A Light in the Darkness.

di Lauretta Koizumi Reid
(/viewuser.php?uid=92878)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cap 1: Distretto 12 ***
Capitolo 2: *** Cap 2: Petra ***
Capitolo 3: *** Cap 3: In the darkess... ***
Capitolo 4: *** Cap 4: ... a light. ***
Capitolo 5: *** Cap 5: Bolle e calci ***
Capitolo 6: *** Cap 6: Lei ***
Capitolo 7: *** Cap 7: Tre chili e quattrocento grammi ***
Capitolo 8: *** Cap 8: Azzurro cenere (I'll carry your world) ***



Capitolo 1
*** Cap 1: Distretto 12 ***


Quei bambini sono  un barlume di certezza, una consapevolezza che mi scava dentro e arriva fino al cuore.

Mi rincammino verso la panetteria cercando di riflettere, mentre nella bisaccia che porto sulla spalla il coniglio grasso che ho appena ucciso sbatte violentemente.
Ripenso a quando io avevo l’età di quella ragazzina nel Prato, a come sopravvivevo, a mio padre che ancora non se n’era andato, a Prim che era appena nata e stringevo tra le mie braccine magre, alla scuola e... agli Hunger Games. Benchè così piccola, sapevo che esistevano, ma i miei censuravano l’argomento ogni volta che i nostri televisori mostravano qualcosa al riguardo.
E poi: i miei Hunger Games. La Ghiandaia Imitatrice. Peeta. La guerra.  I morti. I tanti morti. E soprattutto, ogni cosa che è venuta dopo di loro. Che si è imposta.

 

Il Distretto 12 è irriconoscibile, dopo tanti anni. Ha un centro e una periferia, come al solito, ma nella periferia i giacimenti di carbone si contano sulle dita si una sola mano e ci lavorano in pochi, perché ora c’è la fabbrica di farmaci che tiene occupata in un lavoro dignitoso almeno la metà della popolazione del Distretto, che ha fatto presto a riempirsi. Senza il controllo di Capitol City, e con la nascita della Repubblica di Panem, i trasporti hanno fatto sì che ci si potesse muovere, se non in totale libertà, almeno con mezzi decenti, e molte persone si sono trasferte qui da altro Distretti, o noi abbiamo ricambiato il favore.
E poi, ovviamente, il tasso di natalità è salito.

Il Distretto 12 è un posto in cui si può vivere. Non soltanto sopravvivere.

Mentre cammino, scambio il coniglio grasso con molte quantità di sapone e di shampoo che produce Sarah, la ragazza proprietaria di un piccolo negozio profumato. Mi ringrazia. Per lei il grasso è come l’acqua, senza di quello nessun sapone può essere fabbricato decentemente. Sarah è il simbolo di tutto quello a cui ho pensato prima. Una ragazza di soli ventidue anni, che è riuscita ad aprirsi un’attività che non fosse illecita, che non patisce la fame, che è felice di poter fare ciò per cui davvero si sente portata.
Ormai il Forno non esiste più.
Sae la Zozza ha lasciato questo mondo pochi anni fa, divorata da un cancro allo stomaco. E poi ora non c’è più motivo di avere mercatini in nero, dato che le attività possono essere aperte senza problemi. Basta avere qualche soldo, un po’ di fortuna e il gioco è fatto. E il baratto non è una forma usuale di pagamento, ma è consentita.

A volte, dentro tutta questa novità, mi sento persa. Ma per fortuna, ancora pochi passi e ritroverò un luogo che non solo mi ricorda il vecchio Distretto 12, ma che per me è come una seconda casa. Mi avvicino e busso piano alla porta di vetro.

Mio marito sta ancora servendo i pochi rimasti prima dell’ora di chiusura. Mi vede e mi saluta. Io batto due dita sul polso a fare segno che è tardi ed è ora di andare a casa. Lui sbriga velocemente le ultime cose, poi spegne le luci e si dirige nel retrobottega, dove si darà una lavata alle mani, una scrollata ai capelli e si toglierà quel grembiule con ricamato “Il ragazzo del pane”, regalo idiota di Haymitch per i suoi trent’anni.
Cerco sulle mie mani l’anello con cui ho promesso la mia vita a Peeta, prima di ricordarmi che, dopo averlo macchiato di sangue una volta a caccia, ho deciso di legarlo a una collanina di corda nera che porto sempre al collo. La tiro fuori e osservo le lettere e la data incise dentro l’argento.

- Eccomi, Katniss.

Peeta scende le scalette e si avvia verso di me. Il solo vederlo mi ricorda i pensieri di poco prima. Quei bambini nel Prato.
Mi si stringe lo stomaco. Non so che pensare. Se gliene ne parlassi, lui direbbe che si fa come voglio io. Dio solo sa quanto Peeta sia una persona paterna, quanto dimori dentro di lui il desiderio di avere bambini. Dentro di me non c’è mai stato.
Ma ora credo di aver capito il perché, quando prima ho ripensato a tutti i cambiamenti del Distretto 12.

Prima non volevo figli, perché il solo pensare di crescerli in un mondo tanto sbagliato mi dava la pelle d’oca. Crescerli vedendoli mangiare sempre troppo poco, vedendoli affrontare gli Hunger Games e combattere la povertà. Poi il mondo è mutato lentamente, ma durante questi cambiamenti positivi io e Peeta eravamo ancora sull’orlo del crollo mentale e fisico. Ci saranno voluti almeno cinque anni perché la smettessimo di avere incubi ogni notte, perché Peeta non fosse più ossessionato dai flashback e io non avessi almeno quattro crisi di pianto al giorno.
Noi però eravamo sempre lì, l’uno per l’altra. Io abbracciata a Peeta ogni volta che i suoi occhi azzurri sparivano per lasciare posto a due buchi neri, la sua mano sulla mia testa quando mi accasciavo al tavolo senza forze, l’intreccio indivisibile che diventavamo ogni qualvolta ne avevamo necessità.
Ma la necessità non doveva portare nulla,  se non quelle ondate di calore e di piacere che accoglievamo con gioia, senza curarci di niente e nessuno. Tanto al massimo ci avrebbe sentito Haymitch, da nostro unico vicino di casa, ma so che gli strilli delle sue indisciplinate oche lo hanno stordito abbastanza da renderlo quasi sordo.
Perciò abbiamo fatto di tutto per accaparrarci un farmaco proveniente dalle avanzate fabbriche di Capitol City, una pillola che assumo ogni giorno e non ha mai riservato sorprese, se non qualche chilo in più e una brutta pelle al fondoschiena che nella Capitale odiano e definiscono “a buccia d’arancia”, una pelle contro cui esistono creme e soluzioni di qualsiasi tipo. Ma a me non dispiace un po’ di abbondanza, dato che me ne è sempre mancata. E queste imperfezioni sono un nonnulla rispetto a certi segni che ancora porto con me.
Comunque ora è stata prodotta anche nelle nostre fabbriche utilizzando prodotti naturali ed è ugualmente efficace, senza contare che costa almeno la metà.

 

Cinque anni passarono,  l’oscurità si dimenticò di noi, e noi di lei. Il Distretto 12 splendeva in tutta la sua speranza, che non era più nella Ghiandaia Imitatrice, ma nella politica, nella scuola, nella libertà, nei monumenti commemorativi, nei treni e nelle biciclette, nei negozi che producevano di tutto.
Peeta riaprì con successo la panetteria. Io cominciai ad andate a caccia come fosse un lavoro.
Poi Haymitch mi accompagnò in panetteria un giorno di inizio estate, e mi fece guardare dentro la vetrina. Era esposta una torta rossa, alta ma semplice, decorata con denti di leone di zucchero. E con la glassa riportava una scritta: “Mi vuoi sposare?”

Peeta dentro la vetrina rideva d matti con i clienti, quando mi accorsi chi erano. Effie, Annie con il figlio, Sae la Zozza appoggiata ad un bastone, mia madre, pallida e coraggiosa, Johanna con il fidanzato, Cressida, Tigris. Il Passato condito di Fiducia.
Credo di aver annuito e urlato sì, sotto la coltre di lacrime. E di non aver smesso di annuire e urlare per almeno un quarto d’ora. Tanto che Haymitch si lasciò sfuggire, con un sorriso giallastro, che non c’erano più scorte di morfamina per calmarmi.

Ero felice. Ecco la spiegazione. Non sentivo il bisogno di nulla. Non volevo altro.

Il senso di pace, di tranquillità, di sicurezza era una novità di cui mi sono stupita ogni giorno, ogni singolo giorno. Il periodo “in cui tutti concordano che certi errori non dovranno più ripetersi” stava durando più del previsto. Plutarch l’aveva vista giusta. “Forse questa è la volta buona, Katniss”.

Per questo, anche dopo dieci e quindici anni, non albergava dentro di me nessun desiderio di allargare il mio mondo.
Ma ora sì, esiste. E devo rifare il giochino del Dottor Aurelius, perché un conato di panico mi sta invadendo.

Mi chiamo Katniss Everdeen. Ho trentuno anni. Sono sposata con Peeta Mellark da dieci anni. Abitiamo nel Villaggio dei vincitori. Gli Hunger  Games non esistono più. Il Distretto 12 è un posto dove si può vivere e si può essere felici. Sei ancora giovane, e nessuno di porterà via niente. Niente.
Nessuno ti porterà via il tuo bambino.

Peeta mi porta di peso a casa e mi adagia sul letto. Sa che quando faccio così, solo le carezze e il calore delle coperte mi riportano a galla. E stavolta riemergo prima di quanto penso.

- Ciao cara. - mi dice con un sorriso. - Giornata impegnativa? Ho visto che hai comprato del sapone, hai fatto bene.
Gli sorrido anche io. Questa quotidianità, questa banalità, mi calma sempre.  
- Vado  a preparare per cena. - afferma alzandosi dal letto. - Oggi i crostini non hanno avuto molto successo al negozio, cerco di arrangiare qualcosa di decente.
Sta per andarsene, ma non posso farlo. Devo approfittare ora che lo so. Perché ho paura che aspettando troppo, qualcosa cambierà. E anche se dubito che cambierà, gli tiro lo stesso un lembo della camicia.

- Peeta.

Lui si volta.

- Ti devo parlare.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Cap 2: Petra ***


- La vuoi smettere? - urlo d’improvviso come una pazza, mentre Peeta per lo spavento quasi fa cadere il bicchiere d’acqua sulla tovaglia.

- Katniss, sei impazzita? Smettere di fare cosa?

- Di guardarmi così.

- Così come? - rimanda lui, stiracchiandosi la fronte con fare esausto.

- Così come se fossi matta! Pensavo che avresti reagito diversamente, sai?

Peeta scuote la testa e poi si alza da tavola, dicendo che va a prendere l’acqua che sta sul retro della casa e che teniamo fuori perché sia più fresca.

 

Io mi prendo il viso tra le mani e ripercorro quello che è successo una mezz’ora fa. Eravamo Peeta e io, seduti sul nostro letto. Io gli avevo detto che volevo parlargli, e lui si era fermato per ascoltarmi. E facendo leva su tutto il mio coraggio, avevo cercato di riassumergli in poche parole, spezzate, affrettate, ma pur sempre sincere, il mio desiderio di avere un bambino. Mi aspettavo che mio marito saltasse di gioia, mi abbracciasse, corresse per tutta casa.

E invece, il suo sguardo era come quello del Dottor Aurelius quando deliravo, quello di Haymitch quando gli dissi che volevo scendere dal treno infernale che mi aveva condotto sulla strada degli Hunger Games, prima della settantacinquesima edizione. Quello di Peeta, quando mi disse che nessuno aveva bisogno di lui. Compatimento. Pietà. Affetto. Dubbio.

Peeta aveva detto che era una notizia bellissima, ma si era limitato a dire questo. E che dovevamo mettere in tavola la cena. Poi non aveva fatto altro che lanciarmi occhiate circospette, quasi come si aspettasse che io da un momento all’altro fossi saltata su a urlare che in realtà era tutta una bugia, una farsa, un modo per accontentarlo.

