Once upon a time. di Cruel Heart (/viewuser.php?uid=271119)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Where's my breakfast? ***
Capitolo 2: *** The beginning of a fairy tale ***
Capitolo 3: *** A disgusting millepede crawls in the mud ***
Capitolo 4: *** Crash ***
Capitolo 5: *** New neighbour? ***
Capitolo 6: *** Fire and blades ***
Capitolo 7: *** A really bad figure ***
Capitolo 8: *** What goes around, comes around ***
Capitolo 1 *** Where's my breakfast? ***
Pov
Avril
“Avril?”
Mmh…
chi è che mi chiama
mentre sto prendendo il treno 9 e
¾ per andare ad
Hogwarts?
“Avril?”
Sì
papà, altri cinque minuti
e la prendo la lettera dal gufo, non ti preoccupare…
“Avriiiiil!”
Alzo
la testa di scatto,
andando a sbattere la testa contro il comodino.
“Ahi!
Ma porca putt…”
“Avril!
Insomma, è ora di
colazione! Che aspetti a portarmela, dannazione?!”
Ah,
già. Dimenticavo che il
treno 9 e ¾ non esiste, che mio padre è morto da
otto anni ormai e che la voce
urlante che mi ha risvegliato così
“dolcemente” quanto una fiamma ossidrica su
per il culo, è quella della mia matrigna.
“Sì,
arrivo…” mi affretto a
rispondere all’interfono. “Stronza.”
mormoro.
“Che
hai detto?!”
“Ho
detto che arrivo!”
Prevedo
una mattinata intensa,
formata da: preparazione della colazione a Miss labbra di botulino,
preparazione
della mia colazione e, se riesco a non avere un crollo di nervi solo
parlando
con lei, guida fino all’università con la vecchia
Mercedes di papà.
Guardo
l’orologio e… non so a
chi vorrei rivolgere le peggiori bestemmie, se a me, perché
non sono ancora
scappata di casa, o a Judy, semplicemente perché esiste.
Sono
appena le sei del
mattino!
E
questa per lei è ora di
colazione?!
Ma
io la uccido, io la affogo
in quella piscina hollywoodiana che si è appena comprata,
io… io…
“Avril!
Perché non sei ancora
scesa?!”
D’accordo,
posso sempre
metterle del veleno nel salmone…
Già,
se vi state chiedendo se
avete capito bene, beh… sì, avete proprio capito
bene.
Credo
sia l’unico essere
umano sull’intera faccia della Terra che mangi il salmone
a qualsiasi ora
della giornata.
Ovviamente,
la colazione non
fa eccezione.
Mi
svesto e mi rivesto
velocemente (non vorrei prendere a sprangate quel povero interfono
senza
colpa), scendo al piano di sotto e mi dirigo direttamente verso il
frigo,
pronta per scartare un altro pacco di salmone.
“Avril!
Ma insomma, quanto
capperi ci metti!” La voce di Judy mi arriva leggiadra
e soave dal giardino.
Comprare
veleno per topi:
voce aggiunta alla lista di cose da fare di Avril Ramona Lavigne.
“Eccomi,
eccomi.” grido dalla
cucina.
Sistemo
quel povero pesce nel
piatto e corro verso di lei.
Appena
mi vede, mi dice:”Beh
signorina, ce ne hai messo di tempo, eh! Incominciavo a pensare che ti
fossi
persa.”
Aspettate… da quando in
qua lei pensava?!
Trovo
una risposta alla mia
domanda soltanto guardandola: indossa un vestitino corto rosa confetto,
accompagnato da dei tacchi a spillo e da degli occhiali da sole a forma
di
cuore dello stesso colore.
Oh,
andiamo, ma che cazzo ci
fa con degli occhiali da sole alle sei di mattina?!
“Allora,
è il salmone
norvegese che ti ho chiesto? Io ho bisogno di Omega 3,
accidenti.”
“È
il migliore.” le rispondo,
prima di averla vista portare alla bocca una fetta.
Ti prego, ti prego, ti prego, fa
che le vada di traverso!!
“Mmh,
sì, si sente.” Dice con
quelle sue labbra enormi, iniziando a masticare come se quel povero
salmone sia
una chewing gum. “D’altronde, mi costa una fortuna
farlo arrivare direttamente
dalla Norvegìa.”
Perfetto,
ci risiamo.
“Beh,
che diavolo fai lì
impalata? Va’ a lavoro.”
“Ehm…
veramente, Judy, non
posso andarci stamattina, devo studiare per un esame molto importante,
per cui…”
“Ascolta,
Avril. Le persone,
di solito, vanno a scuola soltanto per imparare qualcosa per poter
trovare un
lavoro. Ma tu ce l’hai già un lavoro buono, quindi
perché sgobbare sui libri?”
mi chiede, alzando le spalle.
No,
ma… è pazza?
“Ma…
io…”
“No,
niente ma. Coraggio. Vai.”
Mi
giro, sgranando gli occhi,
e dirigendomi verso il prato per poter uscire di casa.
“Questa
è completamente
fuori!” inizio a sfogarmi, sottovoce. “Se pensa che
obbedirò a tutte le
stronzate che mi dice di fare, si-“
Non
riesco a finire la frase,
che un improvviso getto d’acqua mi colpisce in pieno viso.
Ma
perché capitano tutte a
me?
Corro
verso l’irrigatore
automatico, cercando di spegnerlo.
“No,
tesoro, non lo chiudere.
Il prato sta diventando beige.”
“Ma
se è verdissimo! E poi, dicono
sempre di risparmiare l’acqua! Siamo in piena
siccità.”
Sento
il suo sbuffo
scocciato. “Guarda che la siccità è
solo per i poveri. Secondo te, Jennifer
Lopez ha il prato secco? Le persone che adoperano tanta acqua hanno
anche tanta
classe, sai?”
Ah
beh, allora io alzavo le
mani e rifiutavo di discutere ulteriormente.
Prendo
la Mercedes dal garage
e mi dirigo verso il ristorante.
Sono
furiosa, incazzata e…
rassegnata, ma ormai ci ho fatto l’abitudine.
Parcheggio,
con qualche
difficoltà e, appena entro, non posso fare a meno di
rabbrividire e di
sorprendermi alla vista di come tutto il locale sia
cambiato… in peggio,
ovviamente.
Ogni
santissima cosa è rosa,
un abominevole rosa confetto, persino le divise dei dipendenti.
Non
bastavano già i pattini,
certo.
Sospiro
e vado nelle cucine
per indossare la divisa.
L’unica
cosa buona di questo
posto sono i miei colleghi. Lavorano qui da sempre, e per fortuna Miss
labbra
di botulino non ne ha licenziato nessuno.
C’è
Angela, una donna di
colore che praticamente mi ha fatto da madre, Sam, il nostro
divertentissimo
cuoco di fiducia e per ultima, ma non meno importante, Madison, la
nostra
cameriera tutto fare.
“Ehi
Sam, devi finirla con il
salmone. Hai già fatto omelette al salmone, minestra al
salmone e budino al
salmone.”
“Dici
che sarebbe meglio
metterci Judy nella minestra, eh? Dai, dì la
verità, Angela.” replica lui,
toccandola con il gomito e facendole l’occhiolino.
“Ah,
quanto sei scemo, mi
farai licenziare.”
“Sì,
sì, sono tutte scuse.” grida,
per poi riprendere a cucinare.
“Madison,
il tuo ordine è
pronto.” dice ancora.
“Sì,
arrivo. Cavolo, io ho
una certa età, non posso andare ancora in giro con questi
cosi.”
Quanto
capivo la povera
Madison. Andare a 52 anni sui pattini non era proprio il massimo.
Beh,
effettivamente… non lo
era neanche a 18.
Bene,
sono pronta.
Divisa:
a posto.
Pattini:…..
a posto.
Odio
nei confronti di Judy: a
posto, anzi, più che a posto.
Quello
durerà nei secoli dei
secoli… sempre che non la uccida prima.
***
Bene,
bene,
bene, buonsalve a tutti voi. (?)
Allora…
vi
piace il banner nuovo?
A me
sì, molto.
Credo che
sia
quello che mi è riuscito meglio fin’ora.
So…
che ne dite
di questa nuova Avril?
Lo so che
è
presto, ma molti lati del suo carattere si iniziano a delineare qui.
Bene, ci
vediamo al prossimo con qualche nuovo personaggio.
*evaporizzazione
in corso*
Cruel
Heart.
P.S.
Glaphyra,
dobbiamo chiamare Sasso… il PROFESSOR Sasso!.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** The beginning of a fairy tale ***
C’era
una volta, in un regno
lontano, una bellissima bambina che viveva con il padre vedovo.
“Ehi,
stronzetta, vuoi stare
un po’ più attenta a dove cammini? Se ti avessi
messo sotto con la macchina,
avrei fatto tardi a lezione!”
“Vaffanculo,
coglione, la
prossima volta con la patente pulisciti le tue chiappe!”
D’accordo,
la storia non si
perde nella notte dei tempi e non si è svolta in un regno
lontano, ma nella
città più soleggiata d’America, Los
Angeles.
Forse
di lontano non avrà
proprio nulla, ma per me, da piccola, era davvero un regno incantato.
Ero
il tesoro di papà e,
ovviamente, lui era il mio.
Quando
sono triste, ripenso ai
tiri di baseball che facevamo al parco, e le decine e decine di urla di
dolore
che lanciava perché, beh… con la
palla… lo colpivo proprio lì. E,
incredibilmente, mi viene da sorridere.
Dal
momento che sono stata
cresciuta da un uomo, sono un po’ carente nel settore trucco,
parrucco e
abbigliamento, ma, da piccola, non avevo mai avuto
l’impressione che mi
mancasse qualcosa.
Ero
la bambina più fortunata
del mondo.
Papà
aveva aperto il “J.C.’s
Burgers”, il ristorante più fico
dell’intera città nel campus dell’UCLA,
l’università
della California, e io adoravo stare lì.
Era
quel genere di locale
dove la parola “dieta” era una parolaccia, e
l’unto del fritto era compreso nel
prezzo, con grande felicità degli studenti che venivano a
mangiare.
Da
noi… era come se la gente
si sentisse in famiglia.
Ricordo
ancora quando
festeggiai il mio decimo compleanno al ristorante, e tutta la gente che
era lì
mi diceva:”Esprimi un desiderio! Esprimi un
desiderio!”
A
che mi serviva un
desiderio?
Avevo
amici da sballo e un
padre che era un mito, che potevo avere di meglio?
Ma
papà, purtroppo, non la
pensava esattamente come me.
Infatti,
credeva che mi
mancasse qualcosa, qualcosa di importante.
Quel
qualcosa, o meglio,
qualcuno, si rivelò essere Judy, una donna tanto dolce e
simpatica, quanto
amorevole e decisamente poco rifatta.
Il
giorno in cui si sposarono
fu un vero disastro.
Per
me, ovviamente.
E,
in quella bellissima e
fantastica festa, conobbi anche le sue ancor più fantastiche
figlie gemelle,
Janette e Aurore.
Semplicemente,
due impiastri
di sorellastre.
Ma,
dato che papà sembrava
soddisfatto, volli quantomeno provare ad esserlo anch’io.
Anch’io
volevo avere quel “e vissero
felici e contenti” che vivevano le principesse nelle loro
storie.
Per
sfortuna, il finale della
favola non andò così.
La
sera in cui cambiò tutto,
stavamo leggendo “La Bella e La Bestia”, la mia
fiaba preferita.
[Inizio flashback]
“La
Bestia, trasformato in
principe, prese la mano di Belle e ne baciò il palmo. Poi,
la invitò a danzare
nella sala da ballo del castello, dove continuarono a danzare per ore e
ore,
scambiandosi teneri baci e un’indistruttibile promessa
d’amore. E da quel
giorno, vissero per sempre felici e contenti.”
“Papà,
le favole si avverano?”
“No,
in effetti no. Sono i
sogni che si avverano.”
“E
tu ce l’hai un sogno?”
“Certo.
Il mio sogno è che tu
cresca bene e vada all’università, e magari un
giorno potrai anche costruire il
tuo castello, se vorrai.”
“E
le principesse in quali
università vanno?”
“Le
principesse? Beh… ehm…
loro vanno… all’UCLA, ovviamente. Ma, vedi, le
favole non riguardano solo
castelli e principesse. In realtà, rappresentano tutti i
desideri che vuoi
realizzare, e il coraggio di lottare per le cose in cui credi.
Capito?”
“Sì,
certo, non sono mica
come Gaston, io!”
“Brava
la mia piccola.
Ricordati di questo, che se lo leggi con attenzione, questo libro
contiene cose
importanti, che potranno servirti più in là nella
vita.”
[Fine Flashback]
Come
ho già detto, il finale
della favola non andò così.
