Second Chances

di evelyncla_Trixie
(/viewuser.php?uid=594040)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo I ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Regina Mills non riusciva a prestare attenzione ad altro che non fosse Henry.
«Tesoro, stai bene? Dove sei stato?» chiese il sindaco, il fiato corto a causa dell’emozione di vedere suo figlio apparentemente illeso e per la breve corsa che aveva fatto.
Forse la vita sedentaria alla quale era condannata dopo la Maledizione aveva i suoi lati negativi. Regina inspirò a fondo il familiare profumo di Henry, prima di scioglierlo dal suo abbraccio e di lanciare una breve occhiata alla donna che lo aveva riportato a casa.
«Cosa è successo?» domandò, senza soffermarsi sui tratti dell’altra troppo a lungo.
Eppure, quel breve sguardo aveva ricordato a Regina dei lineamenti fin troppo noti, ma in cuor suo sapeva che non poteva assolutamente trattarsi di lei.
Non ci fece caso subito, perché suo figlio –il bambino che aveva allevato con amore e devozione per undici anni- le gridò contro quelle poche parole che Regina aveva sperato di non sentire mai.
«Ho trovato la mia vera madre!»
Regina sentì il suo cuore stringersi dolorosamente nel petto, e non riuscì a trattenere il figlio dallo sgusciarle tra le braccia. Henry corse in casa, superando lo sceriffo Graham senza una parola.
Fu solo a quel punto che Regina trovò il coraggio di alzare lo sguardo per posarlo sulla ragazza che, in silenzio, attendeva nel suo vialetto di casa.
A Regina bastò una sola occhiata, dritta in un paio di occhi verdi e scintillanti, per far sì che il mondo intero le crollasse addosso.

 
TRENTACINQUE ANNI PRIMA

L’aria le sferzava il volto, mentre nelle orecchie riecheggiava la risata orgogliosa di suo padre. Il cavallo sotto di lei sembrava muoversi come un tutt’uno con il suo corpo, rispondendo ad ogni minimo comando. Regina saltò agilmente un ostacolo dopo l’altro, gli occhi fermamente puntati sul terreno di fronte a lei, il battito del cuore accelerato.
Con un dolce colpo di redini, Regina saltò l’ennesimo ostacolo e si avvicinò a suo padre, che applaudiva entusiasta. Il volto della ragazza si aprì spontaneamente in un sorriso, mentre smontava da cavallo.
«Hai uno stile molto elegante,» si complimentò l’uomo, aprendo le braccia per accogliere la figlia.
«Grazie, padre,» rispose Regina, posando un bacio sulla guancia di Henry Mills. La barba dell’uomo le solleticò il viso.
«Molto elegante?» fece eco una voce che, Regina avrebbe potuto giurarlo, sembrava scetticamente divertita. «Non è il termine che avrei usato io.»
Regina strinse involontariamente il pugno sulle redini di Ronzinante.
«Non ti piace, madre?» domandò suo malgrado, guardando l’austera donna che avanzava nell’erba perfettamente curata. Dietro di lei, a testa alta e con una sella nuova tra le braccia, c’era il loro stalliere.
«Cavalchi come un uomo.» fu la risposta di Cora Mills: una risposta secca e leggermente disgustata.
Regina scambiò uno sguardo d’intesa con suo padre, che l’altra donna finse di non cogliere. In realtà, erano davvero poche le cose in grado di sfuggire a Cora e sua figlia non rientrava tra queste.
«Una signora dovrebbe essere aggraziata. E dovrebbe usare una sella,» disse Cora, con il chiaro intento di rimproverare la figlia.
«Mi stavo solo divertendo,» si giustificò Regina debolmente, sottovalutando la disapprovazione di sua madre.
In realtà, compiacere Cora Mills non era affatto facile, per lei. Nulla, di ciò che Regina faceva, di ciò che Regina era, sembrava abbastanza per sua madre.
«Non sei un po’ cresciuta per queste cose?» domandò Cora, chiaramente retorica. Lei non era il genere di persona che aspettava una risposta, non era una donna che discuteva. Semplicemente perché quello che lei diceva doveva essere legge. E se Henry, ormai, ci aveva fatto il callo, per Regina era ancora un qualcosa di tremendamente frustrante e irritante da sopportare.
«Chi vorrà la tua mano, se ti comporti da…da popolana?! » continuò Cora.
Regina abbassò lo sguardo, stringendo i denti. Avrebbe voluto risponderle a tono; avrebbe voluto dirle che lei non aspirava al potere, alla ricchezza, alla grandezza. A lei bastava l’amore. Un amore che, tra le altre cose, non era molto distante da lei.
Regina lanciò un breve sguardo allo stalliere che aveva accompagnato sua madre, con una sella tra le mani, ma non si concesse di indugiare troppo a lungo su quel bel volto.
«Ti prego, lasciala stare,» intervenne Henry, parandosi istintivamente davanti alla figlia.
«Smetti di coccolarla,» sbottò Cora, roteando gli occhi in segno di impazienza. Trovava che suo marito non fosse altro che il prezzo da pagare per la posizione che aveva raggiunto, ma quel prezzo stava diventando ogni giorno più insopportabile. E la sua pazienza aveva un limite.
«Sta diventando una vecchia zitella!» proseguì la donna. «Le altre sono tutte già sposate».
Regina fissava la punta dei propri stivali, a testa bassa, senza incrociare gli occhi di sua madre. Quella litania l’aveva ascoltata già molte volte, in precedenza, poteva recitarla a memoria.
Solo che quella era la prima volta in cui ad assistere c’era anche lo stalliere, e la situazione iniziava ad essere imbarazzante.
«E io che avevo tante speranze.»
Cora sospirò teatralmente. Era inutile, lei era la protagonista indiscussa di ogni situazione. Lei doveva prevalere, lei doveva vincere.
A volte sembrava quasi che non provasse altri sentimenti che non fossero ambizione e sete di potere.
Regina seguitò a fissare il terreno, cercando un modo adatto per togliersi da quella situazione.
«Milady,» intervenne lo stalliere, facendo un passo avanti, sperando di riuscire a sviare il discorso. «Provate questa sella.»
Ma Regina troncò sul nascere ogni sua parola, prendendo le redini del cavallo e avvicinandolo con poca gentilezza alle mani dello stalliere.
«Per oggi ho finito con il cavallo,» disse, cercando di controllare il tremolio nella voce e di assumere un tono più adulto. «E non osare mai più interrompere me o mia madre.»
Regina armeggiò con le redini di Ronzinante, pur di non incontrare gli occhi dello stalliere, e represse un moto di disgusto verso se stessa, percependo alle proprie spalle il sorriso di orgoglio che si dipinse sul volto di Cora.
Lo stalliere fece un passo verso Regina e la ragazza istintivamente si ritrasse. Diminuire la distanza tra loro avrebbe significato compromettere il precario controllo che Regina cercava di imporre alle proprie azioni e non poteva permettersi di perderlo, non davanti a sua madre.
Fu doloroso, per lei, ignorare lo sguardo confuso e di leggero rammarico che lo stalliere le rivolse e riuscì a sopportarlo solo ripromettendosi che si sarebbe scusata per quel suo atteggiamento, mille e mille volte, se fosse stato necessario.
«Non capisco perché devi criticarmi sempre» disse Regina astiosa, guardando sua madre.
«Non ti stavo criticando, ti davo un consiglio,» la contraddisse Cora, portandosi una mano sul petto, come a voler sottolineare la sincerità delle proprie intenzioni.
Regina si lasciò sfuggire un sospiro infastidito, mentre decideva di ignorare le parole di sua madre. Aveva un’altra questione, ben più importante, da sistemare con lo stalliere e non aveva la minima intenzione di iniziare una discussione con sua madre che, sicuramente, non avrebbe fatto altro che aggravare la situazione.
Decise di allontanare ogni suo istinto di ribellione e superò la donna, con l’intenzione di raggiungere le stalle il prima possibile. Ma sua madre non era dello stesso avviso.
«Non andartene mentre ti parlo! » esclamò Cora, alzando la mano ed intrappolando Regina in un fascio di luce viola.
Henry Mills fece un passo avanti, tentato di porre fine a quell’abuso di potere, ma bastò un semplice sguardo della moglie per rimetterlo al suo posto.
«Madre!»
Nemmeno l’implorazione disperata della sua adorata figlia riuscì a smuoverlo: la verità era che Henry temeva sua moglie più di ogni altra cosa al mondo. Henry temeva che, se lui avesse deciso di rivoltarsi, Cora avrebbe potuto decidere di vendicarsi attraverso Regina; e questo lui non avrebbe potuto sopportarlo.
«Detesto quando usi la magia su di me,» disse Regina divincolandosi nel tentativo di liberarsi. Ma, e lo sapeva bene, la magia di sua madre era troppo potente per poter essere vinta con un semplice sforzo fisico.
Cora non sembrò minimamente toccata dal tono insofferente della figlia.
«E io detesto l’insolenza.» rispose la donna, con un sorriso tutt’altro che amorevole.
«Smetterò di usare la magia quando diventerai una figlia obbediente,» concesse Cora, godendosi lo spettacolo di sua figlia impotente di fronte a lei.
Il cuore di suo marito si stava sicuramente struggendo tra la codardia e l’amore filiale e la cosa non poteva che farle piacere.
«Perché non posso essere me stessa?» domandò Regina, esasperata da quella situazione.
«Oh, perché potresti essere molto più di te stessa se ti lasciassi guidare da tua madre».
«Ancora con questa storia? Non mi importa dello status, voglio solo essere-» Le parole di Regina si trasformarono in un’esclamazione di spavento nel momento in cui Cora, con un semplice gesto della mano, sollevò la figlia ancora più in alto rispetto al terreno e guidò le redini che scivolarono dalle mani della giovane perché si stringessero attorno al suo busto, in una morsa dolorosa.
«Cora, ti prego…» intervenne debolmente Henry, prontamente ignorato. Regina sentì le cinghie premere contro il suo petto, mozzandole il fiato.
«Ti prego... » sussurrò la ragazza, gli occhi che si riempivano di lacrime trattenute a stento. «Farò la brava.»
Il sorriso vittorioso di Cora urtò Regina più di qualsiasi altra azione precedente. Ogni volta che le loro discussioni sfociavano nella magia, a cui la giovane era costretta a soccombere, Regina si chiedeva se sua madre la amasse davvero, o se l’avesse mai amata. A volte, sembrava quasi che Cora non avesse un cuore.
Naturalmente, Regina non poteva sapere quanto vero fosse quel suo metaforico pensiero.
Cora aprì la mano. La magia si dissolse, e la giovane venne liberata dalle cinghie e adagiata al suolo, dolcemente.
«Eccellente.» disse Cora con un sorriso. «È ciò che volevo sentire.»
Regina trattenne a stento le lacrime; guardò sua madre con un sentimento molto simile al terrore e, una volta sicura che non l’avrebbe attaccata di nuovo, le diede le spalle, correndo a perdifiato verso l’unico posto in cui si sentiva davvero al sicuro. Le stalle.
Furono pochi metri, quelli che mise tra lei e sua madre, ma non appena calpestò la paglia delle stalle Regina tirò un sospiro di sollievo.
«Emma,» disse la ragazza, attirando l’attenzione dello stalliere che stava accudendo Ronzinante. «Scusa per i rimproveri».
Emma annuì, toccandosi nervosamente la punta delle dita, e mosse qualche passo verso Regina, che questa volta non pensò minimamente ad allontanarsi.
«Non fa niente,» la rassicurò Emma. «Ma dovrai trovare un modo per farti perdonare».
Regina reagì d’impulso, sopraffatta dalla vicinanza dell’altra ragazza. Con un slancio, che le due compirono nello stesso momento, i loro corpi si incastrarono alla perfezione, aggrappandosi l’uno all’altro. Si scambiarono un bacio impetuoso, dettato dal bisogno di liberarsi della tensione che aveva gravato sulle spalle di entrambe fino a quel momento, per poi separarsi brevemente e scambiarsi uno sguardo. Regina diede a Emma un secondo bacio, questa volta dolce, con l’unico intento di assaporare il gusto delle sue labbra.