Peeta non mi ha creduto, e all’ennesima occhiata furtiva gli ho urlato contro.

Complimenti, Katniss.

Ho il viso nascosto tra le mani e appoggiato sul tavolo, perciò non vedo Peeta arrivare. Ma sento la sua mano sulla mia testa. Come fa sempre, quando vuole calmarmi dagli attacchi di ansia. Ora però non ho nessun attacco d’ansia, accidenti. E lui lo capisce, perché d’un tratto mi sento sollevare di peso, e in men che non si dica, sulla sedia c’è seduto lui. Ed io gli sono seduta sulle gambe. Mi giro per inquadrare il suo viso.

- Scusami, Katniss, hai ragione tu. Non volevo ferirti, sono uno stupido.

Scuoto la testa.

- No, colpa mia. Fai bene a essere così diffidente, però... - le parole sembrano uscirmi a stento - però devi credermi. Non è una decisione affrettata. Non è un capriccio, o una pazzia. Io lo voglio sul serio. Non so come dimostrartelo...

- Non devi  dimostrare nulla. Ma se veramente vogliamo farlo, questa è una cosa da cui non si torna indietro, capisci?

Sì che capisco. Era la stessa cosa che pensavo di mia madre quando era in depressione. Ci aveva messo al mondo, ci aveva cresciute, e poi d’un tratto, BAM!, io e Prim non esistevamo più. Mia madre in quei momenti avrebbe forse voluto tornare indietro al momento della nostra nascita, e rifiutarci? Perché solo un tale desiderio giustificherebbe il lasciar quasi morire di fame due bambine. Sì, lo so, forse sono ingiusta. Mia madre era malata, molto malata. Tuttavia se c’è una cosa che ho capito, è che un figlio sposterà il mio universo in modo definitivo.

E ciò non mi spaventa.

Annuisco a Peeta e lo abbraccio. Poi sento qualcosa sussultare all’altezza della mia spalla, e capisco che è il suo volto che trema in preda a una risata. Mi scosto e lo vedo ridere come ha fatto poche volte. D’un tratto rido anche io. Ci facciamo il solletico, ci diamo pizzicotti e schiaffetti, attribuendo ad essi quelle lacrimucce che ci sporgono dai lati degli occhi, anche se sappiamo entrambi che non è vero.

Mi alzo dalla sedia, e mi allontano verso il bagno, finché Peeta non mi richiama.

- Cosa? - rispondo.

- Dobbiamo andare da Petra!

No.

No, ti prego. Tutto tranne quella donna. Lo sapevo che prima o poi sarebbe saltata fuori.

Si chiama Petra, ha circa quarant’anni, è vedova ed ha due figli. Si è trasferita nel Distretto 12 nientepopodimeno che da Capitol City, quando i trasporti hanno cominciato a essere legali e funzionanti. A dire di tutti, non è mai stata una vera abitante della capitale, detestava lo sfarzo e la follia collettiva della gente, si comportava e vestiva in modo modesto e tranquillo.

Come Cinna. Ma a differenza di lui, che portava la sua sobrietà senza esibirla, Petra fa della modestia un biglietto da visita che la rende ancora più vanitosa. E’ una tuttologa su quello che riguarda gravidanze, bambini, patologie dei genitali femminili, eccetera. A Capitol City era una ”ostetrico-ginecologa”. Quelle che noi chiamavamo levatrici o semplicemente dottoresse.

Facile per lei essere un’icona di conoscenza e sapienza spostandosi dalla capitale a qui. E’ come se un uomo con un occhio solo si trasferisse dal paese dei vedenti a quello dei ciechi. Sei venerata per forza. Non dico che non sia brava nel suo lavoro, ma c’è sempre qualcosa di vanitoso nel modo in cui lo fa. Peeta alza gli occhi al cielo, quando parlo così. Per lui è una donna buona, colta e gentile. E utile. Ma ancora deve esistere qualcuno nel mondo di cui Peeta non pensi bene.

- Dobbiamo proprio? - urlo - per fare un bambino, non basta, ecco....insomma, quello che sai?

Haymitch mi avrà sentito sicuro, visto che non mi prendo la briga di andare di là a parlare con Peeta ma gli urlo da una stanza all’altra. Chissà che cosa pensa.

Perciò è Peeta che viene nel bagno vicino a me.

- Anche quello, soprattutto quello. - ride. - ma credo che non basti. Dobbiamo vedere se è tutto a posto, farti prescrivere qualche vitamina e altre cose, correggere qualche abitudine sbagliata... insomma, partire col piede giusto.

Si vede che mio marito ci ha pensato in tutto questo tempo. Cosa faceva, rubava i depliant in Ospedale? E poi qualcosa nel suo discorso mi puzza.

- Tutto a posto, hai detto?

- Sì, esatto. Lì sotto, insomma. - dice indicando col dito il cavallo dei miei pantaloni, e poi rifugge il mio sguardo.

No. No.

No. Questo non glielo lascio fare.

- Vuoi farmi fare un’ecografia? - gli dico, strabuzzando gli occhi.

- Perchè no?

- Perchè costa, Peeta! - esclamo - costa parecchio!

Ed è così. All’ospedale del Distretto 12 ci sono queste tecnologie, ma il loro mantenimento è roba pesante. E a meno che tu non stia morendo di emoperitoneo, o altro, si paga.

Poi Peeta mi fa quello sguardo severo ma intenerito a cui non resisto. Accidenti, ha ragione lui. Ha sempre dannatamente ragione lui.

Abbiamo risparmiato sempre, possiamo permetterci questa cosa.

Annuisco. Però non gliela voglio dare vinta del tutto. E Haymitch credo si aspetti qualcosa di più, se veramente mi ha sentito urlare quelle cose prima.

Vai, dolcezza.

Di scatto bacio Peeta con foga e percorro il suo corpo tonico con le punte delle dita.

- E va bene - sussurro staccandomi - ma non potrai impedirmi almeno di portarmi avanti col lavoro.

E dal modo con cui mi stringe, mi solleva da terra, e mi riporta sul letto dove eravamo prima, credo sia d’accordo anche lui.

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Cap 3: In the darkess... ***


Batto nervosamente i piedi sul pavimento pulito della sala d’aspetto, che per fortuna è mezza vuota. Oggi non c’è molta gente che ha bisogno di Petra. Meno male. L’ultima cosa che avrei sopportato era una marea di sguardi addosso in un contesto del genere. Sono una persona direi abbastanza famosa, sono la Ghiandaia Imitatrice, quella che guardano tutti con rispetto, quella che ha dato inizio alla rivoluzione che ha portato il benessere di oggi. Non manca qualche sguardo di tristezza, perché il benessere e  la rivoluzione non si guadagnano se non a costo di qualche morte. Io lo so bene.

Dentro l’ambulatorio c’è un odore strano, un misto di disinfettante e vaniglia. Petra, con il solito sorriso dolce, ci accoglie.

- Buongiorno - esordisce con voce flautata - cosa posso fare per voi?

Vogliamo la tua consulenza perché vogliamo un bambino. Sì, la ragazza di fuoco e il ragazzo del pane hanno deciso di unirsi e di arricchire la loro vita su questa terra. Daremo vita a tante pagnottine bruciate. Ti piace il pane bruciato, dottoressa? Ecco, allora dimmi che non c’era bisogno di venire da te e che posso dare fuoco a mio marito quando mi pare e piace.

- Cerchiamo una gravidanza - dice Peeta con serietà guardando la mia espressione assente - e siamo qui per sapere cosa possiamo fare perché arrivi. Ho letto qualcosa riguardo a dell’acido folico e altre cose. Inoltre vorrei far fare un’ecografia a Katniss, se è possibile.

- Da quanto la desiderate questa gravidanza?

Rispondo io, stavolta.

- Dall’altroieri.

Peeta sopprime una risatina, ma Petra si illumina ignorando la mia risposta un po’ dura e canzonatoria, e da sotto la scrivania tira fuori una cartella.

- Ho bisogno di sapere qualcosa su di voi, allora.

Giunge un interrogatorio molto lungo, in cui riveliamo data di nascita, peso, altezza, allergie, malattie croniche che non abbiamo, lavoro, abitudini alimentari e altro. Petra boccia subito la  mia passione per le tisane, rivelando che possono avere effetti abortivi. Nelle malattie familiari, nulla da dire. A parte un leggero diabete del padre di Peeta e la depressione di mia madre. Sembrano sciocchezze, eppure lei le segna. Spero che non voglia insinuare che anche io possa rischiare una patologia del genere.

- Ok, facciamo l’ecografia, adesso?  Penso che si vedrà meglio se la facciamo interna.

Estrae una specie di tubo di plastica dall’aspetto molto equivoco, che dipinge sul volto di Peeta un mezzo sorriso allusivo. Gli arriva un pugno, se non se lo toglie dalla faccia. A parte lui, nulla ha mai scavato dentro la mia intimità. Non che debba essere geloso di una macchina, però...

La sonda fa male, ma cerco di stare zitta.

- Katniss, come sono le tue mestruazioni? Regolari?

- No. In realtà vanno e vengono come vogliono. Poi sono stata molto magra per alcuni periodi e sono sparite. Poi sono ritornate.

Sono stata magra per anni. Dopo gli Hunger Games, dopo l’Edizione della memoria, dopo la guerra. Il ciclo era l’ultimo dei miei pensieri. E la pillola mi dava solo qualche perdita programmata.

Petra insiste.

- In che periodo, ti ricordi?

Ma dalla mia bocca esce solo una cosa.

- Hunger Games.

 

E quindi la conclusione è questa.

Petra ci ha chiesto degli Hunger Games e della guerra come nessuno mai aveva fatto. Mi ha chiesto dei miei periodi di magrezza, di malnutrizione, ciò che ho mangiato, le sostanze nocive con cui sono venuta a contatto, come quel blob micidiale a Capitol City. Le conseguenze dell’esplosione sui miei organi. Cose che non so. E uguale per Peeta, con una menzione particolare sulle torture chimiche che gli venivano inflitte, oltre al veleno degli aghi inseguitori. Cose che non avrei mai voluto sentire.

- Alla luce di queste cose, ragazzi miei - sussurra dolcemente Petra - ho da dirvi una cosa. E’ vero che sono passati molti anni da questi vostri contatti, da queste vostre... - non sa nemmeno come definirle - ...però adesso stanno facendo molti studi sui danni biologici che la rivoluzione ha causato, con tutte le armi...e inoltre, considerando che le mestruazioni di Katniss sono molto irregolari...

- Non potremo avere figli? - la interrompo, con un singhiozzo che spero nessuno abbia sentito.

- Oh, no, cara! Potrete avere tutti i figli che volete! Sono solo studi sperimentali, non dovete farci caso, ma ero tenuta a dirvelo. L’unica cosa è che non so quanto presto arriveranno, capite? E col fatto che non sappiamo quando Katniss ha i giorni fertili, ecco, dovrete impegnarvi più del necessario.

Non avrò immediatamente la gravidanza e potrò fare l’amore con Peeta quando mi pare e piace.

Francamente non è una tragedia, anzi. L’unica cosa sarà accettare il fatto che non avremo subito questi bambini, e che esiste da qualche parte la mera possibilità che non arriveranno mai. Ma devo cercare di non pensarci. E soprattutto devo cercare di non pensarci quando sono con Peeta. In qualche modo siamo stati incoraggiati e scoraggiati. Ci sentiamo un po’ persi, un po’ vuoti, con questi depliant sui consigli alimentari e sulle buone abitudini per favorire la gravidanza, e con queste scatole di pillole di vitamine e acido folico.

