Ritratti di dame

di melianar
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Mithrellas ***
Capitolo 2: *** Beruthiel ***
Capitolo 3: *** Tar-Ancalime ***
Capitolo 4: *** Morwen Eledhwen ***
Capitolo 5: *** Nimrodel ***
Capitolo 6: *** Nerdanel ***
Capitolo 7: *** Rian ***
Capitolo 8: *** Emeldir ***
Capitolo 9: *** Nienor Niniel ***
Capitolo 10: *** Aerin ***
Capitolo 11: *** Erendis ***
Capitolo 12: *** Tar-Miriel ***
Capitolo 13: *** Elwing ***
Capitolo 14: *** Finduilas Faelivrin ***



Capitolo 1
*** Mithrellas ***


 
 
 
    
Una leggera brezza entra dalla finestra aperta recando con sé l’odore del mare, penetrante e carico di promesse.
Un raggio di luna illumina il tuo volto addormentato.
Ti guardo, mio amato Imrazor.
Osservo i segni che il tempo impietoso incide sul tuo bel viso orgoglioso di Numenoreano, le rughe sempre più profonde sulla tua fronte, i primi fili argentei tra i tuoi capelli scuri.
Tu ancora non te ne rendi conto, amore mio.
Sei forte, vigoroso.
L’opprimente vecchiaia che affligge gli Edain non è ancora giunta a infiacchirti membra e spirito.
Eppure io posso già scorgerla, acquattata dietro le tue palpebre chiuse.
Al sol pensiero il cuore mi si spezza.
Dovrei gioirne, piuttosto.
Tu sei un Uomo, tu riceverai il dono dell’Uno.
Tu te ne andrai oltre Arda, dove a me non è lecito raggiungerti e non lo sarà mai.
Dovrei essere lieta. O quantomeno serena.
Preparata. Ma io no, non sono pronta.
Sono una codarda, amore mio. Nient’altro che una codarda.
Ma non ci riesco. Non riesco a pensare di vederti invecchiare, di vedere il tuo corpo appassire, il tuo spirito andarsene mentre io resterò qui.
Anche io invecchio, a mio modo.
Ma tu mi vedrai sempre identica al giorno in cui mi hai conosciuta, in cui mi hai vista danzare sulle rive del mare assieme alle mie compagne al suono di un canto antico, in una lingua che in pochi ancora ricordano.
Cos’accadrà allora, Imrazor? Mi odierai? Proverai invidia nei miei confronti? Rabbia? Disprezzo?
Ti ho spiegato che gli Edhil non sono immortali. Anche noi moriremo, quando Arda andrà in frantumi. Anche noi, seppur più lentamente, ci consumiamo.
Ma te ne ricorderai, mentre osserverai il lento disfarsi del tuo corpo?
Forse sarai tu stesso a cacciarmi, a maledirmi. Forse sto solo anticipando i tempi, sperando, illusa, di non farti soffrire.
Ma non potrò evitare la mia, di sofferenza. E nemmeno quella dei nostri figli.
Se compio questa scelta è anche per loro. Soprattutto per loro.
A lungo ho ignorato il mutare del corpo di Gilmith, il prepotente sbocciare dei suoi seni, la nuova, femminile curva dei suoi fianchi.
Per mesi ho finto di non vedere e l’ho trattata come una bambina, finché il primo, scuro sangue non è disceso a colorarle le cosce.
“Sei una donna, ora”.
Le ho detto, sorridendo e abbracciandola forte. Ma dentro di me ho pensato: così presto?
Lo stesso faccio con Galador. Ogni giorno tento di ignorare il timbro profondo della sua voce, quel corpo da pulcino sgraziato in cui in breve tempo si è trasformato il mio bambino e che ancor più rapidamente si tramuterà in quello di un uomo.
Troppo presto, mi ripeto. E’ accaduto troppo velocemente. Quanto in fretta, allora, li perderò?
Una donna può sopravvivere al proprio sposo, seppur con dolore. Ma come può, come può sopravvivere ai propri figli?
Dimmi, Imrazor, come posso sopravvivere ai miei figli? Ai loro figli? Ai figli dei loro figli? Come potrò vedere i nipoti dei miei pronipoti calcare le spiagge di Belfalas?
Non ne abbiamo mai parlato, io e te.
“Ti prego, mia cara. Non voglio sentire questi discorsi, mi rattristano”.
Lo so, hai paura della morte. E forse proverai verso di me odio e rancore, dopo questa notte. Come biasimarti?
Vorrei chiederti di comprendermi.
Vorrei potermi spiegare.
Vorrei dirti addio.
Vorrei svegliarti, abbracciarti.
Vorrei fare l’amore con te un’ultima volta.
Ma non posso.
Non mi lasceresti andare.
Forse nemmeno io partirei, dopo.
Perciò ti poso un leggero bacio sulle labbra, increspate in un lieve sorriso.
Chissà cosa sogni, mio amato.
Chissà cosa vedi.
E chissà cosa dirai, domani.
 
Abbandono in silenzio la stanza.
La mia stanza.
Luogo di gioia e d’amore, di passione, di litigi anche, a volte.
La stanza in cui ho messo al mondo i miei figli.
Non posso.
No, non posso andare a salutarli.
Vi diranno che sono stata una codarda, bambini miei. E avranno ragione.
Io, Mithrellas, Signora di Dol Amroth, vostra madre, non ho nemmeno il coraggio di entrare a darvi un silenzioso addio.
Se lo facessi il cuore mi si frantumerebbe.
Scoppierei in singhiozzi e la nave partirebbe senza di me.
E allora mai, mai più proverei a solcare le acque del mare impetuoso, mai più tenterei di raggiungere l’Occidente dove, dicono, ogni pena può essere, se non cancellata, alleviata.
Vi diranno che sono una donna dissennata, indomita, selvaggia.
Diranno che di una Silvana non ci si può fidare.
Forse vi diranno che quando gli Elfi sentono il richiamo del mare niente li può fermare. Nemmeno i legami di sangue. Nemmeno l’amore.
Io so che comprenderete la verità.
E so che, forse, la tramanderete ai vostri discendenti, grandi signori dall’antica saggezza e dai cuori valorosi nei quali si scorgerà il frutto dell’amore di due popoli. Un immenso, sconfinato amore.
 
 
 
Note
La vicenda su cui si basa questo primo capitolo è narrata, o meglio, accennata nell’opera “Racconti incompiuti”. L’Uomo e L’Elfa Silvana in questione sono i capostipiti della dinastia dei Principi di Dol Amroth da cui, in linea materna, discendono anche Boromir e Faramir.
Riguardo a Mithrellas, il Professore ci dice soltanto che era una compagna di Nimrodel e che, dopo aver sposato Imrazor e avergli dato due figli, Galador e Gilmith, una notte fuggì senza lasciar traccia. Con questa piccola one-shot ho voluto provare a spiegare il perché di un tale gesto.  
Spero vi sia piaciuta. Mi raccomando, recensite (se avete critiche non abbiate timore, sono più che ben accette!)
Naturalmente ci tengo a precisare che nessun personaggio presente in questa raccolta è di mia proprietà, appartengono tutti al professor Tolkien e ai suoi eredi. Io mi auguro solo di saperli rendere degnamente.
In ultimo vi chiedo: ho già una vasta rosa di donne su cui conto di scrivere, ma se per caso ve ne fossero alcune che suscitino in particolar modo la vostra curiosità (Arwen, Eowyn e Galadriel non valgono XD) vi prego di segnalarmele, vedrò quel che si può fare! Sarebbero più gradite donne appartenenti alle stirpi degli Elfi e degli Uomini, al momento sono poco ispirata per Nani e Hobbit.  
E con ciò vi lascio, al prossimo capitolo!
 
Melianar

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Capitolo 2
*** Beruthiel ***


“Sire Tarannon vi manda a dire che domani verrà a prendervi, mia signora”.
Tiene gli occhi bassi, la fanciulla. Non osa guardarmi.
Fa una riverenza e poi scompare, senza nemmeno attendere una mia risposta.
Bambina sciocca. Ho visto come guardava i gatti, acciambellati sul mio letto.
Questa gente teme che, a un mio comando, possano strappar loro gli occhi con gli artigli.
Sarebbero questi, dunque, i discendenti della perduta Numenor?
Uomini e donne che scappano mormorando scongiuri alla vista di un gattino?
Come ti sei ridotto, popolo di Elenna!
Gli eredi di Elendil non sono altro che asini, pecore alla mercé della superstizione!
E tu non sei da meno, Tarannon. Domani verrai a prendermi.
Dunque, mi credi una stupida? Credi forse che io non abbia capito quale sorte hai in serbo per me?
No, mio caro. Non sono stati i miei fedeli gatti ad avvertirmi.
Semplicemente, ho occhi per vedere e orecchie per sentire.
E, soprattutto, una mente che ragiona. Molto più lucidamente della tua, oserei dire.
Spero che sarai soddisfatto, quando vedrai la nave con a bordo me e i miei gatti abbandonata in balia delle correnti marine.
Davvero, mi auguro che ciò possa arrecarti gioia.
Sai bene quanto io detesti il mare.
L’odore salmastro mi nausea, il rumore delle onde mi provoca terrore.
Dici che sono una donna crudele. Ma chi è più crudele, tra noi due?
Ora che sono sola, ora che nessuno può sentirmi, ora che nessuno può giudicarmi posso ammetterlo: ho paura.
La gatta bianca viene ad acciambellarsi sul mio grembo.
I gatti percepiscono le sensazioni, le emozioni molto meglio di qualsiasi presuntuoso Dunadan.
E voi li disprezzate, addirittura li maledite! Come potete?
La gratto dietro le orecchie. Vorrei che non sapesse cos’accadrà domani.
Che nessuno dei gatti sapesse. Ma so che non posso fare niente contro il loro intuito formidabile. Meravigliosi, meravigliosi felini.
Un gatto nero, un maschio, mi posa una zampetta vellutata sotto il mento.
Dicono che vi tormento. Che leggo nelle vostre menti. Che mi servo di voi per entrare nelle case e spiare i segreti del mio popolo.
Quando per la prima volta mi riferirono tali dicerie, scoppiai a ridere.
Io, Beruthiel, Regina di Gondor, interessarmi agli stupidi intrighi dei nobili, alle basse passioni del popolo!
Era così sciocco che nemmeno tentai di difendermi. E così, l’idea continuò a diffondersi, insinuandosi nei cuori come un tarlo.
E pensare che avrei potuto farlo, se solo avessi voluto!
Con i miei gatti ho sempre conversato.
Sono sempre stati testimoni di ogni mio dubbio, ogni mio timore, ogni mia gioia.
Anch’io, d’altro canto, conosco i loro piccoli, affascinanti segreti di bestie.
Non sarebbe stato difficile, per me, servirmene per i miei scopi, se solo avessi voluto.
Se solo ne avessi avuti, di scopi.
Ma ho preferito che restassero gatti.
Non ho nemmeno imposto loro dei nomi, per non privarli della loro libertà di animali.
Ma viviamo in tempi cupi, ahimè. La gente è ignorante, cattiva.
Conosco bene le imprecazioni, gli insulti che chiunque (sì, anche tu, Tarannon) lancia alla sola vista di un elegante muso felino. Non sono i gatti, che dovete temere!
L’Ombra, quella sì che dovrebbe farvi paura!
Dovresti essere un uomo valoroso, Tarannon. E invece un Re discendente di Re non sa far altro che accanirsi contro una donna e dieci bestie indifese!
E dire che, a mio modo, ho anche cercato di essere una buona moglie.
No, non desideravo sposarmi.
Obbedii controvoglia al volere di mio padre perché, come continuava a ripetermi, il figlio d’un Re non si rifiuta mai.
Ho provato, davvero, a essere la sposa che volevi, Tarannon.
La Regina esemplare che il popolo si aspettava di vedere al tuo fianco.
Non mi sono forse concessa a te ogni qual volta lo desideravi, nonostante la sola idea dell’unione dei corpi mi provocasse orrore e disgusto?
Non ho forse tentato con tutta me stessa di darti il tanto sospirato erede al trono, nonostante detestassi i bambini con tutta l’anima?
Poi li udii, i bisbigli delle domestiche.
Dicevano che praticavo incantesimi per inaridirmi il grembo e che i gatti erano miei complici. I gatti? E in che modo, di grazia?
“Non crederai a tali sciocchezze, Tarannon”.
Dissi, guardandoti dritto negli occhi.
Tu non rispondesti e evitasti il mio sguardo.
Allora compresi. Codardo.
Fu in quel periodo che mi trasferii qui, ad Osgiliath.
Sola con i miei gatti e le mie sculture che tanto disprezzi. Se solo le avessi osservate con più attenzione!
O temi anche quelle?
Mi domando come fai a essere il gran navigatore di cui tutti cantano, Re Falastur.
Forse è a bordo di una nave che acquisisci coraggio e baldanza, perché a terra non sei altro che un inetto.
E un inetto resterai, primo Re senza eredi di una dinastia destinata a disfarsi, a logorarsi nel vizio e nella superstizione finché non giungerà un sovrano degno di questo nome.
Tu puoi anche esiliarmi, mio amatissimo sposo. Ma io posso maledirti.
L’hai detto tu che sono una strega, giusto?        
Potrai cancellare il mio nome da ogni scritto, eliminarmi per sempre dalla storia delle Regine di Gondor.
Dopotutto, cosa importa? Non ho mai desiderato regnare, io.
Non ho mai amato il mio popolo più di quanto esso mi abbia riamata.
Cancella dunque il mio nome, Tarannon.
Vieta a chiunque di pronunciarlo, se ciò ti provoca piacere.
Sappi, però, che la memoria del popolo è assai più duratura di quella dei libri.
Il mio nome sarà sussurrato con timore e reverenza, perfino con odio.
Il popolo ricorderà Beruthiel, la nera Regina dei gatti, assai più a lungo di quanto non ricorderà Tarannon, l’infelice sovrano senza eredi.
Se nessuno dei tuoi sudditi potrà dire ad alta voce il mio nome, lo faranno invece i gatti.
Ogni gatto, a Gondor e in tutta Arda griderà per sempre il nome della figlia incollerita.
E i loro miagolii risuoneranno nella notte, angoscianti lamenti d’agonia per gli stolti, richiami ad un’antica libertà per i saggi, finché di saggi ce ne saranno.
 