 

Ronzinante si lanciò a rotta di collo su per la leggera collina. Regina non aveva nemmeno bisogno di spronarlo: il cavallo era letteralmente cresciuto con la giovane per capirne ogni volta gli stati d’animo. Era una delle poche creature esistenti a cui Regina fosse realmente affezionata. Non era solo il suo cavallo, era il suo migliore amico.
Regina sorrise quando Ronzinante rallentò, ormai giunto a destinazione.
Emma ricambiò il sorriso, staccandosi dall’albero a cui era appoggiata per andare incontro alla ragazza.
Ronzinante nitrì, lasciando che Regina scendesse dal suo dorso.
«Emma! » esclamò la giovane, lanciandosi letteralmente tra le braccia dell’amante.
Le due si baciarono dolcemente, con amore e spensieratezza, felici di poter essere finalmente insieme, loro due sole, lontane dal mondo.
«Andiamo alla collina delle lucciole!» propose Emma, stringendo a sé i fianchi di Regina. «Arriviamo al tramonto, facciamo un pic-nic».
Regina abbassò lo sguardo, afferrando i lembi del mantello dell’altra e scuotendo il capo dispiaciuta.
«Oh, Emma, devo essere a casa tra un’ora. Per prendere il tè,» spiegò, sentendosi terribilmente in imbarazzo. Se fosse dipeso dalla sua volontà, Regina non avrebbe mai anteposto una sciocca convenzione come prendere il tè al trascorrere le proprie ora con Emma. Ma sua madre non avrebbe mai approvato e, per quel giorno, di magia ne aveva avuta abbastanza.
«Una vera signora non perde mai il tè!» esclamò Regina, imitando con tono sarcastico Cora.
«È davvero assurdo,» commentò Emma, sciogliendo l’altra dal proprio abbraccio in un impeto di rabbia e frustrazione. «Un incontro furtivo tra il pranzo e il tè? Quando dirai di noi ai tuoi genitori?»
Regina mosse qualche passo incerto verso la ragazza, prima di raggiungere Emma con maggior sicurezza e tranquillizzarla per quanto fosse in suo potere.
«Mio padre non c’entra niente. È lei…» disse, lasciando la frase in sospeso.
Emma scosse la testa, incredula, lasciando che i suoi lunghi capelli biondi si muovessero nel sottile vento del pomeriggio.
«Perché si accanisce tanto? Io lavoro nelle stalle, è vero,» convenne la ragazza. «Ma lei è figlia di un mugnaio, dovrebbe capire molto bene cosa significa…»
«Ed è così!» intervenne Regina, sfiorando le braccia forti di Emma e guardandola in quegli occhi che tanto amava. Non voleva giustificare sua madre, perché non lo meritava; ma non voleva nemmeno che Emma odiasse ancora di più la donna che era causa di tutte le loro sofferenze quotidiane. Anche se spesso faceva finta di nulla, Emma sapeva tutte le angherie e le torture magiche che Regina era costretta a subire. Un paio di volte avevano persino discusso a questo proposito.
Emma era uno spirito libero, amava i cavalli, amava la sua Regina e desiderava solo poterle dare un futuro felice. E la consapevolezza di ciò che Cora pensava delle persone “comuni” come lei, quello la demoralizzava. Odiava vedere Regina perennemente costretta a seguire le regole di sua madre.
«Ma pensa che lo scopo della vita sia salire sempre più in alto e…» continuò Regina, le braccia strette attorno al corpo dell’altra, al riparo sotto il suo mantello.
«E io sono più in basso,» concluse per lei Emma, accigliandosi e allontanandosi dalla ragazza. Era in quei momenti, quando lo spettro della presenza di Cora aleggiava su di loro, che Emma si chiedeva se fosse davvero in grado di regalare a Regina la vita che si meritava.
Forse Cora aveva ragione, forse l’amore non era tutto e, anche se sarebbe stato abbastanza, non sarebbe stato il meglio, non per Regina.
Emma si sentì afferrare il braccio dall’amante con decisione e quel tocco bastò perché nella sua mente scomparisse ogni dubbio. Il loro amore era abbastanza, il loro amore era tutto ciò che contava e nemmeno Cora con la sua magia sarebbe riuscita a scalfirlo.
«Sì, è quello che pensa… Però io non sono come lei,» disse Regina, con un sorriso timido.
«Regina, devi dirglielo,» rispose Emma, le sue mani strinsero saldamente l’altra, a rafforzare il significato di quelle parole.
«Se ne farà una ragione. Che cosa può farci?»
«Ma hai visto la sua magia?» ribatté Regina, in ansia. «La vera domanda è cosa non può farci.»
Odiava dover soccombere così davanti alle dimostrazioni di potere della madre, e finché si trattava di lei, la giovane nobile poteva azzardarsi a discutere. Ma la verità era che Regina temeva per Emma. Perché la sua Emma era tanto dolce quanto coraggiosa e testarda: più di una volta aveva rischiato di finire nei guai per proteggerla, e l’ultima cosa che Regina voleva era che Emma si mettesse contro sua madre.
«Io non ho paura della magia,» disse infatti la bionda con un sorriso.
Emma sfiorò il volto di Regina con le dita, quelle dita rese ruvide dal duro lavoro, ma che quando la toccavano sapevano mostrare una dolcezza infinita.
«Il Vero Amore è la magia più potente che ci sia,» continuò Emma, guardandola e parlando con la passione che la contraddistingueva. «Può superare qualunque cosa.»
Regina si concesse di credere a quelle parole, ma solo per un breve secondo, prima che il grido terrorizzato di una bambina squarciasse l’aria.
«Aiuto!»
«Ho sentito un grido,» disse Regina, scostandosi da Emma per individuare la ragione di quella richiesta di soccorso.
«Vi prego, aiutatemi!»
Regina vide un cavallo dal manto scuro, lanciato in un galoppo sfrenato, correre di fronte a lei e Emma. Bastarono un paio di secondi per capire che cosa stesse accadendo e agire, affrettandosi verso Ronzinante e montare in sella.
Emma fece qualche passo nella direzione dell’altra, nel cuore l’orgoglio di vedere la donna che amava correre in aiuto di una sconosciuta. Sorrise, con una punta di preoccupazione, mentre osservava l’elegante figura di Regina che si allontanava.
«Per favore, fermati! Aiuto!» gridò ancora quella che era, inequivocabilmente, una bambina.
Regina tirò le redini di Ronzinante verso il basso, spronandolo ad andare più veloce; si chinò sul collo dell’animale, sentendo i muscoli del suo cavallo scattare per lo sforzo dell’accelerazione.
Il destriero della ragazzina sembrava impazzito; poche volte Regina aveva visto un cavallo correre in quel modo con un cavaliere sul dorso: lei sapeva bene che i cavalli erano animali molto sensibili e che prestavano particolare attenzione a chi trasportavano. Un’andatura di quel genere significava solamente una cosa: quell’animale era stato spaventato da qualcosa di molto molto potente.
La bambina aveva cominciato a piangere, terrorizzata.
Regina strinse i denti, incitando Ronzinante. Si stavano avvicinando. La ragazza pregò solo di fare in tempo. Una caduta da cavallo a quella velocità poteva significare solo la morte.
«Dammi la mano!» urlò Regina, la coda del cavallo imbizzarrito sfiorava già il fianco di Ronzinante e lei tese un braccio in direzione della bambina, che le lanciò uno sguardo terrorizzato prima di fare come la sconosciuta le chiedeva.
Regina resse con fatica il peso della bambina non appena questa si gettò tra le sue braccia e la ragazza si affrettò a rallentare l’andatura di Ronzinante, tirando le redini con decisione. La bambina scivolò lungo il dorso del cavallo malamente, cadendo a terra, e Regina smontò con agilità qualche secondo più tardi.
«Va tutto bene, cara. Tranquilla,» disse, aiutando la piccola sconosciuta, che si aggrappò a lei con forza, a rimettersi in piedi.
La bambina aveva il fiato corto e Regina non dubitava che il suo cuore stesse galoppando molto più velocemente di quanto avesse fatto il cavallo imbizzarrito.
«Mi avete salvato la vita,» disse la piccola, con la voce spezzata.
«Ti senti bene?» domandò Regina, ignorando quel fiotto di calore che il tono di gratitudine e riconoscenza dell’altra aveva provocato. La sincerità che ne traspariva avrebbe potuto commuoverla.
«Sì. Ma non andrò mai più a cavallo,» dichiarò la bambina, dopo un attimo di esitazione.
Regina sorrise, divertita da quelle parole. Arrendersi alla paura non era certo nel suo stile.
«Che sciocchezza! L’unico modo di superare la paura è affrontarla - le disse con dolcezza - e rimontare in sella a quel cavallo appena possibile.»
E lei lo sapeva bene. Dopo la sua prima caduta da cavallo aveva avuto il terrore anche solo di avvicinarsi alle stalle; era stata proprio una giovanissima Emma, ancora garzona del precedente stalliere, ad aiutarla a vincere la sua paura.
«Vi ringrazio,» disse la bambina, di nuovo con quel tono grato e incredibilmente sentito che Regina non aveva mai percepito in nessun altro.
«Io sono Regina!» si presentò, un sorriso luminoso dipinto in volto. Quella ragazzina era davvero dolce.
La bambina ricambiò il sorriso, timidamente.
«Io mi chiamo Biancaneve.»
E Biancaneve la abbracciò, stringendosi riconoscente a lei. Regina le accarezzò i capelli, lanciando uno sguardo alle sue spalle e trovando la figura di Emma ancora ferma in cima alla collina. Sicuramente aveva visto tutto.