Torniamo a casa in silenzio e so che non cominceremo stanotte. Stanotte abbiamo solo bisogno delle coperte, di ascoltare la pioggia battere sul tetto con forza, ricordando a noi stessi che non siamo nella grotta fredda e umida, senza cibo e acqua, con Peeta morente. Siamo vivi, al caldo, entrambi in ottima salute.

Ma raccontare a Petra tutte quelle cose ci ha sconvolto più di quanto potessimo immaginare. Così ci limitiamo a vivere questa giornata, a dormire stretti, sperando di non dover riemergere dal sonno a causa di incubi da cui tentiamo di librarci da più di dieci anni.

 

Poi arrivano quei momenti, che dividiamo senza aspettarci nulla. Quando vogliamo. Dovunque. Credo di essere fortunata a desiderare ancora così ardentemente Peeta. Il mio soprannome non sbaglia. Katniss, la ragazza di fuoco. Tra un po’ forse, la mamma di fuoco. Ma cerco di non pensare alle gravidanze, solo al corpo di Peeta, che in tutti questi anni non è cambiato. A parte forse quel piccolo accenno di pancetta sotto l’ombelico. Però i sacchi di farina li porta sempre. Le sue braccia sono sempre grandi, forti, in grado di farmi sentire al sicuro. E’ una roccia, un albero.

E sa sempre come calmarmi dai miei troppi pensieri. Come una sera.

- Sai a cosa pensavo, Katniss?

- A cosa?

- Che alla fine anche lì sotto si stanno combattendo degli spietatissimi Hunger Games, dice indicando il mio ventre.

- Ma che cavolo dici? - esclamo io soffocando una risata, perché forse so dove vuole arrivare.

- Ma sì, migliaia di piccoli semini - e qui gli arriva un cuscino in testa, perché sa quanto mi vergogno a parlare di queste cose - che si combattono come pazzi per giorni, fino a che non ne resta uno solo. Il vincitore degli Hunger Games ... dell’umanità.

Stavolta rido come una matta, perché ha detto una cosa talmente stupida, tragica e geniale che mi è impossibile resistere. La mia pancia dalle risate si muove su e giù, e Peeta ci parla contro.

- C’è un terremoto nell’arena! Possa la fortuna essere sempre a vostro favore!

Quando ho finito di ridere, propongo io.

- Che ne dici di un’Edizione della Memoria stile Haymitch? Mandiamo... il doppio dei tributi nell’arena? - e mi avvicino per dargli un bacio sull’orecchio.

- Sei uno stratega spietato, Katniss Everdeen - afferma lui serio annuendo. 







Nota autrice: Il quarto capitolo è già scritto, arriverà prestissimo! Stay tuned! E nel frattempo....lasciate una piccola recensione, eh ragas?? E muchissimas gracias per stare seguendo questa storia!! :D

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Cap 4: ... a light. ***


A ricordarmi che da quella notte sono passati circa due mesi, più che il calendario, lo fa l’aria frizzante che penetra dalla finestra e il profumo dei fiori che stamattina sento come non mai.

Mi alzo con la testa che gira leggermente, vado in bagno e mi trascino in cucina. Oggi è il compleanno del caro, vecchio Haymitch, e ho intenzione di fargli un bel regalo. Lui adora la carne di coniglio, e io so perfettamente in che zona andarli a cacciare. Potrebbe permettersi di comprarla dal macellaio, ma so che preferisce la mia: così ci facciamo un favore a vicenda.

Io posso andare a fare qualcosa che mi faccia sentire bene con me stessa, e lui può evitare di andarsene in giro a spaventare i bambini: con i suoi capelli e barba incolti e biancastri,  un colorito che tende sempre di più al giallo, nonché il fatto che per la leggera sordità parli a voce alta, non è uno spettacolo gradito per i più piccoli. Anche se tutti, in fondo, gli vogliono un gran bene. E’ lui che è sempre troppo diffidente.

Un’ora dopo, tornando dal bosco, sono stanca e sudata. I coniglietti erano più veloci del previsto, ma sono comunque riuscita ad acchiapparne un po’. Busso alla porta di Haymitch e lui apre quasi subito.

- Ciao, vecchiaccio. Buon compleanno!

- Ehilà dolcezza. Grazie per i conigli ma non per l’augurio. Odio i compleanni. Entra pure.

Entro. Casa di Haymitch è quasi sempre ordinata e pulita, merito di due ragazze che almeno una volta a settimana vengono a riassettarla, portando così qualche soldo a casa. Sono giovani, forti di stomaco e felici di poterlo fare. Haymitch non muove un dito. Ma anche in questo caso, si fanno tutti un favore a vicenda.

- Accidenti, che caldo! Apri un po’ le finestre, ogni tanto! - dico, agitando le mani per farmi aria.

- Mmm, abbiamo già le vampate da menopausa, dolcezza? Tu e quell’altro non state cercando di mettere in cantiere un piccolo Mellark?

Ma io non lo sento. Sto cercando di pensare a una cosa. Precisamente il foglietto che Petra mi ha consegnato e che elencava tutti i “Segni di presunzione e probabilità di gravidanza”.

Sintomi neurologici - snocciolo a memoria - giramenti di testa, riflessi lenti. Maggiore percezione del caldo a causa dell’azione degli estrogeni. Sbalzi d’umore. Vabbe’, quelli ci sono sempre stati. Amenorrea. Idem. Le mestruazioni non contano per me. Nausea.

Ecco, quella non c’è. Non c’è proprio. Poi ho un’idea.

- Haymitch, fammi annusare dell’alcool!

Lui ride. - Che cosa?

- Fallo e basta, per favore!

Lui prende una bottiglia di quelle forti, quelle che io ho sempre detestato sentire nel suo alito e che mi hanno già fatto vomitare una volta, molti anni fa.

- Si, ma almeno spiegami perché...

Io sono più veloce, gliela sfilo dal braccio, la apro e la annuso. Niente. E’ disgustosa come al solito, ma non mi sortisce alcun effetto.

Be’, abbiamo scherzato.

- Tu sei molto strana, Katniss Everdeen. - sussurra il mio ex mentore, riprendendosi la bottiglia. - a meno che, e spero non sia così.... nel pacchetto gravidanza non siano incluse le voglie di alcool.

Voglie. Voglie. No, aspetta.

Le voglie erano tipiche della gravidanza più tardiva. Non, eventualmente, adesso.

- A proposito, guarda cosa mi ha regalato Peeta  oggi. E’ passato stamattina presto, mi ha tirato giù dal letto e voilà!

Apre un pacco di cartone bianco e decorato di quelli che Peeta usa per conservare i dolci. Incuriosita, lo apro e lo osservo. Un odore penetrante di zucchero a velo e pan di spagna mi arriva al naso. Mmm, ho sempre amato questo odore, e lo aspiro con voluttà. Ma il mio cervello mi sta dicendo qualcos’altro, in tutta fretta.

No!

Quante volte ho sentito questo aroma? Tante. Ma non ce la faccio, e senza riuscire a trattenermi, vomito la mia colazione sul pavimento, mancando per un pelo un tappeto vicino al camino.

- Uuugh! Che roba, dolcezza! - dice Haymitch storcendo il naso.

E quindi c’è anche la nausea.

Ora ricordo cosa diceva con esattezza: Avversioni per cibi/odori particolari e predilezione/indifferenza per altri.

Senza specificare cosa.

- Haymitch..... - mormoro.

Ma lui si è infilato cappello e cappotto, e sta volando verso la porta.

- Resta qui e pulisci quello schifo. Io vado in farmacia.

Io non rispondo.

- Ti serviranno un po’ di pillole per il vomito, no?

E da come sorride, so che non mi sta andando a comprare nessuna pillola. So già cosa vuole andarmi a prendere. E io non ci posso andare perché la mia mente è paralizzata.

Non può essere. Non può essere.

E’ troppo presto. Tenevo in conto di aspettare minimo cinque o sei mesi.

Non posso essere incinta già ora. Sarebbe un miracolo, un evento eccezionale. Forse. O forse no?

In fondo non c’era nulla per cui effettivamente e sicuramente potessimo sospettare...

Oh, ma Dio, che ne so. Ho solo una paura folle.

Se non è vero, ho paura. Se è vero, anche.

Pulisco la parte di pavimento dove è finita la mia bella indigestione e mi siedo tremante.

Il rumore della chiave nella porta, pochi minuti dopo, mi fa risollevare, e strappo letteralmente di mano la scatola ad Haymitch, senza preoccuparmi di dirgli che poi gli avrei restituito i soldi, o roba del genere. Corro verso il bagno, tenendo a stento la pipì che mi serve per fare l’esame, quando ricordo.

Altro segno di presunzione: aumento della diuresi perché l’utero inizia a schiacciare la vescica.

Che qualcuno mi aiuti.

 

Finito di inondare il povero bastoncino, aspetto.

In questo momento non esiste nulla, se non le mie mani tremanti che reggono questa specie di penna grossa e bianca. Il resto del mondo è fuori. Tutti sono fuori dalla mia bolla. Persino i suoni non ci sono più.

Nulla può cambiare in questa immagine fissa che mi appanna la vista. Eppure devo sbattere le palpebre, perché qualcosa invece cambia.

Arriva come una pennellata di Peeta sulla tela bianca. Con prepotenza, delicatezza e sicurezza, una seconda striscia blu si palesa accanto a quella a sinistra. Due strisce blu.

Incinta.

Respiro affannosamente, mentre un’ onda, peggiore, oh, molto peggiore, di quella che inondava l’Arena durante l’Edizione della Memoria, inizia a riversarsi sulla mia testa: paura. Gioia. Dubbio. Immobilità. Voglia di urlare. Felicità. Trionfo. Dolcezza.

Questa volta sono incinta per davvero, non per finta, come fu l’idea geniale di Peeta per fermare i settantacinquesimi giochi: e mi chiedo come fossi riuscita a sembrare anche solo un pizzico convincente nella mia recita, agli occhi di tutte le madri che covavano dentro di loro un piccolo nucleo di cellule e di amore che cresceva. Secondo me nessuna di loro se l’è bevuta, allora. Oppure mi consideravano troppo piccola e sconvolta per capire che se il mio universo girava attorno a me, ora piuttosto si divide tra me e questa piccola luce dentro il mio buio.

Esco dal bagno. Haymitch è seduto. Aspetta una risposta che evidentemente è già palese dalla mia faccia, visto che non riesco a parlare. Ridacchia e mi stampa un bacione ruvido sulla testa, mentre io comincio a piangere come una fontana, senza rendermi conto che il test non solo mi ha rivelato di essere in attesa, ma anche da quando. E non appena sono in grado di ragionare e di fare due conti, capisco che la mia lucina si è accesa quasi subito, ai primi tentativi miei e di Peeta. Sono due mesi che esiste. Ha voluto vivere subito, questa vita. Si è imposta con decisione in mezzo a noi, ha preso le nostre speranze e non ci ha delusi.

- Andiamo a dirglielo? - dice Haymitch.

- Che? - faccio io, pulendomi gli occhi.

- Andiamo, dai! Facciamogli una sorpresona come ha fatto lui quando ti ha sposata! - esclama. Haymitch sembra un adolescente ubriaco a Capodanno.

- Ma non so come... -

- Fidati, dolcezza. Infila la giacca, andiamo in panetteria. -

Camminiamo velocemente verso il negozio. Dentro non c’è nessuno a parte lui, Peeta, che sta prendendo degli appunti su un foglio. Haymitch coglie l’occasione al volo, entriamo dentro accompagnati dallo scampanellio della porta.

Peeta alza gli occhi azzurri e sorride.

- Ciao e auguri, Haymitch! Piaciuta la torta? Ciao Katniss, che fate di bello?

- Grazie per gli auguri, caro. Si, buona la torta, anche se Katniss.... mmmh...piuttosto penserei a te, visto che hai una pagnotta nel forno. - dice serissimo.

Peeta, perplesso, sbircia dietro di se’, dove si trova il forno a legna, bianco e enorme, adibito alla cottura del pane.

