Love the way you live

di AnnabethJackson
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Piccolo messaggio per avvertire della mia non-morte ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 20: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 21: *** Capitolo 20 ***
Capitolo 22: *** Capitolo 21 ***
Capitolo 23: *** Capitolo 22 ***
Capitolo 24: *** Capitolo 23 ***
Capitolo 25: *** Capitolo 24 ***
Capitolo 26: *** Capitolo 25 ***
Capitolo 27: *** Capitolo 26 - Epilogo ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Disclaimer: Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di Rick Riordan; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.
 

Capitolo 1
 

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New York, 12 Luglio
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Fermiamoci un momento a pensare, un tempo abbastanza lungo da poter osservare con attenzione alcuni particolari dell'esistenza di ogni essere umano: esistono dei fattori, suddivisibili a loro volta in tre grandi categorie, che condizionano la nostra vita fin dalla nascita. Come, ad esempio, le esperienze belle, quel genere di vicende che ci rendono euforici, talmente felici da pensare di aver raggiunto l'obiettivo di tutta una vita. Qualcuno in questo momento starà pensando alla nascita di proprio figlio; oppure uno studente starà immaginando se stesso mentre impugna il foglio bianco della laurea.
Ovviamente, come qualsiasi altra cosa al mondo, esiste anche l'opposto, la nemesi di quegli istanti di felicità più assoluta: immaginatevi dunque l'esperienza più brutta che abbiate mai vissuto, quel momento talmente destabilizzante da avervi fatto quasi cadere in depressione. La morte di una persona cara? Lo scoprire che il fidanzato vi tradisce? Insomma, avete capito.
Certo, il mondo non è solo bianco e nero, non si passa dall'essere felici al venire schiacciati dalla tristezza in un battito di ciglia. Se così fosse, i muscoli del nostro viso conoscerebbero solamente due modi di tendersi: sorrisi luminosi e rughe di preoccupazione sulla fronte. Esistono dunque svariate sfumature di grigio – e, no, non mi riferisco di certo a quel libro. Il grigio più tenue che riempie le nostre giornate di noia o di aspettativa: riordinare la stanza, bere una buona tazza di tè ai mirtilli, scambiare due chiacchiere con la propria migliore amica mentre il professore spiega.
Ci muoviamo nello spazio, avvicinandoci o allontanandoci dalle persone; entriamo in relazione con esse, creando dei rapporti, coltivandoli finché questi non diventano più saldi oppure naufragano scomparendo definitivamente; viviamo, seguendo l'andamento della giornata che ci trascina in avanti, verso il nostro inevitabile destino.
Tutto ciò che decidiamo di fare, però, tutte le azioni che compiamo e a cui ci sottoponiamo, ciò che termina con delle ripercussioni sulla nostra persona, ha una prima volta, significativa o meno.
In diciotto anni di vita mai mi ero soffermata veramente a pensarci con coscienza, sviluppando una mia conclusione, ma ricordo ancora tutte le mie prime volte più importanti, una per una, come se le avessi vissute solo ieri. Non sono un genio, ma ho una buona memoria.
Per esempio, ricordo – o meglio, ho una foto – di quando a cinque anni mi cadde il primo dente e corsi da mio padre a mostrarglielo, fiera, anche se una piccola parte di me era leggermente terrorizzata dal sangue.
Poi ci fu quella volta a sette anni, quando caddi a terra nel cortile della scuola ferendomi il ginocchio e un certo Tom Dawkins mi tenne compagnia fino all'arrivo della maestra. Per ringraziarlo, gli diedi un bacio sulla guancia e lui divenne tutto rosso, anche se l'anno dopo non ci siamo nemmeno più rivolti la parola.
La mia prima vera cotta si chiamava Austin Nillson. Aveva lo spazio tra i denti davanti e le orecchie a punta, tanto che quasi assomigliava a un piccolo folletto.
Gli anni passavano e, mano a mano che invecchiavo, per così dire, le prime volte diventavano sempre meno: eppure continuavo a sperimentarne di nuove. Tuttavia, malgrado l'infinità di prime volte che possono esistere – lanciarsi da un deltaplano rientrava in quelle, e anche il baciare una persona del proprio sesso – quelle veramente significative, che ti cambiano la vita, che la condizionano, si possono contare sulle dita delle mani. E, secondo gli ultimi calcoli, a diciotto anni a me ne rimanevano appena una manciata.
Ma quella notte, una mi venne rubata.


 
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«Allora, dolcezza, hai adocchiato qualche bel maschione?» Guardai Piper mentre alzava e abbassava le sopracciglia nel chiaro intento di ammiccare nella mia direzione. Ero così abituata a quel gesto nell'ultimo periodo che nemmeno ci facevo più caso.
Luci verdi, bianche, rosse e gialle si univano in un vortice indistinto seguendo il tempo della musica alta, amplificata dalle due casse all'angolo destro della sala, creando quello che io chiamavo rozzamente un grande casino. Il dj se ne stava tranquillo dietro agli amplificatori, con una mano premuta sulle cuffie attorno al collo e l'altra a schiacciare in successione diversi tasti del monitor che aveva davanti a sé, apparentemente immune al martellante ritmo di quella – scadente – musica pop.
Le maggior parte delle persone se ne stavano stipate al centro della pista, talmente vicine da creare un'unica massa informe di cui non si riusciva a capire dove finisse il braccio di uno e dove iniziasse l'altro. Sudore, paillettes, tacchi alti, drink dagli improbabili colori fluorescenti, minigonne fin troppo mini, top attillati, fumo di sigarette a intasare l'aria già di per sé putrida della stanza... C'era da perderci veramente la testa. E io non comprendevo il motivo dell'euforia che sembrava regnare indisturbata quella sera.
Piper spostò i suoi indomabili capelli dietro a un orecchio con un gesto fluido, portandosi poi il bicchiere alla bocca e bevendo un lungo sorso del drink rosa shocking. Le sue scapole erano imperlate di sudore già da diverse ore; sembrava quasi la rugiada che ogni mattina trovavo sulle foglie del gladiolo fuori dalla finestra della mia camera da letto. Non che avessi un grande pollice verde, ma mi piaceva pensare che invece fosse così.
Senza aspettare una risposta da parte mia – che comunque non sarebbe mai arrivata – indicò ciò che tenevo, inconsciamente, ancora in mano.
«Non è il miglior drink che tu abbia mai assaggiato?»
Abbassai lo sguardo sul bicchiere contenente lo stesso liquido rosa che prima c'era anche nel suo e feci una smorfia. Poche ore prima ero riuscita pure a trovare il coraggio di assaggiarne un goccio per pentirmene l'istante successivo. Il gusto di alcool mi aveva bruciato la gola e per i miei gusti da quasi-astemia era già fin troppo oltre il limite della serata.
«Quanti bicchieri ti sei fatta stasera, Piper?» domandai a un certo punto, aggrottando le sopracciglia. La mia domanda era assolutamente lecita visto il modo in cui Piper già strascicava le parole e l'espressione ebete che compariva sul suo viso ogni volta che sorrideva.
«Due o tre... o quattro. Credo. Penso» disse, parlando più a se stessa che a me, come se il suo cervello fosse stato troppo annebbiato per poter accedere con chiarezza alla sezione “ricordi”. «Il ragazzo del bar me ne ha offerto uno poco fa, ma Jason l'ha sentito. Credo se ne sia pentito» aggiunse poi mettendosi a ridacchiare, mentre si mascherava la bocca con una mano dallo smalto curato in modo maniacale.
Sospirai, consapevole che quel gesto significava che il suo limite di inibizione era già stato, purtroppo, superato.
«Non ne dubito» mormorai, spostando lo sguardo altrove, domandandomi quanto tempo avrebbe impiegato per superare anche la soglia dell'ubriachezza, passando direttamente a compiere gesti folli.
Non ero infastidita, certo che no: dopotutto, Piper era la mia migliore amica e quella non era di certo la prima volta che le facevo da spalla. A lei piaceva divertirsi e io preferivo avere sempre la situazione sotto controllo. Da un certo punto di vista, ci completavamo.
Che ci facevo dunque in quel posto? Dopotutto, in seguito a ciò che era successo con Ethan il mese prima, avevo giurato a me stessa di non prendere mai più parte ad eventi in cui fossero stati presenti anche i miei compagni di scuola. Nemmeno se fossi stata minacciata con una pistola.
Ma Jason compiva i fatidici diciotto anni proprio quel giorno e Piper aveva insistito molto perché uscissi di casa dopo un mese di reclusione auto-imposta. Secondo lei, dovevo smetterla di farmi paranoie alla pari di una zitella depressa e uscire fuori dal mio guscio, per vivere al meglio quelli che secondo lei erano i migliori anni di tutta una vita.
Jason aveva affittato uno dei locali di New York più in voga in quel periodo, invitando tutti i suoi amici e conoscenti, non escludendo proprio nessuno: quando si trattava di organizzare una festa, lui era il migliore. Inutile dire che era uno dei ragazzi più popolari della scuola proprio per questo motivo – e anche perché ricopriva il ruolo di quarterback nella squadra della scuola – e questo, ovviamente, andava a significare che quella sera c'era praticamente tutta la mia, finalmente vecchia, scuola.
Che ci facevo alla festa di uno dei ragazzi più popolari della scuola se nemmeno mi importava di parteciparvi? Beh, malgrado le ovvie conclusioni a cui qualcuno potrebbe arrivare, io e Jason eravamo diventati amici da quando Piper e lui avevano cominciato ad uscire insieme l'anno precedente. Prima d'allora lo vedevo solo durante le ore di biologia avanzata che entrambi frequentavamo, ma non ci eravamo mai rivolti la parola se non in un paio di occasioni in cui era stato strettamente necessario per fini esclusivamente scolastici. Jason impersonava il tipico ragazzo popolare americano: capelli biondi e occhi azzurri, corpo allenato e un sorriso scintillante. Insomma, era il genere di adolescente dietro il cui puntualmente le ragazze corrono dietro.
La mia amicizia con Piper, invece, risaliva ai tempi del primo anno di scuola media, quando lei era ancora una ragazzina bassa con gli occhiali, tutta pelle e ossa. Un giorno, in sala mensa, dopo aver fatto la fila per il pranzo, era inciampata nello zaino di qualche spiritoso ed era caduta a terra portando con sé il vassoio e tutto il cibo. Nessuno l'aveva aiutata ad alzarsi; anzi, quelli che se ne stavano ai tavoli avevano riso di lei.
Io avevo osservato tutta la scena dal fondo della fila e devo ammettere che in quel momento avevo provato un po' di pena per lei: dopotutto, era la ragazza nuova, quella senza amici, con una voce strana e l'apparecchio ai denti. Ma mi faceva pena anche per un altro motivo: anch'io non avevo molti amici e sapevo cosa volesse dire trovarsi al centro dell'attenzione senza desiderarlo. Non era un'esperienza che si ricordava con piacere. Perciò, spinta da un senso di determinazione e dalla volontà di salvarla dall'umiliazione, avevo lasciato la fila, chinandomi accanto a lei e allungando una mano. C'era stato un momento di esitazione nei suoi occhi quando li aveva alzati per guardarmi, come se non fosse stata sicura di potersi fidare, ma poi qualcosa nel mio sguardo doveva averla convinta, così aveva stretto la mia mano con la sua, suggellando metaforicamente l'amicizia che tutt'ora ci legava.
D'allora avevamo imparato a non farci sopraffare, coprendoci le spalle a vicenda. E poi, non molti anni dopo, lei era cresciuta tutta d'un colpo, sia in autostima che in bellezza, diventando la ragazza che ora tutti guardavano con invidia dal loro armadietto la mattina, che salutavano ogni qualvolta la incontravano nei corridoi. Tutto ciò mi rendeva molto orgogliosa, come se fosse stato tutto merito mio, cosa che in realtà era assolutamente falso. Dopotutto, era diventata quel che era contando solamente sulle proprie forze. Al massimo, io l'avevo sostenuta, incoraggiandola ad aprirsi: era nata per essere una di quelle persone che tutti apprezzano senza un motivo preciso.
«Non credere di averla scampata, mia cara. Posso anche aver bevuto un po', ma tu non hai risposto alla mia domanda, signorina: hai puntato qualcuno di carino tra la folla?» domandò, questa volta accompagnando la domanda con un sorrisetto sghembo.
Scossi la testa, esasperata.
«No, e lo sai che non sono qui per questo. Non mi sento ancora pronta per pensare a qualcun altro, Piper... Per un po' non voglio più sentir parlare di ragazzi, okay?» Alzai un braccio, portando il bicchiere alle labbra per bere un lungo sorso del drink. Il sapore amaro non era di certo cambiato magicamente da quando l'avevo assaggiato prima, ma non mi importava.
All'improvviso sentivo l'urgente bisogno di dimenticare.
Per due anni avevo avuto una cotta assurda per un ragazzo che frequentava il mio stesso corso di matematica, un certo Ethan. Non so esattamente cosa fosse stato in lui ad attirarmi. Ripensandoci ora, non era nemmeno troppo bello: con il naso lungo e il mento a punta, il presunto fascino di cui ero caduta in fallo perdeva tutto il suo potere. Ovviamente, come tutte le peggiori e banali storie adolescenziali, lui non ricambiava i miei sentimenti.
Nel corso del tempo, avevo provato in svariati modi a farglielo capire, accettando i suggerimenti di Piper – la quale non sbagliava mai in campo amoroso – ma lui, da perfetto coglione quale si era rivelato essere, era troppo impegnato a correre dietro a quella serie di ragazze con la minigonna e i tacchi. Insomma, un vero e proprio cliché. Inutile dire che poi mi ero sentita la ragazza più stupida del mondo: dalla studentessa migliore del mio anno, non mi sarei mai aspettata un passo falso di proporzioni così epiche.
L'ultimo giorno di scuola superiore in assoluto, tipicamente descritto come il più bello e commovente eccetera eccetera, era per me stato un vero e proprio incubo. La giornata si era svolta con la solita routine, ad esclusione delle lacrime che vedevo sul viso di molti del quinto anno tra un cambio dell'ora e l'altro, finché non avevo deciso di dichiararmi davanti ad un numero non indifferente di persone, così, di punto in bianco. Ethan ovviamente si era messo a ridere, dandomi della stupida e della secchiona.
Che ci fossi rimasta molto male, beh, era scontato.
Piper annuì, consapevole che la mia era una richiesta sincera.
«Va bene, Annabeth. Comunque credo sia mia dovere, in quanto tua migliore amica, avvertirti che un ragazzo molto carino ti sta fissando da un bel po' di tempo» disse sogghignando, per poi accennare con il capo verso qualcuno alla mie spalle.
In tutta risposta sospirai rassegnata. Era evidente che Piper stesse bluffando per cercare di alleggerire la tensione che sicuramente emanavo, ma decisi di girarmi ugualmente, giusto per darle corda.
Con mia grandissima sorpresa, qualcuno mi stava guardando davvero.
Il ragazzo era alto e, malgrado la difficoltà di distinguere un colore a causa della luce nel locale, aveva i capelli di un biondo paglia, non molto lunghi. Se ne stava appoggiato al muro, fissandomi intensamente negli occhi. Indossava dei vestiti scuri, jeans e maglietta, e in mano teneva un bicchiere trasparente, uguale al mio. Malgrado fossi abbastanza brava ad estrapolare i pensieri della gente solo leggendo la loro espressione facciale, il suo volto era una maschera indecifrabile e imperturbabile.
Presi a fissarlo a mia volta, convinta che prima o poi avrebbe distolto lo sguardo a disagio – esattamente come faceva la maggior parte delle persone quando si trovava nella stessa situazione – e, invece, lui fece un cenno con il capo nella mia direzione.
«Pip, chi è quel tipo?» domandai incuriosita, dando una leggera gomitata alla mia amica.
Lei, che prevedibilmente aveva seguito tutta la scena, mi sorrise complice, alzando le spalle.
«È il vicino di casa di Jason. Si chiama Luke, ha venticinque anni e...» Ammiccò. «È single.»
Istintivamente, feci una smorfia di disgusto, consapevole che difficilmente avrebbe mollato il metaforico osso ora che aveva iniziato.
«Pip, te l'ho già detto. Non sono in cerca di un ragazzo. E poi è troppo vecchio!»
Lei non sembrò affatto convinta.
«Se non ricordo male, qualche giorno dopo la fine della scuola hai chiaramente detto di voler qualcuno di più maturo.» Alzò un sopracciglio perfettamente curato, cercando di sottolineare ulteriormente la sua affermazione.
«Sì, l'ho detto, ma... Lascia perdere, è una battaglia già persa in principio con te» mi arresi, stanca di dover ribadire il mio punto di vista per l'ennesima volta. Sapevo che Piper stava solo scherzando: lei era consapevole del fatto che, quando dicevo una cosa, quella era e non c'era verso di farmi cambiare idea se non con delle pertinenti prove di quanto fossi in errore. Ma il motivo per cui mi ero fermata era in realtà un altro: lanciando uno sguardo a Luke con la coda dell'occhio, l'avevo trovato ancora a fissarmi, quasi non si fosse mosso di una virgola.
Eppure con la risposta al sua sguardo e una smorfia volontaria, ero abbastanza convinta di essere stata sufficientemente esplicita nel manifestare un certo fastidio nei confronti della sua ostinazione. Pensavo che, dopo non aver risposto al suo interesse nei miei confronti con qualche stupido sorrisetto o un invito concreto ad avvicinarsi a me, avrebbe finalmente perso interesse, ma così non era stato.
La cosa, oltre a mettermi un po' a disagio, influiva sui miei nervi che ora erano leggermente tesi.
Nel mentre, la musica continuava a propagarsi nella sala senza mai interrompersi; la massa di gente ballava – o meglio, si dimenava – su e giù al centro della pista. Senza troppa sorpresa, mi riscoprii stanca. Non solo di quella festa e del fatto che non mi stessi affatto divertendo: la spossatezza mi coinvolgeva a livello fisico e mentale.
Lanciai un'occhiata all'orologio d'argento che portavo al polso, il regalo di papà per il mio diciottesimo compleanno, e sospirai di sollievo. Segnava quasi la mezzanotte, quindi non era né troppo presto né troppo tardi per andarmene dalla festa, conferendo qualche scusa a Piper che, ne ero certa, se la sarebbe cavata anche senza di me.
«Ehi, Pipes. Senti, sono un po' stanca e comincio ad accusare le ore di sonno che ho perso negli ultimi giorni a causa del programma di preparazione per il college. Ti dispiace se vado a casa da sola?» domandai, abbastanza sicura che buona parte della mia stanchezza derivasse anche dall'intenso studio che aveva occupato le mie ultime giornate.
Ero arrivata a quella festa in compagnia di Piper, la quale mi era venuta a prendere con la sua auto ultra-equipaggiata, ultimo regalino di suo padre per farsi perdonare chissà quale altra assenza da divo di Hollywood. Quindi, anche se io fossi andata a casa a piedi, il problema rimaneva: Piper non si trovava esattamente nelle condizioni idonee per assicurare la sua incolumità nel caso in cui fosse ritornata a casa da sola. E, se fossi stata un'amica davvero molto fedele, probabilmente sarei rimasta al suo fianco fino alla fine della festa, ma quella strana stanchezza mi aveva travolto così all'improvviso e così intensamente che probabilmente gli occhi avrebbero cominciato a chiudersi nel giro di un paio d'ore. Inoltre, con sollievo, ricordai che quella dopotutto era la festa di Jason, il suo ragazzo. Non era forse anche suo il compito di badare a Piper quando lei non poteva farlo con autonomia?
Lei scrollò ancora una volta le spalle, svuotando il bicchiere prima di rispondermi.
«Certo, non ti preoccupare. Qui me la cavo benissimo da sola» disse distrattamente, aggrottando la fronte con lo sguardo rivolto sul fondo del bicchiere di plastica, come se non riuscisse a capacitarsi che il suo drink fosse finito.
Non ero sicura che avesse davvero capito ciò che le avevo detto, ma contai sul fatto che non aveva ancora iniziato a far ondeggiare il bacino a ritmo di musica, chiaro segno del superamento del tasso etilico consentito.
Andai a recuperare il mio maglione dal guardaroba e poi raggiunsi Jason, che era seduto su uno dei divanetti ai lati della pista parlando con un paio di ragazzi della squadra di rugby della scuola. Li ignorai bellamente, appoggiando una mano sul braccio di Jason in modo che si girasse.
«Ehi, Jason. Io sto per andare a casa. Riusciresti per caso ad assicurarti che Piper non torni a casa guidando? Ha bevuto un po' troppo, credo, e non penso sia saggio lasciarla guidare» urlai con la bocca vicina al suo orecchio, cercando di superare il volume della musica.
Lui annuì serio una volta, poi fece un cenno in direzione dei suoi amici e mi disse di fargli strada. Con sollievo, pensai che Jason fosse proprio un bravo ragazzo: Piper doveva ritenersi molto fortunata. Ero consapevole che pochi ragazzi, sopratutto quelli della mia età, avrebbero lasciato tutto e tutti solo per andare ad aiutare la propria ragazza. Dal modo in cui mi aveva guardato, serio e attento, era chiaro quanto tenesse alla mia migliore amica.
Eravamo a pochi passi da Piper, la quale ora si trovava al centro dell'attenzione di alcune ragazze del suo corso di spagnolo, quando incrociai lo sguardo di Luke, sempre fermo nella stessa posizione, il bicchiere stretto in mano e l'espressione imperturbabile. Alzò il suo drink nella mia direzione, sollevando un angolo della bocca in un modo che mi fece innervosire più di quanto non fossi già. In tutta risposta, distolsi lo sguardo, passandomi una mano sull'avambraccio per nascondere i brividi.
Che problemi aveva quel tipo?
Quando arrivammo da Piper, che stava ridacchiando, Jason la prese per un braccio, rivolgendo un sorriso di scuse alle altre ragazze le quali si dispersero, non prima di aver risposto al saluto con un eccessivo sbattimento di ciglia ricoperte da una quantità non quantificabile di mascara scadente.
«Ehi, tesoro. Come stai?» domandò Jason prestando la sua completa attenzione a Piper, mentre avvolgeva le braccia attorno alla figura slanciata di lei. Probabilmente, se non fosse stato per i riflessi pronti e i forti muscoli sviluppati di Jason, Piper sarebbe caduta a terra dopo essere inciampata nei suoi stessi passi.
«Amoreee! Che hai fatto alla faccia? Sembra che qualcuno ti abbia cosparso di brillantini. Sei proprio buffo, lo sai?» Ridacchiando si avvicinò al volto del suo ragazzo e gli diede un sonoro bacio a stampo sulla bocca, prima che lui potesse fare qualsiasi altra cosa. Poi Jason mi rivolse uno sguardo seriamente preoccupato e io mi strinsi nelle spalle.
«Okay, prima di tutto dammi il bicchiere» disse Jason, cercando di rubarle il drink dalle mani. Ma Piper sembrava non volerglielo cedere, visto che lo strinse con più forza e se lo portò dietro la schiena, con un sorrisetto furbo. «Dai, cucciola! Se mi dai quel bicchiere ti regalerò un pony per il tuo compleanno, che ne dici?»
Pensavo fosse un tentativo un po' azzardato e parecchio bizzarro, quasi un insulto alla non poca intelligenza della mia amica, ma funzionò davvero: probabilmente Piper aveva davvero già superato il limite.
«Però non lo voglio rosa. Io odio il rosa. Solo le principesse cattive hanno un unicorno rosa. Io lo voglio con il manto arcobaleno» borbottò dopo qualche secondo, lasciando andare finalmente la presa sul bicchiere. Jason glielo prese con cautela, appoggiandolo sul ripiano del bar lì vicino, per poi avvolgere un braccio attorno alla vita della sua ragazza, la quale distese il viso in un lento, ma raggiante, sorriso in direzione di Jason. Lui si chinò per baciarla e io distolsi lo sguardo, per lasciar loro un po' di privacy anche se, ripensandoci, quella non era di certo la prima volta che si lasciavano andare a effusioni in pubblico: semplicemente, erano fatti così. Per quanto mi riguardava, ero felice che quei due si fossero trovati e che stessero bene insieme. Il resto non contava.
Lisciando distrattamente le pieghe del maglioncino sul mio braccio, alzai una mano per fare un gesto di saluto a Jason e Piper i quali, grazie al cielo, si separarono abbastanza a lungo da rivolgermi un sorriso e un cenno di rimando. Piper, inoltre, mi mandò un bacio metaforico e una strizzata d'occhio, chiaro segno che non ci stava più con la testa: odiava mandare baci all'aria in segno di saluto e congedo come le altre ragazze.
Voltai loro le spalle, uscendo dalla stanza tramite una porta a doppio battente, dietro la quale c'erano due uomini in giacca e cravatta che sorvegliavano l'afflusso di gente ubriaca che era uscita per chiacchierare o per fumare una sigaretta.
Dovevo aver percorso solo dieci metri, quando una strana sensazione mi strinse lo stomaco, come se mi fossi dimenticata qualcosa di importante all'interno del locale. Ma il cellulare l'avevo con me, così come le chiavi di casa, e Piper era là dentro al sicuro, perciò decisi di non badarci e di proseguire.
Di notte New York si trasformava completamente. Subiva una mutazione così radicale che era difficile immaginare che fosse la stessa città descritta nei film, con quella vista dall'alto in cui i grattacieli si confondevano fra loro e le persone correvano verso la loro destinazione senza badare ad altro se non al proprio telefono cellulare. Di notte, New York non era più la Grande Mela, la città del traffico e dei sogni idilliaci; no, era la città delle luci soffuse dei lampioni e del silenzio rumoroso. Il rumore delle macchine, dei clacson, delle ambulanze e della polizia era qualcosa di unico, indescrivibile: poteva essere talmente fastidioso da non riuscire a dormire, ma allo stesso tempo diventava la colonna sonora di tutti i sogni, belli e brutti. Tutto quel rumore entrava da un orecchio, ma dall'altro usciva il silenzio più assoluto, e non c'era bisogno nemmeno di troppa immaginazione. Era così e basta.
Le luci dei lampioni e delle insegne degli hotel illuminavano le strade principali, ma tutto ciò che non stava sui paralleli e sui meridiani principali era avvolto nel buio, come se qualcuno avesse deciso di tracciare la strada più corta e più sicura verso l'uscita da un labirinto.
New York era tutto questo, ma anche molto di più.
Quella sera aveva appena smesso di piovere dopo una settimana di continui acquazzoni e perciò le strade della città erano palesemente bagnate d'acqua piovana. Qua e là, dove l'asfalto del suolo si faceva irregolare, vi erano delle pozzanghere di piccole dimensioni, irregolari, che fungevano da specchio riflettente del cielo scuro. Adoravo inspirare l'odore della pioggia, in particolare negli istanti precedenti e successivi a questo fenomeno atmosferico: l'aria era carica di qualcosa, talmente satura da innescare in me una sensazione di familiarità e, allo stesso tempo, di tranquillità.
Abitavo a soli due isolati dal locale in cui si era tenuta la festa di Jason, una distanza molto ridotta rispetto alla casa di Piper, a Manhattan, ma voleva pur sempre dire camminare per venti minuti a passo spedito, mezzora se procedevo con calma.
Tirava un leggero venticello estivo, l'ultimo rimasuglio del temporale, che mi investiva e mi solleticava la pelle scoperta dai vestiti, quali braccia e buona parte delle gambe, ma ero quasi certa che non fosse quello a mettermi i brividi. C'era qualcos'altro... qualcosa a cui non riuscivo a dare una collocazione precisa, un'identità che mi metteva terribilmente a disagio. Perciò affrettai il passo d'istinto, procedendo alla massima velocità che la gonna corta e i tacchi alti mi permettevano di assumere.
Non era certo la prima volta che mi vestivo in quel modo: mi piaceva indossare qualcosa di prettamente femminile ogni tanto, soprattutto nelle occasioni speciali quali feste e incontri importanti, ma non mi ero mai trovata a rimpiangere la scelta fatta con così tanta intensità. Con un piccolo sospiro, ricordai a me stessa che, se non mi fossi vestita in quel modo, probabilmente Piper non mi avrebbe nemmeno permesso di uscire di casa prima di avermi conciato per bene. I miei piedi imploravano pietà come un condannato messo al patibolo e già percepivo la pelle della parte posteriore della caviglia irritata dove il piede toccava il bordo della scarpa nuova, segno inconfondibile che il giorno seguente mi sarei trovata una vescica.
Stavo passando davanti all'edicola in cui ero solita comprare il giornale la domenica quando, all'improvviso, venni strattonata all'indietro: le paillettes cucite sopra la manica del mio maglioncino erano rimaste impigliate in un'irregolarità del muro frastagliato del palazzo alla mia destra, perciò mi fermai per districarlo e liberarmi.
Non ebbi nemmeno il tempo di accorgermi della sua presenza che sentii una mano appoggiarsi sulla mia spalla.
«Serve una mano?» domandò. La sua voce era bassa, ma talmente potente da entrarmi dentro fino alle ossa. Sobbalzai di riflesso e il mio cuore prese all'istante a battere, talmente forte che il paragone a un cavallo imbizzarrito calzava a pennello. I brividi che sentivo in tutto il corpo erano derivati da quella voce, non poteva essere altrimenti.
Alzai lo sguardo con uno scatto e incrocia due occhi azzurri, limpidi come il cielo malgrado l'oscurità di quella notte, ma inspiegabilmente freddi, tanto che il ghiaccio non sembrava niente a confronto. Ero sempre stata una persona molto loquace: alle parole preferivo gli sguardi. A causa della mia abitudine di osservare ciò che mi circondava e le persone con cui interagivo, con il tempo avevo imparato a cogliere quel qualcosa che molte volte può sfuggire quando si parla con qualcuno. Il comportamento del corpo, il modo in cui una persona si posiziona nello spazio, i gesti che fa, gli impercettibili cambiamenti nell'espressione erano diventati per me indicatori essenziali per comprendere le persone prima ancora che queste parlassero. Quando tutto questo mi era chiaro, le parole venivano in secondo piano. Perciò, quando i miei occhi rimasero incatenati ai suoi un attimo di troppo, riuscii con fin troppa facilità a cogliervi sofferenza e tanta rabbia repressa. Decisi senza alcuna esitazione che non mi piacevano.
La sua mano scorse dalla mia spalla fino al braccio, stringendo la presa impercettibilmente più forte di prima, ma abbastanza forte da fare in modo che io non potessi sfuggire a meno che non mi divincolassi. Aveva le dita lunghe e affusolate.
«No, ti ringrazio. Posso fare da sola, non ti preoccupare» risposi dopo un istante di esitazione, cercando di ritrarmi senza che se ne accorgesse.
Che cosa ci faceva lì? Perché non era alla festa? Oltre a Piper e a Jason, non avevo detto a nessuno che me ne sarei andata a casa, e con il fatto che alla festa c'erano così tante persone, era impossibile che lui mi avesse seguita con lo sguardo per tutto il tempo: ero sicura che non fosse difficile distinguersi tra la folla quindi la domanda sorgeva spontanea. Mi aveva forse seguita per tutto il tempo?
Dissi a me stessa di stare calma e di non partire subito a pensare sempre al peggio solo perché le possibilità che lui se ne fosse andato dalla festa in contemporanea e che dovesse andare nella mia stessa direzione erano davvero ridotte. E se anche la casa di Jason si trovava dalla parte opposta alla mia, poteva sempre essere che Luke avesse parcheggiato la macchina nelle vicinanze, a causa del numero ridotto di parcheggi vicino al locale della festa.
Sorrise arricciando gli angoli dalla bocca, ma quella parvenza di felicità non raggiunse i suoi occhi. Poi tolse la mano dal mio braccio, facendo ricadere il suo lungo il fianco come se si fosse accorto di aver mantenuto il contatto un po' troppo a lungo, ma ciò non tranquillizzò affatto il mio cuore.
«Ero alla festa poco fa, ricordi? Io sono Luke, un amico di Jason» disse porgendomi l'altra mano e attendendo che io facessi lo stesso per stringere la sua. Sul suo volto persisteva quel sorriso strano.
«Sì, mi ricordo... Io sono Annabeth» risposi, ritraendo velocemente la mano. Portai istintivamente un braccio a coprirmi la pancia, chiaro segno indicatore del disagio che stavo provando. «Beh... Ora devo andare. È stato un piacere, Luke.» Mi spostai verso sinistra per superarlo, in modo da poter procedere nella direzione di casa, ma proprio mentre gli passavo accanto, venni bloccata nuovamente dalla sua presa ferrea sul mio avambraccio. Repressi i brividi che sentivo sorgere dal punto in cui mi stava toccando.
«Aspetta. Ti va se ti tengo compagnia per un pezzo di strada? Per una bella ragazza come te, New York a quest'ora non è molto sicura, dovresti saperlo» disse con un'inflessione della voce mai sentita. Percepii la paura più pura prendere il comando del mio corpo testardamente: non riuscivo a capire se a scatenarla fosse stata la sua voce, il modo in cui mi fissava oppure entrambi. Con un sussulto, capii che, in realtà, tutto in lui suscitava in me quella sensazione.
Deglutii, mordendomi il labbro inferiore per cercare di fermare un tremito. Insomma, ero sempre stata una ragazza coraggiosa e diffidente, consapevole della realtà che mi circondava. Non avevo mai avuto problemi nel difendermi dagli altri, in particolare da coloro di cui mi fidavo. Conoscevo le procedure standard per sfuggire a qualsiasi pericolo: papà me le aveva insegnate il primo anno delle superiori, la prima volta che mi vennero le mestruazioni, in modo che potessi sempre difendere me stessa. Nella borsetta tenevo con me una bomboletta di spray al peperoncino e conoscevo anche le basi della difesa personale. E proprio mentre stavo pensando di ricorrere al primo strumento, ricordai che quella sera avevo lasciato volontariamente a casa la borsa, dato che riuscivo a tenere il cellulare e le chiavi di casa nella tasca della gonna.
Scossi mentalmente la testa, cercando di convincere me stessa che non c'era bisogno di pensare subito negativo: dopotutto, l'apparenza molte volte inganna e io lo sapevo bene. «In verità...» cominciai a dire, provando a sbarazzarmi di lui in maniera gentile. Non era giusto che lo giudicassi solo per una sensazione personale, ma preferivo sul serio continuare per la mia strada da sola.
«Dai, permettimi almeno di tenerti compagnia fino al prossimo incrocio! Ho parcheggiato la macchina nelle vicinanze, quindi devo comunque fare quella strada» continuò lui bloccando la mia protesta. Mi rivolse un altro sorriso a cui io risposti aggrottando la fronte, perplessa. Quindi avevo ragione nel pensare che avesse parcheggiato la macchina da qualche parte, ma il fatto che fosse uscito dalla festa proprio nel mio medesimo istante mi lasciava ancora qualche dubbio.
Luke dovette interpretare il mio temporeggiamento come un assenso perché mi sospinse in avanti, cominciando a camminare lungo la strada, fianco a fianco, il mio braccio ora libero.
Lo seguii più per una questione di logica che non perché ne avessi voglia: dopotutto, non avrebbe avuto senso procedere nella stessa direzione facendo finta di non conoscerci. Di certo, non potevo dire di aver sbagliato strada per poi tornare indietro: che figura di bugiarda ci avrei fatto? Perciò camminammo fianco a fianco per un paio di minuti nel più completo silenzio: percepivo il suo sguardo fisso sul mio volto, anche se, quando mi giravo, lui stava guardando davanti a sé. Che fossi davvero ossessionata inutilmente?
Poi, ad un certo punto, lui si fermò all'improvviso, dieci metri prima della fine dell'isolato e l'intersezione con la strada perpendicolare. Mi bloccai anch'io un passo più avanti, voltandomi a guardarlo confusa. Lui se ne stava lì in piedi, con gli occhi puntati su di me e il capo leggermente piegato di lato.
«Lo sai di essere bella, vero?» mormorò, un sorriso strano disegnato in volto e le palpebre pesanti.
Portai nuovamente il braccio a proteggermi lo stomaco e deglutii, non riuscendo a capire perché mi stesse facendo quella domanda così all'improvviso. Possibile che ci stesse provando? Che avessi ragione o no, Luke mi metteva letteralmente i brividi e l'ultima cosa che mi sentivo di fare era assecondarlo, perciò scossi il capo.
«Ma che stai dicendo?»
In tutta risposta lui mi si avvicinò, colmando quei pochi passi che ci separavano. D'istinto arretrai, ma lui non me lo permise perché mi afferrò per l'ennesima volta un braccio. Questa volta, però, la sua presa era più salda che mai, talmente stretta che mi era impossibile separarmi dal suo corpo. Quell'improvviso scatto, scatenò in me più paura di quanta non ne avessi provata fino a quel momento. L'istinto di urlare era talmente forte che dovetti mordermi la lingua per trattenermi.
«Lasciami andare» dissi, gli occhi spalancati e il fiato più corto.
Luke posò una mano sulla mia guancia, facendola scorrere su e giù un paio di volte in una sorta di carezza, poi si chinò e sussurrò al mio orecchio: «Vieni con me, dolcezza.»
Non potendo fare altro che seguirlo, lasciai che mi trascinasse con sé in una stradina laterale. Era una tipica via secondaria di New York, quella che sta tra un palazzo e un altro, non illuminata. Dava sulle scale antincendio delle varie strutture e faceva da riparo dal leggero venticello che tirava. Dalle scalinate di metallo che si estendevano fino al tetto, scendevano goccioline di pioggia che, cadendo, si andavano a raggruppare in una piccola pozza d'acqua sull'asfalto. Da un buco nel muro del palazzo a destra – probabilmente la cappa del gas – usciva del fumo bianco che andava a dissolversi nell'aria. In un brevissimo istante, presi coscienza del gatto ritto sulle zampe nascosto dietro a una massa indistinta a terra. La bestiola girò immediatamente il capo, fissandoci con quei suoi occhi gialli a forma di ellisse sensibili alla buio della notte. Con un agile passo felino, zampettò dietro a un cartone che, probabilmente, aveva funto da riparo per un senzatetto la notte precedente, ma che dopo la pioggia era diventato troppo zuppo e di conseguenza inutilizzabile.
«Che stai facendo?» esclamai istericamente non potendo fare altro: non riuscivo a muovere un singolo muscolo, come se fossi stata colpita da un incantesimo.
Con una forza decisamente superiore alla mia, Luke mi spinse contro la parete di muro che, a contatto con la mia schiena lasciata mezza scoperta dal top, fece da anestetizzante: il freddo che sentii avvolgermi tutta a partire da quel punto mi rese come insensibile a qualsiasi altra sensazione. Probabilmente fu un bene, oppure no. Quando inciampai nei tacchi e persi l'equilibrio, pensai per un brevissimo istante che le sue mani mi avrebbero lasciata andare e finalmente sarei stata libera. Ma, prima ancora che potessi vedere il terreno avvicinarsi al mio volto, Luke mi bloccò contro il muro nuovamente, questa volta assicurandosi che non gli sfuggissi stringendo il suo corpo contro il mio.
L'istante successivo, le sue labbra erano appoggiate alla base del mio collo e lì rimasero, posando un bacio umido che mi fece sentire sporca, sia fuori che dentro. Sentivo il punto in cui mi aveva toccato, sentivo la saliva che mi aveva lasciato il suo bacio a cui ne seguì un altro, e un altro ancora mentre il suo volto si spostava verso sud. Disegnò una scia di piccoli baci lungo la linea del mio collo, per poi tornare indietro, fermandosi dietro all'orecchio. Quando sfiorò quel punto, i brividi che avevo sentito prima non erano nulla in confronto a quelli che percepii dopo. Fu come se avesse toccato l'origine di tutti i miei nervi, il nucleo da cui si diramavano.
Le sue mani tenevano bloccate le mie lungo i fianchi, così, se anche avessi cercato di dimenarmi, non sarei riuscita a muovermi.
Ma quello era proprio il problema: io non stavo cercando di liberarmi.
Un singulto uscì dalla mia gola, dove era rimasto bloccato fino a quel momento, e rimbombò nell'aria, talmente forte che mi sembrò di udire lo sparo di una pistola, il botto dei fuochi d'artificio.
«Ti prego, smettila...» riuscii a dire sorprendendo me stessa, anche se la mia voce era fragile, rotta dalla paura che regnava in me. Il mio era un tentativo inutile, ne ero consapevole, ma non mi venne in mente altro. Volevo solo che mi lasciasse andare, che si allontanasse, che sparisse.
Luke accostò nuovamente la bocca al mio orecchio e cominciò a sussurrare in modo provocante le parole che non avrei mai più dimenticato, che avrebbero fatto da colonna sonora dei miei sogni, che sarebbero diventate il manifesto della mia vita.
«Shh... non dire nulla. Non ce n'è bisogno. Dopotutto lo vuoi anche tu, piccola, non è vero?»
Il mio petto si alzava e si abbassava velocemente, il battito del mio cuore aveva raggiunto la massima velocità e il respiro era sempre più corto mano a mano che il tempo passava. Ma io continuavo a non muovermi, lasciando il mio corpo in mano a lui. Non domandai mai a me stessa perché non mettessi in atto quelle poche basi di difesa personale che conoscevo, e nemmeno perché non avessi giù iniziato ad urlare. Quella era New York, una delle città più grandi del mondo: qualcuno doveva pure essere in giro malgrado l'ora tarda.
«Lasciami, ti prego...» sussurrai di nuovo.
Una lacrima scese lungo la guancia, fermandosi sulla sommità della mandibola. Di conseguenza serrai le palpebre, odiandomi per essermelo lasciata sfuggire: poteva essere una lacrima sola, ma rimaneva una di troppo.
E poi arrivarono altri bisbigli a suggellare la realtà in cui dovevo prendere coscienza di essere.
«Non piangere, piccola. Non te ne pentirai, te lo prometto.» Con gli occhi chiusi non potevo vederlo, ma quando sentii un suo dito percorrere il profilo del mio seno e del mio ventre, un'altro singulto scosse le mie spalle, prima che la sua mano si insinuasse nel mio top.
A quel punto presi a tremare.
«Ti prego» implorai per la terza volta. Tre preghiere erano uscite dalla mia bocca, tre suppliche spese al vuoto, al nulla. Non mi era rimasto nient'altro.
Le sue labbra tornarono più fameliche di prima a posarsi sulla mia guancia e poi, con gli occhi chiusi e il respiro caldo, insinuò la sua lingua nella mia bocca, diventando all'improvviso più irruento di quanto non lo fosse stato fino a quel momento. Mi era entrato dentro.
E io, ancora, non mi mossi.
Le sue mani vagavano nel mio reggiseno, il top ormai un insulso pezzo di stoffa arrotolato in vita. Non sapevo quando me lo avesse tolto, né quando avesse preso a mordicchiarmi il labbro inferiore, attutendo i singhiozzi che uscivano dalla mia bocca con la sua. Non avevo più forze nemmeno per tenere gli occhi chiusi o le unghie ancorate al muro.
Ero sua, un topolino nella tana del serpente, una mosca nella ragnatela dell'aracnoide. Dopotutto, mi aveva catturato, intrappolato e ora stava per mangiarmi.
Così non mi stupii quando fece quel che fece: il fatto che le mie gambe tremassero non gli impedì di alzarmi la gonna e abbassarmi gli slip quel tanto che bastava per violarmi. Non importava che io l'avessi custodita con tanta gelosia, né che andassi fiera di vantarne ancora il possesso. Non importava perché a lui non fregava un cazzo.
Tenni gli occhi chiusi per tutto il tempo, beandomi del freddo del muro per cercare di sfuggire a qualsiasi cosa sentissi.
Non avevo la forza di urlare, di oppormi e nemmeno di combattere. Quando non ti resta altro, che cosa puoi fare se non arrenderti?
E così feci.
Non so quando, non so come, ma poi tutto finì e io mi ritrovai in un vicolo buio, una delle tante strade secondarie di New York, un gatto che mi fissava da dietro a un cartone e il fumo acre che usciva dalla cappa di un ristorante. La mia bocca era vuota di qualsiasi suono avesse mai prodotto nell'arco di diciotto anni.
Potevo solo guardare il cielo sopra la mia testa che si estendeva all'infinito, qua e là vi erano delle stelle più o meno luccicanti.
E poi, con lo sguardo puntato su un punto imprecisato del suolo, un pensiero mi attraversò la mente: può essere palese, scontato, ma prestando un po' di attenzione ci accorgeremmo che passiamo metà della nostra vita cercando ciò che non abbiamo e l'altra metà ricordando quello che abbiamo perso, ciò che ci siamo lasciati alle spalle per sempre.
Eppure, malgrado il momento fosse davvero passato, io avrei preferito non ricordare.
Mai più.