 
 
 
Note
 
Ed eccoci qua con il secondo capitolo, in compagnia della cupa, solitaria regina Beruthiel.
Da inguaribile gattofila quale sono, non ho mai digerito il fatto che l’unico personaggio che Tolkien associa ai gatti sia una donna così malvagia da essere perfino cancellata dagli Annali dei Re di Gondor.
Ho quindi cercato, a modo mio, di approfondire questa figura, di darle una voce e un suo punto di vista, che ho immaginato diverso da quello delle cronache ufficiali. Spero di non averne stravolto troppo il carattere facendone un OOC, non era questa la mia intenzione!
L’intera storia di Beruthiel, compresa di riferimenti alle sue contorte sculture, alla casa di Osgiliath e ai famigerati gatti (nove neri e uno bianco) si può trovare all’interno dei “Racconti incompiuti”.
La traduzione italiana del nome Beruthiel dovrebbe essere “figlia incollerita”, da qui il riferimento nel testo.
Mi scuso per la mancata accentazione dei nomi propri: il mio computer è vecchio e capriccioso, la mia tastiera è rotta e io faccio quel che posso. Prego i puntigliosi come me di essere clementi!
Ringrazio infinitamente tutti coloro che leggono questa raccolta. Se mi lasciaste una recensione, anche critica, anche di poche parole, mi rendereste immensamente felice. Ci tengo a conoscere i vostri pareri!
Grazie ancora a tutti, alla prossima!
 
Melianar

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Capitolo 3
*** Tar-Ancalime ***


Mi giro e mi rigiro tra le coltri, incapace di prender sonno.
Calmati, Ancalime. Stai calma. Non giocare il loro gioco.
Sei l’Erede del Re, non l’oggetto del divertimento di un massaro e dei suoi contadini!
Continuo a ripetermelo, coprendomi la testa con il lenzuolo per non sentire.
Ma nemmeno questo basta a soffocare le risa, gli schiamazzi, i gemiti che riempiono la casa.
La mia casa.
Hai vinto, Hallacar.
Sei riuscito ad umiliarmi, alla fine. A far sì che persino le donne si volgessero contro di me.
Pagherai, per questo.
Pagherai, per aver provato a piegare Ancalime.  
 
Uno strillo acuto, sguaiato sovrasta per un attimo il fracasso generale.
“Un brindisi, un brindisi all’Erede del Re! Brindiamo, sorelle, a Tar-Ancalime, la nostra splendida signora!”
Le mie donne. Le mie donne ridono di me. Tutti mi deridono. Perfino le pareti di questa stanza sembrano sorridere maligne.
Hallacar, ti odio!
Cosa credevi di fare? Volevi mostrare la tua grandezza, la tua infinita magnanimità permettendo ai tuoi contadini di unirsi in matrimonio con le mie sventurate ancelle?
Povere, povere fanciulle a cui i capricci di una tiranna impediscono di godere delle gioie dell’amore! Ah, donne infelici, che non conosceranno mai il piacere della compagnia di un uomo!
Non era forse questo che dicevi? Non è ciò che si mormora in giro?
Ma quanto sei generoso, Hallacar.
Per secoli il tuo nome sarà ricordato nelle ballate dei pastori, quelle che mi cantavi quando ancora per me non eri altro che Mamandil il pecoraio.
Quando, seppur per breve tempo, ho creduto di poter apprezzare la compagnia di un uomo.
T’avessi preso a schiaffi, allora! T’avessi rimesso al tuo posto a colpi di bastone, come si fa con la pecora indisciplinata che non vuol restare nel gregge!
E invece non lo feci, stolta.
Dimenticai i moniti di mia madre, dimenticai di essere Ancalime e fui soltanto Emerwen.
Ti lasciai cantare, e un giorno conobbi perfino il tocco e il sapore delle tue labbra.
Se tu fossi stato davvero Mamandil e non Hallacar di Hyarastorni, se io fossi stata soltanto Emerwen la pastorella e non l’Erede del Re, a volte mi chiedo se sarebbe andata diversamente.
Poi mi rispondo che no, nulla poteva essere diverso.
Gli uomini, siano essi Re o braccianti, marinai o pastori, sono tutti uguali.
Prima o poi saremmo arrivati a questo punto.
A questa notte.
A queste tue stupide provocazioni che dovrebbero passarmi sopra come acqua e invece mi si conficcano dentro e bruciano, bruciano più di tizzoni ardenti.
Con te non dovrei prendermela poi tanto, dopotutto.
Non sei altro che un uomo, e fui io tanto stupida da accettare di sposarti.
Ma le donne… Come potrò dimenticare i volti delle mie fidate ancelle atteggiati a sorrisetti ironici rivolti nella mia direzione?
Sposatevi pure, partecipate a quest’indecenza che mio marito ha organizzato per voi.
Per una notte di piacere, riceverete una vita di amarezze!
Poche ore di passione sfrenata, di corpi che si uniscono, si sfregano, si annusano al pari delle bestie ed ecco che si dimenticheranno di voi, vi abbandoneranno in un angolo a guisa di bambole rotte.
Perché l’uomo è come un bambino, un bambino viziato.
Ha bisogno di giocattoli sempre nuovi con cui trascorrere il suo tempo, altrimenti si annoia, grida e pesta i piedi.
Voi sarete anche un bel giocattolo, all’inizio.
Ma pensate che potrete ancora essere interessanti, quando avrete il corpo deformato dalle gravidanze? Quando un bambino attaccato al vostro seno pretenderà tutte le vostre attenzioni?
Se non volevo che contraeste matrimonio, era solo perché non diveniste i giocattoli di nessuno.
Ma siete state voi a decidere, e a tradirmi.
E con quanta naturalezza lo avete fatto!
Non mi sono resa conto di niente mentre, l’aria rassegnata, i visi contriti, vi accingevate a scortarmi alla festa.  
False, false e ipocrite: questo siete.
Ma non temete, domani me ne andrò.
Lascerò per sempre l’Emerie, cosicché possiate ridere di me indisturbate.
Nemmeno le pecore mi rispettano più: ne avverto i sommessi belati, lontani nella notte.
Quei belati che per tutta la vita mi sono stati di conforto e consolazione ora risuonano come orribili risa di scherno alle mie orecchie. Beeeee, beeeee, Ancalimeeee.
Stupide, stupide bestie! D’altro canto, che cosa fate tutto il giorno, tutta la vita, se non piegarvi ai voleri di un ariete che mai si curerà di voi o dei vostri agnelli?
Le aquile, loro sì che sono perfette: fiere, indomite, libere.
E i padri si prendono cura dei figli senza mai stancarsene.
Le loro compagne non hanno bisogno di tenerli legati al nido   con stupide moine o grida minacciose.     
Non come mia madre, che si consuma nel dolore e nell’amarezza per esser stata trascurata da un uomo bramoso di mare e terre inesplorate.
Non posso che compiangerti, madre mia.
Fosti tu a svelarmi la vera natura degli uomini, a mostrarmi la loro grettezza e viltà. E ora non fai che struggerti per uno di loro!
Ti fingi dura come l’acciaio, quando io so che ancora oggi cadresti ai piedi di mio padre, se solo lui te ne desse pretesto.
Non siete che da compiangere, tutti e due. Ma nonostante questo non posso che amarvi.
Così come, malgrado tutto, amo mio figlio.
Anarion, l’unica cosa bella che Hallacar sia stato in grado di darmi.
L’unica cosa bella che abbia prodotto in una vita intera, a dire il vero.
Non che io desiderassi un bambino, beninteso. E un maschio, poi!
Ma ho pagato il prezzo del mio piacere.
Ho avuto te, Anarion, bello come il sole e altrettanto splendente. Sei uomo, certo.
Ma figlio di Ancalime!
“Come può una donna essere tanto spietata da strappare un figlio alle braccia di suo padre?”
Così si lamentava Hallacar, quando tu non eri altro che un bambino.
Come se gli importasse. Come se la tua educazione avesse realmente un peso, per lui.
Non ti ho lasciato nelle sue mani, ad apprendere l’arte del vizio e della sopraffazione.
Non voglio illudermi, non voglio credere d’esser riuscita a renderti diverso dagli altri uomini.
Ciò non toglie, però, che io non ci abbia provato.
E io so, figlio mio, che domani sarai pronto a partire.
A lasciare il tuo tracotante padre in questa terra di pastori per seguire me, tua madre, la donna che ti ha generato e che ti ama più di chiunque altro.
Saremo felici, figlio mio, nella nostra dimora ad Armenelos.
Nessuno potrà disturbarci, nessuno potrà piegarci.
L’avevo detto, che Hallacar avrebbe pagato.
Questo, mio caro, non è che l’inizio.
 
 
 
Note
 
Siamo arrivati alquarto capitolo… Wow, non credevo che sarei stata capace di portare tanto avanti una raccolta, data la mia proverbiale incostanza. Ma sono arrivata fin qui e la cosa mi rende immensamente felice.
Spero che l’ispirazione continui a essermi amica!
La dama protagonista di questa one-shot è Tar-Ancalime, prima Regina Regnante di Numenor.
Si tratta di una donna orgogliosa e caparbia, di cui si parla diffusamente nel racconto “La moglie del marinaio”, contenuto nell’opera “Racconti incompiuti”.
Sua madreErendis, delusa dal matrimonio con Sire Aldarion, si trasferì nella regione dell’Emerie, terra ricca di pascoli, dove impartì ad Ancalime una rigida educazione e, soprattutto, le trasmise un profondo disprezzo per il genere maschile, cosa di cui qui vediamo i risultati.
Personalmente non so ancora che cosa provo nei riguardi di questo personaggio. A volte la ammiro e altre volte vorrei prenderla a schiaffi, perciò non ho idea di come mi sia uscito questo capitolo.
Era però tanto tempo che volevo scriverlo e sono contenta di esserci riuscita.
Fatemi sapere cosa ne pensate, al solito le recensioni sono graditissime.
Come sempre grazie infinite a tutti coloro che leggono e che hanno inserito la storia tra le seguite o tra le preferite, un bacione e alla prossima!
 