- No, invece. - risponde e la sua espressione è talmente candida che, ormai senza più forza di resistere, scoppio a ridere senza sosta, appoggiandomi allo scaffale dei grissini. Mi escono quasi le lacrime e senza volerlo, mi stringo la pancia.

- Tanti auguri a te, ragazzo! - continua il mio fantastico ex mentore, affibbiando una sonora pacca alla spalla di Peeta.

Finalmente la battuta a doppio senso di Haymitch acquista un senso, le mie risate si aggiungono di conseguenza, e vedo il viso di Peeta diventare più bianco della farina, mentre esce da dietro il bancone e si avvicina. Basta uno sguardo. Non c’è bisogno di altro.

Una volta era “Vero o falso”. Poi è stato la scelta tra il “Sì e No” del matrimonio. Stavolta le parole cambiano, il senso resta quello. Positivo o negativo? dicono i suoi occhi.

“Positivo” - gli sussurro nelle orecchie.

Mi sento sollevare in aria, avvolta da due tronchi d’albero che mi fanno volteggiare. Sento esclamazioni di gioia, un battimani fuori tempo.

Ho paura di essere presa in questo modo. Ho paura della lucina che potrebbe risentirsi di tutto questo movimento e di tutta questa confusione. Potrebbe andare via, decidere di staccarsi da me, dalla mia fragile pancia, e salutarmi nel sangue. Da oggi in poi mi alzerò la mattina con questo terrore. Già lo so.

Ma ora voglio lasciare spazio a questa gioia immensa, che mi invade da capo a piedi: con gratitudine, penso che non sta lasciando posto a nient’altro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Cap 5: Bolle e calci ***


Stttrrrsplatch!

Il rumore del gel freddo a contatto con la pancia mi fa rabbrividire. Peeta accanto a me sorride.

Sono al quinto mese, e questa è forse l’unica ecografia che voglio davvero fare, specie perché è gratuita: non so se ci capirò qualcosa, ma dopo tutto questo tempo, in cui i segni della mia gravidanza erano solo le nausee, le voglie, e questa pancina che cominciava a sollevarsi, ho proprio voglia di vedere cosa si nasconde lì dentro. Ma stamattina dal nervoso non sono nemmeno riuscita a mangiare qualcosa, benché oramai le nausee siano passate da un bel pezzo.

Un rumore strano, come un galoppo di cavalli o un treno sui binari, mi distrae dalle mie riflessioni. La dottoressa, che grazie a Dio non è Petra, mi guarda e gira lo schermo del monitor.

- Questo è il cuoricino!

A dire il vero non vedo un accidenti in quel marasma confuso di grigi e bianchi su sfondo blu scuro. Sento solo questo rumore pazzesco.

- E’ normale che batta così forte? - chiedo. La dottoressa annuisce. Lavora ancora un po’ con quella sonda e poi gira di nuovo lo schermo.

Dio mio. E’ lì.

E’ proprio lì dentro, senza dubbio. Quello è un profilo di una testa, si vede tutto. Naso, bocca.

- Wow - mormora Peeta, senza aggiungere nient’altro.

Spendiamo un altro quarto d’ora, mentre la dottoressa si rassicura che tutti gli organi, esterni ed interni, siano al loro posto e siano sani. Questo suo silenzio mi tranquillizza.

- Be’, resta solo una cosa, a questo punto. Volete sapere il sesso del bambino?

Peeta e io ci guardiamo ed un solo pensiero ci attraversa la mente. Solo che non so se si tratta della stessa cosa. E’ evidente che lui smania per saperlo, mentre io potrei anche aspettare la sua nascita. Ciò nonostante, con tutto quello che ha passato, penso che sia un giusto regalo da fargli. Troppe sono le cose per cui devo la vita a Peeta. Troppe vite dovrei vivere per ricompensarle. E ora, questo sarà un modo. Dico di sì e l’espressione di Peeta diventa di colpo più felice e rilassata.

Secondi di attesa che mi uccidono.

- Femmina! -

Anche se non vorrei, i miei pensieri iniziano a correre e non posso fermarli. Vedo tutine rosa, bambole, elastici per capelli, gonne. Vedo la cameretta che abbiamo preparato riempirsi di tutto questo.

Poi vedo Prim. Vedo Rue.

In seguito il fuoco delle bombe. Una lancia dritta al cuore. Le lacrime iniziano a scendermi dagli occhi, copiosamente. Peeta cerca di arginarle con un fazzolettino perché sono distesa, riesco a muovermi poco e mi iniziano a bagnare dappertutto.

- Maledetti ormoni - sussurro, cercando di ridere. Finalmente servono a qualcosa, questi ormoni. Possono mascherare uno strano vuoto che si è creato dentro di me. Pensieri che non hanno senso e mi rattristano.

Ci alziamo dopo poco, mi ripulisco di tutto e dopo aver ringraziato la dottoressa, usciamo all’aria aperta.

- Come stai? - chiede Peeta.

- Bene. Bene. Un po’ confusa, forse. - dico.

- Anche io. Non so perché ma me lo aspettavo che fosse una bambina, sai? Me lo sentivo! - Peeta si bacia la mano, la batte sulla pancia e poi mi prende a braccetto. E’ l’entusiasmo fatta persona e in qualche modo è contagioso. Ritrovo il sorriso e con esso anche l’appetito. A poca distanza, un baracchino all’aperto frigge qualcosa di buono. Spiedini di agnello. Con una bella salsina sopra. Mmm.

- Ok, visto che non ho fatto colazione ora voglio quelli! - esclamo trascinandomelo per mano.

- Katniss... sono le undici e mezza del mattino. Non ti pare un po’ eccessiva quella roba? - risponde incredulo Peeta guardando l’orologio della piazza.

- Chi se ne importa. Sembrano buonissime!

- Ma... ma... ti ricordi cosa hanno detto sempre? Evita la carne che non è ben cotta! Ti fa male! E poi andiamo, ma hai visto in che condizioni igienico-sanit...

Gli tappo la bocca con una mano.

- Dimmi se vuoi che la bambina nasca con una voglia gigante color carne sulla faccia.

- Ah, quindi vorresti dire che è la bambina a volere l’agnello e non tu?

Non volevo dire questo, ma è un escamotage geniale. Fantastico, è la scusa che userò sempre, quando d’improvviso mi sveglio la notte e invece dell’acqua smanio per il thè freddo.

- Esattamente! Vogliamo farla soffrire, poverina?

Poco dopo, ho in mano uno spiedino unto e buonissimo che mangio con voracità.

- Vuoi? - domando.

- No grazie. Io ho ancora la colazione da smaltire.

 

 

E’ pomeriggio. Peeta è in negozio. La tv fa i capricci e non funziona.

Sono sola, tranquilla, con dei piatti da lavare. Canticchio qualcosa tra me e me per colmare il silenzio. Quando d’improvviso accade.

Sento qualcosa nel ventre, come se delle bolle si scontrassero tra di loro. Non è fame, ne’ mal di pancia, perché queste bolle non fanno il rumore tipico dello stomaco vuoto o della colite.

Mi accarezzo delicatamente e questa sensazione di bolle aumenta. E si diffonde.

Prima giù, poi su. A destra. Sinistra.

 

- Katniss! E’ ora!  La mamma si starà già preoccupando!

- Arrivo, papà! - urlo dal lago.

Sono piccola, nuda e felice.

Esco dall’acqua sguazzando lentamente, sollevando schiuma e bolle, facendomi trasportare dalla corrente, ascoltando il rumore delle onde, apprezzando le carezze bagnate del lago su di me.

- Eccolo qui il mio pesciolino!

Papà mi rincorre con l’asciugamano.

 

Inizio a respirare faticosamente.

Qualcuno nuota.

Continuo ad andare su e giù con la mano. E d’improvviso essa viene respinta da qualcosa di duro che cozza con delicatezza contro il mio palmo.

E’ lei. E’ lei. E’ lei.

E’ lei che nuota. E’ lei che si sta muovendo. Come tutti i bambini che resterebbero ore nella’acqua. Come me, da piccola.

E’ lei che per la prima volta sento dentro di me.

Non è una nausea, non è un immagine sullo schermo. E’ qui.

La testa, il piede, la schiena, qualcosa mi ha toccato la mano.

Soffoco un urlo dentro la maglietta. Poi due. Poi tre.

Ho a malapena la forza di chiamare.

- Pronto?

- Peeta...

- Katniss? Cosa succede?

- Vieni qui, per favore. Adesso! - l’ultima parola la urlo quanto basta.

 

Mi trova appoggiata al lavabo. Entra sbattendo la porta, con un viso più bianco che mai e ancora col grembiule da lavoro addosso.

- Katniss...?

Mi volto e lo tengo stretto, gettandogli le braccia al collo. Immediatamente le sue si portano all’altezza della schiena.

- Si è mossa, Peeta. La bambina si è mossa, e non la smetteva più.

Mi molla immediatamente.

- E tu mi hai fatto prendere uno spavento così per questo? Katniss, ma ti rendi conto che ho lasciato i clienti in negozio?

- E tu pensi ai clienti in questo momento?

- Ah, scusa! Sai, pensavo che mia moglie non mi facesse prendere un infarto solo perché la bambina che aspettiamo si è mossa dentro la pancia, cosa che normalmente dovrebbe far piacere, o sbaglio?

No che non sbaglia. Non pensavo che avrei accolto la sua prima manifestazione di vita così. Ci deve essere qualcosa di sbagliato in me. Perché ho reagito così? Perché ho questa coperta di paura addosso che mi soffoca?

Peeta legge il vuoto dei miei occhi e si siede. E’ incapace di lasciarmi perdere quando sto male, al diavolo tutti i clienti. La sua espressione è così gentile e preoccupata che per l’ennesima volta sento di non meritare tutto l’amore che mi dà. Lui vuole una spiegazione. E io gliela darò. Devo cercare di trovare la risposta, per me, per lui e anche... per lei.

- Quando ho scoperto che era femmina...ho pensato subito a Rue e a Prim...loro sono state più di quanto fossero. Prim è stata quasi una figlia per me, quando la mamma stava male, ho provveduto io a nutrirla,  a vestirla, a proteggerla. Mi sono offerta per lei agli Hunger Games. E Rue... Rue era un angelo. Più di un’alleata. Un’amica preziosa. Ma troppo piccolina per essere considerata una mia pari. Le volevo bene come una sorella, come Prim. E poi...

- Poi sono morte. - completa Peeta guardando in basso.

Io mi volto verso il campo di primule dietro casa.

- Ho paura, Peeta. Finché la bambina era nascosta, non c’era problema. Finché l’unica manifestazione della mia gravidanza fossero state le cose che conoscevo, tipo nausee, pancia gonfia, eccetera eccetera, potevo accettarlo. Ma ora si è mossa, ora so che è viva dentro di me! So che i bambini nella pance si spostano, certo - dico anticipando l’interruzione che Peeta sicuramente avrebbe fatto - ma non mi aspettavo che fosse così forte.

- E’ stato forte? -

Annuisco. Mi scappa un sorriso e poi ripiombo nell’oscurità.

- Morirà, Peeta.

- Non è vero - dice lui scuotendo la testa con decisione.

- Morirà, come tutte le persone che sono state accanto a me. Come tutte le bambine di cui mi sono presa cura con amore. Ogni volta che ho riposto speranze in loro, è finita male. Ho lottato per il futuro di mia sorella, ed è saltata in aria come un maledetto fuoco d’artificio! - urlo alla fine, battendo i pugni sul tavolo.

- Vorrei sperare ancora una volta, ma ho paura che ci lasci! Come faccio a sapere che non se ne andrà? Lo sai quante volte ho visto donne a casa mia perdere bambini? Scappavo senza dire una parola, ma non dimentico il sangue! Ho cercato di allontanarmi da questa idea, ma come faccio?