 
CAPITOLO REVISIONATO IN DATA 07/02/2016


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Sera eroi! Lo ammetto, sono piuttosto eccitata nel pubblicare questo primo capitolo... è la mia prima long quindi spero di riuscire a portarla a termine.
Come potete leggere dall'introduzione tratterà alcune tematiche forti... quindi se siete deboli di cuore non leggete.
Sarà una storia un po' diversa dalle altre, non ci saranno né semidei né profezie, ma solo due persone normali che vivono i problemi della vita quotidiana come facciamo noi tutti i giorni. Ovvero una bella AU con i fiocchi.
Confesso che questa è la prima scena di “sesso” che scrivo e spero di non aver fatto un disastro.
Il prossimo capitolo credo arriverà presto... beh fatemi sapere cosa ne pensate!

Bacioni, Annie

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Disclaimer: Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di Rick Riordan; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.
  

Capitolo 2
 

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New York, Giugno
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Due anni dopo.

Avevo cinque anni quando mia madre se ne andò.
Non fu qualcosa di studiato in precedenza, nulla venne programmato o, almeno, lei non si preoccupò di avvisare qualcuno della sua sparizione improvvisa. Perché, diciamolo, non si può decidere di essere stanchi della propria vita tutto d'un tratto: certo, lo scatto che mette in modo il processo di cancellazione del file contenente tutto quello che hai fatto nell'arco di quindici, venti, trent'anni può azionarsi in un momento, ma l'idea è radicata nei tuoi pensieri molto prima che ciò accada, ne sono certa. Quindi, presumo che lei covasse l'idea che poi mise in atto già da molto tempo, ma sicuro come la morte mio padre non ne sapeva nulla e io, anche se fossi stata testimone di qualche segnale, ero troppo piccola per ricordarlo.
Così il giorno prima lei era lì, in cucina la mattina a fare i pancake – era quel genere di mamma che cucinava solo la colazione la domenica – in piedi davanti all'armadio per scegliere il tailleur che più l'avrebbe aiutata a superare la giornata in ufficio, accovacciata accanto al mio letto mentre mi rimboccava le coperte, posando un bacio sulla mia fronte e dicendomi che mi voleva bene; il giorno dopo, invece, non c'era più.
Ironia della sorte, fui io l'ultima a vederla – mio padre, a causa degli orari assurdi che faceva, probabilmente era stato la prima persona che lei non avrebbe mai più rivisto.
Per molti anni non capii perché avesse voluto vedermi per ultima, poi un giorno, non molto tempo dopo che anch'io divenni madre, una mattina mi svegliai con la consapevolezza di aver compreso il motivo: per quanto il suo gesto fosse condannabile e discutibile, il legame che si forma tra una madre e il proprio figlio rimane uno dei misteri più grandi della vita stessa.
Il giorno in cui decise di andarsene era un mercoledì e io ero uscita dall'asilo alle quattro, come sempre. Ero rimasta ferma sull'apice della scalinata che portava al cortile, scrutando con estrema attenzione la folla di genitori che guardavano con un sorriso fiero sul volto i propri figli, i quali correvano loro incontro. Di solito mi univo a quella matassa imbizzarrita di corpi minuscoli, portatori di cartellette più grandi di loro, non appena individuavo la mia mamma, ma quel giorno non accadde: lei non c'era.
Con la coda dell'occhio venni attirata da un movimento sulla destra e mi girai, trovandomi ad osservare il volto sorridente della mia migliore amica di allora, Kelly. Lei infilò brevemente la sua mano nella mia, stringendola nel gesto che facevamo sempre. Non so che fine abbia fatto Kelly... Sinceramente non ricordo nemmeno per quale motivo ci allontanammo l'anno successivo: penso che l'andare in scuole diverse abbia contribuito. Eppure, malgrado ciò, la ricordo ancora come una persona solare, la migliore amica che avessi mai avuto seconda solo a Piper. Ma, dopotutto, eravamo anche più piccole e, a quell'età è difficile stabilire con basi pertinenti se un'amicizia è meglio di un'altra.
«Domani andiamo allo zoo, Annie! Non sei contenta?» mi aveva domandato, gli occhi luminosi e un sorriso contagioso. Il cappellino a pois rosso che portava sempre le era caduto sopra gli occhi oscurandole la vista, finché lei non lo aveva spostato con un gesto automatico, senza mai perdere l'espressione eccitata sul suo volto. Qualche giorno prima era arrivata in classe gridando entusiasta che sua mamma le aveva promesso di portarla allo zoo per vedere gli animali, la sua passione più grande dopo i capellini rossi a pois, e lei aveva subito insistito perché andassi con lei: le nostre madri si erano accordate e, alla fine, io avevo ottenuto il permesso per passare la giornata in compagnia di Kelli.
Con la mano libera tirò la cordicella della bretella dello zaino che teneva sulle spalle per stringerlo, poi lasciò la mia, chinandosi in avanti per darmi un bacio amichevole sulla guancia. Sorrisi di riflesso.
«Ciao Annabeth, ci vediamo domani» disse, ritraendosi e lasciando dietro di sé una leggera fragranza di lillà, profumo che sempre avevo attribuito alle giornate passate a giocare con la corda nel parco.
Senza aspettare una risposta da parte mia, corse giù per le scale impazientemente, ma allo stesso tempo con una certa grazia, finendo dritta tra le braccia accoglienti di sua madre, che la stava aspettando pochi metri più in là. E poi se ne andarono, mano nella mano: fu allora che io ripresi a guardami attorno, consapevole di essere l'unica bambina rimasta nel piazzale. Incredibile come tutte le persone avessero impiegato poco meno di una decina di minuti per sparire all'orizzonte. Le bretelle della cartelletta mi pesavano sulle spalle e il grembiule rosa, indumento obbligatorio imposto dalla scuola, era leggermente più piccolo della mia taglia – recentemente ero cresciuta parecchio in seguito a un periodo di febbre alta – e mi faceva sudare in quel clima settembrino.
Non passò molto tempo prima dell'arrivo di mia madre. La sua figura comparve da dietro al grande pioppo del sentiero che portava alla strada principale, perimetrato da dei fiori gialli che in primavera rilasciavano un profumo così intenso d'attirare uno sciame di api per molte settimane. Teneva il cappuccio del cappotto leggero calato sopra la testa, ma esso non gli copriva abbastanza la testa e così alcune ciocche di capelli castani, molto diversi dai miei, svolazzavano all'indietro, sospinti dal vento. Con una mano teneva i bordi del cappotto, mentre nell'altra portava stretta a sé una busta di cartone, di quelle che ti davano in drogheria in seguito all'acquisto di qualche prodotto piccolo. Con il capo chino e il mento basso, le era comunque impossibile nascondere il bel viso dai lineamenti delicati, ma che cominciava a subire i segni del tempo che passava. Lo si poteva vedere dalla leggera ruga disegnata al centro della fronte, sul lato destro, che diventava più marcata nel momento in cui si trovava a dover risolvere uno di quei problemi complessi a cui il suo lavoro di architetto la sottoponeva molte – troppe – volte.
Si fermò sul primo gradino della scalinata, cinque sotto quello su cui stavo io, e finalmente alzò il volto per guardarmi. Avevo solo cinque anni, non potevo accorgermi che qualcosa non andava solo guardandola: ai miei occhi lei rimaneva la mia mamma, la persona a cui volevo più bene al mondo insieme al mio papà. Forse questo fu uno dei motivi per cui, nel corso degli anni, imparai a studiare le persone prima di fidarmi ciecamente: non avevo mai avuto dubbi che quel fatto avesse condizionato in parte la mia crescita.
Perciò mi ritrovai a fissare i miei stessi occhi grigi, le stesse labbra rosse, lo stesso lineamento del mento. Tutto in me rievocava la sua figura, ad esclusione dei capelli e dello sguardo: quello, senza ombra di dubbio, non poteva che essere diverso.
Non esitai un'istante a fare due gradini alla volta, con una velocità tale che mi sembrò di essere afferrata e poi venir trasportata da un essere dotato di ali.
«Mamma! Sei arrivata, finalmente. Perché sei in ritardo?» cinguettai felice di vederla, ma allo stesso tempo curiosa. Dopotutto, capitava assai di rado che mia madre ritardasse: odiava coloro che non rispettavano l'orario prestabilito a priori e non perdeva mai occasione per ricordarmelo.
Lei mi guardò per qualche istante con un sorriso rassicurante, ma solo allora mi accorsi che i suoi occhi avevano qualcosa di strano, come se fossero distanti, ancora concentrati su qualche sorta di piantina sul tavolo di lavoro nel suo ufficio.
«Scusami, tesoro, ho trovato traffico» disse, passandomi una mano sulla testa. «Su, forza, sbrigati. Dobbiamo andare» aggiunse poi, spronandomi in avanti. Mi porse la busta di carta e dopo, afferrata la mia mano libera con la sua, si avviò nella direzione opposta da dove era arrivata prima.
Non riesco a ricordare bene come fossimo tornate a casa né quanto tempo impiegammo o che percorso facemmo, ricordo solo che a un certo punto mi trovai ferma in mezzo al corridoio che portava alle camere da letto, fissando un paio di valigie vecchio stile, che sicuramente avevano visto anni migliori, poste sull'uscio di casa. Erano palesemente piene e probabilmente molto pesanti.
Per tutta la mia infanzia e l'adolescenza non avevo viaggiato molto, un po' perché mia madre non si fidava ad andare lontano con una bambina piccola ma, sopratutto, a causa del lavoro dei miei genitori che occupava loro la maggior parte del tempo. Eppure anche a cinque anni ne sapevo abbastanza per capire che il contenuto di quelle valigie era molto maggiore di quello necessario per un solo weekend fuori casa.
«Mamma, a cosa ti servono queste valigie?» avevo chiesto a un punto, ancora in piedi in mezzo al corridoio. Con una mano stavo giocherellando con l'orlo dei miei pantaloni, ma la mia attenzione era rimasta puntata solo ed esclusivamente su quell'immagine. Se cercassi di rivivere ora il momento, probabilmente mi sembrerebbe di essere un'osservatore onnisciente, quel genere di punto di vista che viene dato nei film solitamente.
Ignorando la mia domanda, mia madre aveva continuato a camminare dalla cucina alla sua camera da letto, e poi in bagno, con ancora il cappotto indosso. E ciò era strano perché lei era solita togliere gli indumenti da viaggio non appena entrava in casa.
Ascoltai dei rumori e dei tonfi provenire dal fondo del corridoio per qualche minuto finché mia madre non comparve all'ingresso, accanto alle valigie, con un borsone a tracolla, anch'esso ricolmo di abiti e oggetti vari. Lo lasciò cadere a terra e poi, piegandosi sulle ginocchia per essere alla mia stessa altezza, mi fece cenno di avanzare, puntandomi i suoi occhi in faccia.
Non appena ero arrivata abbastanza vicina per sentire il suo calore, lei mi aveva avvolto le braccia intorno al corpo, le mani dietro la schiena, stringendomi a sé in un abbraccio che sapeva di disperazione. E poi con tutta la calma del mondo, aveva preso ad accarezzarmi i capelli partendo dalla nuca fino alle punte, sussurrandomi delle parole che mai nella vita avrei più scordato.
«Immagina un posto lontano, Annabeth, il sole caldo, un grande prato verde e tanti fiorellini colorati, come quello della favola che ti ho raccontato ieri sera a letto. Riesci ad immaginarlo, tesoro mio?»
Sì, riuscivo a vederlo nella mente e sembrava anche un pensiero felice, ma avevo questa strana sensazione che mi aveva obbligato a rimanere concentrata sulla voce di mia madre. Perciò avevo annuito.
«Ci sono anche i cavalli che corrono, mamma?»
L'avevo sentita sorridere, con la guancia premuta sul mio collo e la tempia a contatto con la mia mandibola.
«Certo, amore. Ci sono tanti cavalli che corrono e si divertono tutti assieme» aveva risposto, temporeggiando poi per qualche istante. «La mamma ora ha bisogno di andare in quel posto perché qui sente tanto freddo. Riesci a capirlo, Annabeth?»
Io avevo annuito ancora. Per qualche motivo, poi, i miei occhi avevano preso a lacrimare, silenziosamente, macchiandomi il volto di gocce di rugiada calde. Avevo cinque anni, ma ero una bambina piuttosto sveglia per la mia età e quindi avevo capito quello che stava per fare nel momento in cui avevo visto quelle valigie. Solo il luogo e la durata del suo viaggio mi sfuggivano.
«Shh... Non piangere, tesoro mio. Non ce n'è bisogno, davvero» aveva detto con la bocca vicina al mio orecchio. E poi aveva cominciato a cullarmi avanti e indietro stringendomi a sé e ripetendo con cadenza regolare quel suono, simile al fruscio che produce il muoversi delle foglie degli alberi di Central Park in autunno.
Shh... Shh... Shh...
«Annabeth, arriverà il giorno in cui farai parte di una famiglia tutta tua. Avrai tanti bei bambini con i capelli biondi che amerai più della tua stessa vita e per cui ti sacrificherai, mettendo la loro felicità davanti alla tua. Avrai al tuo fianco un marito che ti sarà fedele e che ti amerà incondizionatamente fino alla fine dei tuoi giorni. Sarai felice, molto felice, te lo assicuro. Sarai tutto ciò che io non sono: una donna forte e coraggiosa, con un cuore grande abbastanza da permettere che niente ti fermerà. Avrai il coraggio di combattere le tue battagli e di vincere, vivendo la tua vita come è giusto che sia, ne sono sicura.» Le sue parole mi entrarono dentro: probabilmente ero troppo piccola per comprendere appieno ciò che mia madre stava cercando di dirmi, ma non ho dubbio di pensare che il suo discorso rimase impresso nella mia mente tanto da condizionare le mia vita per sempre. Quando raggiunsi l'età sufficiente per comprendere, decisi che quel giorno mia madre aveva voluto regalarmi uno dei segreti per cui molte persone avevano sprecato la loro esistenza, andando alla circa di qualcosa che li soddisfacesse, ma senza mai accorgersi che stava proprio davanti ai loro occhi: la consapevolezza di essere vivi. Eppure, malgrado tutto, lo dimenticai in fretta quando lui mi fece quel che fece.
«Ma io voglio essere come te, mamma» avevo mormorato quasi impercettibilmente, ferma nella mia convinzione che lei fosse la persona migliore del mondo. Mamma si era limitata a scuotere il capo sulla mia spalla, stringendomi a sé ancora più forte, come se avesse avuto paura di lasciarmi andare.
Quel giorno non rimase nella mia mente solo per le parole di mia madre e per la sua successiva partenza, ma anche per la nascita del mio sogno di partire e viaggiare, raggiungendo quel bellissimo posto caldo e lontano che accompagnò la mia crescita infantile e buona parte dell'adolescenza. Quando mio padre mi accompagnava a scuola, dal finestrino della sua auto puntavo lo sguardo al cielo, nella speranza di vedere qualche aereo in partenza per una meta esotica. Se era un giorno fortunato le nuvole si spostavano, scoprendo una massa di metallo grigia, la cui forma ricordava vagamente un uccello viaggiatore. Con le sue ali imponenti e il corpo snello, lassù alto nel cielo, l'aereo mi sembrava qualcosa di irraggiungibile, ma allo stesso tempo di essenziale per sfuggire a una vita monotona e banale.
Quel mio sogno era rimasto vivido dentro di me finché la mia, di vita, non si era trasformata in un inferno.
Un inferno di cui, per due anni, non riuscii a trovarne l'uscita d'emergenza.



 
||



Appoggiai la fronte sul vetro del finestrino freddo dell'auto, lasciando che il senso di annullamento che accompagnava sempre le temperature basse delle superfici mi occupasse la mente, perdendo lo sguardo al di fuori dell'abitacolo. Il cielo era grigio di nuvoloni carichi di pioggia imminente: le previsioni del “New York Times” confermavano ciò che sembrava stesse per accadere. Le precipitazioni erano previste su tutta la città, ma non me ne dovevo stupire più di tanto: con il caldo torrido dominante per tutta la primavera, era normale che prima o poi venisse a piovere. Il giornale comprato da papà appena prima di salire in macchina si limitava a sottolineare l'evidenza. Nemmeno il traffico mattutino di New York mi stupiva più: sembrava che nel guidare le persone si fermassero ogni cento metri per lanciare uno sguardo preoccupato al cielo. Inutilmente, secondo il mio modesto parere. Se doveva accadere, così sarebbe stato, punto. Sicuramente a loro non sarebbe cambiata la vita. Che piovesse o meno, il tettuccio di metallo sopra le loro teste li avrebbe protetti da qualsiasi minaccia le nuvole avessero fatto loro. Perciò mi trovavo stranamente d'accordo con mio padre quando questo si attaccava al clacson, inveendo contro qualche stupido ingenuo.
Con la coda dell'occhio vidi un lampo in lontananza, seguito un minuto dopo dal rombo basso del tuono e ricordai come, da piccola, avessi una paura spropositata per quel fenomeno climatico. I lampi e i tuoi mi spaventavano a tal punto che correvo sempre a nascondermi nel letto di papà, tra le sue coperte, e lui mi abbracciava stretta stretta finché il peggio non passava. Poi, dopo che mi ero tranquillizzata, cantava la mia canzoncina preferita sottovoce e io mi addormentavo tra le sue braccia calde e rassicuranti. Ma da un po' di tempo la pioggia non mi turbava più. Era solo diventata la colonna sonora del mio inferno, l'atmosfera che meglio risvegliava i miei ricordi: guardavo le gocce d'acqua scontrarsi con il vetro della finestra della mia camera e dentro di me sentivo il gelo e il tormento di quella notte.
La pioggia, il freddo, il conflitto interno facevano parte di me: la nuova Annabeth Chase.
Mi concentrai su una nuvola, più chiara delle altre e con i tratti più marcati, assomigliava a un peluche. Un tenero, morbido e paffuto orsacchiotto per una ragazzina innocente.
Tutto ciò che io non ero più.
«Tesoro, sei sicura di stare bene?»
Al semaforo rosso papà frenò bruscamente e io venni balzata in avanti, tornando all'improvviso alla realtà.
Mi guardai attorno, notando che eravamo ancora in centro malgrado fossimo in macchina da parecchio tempo: sul marciapiede al lato della strada una donna giovane spingeva un passeggino, al cui interno sedeva comodamente un bel bambino che sembrava avere due o tre anni. Il piccolo sembrava concentrato in quello che faceva, ovvero giocare con una macchinina di plastica rossa. Le sue labbra erano arriciate e il mento era sporco di bava. Probabilmente stava cercando di riprodurre il rumore di un motore. Un sorriso involontario curvò le mie labbra mentre sbattevo le palpebre per schiarire la vista, diventata opaca per aver passato troppo tempo senza sbattere le palpebre.
Mi voltai verso papà, il quale era concentrato sulla sua guida non proprio sicura. Se la cavava molto meglio con gli elicotteri.
«Papà, non ti preoccupare, sto bene. Starò bene» dissi per rassicurarlo, sollevando l'angolo destro della bocca con fatica. Per fortuna, lui non se ne accorse.
«Sei sicura? Perché non sei obbligata a partire, lo sai. Puoi rimanere a casa con me. Sono certo che sei ancora in tempo per iscriverti a quel corso estivo di architettura di cui mi hai parlato qualche mese fa» aggiunse con palpabile preoccupazione nei miei confronti. Non che quello stato d'animo fosse una novità, ma ciò che stava dicendo non aveva molta importanza dato che non era realizzabile.
«Papà, sei stato tu a propormi questa cosa. E sei stato sempre tu a convincermi a partire, ricordi?» gli feci notare con tutto il tatto di cui ero provvista.
«Giusto. Hai ragione. Non che sia una novità...» borbottò tra sé e sé mentre parcheggiava la macchina e spegnava il motore con un movimento del polso nel parcheggio dell'aeroporto. «Dunque, eccoci qua. Ci siamo» mormorò con le mani strette intorno al volante e gli occhi azzurri fissi da qualche parte dietro agli occhiali squadrati.
Lo osservai aprire la portiera e scendere mentre giocavo distrattamente con un filo scucito dal taglio sui miei jeans: il vizio era rimasto. Me la presi comoda, rimanendo seduta nell'autovettura ancora un po', scrutando il paesaggio al di là del finestrino anche se non c'era veramente qualcosa di interessante da vedere: la gente entrava e usciva dall'aeroporto in una successione continua con al seguito valigie e carrelli più o meno ricolmi, incurante della battaglia che stava avendo luogo dentro di me.
Erano passati quasi due anni da quella notte e tutto era cambiato. Io ero cambiata.
Avevo fatto di tutto per dimenticare e per superare quell'ostacolo che mi si era posto davanti, per riprendermi in mano la vita, ma evidentemente la mia volontà non era stata sufficiente. Negli ultimi tempi mi ero ritrovata anche a pensare se davvero avessi mai avuto l'intenzione di cambiare, se il mio subconscio avesse agito contro la mia razionalità per lasciare dentro di me quell'opprimente sensazione per sempre, in modo che non potessi mai più dimenticare quanto la vita possa fregarti.
Papà aveva fatto tutto il possibile per aiutarmi nel mio cammino di recupero, non potevo negarlo. Prima aveva sborsato una somma spropositata per coprire la parcella della migliore psichiatra di New York, e quando mi era stato evidente che il miglioramento era solo apparente, il senso di colpa per essere diventata un peso economico non indifferente aveva fatto in modo di convincermi a fingere di star guarendo perché continuavo a svegliarmi nel bel mezzo della notte con il fiato corto, la fronte sudata e il fantasma delle mie urla che rimbalzava tra le pareti.
Papà non era sordo, papà sapeva. Dentro di me non ero cambiata affatto, dentro di me continuavo a non voler ricordare, ma allo stesso tempo ero impossibilitata a dimenticare.
Dopo la psichiatra, ero finita nei gruppi di sostegno, ottenendo il risultato opposto di quello sperato da mio padre e dalla dottoressa. Ascoltare per giorni le storie di quelle ragazze, alcune persino più giovani di me, era servito solo a farmi capire quanta merda ci fosse nel mondo, quando fosse patetico accettare di avvicinarsi al proprio aggressore e permettergli di fare ciò che voleva senza urlare o scalciare.
Le loro storie erano un loop, un cerchio di vicende la cui trama era messa in comune: l'inizio era lo stesso, la fine pure. Bastava che chiudessi gli occhi la notte per conoscere approssimativamente ciò che era accaduto a tutte le altre ragazze sedute in quel cerchio. Tutto sommato, poi, a me era anche andata bene, perché le più sfortunate ora si trovavano a dover crescere un figlio bastardo, che non avevano chiesto né voluto. Presi parte a quegli incontri una dozzina di volte, senza mai azzardarmi ad aprire bocca: trovavo già difficile ascoltare le parole delle altre ragazze, figuriamoci articolare dei suoni. Non facevo fatica ad ammettere di avere un fottuta paura che dire ad alta voce la verità avrebbe risvegliato la parte della mia mente destinata ai ricordi anche durante lo stato di coscienza, di giorno, rendendomi impossibile fingere di stare bene. Così il segreto rimase tale per me, papà e Piper, il magico triumvirato.
Il giorno prima di mettere un punto fermo anche agli incontri di sostegno comparve una nuova ragazza. Si chiamava Emily e bastava guardarla per capire il motivo per cui il suo aggressore l'avesse violentata: aveva solo sedici anni ed era bellissima, malgrado la nota di tristezza che si poteva scorgere nei suoi occhi.
Rimasi a guardarla a lungo, cercando di capire l'emozione che il suo corpo trasmetteva, e poi ci arrivai: violazione. Per tutta la durata dell'incontro rimase in un silenzio opprimente, gli occhi puntati su una sedia vuota e le braccia incrociate sotto il seno, sopra la pancia rigonfia: Emily aspettava un bambino, ma quella non era un novità.
La volta successiva lei non tornò. Alcune volte succedeva.
Passai molto tempo pensando a lei, a come si sentisse e a cosa pensasse, e alla fine mi accorsi che non conoscevo neppure la sua storia: a parte il nome, non aveva detto una parola, proprio come me. Così presi la decisione di smettere di andare agli incontri definitivamente: non ne vale la pena ed era solo una perdita di tempo ed energie. Ripresi con le mie sedute sporadiche con la psichiatra e lei non impiegò molto a capire che il mio fingere che tutto fosse apposto era solo un tentativo disperato di non far soffrire chi mi voleva bene più di quanto non avesse già sofferto per colpa mia.
E poi, un paio di mesi prima, ecco che arrivò La Chiamata.
Mi era stata offerta la possibilità di partecipare a un progetto che si occupava di mandare volontari in alcuni paesi del terzo mondo in veste di insegnanti elementari, per istruire i bambini che non avevano la possibilità di andare a scuola. Con le mie ottime referenze scolastiche, secondo loro ero la candidata perfetta per quel ruolo: avendo studiato per anni il portoghese, lo spagnolo e il francese – amavo le lingue neolatine – ed essendo una delle migliore studentesse del mio corso universitario, rispondevo a tutti i loro requisiti. E poi ero giovane.
Il problema era che il loro progetto non rispondeva alle mie esigenze: partire per un paese anonimo voleva dire lavorare a stretto contatto con persone che non conoscevo. Persone che sfoggiavano un sorriso cordiale durante il giorno e si trasformavano in mostri durante la notte. Persone oscure, persone maligne. Non potevo nascondere a nessuno che la mia paura più grande dopo il fatto fosse proprio quella e che il solo pensarci mi mandava in panico: era come se la mia vita si fosse ridotta al contatto delle poche persone che già conoscevo in precedenza, amici e parenti.
Ma non ero stata la sola a cambiare da quel punto di vista: Piper, nei primi periodi, aveva cominciato a trattarmi come una bambina, la quale poteva scoppiare a piangere da un momento all'altro se solo un qualsiasi cosa fosse andato storto. Avevo tirato un sospiro di sollievo quando, qualche mese prima, si era lasciata sfuggire per errore un commento casuale su quanto fossi cambiata, quanto fossi chiusa e schiva. A quelle parole, il sollievo non era durato molto più a lungo: mi ero stretta nelle spalle, perdendo all'improvviso tutta la forza e la voglia di controbattere. A che sarebbe servito? Nulla, perché lei aveva ragione.
Non era passato molto tempo dalla proposta che mio padre aveva cominciato ad insistere tenacemente: prima tirava fuori l'argomento durante la cena, poi veniva a bussare alla porta della mia camera, interrompendo qualunque cosa stessi facendo per fare una chiacchierata. Ero arrivata persino a tirar fuori una brochure pubblicizzante il progetto da sotto il cuscino. L'argomentazione di mio padre a sostegno della proposta stava nel sostenere che, se fossi partita, avrei potuto capire davvero ciò che mi stavo perdendo nel chiudermi in casa per la maggior parte del tempo, quello per cui valeva la pena combattere e non lasciarsi andare alla deriva.
Ciò che, alla fine, mi aveva fatto cedere era stata l'espressione che gli si era dipinta in volto per qualche istante in seguito al mio ennesimo diniego: l'avevo già visto triste in passato; dopo la partenza della mamma, dopo il rifiuto ricevuto da una casa editrice per il libro su cui aveva lavorato per anni, dopo il mio risveglio in ospedale quella sera. Ma mai e poi mai avrei immaginato di vedere mio padre provare pietà nei miei confronti. Una persona che si era lasciata usare senza muovere un dito non meritava la pietà di nessuno, nemmeno del proprio genitore.
Io l'avevo visto nei suoi occhi e io avevo scelto di accettare.
Malgrado mi fossi mossa con un leggero ritardo, l'associazione aveva risposto nel giro di pochissimo tempo alla mia domanda di accettazione, mettendo in allegato una lunga lista di possibili Paesi tra cui scegliere e aggiungendo qualche riga di apprezzamento ed entusiasmo per la mia decisione di contribuire.
Ghana, Madagascar, Cile, Thailandia...
Alla vista di tutti quei nomi, la realtà di quello che stavo per fare mi aveva improvvisamente colpito, lasciandomi un senso di immediatezza che più volte ero stata sul punto di gettare la spugna ancor prima di scegliere il Paese. Come potevo partire senza sapere chi ero veramente? Potevo davvero illudermi che quella fosse la cosa giusta per me? Al diavolo, nemmeno sapevo se ce l'avrei fatta ad arrivare viva al giorno della partenza!
Tutto ciò mi aveva portata alla decisione di non pensare assolutamente e di mettermi nelle mani di mio padre: speravo solo che la mia scelta lo avrebbe reso finalmente un po' più felice quando mi guardava. Perciò, una sera, seduta al tavolo della cucina con lui e una tazza di latte caldo, avevo chiuso gli occhi e appoggiato il dito su un punto casuale del foglio.
Brasile.



