

Ci fu quindi un altro rumore, questa volta molto strano ed inesistente in natura.

Il velo illusorio svanì e Velvet si paleso alle spalle di Rarity, a pochi metri da lei.

L’artista dai crini viola si girò di soprassalto e l’unicorno cieco sganciò un proiettile, che per poco non la centrò in pieno.

La puledra si bloccò come una statua, digrignando i denti e cercando di fare meno rumore possibile.

Pinkie, intanto, era partita alla carica urlando: “TI PRENDERO’!! RAZZA DI DISTRUTTORE CARAMELLATO!!”.

E così Rarity si ritrovò in una scomodissima situazione.

Velvet, immobile e con sguardo decisamente inquietante, appallottolò un’altra sfera e prese a farla fluttuare magicamente accanto a sé. Non fece altro, in paziente attesa di udire il benché minimo fruscio.

Rarity lo sapeva bene e quindi iniziò a sudare freddo, immobilizzata in una posa con tre zampe a terra e la quarta leggermente sollevata. Il cuore le batteva dannatamente forte.

Cosa fare?

Come sbrogliarsela?

Deglutì. Le orecchie di Velvet ebbero un sussulto e mosse lo sguardo più o meno nella direzione giusta.

Sarebbe stata solo questione di tempo.

Doveva giocare d’astuzia.

Con la coda dell’occhio notò un ramo lontano, carico di neve. Era la sua unica possibilità.

Formulò un brevissimo piano e poi passò all’azione.

Il suo corno si illuminò di magia e il ramo lontano si mosse, riversando a terra la neve.

Velvet, d’istinto, scagliò la sfera in quella direzione.

Era il momento! La puledra bianca si girò di scatto e raccolse a sua volta della neve, producendo rumore sufficiente a tradirla.

Velvet richiamò potere al corno: la palla che aveva lanciato si corroborò di magia, compiendo un arco tale da farla tornare indietro. Intercettò la stilista proprio sulla nuca, un istante prima che scagliasse la palla di neve.

Cadde a terra, senza risparmiarsi su una morte agonizzante e drammatica.

 

    Icarus, intanto, trottava come poteva, per seminare la furia rosa che aveva alle calcagna. E Pinkie era veloce ma fortunatamente, senza un cannone spara coriandoli tra le zampe, era assai poco precisa.

“FERMATI, DEMOLITORE DI OPERE MEDIEVALI!!”.

“Sì son scemo”, rispose con il fiatone.

Non poteva di certo zoppicare in eterno ma forse sarebbe durato giusto il tempo da permettere a…

Una pallata si infranse sulla corteccia a pochi centimetri da lui. Pinkie aveva aggiustato il tiro. Decise di fermarsi, alzando lentamente le zampe in aria.

“Ora sei mio, spaccacastelli!”, lo minacciò, facendo sobbalzare una palla sullo zoccolo.

Il pegaso si voltò. Doveva guadagnare un po’ di tempo.

“Ma brava. Complimenti”.

“Già! Ma ora niente più opere di distruzione, per te!”.

“Non ti sembra di correre un po’ troppo? Perché non ne parliamo…”.

“Le chiacchiere stanno a zero! Tutti quei poveri castelli…!”.

“Pinkie… non vedi il quadro complessivo delle cose? Ci stiamo battendo per un mondo migliore… Possibile che tu non lo capisca?”, cercò di spiegarle, gesticolando con lentezza.

“Non può esistere un mondo migliore senza i castelli di neve!”.

“Pinkie… di solito i castelli si fanno nella sabbia…”.

“Io combatto per il lato chiaro del castello!”, ribatté con convinzione.

Icarus cercò di avvicinarsi lentamente ma l’altra lo tenne sotto tiro.

“Pinkie. Ascolta. I castelli di neve sono destinati a liquefarsi e sciogliersi al primo sole. Un castello di sabbia ben fatto, invece, può durare giorni e giorni e…”.

“Menzogne!!”, sbottò. “E poi la neve si può mangiare e la sabbia no!”.

Icarus corrugò la fronte: “…e che c’entra questo, scusa…?”.

La puledra si preparò ad abbatterlo: “Niente!! Ed ora… incontra il tuo destino!!”.

Una sfera giunse alle sue spalle e l’avrebbe anche colpita se il pony dagli occhi azzurri non l’avesse inspiegabilmente schivata.

Velvet e Scootaloo erano arrivate giusto in tempo ma l’attacco era stato inefficace.

Pinkie, con gesto fulmineo, fece una giravolta di centottanta gradi e schiantò la palla contro Scootaloo che, basita da tanta fortuna, non poté far altro che incassare e stramazzare al suolo.

“Velvet!!”, urlò Icarus, con le zampe attorno alla bocca. “Fuggi! Scappa! Dimenticavo che Pinkie ha una sorta di sesto senso!”.

“…anche lei?”, borbottò l’unicorno, arricciando il naso.

Icarus ripiegò tra la vegetazione, senza perdere d’occhio l’amica, mentre il pony rosa incominciò a saltellare qua e là come una matta, compiendo una traiettoria circolare attorno a Vevlet.

La giovane preparò una serie di sfere bianche ed iniziò a lanciarle dove sentiva il rumore di Pinkie. L’avversaria, tuttavia, era troppo rapida e il sesto senso la guidava in modo impeccabile.

“Bongie! Bongie!”, canticchiava felice, ad ogni balzello compiuto. Sapeva che, prima o poi, le sarebbe arrivata addosso.

Il pegaso si concentrò e, grazie alla propria mente analitica, snocciolò un piano in pochi secondi.

“Velvet! Velvet, fermati!”.

“Cosa??”.

“Smettila di cercare di colpirla!!”.

“Ma…!”.

“Fai come ti dico!”.

“O… ok”, farfugliò.

Icarus osservò quindi il moto casuale della puledra rosa, rispetto alla posizione di Velvet. Capì che saltellava con una cadenza precisa. Così, proprio quando spiccò l’ennesimo salto, il pony grigio fornì delle indicazioni millimetriche su dove si sarebbe ritrovata a fine balzo.

“ORE TRE E ZEROSETTE!!”, urlò.

Velvet, con un tempo di reazione istantaneo, sparò la palla verso la direzione indicatole.

 

E Pinkie venne intercettata al volo.

 

*** ***** ***

 

    I cadaveri vennero ammassati al centro del campo di battaglia, nella zona franca.

I pony si disposero in modo più o meno ordinato. Tra di essi vi erano anche Sweetiebelle e Fluttershy. La prima era stata facilmente eliminata. La seconda si era arresa poiché non reggeva la tensione; e il plotone d’esecuzione non tollera i traditori.

Gli amici presero a parlocchiare tra loro, finché i tre vincitori non si palesarono, con passo fiero e autoritario.

I Cavalcatori di Tempeste avevano vinto.

Icarus, il comandante, assieme a Dash e Velvet, erano i tre sopravvissuti.

Una meritatissima e combattuta vittoria.

Rainbow non perse occasione di vantarsi con l’amica col cappello, che iniziò a tenere il muso.

“Complimenti”, si congratulò Twilight, colpendo gli zoccoli tra loro. “Una battaglia divertentissima!”.

“Ah!”, schiamazzò Dash, dandole un colpetto col gomito. “Scherzi?? Hai visto quando mi hai tirato tutte quelle palle di neve? Eh?? Hai visto che ho fatto?”. L’ex pegaso iniziò a mimare la scena: “Tu mi hai tirato la neve e io… WOAM!! Che salto!!”.

“Sì, sei modesta come tuo solito, RD…”, borbottò Applejack.

“Che vuoi farci?”, ammise con volto strafottente. “Sono tra i vincitori dei vincenti!”.

Calò il silenzio.

Le amiche iniziarono ad osservare con perplessità qualcosa alle spalle del pony blu, che si voltò subito dopo.

Icarus era a qualche metro da lei e la scrutava con occhi maligni.

Sorrise beffardamente.

 

“Davvero, Dash?”, le domandò con supponenza. “Davvero… credi di aver vinto?”.

L’alleata scosse il capo: “Ma… certo… cioè noi…”.

“Pensi davvero di essere la migliore?”, ribadì.

Rainbow non rispose.

Icarus prese quindi a zoppicare lentamente attorno a lei, osservandola con malcelata cattiveria.

“Sai benissimo, cara Dashie… che IO sono il Campione di Equestria”.

“Ehy…”, ribatté. “Quel titolo ce lo siamo guadagnati entrambi… Spetta a te quanto a me!”.

Icarus si fermò e si atteggiò come un perfetto genio del male: “Appunto… è un titolo che non può appartenere ad entrambi”.

“…cosa cerchi di dire?”, domandò sospettosa.

Il pegaso chinò leggermente il capo, con un ghigno sardonico: “…ne rimarrà solo uno. Il migliore dei migliori…”.

“Ah!”, lo derise. “Icarus, per piacere! Riesci a malapena a muoverti in giro! In meno di due secondi posso riempirti di pallottole e tu non avresti nemmeno la forza di…”.

Una palla si infranse sulla neve, accanto agli zoccoli della puledra.

Velvet si palesò dalle spalle di Icarus, con il corno luminoso e numerose sfere bianche che le ruotavano attorno.

“Velvet!!”, urlò il pony dalla chioma arcobaleno.

Icarus ridacchiò.

“Velvet! Sei… sei in combutta con lui??”.

“Già”, dichiarò, ponendosi a fianco dell’amico grigio.

“Da quant’è che siete d’accordo??”.

 

Gli spettatori si fecero indietro. Non capivano dove iniziasse la finzione e dove i tre ci credessero davvero.

 

“Oh! Mia cara Dashie!”, ammise l’ex comandante. “Da ben prima che iniziasse lo scontro!”.

“Voi… mi avete tradita fin dall’inizio!”, disse incredula.

“Esatto”, spiegò Icarus, continuando a ghignare beffardamente. “Speravo che mandarti in un assalto suicida avrebbe risolto il problema sul nascere. Ma tu no. Tu hai dovuto fare l’eroina… e sopravvivere fino all’ultimo…”.

“Ma… ma… perché??”.

“Sono il vero ed unico campione, Dash!!”, specificò con foga il compagno, sollevando uno zoccolo di fronte a sé. “Con te fuori dagli zoccoli sarei stato l’unico ed incontrastato Campione di Equestria!”.

“E tu, Velvet?? Perché lo hai assecondato?”.

L’unicorno si mise sulla punta degli zoccoli e si impettì: “Ma è ovvio, no? Non ci arrivi da sola? Senza di te, avrei potuto finalmente sposarmi con Icarus, esattamente come ci eravamo promessi all’Emerald Lake!”.

“Dunque questo era il vostro piano fin dall’inizio?? Farmi fuori e tenervi onore e gloria!”.

“E Icarus”, aggiunse la giovane puledra.

“Siete dei traditori!!”.

Velvet caricò una palla, pronta al lancio.

Icarus fece un passo verso l’amica blu: “Vedila come vuoi, Rainbow. Mi sei sempre stata simpatica… e quindi ti fornisco la possibilità di arrenderti. Verrai catturata e sparirai dalla circolazione. Ma almeno rimarrai in vita…”.

“Mai!! Il martirio, piuttosto!!”.

L’ex pegaso si piegò verso il basso, in posa minacciosa, come un ghepardo. Velvet si preparò a contrattaccare.

“Dash!”, la richiamò Icarus. “Non farmelo fare. Arrenditi con onore e…”.

“Non c’è onore in ciò che mi stai chiedendo!!”, ruggì.

 

    Diede un colpo di reni e lanciò una zampata di neve fresca addosso ai due. Icarus arretrò, coprendosi gli occhi. Ma a Velvet… quella mossa non fece alcuna differenza.

Fece partire i colpi, uno dopo l’altro.

Rainbow scattò come una molla e prese a galoppare per il campo, in mezzo alle palle di neve che fischiavano attorno a lei.

La pineta.

La pineta era la sua unica via di salvezza.

“Fermala!!”, urlò Icarus.

Velvet cercò di aggiustare il tiro seguendo i rumori ma la fuggiasca era semplicemente troppo atletica e scattante per farsi colpire ed evitò magistralmente ogni singolo attacco.

Alla fine riuscì a gettarsi nel sottobosco.

“Dannazione!”, imprecò il pegaso grigio.

    I due si avvicinarono cautamente alla pineta, stando ben attenti a non esporsi troppo.

Icarus era in testa mentre Velvet procedeva ad armi spianate, pronta a sparare.

Il pony dagli occhi viola notò la zona in cui si era gettata Rainbow. Non doveva essere molto lontana.

“Senti, Velvet”.

“Dimmi”.

“Qui fuori siamo un bersaglio facile. Conviene entrare nella pineta. Lì non potrà muoversi liberamente e tu sarai avvantaggiata dai rumori”.

“Mhh… la pineta può anche produrre un sacco di segnali sbagliati… per le mie orecchie, intendo…”.

“Non ti preoccupare, futura moglie”, la tranquillizzò. “Io sarò i tuoi occhi”.

Si addentrarono.

 

    Icarus e l’unicorno viola avanzarono con circospezione nella densa boscaglia ricoperta di neve.

Vigeva il silenzio quasi assoluto ed era estremamente difficile scorgere qualcuno, lì in mezzo.

Velvet camminava molto lentamente, con le orecchie tese, pronte a percepire il minimo spostamento d’aria.

Anche Icarus era guardingo e non poté nascondere una certa dose di agitazione.

Dashie era davvero in zampa, lo sapeva benissimo. Forse non era il massimo della furbizia ma possedeva riflessi fulminei e un fisico atletico. In campo aperto, sarebbe riuscita ad eliminarli entrambi, ne era sicuro. Ma lì… lì avevano qualche possibilità.

Così Icarus sfoderò la propria arma più efficace, cercando di massimizzare la riuscita della propria missione.

Si avvalse della dialettica.

“DASH?”, urlò. “DASH! So che sei qui, da qualche parte!”. La sua voce si perse nel nulla.

“So che puoi sentirmi!”.

Non sopraggiunse alcuna risposta.

Icarus continuò a scrutare i dintorni e camminare, acuendo il proprio fintissimo sorriso.

“Dash… senti, facciamo un patto. Tu vieni fuori, ti arrendi e te ne vai incolume. Niente violenza. Niente misure drastiche. Che ne dici?”.

Silenzio.

“Andiamo, Dashie! Qui non puoi muoverti come in campo aperto! È pieno di alberi e sterpaglie! E poi c’è la neve!”. Stava cercando di innervosirla. “Io sono grigio… ma tu sei blu acceso e con la chioma che sembra una parata di carnevale. Ti vedremmo arrivare a chilometri di distanza! E siamo anche in due! Ogni cosa, qui dentro, è contro di te! Le possibilità che tu la scampi sono inferiori al cinque percento!”.

Icarus non sapeva dove si trovasse la fuggitiva ma era sicuro che avrebbe presto agito. Non era la tipa da temporeggiare. E, quando sarebbe successo, avrebbe indicato a Velvet la direzione. Non si sarebbe lasciato ingannare da rami mossi a distanza o altri trucchetti. Stava persino controllando le fronde dei pini, aspettandosela appostata tra le sommità delle piante.

 

Continuarono a camminare e il tempo passò inesorabile.

Il nervosismo iniziò a farsi sentire anche per loro due.

 

“Dove pensi che sia…?”, domandò sottovoce Velvet, leggermente intimorita.

“Potrebbe essere ovunque…”.

“O… ovunque?”.

“Sì… Potrebbe essere dietro una pianta. Nascosta in un cespuglio… Potrebbe persino essere sopra di noi…”.

L’orecchio dell’unicorno ebbe un tic.

La giovane si fermò e i suoi occhi si fecero grandi.

Icarus si bloccò a sua volta, non capendone il motivo.

“Velvet? Velvet, cosa…”.

Al che la vide.

 

    Dash emerse dalla neve che avevano da poco calpestato, proprio alle loro spalle, sollevando un’ondata di polvere bianca. Il suo sguardo era agguerrito e battagliero.

Velvet non riuscì a reagire: i rumori della neve sollevata e degli spruzzi così generati erano ovunque e non riuscì ad identificare chiaramente il bersaglio.

Si voltò e, colta dal panico, sparò un paio di colpi, che mancarono Rainbow di pochi centimetri.

La puledra blu, invece, con sangue freddissimo, liquidò l’avversaria con una pallata a corto raggio.

Velvet cadde all’indietro, emettendo un verso di dolore.

Icarus strinse i denti: di fronte a lei, con una pioggia di nevischio che ricadeva, l’ex alleata  lo osservava con minacciosi occhi magenta.

Ora erano rimasti in due.

Se non avesse reagito con celerità… lo avrebbe eliminato in un batter di ciglia.

Ma Rainbow aveva appena scaricato il colpo, mentre lui era pronto a reagire. A così breve distanza, persino lui sarebbe riuscito a lanciarle una palla e, in qualche modo, ad eliminarla.

D’istinto, senza pensare, strusciò una zampa anteriore sul terreno, raccolse la neve e si preparò a difendersi.

Tutto avvenne molto in fretta ed entrambi agirono impulsivamente.

Dash capì di essere a rischio e così fece l’unica cosa possibile: decise di atterrarlo, per poi finirlo con un colpo innevato, zampa a zampa.

Compì uno scatto verso di lui e si impennò. Lo avrebbe bloccato sulla neve, senza fargli male, lo sapeva.

Le cose, però, andarono in modo leggermente diverso.

    La puledra riuscì ad ingaggiare l’avversario e a metterlo a terra, sconfinando però dal limitare della pineta. Una selva di rami si aprì attorno alla coppia, che sbucò all’esterno, all’aria aperta.

Con non poca preoccupazione, il pony blu notò come stessero cadendo in una zona in lieve pendenza. Afferrò Icarus e lo strinse a sé, cercando di proteggerlo durante la caduta.

I due, tuttavia, ruzzolarono giù senza farsi nulla, scivolando e capitombolando sullo spesso strato di neve caduta da poco, morbida e soffice.

Rotolarono per diversi metri, sollevando zampilli bianchi e luccicanti.

Alla fine, Icarus sprofondò di schiena in una decina di centimetri, con Dash sopra di lui.

 

    Una risata fortissima, la più bella che avesse mai avuto in vita sua, fuoriuscì dalla bocca del pegaso grigio.

Icarus era riverso nella neve… e rideva. Rideva come non era mai successo prima.

“Va bene, Dash! Va bene!”, cercò di spiegarle, tra una risata e l’altra. “Hai vinto! Mi hai steso! Sei tu il campione!”. Si passò le zampe sugli occhi, ancora in preda ai singulti di gioia. “Oh, per Celestia! Non… non mi sono mai divertito così tanto…! Con… con questa scemenza delle palle di neve, del tradimento e tutto quanto! Non è così, Da…”.

Gli occhi del puledro incrociarono quelli dell’amica… e Icarus… si chetò improvvisamente.

 

Rainbow era coricata sopra di lui, con le zampe anteriori leggermente piegate sulle sue spalle, potendo così bloccarlo a terra e al tempo stesso mantenere una certa distanza tra i due.

 

Il pony grigio non disse nulla. Sbatté alcune volte la palpebre.

“…D… Dash?”, le domandò.

 

L’ex pegaso lo stava osservando con volto estremamente serio.

Respirava forte, ancora agitata per lo sforzo fisico.

Icarus, da quella posizione, vide i suoi crini multicolore ciondolare sopra di lui.

Non riusciva a decifrare quell’espressione. Non capiva come mai stesse in silenzio a fissarlo.

 

Dalla criniera ancora scendevano alcuni piccoli frammenti di neve, adagiandosi direttamente sul muso color cenere.

 

Un plumbeo cielo invernale, sullo sfondo, ne incorniciava il viso.

 

Passarono i secondi, in cui l’unica cosa che si udì fu il respiro dei due.

Dapprima… molto serrato.

E poi… sempre più calmo e regolare.

 

Il compagno avrebbe potuto cercare di liberarsi ma sapeva bene che sarebbe stato inutile.

E… non sapeva nemmeno se avrebbe voluto.

 

“Dashie…?”, ripeté sottovoce, con volto leggermente perplesso. “Va… va tutto bene?”.

L’amica continuò ad osservarlo intensamente, quindi mosse con lentezza una zampa verso il suo viso.

 

Lo zoccolo blu gli scostò con delicatezza un ciuffo viola che gli era cascato sullo zigomo.

 

“…Dash…”.

 

Rainbow gli rispose con voce calma e profonda: “…chi sei tu?”.

 

L’altro corrugò la fronte.

 

“Chi sei tu”, continuò, sempre con volto serio, “per possedere un simile… diritto?”.

 

Icarus continuò a non capire.

 

L’amica prese a sfiorargli timidamente i crini viola che aveva sul capo.

“Tu… Che diritto hai, tu… di farmi tutto questo?”. La puledra sospirò. “Mi… mi hai fatto stravolgere la vita intera… Ho… ho dato le mie ali… il mio mondo… per te…”.

 

“Dash… Dash, io…”.

 

Rainbow lo interruppe, continuando imperterrita nel proprio discorso, con parole molto lente e spontanee.

 

“Mi hai fatto compiere cose assurde… e che ancora adesso non so come ho potuto… Tu. Un… un singolo pegaso… è… è riuscito a farmi fare tutto questo. Con quale diritto? Con quale diritto sei riuscito a… ad importi così nella mia vita? Come ci sei riuscito…?”.

 

Icarus serrò le labbra e non disse nulla.