Il
mio regno andò in frantumi
quando il terremoto di quel lontano 1994 colpì la
città.
Delle
forti scosse colpirono
la casa, e mi ricordo ancora del terrore che attraversò gli
occhi di papà
mentre tutto ci cadeva addosso.
Judy
dal piano di sotto
gridava aiuto, ma lo stesso terrore che aveva attraversato qualche
secondo
prima i suoi occhi, contagiò anche me.
Non
volevo perderlo, non
volevo che andasse da lei, non volevo che mi abbandonasse lì
da sola.
E
invece, lo fece.
Lasciò
la mia mano, e si
portò con lui tutti i momenti più belli che avevo
della mia infanzia.
Quel
giorno persi il mio
migliore amico e, da allora, le uniche favole in cui credevo erano
quelle che
leggevo sui libri.
Si
scoprì che mio padre non
aveva lasciato un testamento, e così, indovinate chi si
prese tutto?
Miss
labbra di botulino,
ovviamente.
Si
impossessò di qualsiasi
cosa: la casa, il ristorante e, con suo grande disappunto, anche me.
Mi
mandò su, in mansarda,
facendomi definitivamente lasciare la mia bellissima stanza e
spedendomi in uno
spazio fatto di 18 mq.
Lì
c’erano soltanto delle
pareti bianche e vuote e una specie di brandina vecchia e malridotta
che doveva
farmi da letto, ma non c’erano le mie favole, non
c’erano i miei sogni, non c’era
mio padre.
Di
lui mi rimaneva solo la
chitarra che mi aveva regalato, e che ogni tanto suonava per farmi
felice.
Negli
anni successivi, con
tanta pratica e con mio enorme rompimento di coglioni,
perché secondo Miss
labbra di botulino quell’orribile
suono
le faceva venire le doppie punte, sono diventata sempre
più brava a
suonarla, tant’è che, nel tempo libero, mi
esibisco per dei piccoli concerti al
ristorante “Judy’s”.
Già.
È così che si chiama il
ristorante di papà, adesso.
Quello
che prima era un
normale ristorante dove si mangiavano hamburger e patatine fritte,
adesso è
diventato un ristorante chic e alla moda
dove i raffinati clienti possono gustare del gustosissimo salmone di
Norvegìa.
Sì,
esatto, lei dice proprio “Norvegìa”,
con l’accento sulla i.
Clienti,
tra l’altro, che
sono del tutto immaginari. A confronto, il deserto del Sahara sembra un
locale
del centro il Sabato sera.
Come
so tutto questo?
Semplice,
Judy mi ha
costretto a lavorarci il pomeriggio.
Come
direttrice?
Come
co-direttrice?
No,
molto meglio!
Come
cameriera!
Eh
già, non solo la figlia
della titolare fa la cameriera, ma deve anche andare in giro con degli
stupidissimi pattini a rotelle, come tutto il resto del personale, del
resto.
E
così, la mia giornata si
divide in frequenza obbligatoria per l’università
la mattina, lavoro, o meglio
schiavitù, per il ristorante il pomeriggio e, se riuscivo a
farcela, studio,
tanto studio, la sera.
Oltre
ad occuparmi delle
continue crisi nevrotiche di Miss labbra di botulino, ovviamente.
Beh,
in tutto questo
disastro, almeno una nota positiva c’è.
Per
fortuna, il campus non
permetteva di soggiornare nelle proprie case, e così,
proprio stamattina, ho
dovuto portare tutte le mie cose in uno degli stabili messi a
disposizione per
gli studenti.
Almeno
avrei avuto a
disposizione un letto come si deve.
Questa
sera sarebbe stata l’ultima
notte in cui avrei dormito a casa mia, poi, in un certo senso, mi
aspettava la
libertà.
In
un certo senso perché casa
mia è a due passi dal campus, quindi… penso che
mi ritroverò ancora Judy e le
mie sorellastre tra i piedi.
Arrivo
a casa che sono le
nove di sera, non ho mangiato e sono a pezzi.
Niente
di nuovo per me, ma…
mi farebbe piacere trovare qualcuno che si prenda cura di me, proprio
come
faceva il mio caro e vecchio papone.
Salgo
velocemente le scale,
ignorando le urla isteriche di Judy che mi ordina di spalmarle la crema
idratante sul viso.
Lei
non immagina neanche dove
gliela ficcherei in questo momento…
Chiudo
a chiave la porta, e
mi butto sul letto, senza neanche cambiarmi i vestiti.
“Ah…
che vita di merda.” sussurro,
prima di prendere sonno e di addormentarmi.
***
Sssssalve a tutti!
Il mio cervellino
sta sfornando ff a palate.
So… eccomi
qua!
Spero che questa
nuova long vi piaccia. Lo stile è un po’ quello di
LBS, quindi se vi è piaciuta
quella, sicuramente vi piacerà anche questa, fidatevi.
Ok, molte frase di
questo capitolo le ho prese dal film “Cinderella
Story”, quello con Hilary
Duff.
A me il film
è
piaciuto molto, quindi ho pensato di farci una ff… ma molte
cose saranno
diverse, alcune in meglio, altre, ovviamente, in peggio u.u
Ok, evaporo.
A presto.
Cruel Heart.
P.S. Glaphyra,
dobbiamo prenotare i leopardi e le zebre, mi raccomando!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** A disgusting millepede crawls in the mud ***
A
disgusting
millepede crawls in the mud. – Un disgustoso millepiedi
striscia nel fango.
Pov Avril
[Un’ora
dopo]
Sospirai
ed incominciai a pulire i
tavoli e ad apparecchiarli, strisciando su quei dannatissimi pattini.
Vidi
Angela parlare con un cliente,
con la solita aria simpatica e disponibile che la caratterizzava.
“Ciao
Chuck! Come stai?”
“Alla
grande.” rispose un uomo
baffuto e grassottello.
“Bene.
Allora, vediamo se mi ricordo…”
disse, prendendo il taccuino e incominciando a scrivere.
“Omelette al formaggio,
tortino di pancetta, patate fritte, crostata di mirtilli e una coca,
giusto?”
“Sì,
ma quella senza zucchero. Tengo
d’occhio il peso.”
Trattenni
a stento un risolino nel
vedere la faccia sconvolta di Angela.
“Beh,
certo… è senz’altro la coca, il
problema…”
Si
allontanò dal balcone con gli
occhi ancora spalancati.
“Le
focacce al salmone sono pronte!”
urlò Sam. “Qualcuno le venga a prendere.”
“Sì,
faccio io.” risposi. Se non
altro, avrei tenuto la mente occupata e avrei evitato di progettare il
modo più
efficace per uccidere Judy.
Mentre
mi avvicinai. Angela si girò
verso di me. Sembrava sorpresa e leggermente
incazzata.
“Avril,
che ci fai qui?” Infatti.
“Ho
quasi finito.” le risposi,
pulendomi le mani sul grembiule rosa. Prima finivo di lavorare, prima
me ne
sarei andata da quel posto.
“Guarda
che così fai tardi
all’università!”
“Lo
so. Adesso vado, non
preoccuparti. Lo sai che Judy va in menopausa se non
finisco.” provai ad alleggerire
la situazione..
Non
sembrava voler stare allo
scherzo. “Sai quanto me ne importa di Judy?! A me interessa
solo la tua
istruzione.”
“Ma-”
“Ti
fa sempre svegliare all’alba,
neanche fossi un gallo.”
“Ma
io-”
“Tuo
padre ti vorrebbe a scuola, non
qui.”
“Ma
lei-“
“Niente
ma, è chiaro? Judy e le sue
chiappe dovranno vedersela con me.” mi rispose, strappando il
piatto dalle mie
mani.
Nonostante
mi avesse interrotta per
ben tre volte, mi sentii in dovere di ringraziarla. Lei era
l’unica che mi
capiva davvero.
“Grazie,
Angela.” dissi,
abbracciandola.
“Sì,
sì, basta con queste smancerie. Ora
vai.”
L’unico
difetto, se possiamo chiamarlo
così, era l’incapacità di esprimere
a pieno i suoi sentimenti. Ma io sapevo che, sotto quella scorza da
dura, si
nascondeva un cuore dolce.
Mi
cambiai in fretta, rimettendomi i
miei abiti, e guardai l’orologio.
Cazzo,
erano le sette e mezza, e tra
mezz’ora sarebbe iniziata la prima ora di lezione.
Uscii e
m’infilai subito nella
Mercedes, accedendola e partendo.
Meglio
andare a prendere Gabriel,
pensai.
Se vi
state chiedendo chi è Gabriel,
la risposta è semplicissima.
Posso
definirlo, senza alcuna ombra
di dubbio, il mio migliore amico.
Ci
conoscemmo a sette anni, sulla
spiaggia di Santa Monica, quando io mi divertivo ancora a fare i
castelli di
sabbia e il mare si divertiva a distruggermeli.
Soltanto
che, quel giorno di undici
anni fa, al suicidio dei castelli contribuì anche
qualcos’altro.
Il
piede di Gabriel, appunto.
Subendo
quel gesto come un affronto,
ho incominciato a piangere davanti a mio padre e ad incominciare con il
possessore di quel piede malefico una battaglia di palle di sabbia con
i
fiocchi.
Risultato?
Una gita di corsa
all’ospedale più vicino e una congiuntivite a
testa.
Dopo la
visita, scoprii che abitava a
due isolati da casa mia, e così mio padre e i suoi genitori
si sono
incominciati a frequentare, e con loro anche noi.
La
nostra amicizia era stata messa in
crisi dall’arrivo di Judy, che lo definiva un pazzoide
che non combinerà mai niente nella vita, ma per
fortuna
siamo stati in grado anche di superare questo tipo di ostacolo.
Gabriel
è un tipo a posto… credo.
Suonai
più di una volta il clacson,
per segnalare il mio arrivo.
Vidi
che il signor Panduro era fuori,
ad innaffiare le sue amatissime piante.
“Ehi
Gabriel, è arrivata Avril.” lo avvisò
il padre.
“Sì,
arrivo.” gridò lui di rimando.
“Grazie,
signor Panduro.” lo
ringraziai con un sorriso.
“Di
nulla. Ah, a proposito, cerca di
essere comprensiva con lui oggi. Sai, per lui è un giorno
particolare.” mi disse,
sparendo sul retro.
Questa
cosa mi preoccupò molto.
Che
significava che dovevo essere comprensiva?
E che
tipo di giorno era oggi?
La
risposta mi arrivò appena Gabriel
uscì dalla porta di casa e venne incontro alla mia macchina.
Indossava
degli occhiali da sole neri
e una tuta color rosso acceso su cui spiccava una vistosissima collana
color
oro, e stava rappando un brano che leggeva su un foglio.
“Yo,
yo, qualsiasi cosa è possibile
quando si crede, esatto, qualsiasi, ragazzi.”
Presa
da un vortice di disperazione,
feci andare a sbattere di proposito la testa contro il clacson della
macchina,
che produsse un rumore talmente assordante da spaventarlo.
“Yo
Avril, amica, posso sapere che ti
prende?”
Rialzai
la testa, molto lentamente, e
lo fulminai con lo sguardo.
“Gabriel…perché
ho la vaga sensazione
che tu abbia un provino oggi, e che tu non mi abbia
avvisato?!”
“Yo,
esatto sorella, ci hai preso in
pieno.” disse, aprendo la portiera e accomodandosi sul sedile
del passeggero.
“Smettila
di dire yo! E comunque…
come…come…come ti sei vestito?”
“Perché?
Cosa c’è che non va?” mi
chiese, ritornando a parlare normalmente. “Questo
è il mio look da rapper.”
Roteai
gli occhi. “Va bene,
mettiamola in un altro modo. Io non ti porto a scuola
conciato… così.”
Si
tolse gli occhiali da sole, con
fare da saputello. “Ascolta Avril, questo è un
metodo che seguiamo al corso di
teatro. In questo modo, entri nel personaggio.”
Approfittai
della sua distrazione per
togliergli tutte quelle stupide catene che si ritrovava al collo.
“Lo so, ma…
non ti sembra di esagerare?”
Sospirò
pesantemente. “Va bene, va
bene, la prossima volta vado a piedi.”
“Bravo,
vedo che inizi a capire.” conclusi
il discorso, accendendo il motore e partendo verso
l’università.
Il
viaggio durò sì e no cinque minuti,
l’università era vicina.
Appena
attraversammo il grosso
cancello per entrare nel parcheggio, sentimmo il grosso altoparlante
dare le
ultime notizie sull’università.