Peeta per la prima volta è senza parole. Non sa cosa dire ne’ cosa fare. Mi lascia piangere in silenzio. Questa è una cosa del tutto nuova anche per lui. Semplicemente mi abbraccia finché sono troppo stanca sia per parlare sia per lamentarmi.

- Katniss, ascolta... io non so cosa voglia dire portare qualcuno dentro, o perdere qualcuno a cui volevi bene come un figlio ma...so cosa vuole dire perdere e basta.

E’ vero. Non ci penso mai perché sono troppo egoista, ma anche Peeta ha perso qualcuno. Anzi, tutti! Madre, padre, i due fratelli. In un colpo. Ma coraggioso com’è, non lo dà mai a vedere.

- La vita di questa bambina è come quella di un’altra persona. Può vivere e morire come tutti. Non ha possibilità in più di morire solo perché sta dentro di te, anzi, ti ricordo che è arrivata quasi subito e che ormai siamo andati molto avanti con la gravidanza. Vuoi che ti risponda se lei vivrà? La risposta è non lo so. Ma non si può vivere ogni giorno con il pensiero della morte, non avrebbe senso. Abbiamo lottato anni per liberarci di questo...Katniss... ogni volta che la senti, non pensare a quelli che sono morti. Pensa a chi è sopravvissuto e si è imposto anche quando le possibilità erano zero. Fallo ogni volta. Finché i suoi movimenti ti daranno ansia e non gioia. Va bene?

Penso a dove sarei ora, senza Peeta.

Rinchiusa da qualche parte, in un manicomio, o già seppellita per la disperazione. Vorrei sapere come fa a prendere tutta la mia rabbia, la mie paure , le mie ossessioni e chiuderle in un cassetto. Poi lo so. Perché il dente di leone ha sconfitto Capitol City e la guerra più di quanto abbiano fatto tutti. Si è imposto su chi voleva obnubilargli ogni cosa, dall’amore alle idee, dai ricordi alle speranze, usando veleni e torture. Ma lui ha preso tutto e con fatica li ha chiusi dentro un cassetto che non apre più da anni e che lentamente si sta svuotando.


Sono più serena, ora. Finisco di lavare i piatti mentre Peeta mi saluta da fuori correndo verso il negozio. Avrà delle grane, poverino.

Ancora poche ore e sarà di nuovo qui. Il sole del pomeriggio illumina tutto, e incredibile a dirsi, spero di sentire al più presto quel caos di bolle e di calci, a ricordarmi che spesso speranza e paura abitano nello stesso luogo, e che io devo accettarlo.

Per me e per la mia bambina. 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Cap 6: Lei ***


Ciao a tutte! Questo capitolo si è fatto attendere, ma non temete! Il gran momento è arrivato...ehehehehe. E’ lungo, ma perché la nascita è lunga, care mie! Quanto ho adorato scrivere questo capitolo, e che fatica...spero vi emozioni come ha emozionato me. E se l’ha fatto, un vostro pensiero/commento mi farebbe molto piacere. Grazie a tutti!

 

 

 

Haymitch mi viene incontro per strada, con le gambe larghe, dondolandosi, sporgendo in fuori il ventre gonfio per l’ascite e tenendo le mani premute contro la parte bassa della schiena.

- Sei un idiota, Haymitch, io non cammino così! - dico soffocando una risata.

- No, infatti! Se potessi riprenderti con una videocamera, saresti molto peggio - ribatte lui, riprendendo a camminare normalmente.

Con delicatezza, ora che ha capito che può farlo senza ricevere una sberla in testa da una tipa come me, passa la mano sulla pancia.

- Sembra bella grossa, questa belva! - afferma.

Io mi protendo a guardarla. Si, probabile che non sia una bimba molto piccola. Ormai la pancia sporge così tanto che faccio fatica a mettermi scarpe coi lacci, e preferisco infilare i miei piedi leggermente rigonfi dentro un paio di stivali o di scarpette leggere. Cerco di non rendermi ridicola camminando, ma ormai i giorni alla sua nascita sono contati. Dieci, o forse poco più. Haymitch mi saluta con un “sei molto bella, dolcezza”, al quale rispondo forse un po’ troppo frettolosamente, ma la gente non fa che ripeterlo. Forse hanno ragione: tutto in me ora sembra più morbido, più gentile. I capelli, le braccia, il petto, la pancia. Anche Annie era così. Sembrava una fata, un essere divino e strano che volteggiava con grazia e tristezza. Faccio una passeggiata nei boschi, stando attenta a non farmi male o a cadere, perché Peeta darebbe di matto se sapesse che sono qui, con “tutti i rischi che ci sono”. Non vedo l’ora che la piccola nasca, così la smette di avere atteggiamenti da chioccia isterica che io non ho.

D’improvviso sento un dolore alla parte bassa del ventre, E’ fastidioso. Molto. Dura un po’, poi passa. Poi ricomincia.

Torno al mio alloggio, è meglio.

 

- Sono a casa! Katniss?

- Sono qui!

Peeta mi trova semiseduta sul divano a sonnecchiare e a guardare la tv. Lui non lo sa, ma sono un bel po’ di ore che sto qui. Stanotte non ho dormito bene, quindi ne approfitto. Ma certi atteggiamenti pigri non mi si addicono, per questo mi guarda con aria interrogativa.

- Mi fa un po’ male la pancia, sai?

- Oh. Oddio, tu pensi che....

Scuoto la testa.

- No... ho letto che qualche giorno prima della nascita possono presentarsi i cosiddetti “prodromi di travaglio”, sono dei mal di pancia fastidiosi, che però non sono vere....contrazioni.

- Sei sicura? Vogliamo andare all’ospedale?

- No! La bambina si muove, perciò è tutto ok!

Peeta annuisce.

- Io devo andare a comprare qualcosa, posso lasciarti qui?

Lo guardo con una faccia abbastanza esplicativa, pertanto lui ride, stampa due baci, uno sulla mia testa,  uno sulla pancia e corre fuori.

I doloretti fastidiosi non passano, sono forti, ma sopportabili. Se ben ricordo, le poche donne che a casa mia vedevo con le contrazioni del travaglio, erano tutte ben condite di urla, respiri affannosi, bestemmie e delizie del genere. La bambina punta i piedi nella pancia e cerco di spostarli con la mano, col risultato che calcia ancora di più. E va bene, penso, come vuoi tu....

Mi risveglio col collo dolorante e con una gran bella nausea. Peeta è fuori da un’oretta circa, ma io mi sento peggio di prima. Tasto la pancia ed è più dura. La bambina non si muove. Dormirà anche lei? Non lo so, ma non mi piace. Cerco di andare in bagno, ma la sola vista del poco sangue che macchia i miei slip mi getta nel panico. E quando mi rialzo dal water, non è pipì quella che scende sulle mie gambe. E’ un fiotto leggero e rosato di liquido. Non si ferma. Continua a scendere.

Cavolo, cavolo, cavolo.

Mi infilo le prime cose che trovo, e corro. Non me ne importa nulla di me, ma se la piccola continua a non muoversi, penso che urlerò così tanto che mi sentiranno fino al Distretto 11. Ospedale, ospedale , penso, correndo con il cappotto agganciato storto e la borsa che sbatte malamente contro il mio fianco. I dolori ci sono ancora, ritmici e sgradevoli, ma non me ne potrebbe fregare di meno. Busso alla porta del pronto soccorso ostetrico.

Una giovane donna, in bianco e rosa, mi apre.

- La mia bambina non si muove più - biascico d’un fiato.

Il suo sguardo è preoccupato ma risoluto. Mi mette a sedere su una poltrona, prende un macchinario con due dischetti. Non mi chiede chi sono, penso lo sappia tutta Panem che la Ghiandaia Imitatrice aspetta una bimba che nascerà a giorni. Fissa un dischetto alla mia pancia con una fascia, e immediatamente un galoppo di cavalli comincia a riempire la stanza. Il sollievo nei miei e nei suoi occhi è evidente. E’ viva. Meno male. Sono così felice che mi dimentico di dirle che sto perdendo liquido, ma lei se ne accorge dai miei pantaloni bagnati.

- Katniss, ora che sappiamo che la piccola sta bene, tu come stai?

- Io sto bene, - dico, - posso chiamare Peeta? Non sa che sono qui.

Mi porge un telefono.

- Pronto?

- Peeta, sono io.

- Katniss! Sto tornando a casa. Serve qualcosa?

- Ehm....poggia pure la spesa a casa, ma poi vieni in ospedale, sono lì.

Il telefono tace. E’ ovvio che non passerà affatto a posare la spesa a casa. Stupido. Farà andare a male un sacco di roba.

- Katniss, tu hai rotto le acque. Potrei visitarti, per favore?

Non ho molta scelta, direi. E poi mi fa piacere che qualcuno mi spieghi perché c’è del sangue. Mentre muove le due dita dentro la mia intimità per capire cosa succede, gemo di dolore. Che male, accidenti. Mi sollevo dal lettino dove mi hanno poggiata a gambe divaricate, senza più i miei vestiti, ma con una camicia da notte semplice e bianca. Ho ancora addosso l’affare che sente il battito della bambina.

La giovane ostetrica, Aua, mi guarda con intensità e con sguardo stupito.

- Katniss, permetti, da quanto tempo senti male alla pancia?

- Mmmmh..... - mugugno - da circa....boh, dal primo pomeriggio, perché?

- Ed è sempre stato uguale?

- Ora va un po’ peggio. Ma lo sopporto bene. Non è così tremendo.

- Katniss, mia cara... tu sei a quasi otto centimetri di dilatazione.

- E vuol dire?

- Che in capo a massimo due ore, anche meno,  dovrebbe nascere. Il massimo dei centimetri da raggiungere per far nascere la bambina è dieci, e tu ti sei fatta tutto il travaglio a casa! Complimenti!

Cosa? Oh mio Dio. Non ero pronta a una risposta del genere. Pensavo che fosse tutto molto peggiore. E invece ho sopportato tutte le doglie a casa senza dire una parola. Aiuto.

Peeta entra come una furia, spettinato e accaldato.

- Katniss!

- Vedi di stare calmo, mi servi in piedi. - dico alzandomi dal lettino con agilità, cosa che provoca nell’ostetrica un'altra occhiata incredula.

- Ho posato la spesa e sono corso qui. Che succede?

- Be’ ecco....quei dolori che sentivo a casa erano le vere contrazioni del travaglio e ora...insomma, tipo... qualche oretta e dovrebbe nascere. Contento? - dico sorridendo.

Peeta impallidisce di colpo. Gli arrivano subito due schiaffetti sulla faccia.

- Non svenire o ti ammazzo! Ahia..... - bofonchio piegandomi in due, perché questa era più forte. Subito Peeta riprende colore e cerca di tirarmi su. Respiro affannosamente. lo sapevo che venire qui non era una buona idea, penso, anche se so che è stata un’ottima idea, visto che a casa ero nel panico più totale...ma venendo in ospedale questi dolori sono peggiorati da morire. La donna in divisa mi spiega che è normale che ora siano più forti, insomma, il travaglio deve essere doloroso, e poi mi insegna come respirare per bene durante la contrazione.  Sebbene all’inizio non le dia ascolto, mi rendo poi conto che ha ragione.

Dentro l’aria col naso, fuori l’aria con la bocca.

Vado così bene che nella stanza restiamo solo io e Peeta. Ho trovato il modo migliore per affrontare il dolore. Peeta è seduto di fronte a me. Quando non ho dolore, mi siedo anche io di fronte a lui sul lettino con gli occhi chiusi, godendomi la pausa, quando invece parte quella morsa infernale, mi alzo e mi appoggio a lui, abbracciandogli il collo. Stare chinata in avanti dà sollievo alla schiena, e affondare la faccia nei suoi capelli è un gesto così familiare che mi fa stare bene. Poi a volte non basta, e Peeta prontamente allunga le braccia perché io ci appoggi tutto il mio peso. Non spingo, ma cerco di dondolarmi usando i sui bicipiti forti come appigli. Meno male che è robusto come una roccia, perché non so quanta forza gli sto scaricando addosso, poveretto. Lui non fa una piega. Mi dà l’acqua, mi bagna la fronte, sopporta i miei sbuffi addosso senza cambiare espressione, anche se so che razza di alito dovrei avere ora, visto che prima ho anche vomitato nel cartone della spazzatura.