Si limitò a ricambiarne lo sguardo. Erano davvero molto vicini, potendo udire uno il respiro dell’altra.

Notò come gli occhi dell’amica stessero diventando leggermente lucidi.

 

“Chi sei, tu, per potermi fare questo? Perché…? Perché continui sempre a… a prenderti ciò che dovrebbe essere mio soltanto…”.

 

“Di… di cosa stai…?”.

 

“Perché, ogni volta, fai qualcosa… fai… fai qualcosa di assurdo… ed io… ci casco sempre? Mi perdo in quello che fai, in quello che dici… in ciò che sei. Come ci riesci?”.

 

Lo zoccolo blu tornò sul volto e gli sfiorò la fronte.

 

“Come riesci… a fare quello che fai? Mi hai convinto a portarti in una tempesta… mi hai mandato all’aria il futuro… e… e hai volato. Hai volato, come se non ci fosse nessuno al mondo migliore di te. Come se io, in quel momento, non fossi mai stata nulla…”.

 

Icarus si agitò leggermente e cercò di parlare ma Rainbow tenne la presa stretta su di lui e continuò il proprio discorso.

 

“E anche ultimamente… hai… hai fatto un sacco di cose stupide. Tante… splendide… cose stupide. Hai abbandonato la tua nuvola… hai cercato di dare un futuro al sogno di tuo padre… ti sei martoriato l’anima per mesi, solo per coloro che avevi attorno… e… ed hai…”.

 

Una lacrima cadde dalle palpebre blu e gli finì su uno zigomo.

Il muso della puledra si contrasse appena in un sorriso deformato dal pianto.

 

“…ed hai una sorella bellissima, Icarus. È bella come il sole… E tu… tu continui a brillare nel cielo… sempre più forte. Sempre più accecante. Io non so come ci riesci… non so come fai. Ogni volta… tu… tu mi fai perdere in ciò che sei. E più continui… più mi immergo in te e non so più… come fare ad uscirne…”.

 

Il puledro non seppe cosa dire o cosa fare.

Dash fece scivolare entrambe le zampe alla base del collo cinerino.

Portò il capo contro il suo e chiuse gli occhi.

I loro musi si sfiorarono appena, dopodiché si misero guancia a guancia.

L’amica ebbe un singhiozzo accennato.

Lo strinse a sé con tutta la forza che aveva.

 

“…hai cercato per tutta la vita il sole dopo il temporale. E non hai mai capito… non ti sei mai reso conto… che eri tu, quel sole…”.

 

Il pony dalle ossa di caramello sentì un impeto incontenibile salirgli dal petto e anche i suoi occhi si inumidirono.

Abbracciò a sua volta Rainbow, per quanto gli fosse possibile.

 

E non fecero più nulla.

Rimasero così, accoccolati tra loro.

 

Immersi in un bianco mondo ovattato.

 

Come se le nuvole stesse fossero precipitate al suolo.

 

Come se, in quel preciso momento, altro non vi fosse se non l’immensità immacolata.


Finché una vocina lontana non li riportò alla realtà.

 

*** ***** ***

 

    Velvet si era palesata dalla piante e stava urlando i loro nomi.

Non potendo vederli e non avendo udito più nulla, si era fatta cogliere dall’agitazione.

Dash si voltò di scatto e si passò frettolosamente le zampe sul muso, cercando di ricomporsi.

Icarus cercò di dire qualcosa all’amica ma ciò che fece Velvet gli fece salire il cuore in gola.

La giovane puledra, sicuramente in ansia, si azzardò un po’ troppo nel cammino e mise uno zoccolo sul pendio da cui erano appena ruzzolati giù i due.

    L’unicorno emise un grido strozzato e poi precipitò a valanga, ribaltandosi più e più volte.

Alla fine scivolò mollemente accanto ai due, completamente impolverata di neve e in una posizione ridicola.

“…aoh…”, bofonchiò, con un filo di voce.

 

    Le amiche erano decisamente in ansia ma, quando li videro tornare, più o meno sani e salvi, tirarono un sospiro di sollievo.

I due quasi non si parlarono più, come se si fossero conosciuti per la prima volta appena cinque minuti prima.

L’atmosfera tornò a rilassarsi.

 

“Beh, complimenti a tutti!”, ammise Applejack. “Una delle migliori battaglie a palle di neve di sempre!”.

“WEEE!! Concordissimo!”, esultò Pinkie.

“Io ho un reclamo!”, sbuffò Sweetiebelle, alzando uno zoccolo. “Non voglio più stare in squadra con Rarity, la prossima volta!”.

“Non essere ridicola!”, rispose.

“Io invece inserirei delle convenzioni sull’uso di tecniche infiammabili durante la partita…”, dichiarò Twilight, osservando Spike con una certa ostilità.

“Ehy!”, si difese l’assistente. “Tu hai la tua magia. Io ho il mio alito mortale!”.

“Questo perché mangi schifezze”, lo derise Rainbow.

“E tu, Icarus?”, gli domandò la padrona della tenuta. “Ti sei divertito?”.

“Scherzi?”, buttò lì retoricamente. “Non… non avevo mai provato una cosa simile, prima d’ora!”.

Scootaloo si mostrò interdetta: “Intendi dire… che è la prima volta che facevi a palle di neve?”.

“Sì. Oddio, una volta ho tirato del purè di patate ad un’infermiera ma non credo sia la stessa cosa…”.

“È stato divertentissimo!”, intervenne Applebloom. “Facciamone un’altra!”.

“Oh, io mi tiro indietro!”, rispose Icarus. “Potrei smontarmi da un momento all’altro”.

“Uffaaa!”.

Il volto del pony grigio divenne spontaneamente sorridente: “E poi… c’è una piccola cosa che ho riservato per questa giornata”. Puntò quindi il muso verso le amiche, che si scrutarono a vicenda  con aria interrogativa.

 

    Icarus andò a prendere Iris e quindi invogliò le puledre a seguirlo verso il capanno di Applejack.

Rainbow, nel mentre, notò come il suo compagno zoppicasse a fatica e la sorellina lo seguisse premurosamente ovunque andasse, sempre al suo fianco.

Quella visione le aprì nuovamente il cuore. Troppe emozioni per una singola giornata.

“In verità…”, spiegò loro il pegaso, mentre si avvicinavano lentamente alla struttura, “…è una… uh… piccola scemenza che avrei voluto consegnarvi ieri. Ma poi è venuta giù tutta quella neve e non siamo riusciti a vederci tutti assieme. Ma possiamo rimediare ora”.

“Cos’è?”, domandò Applebloom alla sorellona.

“Ne so quanto te, zuccherino”.

    Si avvicinarono alla porta, che venne lentamente spalancata da Icarus.

Il gruppetto entrò nella stanza e notò immediatamente alcuni teli, riposti sui banconi da lavoro della tenuta. Sembrava stessero occultando alcuni oggetti.

Il pony fermò le compagne e si diresse verso i tavoli.

Si girò quindi verso di loro, drago incluso, e le osservò con intensità.

Le altre sembrarono non capire, tantomeno Dash.

Icarus parlò, come se però quella situazione lo stesse imbarazzando.

“Io… io… uh… Non sono molto bravo con queste faccende… quindi ve la farò breve”. Prese un profondo respiro. “…sapete benissimo come io non sia un pony… particolarmente legato ai beni materiali. E… e sapete anche come… come io vi sia grato per tutto ciò che avete fatto per me. Davvero. Ve lo dico col cuore in mano”. Il pegaso abbassò lo sguardo. “Ma… nonostante questo… volevo fare qualcosa per voi… intendo… qualcosa di tangibile. Qualcosa che si potesse toccare e che rimanesse nel tempo. Anche perché… mi avete sempre fatto dei regali e non ho mai avuto la possibilità… monetaria, intendo… di ricambiare…”.

“Aspetta…”, azzardò Rarity perplessa. “Stai dicendo che… ci hai fatto dei… regali?”.

“Boh. Chiamali come vuoi. Sentite… l’ho detto. Non sono bravo con queste robe. Prendeteli e chiudiamola qui. Ok?”. Con quelle parole, come se non potesse più gestire il disagio, afferrò un lembo del telo tra i denti e diede un leggero strattone.

 

Tutte spalancarono le palpebre e le mascelle.

 

Sui ripiani erano stati appoggiati dei regali per ognuna di esse, senza risparmiare le CutieMarkCrusaders e il drago viola.

 

Rainbow avanzò tentennando: “M… ma Icarus…”.

Twilight scosse il capo: “Icarus! Non… non era il caso!”.

“Sì, lo so, lo so”, farfugliò l’altro. “Non era il caso, non dovevi, bla bla bla…”.

 

Non ci volle molto affinché ognuna capisse quale fosse il proprio regalo.

Sparkle si avvicinò ad un vecchio tomo polveroso.

“Quella”, la informò il pegaso, “è una delle pochissime copie del Rerum originale”.

“Stai scherzando??”, biascicò, con occhi luminosi.

“No. L’ho preso in un negozio di antichità. Ha la garanzia di appartenenza”.

Rarity sollevò le zampe al muso quando adocchiò uno splendido girocollo dalla superficie cangiante.

“Quello invece è fatto con il metallo incantato delle zone settentrionali. I nativi lo usano per via delle sue proprietà magiche. È in grado di assorbire il calore da una fonte qualsiasi e di conservarlo per giorni interi”. Notò quindi Fluttershy intenta ad osservare un’esotica e affascinante pianta in fiore. “Crepitus lunae. È un rampicante che produce luce propria, se colpita dai riflessi lunari. Non deve essere bagnata o altro. Le basta la luna”.

Applejack notò un bellissimo boccale con coperchio e Pinkie si impadronì di una strana statuina ambrata.

“Il boccale è in ceramica e… guarda un po’ sul fondo…”.

L’amica controllò meglio l’oggetto e spalancò la bocca: “M… ma!”.

“Già. Famiglia Apple, più di cento anni fa. Non so come sia finito da quel collezionista. Ma l’ha conservato molto bene. Le incisioni esterne sono fatte a zoccolo e il coperchio è in peltro. Puoi versarci dentro il sidro, chiuderlo e riprenderlo il giorno dopo e sarà ancora gasato come appena aperto. Uhh… quello invece”, comunicò a Pinkie, “è… insomma…”.

La puledra rosa si illuminò all’improvviso: “Ma sono IO!!”.

“Sì… mi… mi son fatto fare lo stampo su misura. Lo puoi trovare lì, vicino al tavolino. Si usa per delle colate di caramello e il materiale non attacca. L’ho pensato perché… per… perché, se esiste un pegaso dalle ossa di caramello… in fondo lo devo a te. A te. Alla tua allegria. Alla tua gioia di v…”.

Pinkie gli saltò al collo: “È BELLISSIMERRIMISSIMASSIMO!!”.

Dopo alcuni secondi, durante i quali ebbe il timore di farsi sbriciolare dall’amica, proprio come il decantato caramello, passò a consegnare una serie di ciondoli.

Tre possedevano la targhetta delle CutieMarkCrusaders ed erano in metalli preziosi.

Il trio ne fu entusiasta.

Spike, intanto, prese a specchiarsi in un lucentissimo Quarzo rosa, grosso quanto la sua testa; lo stomaco emise immediatamente un rumore caratteristico.

    Il puledro prese quindi in disparte Dash e Velvet.

Aveva un ciondolo per ciascuna.

“Tieni, Velvet”, sussurrò, mettendole al collo una catenina in platino. La puledra non lo vide ma, incastonato come un gioiello, vi era un frammento delle sue magiche pietre luminose. Non appena l’oggetto le cadde sul petto, drizzò le orecchie e capì al volo.

Il pony dai crini viola sorrise e le posò una zampa sulla spalla.

“So benissimo che… anche se non potrai vederla… saprai quando quella luce starà brillando…”.

Gli zoccoli dell’unicorno si serrarono prima sul monile e poi attorno alle spalle dell’amico.

“…grazie… grazie… grazie…”, ripeté più volte, con voce commossa.

 

    Portò quindi l’attenzione sul pony più speciale che conoscesse.

Dash lo stava osservando con sospetto.

Si avvicinò a lei e l’amica prese immediatamente le distanze.

“Ah! No, no…”, si impose. “Non voglio più niente da te… Mi basti già tu e la tua arroganza…”.

“Guarda che è una cosa più scema e scontata di quel che credi…”.

“Non importa…”.

“Beh, ormai ce l’ho. Non vorrai mica che lo butti via?”.

L’ex pegaso si mostrò incerto. Fece una smorfia di rassegnazione e borbottò: “Va bene, va bene… che è?”.

L’amico consegnò l’ultimo ciondolo: una catenella luccicante e sottilissima, a cui era appeso un minuscolo pegaso ad ali spiegate. Era in lega di oro e ferro, quindi con vivaci riflessi blu. Al posto dell’occhio del pegaso era stato incastonato un minuscolo rubino rosso.

“Il regalo d’effetto è quello che ti feci con la piuma…”, ammise Icarus, passandosi una zampa dietro al collo. “Dopo quello… qualsiasi altra cosa sarà di minor effetto… Mi sono fregato da solo”.

Rainbow guardò l’oggetto.

Lo strinse al petto e poi gli sorrise commossa.

“È… molto bello, Icarus…”.

“Senti, non devi dirmelo per farmi piacere. Lo so che non è tutta ‘sta cosa e…”.

“No”, lo interruppe con un gesto. “Piantala di pensare che tutto quello che fai non vada mai bene…”.

“Sì… cioè… è che…”.

L’amica glielo riconsegnò tra le zampe.

Attorno a loro, intanto, i pony si stavano beando dei loro personalissimi regali.

“Ma…”, disse perplesso Icarus.

La puledra blu scostò leggermente i crini dal collo.

“Beh? Vorrai mica che me lo metta da sola?”, gli chiese sorridendo.

“Ah… o… ok…”.

Con un lieve impaccio e arrossendo più volte, il pegaso riuscì infine ad agganciare il meccanismo di chiusura.

“Ma… come hai fatto a permetterti ‘sta roba?”, gli domandò Dash sottovoce, prima che si allontanasse dal collo di lei.

“…ti ricordi quel gruzzolo che mi son fatto consegnare in contanti, da Panpipe?”.

L’amica scosse il capo e continuò a sorridergli, con occhi colmi di ammirazione: “…non smetti mai di fare cose stupide, Icarus. Belle. Bellissime cose stupide…”.

“Sì, io…”.

“GRAZIE!!”, li interruppe Scootaloo, abbracciandolo all’improvviso.

I pony fecero cerchio attorno a lui, tempestandolo di ringraziamenti d’ogni sorta.

Icarus tentò di opporsi ma alla fine dovette cedere all’irresistibile abbraccio di gruppo, personalmente testato più volte dall’allieva preferita di Celestia.

 

    Terminato il gesto, ognuna ricominciò a dimostrare la propria gratitudine.

“È… è bellissima, Icarus…”, sussurrò Fluttershy.

“Nel libro ci sono anche le formule per la Divinazione Astrale! È incredibile!”.

Il puledro non amava sentirsi l’attenzione addosso: “Ah… m-ma no… io…”.

“Davvero, Icarus… non dovevi”, ammise Rarity, esponendo con orgoglio il gioiello. “…ma è comunque BELLISSIMO!!”.

“Ehy, ehy!”, intervenne Applejack. “Sentite… qui fa un freddo becco… Perché non torniamo in casa e continuiamo a metterlo a disagio davanti ad un caminetto scoppiettante? Che ne dite??”.

 

Un’accorata risposta affermativa provenne da ogni direzione.

 

Tutte si incamminarono verso l’uscio, senza risparmiarsi su reciproci commenti di apprezzamento per i doni ricevuti.

 

Icarus si sentì felice.

Sorrideva. Cosa rara per lui.

Sapeva di non aver fatto chissà cosa ma, finalmente, era riuscito a ricambiare parte di quella gioia che le amiche avevano fatto dono a lui, migliorando la sua esistenza.

Anche Rainbow stava sorridendo.

 

“Dai”, gli disse, prendendo a camminare. “Ti aspetta un bel boccale di sidro davanti al fuoco…”.

 

Icarus attese qualche secondo, con le emozioni ancora vivide dentro di sé.

Non poteva essere altrimenti.

Non avrebbe potuto sperare di meglio.

 

Quando si sentì leggermente più calmo, si incamminò a sua volta.


La zampa anteriore, non appena tornata sul pavimento dopo un passo, si piegò su se stessa, trafitta da una morsa di dolore.

 

Un fischio improvviso giunse nelle orecchie del puledro, sovrastando ogni cosa.

 

Il mondo, attorno a lui, parve sfocarsi in un istante.

 

Icarus spalancò le palpebre.

Si guardò attorno con volto contratto dalla sorpresa… e dalla paura.

Le chiacchiere delle amiche lontane diminuirono di intensità, sovrastate dal sibilo.

 

Cercò di capire cosa stesse succedendo.

Si sentì improvvisamente debole.

Il freddo, attorno a lui, scomparve.

Le zampe tremarono.

 

Il mondo si fece sempre più indistinto.

I suoni sempre più flebili, incluso il fischio, che scomparve del tutto.

 

Tutto ciò che poté infine udire… fu il battito del suo cuore.

Un battito stranamente irregolare.

E poi il suo respiro. Sempre più forte, sempre più pressante, per via dell’agitazione che lo stava cogliendo.

 

Alzò lo sguardo e vide le sagome colorate delle amiche farsi lontane.

Forse non si erano accorte di nulla.

 

Poi riconobbe una figura blu.

 

Parlò.

Urlò il nome di lei, in preda al panico.

Non seppe se riuscì a dire qualcosa; come se fosse diventato improvvisamente sordo.

 

Il pavimento si fece sempre più vicino.

Si stava accasciando?

 

Alla fine… la figura blu tornò ad ingrandirsi e, quando fu su di lui, poté osservare chiaramente due grossi occhi magenta osservarlo con terrore.

 

Gli parve di sentir pronunciare il suo nome.

Ma non ne fu sicuro.

 

Niente fu più una certezza, in quell’istante.



Il momento in cui un sonno molto singolare giunse ad inghiottirlo.

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Capitolo 9
*** Semplici parole ***


   Fu un giorno d’inverno come molti altri.

Una mattina scandita dal silenzio della natura assopita.

 

Le nubi presero addirittura a diradarsi, mostrando una profonda e tersa volta celeste, tipica delle giornate fredde.

 

Non vi era più vento.

La neve era ancora presente ma l’andirivieni degli zoccoli di decine di pony aveva creato delle piste abbastanza sgombre.

 

Così, in quel giorno d’inverno perfettamente normale, Rainbow Dash osservò il grosso edificio che si stagliava d’innanzi ai suoi occhi. La tenuta Apple.

 

Un nutrito numero di abitanti si trovava all’esterno, più o meno disperso nel cortile frontale. Stavano parlando tra loro, sottovoce.

Il volto della puledra era inespressivo e indecifrabile. Al collo penzolavano i due ciondoli che le aveva regalato l’amico.

Controllò le mura. Cercò di penetrare con lo sguardo attraverso le finestre.

Non sapeva cosa stesse succedendo.

L’unica cosa che sentì…

 

…fu una insopportabile sensazione di paura e dolore, dentro di sé. Così grandi da impedirle di ragionare fluentemente o di far nulla a parte sospirare in continuazione.

 

Paura.

Tanta paura.

 

    Uno degli abitanti la notò con la coda dell’occhio e la riconobbe.

A poco a poco, tutti si accorsero della sua presenza.

Dash li scrutò di sfuggita, quindi abbassò il muso verso la terra fangosa.

I pony si scostarono spontaneamente, creando un varco per agevolarne il passaggio.

L’ex pegaso, tuttavia, sembrò esitare.

Le sopracciglia assunsero connotati di dispiacere.

 

Voleva davvero… entrare in quella casa?

 

Ciò che avrebbe potuto scoprire…

 

Le sembrò di essere tornata indietro di quasi un anno.

Le stesse ansie. Gli stessi timori.

Avrebbe trovato il pegaso, all’interno dell’istituto di cura? In che condizioni?
Allora, ai tempi… sì, lo aveva ritrovato.

Ma ora…

 

Ora…

 

    Dash chiuse gli occhi e inspirò profondamente. Decise di muovere i primi passi, accorciando a poco a poco la distanza tra lei e l’uscio.

Si fermò d’innanzi alla porta. Qualcuno la aprì per lei.

Un unicorno in camice e stetoscopio, con una valigia sollevata magicamente, si palesò e richiuse delicatamente la porta dietro di sé.

Il suo viso era estremamente serio.

Rainbow aprì la bocca ma non riuscì a dire alcunché. Non ne ebbe il coraggio.

Il dottore scrutò i presenti.

Iniziò ad allontanarsi, imboccando lo sterrato con passo lento ma deciso.

Un abitante lo fermò con una zampa.

“…come… come sta?”, gli chiese.

Rainbow drizzò le orecchie.

Il medico cercò di essere più professionale possibile: “…mi scusi. Devo rispettare… la privacy della famiglia. Se volete delle risposte, chiedete a loro. Decideranno se e cosa sia il caso di dirvi…”.

L’interlocutore sembrò spegnersi e dispiacersi al tempo stesso.

“Non voglio sembrarvi crudele”, aggiunse. “Ma queste sono le volontà della signora Sunshine e del signor Daedalus”.

“C… capisco…”.

Quel discorso non rincuorò per niente il pony blu che, alla fine, decise di varcare la soglia ed entrare.