 
||
 


Trassi un respiro profondo e aprii la portiera dell'auto, spostando dietro all'orecchio la ciocca di capelli che mi era finita davanti agli occhi a causa del vento forte che soffiava, effetto collaterale della brutto tempo.
Non badai alle poche gocce di pioggia che stavano cominciato proprio in quel momento a cadermi addosso e nemmeno tentai di ripararmi utilizzando il bavero della maglia leggera che indossavo; feci semplicemente il giro della macchina senza alterare il mio passo abituale, raggiungendo papà, il quale stava scaricando le mie valigie dal bagagliaio.
Una goccia d'acqua cadde sulla punta del mio naso. La toccai con una mano distrattamente, come se mi fossi accorta solo in quel momento di cosa stesse cadendo dal cielo, poi stesi l'avambraccio all'infuori, godendomi la sensazione di fresco dettata dall'accoppiamento dell'aria e del tempo atmosferico pessimo.
«Ecco qua. Ci dovrebbe essere tutto, no?» domandò papà dopo aver appoggiato l'ultima valigia accanto alle altre sul marciapiede paonazzo di pioggia.
Annuii senza nemmeno controllare, prendendo con una mano il manico di un trolley, e con l'altra la mia borsa da viaggio azzurra: al resto ci avrebbe pensato lui. Il progetto aveva la durata di sei mesi abbondanti e ciò andava a significare che avrei perso un intero semestre di corsi all'università. Mi dava fastidio? Sì. Mi importava davvero qualcosa? No, decisamente no. Ciò che davvero mi scocciava era il dover ritardare la laurea, il momento in cui avrei potuto decidere della mia vita senza la preoccupazione di non avere un'adeguata istruzione per potermi garantire il mantenimento. Non lavorare significava dover pesare sulle spalle di mio padre ancora e ancora, come se tutto ciò che aveva fatto fino a quel momento non fosse stato abbastanza. Per come la vedevo io, nessun padre avrebbe mai potuto pareggiare ciò che il mio aveva sacrificato.
Grazie al mio rendimento, all'ultimo anno di superiori ero riuscita a farmi accettare da molto prestigiose università, prima fra tutte la Columbia University. Allora il mio obiettivo, nonché sogno di sempre, era diventare architetto un giorno. Ma durante quell'estate era stato difficile pensare al futuro perché il presente era fin troppo opprimente e ingombrante nella mia testa. Come potevo pensare a “un giorno” quando non sapevo come superare l'”oggi”? Avevo finito per frequentare davvero la Columbia solo con un paio di giorni di ritardo, costretta dalle suppliche di mio padre e dal bisogno di dover tenere occupata la mente: ricordavo bene che lo studio era un ottimo repellente contro la noia e i pensieri scomodi. Insomma, l'alternativa era restare in casa e non fare niente e pensare, e non credo fosse una buona cosa in definitiva.
Le persone che entravano e uscivano dall'aeroporto, chi trasportando un carrello e chi solo un piccolo trolley, avevano cominciato a correre per trovare riparo dalla pioggia che, in pochi minuti, era diventata implacabile e torrenziale. Dopo che mi padre ebbe chiuso la macchina premendo il bottone centralizzato sulla chiave nera, attraversammo la strada che separava il parcheggio dall'entrata, avanzando a passo spedito in direzione delle porte scorrevoli poste al centro dell'ala dedicata alle partenze.
Non avevo mai viaggiato molto è vero, ma non era mai stata mia abitudine uscire con zaini o borsette, in qualunque posto dovessi andare, che fosse il supermercato sul ventesimo isolato o il bar sotto casa. Quindi mi pare ovvio presupporre che non fossi stata io a decidere di partire con tre valigie più un trolley che fungeva da bagaglio a mano e una borsa da viaggio: a causa della mia accettazione tardiva per il progetto, avevo dovuto tirare assieme tutto in fretta e furia. Di certo non mi sarei mai aspettata che mio padre si improvvisasse personal shoppers – ovviamente, senza chiedere nulla in cambio – quando era arrivato il momento di preparare i bagagli.
Così la settimana prima mi aveva svegliata di buon ora, entrando nella mia camera di soppiatto e tirando le tende per far entrare la luce nella stanza. La sera prima mi ero attardata nella lettura di un saggio di storia antica che avevo trovato nella biblioteca personale di mio padre ed ero crollata sul libro solo a notte fonda.
Tutto allegro se ne era uscito con l'assurda e spiazzante idea di passare la giornata a fare shopping in vista della mia partenza, sfruttando il suo giorno libero dalle lezioni in università. Molto spesso la sua presunta allegria era solo uno sforzo per tenere su di morale la sottoscritta – anche se non ce n'era bisogno, ma quel giorno pareva davvero felice ed entusiasta, il che era insolito visto che odiava come la peste bubbonica i centri commerciali (diceva che erano degli imbrogli per famiglia e che ci avrebbero portati a un disfacimento generale della società). Ma chi ero io per rovinare il suo ottimo morale?
Avevamo passato praticamente tutta la mattina e buona parte del pomeriggio nei diversi negozi di quel posto, comprando non solo il necessario, ma qualsiasi cosa mi potesse tornare utile a suo dire – poco importava che per la maggior parte l'utilizzo mi era ancora del tutto ignoto. Il giorno dopo era tornato a casa con due enormi valigie che aveva appoggiato all'entrata. Se anche mi era tornata in mente la partenza della mamma alla vista di quell'immagine, non lo avevo dato a vedere. Anzi, non c'era nemmeno stato il bisogno di fingere: papà mi aveva preso per mano e aveva cominciato a riempirle di qualsiasi cosa gli era capitato per mano, recuperando anche quello che io scartavo di nascosto. Avevo imparato in fretta che era inutile rifiutarsi: alla fine l'aveva vinta lui su tutti i fronti.
Così ora mi trovavo a dover viaggiare da un emisfero all'altro carica come un bisonte da monta e con il grande dubbio di non riuscire a trasportare tutto una volta rimasta da sola. Per mia fortuna, papà ebbe la brillante idea di prendere in prestito un carrello per trasportare le valigie più pesanti. Dopodiché mi porse il manico con un sorriso che si allargava pian piano.
Sembrava quasi... commosso?
Oh, no. No. No, no, no e ancora no. Conoscevo fin troppo bene quell'espressione: era la stessa comparsa sul suo viso quando mi ero diplomata. Sapevo con fin troppa certezza che stava per mettersi a piangere in aeroporto e io non potevo assolutamente permetterglielo.
I suoi occhi si fecero lucidi e una grossa lacrima comparve all'angolo del suo occhio destro, mentre tirava su rumorosamente con il naso.
«Oh, no, papà! Ti prego, ti prego, non piangere» lo implorai ad alta voce mentre sentivo già la malinconia travolgermi la pancia, il petto, la gola. Tutto il corpo. Il mio stomaco si strinse in una morsa stretta. Gli appoggiai una mano sul braccio, accarezzandolo piano.
«Lo sai vero che sei la mia bambina? Non importa se hai quasi vent'anni. Sei e sempre resterai la mia piccola stellina» mormorò stringendo le labbra.
Erano anni che non mi chiamava più così: “stellina” era il diminutivo che papà usava da quando ne avevo memoria. Un sorriso involontario, ma spontaneo, si disegnò sul mio volto.
«Papà, sei stato tu a convincermi a partire, ricordi? Posso sempre rimanere qui, non c'è problema, lo sai...»
Una piccola parte di me sperava veramente che cambiasse idea e che mi stringesse a sé, spingendo il carrello in direzione della macchina, per tornare a casa insieme e riprendere la vita degli ultimi due anni.
Ma la mia frase sembrò ridestarlo da una realtà parallela perché con un gesto fulmineo della mano si asciugò le guance dalle traccie solitarie della sua malinconia, scosse la testa e accennò un piccolo sorriso.
«No. Tu devi partire, Annabeth. New York non può aiutarti in alcun modo nel tuo cammino verso una vita migliore. Questo non è il posto in cui devi essere ora. Troverai nel Brasile la tua casa e un rifugio per i prossimi mesi» disse prendendomi per le spalle a attirandomi a sé in un caldo abbraccio confortevole che sapeva di famiglia, di quelli rari, unici.
«Annabeth, ascoltami attentamente, okay? Sono passati quasi due anni e tu non sei più quella si una volta. Lo sai tu e lo so io, non c'è più bisogno di fingere. Ciò che ti è successo, ciò che ti ha fatto quel ragazzo non è giusto e mai lo sarà. Nessuno merita di provare quello che è accaduto a te, nemmeno la persona più ignobile di questo mondo. Ma non è tuo il compito di rimediare al suo errore, e nemmeno puoi permettere che questo condizioni tutta la tua vita. Sei giovane, troppo giovane, ma abbastanza grande per comprendere di non poterti lasciare andare. Ora, in questo momento, hai bisogno di vedere con i tuoi occhi ciò che ti perderai se continuerai ad essere quello che sei adesso. E c'è solo un modo per farlo, figlia mia. Quello di cambiare strada e percorrerne un'altra» sussurrò al mio orecchio tenendomi stretta a sé.
Non volevo piangere, ma quelle presero a bagnarmi il volto come se possedenti di una volontà propria.
«Quando verrà il momento di affrontare l'ostacolo che ti blocca ti troverai in difficoltà perché sarà dura, molto dura. Ma io so che ce la farai. La mia Annabeth è una combattente nata» disse. «Forse in alcuni momenti ti sentirai sola, forse soffrirai, forse riderai fino a lacrimare. Non so cosa accadrà, ma tu devi sempre pensare che da qualche parte nel mondo qualcuno ti è vicino e ti vuole bene. Io sarà uno di quelli. Devi solo imparare ad ascoltare il tuo cuore e a seguirlo» aggiunse poi, e con l'indice picchiettò un paio di volte sul mio petto, appena sopra il seno.
Poi mi strinse a sé con maggior tenacia, lasciandomi andare fin troppo presto. Prese a passare le mani nervosamente sulla giaccia grigia che indossava: era domenica, ma papà si ostinava ad indossare il completo professionale che portava durante la settimana lavorativa.
Non potevo negare che le sue parole mi avessero colpita nel profondo: era tanto che non mi parlava a viso così aperto e che non nominava il Fatto. Decisi di non pensarci per il momento, e attendere di essere sola per analizzare le sue parole anche se una parte di me già pensava che le sue erano solo illusioni.
«Bene. Bene, credo sia ora che tu vada, tesoro, altrimenti rischi di perdere il volo.»
Con una mano spostò dietro all'orecchio la ciocca di capelli che mi era finita davanti agli occhi, spostando poi il palmo sulla mia guancia per un'ultima carezza.
«Ci vediamo a Dicembre, okay? Al tuo ritorno preparerò il miglior pranzo di Natale che tu abbia mai mangiato, contenta?» domandò, cercando palesemente di alleggerire la tensione creatasi in seguito alle sue parole.
Feci una smorfia, ma sotto sotto ero contenta che avesse cambiato argomento. «Forse è meglio di no, papà. Non voglio rischiare di dover passare la vigilia di Natale in ospedale per la seconda volta» dissi sdrammatizzando. Una cosa simile era già successa tre anni prima, quando mio padre aveva voluto provare a cucinare il tacchino ripieno per il Ringraziamento.
Ci fu un ultimo abbraccio, un ultimo bacio, un ultimo saluto, un ultimo sguardo e poi la sua immagine venne oscurata dalle porte scorrevoli dell'entrata.
Mio padre se n'era andato, io ero rimasta sola e un aereo per il Brasile mi stava aspettando.
Presi un respiro profondo e cominciai a trafficare un po' con il carrello che non ne voleva sapere di andare nella direzione giusta, riuscendo poi finalmente a raggiungere lo sportello del bagaglio di stiva che, a dispetto di tutte le dicerie, non era affatto affollato di gente in fila d'attesa. Solo un'anziana signora stava gesticolando bonariamente con l'uomo seduto dietro al bancone il quale, dal canto suo, l'ascoltava con sguardo annoiato e disinteressato mentre attaccava una lunga striscia bianca al manico della grossa valigia a fiori appoggiata sul nastro trasportatore.
Mi avvicinai, fermandomi un paio di metri dietro alla signora per rispettare la privacy consigliata dalla riga gialla sul pavimento. Il dubbio che avessi sbagliato orario o addirittura – e qui mi vennero i brividi – giorno mi assalì. Che figura ci facevo se nemmeno riuscivo a prendere un benedetto aereo al momento giusto? Come potevo occuparmi di gestire una classe di bambini quando nemmeno riuscivo a gestire me stessa? Litigando con la grossa borsa da viaggio che portavo sul braccio, riuscii a recuperare i documenti e il biglietto con le indicazioni del volo dalla tasca interna.
Non mi accorsi nemmeno del leggero tremolio della mano quando lanciai un'occhiata a quel foglio.

Partenza: Aeroporto Jonh F. Kennedy, New York, stato di New York, USA
Destinazione: Aeroporto Antonio C. Jobin, Rio de Janeiro, Brasile
Chiusura Check-in: 9:30
Partenza volo prevista per le: 10:15


Feci scorrere il dito sul campo contrassegnato dalle parole “Giorno di partenza” e con un sollievo tale da farmi rilasciare il fiato trattenuto fino a quel momento rumorosamente, constatai che il giorno era giusto. Mi bastò una rapida occhiata all'orologio che portavo al polso per accertarmi che fossi anche in perfetto orario sulla tabella di marcia. Non essendoci altro motivo per pensare di essere in errore, alzai di nuovo lo sguardo sullo sportello, accorgendomi solo in quel momento che la signora anziana aveva finito di parlare ed era sparita, lasciando l'impiegato a battere sulla tastiera di un computer postogli davanti.
Avanzai un po' più sicura, ma all'improvviso venni spinta di lato bruscamente e la mia borsa cadde a terra, riversando buona parte del suo contenuto sul pavimento di marmo dell'aeroporto.
Dopo un attimo di smarrimento, mi guardai attorno in cerca di chi che mi aveva spinto. Con mia grande sorpresa constatai che il chi era un ragazzo in piedi davanti allo sportello verso cui mi stavo dirigendo, nella posizione esatta dove prima c'era la signora. Se ne stava in piedi di spalle, quindi non riuscivo a vederlo in volto, ma era evidente che fosse stato lui.
Strinsi la mascella, sentendo la rabbia nascere da dentro di me: non ero affatto stupita che un ragazzo si fosse comportato in quel modo – non era una sorpresa per me, insomma, ma ciò non voleva dire che giustificassi il suo comportamento.
«Ehi, tu! Potresti almeno chiedere scusa» dissi, aggrottando le sopracciglia e appoggiando una mano sul fianco.
Lui, che aveva appena posato la sua valigia sul nastro trasportatore, si voltò appena, sul volto uno sguardo interrogativo e perplesso. Ah, bene, faceva pure finta di niente!
«Parli con me?» chiese dopo un attimo di smarrimento.
«Certo che parlo con te, vedi qualche altro maleducato qui in giro? Mi hai spinto per passare avanti!» Allargai il braccio, indicando gli oggetti ancora sparsi sul pavimento per sottolineare la mia tesi.
«Non so di cosa tu stia parlando» ebbe il coraggio di dire, continuando a negare l'evidenza. Assurdo, erano mesi che non mi capitava di incontrare una persona così maleducata e bugiarda.
Certo, è un ragazzo, disse una vocina nella mia testa, che ti aspettavi?
L'istante successivo lui aveva già riportato l'attenzione sull'uomo dietro al bancone, il quale gli stava porgendo dei documenti.
«Ecco a lei, signor Jackson, le auguriamo un buon viaggio con la Delta Airlines» disse monotono l'impiegato, come se stesse leggendo una frase prescritta.
Il tipo fece un cenno di assenso con il capo, per poi prendere il manico di un trolley al suo fianco e dirigersi a destra, senza degnarmi più di un'altra parola.
Assurdo, in tutti i sensi. Come poteva una persona spintonarne un'altra e nemmeno degnarsi di chiedere scusa? Non pretendevo certo che si inchinasse con la faccia a terra implorando la remissione di tutti i peccati, ma qualche parolina di conforto non lo avrebbero i certo ucciso. Ricordai a me stessa che era un maschio e che, di conseguenza, la cosa non doveva affatto stupirmi. Non dopo ciò che uno della loro specie mi aveva fatto.
«Signora? Deve lasciare i bagagli per caso?»
La voce dell'uomo dietro al bancone mi riportò alla realtà.
Sbuffai, passandomi una mano sulla faccia per scacciare quel senso di rabbia e rassegnazione. «Certo, mi dia solo un attimo» risposi, accovacciandomi a terra per raccogliere tutto quello che era caduto.
Pensai che quel ragazzo mi aveva dato solo un'altro motivo per giustificare il mio odio eterno verso gli uomini e la paura di interagire con loro. Se la maggior parte tendevano a mascherare la loro vera natura, c'era ancora qualcuno che non si faceva problemi nel mostrarla apertamente fin dal primo istante.
Poi le parole di mio padre rimbombarono nella mia testa: non puoi permettere che questo condizioni tutta la tua vita. Decisi senza un attimo di esitazione che aveva ragione e da quella consapevolezza derivò la promessa che feci a me stessa.
Nessuno mi avrebbe più fatto del male, anche a costo di rimanere da sola per sempre.
L'unico modo perché ciò si avverasse era mantenere il segreto del mio passato, quello che mi rendeva debole ed inerte davanti al mondo. Che sarebbe successo se qualcuno avesse usato il mio passato per ferirmi ancora e ancora?
Ero pronta a tutto pur di far rimanere la verità un segreto. Proprio tutto.
 

CAPITOLO REVISIONATO IN DATA 29/07/2016


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Ehilà! Come state? Ho finito giusto ieri di scrivere il capitolo e mi sono accorta che probabilmente non riuscirò ad aggiornare fino a settimana prossima ç.ç Mi aspettano delle settimane lunghe e piene di verifiche/interrogazioni (stupido liceo, perché esisti).
Ma questo non vi deve deprimere perché avete appena letto il capitolo (sempre se lo avete letto) e questo dovrebbe evervi reso felici (?). Si non ha molto senso quello che dico... Fateci l'abitudine.
Passando al capitolo: sono passati due anni dalla fatidica sera (capitolo 1) e Annabeth, come avrete sicuramente capito, è cambiata diventando chiusa e schiva. La psicologa e i gruppi di sostegno non sono serviti a nulla. Così la dottoressa convince prima suo padre poi la ragazza a partire e andare in Brasile (non chiedetemi il perché io abbia scelto proprio quel paese perché sinceramente non lo so neanche io). In questo capitolo potete scorgere un pezzetto del passato di Annabeth... e, sorpresa delle sorprese, per ultimo fa la comparsa il nostro amato Percy, che si ritrova a prendere lo stesso aereo di Annabeth (e.e). Ve lo aspettavate? Cosa succederà? (sinceramente non lo so con certezza neanche io XD Ma ho qualche idea qua e là...). Beh, fatemi sapere cosa ne pensate u.u
Baci, Annie

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Disclaimer:
'Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di Rick Riordan; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro'.


.:Capitolo 3:.

 




 

Sull'aereo della Delta Airlines, 20 Giungo


 

Annabeth


 

Volare.
Un giorno ero andata a cercare il significato del termine sul dizionario. Era un gioco che facevo quando mi annoiavo a morte o quando volevo tenere la mente impegnata per evitare di avere brutti pensieri. E negli ultimi due anni era capitato molto spesso.

C'erano molti modi per definire “volare”: trascorrere per l'aria, muoversi in aria, essere scagliato in aria, muoversi con moto rapidissimo in senso figurato, andare con rapidità, trascorrere, passare velocemente. Librarsi in aria.
Librarsi in aria come un uccello libero di andare dove vuole, senza conseguenze. Questa sicuramente era la mia definizione preferita.
La sensazione che provai quando l'aereo decollò rispecchiava alla perfezione l'idea che mi ero fatta del “librarsi in aria”. Non c'erano parole per descriverla se non unica e singolare.

 
***
 

Non riuscivo a mettere il borsone da viaggio nell'apposito spazio sopra ai sedili. Il problema non era che fosse troppo in alto. Con la mia modestissima altezza di un metro e settanta circa, riuscivo a raggiungere un po' tutti gli scaffali della biblioteca, senza dover ricorrere alla scaletta che usava la bibliotecaria per riordinare i volumi. Ma c'era qualcosa che bloccava il mio borsone, come se la profondità dello spazio si fosse rimpiccolita di dieci centimetri rispetto a quello che si poteva vedere da fuori. Il che era fisicamente impossibile.
Più spingevo, più sudavo, e questo non andava bene. Non volevo rischiare di puzzare per tutto il viaggio. Sbuffai infastidita, passandomi una mano sulla fronte madida di sudore.
-Non so se te ne sei accorta, ma stai facendo colonna. E se non ti sposti non posso sedermi al mio posto.- disse una voce maschile alla mia destra, talmente vicino al mio orecchio che sentii un sospiro caldo solleticarmi la tempia. Mi voltai con i nervi già a fior di pelle, pronta a dirne quattro a quel cafone, ma mi bloccai.
Non ci potevo credere.
A due spanne dal mio viso stava l'uomo che mi aveva spintonato al check-in per sorpassare. Beh, più che un uomo era un ragazzo e, a vista d'occhio, sembrava avere la mia stessa età.

Ma con l'intelligenza di un bambino, pensai.
Con il pollice puntato e l'avambraccio alzato, stava indicando qualcosa dietro di sé. Sporgendomi oltre il suo petto, vidi che il corridoio, creatosi lungo le due file di sedili, era stipato di persone di tutte le età in fila indiana. C'era chi aveva con sé una valigia, chi sventolava un volantino pubblicitario sul viso per fare aria, chi borbottava. E poi c'era chi rompeva le palle.
-Scusami tanto, ma non riesco a mettere il borsone nel portabagagli.- borbottai risentita, riprovando a spingere il mio bagaglio con più forza. Almeno io mi ero scusata.
Lui lanciò un'occhiata all'interno del portabagagli per poi alzare gli occhi al cielo. Scosse il capo come se la soluzione fosse ovvia e io troppo stupida per arrivarci poi, spingendomi per un braccio, mi prese di mano il borsone.
-Lascia, faccio io, altrimenti qui non partiamo più.-

La sua frecciatina non mi era affatto sfuggita.
Allungò un braccio nel porta bagagli, prese qualcosa, e me lo mise tra le mani. Allora c'era veramente qualcosa che bloccava il mio borsone! Una stupida cassetta bianca, rettangolare e con una croce rossa sulla facciata si era presa gioco della mia intelligenza.
-Ecco, il tuo borsone è al suo posto. Ora potresti spostarti così che io possa sedermi al mio, di posto?- brusco e diretto, il ragazzo mi guardò con insistenza, alludendo ai sedili.
Stringendo le labbra per non dire qualcosa di cattivo, annuii. Lui non conosceva le buone maniere, ma io sì.
-Certo.- e così dicendo, scivolai a sedere nel posto accanto al finestrino, il G-14.

Mi accomodai con tranquillità, raccogliendo i ricci biondi in una coda di cavallo per niente ordinata. Una ciocca di capelli sfuggi dalla mia presa, andando a stanziarsi lungo la guancia destra del mio viso.
Quando, una settimana prima, ero stata trascinata da mio padre a fare shopping sfrenato, mi aveva obbligata anche a fare un “visitina” dal parrucchiere, sostenendo che un nuovo inizio aveva bisogno anche di un nuovo taglio di capelli. Mi ero rifiutata categoricamente di tagliarli in lunghezza perché mia mamma li aveva sempre tenuti lunghi e questo, in qualche modo, mi faceva sentire legata a lei, così la parrucchiera aveva suggerito di scalare leggermente solo quelli davanti.
Chi tace acconsente, dicono. Beh, io ero rimasta zitta, non sapendo cosa rispondere così la parrucchiera aveva preso il mio silenzio per un sì. E ora mi ritrovavo ad avere delle ciocche più corte davanti, che sfuggivano sempre dalla mia coda. Poco male, sarebbero ricresciute.
Un movimento sulla destra catturò la mia attenzione. Non era possibile.

Il ragazzo maleducato, quello che non conosceva le buone maniere, aveva preso posto proprio accanto a me, e ora stava trafficando con le cinghie della cintura di sicurezza, stringendo ed allargando come un ossesso la fibbia.
Sentendosi osservato, voltò il capo nella mia direzione. Mi guardò perplesso per qualche secondo, poi alcò un sopracciglio.
-Che vuoi?- chiese allargando all'infuori, quasi impercettibilmente, la mano posata sulla sua gamba.
-Perché dovrei voler qualcosa da te?- chiesi, scuotendo il capo altrettanto perplessa.
-Perché mi stai fissando.- disse come se fosse ovvio. -Piantala.-
Sbuffai esasperata. Ma che problemi aveva quel tizio?
Guardai l'orologio da polso constatando che, purtroppo, avrei dovuto stare seduta vicino a quel tizio per le seguenti 10 ore di volo.

Fantastico.
Ecco come iniziare bene il viaggio.
Il suono di un campanello di servizio fece din-don, e dall'altoparlante sopra alla mia testa si propagò una voce, resa meccanica dal dispositivo da cui stava parlando.
-Signori e signore, è il vostro capitano che vi parla. Sono lieto di darvi il benvenuto sul volo 2375 della Delta Airlines, con destinazione Rio de Janeiro, Brasile. Vi preghiamo gentilmente di prendere posto se ancora non lo avete fatto e di allacciare le cinture di sicurezza. Sarete liberi di slacciarle non appena il segnale illuminato sopra le vostre teste si spegnerà. Le nostre hostess saranno felici di soddisfare qualsiasi vostro bisogno ed esigenza. E ora vi prego di prestare attenzione alle misure di sicurezza.- nel mentre una hostess si mise in prima fila, indossando un giubbotto di salvataggio giallo. Mano a mano che il capitano illustrava le operazioni da compiere in caso di pericolo, la donna mostrava cosa fare. Essendo il mio primo volo, prestai molta attenzione alla dimostrazione pratica, memorizzando i passaggi fondamentali.
Il ragazzo accanto a me inserì la presa degli auricolari nel cellulare, mettendoseli poi nelle orecchie.
-Durante il volo vi preghiamo, inoltre, di spegnere il cellulare e, nel caso foste provvisti di mezzi con modalità aereo, di attivarla, ma solo dopo il decollo. Grazie e buon viaggio.- detto ciò la voce si spense e il simbolo della cintura si tinse di rosso.

Picchiettai poco gentilmente sulla spalla del mio vicino. Questo, lanciatami un'occhiata, sbuffò e si tolse una cuffia.
-Scusa, ma dovresti spegnere il cellulare. È vietato.- gli feci notare.
Scuotendo esasperato la testa, spense il telefono con riluttanza, mettendolo nella tasca dei pantaloni. Incredibile, mi aveva ascoltato.
Mentre decollavamo, mi aggrappai forte ai braccioli del sedile, sentendo che le orecchie mi si tappavano a causa della pressione atmosferica.
Quando prendevo l'influenza e restavo a casa da scuola, mi infilavo sempre nel letto di mio padre. Era troppo grande per una sola persona, troppo vuoto. Mi sdraiavo e ingoiavo un'aspirina, mentre sentivo le guance scottare dalla febbre alta. Dormivo tranquilla sotto quelle coperte spaziose che sapevano di buono e di famigliare. Poi, quando mi alzavo per andare in bagno, la testa cominciava a girare, facendomi perdere per un attimo la percezione dello spazio. Quella era la stessa sensazione strana che sentii mentre ci alzavamo di quota.
Non riuscivo a decidere se mi piacesse o meno.

Girando lentamente la testa, notai che anche il ragazzo accanto a me, stringeva convulsamente le spalliere del sedile. Le nocche delle sue mani erano addirittura diventate bianche. Malgrado ciò, la sua faccia era una maschera di pietra. Dentro di me sogghignai.
Aveva paura di volare.
Quando l'aereo di stabilizzò alto nel cielo, guardai fuori dal finestrino, alzando la tendina che oscurava la vista. Quello che vidi mi lasciò a bocca aperta. Non era possibile che tutto quello fosse reale. Mi sembrava di essere stata catapultata in un sogno, dove la realtà si mischiava alla fantasia.
Stavamo volando sopra le nuvole candide come panna montata. C'era così tanta panna montata da nascondere la cioccolata calda, ovvero il terreno.
Mi riscossi da quei pensieri e, prendendo un depliant dal marsupio del sedile davanti a me, cominciai a sfogliarlo.
Ero così tranquilla che saltai sul sedile dalla sorpresa quando qualcuno accanto a me emise un suono strozzato, gutturale, facendomi spaventare.
Ovviamente era stato il tipo maleducato a emettere quel suono. La mia bocca si spalancò dalla sorpresa quando capii cosa stava facendo. O meglio, quello che non stava facendo.
Era seduto scompostamente sul sedile, con le gambe allungate, per quel che era possibile, in avanti. Il capo poggiava sulla mano sinistra, l'avambraccio alzato sul bracciolo. Capii che, ovviamente, stava dormendo, non solo perché aveva gli occhi chiusi, ma perché stava russando come un rinoceronte in calore.
Se fosse stato solo quello a renderlo disgustoso, beh, non sarebbe stato poi così fastidioso. No, lui stava sbavando come un lumacone. Un rivolo di saliva trasparente gli colava lungo il mento, e le gocce raccolte sull'orlo della mascella minacciavano di cadere sulla clavicola da un momento all'altro.
Assolutamente, indubbiamente, disgustoso.

Rabbrividii, scuotendo il capo. Ma perché diavolo avevo avuto la sfortuna di essere seduta accanto a lui? Tra più di 100 posti a sedere proprio lui mi doveva capitare?
Incredibile come la vita sia fatta di coincidenze assurde. C'era chi nasceva in una famiglia normale, viveva una vita normale, sposava una persona normale, e moriva in modo normale. Poi c'era lo sfortunato di turno, nato in una famiglia disastrata, vissuto in una situazione disastrata e morto nello stesso modo. Per la maggior parte delle persone non esisteva la fortuna e la sfortuna. Nascevano così e ci rimanevano per scelta.
Già, per scelta.

Peccato che questa possibilità non fosse stata data anche a me.
E ora, questo. Una vacanza, a mio avviso, inutile, che sarebbe servita solo a dimostrare che il mondo era invaso dal male, popolato da persone cattive, spietate e infami.
Basta! Dovevo smettere di pensarci.
Recuperai l'Ipod, regalo di papà per il mio ventesimo compleanno, dalla tasca della giacca, inserii gli auricolari ed azionai la musica. Sperai che almeno quella sarebbe riuscita a tenermi la mente occupata. Stranamente funzionò davvero perché sulle note di Free as a Bird dei Beatels i miei occhi si fecero pesanti e lentamente l'oscurità mi prese con sé.



 
***


Qualcosa di spigoloso e duro mi colpì lo stomaco, destandomi bruscamente dal mio sonno tranquillo. Sbattei le palpebre un paio di volte confusa, prima di ricordare che mi trovavo su un aereo diretto in Brasile.
Era tutto vero. Lo stavo facendo sul serio.
Allungai le braccia sopra alla testa, stiracchiandomi per quanto l'angusto spazio permetteva. Avevo la schiena tutta rigida, segno che dovevo essere stata per molto tempo nella stessa posizione e la bocca tutta impastata.
Mi bastò un'occhiata veloce al piccolo finestrino perché capissi che era quasi sera. Ma per quanto tempo avevo dormito? Avevo chiuso gli occhi poco prima delle due.
L'orologio confermò il mio presentimento; erano quasi le cinque e mezza del pomeriggio a New York. Dovunque fossimo in quel momento, dovevamo essere quasi arrivati.
Per fortuna che mi ero svegli...

Ehi, fermi tutti un momento! Qualcosa mi aveva svegliato.
Voltai il capo fulminea alla mia destra, trovando il tipo, che avevo soprannominato “Ragazzo Cafone”, sogghignare, nascondendo un sorrisetto soddisfatto dietro alla rivista che forniva la compagnia aerea gratuitamente.
Presi un lungo respiro alzando un dito per puntaglielo contro, cercando di sembrare minacciosa.
-Tu! L'hai fatto apposta, vero?-
Lui assunse una faccia fintamente innocente, spalancando gli occhi e guardandomi sorpreso.
-Io? Che ti ho fatto?- chiese con voce altrettanto finta.
-Lo so che sei stato tu a svegliarmi!- nessuno riusciva mai a farmi perdere la pazienza così velocemente come quel ragazzo. Insomma che gli avevo fatto di male, per meritarmi un simile comportamento?
-Anche se fosse, stai sicura che ho fatto un favore a tutti quanti. Stavi russando.- sghignazzò.
Mi si poteva dire di tutto, che fossi schiva, che fossi irritante, che fossi silenziosa, ma non che russassi. Ne ero sicurissima.

Beh, più o meno...
-Io non russo! E poi, senti chi parla! Quello che non è capace di chiudere i rubinetti mentre dorme. La tua bava ha creato un fiume più grande dello Stige...- indicai il pavimento con una mano.
Con mi grande sorpresa quello guardò veramente ai suoi piedi per controllare se stavo dicendo la verità. Possibile che fosse veramente così stupido da crederci?
-Io non vedo nessun fiume.- disse un po' perplesso.
Scossi la testa incredula, mettendomi una mano sugli occhi. Poco dopo lo sentii chiaramente prendere fiato per dire qualcosa, quando venne interrotto.
-Signori e signore, è il vostro capitano che parla. Tra poco cominceremo la discesa verso l'aeroporto di Rio de Janeiro. Vi preghiamo di tornare ai vostri posti nel caso non lo foste, di prendere posto e di allacciare la cintura. Quest'ultima dovrà rimanere allacciata finché l'aereo non sarà atterrato e il segnale rosso sopra le vostre teste non si spegnerà. Ricordiamo, inoltre, di spegnere ogni dispositivo elettronico, il quale potrete riattivare non appena ci saremo fermati. Nella speranza che abbiate gradito il viaggio, vi ringraziamo per aver scelto la nostra compagnia.-
Malgrado fossi ancora restia all'idea di intraprendere questo viaggio, dovevo ammettere, almeno con me stessa, che il volo era stato emozionante e piacevole. Una piccolissima parte di me era anche curiosa di scoprire cosa mi attendesse.
Ma questo, ovviamente, non significava nulla.

Varcai la soglia degli arrivi consapevole di dover recuperare le mie ingombranti valigie. Da quello che mi aveva raccontato papà, dovevo recarmi in una grande sala dove, attraverso dei nastri trasportatori, sarebbero comparsi tutti i bagagli. Bastava seguire la massa di persone, ovvio.
Tre valigie, un borsone. Non sarei mai riuscita a portare tutto da sola.
Spintonando un po' a destra e un po' a sinistra, mi feci largo tra tutta quella gente anonima, fermandomi vicino a delle sedie di plastica verde.
Mi guardai attorno, in cerca di qualche carrello che potesse aiutarmi. In lontananza, dalla direzione da cui ero arrivata, scorsi una massa di metallo. Bingo.
Affrettai il passo, consapevole che al di là dei cancelli, ci fosse una persona che mi stava aspettando. Quando avevo ricevuto la lettera dell'accettazione al progetto, mi era stato recapitato anche un foglio con le varie informazioni sul viaggio. L'associazione aveva pensato a tutte le spese dell'alloggio e del viaggio, quindi io non dovevo preoccuparmi di nulla. Inoltre, al mio arrivo all'aeroporto di Rio, un persona sarebbe venuta a prendermi, portandomi alla casa che mi avrebbe dato vitto e alloggio per tutta la mia permanenza.

Constatai piacevolmente che non dovevo inserire alcuna monetina per noleggiare un carrello, dato che non avevo con me nessuna moneta brasiliana. Appoggiai sopra il borsone da viaggio, poi, con passo spedito, mi diressi verso il ritiro bagagli, pregando di non perdermi in quei pochi corridoi.
Grazie al cielo, la massa di passeggeri persisteva alla fine del corridoio, così mi fu facile raggiungerla. Al contrario, mi fu difficile farmi spazio con il carrello e recuperare i bagagli.
Sembrava che tutti si fossero messi d'accordo per non farmi arrivare al nastro trasportatore. Ma non conoscevo nessuna di quelle persone quindi era solo una supposizione assurda. Inoltre molte persone che aveva recuperato la propria valigia se ne stavano andando.
Sbuffando infastidita, alla fine decisi di lasciare il carrello con il borse in disparte, in modo da poter recuperare il resto dei bagagli con più destrezza, e dirigermi verso l'uscita al più presto. La persona che mi stava aspettando al di là dei cancelli doveva avere anche lei una pazienza che prima o poi sarebbe terminata.
E io odiavo di principio i ritardatari.

Dovetti fare tre viaggi per riuscire a trasportare tutte le valigie sul carrello, un viaggio a valigia.
Alla fine, non so nemmeno io come, riuscii a fare in modo che i bagagli fossero abbastanza stabili da poterli trasportare, anche se questi minacciavano di cadere dal carrello da un momento all'altro. In una parola: equilibrio precario.
Molto lentamente, forse troppo, raggiunsi le porte scorrevoli che davano sul terminal.
E un nuovo mondo si aprì dinnanzi ai miei occhi.
Se il via vai dell'aeroporto di New York mi aveva stupito, quello di Rio de Janeiro mi lasciò senza parole, letteralmente. Meglio, mi fece cadere la mascella a terra dallo sbalordimento.
C'era troppa gente che camminava in fretta da un terminal all'altro per riuscire a concentrarsi solo su una singola persona. Era peggio del traffico di New York, e iIl tutto era abbellito da simpatici cartelli colorati.

Ma che...? Cartelli colorati??
Più che un aeroporto sembrava un asilo nido. Dove diavolo ero finita?
Quando il mio cervello recepì un piccolo particolare, temetti davvero che una mosca mi sarebbe finita in bocca, da tanto questa fosse spalancata.
Si poteva distinguere chiaramente chi fosse brasiliano e chi no dall'abbigliamento. O meglio, dall'arcobaleno che vestivano. C'era chi indossava camice hawaiane abbinata a dei pantaloni a motivi floreali, chi portava vistosi cappelli raffiguranti pappagalli multicolor e chi sfoggiava un cellulare degno di fare pubblicità a madre natura.
Una signora in particolare, sui cinquant'anni, destò la mia attenzione. La prima cosa che saltava all'occhio era una collana di paillettes viola, che rifletteva le luci dei lampadari, creando l'effetto “palla da discoteca” sui muri. Indossava una gonna oggettivamente corta per la sua età, e di color fucsia fosforescente. Per abbellire il tutto, come se questo non fosse già abbastanza, una canottiera senza spalline a pois giallo canarino metteva in risalto le sue... ehm curve. Fin troppo in risalto. La carnagione olivastra e i capelli scuri erano chiaro segno della nazione di sua provenienza.
Non potei far altro che ripetermi per la seconda volta quella domanda: dove diavolo ero finita?
Scossi la testa, cercando di concentrarmi sul mio obbiettivo, ovvero la ricerca della persona che era venuta a prendermi. Dopo cinque minuti in cui i miei occhi erano saettati a destra e manca, potevo dire di avere una buona e una cattiva notizia.
Quella buona era che il ragazzo dell'aereo era sparito. Ottimo, probabilmente non l'avrei mai più rivisto.

Quella cattiva... beh, non c'era nessuno che dava traccia di starmi aspettando oltre le sbarre di metallo. Quasi tutte le persone, disposte sul bordo delle grate, avevano in mano cartelli bianchi su cui le scritte variavano di contenuto: Hotel Bailadores, Sig. Fernandez, Sig. Jackson... lettere gialle, rosa, verdi. Evidentemente l'arcobaleno doveva essere un'ossesione dei brasiliani.
Ma su nessun foglio lessi né “Progetto Floral Kid”“Annabeth Chase”.
Una brutta sensazione si fece strada nella mia testa, condizionando i miei pensieri correnti. Che si fossero dimenticati di me?
Sì, la lettera, i biglietti aerei, e le referenze erano arrivate puntuali, ma potevano anche essersi dimenticati di avvisare l'altra parte. Se davvero fosse stato così, cosa dovevo fare? Aspettare seduta su una sedia che qualcuno di accorgesse di me oppure prenotare il primo volo e tornare a New York?
In effetti l'ultima opzione mi attirava molto... ma no, non potevo.
Cosa avrebbe detto mio padre se gli fossi comparsa sulla porta di casa con sei mesi di anticipo? Sicuramente sarebbe stato deluso, e io non potevo sopportare di vederlo ancora una volta così. Lo avevo fatto soffrire più in quegli ultimi due anni che nel resto della mia vita.
Sussultai spaventata quando qualcosa mi tocco la spalla. Ero così persa nei miei pensieri da essermi quasi dimenticata dove fossi. Quasi.
Feci un giro su me stessa trovandomi davanti ad un ragazzo di colore, mediamente alto, con un pizzetto sul mento e l'accenno di barba da un giorno sulle gote.

