Once upon a time.

di Cruel Heart
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Where's my breakfast? ***
Capitolo 2: *** The beginning of a fairy tale ***
Capitolo 3: *** A disgusting millepede crawls in the mud ***
Capitolo 4: *** Crash ***
Capitolo 5: *** New neighbour? ***
Capitolo 6: *** Fire and blades ***
Capitolo 7: *** A really bad figure ***
Capitolo 8: *** What goes around, comes around ***



Capitolo 1
*** Where's my breakfast? ***


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Pov Avril

 

 

“Avril?”

 

Mmh… chi è che mi chiama mentre sto prendendo il treno 9 e ¾ per andare ad Hogwarts?

 

“Avril?”

 

Sì papà, altri cinque minuti e la prendo la lettera dal gufo, non ti preoccupare…

 

“Avriiiiil!”

 

Alzo la testa di scatto, andando a sbattere la testa contro il comodino.

“Ahi! Ma porca putt…”

 

“Avril! Insomma, è ora di colazione! Che aspetti a portarmela, dannazione?!”

 

Ah, già. Dimenticavo che il treno 9 e ¾ non esiste, che mio padre è morto da otto anni ormai e che la voce urlante che mi ha risvegliato così “dolcemente” quanto una fiamma ossidrica su per il culo, è quella della mia matrigna.

 

“Sì, arrivo…” mi affretto a rispondere all’interfono. “Stronza.” mormoro.

 

“Che hai detto?!”

 

“Ho detto che arrivo!”

 

Prevedo una mattinata intensa, formata da: preparazione della colazione a Miss labbra di botulino, preparazione della mia colazione e, se riesco a non avere un crollo di nervi solo parlando con lei, guida fino all’università con la vecchia Mercedes di papà.

 

Guardo l’orologio e… non so a chi vorrei rivolgere le peggiori bestemmie, se a me, perché non sono ancora scappata di casa, o a Judy, semplicemente perché esiste.

 

Sono appena le sei del mattino!

E questa per lei è ora di colazione?!

Ma io la uccido, io la affogo in quella piscina hollywoodiana che si è appena comprata, io… io…

 

“Avril! Perché non sei ancora scesa?!”

 

D’accordo, posso sempre metterle del veleno nel salmone…

Già, se vi state chiedendo se avete capito bene, beh… sì, avete proprio capito bene.

Credo sia l’unico essere umano sull’intera faccia della Terra che mangi il salmone a qualsiasi ora della giornata.

Ovviamente, la colazione non fa eccezione.

Mi svesto e mi rivesto velocemente (non vorrei prendere a sprangate quel povero interfono senza colpa), scendo al piano di sotto e mi dirigo direttamente verso il frigo, pronta per scartare un altro pacco di salmone.

 

“Avril! Ma insomma, quanto capperi ci metti!” La voce di Judy mi arriva leggiadra e soave dal giardino.

 

Comprare veleno per topi: voce aggiunta alla lista di cose da fare di Avril Ramona Lavigne.

 

“Eccomi, eccomi.” grido dalla cucina.

 

Sistemo quel povero pesce nel piatto e corro verso di lei.

Appena mi vede, mi dice:”Beh signorina, ce ne hai messo di tempo, eh! Incominciavo a pensare che ti fossi persa.”

 

Aspettate… da quando in qua lei pensava?!

 

Trovo una risposta alla mia domanda soltanto guardandola: indossa un vestitino corto rosa confetto, accompagnato da dei tacchi a spillo e da degli occhiali da sole a forma di cuore dello stesso colore.

Oh, andiamo, ma che cazzo ci fa con degli occhiali da sole alle sei di mattina?!

 

“Allora, è il salmone norvegese che ti ho chiesto? Io ho bisogno di Omega 3, accidenti.”

 

“È il migliore.” le rispondo, prima di averla vista portare alla bocca una fetta.

 

Ti prego, ti prego, ti prego, fa che le vada di traverso!!

 

“Mmh, sì, si sente.” Dice con quelle sue labbra enormi, iniziando a masticare come se quel povero salmone sia una chewing gum. “D’altronde, mi costa una fortuna farlo arrivare direttamente dalla Norvegìa.”

 

Perfetto, ci risiamo.

 

“Beh, che diavolo fai lì impalata? Va’ a lavoro.”

 

“Ehm… veramente, Judy, non posso andarci stamattina, devo studiare per un esame molto importante, per cui…”

 

“Ascolta, Avril. Le persone, di solito, vanno a scuola soltanto per imparare qualcosa per poter trovare un lavoro. Ma tu ce l’hai già un lavoro buono, quindi perché sgobbare sui libri?” mi chiede, alzando le spalle.

 

No, ma… è pazza?

 

“Ma… io…”

 

“No, niente ma. Coraggio. Vai.”

 

Mi giro, sgranando gli occhi, e dirigendomi verso il prato per poter uscire di casa.

 

“Questa è completamente fuori!” inizio a sfogarmi, sottovoce. “Se pensa che obbedirò a tutte le stronzate che mi dice di fare, si-“

Non riesco a finire la frase, che un improvviso getto d’acqua mi colpisce in pieno viso.

 

Ma perché capitano tutte a me?

Corro verso l’irrigatore automatico, cercando di spegnerlo.

 

“No, tesoro, non lo chiudere. Il prato sta diventando beige.”

 

“Ma se è verdissimo! E poi, dicono sempre di risparmiare l’acqua! Siamo in piena siccità.”

 

Sento il suo sbuffo scocciato. “Guarda che la siccità è solo per i poveri. Secondo te, Jennifer Lopez ha il prato secco? Le persone che adoperano tanta acqua hanno anche tanta classe, sai?”  

 

Ah beh, allora io alzavo le mani e rifiutavo di discutere ulteriormente.

Prendo la Mercedes dal garage e mi dirigo verso il ristorante.

Sono furiosa, incazzata e… rassegnata, ma ormai ci ho fatto l’abitudine.

Parcheggio, con qualche difficoltà e, appena entro, non posso fare a meno di rabbrividire e di sorprendermi alla vista di come tutto il locale sia cambiato… in peggio, ovviamente.

Ogni santissima cosa è rosa, un abominevole rosa confetto, persino le divise dei dipendenti.

Non bastavano già i pattini, certo.

Sospiro e vado nelle cucine per indossare la divisa.

L’unica cosa buona di questo posto sono i miei colleghi. Lavorano qui da sempre, e per fortuna Miss labbra di botulino non ne ha licenziato nessuno.

C’è Angela, una donna di colore che praticamente mi ha fatto da madre, Sam, il nostro divertentissimo cuoco di fiducia e per ultima, ma non meno importante, Madison, la nostra cameriera tutto fare.

 

“Ehi Sam, devi finirla con il salmone. Hai già fatto omelette al salmone, minestra al salmone e budino al salmone.”

 

“Dici che sarebbe meglio metterci Judy nella minestra, eh? Dai, dì la verità, Angela.” replica lui, toccandola con il gomito e facendole l’occhiolino.

 

“Ah, quanto sei scemo, mi farai licenziare.”

 

“Sì, sì, sono tutte scuse.” grida, per poi riprendere a cucinare.

“Madison, il tuo ordine è pronto.” dice ancora.

 

“Sì, arrivo. Cavolo, io ho una certa età, non posso andare ancora in giro con questi cosi.”

 

Quanto capivo la povera Madison. Andare a 52 anni sui pattini non era proprio il massimo.

Beh, effettivamente… non lo era neanche a 18.

 

Bene, sono pronta.

Divisa: a posto.

Pattini:….. a posto.

Odio nei confronti di Judy: a posto, anzi, più che a posto.

Quello durerà nei secoli dei secoli… sempre che non la uccida prima.

 

***

 

Bene, bene, bene, buonsalve a tutti voi. (?)

Allora… vi piace il banner nuovo?

A me sì, molto.

Credo che sia quello che mi è riuscito meglio fin’ora.

So… che ne dite di questa nuova Avril?

Lo so che è presto, ma molti lati del suo carattere si iniziano a delineare qui.

Bene, ci vediamo al prossimo con qualche nuovo personaggio.

*evaporizzazione in corso*

Cruel Heart.

 

P.S. Glaphyra, dobbiamo chiamare Sasso… il PROFESSOR Sasso!.

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Capitolo 2
*** The beginning of a fairy tale ***


C’era una volta, in un regno lontano, una bellissima bambina che viveva con il padre vedovo.

 

“Ehi, stronzetta, vuoi stare un po’ più attenta a dove cammini? Se ti avessi messo sotto con la macchina, avrei fatto tardi a lezione!”

 

“Vaffanculo, coglione, la prossima volta con la patente pulisciti le tue chiappe!”

 

D’accordo, la storia non si perde nella notte dei tempi e non si è svolta in un regno lontano, ma nella città più soleggiata d’America, Los Angeles.

Forse di lontano non avrà proprio nulla, ma per me, da piccola, era davvero un regno incantato.

 

Ero il tesoro di papà e, ovviamente, lui era il mio.

Quando sono triste, ripenso ai tiri di baseball che facevamo al parco, e le decine e decine di urla di dolore che lanciava perché, beh… con la palla… lo colpivo proprio lì. E, incredibilmente, mi viene da sorridere.

Dal momento che sono stata cresciuta da un uomo, sono un po’ carente nel settore trucco, parrucco e abbigliamento, ma, da piccola, non avevo mai avuto l’impressione che mi mancasse qualcosa.

Ero la bambina più fortunata del mondo.

 

Papà aveva aperto il “J.C.’s Burgers”, il ristorante più fico dell’intera città nel campus dell’UCLA, l’università della California, e io adoravo stare lì.

Era quel genere di locale dove la parola “dieta” era una parolaccia, e l’unto del fritto era compreso nel prezzo, con grande felicità degli studenti che venivano a mangiare.

Da noi… era come se la gente si sentisse in famiglia.

 

Ricordo ancora quando festeggiai il mio decimo compleanno al ristorante, e tutta la gente che era lì mi diceva:”Esprimi un desiderio! Esprimi un desiderio!”

 

A che mi serviva un desiderio?

Avevo amici da sballo e un padre che era un mito, che potevo avere di meglio?

Ma papà, purtroppo, non la pensava esattamente come me.

Infatti, credeva che mi mancasse qualcosa, qualcosa di importante.

Quel qualcosa, o meglio, qualcuno, si rivelò essere Judy, una donna tanto dolce e simpatica, quanto amorevole e decisamente poco rifatta.

 

Il giorno in cui si sposarono fu un vero disastro.

Per me, ovviamente.

E, in quella bellissima e fantastica festa, conobbi anche le sue ancor più fantastiche figlie gemelle, Janette e Aurore.

Semplicemente, due impiastri di sorellastre.

 

Ma, dato che papà sembrava soddisfatto, volli quantomeno provare ad esserlo anch’io.

Anch’io volevo avere quel “e vissero felici e contenti” che vivevano le principesse nelle loro storie.

Per sfortuna, il finale della favola non andò così.

La sera in cui cambiò tutto, stavamo leggendo “La Bella e La Bestia”, la mia fiaba preferita.

 

[Inizio flashback]

 

“La Bestia, trasformato in principe, prese la mano di Belle e ne baciò il palmo. Poi, la invitò a danzare nella sala da ballo del castello, dove continuarono a danzare per ore e ore, scambiandosi teneri baci e un’indistruttibile promessa d’amore. E da quel giorno, vissero per sempre felici e contenti.”

 

“Papà, le favole si avverano?”

 

“No, in effetti no. Sono i sogni che si avverano.”

 

“E tu ce l’hai un sogno?”

 

“Certo. Il mio sogno è che tu cresca bene e vada all’università, e magari un giorno potrai anche costruire il tuo castello, se vorrai.”

 

“E le principesse in quali università vanno?”

 

“Le principesse? Beh… ehm… loro vanno… all’UCLA, ovviamente. Ma, vedi, le favole non riguardano solo castelli e principesse. In realtà, rappresentano tutti i desideri che vuoi realizzare, e il coraggio di lottare per le cose in cui credi. Capito?”

 

“Sì, certo, non sono mica come Gaston, io!”

 

“Brava la mia piccola. Ricordati di questo, che se lo leggi con attenzione, questo libro contiene cose importanti, che potranno servirti più in là nella vita.”