 

    La casa si presentò vuota e silenziosa, come mai l’aveva vista prima.

Di solito c’era sempre un gran baccano, vuoi per il lavoro nei campi, le pentole borbottanti sul fuoco, le piccole che schiamazzavano… Ora tutto era cheto e silente, in perfetto ordine.

Ogni stanza arredata sembrava essersi immersa in una stasi perpetua.

Sul tavolino in cucina, sparpagliate alla rinfusa, vi erano un sacco di scatole di medicinali, siringhe e altri prodotti medici.

La morsa di dolore al petto si strinse con maggior forza, facendole tremare le zampe, per un istante. Si fece forza.

Vide le scale.

Le salì piano, gradino per gradino, giungendo infine nel corridoio delle camere da letto.

Tutte le porte erano chiuse.

Tutte… fatta eccezione per la stanza in cui dormiva Sunshine, appena accostata.

 

Era tutto così silenzioso da permetterle di udire chiaramente il ritmico ticchettare della pendola al piano di sotto, l’unico rumore percepibile per l’intera abitazione.

 

Dash fece un altro respiro e si posizionò di fianco alla porta.

Era così impaurita, così agitata da non ricordarsi nemmeno di bussare. La scostò con un gesto.

 

    La stanza era immersa nella luce filtrata dalle tendine alle finestre.

Su tavoli e soprammobili erano presenti altri farmaci, in modo non dissimile alla cucina da poco superata.

Sunshine era seduta accanto al letto e reggeva in grembo un piccolo pegaso dai crini ramati, appisolato su se stesso.

Le guance della giumenta erano bagnate e le labbra contratte in una sorta di dolce sorriso.

Con una zampa stava passando lo zoccolo dorato sulla fronte del figlio accanto a lei.

 

Icarus era nel letto, disteso lungo la schiena, con una flebo attaccata ad un arto.

 

Il cuore di Rainbow si fermò per un istante.

 

Il puledro sembrava dormisse.

Il suo viso le parve vagamente rilassato.

Le coperte si alzavano e si abbassavano mollemente, al ritmo del suo debole respiro.

 

L’amica puntò gli occhi in quelli di Sunshine. L’ex pegaso era completamente spaesato, come un cucciolo abbandonato in una foresta.

La giumenta tirò su col naso e poi si passò il dorso dello zoccolo lungo uno zigomo. Si sforzò di sorriderle.

Riprese quindi ad accarezzare il figlio.

 

La compagna deglutì e fece appello alla propria fermezza.

Si avvicinò cautamente al giaciglio, con l’attenzione puntata sul pony dalle ossa di caramello.

Quando fu vicina, poté osservarlo meglio… e una scarica di dolore le saturò il corpo. La palpebre sbatterono più volte. Il fiato le divenne cortissimo.

Da un momento all’altro avrebbe potuto liberare un pianto incontenibile… ma si sforzò. Fece il possibile per tenersi tutto dentro.

Il mento leggermente tremante e un liquido salino attorno agli occhi tradirono tuttavia il suo tentativo di dissimulazione.

 

Aprì la bocca.

Cercò di parlare.

Non riuscì a dire nulla.

 

Una zampa gialla si posò sulla sua.

Sunshine continuava a sorriderle.

 

“…parla, Dash”.

L’altra spalancò gli occhi e scosse rapidamente il capo, come se non ne avesse le capacità.

“Fagli… sentire la tua voce”, la incitò. Le parole della madre erano tuttavia deboli e chiaramente preda delle circostanze. “Sei… sei stata la cura di mio figlio per tutto ciò che ha passato. Magari… magari potresti ancora…”.

La puledra blu annuì timidamente.

Con estrema insicurezza, poggiò uno zoccolo sulla spalla del compagno.

“I.. Icarus…?”, sussurrò, lottando contro il pianto che cercava di emergere.

 

Non accadde nulla.

 

“…Icarus…”.

 

Passarono i minuti.

La madre tornò a sedersi.

E lacrime silenziose le scivolarono lungo il volto.

 

Rainbow sembrò quindi sbloccarsi, non appena vide il ciondolo con la piuma blu appoggiato sul tavolino accanto.

Si sporse per afferrarlo, liberando al contempo due grosse gocce dagli occhi.

“Cosa… cosa ci fa questo, qui…?”, domandò, con una nota di rimprovero. Si allungò sul letto e la rimise immediatamente al collo del proprietario. “Questa è sua. Non… non gliela potete togliere…”.

“Scusa, Rainbow”, le spiegò la madre, senza spegnere il suo sorriso. “Gliel’ha tolta il medico poco fa… per… per visitarlo. Gliel’avremmo rimessa…”.

Dash divenne seria e fissò l’amico.

“Non toglietegliela mai più”, ripetè, come se non la stesse ascoltando.

Uno strano impeto di energia sembrò pervadere l’ex pegaso.

Sunshine pensò che quello fosse il suo modo di reagire.

Per difendersi…

O forse, semplicemente… di non accettare quanto stesse succedendo.

 

    Dopo una breve pausa, l’ospite si guardò attorno, senza curarsi del pelo bagnato sul viso.

“…dov’è… Daedalus?”.

Prima che la rispettiva moglie potesse risponderle, Dash vide lo stallone bianco, attraverso uno spiraglio tra le tendine.

Daedalus era seduto su un piccolo promontorio all’esterno, non molto lontano dalla tenuta. Dava loro le spalle.

Il pony dagli occhi magenta sembrò non capire.

“Lui è fatto così”, spiegò la giumenta. “Non ce la fa… a… È il suo modo di soffrire”.

“Ma… ma non era ammalato? Se… se sta fuori, lui…”.

Sunshine scosse il capo: “Non ha importanza. Non c’è forza in terra in grado di fargli cambiare idea”. La madre tornò a guardare il figlio. “…credo sia da lui che ha preso… la sua testardaggine…”.

Dash ebbe quindi l’esigenza di porre una domanda. Una domanda molto importante e di cui temeva terribilmente la risposta. Non si osava nemmeno.

 

Ma, alla fine, lo sapevano entrambe… avrebbero dovuto arrivare al nocciolo della questione.

 

    “Cosa… cosa ha detto il medico?”, chiese, senza riuscire a schiodare lo sguardo dal compagno.

Ancora non poteva… non riusciva a crederci.

Fino al giorno prima stavano facendo gli stupidi nella neve. Avevano giocato. Si erano divertiti. Erano… caduti assieme giù per il pendio.

E… l’arroganza di Icarus. Il suo fare altezzoso e strafottente.

Dov’erano finiti?

Che fine avevano fatto le sue frecciate pungenti?

La sua saccenza?

La sua… dolcezza? Mascherata da un muro di falsa spavalderia.

La vista dell’amico, in quella situazione, inerme e vulnerabile, la devastò cellula dopo cellula.

Non era così che voleva vederlo.

“È stato… molto chiaro, Rainbow Dash”, dichiarò il pegaso giallo. Solo in quel momento Rainbow si rese conto di come Iris si fosse svegliata. Stava osservando in silenzio il lento respirare del fratello maggiore, sporgendosi dalle zampe della madre.

“E…?”.

Sunshine gli scostò i crini viola: “È stato… un attacco molto forte. Il corpo non… non ha semplicemente più retto…”.

L’edificio stesso sembrò crollare addosso al pony blu: “M… ma… Icarus… era sì debole… ma…”.

“Non conosciamo l’esatto decorso di questa malattia, Dashie. Ma il dottore non ha avuto dubbi. Il fisico di Icarus non ha più retto i continui sforzi… e le condizioni in cui era costretto a vivere. Alla fine… è collassato”.

Rainbow scosse il capo. Sembrava non volesse crederci.

“Ha anche aggiunto… che quanto successo è stato l’apice di una serie di attacchi simili a questo…”. Sunshine corrugò la fronte ed osservò l’amica. “…e… ed è strano. Icarus non ha mai avuto attacchi così. O… o forse ne ha parlato solo a te?”.

“No… no, io non ne so niente. Cioè… so… so che aveva male alle articolazioni… che talvolta si affaticava… ma… nessun attacco acuto o robe simili…”, rispose con sincerità.

“Capisco. Forse… era semplicemente così… che doveva andare…”.

    Quella parole ravvivarono il fuoco dell’ex pegaso.

“In che senso… così che doveva andare?”, chiese scettica.

La madre non smise di sorridere: “Sai, Rainbow? Sono… anni… che i medici non fanno altro che fornirci stime di quanto tempo rimanesse ad Icarus… È… è una cosa a cui eravamo tutti preparati. O almeno… uno crede di essere preparato… ma… ma poi…”.

“Parli come se fosse già tutto finito”, commentò lapidariamente.

“Dash… Io… io non voglio fare la disfattista… Ma… Icarus… Icarus è… lui… lui sta…”.

“Lui non sta facendo un bel niente”, la interruppe con energia. “È lì. Nel letto. Non c’è altro”.

“Ti capisco, Dashie… ti capisco tantis…”.

“NO!”, sbottò. “Sono io che non capisco te!!”. L’ex pegaso balzò in piedi e Iris drizzò il capo, leggermente intimorita dalla reazione. “Sai benissimo CHI è tuo figlio! Sai benissimo cosa ha passato! Le… le volte che l’hanno dato per spacciato!! E non si è mai tirato indietro! Ha combattuto e…”. Alcune lacrime si aggiunsero a quelle già scese. “…e ne è sempre uscito acciaccato… ma vittorioso!”.

“Sì… ma…”.

“Ed ora… tu ti comporti come se quello che ha detto un… un medico da strapazzo potesse essere la sentenza definitiva! Dopo… dopo tutte le cose sbagliate che i dottori hanno detto e fatto, tu…”.

Sunshine la bloccò con una zampa. Rainbow si chetò e le due si osservarono intensamente. La madre le mostrò occhi sinceri… provati dalla sofferenza che solo un genitore con un figlio in determinate situazioni potrebbe provare.

“Dash… Mio figlio… Icarus… è in un sonno molto profondo. Un sonno… da cui non credo si sveglierà…”.

La puledra si liberò dalla presa, in uno scatto di disapprovazione.

“Tu…”, continuò il pony giallo. “Tu hai donato… le cose più splendide del mondo… a lui. Sei stata la sua medicina. Sei stata la svolta che lo ha fatto vivere davvero. Per lui…. tu sei stata il cielo che gli ha permesso di brillare… Sei…”.

Rainbow chiuse gli occhi e si stritolò la testa tra gli zoccoli, tappandosi le orecchie: “…basta… basta, PIANTALA!!”, urlò.

“Rainbow!!”, la richiamò scuotendola. “Tu… tu sai perché mio figlio è venuto a trovarti alla gara, più di un anno fa? Il giorno in cui vi siete conosciuti?”.

L’amica alzò il muso intriso di lacrime.

“Era… era venuto a vederti… poiché quello era il periodo pronosticato da decine di medici e dottori! Il… il periodo in cui… lui non sarebbe dovuto andare oltre…”.

Rainbow sembrò non crederci.

“E… e da allora… lui ha vissuto… per più di un anno”, ammise contenta. “Grazie a te… esclusivamente grazie a te. E io… io non l’ho mai visto così felice… come quando stava assieme a  te…”.

Dash si ritrasse di nuovo: “…smettila di parlare al passato…”.

“Io… io so quanto bene volevi… cioè… vuoi ad Icarus. Tutto quello che hai fatto per lui… che hai sacrificato per lui… è stato il dono più bello che io abbia visto al mondo e in tutta la mia intera vita…”.

“Lui… lui…”, riprese con foga l’altra, a metà tra un pianto e un impeto di rabbia. “Lui è andato oltre tutto ciò che non sarebbe dovuto essere!! Tutti gli davano contro… ma lui ce l’ha fatta lo stesso! Non poteva vivere ma lo ha fatto!! Non poteva volare ma lo ha fatto!! Non…”.

Sunshine si sforzò di essere chiara e le parole che disse ferirono persino lei stessa. Ma quella era la verità: “Rainbow… prima o poi… per quanto splendidi e leggiadri siano… tutti i voli finiscono”.

La puledra dai crini multicolore scosse il capo e fece qualche passo all’indietro.

“…no”, rispose.

Urtò un tavolino e alcuni soprammobili caddero a terra.

“No. No…”. L’attenzione tornò sul compagno. Osservò i suoi occhi serrati. Il suo silenzio. Il suo respiro accennato. Si voltò.

“…Rainbow!”, urlò la madre.

Dash corse via.

 

    L’ex pegaso venne giù dalle scale facendo i gradini a tre a tre. Inciampò. Non le importava. Si rimise in piedi e continuò a galoppare.

Spalancò di prepotenza l’uscio e i presenti ebbero un sussulto di spavento.

Galoppò tra i pony, a muso basso. In quel modo, non ne avrebbero visto le lacrime.

 

Corse.

 

Corse come se non ci fosse un domani.

 

Imboccò lo sterrato tra i meleti ricoperti di neve, sollevando zampilli e spruzzi di fango.

 

Il cuore le batteva forte.

Il respiro era quasi insostenibile.

Lo sforzo fisico, il dolore, l’adrenalina, la fredda aria sul pelo… cercò ogni singolo espediente che potesse lenire la devastazione che sentiva nel cuore.

 

Per alcuni minuti, non fece altro che correre.

Il rumore degli zoccoli a saturarle l’udito.

La mente… che si svuotò completamente.

Pensava che, così, sarebbe stata un po’ meglio.

Ma la razionalità messa da parte lasciò solo più spazio alle emozioni, che iniziarono a martellarla incessantemente.

 

Pianse.

Rainbow Dash scoppiò letteralmente a piangere, durante la corsa forsennata.

Senza pensieri.

Sola, con il proprio dolore.

Senza smettere di galoppare, con il mondo attorno a lei che sfrecciava veloce e indistinto.

 

    Dopo alcuni minuti, la puledra giunse a Ponyville.

Aveva il fiatone ma non le importava. In mezzo a quella situazione di dolore, si era sentita persa, completamente in balia delle onde. In mezzo a quell’abbandono, l’istinto la spinse ad avvicinarsi all’unico approdo sicuro che conoscesse.

L’unica cosa che, forse, mai avrebbe potuto aiutarla.

 

Twilight stava giusto uscendo di casa e chiudendo la porta, assieme all’assistente, quando vide arrivare una puledra decisamente trasandata.

“Rainbow??”, esclamò basito l’unicorno.

L’ex pegaso si era praticamente lavato la faccia con le sue stesse lacrime, con occhi ancora arrossati.

Le zampe erano ricoperte di fango e alcuni schizzi erano arrivati fino al collo. La coda era un disastro. Respirava come se corresse da giorni.

“T… Twilight…”, farfugliò con volto serio, cercando di essere chiara.

“S-stavamo per andare da Applejack… per… per sapere cosa…”.

“Fammi entrare”.

“…come?”.

“Fammi entrare”, ripeté, dandole uno spintone. La porta, tuttavia, era chiusa.

“Aspetta! Cosa… cosa sta succedendo??”.

“Apri questa porta. Subito!”.

“Io non ti apro proprio un bel niente se non mi spieghi cosa sta succedendo!”.

Dash si girò verso l’amica. Sembrava reduce da una devastante battaglia per il corpo e per lo spirito.

“Ho… ho bisogno… Devo entrare…”.

“Sì ma… perché? Ha a che vedere… con…”.

“Twilight. Ti prego. Fammi entrare”, la implorò, lasciando però trasparire intenti tutt’altro che amichevoli. “Lui… lui è…”. Chiuse gli occhi e li riaprì. Si fece sempre più seria e determinata. “Fammi entrare…”.

“Aspetta… frena… COSA è successo ad Icarus? Sta… sta bene?”.

“No. E, per favore… vuoi aprire questa DANNATISSIMA PORTA?!”, ruggì, sempre più spazientita, affondando il muso contro il suo.

 

L’unicorno decise di non andarci per il sottile.

Evocò un’onda d’urto e spedì l’ex pegaso a terra, con un boato.

Dash, impreparata, si ritrovò distesa su un fianco, con le zampe leggermente sollevate e la testa che rimbombava.

Spike si tolse le dita dalle orecchie.

 

Sparkle la osservò attentamente: “…ti sei calmata, ora?”.

Rainbow parve tornare in sé. Aveva ancora il fiato corto ma lo sguardo non era più intriso di rabbia e disperazione.

“I-io…”, farfugliò, scuotendo la chioma. “Io… s-sì…”.

“…scusa ma… mi stavi… facendo paura…”.

L’amica l’aiutò a rialzarsi.

“No… no, hai fatto bene… Stavo… stavo letteralmente andando fuori di testa…”.

“Ma cos’è successo?”, chiese l’incantatrice, con volto dispiaciuto.

Il pony dagli occhi magenta prese qualche minuto per calmarsi.

Sparkle non l’aveva mai vista in quello stato.

Quando fu meno agitata, decise di spiegarle tutto.

L’unicorno ascoltò preoccupata le poche, sofferte parole della compagna di avventure.

 

Comprese… come la situazione fosse critica.

Comprese… come mai Rainbow fosse corsa disperata da lei.

 

La puledra blu, intanto, stava avendo una ricaduta fisica, dopo la mole di emozioni e di sforzo che aveva appena vissuto. Iniziò a tremare.

Twilight tolse magicamente la neve da un ciocco di legno poco distante e la fece sedere. Andò quindi a prenderle dell’acqua e la aiutò a bere.

“…va meglio?”.

“Un… un po’…”, sospirò, asciugandosi le labbra con una zampa.

Sparkle abbassò lo sguardo ed iniziò a pensare. Sapeva bene il motivo per cui Dash fosse andata a trovarla. Sapeva però altrettanto bene che non avrebbe potuto fare nulla, per lei.

La notizia dell’amico fu un durissimo colpo anche per l’allieva di Celestia che però, in quel momento, voleva assicurarsi che Rainbow non si facesse del male da sola.

Si avvicinò all’amica e la passò uno zoccolo attorno alle spalle.

“Adesso… riposati un attimo…”.

“O… ok. Però… però poi…”. Dash mostrò un muso implorante. “Poi… ho bisogno… che tu…”.

“Rainbow…”, tagliò corto Twilight, cercando al tempo stesso di essere delicata. “I… immagino il motivo per cui tu sia venuta qui da me. Ma… ma qui non c’è niente che possa aiutare te… o… o Icarus…”.

“Hai detto la stessa cosa anche l’ultima volta…”.

“Sì ma…”, continuò con enorme dispiacere. “L’ultima volta… non… non c’era un pony… in fin di vita…”.

“Non ha importanza. Sono riuscita a farlo volare. Sono sicura che hai qualcosa che possa aiutarlo anche adesso. So che è così. Lui si è risollevato da mille cadute. Non sarà questa a fermarlo”.

“No, Dash, ti sbagli… Non c’è nulla, assolutamente nulla che…”.

“L’hai detto tu l’ultima volta, no? Tanto è maggiore un sacrificio… e più potente sarà il risultato”.

“Dash…”.

“Bene”, dichiarò, mettendosi in piedi ed osservandola con assoluta convinzione. “Dimmi cosa serve. Cosa vuoi che faccia. A cosa devo rinunciare. Chiedimi qualsiasi cosa…”.

“Ascolta…”.

“Dimmi cosa richiede il sacrificio. Devi dirmelo. Ti… ti darò…”. La puledra ebbe un attimo di esitazione. “Ti darò la mia vita stessa, se necessario. Una vita per una vita. Penso valga lo scambio…”.

Sparkle le sorrise appena e cercò di essere esaustiva.

“No, Rainbow. Non funziona così…”.

“Una vita per una vita. Cosa può esserci di più…”.

“Non è una sorta di… macchina dei desideri. Non puoi chiedere, buttarci qualcosa dentro qualcosa e sperare di ottenere una soluzione. Non è così…”.

“Ma ci sarà pure…”.

Twilight la strinse per le spalle: “La vita… è qualcosa di unico. Di insostituibile. Può essere sacrificata per qualcuno… ma… ma non può essere donata o data in prestito. È una legge primordiale. Una regola che nessun incantesimo al mondo può infrangere…”.

“Ma… cosa ci può essere di più… di più speciale che… che donare la vita stessa!”, ammise, sentendo un velo di disperazione crescere al suo interno.

Sparkle sorrise ancora: “Perché la vita… è insostituibile e limitata, Dash! Sacrificare la vita permette di estendere un sacrificio per l’intera durata dell’altrui esistenza. Ti permette di superare i limiti imposti da un tempo predefinito, come nel caso dell’ora di volo che hai concesso ad Icarus. Ma una vita mortale… non può… allontanare la morte stessa, proprio in quanto tale…”.

“In… in pratica… mi stai dicendo che…”.

“Rainbow… se esistesse davvero un metodo per sfuggire alla morte… pensi che gli incantatori di Equestria non l’avrebbero già studiato in tutti i modi inimmaginabili…?”.

 

Dash si passò gli zoccoli tra le tempie, con volto inespressivo, senza dire nulla.

 

“Mi… mi dispiace, Dash”, la informò con sincerità. “Ti assicuro che se conoscessi un metodo… qualsiasi metodo… per poter aiutare Icarus… te lo avrei già detto. Te lo giuro, su ogni cosa a me cara…”.

L’interlocutrice divenne abbattuta. Sospirò.

“No… hai ragione, lo so”. Scosse il capo. Sul viso comparvero gli evidenti segni di un profondo dolore interiore. “È solo che… mi sento così stupida…”.

“…in che senso?”.