La prima cosa che notai fu il cappellino vistoso che portava; era a forma di basco ma, per il resto, non aveva nulla a che fare con quest'ultima tipologia di capello. Colorato e a strisce, gli conferiva un'aria da rapper, di quelli che si vedevano nelle piazze di New York intenti a ballare per racimolare soldi.
Le sue labbra accennarono un sorriso di scuse, i suoi occhi erano vispi e attenti.
-Scusami, sei tu Annabeth Chase?- malgrado parlasse inglese alla perfezione, la cadenza delle vocali metteva in risalto l'accetto straniero.
Sorpresa, alzai le sopracciglia.
-Si.-
Al mio cenno di assenso, il ragazzo sospirò di evidente sollievo, socchiudendo le palpebre.

-Grazie a Dios, pensavo di non trovarti più.- si lasciò sfuggire a bassa voce. -Chintia ha fatto un errore con il cartello dei vostri nomi.- disse in tono di scuse, accennando a quello che teneva in mano.
Abbassai lo sguardo. Sul cartello, in caratteri cubitali blu vi era il nome “Perceus Jackson”, e appena sotto, scritto in piccolo e in modo disordinato, “Annabeth Chase”. Chiunque l'avesse scritto, sembrava aver aggiunto all'ultimo e in fretta il mio nome.
Per fortuna che mi aveva trovato lui e...
Fermi. Tutti. Un. Attimo.

Dovevo riavvolgere il nastro, per forza.
Perché c'era scritto Perceus Jackson? Che c'entrava? Se il mio orecchio non aveva recepito male, il ragazzo aveva detto “vostri nomi” al plurale.

E, cosa ancora più importante, perché il cognome Jackson non mi era affatto estraneo?
Il brasiliano che mi stava davanti allungò la mano, per presentarsi, incurante dei pensieri che occupavano la mia testa.
-Comunque io sono Grover Underwood, è un piacere conoscerti.-
Distrattamente gli strinsi la mano, annuendo.
-Bene, è ora di andare, altrimenti chi la sente più Chintia. Quella donna è capace di rimanere sveglia per tutta la notte se non ci vede arrivare.- commentò Grover. Con il capo fece un cenno in direzione di qualcosa oltre la mia spalla. -Jackson, forza, seguimi! Dobbiamo andare.-
Con gentilezza, ma senza aggiungere altro, mi prese il carrello con i bagagli dalle mani e si diresse a passo piuttosto spedito verso l'uscita.
Oh, no.

Chiusi gli occhi, pregando con tutte le mie forze che, il sospetto fattosi strada nella mia testa in quell'istante, fosse errato. Insomma, non potevo avere così tanta sfortuna!
Okay, la mia vita aveva già subito vari colpi di scena non proprio belli, ma quello sarebbe stato troppo anche per colui che mi voleva male, lassù nel cielo.
Lentamente, molto lentamente, mi voltai, come se, perdendo più tempo, la situazione potesse cambiare.
Di solito mi piaceva quando avevo ragione, mi dava una soddisfazione personale piuttosto significativa. Ma, in quel momento, avrei voluto non averla.
Un ragazzo, che avevo visto fin troppe volte per i miei gusti quel giorno, era fermo in mezzo al corridoio e mi stava fissando in malo modo, nella stessa espressione che, probabimente, avevo anch'io.
Scossi il capo incredula, cercando di ripercorrere con la mente tutti i fatti accaduti quel giorno. Come avevo fatto a non capirlo? Lo so, era insensato, ma in quel momento non potei fare altro che incolparmi per non essermene accorta prima che fosse stato troppo tardi. Ovvero, ora.
Vidi i suoi occhi squadrami da capo a piedi, prima di fare una smorfia poco carina con la bocca e sbuffare infastidito. Se non altro aveva avuto la decenza di mostrarsi incredulo.

Con passo spedito mi avvicinai a lui, per poi puntargli un dito contro il petto, in un evidente tentativo di accusarlo.
-Ma tra tutti i posti possibili dovevi scegliere proprio il Brasile?- dissi indignata, perché sì, ero indignata.
Lui sollevò un sopracciglio e incrociò le braccia al petto.
-Potrei farti la stessa domanda.-
Respirai un paio di volte molto profondamente.
-Sei un cafone, ecco cosa sei!- okay, ero arrabbiata.
Assottigliando gli occhi in modo provocatorio, alzò le mani in segno di resa.
-Ehi, ehi, piano con gli insulti altrimenti...-
Ma non seppi mai cosa sarebbe venuto dopo quell'altrimenti perché Grover ci raggiunse, sorridendo.
-Oh, bene, vedo che avete fatto conoscenza. Mi fa molto piacere ragazzi, davvero, ma ora dobbiamo andare. Ho lasciato per sbaglio il mio amore in doppia fila e, malgrado la polizia qui sia abbastanza larga di manica, non vorrei prendere una multa per uno stupido parcheggio inesistente.- borbottò, evidentemente ansioso di andarsene al più presto.
Non vedevo i miei bagagli, così dedussi che questi fossero già stati sistemati da Grover.

Prendendoci a braccetto come vecchi amici, uno a destra e l'altro a sinistra, ci guidò verso l'uscita, respirando aria pulita appena ci lasciammo le porte scorrevoli alle spalle.
Neanche dieci passi dopo, si fermò davanti ad un furgoncino in condizioni non proprio perfette. La vernice verde acido era scrostata in vari punti, il finestrino posteriore era scocciato con del nastro isolante a causa della mancanza del vetro e la portiera del guidatore rientrava leggermente all'interno.
Sfilando una mano dal mio braccio, la allargò in direzione del mezzo.
-Vi presento il mio tesoro.- disse tutto orgoglioso.
A quel punto una balla di fieno sarebbe potuta passare sulla strada, tirata dal vento, perché l'intera scena potesse essere considerata degna di un film demenziale.
-Non è bellissima? Certo ha bisogno di qualche ritocco, ma dopo sarà perfetta.- disse aprendo la portiera del guidatore.
Al mio fianco sentii Jackson trattenere una mezza risata, mascherata da una tosse finta quanto il mio sorrisetto gentile.
-Una vera principessa...- commentò ghignando.
Gli lanciai un'occhiataccia, poi salii sul sedile accanto a quello del guidatore, chiudendo la portiera che produsse un suono sinistro. Senza aggiungere altro, Jackson prese posto sul sedile posteriore, schiacciato tra le mie valigie e il finestrino polveroso del furgoncino.
Grover accese il motore, che si attivò con un rumoroso ruggito, e dallo specchietto vidi una nube di fumo nera uscire dal gas di scarico sul fianco del furgone.
-È molto... ehm... ecologica.- commentai.
Grover mi sorrise, fiero della sua amato auto.
-Lo so.- disse -Allora, siete pronti?-
E, con un leggero scatto in avanti, partimmo, diretti chissà dove.






 
.:CAPITOLO REVISIONATO IN DATA 03/04/2015:.





 

 
Buon Sabato pomeriggio/sera eroi! Stasera devo andare ad una cena di beneficenza per la scuola (e devo fare la cameriera o.o) quindi posto ora che ho la possibilità di connettermi alla rete e, nel mentre, ascolto “It's time” e “Counting stars” rispettivamente degli Image Dragons, e degli OneRepublic. Non riesco a smettere di ascoltare quelle canzoni *^*
Comunque, veniamo a noi. Innanzitutto, visto che negli scorsi capitoli mi sono scortata di farlo, dico che il titolo della storia “Love the way you live” è spudoratamente ispirato al titolo della canzone “Love the way you lie” di Rihanna e Eminem.
Il capitolo è leggermente più lungo dello scorso e, sinceramente, avevo intenzione di aggiungerne ancora un parte, ma poi mi risultava troppo pieno e, di conseguenza, noioso per voi che leggete, quindi ho deciso di spostare quella parte nel prossimo capitolo.
La scuola mi terrà occupata molto anche la prossima settimana (molto è riduttivo ma va beh), quindi aspettatevi il prossimo aggiornamento Sabato sempre in serata (cercherò di non mancare ^^).
Come vi è sembrato il capitolo? Certo non succede chissà che avvenimento di rilevante importanza, ma vediamo Annabeth e Percy fare... conoscenza, anche se in modo non proprio, ehm, civile.
I personaggi vi sembreranno OOC rispetto a quelli di Rick, ma vi assicuro che è solo una facciata... più avanti li riconoscerete nelle loro caratteristiche (certo, il tutto sarà influenzato dallo stupro e dalle esigenze di trama ecc.)
E, udite udite, fa la sua comparsa anche Grover! Contente? Lui e il suo amato furgoncino scassato sono felici di presentarsi ai nostro occhi ;)
Annabeth e Percy sono iscritti allo stesso progetto. È un caso che entrambi abbiano scelto il Brasile? Io no credo... (qui c'è lo zampino di una certa autrice innominata).
Passiamo alla parte più importante dei commenti ovvero ai ringraziamenti.
GRAZIE! Grazie a tutte/i coloro che hanno recensito lo scorso capitolo (SERIAMENTE 7 persone???? Voi mi volete far morire di felicità!), a chi segue questa storia, chi la preferisce e chi la ricorda. Grazie con tutto il cuore, senza di voi non saprei proprio come continuare a scrivere ;). Voi mi motivate in un modo indescrivibile.
Detto ciò, vi lascio alla vostra vita quotidiana e, perché no, anche in balia della curiosità per come andrà avanti la storia... (forse è sperare troppo).
Vi invito sempre a lasciare un vostro pensierino, seppur breve è molto gradito (molto è riduttivo, sappiatelo).
Alla prossimo capitolo,
Annie-che-ha-messo-gli-occhiali 

P.S. per chiunque segua la storia “You've got mail” non disperate, aggiurnerò in settimana, promesso ;)

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Disclaimer:
'Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di Rick Riordan; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro'.

 
Capitolo 4


Rio de Janeiro, 20 Giugno 2012

Annabeth


Il silenzio regnava nell'abitacolo in moto. Era spezzato solo da qualche rumore sinistro del motore e dai clacson che suonavano ininterrotti per le strade. Ma, a differenza di New York e del suo traffico, lì la gente guidava con calma, senza fretta, come se il tempo fosse stato un cane al guinzaglio, capace di imparare il proprio controllo. Le persone camminavano molto, troppo, lentamente sui marciapiedi, fermandosi ogni cento metri per scambiare due, ma anche quattro, chiacchiere con conoscenti.
Beh, non ero proprio sicura che tutte quelle persone si conoscessero. Era umanamente impossibile. Okay che da due anni a quella parte la mia vita sociale si era ridotta ai minimi storici, ma nell'arco della mia vita non avevo mai conosciuto così tante persone.
I lampioni, posti a cento metri l'uno dall'altro, erano già stati attivati. Proiettavano una luce abbastanza fioca sulla strada imbrunita dal calar del sole brasiliano, ma abbastanza luminosa da poter guidare senza troppi problemi di vista.
Al mio fianco, Grover, guidava con gli occhi ben piantati sulla strada. Si districava nel poco traffico con ammirabile destrezza, scartando le altre auto come facevano i giocatori di calcio quando erano in possesso di palla.
I semafori, incredibilmente, diventavano verdi appena lui si avvicinava.
Prese per sbaglio una tombino particolarmente ricurvo, che fece sobbalzare il furgoncino e, di conseguenza, anche noi.
Un salto, un tonfo sordo e poi, dai sedili posteriori, un gemito di dolore. Dallo specchietto retrovisore vidi Jackson-il-cafone massaggiarsi la testa con una perfetta smorfia sul volto. Aveva picchiato la testa sul tettuccio del furgone.
Grover sorrise di sfuggita nello specchietto retrovisore.
-Scusa Percy, sto cercando di evitare la maggior parte di buche ma sono così tante che è impossibile non beccarne almeno una.- si scusò.
-Non fa niente.- borbottò Jackson portando il braccio al finestrino e appoggiandoci sopra la testa.
Gli occhi di Grover tornarono attenti alla strada che si era fatta più irregolare. I palazzi cominciavano a farsi via via più radi, mentre gli alberi aumentavano.
All'improvviso lo sterrato si fece ghiaioso, mentre l'asfalto diventava una macchia scura alle nostre spalle.
Guardai l'orologio che portavo al polso, e mi accorsi che era passata già una buona mezzora da quando eravamo partiti dall'aeroporto.
Grover, dopo avermi lanciato un'occhiata fugace, mi rassicurò.
-Tranquilla, siamo quasi arrivati. Come avrai già capito, la casa non è proprio in centro città.- piccola risatina. -Anzi, è tutt'altro che in centro.-
Ci lasciammo alle spalle l'ultimo lampione funzionante per immergerci nell'oscurità. Solo i fanali del furgoncino proiettavano abbastanza luce conica da poter orientarsi in quel buio pesto.
Lo sterrato ghiaioso era diventato di terra arida. Una serie infinita di alberi, prevalentemente querce e pini, incorniciavano il limite della strada, aiutando il guidato nell'arduo compito di guidare.
Avevo preso la patente a 17 anni, sotto suggerimento di mio padre che era un amante delle auto, nella speranza che anch'io mi appassionassi ai motori. Sfortunatamente vedevo questa possibilità solo come un'esigenza di trasporto invece di un eventuale hobby.
Avevo passato l'esame al primo colpo, ma da allora non avevo guidato molte volte, forse perché non avevo un'auto mia. Non che ne desiderassi una.
Piper, invece, subito dopo aver compiuto i 16 anni, si era messa e pregare in ginocchio il padre perché le comprasse un'auto. Voleva essere indipendente dall'autista che tutti i giorni l'accompagnava a scuola con quella specie di limousine bianca da ricchi.
All'improvviso la cintura si tese sul mio petto, schiacciandomi il seno e riportandomi bruscamente con la schiena sul sedile. Accanto a me, Grover girò la chiave e sentii il motore spegnersi, come un bambino che smette gridare per ottenere attenzioni.
Congiunse le mani sotto al mento, producendo un suono sordo, compiaciuto.
-Siamo arrivati.-
Lentamente, come avevo fatto quella mattina prima di entrare in aeroporto, aprii la portiera, scendendo.
Il terreno pendeva leggermente alla mia destra, segno che fossimo su una collina.
Per il resto non vedevo nulla intorno a me. Un leggero venticello riscaldò quella sera calda, facendo muovere le foglie degli alberi che, presumevo, circondassero quella piccola radura in cui avevamo parcheggiato.
Circumnavigai la macchina, mettendomi al fianco di Jackson che era sceso dal furgoncino e aveva lasciato la portiera aperta, permettendo ad una fievole luce di illuminare i nostri bagagli.
In una mano teneva una grande valigia, nell'altra uno zainetto nero. Quello che era rimasto all'interno del furgoncino era mio. E, per la terza volta in una giornata, non sapevo come trasportare il tutto.
Per fortuna, senza che dicessi niente, Grover infilò metà busto nell'abitacolo, uscendone poi con una delle mie valigie per mano.
-Devi solo prendere la terza.- disse sorridendomi.
-Grazie, Grover.- accennai un piccolo sorriso di gratitudine mentre recuperavo l'ultimo, maledetto, bagaglio.
Grover ci fece strada e, dopo aver spostato un paio di cespugli che intralciavano il sentiero, davanti a noi comparvero delle luci provenienti, evidentemente, da una casa.
-Vi presento fattoria Ferreira, la vostra casa.- disse Grover e, malgrado fossimo al buio, lo sentii sorridere. -Beh, in verità non è una fattoria, ma tutti la chiamano così perché... ve lo lascio capire da soli. Su, forza, seguitemi.- cominciò a camminare a passo spedito verso la casa e io e Jackson lo seguimmo adattandoci al suo passo calzante.
Rischiai di finire con la faccia a terra per due stramaledettissimi gradini a due metri della porta di ingresso, ma, grazie a quella stessa valigia che avevo maledetto più volte nell'arco di una giornata, riuscii a bloccare la caduta.
Ovviamente Jackson, che era dietro di me, non perse l'occasione di sbuffare divertito ma, perlomeno, pensò bene di non commentare.
Mi affrettai a raggiungere Grover che, nel mentre, si era fermato sulla soglia di quella che doveva essere la porta di ingresso. Riuscivo solo a distinguere i contorni di una porta di legno e il luccichio della maniglia di ottone.
Allungò una mano per stringere una cordicella che pendeva da un punto imprecisato accanto alla porta e tirò. Subito il suono di una campane si librò in quella serata afosa, facendomi sussultare dalla sorpresa.
Di spalle, Grover ci fece un cenno.
-Ragazzi preparatevi perché una volta varcata la soglia della fattoria non potrete più dormire sonni tranquilli.- poi di mise a ridacchiare per qualcosa solo a lui comprensibile.
Non feci in tempo nemmeno a rimuginare sulle sue parole che la porta si aprì, accecandomi per la luce improvvisa che ci prese sotto la sua ala luminosa.
-Mis Niños! Siete arrivati!- una voce dal timbro profondo, vivace e femminile sferzò il silenzio dell'aria, e io mi sentii pervadere da un calore famigliare.
Una donna dalle curve generose si stagliava controluce, occupando buona parte dell'entrata. Viso lineare, fianchi prosperosi, gambe lunghe. I contorni era scuri, per il contrasto con la luce, ma comunque nitidi.
-Stavo cominciando a preoccuparmi. Lasciatevi abbracciare, niños!- non ebbi neanche il tempo di memorizzare tutti i dettagli di quella figura, che mi sentii stringere le spalle da un braccio forte, e il fiato mi si arrestò. Al mio fianco sentii un suono strozzato bloccarsi sul nascere. Jackson, ovvio.
Con la stessa velocità in cui mi ero trovata stretta in quella trappola, mi ritrovai altrettanto libera.
Ero confusa.
Il mio maglione si era impregnato di un odore dolciastro, sembrava quasi... latte?
Perché mi sembrava così famigliare?
-Ma come siete magri! Sicuri di mangiare abbastanza?- con la coda dell'occhio vidi gli angoli della bocca di Grover tremolare a causa delle risa trattenute. -Oddio che scortese che sono. Forza, su, entrate!- mi sentii prendere per un polso per venire, poi, trascinata all'interno della casa.
La prima cosa che vidi fu un gatto dai grandi occhi gialli fissarci, appollaiato su una poltrona bordeaux proprio difronte a me, ad una notevole distanza dall'entrata. Annoiato, ritornò a chiudere quei suoi occhi vispi subito dopo.
-Lasciate pure qua le valigie. Underwood si assicurerà di portarle nelle vostre stanze prima che andiate a dormire.- disse la donna gesticolando freneticamente con le mani grassocce. -Mis niños vi do il benvenuto nella fattoria Ferreira! Io sono Chintia.- allungò entrambe le mani, imprigionando la mia destra e la sinistra di Jackson in una poderosa stretta.
-Tu devi essere Percy. Hai una faccia troppo coccolosa.- squittì, per quanto una donna delle sue dimensioni potesse squittire, rivolgendosi al ragazzo accanto a me. -Sei un ragazzo adorabile.- stritolò le guance del ragazzo che, dal canto suo, diventò paonazzo.
Sogghignai tra me e me ma durò poco, perché Chintia mi si parò davanti subito dopo... potrei giurare che il suo sorriso assomigliava incredibilmente a quello di una pazza.
-E tu sei Annabeth. Fatti abbracciare ancora.- e, di nuovo, soffocai in quell'abbraccio troppo grande per me, in tutti i sensi.
Non riuscivo a credere ai miei occhi; quella donna era incredibile!
-Cielo, Chintia, lasciali respirare! È tutto il giorno che sono in viaggio... non so voi ma io ho una fame caprina!- Grover si massaggiò la pancia con le mani. -Credo che andrò a prepararmi un panino. Intanto voi conoscetevi e... basta.- non ebbi neanche il tempo di metabolizzare la frase che Grover era sparito lungo il corridoio.
-Ehi, Underwood! Non ti azzardare ad intaccare la dispensa!- in pochi istanti anche Chintia se ne era andata, lasciandoci soli lì, davanti alla porta, in una casa sconosciuta.
Calò uno strano silenzio; la mia testa era occupata da un tante di quelle cose, che un mal di testa prese a martellare le mie povere meningi. Ed era un male, perché io non dovevo pensare.
Jackson si mordicchiava un labbro in un modo che mi ricordava un bambino preoccupato, ma poi sospirò e posò i suoi occhi su di me.
-Allora, credo che...- alzai una mano di scatto, fermandolo in principio.
-Zitto, non dire nulla. Ne ho già avuto abbastanza di te per oggi. Anzi per l'intera settimana! E visto che dobbiamo in qualche modo lavorare assieme, voglio che tu stia zitto almeno fino a domattina.- dissi stancamente.
Era stata una giornata lunghissima.
Lui spalancò gli occhi.
-Ma...-
-Niente ma. Ripeto: sei maleducato e io non sono venuta qui solo per incontrare un'altra stronzo. Ne ho conosciuti fin troppi ed uno più, presumo, non mi aiuterebbe affatto. Anzi...- non volevo assolutamente dirlo. Cazzo, quelle parole mi erano scappate di bocca prima ancora di passare per i controlli del mio cervello.
Se non altro erano servite a zittirlo.
Dovevo andarmene alla svelta prima di crollare definitivamente.
-Ora, scusami, ma sono stanca e ho sonno.- gli diedi le spalle mentre percorrevo il corridoio a passo spedito, in cerca di Chintia. Se solo avessi esitato un momento di più, avrei visto una nota di delusione sul volto di Jackson.
In qualche modo, guidata dalla squillante voce di Chintia che gridava contro Grover, riuscii a trovarla in quella che doveva essere la cucina.
La donna teneva in mano un mestolo di legno puntato sul povero Grover in evidente difficoltà.
-Scusate. Chintia potresti indicarmi la mia stanza? Sono molto stanca.- dissi accennando un sorrisetto di scuse.
Lei abbassò il mestolo all'istante e la sua espressione, dapprima ostile e arrabbiata, si addolcì.
-Ma certo niño, seguimi.- prima di uscire dalla cucina, minacciò Grover con il cucchiaio che, ancora, aveva in mano.
Salimmo due rampe di scale poco ripide che portarono ad un altro lungo corridoio non illuminato.
-Povera cara, dovrai essere molto stanca! Quando viaggiavamo io e Pepito finivamo sempre per addormentarci prima di cena, il che è tutto dire, visto che il suo costante pensiero era rivolto al cibo.- ridacchiò tra sé e sé, ma nella sua voce scorsi una nota di tristezza che non riuscii a identificare. Chi era Pepito?
Non ebbi il tempo di chiederglielo perché Chintia aprì una porta alla nostra destra, accendendo la luce della stanza.
-Eccoci qua. Questa è la stanza che ti ho riservato. Certo, venendo da New York, sarai abituata a dormire in una suite, di quelle che si vedono nei film, e questa decisamente non lo è. Mi dispiace, ma è tutto quello che posso offrirti.- sarebbe andata avanti ancora per chissà quanto tempo, ma avevo davvero un gran mal di testa e il mio corpo pretendeva un materasso all'istante.
-Chintia, va benissimo. Grazie. Non potrei chiedere di meglio.- e, in via del tutto eccezionale, le sorrisi, sincera. Uno di quei sorrisi che non si vedevano da due anni.
Lei sembrò rincuorata, così, sorridendo radiosa, mi baciò su una guancia. Sentii ancora quello strano profumo dolciastro.
-Tra poco Grover ti porterà i bagagli. Ho cambiato le lenzuola stamattina, quindi sono fresche di bucato.- disse prima di uscire dalla porta.
-Aspetta! Non disturbare Grover per nulla. Posso fare benissimo a meno dei bagagli per una notte.-
-Oh, se sei convinta... Buonanotte cara, ci vediamo domani mattina.- un ultimo sorriso e un'ultima raccomandazione. -Ah, e per qualsiasi cosa puoi bussare alla stanza difronte. Grover è sempre pronto ad aiutarti.- e poi uscì dalla stanza, chiudendo la porta dietro di sé.
Ero sola. Finalmente.
Spensi la luce rimanendo al buio, il mio amico e compagno di segreti nelle notti più difficili.
Due passi e mezzo giro dopo, il mio corpo poté adagiarsi su una superficie morbida.
Subito i pensieri richiamarono la mia attenzione. Volevano essere posti al centro del palco, sotto la luce del riflettore, uno per uno.
In una sola giornata avevo conosciuto più persone che nell'intero anno all'Università. Non potevo basarmi solo su qualche ora, o minuto che fosse, per poter giudicare Chintia, Grover e, a malincuore, Jackson.
Ma c'era qualcosa, qualcosa che mi portava a non fidarmi di quel ragazzo.
E, ovviamente, io che avevo fatto?
Mi ero lasciata sfuggire quella cosa. Mi ero esposta fin troppo con uno sconosciuto che, per di più, si era comportato da stronzo ancora prima di conoscere il suo nome.
Nessuno deve venire a conoscenza del mio passato. Per nessun motivo.”
Era la promessa che mi ero fatta quella mattina.
Basta, dovevo smetterla di pensarci. Molto probabilmente Jackson avrebbe preso quelle parole come una provocazione e la mattina dopo mi avrebbe risposto per le rime.
Sospirai profondamente, poi mi alzai e mi spogliai al chiaro della luna che risplendeva dalla finestra, rimanendo solo con canottiera e mutande addosso. Faceva molto caldo e, sicuramente, non avrei avuto bisogno di altri indumenti. A passo lento raggiunsi il bordo del letto, scostai coperta e lenzuolo rosa pallido per coricarmi al loro interno.
La mia testa affondò nel batuffolo di piume morbide che era il cuscino. In un certo senso mi ricordava tanto quello che avevo a casa.
Ma quella non era casa mia, quello non era il mio letto, quella non era la mia vita. Mi sarei dovuta adattare anche a quella nuova situazione.
Come sempre.
Le palpebre sbattevano sempre più lentamente e, ad ogni salita e discesa, si fermavano sempre più vicine all'argine che tratteneva le lacrime quando, queste, minacciavano di cadere.
Mi stavo addormentando.
I can fly but I want his wings. I can shine even in the darkness but I crave the light that he brings. Revel in the songs that he sings my angel Gabriel.”
La voce delicata di Lamb mi destò mentre le prime parole di I can fly richiamavano l'attenzione al grumo di panni assiepati sulla sedia adiacente alla porta.
Mi ero scordata di disattivare la suoneria.
Maledicendo chiunque avesse avuto l'idea malsana di chiamarmi proprio mentre accoglievo a braccia aperte il mondo dei sogni, recuperai quell'aggeggio maledetto dalla tasca posteriore dei miei jeans.
Senza neanche guardare il mittente, premetti il tasto verde.
-Annie! Sei arrivata? Come è andato il viaggio? Su, forza, voglio sapere tutto dettagliatamente.- la voce squillante e fin troppo allegra di Piper scacciò definitivamente la mia speranza di tornare presto tra quelle coperte così accoglienti.
-Piper, ma lo sai che ore sono?- chiesi malgrado non lo sapessi nemmeno io.
-Beh... il mio orologio fa le 19 meno dieci, ma probabilmente è indietro. Perché? Non dirmi che sei già a letto come una vecchia bacucca! Caspita sei in Brasile.- guardai l'orologio posto sul comodino.
22,05.
Io l'avrei strozzata presto.
-Piper, santo cielo, non hai pensato al fuso orario?- chiesi sospirando.
Un silenzio colpevole dall'altro capo del telefono.
-Ooops. Oh mamma santa, me ne sono completamente dimentica! Scusami, Annie, davvero.- riuscii a figurarmi la sua faccia dispiaciuta così bene che non potei rimanere arrabbiata con lei oltre.
-Non fa niente.-
-Comunque, raccontami tutto!- come non detto. -Il viaggio è stato bello? Ti hanno servito champagne come nei film? Hai conosciuto qualche raga...- si interruppe all'improvviso e io sapevo perché.
Dopo che io... dopo quella sera, Piper si era sentita responsabile di quello che era accaduto, e si accusava di non avermi riaccompagnato a casa perché si era ubriacata. Io avevo cercato in tutti i modi di farle capire che non era affatto colpa sua, né di nessun altro, ma lei sotto sotto continuava a crederlo. Era stata l'unica a rimanermi vicino in quel delicato momento. Non avevo la forza di uscire con gli amici così, a lungo andare, loro avevano rotto i legami con me. Ma lei no.
Entrava in camera mia, un giorno si e l'altro no, senza bussare, e mi coinvolgeva nei suoi progetti per la giornata, che volessi o no farli di mio volontà. Al momento mi aveva dato fastidio e non poche volte Piper aveva dovuto usare le cattive maniere per destarmi dal mio letargo, se necessario anche urlando brutte cose.
Tanto a me non importava.
Ma dopo un po' mi ero accorta di provare non poca riconoscenza nei suoi confronti. La mia Piper mi aveva aiutato, come io avevo fatto con lei prima di diventare amiche.
Era il mio personale uragano, fatto di smalti e sorrisi.
Evitava come la peste quell'argomento, ma quando, sovrappensiero, si metteva a parlare di ragazzi, ad un certo punto del discorso si bloccava come se avesse commesso chissà quale reato.
Le volevo molto bene, davvero, e il fatto che fosse così attenta a non urtare la mia sensibilità mi faceva provare stima nei suoi confronti, ma alcune volte volevo solo che lei continuasse a parlare, per riuscire a sentirmi, almeno una volta, una ragazza con una vita normale.
Sorrisi.
Paese nuovo, vita nuova, eh? Tanto valeva provarci.
-Ragazzi carini non ne ho visti. Ma ho conosciuto un ragazzo che è venuto in Brasile per partecipare al mio stesso progetto e...- neanche il tempo di concludere la frase che Piper partì in quarta.
-Annie che bello! Allora, com'è? Bello?-
-Piper, fermati. Non è come pensi tu.-
-Oh...- era evidentemente confusa.
-È un maleducato di prima categoria. Mi ha spintonato senza chiedermi scusa e poi ha avuto il coraggio di svegliarmi sull'aereo. E io gli ho...- la voce mi si ruppe sulle ultime parole. Era come se tutta l'energia accumulata in quei pochi minuti di conversazione se ne fosse andata. All'improvviso avevo solo voglia di sdraiarmi e dormire. Per non pensare.
Grazie al cielo Piper sembrò capire che l'argomento era delicato. Era molto brava a capire gli stati d'animo delle persone.
-Sarai stanchissima. Ora ti saluto così puoi dormire e riposarti.- disse premurosa.
-Piper?-
-Si?-
-Grazie.- ero sincera.
-Buonanotte tesoro, ti voglio bene.-
-Anch'io, Piper. Molto.-
Appena poggiai la testa su quel cuscino morbido e chiusi gli occhi, nella mia testa presero forma tante nubi bianche, soffici e morbide come quel guanciale.
Oltre mia ogni previsione, quella sera fu facile addormentarmi senza pensieri.


-Vamos, princesa, es hora de despertar! ¹ - Sbattei le palpebre ma la luce era troppo intesa per tenerli aperti, così li dovetti richiudere.
Gemetti. Sentivo già la mancanza di quel letto così morbido, malgrado non mi fossi ancora alzata.
Come iniziare bene una giornata.
Una figura si chinò su di me. Lentamente riaprii gli occhi, mettendo a fuoco il viso paffuto di Chintia. Un sorriso radioso le illuminava quel volto abbronzato, mentre le rughe di espressione si ramificavano dai suoi occhi dolci.
-Lo sai che quando dormi sei dolcissima? Mi ricordi tanto la mia Rita.- sorrise appena mentre raddrizzava il busto e raggiungeva la porta.
-La colazione è pronta. I tuoi bagagli sono appena qui fuori, Grover te li ha portati su questa mattina. Spero che il bacon e le salsicce ti piacciano perché hai bisogno di mangiare. Sei troppo sciupata.-
Mi serviva qualche secondo per raccogliere le forze -e il coraggio- per sostenere quella giornata. In qualche modo temevo il momento in cui mi fossi trovata faccia a faccia con Jackson.
Scossi la testa, scacciando quei pensieri. Sicuramente lui non ricordava neanche quello che gli avevo detto.
Un brontolio mi riscosse e, con sorpresa, mi accorsi che avevo fame. La sera prima non avevo mangiato praticamente nulla a causa del jet leg e di altro.
Sbirciai nel corridoio ma non c'era anima viva. Tutte le porte erano chiuse e solo le mie valigie stonavano con il vuoto del corridoio.
Le recuperai, presi un paio di pantaloni e una maglietta viola e poi, andando a tentoni, trovai il bagno appena dopo la stanza di Grover.
Scesi le scale ed entrai in cucina che, rispetto alle altre stanze, era grande il doppio.
Un grande tavolo lungo era posizionato al centro, con una decina di posti a sedere. La cucina e i vari scompartimenti erano posizionati al lato destro, e correvano lungo tutto la parete.
Fin troppo modesto per me che non ero una cima nella cucina.
Chintia era di spalle, indaffarata tra un paio di padelloni, coltelli e affettatrici. Raggiunsi il tavolo, sedendomi di fronte ad una tovaglietta e una scodella a fiori.
-Principessa preferisci salsiccia oppure bacon?- sorridendo dolcemente mi raggiunse, munita di padella e forchetta. -Uhm... direi che vanno bene entrambe. Hai bisogno di mangiare, e non ti azzardare a dire che sei grassa. Io non ci casco.-
Non ebbi neanche il tempo di ribattere perché una palla di pelo calda prese posto sulle mie gambe, mettendosi comoda.
Abbassai lo sguardo e, sorpresa, vidi che un gatto dal pelo folto e dai riflessi candidi stava sbadigliando già con gli occhi chiusi.
-Frappola scendi subito dalle gambe di Annabeth!- il cipiglio comparso sul volto di Chintia mi fece capre che si stava rivolgendo al gatto.
-Frappola?- chiesi divertita. Era la prima volta che sentivo quello strano nome.
-Si, è una lunga storia.- disse Chintia riponendo il grande pentolone sul fornello e venendo a sedersi alla mia destra.
-Comunque gli piaci. Ed è strano perché di solito odia tutti quelli che vengono qui. Solo i bambini riescono ad interagire con lui.-
Presi ad accarezzare il capo di Frappola che era morbido al tatto. Sembrò gradire molto quelle carezze perché fece le fusa.
Chintia sorrise.
-È un dormiglione come pochi. Passa praticamente i tre quarti della giornata a dormire fuori al sole. Rientra solo alla sera, quando gli ultimi raggi illuminano l'orizzonte.-
Quando ero piccola desideravo molto un gatto. Avevo pregato molto la mamma perché me ne comprasse uno, ma lei tergiversava sempre dicendo che non aveva il tempo di badarci e che sarebbe costato molti soldi. Mi sentivo sola.
Ad un certo punto, vedendo che ricevevo solo risposte negative, avevo smesso di chiedere, richiudendomi in stanza, ancora una volta, sola.
Poi mamma se n'era andata ed eravamo rimasti solo io e papà. Ma non provai mai a fargli quella richiesta. Mi sembrava già fin troppo triste.
Io ero troppo triste e avevo perso l'interesse.
Sentii dei passi e delle risate fuori dalla porta della cucina, poi questa si aprì e un leggero venticello afoso mi solleticò le braccia scoperte.
-Credo che potremmo iniziare a lavorarci nel pomeriggio. Che ne dici?-
Grover entrò a grandi passi, tenendo aperta la porta a Jackson e sorridendogli.
-Si credo si possa fare. Avremo bisogno di nuovi pezzi.- commentò quello sedendosi su una sedia del grande tavolo. Con mia grande sorpresa si girò a guardarmi e... sorrise?
-Buongiorno, Chase.-
Stop, stop, stop.
Mi aveva... salutata?
Ero doppiamente confusa. Feci l'unica cosa che mi veniva in mente in quel momento.
Abbassai il capo sul mio piatto e lo ignorai.
-Non preoccuparti, a quelli ci penso io.- disse Grover annuendo. -Buongiorno Annabeth! Dormito bene?- non dovevo mostrargli di essere sorpresa.
-Si, grazie.- accennai un sorriso a Grover.
-Ma dove eravate finiti?- chiese Chintia. -Lo sapete che tra poco dovete partire?-
-Si certo, è una settimana che me lo ripeti.- disse Grover evidentemente esasperato.
Dalla faccia consapevole di Jackson capii che tra tutti ero l'unica a non sapere di cosa stessero parlando.
-Ehi, fermi un attimo. Partire per andare dove esattamente?- la mia domanda era rivolta a Chintia ma fu Jackson a rispondere.
-A trovare i bambini, ovvio. Siamo qui per questo, giusto?- okay, qualcosa non andava. Davvero Jackson mi aveva risposto ben due volte in modo gentile?
Pensando alla sua risposta, però, mi diedi della scema. In qualche modo non avevo più pensato al motivo per cui ero in Brasile.
-Esatto. Il direttore della casa della comunità vi vuole incontrare per spiegarvi come è organizzato il tutto. Poi Grover vi accompagnerà a far visita ai bambini. Oh, esos pobres angelitos! ² Che Dios li benedica.- Chintia aveva gli occhi lucidi dalla commozione, ma non ne capivo il motivo.
-Preparatevi perché quest'esperienza vi rimarrà nel cuore per molto tempo. Ho visto molte persone venire qui e cambiare dopo aver visto quei bambini. E sono sicura che questo capiterà anche a voi, ninos.- con la mano rugosa mi accarezzò una guancia, temporeggiando con il pollice sul mento.
Il suo tocco era caldo e confortevole.
I suoi occhi nocciola catturarono i miei e in essi vi lessi una sofferenza velata da qualcosa. La stessa sofferenza che vedevo quando guardavo il mio riflesso allo specchio del bagno dopo una notte difficile.
Distolsi lo sguardo quando quello divenne troppo pesante da sostenere.
Avevo impiegato anni a recuperare un po' di sicurezza e controllo per sopportare quel fardello nei momenti più duri.
Ma in quel momento, conoscere un briciolo di quello che vedevo negli occhi di Chintia, mi avrebbe fatta crollare irreparabilmente.


















¹ Vamos, princesa, es hora de despertar!: Forza, principessa, è ora di alzarsi!
² Oh, esos pobres angelitos!: Oh, quei poveri angioletti!
(³) Ninos: bambini








Link 1
Cliccando sul primo link potete vedere un disegno della fattoria Ferreira (la casa) come la immagino io (sull'orizzonte c'è il mare e la città)
Link 2
Cliccando, invece, sul secondo link potete guardare la piantina della casa, con tutte le stanze indicate e la loro funzione.
N.B. Entrambi i disegni solo e soltanto da me.
Non rispondo di eventuali sbocchi per gli obbrobri disegnati XD.