 

[Fine Flashback]

 

 

Come ho già detto, il finale della favola non andò così.

Il mio regno andò in frantumi quando il terremoto di quel lontano 1994 colpì la città.

Delle forti scosse colpirono la casa, e mi ricordo ancora del terrore che attraversò gli occhi di papà mentre tutto ci cadeva addosso.

Judy dal piano di sotto gridava aiuto, ma lo stesso terrore che aveva attraversato qualche secondo prima i suoi occhi, contagiò anche me.

Non volevo perderlo, non volevo che andasse da lei, non volevo che mi abbandonasse lì da sola.

 

E invece, lo fece.

Lasciò la mia mano, e si portò con lui tutti i momenti più belli che avevo della mia infanzia.

Quel giorno persi il mio migliore amico e, da allora, le uniche favole in cui credevo erano quelle che leggevo sui libri.

Si scoprì che mio padre non aveva lasciato un testamento, e così, indovinate chi si prese tutto?

Miss labbra di botulino, ovviamente.

 

Si impossessò di qualsiasi cosa: la casa, il ristorante e, con suo grande disappunto, anche me.

Mi mandò su, in mansarda, facendomi definitivamente lasciare la mia bellissima stanza e spedendomi in uno spazio fatto di 18 mq.

Lì c’erano soltanto delle pareti bianche e vuote e una specie di brandina vecchia e malridotta che doveva farmi da letto, ma non c’erano le mie favole, non c’erano i miei sogni, non c’era mio padre.

 

Di lui mi rimaneva solo la chitarra che mi aveva regalato, e che ogni tanto suonava per farmi felice.

Negli anni successivi, con tanta pratica e con mio enorme rompimento di coglioni, perché secondo Miss labbra di botulino quell’orribile suono le faceva venire le doppie punte, sono diventata sempre più brava a suonarla, tant’è che, nel tempo libero, mi esibisco per dei piccoli concerti al ristorante “Judy’s”.

Già. È così che si chiama il ristorante di papà, adesso.

Quello che prima era un normale ristorante dove si mangiavano hamburger e patatine fritte, adesso è diventato un ristorante chic e alla moda dove i raffinati clienti possono gustare del gustosissimo salmone di Norvegìa.

Sì, esatto, lei dice proprio “Norvegìa”, con l’accento sulla i.

Clienti, tra l’altro, che sono del tutto immaginari. A confronto, il deserto del Sahara sembra un locale del centro il Sabato sera.

 

Come so tutto questo?

Semplice, Judy mi ha costretto a lavorarci il pomeriggio.

Come direttrice?

Come co-direttrice?

No, molto meglio!

Come cameriera!

 

Eh già, non solo la figlia della titolare fa la cameriera, ma deve anche andare in giro con degli stupidissimi pattini a rotelle, come tutto il resto del personale, del resto.

E così, la mia giornata si divide in frequenza obbligatoria per l’università la mattina, lavoro, o meglio schiavitù, per il ristorante il pomeriggio e, se riuscivo a farcela, studio, tanto studio, la sera.

Oltre ad occuparmi delle continue crisi nevrotiche di Miss labbra di botulino, ovviamente.

 

Beh, in tutto questo disastro, almeno una nota positiva c’è.

Per fortuna, il campus non permetteva di soggiornare nelle proprie case, e così, proprio stamattina, ho dovuto portare tutte le mie cose in uno degli stabili messi a disposizione per gli studenti.

Almeno avrei avuto a disposizione un letto come si deve.

Questa sera sarebbe stata l’ultima notte in cui avrei dormito a casa mia, poi, in un certo senso, mi aspettava la libertà.

In un certo senso perché casa mia è a due passi dal campus, quindi… penso che mi ritroverò ancora Judy e le mie sorellastre tra i piedi.

 

Arrivo a casa che sono le nove di sera, non ho mangiato e sono a pezzi.

Niente di nuovo per me, ma… mi farebbe piacere trovare qualcuno che si prenda cura di me, proprio come faceva il mio caro e vecchio papone.

Salgo velocemente le scale, ignorando le urla isteriche di Judy che mi ordina di spalmarle la crema idratante sul viso.

Lei non immagina neanche dove gliela ficcherei in questo momento…

Chiudo a chiave la porta, e mi butto sul letto, senza neanche cambiarmi i vestiti.

“Ah… che vita di merda.” sussurro, prima di prendere sonno e di addormentarmi.

 

***

 

Sssssalve a tutti!

Il mio cervellino sta sfornando ff a palate.

So… eccomi qua!

Spero che questa nuova long vi piaccia. Lo stile è un po’ quello di LBS, quindi se vi è piaciuta quella, sicuramente vi piacerà anche questa, fidatevi.

Ok, molte frase di questo capitolo le ho prese dal film “Cinderella Story”, quello con Hilary Duff.

A me il film è piaciuto molto, quindi ho pensato di farci una ff… ma molte cose saranno diverse, alcune in meglio, altre, ovviamente, in peggio u.u

Ok, evaporo.

A presto.

Cruel Heart.

 

P.S. Glaphyra, dobbiamo prenotare i leopardi e le zebre, mi raccomando!

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Capitolo 3
*** A disgusting millepede crawls in the mud ***


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A disgusting millepede crawls in the mud. – Un disgustoso millepiedi striscia nel fango.

 

Pov Avril

 

 

[Un’ora dopo]

 

Sospirai ed incominciai a pulire i tavoli e ad apparecchiarli, strisciando su quei dannatissimi pattini.

Vidi Angela parlare con un cliente, con la solita aria simpatica e disponibile che la caratterizzava.

“Ciao Chuck! Come stai?”

 

“Alla grande.” rispose un uomo baffuto e grassottello.

 

“Bene. Allora, vediamo se mi ricordo…” disse, prendendo il taccuino e incominciando a scrivere. “Omelette al formaggio, tortino di pancetta, patate fritte, crostata di mirtilli e una coca, giusto?”

 

“Sì, ma quella senza zucchero. Tengo d’occhio il peso.”

 

Trattenni a stento un risolino nel vedere la faccia sconvolta di Angela.

 

“Beh, certo… è senz’altro la coca, il problema…”

Si allontanò dal balcone con gli occhi ancora spalancati.

 

“Le focacce al salmone sono pronte!” urlò Sam. “Qualcuno le venga a prendere.”

 

“Sì, faccio io.” risposi. Se non altro, avrei tenuto la mente occupata e avrei evitato di progettare il modo più efficace per uccidere Judy.

 

Mentre mi avvicinai. Angela si girò verso di me. Sembrava sorpresa e leggermente incazzata.  

“Avril, che ci fai qui?” Infatti.

 

“Ho quasi finito.” le risposi, pulendomi le mani sul grembiule rosa. Prima finivo di lavorare, prima me ne sarei andata da quel posto.

 

“Guarda che così fai tardi all’università!”

 

“Lo so. Adesso vado, non preoccuparti. Lo sai che Judy va in menopausa se non finisco.” provai ad alleggerire la situazione..

 

Non sembrava voler stare allo scherzo. “Sai quanto me ne importa di Judy?! A me interessa solo la tua istruzione.”

 

“Ma-”

 

“Ti fa sempre svegliare all’alba, neanche fossi un gallo.”

 

“Ma io-”

 

“Tuo padre ti vorrebbe a scuola, non qui.”

 

“Ma lei-“

 

“Niente ma, è chiaro? Judy e le sue chiappe dovranno vedersela con me.” mi rispose, strappando il piatto dalle mie mani.

Nonostante mi avesse interrotta per ben tre volte, mi sentii in dovere di ringraziarla. Lei era l’unica che mi capiva davvero.

“Grazie, Angela.” dissi, abbracciandola.

 

“Sì, sì, basta con queste smancerie. Ora vai.”

L’unico difetto, se possiamo chiamarlo così, era l’incapacità di esprimere a pieno i suoi sentimenti. Ma io sapevo che, sotto quella scorza da dura, si nascondeva un cuore dolce.

 

Mi cambiai in fretta, rimettendomi i miei abiti, e guardai l’orologio.

Cazzo, erano le sette e mezza, e tra mezz’ora sarebbe iniziata la prima ora di lezione.

Uscii e m’infilai subito nella Mercedes, accedendola e partendo.

Meglio andare a prendere Gabriel, pensai.

 

Se vi state chiedendo chi è Gabriel, la risposta è semplicissima.

Posso definirlo, senza alcuna ombra di dubbio, il mio migliore amico.

Ci conoscemmo a sette anni, sulla spiaggia di Santa Monica, quando io mi divertivo ancora a fare i castelli di sabbia e il mare si divertiva a distruggermeli.

Soltanto che, quel giorno di undici anni fa, al suicidio dei castelli contribuì anche qualcos’altro.

Il piede di Gabriel, appunto.

Subendo quel gesto come un affronto, ho incominciato a piangere davanti a mio padre e ad incominciare con il possessore di quel piede malefico una battaglia di palle di sabbia con i fiocchi.

Risultato? Una gita di corsa all’ospedale più vicino e una congiuntivite a testa.

Dopo la visita, scoprii che abitava a due isolati da casa mia, e così mio padre e i suoi genitori si sono incominciati a frequentare, e con loro anche noi.

La nostra amicizia era stata messa in crisi dall’arrivo di Judy, che lo definiva un pazzoide che non combinerà mai niente nella vita, ma per fortuna siamo stati in grado anche di superare questo tipo di ostacolo.

Gabriel è un tipo a posto… credo.

Suonai più di una volta il clacson, per segnalare il mio arrivo.

Vidi che il signor Panduro era fuori, ad innaffiare le sue amatissime piante.

 

“Ehi Gabriel, è arrivata Avril.” lo avvisò il padre.

 

“Sì, arrivo.” gridò lui di rimando.

 

“Grazie, signor Panduro.” lo ringraziai con un sorriso.

 

“Di nulla. Ah, a proposito, cerca di essere comprensiva con lui oggi. Sai, per lui è un giorno particolare.” mi disse, sparendo sul retro.

 

Questa cosa mi preoccupò molto.

Che significava che dovevo essere comprensiva?

E che tipo di giorno era oggi?

 

La risposta mi arrivò appena Gabriel uscì dalla porta di casa e venne incontro alla mia macchina.

Indossava degli occhiali da sole neri e una tuta color rosso acceso su cui spiccava una vistosissima collana color oro, e stava rappando un brano che leggeva su un foglio.

 

“Yo, yo, qualsiasi cosa è possibile quando si crede, esatto, qualsiasi, ragazzi.”

 

Presa da un vortice di disperazione, feci andare a sbattere di proposito la testa contro il clacson della macchina, che produsse un rumore talmente assordante da spaventarlo.

 

“Yo Avril, amica, posso sapere che ti prende?”

 

Rialzai la testa, molto lentamente, e lo fulminai con lo sguardo.

“Gabriel…perché ho la vaga sensazione che tu abbia un provino oggi, e che tu non mi abbia avvisato?!”

 

“Yo, esatto sorella, ci hai preso in pieno.” disse, aprendo la portiera e accomodandosi sul sedile del passeggero.

 

“Smettila di dire yo! E comunque… come…come…come ti sei vestito?”

 

“Perché? Cosa c’è che non va?” mi chiese, ritornando a parlare normalmente. “Questo è il mio look da rapper.”

 

Roteai gli occhi. “Va bene, mettiamola in un altro modo. Io non ti porto a scuola conciato… così.”

 

Si tolse gli occhiali da sole, con fare da saputello. “Ascolta Avril, questo è un metodo che seguiamo al corso di teatro. In questo modo, entri nel personaggio.”

 

Approfittai della sua distrazione per togliergli tutte quelle stupide catene che si ritrovava al collo. “Lo so, ma… non ti sembra di esagerare?”

 

Sospirò pesantemente. “Va bene, va bene, la prossima volta vado a piedi.”

 

“Bravo, vedo che inizi a capire.” conclusi il discorso, accendendo il motore e partendo verso l’università.

 

Il viaggio durò sì e no cinque minuti, l’università era vicina.

Appena attraversammo il grosso cancello per entrare nel parcheggio, sentimmo il grosso altoparlante dare le ultime notizie sull’università.