L’amica si strinse nelle spalle e le sorrise: “…è tutta la vita… che Icarus mi mette in guardia. Che mi spiega che questo momento sarebbe potuto giungere da un istante all’altro. E… e io… come una stupida… mi sono sempre tappata le orecchie…”.

“…non sei stupida”.

“Ed ora… ora che quel momento è arrivato… continuo a gridare e urlare. Continuo a non voler sentire… continuo a non voler accettare”.

 

Dash tornò a sedersi e puntò il muso verso il terreno, con i crini a mascherarle il volto.

Dopo qualche secondo, Sparkle vide alcune gocce finire sulle chiazze di terra in mezzo alla neve.

L’ex pegaso riprese a fissarla negli occhi.

Stava piangendo, in una smorfia di dolore.

“È… è solo che…”, singhiozzò. “Non… non ce la faccio… Twilight… non… non ci riesco… Non… non riesco ad accettare che… che lui…”.

L’amica viola la abbracciò e il Campione di Equestria sfogò finalmente tutto il dolore che aveva cercato di contenere fino a quel momento.

Il gesto liberatorio fu come un fiume in piena che esondava, permettendole di esternare i propri sentimenti come raramente aveva fatto.

Twilight si limitò a stringerla e lasciare che piangesse.

Sapeva bene che era ciò che le serviva, in quel preciso istante.

 

Alla fine, dopo parecchi minuti, la puledra dai crini arcobaleno parve calmarsi progressivamente.

Il pianto si tramutò in un singhiozzo accennato.

I singhiozzi divennero deboli sussulti.

Il giovane pony prese ad inspirare rumorosamente dalle narici.

Le lacrime cessarono a poco a poco di scendere.

 

Sparkle si scostò leggermente e cercò di sorriderle.

“Va un po’ meglio?”.

Rainbow si asciugò leggermente il viso ed annuì timidamente.

“Mi dispiace… di non poter far nulla per voi… mi dispiace…”.

“In… in realtà”, ammise l’altra, “sarebbe stato tutto più semplice… se avessi accettato fin da subito… la realtà…”.

“Non siamo automi, Dash. Questo dolore che stai provando… è la dimostrazione più palese della vita e della voglia di vivere che è in te…”.

 

Sentendo quelle parole, l’ex pegaso si ricordò il discorso che fece tempo fa al suo amico cinerino, quando le confessò i propri timori.

 

Vorrei tanto poter dire qualcosa… qualsiasi cosa di magico, in grado di farti sentire meglio… ma l’unica cosa che so… è che quello che stiamo provando ora è la testimonianza più palese della vita e della voglia di vivere che abbiamo. Mi piacerebbe davvero tanto che questo istante potesse durare per sempre…

 

Sorrise.

“Sì… sì, lo so”.

“Dai”, cercò di risollevarla l’unicorno. “Dimmi tu cosa vuoi fare. Vuoi che stiamo ancora un po’ qui? Andiamo a prenderci una cioccolata calda? Magari ti aiuta a rilassarti…”.

“No… No, preferirei tornare… da lui…”.

“…sei sicura?”.

“Sì. Voglio essere lì. Qualsiasi cosa debba succedere…”.

“…ok. Va bene. Vieni, andiamoci assieme”.

La puledra blu la abbracciò impulsivamente, per un’ultima volta.

“Grazie…”.

“Figurati…”, rispose commossa.

Presero quindi a camminare.

 

    Qualcosa le strattonò la coda multicolore, sporca di fango.

Era Spike. Si stava mordendo il labbro e aveva gli occhioni lucidi.

“Ehy… soldo di cacio…”.

“E… uh… io…”, farfugliò.

“Cosa c’è?”.

“E… ecco… Anche io, come te… non… non sono bravo con questo genere di cose. E… e niente. Mi… mi dispiace, Dash. Per te… e… e soprattutto… per Icarus…”.

Il pony gli sorrise: “Grazie, Spike. Lo so che cerchi sempre di fare il dragone tutto d’un pezzo… ma, sotto sotto… hai un cuore sensibile”.

“Uh… già…”, ammise imbarazzato.

 

Rainbow rivolse i propri pensieri al compagno ma qualcosa sembrò distrarla.

Una strana sensazione che si tramutò successivamente in un accenno d’idea.

La puledra tornò a scrutare Spike.

Corrugò la fronte.

 

“Spike…”.

“Mh?”, mugugnò voltandosi.

“Senti Spike…”, sussurrò, con una strana espressione in volto. “Potresti… provare a fare una cosa per me?”.

Anche Twilight si fermò ad ascoltarli.

“Uhh… una cosa?”, chiese curioso. “Che genere di cosa?”.

 

L’ex pegaso rimase a lungo in silenzio, come se si stesse barcamenando tra mille pensieri.

Incantatrice e assistente si guardarono reciprocamente tra loro.


Rainbow parlò: “…tu hai sempre carta e piuma con te, vero…?”.

 

*** ***** ***

 

    Il sole calò sulle terre d’Equestria, proprio come faceva ogni giorno.

 

Il mondo andò avanti, nonostante tutto.

Che si tratti della disgrazia più straziante in assoluto o della gioia più grande che si possa provare… al mondo non fa alcuna differenza. Il cielo resta azzurro. Le nubi si muovono lentamente lungo la volta celeste. Il sole sorge e tramonta come di consueto.

 

Quella era una lezione che entrambi i Campioni di Equestria avevano imparato sul loro stesso pelo.

 

Ma per quanto uno si sforzi di imparare… di capire come funzioni la vita… allora è in quei momenti che si viene messi realmente alla prova. Che si capisce che si può essere preparati a tutto. Che si pensi di averle viste tutte. Di esserci già passati.

 

Ma l’attimo,

l’istante,

e la realtà del presente

si svolgono sistematicamente per farci ricredere su tutto.

 

Con una perpetua morte nel cuore… Rainbow passò l’intera notte accanto al giaciglio dell’amico.

La madre, esausta, si addormentò su una poltrona lì accanto, assieme alla piccola Iris.

Nelle altre stanze, la famiglia Apple dormiva e, assieme a loro, c’erano anche Velvet e la piccola Scoot. Le due si rifiutarono categoricamente di andarsene, nemmeno per la notte.

Ma Dash… Lei rimase sveglia. Si appoggiò al materasso, con entrambe le zampe anteriori e palpebre pesanti come non mai.

Non voleva addormentarsi.

 

Non poteva.

 

Osservò il compagno.

Sembrava dormisse davvero.

Ma il suo respiro era un alito appena percettibile.

Il suo corpo immobile, pesante… persino per un pony assopito.

Al buio, con la semplice luce di una timida candela, la puledra rimase a fissarlo come un guardiano premuroso.

 

Osservò i lineamenti androgini del viso.

 

I riflessi sui crini viola.

 

Le sue palpebre solcate da occhiaie recenti.

 

La piuma blu al petto.

 

Versò alcune lacrime.

Poche. Ma costantemente.

Di tanto in tanto, come se stesse sfiorando una statua di cristallo, gli carezzava appena il volto o gli toccava una zampa.

 

E il dolore più grande di tutti… fu non poterlo più sentire.

Non poterci più parlare.

Avrebbe voluto afferrarlo. Scuoterlo. Prenderlo a zoccolate in faccia.

Tutto.

Purché si risvegliasse.

Pur di udirlo ancora una volta.

Farsi insultare, come ci riusciva solo lui.

Avrebbe voluto udire un suo commento saccente.

Una sua sentenza da spocchioso arrogante.

…o una delle sue bellissime confessioni imbarazzate.

Avrebbe anche solo voluto dirgli…

 

Quanto gli volesse bene.

Una frase semplice.

Una parola quasi scontata.

“Ti voglio bene, Icarus…”.

Nulla più.

Non avrebbe chiesto altro.

 

Dopo innumerevoli sospiri, l’ex pegaso notò come la flebo idratante stesse terminando.

Con pazienza e delicatezza, chiuse la valvola e staccò la bottiglietta, per sostituirla con una piena.

Ne mise un’altra e riaprì l’erogazione.

Tornò a coricarsi sul bordo del letto.

Fissandolo.

Accarezzandolo.

 

Soffrendo.


Finché, distrutta nell’animo e nel fisico, non cadde anche lei preda del sonno.

 

*** ***** ***

 

    Un lieve trambusto la fece destare all’improvviso.

All’esterno, sembrava che qualcosa fosse appena precipitato al suolo, proprio in mezzo al cortile.

C’era luce.

Era mattina.

Gli uccelli non cinguettavano, per via della fredda stagione.

 

Rainbow controllò il compagno, sempre coricato sul letto.

Respirava.

 

Da un lato si sentì risollevata. Immensamente risollevata.

Dall’altra… la sensazione di cosa fosse successo, giusto il giorno precedente, tornò a corroderla immancabilmente.

Controllò la stanza. Non c’era nessuno.

Delle voci all’esterno, tuttavia, attirarono la sua attenzione. Scostò le tendine e cercò di controllare la zona. Udì la voce di Applejack e di sua madre. E… altre due voci. Da quella angolazione, tuttavia, non riusciva a capire chi fossero.

 

Controllò nuovamente la flebo, rimboccò le coperte al Cavalcatore di Tempeste e scese le scale.

 

Si avvicinò sempre di più all’uscio, già lievemente spalancato.

Granny Smith e BigMac erano sul limitare degli stipiti e ascoltavano assorti qualche sorta di dialogo che proveniva proprio dal cortile.

Quando si accorsero della presenza di Rainbow, si scostarono per farla passare.

 

La puledra, con volto provato dalla stanchezza, si sporse leggermente.

 

E non poté crederci.

Erano davvero loro.

 

    Di fronte a sé, accompagnate dal pony col cappello e dal pegaso dorato, la Principessa Luna e sua sorella maggiore si stagliavano imperiose al centro del giardino innevato.

Accanto a loro, non molto lontani, un gruppetto di pegasi imperiali, con tanto di corazza dorata, si assicurava che la zona fosse esente da indesiderati.

 

L’ex pegaso spalancò la bocca e si irrigidì.

Le due notarono la sua presenza.

 

Celestia era stupenda come sempre. I suoi crini fluivano liberamente nell’aria, mentre Luna emanava il caratteristico fascino oscuro di una creatura della notte, con la chioma ammantata di stelle.

La Regnante d’avorio le sorrise ed entrambe la salutarono con una lieve flessione del collo.

“Buongiorno… Rainbow Dash”, si presentò l’alicorno bianco.

 

Il volto dell’altra parve illuminarsi di felicità, udendo quelle parole. Si mise le zampe alla fronte e per poco non riprese a piangere.

“Siete… siete venute…”, sussurrò, quasi senza fiato per la gioia e l’emozione. “Non ci posso credere… Siete… siete venute davvero…”.

“Ho ricevuto la lettera del fido assistente di Twilight. L’ho letta. E sono giunta non appena ho potuto”.

Dash non razionalizzò.

Spalancò la porta e trottò verso la puledra millenaria. Quando le fu accanto, l’avvolse in un energico abbraccio.

Celestia, sulle prime, ne fu sorpresa. Poi ricambiò il gesto.

“Vi… vi ringrazio tantissimo…”, singhiozzò, “…per essere venute qui… Grazie… grazie infinite…”.

“…non… non potevamo rimanere lontane, in un momento come questo”, le spiegò, cercando di non apparire troppo coinvolta. “Ho sistemato le faccende più urgenti col Regno e mi sono precipitata non appena ho potuto”.

“Grazie…”, ripeté. Si voltò quindi verso Luna. Abbracciò anche lei.

L’alicorno oscuro rimase rigido come uno stoccafisso, con occhi sgranati.

Come doveva comportarsi?

Osservò la sorella, che non le fornì alcun aiuto in merito.

Diede quindi alcuni colpetti sulla schiena di Dash e cercò di mettere insieme due frasi sensate: “…uh… N-Noi… Noi siamo assai liete di… cioè… I-io… io sono… sono contenta di… essere giunta fin qui…”.

“Spike non era sicuro”, ammise la puledra dagli occhi magenta, “che avrebbe funzionato… Una lettera scritta così, in fretta e furia… da un giorno all’altro, poi…”.

“Nulla ci avrebbe impedito di essere qui… in un momento simile”, la tranquillizzò, passandole uno zoccolo sulle spalle.

Dash si asciugò le lacrime di gioia.

Per un attimo… si sentì davvero risollevata.

“In… in verità…”, balbettò con incertezza l’ex pegaso, sfoggiando un mezzo sorriso, “…temo di… di non essere stata completamente sincera con voi… Principesse…”.

Celestia sembrò genuinamente incuriosita.

Luna, che ancora aveva per la testa le vecchie tiritere che le avevano inculcato centinaia d’anni prima, sbottò: “La menzogna verso le Regnanti è un atto punibile con percosse fisiche e l’eliminazione di cibarie per il condannato!!”.

“Luna…”, la riprese la sorella.

“Beh?”, si giustificò. “Non dico si debba fare. Ma così indica la legge!”.

“Dimmi, Rainbow Dash”, affermò, rivolgendosi con gentilezza alla puledra blu. “In cosa avresti mentito?”.

L’altra divenne nervosa.

Aveva appena… mentito alle Principesse di Equestria?

Lo aveva fatto davvero?

“Ecco… ecco, io…”.

Celestia non sembrò per nulla infastidita dalla notizia e sembrò invogliarla a parlare.

“Io…”. Alla fine, Rainbow decise di vuotare il sacco. “…ecco… È… è vero. Vi ho chiesto di venire qui per via delle gravi condizioni di Icarus. Affinchè… poteste vederlo. Ma… ma la verità… è che…”. Dash puntò gli occhi verso la finestra del secondo piano. “…la verità è che… dentro di me… nutro la speranza che voi, le Principesse di questo Regno… abbiate la facoltà… la possibilità… di fare qualcosa per lui…”.

 

Il discorso dell’ex pegaso terminò e Rainbow si sarebbe aspettata qualsiasi tipo di risposta, da parte del’alicorno.

La Principessa, tuttavia, si fece pensosa e poi si mosse con decisione verso l’entrata della tenuta, dando le spalle a Dash. La puledra non seppe cosa pensare.

 

“Potresti mostrarmi il pegaso dal manto color cenere?”, le domandò con serietà, ruotando il capo di profilo.

 

    Il trio fece il proprio ingresso.

La famiglia Apple accolse le Regnanti con inchini reverenziali, mentre Rainbow galoppò come una matta su per le scale.

 

Poteva forse esserci qualche speranza?

 

Celestia e Luna la raggiunsero poco dopo.

L’amica si appostò accanto al letto, mentre la madre rimase sull’uscio, assolutamente atterrita dalla presenza delle due. Non sapeva se mai avrebbero potuto fare qualcosa per il figlio. Ma il solo pensiero… era sufficiente a donarle una sensazione simile alla rinascita.

 

Le Principesse controllarono l’ambiente, quindi si focalizzarono sul pony dalle ossa di caramello.

Icarus, ovviamente, sembrò non accorgersi di nulla, completamente estraneo al mondo che circondava il proprio corpo fisico.

 

Celestia si avvicinò al giaciglio e chinò il capo su di lui.

 

Rainbow mise la zampe all’altezza del cuore, che batteva fortissimo, e strinse i denti per l’eccitazione. Anche Sunshine, cercando di non farsi notare, stava quasi cadendo preda di uno svenimento.

 

Il lungo corno bianco strusciò delicatamente lungo il capo del pegaso, posandosi poi sul suo collo e infine sul petto.

L’alicorno terminò il gesto, quindi si ricompose nella canonica postura regale.

Si voltò verso l’amica.

 

“…allora??”, chiese Dash speranzosa.

Ma la sua gioia… ebbe rapidamente termine, quando gli occhi magenta incrociarono quelli rosa.

Il volto della regnante sembrava vagamente dispiaciuto.

Scosse il capo.

L’ennesima sensazione di dolore si abbatté sull’ex pegaso e sulla madre.

 

“Mi dispiace…”, commentò Celestia, cercando di essere il più delicata possibile. Doveva però spiegarsi con chiarezza e non lasciare spazio a dubbi o vane speranze. “Icarus… sta giungendo al termine… del proprio volo”.

Dash sembrò sprofondare nello sgomento.

“Vi era già poco o nulla, in mio potere, in grado di aiutare questo giovane pegaso”, ammise, non riuscendo a nascondere un crescente velo di tristezza. “Ed ora… non rimane assolutamente più nulla”.

“Principessa…”, tentò ancora Rainbow, mostrandosi assolutamente affranta e sofferente. “Io… io vi supplico… Se esiste qualcosa… QUALSIASI cosa che possiate fare… per… anche solo per…”.

L’alicorno bianco fece un cenno di dissenso.

“Non voglio che le mie parole ti giungano come una condanna. E di queste richieste… non sai quante ne ricevo. Ogni giorno. Sudditi con parenti o amici sull’orlo del grande passo… che mi implorano di aiutarli, anche solo con un piccolo gesto. Ma non posso, Rainbow. La vita e la morte sono… sono ambiti che sfuggono alle mie sfere d’influenza”.

“Quindi… quindi non… non esiste modo… per…”.

Celestia puntò lo sguardo verso il cielo azzurro, attraverso le vetrate, e sembrò perdersi in ricordi lontani.

“Sono un essere millenario, o portatrice della Lealtà. Nella mia vita… ho visto nascere e scomparire centinaia, migliaia di essenze. Ho attraversato campi devastati dalla distruzione ed ho volato in universi stellati colmi di vita. Uno pensa che ci si abitui. Ma… ma la verità…”, narrò, con volto via via più triste, “…è che ogni vita… ogni esistenza… in qualche modo ti tocca. Ti entra dentro. E… quando se ne va… ne lascia una piccola parte”.

La regnante tornò ad osservare Rainbow, con un debole sorriso.

“Non sai quante volte… avrei voluto arrestare questo processo. Consentire ai mortali a me cari di continuare a vivere. Avrei sacrificato… ogni cosa… persino me stessa, alcune volte… pur di realizzare questo mio desiderio. Ma la verità… è che nessuno detiene un simile potere”.

L’ex pegaso sospirò e abbassò capo e orecchie: “I… io… io avrei anche solo voluto… parlargli un’ultima volta… dirgli… insomma… s-sentirlo… un… un’ultima volta…”, farfugliò, di nuovo sull’orlo del pianto.

“So benissimo cosa stai provando, Rainbow Dash”, le assicurò, ponendole una zampa sul petto. “Ci sono passata innumerevoli volte. E non ci si abitua mai. Fa male esattamente come la prima. Icarus… sta andando incontro al proprio destino. Così come questo sarà il destino di ogni cosa e ogni creatura, alle fine dei tempi, persino per una creatura come me”.

La Regnante tornò a guardare il pegaso.

“Icarus ha segnato questo mondo come pochi sono riusciti a fare. Nel suo piccolo… lui…”.

“Lui non ha mai compiuto piccole cose!”, esplose la puledra blu, con pochi riguardi per il rango reale.

“E io mi assicurerò che il suo ricordo e la sua esistenza per sempre rimangano scolpiti negli annali del mio Regno. Su questo non avere dubbi, Rainbow Dash. Icarus… ha lasciato il segno. E nessuno potrà mai cancellarlo… Tutti sapranno chi è stato. Chi siete stati. E cosa avete fatto”.

 

Quella parole avrebbero forse dovuto consolare il pony dai crini arcobaleno.

Ma di fatto ci riuscirono ben poco.

 

    Calò il silenzio.

Rainbow si fece cupa e non disse più nulla.

La madre si ritirò in un’altra stanza. Non voleva che la vedessero piangere.

“Mi dispiace ancora, amica mia”, concluse Celestia con rammarico. “Mi spiace non poter far nulla di più. Ti offro il mio sostegno, in tutto e per tutto. Qualora avessi bisogno di aiuto o di conforto… spero di poter essere per te non solo una regnante… ma… anche una persona a te cara su cui fare affidamento…”.

L’altra annuì: “…sì… vi… vi ringrazio molto, Principessa. Capisco il vostro discorso. Mi… mi fa davvero molto piacere… la vostra vicinanza, in questo momento così… particolare…”.

L’essere millenario le sfiorò il mento, sollevando gli occhi in lacrime e fissandola intensamente: “Siete stati i Campioni di Equestria. E come tali rimarrete. Non dimenticarlo mai…”.

Dash annuì di nuovo, con scarso entusiasmo.

“E a malincuore… devo abbandonarvi. Purtroppo ci sono questioni che mi impediscono di rimanere con voi… fino alla fine. Spero tu possa capire…”.

“Sì. Sì, vi capisco… grazie per essere venute”.

 

L’alicorno si avviò lentamente verso il corridoio.

Avrebbe realmente voluto rimanere. Ma già aveva fatto uno strappo alla regola ad abbandonare gli affari del Regno. Assentarsi ancora avrebbe potuto causare danni ben più gravi.

 

Un rumore ne attirò però l’attenzione.

Luna, che era rimasta silente per tutto il tempo, tirò su col naso.

Era accanto al letto e, non appena notò come le due la stessero osservando, cercò di ricomporsi.

I suoi occhi, tuttavia, riflettevano come fossero di vetro. E non stava di certo invocando un incantesimo.

“Tutto bene… sorella?”, domandò Celestia.

“Sì… sì, uh, io…”.

“Allora dobbiamo tornare a Canterlot. Il Regno ha bisogno della nostra guida”.