“Buongiorno
a tutti gli studenti,
insegnanti, addetti alle pulizie e, nel caso che ce ne siano, robot
dell’UCLA. In
tempo di siccità, un consiglio per risparmiare
l’acqua. Fate docce brevi, ma l’importante
è che ci siano. La palma d’oro va al professor
Smith, di economia, che non si lava
da ben due settimane, ormai. Bleah, ho come l’impressione che
ci sarà un brusco
calo delle affluenze nella classe del signor Smith, dopo questa
notizia. D’altronde,
se non economizza lui…
Bene,
studenti e robot, vi do
appuntamento a ora di pranzo, quando i nostri cervelli saranno
scollegati e i
nostri stomaci riempiti. A dopo.”
Feci un
leggero sorriso, pensando
alla condizione in cui si doveva ritrovare il professor Smith dopo
questa informazione,
ma fui prontamente risvegliata da Gabriel. “Avril,
c’è un posto lì.”
Feci
per accelerare, ma una Porsche ci
tagliò la strada.
“Ehi,
perdenti, chi dorme non piglia
pesci. Ah-ah-ah.” dissero le tre ragazze perfettamente in
coro.
Dio,
quanto odiavo le ragazze che si
comportavano così!
Chi
erano queste tre Barbie?
Facile,
molto facile.
“Oh,
ecco Nicole Fear e le sue
damigelle di corte!” esclamò sarcastico Gabriel,
roteando gli occhi. “Sono
sicuro che Nicole voglia portarmi a letto.”
Cosa?!
“Ma non avete neanche mai
parlato!”
“Oh,
sì che abbiamo parlato. Nella
mia testa. E ti assicuro che, nella mia testa, lei vuole portarmi a
letto.”
“Gabriel,
puoi cercartene una molto
meglio di Nicole Fear, anche nella fantasia. È
così… stupida.” dissi,
indicandola con la mano.
“Sì,
sì…oh, lì, a sinistra,
c’è un
posto libero.”
“Bene,
questo non me lo frega
nessuno.” esclamai, convinta.
Misi la
retromarcia, ma proprio
quando stavo per fare la manovra, arrivò una Jeep nera che,
per l’appunto, mi
fregò il posto.
“Ma
che cazzo!” mi stizzii.
Dalla
Jeep uscirono due ragazzi, che
si stavano sganasciando dalle risate per avermi rubato il parcheggio.
Purtroppo
per me, riconobbi anche il
terzo ragazzo, che era alla guida. Eccolo, il ragazzo biondo e perfetto
che
scendeva dall’auto neanche fosse un angelo appena caduto
sulla Terra, quando in
realtà non era nient’altro che uno schifoso
millepiedi strisciante nel fango.
“Pff, Taubenfeld…” mormorai.
***
Ok,
scusatemi per il
ritardo con cui sto aggiornando.
I
compiti (sia in
classe, sia a casa) mi stanno sommergendo.
In
realtà, per come
stava andando la serata, non avrei neanche dovuto aggiornare oggi, ma,
per
fortuna, sono riuscita a farlo.
So,
so, so, che ne dite
del verme strisciante?
Eheheheh.
Questo
sarà solo l’inizio.
Good,
ho finito.
*evaporizzazione
in
corso*
Cruel
Heart.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** Crash ***
Crush
- Scontro
Pov Avril
Sbuffai
scocciata, rivolgendomi verso
Gabriel.
“Sai,
per me la gente come Nicole e
Evan è geneticamente programmata per stare insieme. Come si
può essere tanto
egocentrici in un rapporto a due?”
“Beh,
non voglio immaginare quello
che dicono di te.”
Abbassai
gli occhi, guardando i miei
jeans. “Figuriamoci, non sanno neanche che
esisto…”
Rialzai
lo sguardo, osservando il
gruppetto di fronte a me.
Loro
erano i cosiddetti “popolari”,
conosciuti da tutta la scuola per la loro bellezza e ricchezza, un
po’ meno per
l’intelligenza.
“Brrr.
Ragazzi, a ore tre ci sono due
stranieri.” sentii mormorare Britney, una delle due ragazze
che facevano da
cagnolini a Nicole.
Appunto.
Nicole
mise le mani a coppa accanto
alla bocca e ci urlò:”Questi parcheggi sono
riservati ai bellissimi. Quindi,
niente mostri.”
Avete
presente quelle scene degli
anime giapponesi in cui al protagonista esce il fumo dalle orecchie e
vorrebbe
tanto picchiare qualcuno per la rabbia?
Ecco,
questo m’immaginavo di fare… se
non ci fosse stato Gabriel a trattenermi.
A
rincarare la dose, ci si mise anche
lui, il verme strisciante.
“Ehi,
cameriera, posso avere
un’omelette al formaggio? Grazie…” si
rivolse a me, con tono derisorio e
altamente irritante.
“Per
fortuna non sanno nemmeno che
esisti, eh?”, disse Gabriel, alzando il sopracciglio nella
mia direzione.
“Già…”
gli risposi, roteando gli
occhi.
Inchiodai
il verme con un’occhiata
assassina.
Se gli
sguardi avessero potuto
uccidere, lui a quest’ora sarebbe stato già morto
stecchito.
“Fanculo,
Taubenfeld.” mormorai, e
parcheggiai nell’unico posto disponibile, accanto ai
cassonetti dei rifiuti.
Non
male come inizio di giornata, eh!
Lo
stupido gruppetto si sparpagliò,
mentre noi sentimmo la campanella suonare e scendemmo in tutta fretta
dall’auto.
Arrivati
all’entrata, io
e Gabriel ci salutammo, dandoci appuntamento nel corridoio per andare
in mensa,
e ognuno andò a seguire la propria lezione.
Io
entravo in sociologia, mentre lui
in arte della recitazione.
Nonostante
tutto, gli feci un imbocca
al lupo mentale per il provino.
Intanto
che camminavo, presi la cartina degli stabili del campus e la esaminai.
Oggi
avrei ultimato il trasloco, finalmente, e avrei potuto passare la prima
sera
lontana da Judy. Sebbene la mattinata non fosse iniziata nel migliore
dei modi,
l’eccitazione e l’adrenalina scorreva dentro di me.
Non vedevo l’ora di
starmene un po’ per i fatti miei. Mentre osservavo
attentamente la cartina,
inciampai in una mattonella sporgente.
Cercai
di recuperare l’equilibrio per non cadere e mi scontrai con
qualcuno che stava
davanti a me. Per lo scontro, finii
a terra come al mio
solito, maledicendo il mio scarso senso dell’equilibrio e il
dolore per la
caduta.
“Che cazzo,
stai più
attenta!” mi disse una voce seccata che non mi era nuova.
Sollevai lo sguardo,
per conoscere
a chi appartenesse quella voce, e lo vidi. Che
cavolo, con milioni
di persone in questa università, proprio con lui dovevo
scontrarmi?!
Per
la
sorpresa, non riuscii a muovere nemmeno un muscolo e rimasi
lì a terra come una
stupida a fissarlo. I
suoi occhi mi scrutavano, mentre lui
mi guardava con superiorità e non faceva
niente per aiutarmi ad alzarmi. Ma guarda tu che
cafone!
Mi sollevai da sola e
cominciai a raccogliere da terra tutte le mie cose, che, nel cadere si
erano
sparse.
Continuava a
fissarmi,
senza dire niente, e sentivo che quello sguardo così
insistente mi stava incominciando
a dare sui nervi. “Si può sapere che cosa hai da
guardare, Taubenfeld?” gli
chiesi stizzita.
“Gli occhi
sono fatti per
guardare, non lo sai?” mi rispose ironico, senza smettere di
fissarmi.
Bene, era la seconda
volta in una mattina che non riuscivo sopportarlo. “Allora
cerca di guardare da
un'altra parte, mi infastidisci.” gli dissi, fulminandolo, e
dirigendomi verso
l’aula affollatissima.
Per fortuna, il
professor
Eccleston non era ancora arrivato, e mi ero risparmiata una grande
figura di
merda, dato che non ero entrata dopo di lui.
Presi posto in terza
fila,
in modo da seguire bene, e,
non
sapendo cosa fare, cominciai a fare degli scarabocchi sul mio quaderno
degli
appunti.
All’improvviso,
sentii un
rumore vicinissimo a me e mi girai.
Non era possibile,
stavo
avendo troppa sfiga per una giornata sola.
Lui si
sedette proprio accanto a me e, non so perché, la presi come
un’offesa. “Mi
stai seguendo, per caso?” gli domandai.
“Cosa?!
Assolutamente no,
anch’io devo seguire sociologia. E poi, secondo te, dovrei
perdere il mio tempo
a seguire persone come te?” Alzò il mento,
squadrandomi dall’alto in basso.
Dio, se solo avessi
avuto
una bella spranga dura e resistente…“Certo, e
immagino che invece le persone
che frequenti tu siano stronze esattamente quanto te,
giusto?”.
“Lo sai che
hai un bel
caratterino?” mi chiese invece, con un sorrisino strafottente.
“Felice di
saperlo. E adesso,
se non ti dispiace, vattene a fanculo e lasciami in pace.”
Si mise sulla
difensiva. “Ehi,
calmati, bellezza.”
Gli lanciai un altro
sguardo fulminante. “Cosa c’è della
parola fanculo che non hai cap-“
Sentii qualcuno
schiarirsi la voce davanti a me. Alzai lo sguardo e vidi un uomo sulla
quarantina e un po’ stempiato che ci guardava. Il professor
Eccleston.
Bene,
e menomale che dovevo risparmiarmi una
figura di merda…
“Ah,
Taubenfeld, ancora
lei. Si allontani dalla signorina Lavigne e vada a sedersi nella fila
di sopra,
forza.” Sospirò il professore.
Lo vidi alzarsi, con
un
sorriso divertito, e prendere posto nella fila sopra la mia. Io, con
gli occhi
bassi, guardai in giro, alla ricerca di occhiate divertite dal nostro
piccolo
siparietto. Purtroppo per me, l’aula era già piena
e molti mi guardavano sorridendo.
Farsi i fatti loro no, eh?
Sbuffai, mentre il
professore
si sistemava alla cattedra e iniziava la sua lezione.
Ogni tanto, oltre
agli
sguardi che continuavano a riversarsi su di me, osservavo di sottecchi
anche il
verme, che mi studiava con un sorrisino che non mi piaceva affatto. Se
le prime
lezioni erano così, non volli nemmeno pensare alle prossime.
Finita
l’ora lo vidi alzarsi
e dirigersi verso il corridoio.
Sistemai velocemente
i
libri nello zaino e seguii la massa di studenti che stava uscendo
dall’aula.
Ero ansiosa di
rivedere
Gabriel, volevo stare con qualcuno che mi facesse sentire bene.
Lo incontrai vicino
agli
armadietti, che mi aspettava.
Aveva
un’aria triste,
quasi… dispiaciuta.
“Ehi
Gabriel.” Lo salutai.
“Ehi.”
Le mie
supposizioni vennero confermate in pieno. Mi salutava sempre con
qualche
stupido nomignolo dei suoi, non era da lui dirmi un semplice ehi.
Doveva essere per
forza
triste e forse avevo intuito anche il perché.
“Beh…
com’è andato il
provino?” gli chiesi, sperando di non far danni.
Abbassò lo
sguardo dal
pavimento, guardandosi la punta delle scarpe. Ci avevo preso in pieno.
“E’
andato male, anzi, malissimo. Non hanno voluto neanche farmi finire il
pezzo. Che
giornata di merda!” esclamò irritato, rialzando lo
sguardo verso di me. Non sapeva neanche
quanto avesse ragione.
“E a te? Com’è andata la
giornata?”
“Lo stesso.
Mi sono scontrata
con Taubenfeld, quello stronzo, defic-“
Il mio discorso venne
interrotto da dei gridolini acutissimi. Tutta la grande folla, che si
dirigeva
verso la mensa, si divise improvvisamente in due parti, una a destra e
una
sinistra, lasciando misteriosamente il centro vuoto.
Mi alzai sulle punte,
per
vedere cosa cavolo stesse succedendo, e vidi Nicole e le sue cagnoline
camminare
nel mezzo del corridoio a passo sicuro verso la mensa, neanche fosse
una
sfilata di moda.
“Spostarsi,
spostarsi,
spostarsi.” gridavano agli ignari studenti, peggio dei robot.
Sentii due voci
maledettamente familiari parlare all’unisono
all’indirizzo di Nicole. “Nicoooole,
ciao amore! Come va?”
Oh no, che imbarazzo,
speriamo che nessuno scopra che sono le mie
sorellastre,
pensavo nel panico.
Janette e Aurore
correvano
starnazzanti e con dei mega sorrisi verso le tre ragazze, che le
salutarono
falsamente, per poi, per mia fortuna, sorpassarle.
Mentre loro
smettevano di
sorridere, deluse per non essere state ancora una volta invitate nel
gruppo
delle “bellissime”- per forza, di bellissimo loro
non avevano proprio niente -,
osservai i loro vestiti, così diversi dai miei. Se io
indossavo una semplice
felpa con dei jeans neanche tanto attillati, loro andavano in giro
sempre con
roba firmata, comprata dalla loro dolce e amorevole mammina,
ovviamente. Se
questo significava essere figlie di Judy, allora preferivo vestirmi
come una
barbona.