 

“Buongiorno a tutti gli studenti, insegnanti, addetti alle pulizie e, nel caso che ce ne siano, robot dell’UCLA. In tempo di siccità, un consiglio per risparmiare l’acqua. Fate docce brevi, ma l’importante è che ci siano. La palma d’oro va al professor Smith, di economia, che non si lava da ben due settimane, ormai. Bleah, ho come l’impressione che ci sarà un brusco calo delle affluenze nella classe del signor Smith, dopo questa notizia. D’altronde, se non economizza lui…

Bene, studenti e robot, vi do appuntamento a ora di pranzo, quando i nostri cervelli saranno scollegati e i nostri stomaci riempiti. A dopo.”

 

Feci un leggero sorriso, pensando alla condizione in cui si doveva ritrovare il professor Smith dopo questa informazione, ma fui prontamente risvegliata da Gabriel. “Avril, c’è un posto lì.”

 

Feci per accelerare, ma una Porsche ci tagliò la strada.

“Ehi, perdenti, chi dorme non piglia pesci. Ah-ah-ah.” dissero le tre ragazze perfettamente in coro.

 

Dio, quanto odiavo le ragazze che si comportavano così!

Chi erano queste tre Barbie?

Facile, molto facile.

 

“Oh, ecco Nicole Fear e le sue damigelle di corte!” esclamò sarcastico Gabriel, roteando gli occhi. “Sono sicuro che Nicole voglia portarmi a letto.”

 

Cosa?! “Ma non avete neanche mai parlato!”

 

“Oh, sì che abbiamo parlato. Nella mia testa. E ti assicuro che, nella mia testa, lei vuole portarmi a letto.”

 

“Gabriel, puoi cercartene una molto meglio di Nicole Fear, anche nella fantasia. È così… stupida.” dissi, indicandola con la mano.

 

“Sì, sì…oh, lì, a sinistra, c’è un posto libero.”

 

“Bene, questo non me lo frega nessuno.” esclamai, convinta.

 

Misi la retromarcia, ma proprio quando stavo per fare la manovra, arrivò una Jeep nera che, per l’appunto, mi fregò il posto.

 

“Ma che cazzo!” mi stizzii.

 

Dalla Jeep uscirono due ragazzi, che si stavano sganasciando dalle risate per avermi rubato il parcheggio.

Purtroppo per me, riconobbi anche il terzo ragazzo, che era alla guida. Eccolo, il ragazzo biondo e perfetto che scendeva dall’auto neanche fosse un angelo appena caduto sulla Terra, quando in realtà non era nient’altro che uno schifoso millepiedi strisciante nel fango.

 

“Pff, Taubenfeld…” mormorai.

 

***

 

Ok, scusatemi per il ritardo con cui sto aggiornando.

I compiti (sia in classe, sia a casa) mi stanno sommergendo.

In realtà, per come stava andando la serata, non avrei neanche dovuto aggiornare oggi, ma, per fortuna, sono riuscita a farlo.

So, so, so, che ne dite del verme strisciante?

Eheheheh.

Questo sarà solo l’inizio.

Good, ho finito.

*evaporizzazione in corso*

Cruel Heart.

 

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Capitolo 4
*** Crash ***


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Crush - Scontro

 

Pov Avril

 

Sbuffai scocciata, rivolgendomi verso Gabriel.

“Sai, per me la gente come Nicole e Evan è geneticamente programmata per stare insieme. Come si può essere tanto egocentrici in un rapporto a due?”

 

“Beh, non voglio immaginare quello che dicono di te.”

 

Abbassai gli occhi, guardando i miei jeans. “Figuriamoci, non sanno neanche che esisto…”

 

Rialzai lo sguardo, osservando il gruppetto di fronte a me.

Loro erano i cosiddetti “popolari”, conosciuti da tutta la scuola per la loro bellezza e ricchezza, un po’ meno per l’intelligenza.

 

“Brrr. Ragazzi, a ore tre ci sono due stranieri.” sentii mormorare Britney, una delle due ragazze che facevano da cagnolini a Nicole.

 

Appunto.

Nicole mise le mani a coppa accanto alla bocca e ci urlò:”Questi parcheggi sono riservati ai bellissimi. Quindi, niente mostri.”

 

Avete presente quelle scene degli anime giapponesi in cui al protagonista esce il fumo dalle orecchie e vorrebbe tanto picchiare qualcuno per la rabbia?

Ecco, questo m’immaginavo di fare… se non ci fosse stato Gabriel a trattenermi.

 

A rincarare la dose, ci si mise anche lui, il verme strisciante.

“Ehi, cameriera, posso avere un’omelette al formaggio? Grazie…” si rivolse a me, con tono derisorio e altamente irritante.

 

“Per fortuna non sanno nemmeno che esisti, eh?”, disse Gabriel, alzando il sopracciglio nella mia direzione.

 

“Già…” gli risposi, roteando gli occhi.

 

Inchiodai il verme con un’occhiata assassina.

Se gli sguardi avessero potuto uccidere, lui a quest’ora sarebbe stato già morto stecchito.

“Fanculo, Taubenfeld.” mormorai, e parcheggiai nell’unico posto disponibile, accanto ai cassonetti dei rifiuti.

Non male come inizio di giornata, eh!

 

Lo stupido gruppetto si sparpagliò, mentre noi sentimmo la campanella suonare e scendemmo in tutta fretta dall’auto.

Arrivati all’entrata, io e Gabriel ci salutammo, dandoci appuntamento nel corridoio per andare in mensa, e ognuno andò a seguire la propria lezione.

Io entravo in sociologia, mentre lui in arte della recitazione.

Nonostante tutto, gli feci un imbocca al lupo mentale per il provino.

Intanto che camminavo, presi la cartina degli stabili del campus e la esaminai. Oggi avrei ultimato il trasloco, finalmente, e avrei potuto passare la prima sera lontana da Judy. Sebbene la mattinata non fosse iniziata nel migliore dei modi, l’eccitazione e l’adrenalina scorreva dentro di me. Non vedevo l’ora di starmene un po’ per i fatti miei. Mentre osservavo attentamente la cartina, inciampai in una mattonella sporgente.

Cercai di recuperare l’equilibrio per non cadere e mi scontrai con qualcuno che stava davanti a me. Per lo scontro, finii a terra come al mio solito, maledicendo il mio scarso senso dell’equilibrio e il dolore per la caduta.

“Che cazzo, stai più attenta!” mi disse una voce seccata che non mi era nuova.

Sollevai lo sguardo, per conoscere a chi appartenesse quella voce, e lo vidi. Che cavolo, con milioni di persone in questa università, proprio con lui dovevo scontrarmi?!

Per la sorpresa, non riuscii a muovere nemmeno un muscolo e rimasi lì a terra come una stupida a fissarlo. I suoi occhi mi scrutavano, mentre lui mi guardava con superiorità e non faceva niente per aiutarmi ad alzarmi. Ma guarda tu che cafone!

Mi sollevai da sola e cominciai a raccogliere da terra tutte le mie cose, che, nel cadere si erano sparse.

Continuava a fissarmi, senza dire niente, e sentivo che quello sguardo così insistente mi stava incominciando a dare sui nervi. “Si può sapere che cosa hai da guardare, Taubenfeld?” gli chiesi stizzita.

“Gli occhi sono fatti per guardare, non lo sai?” mi rispose ironico, senza smettere di fissarmi.

Bene, era la seconda volta in una mattina che non riuscivo sopportarlo. “Allora cerca di guardare da un'altra parte, mi infastidisci.” gli dissi, fulminandolo, e dirigendomi verso l’aula affollatissima.

Per fortuna, il professor Eccleston non era ancora arrivato, e mi ero risparmiata una grande figura di merda, dato che non ero entrata dopo di lui.

Presi posto in terza fila, in modo da seguire bene, e, non sapendo cosa fare, cominciai a fare degli scarabocchi sul mio quaderno degli appunti.

All’improvviso, sentii un rumore vicinissimo a me e mi girai.

Non era possibile, stavo avendo troppa sfiga per una giornata sola.

Lui si sedette proprio accanto a me e, non so perché, la presi come un’offesa. “Mi stai seguendo, per caso?” gli domandai.

“Cosa?! Assolutamente no, anch’io devo seguire sociologia. E poi, secondo te, dovrei perdere il mio tempo a seguire persone come te?” Alzò il mento, squadrandomi dall’alto in basso.

Dio, se solo avessi avuto una bella spranga dura e resistente…“Certo, e immagino che invece le persone che frequenti tu siano stronze esattamente quanto te, giusto?”.

“Lo sai che hai un bel caratterino?” mi chiese invece, con un sorrisino strafottente.

“Felice di saperlo. E adesso, se non ti dispiace, vattene a fanculo e lasciami in pace.”

Si mise sulla difensiva. “Ehi, calmati, bellezza.”

Gli lanciai un altro sguardo fulminante. “Cosa c’è della parola fanculo che non hai cap-“

Sentii qualcuno schiarirsi la voce davanti a me. Alzai lo sguardo e vidi un uomo sulla quarantina e un po’ stempiato che ci guardava. Il professor Eccleston.

Bene, e menomale che dovevo risparmiarmi una figura di merda…

“Ah, Taubenfeld, ancora lei. Si allontani dalla signorina Lavigne e vada a sedersi nella fila di sopra, forza.” Sospirò il professore.

Lo vidi alzarsi, con un sorriso divertito, e prendere posto nella fila sopra la mia. Io, con gli occhi bassi, guardai in giro, alla ricerca di occhiate divertite dal nostro piccolo siparietto. Purtroppo per me, l’aula era già piena e molti mi guardavano sorridendo. Farsi i fatti loro no, eh?

Sbuffai, mentre il professore si sistemava alla cattedra e iniziava la sua lezione.

Ogni tanto, oltre agli sguardi che continuavano a riversarsi su di me, osservavo di sottecchi anche il verme, che mi studiava con un sorrisino che non mi piaceva affatto. Se le prime lezioni erano così, non volli nemmeno pensare alle prossime.

Finita l’ora lo vidi alzarsi e dirigersi verso il corridoio.

Sistemai velocemente i libri nello zaino e seguii la massa di studenti che stava uscendo dall’aula.

Ero ansiosa di rivedere Gabriel, volevo stare con qualcuno che mi facesse sentire bene.

Lo incontrai vicino agli armadietti, che mi aspettava.

Aveva un’aria triste, quasi… dispiaciuta.

“Ehi Gabriel.” Lo salutai.

“Ehi.” Le mie supposizioni vennero confermate in pieno. Mi salutava sempre con qualche stupido nomignolo dei suoi, non era da lui dirmi un semplice ehi.

Doveva essere per forza triste e forse avevo intuito anche il perché.

“Beh… com’è andato il provino?” gli chiesi, sperando di non far danni.

Abbassò lo sguardo dal pavimento, guardandosi la punta delle scarpe. Ci avevo preso in pieno. “E’ andato male, anzi, malissimo. Non hanno voluto neanche farmi finire il pezzo. Che giornata di merda!” esclamò irritato, rialzando lo sguardo verso di me. Non sapeva neanche quanto avesse ragione. “E a te? Com’è andata la giornata?”

“Lo stesso. Mi sono scontrata con Taubenfeld, quello stronzo, defic-“

Il mio discorso venne interrotto da dei gridolini acutissimi. Tutta la grande folla, che si dirigeva verso la mensa, si divise improvvisamente in due parti, una a destra e una sinistra, lasciando misteriosamente il centro vuoto.

Mi alzai sulle punte, per vedere cosa cavolo stesse succedendo, e vidi Nicole e le sue cagnoline camminare nel mezzo del corridoio a passo sicuro verso la mensa, neanche fosse una sfilata di moda.

“Spostarsi, spostarsi, spostarsi.” gridavano agli ignari studenti, peggio dei robot.

Sentii due voci maledettamente familiari parlare all’unisono all’indirizzo di Nicole. “Nicoooole, ciao amore! Come va?”

Oh no, che imbarazzo, speriamo che nessuno scopra che sono le mie sorellastre, pensavo nel panico.

Janette e Aurore correvano starnazzanti e con dei mega sorrisi verso le tre ragazze, che le salutarono falsamente, per poi, per mia fortuna, sorpassarle.