Melianar 

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Capitolo 4
*** Morwen Eledhwen ***


Il sole cala lentamente dietro i monti, cedendo il posto alle prime stelle.
Le osservo, seduta in silenzio accanto alla finestra.
Ecco Wilwarin che pare una farfalla, e Valacirca, la falce che i Signori d’Occidente posero in cielo a eterna sfida del Nero Nemico, Morgoth.
Fosti tu, Hurin, a narrarmi la storia di stelle e costellazioni, a insegnarmi i loro nomi nell’antica lingua degli Elfi d’oltremare. “Li ho appresi da Sire Fingon”, dicevi, mentre i tuoi occhi si smarrivano in sogni e ricordi lontani.
Ah, quanto tempo è trascorso! Eravamo giovani, allora. Giovani e ingenui.
Credevamo che tutto sarebbe andato per il meglio, alla fine. Perché tu eri Hurin Thalion e io Morwen Eledhwen, e questo bastava. Ricordi come riuscivi a strapparmi un sorriso, a farmi dimenticare, anche solo per brevi istanti, i terribili orrori della Bragollach?
Fu per questo, credo, che mi innamorai di te. Non solo eri forte come pochi tra gli Edain, ma possedevi l’allegria, il riso che io avevo perduto e che tu, tu solo, eri in grado di far sgorgare dalle mie labbra, benché di rado. Ma sono sciocche, ora, queste parole. Tuttalpiù buone    a ricordare un morto, e tu non sei morto. Io so, io so che la Nirnaeth Arnoediad non ha ucciso Hurin Thalion. C’è troppo, in te, perché Morgoth lo spezzi. T’avrei forse potuto amare, diversamente?
Seduta accanto alla finestra, io ti aspetterò ogni notte. E so, ne sono certa, che la mia attesa non sarà vana.
Mi credano pure illusa, mi credano folle, anche. Pensi che Morwen si lascerà dissuadere dalle chiacchiere di quattro vecchi?
Sì, perché nient’altro resta, nella casa del Signore del Dor-Lomin: nient’altro che vecchi e infermi.
Hurin! Hurin! Ti promisi che avrei custodito i tuoi beni, e ora non posso impedire che intrusi dell’Est asserviti a Morgoth si impadroniscano delle tue terre, né che la gente di Hador sia costretta in schiavitù e trattata al pari delle bestie!
Hurin, mio amato sposo, quando tornerai? Quando porrai fine alla violenza, ai soprusi, alle ingiustizie?
Quando verrà il giorno in cui tuo figlio potrà avere ciò che gli spetta di diritto, senza dover cercare rifugio come esule in terre lontane?
Quando verrai, Hurin, a conoscere tua figlia Nienor?
Nemmeno volli dirti che ero incinta, il giorno della partenza.  Temevo di mutare i tuoi propositi, temevo che la brama del ritorno divenisse in te più forte del desiderio della battaglia.
Così ora non sai. Non sai che una bionda figlia della casa di Hador sta dormendo tra le mie braccia.
Nienor, l’ho chiamata. Cordoglio. Perché il riso è fuggevole, effimero. A spegnerlo basta un battito di ciglia, un colpo di vento maligno.
Non così il dolore. Possa tu vivere a lungo, Cordoglio, bambina mia. Cordoglio, non pianto. Ti insegnerò a essere fiera, una donna forte che saprà suscitare rispetto e reverenza al sol guardarla. Ti insegnerò a celare la sofferenza, a nascondere le lacrime nei recessi più segreti del cuore. Non come me. Non come tua madre, che nel silenzio della notte piange come una bambina, come una stupida.
Lo crederesti, Hurin?
Riesci a immaginare me, la tua Eledhwen, sommersa dalle lacrime, squassata dai singhiozzi? Io, che frenai il pianto perfino alla morte di Urwen! Il pianto è per i deboli, dicevo. E tuttavia ora mi ci abbandono, sperando possa arrecare sollievo al mio cuore oppresso.
Ma il peso nel mio petto resta quello di un macigno. Le lacrime non consolano, sfiniscono e basta. A che pro, dunque, rifugiarsi in esse?
Lentamente mi alzo, poso Nienor nella piccola culla accanto al mio letto. La bacio sulla fronte, attenta a non svegliarla.
Possa il tuo sonno essere sereno, Nienor figlia di Hurin.   
Mio malgrado, anche per me deve giungere il tempo dei sogni. E dei loro dolci, dolorosi inganni.
Anche stanotte verrai a me, Hurin, ti stringerò tra le braccia e il sapore dei tuoi baci allieterà per un poco le mie labbra riarse.
Di nuovo questa notte vedrò Turin, il mio Turin, e potrò abbracciarlo stretto e dirgli tutto ciò che in sua presenza le mie labbra hanno taciuto.
Ancora una volta, questa notte vedrò Urwen. Vestirà di giallo e riderà, riderà di quel riso spensierato dei bambini, una risata gaia che nessuno può fermare. 
“Vieni con me, nana”, dirà. “Non posso, Lalaith, sto aspettando”, risponderò.
E infine accadrà, come tutte le notti. Udrò il possente nitrito di Arroch, il suo galoppo sui ciottoli del cortile. Sentirò la tua voce, Hurin, gioviale e imperiosa a un tempo. E’ tornato, penserò, svegliandomi e affannandomi alla ricerca della veste. E’ tornato.
Ma presto la rete dei sogni inizierà a disfarsi.
Il nitrito che avevo creduto di udire non sarà altro che il vagito di mia figlia, la voce del mio sposo niente più che un grido nella notte. Ancora una volta, la realtà si mostrerà a me in tutta la sua brutale asprezza.
Ancora una volta, sarò pronta ad affrontarla. Per un giorno.      
 
 
Note
 
Ed ecco qui il terzo capitolo.  La protagonista è, come senz’altro avrete capito, l’orgogliosa Morwen Eledhwen, sposa di Hurin e madre di Turin Turambar.
La tragica, meravigliosa storia di questa famiglia è contenuta ne’ “I figli di Hurin”, ma anche, seppur in forma breve, nel “Silmarillion” e nei “Racconti incompiuti”.
Per chi non avesse letto nessuna di queste opere, o semplicemente avesse bisogno di un ripasso: Morwen sposò Hurin, signore del Dor-Lomin e da lui ebbe tre figli: Turin, Nienor (più tardi detta Niniel) e Urwen detta Lalaith, che morì bambina.
Lalaith significa “riso” in lingua Sindarin, mentre Nienor significa “cordoglio”.
Dopo la Nirnaeth Arnoediad, (Battaglia delle Innumerevoli Lacrime), Morwen continuò ad attendere a lungo il ritorno del marito.  E’ Tolkien stesso a narrarci delle sue notti insonni nella speranza di udire il nitrito di Arroch (nemmeno il nome del cavallo è opera mia).
“Nana” è una parola che significa “mamma”, sempre in lingua Sindarin.
I nomi delle stelle citate all’inizio invece sono in Quenya: Wilwarin corrisponde a Cassiopea, mentre Valacirca, la “falce dei Valar” corrisponde alla costellazione dell’Orsa Maggiore. Non so nulla di astronomia perciò non ho la più pallida idea dell’ordine in cui dovrebbero sorgere le stelle, ne ho semplicemente citate due che mi piacciono. Perdonate la licenza poetica o, eventualmente, correggetemi.
E con ciò la pianto di tediarvi con le mie note chilometriche.
Ringrazio tutti coloro che leggono, seguono o hanno inserito questa raccolta tra le preferite, ma soprattutto ringrazio di cuore tutti coloro che recensiscono.
I vostri commenti sono importantissimi per me, non mi stancherò mai di ripeterlo!  
Un abbraccio, al prossimo capitolo!
 
Melianar                    

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Capitolo 5
*** Nimrodel ***


Dove te ne vai, fiume dalle acque scintillanti? Qual è il tuo nome, dove conduce il tuo eterno vagare?
Non mi risponde, questo fiume così simile al mio che ho tanto amato in Lorinand.
Danza e vortica senza sosta, ripetendo il suo canto sommesso: “Nimrodel, Nimrodel”.
Come conosci il mio nome, se io ancora ignoro il tuo?
“Nimrodel, Nimrodel”. Non muta, la musica del fiume.
Mi chiama, ed io mi sento a casa.
Mi fermerò a riposare per un poco. Solo un poco.
Siederò qui, accanto a queste acque che mi chiamano per nome.
Poi riprenderò a camminare, cercherò la strada giusta tra i monti e ti troverò, Amroth.
Saremo di nuovo insieme, io e te. E tu mi porterai nel paese pacifico al di là del Grande Mare, dove le nostre nozze potranno finalmente avere luogo.
Dove i figli di Nimrodel potranno crescere liberi da ombre e timori.
Chissà come sono gli alberi, in Occidente. Saranno belli quanto i miei di Lorinand?
E con che voci cantano, i fiumi di quelle terre? Quali parole sussurrano alle orecchie di chi sa ascoltare?
Vorrei chiederti queste ed altre cose, Amroth. Perché tu certo avresti le risposte.
Sai tutto sull’Occidente antico e su coloro che da lì fuggirono, Elfi crudeli e stanchi di pace che qui condussero le loro guerre, uccidendo bestie e alberi e genti senza colpa.  
Amroth, mio amato Amroth, come avrei potuto sposarti?
Come avrei potuto accettare di essere regina di un simile popolo?
“Sono un Silvano anch’io”, dicevi sorridendo e mostrandomi l’albero che avevi eletto a tua dimora.  Ma che la tua casa somigliasse alla mia non era sufficiente. Nel cuore è come loro, mi dicevo. Li accetta, li ama. Mai lascerà che questa terra torni ai Silvani e a loro soltanto!
Nascosi in fondo al cuore l’amore che provavo per te, rispondendo con risate alla tua gentilezza, fuggendo ogni volta che provavi ad avvicinarti troppo.
Eppure Anch’io mi struggevo.
Anch’io ti desideravo.
Anch’io, a volte, sognavo   che fosse diverso.
Che fosse più facile.
Che tu non fossi il re di molte genti, ma solo Amroth di Lorinand. Solo questo, e nient’altro.      
Se solo avessi saputo… Se solo allora avessi capito che eri pronto a rinunciare a tutto, per me.
Che avresti abbandonato   la tua terra. Il tuo popolo. Il tuo regno.
Che per me avresti corso pericoli terribili e mai visti.
Amroth, Amroth, dove sei?
Fiume, tu che conosci il mio nome e queste lande desolate, dimmi: dov’è Amroth? Dov’è il mio amato?
E’ vivo?
E’ morto?
E’ forse giunto presso il Grande Mare, e su di una bianca nave attende impaziente il mio arrivo?
Non partire, Amroth, ti prego: non partire! Aspetta un giorno ancora, uno soltanto.
Ricorda le promesse d’amore e fedeltà che ci scambiammo ai margini della foresta minacciosa. Ricorda le mie labbra, che per la prima volta sfiorarono le tue. Non mi lasciare sola, non mi lasciare sola!
Ora sono troppo stanca, ma domani, sì, domani anche io imboccherò la giusta via.
Non ricordo più neppure cosa ci abbia divisi, amore mio. So solo di aver corso, corso in preda al terrore e alla follia. E quando mi fermai, tu non c’eri più
Ma perché? Cosa videro i miei occhi, da suscitarmi un tale spavento?
Non lo so, non lo so più. Nemmeno importa molto, alla fine.
Sola sono fuggita tra i monti, sola ho camminato finché le gambe mi hanno sorretta.
Mai avrei creduto esistessero montagne tanto alte. Picchi aguzzi, malvagi, che mi scrutano ostili e mi sbarrano il passo.  E tra essi Orchi, terribili quanto quelli che mi costrinsero a lasciare il Lorinand.
E poi Uomini… Non rispettosi come quelli che incontrammo io e te, Amroth, tra le città di pietra in cui mi sentivo soffocare.  Qua ve ne sono di scuri e crudeli, dagli occhi spaventosi e dai cuori senza legge.
Ma nessuno di loro può battermi nel salto, né ha imparato dalle cerve l’arte della corsa. E’ per questo, credo, che sono riuscita a fuggire. Che sono giunta a queste chiare sponde, a queste terre libere da minacce.  
Ma ora fa freddo, tanto freddo. E il fiume continua a cantare per me, a chiamarmi a sé con la voce gentile di una madre.   
Che male ci può essere, se chiudo un poco gli occhi?
Se poso per un attimo la testa sulla pietra?
Prima dell’alba sarò già in cammino.
“Nimrodel, Nimrodel” …
 
 
 
Note
 
Perdonate il capitolo breve oltre ogni dire, ma vi confesso che non è stato affatto facile scriverlo.
Nimrodel è una figura strana e al quanto misteriosa, perciò è stato per me parecchio difficile immedesimarmi in lei e tentare di renderle giustizia. Ho dovuto soppesare ogni parola e credo che allungare il capitolo sarebbe stato deleterio.
In ogni caso, l’ultima parola spetta a voi: se avrete voglia di lasciarmi un commento, positivo o negativo che sia, come sempre ve ne sarò grata. Il parere di chi legge è importantissimo per me, mi aiuta a andare avanti e a migliorare.
Venendo a Nimrodel, la sua storia, triste e romantica, si trova nei “Racconti incompiuti”, ma è soprattutto nota per via del canto che Legolas intona nel “Signore degli Anelli”, quando la compagnia giunge a Lorien.
Dal momento che poco si sa sulla fine di Nimrodel, io ho seguito la versione più “accreditata” e più romantica, quella in cui Nimrodel, separatasi da Amroth e sperdutasi tra i Monti Bianchi, trova un fiume che le ricorda quello accanto a cui ha sempre vissuto, si ferma presso le sue acque per riposare e cade in un sonno profondo. Il fiume la porta con sé fino al mare, dove in preda alla disperazione si è gettato Amroth.
Lorinand non è altro che Lothlorien, chiamato così nell’antica lingua dei Silvani parlata da Nimrodel.
La “foresta minacciosa” è Fangorn, così come le “città di pietra” a cui si riferisce Nimrodel nel testo sono città del regno di Gondor in cui si recarono lei e Amroth prima di separarsi. Ho immaginato che Nimrodel, fanciulla cresciuta nei boschi di Lorien, ignorasse i nomi di tali luoghi.
Bene, anche stavolta sono riuscita a scrivere note incredibilmente lunghe.
Abbiate pietà, sono orribilmente pedante e me ne scuso!
Un bacio, a presto!
 