 

«Emma!» urlò Regina, spalancando il pesante portone di legno della stalla. «Emma!»
Emma riconobbe all’istante quella voce e si affrettò a raggiungere Regina, che sembrava in preda al terrore. La bionda fu pronta a spalancare le braccia non appena l’altra corse verso di lei, ricevendo in cambio una stretta tanto forte che sapeva di disperazione.
Tra le mani, Emma sentì i muscoli della mora rilassarsi appena, il cuore decelerare lentamente, i respiri tornare regolari. Chiedendosi ancora cosa Cora avesse fatto, perché il terrore che scorgeva negli occhi di Regina poteva essere causato solo da quella donna, Emma rimase spiazzata dalle parole che udì.
«Sposami, ti prego».
Grandi e calde lacrime brillavano negli occhi di Regina ed Emma avrebbe solo voluto accettare, ma non poteva permettere che una decisione tanto importante nella vita dell’altra venisse presa d’impulso.
«Regina, che stai dicendo? Cosa è successo?» chiese quindi Emma, sentendo il cuore incrinarsi di fronte allo sguardo smarrito e supplicante di Regina.
«L’hai detto a tua madre?» aggiunse la ragazza, quasi incredula. Avrebbe avuto senso una reazione del genere.
«No!» rispose Regina, quasi come se considerasse assurda l’idea. «E adesso è troppo tardi, non capirebbe mai.»
Regina quasi non riusciva a parlare, tanto i singhiozzi la scuotevano. Emma era sempre più preoccupata: non riusciva a capire cosa mai potesse essere successo da ridurre Regina, la sua dolce Regina, in quel modo.
«La bambina che ho salvato» disse la mora, facendo una pausa per accertarsi che Emma capisse fino in fondo la situazione, «è la figlia del re. E per questo lui ha chiesto la mia mano».
«Che cosa?» domandò Emma, la voce appena udibile e un disperato desiderio che tutto quello fosse un incubo, solo un incubo.
«E mia madre ha accettato per me,» concluse Regina, voltando le spalle alla ragazza per non vedere quello sguardo di incredulità negli occhi di Emma, che rimase a bocca aperta, incapace di reagire.
«L’unica soluzione è fuggire,» disse infine la mora, dopo pochi istanti di silenzio. «Andiamo via da questo posto, sposiamoci e non torneremo mai più».
Regina si voltò verso la sua amata; immediatamente, Emma prese le mani di lei tra le sue, stringendole e guardando la ragazza di fronte a lei con amore e disperazione.
«Regina, riesci a capire cosa significherebbe?» sussurrò Emma, preparandosi a confidarle le uniche paure che aveva sempre avuto nei confronti della loro storia. Lei sapeva di non poter offrire una vita degna per Regina, e mai ne sarebbe stata in grado. «La vita che può darti uno stalliere è molto diversa dalla vita di corte.»
Ma Regina, ancora una volta, riuscì a cancellare le sue paure in pochi istanti, in poche parole.
«A me non importa della corona,» disse la mora, prendendo il volto di Emma tra le mani e costringendola a guardarla. «Emma. A me importa solo di te.»
Emma chiuse gli occhi, sopraffatta da tutto l’amore che sentiva trasparire da quelle poche parole. Strinse la mano di Regina nella sua, accarezzandone la pelle morbida e beandosi del suo tocco gentile sul viso.
«Se davvero vuoi sposarmi - disse Emma, baciando le dita morbide e leggere di Regina - voglio fare le cose per bene».
La bionda si allontanò dall’amante e, cercando di controllare il tremolio delle mani, slegò il piccolo cerchietto d’oro da una sella. Sentì Regina trattenere il fiato alle sue spalle e questa reazione strappò a Emma un sorriso luminoso, di quelli che solo la mora riusciva ad accendere. Regina non distolse gli occhi dal volto sereno di Emma, mentre il cerchietto d’oro veniva infilato sul suo anulare sinistro. L’anello era quanto di più bello Regina avesse mai visto in vita sua. Non era pesante, sfarzoso o brillante come quei gioielli che Cora la costringeva a portare. Era semplice ed era discreto, ma racchiudeva in sé il significato di qualcosa di così grande come l’amore che univa le due ragazze da renderlo l’oggetto più prezioso che Regina avesse mai posseduto. Non ci fu bisogno di parlare, bastò uno sguardo negli occhi dell’altra per capire quel tumulto di emozioni che regnava nei loro cuori e che riuscì ad essere trasmesso solo con un bacio dolce e pieno di promesse per un futuro che avrebbero affrontato insieme, per quanto difficile si sarebbe rivelato. Fu un rumore improvviso, un tonfo sordo di un pesante oggetto che cade a terra, a scuotere le ragazze dal quel loro piccolo momento di tranquillità, dall’illusione che sarebbe andato tutto bene.
«Biancaneve, cara, ma che ci fai qui?» domandò Regina, scostandosi velocemente da Emma, rimasta paralizzata nell’intuire la situazione.
La bambina rimase paralizzata. Poi si voltò e fuggì nella notte.

 
L’amore, il Vero Amore, è magico. E non è una magia qualunque; l’amore è la magia più potente di tutti. Ci rende felici e spensierati.
Ma alcune persone, come la madre di Regina, non lo possono capire.
 