Mentre loro smettevano di sorridere, deluse per non essere state ancora una volta invitate nel gruppo delle “bellissime”- per forza, di bellissimo loro non avevano proprio niente -, osservai i loro vestiti, così diversi dai miei. Se io indossavo una semplice felpa con dei jeans neanche tanto attillati, loro andavano in giro sempre con roba firmata, comprata dalla loro dolce e amorevole mammina, ovviamente. Se questo significava essere figlie di Judy, allora preferivo vestirmi come una barbona.

“Perché tolleriamo quelle due befane?” sentii Nicole chiedere a Britney.

“Per la borsa firmata che ti hanno regalato al compleanno.” le rispose.

“Che poi si è rivelata una volgare imitazione!” aggiunse prontamente Shelly, l’altra ragazza che faceva parte del gruppo a tre.

“Ah, dimenticavo.” concluse altezzosa Miss Barbie, prima di spalancare le porte e di entrare in mensa.

Voltai lentamente lo sguardo verso Gabriel, che era scioccato quanto me per la scena. ”Dai, andiamo.” sussurrò.  

 

***

 

Eccomi qua, people.

Muahah, che ne dite di questi due baldi (?) giovani?

Vi piacciono insieme? :3

Questo capitolo è dedicato a Glaphyra, so che le piacerà e non poco. (PandoraHearts è superfigherrimo (?) *-*)

Bueno, ci vediamo al prossimo!

*evaporizzazione in corso*

Cruel Heart.

 

P.S. Altra mia ff. Remember Me

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Capitolo 5
*** New neighbour? ***


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New neighbour? – Nuovo vicino?

 

Pov Avril

 

Io e Gabriel ci stavamo dirigendo in mensa, cercando di non essere schiacciati dalla grande folla accalcata nel corridoio, quando improvvisamente sentii il mio cellulare squillare con il primo movimento della sinfonia n. 5 di Beethoven.

La mia mente ci mise due secondi per esclamare dieci imprecazioni di fila. Non era un caso se avevo scelto quella suoneria per quel numero. Cazzo…

Presi il cellulare dalla tasca dei miei jeans e, neanche fossi stata un condannato sul patibolo pronto per essere decapitato, risposi.

“Pronto?” Ovviamente, sapevo già chi fosse. Il problema, purtroppo, era che non sapevo cosa volesse. Mi preparai mentalmente a sentire la sua voce spacca – timpani.

“Avriiiiil!”

Come se avessi preso la scossa, allontanai immediatamente il telefono dal mio orecchio. Non c’era preparazione mentale che potesse competere con lei.

“Ciao, Judy. Cosa vuoi?” Con lei era sempre meglio essere diretti ed andare dritti al punto.

“Come cosa vuoi, razza di impertinente! Sbaglio o ti avevo avvisato che appena finivi le lezioni dovevi fare il turno di pomeriggio al ristorante, eh?”

“Ehm… no, ti sbagli, non mi avevi avvisato.”

“Oh.” I tre secondi di silenzio che seguirono furono ancora più irritanti dell’intera conversazione. “Beh, adesso sei stata avvisata. Quindi, vai a lavorare!” E con questa sua ultima massima, chiuse la chiamata.

Toccai Gabriel sulla spalla, per attirare la sua attenzione, e gli urlai, cercando di farmi sentire nel caos generale:”“Gabriel, devo andare al ristorante a lavorare.”

“Cosa? Devi andare ad un funerale? Mi dispiace!”

“Ma no, che hai capito. Devo andare a lavorare!”

“Avril… il bagno è lì, non capisco perché adesso mi vieni a dire che hai bisogno di urinare…”

Alzai gli occhi al cielo, esasperata. Lo trascinai all’uscita per un braccio, sperando che nessuno mi facesse storie proprio ora. Le mie ovaie erano già in pieno movimento e non avevano certo bisogno di essere sollecitate ulteriormente.

Una volta raggiunto l’esterno, mi fermai, misi le mani a coppa attorno al suo orecchio sinistro e gridai con tutto il fiato che avevo in gola:”GABRIEL! IL RISTORANTE! DEVO ANDARE A LAVORARE!”

Spalancò gli occhi e mi scostò gentilmente da lui. “Ok, devi andare a lavorare al ristorante. Ti ci accompagno. Perché non l’hai detto subito, accidenti?”

Mi accompagnò alla macchina, chiedendo ed ottenendo il permesso di guidare. L’unica cosa che pensavo in quel momento, era: ovaie mie, calmatevi.

**

Appena entrammo al ristorante – facevo ancora fatica a chiamarlo con il suo nome attuale –, Angela ci venne incontro, sorridente come sempre.

“Avril, Gabriel, che ci fate qui?”

“Beh, a dire la verità, Judy mi ha dolcemente riferito che devo fare il doppio turno, per cui… eccomi qui.” Sospirai, togliendomi la borsa a tracolla.

“Come doppio turno? Tu non fai proprio nessun doppio turno, signorina.” Mi rispose, puntandomi contro un dito e agitandolo. “Piuttosto, tutt’e due, avete pranzato?”

Non volevo darle più fastidio di quanto non avesse già, per cui preferii mentire, anziché dirle la verità. “Sì, noi-“

“No, a dire la verità no, mi ha subito trascinato qui, senza nemmeno lasciarmi rifocillare. Sto proprio morendo di fame.” Mi anticipò Gabriel, sbadigliando.

Mi girai lentamente verso di lui e lo guardai con lo sguardo più omicida che potessi fare.

Soltanto dopo un po’ si accorse del mio sguardo ed scrollò le spalle, come per dire beh, che c’è?, ma ormai la frittata era fatta.

Angela partì subito in quarta, ci fece voltare e ci spinse dalle spalle. “No, no, no, no, ragazzi, così non va bene. Come fate a mettere in moto il vostro cervellino, se non mettete niente nello stomaco? Adesso ci pensa la zia Angela, e un doppio cheeseburger non ve lo toglie proprio nessuno.” Disse, facendoci accomodare ad un tavolo e sparendo nelle cucine.

 Continuai a tenere il mio sguardo assassino su Gabriel che, invece, se ne stava tranquillo e sereno seduto sulla sua sedia.

Dopo qualche minuto, forse infastidito dalla mia occhiata insistente, o forse perché non aveva niente da fare mentre aspettava il panino, mi chiese:”Av, ma perché mi guardi così? Capisco che sono bello, ma non credevo arrivassi fino a questo punto…”

Sospirai, non potendo fare altrimenti. “Gabriel, hai mai sentito parlare del concetto di non dare fastidio agli altri mentre lavorano?” Gli risposi, mimando le virgolette per rendere ancora più chiara la domanda.

“No, mai sentito.” Ribatté, incominciando a guardare fuori dalla finestra.

Nel frattempo che aspettavamo quel dannato cheeseburger, grazie alla pessima uscita del mio amico, mi guardai in giro e mi persi nei miei pensieri.

Ricordai quando, da piccola, me ne stavo stesa sul letto e piangevo, soffocando i pianti e i singhiozzi sul cuscino.

Non volevo che nessuno vedesse e si accorgesse delle mie lacrime, neppure mio padre, dovunque fosse.

Mi sembrava che, facendo fuoriuscire quelle piccole gocce salate, cresceva la mia debolezza e insicurezza.

L’unica cosa che volevo, era crescere subito, immediatamente, in modo da far passare tutto il dolore che sentivo dentro.

Non ti preoccupare, quando diventerai grande nessuno ti potrà dire cosa fare, neanche Judy., sussurravo a me stessa, stringendo lo stesso libro delle favole che quella notte mio padre lasciò a me.

Credevo, o meglio, speravo, che la sofferenza pian piano si appiattisse, che venisse sbiadita dal tempo come se fosse stata un brutto ricordo.

La verità era un’altra, invece.

Anche se erano passati anni da quando mi confidavo con il libro delle favole, la scena non se n’era andata, anzi, qualche sera faceva il suo ritorno, cogliendomi il più delle volte impreparata.

Ciò che non sapevo, quando ero una bambina, era che questo tipo di dolore, non passava e non veniva dimenticato mai, neanche con l’azione del tempo, che tutto cancella.

 Come si faceva a sopravvivere?

Semplice. Dopo ogni notte passata a piangere, dopo ogni giorno in cui asciugavo i miei occhi gonfi e rossi, avevo imparato a conviverci, con la fitta che sentivo ogni volta colpirmi dritta al petto.

Non c’era un altro modo per continuare a vivere, e neppure sperare diventare grandi serviva.

Adesso che avevo raggiunto la maggiore età, avevo capito che… la sofferenza non era mai andata via da me.

Sia nel bene, sia nel male, mi era sempre stata accanto, tornando, magari qualche sera particolare, a bussare alle porte del mio cuore e a far sgorgare altre lacrime dai miei occhi azzurri.

“Oh, finalmente, pensavo di non riuscire a liberarmi più di questi crampi allo stomaco.” Disse Gabriel, interrompendo il percorso che stavano intraprendendo i miei pensieri.

Voltai lo sguardo verso la direzione indicata dai suoi occhi, e vidi due cheeseburger caldi e fumanti disposti su due piatti sul tavolo.

“Oh, Angela, non dovevi. Così mi fai sentire in colpa per averti fatto lavorare di più.” Le dissi, alzandomi e venendo presa dal desiderio irrefrenabile di abbracciarla.

Lei, presa alla sprovvista, s’irrigidì per un attimo, per poi ricambiare immediatamente il mio abbraccio.

“Non ringraziarmi, Avril. Se non mi prendo cura io di te, chi dovrebbe farlo?”

Eh già, chi dovrebbe farlo?

**

Appena finimmo di mangiare, ringraziammo ancora Angela e ci dirigemmo verso la mia macchina.

Ancora una volta, Gabriel si posizionò al posto di guida.

“Allora… che si fa?” mi chiese.

“Cosa vuoi che faccia, con un cheeseburger sullo stomaco?” Non era mia intenzione farlo, ma la voce mi uscii un pochino più acida rispetto al solito.

“Ok, messaggio ricevuto.”

Sembrava un po’ abbattuto, nel suo modo di fare. In fondo, tu non gli hai di certo reso la vita facile, ed è anche stato bocciato al provino! Poverino, ci teneva così tanto…

Dannata parte buona della mia coscienza. Speravo di non pentirmi di quello che stavo per dire. “Beh, comunque… se vuoi… potresti sempre venire a vedere il mio nuovo appartam-“

“Oh sì Avril, davvero lo faresti per me? Grazie, non sai quanto sono contento di averti come migliore amica. Andiamo!”

Alzai gli occhi al cielo. Almeno gli hai risollevato l’umore…

Il viaggio in macchina fu breve, giusto il tempo per spiegargli come raggiungere la mia nuova ubicazione*.

Appena fummo davanti all’entrata, però, notai una cosa spiacevole, di cui mi ero completamente dimenticata.

“Ehi Avril, ma perché ci sono tutti quei cartoni per terra?”

Scesi dalla macchina, incazzata con me stessa.

“Cazzo! Mi ero dimenticata che l’ultimo carico passava stamattina.” Sbuffai, scocciata.

Non ce l’avrei mai fatta a portare tutti quei cartoni da sola.

A meno che…

Mmh, la parte diabolica della mia coscienza aveva quasi sempre delle ottime idee.

Non potei fare a meno di sentirmi come la matrigna quando consegna a Biancaneve la mela avvelenata.

“Gabriel…” Scandii bene.

“Sì….?” Anche se probabilmente non se ne accorse, indietreggiò leggermente sul sedile, a disagio. Mi conosceva bene, e sapeva che tramavo qualcosa.

“Ascolta…mi chiedevo se…magari…mi potessi dare una mano con tutti quei cartoni. Sai com’è, sono molto stanca e non credo di potercela fare da sola.”

Ti prego, dì di sì.

“Ehm…Avril…Anch’io sono stanco, e in più dovrei anche andare a casa, altrimenti mio padre mi strozza.”

“Nah, non ti preoccupare di tuo padre o del ritardo che potresti fare, tanto a piedi ci metti cinque minuti. Allora?”

“Beh…” tentennò.

“Gabriel… Ti preeeego!” gli feci gli occhi dolci, consapevole che solo con questo metodo avrei ottenuto qualcosa.

“Oh, e va bene. Ma mi devi un altro cheeseburger, sia chiaro.” Mi rispose, puntandomi un dito contro.