Note fine capitolo:
Giorno eroi! Eccomi qui, puntuale come un orologio svizzero (in verità è il contrario ma va beh). Il quarto capitolo (voglio sentiro un'holà di “ooooooohhhhh”).
L'ho finito di scrivere ieri mattina invece di andare a scuola XD dettagli ;)
L'importante è che voi siate felici, che io sia felice, che tutti siamo felici, no?
La canzone fissa della settimana è “Let Her Go” di Passenger... ennesima canzone che non riesco a smettere di ascoltare.
Allora passiamo al comento del capitolo che lè mei (detto nel mio dialetto locale).
Annabeth e Percy sono arrivati in Brasile e hanno conosciuto Chintia, la donna che si occupa della casa che li ospita.
Annabeth dice a Percy quello che pensa e si lascia scappere dei piccoli indizi sul suo passato... beh un leggero cambiamento in Percy lo potete leggere verso la fine.
Non chiedetemi dove sono andata a prendere il nome Frappola per il gatto perché non lo so nenanche io XD Vi piace?
Allora che ne pensate del capitolo?
Passiamo ai ringraziamenti;
Grazie alle 8 (SERIAMENTE?!) persone che hanno recensito lo scorso capitolo, a tutte quelle che hanno aggiunto la storia alle preferite, ricordate, seguite. Non mi stancherò mai di dirlo: GRAZIE DI CUORE!
Ringrazio anche la mia beta Sara (la mia mogliettina <3).
I disegni che trovate sopra nei link non sostituiscono le descrizioni del testo. Ve li mostro solo e soltanto per far rendere meglio quello che immagino io.
Al prossimo Sabato.
Bacioni
Annie


Indovinello: Per il personaggio di Chintia mi sono ispirata ad un personaggio di un'altro libro che praticamente tutti conoscono (e che è uno dei miei preferiti). Vediamo chi indovina! (suggerimento: basatevi tanto su quello che dice).






Per chi interesasse ho pubblicato una OS Percabeth (che non ha alcun legame con questa storia) in occasione di San Valentino. Auguri, anche se in ritardo. --> Ripetizioni... bollenti  

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Disclaimer:
'Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di Rick Riordan; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro'.


Capitolo 5


Fattoria Ferreira, 21 Giugno 2012

Annabeth


La prima volta che ero tornata a casa mostrando il massimo dei voti nel test di matematica, mio papà, eccellente studioso e docente qualificato dell'Università di New York, mi aveva comprato un gelato come ricompensa, promettendomene un'altro la volta successiva.
Si era mostrato esplicitamente felice ed orgoglioso, perché era stato lui ad insegnarmi a leggere e scrivere prima ancora di iniziare la scuola. Mi aveva spronato fin da subito ad impegnarmi in tutto quello che facevo, che mi piacesse o meno.
Qualche anno dopo mi ero resa conto che senza di lui non sarei riuscita ad ottenere i risultati che avevo ottenuto. Vedevo sempre i miei compagni di classe dormire o cincischiare con il cellulare durante le lezioni, mentre il pomeriggio se ne uscivano con gli amici, ed allora mi chiedevo: dove erano i loro genitori nel momento di istruire i propri figli? Non potevo fare a meno che paragonare due genitori sposati e, tutto sommato, presenti, con il mio papà, solo ed impegnato anche la Domenica. Ed ogni volta mi stupivo del risultato che lui aveva ottenuto solo standomi accanto e motivandomi al meglio.
Al di fuori di Piper, che considerava come una figlia adottiva, papà era il mio migliore amico, quello che mi sosteneva in tutto quello che facevo, consigliandomi a seguire il mio istinto, le mie passioni.
E quando era arrivato il momento in cui avevo più bisogno della sua presenza, mi era stato accanto, facendo il possibile perché superassi quel trauma. Era diventato l'unico uomo di cui io mi fidassi, l'unico in grado di avvicinarmi senza che mi mettessi ad urlare nei primi tempi dopo l'accaduto. Non si era lamentato per tutte le notti insonni che aveva passato a causa degli incubi seguiti dalle urla isteriche. Non aveva fatto una piega davanti al conto dello psicologo cui si era ostinato a mandarmi. Non solo; mi aveva vista partire per un paese lontano nella sola speranza di vedermi nuovamente felice.
Non sarei mai riuscita a ripagarlo di tutto quell'amore nei miei confronti. Quell'amore così grande che non mi meritavo affatto.
Sopratutto perché la sera prima mi ero dimenticata di chiamarlo dopo essere atterrata in aeroporto. Ero una figlia ingrata, su quello non c'era dubbio. Non riuscivo neanche ad immaginare la sua preoccupazione nel non ricevere una mia chiamata.
Quella mattina, mentre finivo di fare colazione, quella dimenticanza prese padronanza dei miei pensieri all'improvviso, destandomi da altrettanti pensieri che di felice non avevano nulla.
Lasciai la presa sulla forchetta che tenevo in mano la quale, venendo a contatto con la superficie piana del piatto, proruppe in un rumore metallico.
-Oh, no!- picchiai il palmo della mia mano destra sulla fronte, dandomi mentalmente della stupida.
Attirai l'attenzione dei presenti; Chintia, che nel mentre era tornata ai fornelli, si girò di scatto sorpresa, mentre Grover e Jackson, rispettivamente seduti al tavolo della cucina e impegnati in una fitta conversazione su motori e quant'altro, mossero il capo nella mia direzione.
-Che succede, principessa?- chiese Chintia evidentemente preoccupata.
Nuova vita, nuovi cambiamenti. Continuavo a ripetermi quel mantra, ininterrottamente.
Nella mia vecchia vita avevo già fatto preoccupare a morte troppe persone, in primis papà, e, se volevo rispettare quel motto auto impostomi, non dovevo mostrarmi debole.
-Niente di importante, ho avuto un lapsus.- dissi minimizzando la cosa con un gesto della mano. -Ora scusatemi, ma devo fare una cosa prima di partire.- detto ciò uscii a grandi passi dalla porta sul retro e, appena ebbi sceso i pochi gradini che separavano la porta dal prato, misi mano sul cellulare, situato nella tasca anteriore dei miei jeans.
Mi allontanai di qualche metro, giusto per porre una certa distanza tra me ed eventuali orecchie indiscrete. Ovviamente non mi stavo riferendo a nessuno in particolare.
Mi appoggiai alla corteccia di un grande melo, postato in prossimità della casa e, freneticamente, schiacciai sui tasti del dispositivo elettronico, componendo il numero che conoscevo fin dalle prime raccomandazioni di papà sulla sicurezza.
Il bit bit regolare che indicava l'attesa di una risposta mi tenne occupato il cervello già fin troppo attivo per i miei gusti.
Un pensiero improvviso mi fece allontanare il dispositivo dall'orecchio un istante, per controllare l'ora locale. Commettendo lo stesso errore della mia amica la sera prima, non avevo tenuto conto del fuso orario.
Fortunatamente, per una coincidenza inspiegabile, constatai che a New York erano solo le 7 di mattina, e che papà si era svegliato già da un pezzo. Malgrado le lezioni dell'Università fossero sospese a causa delle vacanze estive, lui aveva l'abitudine di alzarsi presto la mattina e di andare a comprare del pane appena sfornato dal fornaio sotto casa.
Finché non sentii un fruscio indefinito uscire dall'altoparlante del cellulare, un peso di consapevolezza mi strinse lo stomaco.
-Annabeth!- la voce era allegra e spensierata, niente a che vedere con quello che avevo previsto io. -Allora come va nella bella Rio?-
Sorrisi sentendo che mio padre era felice. La sua felicità influenzava la mia, come sempre.
-Benissimo. Mi hanno portato in una casa bellissima al di fuori della città. E qui le persone sono gentilissime!- risposi sinceramente.
-Mi fa molto piacere, Annabeth. Sento che quando tornerai non sarai più la stessa.- l'ultima parte l'aveva solo sussurrata, forse non voleva neanche farsi sentire.
Non sapevo cosa rispondere, con quella frase mi aveva completamente spiazzata.
-Papà...- tutto ad un tratto quella felicità che mi aveva colpito appena avevo sentito la sua voce, sfumò come acqua l'asciata al sole di Agosto per troppo tempo.
-Ehi, Annabeth, ascolta. Ricordi quello che ti ho detto ieri?- cielo, era passato solo un giorno da quando l'avevo visto! Incredibile come quel tempo mi era sembrato infinito.
-Si, certo.-
-Bene, perché ho ancora quella convinzione.- fece una pausa che non seppi interpretare. -Comunque, tutto bene?-
Con quella domanda velata mi stava chiedendo sia se stavo bene a livello fisico che, sopratutto, a livello mentale.
E subito il mio pensiero corse a Jackson.
Non si poteva definire un'incontro bello, sopratutto perché con pochi gesti e poche frasi era riuscito a farmi perdere il controllo per un attimo. Ma, per qualche ragione a me estranea, non volevo far preoccupare papà per quella che era un'incognita. Jackson.
-Si, certo, va tutto alla grande.- risposi evasiva, spostando lo sguardo all'orizzonta dove, in lontananza, si poteva vedere il mare.
-Papà, scusa, ma ora devo andare. Tra poco dobbiamo partire per andare in città e devo finire di disfare i bagagli.-
-Certo, anch'io devo andare. Tra poco inizia la mia lezione di pilates. Passa una buona giornata, Annabeth. Ci sentiamo domani.-
Un attimo. Papà faceva... pilates? Da quando?
-Ti voglio bene.- chiuse la telefonata prima che io avessi il tempo di metabolizzare la cosa.
Okay, questo era assai strano.
Pilates. Papà. Non ne vedo il collegamento logico.
-Annabeth?- nel sentirmi chiamare, ritornai alla porta sul retro, dove mi aspettava Grover con un sorrisetto sul volto barbuto.
-È ora di andare. Ci aspettano per le 11 alla casa della comunità e, se non partiamo subito, rischiamo di inciampare nel traffico di punta. E ti posso assicurare che da lì non ne usciamo più.-
Rinfoderai il cellulare nella tasca dei jeans prima di rientrare e salutare Chintia, la quale mi strinse in una abbraccio e sussurrò qualcosa nell'orecchio in spagnolo. Non ne colsi il significato a causa della mia ignoranza in materia. Dopotutto non avevo mai studiato spagnolo.
Presi posto davanti e, con mia grande sorpresa, Jackson non obiettò.
La strada buia e irregolare che avevamo percorso il giorno prima, quella mattina mi si rivelò molto diversa da come l'avevo immaginata. Procedeva in discesa, anche se in alcuni punti compiva un'oscillazione in salita. Con la mia scarsa esperienza di guida, sicuramente, sarei finita fuori strada già alla prima curva.
E poi, in un battito di ciglia, il paesaggio, da boschivo qual'era, cambiò radicalmente la sua natura.
Stavo guardando Rio in tutto il suo splendore.
Forse la sera prima ero troppo stanca per avere anche solo la forza di guardare fuori dal finestrino. O, semplicemente, non avevo abbastanza voglia e interesse.
Ma quella mattina, con il sole alto nel cielo, mi era impossibile ignorare tutti quei colori.
I miei occhi saettavano a destra e manca, famelici come un senzatetto davanti ad una tavola calda a Natale. Non erano mai sazi di apprendere informazioni, cose, persone. Tutto.
La gente, che la sera prima mi era sembrata troppo lenta, in quel momento irradiava vita pura. Ognuno, uomo, donna, bambino, sorrideva al suo interlocutore, o anche solo al cane che passeggiava per la strada in cerca di cibo.
Quello che avevo visto all'aeroporto non era niente in confronto a quello che vedevo in quel momento.
Con la stessa rapidità con cui il paesaggio si era fatto variopinto e vivace, lo sfondo si fece nettamente più povero.
Procedendo lungo quella strada che stavamo costeggiando, ci lasciammo alle spalle i grandi palazzoni di vetro e i grattacieli costosi per entrare in quello che, supponevo, fosse una delle tante favelas di Rio.
-Siamo quasi arrivati, vero?- Grover distolse per un attimo gli occhi sulla strada, e mi sorrise tristemente.
-Si.-
La parte posteriore del furgoncino era così silenziosa che quasi mi ero dimenticata della presenza di Jackson, seduto compostamente e con il capo rivolto verso il finestrino.
Dallo specchietto retrovisore lo studiai, cercando di capire perché aveva quell'espressione così... pensierosa. Sembrava vivere in un mondo tutto suo, come se si fosse estraniato dalla realtà. Quello che capita spesso anche a me, dopotutto.
Uno sbalzo improvviso mi fece distogliere lo sguardo dallo specchietto, mentre la cintura mi strattonava ancora una volta nella sua ferrea morsa.
Grover aveva parcheggiato sul ciglio di una strada deserta. Sul lato destro era costeggiato da una staccionata color mattone, mentre il lato sinistro dava su alcune casette modeste.
-Siamo arrivati.-
Sul cancelletto che dava l'accesso al di là della staccionata, era stanziato un uomo barbuto che, presumibilmente, stava aspettando il nostro arrivo.
Camminai dietro a Grover con Jackson al mio fianco. Forse involontariamente, Jackson mi sfiorò il braccio nudo con il proprio e quel contatto, seppur breve, mi mise i brividi. Non volevo fargli capire che qualsiasi tocco maschile che non fosse quello di mio padre mi terrorizzava, così mi allontanai di qualche passo, incrociando le braccia al petto e incassando il collo.
Grover allungò la mano prima ancora di essersi fermato, sorridendo cordiale.
-Ehi, come te la passi, bello?- non conoscevo Grover abbastanza per poterlo giudicare, ma quel suo modo di salutare non sembrò piacere all'uomo.
Più o meno sembrava essere sulla quarantina, ma la barba bruna e folta nascondevano una buona parte del viso. La camicia a fantasia hawaiana non mi sorprese più di tanto, ma i semplici pantaloni kaki sì. Forse avevo sopravvalutato i brasiliani, ma quello mi sembrava completamente fuori standard. Inoltre, a differenza degli altri uomini che avevo visto in giro, lui era nettamente più in carne. L'espressione burbera faceva a pungi con l'abbigliamento allegro.
-Grosvenor quante volte ti ho detto di non chiamarmi bello? Io per te sono Doniso e basta.- malgrado il suo tono fosse di rimprovero, allungò la mano per stringere quella abbronzata di Grover.
-E io le ho detto un sacco di volte che mi chiamo Grover, signor Dioniso, ricorda?- rispose a tono Grover, sogghignando.
L'uomo minimizzò la cosa con un gesto frettoloso della mano.
-Non ne vedo la differenza. Dunque voi due dovreste essere i nuovi volontari.- disse rivolgendosi con disinteresse verso di noi.
-Si signore, io sono Annabeth Chase.- feci un passo in avanti porgendogli la mano che lui si affrettò a stringere brevemente.
-E io sono Percy Jackson.- lui invece si limitò a fare un cenno di saluto. Il che non sembrò piacere molto al signor Dioniso che fece una smorfia in risposta.
Ecco il solito maleducato.
-Bene; signorina Chase, giovanotto, seguitemi. Abbiamo molte cose da fare e poco tempo per portarle a termine. E io sono un uomo molto impegnato.-
Guardai Grover che se ne stava lì fisso, sorridendo divertito a Jackson che, invece, era evidentemente perplesso in relazione al nomignolo affibbiatogli dal signor Dioniso. Ben gli stava. Così avrebbe imparato una buona volta le buone maniere.
Mi avviai lungo la stradina che portava ad una porta, seguendo le orme del signor Dioniso. Alle mie spalle, il suono sordo delle scarpe di Jackson a contatto con la ghiaia mi irritarono parecchio.
Un tappetino con la scritta “Welcome” e un cane marrone con la lingua a penzoloni, mi diedero il benvenuto all'interno della struttura.
Un corridoio in linea retta si prolungava per una ventina di metri, e dava l'accesso a quattro porte color blu notte. Le pareti erano decorate da disegni infantili che mi ricordavano tanto l'asilo dove andavo prima che la mamma se ne andasse.
Appoggiai il palmo della mano aperta sopra quella gialla di un bambino disegnata con la tempera. Accanto, a lettere cubitali, vi era scritto un nome, ma era stroppo sbavato perché potessi decifrarlo.
Le impronte tappezzavano tutta la parete di destra, dando vitalità a quel corridoio che, altrimenti, sarebbe somigliato spaventosamente ad un ospedale psichiatrico.
Ero così persa nei miei pensieri che non mi accorsi della mano appoggiata a pochi centimetri dalla mia, sopra ad un'altra impronta, finché quella non parlò.
-Sono piccolissime.- poco più di un sussurro, ma abbastanza forte da farmi trasalire.
Il suo mignolo era ad un paio di centimetri dal mio, sarebbe bastato poco per farli venire a contatto.
Aprii la bocca per dire qualcosa, ma una voce burbera ci obbligò a distogliere lo sguardo dalla parete.
-Venite o no? Ve l'ho già detto. Ho molti impegni da rispettare e voi non siete la priorità.-
Calò il silenzio mentre seguivamo il signor Dioniso lungo quel corridoio colorato.
Si fermò davanti alla seconda porta e l'aprì esortandoci ad entrare.
-Gestisco questo posto da quasi vent'anni. Prima che l'associazione lo ritirasse, l'edifico era una piccola fabbrica locale. Dopo averla ristrutturata, divenne una sorta di pronto soccorso per gli abitanti della favelas locale. Poi, in seguito un'ulteriore ad impoverimento della popolazione locale, aprì anche la mensa dei poveri. E alla fine, un paio di anni fa, partì anche questo progetto per quei marmocchi analfabeti.- disse con un leggero astio nella voce.
Con la mano fece un largo gesto indicando la stanza in cui ci trovavamo e, guardandomi attorno, mi accorsi che eravamo entrati in quella che sembrava... un'aula?
A mezzo metro da me partiva una serie di banchi di piccola taglia, grandi abbastanza per ospitare un paio di bambini, ma troppo piccoli perché potessi infilarci le mie gambe.
Ogni tavolino era accompagnato da due sedie, alcune di legno altre di plastica colorata. Quelle di legno erano pasticciate da scritte e tratti di correttore bianco.
Praticamente erano tutti gli scarti ancora utilizzabili.
Opposta alla serie di banchi, vi era una lavagna nera, ancorata alla parete, di quelle vecchio stampo divisa in quadrati bianchi come un quaderno.
-Questa è la classe.- commentò il signor Dioniso anche se era ovvio. -Ora seguitemi nel mio ufficio. Vi devo consegnare tutto il materiale e darvi le ultime informazioni.- e senza attendere oltre uscì dall'aula sicuro che noi lo seguissimo, cosa che, in effetti, facemmo. Ma vidi Jackson muovere un passo con riluttanza verso quell'uomo. Per il resto la sua faccia era una maschera.
Percorrendo ancora quel corridoio variopinto entrammo nell'ultima porta e, con mia grande sorpresa, mi trovai davanti ad un padellone di metallo. Usciva del fumo biancastro, come quella nebbia perlata che si poteva vedere nelle notti estive prima di un temporale.
Un forte odore di cavolo e cipolla raggiunse le mie narici, facendomi storcere il naso per la troppo intensità.
-Si usted lo desea también un poco de tienes que hacer cola.*- disse una donna indicando con un mestolo qualcosa al di là del bancone che separava il grande pentolone dal resto della sala.
Alle superiori avevo studiato spagnolo e, malgrado in precedenza l'avessi trovato inutile, in quel momento ringraziai la mia tutor per avermi obbligato in quella scelta.
La donna che mi aveva parlato indossava una cuffietta bianca a rete, simile a quelle che indossavano le crocerossine, e un grembiule che in origine doveva essere bianco.
Guardai al di là del bancone e rimasi a bocca aperta.
Una lunghissima fila di persone di tutte le età serpeggiava nella sala mentre la coda non si vedeva neppure dato che proseguiva oltre la porta principale d'entrata.
Il capofila era un uomo dalla folta barba incolta che indossava vestiti così unti e consunti da farmi venire i brividi pensando di sentirli sulla mia pelle. I senzatetto di New York non erano così. Non che ne avessi visti molti comunque.
Mi sentii sfiorare leggermente un braccio scoperto e, istintivamente, mi ritrassi come se scottata. Da quella notte un qualsiasi tocco estraneo mi faceva accelerare il battito del cuore, e lo stomaco mi si stringeva in una piccola morsa.
-Ehi, tranquilla. Sono solo io.- Jackson ritirò il braccio con cui mi aveva sfiorato, alzando le mani in segno di pace. -Non volevo spaventarti.- disse serio.
Mi strinsi le braccia al petto, incurvando le spalle e incassando il collo. Lo guardai dal basso, attraverso le ciglia, consapevole che la mia reazione era stata sbagliata.
-Non fa niente, solo non... non toccarmi più.- vidi la sua fronte aggrottarsi naturalmente perplesso ma, prima che potesse dire altro, lo superai, varcando la soglia dell'unica porta aperta oltre a quella che mi ero lasciata alle spalle. Sperai che il signor Dioniso fosse andato da quella parte visto che era sparito.
Ero stata troppo avventata, lo sapevo, ma mi aveva preso di sorpresa.
Entrai in un ufficio, dove il signor Dioniso era seduto su una sedia, al di là di una scrivania in mogano. Stava scribacchiando qualcosa su un foglio, ma accanto a lui un bicchiere pieno di un liquido marroncino richiamava la sua attenzione ogni cinque secondi.
Però, doveva essere piuttosto assetato.
-Oh, signorina Chase finalmente si è decisa a raggiungermi. Dov'è l'altro ragazzo?- chiese quando finalmente si accorse della mia presenza.
-Sono qui.- disse una voce alla mie spalle.
-Alla buon'ora giovanotto. Ho un sacco di cose di cui occuparmi e il tempo è quel che è, quindi prendete questi fogli e andate.- sorseggiò ancora dal bicchiere in cristallo, indicando a due documenti bianchi completamente uguali con il capo.
Ne presi uno lasciando l'altro a Jackson, poi cominciai a sfogliarlo.
-Lei signorina Chase si occuperà della classe più piccola. Insegnerà ad un totale di venti bambini che hanno un'eta compresa tra i 5 e i 10 anni. Sono sicuro che riuscirà a gestirli al meglio ma la devo avvertire che c'è un bambino che lo scorso semestre ha creato non pochi problemi alla precedente insegnante. Alla fine dei sei mesi è quasi scappata a gambe levate.- borbottò. -Se fossi in lei non esiterei ad usare, ehm, le maniere cattive. Ma è libera di scegliere lei.-
Ma di che diavolo stava parlando?
-Comunque questo è il succo. In quanto a lei, giovanotto, insegnerà ai ragazzacci più grandi. Le servirà non poca fortuna.- sbagliavo o il signor Dioniso stava sogghignando?
-Tutto quello che vi serve è sul foglio che avete in mano. Le lezioni iniziano alle 9 e terminano alle 15, con la pausa pranzo di mezzo.- disse facendo un vago gesto con la mano che non teneva il bicchiere quasi vuoto. -Bene, credo di avervi detto tutto. Ah, no! Credo sia bene informarmi che le condizioni in cui versano i bambini non sono proprio, ehm, lussuose. Provengono dalla favelas di Rocinha che, se non lo sapete, è la più grande di Rio e anche quella più povera.- il suo tono di voce si era nettamente abbassato, divenendo più serio di quello che già era.
Calò il silenzio, mentre io ondeggiavo sui talloni con lo sguardo puntato a terra. Non mi piacevano i silenzi.
Il signor Dioniso si schiarì la gola poi ci rivolse un cenno del capo.
-Beh, potete andare.- non aspettai oltre; uscii dall'ufficio velocemente ripercorrendo la mensa e il corridoio da cui eravamo arrivati. Non aspettai Jackson temendo una domanda sul perché prima mi fossi comportata così.
Quando finalmente appoggiai una braccio alla portiera, dopo aver allacciato la cintura di sicurezza, mi decisi a puntare gli occhi al di fuori del finestrino sentendomi lo sguardo penetrante di Jackson alle mie spalle. Non avevo bisogno di voltarmi per sapere che mi stava guardando.
-Prossima fermata: favelas di Rocinha.- disse allegramente Grover premendo sull'acceleratore del furgoncino.
Durante il breve tragitto passai da un pensiero all'altro senza che essi lasciassero una traccia significativa del loro passaggio nella mia testa. Quello era l'unico modo con cui tenevo la testa impegnata nei momenti più brutti.
Grover e Jackson cominciarono a parlare di motori e altre cose che non destarono il mio interesse finché il veicolo non si fermò sul ciglio di una strada sterrata. Aprii la portiera e le parole si bloccarono in gola.
Prima avevo pensato di essere entrata nel quartiere di una favelas? Beh, qualsiasi fossero state le mie convinzioni prima, in quel momento dovetti ricredermi radicalmente.
Non poteva esistere veramente un simile luogo in quel mondo crudele.
Alle superiori avevo studiato la Seconda Guerra Mondiale sul libri di testo ma il professore aveva deciso di approfondire l'argomento assegnandoci un progetto. Io e Piper avevamo deciso di parlare dei disastri delle bombe nucleari. Tutte le immagini che avevamo trovato in Internet erano così cruente e irreali che la mia memoria le aveva subito sostituite con altro.
Ma quando i miei occhi videro quel posto non riuscii a fare a meno che paragonarlo con le foto.
Le abitazioni, se così si potevano chiamare, erano su un'unico piano rettangolare con qualche finestra con il vetro rotto o completamente assente qua e là. Era costruite con vari materiali; cartone, mattoni rossi, rifiuti... qualsiasi cosa che potesse tornare utile per creare un tetto sopra la propria testa. Ma il tutto dava l'impressione di poter crollare da un momento all'altro.
Inoltre si estendeva per centinaia di metri, se non chilometri.
-Oh, mio, Dio.- sussurrò qualcuno accanto a me.
Girai lentamente il capo, osservando un Jackson a bocca aperta e gli occhi sgranati davanti a sé.
-Incredibile, vero?- commentò Grover alzando un angolo della bocca nell'accenno di un presunto sorriso di scherno.
-Tranquilli, tutti quelli che vengono qui hanno la stessa reazione... presumo che sia normale.- alzò le spalle. -Comunque, seguitemi. Vi faccio conoscere qualcuno.- detto ciò si voltò e in pochi passi sparì al di là di una recinzione verde malridotta.
Mi sentii afferrare un polso da due dita incredibilmente calde, per venire poi trascinata nella direzione di Grover.
Il mio sguardo percorse la lunghezza dalla mano che mi stringeva il polso fino ai capelli corvini di Jackson davanti a me. Ero così basita che mi lasciai trascinare. Che diavolo stava facendo?
Un calore che partiva dalla stretta si propagò lungo i nervi del braccio, diffondendosi ovunque. Ero io il ghiacciolo o lui la stufa?
-Ehi, ci passate quel pallone?- gridò una voce bianca da lontano. O almeno, mi sembrava lontana ma quando voltai il capo, vidi un bambino a piedi nudi correrci incontro.
I riccioli castani gli arrivavano fin sotto gli zigomi, incorniciandogli il volto e facendolo assomigliare ad un angioletto abbronzato. Quando ci sorrise, la splendida dentatura candida mostrò una finestrella, che gli conferiva un'aria tenerissima. Non doveva avere più di 10 anni.
Allungò un braccio per indicare una palla scucita ai miei piedi.
-Me lo puoi dare?- disse sempre sorridendo.
Mi chinai lentamente prendendo tra le mani quella sfera di pelle che presentava cuciture un tempo regolari.
-Pepito sei sempre in giro a combinare guai?- lo rimproverò Grover scompigliandogli quei fantastici capelli che divennero ancor più spettinati.
Il bambino lo guardò dal basso sogghignando come un vero delinquente. Un piccolo e carinissimo delinquente.
-Dovresti saperlo Grover, non avrai un momento di tranquillità finché ci sarò io.- che linguetta!
Grover rise divertito, avvolgendo il bambino con un braccio per avvicinarlo a sé.
-Pepito ti presento Annabeth Chase, la tua maestra da domani.-
Gli porsi la mano, mentre lui spostava lo sguardo da me a Jackson. La strinse, accompagnando la stretta con un sorriso radioso.
-E chi è questa mozzarella?- chiese poi accennando a Jackson accanto a me.
Non riuscii a trattenermi nello scoppiare a ridere di cuore davanti alla faccia prima perplessa e poi indignata di Jackson.
-Ehi, pulcino, io avrei un nome!- brontolò infastidito, incrociando le braccia al petto e imbronciandosi.
-Pure io, mozzarella, ed è Pepito.- rispose a tono il bambino, sogghignando.
Anche Grover stava facendo fatica a trattenersi, così mascherò l'eccesso di risa facendo un colpo di tosse.
-Lui è Percy Jackson, l'altro maestro.-
-Ehi, Pepito, la palla!- gridò un'altra voce bianca dal campo in cui ci aveva portato Grover.
Solo in quel momento mi accorsi dei bambini disposti in modo casuale in quel campetto d'erba. Ai vertici c'erano quattro mucchi di vestiti, due per parte, per improvvisare una porta da calcio.
-Ragazzi venite!- li chiamò Pepito, sbracciandosi nella loro direzione.
Quelli ci corsero incontro. La prima cosa che mi saltò all'occhio erano i vestiti -stracci- rattoppati che indossavano e la completa assenza di calzature ai piedi della gran parte dei bambini.
Chi più abbronzato di un'altro, tutti avevano un'età non ben definibile ma che variava.
-Ragazzi vi presento Annabeth e Mozzarella, i nostri nuovi insegnanti.- disse Pepito entusiasta, indicandoci.
-Ehi! Ti ho detto che il mio nome è Percy!- si lamentò quello.
-Dettagli...- sghignazzò il bambino, sorridendomi complice mentre anch'io ridacchiavo.
Si girò verso Grover porgendogli il pallone.
-Fai una partitella?- gli chiese, provocando il completo assenso dei compagni.
-Certo.- sorrise Grover prendendogli di mano la palla e avviandosi verso il campo improvvisato.
Pepito si girò lentamente ma poi si fermò, rivolgendosi a Jackson con un ghigno di scherno.
-Vieni o no?- Jackson lo guardò prima sorpreso e poi diffidente.
-Va bene.-
-Preparati Mozzarella perché non ti renderò affatto facile la tua permanenza qui.- quella frase mezza sussurrata, mezza no, scatenò ancora le mie risa, il ghigno di Pepito e il broncio di Jackson. I due se ne andarono ma prima che si allontanasse troppo, Jackson si fermò e dalla sua bocca uscì l'unica parola che non mi sarei mai aspettata di sentire da lui.
-Scusa.-



Un grazie a Poseidon97 a cui dedico il capitolo.
Grazie per la tua supplica disperata.
Grazie per seguire questa storia.
Grazie per l'incoraggiamento.
Grazie e basta.










*Si usted lo desea también un poco de tienes que hacer cola. → Se anche tu ne vuoi un po' devi fare la fila.






Spazio fine capitolo:
Non ci sono parole per dire quanto mi dispiace. Lo so, questo capitolo doveva essere postato una settimana fa, e avete tutte le ragioni del mondo per linciarmi/uccidermi/pestarmi/sgozzarmi/quello che volete, ma, in mia discolpa, posso solo dire che me ne sono capitate di tutti i colori e i problemi si sono accumulati, impedendomi di finire di scrivere il capitolo e postarvelo.
Le scuse di Percy alla fine del capitolo sono rivolte ad Annabeth, ovvio, ma è come se fossi io a parlare attraverso Jackson. Quindi mettetevi nei panni di Annabeth e, se volete, accettate le mie scuse sincere.
Non sto qua a elencarvi tutti i miei problemi perché non avrebbe senso.
Vi posso solo dire che da oggi in poi aggiornerò una volta ogni due settimane ma vi prometto che i capitoli arriveranno.
Non so mai come ringraziarvi per le fantastiche recensioni che mi lasciate... e sopratutto un grazie a chi sa aspettare.
Oggi non ho molto altro da dirvi... spero che il capitolo vi sia piaciuto (anche se a me non convince affatto). Si può notare un certo movimento nei bassifondi del rapporto Annabeth-Percy, e, incredibilmente, Percy si è scusato. Come reagirà Annabeth?
Spero vivamente di non aver fatto un casino nel descrivere la favelas e il resto...
Tutto qui.
Un grandissimo bacione miei angeli custodi <3
Annie

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Disclaimer:
'Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di Rick Riordan; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro'.