Però mi sento fortunata. Penso alle cose peggiori che ho passato, ai dolori inspiegabili che ho dovuto affrontare e superare. Qui almeno deve venire fuori qualcosa di buono. Penso che ogni contrazione sia un passo in più, e questo mi dà forza.

- Sei bravissima, Katniss - mi sussurra nell’orecchio Peeta. Non lo so se sono bravissima. Vorrei solo che nascesse. Ed è passata solo un’ ora e mezza, quasi due.

L’ostetrica mi rivisita. Ho perso altro liquido con sangue, e il dolore che mi provocano le sue dita con quelle della contrazione in atto mi fanno urlare per la prima volta.

- Sei andata avanti, Katniss! Brava!

- Nasce? - sussurro con voce fioca.

- Ci vuole ancora un po’. Non moltissimo, però, sai? Continua così e avvertimi se senti qualcosa di diverso. Qualsiasi cambiamento.

Annuisco.

E ricomincia il gioco di movimenti tra me e Peeta per affrontare il dolore. Quanto è passato ancora? Non lo so. Sento di non farcela più, sono stanca, stanca da morire. Vorrei stendermi e dormire, ma stare distesa mi da fastidio, perciò mi siedo su un panchetto si legno, appoggio la schiena contro Peeta che è seduto dietro di me, e sonnecchio per quanto posso. Non dura molto però. D’improvviso sento di dover andare in bagno. E non è pipì. Che rottura, penso, qui il bagno è uno solo, in comune, in fondo al corridoio. E non voglio certo fare i miei bisogni in una padella come ho fatto prima con la pipì. Bleah. No, devo alzarmi e andare. Ma d’ un tratto entra Aua con una dottoressa dai capelli castano chiaro e il viso dolce e semplice.

- Katniss, dove vai?

- In bagno. Ho bisogno di....

- Fare la cacca? - dice lei senza alcuna esitazione.

- Eh...già.

Non so cosa voglia significare una cosa così stupida e infantile per loro, ma non perdono tempo, mi stendono a gambe aperte, mi visitano. E senza dirsi niente, se non un “è completa” preparano tutto. Luci abbassate e centrate sul mio ventre, teli per terra, ferri, guanti e mascherine.

- Che accidenti...? - domando io, senza riuscire a controllarmi.

- Katniss, mettiti nella pozione più comoda che vuoi e spingi, quando hai voglia. - mi ordina Aua mentre infila i guanti. - La sensazione che provi, quella di fare la cacca, non è altro che la testa della bambina che preme. Sta per nascere, ok? E’ lì, ormai.

Oddio. Sono paralizzata, nervosa, stanca, felice, emozionata, di tutto. Mi siedo sul letto, con la schiena diritta. Peeta si arrampica dietro di me, fa sì che mi possa appoggiare a lui anzichè allo schienale che è troppo all’ingiù. Allargo la gambe più che posso. Mi attacco un po’ alle mani di mio marito, un po’ ai manipoli che hanno montato sul letto. Mi istruiscono sul come spingere.

- E se faccio anche la cacca? - mormoro come una scolaretta vergognosa.

- Non faremmo questo mestiere, se avessimo paura di un po’ di cacca. -risponde la dottoressa, Cecil.

E così, ogni volta che lo sento, spingo con tutta la forza che ho. Loro urlano e mi incitano. Mi sento un atleta. Mi incoraggiano, mi correggono se spingo male. Non sento più il dolore, ormai. Solo questo premito incontrollabile giù in basso.

- Peeta, Peeta.... - sussurro nel semibuio della stanza.

- Sono qui, dietro di te... risponde lui, baciandomi in testa.  

- La prima e l’ultima, ok?

- Va bene, faremo solo lei, promesso, niente altri bambini.

- E’ colpa tua!!! - grido, mezzo ridendo e mezzo piangendo, quando arriva un’altra fortissima contrazione. Nel giro di due secondi, credo di aver detto le tipiche frasi di una donna in travaglio.

Non so da quanto tempo sto qui a spingere. Ma ho poche forze, sono stanca, così stanca... penso a tutte le volte che ho faticato di più, che credevo di non farcela , e questo mi dà un po’ di forze. Ma sono sempre di meno. Ho paura. Non riuscirò a farla nascere.

- Tiratemela fuori, per favore! - esclamo, mentre un rivolo di sudore mi cala sulla guancia, rivolo che Peeta prontamente asciuga. Credo che anche quest’ultima sia una frase tipica.

Aua e Cecil mi rassicurano, mi dicono che sono bravissima, che sto facendo tutto giusto, che la bambina devo farla io, non loro. Sono gentili, sono davvero degli angeli a sopportarmi. Ma dopo qualche minuto, Cecil mi si mette di lato e mi parla.

- Katniss, ti darò una mano, va bene? Quando spingerai, io eserciterò una pressione sulla tua pancia con il mio braccio per spingere ancora di più la bambina fuori. Ok? Sarà doloroso, ma farò piano!

Annuisco. Grazie a Dio, è proprio quello che ci vuole. Faccio un accenno d’assenso per dire che sono pronta a fare un’altra spinta, e tra le mie urla, quelle d’incoraggiamento di Peeta,  quelle dell’ostetrica, quelle soffocate della dottoressa che col braccio esile schiaccia il mio pancione, sento che qualcosa cambia, e di brutto. Lì sotto inizia a bruciare da morire, e urlo ancora più forte.

- Un’altra Katniss, ci sta un’altra spinta?

- No! No! Non ce ne sono più! - dico piangendo.

- Tranquilla! Aspettiamo la prossima!

- Brucia, fa malissimo! Cos’è??

- Be’, la testina è fuori, cara. Capelli scuri, mi sembra. Ti somiglierà.

- Testona, vorrai dire.- la corregge ridendo Cecil. - Guarda lì!

Io non riesco a sporgermi, ma Peeta sì, e so che ciò che sta guardando è incredibile dal suo viso raggiante.

- Cosa si vede? - gli sussurro nell’orecchio.

- Uno spicchio grande di testa. Ci sono dei capelli. E’ quasi tutta fuori. - risponde balbettando.

Cavolo, arriva. Spingo con tutte le mie forze, poi un dolore indescrivibile mi strappa l’urlo più forte che abbia mai fatto. Poi il nulla.

 

I suoni sono ovattati, non capisco niente, sento solo un sovrapporsi di frasi sconnesse come “Complimenti!”, “Benvenuta!” “Eccoci qua!” “Brava Katniss!”.

Non c’è dolore, c’è solo sollievo. Le luci sono offuscate, sento solo il caldo delle mani di Peeta strette intorno alle mie, il bruciore alle parti basse. E poi un altro urlo che non riconosco come il mio.

Aua solleva un qualcosa di rosato, bianco e bluastro che piange. Sembra un alieno, un coniglio  spelacchiato. Quell’essere urla, ha il visto  contratto in una smorfia di dolore. Non appena Aua me la fa vedere alla luce, tendo le braccia come se non avessi mai fatto altro.

E’ qui, è nata.

E’ la cosa più brutta e più bella che abbia mai visto. Ha la testa grande e un po’ capelli neri schiacciati sulla testa. Me la stringo addosso insieme a dei teli caldi e bianchi che mi porge la dottoressa, con cui la avvolgo subito. Mormoro anche io frasi sconnesse e senza senso, non so da dove mi arrivino. Continuo dire ciao ininterrottamente. Peeta dietro di me credo che tiri su col naso due volte. Mi volto per stampargli un bacio sulla guancia scoprendo che è bagnata. Ricambia subito. Senza curarmi del fatto che è sporca, stampo un bacio anche sulla pelle caldissima della guancia della bambina.

Ora parlano solo l’ostetrica e la dottoressa, di cose tecniche e altro.

Mettono un bracciale di riconoscimento al suo piedino. Noi tre stiamo in silenzio, saggiandoci con gli occhi. Non abbiamo bisogno di dirci nulla. Riaccendono pian piano le luci della stanza. Lei apre e chiude e apre gli occhi convulsamente, non le piace tutto questo rumore e tutta questa luce.

Inizia a piangere ancora solo quando alcune infermiere la prendono per portarla a lavare, e Peeta va con loro. Credo imparerà subito tutto. Come la si lava, come la si veste, come si mette un pannolino. Lo saluto mentre esce, io qui ho ancora da fare, devo espellere la placenta - che orrore - e poi forse dovrò essere ricucita - altro orrore -. Non vedo l’ora di alzarmi di qui e raggiungere entrambi. Fuori dalla finestra riesco a sentire il canto gioioso di una ghiandaia imitatrice, prima che cali definitivamente la notte e tornino anche loro al proprio nido. 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Cap 7: Tre chili e quattrocento grammi ***


Altra premessa! Alcuni di voi hanno scritto, oppure penseranno, che nome darà Lauretta Koizumi alla figlia di Katniss? Ebbene, ho deciso che una cosa così importante non posso scriverla, e quindi... niente nome! Userò stratagemmi vari per nascondere codesta mancanza... mi dispiace gente, ma sento che se dessi il nome alla bambina sarebbe un “Abuso nei confronti di Suzanne Collins!” Sono matta? Forse, già. Mmh. Embè. Amen! Buona lettura!

 

 

 

- Questo è l’ultimo, Katniss! Poi abbiamo finito.

- Oh, grazie al cielo!

- Ho fatto molto male?

- No, ma sono scomoda messa così!...

- Capisco. Lasciami fare e vedrai che ora ti facciamo alzare.

Mentre l’ultimo punto - non voglio nemmeno sapere dove - mi viene dato con una stretta fastidiosa, allungo la mano per togliermi i capelli sudaticci e appiccicati dalla fronte. La mano è sporca di sangue e qualcos’altro, perché ho preso la bimba a mani nude.

“Pazzesco. Ho appena partorito.”

Non avrei mai creduto possibile una cosa del genere. Se me l’avessero detto anche solo un anno fa, avrei riso senza sosta. Ora è cambiato tutto. Allungo la testa per vedermi la pancia, ma si è sgonfiata quasi tutta. Se ne è andata via così, in un attimo. Nemmeno il tempo di salutarla, penso con una risatina. Non voglio toccarla per sentire che consistenza ha. Sarà molle, presumo.

- Ok, ci siamo! Possiamo andare su!

- Su dove? - chiedo, mentre un’ infermiera mi aiuta ad alzarmi dal lettino.

-Su, nella stanza delle signore ricoverate, Katniss. E’ uno stanzone di cinque  letti - mi sussurra all’orecchio l’infermiera, che mi prende a braccetto mentre camminiamo - francamente non è il massimo. Ma nessuno si aspettava che proprio la Ghiandaia Imitatrice partorisse in patria. Pensavamo che...

Certo. Pensavano che essendo ormai benestante forse mi sarebbe convenuto partorire in qualche distretto più attrezzato. Tipo il 5, il 3, o l’1. Con i trasporti di adesso non è difficile, se si fa in tempo, peccato che io stavo per avere la bambina sul divano di casa. Quando ero piccola, l’ospedale del Distretto 12 ti accoglieva solo se eri veramente in punto di morte, altrimenti mia madre non avrebbe avuto alcun impiego come guaritrice. E non era detto che comunque non le arrivasse davvero gente in punto di morte, visto che l’ospedale non offre cure gratuite. Immagino che le donne partorissero tutte a casa o da qualche anziana levatrice, ma di certo qui non c’era nemmeno uno sgabuzzino riservato alle madri. Madri. Aiuto, solo la parola mi dà le farfalle nello stomaco. Ora sono una madre anche io.