Regina correva a perdifiato, una borsa leggera stretta tra le mani con il minimo indispensabile per la fuga che aveva progettato con Emma. Raggiunse la stalla, l’unico faro di luce in quella nebbia densa e fitta che inghiottiva ogni cosa, e sorrise non appena vide la bionda, evidentemente in attesa.
«Sei pronta?»
Regina ignorò momentaneamente la domanda, preferendo baciare Emma e pensando che, da quel giorno in poi, non sarebbe più stato necessario nascondersi.
«Andiamo» sorrise Regina, stringendo la mano dell’altra con forza, prima che mondo crollasse sotto i loro piedi.
«Potevi lasciare un biglietto, almeno».
La voce di Cora, affilata e tagliente, fendette l’aria, arrivando a ferire con il terrore i cuori di Emma e Regina. La donna alzò le mani e Regina ebbe appena il tempo di capire che sua madre stava per ricorrere alla magia prima di essere catapultata all’indietro e colpire il duro pavimento della stalla. Ignorando il dolore lancinante, la mora lanciò uno sguardo preoccupato ad Emma. Era scossa almeno quanto lei, ma sembrava illesa.
La figura imponente di Cora troneggiava su di loro, lo sguardo duro sembrava tenere le ragazze inchiodate al pavimento. Una delle porte della stalla si chiuse con un tonfo tetro. Regina, a differenza di Emma, non ebbe bisogno di voltarsi per sapere che Cora stava bloccando loro ogni via di fuga.
«Madre, io-»
«Silenzio!» intimò Cora, la furia che le deformava il volto.
Regina si azzittì; la sua mano cercò inconsapevolmente quella di Emma, e solo il contatto riuscì a rassicurarla.
«Esci nel cuore della notte e credi che non me ne accorga?» sibilò Cora. «Come hai osato?»
Emma si rimise in piedi, aiutando Regina a fare lo stesso. Lo sguardo di entrambe le ragazze era fisso su Cora e sulle sue mani, da cui rischiava di scaturire un altro incantesimo.
Sembrava che Emma fosse quasi intenzionata a frapporsi tra madre e figlia, ma Regina si mise in mezzo, spingendo l’altra dietro di sé, mentre affrontava Cora.
«È impossibile discutere con te,» disse la giovane, gli occhi colmi di lacrime trattenute a stento. «Ora basta con la magia. Ti prego, ascoltami.»
Cora sembrò tranquillizzarsi. Il suo sguardo duro vagò per un momento su Emma, notando come Regina stesse cercando di proteggerla con il suo corpo minuto.
Emma si rese conto di quello sguardo, e istintivamente avvolse un braccio intorno alla vita di Regina, un po’ per tenerla vicina a sé, un po’ per essere pronta a spingerla via in caso di pericolo.
«Voglio passare la mia vita con Emma,» disse la mora, sperando con ogni fibra del proprio essere che Cora provasse almeno a capirla. Sua madre si lasciò sfuggire una smorfia di disprezzo tale che Regina non sarebbe mai riuscita a dimenticare quell’espressione per il resto della vita.
«Tu non sai cosa vuoi. Io però sì».
Cora fece una pausa, senza mai distogliere lo sguardo dagli occhi umidi della figlia.
«Non mi sono imposta questi sacrifici per vederti arrivare a un passo dalla cima e poi rovinare tutto sposando un povero stalliere!»
Il tono della donna era andato crescendo, così come cresceva, nel suo animo, l’orrore per l’intenzione di Regina di rifiutare la corona e la paura che lei potesse davvero riuscire nel suo intento.
Sua figlia non le somigliava affatto, in nessun aspetto, se non per una cosa: la determinazione. Se Regina voleva sposare Emma, Regina sarebbe riuscita a farlo. A meno che Cora non fosse intervenuta tempestivamente, eliminando il problema alla radice, per il bene di sua figlia.
«Ma questa è la mia vita!» protestò Regina, sporgendosi in avanti e sentendo sul ventre la pressione del braccio di Emma che la tratteneva.
Cora scoppiò a ridere, di una risata che fece gelare il sangue nelle vene delle ragazze. Emma poté giurare di non aver mai sentito una risata più cattiva di quella.
«Tu vaneggi!» esclamò la donna, con una luce quasi folle nello sguardo. «È la mia vita. Dopo quello che ho dovuto fare… Gli accordi che ho stretto per tirarci fuori dalla povertà e ottenere ciò che abbiamo. E adesso tu vuoi buttare via tutto?»
Regina sentì il suo cuore spezzarsi in due: da un lato sapeva che le agiatezze, le comodità e la bella vita che aveva avuto le doveva a sua madre; dall’altra, l’amore per Emma le diceva di non ascoltare quelle parole, di fuggire e di non guardarsi mai indietro.
«Cerca di resistere, Regina,» mormorò Emma al suo orecchio, infondendole quel coraggio di cui aveva così disperatamente bisogno.
«La tua magia non riuscirà mai a separarci,» disse la ragazza, alzando fieramente la testa e guardando sua madre dritta negli occhi. Guardandola, così bella anche con gli occhi lucidi, così coraggiosa e determinata, Emma la amò ancor più disperatamente.
«Io la amo,» disse Regina, come se quella fosse l’unica verità che contasse.
«E io amo lei,» intervenne Emma. Le parole sgorgarono dal suo cuore prepotentemente.
«Non sei l’unica ad amarla,» rispose Cora. Parole brusche, parole dette per rabbia, non per amore. Non c’era traccia di amore in Cora Mills.
«Se mi amassi ti importerebbe dei miei sentimenti!» le rinfacciò Regina.
«E se tu mi amassi non cercheresti di scappare».
«Perdonami, madre, ma stiamo parlando della mia felicità! Ce ne andiamo».
Regina ed Emma mossero qualche passo in avanti, insieme, prima che Cora alzasse di nuovo la mano, una leggera foschia bianca ad avvolgerla in filamenti. Magia, di nuovo.
Regina si fermò.
«No, non lo farete,» disse Cora, abbassando la mano lentamente, ora che aveva ricordato alla figlia quanto forte fosse il suo potere su di lei, ma soprattutto su Emma.
Sarebbe bastato un gesto per uccidere entrambe. O anche solo una delle due.
«Come vorresti impedirlo? Hai forse intenzione di tenerci qui per sempre?» la sfidò Regina. «Perché è l’unica arma che puoi usare».
La mora fece un passo indietro, tornando tra le braccia sicure di Emma.
Nonostante la spavalderia che stava mostrando, temeva sua madre e la sua magia. Il tocco dell’amante bastò perché riuscisse a mantenere i nervi saldi.
Cora rimase in silenzio, studiando i volti delle due ragazze. Capiva perfettamente perché Regina avesse perso la testa per Emma.
Non si trattava solo della bellezza della bionda, si trattava soprattutto dell’anima che si poteva scorgere negli occhi sinceri di Emma: era un’anima forte, di chi è abituato a combattere ed è disposto a farlo ancora. La persona perfetta per Regina perché, Cora lo sapeva, nessuno aveva mai combattuto per sua figlia in quel modo e, se fosse diventata la moglie del re, nessuno lo avrebbe mai fatto. Non puoi essere amato o amare a tua volta, se il tuo obbiettivo è il potere.
E quella determinazione che brillava negli occhi di Regina, Cora la conosceva bene.
La donna abbassò lo sguardo a terra.
«Questo vuol dire che hai già deciso?» domandò Cora, pur conoscendo perfettamente la risposta.
«Credi che sarai felice in questo modo?» continuò, la voce bassa e vellutata. Regina non voleva quasi crederci: sembrava che sua madre si stesse arrendendo.
«Con lei, io sono felice,» mormorò Regina in risposta, con tutto l’amore e la passione che possedeva nascosti in quelle cinque parole.
Le spalle di Cora sembrarono afflosciarsi, come schiacciate dalla consapevolezza di quello che sua figlia provava.
«Allora non posso fermarti,» disse la donna con voce spezzata.
Regina si staccò da Emma, incredula. Fece pochi passi avanti e strinse sua madre nell’abbraccio più sincero che le avesse mai dato in tutta la sua vita. Cora strinse a sé il corpo esile della figlia, sfiorandole la schiena da sotto il mantello.
Regina si staccò per guardare in volto la sua genitrice, i begli occhi scuri ormai lucidi di lacrime commosse.
«Grazie infinite, madre,» sussurrò la ragazza, il cuore gonfio di amore e di speranza.
Cora abbassò lo sguardo, come affondata da quell’affetto che mai sua figlia le aveva dimostrato. Poi sollevò gli occhi, per puntarli in quelli di Emma. La ragazza era rimasta indietro, a scrutare la scena con un misto di affetto e felicità.
Non poteva crederci. Quando Cora era entrata in quella stalla, tutto aveva immaginato tranne che le avrebbe lasciate andare.
«Emma…» disse Cora, avanzando verso di lei e lanciando uno sguardo incerto a Regina.
Emma raddrizzò le spalle e guardò Cora con determinazione. La donna le posò una mano sulla spalla e la invitò a camminare; la ragazza la seguì di buon grado, preparandosi ad ascoltare ciò che Cora aveva da dire. Tuttavia la mano che la donna continuava a tenere sulla sua spalla la metteva a disagio, e le infondeva anzi una sensazione di inquietudine.
«Se volete avere una vita insieme… Una famiglia…» iniziò Cora, ponendo una certa distanza tra loro e Regina, che continuava a guardarli con occhi lucidi. «C’è una cosa fondamentale che devi imparare.»
Cora si fermò, voltandosi completamente a guardare la giovane Emma.
«A proposito dell’essere genitori: bisogna fare sempre ciò che è meglio per i propri figli,» disse la donna con dolcezza, inclinando il capo e guardando la ragazza di fronte a sé dritta negli occhi.
Emma annuì con un sorriso fiero.
«Grazie,» mormorò sentitamente, voltandosi a guardare Regina con amore. «Lo capisco.»
Regina ricambiò lo sguardo innamorato della sua compagna, felice che le cose fossero andate al proprio posto.
«Ed è ciò che state facendo voi,» disse Emma, tornando a guardare Cora.
La donna abbassò gli occhi sul petto dell’altra, come se stesse valutando qualcosa.
«Già, lo credo anche io».
Emma non la vide nemmeno arrivare, riuscì solo a scorgere una furia cieca negli occhi di Cora, una sete di potere senza fine, prima che la mano della donna si aprisse la strada, dolorosamente, fino a stringere il giovane cuore che batteva solo ed esclusivamente per Regina. Emma gemette appena, cercando di parlare, di urlare alla mora di correre e fuggire, scappare da sua madre, ma nessuna parola riuscì a fuggire dalle sue labbra.
«Madre! No! No!»
Il grido di Regina fu sovraumano, portava con sé un dolore e un’impotenza tali che Emma non aveva mai sentito prima di allora e che furono l’ultima cosa che udì, prima di cadere in ginocchio e accasciarsi sulla paglia umida. Inspirò per l’ultima volta il profumo di Regina, assaporò il momento di quelle mani leggere e di quell’ultimo abbraccio che la mora le regalò prima di chiudere gli occhi e cadere nell’oblio.
Cora fece cadere a terra il cuore di Emma ormai divenuto polvere senza distogliere lo sguardo dalla figlia. Quello che era appena successo le sarebbe servito da lezione per il resto della vita.
«Perché compiere un gesto così crudele?» gridò Regina verso la madre, il volto sconvolto dal terrore.
«Perché questo è il tuo lieto fine, Regina,» rispose Cora, con voce vellutata.
«Cosa?» domandò la giovane incredula. Non che le importasse davvero quella risposta, tutto ciò che le importava era avere di nuovo la sua Emma. Provò a baciarne le labbra calde, più e più volte, ma Emma non si mosse.
«Devi fidarti di me, so quello che faccio,» disse Cora, guardando con disgusto Regina, che si umiliava di fronte ai suoi occhi, aggrappandosi a una donna che mai più sarebbe tornata. «L’amore è solamente una debolezza».
Cora alzò la voce, volendo coprire gli irritanti quanto inutili singhiozzi di Regina.
La ragazza non la stava nemmeno ascoltando, la voce di sua madre la raggiungeva da molto lontano, tenue e appena udibile. Nulla importava, nulla aveva senso ora che aveva perso Emma.
«Adesso sembra tutto vero, all’inizio è sempre così, ma non è che un’illusione e sarebbe svanita, saresti rimasta con niente,» continuò Cora. Regina scosse la testa, i singhiozzi si stavano lentamente placando.
«Ma il potere, il vero potere, non svanisce. E non devi affidarti a nessuno per avere ciò che vuoi. Io ti ho salvata, cara,» concluse sua madre, ottenendo infine lo sguardo furioso, di Regina. L’ira in quegli occhi fu quanto di più piacevole Cora avesse visto quella sera, poteva rivelarsi una potente alleata.
«No, tu hai rovinato la mia vita. Io la amavo, madre. Io la amavo!» Regina gridò, accusando Cora e sperando che quella donna che si vergognava a chiamare madre capisse quando odio stesse provando in quel momento verso di lei.
«Basta!» ordinò Cora. «Ho tollerato già troppo la tua insolenza».
Regina si sentì strattonare dalla madre, sentì le sue mani, mani assassine, accarezzarle il volto e asciugarle le lacrime.
Ma Regina avrebbe solo voluto fuggire da lei, raggiungere Emma, ovunque fosse.
«Forza, devi andare a sistemarti. Queste lacrime vanno asciugate perché fra poco diventerai la moglie del re».
A Regina mancò il fiato nell’udire quelle parole, e sapeva che sarebbe caduta se la stretta possessiva di sua madre non l’avesse trattenuta.
Perché Regina era stata annienta, era priva di forze, priva di Emma, e non aveva ormai più ragione di combattere.