Melianar     

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Capitolo 6
*** Nerdanel ***


Tutto è silenzio.
Non si ode nulla, eccezion fatta per il solitario, malinconico canto di un usignolo nascosto tra gli alberi.
L’aria è pregna della lieve tensione che precede il sorgere di Anar.
Presto, la terra sarà nuovamente arsa dal suo calore.
Nuove luci, a illuminare il mondo.
Nuovi colori, più intensi.
E nuove stagioni, più brevi, più rapide.
Ci si abitua. A tutto ci si abitua.
A Anar e Isil che splendono maestosi in cielo e mai potranno sostituire la perduta luce di Telperion e Laurelin.
Ci si abitua al silenzio, al vuoto, all’assenza.
Mi reco spesso qui, da quando siete partiti.
In questo giardino carico di ricordi e di sogni perduti.
Ci vengo quando il peso sul cuore si fa opprimente.
Quando gli sguardi degli altri, per quanto carichi di sincera gentilezza, diventano troppo pesanti da sopportare.
Seduta sull’erba appena umida di rugiada, vi osservo. Incontro i vostri occhi luminosi, occhi di gemme.
No, non lo faccio per bearmi dell’opera delle mie mani.
E’il ricordo che cerco, solo questo.
Mi sorridi, Feanaro, dall’alto del tuo piedistallo di statua.
Il tuo sorriso ha una lieve sfumatura ironica, quasi volessi prenderti gioco di questa mia stupida fuga dalla realtà.
Quasi volessi ricordarmi, come quell’ultimo giorno in Tirion, che una buona moglie deve seguire il marito, sempre e comunque.
Non l’ho fatto. Non ho rincorso le tue vendette, i tuoi disperati sogni di conquista.
Non sono stata una buona moglie, non lo ero più da tempo.
Sei partito senza di me.
E sei morto.
Lo so.
L’ho sentito, durante uno dei miei sonni agitati.
E’ stato come uno strappo, una lacerazione.
Ne ho avuto la certezza, l’ineluttabile certezza.
In camicia da notte sono uscita di casa, avevo bisogno d’aria.
Di respirare.
Fuori ho visto Anaire, nemmeno lei dormiva.
“Feanaro è morto”, ho sussurrato.
Non c’era altro da dire, non volevo dire altro. Lei mi ha stretta tra le braccia, senza parlare.
Chissà dove sarà il suo sposo, adesso.
E i miei figli, eternamente legati a quel folle giuramento che li condurrà tutti alla rovina, uno a uno.
Vi guardo, bambini miei. Il marmo non renderà mai giustizia ai vostri volti.
La miglior scultrice di Valinor, mi chiamano.
Eppure non so far sgorgare risate da queste labbra di pietra.
Il corno nelle mani di Tyelcormo non emette suoni, anche l’arpa di Macalaure resta muta.
Le tue statue, Nerdanel, sono pari a figure viventi.
Questo dicono tutti.
Posso affermarlo, ora più che mai: la scultura non è che illusione, pallida ombra di ciò che è stato e che non tornerà.
Come tutti voi. Come il mio Umbarto. Mai nome fu più veritiero. E più infausto.
Se solo mi avessi dato ascolto. Se solo mi avessi lasciato i gemelli, almeno loro.
Che cos’hai fatto, Feanaro? Cos’è accaduto a mio figlio?
Li hai immolati, i miei bambini.
Offerti in sacrificio in nome della tua vendetta.
Dei tuoi Silmarilli.
Quali pene dovranno sopportare, prima di finire, stremati, tra le braccia di Namo?
Ma dimmi, Feanaro, ora: quali figli sono più importanti?
Quelli delle tue mani o quelli dei tuoi lombi?
Entrambi, mi diresti. E so che lo credi sul serio.
Perché tu li amavi, i tuoi figli. E loro amavano te.
Tanto da sguainare rapidi le spade senza che nemmeno lo chiedessi.
Tanto da ripetere parole terribili, folli e blasfeme senza che ci fosse bisogno di un’esortazione, un cenno, da parte tua. Li sogno ogni notte, i nostri sette figli. I loro occhi splendenti d’ira alla luce delle torce. Le loro voci deformate dalla collera e dall’odio, mentre gridano parole che mi si sono incise nella carne e nel cuore quasi le avessi pronunciate anch’io.
Come se anch’io fossi stata maledetta.
Maledetti. Ecco, ecco cosa siete. Sono riuscita a dirlo, alla fine.
Siete maledetti, tutti quanti. Sento un nodo stringermi la gola.
Se solo riuscissi a piangere.
Vorrei odiarti, Feanaro. Vorrei dire che la colpa di tutto questo è tua, soltanto tua.
Vorrei scagliarmi su ogni tua effigie e farla a pezzi a colpi di martello.
Vorrei gridare che i nostri figli non c’entrano, che tu li hai resi degli assassini, dei traditori, dei mostri.
I miei bambini.
Dei mostri.
Vorrei strapparmi i capelli a ciocche, la mia chioma di fiamma che un tempo amavi intrecciare. Vorrei urlare fino a perdere la voce.
Vorrei, ma non posso.
Perché io ti amo, Curufinwe Feanaro. Ti amo ancora.
Una parte di me riuscirà sempre a comprenderti, a perdonarti, anche.
Nerdanel piangerà per sempre la tua perdita. 
Per questo vengo a rifugiarmi qui, a guardare quelli che, in fondo, non sono altro che inerti blocchi di marmo, senza vita né anima.
Ogni volta mi illudo di tornare indietro, anche solo per qualche istante.
Di udire la tua risata, forte e impetuosa com’era prima che l’odio e la brama di possesso offuscassero i tuoi occhi.
Di accogliere ancora nel mio grembo il fuoco inestinguibile del tuo desiderio.
Mi illudo di scorgere ancora i nostri figli fanciulli, senza ombre o timori a oscurarne lo sguardo.
Ma le illusioni sono di cristallo, non di robusta Silima.
Per spezzarle bastano le ali di un falco, che vola in ampi cerchi sul mio capo emettendo il suo acuto grido di uccello da preda.
Un battito di ciglia e sono di nuovo qui, seduta sull’erba che ormai va asciugandosi, con i primi raggi di Anar che danzano pigramente tra i miei capelli sciolti.
Riflessi. Giochi di luce.
Ti sarebbero piaciuti, Feanaro.
Penso, rialzandomi lentamente e avviandomi verso casa.
Verso un nuovo giorno.
Nuove sculture.
Nuovi sogni, per altri occhi.
 
 

Note
No, non sono scomparsa. Il blocco dello scrittore mi ha colpita (mi capita piuttosto spesso, a dire il vero) e mi sono presa qualche settimana di pausa. Spero di tornare ad aggiornare con maggior costanza, anche se ho numerosi esami da preparare che, temo, ostacoleranno i miei buoni propositi.
Innanzitutto mi scuso con Aelfgifu e Mamie per non aver ancora esaudito nessuna delle loro richieste, per altro tutte molto interessanti: purtroppo sono vittima dell’ispirazione, che è capricciosa e mi porta dove vuole. In ogni caso non vi ho dimenticate, vedremo cosa ci riserveranno i prossimi ritratti!
In questo capitolo ho immaginato i pensieri che Nerdanel, sposa di Feanor, potrebbe aver formulato in seguito alla partenza del marito e dei figli per la Terra di Mezzo.
Dalla “History of Middle-Earth” apprendiamo che Nerdanel era un’abile scultrice, tanto abile che, a un primo sguardo, le sue statue sembravano vive.
Anar e Isil sono i nomi in Quenya del sole e della luna che, secondo il mito creato da Tolkien, furono fatti sorgere dai Valar in seguito alla distruzione da parte di Melkor dei due alberi di Valinor.
Feanaro è il nome Quenya di Feanor, Curufinwe è il suo nome paterno.
Tyelcormo è il nome Quenya di Celegorm, suo terzo figlio, mentre Macalaure è il nome in Quenya di Maglor, suo secondogenito.
Umbarto è il nome materno in Quenya di Amrod, (o di Amras, qui la confusione regna sovrana) uno dei figli gemelli di Feanor e Nerdanel. Il nome significa “il predestinato” infatti, nonostante il Silmarillion pubblicato ci mostri entrambi i gemelli vivi e vegeti fino al massacro delle Bocche del Sirion, una versione più tarda contenuta nella “History of Middle-Earth” narra che Umbarto (o Ambarto, come preferiva chiamarlo Feanor) morì nell’incendio delle navi a Losgar, vittima del suo stesso padre.   
Anaire è la moglie di Fingolfin, fratellastro di Feanor.
La “Silima” è la sostanza con cui, pare, fossero stati forgiati i Silmarilli (plurale in Quenya di Silmaril). Personalmente ho sempre pensato che Feanor avesse semplicemente inventato questo nome per evitare domande indiscrete sulla composizione dei suoi amati gioielli, ma questa è una mia opinione che vale ben poco.   
Suppongo di aver detto tutto, anche se potrei andare avanti a sproloquiare per altre venti pagine.
Al solito ringrazio infinitamente tutti coloro che leggono la raccolta, ma soprattutto chi trova il tempo di lasciarmi un commento. Siete meravigliosi, tutti quanti.
Un abbraccio, a presto!
 
Melianar                 

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Capitolo 7
*** Rian ***


Non so se sia giorno o notte.
Non so da quanto tempo sto correndo né perché.
Lo hanno ucciso.
Me lo hanno portato via.
Non resta più niente, ora.
Niente. Solo tenebra. Tenebra e morte. Per me e per mio figlio.
Tuo figlio, Huor.
Il tuo bambino che non vedrai mai.
Perché ti hanno ucciso.
Ti hanno portato via da me, che per due mesi soltanto ho potuto amare i tuoi occhi, le tue labbra, il tuo corpo possente, il tuo coraggio. Maledetto, maledetto coraggio.
Mi zittirebbe subito, Morwen, se mi sentisse. Non piangere. Sii forte. Non avere paura.
Così mi esortava, lei, quando non eravamo altro che fanciulle disperse nelle selve, alla ricerca di una casa e di un posto sicuro.
E come mi rimproverava, quando mi stringevo a te e ti supplicavo di non partire per quella guerra insensata e piangendo ti chiedevo di non lasciarmi sola.
Ma io la detesto. La guerra, voglio dire.
Sangue. Grida. Follia. E tutti quei morti, gente che non rivedrà mai la propria casa, i propri cari.
Ma per che cosa, poi?
Morgoth, Morgoth! Se solo sapessi odiare, ti odierei.
Invece vorrei chiederti: perché?
Perché tanta crudeltà e cattiveria, contro noi che non ti abbiamo fatto niente?
Che te ne fai, Morgoth, dei pianti delle donne, del sangue degli uomini sul campo di battaglia?
“Egli ride dei nostri tormenti, gioisce delle nostre disgrazie”.
Questo diceva Morwen. Questo dicono tutti.
Ma come si può ridere del dolore, della sofferenza, delle lacrime altrui? Non so.
Non capisco. Troppe cose non capisco. Non so nemmeno dove sono ora e perché sono qui.
Non so come vi sono giunta, né dove sono diretta.
Fa freddo.
La schiena. Mi fa male la schiena. 
Le gambe. I seni. Tutto è dolore.
Qualcosa mi graffia le vesti, le straccia. Rovi, forse. O forse no.
Non mi importa. Devo correre. Non posso fermarmi. Non devo fermarmi.
Il ventre mi pesa, ma se mi fermo… Se mi fermo… Che cosa accadrà, se mi fermo?
Non lo so, ma non deve accadere.
Resisterò. Devo resistere. Per te, bambino mio. 
Tuor, questo sarà il tuo nome. Il nome che scelse tuo padre.
Ma cosa posso offrirti, figlio mio, in questo mondo di tenebra e pianto che mi riempie di terrore e mi fa venir voglia di fuggire lontano, lontano, sempre più lontano?
Una madre deve rassicurare il proprio figlio.
Consolarlo, infondergli coraggio.
Deve intonare per lui un canto gioioso, pieno di fiori, colori e allegria, come quelli che io mi dilettavo a comporre una volta. 
Tanto, troppo tempo fa, quando ancora esisteva una speranza di pace e le risate, le mie risate, riecheggiavano nei boschi del Dor-Lomin.
Ma forse le canzoni non servono più. Con altre parole le madri conforteranno i loro figli, ora.
Io però non le conosco, le parole giuste.
Senza di te, Huor, io non so cosa fare. Non so come fare.
Questa non è la terra adatta ad un bambino. Questa non è la terra adatta a me, Rian la debole.
La codarda.
L’ingenua.
Ma in che altro luogo potrei andare? Reami pacifici non ne esistono più.
E tu sei morto, Huor. Ti hanno ucciso. Ti hanno portato via.                 
Da me. Da tuo figlio. Da tutto.
Dove sei, Huor? Qual è, in fine, la nostra ultima meta? Insegnami la strada, insegnami la strada!
Io so che non c’è tenebra, là dove sei tu. Io so che non c’è odio, né guerra, né rovina.
Io so… Io voglio… Io devo… Il mio bambino. Voglio avere il mio bambino.
Questo figlio che non saprò allevare, che non saprò proteggere.
Altre braccia ti stringeranno, figlio mio.
Altri consoleranno i tuoi pianti, perché sapranno le parole giuste.
Le parole che io non conosco e che mi spaventano.
Tu no, tu sarai coraggioso.
E vi saranno occhi, diversi dai miei, che con gioia e orgoglio ammireranno le tue grandi imprese.
Altri vedranno la forza e il valore del figlio di Huor e se ne rallegreranno. Non io.
Ma non importa, non più. Non ora.
A me basterà guardarti una volta, una sola.
Mi basterà poterti stringere al mio seno e dirti… Dirti… Niente.
Non ci sarà niente da dire, o forse tutto. E’ importante? E’ davvero importante?
Ho le labbra secche. Aride. Ho sete, tanta sete. Mi manca il respiro. Se solo potessi fermarmi.
Se solo potessi poggiare la schiena ad un albero per prendere fiato. Se potessi.
Ma cos accadrà, se mi fermo? Che ne sarà di mio figlio? Di me? Come farò a ritrovarti, amore mio, se mi fermo?
Fruscii.
Passi leggeri nella boscaglia.
Qualcuno parla sommessamente, qualcun altro risponde.
Voci lievi, pacate. Arrivano. Presto mi raggiungeranno.
I loro occhi brillano, mentre mi scrutano.
Occhi saggi, gentili, che non fanno del male.
Sono Edhil? Sono Edain? Non capisco.
Li guardo, e non ho più paura.
Ora so chi si occuperà di te, bambino mio.
Ora, finalmente, Rian può smettere di correre.
 