Capitolo 6


Favelas di Rocinha, 21 Giugno 2012

Annabeth


Scusa. Scusa. Scusa.
L'aveva detto davvero oppure era stato solo il frutto della mia immaginazione?
La sua voce era così bassa mentre parlava che poteva benissimo essere stata un'allucinazione dovuta a... a qualcosa di inspiegabile,
Rimasi lì così, paralizzata in quel campetto con lo sguardo puntato all'orizzonte senza che vedessi realmente lo sfondo della favelas. Probabilmente ad un osservatore esterno potevo sembrare in trance, come un serpente incantato dalla dolce melodia del flauto che suonava il tizio in pantaloncini bianchi e torso nudo nei film indiani.
Non so dopo quanto, ma alla fine sbattei finalmente le palpebre guardandomi attorno alla ricerca di quel ragazzo che era diventato come un'incognita per me in pochissimi giorni.
Lo individuai al margine destro del campo da calcio improvvisato, intento a incitare un bambino che correva con la palla ai piedi nella direzione opposta. Aveva portato le mani alla bocca, per amplificare la voce.
Alla luce del sole brasiliano splendente i suoi capelli corvi risplendevano, illuminati dai raggi che gli battevano perpendicolari in testa.
Che diavolo voleva dire con quella parola? Se quella mattina mentre facevo colazione ero rimasta basita dal suo saluto cordiale, in quel momento ero letteralmente senza parole dallo stupore.
E dalla confusione. Sopratutto da quella.
Il tutto non aveva senso. Perché avrebbe dovuto scusarsi in quel momento dopo un'intera giornata passata a comportarsi da cafone maleducato?
Esclusi a priori che si fosse pentito del suo comportamento. Dopotutto avrebbe potuto pentirsi subito dopo avermi spintonato al check-in, oppure dopo avermi svegliato intenzionalmente sull'aereo. Di occasioni ne aveva avute abbastanza.
Senso di colpa? Naah, impossibile. Conoscevo i ragazzi come lui, e loro non si pentivano mai. Piuttosto che provare a rimediare, mettevano da parte il senso di colpa e proseguivano la loro vita da sbruffoni e arroganti.
Ma allora perché si era scusato?
All'improvviso, da lontano, sentii un respiro soffocato a tratti, come se qualcuno stesse piangendo silenziosamente. Mano a mano che tornavo dal mio mondo fatto di domande senza risposta, lo stesso mondo che tutte le volte cercavo di reprimere con qualsiasi cosa potesse occuparmi la testa, capii che il respiro soffocato proveniva da qualcuno dietro di me, non molto lontano come, invece, avevo pensato all'inizio.
Mi girai, accorgendomi solo in quel momento della presenza di un bambino, seduto a qualche metro alla mia destra. Aveva le gambe incrociate, le braccia appoggiate sopra di esse e il volto coperto dalle mani. Le sue spalle erano scosse da dei tremiti quasi impercettibili ad occhio nudo.
Lentamente mi avvicinai, restando in piedi accanto a lui. La mia ombra lo coprì, oscurandolo.
Mi sedetti per terra, incurante del fatto che la terra potesse sporcarmi. Dopotutto ero in una favelas del Brasile. Non potevo permettermi di fare certi pensieri quando la donna sul ciglio della strada stava facendo la carità per poter sfamare il suo bambino.
Incrociai anch'io le gambe, imitando la posizione dal bambino e rimasi ad osservarlo.
-Ciao.- dissi dopo un momento.
Quello sembrò preso alla sprovvista, perché tolse lentamente le mani dalla faccia, sgranando gli occhi alla mia vista. Il suo viso era rigato da sottili lacrime trasparenti che partivano dagli occhi fino alle guance. I grandi occhi neri erano arrossati dal pianto, ma mostravano ugualmente sorpresa e un qualcosa di nuovo per me. Qualcosa di vivo e giovanile, che caratterizzava tutti i bambini innocenti.
-Ti da fastidio se mi siedo qui accanto a te?- chiesi sorridendogli dolcemente.
Lui scosse la testa, ancora con gli occhi sgranati ma incuriositi dalla mia presenza improvvisa.
-Come ti chiami?- non avevo idea del perché mi fossi seduta lì, accanto ad un bambino in lacrime. Malgrado la tristezza fosse un argomento che conoscevo molto bene, non avevo bisogno di vedere altre persone con il mio stesso sguardo negli occhi. Quello che provavo mi bastava e avanzava.
-Nico.- sussurrò.
Che strano nome... non sapevo che in Brasile fosse diffuso un nome così italiano. Almeno, credevo fosse italiano.
-Mi piace molto il tuo nome, Nico. Io sono Annabeth.- allungai una mano, invitandolo a stringermela.
Lui piegò la testa, osservando incuriosito la mia mano, e alla fine si decise a stringerla con la propia che era minuscola rispetto alla mia.
Tirando il colletto della maglietta nera che indossava, si asciugò gli occhi e la faccia. La maglia era almeno una taglia più grande della sua, mentre l'orlo dei pantaloncini che portava erano sgualciti.
-Perché piangevi, Nico?- puntò quei suoi occhi neri nei miei, all'improvviso rattristatosi dalla mia domanda. Fece sporgere il labbro inferiore, producendo un perfetto broncio infantile che adorai all'istante.
-Loro non mi vogliono far giocare perché dicono che sono troppo piccolo.- disse riportando lo sguardo sul campo, dove gli altri bambini continuavano a correre dietro al pallone. Le figure di Grover e Jackson si potevano ben distinguere per la loro altezza nettamente superiore alla media.
In effetti, osservando meglio Nico, potei concordare con lui che era evidentemente più piccolo di tutti gli altri. I lineamenti delicati del viso erano molto più infantili di quelli di Pepito, che doveva avere più o meno 10 anni.
Osservai Pepito impossessarsi del pallone e correre affannato verso la porta avversaria, scartando un giocatore dopo l'altro, mantenendo sempre la palla ai suoi piedi. Con un calcio spedì il pallone direttamente oltre la linea delimitata da due mucchi di vestiti, mentre il portiere si buttava dalla parte opposta. Alzò le braccia al cielo, urlando contento di aver segnato un goal, con i compagni di squadra che lo abbracciavano entusiasti.
-Quando avevo sei anni avevo una vicina di casa con una figlia della mia stessa età. Io e mio papà ci eravamo appena trasferiti a New York per lavoro da San Francisco. Quella grande città mi piaceva molto, sopratutto perché tutte le Domeniche papà mi portava a Central Park per dare da mangiare ai piccioni. Ero molto felice di passare del tempo con lui perché durante la settimana lo avevo evitato colpa del suo lavoro e della scuola. Una di quelle Domeniche camminammo fino ad un campetto, dove delle bambine stavano giocando con un paio di bambole, sedute su una coperta da pick-nick. Da quando mi ero trasferita in quella città non mi ero fatta ancora un amica. Così chiesi a mio papà se potevo andare a giocare con loro, mentre lui chiacchierava con un collega incontrato per caso. Mi avvicinai alle bambine chiedendo se potessi giocare con loro. Sai cosa mi risposero?- domandai a Nico voltandomi a guardarlo.
Lui mi stava osservando incuriosito, rapito dal mio racconto. Scosse la testa.
-Che non potevo perché non indossavo una gonna. Il punto è che neanche loro ne indossavano una.- sorrisi al ricordo di quella scusa ridicola. -Ci rimasi molto male, così tornai da mio padre cercando di trattenere le lacrime. Quella sera piansi nel mio letto perché sentivo la mancanza della mia amica che avevo lasciato a San Francisco.- feci una pausa mordendomi il labbro inferiore.
-Il giorno dopo quando andai a scuola trovai le stesse bambine che mi avevano negato di giocare con loro. Feci finta di niente mentre passavano loro accanto, ma quelle mi riconobbero e mi indicarono, ridendo.- la mia pausa si prolungò troppo a lungo per la curiosità di Nico.
-E poi cosa successe?- domandò.
Alzai un sopracciglio, assottigliando gli occhi. -E chi ti dice che non finì così?-
-Perché non può finire così!- disse aggrottando le sopracciglia.
Risi, divertita dalla sua espressione buffa.
-Hai ragione, non finì lì. Qualche anno conobbi la mia attuale migliore amica e diventammo inseparabili. Un giorno, mentre io e la mia amica stavamo pranzando ad un tavolo, si avvicinò una delle bambine che quel giorno avevano riso di me, chiedendoci se poteva sedere insieme a noi. Aveva litigato con le sue amiche.-
-E?-
-Ci alzammo dal tavolo andandocene e lasciandola lì da sola.- In effetti, rivivendo l'accaduto in quel momento, dovetti ammettere a me stessa che non eravamo state affatto migliori di loro, andandocene e ridacchiando. Ma Nico non la pensava al mio stesso modo.
-Ah, ah. Ben le sta.- ridacchiò sghignazzando.
Sorrisi scuotendo il capo.
-In verità abbiamo sbagliato a comportarci così, ma in quel momento mi sono sentita bene.- sbattei le palpebre un paio di volte prima di scacciare quel pensiero e concentrarmi su altro.
-Comunque, cosa ci fai qui? Non dovresti essere a casa? Tua mamma ti starà cercando.- dissi a Nico.
Lui scosse la testa.
-No, mia mamma è da qualche parte in città. Mi ha detto di venire qui a giocare finché non arriva lei.- Ma quale madre lasciava il proprio bambino in un campetto, senza la supervisione di qualcuno?
Stavo per domandargli dove fosse suo padre, quando venni interrotta da delle urla crescenti.
Girai la testa di scatto per guardare Pepito correre come un fulmine nella nostra direzione, urlando come un matto. Era seguito dagli altri bambini che gridavano entusiasti agitando le braccia.
Grover e Jackson li seguivano camminando lentamente a distanza, mentre confabulavano tra di loro.
-Annabeth! Annabeth!- Pepito gridava il mio nome anche se non aveva più fiato. -Abbiamo vinto! Abbiamo vinto!- fu come se un tornado mi avesse travolto all'improvviso, facendomi sbilanciare all'indietro. Caddi di schiena sul terreno, ma l'impatto non fu affatto doloroso visto che ero già seduta.
Pepito mi saltò addosso, abbracciando il mio corpo di slancio. Il suo petto, che si alzava e abbassava velocemente, entro a contatto con il mio. Sentivo il suo cuore battere all'impazzata.
Neanche il tempo di reagire a quello slancio di felicità, che il bambino si tirò indietro. Venne subito circondato dagli amici che gli dettero delle pacche sulla schiena, esultando.
-Ho segnato il goal decisivo!- mi spiegò sempre sorridendo.
Nel mentre Grover e Jackson ci avevano raggiunto, e osservavano la scena poco più in disparte.
Con la coda dell'occhio, Pepito notò la loro presenza. Si avvicinò a Jackson e gli diede un pungo amichevole sul braccio.
-Complimenti, Mozzarella, non hai giocato affatto male. Per essere così poco brasiliano, ti muovi bene.- Jackson aprì la bocca per ribattere ma notando il ghigno sul volto del bambino assottigliò gli occhi, mettendo il broncio. Pepito lo stava evidentemente prendendo in giro.
Grover sorrise divertito, poi guardò l'orologio che portava al polso e arricciò le labbra.
-Va bene ragazzi, noi ora dobbiamo andare.- disse grattandosi il mento barbuto.
Il sollievo sul volto di Jackson era evidente, tanto che pure Pepito lo notò.
-Tranquillo, Mozzarella, ci vediamo domani, e dopodomani, e il giorno dopo ancora. Non pensare di liberarti di me tanto velocemente.- detto ciò richiamò gli altri bambini e corse verso il campo, per iniziare una nuova partita. Prima però mi salutò con la mano, rivolgendomi un sorriso gentile.
-Annabeth, non vieni?- Grover era già quasi sulla strada, con le chiavi del furgoncino in mano, mentre Jackson era sparito.
Mi girai, guardando il bambino che stava ancora seduto con le gambe incrociate. Il suo sguardo triste era ancora puntato sulla partita appena iniziata.
Non potevo lasciarlo lì così. Che ne sarebbe stato di lui?
-Arrivo tra due minuti. Aspettatemi in macchina.-
-Va bene, ma non attardarti troppo. Chintia diventa assai scorbutica se non ci presentiamo puntuali per il pranzo.-
Senza perdere tempo mi diressi a passo spedito in direzione del campo, mentre i miei capelli volteggiavano a causa del vento che, all'improvviso, era sorto.
-Pepito!- chiamai muovendo un braccia nella sua direzione.
Lui, che stava incitando un suo compagno a passargli il pallone, si fermò di colpo per corrermi incontro.
-Cosa c'è?-
Mi chinai, per parlargli all'orecchio senza che nessun'altro potesse sentire.
-Puoi farlo?- chiesi alla fine, supplicandolo con gli occhi.
-Ma...-
-Ti prego! Se lo fai, domani ti porto una caramella.-
-Una caramella? Mi piacciono le caramelle, sopratutto quelle gommose e colorate.- vidi i suoi occhi illuminarsi al pensiero di quella promessa. Quando gli avevo proposto quella cosa, non dicevo veramente sul serio. Era solo un modo di dire che, di solito, di usava con i bambini piccoli.
Ma guardando il suo volto, capii che lui aveva preso quella promessa sul serio.
-Vada per una caramella gommosa. Ci vediamo domani e, mi raccomando, comportati bene, okay?- lui annuì.
Ritornai indietro, sedendomi accanto a Nico ancora una volta.
-Perché non riprovi a chiedergli se puoi giocare?- domandai avvolgendo le gambe con le braccia.
-Perché loro mi risponderebbero ancora di no.-
Sorrisi istintivamente.
-Io, invece, sono certa che questa volta ti diranno di sì. Provaci.- Nico mi guardò dubbioso, e nei suoi occhi lessi qualcosa che non vedevo da molto tempo nelle persone. Qualcosa di vivo.
-Va bene.- con un movimento fulmineo si mise in piedi e corse verso gli altri bambini.
Era incredibile con quanta velocità riuscisse a correre.
Mentre le sue gambe si muovevano, una falcata dopo l'altra, la maglietta troppo grande faceva attrito con il busto a causa del vento, mettendo in risalto quanto fosse piccolo sotto quei vestiti troppo grandi per lui.
Si avvicinò a Pepito e, dopo che quest'ultimo fece di sì con la testa, vidi il suo volto accendersi di entusiasmo e felicità.
Sorrisi, contenta che almeno lui fosse al sicuro fino al ritorno della madre.
Quando tornai al furgone non dissi nulla, ma, non appena i miei occhi videro le case malconce della favelas, ritornai bruscamente alla realtà e il sorriso scivolò via, come una foglia trasportata dal fiume.
Nella mia vita non c'era più posto per la felicità e io lo sapevo bene.




Il pensiero delle scuse di Jackson mi tormentò la testa per tutto il resto del pomeriggio. Non riuscivo a trovare un spiegazione ragionevole che mi permettesse di analizzare la situazione con lo stesso distacco che usavo da due anni per le faccende che potevano ferirmi in qualche modo.
Era lo stesso distacco che utilizzavo quando ero seduta su quel lettino rigido e freddo, con il capo posato su un cuscino e lo sguardo costantemente puntato al soffitto. La psicologa parlava, oppure faceva domande dandomi la piena libertà di non rispondere.
Alcune volte stava anche in silenzio, seduta dietro alla scrivania, con le gambe, fasciate dai sottili collant, accavallate. Il suo piedi faceva avanti e indietro e io mi perdevo ad osservare quel movimento costante, senza pensare a nulla.
Sosteneva che il silenzio non le dava alcun fastidio, e che ero liberissima di fare, dire, non dire quello che volevo. La sua voce era calda e confortante ma, per qualche ragione, mi metteva i brividi. Il lettino era scomodo, il cuscino duro e il rumore continuo della biro che picchiettava sulla scrivania era snervante. Tanto snervante.
Nelle rare volte in cui parlavo mi limitavo ad utilizzare monosillabi.
Il distacco emotivo era il motivo per cui mi avevano praticamente obbligato ad andare in Brasile. Ma era la mia regola, e sempre lo sarebbe stata.
Malgrado tutto, però, volevo parlare con Jackson perché una parte di me era sinceramente curiosa di conoscere la motivazione per ciò che aveva detto.
Passai il resto del pomeriggio a disfare le valigie, ripiegando i vestiti nei cassetti e riponendo i vari accessori, che mi sarebbero stati utili, negli appositi spazi. La spazzola a motivi rossi venne aggiunta allo spazzolino e al dentifricio nell'astuccio per la toeletta; i vari quaderni e le matite entrarono nella borsa a tracolla per il giorno dopo; il caricabatterie del cellulare venne attaccato alla presa e la piccola sveglia nera venne adagiata sul comodino.
Nella seconda valigia, quella che doveva contenere tutte le cianfrusaglie che mio papà aveva insistito che portassi, trovai persino un mestolo di legno da cucina. Come diavolo ci era finito nel bagaglio? Ovviamente c'era lo zampino di mio padre.
Stavo ripiegando la biancheria nell'ultimo cassetto in basso quando mi ritrovai tra le mani un completino intimo completamente estraneo. Il bordo delle mutandine era ricamato da del pizzo bianco, e la stoffa rosa pallido, liscia al tatto, era, beh, praticamente trasparente. La stessa cosa valeva per il il reggiseno, confezionato con un doppio strato della medesima stoffa. Come se potesse nascondere qualcosa, pensai.
Quello, decisamente, non era un mio acquisto. Mai e poi mai mi sarei sognata di comprare quella roba malgrado Piper, che mi obbligava ad accompagnarla, mi invitava tutte le volte a provarne almeno uno nei camerini.
Aspetta un attimo... Piper! Certo, ci doveva essere anche il suo zampino nel meschino piano di mio padre. Quei due dovevano essersi alleati per complottare contro di me, come succedeva praticamente da due anni a quella parte.
Sbuffando esasperata, mi limitai a nascondere la biancheria in fondo al cassetto, nascondendola sotto strati e strati di fidato cotone bianco e nero.
Finito quel tedioso lavoro di sistemazione e adattamento alla camera, decisi di sdraiarmi sul letto e, magari, messaggiare con Piper.
Tutti i miei piani andarono in fumo quando appoggiai la testa al cuscino morbido che, la sera prima, avevo paragonato ad una soffice nuvola. Non ricordo neanche a cosa stessi pensando, ma in pochissimo tempo le palpebre mi si fecero pesanti e, alla fine, semplicemente mi addormentai.
Fu un riposo senza sogni, ma appena riaprii gli occhi, il mio primo pensiero fu che dovevo assolutamente parlare con Jackson. Quando mi misi seduta sentii uno strano rumore dal corridoio, motivo per cui, probabilmente, mi ero svegliata.
Scesi le scale che portavano al piano terra ed entrai in cucina, l'unica stanza illuminata. Non mi stupii nel trovare Chintia intenta a lavorare ai fornelli. Era di schiena e stava mescolando qualcosa in un grosso pentolone.
-Ciao Chintia.-
Lei si girò sorridendomi calorosamente come, del resto, aveva fatto fin dal primo istante in cui mi aveva visto.
-Ciao ninos, sistemato tutto?- mi chiese mentre si asciugava le mani in un pezzo di stoffa che aveva legato al grembiule bianco in vita. Sposto una ciocca di capelli neri attaccati al viso con un veloce movimento della mano, e sulla sua fronte notai delle goccioline di sudore. Immaginai che, stando tutto il giorno ai fornelli, arrivasse a sera stanca e spossata.
-Sì e sono riuscita pure ad addormentarmi.- dissi scuotendo il capo. Non era veramente mia intenzione cadere tra le braccia di Morfeo per tutto il pomeriggio.
-Oh devi essere così stanca! Povera ninos, il viaggio deve essere stato molto stressante.-
-Tranquilla, sto bene.- dondolai sui piedi, mordendomi il labbro. -Chintia hai visto Jackson in giro per caso?- chiesi titubante.
Lei aggrottò la fronte perplessa restando in silenzio un secondo.
-Chi?-
-Jackson, il ragazzo che è arrivato con me, hai presente?- seriamente, non capivo se avesse problemi di memoria oppure... di memoria.
-Ah! Intendi Percy, vero? Certo, certo, è passato di qui proprio dieci minuti fa. Era tutto sudato e sporco di olio per motori. Lui e Grover hanno passato tutto il pomeriggio fuori, a lavorare con quel catorcio che Grover ama tanto.- scosse la testa, visibilmente contraria. -Ha detto che andava a farsi una doccia prima della cena.- disse indicando con un dito in alto.
-Grazie.-
-Tra 15 minuti sarà pronta la cena. Lavati le mani, mi raccomando.- mi istruì Chintia prima che uscissi dalla cucina diretta al piano di sopra.
Mentre salivo le scale, scalino dopo scalino, pensai che probabilmente era stato proprio Jackson a svegliarmi. Ancora una volta. La delicatezza non faceva parte del suo essere, evidentemente.
Percorsi il corridoio buio, superando la mia stanza e quella di Grover, fermandomi solo davanti all'ultima porta, in fondo. Alzai la mano, che formava un pungo, per bussare, pensando che la porta fosse chiusa, ma una voce abbastanza forte mi fermò prima che le nocche potessero picchiare sulla superficie liscia.
Appoggiai il palmo alla porta ma questa si spostò appena feci un po' di pressione, e dalla sorpresa sussultai. Ora uno spiraglio di luce illuminava il corridoio e io, per qualche motivo, mi sentii una spia.
-E' possibile?- chiese Jackson con un tono che non gli avevo ancora sentito usare. Sembrava... preoccupato.
Seguì una lunga pausa in cui io cercai di appiattirmi alla parete adiacente alla porta, in modo da non essere visibile da quello spiraglio di luce, ma abbastanza vicina da poter origliare.
Origliare. Lo stavo facendo sul serio?
Nell'arco della mia vita avevo fatto molte cose, ma tra quelle sicuramente non c'era lo spionaggio per pura e semplice curiosità. Sì, ero curiosa. Il motivo non lo sapevo neppure io.
Una volta, in seconda media, stavo tornando in classe dopo aver fatto una sosta al bagno. Camminando per il corridoio silenzioso, ad un certo momento, avevo visto una figura esile mettersi contro la parete. Non la riconobbi subito ma quando notai una treccina colorata spiccare tra i capelli marroni, capii che era Piper. Secondo la sua tabella oraria, doveva essere a lezione di trigonometria, ma non era così.
Mi avvicinai di soppiatto e, picchiandole una mano sulla spalla, la spaventai tanto che emise un gridolino.
Mi disse che stava guardando il ragazzo che le piaceva seduto al banco dietro alla porta e mi implorò di stare con lei, per guardarle le spalle. Cercai di obiettare ma lei aveva già chiuso l'argomento con un semplice sguardo.
Non so quanto stemmo in quel corridoio ma, ad un certo punto, mi sentii prendere il braccio e venire strattonata.
Il bidello ci aveva visto e aveva fatto la spia con il professore. Finimmo in punizione per un mese dopo la scuola. Da quel momento in poi promisi a me stessa che io e lo spionaggio non avremmo più avuto niente a che fare.
E quando prendevo una decisione non c'era verso di farmi cambiare idea.
Quindi mi stupii nel trovare interessante e quasi divertente spiare la conversazione di Jackson.
-Certo, certo, capisco.- disse lui comprensivo. -Quanto tempo ci vorrà?-
Seguì un'altra pausa prolungata. Il mio cuore batteva all'impazzata per l'adrenalina e la preoccupazione di essere scoperta.
-Giovedì alle 3. Dove preferisce incontrarci?- Sentii le molle del letto piegarsi, segno che Jackson si era seduto sul letto.
-Hotel Olympus... perfetto.- scandì bene le lettere del'albergo, come se, nel mentre, stesse prendendo appunti. -La ringrazio ancora. Arrivederci.-
Stava succedendo qualcosa di strano. Chi doveva incontrare Giovedì in quell'Hotel? E perché aveva usato un tono così formale?
Scossi la testa, cercando di scacciare quei pensieri. Non erano assolutamente affari miei se Jackson doveva incontrare qualcuno. Dopotutto, cosa potevo saperne io? Probabilmente aveva degli amici che alloggiavano in quell'hotel e stava parlando al telefono con l'autista dell'amico.
Quando quella mattina era passata per la città, avevo notato un palazzo che spiccava particolarmente su tutti gli altri; era, per l'appunto, l'Hotel Olympus. Quindi, chiunque alloggiava in quel posto, poteva permettersi un'autista.
Persa in quel ragionamento non mi accorsi che il corridoio si era illuminato e che, davanti a me, troneggiava una figura.
Jackson mi stava guardando perplesso, con la fronte aggrottata e io non potei far altro che ricambiare lo sguardo.
Santo. Cielo. Che. Figura.
-Che ci fai qui?- mi domandò.
Aprii la bocca e la richiusi, per poi aprirla di nuovo. Sentii il sangue affluire alle guance.
Ma che diavolo mi stava succedendo?
-Ecco, ehm, sono... sono...- sono cosa? Mi stavo scavando la fossa da sola. Mi guardai attorno in cerca di qualcosa che mi potesse aiutare, evitando a tutti i costi il suo sguardo.
-Sei cosa?- appunto.
-Chintia mi ha mandato a dirti che la cena è pronta.- beh, in parte era vero...
-Oh, va bene. Arrivo subito.- detto ciò rientrò nella sua stanza, lasciandomi lì.
Fantastico, proprio fantastico. Ora sicuramente pensava che fossi strana.
Un attimo... perché, tutto ad un tratto, mi importava della sua opinione e di quello che pensava di me?
Dovevo andarmene all'istante prima che lui potesse trovarmi ancora in corridoio, troppo vicina alla sua stanza. Ancora una volta ero stata battuta dallo spionaggio. Non era possibile che fossi stata così stupida da farmi scoprire in flagrante. E poi, che figura ci avevo fatto nel balbettare congiunzioni senza senso? Ero stata battuta miseramente. Annabeth 0, spionaggio 2. Palla al centro.
Durante la cena evitai di guardarlo mentre parlava con Grover, puntando i miei occhi sul piatto, dove lo stufato aspettava solo di essere messo in bocca.
Solo quella sera, nel momento in cui la realtà sfuma in sogno, mi resi conto di non aver affrontato la questione delle scuse con lui.
Ma, per quel giorno, lascia perdere. E il sonno mi prese con sé.











Spazio fine capitolo:
Sto scrivendo le note il venerdì pomeriggio, prima di andare a lezion di clarinetto. Sono stanca e non ho assolutamente voglia di suonare :c
Dovrei essere a studiare informatica e inglese perché domani, sicuramente, mi interrogano -.- Insomma un perfetto Sabato all'insegna della scuola. Per non parlare poi di Domenica... mi incontro con 3 compagne di scuola per fare un fottuto (passatemi il termine) progetto di Geografia che, sicuramente, ci farà presentare Martedì. 
Ecco, questo è solo un angolino della mia testa completamente incasinata -.-
Vi giuro che non come farò ad arrivare a Giugno indenne e senza debiti. (sì perché vado anche a ripetizioni per evitare l'attuale 5 che ho)
Ok, basta autocommiserazione, passiamo al capitolo. Sorridete perché sono stata puntale ;) Ma dopotutto ve lo avevo promesso, no?
Che ne pensate? Succedono varie cose...
Una nota su Nico: so benissimo che quella non sarebbe la sua età efettiva, e so benissimo che non è brasiliano. Infatti ero indecisa se mettere lui oppure un omonimo bambino...
Annabeth è la solita, Percy pure, Grover idem, Chintia doppio idem... no ok, in verità Annabeth comincia ad avere la testa troppo incasinata (come la sottoscritta) e Percy è, uhm, misterioso (?).
Devo andare a lezione -.-, auguratemi in bocca al lupo (anche se questo capitolo è stato pubblicato il giorno dopo). Speriamo che la mia maestra non rompa troppo... odio essere improverata >.<
Un bacione e a tra due settimane,
Annie


P.S. Me n'ero quasi scordata.. GRAZIE INFINITE ALLE 11 PERSONE CHE HANNO RECENSITO LO SCORSO CAPITOLO O.O E' un record personale molto importante <3

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Disclaimer:
'Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di Rick Riordan; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro'.


Capitolo 7


Scuola, 22 Giugno 2012

Annabeth


Il continuo rumore del motore che ruggiva, finì non appena Grover, al suo posto di guida, girò la chiave dell'accensione. La mano sinistra appoggiata al volante a ore dieci sbatté sul clacson, producendo uno strombazzo che mi fece sobbalzare dalla sorpresa. Ancora una volta ero troppo persa nei miei pensieri per prestare attenzione a quello che succedeva intorno a me.
Chintia, che si era auto eletta mia sveglia personale, come se non ne avessi già una perfettamente funzionante, era entrata in camera mia troppo presto per i miei gusti, aprendo le persiane e quindi permettendo ai raggi solari di svegliarmi irreparabilmente.
Con quel suo tono di voce gioviale mi aveva intimato di fare in fretta a vestirmi e di scendere a fare colazione perché non avrebbe permesso né a me né a Jackson di fare tardi alla nostra prima lezione.
La sua tappa successiva, ovviamente, era andare a svegliare Jackson.
Dopo una veloce selezione di vestiti e un'altrettanto veloce colazione, Chintia ci aveva praticamente buttato fuori a calci dalla porta sul retro, minacciando Grover di morte immediata se si fosse fermato al bar per un caffè facendoci arrivare tardi. La minaccia risultò ancora più credibile grazie al mestolo che, presumevo, fosse la migliore arma della donna. E anche la più efficace.
Non avevo idea di quanto tempo ci avessimo messo ad attraversare la città, ma a me sembrava un battibaleno.
-Bene, siamo arrivati.- disse Grover sorridendomi.
Ricambiai il sorriso con un accenno del capo, poi aprii la portiera e scesi dalla vettura.
Una ventata di aria fresca mi investì, scompigliando i capelli che avevo legato in una frettolosa treccia laterale. Sbuffai mentre disfacevo quel groviglio indistinto di capelli per legarli in una coda alta. Una ciocca troppo corta sfuggì dall'elastico cadendo libera sul volto. Ringraziai ancora una volta mio padre per quella simpatica visita dal parrucchiere.
Circumnavigai il furgoncino per salire sul basso marciapiede che portava al cancello della scuola.
-Buona fortuna ragazzi. Passerò durante la pausa pranzo per vedere un po' come ve la cavate.- Grover aveva abbassato il finestrino della sua portiera, facendo penzolare un braccio ricoperto di peli fuori. Fece l'occhiolino e poi scoppiò a ridere fragorosamente.
-Ah. Ah. Molto divertente, davvero.- brontolò Jackson al mio fianco.
-Ricordati che ride meglio chi ride ultimo.- dissi io con un sopracciglio inarcato. Mi voltai e camminai in direzione del cancello aperto. -Ciao Grover.- alzai una mano e lo salutai senza voltarmi.
Non seppi mai che faccia fece ma sentii chiaramente Jackson ridacchiare.
-Ti ha proprio steso, amico.- lo punzecchiò poi lo salutò e mi raggiunse.
Sentivo i suoi passi distare poco dai miei così aumentai la velocità. Ora, sapevo benissimo che il mio comportamento non aveva alcun senso, ma ero convinta che più gli stavo vicino, prima lui avrebbe capito che la sera precedente avevo ascoltato la sua conversazione privata.
In fretta varcai la soglia della scuola e sbucai nel corridoio colorato del giorno prima. Con altrettanta velocità lo percorsi ed entrai nella prima delle due aule che ci erano state assegnate, quella con i banchi piccoli e malconci.
Ero al sicuro. O al meno credevo.
-Ehi, Annabeth.- mi voltai di scatto, per osservare Jackson sulla porta della mia aula. Prima non l'avevo notato, ma in spalla portava uno zainetto non tanto pieno che, probabilmente, gli serviva per contenere dei libri per le lezioni. Quella maglietta a mezze maniche bianca, poi, faceva risaltare il nero pece dei suoi capelli.
No, aspetta un secondo. Da dove diavolo usciva quel pensiero?
-Buona fortuna.- mi disse, incurante dei pensieri compromettenti e inspiegabili che affollavano la mia testa.
Buona fortuna?
Buona fortuna???
Un'invasione di alieni aveva rapito Jackson nella notte tra Domenica e Lunedì e gli aveva impiantato un chip nel cervello per cui lui era diventato all'improvviso gentile?
Prima quello scusa, poi gli auguri di buona fortuna. Che ne era stato del Jackson cafone e insopportabile?
Aggrottai la fronte non sapendo come ribattere, ma quando sul suo volto comparve un ghigno mi indignai. Lo sapevo! Mi stava prendendo in giro, di nuovo. Due notti prima non c'era stata alcuna invasione aliena e lui non era affatto cambiato. Dovevo convincermi che non sarebbe mai cambiato.
Boccheggiai, aprendo e chiudendo la bocca. Una rabbia cieca mi invase tanto che dalla mia gola non uscì alcun suono.
Marciai fino alla porta dove Jackson stava ancora lì, con quel suo odioso e insopportabile ghigno di scherno.
Bum!
Il gesto semplice di sbattere la porta mi soddisfò tanto che sul mio volto comparve un sorrisetto. Il gemito di dolore che, poi, provenne da dietro la porta fece solo aumentare la mia felicità. Il livido al naso non sarebbe passata molto velocemente.
Soddisfatta, mi avvicinai alla cattedra per appoggiare la borsa che mi ero portata dietro con tutto il necessario per la lezione. Non feci in tempo nemmeno a sedermi sulla sedia che una campana suonò, seguita da un forte rumore di urla che, avvicinandosi, crescevano sempre più di intensità.
Due secondi dopo la porta si spalancò e un vero branco di bambini impazziti entrò. Chi correndo, chi saltellando, tutti presero velocemente posto ad un banco, senza però smettere di parlare ed urlare con l'amico.
Ero convinta di potermela cavare con poco, eh? Beh, in quell'istante mi dovetti ricredere.
Forse per la polvere che occupava le superfici delle finestre, all'improvviso starnutii, coprendomi il naso con una mano. Cercai un fazzoletto nella borsa e quando rialzai il viso, accanto alla cattedra c'era un bambino.
Pepito mi guardava fisso, con le mani nelle tasche dei pantaloni. Sorrisi.
-Ciao Pepito. Come stai?-
-Bene, grazie.- si morse un labbro, come se stesse aspettando qualcosa.
-Hai bisogno di qualcosa?- gli chiesi inclinando appena il capo.
-Ecco... hai... sì, mi hai porto le caramelle?-
Le caramelle. Le caramelle. Merda.
Che diavolo mi era saltato in mente quando gli avevo fatto quella promessa? Con tutto quello che era accaduto la sera prima, la promessa che avevo fatto a Pepito mi era completamente passata di mente. Ero nei guai, grossi guai.
Se avessi detto a Pepito che mi ero dimenticata lo avrei deluso e quella poca fiducia che, mi sembrava, aver acquistato nei suoi confronti sarebbe sfumata. La mia carriera di insegnante perfetto sarebbe finita ancor prima di iniziare. E addio al tranquillo soggiorno in Brasile che mi ero prefissata.
Vedendomi spalancare gli occhi dalla sorpresa Pepito mise il broncio.
-Te ne sei dimenticata, vero?-
Avevo bisogno di una scusa, al più presto. Prima che si mettesse a piangere.
-No! No, certo che no.-
Forza, Annabeth, ce la puoi fare, mi dissi.
-Il fatto è che se te le dessi qui, davanti a tutti, gli altri bambini sarebbero gelosi e ne vorrebbero anche loro e io non ne ho portate abbastanza per tutti, capisci?- beh, non era proprio una bugia.
-Te le do a fine giornata, va bene?-
Il broncio sul volto di Pepito scomparve mentre lui annuiva, comprensivo.
-Va bene, ora vai a sederti che tra poco inizia la lezione.- gli disse spingendolo leggermente verso la fila di banchi con una mano sulla schiena.
E ora? Dove potevo procurarmi delle caramelle gommose entro le tre del pomeriggio se dovevo insegnare fino ad all'ora?
Scossi la testa. Anche se quello era un problema con scadenza imminente, avevo altro a cui pensare al momento. Ovvero a come tenere a bada venti bambini scalmanati.
Mi alzai per osservare quella matassa di pargoli impazziti. Riconobbi una decina di bambini che il giorno prima erano al campetto da calcio a giocare con Pepito, ma gli altri dieci mi ero completamente ignoti. Tranne uno.
All'angolo sinistro della parete opposta a quella dov'era appesa la lavagna, in un banchetto separato dagli altri, stava seduto lui. Nico. Da solo.
E, ancora una volta, il suo volto esprimeva una tristezza che avevo visto sul mio dopo quel giorno al parco, tanto tempo prima. Solitudine.
Mi avvicinai al suo banco e, al mio passaggio, tutti i bambini si zittirono mentre mi osservavano percorrere l'aula verso il fondo.
Nico alzò quegli occhi così grandi e scuri.
-Ciao Nico.- sorrisi.
-Ti va di venire a sederti accanto a me?- da stupito il suo viso si fece lentamente sorridente.
Gli porsi una mano e lo accompagnai dolcemente, prendendo un banco vuoto e mettendolo accanto alla cattedra. Poi lo feci sedere.
Alzai gli occhi, accorgendomi solo in quel momento che il silenzio era padrone della classe.
Tutti mi guardavano o con gli occhi sgranati, oppure con la bocca aperta.
Sorrisi.
-Bene, ragazzi, cominciamo.- mi avvicinai alla lavagna, presi un gessetto e scrissi il mio nome sula superficie verde.
-Per chi non mi conosce già, io sono Annabeth, la vostra insegnante per i prossimi sei mesi.- tornai alla cattedra, appoggiandomi ad essa.
-Visto che non conosco tutti, vorrei che ora voi scriviate il vostro nome sul foglio che ora distribuirò. Va bene?- tutte le teste annuirono, perpetuamente tacite.
Dopotutto, non era così difficile.