 
Regina si perse negli occhi verdi della ragazza, cercando di far smuovere il suo corpo e di riattivare il proprio cuore: sembrava che nessuno dei suoi organi e dei suoi muscoli rispondesse più ai comandi.
«Lei è la madre biologica?» la domanda uscì dalle sue labbra prima ancora che Regina se ne potesse rendere conto. Non era nemmeno quella la domanda che voleva porle, non era quello che voleva sapere.
Ma non poteva essere vero.
Non poteva assolutamente essere vero. Lei era-
«Salve…» disse la ragazza, imbarazzata.
E il mondo di Regina andò in mille pezzi. Perché quella voce… Quella voce era sua.
Era la voce dell’unica persona che Regina aveva amato.
Era la voce della persona che Regina pensava di aver perduto per sempre.
La donna ignorò le parole dello sceriffo di Storybrooke; o meglio, nemmeno le sentì, persa com’era nella contemplazione della ragazza che le stava dinnanzi.
La osservò in ogni minimo dettaglio, cercando qualche particolare che potesse dimostrarle che no, non poteva essere lei.
E poi la ragazza le tese la mano.
«Mi chiamo Emma. Emma Swan. Immagino che lei sia Regina.»







Angolo Autrici

Ed eccoci qui. Prologo un po' lungo, ma almeno rende l'idea. Penso abbiate capito da soli di che cosa si tratta, mmh? Comunque, è un'dea malsana che mi è venuta -dato che non ho nulla da fare- e ho trascinato la mia povera collega fanwriter in questa follia. Nulla, passo la palla a lei, e non dimenticate di farci sapere che ne pensate ;)
Cla


La povera collega fanwriter in realtà è felice di essere stata trascinata in tutto questo ;D
Comunque, spero che vi piacerà leggere la storia tanto quanto piace a noi scriverla.
Alla prossima!
:)
Trixie

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo I ***



 