 
 
Note
Eccomi di nuovo, questa volta in compagnia di Rian, sposa di Huor e madre di Tuor, colui che successivamente sposerà la bella Idril Celebrindal e sarà padre del famoso Earendil. Riguardo a Rian, il Professore ci fa sapere che era mite di cuore, amante di alberi, fiori e canti. Dopo la Nirnaeth Arnoediad (Battaglia delle Innumerevoli Lacrime), non avendo più notizie di Huor suo marito, Rian fuggì dalla propria casa, vagando nelle selve in preda alla follia. Alcuni Elfi la trovarono e la aiutarono a mettere al mondo il suo bambino, Tuor, ma ben presto Rian lo lasciò alla loro custodia e si lasciò morire presso il tumulo sotto cui giaceva il suo sposo.
La triste storia di questa dama è narrata all’interno de “I figli di Hurin”, ma la si può trovare anche nel “Silmarillion” o nei “Racconti incompiuti”.
In questo brevissimo capitolo ho immaginato Rian preda di una “follia lucida”, almeno in parte. Onestamente non so come sia venuto, per me scriverlo è stato molto particolare.
Come al solito, mi piacerebbe conoscere i vostri pareri: ringrazio infinitamente le splendide persone che recensiscono ciò che scrivo e invito chiunque a lasciarmi un commento, positivo o negativo che sia. Se lo farete, davvero, ve ne sarò grata.
Inoltre approfitto per ringraziare Tyelemmaiwe, mia grande amica e beta dalla pazienza eccezionale, che, tra le altre cose, sopporta stoicamente  tutte le mie paturnie pre-pubblicazione. Grazie infinite, Pi! 
Un bacione a tutti, a presto!
 
Melianar  

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Capitolo 8
*** Emeldir ***


Camminare.
Con la pioggia che sferza le membra, col sole che brucia la pelle.
Coi piedi piagati e la fame che rende selvaggi.
Camminare.
Solo questo conta.
E’ l’unica possibilità, l’unica speranza di salvezza.
Speranza. Suona bizzarra, ora, questa parola. Fa quasi male, nella sua estrema dolcezza.
Eppure mi ci aggrappo strenuamente, con la stessa forza disperata con cui ora impugno l’elsa della spada.
Ricordi, Barahir, quando tra i boschi del Dorthonion mi ostinavo a voler imparare a combattere e le altre donne mi guardavano sgomente?
“Combatterai al mio fianco, Emeldir, il giorno in cui la guerra giungerà alle nostre case?” Domandavi, un sorriso a illuminarti il volto fiero.
La guerra era ancora lontana, allora.
E il mio desiderio di combattere niente più che un bizzarro capriccio agli occhi di molti.
“Se verrà la guerra, sarò in grado di affrontarla”. Ti rispondevo io, semplicemente.
E così ho fatto.
Emeldir non si è mai contraddetta, non inizierà certo ora!
Quando l’Ombra si impadronì della nostra terra non piansi, non mi rassegnai senza oppormi al più atroce dei destini.
Essere donna non significa essere ingenua, né pavida.
Radunai dunque le donne, quelle donne che un tempo avevano osservato con divertito scetticismo i miei progressi con la spada.
Ora, tuttavia, concordano con me: meglio un buon pugnale che un velo ricamato.
Nemmeno ai bambini ho risparmiato il peso delle armi.
Mi guardano, spaventati ed eccitati, stringendo coltelli troppo grandi per loro.
Mi guardavano, dovrei dire: la fame e la stanchezza hanno spento in loro ogni baldanza.
Procedono quieti, silenziosi accanto alle loro madri. Non un grido, non uno schiamazzo.
Nessuno piange. Nessuno si lamenta. Non vi sono lacrime, negli occhi dei figli di Beor.
Solo fierezza. E rabbia, indicibile rabbia.
Cammino alla testa di questo mio popolo esule, le spalle diritte nonostante la stanchezza, lo sguardo rivolto in avanti, sempre avanti.
Non posso voltarmi. Non voglio voltarmi.
La mia casa, la mia terra… Tutto è perduto, ormai.
Non serve, guardare al passato.
I ricordi sono carichi di dolore, pena e quell’unica, ossessiva domanda: Barahir, Beren, vi rivedrò mai?
Certo, certo che vi rivedrò.
Siete forti, valorosi. Fieri.
Il vostro coraggio basterà a far tremare il nemico.
A sconfiggerlo.
Sì, Basterà.
Questo mi dico incessantemente, giorno e notte, sotto la pioggia battente o tra la neve dei picchi montani.
Sono vivi, gli uomini del Ladros.
Ma dentro di me so che sto cullando un’illusione.
Continuo a nutrirla, ben attenta a non farla morire. Perché se morisse, forse cadrei anch’io.
“Riabbracceremo i nostri sposi, i nostri padri, i nostri figli”.
Non faccio che ripeterlo, dolce consolazione alla quale tutte crediamo o fingiamo di credere.
La differenza è poca, forse non c’è differenza.
Non più.
Mi sorridi, Hiril, mentre ascolti le mie parole.
Il tuo è un sorriso stanco, ma ancora luminoso.
Ti porterò al sicuro, figlia mia. A qualsiasi costo.
Solo tu mi resti, non ti perderò.
Non ci perderemo.
Ti guardo e nel tuo volto vedo la risolutezza di tuo padre, nei tuoi occhi il coraggio di Beren.
Non era un’illusione, dopotutto.
Sorrido, un po’ amaramente.
 E’ forse mai accaduto che Emeldir vacillasse? Che si arrendesse, lasciandosi piegare?
Certamente no.
E di sicuro non accadrà ora, mentre sempre più si avvicinano i boschi del Brethil.
Quella, ho deciso, sarà la nostra meta.
Là riposeremo, là tenteremo di dimenticare pene e affanni, per il tempo che ci sarà concesso.
Per un istante volgo lo sguardo lontano, avanti verso nord.
Da qualche parte, nella sua oscura fortezza, Morgoth forse ride di me.
Ebbene, ridi pure di questa vecchia ostinata, di questo manipolo di donne che brandiscono armi con mani tremanti e si guardano attorno con occhi spauriti.
Le nostre gambe, Morgoth, ci porteranno lontano.
E il nostro cuore è saldo più di quanto tu non creda.
Vedremo, infine, chi l’avrà vinta.
 
 
 
Note
Eccomi qua, questa volta in compagnia di Emeldir Cuore Virile, sposa di Barahir e madre di Beren. (Ebbene sì, è la suocera di Luthien!).
Il Professore ci fa sapere che era una donna combattiva e che, quando in seguito alla Dagor Bragollach il Ladros fu distrutto dal potere di Morgoth, ella radunò tutte le donne e i bambini superstiti, distribuì armi a tutti coloro che fossero in grado di portarne e li guidò attraverso mille pericoli fino a raggiungere la foresta di Brethil, dove furono accolti tra la gente di Haleth (grande donna anche lei, ma questa è un’altra storia).
Hiril è una figlia di Barahir e Emeldir, di cui si accenna brevemente nella “History of Middle-Earth”. Personalmente, io la immagino più giovane di Beren, anche se qui non l’ho scritto.
Bene, penso di aver detto tutto.
Ringrazio di cuore tutti coloro che hanno inserito questa raccolta tra le seguite, tra le preferite o tra le ricordate, ma soprattutto ringrazio le persone che recensiscono! Siete tantissimi e la cosa mi rallegra immensamente, non pensavo che questa mia raccolta potesse piacere sul serio!
Un abbraccio a tutti, a presto!
Melianar  

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Capitolo 9
*** Nienor Niniel ***


C’è profumo di foglie, stasera.
Di vento, di cose che cambiano.
E’ l’autunno, dice Brandir.
Il tempo in cui la terra si copre di un manto di foglie brune e gli uccelli se ne vanno, volando verso sud.
Un poco mi spaventano questi alberi spogli, queste foglie che si seccano, cadono, muoiono.
Mi inquieta questo vento che d’improvviso diviene fresco, frizzante, che gioca dispettoso tra i miei capelli biondi.
Brandir dice che è naturale. Dopo l’estate giunge sempre l’autunno. E poi il rigido inverno, e la bella primavera carica di fiori.
“Non temere per le foglie che ora muoiono, Niniel. Ricresceranno più belle e brillanti, quando verrà il momento. E’ il ciclo delle stagioni, mia cara”.
Stagioni, si chiamano. Ora lo so. Si susseguono in un ordine preciso, eterno, che nessuno può cambiare. Scandiscono il fluire del tempo.
Chissà quante volte le foglie sono cadute e ricresciute, dacché sono nata.
Chissà se alla mia nascita pioveva o c’era il sole.
Forse era inverno, magari c’era la neve. Brandir dice che è bianca e fredda.
Dice anche che mi piacerà, quando la vedrò.
Neve è una bella parola. Ne-ve. Ha un suono dolce, carezzevole.
E’ come se scivolasse tra le mie labbra.
Che misteriosa meraviglia, le parole.
Mi piace impararne sempre di nuove, mi piace ascoltarne il suono a volte lieve, dolce, delicato, altre rauco, stridulo, rabbioso.
Brandir dice che a volte basta una parola, una sola, per uccidere un uomo.
Io dico che spesso una sola parola può guarirlo.
Niniel. Niniel. Lo ripeto, sovrastando il soffio del vento autunnale.
Niniel. Il mio nome.
Dolcissimo e triste a un tempo, leggero come il suono delle foglie che cadono, come il pigolio malinconico di un passero.
Ma diviene ancor più soave quando a pronunciarlo sei tu, Turambar.
Allora qualcosa comincia a vibrare, qui, nel mio petto. Una farfalla, un uccellino impazzito.
E’ il cuore, Brandir me lo ha detto. Si chiama cuore.
Turambar… Il tuo nome somiglia a una musica, un’eco lontana di un canto perduto e che ho a lungo cercato.
E’ questo, dunque, ciò di cui parlano la sposa di Dorlas e le altre donne mie amiche?
E’ questo l’amore?
Sorrido, osservando le foglie sospinte dal vento simili a brune farfalle.
Accanto a te, Turambar, io non avrò più paura. Lo so.
Potrei forse aver timore, con il Padrone della Sorte al mio fianco?
Sì, perché anche tu sfidasti la tenebra. E vincesti.
Ogni uomo ha la sua tenebra da combattere, dice Brandir.
Ma egli non sa.
Non conosce il buio senza fondo che imprigiona la mente e che ruba i ricordi, il passato, le parole. Tu sì, Turambar. Tu puoi comprendermi.
Accanto a te non sarò mai più sola.
E non avrò bisogno di trovare il mio passato, perché sarai tu il mio passato.
Il mio presente.
Il mio futuro.
E se mai tornerà la tenebra, l’affronteremo insieme.
Ma tutto questo io non riesco a dirtelo, non ancora.
Non sono pronta a dare corpo ai sogni.
Rimango muta, esitante, ad ascoltare i fremiti del vento, mentre i miei occhi si volgono verso la tua casa.
Chissà che cosa stai facendo ora, Turambar.
Chissà se anche i tuoi pensieri sono rivolti a me.
Chissà se anche nel tuo petto è imprigionato un uccello impazzito.
Chissà da dove vieni, se sei figlio d’un Signore, d’un valente guerriero.
Chissà perché gli occhi di Brandir s’incupiscono ogni volta che ti guarda, ogni volta che io pronuncio il tuo nome musicale.
Tante, troppe domande. Ma è proprio necessario trovare le risposte?
Forse ha ragione Brandir: a volte basta attendere.
Allora aspetterò, e guarderò passare le stagioni.
L’autunno, e poi l’inverno con la neve bianca e fredda.
Magari a primavera, coi nuovi fiori e le rondini che cantano di cose lontane scoprirò se i tuoi sogni coincidono coi miei.
A primavera, forse, qualcosa cambierà. 
             