Oh, almeno, così credetti finché suonò, per la seconda volta, la campana.
Ero in piedi su una sedia, intenta ad appendere al muro un cartellone con tutte le firme dei bambini e le rispettive impronte. Avevo preso, ovviamente, l'idea dalla parete del corridoio ma mi era sembrato un modo carino per cominciare. I bambini sembravano aver apprezzato molto il lavoro. Si erano divertiti ridendo e scherzando e io avevo avuto l'occasione di conoscerli meglio.
Anche Nico aveva contribuito al lavoro ed ora si poteva vedere una piccola manina nera all'angolo destro del cartellone, con una piccola scritta tra pollice ed indice.
Addirittura mi aveva sorriso timidamente mentre pitturava seduto dietro al suo banco.
Comunque, dicevo che stavo appendendo il cartellone sopra alla lavagna quando suonò la campana del pranzo. Tutti i bambini si riversarono fuori dall'aula, come un branco di bufali impazziti e io rischiai seriamente di rovinare a terra come una patata lessa. Per fortuna mi aggrappai alla base della lavagna riuscendo a non cadere.
Sbuffai infastidita da tanta confusione. Avevo cercato di fermarli richiamandoli ma non era servito a nulla. Quei bambini dovevano imparare il rispetto verso l'insegnante.
Scesi dalla sedia traballante e andai verso la cattedra per recuperare la borsa. Rimasi sorpresa quando mi trovai davanti Nico, ancora seduto dietro al suo banco.
-Nico. Che ci fai ancora qui? Non hai fame?-
Lui scrollò le spalle, abbassando lo sguardo.
Sorrisi e, per la seconda volta in quel giorno, lo presi per mano.
-Dai, vieni, andiamo a mangiare.-
E, insieme, ci avviammo verso la mensa, seguendo la scia di bambini scalmanati passati di lì poco prima.
Quando entrammo mi stupii nel trovare tutti quei marmocchi seduti ai tavoli compostamente. Questo, comunque, non toglieva che facessero meno rumore.
Qualcuno, con le posate in mano, picchiava sul tavolo, impaziente di ricevere il cibo. Qualcun'altro, invece, urlava al compagno vicino, ridendo e scherzando.
Vidi un bambino di nome Ferdinando, che aveva solo 5 anni, mettersi il pollice in bocca per succhiarlo. Io sapevo benissimo che quelle mani avevano toccato di tutto e di più durante la mattinata e che, quindi, non erano proprio igieniche da mettere in bocca prima di mangiare.
Insomma, quando andavo io a scuola la mia maestra mi obbligava a lavare le mani prima di mangiare, altrimenti nessuno ci serviva nulla. Non solo era un modo per prevenire infezioni e malattie, ma anche un simbolo di educazione e buone maniere.
Dovevo ricordare, però, che quei bambini venivano dalle favelas, dove la propria igiene personale non era di certo al primo posto, ovviamente.
Feci sedere Nico ad un tavolo vuoto, poi, all'improvviso, sbattei una mano sulla superficie del ripiano facendo spaventare praticamente tutti i bambini. Beh, almeno ora c'era silenzio e attenzione.
-Filate tutti a lavarvi le mani. Subito! Altrimenti niente pranzo.- dissi cercando di mantenere un tono duro e autoritario. Non era certo la mia specialità, ma pian piano, uno alla volta, tutti filarono i bagno.
Sorrisi soddisfatta.
Alle mie spalle sentii qualcuno ridacchiare.
-Complimenti, dittatrice. Sai farti rispettare, dopotutto.- mi voltai di scatto, fulminando Jackson con lo sguardo.
Era entrato in mensa mentre io richiamavo i bambini seguito dai suoi alunni, e io non me ne ero accorta. Aveva le braccia incrociate e un odioso sorrisetto di scherno.
La maglietta bianca gli evidenziava i muscoli delle braccia, forti e sodi.
Santo Cielo! Era la seconda volta, quel giorno, che il mio cervello mi giocava brutti scherzi a causa di quella stupida maglietta che, a dirla tutta, non gli donava affatto.
Me ne andai, decidendo che il suo commento non meritava alcuna risposta. Al banco della cucina, presi un piatto di minestra per me e uno per Nico.
Sedendomi di fronte a Nico, abbassai il capo sul piatto ed ignorai Jackson accanto a me che, ne ero sicura, mi stava fissando incessantemente. Il che mi dava parecchio fastidio.
Stavo per dirgli di piantarla, quando mi ricordai della politica che avevo deciso di adottare nei suoi confronti quella stessa mattina dopo avergli sbattuta la porta in faccia.
Ignorarlo.
Beh ma era più facile a dirsi che a farsi. Con la coda dell'occhio mi accertai che mi stesse guardando e quando constatai che era vero sbuffai. Mi dava sui nervi. Tanto.
Respirai a fondo, cercando di riprendere un po' di controllo ma, veramente, stavo perdendo la pazienza.
-Ehilà ragazzi! Siete ancora vivi?-
Ancora qualche secondo e sarei saltata al collo di Jackson senza che nessuno potesse fermarmi.
Per sua fortuna, Grover era una benedizione caduta dal cielo venuto a salvarlo.
-Allora, come sta andando?- ci chiese dopo aver preso posto a capotavola, spostando lo sguardo sorridente da me a Jackson e viceversa.
L'irritante ragazzo che mi sedeva accanto fece spallucce, sbuffando.
-Niente di difficile, Grover. Sono piuttosto sicuro che entro due settimane quei ragazzi mi ameranno. Ci sono due o tre ragazzine dolci come caramelle e...- mentre Jackson andava avanti con il suo sproloquio su quando era amato dai suoi alunni, un pensiero squarciò il caos nella mia mente, facendomi sussultare.
-Oh porco...-
Le caramelle! Quelle maledette caramelle del cavolo!
Né Grover né Jackson, che parlavano imperterriti, sembrarono essersi accorti della mia esclamazione poco educata, ma con la coda dell'occhio notai Nico fissarmi a occhi spalancati.
Fantastico.
Gli sorrisi rassicurante e lo invitai ad andare a sedersi con gli altri bambini poi mi voltai verso Grover.
-Grover!- il mio sembrava quasi un urlo disperato.
Sia lui che Jackson mi guardarono aggrottando la fronte.
-Cosa c'è Annabeth?-
-Sai dove posso trovare un negozio di alimentari qui vicino?-
Le rughe sulla sua fronte si accentuarono.
-Uhm, sì, certo. Devi girare a destra al primo incrocio e poi subito a sinistra. Saranno poco più di trecento metri in linea d'aria.- disse.
Una benedizione dal cielo. Grazie mille Signore.
-Perfetto. Potresti, per favore, tenere d'occhio i bambini per venti minuti? Tanto stanno mangiando.- recuperai la borsa dalla sedia già con i piedi in direzione della porta. -Grazie mille, ti devo un favore.- non ebbe nemmeno il tempo di replicare che io mi ero già defilata.
Uscii dalla porta principale, quella che usavano i senzatetto quando entravano per la mensa dei poveri lasciandomi alle spalle lo schiamazzo dei bambini.
Sarei tornata prima che potessero notare che mancavo all'appello.
Appena varcai il cancelletto il mio olfatto intercettò uno strano odore di mare e salsedine trasportato dal vento che tirava. Molto strano... anche se Rio de Janeiro era costruita sul mare, questo si trovava a qualche chilometro di distanza e quindi non era possibile che l'odore potesse arrivare fin lì. Sopratutto perché ero nell'entroterra della città, coperta da tutti quei palazzoni giganti ed imponenti che, oltre a caratterizzare New York come la Grande Mela, sembravano esistere in tutte le grandi città del mondo.
Dopo qualche metro di marciapiede, sentii un uccellino chioccolare da un albero lontano. Era sicuramente un merlo.
In uno di quei pomeriggi grigi, in cui la mente pretendeva di essere liberata da ogni pensiero, il libro che mi aveva tenuto compagnia parlava del verso degli uccelli di ogni specie.
Avevo scoperto che per ognuno esisteva un verbo specifico che caratterizzava il verso e, come ogni cosa che leggevo, mi era rimasta in mente, la quale era molto contenta di acquisire nuovi ricordi ed eliminare i vecchi.
Mentre camminavo per quella via deserta, dopo aver svoltato a destra come aveva detto Grover, mi accorsi che qualcosa non andava. Il merlo aveva smesso di chioccolare.
Mi sentivo osservata. Mi sentivo seguita. Mi sentivo pedinata.
Come quella notte.
Quando il panico prese possesso di me, le mie gambe cominciarono a correre alla cieca, guidate da un istinto primordiale che associava il panico al pericolo. Perché lo conosceva benissimo.
Non sapevo dove stessi andando, ogni concetto razionale era stato sostituito da un'unico pensiero fisso.
Mettersi in salvo da qualunque cosa mi stesse minacciando.
All'improvviso inciampai in un sasso sul terreno sterrato e irregolare. Vidi, come alla moviola, la mia faccia avvicinarsi sempre più al suolo, preparandomi mentalmente ad essere spiaccicata a terra.
Il pensiero che mi potessi far male non sfiorò nemmeno per un secondo il mio cervello in crisi.
Trasmise, invece, un altro concetto, ben più spaventoso.
Ero in trappola. Come un topolino nelle mani del gatto affamato.
Non seppi mai in che modo, ma improvvisamente, come era successo quando ero inciampata, la mia caduta venne impedita da qualcosa che si strinse attorno alla mia vita.
Le zampe del gatto mi avevano catturato.
Scalciai, dimenandomi da quella presa ferrea.
-Lasciami andare!- l'urlo superò di intensità la sirena che suonava nella mia testa. Non mi sorpresi nell'accorgermi che era uscito dalla mia bocca. -Aiuto! Qualcuno mi aiuti!-
Una mano strinse la mia testa a qualcosa di duro e caldo. E palpitante.
-Shhh... calmati.- sussurrò al mio orecchio. -Va tutto bene, tranquilla. Va tutto bene.- la sua voce assomigliava ad una dolce ninnananna. Come quella che mi cantava la mamma prima di andare a dormire per scacciare tutti i fantasmi che si nascondevano sotto il letto.
E, come accadeva molti anni prima, riuscì a calmarmi.
-Va tutto bene...- annuii quasi impercettibilmente mentre qualcosa di bagnato mi cadeva sulle guance. Tastando il viso con una mano, mi accorsi delle lacrime che lo rigavano.
Stavo piangendo.
La mano che mi teneva ferma per la testa scese lentamente, accarezzandomi dall'orecchio sinistro, lungo la mascella, giù sotto il mento che venne alzato verso il cielo.
I miei occhi ne incontrarono un paio verdi come il mare più limpido, come le alghe del laghetto in montagna, come l'erba del prato dietro alla fattoria. Così simili ai miei da farmi sentire a casa per un secondo.
Poi ritornai alla dura realtà.
Jackson.
Che cosa ci faceva lì? Non doveva essere a scuola a tenere sotto controllo i suoi alunni? Beh, pensandoci era lo stesso posto dove dovevo essere io. Ma seguendo quel filo di pensieri, mi venne in mente una cosa che mi mise i brividi.
Mi stava forse pedinando?
Aggrottando la fronte e le sopracciglia, lo guardai dal basso, attraverso le ciglia.
-Che ci fai qui?- più che una domanda, sembrò un'accusa. -Mi hai seguita?-
Jackson sembrò preso alla sprovvista. Spalancò gli occhi e la bocca.
-Cosa? No! Cioè si, ma...- all'improvviso presi coscienza della troppa vicinanza tra i nostri due corpi. Lui mi stringeva ancora a sé, con una mano posata sul fianco e l'altra sotto il mento. Il mio petto era a contatto con il suo e questo non andava affatto bene. Per niente.
-Toglimi subito le mani di dosso.- strillai istericamente dibattendomi nella sua stretta.
Molto lentamente, troppo, allargò le braccia alzandole in segno di resa. Lo sguardo profondo e preoccupato di prima era stato sostituito da un sorrisetto strafottente e di scherno. Ora sì che lo riconoscevo. Probabilmente, prima mi ero solo immaginata un Jackson capace di provare sentimenti profondi sotto quello strato di strafottenza che avevo imparato ad associare a lui.
-Ai suoi ordini, principessa.- disse.
Sbuffai. Quel soprannome non mi piaceva affatto. Era quello che usava lei.
-Non mi chiamare così, ti prego. Qualsiasi altro nome va bene ma non quello.- dissi.
Jackson incrociò le braccia, piegando la testa leggermente.
-Uhm, interessante... beh, vedrò di farmi venire in mente qualche bel soprannome.- qualcosa nel luccichio dei suoi occhi mi suggerì che aveva in mente niente di buono.
-Comunque, per rispondere alla tua domanda, stavo facendo un giro. Avevo bisogno di cambiare aria da tutti quei marmocchi.- disse per giustificarsi. -E poi, visto che te ne sei andata così all'improvviso, Grover mi ha chiesto di accompagnarti dovunque stessi andando. Ha paura che tu ti perda.- aggiunse allargando le mani.
Beh aveva senso.
Dopo qualche secondo di silenzio, in cui io lo fissavo e lui mi restituiva lo sguardo, mi voltai e cominciai a camminare.
Non avevo idea di dovesse fossi ma quando svoltai nella prima strada laterale, riconobbi l'albero che avevo visto prima che succedesse tutto. Quindi avevo girato solo in tondo.
Mentre camminavo verso il negozio nominato da Grover, ripensai al momento di crisi poco prima. Pensavo di aver superato tutto. Già, credevo.
Dopo due anni di terapia psicologica, dopo aver provato i gruppi di sostegno, dopo due anni passati ad evitare qualsiasi contatto con l'altro sesso... mi ritrovavo ancora al punto di partenza.
Ora avevo la prova che bastava poco per farmi cedere. E non andava affatto bene, sopratutto perché mi trovavo a migliaia di chilometri di distanza da casa, dove, almeno, avrei potuto chiudermi in stanza e non pensare a nulla.
Un'altra cosa che non mi andava giù, sebbene da un parte fossi sollevata, era che Jackson non aveva fatto domande sul mio sclero improvviso ed irrazionale. Anzi, in un certo senso mi aveva anche aiutata... Questo ovviamente non voleva dire che meritasse dei ringraziamenti.
In poco tempo raggiungemmo una via più popolata delle altre dove, molto facilmente, riconobbi un minimarket grazie all'insegna.
Il sollievo sciolse la morsa alla bocca dello stomaco che, fino a quel momento, non mi ero accorta di provare. Alla fine sarei riuscita a mantenere la promessa, portando le benedette caramelle a Pepito che non avrei deluso irreparabilmente. E il mio soggiorno in Brasile sarebbe proseguito tranquillamente.
Ma, sebbene non fossi più preoccupata di deludere qualcuno, c'era ancora qualcosa che non riuscivo a classificare che mi opprimeva... il cuore.
Dopo aver attraversato la strada, entrammo nel negozio, spingendo una porta di vetro, e subito una ventata di aria fresca ci invase. Incredibile, anche lì esisteva l'aria condizionata allora!
-Che ci facciamo qui?- mi chiese Jackson in piedi all'entrata.
-Devo prendere una cosa...- risposi cominciando a percorrere i corridoi delimitati dagli scaffali carichi di prodotti seguita da Jackson che trascinava i piedi.
Mentre passavo davanti alla sezione dei biscotti, l'individuo dietro di me prese a fischiettare il motivetto di un tormentone dell'estate precedente, il che influì non poco sui miei nervi già messi a dura prova quel giorno.
Svoltai a destra, procedendo lungo il secondo scaffale (pasta e stuzzichini) e poi a sinistra (salumi e formaggi) come un serpente.
Dove diavolo erano le caramelle? Temetti davvero che quel negozio non vendeva caramelle quando, finalmente, le trovai nell'angolo più remoto del minimarket, nello spazio dedicato a... gli assorbenti???
Non avevo mai lavorato in un negozio di nessun genere, ma sapevo benissimo anch'io che il sistema di spartizione dei prodotti non seguiva di certo quella politica.
Presi il primo pacchetto di caramelle gommose che mi capitò a tiro poi ripresi la strada serpeggiante per le casse.
Stavo giusto aprendo bocca per dire a Jackson di smetterla con quell'irritante fischiettio, quando il suo cellulare squillò. Lesse il nome del mittente e corrugò la fronte.
-Io esco a rispondere... intanto tu paga. Ti aspettò all'entrata.- annuii in segno di assenso.
Mentre lui usciva io mi avvicinai alla cassa. La cassiera mi prese il pacchetto di caramelle dalle mani senza neanche alzare lo sguardo, lo passò sopra il lettore ottico del codice a barre e me lo restituì dopo che pagai.
Non un grazie, non un arrivederci... niente. Beh, se non altro era stata veloce ed efficiente.
Uscii fuori ma, guardandomi attorno, non c'era traccia di Jackson nei dintorni così presi a camminare verso la via del ritorno quando, voltato l'angolo mi giunse la sua voce all'orecchio.
Jackson era dietro al negozio, e camminava avanti e indietro con il cellulare all'orecchio.
-Certo, certo. È meglio procedere con calma, non vorrei che ci beccasse proprio quando siamo riusciti ad ottenere dei risultati sostanziosi.- disse grattandosi la testa con un braccio.
Un pausa seguita dalla sua ripresa.
-Quindi per quanto riguarda i soldi... di quanto parliamo?- ora si grattava il mento pensieroso. -Si, ovvio. Dopotutto questa è solo una copertura.-
Di che copertura stava parlando?
-Quante probabilità ci sono che ci scoprano? E...- ma non volevo sentire oltre così me ne andai, ritornando all'entrata del minimarket come in trance.
La mia testa era affollata di pensieri, tutti negativi. Jackson stava pianificando qualcosa, e su questo non avevo dubbi, ma che cosa? Aveva parlato di soldi, copertura e possibilità di farsi scoprire. A meno che... no, non era possibile! Cercai di scacciare dalla testa quel pensiero ma, alla fine, ritornò a farsi sentire più prepotente di prima.
E se Jackson stava usando il viaggio in Brasile come mezzo per trafficare droga illegalmente?
Non conoscevo la risposta a quella mia folle domanda, ma c'era un modo per scoprirlo. Sorrisi a nessuno in particolare.
-Annabeth, hai un appuntamento all'Hotel Olympus Giovedì, sei contenta?-




















Spazio fine capitolo:
Hola gentaglia (che poi non siete gentaglia perché io vi amo tutti, incondizionatamente dalla razza, dal sesso, dalla religione e... okay, sto sclerando.) Beh dovete sapere che oggi c'è il sole e, di conseguenza, anche la vita vita risplende (più o meno). Il fatto è che ho appena finito di leggere "Will ti presento Will" e sono senza parole. Quel GENIO di John Green (combinato a David Levithan) ha dato vita all'ennesimo capolavoro letterario. Io non so proprio come caspiterina faccia! Chi di voi ha letto "Colpa delle stelle"? Cioè se non si era ancora capito dalla mia infinita stima per John Green, quello è il mio libro preferito in assoluto. IN ASSOLUTO. Non ho mai pianto tanto quanto ho fatto alla morte di... sto zitta che è meglio altrimenti rischio di dover usare più fazzoletti di quanti ne abbia usati nell'arco di questa giornata (tra parentesi, sono allergica al polline e oggi ho tipo usato tre pacchetti di fazzoletti, scroccandoli ai miei compagni di classe c:). Comunque sappiate che se arrivate vivi al capitolo VENTUNO dopo morirete.
OKAY BASTA! Ho detto già abbastanza per oggi e il tutto non centra niente con il capitolo 7 ma, ehi!, John Green è John Green e se comincio a parlare di lui nessuno riesce più a fermarmi.
QUINDI stavo dicendo: BUONGIORNO/BUONASERA/BUONPOMERIGGIO a tutti i miei adorati semidei! Come vi va la vita? Cosa vi è accaduto nelle ultime due settimane? Avete vinto alla lotteria? Vi siete fidanzati/e? Vi è morto il cane? Il criceto? Avete avuto un segno dal vostro genitore divino?
A me nulla di così esaltante tranne tre giorni di nulla far (monteore), scuola, musica, zumba, scuola, teatro, scuola, verifiche, presentazioni... insomma il solito.
Allora, che ne pensate della schifezza che ho prodotto? Le cose cominciano a muoversi in sottofondo. Annabeth ha una crisi (:-/), fa fatica a mantenere le promesse ed è evidente che Jackson sta tramando qualcosa di losco. Starà veramente trafficando droga? Chi lo sa!
Vi invito sempre a lasciare un commentino <3 (tra parentesi, ringrazio SEMPRE ed INFINITAMENTE le sante 9 persone che lo hanno fatto nello scorso capitolo).
Ora, ho un piccolo PROBLEMINO (che per alcuni non sarà un po' fastidioso). Il Venerdì e Sabato, tra un paio di settimane (l'11 e il 12 per intenderci), sono IN GITA didattica a Rovereto e (mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa) io tendo sempre a finire di correggere e scrivere l'ultima pare del capitolo proprio in quei giorni. Quindi la domanda che mi è sorta è questa: che fare? Visto che non ho la più pallida idea di quando finirò di scrivere l'8 capitolo ho pensato di spostare l'aggiornamento alla Domenica (il 13) solo per quella settimana.
Che ne dite? Vi va bene?
Bon, mi sembra di aver detto tutto quello che avevo da dire (e anche qualcosa in più). La canzone della settimana è Moves Like Jagger (sexy sexy sexy).
Un bacioooooone,
Annie


P.S. Se qualcuno ha letto "Will ti presento Will" o, meglio ancora, "Colpa delle stelle" e gli sono piaciuti mi scriva! Così piangiamo assieme per la morte di... ANNABETH STAI ZITTA!

 

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Disclaimer:
'Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di Rick Riordan; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro'.


Capitolo 8
 

Scuola, 24 Giugno 2012
 
Annabeth

 
E' buffo come una decisione presa in passato, lontano o vicino non fa differenza, possa essere rivista in poco tempo. Come i pensieri che ti assalgono, possano mettere in dubbio quella decisione.
Tutto sommato, posso ritenermi una persona decisa, che rispetta sempre la parola data.
Beh, quasi sempre.
Ci fu quella volta, non ricordo quanti anni avessi, in cui avevo promesso alla mia maestra di scienze che avrei partecipato alla presentazione del progetto del vulcano che avevamo fatto in classe. Ero piuttosto orgogliosa della cosa, perché ero stata l'unica a ricevere una richiesta di persona dalla maestra. Ma, la Domenica prima, purtroppo, mi vene la febbre e dovetti ritirare la mia disponibilità all'ultimo momento. 
Se la maestra si era preoccupata di sapermi al caldo, io rimasi profondamente delusa di me stessa. Era la prima volta che, seppur non per mia volontà, dovevo rimangiarmi la parola data.
Lo stesso accadde quel Giovedì mattina, al momento del risveglio.
Oramai, Chintia era diventata la mia sveglia personale. Entrava tutte le mattine alle sette in punto, cantando vari passi di canzoni popolari brasiliane, camminava fino alla finestra ed apriva le persiane. Sebbene non avessi mai amato quella scatolina rotonda di metallo che emetteva suonerie rimbombanti e fastidiose, apprezzavo piacevolmente il suono caldo e famigliare della voce di Chintia.
Quel Giovedì mattina, però, rimasi sdraiata sul letto, supina, anche parecchi minuti dopo che Chintia era uscita dalla mia camera. Congiunsi le mani, nella posizione tipica della preghiera, con lo sguardo fisso al soffitto.
Un senso di oppressione misto ad eccitazione mi attanagliava lo stomaco, chiudendolo in una morsa. Se da una parte ero decisa ad andare fino in fondo a quella storia, che si faceva ogni giorno più misteriosa, dall'altra, la parte più vigliacca di me, avrebbe voluto nascondere la testa in un libro e ignorare il tutto.
Ma non era stato solo il mistero a convincermi nell'intraprendere, ancora una volta, quella strada che mi era nemica, alias lo spionaggio. No, perché l'episodio di debolezza cui ero stata soggetta ancora una volta, quella che credevo non più possibile nell'accadere, aveva svelato qualcosa di lui che era subito svanita.
Lui non mi doveva vedere in quello stato. Non lui che era così bravo nel ferirmi.
Anche se non aveva commenta, ero sicura che avesse visto qualcosa in quell'attimo di follia, qualcosa che, senza le dovute spiegazioni, poteva essere interpretato in modo sbagliato.
E io non volevo che lui scoprisse quella parte così grande e dolorosa del mio passato, per nessun motivo.
Il passato è passato e nessuno lo doveva conoscere. Per nessun motivo.
Alla fine, quando scesi a fare colazione e vidi quel maiale mangiare tre ciambelle glassate di fila, mi venne un dubbio assai discutibile.
E se le mie supposizioni erano sbagliate? Se Jackson non era altro che un ragazzo dai nobili valori, che doveva incontrarsi con una vecchietta per discutere del PIL pro capite in ribasso del Brasile?
In effetti, vista così, la mia nuova teoria faceva acqua da tutti i buchi. Per meglio dire, era assurda, ma in quel momento ebbe l'effetto di mettere in discussione le mie precedenti scelte.
Passai dallo stato deciso a quello dubbioso per tutto il viaggio verso la scuola e anche per buona parte delle ore di lezioni, quando non dovevo pensare ad un modo per tenere occupati i bambini scalmanati.
Arrivata all'ora di pranzo, presi posto di fronte a Jackson, come mi era diventato abitudine fare, e lo osservai a lungo, incurante del fatto che lui potesse accorgersene.
Aveva lo sguardo basso, sul suo piatto di pasta al forno, ma anche così potevo vedere l'accenno di alcune rughe sulla fronte, segno che fosse impegnato a pensare a qualcosa di importante.
Il suo pensiero era rivolto ai dati statistici del PIL pro capite? Non lo sapevo, ma un modo per conoscerne la risposta c'era.
Seguirlo.
E così decisi, definitivamente, di fare.
 
Grazie al cielo per le tre ore seguenti i miei pensieri vennero occupati da un'altra faccenda, così non dovetti preoccuparmi.
Non avevo idea di come avesse fatto, ma Pepito era riuscito ad intasare i tubi del lavandino, in bagno, e l'acqua non scorreva più.
Avevo appena preso una decisione definitiva quando mi si avvicino il bambino.
-Annabeth?- mi voltai, e subito capii che qualcosa non andava.
Pepito se ne stava con il capo chino, guardandomi da sotto. Nei suoi occhi potevo scorgervi uno sguardo colpevole.
Inspirai a fondo, sbuffando.
-Che hai combinato questa volta?-
In soli tre giorni era riuscito a compiere più di quattro casini, superando la media di un guaio al giorno. Incredibile come riuscissi a stupirmi ogni giorno di più. Dopotutto avevo inquadrato fin dall'inizio quel bambino pestifero.
-Ecco... io e gli altri stavamo lavandoci le mani, come ci hai detto di fare tu e, all'improvviso, il lavandino si è otturato.- disse stringendosi nelle spalle e allargando le mani. -Ma ti giuro che non è colpa mia.- esclamò quando alzai gli occhi al cielo.
Un'ora e una maglietta fradicia dopo, finalmente riuscii a contattare un idraulico nelle vicinanze, per evitare di far sapere al signor Dionisio le marachelle combinate da Pepito.
E poi, la campanella delle 3, suonò e la stessa stretta opprimente allo stomaco di quella mattina, riprese a farsi sentire.
Era arriva l'ora x e, se non volevo fallire, dovevo agire in fretta.
Per la prima volta, uscii dall'aula con la stessa fretta dei miei studenti, dimenticandomi quasi la borsa sulla cattedra.
Raggiunsi Grover che come sempre attendeva nel suo amato furgoncino fuori dal cancello, con il finestrino abbassato e il braccio che penzolava fuori.
-Ehi, Annabeth! Come è andata?- chiese regalandomi un sorriso cordiale.
Feci un cenno con il capo, mentre mi avvicinavo.
Aprii la bocca per dare inizio al mio piano quando venni interrotta bruscamente. Di nuovo.
-Grover, vecchio mio!- esclamò Jackson, comparendomi alle spalle.
Mi morsi forte un labbra per evitare di rispondergli.
-Ascolta ho preso un appuntamento con un dottore in città perché mi ho scordato a casa le mie pastiglie integrative, e quindi ho bisogno che me ne prescriva una nuova ricetta. Non ci dovrei mettere molto.- disse sorridendo.
Ma che bravo bugiardo!
Lo guardai storto mentre i due si salutavano, mettendosi d'accordo sull'orario e il luogo in cui Grover avrebbe recuperato Jackson. 
Mi aveva rubato la scusa! Strano, ma anch'io avevo pensato di refilare a Grover la balla del medico.
Voleva la guerra? L'avrebbe avuta.
-Bene.- deglutii. Jackson si allontanò camminando velocemente lungo la strada sterrata. 
Ora veniva la parte più difficile del mio piano. -Ascolta Grover, ho bisogno che mi porti in città. Ho finito gli assorb...- lui alzò una mano, bloccandomi.
-Ho capito, ho capito! Salta a bordo.- 
Dopotutto, l'intelligenza non mi mancava.
 
In pochi minuti, con le mie indicazioni, Grover mi portò all'angolo dell'isolato dove era stato eretto l'Hotel Olympus. Essendo una brava stratega, avevo pensato a tutti i dettagli della mia “missione”.
La sera prima, seduta sotto le coperto, ero accesa a Google Maps, per cercare le indicazioni del luogo dell'incontro. Inoltre avevo curiosato nelle vicinanze, scoprendo che c'era un supermarket, studio medico e un negozio di informatica. Jackson non era l'unico informato.
Aprii la portiera e scesi, mettendo a tracolla la mia borsa.
-A che ora devi andare a prendere Jack-, ehm, Percy?- domandai sporgendomi oltre il finestrino.
Grover lanciò un'occhiata all'orologio da polso, assottigliando gli occhi.
-Le cinque.- rispose.
-Bene, vi raggiungerò anch'io a quell'ora.-
-Ne sei sicura?- chiese Grover, aggrottando le sopracciglia.
-Sicurissima. Ne approfitterò per fare un giro in città.- risposi, tirando la cosa di cavallo da due lembi, in modo da rimettere a posto l'elastico troppo allentato.
Salutato Grover, camminai avanti e indietro lungo la via, per schiarirmi le idee sul da farsi.
Di Jackson nemmeno l'ombra, ma tenendo conto della distanza tra la scuola e l'hotel, calcolai che sarebbe arrivato da un momento all'altro, così mi infilai nel vicolo tra il negozio di informatica e l'hotel, attendendo.
Malgrado lo splendere del sole, il vicolo era buio e stretto, cupo. Mi si rizzarono i peli delle braccia, ma cercai di ignorare quel senso di inquietudine.
Finalmente, quando stavo pensando di lasciar perdere tutto e di andare veramente a fare un giro in città, Jackson arrivò dalla strada opposta, con la sua camminata frettolosa e assai sospetta.
Dovevo ammettere che non era affatto un buon criminale. Se ne stava con le spalle incurvate e il capo chino, guardandosi attorno con fare sospetto.
Caro ragazzo, ne devi fare ancora di strada.
Mentre lui varcava la soglia dell'Hotel, io tirai fuori dalla mia borsa a tracolla un paio di occhiali scuri, stile moscone, una sciarpa, che lascia larga intorno al collo, e un cappello.
Ero fiera di me stessa. Facevo passi da gigante in quell'ambiente che era lo spionaggio.
Camminai fino al grande tappeto rosso che disegnava un sentiero fino al grande portone dell'Hotel Olympus, e, alzando il capo, rimasi un po' spiazzata dall'imponente facciata dell'edificio.
La parete era rivestita di marmo antico, e una serie di volte a tutto sento e colonne ioniche si succedevano fino al tetto, un grande cornicione. Ricordava in tutto e per tutto i templi dell'antica Grecia che avevo visto sui libri di storia di mio padre.
Ma non era stato quello a lasciarmi senza fiato.
Il fatto che l'architettura ricordasse l'antichità, non impediva ai visitatori e anche agli osservatori esterni di comprendere l'eleganza e la magnificenza dell'Hotel. Soggiornare lì doveva costare davvero tanto.
Alla fine percorsi il red carpet, come una star di Hollywood, sorpassando il portiere, vestito di tutto punto. Mi sorprese non poco quando quest'ultimo mi camminò a fianco, per aprirmi il grande portone. Chinò pure il capo!
Se l'esterno era magnifico, l'interno era stupefacente.
Non so descrivere appieno la magnificenza di quel turbinio di luminescenza ed eleganza, ma posso dire che la cosa che mi fece spalancare la bocca fu una fontana nel bel mezzo della hall.
Anche quella, di marmo, ricordava appieno l'antichità, mentre un angioletto con ali piumate e lo sguardo sorpreso, sputava acqua.
Una coperta scalinata dorata portava al bancone della reception, mentre al lato destro si accedeva a due ascensori e una scalinata. Sul lato sinistro, invece, scorreva una vetrina, dietro cui si potevano scorgere delle persone sedute a dei tavolini rotondi, coperti da lunghe tovaglie bianche.
E, nell'angolo meno in vista di quel ristorante privato, vidi Jackson.
Bingo.
Con lo sguardo fisso davanti a me, raggiunsi velocemente la reception dietro cui sedeva una donna in tailleur, con i capelli castani legati in uno chignon basso.
-Buongiorno, posso esserle utile?- mi chiese con un sorriso cordiale.
Avevo previsto anche quel piccolo inconveniente.
-Sì, avrei un appuntamento con il Presidente dell'Associazione FISH. Eravamo d'accordo nell'incontrarci al ristorante alle tre e mezza.- dissi decisa.
La sera prima, guardando la Home Page dell'Hotel mi era saltata all'occhio quella notizia, secondo cui il Presidente dell'Associazione FISH, un'importante azienda nel campo del sindacato, alloggiava nell'albergo per un mese a causa di un impegno longevo in Brasile. Con un po' di fortuna, avevo pensato, la mia copertura non sarebbe saltata.
La donna annuì, guadandomi negli occhi.
-Bene, si accomodi pure, informerò subito il signore del suo arrivo.-
Nessun problema.
-No, non lo avvisi! Non vuole che si sappia in giro.- dissi con fare cospiratorio, piegandomi oltre il bancone. -Vede, sono un'avvocato, e dobbiamo discutere di un grosso problema riguardo all'Associazione. Se i nemici politici del mio cliente venissero a sapere di questo nostro incontro, avrebbero le prove per fare causa, e lei non vuole essere l'artefice della bufera che verrebbe a crearsi, giusto?- 
La donna spalancò gli occhi, annuendo solennemente.
-Certo, certo, vada pure.-
Come si dice? Più facile a dirsi che a farsi? Beh, in quel caso era l'opposto. 
Mi stupii piacevolmente nel constatare la velocità con cui ero riuscita a convincere la signora.
Raggiunsi il ristorante privato e, guardando fisso davanti a me, mi sedetti ad un tavolino proprio vicino al separè, dietro cui c'era Jackson.
Aprii il menù poggiato sul tavolino, lo alzai e abbassai il capo, cercando di mimetizzarmi il più possibile.
Pochi minuti dopo arrivò un uomo che si sedette velocemente di fronte a Jackson. Indossava un lungo soprabito nero, che nascondeva una figura fine e slanciata. In testa, un cappello simile a quello che indossava l'Hercule Poirot di Agatha Christie, metteva in ombra i suoi occhi.
Era lui l'interlocutore a cui avevo sentito parlare un paio di giorni prima?
Da dietro al separè riuscivo solo a vedere di sfuggita quello che succedeva. I due si chinarono in avanti, avvicinandosi per parlare piano.
Se il separè serviva a dare un po' di privacy alle persone, sicuramente non impediva di ascoltare la loro conversazione.
-E' riuscito a trovarlo?- domandò Jackson.
-Sì. Alloggia qui all'Hotel da qualche giorno, ma ho bisogno di alcuni giorni. La sorveglianza è troppo fitta.- l'uomo aveva una voce bassa e profonda.
-Lasci perdere. Intanto mi basta sapere che è qui.-
-So benissimo che non sono affari miei, ma potrei chiederle cosa ha intenzione di fare? Perché la situazione è molto delicata ed è quasi impossibile avvicinargli.-
-Aspetterò qualche giorno poi penserò. Ci deve per forza essere un modo! Quel bastardo...- 
Quel bastardo cosa? Di che cosa stava parlando Jackson? Inforcai gli occhiali da sole che mi erano caduti sul naso, tanto erano grandi.
-Le posso chiedere un'ultima cosa?-
-Dica pure.-
-Potrebbe scoprire qualcosa sulla sua vita privata?-
-Certo. Posso farle avere qualcosa in un paio di giorni.-
-Perfetto e...-
Il cellulare prese a squillare nella borsa e io mi maledii per non aver pensato a quell'unico particolare importante di un buon piano.
Togliere la suoneria al telefono.
In fretta e furia lo recuperai e, senza guardare chi fosse il mittente, rifiutando la chiamata con il tasto rosso.
Quando, alla fine, rimisi a terra la borsa e alzai la testa, quasi mi venne un infarto.
C'erano ben due motivi per cui sarei potuta morire in quel momento.
O meglio, tre.
Davanti a me era seduto Jackson e l'espressione che aveva in faccia non prometteva niente di buono.
Sussultai dalla sorpresa, ma nella mia mente c'era un solo pensiero.
Sono fregata.
E non ebbi nemmeno il tempo di formulare un altro pensiero perché mi afferrò un braccio e trascinandomi fuori dal ristorante e dall'Hotel, fino in strada.
Forse ero troppo sorpresa, ma per qualche motivo mi lasciai portare fino al vicolo stretto di prima, quello dietro cui mi ero nascosta.
Basta, io e l'investigazione abbiamo chiuso.
Non era possibile che fossi stata scoperta per una stupida dimenticanza, come quella della suoneria. Il mio piano era perfetto! Beh, quasi... 
Promisi a me stessa di buttare il cellulare nel primo cassonetto che avessi incontrato.
-Allora?- abbassai lo sguardo sull'asfalto, troppo imbarazzata per guardare in faccia Jackson. Ora che la consapevolezza si faceva strada dentro di me, le guance mi si imporporavano.
Con un altro strattone al braccio, lui mi obbligò a guardarlo negli occhi.
-Che ci facevi lì?- più che ascoltare le sue parole, il mio cervello lesse il labiale. Ma le mie, di labbra, rimasero ostentatamente sigillate.
-Ti ho fatto una domanda!- esclamò duramente, assottigliando gli occhi.
Sbattei gli occhi un paio di volte, mantenendo il mio perpetuo silenzio. Davanti al mio deciso mutismo, Jackson chiuse gli occhi, inspirando a fondo, e quando li riaprì vidi qualcosa che non mi piacque affatto.
Rabbia.
-Per l'amor del cielo, rispondimi!- urlò, stringendo più forte la presa sul mio braccia.
Ero sicura che una paio di lividi non me li avrebbe negati nessuno.
-Io... io...- il mio balbettio era dovuto all'improvviso aumento di palpitazioni del mio cuore. 
Mi guardai a destra e a sinistra, verso il buio del vincolo e verso la luce della strada, la trappola e la salvezza.
Un flash.
Una presa troppo stretta. 
L'immagine di una gatto dietro al cartone. 
Un ricordo.
Il respiro mi si fece più rapido e corto. Incrociai, spaventata, il suo sguardo e mi sorpresi nel vedere la calma.
Jackson era calmo. Non arrabbiato. Mi voleva solo parlare.
-Ehi, calma. Non ti voglio far male.- avevo bisogno di quella rassicurazione come avevo bisogno di respirare. -Allora, mi stavi spiando?- chiese serio, ma senza quell'inflessione rabbiosa di prima nella voce.
Annuii lentamente.
-Lo sai vero che è illegale?-
Scoppiai a ridere, piegandomi in due. Una risata per nulla allegra.
-Ah, ora sarei io quella che commette atti illegali, eh?- mi asciugai gli occhi, mentre le ultime scosse di risa facevano tremare le mie spalle. -Da che pulpito!-
Jackson aggrottò le sopracciglia, superficialmente sorpreso, ma io non ci cascai.
-Di che parli?- domandò.
-Non fare il finto tonto! Sai benissimo di cosa sto parlando.- risposi, con il sopracciglio alzato e le braccia conserte. -Sei tu quello che sta facendo qualcosa di illegale, qui. Ti ho sentito parlare con quel tipo, e vi ho anche visti. Vorresti negare l'evidenza?-
Mi aspettavo di vederlo arrabbiato.
Mi aspettavo di vederlo spiazzato.
Mi aspettavo di vederlo colpevole.
Non mi aspettavo, di certo, quello.
Jackson sbuffò, proprio come faceva un cavallo, e poi portò una mano a coprirsi gli occhi, mentre sul volto gli si formava un sorriso strano.
Scosse la testa, a destra e a sinistra, poi cominciò a camminare avanti e indietro, in quel vicoletto stretto, borbottando parole incomprensibili tra sé e sé.
-Cavolo, pensi di star qui tutto il giorno così? Sai, io vorrei una spiegazione entro sera!- stavo seriamente perdendo tutta la pazienza infinita che avevo. E sopratutto stare lì, in quel posto, a relativo stretto contatto con lui, mi metteva una certa soggezione. Per quel che ne sapevo, lui poteva benissimo essere lo spacciatore di droga che pensavo.
Finalmente si fermò e mi guardò intensamente.
-Che c'è?- sì, anche il suo sguardo mi metteva soggezione.
Lo vidi prendere un profondo respiro, socchiudere gli occhi, e annuire tra sé.
-Va bene.- disse avvicinandosi. -Voi veramente sapere la verità?-
Cavolo, certo che sì!
Annuii lentamente, non distogliendo lo sguardo dal suo.
Si guardò attorno, come se volesse accertarsi che nessuno ci stesse origliando.
-Ora non posso raccontartelo. Non qui.- disse con la voce bassa. -Fatti trovare Sabato sera, a mezzanotte, sul balcone del secondo piano, quello vicino alla tua camera.- 
Lo guardai negli occhi perplessa. Aprii la bocca per ribattere che, se non aveva niente da nascondere, poteva benissimo parlare lì, in quel momento, ma lui mi afferrò per le braccia, bloccandomi.
-Che fai?- domandai.
Lui strinse più forte la stretta.
-Guardami.- era serio. -Ti fidi?-
Se mi avesse chiesto di essere sincera la mia risposta sarebbe stata, senza esitazione, no. Ma la mia curiosità e la determinazione, avevano l'urgenza di sapere e se quello voleva dire mentire, allora l'avrei fatto.
Annuii.
-Allora vieni e ti racconterò tutto, promesso.-















Note fine capitolo:
Queste saranno parole brevi perché devo scappare. Sono tornata stanotte dalla gita (in cui è successo di tutto) e quindi sono stanchissima. Sarò veloce perché devo tornare a studiare mate per doma -.-
So benissimo che il capitolo è cortino e schifoso ma è quello che si dice "capitolo di passaggio" se avete presente... 
Sì avete capito bene, nel prossimo scoprirete cosa è successo a Percy e anche qualcosa in più... o forse no. XD
Allora voi tutto bene? Sappiate che vi penso sempre <3 Sperando che le vacanze di pasqua mi aiutino, vi saluto.
Un bacione,
Annie

P.S. Sempre grazie alle persone che recensioscono e che mettono tra le seguite/preferite/ricordate la storia.

P.P.S. Se siete interessati, ho aperto un concorso sul fandom di Percy Jackson qui. Più siete, meglio è <3

P.P.P.S Ho iniziato un'altra long, sempre AU, sempre Percabeth sotto il titolo di "May the love be always with you"


EDIT:
Sotto suggerimento di qualcuno, ho creato una pagina Facebook per chi mi volesse conoscermi meglio, dove pubblicherò spoiler, curiosità e qualche momento della mia vita dietro allo schermo <3 Basta cliccare sul seguente link: La vita di AnnabethJackson-sconsigliato ai deboli di cuore
 

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


Disclaimer:
'Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di Rick Riordan; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro'.