L’alicorno nero iniziò a seguirla ma poi, come se si fosse finalmente decisa, esclamò qualcosa: “E… e se…”.

Le due la scrutarono senza capire.

“Cosa ti turba, sorella mia?”.

Luna si massaggiò il collo, estremamente indecisa se parlare o meno: “I-io… non so se potrebbe funzionare. È una cosa mai tentata prima. È che non sarebbe nemmeno permessa…”.

La orecchie di Dash si drizzarono.

Celestia corrugò la fronte: “…potresti essere più specifica?”.

 

La fu Nightmare Moon si trovò addosso la curiosità di entrambe.

Non era esattamente ciò che avrebbe voluto.

 

Ma ormai era troppo tardi.

 

Avrebbe dovuto dir loro cosa le passava per la mente.

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Capitolo 10
*** Di tutte le ricchezze ***


   Rainbow Dash entrò e richiuse la porta della camera a lei riservata.

Era una minuscola stanza degli ospiti ma, per lei, sarebbe andata benissimo. È lì che avrebbero dovuto dormire Scootaloo e Velvet, ospitate dalla famiglia Apple.

L’occasione particolare, tuttavia, rese necessaria una zona tranquilla ed isolata. Le puledrine andarono a dormire nella stanza di Applejack.

 

Per l’intero pomeriggio, la puledra blu aveva cercato di distrarsi con le amiche, in attesa che la notte giungesse lungo le vallate di Equestria.

Luna si era ripresentata al crepuscolo, fornendole brevi ma coincise indicazioni su quanto avesse in mente. Dash l’ascoltò con attenzione,  soprattutto cosa sarebbe potuto succedere… e cosa invece mai più sarebbe cambiato.

 

L’alicorno fu molto chiaro a riguardo: non volle regalarle false speranze.

Non aveva nemmeno garanzie che avrebbe funzionato.

 

Ma quel pegaso dal pelo grigio…

La sua storia… la loro storia…

I due Campioni di Equestria…

Sì.

Avevano commosso l’alicorno oscuro, toccandolo nel profondo.

Così, nonostante il proprio attaccamento alle regole, Luna decise di concedere questa opportunità, in via del tutto eccezionale.

 

    Seguendo le indicazioni, l’ex pegaso chiuse a chiave la porta della stanzetta, in modo che nessuno potesse disturbarla. Serrò le veneziane. Spense le lampade ad olio, fatta eccezione per una piccola candela che appoggiò sul comodino accanto al letto. Su di esso si trovava una ciotola di acqua tiepida e una piccola busta di carta: tranquillizzarsi sarebbe stato difficile, in quella situazione, quindi chiese aiuto alla famiglia del pony di campagna. La puledra arancione la indirizzò alla vecchia e saggia Granny Smith, che le diede un rimedio naturale per chetare mente e corpo.

 

Osservò intensamente l’acqua nella ciotola.

Vide il proprio riflesso, interrotto da qualche sporadica increspatura.

Nel suo cuore si avvicendavano mille emozioni, mille pensieri.

Aveva paura… ma era anche emozionata per quanto sarebbe potuto accadere.

Non volle tuttavia crearsi inutili aspettative. Non sapeva minimamente se avrebbe funzionato.

 

Inutile tergiversare.

 

    Strappò un angolino della busta, con i denti, e riversò una manciata di erbe secche all’interno del contenitore.

Il liquido prese lentamente a tingersi di colore scuro.

Attese qualche minuto, quindi sollevò la ciotola e la vuotò con calma.

Fece una smorfia. Era decisamente amara.

Scostò infine le coperte e, con un balzò, occupò il giaciglio.

Si distese con attenzione sul materasso, pancia all’aria.

Attese.

 

Di nuovo, non seppe cosa pensare. Non seppe cosa fare.

Sperava che la tisana facesse effetto il più in fretta possibile.

 

Osservò il soffitto nell’ombra.

Tutto taceva.

La fiamma della candela ondeggiava appena, smuovendo di poco le ombre attorno a lei.

 

Riportò quindi lo sguardo al proprio corpo.

Vide i due ciondoli.

La piuma e il pegaso.

Li coprì con una zampa, applicando una lieve pressione.

Chiuse gli occhi.

E sperò.

Sperò con tutta se stessa.

I minuti passarono.

 

La candela prese a consumarsi, riversando rivoli di cera fusa sul piattino sotto di essa.

Rainbow continuò a fissare il soffitto, ancora vagamente nervosa.

Ad un certo punto, perse la cognizione del tempo.

La testa sembrò alleggerirsi. Ebbe un’accennata sensazione di capogiro.

La tisana stava avendo effetto?

 

Non sapeva se fosse davvero così.

Ad un certo punto, tuttavia, un rumore improvviso la fece voltare di scatto.

 

La porta della stanza era aperta e, per inerzia, si era spalancata lievemente con un cigolio. Rainbow drizzò la schiena, leggermente spaventata.

Una soffusa luce bianca proveniva dallo spiraglio appena creatosi.

L’ex pegaso controllò la stanza. Tutto sembrava normale.

Tutto, tranne la porta. Era chiusa a chiave. Non poteva essersi aperta da sola. E… quella luce…

Scese cautamente dal letto, facendo scricchiolare il parquet.

Con circospezione e cautela, si avvicinò alla luce.

Cercò di spiarvi attraverso ma la fonte luminosa era assolutamente accecante.

Non sapeva cosa potesse essere. L’alicorno non aveva assolutamente fornito spiegazioni su cosa si sarebbe dovuta aspettare.

Così, alla fine, non ebbe altre opzioni se non varcare la soglia, per sincerarsene di persona.

 

    Aprì la porta.

La luce parve ingigantirsi oltremisura, impedendole di guardare, se non con uno zoccolo davanti al muso. Distolse lo sguardo e socchiuse le palpebre.

Qualsiasi cosa ci fosse dall’altra parte, non poteva vederla. Doveva camminarci attraverso.

Raccogliendo il proprio coraggio, si mosse all’interno del curioso fenomeno.

La sensazione di accecamento fu assoluta e, per alcuni secondi, dovette letteralmente chiudere gli occhi.

Poi, così come si era manifestato, l’accecamento svanì.

La luce si diradò progressivamente.

E Rainbow Dash riuscì a riaprire le palpebre.

 

    Un cielo azzurro e terso comparve sopra di lei, con un caldo sole ad irraggiare il proprio tepore verso terra. Vi era giusto qualche strascico di nuvola.

Sentì il verso di alcuni uccelli. Gabbiani? Sì. Uno di essi solcò la volta celeste, confondendosi col sole per un istante.

Un altro rumore: ritmico e costante. Onde che si infrangevano sulla riva.

Abbassò lo sguardo.

Il mare.

Un mare scintillante e profondo si stagliava fino all’orizzonte, generando il caratteristico odore di salsedine.

Tra lei e l’acqua vi era una spiaggia di sabbia dorata: calda e leggermente smossa.

Dash spalancò la bocca. Non credeva ai propri occhi. Alle proprie orecchie. Ai propri sensi.

Si voltò e le sembro di essere in un’isola dispersa nell’oceano, visto che al centro si stagliavano palme e arbusti esotici. Le piante erano lambite da un vento gentile. Un vento tiepido che avvolgeva manto e volto della puledra in un piacevole tepore.

Cos’era quel posto?

Dov’era finita?

 

Era…

Così bello…

Così piacevole…

 

Scrutò meglio le coste.

 

Finché lo vide.

 

*** ***** ***

 

    Icarus era seduto accanto al bagnasciuga, dandole le spalle.

Criniera e coda viola ondeggiavano lucenti, mossi dal venticello di prima.

Le sue ali… grandissime… erano ripiegate ai fianchi. Naturalmente. Senza bisogno di alcuna cintura.

Le sue spalle erano fiere. I suoi arti perfettamente allineati e distesi. Il corpo stesso, pur essendo sempre magro ed asciutto, sembrava più in carne.

 

Il dolce suono delle onde e di alcuni gabbiani era tutto ciò che si potesse udire, in quel momento.

 

Il cuore di Dash sembrò esploderle in petto.

Scosse il capo.

Sorrise.

Si coprì il muso con entrambi gli zoccoli.

Cercò di trattenere le lacrime, senza riuscirci.

 

Gli corse in contro, più forte che poteva.

 

“ICARUUUS!!”, urlò a squarciagola.

L’altro drizzò le orecchie e si girò lentamente.

Il suo volto era sereno, senza nemmeno un segno di deperimento o di fatica.

“…Dash?!”, sbottò perplesso.

La compagna spiccò un balzo. Icarus digrignò i denti e una valanga blu, accompagnata da fiotti di sabbia, le volò letteralmente addosso, buttandolo a terra.

“D… Dash?”, continuò a balbettare il pegaso grigio.

Rainbow lo abbracciò con tutta la forza che riuscì a trovare. Non aveva paura di fargli male. Non sentì le sue ossa spigolose. Il suo fisico acciaccato. Finalmente poté mostrargli concretamente tutto l’affetto che provava per lui.

“Icarus… non è possibile…”, singhiozzò. “Sei… sei davvero tu… Pensavo che non sarei mai più… riuscita a parlarti…”.

Il pony dagli occhi viola, confuso, ricambiò l’abbraccio: “S… sono io, Dashie. M-ma… ma non capisco… Cosa… cosa sta succedendo?”.

“Sono… così contenta… di poter di nuovo sentire la tua voce, Icarus… non sai quanto…”.

“…cos’è successo?”.

L’amica si ritrasse e lo guardò negli occhi.

“Tu…”, gli chiese. “Tu non sai nulla… di cosa sia accaduto… vero?”.

“I-io…”. Il pegaso sembrava completamente spaesato.

Dash pensò attentamente cosa rivelargli.

Ma, giunti a quel punto… rimaneva ben poco da nascondere. E lei non se la sarebbe mai sentita di mentirgli. Nemmeno in una situazione del genere.

 

    Lo aiutò a rialzarsi ma si rese conto di come fosse perfettamente in grado di cavarsela da solo. Come un pegaso in perfetta salute.

Rainbow lo osservò commossa, mentre l’altro si scrollava di dosso la sabbia.

“Oddio, Icarus…”, commentò emozionata.

“Uh… cosa?”.

“Sei… sei… Non ti ho mai visto così…”.

Il pony di fronte a lei non era più costretto ad inarcarsi per via della malattia. Non doveva nascondere le proprie ali con una cintura ortopedica. Non possedeva zampe storte o un corpo sciupato.

 

Per lei… non aveva molta importanza.

Non era di certo il fisico che le interessava in lui.

Anche prima lo aveva sempre trovato niente male.

Ma ora…

 

Un pegaso color cenere.

Snello. Slanciato.

Con enormi ali dalle piume lunghissime e splendidi crini viola.

Senza dover piegare malamente le zampe, a causa della malattia, poteva stagliarsi e superarla persino di qualche centimetro in altezza.

 

Lo ammise. Non riuscì a nasconderlo.

 

“Icarus…”, sussurrò.

“Cosa?”, chiese, con volto curioso e ancora confuso.

L’amica distolse lo sguardo, cadendo preda di una strana agitazione.

“N… niente…”.

Il pony grigio controllò la zona: “…cos’è… questo posto? È stato tutto… così… confuso, ultimamente. Così… strano e indefinito…”.

Rainbow divenne leggermente triste: “Tu… tu non sai niente, quindi?”.

“Sapere cosa?”.

La puledra chiuse gli occhi. Attese qualche secondo.

“Cosa devo sapere, Dashie?”.

“Tu non sai… cosa ti è successo… vero?”.

“Io…”. L’amico si sforzò di ricordare. “Io… io non…”.

“Non ti ricordi… il pomeriggio con le palle di neve?”.

“Sì. Sì, mi ricordo…”.

“Quando ci hai dato i regali…”.
“Sì…”.

“E… e dopo? Cosa ti ricordi?”.

Icarus cercò di risponderle ma la sua espressione rimase interdetta. Cercò di rimembrare. Non vi riuscì.

“Io… non… cioè…”.

    La zampa blu gli sfiorò la spalla. Dash lo osservava con un dolce sorriso.

“…hai… hai avuto un forte attacco, Icarus. Il… il tuo fisico non ha retto…”. A quelle parole, il compagno divenne improvvisamente serio. “Sei… caduto in un sonno profondo. Molto profondo. I medici… i medici dicono…”.

“Quindi”, la interruppe. “Mi stai dicendo che… che io…”.

“Icarus…”.

“E… e questo posto… non capisco. Cos’è? Dove siamo?”.

Il pony dai crini multicolore gli spiegò brevemente i fatti: “Ho… ho contattato le Principesse. Ho… sperato che potessero fare qualcosa per aiutarti. Ma così non è stato… Luna, tuttavia… mi ha fatto una proposta. Non sapeva se avrebbe funzionato. Ma abbiamo tentato comunque”.

“…Luna?”.

“Sì. L’alicorno si è offerto di... metterci in contatto, in un modo o nell’altro. Sai, no?”, gli chiese, quasi con tono gioioso. “Lei è la Principessa dei Sogni e degli Incubi. Ha detto che ci sarebbe stata la possibilità di incontrarsi in questa sorta di… mondo onirico…”.

“In pratica…”, cercò di capire. “Mi stai dicendo che… sei entrata nei miei sogni?”.

La puledra parve rilassarsi. Gli diede un colpetto alla spalla e rispose spocchiosamente: “Ehy! Non conosco tutti i dettagli! Mi ha… accennato qualcosa… tipo che ha creato… una terza… cos’era? Una terza bolla… dove noi due saremmo potuti entrare e vederci…”.

Il compagno sorrise furbescamente: “Terza sfera, non bolla”, la corresse. “Fa parte del concetto basilare di Mondi Alterei. E come sempre non hai capito niente di quello che ti hanno detto. Sei sempre la solita, Rainbow. La solita impulsiva, lenta di comprendonio Rainbow Dash”.

La puledra lo abbracciò di nuovo, potendo infilare la fronte sotto il suo mento, senza causargli alcun problema.

“…mi sei mancato tantissimo, Icarus. Mi sono mancati questi momenti… le tue parole… il tuo carattere… Mi sei mancato tu…”.

Il pony cinerino strinse le zampe attorno alla sua schiena: “Anche tu mi sei mancata un sacco, Dash…”, rispose affettuosamente. “Non sapevo più dov’ero. Cosa stesse succedendo…”. Icarus la cinse per il collo e fissò gli occhi magenta: “E… e sei di nuovo venuta a salvarmi. Come hai sempre fatto. Ogni volta che mi sentivo perso nel buio… sei sempre arrivata tu…”.

Rainbow non disse nulla. Arrossì appena.

 

    Icarus si beò quindi della visione del cielo e del sole.

“…e così questo sarebbe un sogno, mh? Sembra… così reale…”.

“Già”, continuò l’altra. “Sono rimasta esterrefatta persino io… È tutto… così vivo… intenso…”.

“In effetti… anche i sogni vividi sono accompagnati da questa sensazione. Che possa essere qualcosa di simile?”.

“Sei tu l’enciclopedia ambulante. Usa la testa di legno che ti ritrovi”.

“Forse questo spiega… come mai io non mi senta così… pressato dal mio fisico…”.

“Scherzi??”, sbottò. “Ti sei visto??”.

“Uh… Rainbow, ho molti superpoteri ma la vista in terza persona ancora esula dalla gamma delle mie…”.

Dash lo strattonò a forza verso la riva: “E allora datti un’occhiata, stupido!”.

“E-ehy… piano! Così… così mi getti in…!”.

Tanta fu la foga che Icarus inciampò e finì nell’acqua.

Le sue zampe, tuttavia, non affondarono nel liquido. Rimasero a galleggiare sulla superficie, producendo alcuni schizzi, come se avesse calpestato una pozzanghera.

I due osservarono basiti il fenomeno.

“…questo manderebbe in vacca secoli di studi fluidodinamici, lo sai?”, le domandò retoricamente.

“Uh… ma qui siamo in un… universo onirico, giusto?”, buttò lì. “Luna mi ha detto che questi… luoghi… reagiscono in base a chi vi si trova. Si modificano e mutano in funzione di ciò che facciamo o ciò che proviamo”.

“Ma io ammiro Ponymede e la sua teoria…”.

“Ma non hai sempre avuto paura di nuotare?”.

“Dici che è quello?”.

“Boh. Ne so quanto te, Casanova. Ora però… guardà un po’ lì…”, lo invitò, puntando una zampa verso l’acqua ai suoi zoccoli.

Icarus controllò e si accese di stupore quando vide la propria immagine riflessa.

Non poteva assolutamente crederci.

Poi, come se fosse un bambino davanti ad uno specchio, prese a muovere le zampe. Si mise di profilo. Spalancò le ali gigantesche. Si arruffò la criniera.

“C-cioè… sono… sono davvero io?”.

“Almeno che non ci sia un altro pegaso sott’acqua: sì, genio”.

Una vaga espressione di commozione, mista ad una certa amarezza, comparve sul suo viso.

Si concentrò sull’immagine riflessa.

“Quindi… è così che sarei stato… se… se fossi nato…”.

Rainbow chiuse gli occhi e lo abbracciò delicatamente da dietro, poggiandogli il capo sulla criniera.

“Non avrebbe fatto alcuna differenza, per me…”, precisò.

“…lo so”, ammise.

 

    Inaspettatamente, il puledro notò due protuberanze blu, oltre alle zampe anteriori, avvolgerlo ai lati.

Lanciò un grido spaventato e fece uno scatto. Cadde sull’acqua, sempre senza affondare, spargendo spruzzi ovunque.

Anche Rainbow ebbe un sussulto, per via della reazione, e finì invece sulla sabbia.

“Che ti piglia??”, strillò spaventata.

L’amico continuava a puntare una zampa verso di lei.

“R-Rainbow!! Guarda! Guardati i fianchi!”.

Il pegaso blu controllò il proprio corpo.

“…OH PER CELESTIA!!”, esclamò entusiasta. “OH PER TUTTE LE NUVOLE!!”. Prese a girare su stessa, per osservarle meglio, come un cane che si morde la coda. “LE MIE ALI!! Ho… HO LE ALI, ICARUS!!”.

I due si lanciarono in urla e schiamazzi di gioia. Scivolarono più volte sull’acqua, senza mai bagnarsi. Anche Rainbow poteva camminarci sopra senza problemi.

“È… è… stupendo, Rainbow!!”, la galvanizzò. “Mai avuto un sogno più bello di questo!!”.

“Puoi dirlo, per la miseria!! PUOI DIRLO!!”.

    Icarus mostrò un ghigno che la compagna conosceva bene.

“Quel muso…”, gli disse. “Tutte le volte che lo vedo… tu fai qualche scemenza…”.

Il puledro afferrò le zampe blu e le strinse a sé.

“Rainbow…”, le spiegò, con volto sereno. “Mi sembra di aver capito… che non sappiamo quanto potrà durare questo… bellissimo regalo che sei riuscita a donarmi… Ed ora siamo qui… a camminare sul mare. Immersi nel caldo del sole. Con una coppia di ali che farebbe invidia a Celestia in persona…”.

L’altra rispose con un cenno d’intesa: “…non potrei essere più d’accordo”.

Il pegaso grigio morse il labbro dall’emozione e si voltò.

Si mise prontamente in posa di partenza, a ventre basso, e poi spalancò le splendide ali di cui era dotato.

“Ehy! Aspetta!”, lo fermò Dash.

“Cos’è? Non sai più come si vola?”, la schernì, con aria di sfida.

“Ah, facciamo i saccenti, vedo…”, ribatté sghignazzando.

“Mi conosci, no?”.

Rainbow partì all’improvviso, senza dargli il tempo di reagire e sparandogli in faccia un’ondata di schizzi salmastri.

“NON VALE!!”, protestò Icarus.

 

    Rainbow iniziò a galoppare sull’acqua, generando spruzzi luccicanti ad ogni falcata. Il suo volto era fiero e sicuro di sé.

Aprì le ali e le distese orizzontalmente.

Ancora un po’ di velocità e…

Icarus le sfrecciò accanto, sorpassandola con la velocità di un falco in picchiata e creando uno spiraglio bagnato nel mare. Dash frenò e atterrì. L’amico fece quindi una cabrata spezzacollo e si lanciò nel cielo come un missile.

Sogno o non sogno… si sentì di nuovo surclassata.

E la cosa la riempì di gioia ed orgoglio.

 

“ALLORA??”, le urlò il pony, dall’alto dei cieli, svolazzando beffardamente. “CREDEVO VOLESSI VOLARE. NON TROTTERELLARE TRA I PESCI!!”.

Dash assunse un atteggiamento malizioso.

“GUARDA E IMPARA, PIVELLO!!”, lo ammonì.

Fece due rapide falcate, quindi compì un balzo con capriola a mezz’aria. Terminata l’evoluzione, prima di tornare col sedere nell’acqua, diede un impressionante colpo d’ali, che la fece schizzare verticalmente verso l’amico. Dietro di lei, una gigantesca onda circolare si dipanò in ogni direzione del mare.

 

I due ristabilirono la medesima quota.

 

“Notevole…”, ammise Icarus. “Ma non è abbastanza…”.

La coppia si scambiò sguardi d’intesa e di sfida, concludendo con un dolce sorriso.

 

Quello era il loro momento.

Realtà o finzione… avrebbero dato sfoggio di cosa significasse essere pegasi.


Nonché veri Campioni di Equestria.


*** ***** ***

 

    Una coppia di pegasi, uno blu e l’altro grigio, iniziò a solcare i cieli con folle velocità.