 
 
             
Note
 
Eccomi qua, finalmente ce l’ho fatta ad aggiornare!
Qui la protagonista è Nienor, figlia di Hurin e Morwen e sorella di Turin. Dopo esser stata vittima dello sguardo malvagio e ipnotico del drago Glaurung, Nienor perde completamente la memoria e fugge in preda a un cieco terrore. Viene ritrovata da alcuni uomini appartenenti al popolo degli Haladin, tra i quali si trova Turin suo fratello, ora noto col nome di Turambar (padrone della sorte). Essi la conducono alle loro dimore nel Brethil e, non conoscendo il suo nome, Turambar la chiama Niniel, “fanciulla in lacrime”.
Ben presto Niniel e Turambar, ignari del loro legame di parentela, si innamorano, con tutte le disastrose conseguenze che chi ha letto “I figli di Hurin” ricorderà senz’altro e chi non ha letto l’opera può invece ben intuire… Ho già fatto abbastanza spoiler!
Riguardo a Niniel, Tolkien ci dice che dopo l’incontro con Glaurung aveva perso l’uso della parola e le donne del Brethil dovettero reinsegnarle a parlare. Ci vien detto anche che ogni cosa era nuova per lei, tutto le arrecava meraviglia. Ho cercato di rendere questa sorta di ingenuo stupore nel capitolo, spero sinceramente di esserci riuscita.
Brandir è il signore del Brethil al tempo di questa storia. Era molto legato a Niniel e, essendo guaritore, l’aiutò a riprendersi dopo l’incontro con Glaurung.
Bene, penso, e spero, di aver detto tutto. Solo, un’ultima sciocchezza: provate a pronunciare ad alta voce il nome Turambar, a pronunciarlo con la corretta accentazione Quenya, marcando l’accento sulla penultima sillaba. Non sembra forse l’inizio di un canto? Forse sono scema io, ma per me Niniel ha pienamente ragione XD.
E dopo questa me ne vado sul serio. Grazie infinite a tutti coloro che leggono e soprattutto che commentano! Un bacione, a presto!
 
Melianar                  

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Capitolo 10
*** Aerin ***


Nevica.
Grandi, candidi fiocchi si posano lievi sul terreno gelato.
Lenti, leggeri, Inesorabili.
Li osservo, concentrandomi sulla loro quieta, pigra danza.
Lo faccio per non vedere. Per non sentire l’odore di sangue, di morte, di paura.
Come se bastasse. Come se potesse servire a qualcosa.
Sono l’unica ancora in piedi, in questa sala. L’unica il cui cuore batta ancora.
Fa un suono strano, il mio cuore… Sinistro.
Forse hai ragione tu, Turin. Forse è vero che basta un niente a spaventarmi.
Perfino il mio cuore, che risuona solitario in questa sala piena di morti.
Edain.
Esterling.
Sono tutti uguali, gli uomini.
Quando l’ira li coglie perdono il senno, diventano bestie. Bestie.
Anche tu fosti una bestia stanotte, Turin.
Una belva feroce e bramosa di sangue.
Mio povero, piccolo Turin.
Ripenso ai tuoi occhi, e il mio cuore si riempie di pena.
Cosa direbbe tua madre, se sapesse della tua furia? Della tua ira violenta?
Cosa diresti, Morwen, se sapessi che questa notte tuo figlio, il tuo Turin, il nostro Turin, il valente Signore del Dor-Lomin mi ha condannata a morte per un atto d’impulsiva collera?
Sì, perché presto verranno. Verranno a prendermi.
Già ne sento le grida, attutite dalla neve. Voci aspre. Rozze. Volgari.
Non resterà impunita, la moglie di Brodda.
Pagherà, per aver complottato con il popolo degli schiavi.
Schiavi. E’ così che li chiamano, ora. Che ci chiamano, dovrei dire.
Il mio popolo, ne faccio parte anch’io.
“Tu no, Aerin. Tu sei una donna fortunata, tu sei mia moglie”.
Questo diceva Brodda, l’uomo che ha saccheggiato la mia casa e mi ha costretta a un matrimonio odioso.
L’uomo che ora giace riverso contro il muro, il collo spezzato, in volto un’espressione stupefatta e ottusa.
“Sei una donna fortunata, Aerin”.
Lo ripeteva continuamente, con una sorta di tenerezza nelle notti interminabili in cui gemevo e fremevo, il corpo vibrante di falso piacere.
Sanno fingere le donne, Brodda. Lo sapevi?
E’ proprio grazie a te che ho imparato la sottile arte della dissimulazione e dell’inganno.
Ho imparato a sorridere quieta, quando ti esibivi tronfio dinanzi ai tuoi degni compagni mostrando la tua nuova casa e la tua nuova sposa.
Che bella la tua casa, Brodda.
Che bella la tua donna con i capelli biondi e la pelle di neve.  
Avrei voluto gridare, allora.
Avrei voluto strappar loro gli occhi.
Intrusi. Assassini.
Ma stavo zitta e mostravo dolcezza, sottomissione, ingenuità.
Ho imparato a fingere dispiacere, pentimento anche, ogni qual volta mi scoprivi a rivolgere la parola a Morwen e alla bella Nienor.
Ho imparato a nascondere il dolore delle percosse, delle botte che mi infliggevi fino a farmi sanguinare.
Non sono mai stata sincera, Brodda.
Non con te.
E forse in questi anni sono stata una codarda.
Una fragile, piccola donna, proprio come dicevi tu.
Ma avevo forse altre armi per difendermi, armi che non fossero la pazienza e la sopportazione?
Ora però sono stanca, troppo stanca.
Odio questa stanza che sa di morte, questo mondo spietato in cui ho vissuto per troppo tempo. Arrivano. Li sento, li sento avvicinarsi sempre più.
Gridano vendetta. Gridano giustizia. Giustizia? Esiste giustizia, per il popolo di Uldor?
Sono vicini, sempre più vicini. Vogliono la donna di Brodda. Vogliono Aerin.
Suona aspro, il mio nome, tra le labbra degli Esterling.
Airrin. Dicono Airrin.
Anche tu mi chiamavi così, Brodda. Ricordi? Nemmeno ti eri dato la pena di imparare il mio nome. Vogliono me, sì, ma non mi avranno. Non ora. Non più.   
Anche una donna ha le sue armi, a volte. Armi potenti.
La mia è una candela. Sarà sufficiente, in una sala di legno.
L’odore del sangue si unirà a quello del fumo, e ai miei rimpianti.
Tanti, troppi rimpianti. Ma tutto questo non avrà più importanza, quando diverrò cenere nel vento.   Quando anch’io, finalmente, conoscerò cosa vuol dire libertà.


 
 
 
 
Note
Perdonatemi per questo capitolo, forse il più cupo e crudo di questa raccolta, almeno finora. Purtroppo le vicende narrate richiedevano toni “drammatici” e poi… Beh, ho messo il rating arancione anche in previsione di questo.
Vi chiedo scusa anche per aver trattato, come nello scorso capitolo, una vicenda relativa ai “Figli di Hurin”, temo di essere un po’ in fissa ultimamente.
Aerin è una donna del Dor-Lomin, nonché parente di Hurin. Dopo la Nirnaeth Arnoediad (Battaglia delle Innumerevoli Lacrime) le terre del Dor-Lomin vengono occupate dagli Esterling, uomini rozzi e bellicosi asserviti a Morgoth. Tra loro vi è un certo Brodda il quale costringe Aerin a sposarlo. Tolkien ci dice che era spesso violento con lei e non mancava di percuoterla, anche perché Aerin prestava grande aiuto a Morwen e Nienor. Brodda verrà poi ucciso per mano di Turin e Aerin, per non cadere vittima degli Esterling, darà fuoco alla propria casa bruciando con essa.
Personalmente ho sempre amato questa donna, che trovo piena di forza, coraggio e dignità. Era da tanto che volevo scrivere un capitolo su di lei, finalmente ce l’ho fatta! Davvero, mi auguro di averle reso un po’ di giustizia, l’ho scritto di getto tra un dialogo di Platone e una lezione di Heidegger, non ho idea di cosa ne sia venuto fuori. Fatemi sapere cosa ne pensate, le vostre parole (sia positive che negative, beninteso) sono per me davvero preziose!
Qualche ultima precisazione: il “popolo di Uldor” è sempre il popolo degli Esterling, mentre la questione del nome storpiato di Aerin è tutta una mia invenzione basata sul fatto, sempre riportato da Tolkien, che la lingua degli Esterling era aspra e che detestavano la “lingua degli schiavi”, cioè di quelli della casa di Hador a cui apparteneva Aerin.
Bene, anche stavolta sono riuscita a imbastire un lunghissimo sproloquio. Grazie infinite a tutti coloro che leggono e soprattutto a chi recensisce, a presto!
 
Melianar   

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Capitolo 11
*** Erendis ***


La nave rolla, dondola, beccheggia.
Sembra cercare una stabilità, un equilibrio tra le onde agitate.
“Non è nulla, signora. Non temete. E’ solo la Signora Uinen che saluta la nostra partenza!”
Tentano di rassicurarmi, i marinai, in quella loro maniera rude che detesto e che tuttavia ora mi strappa un sorriso.
Vorrei dire che non mi interessa, che io il mare lo temo e lo odio anche quando è tranquillo, che se li tenga pure, Uinen, i suoi saluti e le sue benedizioni.
Ma resto in silenzio.
Se sapessero chi sono realmente, forse non parlerebbero a quel modo.
Ma non sanno.
Non sanno che questa vecchia dall’aria dimessa non è altri che dama Erendis, la sposa del loro amato Sire Aldarion.
La donna che per ottenerlo lottò contro il mare, e perse.
Perse tutto.
Tu me lo rubasti, Uinen, signora di acque.
Con le tue chiome di spuma ammaliasti il mio amato e nel cuore gli infondesti il tuo canto di sogno. Perché? Perché lui?
Per anni ti ho odiata, potente signora.
Per anni una sorda gelosia mi ha consumata, mi ha inaridito il cuore.
Solo ora, forse, capisco.
Che sciocca sei stata, Erendis, a paragonarti al mare e alla sua dama.
Che stupida, tracotante ingenua.
Un nodo mi serra la gola, mentre mi volto a guardare Numenor che rapida scompare all’orizzonte. Numenor, la mia isola. La mia casa.
Da qualche parte, sopra di me, un gabbiano emette il suo lamento acuto, funesto.
Anch’io, anch’io vorrei piangere.
Morirò, lontana dalla terra.
Ricordi, Aldarion? Così ti dicevo. Chissà, forse accadrà sul serio.
Forse non riuscirò a vederla, questa Terra di Mezzo di cui cantavi tanto.
La terra da cui proviene la gemma che tu mi donasti, l’unica che abbia mai posseduto.
Ho ripreso a indossarla, sai? Ecco, Aldarion, vorrei che mi vedessi un’ultima volta.
Una vecchia dai capelli grigi con un gioiello elfico in fronte. Un po’ patetica, forse.
Magari allora comprenderesti. E rimpiangeresti, sì, il tempo che mi hai negato.
Il mare non invecchia, Aldarion.
Il tempo non offusca l’azzurro delle sue acque.
Non muore, il mare. Io sì.
Ma non sembravi rendertene conto, ogni volta che partivi a bordo di quella tua maledetta nave.
Non t’accorgevi della mia giovinezza che sfumava, di Ancalime che cresceva, tua unica erede, mentre il mio grembo solitario inaridiva.
Ma non è questo, no, non è ciò che voglio dirti!
Non è certo per lanciarti addosso accuse, che attraverserò l’acqua.
Mi basterà vederti, guardare come le brezze marine hanno solcato e invecchiato il tuo volto.
Mi basterà guardare i tuoi occhi, quegli occhi che ho amato anche quando ostentavo ira e sdegno, rifugiandomi nella più cupa solitudine.
Mi basterà udire la tua voce… Chissà se è ancora allegra e scanzonata come un tempo, piena di quella lieve arroganza che mi faceva infuriare e ribollire il sangue.
Ti amo, Aldarion. Ti ho amato sempre.
Anche dopo che ho smesso di parlarti.
Anche quando non ho voluto più vederti, io ti amavo.
Lo ammetto, infine.
Lo dico in un sussurro, mentre la candida cima del Meneltarma scompare alle mie spalle, illuminata da un raggio di sole.
Non la rivedrò più. Su questa nave non c’è Ramo del Ritorno, e forse è meglio così.
Soltanto l’acqua mi circonda adesso, l’azzurro del cielo mi sovrasta.
Scende una lacrima, solitaria lungo la mia guancia.
Quante notti insonni ho trascorso a piangere per te, Aldarion. Desiderandoti. Maledicendoti. Amandoti, anche quando non credevo fosse più possibile.
E tutto questo tu non lo sapevi, non lo capivi. In effetti, forse non mi hai capita mai.
Ora la nave ondeggia quieta, ne avverto appena il fastidioso dondolio.
Potrei dire che è quasi sopportabile.
Chiudo gli occhi e lo sento, sì, il lento rumore della risacca. Monotono.
Malinconico.
Non fa paura il mare, dopotutto.      
 