 
Capitolo I



 
Regina sbuffò, arrotolandosi il lenzuolo intorno al corpo e voltandosi sul lato sinistro, tentando disperatamente di chiudere gli occhi e, con essi, di chiudere fuori i pensieri. Eppure le era quasi impossibile riuscire a farlo: quello che era successo appena un’ora prima era ancora vivido nella sua mente.
Non riusciva a spiegarsi tutto quello che stava succedendo. Non era possibile che Emma fosse lì. Anzi, non era possibile che Emma fosse viva. Non lei, non la sua Emma.
Eppure le erano bastati pochi minuti di conversazione con lei, davanti ad un bicchiere di buon sidro, per avere di fronte la pura e semplice evidenza. La ragazza che era appena arrivata in città era Emma, in tutto e per tutto.
Tranne che per un minuscolo dettaglio.
Non si ricordava di lei.
E questo poteva significare una sola cosa, cioè che anche Emma, in un modo o nell’altro, era stata raggiunta dalla maledizione.
Regina rotolò sulla schiena, fissando l’anonimo soffitto della sua camera da letto, e scalciò con rabbia le coperte. Si impose di calmarsi e di analizzare con raziocinio la situazione.
Doveva esserci una spiegazione, una spiegazione semplice e ovvia, che lei al momento non riusciva a intuire a causa dell’agitazione e della sorpresa.
Emma, la sua Emma, era arrivata a Storybrooke in compagnia di Henry, credendo fosse sua madre biologica. Naturalmente, suo figlio si sbagliava. Perché Emma era morta tra le braccia di Regina molti anni prima e nulla avrebbe mai potuto riportarla in vita, nemmeno la magia, e questo il sindaco lo sapeva fin troppo bene.
Un brivido di freddo percorse il corpo della donna, che si alzò a sedere di scatto per recuperare le coperte malamente ammucchiate ai piedi del letto. Si coprì, sdraiandosi sul fianco destro e lasciandosi sfuggire un gemito di frustrazione.
Eppure, e il pensiero la colpì con la forza di una valanga, esisteva la minuscola possibilità che Emma fosse effettivamente la madre biologica di Henry. Anche se la donna non aveva la più pallida idea di come suo figlio fosse riuscito a trovarla…
Regina si schiaffeggiò mentalmente. Doveva smettere di pensare a Emma come se fosse davvero lei. Doveva smetterla di pensare alla sua Emma.
Anzi. Doveva smettere di pensare a Emma in generale.
Ma era impossibile. Regina si passò le mani sul volto, gemendo di frustrazione. La sua vita procedeva tranquilla fino a tre giorni prima. Cos’era successo, cos’era capitato per scombussolare tutto?
Regina sapeva che a Storybrooke c’era una sola persona in grado spiegarle in che modo Emma potesse essersi presentata alla sua porta con Henry e quella persona era il signor Gold.
Il sindaco represse la propria rabbia nel cuscino, prima di lanciarlo a terra e alzarsi a sedere, decisa a risolvere la questione all’istante. Si allungò e raggiunse il telefono sul comodino. Aveva quasi finito di comporre il numero di Gold, con l’intento di buttarlo giù dal letto perché le desse una spiegazione, quando un pensiero le attraversò la mente.
Non aveva importanza come e perché Emma fosse arrivata a Storybrooke, dato che probabilmente aveva già lasciato la cittadina e Regina non l’avrebbe mai più rivista. Non c’era ragione perché Emma rimanesse. Aveva una vita fuori da Storybrooke che l’aspettava e Regina era sicura che non vi avrebbe rinunciato per un figlio che aveva abbandonato già una volta.
Riluttante, il sindaco ripose la cornetta e raccolse il cuscino da terra, sistemandolo dietro la testa. Cercò di tranquillizzarsi grazie a quella considerazione e decise di rinviare la questione alla mattina seguente, quando, a mente lucida, avrebbe affrontato Gold e i suoi stupidi giochetti di magia.
Camminando a passo svelto per le vie della città, Regina quasi non si accorse del maggiolino giallo parcheggiato fuori dalla stazione di polizia. Trattenendo a stento un ringhio e domandandosi perché la signorina Swan fosse ancora in città, Regina marciò ancor più speditamente verso il negozio dei pegni del signor Gold.
Aprì la fragile porta di legno con una manata, imponendosi di mantenere la calma.
«Gold.» disse, procedendo verso il bancone, dove l’uomo con cui le interessava parlare stava lucidando attentamente gli schinieri di una vecchia armatura.
Regina si chiese a chi fosse appartenuta, prima di riportare la sua attenzione sul signor Gold.
«Signor sindaco» sorrise mellifluo l’uomo, senza nemmeno degnarla di uno sguardo. «Qual buon vento la porta da me a quest’ora?»
«Emma Swan» tagliò corto Regina, indispettita dalla semplice presenza del folletto. «Sono sicura che lei sappia perfettamente di chi sto parlando.»
«Oh, in questo caso mi spiace deluderla» rispose il signor Gold, mettendo finalmente da parte gli schinieri e lanciando un’occhiata di finta ignoranza alla donna.
«Non so di chi stia parlando, purtroppo.»
Regina strinse i pugni e si morse l’interno delle guance visibilmente irritata da Gold. Poteva leggerglielo negli occhi, a quel maledetto folletto, che si stava incredibilmente divertendo.
«Lei sa perfettamente di chi sto parlando. Emma Swan si è presentata a casa mia, ieri sera. È la madre biologica di mio figlio. Non sono coincidenze, Gold, lo sappiamo entrambi.»
«Mio caro sindaco,» esclamò il signor Gold, allargando teatralmente le braccia. «Mi sta chiedendo spiegazioni del perché suo figlio è scappato ed è tornato con la madre biologica?»
Regina si domandò di come facesse l’uomo a sapere del fatto che fosse stato proprio Henry a portare lì Emma, ma il signor Gold le sorrise.
«Le notizie girano in fretta, in questa città.»
Regina si riprese in fretta.
«Non le sto chiedendo il perché delle azioni di mio figlio, Gold.» sbottò la donna, appoggiando le mani sul bancone, sporgendosi verso di lui. «Le sto chiedendo perché Emma Swan è…»
“Viva.” Avrebbe voluto dire.
Ma non lo fece. In un certo senso, ne aveva quasi paura.
Aveva paura non solo di scoprire il perché di ciò che stava succedendo. Aveva paura soprattutto di scoprire che Emma, in qualche modo, non fosse la sua Emma: ne aveva paura e insieme lo sperava.
E quei sentimenti la confondevano.
«…qui» concluse infine il sindaco, dopo una breve pausa.
Il signor Gold sorrise, ma Regina non avrebbe mai definito quella smorfia un sorriso, quanto piuttosto un ghigno.
«Lei è una donna dotata di una forza di volontà spiazzante, oserei dire» commentò l’uomo, con un gesto frivolo della mano che ricordò a Regina le sue lezioni di magia in compagnia di Tremotino.
«Cosa intende dire, Gold? La smetta con questi ridicoli giochi di parole» intimò il sindaco con voce tagliente.
«Intendo solo dire che questa città sembra essere stata costruita esattamente secondo il suo desiderio, mio caro sindaco, e che ognuno si trovi esattamente dove, secondo il suo volere, deve trovarsi. Se Emma Swan è qui è perché lei lo vuole e lo permette» disse l’uomo, con finto tono di supposizione. Regina si morse il labbro inferiore e strinse le mani con forza. Con un ultimo sguardo di sfida e rabbia furente dritto negli occhi di Gold, il sindaco girò sui tacchi e uscì quasi correndo dal vecchio negozio, sbattendo con forza la porta e facendo tintinnare molti dei numerosi gingillati li stipati. Se solo avesse prestato maggiore attenzione all’uomo e meno alla propria ira, Regina sarebbe anche riuscita a cogliere il suo ultimo sussurro.
«E, dopotutto, non ho saputo dire di no a quella piccola clausola, cara».
Regina avrebbe dovuto immaginare che chiedere aiuto a Tremotino sarebbe stato come chiederlo a un sasso. Chiedere ad un sasso, perlomeno, le avrebbe evitato le prese in giro e le espressioni irritanti dell’uomo.
Il sindaco dovette fermarsi qualche istante per riprendere il controllo delle sue azioni. Si appoggiò stancamente al muro del negozio dei pegni, pizzicandosi la punta del naso con le dita. Non era da lei perdere le staffe in quel modo: in città era famosa per il suo portamento elegante e per la sua immutabile calma. Non poteva permettere ad un ricordo del passato di distruggere tutto ciò che aveva così faticosamente costruito, nemmeno se quel ricordo era proprio ciò che aveva fatto scaturire tutto.
Respirando profondamente, Regina tentò di riordinare i suoi pensieri.
Ma lo squillo del suo telefono cellulare la fece sussultare, distraendola da quel vago –e inutile- tentativo.
Estrasse l’aggeggino dalla borsa.
«Regina Mills.»
«Sindaco Mills?» la voce all’altro capo era debole e timorosa. «Sono la segretaria della scuola, signor sindaco. La maestra di Henry ci ha appena comunicato che suo figlio non era a lezione, oggi.»
Il cuore di Regina fece un balzo.
«…e lei aveva dato direttive di chiamare ogni qualvolta Henry…»
«Conosco benissimo gli ordini che ho dato alla scuola, signorina.» sbottò Regina, cercando di controllare il tremolio nella voce. «Henry è a casa malato. Per questo non era a lezione.»
«Spero non sia nulla di grave, sono sicura che guarirà presto» rispose la segretaria, con una punta di compassione nella voce che Regina trovò fastidiosa.
«Non ho bisogno di essere rassicurata, signorina. Ora, se non le dispiace, ho delle faccende importanti da sbrigare, grazie della telefonata» disse il sindaco, attendendo la risposta all’altro capo del telefono prima di riagganciare, per non apparire eccessivamente scortese.
In fondo, la povera segretaria non aveva fatto nulla di male.
«M-Ma certo, sindaco Mills, a-arrivederci».
Dominando la propria paura - perché non aveva la minima idea di dove potesse essere suo figlio e, dannazione, se gli fosse successo qualcosa, Regina sapeva che sarebbe impazzita - il sindaco si diresse verso la propria macchina, i tacchi che risuonavano nell’aria mattutina di Storybrooke, seppur non così rumorosi da riuscire a sovrastare i battiti del proprio cuore. Non prestò la minima attenzione ai passanti, se non per assicurarsi che non si trattasse di Henry, e nella sua forsennata ricerca quasi superò l’entrata della stazione di polizia, dove si stava dirigendo. Aveva bisogno dell’aiuto di Graham perché gli riportasse suo figlio. In fondo, nella Foresta Incantata lui era il Cacciatore, qualcosa del suo istinto doveva sicuramente essere rimasto in lui.
«Graham!» esclamò Regina, direttamente dal corridoio, dirigendosi verso gli uffici; sistemò nuovamente il cellulare nella borsa. Il suono dei suoi tacchi era l’unica cosa che risuonava sul marmo. «Henry è scappato di nuovo, dobbiamo-»
Le bastò entrare negli uffici della stazione di polizia per interrompersi in ciò che stava dicendo.
Due paia di occhi, uno dei quali assurdamente familiare, si voltarono nella sua direzione. Regina deglutì, tentando di mantenere un contegno, avanzando nella stanza.
«Che ci fa lei qui?» domandò, rendendosi conto che la sua voce non rispondeva ai suoi comandi, uscendo più disperata e sconfortata di quanto volesse lasciare a vedere.
Decidendo di mettere da parte i suoi problemi, si avvicinò alla sbarre dietro le quali Emma Swan era appoggiata, gli avambracci mollemente abbandonati contro la grata, il volto incastrato tra due aste di ferro. La ragazza la guardò con espressione da cucciolo bastonato, l’espressione di chi desiderava essere ovunque meno che lì, e Regina dovette fare ricorso a tutto al suo autocontrollo per non cadere ai suoi piedi.
«Sa dov’è Henry?» disse invece.
«Non lo vedo da quando l’ho lasciato a casa sua» rispose la ragazza, drizzando la schiena come se volesse tenere testa al sindaco.
In realtà, non si trattava solo di una sfida nei confronti nell’altra. Il fatto era che sapere che Henry era scappato, di nuovo, aveva provocato una punta di dolore nel suo cuore più intensa di quanto Emma si sarebbe aspettata. A quel ragazzino poteva accadere qualsiasi cosa, davvero qualsiasi, persino finire nelle fauci del lupo che l’aveva quasi uccisa la sera precedente.
«E ho un ottimo alibi» aggiunse Emma, appoggiandosi allusivamente alle fredde sbarre della prigione.
«Non si è presentato a scuola, questa mattina» disse Regina, decidendo di mettere da parte qualsiasi sensazione, o emozione, la bionda di fronte a lei riuscisse a scatenare in lei in un momento come quello. L’ultima cosa di cui aveva bisogno era farsi distrarre e addolcire dagli occhi della bionda. La signorina Swan non era che la madre biologica di Henry e questo non poteva portare a nulla di buono.
Certo, se si trattava davvero della sua Emma, forse…
«Ha chiamato gli amici?» domandò la bionda, interrompendo i pensieri di Regina.
«Henry non ha amici.» rispose subito Regina, mascherando il senso di colpa. «È un tipo solitario.»
Dopotutto, se Henry non aveva nessun compagno di giochi, era gran parte per colpa sua. Sua e delle sue ossessioni, sua e del suo desiderio di vendetta. Per quanto l’infanzia del suo bambino fosse stata felice e spensierata crescendo, Henry aveva iniziato a capire come stavano davvero le cose, e a isolarsi dal mondo.
«A quell’età ce li hanno tutti.» replicò Emma senza guardarla. Lei stessa, per qualche motivo oscuro al sindaco, non sembrava molto convinta di ciò che stava dicendo.
Regina fu tentata di domandarle il perché, ma prima che dalla sua bocca uscissero quelle parole che l’avrebbero incastrata in una discussione scomoda, Emma tornò a guardarla.
«Ha controllato il computer? Potrebbe trovare qualcosa nelle email.»
Regina non voleva, non voleva che Emma cercasse di aiutarla. Non voleva avere una scusa per starle vicina, non voleva rendersi conto che il carattere di Emma Swan era così tremendamente simile a quello della sua Emma. Non voleva.
Eppure c’era una parte di lei, una minuscola e masochistica parte, che lo desiderava ardentemente.
«E lei cosa ne sa?» sbottò Regina, mascherandosi dietro a un tono sgarbato.
«È il mio lavoro» rispose Emma, stringendosi nelle spalle. «Ho un’idea. Fatemi uscire e in cambio vi aiuterò a trovare il bambino».
A Regina non sfuggì il finto tono di noncuranza con cui Emma pronunciò quelle parole. Glielo leggeva, nella voce e negli occhi, che qualcosa di quella situazione la stava spaventando. Si prese qualche secondo di pausa, riflettendo sulla proposta della ragazza, serrò le labbra e ascoltò il ticchettio dell’orologio. Nessuno osava muoversi. Regina sapeva perfettamente quale sarebbe stata la sua scelta. Certo, Regina faceva di tutto per ignorare quella sensazione di sollievo e di sicurezza che le proveniva dal sapere che Emma era disposta ad aiutarla nel ritrovare Henry.
«Graham, la chiave» disse infine il sindaco, porgendo la mano all’uomo senza nemmeno degnarlo di uno sguardo. Lo sceriffo acconsentì esitante e consegnò la piccola chiave a Regina, che si avvicinò alla cella lentamente, senza interrompere il contatto visivo con Emma.
«Non un passo falso, signorina Swan. Henry è mio figlio. E quando sarà di nuovo al sicuro in casa mia, lei tornerà a Boston, senza esitazioni. Sono stata chiara?» sottolineò il sindaco, infilando la chiave nella toppa, ma senza far scattare la serratura.
Emma strinse gli occhi e poggiò una mano su quella di Regina. A quel contatto, il sindaco si immobilizzò e trattenne il fiato.
«Chiarissima» rispose Emma, girando la mano del sindaco con un gesto leggero, ma deciso. La serratura scattò.
Regina rilassò i muscoli e fece immediatamente un passo indietro, come se si fosse scottata. Se si fosse trattato di una qualsiasi altra persona, probabilmente in quel momento si sarebbe ritrovata priva di una mano. Ma si trattava della sua Emma… no, si corresse Regina, si trattava della signorina Swan.
Lavorare fianco a fianco con Emma fu ancora più difficile di quanto avesse immaginato in precedenza.
Qualsiasi cosa la ragazza dicesse, qualsiasi cosa facesse, Regina si sentiva stringere il cuore al pensiero di quanto lei fosse simile alla sua Emma.
La ascoltava parlare con Graham e ricordava i sussurri che Emma era solita rivolgerle tra una cavalcata e l’altra; guardava le sue mani lavorare frenetiche al pc di Henry e ricordava il modo in cui Emma la sfiorava; osservava i suoi capelli e ricordava il loro movimento, il loro dolce ondulare, scossi dal vento.
Regina sistemò una maglia di Henry, persa nei suoi pensieri.
Più le ore passavano, più cercava di convincersi che quella non poteva essere Emma, non la sua.
Eppure, più le ore passavano, più si rendeva conto che era una coincidenza troppo strana, troppo particolare, troppo assurda per poter essere solo un caso.
E quando Emma la guardò, dritta negli occhi, chiedendole chi fosse Mary Margaret Blanchard, l’intestataria della carta di credito, Regina si rese conto di una cosa. Una cosa importantissima, che di sicuro le avrebbe causato molti altri problemi.
Regina si rese conto, il cuore stretto in una morsa e gli occhi di Emma che la scavavano a fondo, che anche dopo tutti quegli anni, era ancora innamorata di Emma Swan.
Per questo motivo, quando Regina rispose a quella semplice domanda, le parole scivolarono dalla sua bocca a fatica, colme di odio e rancore.
«La sua insegnante» disse. E la ragione per cui ti ho persa, aggiunse la sua testa.
«Non ci resta che andare a farle qualche domanda, dunque» annuì Emma alzandosi in piedi.
Lei e lo sceriffo Graham si scambiarono un’occhiata di intesa dirigendosi verso la porta della stanza di Henry. Regina strinse istintivamente le mani a pugno non appena la colse.
«Em-, signorina Swan» chiamò infine, facendo voltare la ragazza ormai sulla soglia. Dopo pochi secondi, il sindacò distinse i passi pesanti di Graham scendere le scale.
«Signor sindaco?» domandò Emma, disorientata e titubante, sulla difensiva.
«Mi chiedo se…» iniziò Regina, fermandosi e mordendosi il labbro. Mi chiedo se ti ricordi di me, Emma, di noi. Mi chiedo da dove vieni e come sia possibile che tua sia qua. Mi chiedo cosa provi, se hai qualcuno che ti aspetta a Boston. Mi chiedo se riuscirò mai a dimenticarti e quanto male ci farà questa storia, Emma.
«Mi chiedo quanto mi costerà il suo lavoro da investigatrice, signorina Swan» disse solo, schiarendosi la gola.
Emma scosse la testa, aprendo la bocca un paio di volte solo per richiuderla immediatamente.
«Io non…» rispose infine, «io non voglio nulla. Henry è anche… Henry è legato anche a me, in un certo senso» concluse la ragazza, stringendosi nelle spalle.
Regina sentì una stretta alla bocca dello stomaco, mentre quelle parole le facevano realizzare un altro dettaglio importante.
Henry era suo figlio, lei lo aveva adottato.
Ma, se tutto quello era reale e non era un brutto incubo, Emma era la sua madre naturale.
Alla fine ce l’avevano fatta, lei e Emma, ad avere un figlio. Regina per poco non sentì le gambe cederle, a quel pensiero. Si appoggiò con noncuranza al mobile dove Henry teneva l’intimo, sorreggendosi.
«Già. Così sembrerebbe.» rispose Regina, laconica.
Emma spostò il peso da un piede all’altro, in difficoltà. Alzò lo sguardo e incrociò quello nero e profondo di Regina, e per un attimo si sentì colpita da qualcosa.
Non avrebbe saputo definire che cosa fosse, ma non era sicura che fosse stato propriamente piacevole. La ragazza fece un passo indietro, rischiando quasi di inciampare nel tappeto.
Evitò lo sguardo di Regina. Non sapeva cosa aveva appena provato, guardandola negli occhi, e a lei non piaceva non sapere.
Regina, dal canto suo, si accorse che doveva essere successo qualcosa. L’espressione di Emma si era come trasformata, quando l’aveva guardata.
«Dovremmo andare dalla maestra di Henry, no?» disse incerta Emma. «Graham si starà chiedendo che fine abbiamo fatto.»
«Certamente, signorina Swan» rispose Regina, distogliendo a sua volta lo sguardo e osservando un angolo della stanza di Henry con ostinazione, fino a quando non sentì anche i passi di Emma, leggeri, ma decisi, scendere velocemente al piano inferiore. Regina si decise infine a seguire la giovane, cercando di ignorare quel profumo di cannella che si era lasciata alle spalle, e fermandosi a metà della scalinata, solo per scorgere Graham che teneva galantemente aperta la porta per Emma.
La ragazza gli lanciò uno sguardo sospettoso, prima di ringraziare con un debole sorriso e un cenno del capo.
«Non perdiamo tempo, per favore, ancora non ho idea di dove sia mio figlio» disse Regina con voce tagliente.
Scese gli ultimi scalini, i tacchi che risuonavano violentemente, e uscì dalla propria casa con un sguardo d’ira nei confronti di Graham.