Il riflesso sfaccettato del sole si rifrangeva lungo le increspature dell’oceano sotto di loro.

Icarus e Dash stavano volando assieme.

Come un tutt’uno.

 

La gioia e la felicità trasparivano in modo lampante dalle loro espressioni.

Volteggiavano nell’aria, liberi come mai lo erano stati.

Nemmeno durante l’ora di volo con Rainbow, Icarus si era sentito così bene. Così contento di muoversi nel vuoto assieme a lei.

Entrambi, per un istante, dimenticarono come la situazione fosse in realtà molto grave.

Non pensarono più a nulla.

E seguirono il loro istinto.

 

Giocarono ad inseguirsi.

Compirono ampie virate, per sfiorarsi appena quando si incrociavano.

Planarono fino al mare, sollevando ondate di flutti dietro i rispettivi corpi, sospinti da ali poderose e accompagnati da un universo che si muoveva al ritmo delle loro stesse emozioni.

 

Il pony grigio cabrò e si fiondò in un agglomerato di nubi nel cielo. Rainbow lo seguì, stando al suo fianco per tutto il tempo.

Quando emersero dall’altro lato, si trovarono improvvisamente in una fredda notte stellata. Sotto di loro non vi era più il mare ma una distesa infinita di montagne innevate e verdeggianti colline.

Risero. Risero come matti.

Si abbracciarono in volo. Piroettarono sui propri assi.

Icarus chiuse le ali e si gettò a proiettile verso una nuvola bluastra. Le diede un poderoso colpo di zampe e questa esplose in una miriade di luccichii colorati.

Dopotutto… lì tutto era possibile.

Anche Dash decise di fare una prova. Gettò gli zoccoli di fronte a sé, che sembrarono letteralmente squarciare il cielo. Spalancò le zampe e il manto stellato si aprì in due, rivelando un profondo tunnel cosparso di cristalli dai mille colori, che fungevano da illuminazione.

Terminata la galleria, si tuffarono in un’enorme lago sotterraneo e presero a volare in un immenso mondo sottomarino, senza bisogno di respirare e con i crini che fluivano nel liquido.

Tanta fu la felicità e l’euforia dei due che continuarono a giocare e sperimentare fino a perdere completamente la cognizione del tempo, per quanto già fosse una grandezza relativa, all’interno di un sogno.

 

    Dopo un numero incalcolabile di scenari assurdi e folli evoluzioni ai limiti della fisica, i due sbucarono nelle nubi sopra il mare, lo stesso mare da cui erano partiti.

Planarono dolcemente sull’acqua, scivolando su di essa come se fosse ghiaccio, raggiungendo infine la riva sabbiosa, col sole alto nel cielo.

Si fermarono.

    Icarus era ebbro di contentezza e i due non si sentivano minimamente stanchi o affaticati.

Si sorrisero a vicenda.

“È stato… bellissimo, Dash. Se lo avessi saputo prima”, confessò, “allora sarei andato da Luna molto tempo fa!”.

“Dubito che avrebbe acconsentito! Mi ha spiegato che non sarebbe permesso… come dire? Creare sogni su commissione. Diciamo pure che ha fatto un grosso strappo alla regola”.

“Un… bellissimo strappo alla regola…”.

“Già…”.

Il tepore del sole e le ritmiche onde del mare iniziarono a cullare dolcemente i due, che rimasero in silenzio a guardarsi.

“E così…”, buttò lì icarus. “Sono messo alquanto male… mh?”.

La realtà ripiombò sulla puledra, come una secchiata d’acqua gelida.

Non seppe cosa rispondergli ma il suo volto esprimeva più di mille parole.

“…non devi farti problemi a dirmelo”, le spiegò il compagno. “Sapevo benissimo… che sarebbe potuto succedere, prima o poi… Anche se… pensavo di essere preparato… e invece…”.

Con estremo disagio, la puledra lo mise al corrente della situazione, sfregandosi una zampa con l’altra: “…il medico… ha detto che hai avuto una crisi molto forte. Una crisi… che probabilmente è stata frutto di molte altre”. L’amico la ascoltò e sembrò nascondere qualcosa. Dash, che lo conosceva ormai bene, se ne accorse immediatamente. “Ho poi parlato con Sunshine e…”.

“Come sta mamma??”, chiese bruscamente, non appena udì il suo nome.

“Lei… lei sta bene…”, lo rassicuro, con un dolce sorriso. “È un pegaso molto… molto forte… Sta affrontando la situazione con un coraggio che non so dove riesca a trovare”.

Icarus si incupì leggermente: “…avrei tanto voluto… salutarla un’ultima volta…”.

“Le… le dirò…”, balbettò, cercando di contenere la commozione. “...che… che la saluti… va bene?”.

“Sì… grazie. E… la piccola Iris? E papà? Come stanno?”.

Rainbow trattenne forzatamente un singhiozzo: “St… stanno bene…”.

“Ehy, ehy…”, la consolò, toccandole una guancia. “Non… non devi…”.

“Icarus…”, lo interruppe. “Perché… è successo tutto questo? È… è vero quello che ha detto il medico…? Hai… hai avuto delle altre… crisi?”.

    Il pegaso dai crini viola chinò il capo. Decise di essere sincero.

“Sì…”.

“D… davvero?”, domandò incredula. “E… e non me l’hai… mai detto??”.

“Io… io non volevo… farti preoccupare…”.

“…da quant’è che ne soffrivi?”.

“…io… da… da circa un anno…”.

Il pegaso blu non riusciva a crederci. Le aveva mentito. Le aveva tenuto segreta la faccenda per quasi un anno.

“Icarus… ma…”.

“Te l’ho detto. Non volevo farvi preoccupare”.

“Potevi dirmelo, santo cielo!”, esclamò, con un velo di rabbia. “A-avremmo cercato di affrontare la cosa assieme! Avremmo potuto…”.

“Sai cosa mi succede, durante quelle crisi?”, le domandò con volto serissimo.

“…no. No, io…”.

“I muscoli si contraggono. Mi ripiego su me stesso. Cado a terra con le convulsioni. Non riesco più a capirci nulla. Talvolta svengo persino”. Dash percepì un ago trafiggerle la bocca dello stomaco. Per quasi un anno il suo compagno aveva convissuto con quel male, senza che lei ne sapesse nulla. “Così. Finché non mi passa e mi calmo. Non è un bello spettacolo, credimi”.

“Ma io… avrei potuto…”.

“Non avresti potuto fare niente”, concluse con tono lapidario, distogliendo lo sguardo. “Saresti stata a guardare un pegaso accartocciato su se stesso. Nient’altro”.

“Perché dici così?”, gli chiese dispiaciuta. “Io… ti sarei rimasta accanto in ogni istante. Lo sai bene…”.

“Non avrebbe fatto alcuna differenza… Già dovevo mostrarmi agli altri in certe condizioni. Ho preferito evitare che mi vedeste in situazioni ben peggiori…”.

“Ti saresti vergognato… anche se ti avessi visto io…?”.

Icarus notò come la sua compagna stesse soffrendo per le sue parole.

“…non ho detto questo”, sussurrò, dopo una breve pausa.

“Almeno… avresti potuto restare tranquillo… senza… senza andare in giro per mezzo Regno, a caccia di progetti, regali o chissà che altro…”.

“Ancora con questa storia…”.

“Sì! Perché, magari ti saresti risparmiato… tutto questo…”, lo rimproverò.

Gli animi dei due iniziarono a scaldarsi.

“No”, puntualizzò con fermezza. “È stata una mia scelta. Una cosa che dovevo fare. E poi… cosa pensi che sarebbe cambiato? Magari sarei durato una settimana in più. Forse un mese… ma poi…”.

Rainbow lo strattonò per le spalle: “Sarebbe stato un mese in più insieme, Icarus! Possibile che di questo non ti importi nulla??”.

“Stai scherzando, vero? Hai… hai idea di quanto tu sia importante, per me? Hai la più p…”.

“E allora perché non siamo rimasti assieme?? Perché ti sei affaticato tanto? Di qualsiasi cosa avessi bisogno… avremmo potuto farla assieme! Avrei potuto…”.

“Senti”, tagliò corto, scostandole le zampe. “Ho avuto i miei motivi. Validissimi motivi”.

“Validissimi motivi?? È questa la tua risposta? Come fai a dire che tieni a noi se tutto quello che sai dire sono frasi come questa??”.

Icarus stava facendo di tutto, pur di non spiegarle il resto della faccenda. Ma più ci provava e più Rainbow non capiva, più non riusciva a darsi una spiegazione per l’atteggiamento dell’amico.

 

    Alcune nubi scure iniziarono progressivamente ad occultare il sole. Senza che se ne accorgessero, il sogno stava reagendo alle loro sensazioni. L’ambiente si rabbuiò leggermente. Il mare prese a sferzare la spiaggia con maggior intensità. Il vento acquisì forza e il tepore del sole iniziò a scemare.

“Io… io volevo rimanere con te”, riprese il puledro. “E desideravo che la tua vita fosse… fosse una bella vita…”.

Il pony blu corrugò la fronte: “Cosa… stai dicendo?”.

Un tuono lontano rimbombò per l’isola.

Dopo un sospiro e lunghi attimi di esitazione, Icarus parlò: “È successo quando… quando ho trattato male Iris, va bene?”. Rainbow lo ascoltò con attenzione. “Mi… mi sono sentito un… un vigliacco. Un… inutile pegaso… mezzo rotto… acido e in grado solo di… di far soffrire gli altri…”.

“Icarus!!”.

“Fammi finire. Questo finché… non mi sono riappacificato con lei. Perché Iris… mi ha tolto dall’illusione in cui vivevo”.

“Illusione?”.

“Sì”, rispose, con la chioma sferzata dal vento sempre più forte. “Prima di lei… per quanto i miei genitori soffrissero… sapevo di essere l’unico figlio per loro. Ma con Iris… tutto è cambiato. Avrebbero avuto qualcuno con cui essere dei VERI genitori. Ed io l’ho odiata, per questo”.

Arrivò un altro tuono.

“Lo so, ho sbagliato! Infatti… quando ho accettato la realtà… quando ho capito che i miei genitori mi avrebbero voluto bene, sempre e comunque… allora è scomparsa ogni traccia di odio o di risentimento. Tu non lo sai… ma… la notte in cui feci ritorno da te… ero andato da Applejack, a trovare mia sorella. Quella notte…”. Icarus si fermò per un istante, riprendendo a parlare più lentamente. “Quella notte… mi dissi che mai più avrei lasciato che gli altri sacrificassero qualcosa per me… Dopo le crisi che stavo avendo… capii che il tempo a mia disposizione poteva essere davvero sul punto di esaurirsi”.

Rainbow contrasse i muscoli facciali. Era sia stupita che addolorata.

Il pegaso color cenere riprese a parlare con estrema decisione: “E non avrei… mai… MAI voluto passare gli ultimi istanti della mia vita inerme… senza far nulla; col pensiero che, nel corso della mia esistenza, io non ho fatto altro che prendere l’amore degli altri… senza dar nulla in cambio…”.

Un fulmine si palesò alle spalle della puledra. Le piante iniziarono ad ondeggiare nell’aria.

“Non è vero!!”, ribatté Dash, alzando la voce, per via del frastuono di un temporale imminente. “Sai benissimo che non è vero!!”.

“Lo so… ma… in quel momento… in quell’istante… decisi che avrei dato tutto me stesso per coloro che mi avevano voluto bene. Decisi che Iris e la mia famiglia avrebbero riavuto tutto ciò a cui avevano rinunciato per me. Decisi…”. Il puledro la fissò intensamente. “Decisi che tu avresti meritato qualcosa meglio… che non un pegaso dalle ossa di caramello…”.

 

    Giunse un altro fulmine, accompagnato da un boato assordante.

Dash spalancò la bocca.

“Cosa… cosa stai dicendo, Icarus?”.

Il cielo era scurissimo, quasi nero; il pegaso grigio estremamente serio.

“…quando sono andato in giro per Equestria, nei giorni successivi”, narrò, “non lo feci solo per… per la questione del cirro… o per i vostri regali. In verità… andai più volte a Canterlot, facendomi ricevere dalle Principesse in persona”.

“Dalle Principesse??”, chiese esterrefatta. “Per quale motivo tu…”.

“Io…”, rispose, senza poter prevedere la reazione della compagna, “...io volevo… garantirti una vita serena, Rainbow. Volevo essere sicuro che avresti avuto un futuro roseo… anche quando non sarei più stato qui”.

“Cosa significa? Che diamine hai voluto fare??”, domandò spazientita, turbata dalla piega che stava prendendo il discorso.

Icarus chiuse gli occhi e li riaprì dopo alcuni secondi: “…chiesi alle Principesse… se mai ci sarebbe stato qualcosa in mio potere… per poter cambiare il corso del tuo destino. E loro… dopo la mia insistenza… mi spiegarono tutto quanto. Mi dissero che… che in questo mondo esistono forze molto potenti, che possono essere piegate al nostro volere. Questi interventi, però, non sono mai gratuiti… e richiedono… potenti catalizzatori”. Dash ebbe un tuffo al petto. Non poté non venirgli in mente un episodio che l’aveva cambiata per sempre. “E tanto più questi catalizzatori sono potenti… tanto più il risultato sarà grande. E precisarono… che l’unico modo per rendere permanente un cambiamento apportato in quel modo… sarebbe stato…”.

 

Il discorso di Twilight fulminò la mente di Rainbow.

 

Perché la vita… è insostituibile e limitata, Dash! Sacrificare la vita permette di estendere un sacrificio per l’intera durata dell’altrui esistenza. Ti permette di superare i limiti imposti da un tempo predefinito, come nel caso dell’ora di volo che hai concesso ad Icarus.

 

Altri tuoni iniziarono ad esplodere ovunque.

Il vento si levò impetuoso.

L’acqua iniziò a spumeggiare e ad infrangersi con violenza lungo la costa.

 

“COSA DIAVOLO STAI DICENDO??”, urlò Rainbow. “Che c’entrano ora questi discorsi?!”.

Icarus cercò di non scomporsi: “…ho fatto ciò che ritenevo fosse giusto per te. Un patto. Un sigillo. Una promessa. Chiamala come preferisci…”.

“Un… un… sacrificio??”.

“…una promessa… di sacrificio, sì…”.

Il vento divenne insostenibile.

“C-come… COME TI È SALTATA IN TESTA UNA COSA DEL GENERE??”, si sfogò disperata. “ANCORA SACRIFICI?!”.

“Ascolta, D…”.

“BASTAAA!!”, urlò con tutto il fiato che aveva in gola, stringendosi la testa tra le zampe. “BASTA CON I SACRIFICI!! COME HAI POTUTO ANCHE SOLO PENSARE CHE… CHE SACRIFICARTI…!! SAREBBE STATA LA COSA GIUSTA… PER ME?? COME HAI POTUTO!!”.

Il puledro venne trafitto dalla reazione di Rainbow… e lo scenario non era certo dei più rasserenanti. La strinse per le spalle ma Dash si liberò rapidamente dalla presa.

“Dash, ti prego, ascoltami…”.

Ma la compagna era assolutamente disperata e continuò ad urlare. E tanto più aumentava il suo impeto, tanto più l’isola veniva lambita da improvvise raffiche di maltempo, causando un rumore assordante.

“NO!! NON VOGLIO SENTIRE NULLA!! NON VOGLIO AVERE PIU’ NULLA A CHE FARE CON SACRIFICI O COSE DEL GENERE!! IO… IO VOLEVO SOLO STARE CON TE! ANCHE SOLO PER UN ISTANTE!! ANCHE SOLO PER UN SECONDO! E… E TU ORA MI DICI… CHE HAI VOLUTO DELIBERATAMENTE GETTAR VIA… LA TUA VITA?? ICARUS!!”.

 

Un fulmine accecante e violentissimo cadde a pochi metri dai due e il tuono che sopraggiunse li gettò in una temporanea sordità.

Dash si protesse lo sguardo e, quando riaprì gli occhi, si ritrovò nel bel mezzo di un acquazzone, al buio. L’isola sembrava trovarsi nel cuore della tempesta più violenta che mai avesse visto in vita sua.

L’amico, che fino ad un attimo prima era di fronte a lei, sembrava essere scomparso.

Rainbow trottò affannosamente nella sabbia zuppa, nel buio quasi assoluto e sollevando spruzzi di acqua nerastra ad ogni falcata. Il vento scorreva impetuoso, gettando di lato la pioggia che, incessante, continuava a martellare il terreno. Gli alberi nei dintorni erano poco più di agglomerati sferzati dall’aria, illuminati sporadicamente dai lampi nel cielo e seguiti dai rispettivi boati dei tuoni.

Il rumore del temporale sovrastava ogni cosa.

La puledra, completamente fradicia, cercò di ripararsi il volto con una zampa.

“ICARUUUS!!”, urlò.

Un lampo illuminò ad intermittenza la sagoma del compagno. Il pony grigio era seduto sul terreno, non molto distante da lei, con i lunghi crini zuppi che gli colavano lungo il collo. Il volto era scolpito in un’espressione difficile da decifrare. Il puledro sembrava vagamente preoccupato per qualcosa, eppure… eppure le sorrideva dolcemente.

Dash rallentò, a pochi metri da lui, con il fiatone. I due si osservarono intensamente, durante i brevi intervalli dei lampi.

L’amica corrugò lo sguardo e, con una foga del tutto impulsiva, urlò: “…PERCHÉ, ICARUS? PERCHÈ??”.

L’altro abbassò lo sguardo, osservando le gocce che si infrangevano sul fango. La sua criniera venne lambita dall’ennesimo colpo di vento. Tornò quindi ad osservarla, con lo stesso, dolce sorriso di prima.

“PERCHÉ, ICARUS? PERCHÉ L’HAI FATTO?”.

Il puledro, di nuovo, non rispose.

“PERCHÉ NON POTEVI LASCIARE TUTTO COM’ERA?? Cosa… COSA C’ERA CHE NON ANDAVA??”.

Il compagno scosse il capo e, con voce appena udibile, in mezzo al fragore del temporale, dichiarò: “Io… dovevo farlo”.

“NO CHE NON DOVEVI!!”, lo interruppe bruscamente, quasi sull’orlo di una disperazione incontenibile. “NON AVRESTI MAI DOVUTO NEMMENO PENSARE AD UNA COSA SIMILE!!”.

Icarus capì benissimo lo stato d’animo dell’amica. Lo comprese fino in fondo.

Non l’avrebbe biasimata per l’odio verso di lui. Per poterlo detestare con tutto il cuore. Avrebbe accettato tutto di lei, a quel punto. Anche se l’istinto l’avesse spinta a rifilargli una zoccolata in pieno muso.

Rainbow si avvicinò, senza trattenere la propria foga: “ICARUS!! MI STAI ASCOLTANDO??”.

“Sì… Dashie… ti ascolto. Ho sempre ascoltato ogni tua singola parola. Sempre…”, rispose con pacatezza.

“SMETTILA DI SORRIDERMI IN QUEL MODO!!”, ruggì l’ex-pegaso, come se non sopportasse la gentilezza che Icarus continuava ad esternare.

La frequenza del respiro le crebbe in corpo.

Gli occhi si inumidirono, lasciando però alla pioggia il compito di dissimulare alla perfezione il fenomeno.

La sua fronte si corrugò di nuovo, questa volta incastonandole progressivamente il volto in un’espressione di sofferenza.

“…p-perché, Icarus?”, gli disse infine, avvicinandosi a pochi centimetri da lui, osservandolo dritto negli occhi viola. “Non… non ti andavano bene le cose? Perché… perché non me l’hai detto prima? Non… non ti andava bene la tua vita…? Non ti andavo bene… io?”.

Il sorriso del compagno iniziò a vacillare, combattuto da una crescente commozione che iniziò a sua volta a salirgli dal petto. Icarus cercò di dissimulare, in un vano tentativo di forzare i muscoli facciali.

Alla fine… le sue labbra si contrassero e gli occhi iniziarono a chiudersi e riaprirsi rapidamente.

Il pegaso grigio si allungò verso di lei e l’abbracciò con tutte le forze che aveva, proprio in concomitanza di un altro fulmine.

 

“…tu sei sempre stata… la mia salvezza in ogni cosa… Dashie”, le sussurrò.

L’altra spalancò le orecchie, senza capire.

“Non lo nego… ho voluto stringere quel patto. Ho pensato… che la cosa giusta per te… sarebbe stata quella”. Il pegaso la scostò da sé, tenendola però serrata nella propria presa. Continuava a sorriderle. “Poi… c’è stata quella notte. La notte in cui mi sono ritrovato solo, in mezzo al bosco. La notte in cui ho pensato che avrei perso ogni cosa. La notte in cui… ti vidi volteggiare libera nel cielo. Come uno spirito del vento…”.

La pioggia iniziò a diminuire lievemente.

“E poi… mi sono svegliato all’ospedale, con una flebo alla zampa e un dottore che farneticava robe senza senso sulle giunture e le articolazioni. Quindi sei arrivata tu. Decisa, irruenta. Proprio come farebbe una drago che si sveglia male la mattina…”.

Le gocce dal cielo si diradarono.

I fulmini si palesarono tra le scure nubi lontane, accompagnate da tuoni sommessi.

“Abbiamo parlato… e io… mi ricordo ogni singola parola di quel discorso. Porto ancora dentro di me… la tua voce… quando mi parlasti del tuo desiderio di un futuro con me. E quello, Dashie… è stato il vero momento in cui tu mi hai salvato. In cui tu… mi hai fatto capire”.