La stanza è veramente grande, e molte signore già dormono. Hanno più o meno tutte i miei anni, forse un paio più piccole e una ragazza che potrebbe essere mia figlia. Due letti a destra, tre a sinistra, un paio di finestroni di fronte, un solo bagno in mezzo alla stanza, e un’altra finestra sulla parete destra. Un attimo, quella non è una finestra. E’ un vetro. E al di là del vetro, una stanzetta semibuia. Credo di sapere cosa c’è al di là. Sbircio a guardare e cinque cullette con cinque piccoli esserini ricambiano il mio sguardo. No, non sono cinque. In una culla col fiocco rosa, ne manca una. La mia. Qualcuno si schiarisce la voce dietro di me.

- L’ho tenuta anche troppo, prendi. - Peeta tiene con una sola mano una piccina vestita di giallo, l’unico body che le abbiamo comprato, perché odiavo il color rosa e questa era decisamente il più grazioso. Si è ricordato di prenderlo da casa, che uomo eccezionale.

Non so come prenderla senza farle del male, e ho paura di farla cadere. Ma Peeta me la passa così velocemente addosso che è istintivo per me chiudere le braccia attorno a questo corpicino che peserà quanto un asciugamano bagnato. Mi stupisco di me stessa quando senza esitazioni la tengo saldamente. E’ assolutamente perfetta. Credo che non smetterò di guardarla per ore. Ha la carnagione rosea e morbida, le guance piene, le manine strette a pugno, gli occhi chiusi e la bocca arricciata. I capelli sono scuri e lisci come i miei, le ricoprono tutta la testina, e hanno la consistenza di piume.

- E’ stupenda - mormoro a Peeta.

- Già. Abbiamo fatto un ottimo lavoro.

- Hai avvertito qualcuno? - dico, mentre sistemo la piccola sulla spalla e appoggio il mio naso sul suo piccolo collo.

- Solo Haymitch. Si congratula con noi e dice che ci verrà a trovare domani mattina, visto che ora le visite non sono accettate. Ma non gliela faccio tenere in braccio nemmeno due secondi. - conclude con un’ espressione serissima che mi strappa una risata immediata.

Dopo di che, la bocca arricciata della bambina si spalanca e inizia a gridare, quasi sfondandomi un timpano. E’ un grido bello potente, che sveglia immediatamente la mia vicina di letto. E ora che faccio? Cosa vuole? Forse ha fame. Ma non so come si fa, non me l’ha detto nessuno. Come al solito devo seguire l’istinto. Mi siedo sul letto a gambe incrociate. Peeta mi aiuta a togliermi questa camicetta ospedaliera ormai sporca, e resto a seno nudo. Ma non ho ne’ freddo ne’ vergogna, vorrei solo che la smettesse di piangere.

Evidentemente lei ha capito già tutto, perché non appena il suo nasino invisibile sfiora il capezzolo, scuote la testa inviperita da una parte all’altra e lo afferra, succhiandolo a più non posso.

Peeta è incantato. Io stringo gli occhi e serro la bocca dal dolore. Ahia.

 - Che brava tua figlia - sussurra una voce roca. E’ la mia vicina di letto, quella che sì e no dimostra vent’anni. - il mio lo scambia ancora per un gelato. Lo lecca e ci gioca. Ma tanto so che per ora non mangiano, vogliono solo riconoscere l’odore della mamma. Poi dicono che il latte arriva dopo. Tanto il mio evidentemente ha mangiato abbastanza nella pancia, visto che comunque fa un bel po’ di cacca ed è nato solo stamattina.

Sorrido a questa ragazza, mentre si volta dall’altra parte e ritenta di dormire. L’incoscienza e la semplicità della giovinezza.

La bambina succhia ancora senza sosta, mi dispiace che si impegni così tanto per non avere nulla. Ma almeno ora è tranquilla. Con la manina così piccola tiene una salda presa sul mio dito, e mi stupisco ancora di quanto sia calda e morbida. Seppure la stanza sia abbastanza illuminata, cerca di aprire gli occhi. E li tiene aperti senza difficoltà. Tento di capire di che colore sono. Verde scuro, sembra. Ma da chi li ha presi?

- Dicono che all’inizio siano tutti così - dice Peeta, mentre mi appoggia un lenzuolo sulle spalle - il colore definitivo arriva in qualche settimana, se non in qualche mese. Me l’ha detto l’infermiera.

- Quindi è una sfida? Azzurro e grigio?

- Si, va bene - annuisce ridendo - io tifo per l’azzurro. Somiglia già a te per i capelli, dammi qualcosa di mio.

- No. Perché se avesse gli occhi come i tuoi, da grande dovrei tenerla in prigione per tutti i maschietti che le verranno a fare la corte.

- Credimi, allora anche gli occhi grigi della madre sarebbero pericolosi. Parola di Mellark. - e so che dire all’improvviso il suo cognome scatena qualcosa. Quanto avrebbe voluto che ci fossero anche suo padre e i suoi fratelli, qui. Me li immagino, in un angolo della stanza, che lo prendono in giro, col padre di Peeta che tiene senza paura la bambina in braccio, e quando è più grande la porta al Prato, ci gioca, la fa volare in aria e la riprende. Il buon vecchio Mellark. 

Fermo l’immagine di mio padre, mia madre, di Prim, Gale, Mags, Finnick, Boggs, prima che mi soffochi. Tutte queste persone, che immagino venire a trovare me e la mia famiglia felice, devono fermarsi alla porta. Non possono entrare, non ora. Il loro pensiero è una fitta al petto peggiore di quella che mi provoca la piccola attaccata al seno. So che verrà il momento di piangerli, per chi non c’è più e non può vedere questo miracolo, o di affrontarli, per chi c’è ancora. Ora però sono troppo felice per lasciare che il dolore mio o di Peeta prenda il sopravvento. Devo fare come questa giovane ragazza vicino a me, che ha i capelli colorati di moltissime sfumature diverse e la schiena piena di tagli, escoriazioni, cicatrici, persino tatuaggi. Quello che c’è ora, c’è ora. Il resto aspetta.

Mi addormento, mentre Peeta stacca la bambina e la porta di là. Lei non piange e non protesta. Prima di sprofondare nell’oblio, catturo l’immagine di Peeta con questo fagotto in braccio, mentre le appoggia le labbra sulla fronte e chiudono per un attimo gli occhi entrambi, padre e figlia.

 

 

- Katniss? Katniss? Sveglia.

Biascico qualcosa. Una dottoressa mi sta scuotendo e un’altra cerca di svegliare la giovane accanto a me.

- Che succede?

- Ci dispiace, ma abbiamo avuto diverse emergenze stanotte. Ci sono due donne che hanno assolutamente bisogno di un letto, e voi due siete le uniche abbastanza in forma da lasciare l’ospedale senza rischi.  State bene e i vostri figli non potrebbero stare meglio. Acconsenti?

Ovviamente. Che bello, subito a casa e via dall’ospedale. Anche la mia vicina, che scopro chiamarsi Maya, firma e si alza.

-Andiamo a casa, fine della pacchia. Contenta, ghiandaia?

C’è qualcosa di lei che mi ricorda Johanna Mason. Per questo mi piace.

- Sì, contenta.

In fretta e furia è pronta. Vestita, valigia in mano e bimbo nell’altra. Un bimbo piccolino e biondino, addormentato come un salame.

- Spero che il ragazzo del pane apra anche oggi la panetteria, visto che sono le cinque del mattino, ho fame e ho bisogno di dolci per fare bene questo latte.

- Riferirò - rispondo.

- Ci vediamo in giro, Katniss - dice abbracciandomi. Sento la fragilità e la magrezza fisica di Maya, contrastante con tutta la forza apparente che ha.

Che ogni neo-mamma cerca di dimostrare, compresa me. Spero davvero di rivederla.

 

 

- Casa dolce casa - esordisce Peeta aprendo la porta.

- Muoviti - dico, perché la bambina urla e piange, e ho come la sensazione che stavolta voglia essere cambiata. Ha il pannolino gonfio e ha dato manate sul seno quando gliel’ho offerto.

- Dai qua - e si dirige in bagno, dove abbiamo montato un pannello di legno apposta per lei.

Mi insegna a lavarla, ed è enormemente facile, anche perché l’acqua calda sembra piacerle parecchio e sta ferma. Molto meno stare svestita al freddo, poverina. Cambiarle il pannolino è come impacchettare un regalo. Ridiamo alla semplicità di tutto questo.

Peeta scappa a fare il pane per la giornata, e io mi chiedo davvero come farà a reggere la mattinata, dato che la piccola è nata alle 21.50, ci siamo addormentati verso mezzanotte e abbiamo dormicchiato solo fino alle cinque. Io, almeno. Per cui non ho sonno, e resto sveglia sul letto a osservarla nella culla di legno di pino che ci ha regalato Johanna, fatta con le sue mani. Anche lei è sveglia. Ci scrutiamo, lei si guarda intorno curiosa e tranquilla, muove la mani, se le mette sulla faccia, muove la testa da una sponda all’altra del lettino. Chissà a cosa pensa. Chissà cosa vede per davvero. E’ enormemente interessante, non ho mai avuto occasione di vedere neonati che non piangessero o dormissero, ma che stessero così tranquilli. So che non sarà molto educativo per gli anni a venire, ma non resisto alla tentazione di prendermela tra le braccia ancora una volta.

 

 

Il pomeriggio dopo, bussano alla porta.

- Alla buon’ora, Haymitch! Avevi detto mattino e arrivi adesso a vederla! - esordisce Peeta.

- Ragazzo, ho dovuto andare a prendere ed accompagnare qualcuno. Altrimenti non facevo così tardi, no?

Il senso di quelle parole non mi arriva fino a che non appoggio per bene la piccola nella culla. Sollevo lo sguardo, ma sono impreparata a vedere chi mi sta davanti. Annie e il figlio. Mia madre. Haymitch.

- Wow - è l’unica parola che riesco a tirare fuori.

Annie l’ho vista l’ultima volta al quinto mese. Amo la sua compagnia e quella del ragazzone quasi sedicenne che le sta vicino. Mia madre, invece, non la vedo dall’inizio di tutto questo.  

- Ciao Katniss, - mi dice, baciandomi sulla testa. La abbraccio cercando di dimenticare quanta distanza il destino ha voluto mettere tra noi. Stavamo quasi per tornare a essere una mamma e una figlia normali, dopo la prima edizione degli Hunger Games, ma la guerra ci ha tolto ancora questa possibilità. E Prim.

- Non hai affatto l’aspetto di una nonna, sai? - dichiara Peeta, dimostrando sempre di saper dire la cosa giusta al momento giusto.

- Ne’ l’avrò mai, vero? - risponde lei rallegrata.

Prendo in braccio la bambina e gliela mostro, e chiacchieriamo di tutto. Questo piccola bambolotta di tre chili e quattrocento grammi esclude la sofferenza e il nero tra di noi. Annie si unisce al coro, a modo suo. Haymitch e il figlio di Annie continuano a prenderci in giro e a fare gli inopportuni, divertendosi molto. Mangiamo qualcosa e beviamo tutto il pomeriggio. Ci salutiamo, con la promessa di rivederci presto. Quelle promesse che sai che non sarai troppo in grado di mantenere, ma il solo fatto di sancirle ti fa sentire più leggero. E che forse manterrai, perché no.

Haymitch resta sul divano con la bambina sulla spalla, battendole la mano sulla schiena per farle fare il ruttino. Deve essere un esperto, perché lei lo fa quasi subito. Certo, i ruttini di Haymitch erano quasi tutti da alcolici.

- Ci vediamo domani - afferma infine alzandosi. - vedete di insegnare presto allo scricciolo a che ora si dorme.

- Ma dai, non mi dirai che ora la notte dormi! - rido io.

- Comincio a prendere le abitudini che si cofano alla mia età, dolcezza.