  
 
Note
 
Perdonatemi, ogni tanto scompaio. Purtroppo per me questo è periodo di esami e non riesco proprio a star dietro a tutto quello che devo e voglio fare. In più ho avuto un brusco calo di ispirazione, spero sinceramente che questo capitolo sia all’altezza degli altri, onestamente ho i miei dubbi in merito.
La dama protagonista di questa one-shot è Erendis, sposa di Tar-Aldarion e madre di Ancalime. Avrà la grande sfortuna di odiare il mare e innamorarsi di un marinaio, cosa che la porterà a vivere un’esistenza amara e triste, anche perché Erendis è una donna estremamente orgogliosa che non s’accontenta di essere tenuta in secondo piano rispetto al mare.
Nei “Racconti incompiuti” è detto che Erendis, divenuta ormai vecchia e preda della nostalgia, nonostante l’odio e il timore che nutre nei confronti del mare salpa in incognito dal porto di Romenna, decisa a ricongiungersi con il suo sposo. Non sappiamo nulla di questo suo viaggio, se non che “Erendis morì per acqua”. Ho qui cercato di rendere i suoi ultimi pensieri. Spero di non averla resa troppo melensa, non era mia intenzione!
Uinen è una Maia, sposa di Osse, particolarmente amata dai marinai poiché era in grado di placare il marito (Maia preposto alle tempeste).
Quanto al “Ramo del Ritorno”, a Numenor era uso che le donne ponessero a prua di ogni nave che salpava dall’isola un ramo di Oiolaire, albero che gli Elfi avevano donato ai Numenoreani perché lo ponessero sulle navi in segno d’amicizia con Osse e Uinen.
Come al solito ringrazio infinitamente tutti coloro che leggono la raccolta, ma ancor più ringrazio chi recensisce: non avete idea di quanto siano preziose per me le vostre parole, sul serio. Grazie mille a tutti!
Alla prossima,
 
Melianar 
                                                

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Capitolo 12
*** Tar-Miriel ***


Lento, il fumo s’innalza in crudeli spirali.
Indugia nell’aria immobile, si libra come uno spettro, un uccello assassino.
L’odore è la cosa peggiore, forse. Entra dalle finestre aperte, si insinua tra le pieghe delle vesti, tra gli oscuri sogni delle mie notti inquiete.
Acre, soffocante, maligno. Odore di morte.
Ho smesso da tempo di piangere, ormai.
Di domandarmi in silenzio quand’è accaduto che Numenor la splendida lasciasse il posto a questa terra d’ignoranza, di uomini che temono perfino l’ombra dei loro pensieri e che bruciando vite altrui tentano inutilmente di allungare la propria.
Sorridi, Pharazon.
Non ti accorgi del fumo che ammorba l’aria, delle grida delle vittime torturate, massacrate in nome di una blasfema follia.
Non ti accorgi di essere vecchio, troppo vecchio.
Ti guardo, e quasi mi viene da ridere.
Non che ce ne sia motivo, in realtà.
Dovrei essere io su quel trono, adesso.
Non seduta al tuo fianco, a esibire un eterno sorriso di bambola quieta.
Dovrei impugnarlo io, lo scettro che stringi convulsamente con mani avide e malferme.
Mani che ostinate resistono al tempo, alla morte.
Mani che credono ancora di poter stringere l’elsa di una spada, di saper rendere felice una donna.     
Dicevano che era lungimirante, mio padre.
E di certo lo fu, nel chiamarmi come ha fatto. Miriel. Gioiello.
Non sono una regina, io. Solo una gemma, un essere delicato di cui cantare la bellezza e nulla più. Non hanno pensieri, le gemme. Non hanno emozioni.
Non fui in grado di oppormi alla tua violenza, alla tua insensata arroganza e superbia.
Dovrei odiarti, Pharazon. Ma più di ogni altro io detesto me stessa, per averti permesso di rubarmi il mio corpo, il mio nome, il mio regno.
Per aver lasciato che distruggessi i sogni di mio padre, i miei sogni, trasformando quest’isola in un orrendo covo di morte e terrore.
Per aver lasciato che Ninquelote il Bello divenisse cenere sotto i miei occhi.
Per non essere in grado, ora, di impedire la fine.
La catastrofe.
L’ultimo tuo capriccio di vecchio folle, di bambino viziato.
Tutto è pronto, presto salperai.
Infrangerai il divieto, l’ultimo che ancora ti rimanga, e col tuo sorriso tronfio sfiderai i Signori d’Occidente.
Cosa credi di fare, Pharazon?
Credi davvero di poter calpestare il suolo di Valinor lanciando invettive con la tua voce roca di vecchio stizzoso?
Credi che Manwe in persona ti farà dono dell’immortalità sigillandola in un magico scrigno intarsiato?
E’ la morte, il nostro dono. Se solo l’accettassi! Se solo io sapessi fermarti, trattenerti.
Ma in che modo? Non ci siamo mai amati, non ci siamo mai compresi.
E cosa possono le mie parole, se chi sussurra al tuo orecchio è Sauron l’ingannatore in persona?
Lo so cosa mi aspetta, Pharazon.
Non occorre possedere la lungimiranza di Palantir mio padre, per capirlo.
Non posso salvare il mio popolo, non più.
Ma posso ancora morire assieme ad esso.
Sì, questo so farlo anch’io.
Chissà, forse in tua assenza oserò recarmi in cima al Meneltarma, finalmente.
Non per domandare all’Uno un tardivo e immeritato perdono con scuse e preghiere, questo mai. Solo per ricordare tempi più felici, in cui mio padre mi conduceva per mano sul sentiero scosceso e con un lieve cenno del capo mi chiedeva di tacere, di pregare, di sperare.
Là attenderò la fine di ogni cosa, in silenzio.
Finalmente sola, finalmente fiera.
Non sono stata una degna regina in vita, forse.
Ma posso esserlo ancora, nella morte.                                                        
                                                               
  
  
 
 
 
 
 
Note
Eccomi qua, non sono scomparsa! Perdonate la lunghissima assenza, ma ho avuto a che fare con alcuni esami piuttosto impegnativi e, una volta libera, il “blocco dello scrittore” si è impadronito di me e ho dovuto attendere parecchio prima che un po’ di ispirazione tornasse a farmi visita. Ora spero proprio che non mi abbandoni, vorrei riprendere ad aggiornare con regolarità!
La dama protagonista di questo capitolo è Tar-Miriel, ultima regina di Numenor (da non confondersi con Miriel madre di Feanor, mi raccomando!). Suo padre fu Tar-Palantir, il cui nome significa “il lungimirante” infatti egli era un re saggio, che, nonostante la politica seguita dai sovrani suoi predecessori, reintrodusse in Numenor l’utilizzo delle lingue elfiche e, in generale, fu amichevole nei confronti degli Eldar. Fu però soppiantato dal nipote, Ar-Pharazon il Dorato, uomo arrogante e superbo, il quale si impadronì del regno e sposò con la forza Miriel (alla quale, per non utilizzare la lingua Quenya, cambiò il nome in Ar-Zimraphel, cosa cui io accenno solo lievemente nel testo).  Riguardo a Miriel, il Professore ci dice ben poco. Sappiamo che era bellissima, la più bella tra le regine di Numenor e che, quando Ar-Pharazon sfidò il divieto imposto dai Valar di salpare verso Occidente per impadronirsi dell’immortalità e Numenor fu distrutta ella morì assieme al resto del suo popolo. Si dice anche che nel momento della morte Miriel cercò troppo tardi rifugio sul Meneltarma, il sacro monte di Numenor.
Miriel significa letteralmente “figlia-gioiello”, da qui il “gioco di parole” nel testo.
Ninquelote è il nome in Quenya di Nimloth, l’Albero Bianco di Numenor. Sauron, che era assai benvoluto alla corte di re Pharazon, (tanto da innalzare un tempio dedicato a Melkor in cui imbastire sacrifici umani) lo distrusse e lo   fece bruciare. Grazie a un provvidenziale intervento di Isildur, poi, i suoi frutti riuscirono a prosperare in Terra di Mezzo, ma questa è un’altra storia.
Ancora una volta ringrazio tutti coloro che leggono ciò che scrivo, ma soprattutto un grazie speciale va a chi recensisce: i vostri commenti mi fanno un immenso piacere, mi stimolano, mi spronano e mi incoraggiano a continuare. Ciò vale anche per le critiche, naturalmente!
Grazie ancora a tutti, a presto, spero!
 
Melianar 

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Capitolo 13
*** Elwing ***


Il fiume e il mare s’intrecciano, vorticano in una danza di onde e spruzzi iridescenti.
Si sfiorano, si uniscono, intonano insieme il loro antico canto dai suoni misteriosi.
E’ questa, la mia terra.
Un luogo in cui Quenya e Sindarin si mescolano liberamente come il fluire delle acque, in cui l’acuto grido del gabbiano si sovrappone all’inquieto starnazzare dell’anitra selvatica
E’ terra d’incontro, la mia.
Di speranza.
Di gioia, per chi riesce a provarne.
Bambini, per lo più: la gioia è un sentimento troppo prezioso e raro, di questi tempi.
Perfino qui, alle Bocche del Sirion.
Qui, dove il fiume si fa mare e il mare diviene sogno, inquietudine, meravigliosa promessa di un mondo più giusto.
In silenzio osservo i miei figli giocare.
I loro piccoli corpi sudati scossi da risa irrefrenabili, le chiome arruffate dal vento salmastro.
Li guardo tuffarsi in mare là dove l’acqua è tranquilla, riemergere tra riccioli di spuma come giovani delfini.
I miei anatroccoli. I miei bambini.
Non li riconosceresti ora, Earendil.
E’ormai trascorso il tempo in cui i tuoi figli muovevano i primi passi incerti e impazienti tendevano le braccia affinché tu li sollevassi facendoli volare. Crescono così rapidamente.
I loro corpi si fanno robusti, le loro menti acute.
Sono piccoli, eppure così saggi. Come il loro padre.
Non soffrono la tua mancanza.
D’altro canto, non si può patire per ciò che non si ricorda, che non si conosce.
Di te, amore mio, parlano con orgoglio, con fierezza.
Desiderano ascoltare le storie del loro ada marinaio e io gliele narro, sempre nuove.
A volte, mentre racconto, mi ritrovo a sperare che siano davvero solo favole.
Che gli inganni e i pericoli di cui il mare è maestro non siano altro che leggende, buone solo ad abbellire i canti. Sì, so essere terribilmente ingenua.
Terribilmente sciocca.
Ma vi sono momenti in cui un po’ d’ingenuità aiuta a sperare.
A credere con maggior fermezza nella riuscita del tuo viaggio.
Dei tuoi propositi. Nella realizzazione del tuo sogno, del nostro sogno.
Tornerai, Earendil. Lo so.
Lo ripeto fiduciosa ai nostri figli, al popolo che con apprensione si strugge per la tua assenza.
L’ho ripetuto anche a loro, oggi, quando 4sono venuti a trovarmi.
I figli di Faenor.
Gli assassini.
Sapevo che prima o poi sarebbero venuti, ne ero certa.
Sono stati gentili, tanto gentili da far venire i brividi.
Raggelanti, nella loro ostentata cortesia.
“Salute, Elwing, dama dei porti di Sirion”
Parlavano con forte accento Quenya, quello che sulle tue labbra riesce ad addolcire anche i più aspri rimproveri, ma che conferiva alle loro parole un tono aspro e di continua minaccia.
Hanno sorriso ai nostri figli, gli assassini.
Le loro labbra sorridevano, ma i loro occhi erano ostinatamente puntati al Silevril, la fulgida gemma che splende sul mio petto.
Lo vogliono. Non è bastato un massacro, per placare le loro brame di possesso.
Quanti innocenti stermineranno ancora, per un gioiello?
“Vi prego di attendere il ritorno del mio sposo. E’lui il signore di queste terre, a lui spetta una simile decisione”.
Ho pronunciato queste parole con voce ferma, decisa.
Ma nei loro occhi ho letto solo scetticismo.
E, forse, una scintilla di scherno.
Questa gente non conosce l’attesa. Torneranno. Non aspetteranno la tua venuta, mio amato. Pretenderanno a colpi di spada ciò che oggi ho loro negato.
Come in Menegroth.
Come quando ero bambina.
Ascolto le risate dei miei figli, i loro gridolini acuti e spensierati.
Non è che una gemma, in fondo.
Brilla più di qualsiasi stella, ma non è altro che una gemma.
Che cos’è mai un gioiello, per quanto prezioso, se paragonato alla felicità dei propri figli?
Alla sicurezza e alla prosperità di un popolo?
Non ha forse sofferto abbastanza, la mia gente, scampata fin troppe volte a massacri e rovina?      Avrei dovuto consegnarlo, forse.
Lasciare che ottenessero il loro Silevril, la loro inutile vittoria.
Se solo conoscessero l’importanza di ciò che desiderano.
Se sapessero che è solo grazie alla luce pura del Silevril che questo regno prospera.
Che le genti più diverse si riuniscono qui alla ricerca di speranza e conforto.
Se solo volessero sapere, ascoltare, capire.
Capire che in questa gemma c’è il ricordo degli occhi di mio padre, del canto di mia madre, dei volti dei miei fratelli, identici eppure così diversi, come quelli dei miei figli.
Già una volta si sono portati via la mia famiglia, nel sangue hanno distrutto le mie gioie di bambina. Non permetterò che ciò accada di nuovo.
Nessuno toccherà mai il Silevril, amore mio.
Nessuno ruberà più le mie speranze.
Nessuno, mai, distruggerà il sorriso dei miei figli.
 