“Perché
tolleriamo quelle
due befane?” sentii Nicole chiedere a Britney.
“Per la
borsa firmata che
ti hanno regalato al compleanno.” le rispose.
“Che poi si
è rivelata
una volgare imitazione!” aggiunse prontamente Shelly,
l’altra ragazza che
faceva parte del gruppo a tre.
“Ah,
dimenticavo.” concluse
altezzosa Miss Barbie, prima di spalancare le porte e di entrare in
mensa.
Voltai lentamente lo
sguardo verso Gabriel, che era scioccato quanto me per la scena.
”Dai, andiamo.”
sussurrò.
***
Eccomi
qua, people.
Muahah,
che ne dite di questi due baldi (?) giovani?
Vi
piacciono insieme? :3
Questo
capitolo è dedicato a Glaphyra, so che le piacerà
e non poco. (PandoraHearts è
superfigherrimo (?) *-*)
Bueno,
ci vediamo al prossimo!
*evaporizzazione
in corso*
Cruel
Heart.
P.S.
Altra mia ff. Remember
Me
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** New neighbour? ***
New
neighbour? –
Nuovo vicino?
Pov Avril
Io e Gabriel ci
stavamo dirigendo in mensa, cercando di non essere schiacciati dalla
grande
folla accalcata nel corridoio, quando improvvisamente sentii il mio
cellulare
squillare con il primo
movimento della
sinfonia n. 5 di Beethoven.
La mia mente ci
mise due secondi per esclamare dieci imprecazioni di fila. Non era un
caso se
avevo scelto quella suoneria per quel numero. Cazzo…
Presi il cellulare
dalla tasca dei miei jeans e, neanche fossi stata un condannato sul
patibolo
pronto per essere decapitato, risposi.
“Pronto?”
Ovviamente, sapevo già chi fosse. Il problema, purtroppo,
era che non sapevo
cosa volesse. Mi preparai mentalmente a sentire la sua voce spacca
– timpani.
“Avriiiiil!”
Come se avessi
preso la scossa, allontanai immediatamente il telefono dal mio
orecchio. Non c’era
preparazione mentale che potesse competere con lei.
“Ciao,
Judy. Cosa
vuoi?” Con lei era sempre meglio essere diretti ed andare
dritti al punto.
“Come cosa
vuoi,
razza di impertinente! Sbaglio o ti avevo avvisato che appena finivi le
lezioni
dovevi fare il turno di pomeriggio al ristorante, eh?”
“Ehm…
no, ti
sbagli, non mi avevi avvisato.”
“Oh.”
I tre
secondi di silenzio che seguirono furono ancora più
irritanti dell’intera
conversazione. “Beh, adesso sei stata avvisata. Quindi, vai a
lavorare!” E con
questa sua ultima massima, chiuse la chiamata.
Toccai Gabriel
sulla spalla, per attirare la sua attenzione, e gli urlai, cercando di
farmi
sentire nel caos generale:”“Gabriel, devo andare al
ristorante a lavorare.”
“Cosa? Devi
andare
ad un funerale? Mi dispiace!”
“Ma no, che
hai
capito. Devo andare a lavorare!”
“Avril…
il bagno è
lì, non capisco perché adesso mi vieni a dire che
hai bisogno di urinare…”
Alzai gli occhi al
cielo, esasperata. Lo trascinai all’uscita per un braccio,
sperando che nessuno
mi facesse storie proprio ora. Le mie ovaie erano già in
pieno movimento e non
avevano certo bisogno di essere sollecitate ulteriormente.
Una volta
raggiunto l’esterno, mi fermai, misi le mani a coppa attorno
al suo orecchio
sinistro e gridai con tutto il fiato che avevo in
gola:”GABRIEL! IL RISTORANTE!
DEVO ANDARE A LAVORARE!”
Spalancò
gli occhi
e mi scostò gentilmente da lui. “Ok, devi andare a
lavorare al ristorante. Ti
ci accompagno. Perché non l’hai detto subito,
accidenti?”
Mi
accompagnò alla
macchina, chiedendo ed ottenendo il permesso di guidare.
L’unica cosa che
pensavo in quel momento, era: ovaie mie, calmatevi.
**
Appena entrammo al
ristorante – facevo ancora fatica a chiamarlo con il suo nome
attuale –, Angela
ci venne incontro, sorridente come sempre.
“Avril,
Gabriel,
che ci fate qui?”
“Beh, a
dire la
verità, Judy mi ha dolcemente
riferito
che devo fare il doppio turno, per cui… eccomi
qui.” Sospirai, togliendomi la
borsa a tracolla.
“Come
doppio
turno? Tu non fai proprio nessun doppio turno, signorina.” Mi
rispose,
puntandomi contro un dito e agitandolo. “Piuttosto,
tutt’e due, avete pranzato?”
Non volevo darle
più fastidio di quanto non avesse già, per cui
preferii mentire, anziché dirle
la verità. “Sì, noi-“
“No, a dire
la
verità no, mi ha subito trascinato qui, senza nemmeno
lasciarmi rifocillare. Sto
proprio morendo di fame.” Mi anticipò Gabriel,
sbadigliando.
Mi girai lentamente
verso di lui e lo guardai con lo sguardo più omicida che
potessi fare.
Soltanto dopo un
po’ si accorse del mio sguardo ed scrollò le
spalle, come per dire beh, che
c’è?, ma ormai la frittata era
fatta.
Angela
partì
subito in quarta, ci fece voltare e ci spinse dalle spalle.
“No, no, no, no,
ragazzi, così non va bene. Come fate a mettere in moto il
vostro cervellino, se
non mettete niente nello stomaco? Adesso ci pensa la zia Angela, e un
doppio cheeseburger
non ve lo toglie proprio nessuno.” Disse, facendoci
accomodare ad un tavolo e
sparendo nelle cucine.
Continuai
a tenere il mio sguardo assassino su
Gabriel che, invece, se ne stava tranquillo e sereno seduto sulla sua
sedia.
Dopo qualche
minuto, forse infastidito dalla mia occhiata insistente, o forse
perché non
aveva niente da fare mentre aspettava il panino, mi
chiese:”Av, ma perché mi
guardi così? Capisco che sono bello, ma non credevo
arrivassi fino a questo
punto…”
Sospirai, non
potendo fare altrimenti. “Gabriel, hai mai sentito parlare
del concetto di non dare fastidio agli altri
mentre lavorano?”
Gli risposi, mimando le virgolette per rendere ancora più
chiara la domanda.
“No, mai
sentito.”
Ribatté, incominciando a guardare fuori dalla finestra.
Nel frattempo che
aspettavamo quel dannato cheeseburger, grazie alla pessima uscita del
mio amico, mi guardai in giro e mi
persi nei
miei pensieri.
Ricordai quando,
da piccola, me ne stavo stesa sul letto e piangevo, soffocando i pianti
e i
singhiozzi sul cuscino.
Non volevo che
nessuno vedesse e si accorgesse delle mie lacrime, neppure mio padre,
dovunque
fosse.
Mi sembrava che,
facendo fuoriuscire quelle piccole gocce salate, cresceva la mia
debolezza e
insicurezza.
L’unica
cosa che
volevo, era crescere subito, immediatamente, in modo da far passare
tutto il
dolore che sentivo dentro.
Non
ti preoccupare, quando diventerai grande nessuno ti
potrà dire cosa fare, neanche Judy., sussurravo a me
stessa, stringendo lo stesso libro delle favole
che quella notte mio padre lasciò a me.
Credevo, o meglio,
speravo, che la sofferenza pian piano si appiattisse, che venisse
sbiadita dal
tempo come se fosse stata un brutto ricordo.
La verità
era un’altra,
invece.
Anche se erano
passati anni da quando mi confidavo con il libro delle favole, la scena
non se
n’era andata, anzi, qualche sera faceva il suo ritorno,
cogliendomi il più
delle volte impreparata.
Ciò che
non
sapevo, quando ero una bambina, era che questo tipo di dolore, non
passava e
non veniva dimenticato mai, neanche con l’azione del tempo,
che tutto cancella.
Come
si faceva a sopravvivere?
Semplice. Dopo
ogni notte passata a piangere, dopo ogni giorno in cui asciugavo i miei
occhi
gonfi e rossi, avevo imparato a conviverci, con la fitta che sentivo
ogni volta
colpirmi dritta al petto.
Non c’era
un altro
modo per continuare a vivere, e neppure sperare diventare grandi
serviva.
Adesso che avevo
raggiunto la maggiore età, avevo capito che… la
sofferenza non era mai andata
via da me.
Sia nel bene, sia
nel male, mi era sempre stata accanto, tornando, magari qualche sera
particolare, a bussare alle porte del mio cuore e a far sgorgare altre
lacrime
dai miei occhi azzurri.
“Oh,
finalmente,
pensavo di non riuscire a liberarmi più di questi crampi
allo stomaco.” Disse Gabriel,
interrompendo il percorso che stavano intraprendendo i miei pensieri.
Voltai lo sguardo
verso la direzione indicata dai suoi occhi, e vidi due cheeseburger
caldi e fumanti
disposti su due piatti sul tavolo.
“Oh,
Angela, non
dovevi. Così mi fai sentire in colpa per averti fatto
lavorare di più.” Le
dissi, alzandomi e venendo presa dal desiderio irrefrenabile di
abbracciarla.
Lei, presa alla
sprovvista, s’irrigidì per un attimo, per poi
ricambiare immediatamente il mio
abbraccio.
“Non
ringraziarmi,
Avril. Se non mi prendo cura io di te, chi dovrebbe farlo?”
Eh
già, chi dovrebbe farlo?
**
Appena finimmo di
mangiare, ringraziammo ancora Angela e ci dirigemmo verso la mia
macchina.
Ancora una volta,
Gabriel si posizionò al posto di guida.
“Allora…
che si
fa?” mi chiese.
“Cosa vuoi
che
faccia, con un cheeseburger sullo stomaco?” Non era mia
intenzione farlo, ma la
voce mi uscii un pochino più acida rispetto al solito.
“Ok,
messaggio
ricevuto.”
Sembrava un
po’
abbattuto, nel suo modo di fare. In fondo,
tu non gli hai di certo reso la vita facile, ed è anche
stato bocciato al
provino! Poverino, ci teneva così tanto…
Dannata parte
buona della mia coscienza. Speravo di non pentirmi di quello che stavo
per
dire. “Beh, comunque… se vuoi… potresti
sempre venire a vedere il mio nuovo
appartam-“
“Oh
sì Avril,
davvero lo faresti per me? Grazie, non sai quanto sono contento di
averti come
migliore amica. Andiamo!”
Alzai gli occhi al
cielo. Almeno gli hai risollevato
l’umore…
Il viaggio in
macchina fu breve, giusto il tempo per spiegargli come raggiungere la
mia nuova
ubicazione*.
Appena fummo
davanti all’entrata, però, notai una cosa
spiacevole, di cui mi ero completamente
dimenticata.
“Ehi Avril,
ma perché
ci sono tutti quei cartoni per terra?”
Scesi dalla
macchina, incazzata con me stessa.
“Cazzo! Mi
ero
dimenticata che l’ultimo carico passava
stamattina.” Sbuffai, scocciata.
Non ce
l’avrei mai
fatta a portare tutti quei cartoni da sola.
A
meno che…
Mmh, la parte
diabolica della mia coscienza aveva quasi sempre delle ottime idee.
Non potei fare a
meno di sentirmi come la matrigna quando consegna a Biancaneve la mela
avvelenata.
“Gabriel…”
Scandii
bene.
“Sì….?”
Anche se
probabilmente non se ne accorse, indietreggiò leggermente
sul sedile, a
disagio. Mi conosceva bene, e sapeva che tramavo qualcosa.
“Ascolta…mi
chiedevo se…magari…mi potessi dare una mano con
tutti quei cartoni. Sai com’è,
sono molto stanca e non credo di potercela fare da sola.”
Ti prego,
dì di
sì.
“Ehm…Avril…Anch’io
sono stanco, e in più dovrei anche andare a casa, altrimenti
mio padre mi
strozza.”
“Nah, non
ti
preoccupare di tuo padre o del ritardo che potresti fare, tanto a piedi
ci
metti cinque minuti. Allora?”
“Beh…”
tentennò.
“Gabriel…
Ti
preeeego!” gli feci gli occhi dolci, consapevole che solo con
questo metodo
avrei ottenuto qualcosa.
“Oh, e va
bene. Ma
mi devi un altro cheeseburger, sia chiaro.” Mi rispose,
puntandomi un dito
contro.