Solleva il pollice in aria e chiude la porta di casa.

Come non detto, quella notte nessuno di noi tre riesce a dormire decentemente. Tra cacca e mangiare, questa volta è una bella sfida. Ma sono contenta comunque. Sono abituata alle notti in bianco, al non dormire, e anche Peeta. Giochiamo con lei, le tiriamo i calzini, affondiamo il naso nel pancino che sa di borotalco.

- Nessuno ti farà mai del male - mi scopro a dire.

- Nessuno ci farà mai del male - risponde Peeta.

Se Peeta voleva vivere per sempre il momento in cui eravamo in terrazza a giocare disperatamente prima di andare incontro a morte sicura, durante l’Edizione della Memoria, io vorrei vivere questo momento per sempre. Prima che arrivino le difficoltà, i casini, i problemi di cui ho paura. Ma ricordo le parole che mi disse Boggs, e che ancora mi consolano tante volte: ...tu non morirai. Mi aspetto che tu abbia una vita lunga e felice, soldato Everdeen.

Perché? Gli chiesi.

Perché te lo meriti. 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Cap 8: Azzurro cenere (I'll carry your world) ***


- Mamma?
Distolgo lo sguardo dallo specchio del bagno e vedo mia figlia che mi tira la manica della giacca nera.
- Guarda, ho fatto la treccia tutta da sola. Ti piace?
Si gira, e mi mostra orgogliosa una treccia storta, con numerosi ciuffi sfuggiti alla presa delle sue manine, e miseramente corta, dato che la lunghezza dei suoi capelli, lisci e scuri, sfiora appena la spalla.
- E’ molto carina, tesoro.
Lei si gira e mi sorride. Tanto lo so che non resisterà a lungo, quella treccia. E’ parecchio scatenata all’asilo, e tra giochi e altro, scommetto che se ne vorrà liberare presto.  A differenza mia, che la porto per comodità, lei preferisce i capelli sciolti. Ma suppongo che sia un modo per attirare la mia attenzione, dato che in questi ultimi due giorni non le ho dedicato tanto tempo.
- Dobbiamo andare, è tardi! Prendi la cartellina, veloce!
Lei corre per il corridoio e ritorna subito, usciamo tenendoci per mano. Arriviamo all’asilo in pochi minuti di cammino. Mi inginocchio alla sua altezza e cerco di sistemare alla bell’e meglio i capelli scombinati.
Lei punta il dito contro la mia pancia.
- Oggi quanto è grande?
- Oggi è grande così! - le rispondo io approssimando una lunghezza con le dita.
- Ma è  ancora piccolo!
- Piano piano crescerà.
- E quando nasce?
- Ci vuole ancora tanto tempo - le sorrido io.
Vedo che ragiona sulle cose che le ho detto per un po’. I suoi bellissimi occhi azzurri si perdono un momento nel vuoto, proprio come quelli del padre quando è concentrato. La prima volta che ho visto queste sferette celesti che mi guardavano con curiosità, aveva circa tre mesi. Vedevo che pian piano il colore verdastro indefinito della sua nascita stava cambiando, ma solo un pomeriggio, mentre si svegliava dalla nanna pomeridiana, mi puntò addosso lo stesso sguardo di Peeta. La scommessa l’aveva vinta lui, e io non ero poi così delusa di aver perso.
- Tieni, non mi va più.
Mi passa l’elastico con cui ha legato i capelli. Come volevasi dimostrare, non ha resistito neanche un po’. Si cerca di pettinare con le dita, e io le scompiglio la chioma scura.
- Dai, smettila! Smettila, mamma! - ride come una matta, e rido anche io.
Prima di salutarmi, ha ancora qualcosa da dirmi.
- Perché oggi tu e papà siete vestiti tutti di nero? E’ triste!
 
Sulle prime non so cosa risponderle. Quello bravo in queste cose è Peeta, non io.
- Perché.... perchè lo zio Haymitch parte per un lungo viaggio, e quando le persone partono per dei lunghi viaggi è tradizione vestirsi così per andarlo a salutare.
- Zio Haymitch parte? E dove va?
- Non lo sappiamo neanche noi. E’ un segreto! - rispondo, cercando di sorridere.
- E non torna più?
- No.
Vedo i suoi occhi riempirsi di lacrime. La maestra, dal fondo del cortile dove sta radunando i bambini per farli entrare in classe, capisce al volo. Le basta guardare lei che singhiozza, me vestita di nero. E poi l’argomento lo sa. Lo sanno tutti, qui al Distretto 12. Mia figlia piange per circa un minuto, poi smette.
- Perché non posso venire a salutarlo anche io?
- Perché è una cosa solo per grandi - le rispondo con fermezza, e lei sa che non deve insistere molto. Il genitore che si arrende ai capricci è Peeta, non io.
- Perché zio non mi ha salutato l’ultima volta che siamo andati a casa sua?
- Perché Haymitch ti vuole così tanto bene che se ti viene a salutare di persona, si commuove troppo e non parte più. Ma lui vuole partire. Vuoi che per colpa tua non parta? Guarda che poi sta male. E mi ha detto di dirti che sei la sua bambina preferita e che ti vuole tanto bene.
- Anche io. Glielo dici mamma? Eh? Glielo dici? - chiede con voce lamentosa.
- Certo. Ora però devo andare. Passa una bella giornata, va bene? E non sudare troppo, o ti ammali.
Mi stampa un bacetto salivoso sulla guancia,  fa per andarsene, poi si rigira.
- Zio Haymitch va in cielo? L’altro giorno è andata in cielo la nonna di Mia.
-Non lo so. Glielo chiedo e poi te lo dico oggi pomeriggio, va bene? - rispondo, mentre cerco disperatamente di parlare con voce salda. Mi si forma un nodo gigante in gola.
Lei risponde un va bene a squarciagola, e poi entra in classe imbarazzata per aver fatto tardi.
La mia meravigliosa bambina.
 
Arrivo al cimitero trafelata. Ho fatto tardi, e si vede che molta gente mi stava aspettando. Ci sono la stragrande maggioranza degli abitanti del Distretto 12, e anche qualcuno dei distretti limitrofi. Tutti qui per dare l’addio a Haymitch Abernarthy. Peeta, in prima fila, mi stringe la mano.
 Il suo corpo, vecchio e aggrinzito, ma ben abbigliato, è lì. Il mio mentore non poteva essere più chiaro sulle modalità di sepoltura. Datemi fuoco, disse. Non voglio che il mio corpo marcisca lì sotto. Sono già troppo marcio di mio. Riducetemi in cenere, pura e semplice.
Le fiamme lambiscono il suo corpo pian piano, e invece di disperarmi, sento che la morsa che attanaglia il mio stomaco si fa più leggera. Eppur non voglio che questo dolore mi abbandoni così presto. Lo voglio tenere ancora un po’ con me.
Haymitch. Morto da solo, sul suo sfondato divano, qualche ora dopo avergli fatto visita con la piccola, che, dall’alto dei suoi quattro anni, ci giocava senza far caso al suo aspetto poco rassicurante. Zio Haymitch di qua, zio Haymitch di là. L’espressione sofferente del mio mentore passava ogni volta che riusciva a farla ridere, o giocava con lei, o rideva alle barzellette da cartoni animati.
L’hanno trovato così le sue donne delle pulizie, apparentemente addormentato, solo più giallo e raggrinzito del solito. Ma senza bottiglie in mano. Soltanto abbandonato alla volontà del suo fegato ridotto a un frittata sciolta, dei suoi reni affaticati, dei suoi organi stanchi.
- Resta vivo - gli dicevo negli ultimi tempi, scimmiottando la sua frase famosa. Ma lui era già rassegnato. E aveva vissuto. Penso a quella volta che mi disse che il suo scherzetto nell’arena costò la vita alla sua ragazza, a sua madre e a suo fratello. Chissà se aveva riprovato a ricominciare daccapo, a cercare una moglie, a ricostruirsi una famiglia, oppure, senza speranze, l’alcool è diventato il suo unico compagno. Poi siamo arrivati io e Peeta. Lui ha salvato noi da un’arena di morte, ha aiutato una rivoluzione nazionale,  ha estratto due persone che non volevano più avere a che fare con niente e nessuno e le ha riportate a casa.  Ciò che non è riuscito a fare per se stesso, l’ha fatto comunque. Perché noi eravamo diventati la sua famiglia.
Per questo lo sguardo con cui mi ha detto addio l’ultima volta era così sereno.
E ora sono serena anche io. Mi siedo sulla sedia nel Prato mentre le ultime fiamme consumano il corpo malato di Haymitch e lo trasformano in aria di libertà.
-Stai bene? - mi domanda Peeta.
- Si, bene.
- Non credi che tutto questo fumo possa...
- No, non credo. Tranquillo, è quasi finita.
Lui guarda con aria intenerita la pancia, che per adesso non c’è. Ma ci sarà. E scommetto che crescerà con più pace di quella precedente. Non so di quanto. Forse poco.
La cerimonia finisce. Io e Peeta torniamo a casa. La panetteria oggi è chiusa per lutto, non abbiamo altro da fare. Ma decido di portare Peeta in un posto. Camminiamo e camminiamo fino a che la superficie splendente del Lago non si palesa.
- E’ qui che venivi con tuo padre? - chiede Peeta, a corto di fiato.
- Si - dico io, appoggiandomi a un albero.
- E’ un bel posto. Bello davvero.
- Ci porterò la bambina, qualche volta. - rispondo.
Peeta mi osserva con sguardo strano, come se pensasse che questo luogo sacro non dovrebbe essere violato da nessuno tranne me. Ma se oggi ho imparato qualcosa, dal pianto di mia figlia che è durato così poco, alla serenità di Haymitch, al fatto che in questo momento galoppa un altro bambino dentro di me, è che non c’è nulla che possiamo tenere legato per sempre. Tutto muta e tutto può trasformarsi, se si vuole.
- Se sarà maschio, lo chiameremo come tuo padre? Come Haymitch? O come mio padre? - domanda Peeta con un sorriso.
- Secondo me è un’altra femmina. - sentenzio.
- Credimi, invece non sarà così!
- Sarà così, perché hai già vinto la scommessa sugli occhi di nostra figlia - rido.
- Facciamo così, vediamo quando nasce che faccia ha, e sapremo che nome dargli.
-Ti ho già detto che non sarà un maschio! - insisto io,  dandogli uno spintone affettuoso che lui non può ricambiare.
Peeta e io facciamo a gara a tirare in sassi sull’acqua, poi ci lasciamo alle spalle il Lago, tenendoci saldamente per mano.
Come abbiamo sempre fatto.
 






E’  finita!! E’ finita!! Campioni del mondo!! (cit.) No, scherzo. A dire il vero mi dispiace sia conclusa, ma la trovo perfetta così. Sono a posto con la mia coscienza! Spero solo che il finale sia stato bello e vi sia piaciuta, personalmente trovo la morte di Haymitch triste ma necessaria. Un cerchio che si chiude. Vita e morte. Mi piace troppo! :’)
Ringrazio moltissimo le 50 (50!!!) persone che hanno seguito questa storia. Personalmente non mi aspetto 50 recensioni, so che ci sono molti lettori che preferirebbero rimanere silenziosi e lo capisco. Ma allora mi permetterei  di ringraziare tutti coloro che hanno speso due parole per questa storia.
Tutti voi!! Tutti quanti!! Everybody!!
E, in particolare, Tonks87, Invierno90, Valeriaspanu, Mockingjay_00, Meras9100, e last but not least, Brittanaislove, dato che i suoi complimenti esagerati mi riempiono di feels. *-*
Come una Pringles tira l’altra, ho già l’idea per un’altra storia, completamente diversa. Farò un giro tra le fan fiction  per assicurarmi che nessuno l’ abbia già fatta.
Sventolo la mano per salutavi tutti! A light in the Darkness finisce qui!! 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2417637