Il breve viaggio in auto era stato uno delle situazioni più tese che Emma avesse mai vissuto. Seduta sul sedile posteriore, si sentiva come quando, da piccola, i suoi genitori adottivi litigavano a causa sua. Allora, lei cercava di rannicchiarsi nel sedile di pelle, sperando che questo lo inghiottisse, sentendosi terribilmente colpevole. Ma ormai Emma era una donna adulta e non era difficile intuire il legame che legava l’affascinante sindaco di Storybrooke a Graham.
«Chi tipo è questa… Mary Qualcosa Blanchard?» chiese con curiosità, ciascun gomito appoggiato a uno dei sedili anteriori. Involontariamente, il suo sguardo accarezzò la scollatura di Regina Mills. Non era difficile intuire perché Graham la trovasse attraente nonostante la differenza di età. Se solo non fosse stata una tale stronza…
Però, si disse Emma, leccandosi involontariamente le labbra, Regina aveva davvero qualcosa di magnetico. Forse era proprio la sua stronzaggine a renderla tale, ma la donna possedeva un fascino e un portamento che Emma non aveva mai visto in nessuno.
«Una principessina innocente.» sbottò Regina. E non era esattamente una bugia.
Le sue parole fecero riscuotere Emma, che distolse immediatamente lo sguardo dalla scollatura del sindaco. Fece vagare lo sguardo nell’auto, alla ricerca di qualcosa che la distraesse dai pensieri che aveva appena avuto. Non la conosceva nemmeno da ventiquattro ore e già meditava come fosse portarsela a-
Dio, la sua vita sessuale faceva davvero schifo.
«Una…principessina?» borbottò Emma, pizzicandosi la radice del naso.
Le parole che Henry le aveva detto la notte precedente balzarono improvvisamente alla sua memoria.
Favole. Principesse. Cavalieri.
Regine.
«Mary Margaret è una donna molto tranquilla.» intervenne Graham, come per placare l’irritazione che Regina sembrava provare ogni volta che si nominava la maestra. «Fa volontariato un po’ ovunque, in città. Non ha mai dato fastidio a nessuno e, anzi, è una persona davvero gentile.»
«Innocente.» ripeté Emma.
“Innocente. Certo.” Pensò Regina con stizza, stringendo i pugni sul volante.
«Candida come la neve» aggiunse sarcasticamente il sindaco, frenando bruscamente di fronte alla scuola elementare di suo figlio.
Emma si accorse che Regina era scesa dalla macchina solo quando il sindaco chiuse la portiera con violenza, tanto erano stati repentini e affrettati i suoi movimenti. Graham si affrettò ad imitarla, ma quando fece per seguirla, si ritrovò il passaggio bloccato dalla portiera che Emma aveva appena aperto.
«Prova a chiedere loro se conoscono Henry, se giocano con lui. Sanno che sei lo sceriffo e sei gentile, ti risponderanno» disse Emma, indicando con la testa i bambini che in quel momento stavano uscendo nel cortile.
«Io mi accerterò che il sindaco non uccida nessuno».
Graham sorrise appena scuotendo la testa e fece per ribattere. Non aveva la minima intenzione di prendere ordini dall’ultima arrivata, ma Emma si era già dileguata e ormai era alle calcagna di Regina. In pochi secondi, scomparvero in rapida successione all’interno della scuola.