Il temporale, così come era sopraggiunto, iniziò ad allontanarsi.

Il mare, da mosso, divenne via via più calmo. I rumori del temporale si fecero sempre più distanti.

Icarus portò la fronte contro quella dell’amica.

“In quel momento… compresi come l’unica cosa importante… fossimo noi. Non io... o te. Ma… noi. Mi hai fatto capire… come tu avessi basato la tua vita su di me, nonostante tutti i problemi che conoscevi benissimo”.

Dash inspirò dal muso, producendo il caratteristico rumore dovuto al pianto.

“Sono… sono stato uno stupido… a voler pensare che quella sarebbe stata la cosa giusta per te. Non… non volevo accettare… di aver cambiato la tua vita, anche se è stata una tua scelta… per poi abbandonarti… senza aver fatto nulla”.

“Tu…”, ribatté Rainbow, con un filo di voce. “Tu sei sempre stato tutto ciò che di cui avevo bisogno… non dovevi far nulla...”.

“…lo so. Prima volevo solo convincermi che fosse così. Ma ora… Ora ne ho la piena consapevolezza”.

Uno spiraglio di sole apparve dalle nubi, riversando alcuni raggi bianchi lungo la spiaggia.

“Quindi…”, chiese il pony blu, quasi intimorito. “Il… il sacrificio…”.

Icarus strofinò la guancia contro quella di lei.

“Il patto è stato siglato… ma senza la mia ultima volontà… mai verrà portato a termine”.

“Davvero…?”.

“E questo lo decisi proprio quel giorno. Infatti… da allora, se ben ricordi, smisi di barcamenarmi da una parte all’altra. Mi tuffai con te nel periodo più bello della mia vita, con la mia famiglia, le nostre amiche… Gli istanti più piacevoli di cui mai avrò ricordo”.

La compagna lo abbracciò e si sentì immensamente sollevata.

“…sono… così contenta. Alla fine… hai capito quanto realmente tu fossi importante per me… Più di qualsiasi dono… più di qualsiasi sacrificio…”.

Un ghigno di vaga amarezza si scolpì sul muso cinerino: “...anche se il fato, alla fine… ha avuto uno spiccato senso dell’ironia. Proprio quando ho deciso di voler vivere serenamente con te… è… è sopraggiunto…”.

 

    Rainbow gli passò la zampa sul volto.

Icarus chiuse gli occhi e chinò il capo contro lo zoccolo, percependone il calore.

La compagna venne sommersa dall’ennesima sensazione di dispiacere per il pegaso che aveva d’innanzi.

Per colui che quasi era entrato a far parte di lei, in tutto e per tutto.

E che, presto o tardi, avrebbe dovuto lasciare.

Per sempre.

 

Il sole tornò a splendere.

Il cielo non divenne terso ma si arricchì di grosse nubi bianche, a ricordo della tempesta che da poco si era placata.

 

Si osservarono in silenzio.

 

“Persino in sogno… sul baratro di un grande passo…”, commentò Icarus, senza allontanare la sua zampa dal volto, “mi fai sentire vivo come mai lo sono stato…”.

“Sei solo… uno stupido pegaso…”, ammise, con altre lacrime pronte ad uscire.

 

    L’ambiente, attorno a loro, sembrò arricchirsi di una leggera foschia bianca.

La coppia se ne accorse immediatamente e prese ad osservare l’isola con una certa perplessità.

Il mare lontano divenne sempre più indistinto.

Gli arbusti smisero di oscillare ed iniziarono a svanire.

Il vento cessò.

Il rumore della spuma. I gabbiani.

Il tepore del sole.

Tutto prese lentamente a farsi effimero e inconsistente.

I due si scambiarono sguardi preoccupati.

Ad un certo punto, dell’isola, altro non rimaneva che la sabbia sotto i loro zoccoli, circondata da un lattiginoso muro di foschia.

Anche la sabbia, alla fine, svanì.

Icarus e Dash percepirono il vuoto sotto gli zoccoli. Ebbero un sussulto ma poi presero a fluttuare dolcemente nel nulla, avvinghiati l’uno all’altra.

 

La nebbia lasciò progressivamente il posto ad una sconfinata distesa di nubi dalle tenui tonalità del rosa e delle arance mature, come se un infinito cielo al tramonto li avesse improvvisamente inghiottiti.

Non era più distinguibile un alto, un basso; un orizzonte o un qualsiasi riferimento.

 

I pegasi si strinsero reciprocamente, ruotando con estrema lentezza lungo il proprio asse, come sospinti da una corrente gentile.

 

Le piume di Dash, ad una ad una, iniziarono a staccarsi e a perdersi nel vuoto.

Anche il corpo di Icarus divenne leggermente più magro.

 

Il sogno stava di nuovo cambiando, reagendo alla realtà che, implacabile, si palesava nella loro consapevolezza.

 

    Dash si rivolse preoccupata all’amico.

Icarus le rispose con un’espressione addolcita, come se fosse ben consapevole di quanto stesse per accadere.

“…Icarus”, farfugliò, sentendo l’aria nei polmoni venirle meno.

“Hai… hai fatto una cosa bellissima, Dashie”, disse l’altro, percependo dolorose sensazioni giungergli nel cuore. “Mi hai concesso un dono stupendo. Qualcosa che è permesso a ben pochi…”.

 

La puledra notò come la superficie corporea dell’amico si fosse arricchita di una flebile luminescenza bianca.

 

“Non tutti possono permettersi… un addio come questo”.

Rainbow spalancò le palpebre.

Scosse il capo.

“U-un… addio?”, balbettò. “Non… non dire sciocchezze”, gli rispose, con un sorriso forzato. Qualcosa la stava devastando dall’interno. E lei non voleva accettarla. “Siamo qui. Io e te. E… e così rimarremo…”.

“…Dash”.

“Io e te… si vola insieme”, ripeté con convinzione.

Icarus cercò di essere schietto ma l’altra tentò il tutto per tutto.

“Senti”, buttò lì, in preda all’agitazione. “I-io… io ora tornerò… nella… nella realtà! Contatterò… dei medici… dei dottori… non lo so… m-ma qualcuno… troverò qualcuno!”.

“Dashie…”.

Lacrime scesero lungo il volto della puledra, che rimase però scolpito in un’espressione di ferrea convinzione: “Tu… tu hai sopportato ben di peggio. E… e non hai mai mollato. So che ora farai lo stesso… Devi solo tener duro e… e darmi il tempo di…”.

   

    Gli zoccoli grigi la afferrarono dolcemente per le tempie e la accostarono ai crini viola.

“Non… non sarà così, Dashie…”.

Rainbow scosse la testa.

“Io…”, ammise Icarus, mostrandosi estremamente preoccupato. “…io ho paura Dashie… ho tanta… tanta paura…”.

 

L’altra lo strinse istintivamente a sé e chiuse gli occhi.

Non poteva sentirgli dire certe cose.

Non voleva sentirle.

 

“Ho… ho paura per me… per quello che accadrà… E… se tu ora te ne vai… I-io… io non voglio che tu mi veda in quelle condizioni… Voglio che… che tu rimanga qui con me… che… che tu abbia il mio ricordo più bello. Quello di un pegaso che solca con orgoglio i cieli…”.

 

Rainbow cominciò a piangere, immergendosi nella sua criniera viola.

Aprì leggermente le palpebre.

 

Il corpo del pegaso stava divenendo sempre più luminoso.

 

“Ed ho paura…”, continuò Icarus, anch’egli con le lacrime lungo le guance. “…ho paura per la mia famiglia. Di cosa ne sarà di loro. Ho… paura per te… Che… che non ti rivedrò più. P-paura… di non poterti più sentire… di non poter più percepire l’ozono nei miei polmoni… Vedere la tua…”. Il puledro rise. “…ridicola chioma multicolore”. L’amica rise a sua volta. “E…”.

Icarus la allontanò appena e la fissò negli occhi bagnati.

“E… dovrai fare una cosa per me…”.

 

L’ex pegaso stava così male da non riuscire nemmeno a parlare.

 

“La… la piccola Iris”, continuò Icarus. “Tu… tu dovrai vegliare su di lei…”.

“I-io…”.

“Lei”, affermò con decisione, “ha bisogno di un Campione di Equestria. Lei… volerà per me. E… e sarà il pegaso più maestoso che mai apparirà in tutto il Creato…”.

“S… senza di te…”, singhiozzò Rainbow. “Non… non so come farò…”. Tornò ad abbracciarlo. “Tu sei le mie ali, Icarus… Come… come farò… se… se tu…”.

 

Minuscole sfere luminose iniziarono a disperdersi dal pegaso grigio, fluttuando lontane nel vuoto. Giunte ad una certa distanza, presero a tramutarsi in candide piume bianche.

 

“Io sarò le tue ali, Dashie. Per sempre. Non so cosa ci sarà dopo ma… credimi. Io ti sosterrò… più di quanto tu creda…”.

“Non lasciarmi…”, sussurrò Dash, osservando le piume galleggiare tra le nubi. Serrò le palpebre.

“Con questo regalo…”, continuò il puledro cinerino, “tu mi hai concesso l’opportunità… di essere per sempre con te. E non solo…”.

“Non andartene…”.

“Poi… tutto ti sarà più chiaro. Abbi fiducia in me…”.

“Io mi fido ciecamente di te…”, rispose con immediatezza, stringendolo più forte che poteva, come se quel gesto fosse in grado di trattenerlo lì con lei. “Ma…”.

“E allora… rimani qui con me. Stringimi… tienimi con te… Sei l’unica cosa in grado di allontanare la paura dal mio cuore… di donarmi la pace in ogni istante… persino in un momento come questo...”.

“Ti… ti voglio bene, Icarus…”.

 

Il silenzio.

 

Le nuvole.

 

Il dolce fluttuare nel vuoto.

 

La presenza di lei che gli entrò fin nell’anima.

 

Non seppe perché.

Non riuscì a spiegarselo ma, in quel preciso momento… un’innaturale sensazione di calma si fece strada nel petto del puledro. Il respiro si attenuò. Il battito tornò più regolare.

Le zampe strinsero a sé il pegaso celeste.

 

I muscoli del viso si rilassarono e continuò ad osservare il cielo.

Quel cielo farcito di nubi… che gli regalò un inaspettato attimo di pace.

Una pace che mai aveva provato prima di allora. Che mai si sarebbe aspettato di vivere in una situazione simile.

 

Eppure… stava accadendo.

 

    Non pensò più a cosa sarebbe successo.

Non pensò più a niente.

Ebbe solamente un debole sussulto al cuore, quando rivolse lo sguardo al pony tra le sue zampe.

 

Le spazzò delicatamente la chioma all’indietro e le diede un bacio sulla fronte.


“Di tutte le ricchezze”, le disse, “tu sei stata la più preziosa che mi potesse arrivare nella vita”.


    Rainbow si avvinghiò al pegaso, senza avere il coraggio di guardare.

Lo tenne a sé, per un periodo di tempo che non sarebbe mai riuscita a definire.

Sperando semplicemente che durasse il più a lungo possibile.

 

La sua presa, ad un certo punto, si strinse nel vuoto.

 

Dash aprì istintivamente le palpebre.

 

Un lungo fiume di piume bianche si stava allontanando dolcemente da lei.

Fu tutto ciò che riuscì a vedere.

 

Si racchiuse il capo tra gli zoccoli.

 

Iniziò a respirare rapidamente, fino ad andare in iperventilazione.

 

Con un poderoso impeto di energia, proruppe in un urlo di disperazione assolutamente devastante, che riecheggiò mille volte attraverso il cielo.


Si destò.

 

*** ***** ***

 

    Rainbow si sollevò dal proprio giaciglio, come una molla.

Era imperlata di sudore e respirava come se avesse appena finito di correre.

Si guardò attorno.

Era nella stanza degli ospiti.

Era ancora notte.

Della candela non rimaneva che un piccolo ciocco in procinto di estinguersi.

 

Scese dal materasso con una foga tale da sbattere le ginocchia a terra.

Si fiondò verso la porta. Cercò di girare la chiave, in preda al panico.

 

Forse”, si ripeté. “Forse ho davvero sognato tutto. Non è successo per davvero”.

 

Finalmente spalancò l’uscio e prese a galoppare rumorosamente per i corridoi. Urtò alcuni mobili.

Le sarebbe bastato svoltare l’angolo.

 

È stato tutto un sogno”.

 

Era sempre più vicino.

 

Solo un sogno”.

 

Giunta a destinazione… la puledra si sentì morire dentro.

Per la seconda volta.

 

Luna stava dritta di fronte a lei, proprio d’innanzi alla porta in cui l’amico era ricoverato.

Sulla fronte era presente una piccola fiammella magica, che illuminava debolmente la zona. L’alicorno aveva le ali spalancate; le sue palpebre serrate. Li aprì lentamente, mostrando due occhi luminosi, che tornarono immediatamente alla normalità.

Dopo alcuni secondi… la Principessa dei Sogni e degli Incubi posò lo sguardo sul pony di fronte a lei.

Il muso della Principessa era serio, quasi inespressivo.

Una piccola goccia luccicante le calò lungo uno zigomo.

 

Dash si mise le zampe al petto.

Si piegò su se stessa.

Scivolò a terra.

Strinse i denti.

 

Non riuscì a piangere.

Non ce la fece.

Non ne ebbe fisicamente la forza.

 

Allungò una zampa tremante verso la porta, ma poi si fermò.

Le parole del pegaso le tornarono alla mente.

 

Io non voglio che tu mi veda in quelle condizioni… Voglio che… che tu rimanga qui con me… che… che tu abbia il mio ricordo più bello. Quello di un pegaso che solca con orgoglio i cieli…

 

Ritrasse lo zoccolo.

Non seppe cosa fare.

Non seppe cosa pensare.

 

Il mondo stesso sembrava esserle crollato addosso.

Ogni cosa sembrava improvvisamente vuota e spaventosa.

 

Un mare di emozioni esplose al suo interno.

Troppe, semplicemente troppe emozioni.

 

    Alcuni zoccoli risuonarono alle sua spalle.

Si girò. Era buio ma riuscì a distinguere la figura viola della giovane Velvet.

Istintivamente, Dash cercò di rimettersi sulle quattro zampe, accertandosi di non avere lacrime in volto.

E Velvet… si stava muovendo lentamente lungo il corridoio buio, girando lentamente su se stessa mentre camminava. Il muso ruotava in tutte le direzioni.

Rainbow non capì… Cosa stava facendo?

 

“Io…”, sussurrò l’unicorno.

“V-Velvet?”.

 

La giovane uscì dalla penombra.

 

E Dash visse una delle emozioni più incredibili di tutta la sua esistenza.

 

Gli occhi di Velvet erano spalancati e controllavano la zona con stupore e meraviglia.

 

Occhi viola.

Profondi.

Decisi.

Caparbi.

Quasi arroganti.

 

Inconfondibili.

 

Le zampe del pony blu tremarono. Si appoggiò alla parete, per non cadere.

 

“I-io…”, continuò Velvet, continuando a spostare lo sguardo in tutte le direzioni, con la bocca spalancata. “Ci… ci vedo… Io… riesco a vedere…”.

Incrociò quindi Rainbow, divenendo di fatto ancor più meravigliata.



“Dash!!”, esclamò. “Dash…! Ma… ma tu…”.

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Capitolo 11
*** Epilogo ***


Equestria, tredici anni dopo; al termine di una tiepida primavera.

 

    Le zampe calpestarono il soffice manto bianco sotto gli zoccoli.

Rainbow avanzò con lentezza fino al limitare della nuvola, con lo spettacolare paesaggio di Equestria di fronte a sé.

 

Il sole brillava alto nel cielo. Il vento era fresco e gentile.

Le colline erano in fiore, dipingendo il mondo con i colori delle più disparate varietà di melo.

Vigeva il silenzio, fatta eccezione per l’ormai noto sibilare dell’aria nelle orecchie.

 

La puledra ruotò il volto, beandosi dell’orizzonte nella sua perfezione.

Chiuse gli occhi. Inspirò a pieni polmoni.

Sorrise, assaporando ogni singola emozione che i sensi le stavano trasmettendo.

 

Riaprì le palpebre.

 

Al collo le oscillava un ciondolo in cui erano stati inseriti tre monili.

Una piuma blu.

Una piuma grigia.

Un piccolo pegaso di metallo, il cui occhio cristallino era però scuro ed opaco.

 

    Una presenza si palesò accanto a lei.

Era una giovanissima puledra dal manto grigio e con una folta criniera dai riflessi ramati.

Il pegaso si stava muovendo con circospezione fino al bordo della nuvola, quasi a gattoni, come se avesse paura di cadere.

Si sporse e poi tornò immediatamente indietro.

Osservò Dash, tramite rossi occhi identici ai suoi.

Parlò, con voce trillante e vivace, anche se leggermente timorosa.

“Uh… È… è un po’ altino…”.

Rainbow si sporse a sua volta e, con fare un po’ strafottente, le rispose: “Mhh… sì, sarà… qualche migliaio di metri al massimo…”.

“Cosa??”, berciò preoccupata.

“Non vorrai mica dirmi… che un pegaso ha paura di volare?”.

“Ehm… n-no”, mentì, sporgendosi una seconda volta e fingendosi meno spaventata.

Il pony blu si intenerì e la passò una zampa sulla groppa.

“Siamo tutti agitati, il giorno del primo volo. È normale”.

“…anche tu hai avuto paura, la prima volta?”.

“Mhf. Ovvio che no!”, ribatté con vanto.

“O… ok…”.

Una terza voce si intromise alle spalle del duo: “Non stare ad ascoltarla. Dice un mare di fesserie…”.

Si voltarono.

Scootaloo, ormai perfettamente cresciuta, le raggiunse camminando sul manto nebuloso.

“Ti spiego io come si fa…”, aggiunse la puledra arancione.

Dash, tuttavia, allungò uno zoccolo verso di lei, fermandola.

“Ehy!”, protestò Scootaloo. “La smetti di essere sempre al centro dell’attenzione??”.

L’amica sorrise e mise in mostra i ciondoli che aveva al collo.

L’altra capì immediatamente e le rispose con un grande sorriso.

“Questa è un’occasione speciale”, concluse Rainbow.

 

    Il trio si collocò con la punta degli zoccoli in prossimità del vuoto.

Scoot e Dash esternavano caparbietà e sicurezza, mentre Iris era decisamente più agitata.

“Non ti preoccupare”, la tranquillizzò il pony dai crini arcobaleno. “Sono sicura che non avrai il benché minimo problema. Ce l’hai nel sangue…”.

“Se… se lo dici tu…”.

“PRONTE??”, tuonò improvvisamente Dash.

“PRONTE!”, fece eco Scootaloo.

“…pronte…”, pigolò Iris.

 

Scootaloo spalancò le proprie ali.

 

Iris fece altrettanto, mostrando la sua notevole apertura alare.

 

Rainbow Dash fu l’ultima ad aprirle.

Un paio di ali enormi.

Lunghe.

Affusolate.

Bellissime.

Le piume erano color blu acceso e le punte sfumavano nelle tonalità della cenere.

 

Il pegaso puntò il viso dritto nel vuoto, percependo il vento d’alta quota attraversarle le piume.


Con questo regalo… tu mi hai concesso l’opportunità… di essere per sempre con te. E non solo.


Dash si gettò nell’aria.

Scootaloo la seguì a ruota.

Con un’ultima esitazione… anche Iris si convinse a saltare.

 

Il trio saettò verso il suolo lontano, acquisendo sempre più velocità.

La giovane puledra grigia provò una paura immensa. Tutto, attorno a lei, tremava e sibilava. Le ali erano leggermente ripiegate lungo i fianchi e non sapeva esattamente cosa avrebbe dovuto fare. Di fronte a lei, le amiche si comportavano esattamente allo stesso modo, precipitando sempre più veloci.

 

Dash gonfiò le ali, in una manovra che avrebbe spezzato piume ed ossa a qualunque pegaso.

Ma non con QUELLE ali.

Il pegaso celeste guadagnò immediatamente portanza e le due amiche la videro schizzare verso il cielo azzurro.


Io sarò le tue ali, Dashie. Per sempre. Non so cosa ci sarà dopo ma… credimi. Io ti sosterrò… più di quanto tu creda…


Scootaloo cercò di fare altrettanto ma dovette accontentarsi di una cabrata lenta e calcolata.

Iris si ritrovò improvvisamente sola. Il cuore le batteva all’impazzata.

Cosa doveva fare?

Cercò di riportare alla memoria le lezioni di volò ma l’agitazione era troppo grande e le impediva di ragionare con chiarezza.

Il panico si fece strada dentro di lei.

“DAAASH!!”, urlò. “DASH!! SCOOT!!”. Nessuno, tuttavia, le rispose o venne in suo soccorso.

Quindi, senza nessun’altra opzione residua, la puledrina fece l’unica cosa possibile.

 

Spalancò le ali.

 

Sulle prime, ebbe una strana sensazione e faticò a stabilire il controllo.

Ma poi…

Secondo dopo secondo… Istante dopo istante… L’istinto le suggerì cosa fare.

Iris si meravigliò di se stessa.

L’aria prese naturalmente a fluire tra le piume e il corpo della giovane iniziò a rispondere con naturalezza agli stimoli che il mondo attorno a lei le inviava.

Non ci poteva credere.

 

Stava volando!