“Certo, anche due!” esclamai, contenta. “Allora… tu prendi quello, mentre io vado già ad aprire la porta e a prenotare l’ascensore, così facciamo prima.”

Entrai, premetti sul bottone rosso, che si illuminò, e salii le scale in fretta, per non far stancare ulteriormente il mio migliore amico.

Presi le chiavi di casa, aprii la porta, e lo aspettai pazientemente sulla soglia.

Sentivo i suoi passi stanchi avvicinarsi sempre di più, fino a quando non lo vidi arrivare davanti a me con il fiatone.

“Cavolo, ma quando avevi intenzione di dirmi che il tuo appartamento era al sesto piano?!”

Scrollai le spalle, esattamente come aveva fatto lui quel pomeriggio.

Facemmo un paio di viaggi, una volta salendo le scale, un’altra andando in ascensore, e, dopo due ore, rimase solo uno scatolone.

Vedendo lo stato in cui si era ridotto pur di aiutarmi e per avere un cheeseburger gratis, la parte buona della mia coscienza riemerse in superficie e lo lasciai andare a casa.

All’ultimo scatolone potevo benissimo pensarci io.

Prima di compiere quell’ultima fatica, presi dalla tasca dei miei jeans il cellulare e attaccai le cuffie all’apertura.

Ero del parere che qualsiasi difficoltà poteva essere superata, se avevi a disposizione delle buone cuffie e la musica adatta.

Selezionai un brano metal, rimisi il cellulare nella tasca ed entrai, speravo per l’ultima volta in quella giornata, nell’ascensore.

 

Pov Evan

Sbuffai irritato, buttando il libro di chimica sulla scrivania.

Per tutto il pomeriggio non avevo fatto altro che sentire dei rumori strani provenienti dall’appartamento accanto.

Avevo saputo che il precedente coinquilino se n’era andato, e perciò collegai quei rumori all’arrivo di un nuovo ragazzo.

Andai verso la porta e la aprii, appoggiandomi al muro divisorio.

Ero deciso a far sentire la mia voce in tutto quel casino che stava succedendo, nessuno poteva disturbare Evan David Taubenfeld mentre cercava di concentrarsi.

Mi dispiace per te, ma il nostro rapporto è già cominciato con il piede sbagliato, amico.

…O…amica?

Osservai una figura esile che mi dava le spalle e che trasportava un cartone dall’aria molto pesante.

Era bassina, non molto rispetto a me, comunque, e aveva dei capelli color castano chiaro che le arrivavano più o meno fino alle spalle.

L’ultima cosa che notai, scendendo con lo sguardo, era che aveva un culetto davvero niente male.

Mi morsi il labbro, improvvisamente entusiasmato da quel nuovo arrivo.

Non ricordavo nemmeno più di essere stato arrabbiato per tutto il pomeriggio.

La parte più spavalda di me si fece avanti e incominciai a parlarle, sorridendo:”Ciao, tu devi essere la nuova vicina. Piacere, io sono Evan.”

Mi aspettavo che quantomeno si girasse, quantomeno per guardarmi in faccia, ma non lo fece.

Probabilmente è troppo impegnata con quel cartone…”Se vuoi, posso darti una mano con quello. Sembra essere anche abbastanza pesante e…”

Non riuscii nemmeno a finire la frase, che sbatté la porta con un calcio e si tolse dalla mia vista.

Che cazzo…?

Sì, il nostro rapporto era cominciato decisamente con il piede sbagliato.

*Oh-oh, siamo passati ai termini sofisticati. (?)

 

Buonassssera a tutti! (?)

Allora, come state? Spero bene :3

Scusatemi per il ritardo con cui sto aggiornando, ma i compiti in classe si sono quadruplicati da un giorno all’altro D:

Che brutta cosa la scuola…

Ma, adesso, pensiamo alle cose belle!

*Cri cri cri*

Intendevo il capitolo…per chi…ehm…non l’avesse capito e.e

Quindi, che ne dite di questi due?

Vi piacciono?

Scrivetemi tutti i vostri pareri, sono curiosa *-*

Adesso devo evaporare OuO

Cruel Heart.

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Capitolo 6
*** Fire and blades ***


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Fire and blades – Fuoco e lamette

 

Pov Avril

 

“Gabriel, stai scherzando, spero!” Perché doveva farmi sempre questi scherzi al telefono di prima mattina?

“No, Avril, sono serio. Mio padre mi ha davvero sequestrato la macchina, e per la quarta volta di fila, per giunta! Ma questa volta non è affatto colpa mia, sappilo.”

“Sentiamo, quale altro danno avresti combinato? Fiancata scheggiata? Specchietto rotto? Oh, non dirmi che sei andato di nuovo a sbattere contro qualcosa, ti prego…”

“Senti, non è colpa mia, ok? È stato un incidente! E poi, quell’albero mi ha provocato e non ci ho potuto fare niente.”

“Sei andato a sbattere contro un albero? Sul serio?” gli chiesi, incastrando il telefono tra l’incavo della spalla e l’orecchio. Stavo tirando fuori alcune cianfrusaglie dai vari cartoni, ma una fotografia bloccata sul fondo non voleva proprio saperne di uscire.

“Sì. Non ci vedo niente di male, comunque.” Rispose piccato. “Può capitare a tutti.”

“Gabriel, gli alberi non si asfaltano. Si evitano.”

“Ah-ah, bella battuta. Se ci fossi stata tu al mio posto sarebbe stato tutto diverso.” Brontolò.

 “Ah, beh, grazie per l’augurio.”

“No, no, non intendevo…”

“Lo so cosa intendevi, non preoccuparti. Ehm… Puoi aspettare solo un secondo?”

“Sì, certo.”

Poggiai il telefono sul letto e mi girai verso il cartone, spazientita. La mia pazienza era giunta al limite e quella dannata foto doveva venir fuori. Sentii le mie dita fare presa sul vetro duro, liscio e ghiacciato della cornice, e tirai con tutta la forza che avevo.

Parecchi tentativi e una decina di bestemmie dopo, riuscii ad estrarre la fotografia, non prima di averla fatta cadere e di aver fatto un’ulteriore bestemmia per essermi tagliata leggermente la mano con la cornice in vetro.

La girai, per vedere quale immagine contenesse, e non potei fare a meno di sorridere. Dopotutto, lo sforzo era valso a qualcosa.

Si trattava di una foto di me da bambina e di mio padre, forse una delle poche fotografie che avessi mai fatto insieme a lui. Avevo un buffo capellino di baseball sulla testa e facevo il segno della vittoria alla fotocamera, mentre mio padre mi reggeva, sorridente anche lui.

Lucidai la superficie della cornice con la manica della felpa, per togliere quel po’ di polvere che si era depositata sopra, e la appoggiai vicino ai miei altri ricordi d’infanzia, sulla mensola bianca di fronte al letto.

A proposito del letto…

Presi di corsa il cellulare dalla coperta su cui l’avevo poggiato, e sperai che Gabriel non avesse riattaccato.

“Gabriel?”

“Ehi. Avevo incominciato a pensare che fossi morta.”

“Beh, grazie per l’augurio parte seconda.”

“Cazzo, scusami, lo sai che non intendevo quello che tu pensi io intendevo…”

Soffocai a malapena una risata. “Sì, tranquillo. Quindi, vediamo se ho capito bene. Nonostante ci fossimo messi d’accordo che dovevamo andare a scuola insieme con la tua macchina, mi hai appena telefonato per dirmi che mi dai buca e che dobbiamo andarci con la mia, di macchina, perché un albero ti ha provocato e tu ci sei andato a sbattere accidentalmente contro, giusto?”

“Ma è stato davvero un incidente, non sto tentando di giustificarmi…”

“Gabriel.” Lo fermai, prima che si facesse prendere dal panico e incominciasse a divagare. “Giusto?” Ripetei.

“Sì, giusto.” Sospirò.

“Bene.” Guardai l’orologio. “Tra cinque minuti sono da te, tranquillo.”

“Ok, grazie mille.” Disse, e chiusi la chiamata con uno sbuffo.

Afferrai velocemente il giubbotto dalla spalliera della sedia, presi le chiavi nella tasca destra e andai altrettanto velocemente verso la porta, per uscire.

Appoggiai la mano sulla superficie fredda della maniglia dorata ma, prima di abbassarla completamente, mi girai.

Come se ci fosse stata una specie di calamita, alzai lo sguardo verso la foto con mio padre, e incominciai a parlarci, senza un vero motivo preciso. “Senti, non guardarmi così, ok? Lo so che, dopo tutta la fatica che ha fatto ieri per aiutarmi, andarlo a prendere con la mia macchina è il minimo che possa fare, però, accidenti…poteva almeno avvisarmi prima, no?”

Restai in silenzio a fissare il sorriso immobile di mio padre, quasi mi aspettassi una risposta. La scena sarebbe stata quasi comica, se non fosse stato per il ritardo.

“E va bene, ma ne riparliamo quando torno.” Dissi, girandomi di nuovo e uscendo dall’appartamento.

Andai vicino all’ascensore e schiacciai il bottone rosso, sperando che fosse libero e che qualcuno non avesse prenotato prima di me.

Fortunatamente, nell’ascensore non c’era nessuno e potei scendere in fretta al piano terra, pronta per andare a prendere Gabriel.

Parlare da soli è il primo sintomo della pazzia, pensai. Chissà che non sia un segno.

 

Pov Evan

“Aaaaah!” Mi svegliai di soprassalto, spalancando gli occhi e cercando di far fermare i battiti impazziti del mio cuore.

Un rumore assordante di vetri rotti mi aveva strappato al sonno, e questo poteva dire soltanto una cosa: sarebbe stata una giornata di merda.

Infatti, mi giravano sempre le palle se non riuscivo a svegliarmi da solo o, peggio, se a svegliarmi era un rumore particolarmente fastidioso.

Sbuffai pesantemente, sentendomi la testa girare.

Già, pensai, proprio una giornata di merda.

Ancora con la canottiera addosso, mi preparai un caffè, con estrema lentezza, per rendere l’impatto con la realtà meno traumatico.

Poi, all’improvviso, lo squillo acuto del mio cellulare mi fece sobbalzare. Di nuovo.

Lessi il numero sullo schermo, e mi sorpresi di vederlo scritto proprio lì.

“Mamma…” Uno sbadiglio improvviso mi fece interrompere la frase per tre secondi “…perché mi stai chiamando?”

“Come perché? Sei già pronto?”

“Ma certo che…” Altro sbadiglio “…Sono pronto. Perché non dovrei esserlo?”

“Oh, va bene, era giusto per sapere. Beh, io vado a lezione, visto che sono le otto. Buona scuola.” Disse, e chiuse la comunicazione.

“Sì, sì, buona lezione.” Blaterai alla linea chiusa, ancora assonnato.

Presi la tazza di caffè e trangugiai la bevanda bollente in un sorso, scottandomi la lingua. “Ahi!”

Forse per la scottatura, o forse perché il mio cervello aveva finalmente deciso di mettersi in moto, mi resi improvvisamente conto di quello che aveva detto mia madre.

Erano. Le. Otto.

E io stavo ancora in canottiera e boxer!

Posai la tazza di caffè da qualche parte, non mi resi neanche bene dove, e mi vestii con gli stessi vestiti di ieri, non avendo il tempo di trovarne dei nuovi.

Mi infilai alla bene e meglio i calzini, le scarpe e i jeans, cercando di chiudere la zip mentre sbattevo la porta di casa e picchiettavo furiosamente contro il bottone rosso dell’ascensore.

Cazzo, era già occupato!

Scesi più in fretta che potei gli scalini, stando attento a dove mettessi i piedi e pregando di non fratturarmi una gamba, mentre provavo a infilarmi la maglietta.

Sono nella merda, sono nella merda, sono nella merda!, continuavo a sussurrare, furioso con quel rumore di vetri rotti che non mi aveva svegliato in tempo e con chiunque avesse occupato l’ascensore.

Mi misi a correre disperatamente, e pregai con tutte le mie forze di riuscire ad arrivare a scuola in meno di cinque minuti… almeno vivo.

 

Pov Avril

 

Il tragitto dalla casa di Gabriel a scuola fu breve, come al solito.