“Certo,
anche due!”
esclamai, contenta. “Allora… tu prendi quello,
mentre io vado già ad aprire la
porta e a prenotare l’ascensore, così facciamo
prima.”
Entrai, premetti
sul bottone rosso, che si illuminò, e salii le scale in
fretta, per non far
stancare ulteriormente il mio migliore amico.
Presi le chiavi di
casa, aprii la porta, e lo aspettai pazientemente sulla soglia.
Sentivo i suoi
passi stanchi avvicinarsi sempre di più, fino a quando non
lo vidi arrivare
davanti a me con il fiatone.
“Cavolo, ma
quando
avevi intenzione di dirmi che il tuo appartamento era al sesto
piano?!”
Scrollai le
spalle, esattamente come aveva fatto lui quel pomeriggio.
Facemmo un paio di
viaggi, una volta salendo le scale, un’altra andando in
ascensore, e, dopo due
ore, rimase solo uno scatolone.
Vedendo lo stato
in cui si era ridotto pur di aiutarmi e per avere un cheeseburger
gratis, la
parte buona della mia coscienza riemerse in superficie e lo lasciai
andare a
casa.
All’ultimo
scatolone potevo benissimo pensarci io.
Prima di compiere
quell’ultima fatica, presi dalla tasca dei miei jeans il
cellulare e attaccai
le cuffie all’apertura.
Ero del parere che
qualsiasi difficoltà poteva essere superata, se avevi a
disposizione delle
buone cuffie e la musica adatta.
Selezionai un
brano metal, rimisi il cellulare nella tasca ed entrai, speravo per
l’ultima
volta in quella giornata, nell’ascensore.
Pov Evan
Sbuffai irritato,
buttando il libro di chimica sulla scrivania.
Per tutto il
pomeriggio non avevo fatto altro che sentire dei rumori strani
provenienti dall’appartamento
accanto.
Avevo saputo che
il precedente coinquilino se n’era andato, e
perciò collegai quei rumori all’arrivo
di un nuovo ragazzo.
Andai verso la
porta e la aprii, appoggiandomi al muro divisorio.
Ero deciso a far
sentire la mia voce in tutto quel casino che stava succedendo, nessuno
poteva
disturbare Evan David Taubenfeld mentre cercava di concentrarsi.
Mi
dispiace per te, ma il nostro rapporto è già
cominciato
con il piede sbagliato, amico.
…O…amica?
Osservai una
figura esile che mi dava le spalle e che trasportava un cartone
dall’aria molto
pesante.
Era bassina, non
molto
rispetto a me, comunque, e aveva dei capelli color castano chiaro che
le arrivavano
più o meno fino alle spalle.
L’ultima
cosa che
notai, scendendo con lo sguardo, era che aveva un culetto davvero
niente male.
Mi morsi il labbro,
improvvisamente entusiasmato da quel nuovo arrivo.
Non ricordavo
nemmeno più di essere stato arrabbiato per tutto il
pomeriggio.
La parte
più
spavalda di me si fece avanti e incominciai a parlarle,
sorridendo:”Ciao, tu
devi essere la nuova vicina. Piacere, io sono Evan.”
Mi aspettavo che
quantomeno si girasse, quantomeno per guardarmi in faccia, ma non lo
fece.
Probabilmente
è troppo impegnata con quel cartone…”Se vuoi,
posso darti una mano con quello.
Sembra essere anche abbastanza pesante e…”
Non riuscii nemmeno
a finire la frase, che sbatté la porta con un calcio e si
tolse dalla mia
vista.
Che
cazzo…?
Sì, il
nostro
rapporto era cominciato decisamente con il piede sbagliato.
*Oh-oh, siamo
passati ai termini sofisticati. (?)
Buonassssera
a
tutti! (?)
Allora,
come
state? Spero bene :3
Scusatemi
per il
ritardo con cui sto aggiornando, ma i compiti in classe si sono
quadruplicati
da un giorno all’altro D:
Che brutta
cosa
la scuola…
Ma, adesso,
pensiamo alle cose belle!
*Cri cri
cri*
Intendevo
il
capitolo…per chi…ehm…non
l’avesse capito e.e
Quindi, che
ne
dite di questi due?
Vi
piacciono?
Scrivetemi
tutti
i vostri pareri, sono curiosa *-*
Adesso devo
evaporare OuO
Cruel Heart.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** Fire and blades ***
Fire
and blades –
Fuoco e lamette
Pov Avril
“Gabriel,
stai
scherzando, spero!” Perché
doveva farmi
sempre questi scherzi al telefono di prima mattina?
“No, Avril,
sono
serio. Mio padre mi ha davvero sequestrato la macchina, e per la quarta
volta
di fila, per giunta! Ma questa volta non è affatto colpa
mia, sappilo.”
“Sentiamo,
quale
altro danno avresti combinato? Fiancata scheggiata? Specchietto rotto?
Oh, non
dirmi che sei andato di nuovo a sbattere contro qualcosa, ti
prego…”
“Senti, non
è
colpa mia, ok? È stato un incidente! E poi,
quell’albero mi ha provocato e non
ci ho potuto fare niente.”
“Sei andato
a
sbattere contro un albero? Sul serio?” gli chiesi,
incastrando il telefono tra
l’incavo della spalla e l’orecchio. Stavo tirando
fuori alcune cianfrusaglie
dai vari cartoni, ma una fotografia bloccata sul fondo non voleva
proprio
saperne di uscire.
“Sì.
Non ci vedo
niente di male, comunque.” Rispose piccato.
“Può capitare a tutti.”
“Gabriel,
gli
alberi non si asfaltano. Si evitano.”
“Ah-ah,
bella
battuta. Se ci fossi stata tu al mio posto sarebbe stato tutto
diverso.” Brontolò.
“Ah,
beh, grazie per l’augurio.”
“No, no,
non
intendevo…”
“Lo so cosa
intendevi, non preoccuparti. Ehm… Puoi aspettare solo un
secondo?”
“Sì,
certo.”
Poggiai il
telefono sul letto e mi girai verso il cartone, spazientita. La mia
pazienza
era giunta al limite e quella dannata foto doveva venir fuori. Sentii
le mie
dita fare presa sul vetro duro, liscio e ghiacciato della cornice, e
tirai con
tutta la forza che avevo.
Parecchi tentativi
e una decina di bestemmie dopo, riuscii ad estrarre la fotografia, non
prima di
averla fatta cadere e di aver fatto un’ulteriore bestemmia
per essermi tagliata
leggermente la mano con la cornice in vetro.
La girai, per
vedere quale immagine contenesse, e non potei fare a meno di sorridere.
Dopotutto, lo sforzo era valso a qualcosa.
Si trattava di una
foto di me da bambina e di mio padre, forse una delle poche fotografie
che
avessi mai fatto insieme a lui. Avevo un buffo capellino di baseball
sulla
testa e facevo il segno della vittoria alla fotocamera, mentre mio
padre mi
reggeva, sorridente anche lui.
Lucidai la
superficie della cornice con la manica della felpa, per togliere quel
po’ di
polvere che si era depositata sopra, e la appoggiai vicino ai miei
altri
ricordi d’infanzia, sulla mensola bianca di fronte al letto.
A
proposito del letto…
Presi di corsa il
cellulare dalla coperta su cui l’avevo poggiato, e sperai che
Gabriel non
avesse riattaccato.
“Gabriel?”
“Ehi. Avevo
incominciato a pensare che fossi morta.”
“Beh, grazie per l’augurio parte
seconda.”
“Cazzo,
scusami,
lo sai che non intendevo quello che tu pensi io
intendevo…”
Soffocai a
malapena una risata. “Sì, tranquillo. Quindi,
vediamo se ho capito bene.
Nonostante ci fossimo messi d’accordo che dovevamo andare a
scuola insieme con
la tua macchina, mi hai appena telefonato per dirmi che mi dai buca e
che
dobbiamo andarci con la mia, di macchina, perché un albero
ti ha provocato e tu ci sei andato
a sbattere accidentalmente contro,
giusto?”
“Ma
è stato
davvero un incidente, non sto tentando di
giustificarmi…”
“Gabriel.” Lo fermai, prima che si facesse prendere
dal panico e incominciasse
a divagare. “Giusto?” Ripetei.
“Sì,
giusto.”
Sospirò.
“Bene.”
Guardai l’orologio.
“Tra cinque minuti sono da te, tranquillo.”
“Ok, grazie
mille.”
Disse, e chiusi la chiamata con uno sbuffo.
Afferrai
velocemente il giubbotto dalla spalliera della sedia, presi le chiavi
nella
tasca destra e andai altrettanto velocemente verso la porta, per uscire.
Appoggiai la mano
sulla
superficie fredda della maniglia dorata ma, prima di abbassarla
completamente,
mi girai.
Come se ci fosse
stata una specie di calamita, alzai lo sguardo verso la foto con mio
padre, e
incominciai a parlarci, senza un vero motivo preciso. “Senti,
non guardarmi così,
ok? Lo so che, dopo tutta la fatica che ha fatto ieri per aiutarmi,
andarlo a
prendere con la mia macchina è il minimo che possa fare,
però, accidenti…poteva
almeno avvisarmi prima, no?”
Restai in silenzio
a fissare il sorriso immobile di mio padre, quasi mi aspettassi una
risposta. La
scena sarebbe stata quasi comica, se non fosse stato per il ritardo.
“E va bene,
ma ne
riparliamo quando torno.” Dissi, girandomi di nuovo e uscendo
dall’appartamento.
Andai vicino
all’ascensore
e schiacciai il bottone rosso, sperando che fosse libero e che qualcuno
non
avesse prenotato prima di me.
Fortunatamente,
nell’ascensore non c’era nessuno e potei scendere
in fretta al piano terra,
pronta per andare a prendere Gabriel.
Parlare
da soli è il primo sintomo della pazzia, pensai. Chissà che non sia un segno.
Pov Evan
“Aaaaah!”
Mi
svegliai di soprassalto, spalancando gli occhi e cercando di far
fermare i
battiti impazziti del mio cuore.
Un rumore
assordante di vetri rotti mi aveva strappato al sonno, e questo poteva
dire
soltanto una cosa: sarebbe stata una giornata di merda.
Infatti, mi
giravano sempre le palle se non riuscivo a svegliarmi da solo o,
peggio, se a
svegliarmi era un rumore particolarmente fastidioso.
Sbuffai
pesantemente, sentendomi la testa girare.
Già,
pensai, proprio una giornata di merda.
Ancora con la
canottiera addosso, mi preparai un caffè, con estrema
lentezza, per rendere l’impatto
con la realtà meno traumatico.
Poi,
all’improvviso,
lo squillo acuto del mio cellulare mi fece sobbalzare. Di nuovo.
Lessi il numero
sullo schermo, e mi sorpresi di vederlo scritto proprio lì.
“Mamma…”
Uno
sbadiglio improvviso mi fece interrompere la frase per tre secondi
“…perché mi
stai chiamando?”
“Come
perché? Sei
già pronto?”
“Ma certo
che…”
Altro sbadiglio “…Sono pronto. Perché
non dovrei esserlo?”
“Oh, va
bene, era
giusto per sapere. Beh, io vado a lezione, visto che sono le otto.
Buona
scuola.” Disse, e chiuse la comunicazione.
“Sì,
sì, buona
lezione.” Blaterai alla linea chiusa, ancora assonnato.
Presi la tazza di
caffè
e trangugiai la bevanda bollente in un sorso, scottandomi la lingua.
“Ahi!”
Forse per la
scottatura,
o forse perché il mio cervello aveva finalmente deciso di
mettersi in moto, mi
resi improvvisamente conto di quello che aveva detto mia madre.
Erano. Le. Otto.
E io stavo ancora
in canottiera e boxer!
Posai la tazza di
caffè
da qualche parte, non mi resi neanche bene dove, e mi vestii con gli
stessi
vestiti di ieri, non avendo il tempo di trovarne dei nuovi.
Mi infilai alla
bene e meglio i calzini, le scarpe e i jeans, cercando di chiudere la
zip
mentre sbattevo la porta di casa e picchiettavo furiosamente contro il
bottone
rosso dell’ascensore.
Cazzo, era
già
occupato!
Scesi più
in
fretta che potei gli scalini, stando attento a dove mettessi i piedi e
pregando
di non fratturarmi una gamba, mentre provavo a infilarmi la maglietta.
Sono
nella merda, sono nella merda, sono nella merda!, continuavo a
sussurrare, furioso con
quel rumore di vetri rotti che non
mi
aveva svegliato in tempo e con chiunque avesse occupato
l’ascensore.
Mi misi a correre
disperatamente, e pregai con tutte le mie forze di riuscire ad arrivare
a
scuola in meno di cinque minuti… almeno vivo.
Pov Avril
Il tragitto dalla
casa di Gabriel a scuola fu breve, come al solito.