Note
 
Sì, lo so, merito la fustigazione. Perdono, perdono! Avevo promesso che sarei tornata presto con il nuovo capitolo, ma così non è stato… Ultimamente ho dei cali d’ispirazione terrificanti, se non tenessi tantissimo a questa raccolta forse l’avrei abbandonata. Ma non posso farlo, adoro l’opera di Tolkien e queste dame meravigliose!
E così eccomi qua, in compagnia di Elwing, sposa di Earendil e madre di Elrond ed Elros.
Essendo nipote di Beren e Luthien, Elwing ereditò il Silmaril (Silevril, in lingua Sindarin), uno dei tre meravigliosi gioielli fabbricati da Feanor e strappato alla corona di Morgoth.  I figli di Feanor, che avevano giurato di riappropriarsi dei Silmarilli a qualunque costo, dapprima, memori del fratricidio del Doriath in cui erano stati uccisi i genitori di Elwing, tentarono di farsi consegnare il Silmaril in maniera pacifica, ma dal momento che ella rifiutava di cederlo piombarono di sorpresa sul popolo delle Bocche del Sirion, costituito per lo più da esuli di Gondolin e del Doriath, e lo massacrarono senza pietà alcuna. Elwing, grazie al provvidenziale intervento di Ulmo, signore delle acque, riuscì a salvarsi e a ricongiungersi con lo sposo Earendil, che ormai da molti anni (circa quattro, secondo la versione da me seguita) navigava per mare cercando di raggiungere Valinor.
In questa piccola one-shot ho cercato di rendere i pensieri di Elwing in seguito alle prime richieste dei figli di Feanor, spero sinceramente di averla resa a dovere.
Mi sono presa qualche piccola licenza, spero non vi disturbi: immagino che i figli di Feanor abbiano mandato un messaggero a parlare con Elwing, non che vi siano giunti al gran completo. Però mentre scrivevo la immaginavo discorrere con Maedhros, e poi… Beh, l’immagine dei feanoriani in pompa magna   mi sembrava più d’effetto. Dubito anche che vedendola portare il Silmaril i figli di Feanor sarebbero rimasti impassibili… Insomma, avrebbero potuto semplicemente strangolarla.  Di nuovo, il tutto mi era congeniale ai fini del racconto. Spero mi perdonerete!
Il nome Faenor non è un errore, ma la forma Sindarin del nome Feanor. Feanor, infatti, non è altro che una tarda trascrizione frutto dell’unione tra il Quenya Feanaro e il Sindarin Faenor.
“Ada” è un termine Sindarin che significa “papà”.
Anche stavolta, credo di aver detto tutto: ringrazio infinitamente tutti coloro che leggono, seguono o hanno inserito la raccolta tra le preferite o tra le ricordate.
Ringrazio infinitamente la meravigliosa Tyelemmaiwe, che perde ore preziose di sonno visionando i miei capitoli e sopportando i miei terrificanti deliri.
Ancora una volta, poi, un grazie speciale va a tutti coloro che dedicano un po’ del loro tempo a lasciarmi un commento: non vi ringrazierò mai abbastanza per le vostre parole, conoscere le vostre opinioni è qualcosa di meraviglioso, e non avete idea di quanto riesca a darmi la carica per scrivere ancora.
Grazie infinite a tutti, a presto!
 
Melianar 

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Capitolo 14
*** Finduilas Faelivrin ***


Il battito del mio cuore riecheggia solitario, unico suono nella notte silenziosa.
Se solo sapessi placarlo.
Se solo riuscissi a prender sonno, ignorando il sangue che scorre nelle mie vene più rapido delle acque del Narog lasciandomi debole, sfinita come un giunco alla deriva.
Anche stanotte ti ho sognato, Adanedhel.
I tuoi occhi come gemme ardenti, la tua voce profonda e gentile che sussurrava parole che non riuscivo a cogliere.
E le tue mani… Oh, le tue mani strette nelle mie… Mi sono svegliata di soprassalto, turbata, con il cuore che batteva all’impazzata e ancora non accenna a smettere.
Piacere, disgusto… Non so più neppure cosa provo, ormai.
Vorrei poter essere come le altre fanciulle.
Spesso le osservo, mentre camminano con passo leggero per i corridoi di Nargothrond, scuotendo le lunghe chiome ed emettendo risate allegre e tintinnanti.
Non ero diversa da loro, una volta. Ma quanto tempo è trascorso, da allora?
Anche i loro occhi si illuminano al tuo passaggio, Adanedhel.
Ma gli sguardi che ti rivolgono non esprimono altro che quieta ammirazione, mentre con gioia sincera si stringono più forte ai loro amati.
Le guardo, e il petto mi si serra in un’acuta fitta di invidia e di rimpianto.
Non sarò mai come loro… Mai più.
Vorrei saperti amare come meriti, Gwindor.
Come ti amavo prima che la Nirnaeth Arnoediad ti portasse via da me, prima che il dolore della tua perdita giungesse come una nube gelida a coprire il ricordo del nostro tempo insieme, offuscando in me la speranza di un tuo ritorno.
E invece sei tornato, alla fine. Hai sfidato il potere di Angband per ritrovare la tua terra, per ritrovare me.
Ma la mia gioia nel rivederti era velata dallo sgomento: possono anni tanto brevi trasformare il più fiero dei principi, ridurlo a una pallida ombra di ciò che è stato?
Così mi domandavo, vergognandomi dei miei stessi pensieri.
 Eppure ancora oggi non posso fare a meno di notare il tremendo mutamento che la prigionia ha prodotto nel tuo corpo e nel tuo spirito.
 Morgoth ha rubato il tuo sorriso, la fiamma guizzante dei tuoi occhi, la grazia sicura dei tuoi gesti, il tocco leggero delle tue mani.
Ma sarebbe facile, troppo, attribuire al Nero Nemico la colpa di tutto.
Sono io a non saperti più amare, Gwindor.
Sono io a provare nei tuoi confronti quel sentimento misto di tenerezza e compassione che mi disgusta e mi riempie di vergogna, quando in ogni piaga del tuo corpo dovrei riconoscere un segno tangibile del tuo valore.
Sono io, Finduilas, e nessun’altra.
E sono sempre io, sì, la tua Faelivrin, a volgere i miei occhi e il mio cuore verso il Mormegil senza riuscire a opporre alcuna resistenza.
Perché Adanedhel è giunto come una tempesta, un vento improvviso, impetuoso, che mi ha sconvolto l’anima lasciandomi sgomenta.
Spesso mi scopro a osservarne il volto nobile, regale, gli occhi splendenti di coraggio e determinazione.
E’ rapida a bruciare, la sua fiamma.
Ma perché dovrei temere il destino funesto, se prima di me anche Luthien la bella poté amare  un mortale?
Dalle labbra mi sfugge un sospiro spezzato, quasi un singhiozzo.
Sorella.
E’ così che mi chiama, il fiero Adanedhel.
E non sa quanto quell’unica parola, pronunciata con rispetto e tenerezza, mi riempia di dolore.
Se solo mi bastasse esserti sorella, Adanedhel, allora forse potrei amarvi entrambi. Nessuno, allora, soffrirebbe a causa mia. Ma non ci riesco.
E Gwindor… Oh, Gwindor, come potrei volgerti le spalle?
Quando scorgo nei tuoi occhi incavati la scintilla di ciò che sei stato il mio cuore sobbalza ancora come un tempo.
E come un tempo mi sento avvampare ogni qual volta odo la tua voce sussurrare quel nome: “Faelivrin”.
Faelivrin, un nome che non merito.
Non più.
Non sono degna di portarlo.
Non sono degna di te, Gwindor.
Non sono degna dell’ardito Adanedhel.
Biasimo e disprezzo, ecco cosa merito.
Già una nuova alba sta sorgendo all’orizzonte.
Quante altre notti insonni occorreranno, prima che io riesca a porre rimedio alle mie pene?
E quante lacrime dovrò piangere ancora, prima che qualcuno possa conoscere la ragione del mio dolore, portandomi parole di conforto?
Non ho risposte, per le domande che implacabili mi affollano la mente.
Soltanto il tempo, forse, saprà donarmi sufficiente chiarezza da permettermi di scorgere la soluzione al male che mi affligge.
Soltanto il tempo, forse, recherà pace al cuore di Finduilas.       
           
    
     
 Note
 
 
Sono ancora viva! Ebbene sì, incredibile ma vero! Di nuovo vi chiedo perdono per la lunghissima attesa: non ho scuse al riguardo, se non che il tempo e l’ispirazione ancora una volta non sono stati dalla mia parte. Questo capitolo, inoltre, ha avuto una gestazione lunga e complessa, tuttora non sono affatto convinta del risultato: al solito, l’ultima parola spetta a voi e ai vostri commenti, che sono sempre graditissimi.
La dama qui presentata è Finduilas Faelivrin, principessa di Nargothrond, figlia di Orodreth e nipote di Galadriel e Finrod Felagund. Ella era promessa sposa al nobile Gwindor il quale, dopo la Nirnaeth Arnoediad (Battaglia delle Innumerevoli Lacrime) fu catturato dai servi di Morgoth e tratto prigioniero in Angband. Gwindor riuscì a scappare e a tornare in Nargothrond recando con se Turin figlio di Hurin, a cui aveva prestato aiuto nelle selve. Nel rivedere Gwindor, l’amore che Finduilas nutriva per lui si mutò in pietà e compassione, a causa dei tremendi tormenti e della mutilazione alla mano sinistra che egli aveva subito in Angband. Pur provando ancora grande rispetto e affetto nei confronti di Gwindor, l’amore di Finduilas si volse a Turin, di cui ella ignorava la vera identità, poiché in Nargothrond era noto come Agarwaen figlio di Umarth (Macchiato di Sangue, figlio di Malasorte) ma anche con vari altri appellativi che io ho preferito usare nella narrazione perché più lusinghieri nei suoi confronti come Adanedhel, ovvero “Uomo-Elfo” oppure Mormegil “Spada Nera”.
Se escludiamo la complessa e delicata storia di Finwe e Miriel, possiamo dire che gli Elfi in genere sono prettamente monogami e che, quando si innamorano, difficilmente mutano parere. Questo rende, a mio giudizio, i tumulti d’animo di Finduilas molto più interessanti di quanto già non siano.
Qualche ultima precisazione qua e là: il nome Faelivrin è un “epesse” (soprannome) attribuito da Gwindor a Finduilas nei tempi felici del loro amore, e significa “lo scintillio del sole sugli Stagni di Ivrin”.
La questione della sorella non è farina del mio sacco: dai “Figli di Hurin” apprendiamo che Turin disse a Finduilas che avrebbe desiderato avere una sorella bella come lei, perché con la sua chioma bionda gli ricordava Lalaith, la sua sorellina morta in tenera età. Si tratta, a mio avviso, di una dellefrasi più infelici da dire a una donna innamorata, ma questa è un’altra storia.
Anche per questa volta suppongo di aver sproloquiato abbastanza. Ringrazio infinitamente chiunque si fermi a leggere la raccolta, ringrazio chi ha inserito la storia tra le seguite, tra le preferite o tra le ricordate e, come al solito, ringrazio in maniera speciale tutte le splendide persone che avranno tempo e voglia di lasciarmi un commento: conoscere la vostra opinione mi dà una gioia difficile da esprimere a parole!  
A presto, spero, questa volta sul serio!
 
Melianar                                             

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