Nel corridoio, mentre cercavo di non pensare al bruciore per il piccolo taglio alla mano, stava blaterando ancora qualcosa a proposito delle foglie secche che erano andate a finire dentro i suoi capelli la sera del suo accidentale incidente, come l’aveva definito lui, e io mi limitavo ad annuire o a scuotere la testa, a seconda dei casi.

Non gli prestavo molta attenzione, ma a lui sembrava non importare più di tanto.

Mi salutò quando raggiungemmo gli armadietti per andare ad assistere alla lezione del professor Conwell, di scienze della comunicazione.

Io lo salutai con un cenno, pensando che finisse lì. Invece, sorprendendo forse anche se stesso, mi si avvicinò e mi abbracciò stretta a lui.

Delle volte, avevo la sensazione che non fossi mai abbastanza, per lui.

Appena si staccò, mi sorrise stentatamente e mi salutò con un imbarazzatissimo “ci vediamo dopo.”

Lo vidi allontanarsi, e così aprii il mio armadietto, per prendere tutto l’occorrente per affrontare quell’altra giornata scolastica.

Mentre ero con la testa completamente china sui libri che dovevo portare con me, sentii un rumore, che mi fece sobbalzare, vicinissimo a me. Credevo si trattasse di uno sportello di un armadietto che andava a sbattere contro il metallo.

Alzai la testa, per vedere chi o cosa fosse la causa di quel rumore, e…lo vidi.

Aveva la canotta fuori dai jeans, i capelli tutti disordinati e un’inequivocabile espressione di nervosismo sul viso.

Un piccolo desiderio di vendetta si impossessò di me.

Presi i libri dall’armadietto, lo richiusi e sorrisi sadica. “Passata una bella notte di fuoco, Taubenfeld?”

Al sentire la mia voce, le sue spalle si irrigidirono e i suoi occhi si spalancarono.

Spostò lo sguardo su di me e tutta la sua tensione si sciolse in un sorriso. Il problema, però, era che sembrava più sadico del mio. “Tu, invece, ti sei data al taglio di lametta, Lavigne?” e fece un cenno del capo, indicando il piccolo taglio ancora rosso sulla mano.

Brutto stronzo, figlio di…

Lo superai ed andai dritta in aula.

L’ultima cosa che quel verme si meritava era di avere la soddisfazione di ricevere una mia risposta.

***

Salve a tutti.

Allora, ho da dirvi due cosucce.

La prima: ancora una volta, scusatemi per il ritardo con cui sto aggiornando. Ho cercato di fare il prima possibile, e non so se sia venuto fuori un capitolo leggibile.

La seconda è che… se vi siete chiesti (ma dubito) che fine abbia fatto la fanfiction “Remember Me”, devo dirvi che l’ho cancellata.

Alcune cose e alcune persone mi hanno fatto capire che non ce la facevo, e quindi ho preferito concentrarmi solo su questa.

Bene, ho finito.

Al prossimo capitolo ^-^

Cruel Heart.

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Capitolo 7
*** A really bad figure ***


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A really bad figure - Una figura veramente pessima

 

Pov Avril

 

La mattinata era trascorsa senza troppi problemi, fatta eccezione per quel piccolo incidente mattutino.

Dio, se solo ci ripensavo…

Come si permetteva lui di prendermi in giro su un argomento così delicato, oltre che totalmente fuori luogo?

Dalla macchina che guidava l’altro giorno, pensai, deve essere ricco.

E poi, quell’atteggiamento così arrogante, come se tutto gli dovesse essere dovuto. Schifosamente ricco.

Scommetto che si ritrova i maggiordomi anche dove alloggia, nel campus. Ed è per questo che si ritrova a stare insieme ad un essere talmente ignobile come Nicole Fear. Schifosamente e disgustosamente ricco.

 

La campanella delle ore 14:00 suonò, e tutto il corpo studentesco si riversò nel corridoio.

Sembrava come se ogni studente – alto, basso, con i capelli neri o marroni, qual era il suo aspetto fisico non importava –  fosse una macchia indistinta all’interno di un grande gruppo scalpitante e urlante.

Di solito trovavo confortante tutta quella confusione, perché mi permetteva di diventare un’altra macchia indistinta e di sparire nell’indifferenza. Adesso, però, non era così.

Dovevo trovare Gabriel e chiedergli se volesse trascorrere un pomeriggio insieme a me.

Ultimamente, tra il trasloco e l’università, il tempo passato a fare cretinate – come giocare a Call Of Duty o, ancora meglio, imitare la voce acutissima di Judy quando si infuriava – si era notevolmente ridotto.

E non volevo assolutamente che fosse così.

 

Mi alzai sulle punte – l’altezza non era mai stata il mio forte – e cercai i suoi capelli a spina tra le centinaia di teste che avevo davanti a me. Niente.

Diedi un’occhiata sommaria dietro di me, ma non riuscii ad individuarlo.

 

A suon di gomitate e di “permesso” o “scusami tanto, non ti avevo visto”, mi diressi in segreteria. Speravo di riuscire a trovarlo almeno lì.

 

Il mio intuito non aveva sbagliato, infatti. Fissava con occhi incuriositi la bacheca della scuola, e sembrava particolarmente interessato a un foglio di carta e… al suo cibo.

Stava mangiando un doppio cheeseburger con un salsa dal colore e dalla provenienza ignota. Per fortuna.

 

“Ehi Gab.” Dissi, avvicinandomi a passi svelti verso di lui.

 

“Ehi. Cavolo, lo fai che il campuf è ftato fondato nel 1882? Ed è il fecondo campuf più antico dell’intera California!”

 

“Mi fa piacere saperlo.” Lo interruppi, prima che potesse buttarsi a fitto in un resoconto dettagliato sulla storia dell’UCLA. Diedi un’occhiata veloce ai fogli e agli avvisi appesi sulla grande bacheca. “Comunque, ti stavo cercando.”

 

“Ah.” Disse, ingoiando un pezzo del cheeseburger. “Come mai?”

 

“Beh, volevo chiederti se ti andasse di…” Il mio sguardo venne attirato da un volantino celeste, più precisamente dalla prima parola che era stata stampata su di esso.

 

Afferrai Gabriel per una spalla e lo feci posizionare proprio di fronte al volantino appeso. Poi, con uno sguardo eloquente, gli ordinai:”Leggi!”

 

Strabuzzò gli occhi, ma l’espressione della mia faccia lo convinse a leggere ad alta voce. “GIORNALISMO: Siete interessati ad una carriera giornalistica? Volete cominciare subito a muovere i primi passi nel mondo delle notizie e della carta stampata? Venite subito a fare un piccolo colloquio con la professoressa Sullivan, la direttrice, e il vostro sogno potrà essere realizzato. Tutto dietro un cospicuo compenso, ovviamente! Ma che fate, siete ancora lì? Salite subito al quarto piano, presto!”

Guardò verso di me, per poi guardare il volantino e ripetere almeno cinque volte la stessa operazione.

 

Io, invece, ero già in preda all’eccitazione più totale.

“Gabriel! Hai capito che vuol dire questo, vero?”

 

“Che sei stata colpita da un attacco improvviso di analfabetizzazione e non sei in più in grado di leggere? Sì.”

 

“Ma no, scemo. Il giornalismo.”

 

Una scintilla si accese nei suoi occhi, e capii che aveva capito. “Vuoi dire che andrai a fare il colloquio?”

 

“Esattamente.”

 

“Ma perché lo fai? Voglio dire, non hai mai avuto una passione di questo tipo.”

 

“Beh, è molto semplice. Più soldi, più indipendenza da Judy.”

 

“Wow, che schifo.” La sua faccia si contrasse in una smorfia di sdegno.

 

“Non venire a dirlo a me”

 

“Va bene, ma… come farai a superare il colloquio? Non hai neanche un briciolo di esperienza.”

 

“Grazie per l’incoraggiamento, Gabriel. Vorrà dire che m’inventerò qualcosa.” Conclusi il discorso, facendo spallucce.

 

Andai verso la rampa e salii le scale. Non avevo tempo di aspettare l’ascensore e non volevo assolutamente perdere minuti preziosi, anche se, in realtà, avevo molta paura di fare una figura pessima.

L’inventiva era sempre stata una parte fondamentale della mia vita, ma, risentendo la voce di Gabriel nelle orecchie, non avevo neanche un briciolo di esperienza.

Sullivan, pensai. Un cognome che trasmette autorità e potenza, senz’altro. Chissà quanti anni avrà.

 

Una volta arrivata al quarto piano – con il fiatone, ovviamente – esplorai l’ampio corridoio che mi si stagliava davanti, alla ricerca dell’ufficio della professoressa Sullivan.

 

Gould, Hamilton, Cooper, Dunn… Sullivan, finalmente.

 

Bussai, improvvisamente nervosa, ma non ci fu bisogno di aspettare una risposta: la porta era socchiusa.

La dischiusi leggermente, e restai perplessa.

Non era un ufficio, anzi. Sembrava… una vera redazione, con tanto di stampanti per la tipografia.

Vidi un ragazzo alto, con i capelli scuri arruffati, che teneva in mano dei fogli e li leggeva velocemente. Poteva avere la mia età, o forse un annetto in più.

Tutto in lui gridava “SONO OCCUPATO, LASCIAMI STARE”, ma lo salutai lo stesso, con un sorriso.

 

“Ciao.”

 

Mi degnò appena di un’occhiata, prima di ritornare a guardare i suoi fogli e di sussurrare:”Ciao.”

 

Wow. Un inizio incoraggiante.

“Ehm… sto cercando la direttrice, la professoressa Sullivan. Vorrei fare un colloquio per entrare in redazione.”

 

Rialzò nuovamente gli occhi, questa volta con un’aria più comprensiva sul volto. “Guarda, ti dico la verità. Oggi non è proprio giornata. La professoressa Sullivan ieri ha incominciato una nuova dieta, quindi è nervosa.” Il mio sorriso svanì di colpo. “E le ragioni sono due: o perché non ha mangiato, oppure perché ha mangiato qualcosa e ha rotto la dieta.” Sospirò, come se fosse stanco. “Comunque sia… se la cerchi, è nel suo ufficio, lì in fondo.” Mi disse, e mi indicò la direzione con un dito. 

 

“Beh…grazie.” Gli risposi. Ero stato gentile, nonostante adesso mi avesse messo addosso una voglia immane di scappare.

 

“Di nulla.” Rispose, e tornò ai suoi fogli.

 

M’incamminai a passo incerto verso l’ufficio della professoressa, immaginandomi come sarebbe stato il suo aspetto fisico.

Di sicuro sarebbe stata sulla cinquantina, magari con quegli occhiali da lettura che non si usano più. E anche un po’ in carne, visto che aveva incominciato una dieta.

Bussai contro la porta in vetro, e una voce potente, quanto ferma e decisa, parlò:”Avanti.”

 

Aprii la porta, e osservai la figura a cui apparteneva quella voce. Era una donna bionda e alta, sulla trentina, e indossava un tailleur nero che le stava alla perfezione. Aveva lo sguardo fisso sul monitor del computer, ma l’attenzione per il nuovo intruso – me –, le aveva fatto distogliere lo sguardo.

Non somigliava per niente alla mia descrizione, sembrava più un avvocato che una giornalista.

 

“Ehm, mi scusi, ma mi avevano indicato che questo era l’ufficio della professoressa Sullivan, ma a quanto pare devono essersi sbagliati. Scusi ancora per il disturbo.” Dissi, e feci per girarmi verso la porta.

 

Lei, però, sconvolgendo ogni mia aspettativa, mi sorrise. Nonostante la sua espressione rassicurante, c’era qualcosa che non andava, nel suo sorriso.

“Prego, nessun disturbo.” Strinse improvvisamente gli occhi, e il suo sorriso svanì, esattamente come aveva fatto il mio pochi istanti prima. “La professoressa Sullivan sono io.”

 

 

. . .

 

“Oh.” OH. SUL SERIO?! È L’UNICA COSA DECENTE CHE RIESCI A DIRE?!

 

“Sei venuta per il colloquio, immagino. Vero?”

 

Annuii lentamente. Il mio cervello doveva ancora elaborare ciò che era successo.

 

“Bene. Direi che, dopo questa tua penosissima caduta di stile, puoi anche sederti e incominciare a parlarmi di te.”