Nel corridoio, mentre
cercavo di non pensare al bruciore per il piccolo taglio alla mano,
stava
blaterando ancora qualcosa a proposito delle foglie secche che erano
andate a
finire dentro i suoi capelli la sera del suo accidentale incidente,
come l’aveva
definito lui, e io mi limitavo ad annuire o a scuotere la testa, a
seconda dei
casi.
Non gli prestavo
molta attenzione, ma a lui sembrava non importare più di
tanto.
Mi salutò
quando
raggiungemmo gli armadietti per andare ad assistere alla lezione del
professor
Conwell, di scienze della comunicazione.
Io lo salutai con
un cenno, pensando che finisse lì. Invece, sorprendendo
forse anche se stesso,
mi si avvicinò e mi abbracciò stretta a lui.
Delle volte, avevo
la sensazione che non fossi mai abbastanza, per lui.
Appena si
staccò,
mi sorrise stentatamente e mi salutò con un imbarazzatissimo
“ci vediamo dopo.”
Lo vidi
allontanarsi, e così aprii il mio armadietto, per prendere
tutto l’occorrente
per affrontare quell’altra giornata scolastica.
Mentre ero con la
testa completamente china sui libri che dovevo portare con me, sentii
un rumore,
che mi fece sobbalzare, vicinissimo a me. Credevo si trattasse di uno
sportello
di un armadietto che andava a sbattere contro il metallo.
Alzai la testa,
per vedere chi o cosa fosse la causa di quel rumore, e…lo
vidi.
Aveva la canotta
fuori dai jeans, i capelli tutti disordinati e
un’inequivocabile espressione di
nervosismo sul viso.
Un piccolo
desiderio di vendetta si impossessò di me.
Presi i libri
dall’armadietto,
lo richiusi e sorrisi sadica. “Passata una bella notte di
fuoco, Taubenfeld?”
Al sentire la mia
voce, le sue spalle si irrigidirono e i suoi occhi si spalancarono.
Spostò lo
sguardo
su di me e tutta la sua tensione si sciolse in un sorriso. Il problema,
però,
era che sembrava più sadico del mio. “Tu, invece,
ti sei data al taglio di
lametta, Lavigne?” e fece un cenno del capo, indicando il
piccolo taglio ancora
rosso sulla mano.
Brutto stronzo,
figlio di…
Lo superai ed
andai dritta in aula.
L’ultima
cosa che
quel verme si meritava era di avere la soddisfazione di ricevere una
mia
risposta.
***
Salve a
tutti.
Allora,
ho da
dirvi due cosucce.
La prima:
ancora
una volta, scusatemi per il ritardo con cui sto aggiornando. Ho cercato
di fare
il prima possibile, e non so se sia venuto fuori un capitolo leggibile.
La
seconda è che…
se vi siete chiesti (ma dubito) che fine abbia fatto la fanfiction
“Remember Me”,
devo dirvi che l’ho cancellata.
Alcune
cose e
alcune persone mi hanno fatto capire che non ce la facevo, e quindi ho
preferito concentrarmi solo su questa.
Bene, ho
finito.
Al
prossimo
capitolo ^-^
Cruel
Heart.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 7 *** A really bad figure ***
A
really bad figure - Una
figura veramente pessima
Pov Avril
La
mattinata era trascorsa
senza troppi problemi, fatta eccezione per quel piccolo
incidente mattutino.
Dio,
se solo ci ripensavo…
Come
si permetteva lui di prendermi in
giro su un
argomento così delicato, oltre che totalmente fuori luogo?
Dalla macchina che guidava
l’altro giorno, pensai, deve
essere ricco.
E
poi, quell’atteggiamento
così arrogante, come se tutto gli dovesse essere dovuto. Schifosamente ricco.
Scommetto
che si ritrova i
maggiordomi anche dove alloggia, nel campus. Ed è per questo
che si ritrova a
stare insieme ad un essere talmente ignobile come Nicole Fear. Schifosamente e disgustosamente ricco.
La
campanella delle ore 14:00
suonò, e tutto il corpo studentesco si riversò
nel corridoio.
Sembrava
come se ogni
studente – alto, basso, con i capelli neri o marroni, qual
era il suo aspetto
fisico non importava – fosse
una macchia
indistinta all’interno di un grande gruppo scalpitante e
urlante.
Di
solito trovavo confortante
tutta quella confusione, perché mi permetteva di diventare
un’altra macchia
indistinta e di sparire nell’indifferenza. Adesso,
però, non era così.
Dovevo
trovare Gabriel e
chiedergli se volesse trascorrere un pomeriggio insieme a me.
Ultimamente,
tra il trasloco
e l’università, il tempo passato a fare cretinate
– come giocare a Call Of Duty
o, ancora meglio, imitare la voce acutissima di Judy quando si
infuriava – si
era notevolmente ridotto.
E
non volevo assolutamente
che fosse così.
Mi
alzai sulle punte –
l’altezza non era mai stata il mio forte – e cercai
i suoi capelli a spina tra
le centinaia di teste che avevo davanti a me. Niente.
Diedi
un’occhiata sommaria
dietro di me, ma non riuscii ad individuarlo.
A
suon di gomitate e di “permesso”
o “scusami tanto, non ti avevo visto”, mi diressi
in segreteria. Speravo di
riuscire a trovarlo almeno lì.
Il
mio intuito non aveva
sbagliato, infatti. Fissava con occhi incuriositi la bacheca della
scuola, e
sembrava particolarmente interessato a un foglio di carta e…
al suo cibo.
Stava
mangiando un doppio
cheeseburger con un salsa dal colore e dalla provenienza ignota. Per
fortuna.
“Ehi
Gab.” Dissi,
avvicinandomi a passi svelti verso di lui.
“Ehi.
Cavolo, lo fai che il
campuf è ftato fondato nel 1882? Ed è il fecondo
campuf più antico dell’intera
California!”
“Mi
fa piacere saperlo.” Lo
interruppi, prima che potesse buttarsi a fitto in un resoconto
dettagliato
sulla storia dell’UCLA. Diedi un’occhiata veloce ai
fogli e agli avvisi appesi
sulla grande bacheca. “Comunque, ti stavo cercando.”
“Ah.”
Disse, ingoiando un
pezzo del cheeseburger. “Come mai?”
“Beh,
volevo chiederti se ti
andasse di…” Il mio sguardo venne attirato da un
volantino celeste, più
precisamente dalla prima parola che era stata stampata su di esso.
Afferrai
Gabriel per una
spalla e lo feci posizionare proprio di fronte al volantino appeso.
Poi, con
uno sguardo eloquente, gli ordinai:”Leggi!”
Strabuzzò
gli occhi, ma
l’espressione della mia faccia lo convinse a leggere ad alta
voce. “GIORNALISMO:
Siete interessati ad una carriera giornalistica? Volete cominciare
subito a
muovere i primi passi nel mondo delle notizie e della carta stampata?
Venite
subito a fare un piccolo colloquio con la professoressa Sullivan, la
direttrice, e il vostro sogno potrà essere realizzato. Tutto
dietro un cospicuo
compenso, ovviamente! Ma che fate, siete ancora lì? Salite
subito al quarto
piano, presto!”
Guardò
verso di me, per poi
guardare il volantino e ripetere almeno cinque volte la stessa
operazione.
Io,
invece, ero già in preda
all’eccitazione più totale.
“Gabriel!
Hai capito che vuol
dire questo, vero?”
“Che
sei stata colpita da un
attacco improvviso di analfabetizzazione e non sei in più in
grado di leggere?
Sì.”
“Ma
no, scemo. Il giornalismo.”
Una
scintilla si accese nei
suoi occhi, e capii che aveva capito. “Vuoi dire che andrai a
fare il colloquio?”
“Esattamente.”
“Ma
perché lo fai? Voglio
dire, non hai mai avuto una passione di questo tipo.”
“Beh,
è molto semplice. Più
soldi, più indipendenza da Judy.”
“Wow,
che schifo.” La sua
faccia si contrasse in una smorfia di sdegno.
“Non
venire a dirlo a me”
“Va
bene, ma… come farai a
superare il colloquio? Non hai neanche un briciolo di
esperienza.”
“Grazie
per
l’incoraggiamento, Gabriel. Vorrà dire che
m’inventerò qualcosa.” Conclusi il
discorso, facendo spallucce.
Andai
verso la rampa e salii
le scale. Non avevo tempo di aspettare l’ascensore e non
volevo assolutamente
perdere minuti preziosi, anche se, in realtà, avevo molta
paura di fare una
figura pessima.
L’inventiva
era sempre stata
una parte fondamentale della mia vita, ma, risentendo la voce di
Gabriel nelle
orecchie, non avevo neanche un briciolo di esperienza.
Sullivan,
pensai. Un cognome che trasmette
autorità
e potenza, senz’altro. Chissà quanti anni
avrà.
Una
volta arrivata al quarto
piano – con il fiatone, ovviamente – esplorai
l’ampio corridoio che mi si
stagliava davanti, alla ricerca dell’ufficio della
professoressa Sullivan.
Gould, Hamilton, Cooper,
Dunn… Sullivan, finalmente.
Bussai,
improvvisamente
nervosa, ma non ci fu bisogno di aspettare una risposta: la porta era
socchiusa.
La
dischiusi leggermente, e
restai perplessa.
Non
era un ufficio, anzi.
Sembrava… una vera redazione,
con
tanto di stampanti per la tipografia.
Vidi
un ragazzo alto, con i
capelli scuri arruffati, che teneva in mano dei fogli e li leggeva
velocemente.
Poteva avere la mia età, o forse un annetto in
più.
Tutto
in lui gridava “SONO
OCCUPATO, LASCIAMI STARE”, ma lo salutai lo stesso, con un
sorriso.
“Ciao.”
Mi
degnò appena di
un’occhiata, prima di ritornare a guardare i suoi fogli e di
sussurrare:”Ciao.”
Wow.
Un inizio incoraggiante.
“Ehm…
sto cercando la
direttrice, la professoressa Sullivan. Vorrei fare un colloquio per
entrare in
redazione.”
Rialzò
nuovamente gli occhi,
questa volta con un’aria più comprensiva sul
volto. “Guarda, ti dico la verità.
Oggi non è proprio giornata. La professoressa Sullivan ieri
ha incominciato una
nuova dieta, quindi è nervosa.” Il mio sorriso
svanì di colpo. “E le ragioni
sono due: o perché non ha mangiato, oppure perché
ha mangiato qualcosa e ha
rotto la dieta.” Sospirò, come se fosse stanco.
“Comunque sia… se la cerchi, è
nel suo ufficio, lì in fondo.” Mi disse, e mi
indicò la direzione con un dito.
“Beh…grazie.”
Gli risposi.
Ero stato gentile, nonostante adesso mi avesse messo addosso una voglia
immane
di scappare.
“Di
nulla.” Rispose, e tornò
ai suoi fogli.
M’incamminai
a passo incerto
verso l’ufficio della professoressa, immaginandomi come
sarebbe stato il suo
aspetto fisico.
Di
sicuro sarebbe stata sulla
cinquantina, magari con quegli occhiali da lettura che non si usano
più. E
anche un po’ in carne, visto che aveva incominciato una dieta.
Bussai
contro la porta in
vetro, e una voce potente, quanto ferma e decisa,
parlò:”Avanti.”
Aprii
la porta, e osservai la
figura a cui apparteneva quella voce. Era una donna bionda e alta,
sulla
trentina, e indossava un tailleur nero che le stava alla perfezione.
Aveva lo
sguardo fisso sul monitor del computer, ma l’attenzione per
il nuovo intruso –
me –, le aveva fatto distogliere lo sguardo.
Non
somigliava per niente
alla mia descrizione, sembrava più un avvocato che una
giornalista.
“Ehm,
mi scusi, ma mi avevano
indicato che questo era l’ufficio della professoressa
Sullivan, ma a quanto
pare devono essersi sbagliati. Scusi ancora per il disturbo.”
Dissi, e feci per
girarmi verso la porta.
Lei,
però, sconvolgendo ogni
mia aspettativa, mi sorrise. Nonostante la sua espressione
rassicurante, c’era
qualcosa che non andava, nel suo sorriso.
“Prego,
nessun disturbo.”
Strinse improvvisamente gli occhi, e il suo sorriso svanì,
esattamente come
aveva fatto il mio pochi istanti prima. “La professoressa
Sullivan sono io.”
…
.
. .
“Oh.”
OH. SUL SERIO?! È
L’UNICA COSA DECENTE CHE RIESCI A DIRE?!
“Sei
venuta per il colloquio,
immagino. Vero?”
Annuii
lentamente. Il mio
cervello doveva ancora elaborare ciò che era successo.
“Bene.
Direi che, dopo questa
tua penosissima caduta di stile, puoi anche sederti e incominciare a
parlarmi
di te.”