Emma perse di vista di vista il sindaco, ma non fu difficile ritrovarne le tracce. Chi altri avrebbe mai potuto portare dei tacchi tanto rumorosi in una scuola elementare?
«Sarei qui, se così fosse?» le sentì dire, non appena entrò nell’aula dove una donna minuta, dai capelli corti e il viso delicato, cercava di non soccombere sotto lo sguardo accusatore di Regina.
«Gli ha dato la sua carta di credito per rintracciare questa donna?» incalzò il sindaco, non appena percepì la presenza di Emma nella stanza. Un brivido le percorse la schiena.
«Mi scusi, lei sarebbe?» disse la maestra. Emma notò che tra le mani stringeva una pera; aggrottò le sopracciglia.
«Io sono…» Emma stava per rispondere. Davvero, stava per farlo. Ma cosa poteva dire? “Sono sua madre”? Non poteva, non davanti al sindaco. «Sono…»
«La donna che dieci anni fa lo ha abbandonato.» concluse Regina per lei, salvandola da quella risposta imbarazzante e allo stesso tempo rovesciandole addosso la nuda e cruda verità.
Dal canto suo, per Regina sembrava essere molto più facile pensare ai difetti di Emma, che non ai pregi che conosceva già molto bene.
Mary Margaret sembrò rendersi conto della tensione che aleggiava in quella stanza, così si limitò a cercare di risolvere la questione per cui il sindaco era arrivata fin nella sua aula. Appoggiò la borsa sul banco di fronte a lei ed estrasse il portafoglio.
«Non sa niente di questa storia, vero?» domandò Emma, sapendo già la risposta. Poteva capire quando le persone mentivano, e Mary Margaret non era una di queste. Anzi, ad un primo giudizio, la maestra sembrava una di quelle persone programmate per dire solo la verità. Improvvisamente, Emma capì perché Regina l’avesse paragonata ad una principessa innocente.
La voce di Henry sempre viva nella sua mente le lanciò un avvertimento, che Emma ignorò prontamente.
«No, purtroppo non so niente.» rispose infatti Mary Margaret, corrucciata.
Abbassò il proprio portafoglio, mostrando alle due di come fosse stato defraudato di tutte le carte di credito.
«È un tipo sveglio.» mormorò la donna, quasi a se stessa. «E io non dovevo dargli quel libro.»
«Ma che cos’è questo libro di cui tutti parlano?» sbottò Regina con irritazione.
«È solo un vecchio libro di fiabe. Come lei certo saprà, Henry è un bambino speciale» rispose Mary Margaret, cercando di nascondere il proprio spavento a causa della reazione del sindaco.
Sia Emma che Regina furono catturate immediatamente dalle sue parole, entrambe avide di conoscere dettagli di Henry o, semplicemente, di sentirsi dire quanto di bello ci fosse in lui. Sul volto di entrambe, Mary Margaret vide disegnarsi un identico sorriso d’orgoglio.
«È così intelligente e creativo. E come di certo si sarà accorta, molto solo».
Il sorriso di Emma si trasformò immediatamente in un’espressione preoccupata. Poteva fingere a lungo, che di Henry non le importasse poi molto, ma era suo figlio. Aveva rinunciato a lui per potergli regalare la migliore opportunità di vita e le cose, come al solito, non sembravano andare come aveva programmato.
«Gli serve solo di tornare alla realtà. Sto perdendo tempo» ribatté Regina, con rabbia.
Si voltò e Emma indietreggiò istintivamente, mentre il sindaco scaraventava a terra, di proposito, a parere della ragazza, una pila di libri.
«Faccia buon ritorno a Boston» sibilò poi Regina passandole accanto, senza nemmeno guardarla.
Perché così sarebbe stato più facile, pensava il sindaco. Allontanarla, non poterla raggiungere, certo non oltre i confini di Storybrooke, avrebbe reso le cose più facili, le avrebbe riportate alla normalità.
Regina sarebbe tornata ad essere l’unico punto di riferimento per Henry e Henry sarebbe stato di nuovo quello della donna. Per Emma Swan, chiunque fosse, non poteva esserci spazio nella loro vita.
Peccato solo desiderare che la seguisse, che la aiutasse in quel momento in cui non aveva nessun altro disposto a farlo per propria volontà e che le riportasse Henry, di nuovo.
E poi Regina ne era sicura: come avrebbe fatto a vivere tranquillamente la sua vita, sapendo che la copia esatta dell’unica donna che aveva mai amato era a poche ore di auto da lei?
Come avrebbe fatto a svegliarsi ogni giorno, sapendo che Emma –Emma!- era viva, per qualche strano e assurdo modo, e così vicina alla sua vita?
E d’altro canto come avrebbe fatto ad andare avanti, sapendo che la donna che non aveva mai smesso di amare viveva tranquilla, amando il loro stesso figlio ma non amando e non ricordandosi di lei?
Regina si prese la testa tra le mani, disperata.
Emma tamburellò sul volante, guardando la casa del sindaco dal finestrino dell’auto.
Aveva trovato Henry immediatamente dopo aver scambiato poche parole con la sua maestra; il difficile era stato convincerlo a tornare a casa. Emma non riusciva a capire se il figlio che aveva dato in affidamento era molto fantasioso o solo molto problematico. In ogni caso, non era sicura che la soluzione migliore fosse lasciarlo nuovamente solo.
Si era riscoperta a tenere a quel bambino, e alla sua salute.
E a Regina, disse una vocina nella sua testa, che Emma scacciò immediatamente.
Ma la verità era che Regina la metteva in difficoltà. E lei non era mai stata messa in difficoltà.
«Forza, ragazzino» sospirò Emma, facendo un cenno a Henry perché scendesse dal maggiolino.
Fianco a fianco, i due si incamminarono lentamente lungo il vialetto della casa di Regina. Emma apriva e richiudeva la bocca in continuazione, alla ricerca di qualcosa da dire, senza trovare le parole adatte.
A salvarla fu Regina Mills stessa aprendo di colpo la porta di ingresso, riportando bruscamente Emma alla realtà. La ragazza non riuscì a reagire abbastanza prontamente per fermare il ragazzino e salutarlo, dato che Henry si precipitò in casa senza degnare la madre adottivo di uno sguardo.
Emma, al contrario, le dedicò più sguardi di quanti le fosse civilmente consentito.
«Grazie» disse Regina, avvicinandosi lentamente verso di lei. Emma nascose un sorriso divertito.
Il tono del sindaco le era sembrato dolce e il modo in cui le si stava avvicinando, con le mani costrette nelle piccole tasche della giacca, i passi deliberatamente lenti, lungo una linea perfettamente retta, suscitò un senso di tenerezza che la colse di sorpresa. Sul serio, si trattava pur sempre di Regina Mills.
«Nessun problema» minimizzò infine Emma.
«Sembra che Henry l’abbia presa in simpatia» commentò Regina, pochi metri a separarle.
«È una cosa strana. Ieri era il mio compleanno. Ho comprato un dolcetto e ho spento una candelina. Ho espresso un desiderio». Emma fece una pausa, studiando la reazione di Regina, poi proseguì. «Che non avrei mai più passato da sola il compleanno. E poi Henry ha bussato…»
E mi ha portata fino a Storybrooke e ho scoperto di voler bene a mio figlio e che sua madre… che sua madre…, pensò Emma, ma non ebbe il coraggio di proseguire, la sua voce si affievolì appena, nascondendo un tremore appena percepibile.
«Spero che non si stia facendo illusioni» si inserì Regina, approfittando di quell’esitazione troppo lunga.
Regina nemmeno pensava a quello che stava dicendo. Emma la terrorizzava, la destabilizzava. Al sindaco sembrava quasi di avere una lotta al suo interno: per metà avrebbe voluto prendere Emma per mano, trascinarla in casa e raccontarle tutto; per l’altra metà avrebbe desiderato spingerla via, fuori dalla sua vita, dalle loro vite: allontanarla, scottarla, far sì che non provasse più alcun desiderio di restare.
Regina era spaventata.
E si domandò perché, delle uniche volte in cui si era spaventata nella sua vita, Emma dovesse essere l’unica costante.
«Come scusi?» mormorò la ragazza, mentre il suo sorriso si spegneva.
Regina dovette fare ricorso a tutto il suo autocontrollo per non cedere davanti a quell’espressione delusa.
«Non prenda questi episodi come un invito a tornare da lui.» rispose. Non permise a Emma di dire nulla, perché sapeva che, se l’avesse fatto, probabilmente ne sarebbe uscita turbata. «Lei ha preso una decisione, dieci anni fa.»
Emma sembrò accusare il colpo, sbattendo rapidamente le palpebre. Rimase immobile, come se le parole di Regina nascondessero molto di più di ciò che davano a vedere. Guardò la madre adottiva di suo figlio, incapace di ribattere, lasciando che lei le rovesciasse addosso quella che non era altro che la verità.
«E in tutto questo tempo, mentre lei era… Chissà cosa era intenta a fare», tra le braccia di altri uomini, di altre donne, aggiunse Regina nella propria testa, muovendo un passo verso Emma mentre cercava di soffocare quei pensieri e riportare il discorso su Henry. «Sono stata io a cambiare i suoi pannolini, a curare ogni raffreddore e a sopportare ogni singolo capriccio. Lei lo avrà pure dato alla luce, ma è mio figlio.»
«Io non volevo per nien-»
«No! Non ha diritto di parola» la interruppe bruscamente Regina. «Lei non ha alcun diritto. Li ha persi nel momento in cui lo ha abbandonato».
Il sindaco si avvicinò di nuovo a Emma, pochi centimetri a separarle.
«Lei sa cosa è un’adozione chiusa? Dovrebbe, l’ha chiesta lei. Legalmente lei non ha alcun diritto su Henry, se lo ricordi».
Regina inspirò a fondo. Il profumo di Emma… il profumo di Emma era rimasto lo stesso. Per un istante, il sindaco esitò. Ma poi si ricordò di Henry e di tutto quello che aveva fatto per arrivare fino a lì e del perché lo aveva fatto. Ora, semplicemente, non poteva tornare indietro, giusto?
«Volevo solo…» iniziò Emma, scuotendo la testa esitante. Non era mai stata brava con le parole. «Volevo solo salutare Henry e… e anche lei. Sa, voglio dire, abbiamo passato del tempo insieme per via del ragazzino e ho adorato il suo sidro di mele. Per questo pensavo che lei… che io… che dovessi salutarla, ecco».
Emma si strinse nelle spalle, le mani nelle tasche posteriori dei jeans, gli occhi che sfrecciavano ora al cielo, ora al pavimento, ora su Regina. Soprattutto su Regina.
Il sindaco si morse il labbro inferiore. Era solo Emma, dopo tutto.
«È quasi ora di cena» disse infine, distogliendo lo sguardo della ragazza e posandolo in lontananza. «Come?» domandò Emma, confusa.
«Presti maggiore attenzione quando le persone parlano, signorina Swan. Ho detto che è quasi ora di cena. Può unirsi a me e a Henry, se lo desidera, poi salirà sulla sua auto e lascerà la città» disse Regina.
Il sindaco sapeva perfettamente che l’invito che aveva appena fatto a Emma altro non era che pazzia e che permetterle di rimanere, anche solo per qualche altra ora, non era affatto una buona idea.
Lasciarla andare, senza sapere se sarebbe mai tornata, sarebbe stato ancora più difficile.
Eppure, non riusciva a soffocare la speranza nel suo petto o a fermare il tremito delle mani, in attesa di un assenso che stentava ad arrivare.
Quando finalmente la ragazza rispose, il cuore di Regina mancò un battito.



NdA 
Grazie mille per le bellissime recensioni, sia da parte mia che di Cla, che ci informa gentilmente di aver mangiato troppo per aggiungere altro u.u 
Speriamo che anche questo capitolo vi sia piaciuto, soprattutto per l'inaspettata svolta finale... :D 
A presto, 
Cla & Trixie. 


 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2339943