 

Le mie gambe ubbidirono immediatamente, come se avessero ricevuto il comando dal cervello di qualcun’altro. Il suo, pensai, desiderando come non mai di farmi piccola piccola in quella sedia enorme.  

 

“Allora… come ti chiami?”

 

“Avril Ramona Lavigne, signora.”

 

“Mmh, nome doppio. Descrivi un po’ la tua vita.” Disse, incrociando le mani.

 

Mentre il mio cervello pensava “MA PERCHÉ CAVOLO SONO VENUTA QUI?!”, la mia bocca rispose:”Beh, ho diciotto anni, e inizialmente vivevo con la mia matrigna, ma adesso vivo nel campus, e…”

 

Mi interruppe subito. “Matrigna? Tuo padre si è risposato?”

 

“Sì, quando avevo otto anni, signora.”

 

 “E adesso lui è felice?”

 

“Sì… credo che lassù, lui lo sia.” Risposi, sorridendo appena. La vergogna per la figuraccia di prima se n’era leggermente sbiadita, con il ricordo di mio padre

 

“Capisco. Nonostante la tua pessima figura di poco fa, mi dispiace.” Ed ecco che ritornava… “Comunque, hai mai avuto rapporti con il giornalismo?”

 

“No, signora.”

 

“Niente? Zero? Neanche un articolo.”

 

“N-no.” Dissi, abbassando lo sguardo. Ed ecco la situazione in cui mi ero vietata categoricamente di pormi, quella in cui arrivava la domanda “E allora che ci fai qui?”

La risposta oscillava tra un “Ho bisogno di soldi” a un “Voglio liberarmi di mia madre.”

 

Inaspettatamente, invece, andò subito al punto, con una sensibilità… a dir poco sorprendente. “Dunque…” Accavallò le gambe, brutto segno. “Sarò sincera con te.” …Pessimo segno. “In un giornale universitario, la rubrica della posta è quella più letta, quindi per me è un lavoro molto importante. Ora… tu non hai mai avuto nessun tipo di approccio, quindi, diciamoci la verità, per quale motivo dovresti entrare a far parte della mia squadra? Per cui, direi che possiamo chiuderla qui. Arrivederci.”

 

Il mio cervello non pensava a niente, e non voleva neanche farlo. Era semplicemente vuoto. “Arrivederci.” Dissi, con voce incrinata, e forse fu la consapevolezza di essere vicina al pianto, che mi diede la forza di controbattere. “Sa, ha ragione, quando dice che non ho mai avuto nessun tipo di rapporto con questo mondo, dove, a quanto a pare, l’esperienza conta più di ogni altra cosa. Non sa, però, che nei miei diciott’anni di vita ho sempre cercato di dare tutto per gli altri. Ma adesso basta, adesso voglio dare finalmente qualcosa per me stessa. Qualcosa in cui credere veramente, e che veda soltanto me al centro di tutto. Qualcosa in cui metterci l’anima. Arrivederci.” Mi alzai dalla sedia, con un miscuglio di emozioni dentro, ma, nonostante questo, riuscii ad uscire dall’ufficio a testa alta.

 

I miei passi si rincorrevano veloci, volevo solo uscire di lì e ritornare nel mio appartamento per poter finalmente piangere.

 

“Lavigne.”

 

I piedi si immobilizzarono, e mi girai lentamente, quasi a rallentatore.

La professoressa Sullivan era in piedi di fronte alla porta in vetro del suo ufficio, e mi sorrideva tranquilla.

“Forse sono stava un po’ troppo frettolosa, nei tuoi confronti. Ti va di parlare ancora un po’?”

 

Invece di rispondere, abbassai un po’ la testa, e andai verso di lei.

Aprì la porta e me la tenne aperta, invitandomi ad entrare.

Ognuno si sedette al proprio posto, solo che, stavolta, la professoressa Sullivan continuava a sorridere. “Allora, il nostro settimanale si occupa, logicamente, dell’universo dei teenagers nelle sue varie forme. Questo significa, in pratica, che dobbiamo stare dietro a tutto. Nuove tendenze, moda, attualità, tecnologia, personaggi famosi, appuntamenti, primi amori… cose di questo tipo.”

 

“Capisco. Loro…” dissi, indicando tre ragazze e lo stesso ragazzo che avevo salutato prima. “…Sono la sua redazione?”

 

Rimase alquanto sorpresa nel constatare che anch’io riuscivo a condurre una conversazione. “Sì. Se vuoi, te li presento velocemente.” Annuii alla sua proposta. “Quella ragazza con i capelli viola è Maya. Si occupa di cinema, qualche volta teatro, appuntamenti mondani… la cosa che mi preoccupa di più di quella ragazza è che ogni volta che va a qualche evento, ritorna con un nuova fidanzato. Ma forse ha già capito come va la vita, vero?” Poi, indicò la seconda ragazza.

“Accanto a lei, la ragazza che sembra essere scappata da una fiera per nerd è Helena. È sempre stata chiusa nel suo mondo, nel caso te lo stessi chiedendo. Lei si occuperebbe di viaggi nelle mete preferite dei giovani, ma gli unici viaggi che compie sono quelli per andare in fumetteria.

Quella lì in fondo, invece, è Kate. Si occupa di moda, trucco, fitness… È arrivata da poco, e non ha ancora legato bene con il gruppo. Credo sia la classica ragazza un po’ perfettina e con la puzza sotto il naso, ed è incredibile quanto sia straordinariamente magra, non trovi?”

Mi ritrovai a chiedermi se la nota di fastidio era veramente presente nella sua voce, o se me l’ero immaginata io.

“E poi, c’è l’unico maschio della redazione, Michael, il nostro grafico con la fissa del football. Spero che, alla fine della sua esperienza con noi, sia l’unico essere umano maschio a capire le donne, in un futuro.” [Glaphy, non preoccuparti, ogni riferimento è puramente non casuale]

Poi, senza mai smettere di sorridere, si girò verso di me. “E adesso… veniamo a te.”

 

Deglutii, improvvisamente a disagio. “Cosa devo fare?”

 

“Mi servono informazioni, statistiche, tutto ciò che puoi raccogliere su che cosa fa scattare negli adolescenti la scintilla dell’innamoramento. Per fare questo, però, devi andare nel tuo appartamento, accendere il computer e iscriverti al social network interno al campus. Dovrai spacciarti per una persona che non se, ovvero la classica ragazza comune dell’UCLA. Per cui, cheerleader, musica pop e stupidi libri rosa. Nessuno deve anche minimamente sospettare che tu sia una giornalista sotto copertura, chiaro?”

 

Annuii. Mi sembrava di essere in uno di quei film di James Bond.

“Poi, dopo che hai raccolto i dati, mi porti tutto il materiale, ok?”

 

“Va bene, signora.”

Mi alzai dalla sedia, con un sorrisino trionfante sulla faccia, e imboccai il corridoio per andare alla porta.

 

“Ah, Lavigne?”

 

“Sì?”

 

“Signora mi fa sentire più vecchia di quanto non sia. Chiamami Ada.”

***

 

Una volta giunta a casa, ero talmente felice che urlai di gioia.

Il momento di felicità, però, si estinse quasi subito.

Avevo un compito da svolgere, e volevo già incominciare a svolgerlo..

Accesi il computer e, impaziente, entrai sul sito, e seguii perfettamente le istruzioni della professoressa Sullivan, cioè di Ada. Completai il profilo, e sembrava veramente l’account di qualcun altro.

Qualcuno di totalmente vuoto e superficiale.

Per questo, volli inserire, nello spazio apposito, la citazione più adatta alla situazione: Nascondi chi sono, e aiutami a trovare la maschera più adatta alle mie intenzioni.

Neanche due secondi dopo averla scritta, mi arrivò un piccolo avviso lampeggiante.

 

Era la mia prima notifica.

 

Un messaggio.    

***

Salve, bella gente.

Allora, vi piace questo capitolo un po’ più lunghino?

Mi raccomando, vi voglio tutti attivi per il prossimo. Ci sarà da divertirsi ^-^

Ah, a proposito, mi sono iscritta ad Ask! *Coincidenze? Io non credo*

Questo è il mio account: http://ask.fm/ShiningBlackStar

Rispondo anche alle domande anonime, ovviamente.

Bene, ci si vede al prossimo capitolo!

Cruel Heart.

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Capitolo 8
*** What goes around, comes around ***


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What goes around, comes around Chi la fa, laspetti.

 

Pov Evan

 

Trecentocinquantasette, trecentocinquantotto, trecentocinquantanove…

 

Stavo contando le innumerevoli mattonelle che distanziavano l’entrata della mensa dal bancone dove venivano serviti i “piatti”.

La fila era come al solito lunga… e straziante.

La noia, mentre aspettavi il tuo turno, ti opprimeva in modo disumano, ma, allo stesso tempo, non potevi distrarti un attimo che qualcuno ti fregava il posto.

Tenere a mente il numero delle mattonelle era un modo come un altro per sopravvivere al fastidio di muoversi un millimetro al minuto.

 

Mentre stavo avanzando con il mio conteggio, sentii un leggerissimo picchiettare sulla mia spalla destra.

 

“Ehm, ehi, potresti farmi prendere il tuo posto, per favore? Sai, com’è, sono in ritardo per le lezioni pomeridiane, e…”

 

Un ragazzo occhialuto e con in mano un pc cercava di attirare la mia attenzione.

Lo osservai per due secondi: capelli disordinati, occhiali spessi, camicia fuori dai jeans e aria di uno che aveva compiuto chissà quale sforzo per pronunciare una semplice frase.

Nella mia mente si compose un’unica parola. Sfigato.

 

La classica maschera di superiorità s’impossessò di me e del mio viso, che s’indurì.

 

“No, non lo so. E adesso, se vuoi scusarmi…”

Tornai a guardare dritto verso di me, ignorando l’espressione rassegata del quattrocchi.

Certo, avrei potuto farlo passare, ma Evan David Taubenfeld non si abbassava di certo a questi livelli di gentilezza.

 

Ero arrivato alla cinquecentotrentottesima, quando una voce stridula, quanto insistente, arrivò alle mie orecchie.

Anzi… più che arrivarci, le mandò direttamente K.O. per qualche secondo.

 

“Evaaaaan!”

 

Non ebbi nemmeno il tempo di girarmi, che mi ritrovai addosso, o meglio, sulle labbra, l’uragano Nicole.

La parola uragano le si addiceva particolarmente. I suoi occhi verdi erano sempre scocciati, come se tutto le dovesse essere dovuto, ma riusciva a sorprenderti nei momenti più inaspettati. O, la maggior parte delle volte, in quelli meno opportuni.

 

Sentii la sua lingua premere contro l’entrata della mia bocca, e acconsentii al suo gesto.

Le sue mani premevano sulle mie spalle, come per farmi abbassare e farmi arrivare alla sua stessa altezza, e fecero avvicinare la mia testa ancora di più alla sua.

Un’altra cosa: i baci con Nicole erano violenti. Nel vero senso della parola.   Mi ritrovavo sempre graffi e lividi sulle parti del corpo più inaspettate.

Di solito, tutto questo suo impeto mi eccitava. E lei lo sapeva benissimo.

 

Appena si staccò, si leccò leggermente il labbro superiore, per poi sorridere.

Qui c’era qualcosa che non andava.

 

“Beh, come è andata la giornata, amore?”

 

No, un attimo.

Come è andata la giornata?!

Ma soprattutto, amore?!

 

In questi mesi, stando con Nicole, avevo capito che per lei, per quanto baciasse bene e tutto il resto, interessarsi degli altri rappresentava una rarità.

Tutte le ragazze di questo maledettissimo campus pensavano solo a se stesse, ai loro smalti e ai loro coloratissimi pon pon, e Nicole non costituiva di certo l’eccezione alla regola.

Non era colpa sua.

Più imbarazzato, che veramente interessato a darle una risposta, dissi:”Tutto bene, credo.” Non le chiedere il motivo, comportati normalmente, come se niente fosse… “Perché?”

 

Mi morsi ferocemente la lingua, sentendo affluire un po’ di sangue.

Adesso Nicole sarebbe partita con la solita solfa del “siamo una coppia, è normale preoccuparsi tra fidanzati”.