 

Ruotò le ali. Prese un vuoto d’aria e precipitò per qualche metro, che recuperò in pochi istanti.

Tanta paura.

Tante emozioni.

E tanta gioia.

 

Sopra di lei, non molto lontano, Rainbow la osservava con il cuore che batteva forte.

Riconobbe subito lo stile. Ne intuì immediatamente le potenzialità.


Lei… volerà per me. E… e sarà il pegaso più maestoso che mai apparirà in tutto il Creato…


E così fu.

Seppur ancora impacciata e inesperta, Iris prese immediatamente a muoversi nel vento, a leggerlo, a capirlo, ad essere come lui.

Scoot si affiancò accanto al pony blu ed esultò: “AH! HAI VISTO?? HAI VISTO COME VOLA??”.

“Sì”, rispose commossa. “Sì, ho visto…”.

 

    E quel momento, splendido ed unico, la rimandò immancabilmente ad un passato lontano.

Ma che mai era riuscita a dimenticare.

Per un istante… le tornò in mente l’ultimo volo di Icarus.

La notte in cui si librò con lui nel cielo stellato, percependo dentro di sé tutta la gioia dell’amico.

Si ricordò cosa avesse fatto. Cosa le avesse lasciato dentro.

Le tornarono in mente i suoi cirri.

La sua boccaccia maleducata.

La sua testardaggine.

La sua antipatia.

Il giorno in cui le fece dono dei ciondoli con le piume…

 

Scosse il capo.

Cercò di allontanare quei pensieri.

Ma non vi riuscì.

Le emozioni fecero ritorno, forti e ingestibili.

Dash deglutì.

Non era il momento di distrarsi. Iris avrebbe realmente potuto avere bisogno di lei. Notò tuttavia il pegaso arancione avvicinarsi premurosamente all’amica.

Avrebbe dovuto fare altrettanto. Ma il dolore… era troppo forte.

Senza farlo apposta… il suo sguardo finì in direzione della casa nel cielo, in cui l’amico aveva passato quasi tutta la propria vita, segregato in un mondo di cristallo.

L’abitazione non c’era più.

 

Sotto di lei, Scootaloo e il pegaso dai crini ramati si erano appena scambiate un paio di commenti eccitati.

Le due si resero presto conto di come Rainbow stesse guadagnando sempre più quota e non ne capirono il motivo.

 

    Dash iniziò a sbattere forsennatamente le ali, in una risalita verticale verso le sommità del cielo.

I mille ricordi del compagno le ronzavano confusi nella testa.

Il giorno del loro primo incontro.

Quando lo condusse a Ponyville dalle amiche.

Il cambio di look nella boutique di Rarity.

Il litigio.

 

Superò i primi strati di nuvole.

Percepì un leggero dolore ai muscoli della schiena.

Riprese a sbattere le grandi ali dalle tonalità sfumate.

Doveva… e POTEVA salire ancora più in alto.


Mio padre è sempre stato affascinato dal volo… dall’aria… dalla possibilità di sconfiggere i limiti imposti dalla gravità. Lui è pegaso… ma ho capito che avrebbe sempre desiderato un mondo dove tutti avessero avuto la possibilità di volare, in un modo o nell’altro.


Il giorno in cui andò a trovarlo all’Emerald Lake e lo rivide dopo mesi di lontananza.

La fuga a Steamdale.

Il tramonto dal grattacielo.

L’operazione dall’esito incerto.

Il fallimento.

 

L’aria divenne fredda e l’ossigeno iniziò a diminuire.

Rainbow continuò a sbattere le ali sempre più forte, contrastando la gravità che la reclamava invece al suolo.

Di fronte a lei: l’azzurro.

Ma, da qualche parte… ne era sicura. Dovevano essere lì.


Lui… lui era sempre stato affascinato dai cirri. Ogni tanto, lo sapevo, spiccava il volo… e si spingeva fin dove l’atmosfera diveniva rarefatta… fin dove il freddo non ti raggelava il fiato sul muso… dove tutte le nuvole scomparivano. Tutte… tranne i cirri.


La nascita della piccola Iris.

Il suo dilemma interiore.

Il rifiuto.

La riappacificazione.

L’arcobaleno sopra l’industria.

La rinuncia al suo unico mezzo di trasporto.

Il pomeriggio nella neve.

I regali.

Il malessere.

 

Alcuni piccoli batuffoli fumosi iniziarono ad intravedersi in lontananza.

Il fiato si trasformò in condensa. La fatica iniziò a farsi pesantemente sentire.

Ma non le importava.


Un luogo che non riuscì mai a raggiungere veramente, confine per tutti i pegasi. Riuscì soltanto a sfiorarlo… e a prendere un po’ di quell’effimera massa condensata. Per il suo sogno. Per lui. Per coloro che non potevano volare. E per… per me…


Rainbow strizzò le palpebre e strinse i denti.

Convogliò tutte le proprie energie nelle ali.

Continuò a muoverle. E muoverle. Incessantemente.

Ignorò il dolore. Ignorò il freddo. Ignorò la sensazione di soffocamento ai polmoni.

 

Alla fine, con un ultimo battito liberatorio, riaprì le palpebre.

 

Per un istante, conservando la spinta verso l’alto per pochi secondi, rimase a fluttuare in un mondo dipinto dell’azzurro più intenso e profondo che mai avesse visto.

Attorno a lei…

I cirri si muovevano gentili, lenti e imperturbati.

Piccole macchie bianche simili a cotone.

La gravità la richiamò a sé.

Prima di riprendere la discesa, tuttavia, con un leggero strato di brina sul muso e piccole lacrime ghiacciate sul volto, Dash riuscì ad allungare una zampa.

 

Per un singolo, insignificante istante... fu in grado di toccare un cirro.

Lo percepì a stento, delicato e tenue com’era.

 

Il volto del pegaso manifestò chiari segni di dolore.


“Mi manchi da morire… Icarus…”.


Chiuse gli occhi.

Il corpo ruotò a mezz’aria ed iniziò a precipitare di schiena.

 

    Rainbow non fece nulla.

Si limitò a scendere verso terra, sempre più rapidamente.

Il fragore del vento si fece presto assordante. Il vento si tramutò in lame ghiacciate che le saettavano attorno al corpo.

Riaprì le palpebre.

Vide il verde delle distese, a migliaia di metri di stanza.

Il dolore, dentro di lei, fu devastante.

Protese le zampe e ricominciò a sbattere le ali.

Andò veloce. Sempre più veloce, sospinta da una forza assolutamente impareggiabile: le ali dei veri Campioni di Equestria.

 

Ed avvenne.

Il Sonic Rainboom più potente e spettacolare mai comparso in tutta Equestria. Così imponente da far tremare le piante a terra, a chilometri e chilometri di distanza.

Una enorme sfera dai mille colori si spanse in ogni direzione, rapida come un fulmine.

 

    Scootaloo ed Iris vennero spazzate nel vuoto, roteando più volte su se stesse.

Il pegaso arancione ristabilì il controllo e volò immediatamente in soccorso dell’amica, aiutandola a riprendere quota.

Videro quindi il corpo blu di Rainbow Dash, in lontananza, cadere verso le colline, a peso morto. La puledra era in avvitamento, leggermente rallentata dalle lunghe ali penzolanti.

Senza pensarci due volte e spaventate dall’impatto che ne sarebbe seguito, si apprestarono a raggiungerla.

 

Scootaloo fu la prima ad arrivare. Planò lungo un prato e si mise immediatamente alla ricerca della compagna.

Le sarebbe bastato individuare una macchia blu ma l’erba era alta e non facilitava il compito.

La vide di lì a poco, mentre si risollevava da terra.

Galoppò immediatamente nella sua direzione.

 

“DAAASH!!”, urlò.

Il pony blu si girò.

Scootaloo giunse trottando verso di lei, col volto vagamente preoccupato.

“DASH! STAI BENE??”, continuò ad urlare, finché non le fu praticamente addosso, obbligandola a gettarsi di schiena sull’erba.

“DASH!!”, ripeté.

“Sto bene, sto bene!!”, si apprestò ad informarla.

“D-davvero??”.

“Ti dico di sì…”.

Scoot tirò un sospiro di sollievo, puntò gli occhi al cielo e si ritrasse: “Oh… grazie a Celestia…”.

Rainbow si grattò il capo e constatò come il suo corpo fosse un po’ sporco d’erba e di terriccio.

“Che… uh… cos’è successo?”.

L’altra riprese fiato e le spiego: “Come cos’è successo?? C’è stato quel… quel… e tu sei franata lungo il prato!”.

“Cavolo…”.

“Non ti sei fatta nulla? Una lussazione? Un…”.

“No, no. Sto bene…”.

“Da lontano… sembrava dormissi… Dovevi aver perso i sensi”.

Il volto della puledra dalla chioma arcobaleno divenne serio: “…sì… sì, io… penso di essere svenuta…”.

“Beh ma… alla fine stai bene, vero?”, chiese con insicurezza Scootaloo, prendendo quindi a scrutare cielo e dintorni.

La mente di  Dash tornò al sogno. Anzi, a tutti i sogni che aveva avuto di recente.

“…s-sai, Scoot?”, balbettò timidamente, sorridendole appena.

“…cosa?”.

“…ho… ho rifatto il sogno…”.

L’altra sembrò un po’ a disagio: “Ti riferisci a…”.

“Sì… a…”.

 

In quel preciso momento, il pegaso grigio giunse dietro di loro, con il fiato cortissimo.

La preoccupazione si leggeva chiaramente nel suo volto.

 

Quando Dash vide il pony dalla folta chioma, percepì un profondo calore nel petto. Tutto parve svanire. Tranne una minuscola sensazione di sofferenza che continuò a pungerle un angolino del petto.

 

La puledra sorrise con tutta la dolcezza che spontaneamente le venne fuori dall’animo.

 

Osservò la coppia che aveva d’innanzi.

 

Sentì il calore del sole.

 

Percepì la brezza tra i crini.

 

Il lieve fragore del vento tra le orecchie.

 

E capì.

 

Capì che quello era tutto ciò che mai avrebbe potuto desiderare.


Si rialzò da terra, mettendosi sulle quattro zampe.

Prima di ripartire, disse loro un’ultima cosa: “…non ha alcuna importanza, ora. Non importa più, ormai”.

Rainbow Dash diede le spalle ai due.

Osservò il cielo.

Chiuse gli occhi.

 

“Il nostro sogno… il vero sogno… comincia adesso”.


…e il vento soffiò più forte di prima.

 

*** ***** ***

 

    Non molto lontana dai tre, una puledra dal manto viola era appostata all’ombra di un grosso salice dai rami fluenti.

L’arbusto si stagliava proprio al centro di un enorme prato di calendule gialle.

Dietro di lei, un curioso pony barbuto, con una strana scintilla negli occhi, tratteneva tra le zampe la propria criniera. Il Sonic Rainboom aveva appena attraversato la zona, lambendo con violenza i fiori e il grosso albero verde.

Velvet dovette rannicchiarsi su se stessa e proteggere il grosso libro che reggeva in grembo.

    Quando il fenomeno cessò, rivelando un cielo completamente sgombro di nuvole, tornò ad osservare preoccupata la volta celeste.

Dopo pochi minuti… si tranquillizzò.

I tre pegasi avevano ripreso a volare: tre macchiette colorate; una grigia, una azzurra ed una arancione.

L’unicorno sorrise.

L’arcobaleno circolare era ancora all’orizzonte e vi sarebbe rimasto per molto, moltissimo tempo; generato da una forza ed un sentimento che nessuno avrebbe potuto anche solo immaginare.

Riaprì il grosso tomo, un imponente libro con copertina in pelle rigida, su cui era stato incastonato un simbolo in ferro battuto: il mezzo busto di due pegasi di profilo, che si davano reciprocamente le spalle.

Fece scorrere le pagine, fittamente scritte, finché non raggiunse la parte terminale del documento, ancora da completare.

Il corno in fronte si illuminò. Piuma e inchiostro emersero da una borsa lì accanto.

La puledra dagli occhi viola si fece pensierosa, quindi sembrò trovare l’ispirazione e riprese a scrivere, comodamente coricata tra le radici.

 

Questa è dunque la storia che ho voluto narrarvi.

Non la ritengo un motivo di vanto, per i protagonisti coinvolti.

Non ha una finalità precisa… se non quella di render noto, a chi volesse saperne di più, chi sono stati i Campioni di Equestria.

 

La punta si intinse nel contenitore scuro.

 

Io ho avuto l’enorme fortuna di conoscerli.

Di parlarci.

Di toccarli.

Di capirli.

Ed è stata una delle avventure più belle e ricche che potessero capitarmi in vita.

 

Velvet tornò con lo sguardo sul paesaggio primaverile: un’esplosione di colori che, fino ad una decina di anni fa, mai avrebbe potuto rimirare.

 

Ci ho impiegato quasi tredici anni a completare questo libro. Ho raccolto le testimonianze di tutti, in modo meticoloso ed esaustivo. Ho potuto così narrarvi la loro storia secondo tutti i punti di vista possibili.

E la cosa stupenda…

 

Sorrise.

 

È stato verificare come ognuno abbia detto la propria, con versioni leggermente differenti.

Ma tutti… ripeto, TUTTI sono rimasti immancabilmente segnati dal passaggio dei due Campioni.

Di uno… in particolare.

 

Un pegaso che, finché avrò vita, mai dimenticherò.

E dubito che chi lo ha conosciuto potrà mai riuscirci, nel bene e nel male.

 

Fece una pausa.

Raccolse le idee.

 

Uno dei suoi più grandi timori… era di essere dimenticato. Che nessuno sapesse di lui.

Ma la verità assoluta… è che ha lasciato il segno.

 

La Principessa Celestia ha fatto intarsiare una vetrata dai mille colori, che potete rimirare in qualsiasi istante, recandovi nella sala regale di Canterlot.

Mostra i due Campioni di Equestria, intenti a volare nel cielo.

 

Le rispettive nomine si sono diffuse in ogni direzione, fino oltre le montagne a nord.

La loro storia è giunta ad occhi ed orecchie di pony a migliaia di chilometri di distanza.

Icarus e Dash, volenti o nolenti, sono entrati nella leggenda.

 

Un alito di vento la costrinse a pizzicare i fogli e spostarsi i crini dalla fronte.

 

E non mi dilungherò oltre, poiché ciò che doveva essere detto, è stato detto.

Se tuttavia vi è rimasta un po’ di curiosità, per ciò che è accaduto successivamente… allora sappiate che alcune cose sono mutate. Altre sono rimaste le stesse. Perché certe cose, ormai è risaputo, non cambieranno mai.

 

La famiglia di Icarus si è risollevata completamente dai debiti e si è potuta permettere una graziosa casetta nella città di Ponyville. Entrambi i genitori lavorano ed Iris, a quanto ne so, possiede un roseo futuro presso l’accademia di volo.

 

La Cirrus di Icarus e i relativi progetti hanno spopolato in mezzo Regno. Di tutto si può dire sul nostro caro dottor Panpipe, tranne che sia un pessimo pony di affari.

Se, alzando lo sguardo al cielo, vi dovesse capitare di scorgere strani batuffoli sospinti dai pegasi… beh. Sappiate che sì, sono loro. L’Emerald Lake è diventato il primo centro specializzato a poter accogliere malati in particolari stati di salute, nonché le emergenze sia da cielo che da terra.

 

Ah… il dottor Panpipe?

Non so esattamente che fine abbia fatto. Ho sentito dire che qualcuno, nell’ospedale, è riuscito a trafugare alcuni documenti e a venderli ad un’agenzia di gossip. Il dottore pare si sia ridotto sul lastrico per mettere a tacere le voci. Non lavora più all’Emerald Lake. Con ogni probabilità, si sarà ritirato in una delle sue sontuose ville in montagna.

 

Se vi interessa sapere di Brutus, so che il suo nuovo locale ha avuto un discreto successo. Lo stallone, tuttavia, continua ad inguaiarsi puntualmente con nuove fiamme… che altrettanto puntualmente se ne scappano la mattina dopo, lasciandolo col portafoglio vuoto e il cuore in frantumi.

 

Ate si sta curando autonomamente, grazie ai soldi concessi dalla famiglia di Icarus. Il pegaso grigio ha espressamente lasciato una richiesta affinché il matto venisse trattato con tutto riguardo.

Io, detto tra noi, penso che se ne stia un po’ approfittando. Ma non ci vedo nulla di male, dopo una vita passata in un ospedale.

 

Il piccolo Nicodemo si è spento qualche anno fa.

È stato il mio fedele compagno per anni e mi ha tenuto compagnia nei momenti più bui della mia vita.

Può un topolino significare così tanto per qualcuno?

Io vi assicuro di sì.

 

L’unicorno sospirò.

 

Per quanto riguarda me…

Beh, non c’è molto da dire. Il mio obiettivo più grande era concludere degnamente questo libro.

Non so se ci sono riuscita. Penso di poter dire ancora qualcosa… ma non so bene cosa…

 

Velvet arricciò il naso.

Che brutta frase da scrivere per il finale di un libro…

Il corno divenne ancor più luminoso e l’ultima riga scomparve magicamente.

Continuò ad osservare con incertezza le ultime pagine.

Si picchiettò il mento. Sotto di esso era presente la collana che gli aveva regalato Icarus. La pietra, tuttavia, sembrava si fosse bruciata dall’interno, esattamente come il piccolo rubino del pegaso di metallo che indossava Rainbow.

Quello era stato l’ultimo regalo di Icarus per le amiche... più grande di quanto mai si sarebbero potute immaginare.

 

Dopo lunghi minuti di totale assenza d’ispirazione, Velvet richiuse il tomo, sbuffando sconsolata.

“Niente”, ammise. “Ora non mi viene niente”.

Si girò verso il pony alle sue spalle.

“Tu hai suggerimenti?”.

Ate alzò le zampe all’altezza delle spalle e inarcò le sopracciglia.

“No, eh?”, borbottò la puledra viola. “Vabbè… vorrà dire che aspetterò il momento propizio”.

 

Ripose libro e strumenti nella borsa e si alzò da terra: “Oh issa!”.

Si sgranchì le zampe.

Allacciò la cintura della tracolla.

“Dai”, lo esortò. “Che ne dici di tornare? Che poi, se cala la sera e fa buio, ci perdiamo!”.

 

Ate rispose con un ghigno divertito e, con voce arrogante e un’intonazione vagamente familiare, dichiarò: “Ridicolo!”.

Velvet rise sotto i baffi.

Si allontanarono dal salice, muovendosi tra le calendule e dando le spalle ai pegasi, con il vento primaverile ad accarezzare i crini.

 

    Poi… Velvet si fermò.

Una strana sensazione… qualcosa… le consigliò di rimanere.

Si girò lentamente.

Vide il trio lontano volteggiare libero nel cielo, divertendosi come non mai.

Corrugò leggermente la fronte.

Chiuse gli occhi.

Fece vibrare le orecchie.

Ate si fermò a sua volta, senza interferire.

L’unicorno, come se non avesse un solo istante da perdere, estrasse con rapidità il libro e la piuma. Lo aprì e lo tenne sollevato d’innanzi a sé, tramite la levitazione. Andò verso l’ultima pagina.

La punta, intrisa di inchiostro, si portò a pochi millimetri dalla carta.

 

Velvet scrutò Dash, Scootaloo ed Iris, con i suoi profondi occhi viola.

 

La piuma si mosse.

 

E con queste ultime parole…

Io vi dico… che non dovete essere tristi.

Non c’è nulla di cui dispiacersi.

 

Lui ci ha fatto un dono bellissimo.

A me. Alla sua compagna. A tutti.

Ha seguito la propria strada. L’ha percorsa. Si è inciampato. Ha sbagliato. Ha rimediato.

 

Ha cercato a tutti i costi una risposta e, alla fine, io ne sono sicura…

…è finito col trovarla.

 

Riportò l’attenzione sui pegasi.

Ora poteva vederli chiaramente, frutto di quel dono bellissimo.

 

Ma certe cose, quando impari a vedere col cuore, non le dimentichi.

Quando la luce si spegne definitivamente, allora non ti rimane che ascoltare.

 

E dove altri avrebbero solamente notato tre pegasi solcare l’infinito del cielo…

Lei sarebbe andata oltre.

Chiunque ci sarebbe in realtà riuscito.

Bastava soltanto fermarsi.

Chiudere gli occhi.

E lasciare che il cuore facesse il resto.

 

Perché i miracoli non muoiono mai.

E lui lo è stato a tutti gli effetti.

Ovunque passasse lui, tutti venivano ustionati dalla sua luce.

 

Una luce che, anche se lontana dalla fonte, continuerà a brillare ancora per molti anni a venire.

 

Non si esce di scena, quando si entra nella leggenda.

 

Io lo so.

Lo sento.


Tutto ciò che lui è stato

Tutto ciò che ha fatto

Per sempre rimarrà attorno a noi.

 

Mai sarà distrutto.

 

Mai sarà dimenticato.


Ogni volta che alzeremo il volto al cielo.

Noi lo sentiremo.


Per il resto delle nostre vite.

 

Per sempre sospinto


nel vento.


La piuma incantata pressò leggermente la carta, delineando il punto finale della frase conclusiva.

Velvet ne osservò soddisfatta il risultato.

Chiuse il libro. Lo fece levitare di fonte a sé, con il sole accecante sullo sfondo.

Spalancò la copertina.

 

Lesse la prima frase.



Era l’ultimo giro della gara nei cieli…

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