Le
mie gambe ubbidirono
immediatamente, come se avessero ricevuto il comando dal cervello di
qualcun’altro.
Il suo, pensai, desiderando come non
mai di farmi piccola piccola in quella sedia enorme.
“Allora…
come ti chiami?”
“Avril
Ramona Lavigne,
signora.”
“Mmh,
nome doppio. Descrivi
un po’ la tua vita.” Disse, incrociando le mani.
Mentre
il mio cervello
pensava “MA PERCHÉ CAVOLO SONO VENUTA
QUI?!”, la mia bocca rispose:”Beh, ho
diciotto anni, e inizialmente vivevo con la mia matrigna, ma adesso
vivo nel
campus, e…”
Mi
interruppe subito.
“Matrigna? Tuo padre si è risposato?”
“Sì,
quando avevo otto anni,
signora.”
“E adesso lui
è felice?”
“Sì…
credo che lassù, lui lo
sia.” Risposi, sorridendo appena. La vergogna per la
figuraccia di prima se
n’era leggermente sbiadita, con il ricordo di mio padre
“Capisco.
Nonostante la tua
pessima figura di poco fa, mi dispiace.” Ed ecco che
ritornava… “Comunque, hai
mai avuto rapporti con il giornalismo?”
“No,
signora.”
“Niente?
Zero? Neanche un
articolo.”
“N-no.”
Dissi, abbassando lo
sguardo. Ed ecco la situazione in cui mi ero vietata categoricamente di
pormi,
quella in cui arrivava la domanda “E allora che ci fai
qui?”
La
risposta oscillava tra un
“Ho bisogno di soldi” a un “Voglio
liberarmi di mia madre.”
Inaspettatamente,
invece,
andò subito al punto, con una
sensibilità… a dir poco sorprendente.
“Dunque…”
Accavallò le gambe, brutto segno. “Sarò
sincera con te.” …Pessimo segno. “In un
giornale universitario, la rubrica della posta è quella
più letta, quindi per
me è un lavoro molto importante. Ora… tu non hai
mai avuto nessun tipo di
approccio, quindi, diciamoci la verità, per quale motivo
dovresti entrare a far
parte della mia squadra? Per cui, direi che possiamo chiuderla qui.
Arrivederci.”
Il
mio cervello non pensava a
niente, e non voleva neanche farlo. Era semplicemente vuoto.
“Arrivederci.” Dissi, con voce incrinata, e forse
fu la
consapevolezza di essere vicina al pianto, che mi diede la forza di
controbattere. “Sa, ha ragione, quando dice che non ho mai
avuto nessun tipo di
rapporto con questo mondo, dove, a quanto a pare,
l’esperienza conta più di
ogni altra cosa. Non sa, però, che nei miei
diciott’anni di vita ho sempre
cercato di dare tutto per gli altri. Ma adesso basta, adesso voglio
dare
finalmente qualcosa per me stessa. Qualcosa in cui credere veramente, e
che
veda soltanto me al centro di tutto. Qualcosa in cui metterci
l’anima.
Arrivederci.” Mi alzai dalla sedia, con un miscuglio di
emozioni dentro, ma,
nonostante questo, riuscii ad uscire dall’ufficio a testa
alta.
I
miei passi si rincorrevano
veloci, volevo solo uscire di lì e ritornare nel mio
appartamento per poter
finalmente piangere.
“Lavigne.”
I
piedi si immobilizzarono, e
mi girai lentamente, quasi a rallentatore.
La
professoressa Sullivan era
in piedi di fronte alla porta in vetro del suo ufficio, e mi sorrideva
tranquilla.
“Forse
sono stava un po’
troppo frettolosa, nei tuoi confronti. Ti va di parlare ancora un
po’?”
Invece
di rispondere,
abbassai un po’ la testa, e andai verso di lei.
Aprì
la porta e me la tenne
aperta, invitandomi ad entrare.
Ognuno
si sedette al proprio
posto, solo che, stavolta, la professoressa Sullivan continuava a
sorridere.
“Allora, il nostro settimanale si occupa, logicamente,
dell’universo dei
teenagers nelle sue varie forme. Questo significa, in pratica, che
dobbiamo
stare dietro a tutto. Nuove tendenze, moda, attualità,
tecnologia, personaggi
famosi, appuntamenti, primi amori… cose di questo
tipo.”
“Capisco.
Loro…” dissi,
indicando tre ragazze e lo stesso ragazzo che avevo salutato prima.
“…Sono la
sua redazione?”
Rimase
alquanto sorpresa nel
constatare che anch’io riuscivo a condurre una conversazione.
“Sì. Se vuoi, te
li presento velocemente.” Annuii alla sua proposta.
“Quella ragazza con i
capelli viola è Maya. Si occupa di cinema, qualche volta
teatro, appuntamenti
mondani… la cosa che mi preoccupa di più di
quella ragazza è che ogni volta che
va a qualche evento, ritorna con un nuova fidanzato. Ma forse ha
già capito
come va la vita, vero?” Poi, indicò la seconda
ragazza.
“Accanto
a lei, la ragazza
che sembra essere scappata da una fiera per nerd è Helena.
È sempre stata
chiusa nel suo mondo, nel caso te lo stessi chiedendo. Lei si
occuperebbe di
viaggi nelle mete preferite dei giovani, ma gli unici viaggi che compie
sono
quelli per andare in fumetteria.
Quella
lì in fondo, invece, è
Kate. Si occupa di moda, trucco, fitness… È
arrivata da poco, e non ha ancora
legato bene con il gruppo. Credo sia la classica ragazza un
po’ perfettina e
con la puzza sotto il naso, ed è incredibile quanto sia
straordinariamente
magra, non trovi?”
Mi
ritrovai a chiedermi se la
nota di fastidio era veramente presente nella sua voce, o se me
l’ero
immaginata io.
“E
poi, c’è l’unico maschio
della redazione, Michael, il nostro grafico con la fissa del football.
Spero
che, alla fine della sua esperienza con noi, sia l’unico
essere umano maschio a
capire le donne, in un futuro.” [Glaphy, non preoccuparti,
ogni riferimento è
puramente non casuale]
Poi,
senza mai smettere di
sorridere, si girò verso di me. “E
adesso… veniamo a te.”
Deglutii,
improvvisamente a
disagio. “Cosa devo fare?”
“Mi
servono informazioni,
statistiche, tutto ciò che puoi raccogliere su che cosa fa
scattare negli
adolescenti la scintilla dell’innamoramento. Per fare questo,
però, devi andare
nel tuo appartamento, accendere il computer e iscriverti al social
network
interno al campus. Dovrai spacciarti per una persona che non se, ovvero
la
classica ragazza comune dell’UCLA. Per cui, cheerleader,
musica pop e stupidi
libri rosa. Nessuno deve anche minimamente sospettare che tu sia una
giornalista sotto copertura, chiaro?”
Annuii.
Mi sembrava di essere
in uno di quei film di James Bond.
“Poi,
dopo che hai raccolto i
dati, mi porti tutto il materiale, ok?”
“Va
bene, signora.”
Mi
alzai dalla sedia, con un
sorrisino trionfante sulla faccia, e imboccai il corridoio per andare
alla
porta.
“Ah,
Lavigne?”
“Sì?”
“Signora
mi fa sentire più
vecchia di quanto non sia. Chiamami Ada.”
***
Una
volta giunta a casa, ero
talmente felice che urlai di gioia.
Il
momento di felicità, però,
si estinse quasi subito.
Avevo
un compito da svolgere,
e volevo già incominciare a svolgerlo..
Accesi
il computer e,
impaziente, entrai sul sito, e seguii perfettamente le istruzioni della
professoressa Sullivan, cioè di Ada. Completai il profilo, e
sembrava veramente
l’account di qualcun altro.
Qualcuno
di totalmente vuoto
e superficiale.
Per
questo, volli inserire,
nello spazio apposito, la citazione più adatta alla
situazione: Nascondi chi sono, e aiutami a
trovare la
maschera più adatta alle mie intenzioni.
Neanche
due secondi dopo
averla scritta, mi arrivò un piccolo avviso lampeggiante.
Era
la mia prima notifica.
Un
messaggio.
***
Salve, bella gente.
Allora, vi piace
questo capitolo un po’ più lunghino?
Mi raccomando, vi
voglio tutti attivi per il prossimo. Ci sarà da divertirsi
^-^
Ah, a proposito, mi
sono iscritta ad Ask! *Coincidenze? Io non credo*
Questo è il
mio
account: http://ask.fm/ShiningBlackStar
Rispondo anche alle
domande anonime, ovviamente.
Bene, ci si vede al
prossimo capitolo!
Cruel Heart.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 8 *** What goes around, comes around ***
What goes around, comes around – Chi la fa, l’aspetti.
Pov Evan
Trecentocinquantasette,
trecentocinquantotto,
trecentocinquantanove…
Stavo
contando le
innumerevoli mattonelle che distanziavano l’entrata della
mensa dal bancone
dove venivano serviti i “piatti”.
La
fila era come al solito
lunga… e straziante.
La
noia, mentre aspettavi il
tuo turno, ti opprimeva in modo disumano, ma, allo stesso tempo, non
potevi
distrarti un attimo che qualcuno ti fregava il posto.
Tenere
a mente il numero
delle mattonelle era un modo come un altro per sopravvivere al fastidio
di
muoversi un millimetro al minuto.
Mentre
stavo avanzando con il
mio conteggio, sentii un leggerissimo picchiettare sulla mia spalla
destra.
“Ehm,
ehi, potresti farmi
prendere il tuo posto, per favore? Sai, com’è,
sono in ritardo per le lezioni
pomeridiane, e…”
Un
ragazzo occhialuto e con
in mano un pc cercava di attirare la mia attenzione.
Lo
osservai per due secondi:
capelli disordinati, occhiali spessi, camicia fuori dai jeans e aria di
uno che
aveva compiuto chissà quale sforzo per pronunciare una
semplice frase.
Nella
mia mente si compose
un’unica parola. Sfigato.
La
classica maschera di
superiorità s’impossessò di me e del
mio viso, che s’indurì.
“No,
non lo so. E adesso, se
vuoi scusarmi…”
Tornai
a guardare dritto
verso di me, ignorando l’espressione rassegata del
quattrocchi.
Certo,
avrei potuto farlo
passare, ma Evan David Taubenfeld non si abbassava di certo a questi
livelli di
gentilezza.
Ero
arrivato alla
cinquecentotrentottesima, quando una voce stridula, quanto insistente,
arrivò
alle mie orecchie.
Anzi…
più che arrivarci, le
mandò direttamente K.O. per qualche secondo.
“Evaaaaan!”
Non
ebbi nemmeno il tempo di
girarmi, che mi ritrovai addosso, o meglio, sulle labbra,
l’uragano Nicole.
La
parola uragano le si addiceva
particolarmente.
I suoi occhi verdi erano sempre scocciati, come se tutto le dovesse
essere
dovuto, ma riusciva a sorprenderti nei momenti più
inaspettati. O, la maggior
parte delle volte, in quelli meno opportuni.
Sentii
la sua lingua premere
contro l’entrata della mia bocca, e acconsentii al suo gesto.
Le
sue mani premevano sulle
mie spalle, come per farmi abbassare e farmi arrivare alla sua stessa
altezza,
e fecero avvicinare la mia testa ancora di più alla sua.
Un’altra
cosa: i baci con
Nicole erano violenti. Nel vero senso della parola.
Mi ritrovavo sempre graffi e lividi sulle
parti del corpo più inaspettate.
Di
solito, tutto questo suo
impeto mi eccitava. E lei lo sapeva benissimo.
Appena
si staccò, si leccò
leggermente il labbro superiore, per poi sorridere.
Qui
c’era qualcosa che non
andava.
“Beh,
come è andata la
giornata, amore?”
…
No,
un attimo.
Come
è andata la giornata?!
Ma
soprattutto, amore?!
In
questi mesi, stando con
Nicole, avevo capito che per lei, per quanto baciasse bene e tutto il
resto,
interessarsi degli altri rappresentava una rarità.
Tutte
le ragazze di questo
maledettissimo campus pensavano solo a se stesse, ai loro smalti e ai
loro
coloratissimi pon pon, e Nicole non costituiva di certo
l’eccezione alla
regola.
Non
era colpa sua.
Più
imbarazzato, che veramente
interessato a darle una risposta, dissi:”Tutto bene,
credo.” Non le chiedere il motivo,
comportati
normalmente, come se niente fosse…
“Perché?”
Mi
morsi ferocemente la
lingua, sentendo affluire un po’ di sangue.
Adesso
Nicole sarebbe partita
con la solita solfa del “siamo una
coppia, è normale preoccuparsi tra fidanzati”.