Anche se poi, in realtà, la parte dell’ascoltatore preoccupato la facevo sempre e solo io.

Ma perché non riuscivo mai a stare zitto, quando dovevo?

 

Nei suoi occhi passò un breve lampo di rabbia.

Poi, un sorriso, tanto breve quanto incredibilmente falso, le si dipinse sul viso.

Mi prese il braccio e si alzò sulle punte, invitandomi automaticamente ad abbassarmi per porgerle l’orecchio.

Mi mordicchiò il lobo davanti a tutti, e deglutii, tra lo stupore più totale.

 

Poi, con voce suadente, mi sussurrò:”La vedi quella stronzetta del secondo anno che ci guarda stralunata? Beh, lei credeva che noi due non stessimo veramente insieme, e così gliel’ho mostrato direttamente.”

 

Si staccò da me, ed effettivamente, andando un po’ più in là con la visuale, vidi una ragazza dai capelli rossi. Appena incrociò il mio sguardo, abbassò improvvisamente gli occhi sulle sue scarpe.

 

Non sapevo se alzarle la mano in segno di saluto, giusto per toglierla dall’imbarazzo, o se trasformare il mio viso in una smorfia disgustata per quello che Nicole aveva appena fatto.

 

Non scelsi nessuna delle due. Me ne stetti così, impalato e con i pugni serrati sui fianchi, mentre aspettavo una qualsiasi reazione del mondo esterno.

Pensandoci, un scusa o un mi dispiace di averti usato non sarebbe stato male. Affatto.

 

E invece, come se non si fosse resa conto di niente, mi diede un buffetto sulla guancia, e mi congedò con un “Ciao, ci vediamo più tardi.”

 

Quando sussurrai un flebile ciao, lei era già scomparsa dietro le grandi vetrate che davano l’accesso al cortile del campus.

 

Ero così preso da ciò che era successo, che non riuscivo più a ricordarmi cosa stessi facendo prima.

 

Ah, sì…

 

Mi girai, per riprendere la posizione che avevo tenuto prima dell’interruzione di Nicole.

Ma… non mi ero minimamente reso conto che la fila fosse avanzata, e anche di molto. Ero completamente uscito fuori da essa.

 

Strinsi ancora di più i pugni, arrabbiato.

Avevo fatto tanta fatica, per niente.

Uscii fuori, per andare a casa. Ero stanco di stare lì.

L’ultima cosa che vidi, prima di oltrepassare le grandi vetrate, fu il vassoio pieno di cibo di un ragazzo, che mi sorrideva trionfante.

Era il quattrocchi di poco prima.

 

***

Stavo tornando a casa, a piedi.

Il mio alloggio era relativamente vicino, per cui non sentii la necessità di prendere la macchina per camminare 10 minuti a piedi.

 

Cosa c’è di più bello di una passeggiata tranquilla, mentre i tuoi pensieri ti sommergono?

Un fulmine improvviso si stagliò nel cielo, con tutto il suo splendore e il suo fragore.

 

Una passeggiata tranquilla sotto la pioggia, ovviamente.

Abbassai la testa, guardando dritto la punta delle mie converse, e infilai le mani nella tasca della felpa.

Sentii i rumori delle scarpe di un paio di ragazzi che incrociai durante il tragitto: centravano in pieno le pozzanghere appena formate.

Coglievo anche i loro respiri affannosi, dovuti al freddo portato dalla pioggia inaspettata.

Quasi tutti, quando alzavo gli occhi per guardarli in volto, mi guardavano straniti, come se fossi pazzo.

Probabilmente era perché non mi stavo proteggendo con un ombrello, o perché non avevo tirato su neanche il cappuccio della mia felpa.

Forse a loro pareva una reazione strana, ma a me piaceva camminare sotto la pioggia.

Sentire l’odore di umido e di terra bagnata confondersi con l’asfalto, percepire quelle mille goccioline che si addentravano nei ciuffi dei miei capelli… mi rendeva più consapevole del mondo intorno a me.

Non volevo far sparire quella sensazione di consapevolezza, per cui avevo preferito non mettere barriere tra me e la pioggia. Un sonetto, che avevo studiato tanto tempo prima, ma che continuavo ad amare, mi ritornò in mente.

 

Tu dici che ami la pioggia,
ma quando piove apri l'ombrello.
Tu dici che ami il sole,
ma quando splende cerchi l'ombra.
Tu dici che ami il vento,
ma quando tira chiudi la porta.
Per questo ho paura, quando dici che mi ami.

 

 

Sorrisi, e vidi che il fiato emesso si trasformava in una piccola nuvoletta grigiastra.

Era incredibile come Shakespeare riuscisse a fare un ritratto completo dell’ipocrisia, pur utilizzando delle frasi banalissime.

Forse, dopotutto, il suo genio stava proprio in questo.

 

Una volta arrivato a casa, mi preparai un bel sandwich con ketchup e hamburger, giusto per compensare ciò che non avevo mangiato in mensa.

Presi il piatto con il panino e accesi il computer.

Un po’ di svago ci voleva.

Diedi un morso e aspettai il caricamento.

Devo decisamente cambiare computer, pensai. Questo va peggio di una tartaruga incidentata.

Due panini e cinque minuti dopo, riuscii finalmente ad andare su internet e a controllare la mia vita “sociale”.

Mi connessi all’ “UCLA network”, il social - network interno al campus, e cominciai a vedere i vari messaggi che mi erano arrivati.

Ce n’era uno di Jace e uno di Simon, i miei due migliori amici.

 

J: Brutto stronzo, vedi di buttare fuori quelle chiappe pelose dal tuo appartamento e di venire in un locale fuori città, altrimenti non rivedrai più la luce del sole.

 

S: Ehi amico, come va? Io e Jace abbiamo scoperto un locale niente male. Vieni a farci compagnia.

 

Feci una smorfia, nel leggerne il contenuto.

Io e le mie chiappe pelose rimaniamo qui, grazie per la non molto allettante proposta.

Copiai il messaggio e lo incollai ad entrambi.

Era incredibile come quei due, dai caratteri completamente diversi, andassero d’accordo.

Si divertivano a farmi ubriacare nei posti più strani e disparati.

Nella mia mente ho un’immagine di me e Jace che ballavamo, ubriachi, sul bancone da bar di un locale, con soltanto i pantaloni addosso.

Rabbrividii al ricordo.

 

Entrai nella home, e vidi un po’ dei nuovi iscritti.

Si trattavano per lo più di ragazze – i ragazzi erano troppo impegnati a ubriacarsi, come ho detto prima.–

A ogni loro foto che vedevo, e a ogni loro profilo che visitavo, mi deprimevo sempre di più.

Sembravano tutte fatte con lo stampino.

Gli stessi racconti – dare loro il nome di libri sarebbe stato davvero troppo –, gli stessi interessi – piastra e smalto spiccavano particolarmente –, e neanche l’ombra di una misera frase che potessero descrivere il loro carattere.

Non era possibile.

 

Mi infilai una mano tra i capelli, nervoso, e provai l’irresistibile impulso di spegnere il computer.

Poi, però, mi bloccai.

I miei occhi avevano notato una citazione molto interessante, che apparteneva ad una ragazza appena iscritta.

 

Nascondi chi sono, e aiutami a trovare la maschera più adatta alle mie intenzioni.

 

Mmh, La Dodicesima Notte.

Sorrisi tra me e me. Il buon vecchio William colpisce ancora.

 

***

 

Pov Avril

 

Lessi il nome del mittente sul piccolo rettangolino lampeggiante: Sk8er Boi_83.

Che strano, non conoscevo nessuno a cui piacessero gli skate.

Devo verificare se Gabriel abbia in mente qualcosa, pensai. Poteva sempre essere opera sua.

Aprii il messaggio, e ne lessi curiosa il contenuto.

 

"Ama, ama follemente, ama più che puoi e se ti dicono che è peccato ama il tuo peccato e sarai innocente."

Conosci questa citazione?

 

Mi ci volle poco per riconoscere quale fosse l'origine della frase ma, nonostante questo, aggrottai le sopracciglia, sorpresa. Non mi aspettavo certo un inizio di conversazione come quello, e da un completo sconosciuto, oltre tutto. Decisi di non espormi troppo, nella risposta. Insomma, poteva sempre essere un serial killer o uno stalker!

 

"Ho il mantello della notte che mi nasconde… però, se non mi ami, fai pure che mi trovino. Sarebbe meglio morire per mano loro che continuare a vivere senza il tuo amore…"

Romeo + Juliet, film del 1996. Certo che lo conosco.

 

E poi, Leonardo DiCaprio è un gran figo in quel film, pensai, con la bava alla bocca.

 

Qualche secondo dopo, arrivò la risposta da parte del misterioso interlocutore.

 

Certo, scommetto che lo conosci solo perché ci ha recitato DiCaprio.

 

Sbattei gli occhi, stupefatta, e rilessi due volte la frase, per essere sicura di aver capito bene. Iniziai a mordicchiarmi il labbro inferiore, come facevo sempre quando mi ritrovavo in difficoltà.

 

Non è vero!

 

Però, purtroppo, mi pentii un secondo dopo di aver risposto così. Mettersi sulla difensiva non era mai buona cosa, per chi si ritrovava ad essere attaccato.

L'attacco è sempre la miglior difesa, pensai.

 

Comunque... sei un'appassionata di Shakespeare? Perché dal tuo profilo non sembra...

 

Questa volta avvampai, totalmente e coscientemente arrabbiata, e puntai gli occhi dritti sullo schermo.

 

Senti, tutto quello che so è che, per un qualsiasi motivo, non mi devo certo giustificare con te. Non solo ho avuto la cortesia di rispondere ad un perfetto sconosciuto -arrogante, per giunta-, ma anche la pazienza di non mandarti a quel paese solo per avermi dato indirettamente dell'ignorante, quando mi hai chiesto se conoscessi o no quella citazione. E poi, sei davvero un gran maleducato. Non sai iniziare una conversazione civile con un misero "ciao."?

 

E già, le ovaie avevano incominciato a girarmi.

 

Ciao. Allora?

 

Alzai gli occhi al cielo, scocciata. Era incredibile constatare quanta arroganza potesse trapelare da una sola frase. Non volevo farlo, ma tanto ormai niente di quella conversazione assurda aveva senso, per cui... risposi.

 

Beh... non saprei come esprimermi, esattamente. Lui non può e non deve essere descritto come "una persona che ammiro" o come "il mio autore preferito". No, è una classificazione troppo limitata. Shakespeare, per me, era semplicemente un uomo, punto e basta. Un uomo come tanti, che però ha saputo andare oltre i confini della sua epoca e che creava emozioni che gli altri non potevano neanche immaginare. Al suo tempo, non aveva nè gloria, nè tantomeno soldi, che potessero sostenerlo. Era un uomo ordinario, ed è questo ciò che ai miei occhi lo rende magnifico.

 

Ci mise un po’ di più a rispondere, questa volta.

 

"Mi accadeva spesso di non riuscire a prender sonno, nel rincasare dopo lo spettacolo o le prove. Per ottenere qualcosa, bisogna prima imparare ad entusiasmarsi e a stupire"

Questa è una citazione di Mejerchol'd, invece. Era uno dei più grandi studiosi del teatro ottocentesco, e considerava Shakespeare quasi alla stregua di una divinità. Non era il solo, a quanto pare...

 

Vuoi dire che sbaglio ad ammirare una persona ammirata, a sua volta, da altri miliardi di persone?

 

No. Voglio dire che, fatta eccezione per l'arroganza e per il penoso sarcasmo - che qualche rarissima volta, purtroppo, mi capita di fare -, abbiamo qualcos'altro in comune.

 

[continua…]

***

Eeeeeeh, salve a tutti!

Scusate se ci ho messo tanto ad aggiornare, ma questo capitolo l’ho scritto davvero con il cuore.

Spero che vi sia piaciuto.

Ed ora… #spammoment

1. Rinnovo il mio invito ad askarmi ---> http://ask.fm/ShiningBlackStar

2. Vi consiglio questa versione un po’ più rock di I’m With You, scoperta per caso. Me ne sono già innamorata. --->  http://www.youtube.com/watch?v=XglNufVTvRo  

Bene, ci vediamo al prossimo capitolo!

Evaporo.

Cruel Heart.

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