Anche
se poi, in realtà, la
parte dell’ascoltatore preoccupato la facevo sempre e solo io.
Ma
perché non riuscivo mai a
stare zitto, quando dovevo?
Nei
suoi occhi passò un breve
lampo di rabbia.
Poi,
un sorriso, tanto breve
quanto incredibilmente falso, le si dipinse sul viso.
Mi
prese il braccio e si alzò
sulle punte, invitandomi automaticamente ad abbassarmi per porgerle
l’orecchio.
Mi
mordicchiò il lobo davanti
a tutti, e deglutii, tra lo stupore più totale.
Poi,
con voce suadente, mi
sussurrò:”La vedi quella stronzetta del secondo
anno che ci guarda stralunata?
Beh, lei credeva che noi due non stessimo veramente insieme, e
così gliel’ho
mostrato direttamente.”
Si
staccò da me, ed
effettivamente, andando un po’ più in
là con la visuale, vidi una ragazza dai
capelli rossi. Appena incrociò il mio sguardo,
abbassò improvvisamente gli
occhi sulle sue scarpe.
Non
sapevo se alzarle la mano
in segno di saluto, giusto per toglierla dall’imbarazzo, o se
trasformare il
mio viso in una smorfia disgustata per quello che Nicole aveva appena
fatto.
Non
scelsi nessuna delle due.
Me ne stetti così, impalato e con i pugni serrati sui
fianchi, mentre aspettavo
una qualsiasi reazione del mondo esterno.
Pensandoci,
un scusa o un mi
dispiace di averti usato non sarebbe stato male. Affatto.
E
invece, come se non si
fosse resa conto di niente, mi diede un buffetto sulla guancia, e mi
congedò
con un “Ciao, ci vediamo più tardi.”
Quando
sussurrai un flebile
ciao, lei era già scomparsa dietro le grandi vetrate che
davano l’accesso al
cortile del campus.
Ero
così preso da ciò che era
successo, che non riuscivo più a ricordarmi cosa stessi
facendo prima.
Ah,
sì…
Mi
girai, per riprendere la
posizione che avevo tenuto prima dell’interruzione di Nicole.
Ma…
non mi ero minimamente
reso conto che la fila fosse avanzata, e anche di molto. Ero
completamente
uscito fuori da essa.
Strinsi
ancora di più i
pugni, arrabbiato.
Avevo
fatto tanta fatica, per
niente.
Uscii
fuori, per andare a
casa. Ero stanco di stare lì.
L’ultima
cosa che vidi, prima
di oltrepassare le grandi vetrate, fu il vassoio pieno di cibo di un
ragazzo,
che mi sorrideva trionfante.
Era
il quattrocchi di poco
prima.
***
Stavo
tornando a casa, a
piedi.
Il
mio alloggio era
relativamente vicino, per cui non sentii la necessità di
prendere la macchina
per camminare 10 minuti a piedi.
Cosa c’è di
più bello di una passeggiata tranquilla,
mentre i tuoi pensieri ti sommergono?
Un
fulmine improvviso si
stagliò nel cielo, con tutto il suo splendore e il suo
fragore.
Una passeggiata tranquilla sotto la
pioggia,
ovviamente.
Abbassai
la testa, guardando
dritto la punta delle mie converse, e infilai le mani nella tasca della
felpa.
Sentii
i rumori delle scarpe
di un paio di ragazzi che incrociai durante il tragitto: centravano in
pieno le
pozzanghere appena formate.
Coglievo
anche i loro respiri
affannosi, dovuti al freddo portato dalla pioggia inaspettata.
Quasi
tutti, quando alzavo
gli occhi per guardarli in volto, mi guardavano straniti, come se fossi
pazzo.
Probabilmente
era perché non
mi stavo proteggendo con un ombrello, o perché non avevo
tirato su neanche il
cappuccio della mia felpa.
Forse
a loro pareva una
reazione strana, ma a me piaceva camminare sotto la pioggia.
Sentire
l’odore di umido e di
terra bagnata confondersi con l’asfalto, percepire quelle
mille goccioline che
si addentravano nei ciuffi dei miei capelli… mi rendeva
più consapevole del
mondo intorno a me.
Non
volevo far sparire quella
sensazione di consapevolezza, per cui avevo preferito non mettere
barriere tra
me e la pioggia. Un sonetto, che avevo studiato tanto tempo prima, ma
che
continuavo ad amare, mi ritornò in mente.
Tu
dici che ami la pioggia,
ma
quando piove apri l'ombrello.
Tu
dici che ami il sole,
ma
quando splende cerchi l'ombra.
Tu
dici che ami il vento,
ma
quando tira chiudi la porta.
Per
questo ho paura, quando dici che mi ami.
Sorrisi,
e vidi che il fiato
emesso si trasformava in una piccola nuvoletta grigiastra.
Era
incredibile come
Shakespeare riuscisse a fare un ritratto completo
dell’ipocrisia, pur
utilizzando delle frasi banalissime.
Forse,
dopotutto, il suo
genio stava proprio in questo.
Una
volta arrivato a casa, mi
preparai un bel sandwich con ketchup e hamburger, giusto per compensare
ciò che
non avevo mangiato in mensa.
Presi
il piatto con il panino
e accesi il computer.
Un
po’ di svago ci voleva.
Diedi
un morso e aspettai il
caricamento.
Devo decisamente cambiare computer, pensai. Questo
va peggio di una tartaruga incidentata.
Due
panini e cinque minuti
dopo, riuscii finalmente ad andare su internet e a controllare la mia
vita
“sociale”.
Mi
connessi all’ “UCLA
network”, il social - network interno al campus, e cominciai
a vedere i vari
messaggi che mi erano arrivati.
Ce
n’era uno di Jace e uno di
Simon, i miei due migliori amici.
J: Brutto stronzo,
vedi di buttare fuori quelle chiappe pelose dal tuo appartamento e di
venire in
un locale fuori città, altrimenti non rivedrai
più la luce del sole.
S: Ehi amico, come
va? Io e Jace abbiamo scoperto un locale niente male. Vieni a farci
compagnia.
Feci
una smorfia, nel leggerne
il contenuto.
Io e le mie chiappe pelose
rimaniamo qui, grazie per la
non molto allettante proposta.
Copiai
il messaggio e lo
incollai ad entrambi.
Era
incredibile come quei
due, dai caratteri completamente diversi, andassero d’accordo.
Si
divertivano a farmi
ubriacare nei posti più strani e disparati.
Nella
mia mente ho un’immagine
di me e Jace che ballavamo, ubriachi, sul bancone da bar di un locale,
con
soltanto i pantaloni addosso.
Rabbrividii
al ricordo.
Entrai
nella home, e vidi un
po’ dei nuovi iscritti.
Si
trattavano per lo più di ragazze
– i ragazzi erano troppo impegnati a ubriacarsi, come ho
detto prima.–
A
ogni loro foto che vedevo,
e a ogni loro profilo che visitavo, mi deprimevo sempre di
più.
Sembravano
tutte fatte con lo
stampino.
Gli
stessi racconti – dare
loro il nome di libri sarebbe stato
davvero troppo –, gli stessi interessi – piastra e
smalto spiccavano
particolarmente –, e neanche l’ombra di una misera
frase che potessero descrivere
il loro carattere.
Non
era possibile.
Mi
infilai una mano tra i
capelli, nervoso, e provai l’irresistibile impulso di
spegnere il computer.
Poi,
però, mi bloccai.
I
miei occhi avevano notato
una citazione molto interessante, che apparteneva ad una ragazza appena
iscritta.
Nascondi
chi sono, e aiutami a trovare la maschera più adatta alle
mie intenzioni.
Mmh, La Dodicesima Notte.
Sorrisi
tra me e me. Il buon vecchio William colpisce
ancora.
***
Pov Avril
Lessi
il nome del mittente
sul piccolo rettangolino lampeggiante: Sk8er Boi_83.
Che
strano, non conoscevo
nessuno a cui piacessero gli skate.
Devo verificare se Gabriel abbia in
mente qualcosa,
pensai. Poteva
sempre essere opera sua.
Aprii
il messaggio, e ne
lessi curiosa il contenuto.
"Ama, ama
follemente, ama più che puoi e se ti dicono che è
peccato ama il tuo peccato e
sarai innocente."
Conosci
questa
citazione?
Mi
ci volle poco per
riconoscere quale fosse l'origine della frase ma, nonostante questo,
aggrottai
le sopracciglia, sorpresa. Non mi aspettavo certo un inizio di
conversazione
come quello, e da un completo sconosciuto, oltre tutto. Decisi di non
espormi
troppo, nella risposta. Insomma, poteva sempre essere un serial killer
o uno
stalker!
"Ho il
mantello della notte che mi nasconde… però, se
non mi ami, fai pure che mi
trovino. Sarebbe meglio morire per mano loro che continuare a vivere
senza il tuo
amore…"
Romeo +
Juliet,
film del 1996. Certo che lo conosco.
E poi, Leonardo DiCaprio
è un gran figo in quel film, pensai, con la bava alla bocca.
Qualche
secondo dopo, arrivò
la risposta da parte del misterioso interlocutore.
Certo,
scommetto che lo conosci solo perché ci ha recitato DiCaprio.
Sbattei
gli occhi,
stupefatta, e rilessi due volte la frase, per essere sicura di aver
capito
bene. Iniziai a mordicchiarmi il labbro inferiore, come facevo sempre
quando mi
ritrovavo in difficoltà.
Non
è vero!
Però,
purtroppo, mi pentii un
secondo dopo di aver risposto così. Mettersi sulla difensiva
non era mai buona
cosa, per chi si ritrovava ad essere attaccato.
L'attacco è sempre la
miglior difesa,
pensai.
Comunque...
sei
un'appassionata di Shakespeare? Perché dal tuo profilo non
sembra...
Questa
volta avvampai,
totalmente e coscientemente arrabbiata, e puntai gli occhi dritti sullo
schermo.
Senti,
tutto
quello che so è che, per un qualsiasi motivo, non mi devo
certo giustificare
con te. Non solo ho avuto la cortesia di rispondere ad un perfetto
sconosciuto
-arrogante, per giunta-, ma anche la pazienza di non mandarti a quel
paese solo
per avermi dato indirettamente dell'ignorante, quando mi hai chiesto se
conoscessi o no quella citazione. E poi, sei davvero un gran
maleducato. Non
sai iniziare una conversazione civile con un misero "ciao."?
E
già, le ovaie avevano
incominciato a girarmi.
Ciao.
Allora?
Alzai
gli occhi al cielo,
scocciata. Era incredibile constatare quanta arroganza potesse
trapelare da una
sola frase. Non volevo farlo, ma tanto ormai niente di quella
conversazione
assurda aveva senso, per cui... risposi.
Beh... non
saprei come esprimermi, esattamente. Lui non può e non deve
essere descritto
come "una persona che ammiro" o come "il mio autore
preferito". No, è una classificazione troppo limitata.
Shakespeare, per
me, era semplicemente un uomo, punto e basta. Un uomo come tanti, che
però ha
saputo andare oltre i confini della sua epoca e che creava emozioni che
gli
altri non potevano neanche immaginare. Al suo tempo, non aveva
nè gloria, nè
tantomeno soldi, che potessero sostenerlo. Era un uomo ordinario, ed
è questo
ciò che ai miei occhi lo rende magnifico.
Ci
mise un po’ di più a
rispondere, questa volta.
"Mi
accadeva spesso di non riuscire a prender sonno, nel rincasare dopo lo
spettacolo o le prove. Per ottenere qualcosa, bisogna prima imparare ad
entusiasmarsi e a stupire"
Questa
è una
citazione di Mejerchol'd, invece. Era uno dei più grandi
studiosi del teatro
ottocentesco, e considerava Shakespeare quasi alla stregua di una
divinità. Non
era il solo, a quanto pare...
Vuoi dire
che
sbaglio ad ammirare una persona ammirata, a sua volta, da altri
miliardi di
persone?
No.
Voglio dire
che, fatta eccezione per l'arroganza e per il penoso sarcasmo - che
qualche
rarissima volta, purtroppo, mi capita di fare -, abbiamo qualcos'altro
in
comune.
[continua…]
***
Eeeeeeh, salve a
tutti!
Scusate se ci ho
messo tanto ad aggiornare, ma questo capitolo l’ho scritto
davvero con il
cuore.
Spero che vi sia
piaciuto.
Ed ora…
#spammoment
1. Rinnovo il mio
invito ad askarmi ---> http://ask.fm/ShiningBlackStar
2. Vi consiglio
questa versione un po’ più rock di I’m
With You, scoperta per caso. Me ne sono
già innamorata. ---> http://www.youtube.com/watch?v=XglNufVTvRo
Bene, ci vediamo al
prossimo capitolo!
Evaporo.
Cruel Heart.
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=2278398
|