Capitolo 9


Scuola, Venerdì 25 Giugno 2012

Annabeth


Ma quanto distava ancora Sabato? Tra il viaggio e tutto il resto, mi sembrava che la settimana non giungesse più al termine, il che non mi era completamente nuovo, visto che mi era capitato, in passato, di supplicare l'orologio che scorresse più velocemente.
Non so perché avessi l'urgenza di sentire cosa aveva da dirmi Jackson, ma cercavo di nasconderlo con altri pensieri che potessero distrarmi.
Quel Venerdì, in particolare, non riuscivo a prestare la mia totale attenzione ai bambini, che la reclamavano.
Grazie al cielo, alle 3 suonò la campana, e la prima settimana scolastica giunse finalmente al termine. Tutti i bambini uscirono, come sempre, in massa dalla classe, tra urla e schiamazzi, contenti di avere Sabato e Domenica per divertirsi.
Stavo finendo di sistemare i pennelli che avevamo usato, di spalle alla cattedra, quando mi accorsi della presenza di un bambino.
Nico era accasciato sul suo banco, con la testa appoggiata alle braccia magre, e i capelli troppo lunghi che gli cadevano sulla fronte.
-Nico?-
Mi avvicinai, e subito capii che qualcosa non andava.
Il bambino aveva gli occhi semi aperto, e i capelli umidicci erano attaccati alla fronte imperlata di sudore. Le labbra rosee erano secche, e le guance, di solito pallide, erano nettamente più rosse del normale.
Lui alzò la testa, piegandola di lato, perplesso.
-Cosa c'è?- la sua voce era assonnata, come se si fosse appena svegliato. Quel particolare mi preoccupò molto, tanto che mi chinai alla sua altezza per osservarlo meglio.
Gli misi una mano sulla fronte, che scottava come un termosifone.
-Ma tu hai la febbre alta.- deglutii, cominciando ad andare nel panico. Okay, Annabeth calmati, ce la puoi fare. Ha la febbre, non l'appendicite. Devi solo assicurati che arrivi a casa sano e salvo. Un passo alla volta. -Devi andare a casa subito. Dov'è tua mamma?-
Nico si strinse nelle spalle, innocentemente.
-Non lo so. Credo sia a casa.- rispose.
Aggrottai le sopracciglia, perplessa. Come poteva una madre permettere ad un bambino così piccolo di tornare da solo da scuola? Santo cielo, Nico aveva solo sei anni!
-Dammi il suo numero di telefono, che la chiamo.- dissi andando a recuperare il cellulare dalla borsa.
-Annabeth?-
-Si, amore?-
-Io non lo conosco.- rispose il bambino, guardandomi colpevole. Vedevo già le prime lacrime solcare il suo volto.
-Oh, no, Nico, tranquillo. Non fa nulla, davvero. Sai che facciamo ora? Spegniamo le luci dell'aula e andiamo a casa assieme. Che ne dici?- insomma, che opzioni mi rimanevano? Non potevo lasciar da solo un bambino in quello stato che, a malapena, riusciva a tenere gli occhi aperti.
Nico annuii, con il labbro inferiore proteso all'infuori. Scese dalla sedia e mi porse la mano.
Uscendo, mi maledissi mentalmente. Quel giorno avevo detto a Grover di non aspettarmi all'uscita perché dovevo andare in città per delle compere. Se, almeno, ci fosse stato lui, la situazione sarebbe stata più semplice.
Seguendo le indicazioni del bambino, e camminando lentamente, raggiungemmo in fretta la favelas dove abitava. Il sole picchiava forte e Nico sudava sempre di più. Ad un certo punto, evidentemente troppo stanco per continuare a camminare, lo presi in braccio, con la sua testa appoggiata alla mia spalla.
-Nico? È questa la tua casa?- gli chiesi quando mi trovai davanti a quella che credo fosse la sua.
Lui annuì lentamente, con gli occhi già chiusi e il respiro lento ma regolare.
Mi morsi un labbro. Beh, non si poteva definire proprio una casa. Rispetto alle altre che vedevo lì attorno era leggermente più lussuosa, ma era pur sempre una baracca.
Le pareti erano un misto di cartone e mattoni rossi, e il tetto un'insieme di pannelli di legno mezzi scheggiati. Ovviamente non c'era nessuna traccia di un appezzamento di terra fertile.
In un paio di passi arrivai a quella che doveva essere la porta. Bussai non troppo forte, per paura di sradicarla dai suoi cardini malconci con un semplice colpo.
Dall'interno sentivo solo il pianto di bambino e i rumori sinistri della casa, come se dovesse cadere da un momento all'altro.
-Chi è?- domandò una voce con l'accento americano, che mi sorprese molto visto il luogo in cui ci trovavamo.
-Sono Annabeth Chase, la maestra di suo figlio Nico.- urlai in risposta, sperando di non aver sbagliato baracca.
-Arrivo subito.-
Dopo qualche attimo, la porta si aprì, con un rumoraccio, rivelando la figura di una donna minuta e trasandata. La prima cosa che mi saltò agli occhi fu la pancia rotonda.
Era incinta.
Malgrado mi sembrasse piuttosto giovane, al fianco teneva un bambino che non doveva avere più di due anni, con il moccio al naso e le guance bagnate.
La donna aveva dei lineamenti delicati, ma i capelli corvini erano legati con un elastico improvvisato sulla testa. La cosa più bella del viso erano gli occhi, di un nero profondo, che le donavano un'aria raffinata e straniera, rispetto alle brasiliane del posto.
Il bambino al suo fianco le assomigliava, malgrado avesse più elementi in comune con la figura di Nico.
Doveva essere sua madre, per forza.
L'evidenza si accentuò quando i suoi occhi si posarono su di lui, in braccio a me e con la testa sulla mia spalla. Rimase a bocca aperta, mentre la preoccupazione si impadroniva di lei.
-Oh mio Dio, Nico! Cos'è successo?- domandò, portandosi una mano alla bocca.
-Ha la febbre alta, signora Di Angelo. Non potevo lasciarlo tornare a casa da solo in questo stato.- dissi.
La donna aprì completamente la porta, guardando a destra e a sinistra, poi si spostò e mi fece segno di entrare velocemente.
-Mi segua.- detto ciò entrò, chiudendosi la porta alle spalle.
L'interno non era molto meglio dell'esterno, sopratutto perché la casa era composta solo da tre stanze. La signora Di Angelo entrò nella prima a destra e io la seguii. La stanza da letto era prevalentemente piccola, ma conteneva un letto da una piazza e mezza e un box malconcio. C'era puzza di urina e pannolini sporchi.
Adagiai Nico sul letto, coprendolo con una coperta di lana per lo più rattoppata, poi gli passai la mano sulla fronte, scostando i capelli dalla fronte sudata.
Dall'altra stanza sentii il bambino riprendere a piangere, mentre la madre tornava nella stanza con una bacinella d'acqua e uno straccio immerso dentro. Lo appoggiò sul pavimento sporco e fece per prendere lo straccio, ma vidi che faceva molta fatica a piegarsi in avanti, a causa della pancia prorompente.
-Lasci, faccio io.- lei mi guardò per qualche istante, poi annuì, riconoscente.
Strizzai lo straccio e lo misi sulla fronte di Nico, poi sulla sua faccia si dipinse puro sollievo. Sorrisi.
Lo guardai addormentarsi tranquillamente, con il respiro regolare, contenta del fatto che sarebbe stato meglio. Mi accorgevo che, piano piano, mi stavo affezionando a quel bambino così piccolo e fragile. Era tutto un tesoro da scoprire. Più che mai, quel giorno, appresi che Nico aveva bisogno di un punto di riferimento.
Uscii lentamente dalla stanza, cercando di non fare rumore. Fuori vi trovai la madre, intenta a sistemare dei giocattoli in una cesta di vimini mezza sfilacciata, e nel mentre cercare di calmare il pianto del bambino che portava al fianco.
-Si è addormentato.- dissi, piegandomi per aiutarla a mettere a posto.
-Grazie mille signora Chase, davvero. Non avrebbe dovuto.- disse la donna, quasi sussurrando. Era più bassa di me, ma da quella posizione eravamo più o meno alla stessa altezza. Malgrado ciò, però, mi guardava dal basso, come se si vergognasse di non potercela fare da sola. Le sue ciglia erano così lunghe da incantarmi.
-In verità non sono sposata... comunque mi chiami pure Annabeth e mi dia del tu, la prego.- la corressi. Non sapevo perché essere considerata sposata mi desse fastidio... beh, in verità, lo sapevo, ma non volevo ammetterlo a me stessa.
-Oh, certo. Anche tu, chiamami Katya. Quello era il cognome di mio marito.- vidi i suoi occhi rattristarsi, ma non feci domande sul quel “era”. Ci trovavamo già in una brutta situazione.
-Ora, sicuramente, crederai che sono una madre snaturata e che non s'interessa ai suoi bambini, ma non è così.- nei suoi occhi vi lessi tristezza e... sofferenza? -Vedi, Annabeth, sono una madre single con due bambini piccoli e uno in arrivo, senza un lavoro fisso. È difficile. Molto.- concluse con lo sguardo fisso al pavimento.
-Mio marito è morto poco tempo fa, all'improvviso, e io mi sono ritrovata da un giorno all'altro a dover mantenere un'intera famiglia senza l'aiuto di nessuno.- se prima comprendevo quello che diceva, ora ero scioccata. Nico e i suoi fratellini erano orfani di padre prima ancora che avessero avuto il tempo di conoscerlo. E Katya era rimasta da sola.
-Tranquilla, Katya, davvero. Nico è un bambino bravissimo e tutt'altro che loquace. Malgrado la sua tenera età è evidente che è più responsabile e maturo degli altri bambini. Non c'è alcun bisogno che tu mi dia delle spiegazioni, capisco. Davvero.- le poggiai una mano sulla spalla, e sorrisi leggermente, mentre anche lei ricambiava. Nel mentre il bambino si era calmato.
Gli accarezzai la testa liscia, giungendo fino alla guancia bagnata. -Come si chiama?-
-Bianca.- oh. Era una femmina. Arrossi per il terribile errore che stavo per fare.
-Che bel nome.- stetti qualche attimo in silenzio poi mi decisi a parlare. -Ascolta, Katya, se vuoi posso accompagnare a casa Nico tutti i giorni dopo la scuola, così che possa arrivare sano e salvo.-
Non so da dove fosse arrivata quell'idea, ma prima che potessi ripensarci capii che avevo fatto la cosa giusta. Non mi sarei mai perdonata se fosse successo qualcosa a Nico.
Katya mi guardò con gli occhi spalancati.
-Oh, no! Non...-
-Tranquilla, mi fa piacere. E poi per me non è affatto un problema.-
E poi, quando lessi riconoscenza nei suoi occhi, seppi che aveva ceduto. Annuì lentamente, sorridendomi con evidente gratitudine.
-Grazie mille, Annabeth, davvero.-




E, alla fine, arrivò l'ora della verità.
Il giorno successivo, Sabato, Percy non si presentò a cena e nessuno commentò la sua assenza. Evidentemente aveva trovato, di nuovo, una scusa andarsene chissà dove.
Sinceramente non ero affatto preoccupata per la sua incolumità, ma speravo che, dovunque si trovasse, riuscisse a tornare in tempo per mantenere la parola. Io volevo sapere la verità.
O meglio, ne avevo bisogno.
Rimasi taciturna per tutta la durata della cena, mentre Chintia e Grover discutevano di chissà quale danno avesse procurato Grover al suo amato furgoncino. Sembrava che il ragazzo non riuscisse a combinarne una giusta, dato che la Chintia era sempre lì a minacciarlo con il mestolo.
Guardarli era come assistere ad un litigio tra una mamma e il proprio figli adolescente. Lui vuole essere libero ma tutto quello che fa, non fa altro che far arrabbiare la madre che lo rimprovera.
Non che io avessi mai assistito ad una scena simile.
Non avendo mai avuto una vera figura femminile che mi guidasse nella crescita, era sempre stato papà a indicarmi come e cosa dovessi fare, limitandosi a consigliare nel bene e nel male.
Con una scusa appena sussurrata, mi alzai, a metà del mio piatto di pasta, e salii in camera, sicura che i due non si sarebbero presi la briga di fermarmi.
Malgrado fossi solo un'ospite passeggera, Grover e Chintia erano riusciti subito a ricreare un'atmosfera famigliare, facendomi sentire parte di una piccola famigliola. Mi rendevo conto di starmi affezionando, pian piano, a loro.
Mi buttai di peso sul letto, con le braccia dietro alla testa, e sospirai.
Avevo volontariamente lasciato spenta la luce, in modo che il tramonto potesse colorare di rosso le pareti della stanza. Amavo il tramonto, tanto che era la mia parte preferita della giornata, se ce n'era una, ma in quel momento preferivo stare lì così. Non avevo voglia di alzarmi e sporgermi alla finestra.
Chiamatemi pure pigra, ma se mi sdraio su un letto, sopratutto se morbido, è difficile farmi alzare.
Aspettai che il sole calasse lentamente, seguendo il suo percorso mediante le ombre sempre più scure che si impadronivano degli spigoli della camera, e nel mentre pensai.
Pensai a Jackson, e al suo segreto inconfidabile che, se Dio voleva, avrei scoperto poco dopo. Pensai a Nico, malato, e a sua madre, in attesa del terzo bambino, che faceva fatica a mantenere due figli piccoli senza l'aiuto di un uomo. La tristezza che mi aveva assalito quando Katya mi aveva confidato la perdita del marito, e la conseguente fatica nel mantenere un'intera famiglia, mi aveva fatto vivere fino a quel momento con un senso di oppressione.
Mi rendevo conto che quel bambino mi stava entrando lentamente nel cuore.
Girai il capo e guardai l'ora dalla sveglia sul comodino. Le 11.10. Mancava poco meno di un'ora, eppure mi sembrava un tempo lunghissimo.
Mi sentivo come quando, a sedici anni, aspettavo in trepidante attesa, l'arrivo di Kyle, il ragazzo con cui avevo avuto il mio primo appuntamento. Era Domenica e il programma prevedeva di andare al cinema e, subito dopo, di mangiare un pizza nel fast food lì vicino.
Mi ero svegliata tutta pimpante e, come sempre, con i capelli aggrovigliati. Dopo una doccia durata circa un'ora, ero uscita dal bagno, avvolta in una nube di vapore biancastro e in un'asciugamano di cotone bianco. Erano le 10 di mattina, e l'appuntamento alle 16.
I compiti a casa piangevano sul mio comodino e mi guardavano insistenti, in attesa di catturare la mia attenzione. Per quel giorno avrebbero dovuto aspettare. Poi mi aveva chiamato Piper per consigliarmi su quale vestito mettere e su come acconciare i capelli. Neanche mezzora dopo, me l'ero ritrovato sulla porta di casa tutta trafelata e con in mano la sua personale trousse di cosmetici. Alle 12 ero già belle che pronta, il che non mi aveva di certo aiutata a calmarmi. Alle 15.30 ero un fascio di nervi, una mina vagante che rischiava di scoppiare da un momento all'altro. Mio padre doveva essersene accorto perché si era ritirato nello studio, con la scusa di un pacco di compiti da correggere, e lasciandomi dieci dollari sul comodino.
Avevo rischiato seriamente di vomitare tanto ero nervosa, ma alla fine il campanello era suonato e io ero corsa ad aprire. Non fu questa gran cosa, ma essendo il mio primo appuntamento decisi che l'attesa ne era valsa la pena.
In quel momento, sdraiata sul letto, mi pentii di aver mangiato tutta quella pasta al sugo. Il mio stomaco era bloccato da una morsa di ansia.
Avevo bisogno di sapere.
Non riuscendo più a stare ferma, saltai su dal letto e mi spogliai, indossando un comodo paio di pantaloncini di cotone e una maglietta a mezze maniche, abbastanza larga da poterci stare due volte.
Raccolsi i capelli in una coda alla bell'e meglio, consapevole di non essere il massimo della bellezza ma sicura che a Jackson non sarebbe importato.
Stavo andando a conoscere la verità su un caso che stava consumando la mia curiosità, non di certo ad un appuntamento al chiaro di luna.
Alle 11.50 decisi di uscire e togliermi il pensiero. Non ce la facevo più a stare in camera.
Superai la sala con il parquet freddo ed aprii la porta finestra che dava sul balcone. Mi ero scordata di mettere le ciabatte ma non avevo voglia di tornare indietro. Me la sarei cavata anche senza.
Come avevo previsto, fuori non c'era ancora nessuno, il che non mi sorprese. Avevo come il sospetto che Jackson non fosse un tipo puntuale.
Malgrado l'aria fosse afosa, tirava un debole venticello fresco che contrastava il tempo e che permetteva di non sudare. In poche parole, si stava bene.
Una folata di vento più forte mi stravolte, scompigliando i capelli già messi male, e liberando una ciocca che mi cadde dolcemente sul viso, incorniciandolo. Non mi dava particolarmente fastidio così non lo scostai.
Dopo dieci minuti il dubbio che Jackson mi avesse tirato un brutto scherzo al fine di scampare alle mie domande e alla mia curiosità, mi si fece strada nella testa, ma decisi comunque di attendere un altro po' e di dargli fiducia. Beh, più che crederci, speravo che mantenesse la parola data.
Fuori era mite. Dalla distesa di terra fertile proveniva lo stridere delle cicale, qua e là, nel prato, potevo scorgere il luccichio di qualche lucciola solitaria.
Era tutto molto tranquillo e confortevole, tant'è che, quando sentii qualcosa appoggiarsi sulla mia spalla destra, sobbalzai.
Girai di scatto la testa, tranquillizzandomi solo quando mi accorsi che era solo Jackson.
-Pensavo non saresti più venuto.- dissi mentre si appoggiava alla ringhiera, accanto a me.
Lo squadrai da capo a piedi. Doveva aver appena finito di fare la doccia, perché i capelli erano bagnati e erano tutti rizzati all'insù, come se ci avesse passato la mano varie volte. Alcune goccioline, poi, imperlavano la linea del collo, dalla mascella fin dentro la scollatura della maglietta grigia, che presentava delle chiazze più scure sul petto.
Evidentemente non esistevano gli asciugamani sul suo mondo.
Quando respirava, quelle chiazze bagnate aderivano al petto, evidenziando alcune linee marcate. Deglutii e distolsi lo sguardo. Non mi importava affatto se Jackson teneva in forma il suo corpo o no.
Non diede segno di voler commentare la mia constatazione, limitandosi a lanciarmi un'occhiata che non seppi interpretare da dietro alla spalla.
Sospirai, imitando la sua postura alla ringhiera. Se aveva deciso di stare in silenzio, lo avrei fatto anch'io. Non volevo abbassarmi al suo livello, porgendogli le domande. Doveva essere lui il primo a parlare.
Dopo due minuti di perfetto silenzio, finalmente si decise a parlare.
-I miei genitori si conobbero in riva al mare e, da quel che mi ha raccontato mia mamma, fu amore a prima vista. Mio padre era in vacanza con la famiglia e mia madre, che durante le vacanze abitava in una casetta al mare, lavorava in un bar. Alla fine dell'estate, dopo tre mesi di feste e risate, decisero di andare ad abitare a New York assieme. Può sembrare una decisione affrettata ma si amavano veramente. Un paio di mesi dopo, mia madre scoprì di essere incinta e subito lo disse a mio padre che ne fu entusiasta. Passarono i successivi nove mesi felicemente. Un anno dopo che ero nato io, alla vigilia del matrimonio, mio padre se ne andò, dicendo a mia madre che non poteva sposarsi, che era troppo giovane per farsi carico di una famiglia. La lasciò sola, capisci?- domandò, girandosi a guardarmi. Il suo volto era privo di espressione.
Aggrottai le sopracciglia. Suo padre se ne era andato quando lui era piccolo. Mentre parlava, mi sembrava di rivivere la mia storia attraverso la sua.
-Per fortuna, mia madre è una donna forte. In qualche modo riuscì ad andare avanti per qualche tempo, ma ad un certo punto non trovò altra soluzione che affidarsi a Gabe, l'unico uomo che accettò di sposare una donna single con un figlio. In questo modo mia madre poteva contare su un maggiore mantenimento, almeno in parte, sul fronte economico durante la mia infanzia. Sai non è facile crescere un bambino molto attivo, da sola. Comunque per tornare al punto, Gabe è l'uomo più infame che abbia mai incontrato. La maltrattava, la usava, la picchiava e, anche se provavo a difenderla, lei mi diceva che andava tutto bene, che era tutto apposto. Malgrado il suo salario poco fittizio, mamma non mi faceva mancare niente.
Per la maggior parte del tempo, Gabe invitava gli amici a casa per una partita a poker, senza farsi mancare birra e sigarette. Puzzava talmente tanto che, all'età di dieci anni, gli affibbiai il nome di Gabe il Puzzone.- Jackson sorrise al ricordo, per poi scuotere il capo.
-Una sera, Gabe tornò a casa più ubriaco del solito e cominciò a insultare mia madre. Quando arrivò alle mani, chiuso in camera mia, chiamai la polizia. Grazie a Dio finì in prigione e tutto divenne più semplice. Io aiutavo mia madre con i soldi che guadagnavo facendo il barista nel tempo libero, mentre la mattina andavo a scuola e studiavo. Mi diplomai con il massimo dei voti, grazie ai quali ricevetti una borsa di studio per l'Università di New York. Tutto andava bene fin quando, un pomeriggio di sei mesi fa, stavo facendo zapping seduto sul divano, e sono capitato su un notiziario che stava facendo passare in sovrimpressione la foto dell'imprenditore di un'importante compagnia. Ero con la testa da tutt'altra parte, ma mi sono ritrovato a pensare che quell'uomo portava al collo la stessa collana che avevo io, e che era appartenuta alla famiglia di mio padre.- Jackson infilò la mano nella maglietta, tirando fuori una collanina d'argento. Il ciondolo ovale, riportava il simbolo di un tridente.
Avevo paura di sentire il continuato del racconto.
-Spinto dalla curiosità andai in Internet per cercare informazioni su quell'uomo. Guardando meglio le varie foto che trovai, mi accorsi dell'incredibile somiglianza tra i miei occhi e i suoi, e non solo quelli. Tutto in li mi ricordava me.- si bloccò un attimo, deglutendo.
-Ovviamente mi venne il dubbio che fossi imparentato con lui. Devi sapere che mia madre non mi ha mai detto molto su mio padre, tranne il minimo indispensabile. Quando io le domandavo qualcosa si limitava ad assumere quel suo sguardo sognante e a dire quanto fosse affascinante mio padre.- guardandolo in quel momento, con i capelli al vento e lo sguardo lontano anni luce, dovetti ammettere, a malincuore, che un certo fascino lo aveva ereditato pure lui.
-Cercai di lasciar perdere, ma la notte, il solo pensiero che quell'uomo potesse aver a che fare con la mia famiglia, non mi faceva dormire. Non potevo chiedere a mia madre perché lo vedevo. Vedevo lo sguardo di mia madre quando parlava di lui. Non l'aveva mai dimenticato, per questo non potevo.- chiuse gli occhi e strinse gli occhi, scuotendo la testa lentamente.
Io non dissi niente. Capivo che, se avessi osato a domandare qualcosa, quell'atmofera strana che si era creata, si sarebbe spezzata, e io non volevo che accadesse.
-Così, tre mesi dopo, non trovando altre notizie interessanti, mi decisi a chiamare un'investigatore privato. È con lui che stavo parlando all'Hotel.- disse alzando il mento.
-Mi disse che quell'uomo sarebbe stato qui in Brasile per un lungo periodo e che, quindi, doveva spostare le ricerca in questo paese. Grazie a due miei amici, venni a sapere che c'era questo progetto, e io rispondevo a tutte le caratteristiche. Quale scusa migliore da dare a mia madre per nascondere il fatto che stavo andando ad indagare sul mio presunto padre in un altro paese? Detto fatto, inviai la richiesta e partii. Dovevi vedere lo sguardo di mia madre quando le dissi che sarei partito per il Brasile per insegnare ai bambini poveri. Era fiera di me.- colsi una nota di risentimento nella sua voce, come se si fosse pentito di esser partito all'insaputa della madre per andare a scoprire l'identità del padre. Per come la pensavo io, non poteva esserci ragione più valida per partire e lasciare tutto.
In quel momento riuscivo a capire Percy Jackson, più di quanto riuscissi a capire me stessa negli ultimi due anni. Il che era assai ambiguo.
Il silenzio si prolungò così tanto, che alla fine decisi di intervenire.
-E cos'hai scoperto?- domandai.
-È mio padre.- rispose con un sussurro.
Mi morsi un labbro, annuendo tra me e me.
-Beh, almeno tu l'hai trovato.- dissi amaramente, maledicendomi subito dopo per essermi lasciata sfuggire quel commento.
Non era assolutamente mi intenzione spifferare la mia vita privata a Jackson.
Mi guardò perplesso.
-Che indenti dire?- Non c'era modo di sfuggire a quella domanda. Ero sicura che, se non avessi risposto, avrebbe continuato ad istigarmi finché non avrebbe ricevuto una risposta che lo soddisfava. Beh, in fin dei conti, lui mi aveva rivelato una parte della sua vita. Perché io non potevo fare altrettanto?
-Mia madre se ne è andata quando io avevo cinque anni.- dissi, mordendomi il labbro inferiore.
Silenzio. Lo avevo spiazzato.
-Mi dispiace.- disse alla fine.
-Oh, non dispiacerti! Siamo sulla stessa barca io e te, ricordi?- dissi cercando di sdrammatizzare. -Comunque credo di dovermi scusare.- aggiunsi restia.- Per averti accusato, intendo. E anche per aver pensato che stessi trafficando droga.-
Jackson scoppio a ridere. Beh, almeno ero riuscita ad alleggerire la situazione già di per sé drammatica.
-Certo che hai un'immaginazione fervida. Comunque non fa niente, davvero. Anch'io avrei pensato male.- calò ancora il silenzio. -Ah, un'altra cosa: chiamami Percy. So benissimo che nella tua testa e con gli altri non riesci a dire il mio nome.- e alzò l'angolo destro della bocca.
Ma che...? Come diavolo faceva a saperlo lui?
Non so quanto tempo passò ma la temperatura si era un po' abbassata e il vento tirava più forte.
Quando ero salita su quel terrazzo non pensavo che la mia opinione su Jackso... Percy, sarebbe cambiata radicalmente, perché, sì, per quanto mi costasse ammetterlo, non era la stessa persona che credevo che fosse. Era... diverso. In meglio, ovviamente, e questo mi faceva piacere perché vivere a stretto contatto con lui per i restanti sei mesi sarebbe stato più semplice.
-Annabeth?- domandò, facendomi ridestare dai miei pensieri.
-Uhm?-
-Posso farti una domanda personale?- mi chiese, voltandosi a guardarmi.
Già dal suo sguardo avrei dovuto capire che non prometteva nulla di buono, o almeno, nulla che mi potesse piacere, ma distratta da altri pensieri, gli feci un cenno con il capo, in segno di assenso.
-Ecco, ho notato che in alcuni momenti hai come... come delle crisi. Posso chiederti se c'è un motivo preciso? Ti è successo qualcosa in passato?-
Colpita e affondata.
Strizzai gli occhi forte e respirai lentamente. NON dovevo andare in crisi. Era una semplice domanda, non mi stava chiedendo cosa avessi provato nel momento in cui lui mi aveva preso, nel momento in cui avevo perso la mia innocenza.
Andava tutto bene.
Scossi la testa con vigore, poi ritrovai il coraggio per guardarlo negli occhi, dove vi lessi perplessità e curiosità.
-P-preferirei non parlarne... io... io non...- fantastico, avevo ripreso a balbettare.
Grazie al cielo, nei suoi occhi vi lessi anche la comprensione. Accennò un sorriso tranquillo, e sulle guance si formarono due fossette incredibili, che non gli avevo mai visto fare.
Io adoravo le fossette.
-Tranquilla, non fa niente.- si bloccò come se volesse aggiungere dell'altro. E lo fece. -Nel caso avessi bisogno di qualcuno con cui parlare, beh, sappi che sono sempre a tua disposizione.- e poi ecco comparire ancora quel suo sorriso pieno di fossette che , avevo deciso, mi piaceva.
Questo non voleva dire che mi piacesse lui, sia chiaro!
Avevamo fatto pace, è vero, ma non è che tutto ad un tratto fossimo diventati migliori amici per la pelle.
-Okay.-
Stettimo ancora un po' sul terrazzo, mentre la notte si faceva più fitta e la temperatura più fredda. Alla fine decidemmo di rientrare.
Avevo una mano appoggiata alla maniglia della mia camera e Percy mi aveva superato, per andare nella sua, quando si bloccò e mi si avvicinò.
Sotto i miei occhi perplessi, protese una mano.
-Amici?-
Allungai la mano a mia volt,a e ricambiai la stretta.











Note fine capitolo:
Tutte le volte vorrei dire un sacco di cose ma me ne dimentico alcune per strada -.- Quindi, vado per punti. Buongiorno/Buonasera/Buon*inqualunquemomentodellagiornatastiateleggendo* semidei miei!
Come state? Spero tutto bene! Qui da me, in due settimane è successo di tutto (inferno e paradiso assieme). Spero, inoltre, che abbiate passato bene le vacanze di Pasqua perché la sottoscritta non ha toccato libro fino a martedì (XD) e ora si trova nei guai. Infatti settimana prossima ha la verifica di storia e deve studiare tipo 80 pagine (e non ha ancora iniziato) e altrettante 60 di arte (che, tho!, non ha ancora toccato). B e n e.
Lasciando perdere la scuola che è una cosa noisa ed inutile, arriviamo al capitolo (che, ovviamente, è moooolto più interessante sotto molti punti di vista XD). Che ne pensate?
Come, forse, avrete notato è leggermente (molto) più lungo dello scorso e decisamente più ricco di avvenimenti significanti (come vi avevo deto, lo scorso era solo di passaggio). Prendete nota di tutto quello che accade in questo capitolo perché fa da cardine portante alla trama della storia futura.
Come qualcuno aveva previsto (beh, non era poi così difficile, sopratutto dopo che ho parlato dell'associazione FISH), quello è il padre di Percy che, sorpresa delle sorprese (sono ironica), lo ha abbandonato quando era piccino picciò. Ora penserete: che stronzo! In verità c'è una spiegazione che... no, non ve lo posso dire. Lo scoprirete solo più avanti ;)
Mi ricordo che ad alcuni di voi era sorta una domanda: come mai Percy non si accorge che ad Annabeth è successo qualcosa a causa delle sue crisi? Beh, come vedete lui se ne è accorto, eccome! Ma, non essendo del tutto scemo, capisce che se Annabeth non ne vuole parlare, non deve insistere più di tanto.
E poi, tocco finale, Annabeth e Percy diventano amici (tipo che mi sono emozionata a scriverlo XD).
In fine la storia famigliare di Nico si svela, e fa la sua comparsa Katya (e Bianca, in piccola parte), la madre del bambino. Ovviamente è un personaggio invetanto da me, ma sarà abbasatanza importante verso la fine...

Ora veniamo al resto. Lascio alcuni link che potrebbero interessarvi:
"May the love be always with you" --> pubblicato il capitolo 2 da poco.
"Amore con la A maiuscola (Afrodite sarebbe fiera di me)" --> Contest su Percy Jackson indetto da me. Ci sono ancora 5 posti liberi *-*
E infine.... NOVITA':
"La vita di AnnabethJackson-sconsigliato ai deboli di cuore" -->ebbene sì, ora ho anch'io una pagina Facebook. Sotto suggerimento di qualcuno (grazie dell'idea) ho creato questa pagina con l'intento di farmi conoscere meglio e di interagire con voi... e poi posterò tanti SPOILER e curiosità...
"AnnabethJackson EFP" --> questo invece è il mio account Facebook di EFP (che già esisteva ma che non usavo più). Se volete chiedermi l'amicizia sarò felice di accettarla ;)

Okay, basta, credo di aver detto tutto.
Un bacione grandissimo <3
Annie

P.S. E, come sempre, ringrazie le fantastiche persone che seguono, leggono preferiscono e recensiscono la mia storia <3 non saprei che fare senza di voi.


 

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


Disclaimer:
'Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di Rick Riordan; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro'.


Capitolo 10


Fattoria Ferreira, una settimana dopo

Annabeth


La Domenica passò, e così anche il Lunedì. Come avevo promesso a Katya, passai tutti i giorni subito dopo la scuola a trovare Nico, che non mostrava segni di miglioramento.
Mi ero procurata delle aspirine e un termometro, che tornava sempre utile. Con quelli speravo di poter portare alla guarigione Nico, ma dopo quattro giorni non vedevo segni di miglioramento.
Trascorrevo gran parte del mio pomeriggio al capezzale del bambino, cambiando ogni mezzora la benda bagnata sulla fronte, per fare in modo di dargli un po' di sollievo. 
Varie volte lui si era svegliato dal suo sonno profondo, e in quelle occasioni ero riuscita a nutrirlo abbastanza per donargli un po' di forze necessario.
Arrivata a Mercoledì non notavo, ancora, nessun miglioramento e la mia preoccupazione e quella di Katya crebbero tanto che, quando me ne andai quella sera, decidemmo di portarlo al pronto soccorso se non fosse migliorato entro il giorno dopo.
E poi avvenne il miracolo. Giovedì, temendo già il peggio, bussai e il sorriso con cui mi accolse Katya mi rincuorò come mai prima.
La temperatura corporea di Nico si era abbassata durante la notte, ed era pure riuscito a mangiare mezzo piatto di brodino.
Fino a quel momento non mi ero accorta di nulla, ma una grande tensione mi aveva attanagliato lo stomaco, il che significava che lui aveva messo le radici nel mio cuore. Il che andava contro tutto quello che mi ero promessa prima di partire solo due settimane prima.
Quel Venerdì rimasi sveglia fino all'1 di notte, con solo un libro a farmi compagnia e il tremolio della luce di una lampada a rischiararmi il cammino.
La sveglia ticchettava i secondi inesorabilmente, ma, come mi succedeva spesso, la mia mente era proiettata su quello che accadeva nel libro, tanto presa dalla trama da non accorgersi della notte che si impossessava della sera tarda. Non mi ero preoccupata dell'ora tarda perché il giorno dopo, Sabato, non avevo lezione e quindi potevo dormire fino a tardi. Inoltre ero sicura che Chintia non sarebbe venuta a svegliarmi come, invece faceva gli altri giorni, perché c'era questa regola secondo cui il Sabato e la Domenica eravamo liberi di fare quello che volevamo.
Alla fine però, malgrado i miei coraggiosi propositi, la stanchezza aveva avuto la meglio, e io mi ero addormentata con il libro, aperto alla pagine a cui ero arrivata, sul petto e la testa piegata a destra. Grazie al cielo avevo l'abitudine di leggere mezza sdraiata.
Poco tempo dopo, o almeno così mi era sembrato, due colpi forti alla porta mi destarono.
Spalancai gli occhi, spaventata, voltando di scatto la testa alla porta che tremava ancora per i colpi subiti. Speravo di essermeli solo immaginata, ma due secondi dopo altrettanti colpi si abbatterono sulla porta, e io avevo il timore che potesse cadere da un momento all'altro.
Mi alzai di malavoglia, maledicendo in tutte le lingue che conoscevo chiunque avesse osato svegliarmi alle... un momento, che ore erano?
Lancia un'occhiata al display del mio cellulare, che giaceva dimenticato dalla sottoscritta sul mobiletto accanto alla porta, accorgendomi che erano solo le 8.10.
Chi diavolo aveva osato svegliarmi alle 8 e 10 di Sabato mattina?
I colpi alla porta erano diventati insistenti quando, finalmente, la spalancai. E rimasi paralizzata dalla sorpresa.
Jackson era di fronte a me, con un braccio e il pugno alzati, come per bussare. Lo squadrai da capo a piedi in meno di un secondo, rimanendo ancora più perplessa per il suo abbigliamento.
Sopra portava una semplice canotta bianca, a mezze maniche, ma sotto indossava dei pantaloncini al ginocchio, che, guardando il tessuto di cui erano fatti, servivano solo a fare una cosa: nuotare.
Lo fulminai con lo sguardo mentre, tutto ad un tratto, diventavo consapevole di come ero conciata io. 
Indossavo solo dei pantaloncini di cotone striminziti e una canottiera con le spalline, che usavo solo in sostituzione del pigiama dato che erano entrambi, o troppo sformati (maglietta) o troppo vecchi (pantaloncini) per essere messi in altre occasioni.
Per non parlare dei capelli, simili ad un groviglio di uccello appena costruito, erano sciolti, anche se si poteva intuire il lato su cui, ad un certo punto, avevo dormito. Tutto sommato dovevo ringraziare il Signora, perché non mi truccavo quotidianamente, e quindi non correvo mai il rischio di svegliarmi ed assomigliare ad un koala.
Rimasi lì in piedi, uno di fronte all'altro, io con una mano sulla maniglia e lui con una canna in mano.
Senza dire nulla, feci per sbattergli la porta in faccia, ma lui la blocco con un piede, così non ebbi scelta che perdere tempo nello ascoltare quello che aveva da dire. Alle 8 e 10 di Sabato mattina.
-Che diavolo ci fai qui?- borbottai, incrociando le braccia al petto, per cercare di nascondere il fatto che non portavo il reggiseno. Mi bloccai e riavvolsi il nastro. Percy aveva in mano una canna da pesca. Che diavolo ci voleva fare con quella? -E perché hai in mano una canna da pesca?- 
-Che stavi facendo?- chiese di rimando lui, ignorando le mie domande.
-Secondo te? Stavo dormendo come i comuni mortali fanno il Sabato mattina!-
-Be', ora sei sveglia.- disse lui come se fosse ovvio. E in un certo senso lo era, ma non capivo dove volesse andare a parare, così alzai un sopracciglio. Lui allargò le mani.
-Forza, su! Ti do cinque minuti, non uno di più, per prepararti. Se non sarai pronta entro quel tempo sarò costretto a trascinarti giù con o senza il pigiama.- e dalla sua espressione era evidente che non stava scherzando.
Ma io continuavo a non capire. 
-Un attimo, un attimo.- lo bloccai, alzando una mano e sospirando. -Dove, di preciso,mi vuoi trascinare?-
-Ma che domande! In spiaggia, ovviamente!-
Quel ragazzo era pazzo. Sul serio. 
Non ebbi il tempo di produrre un pensiero razionalmente utile a ribattere perché lui, dopo aver sospirato profondamente, mi spinse gentilmente da una parte ed entrò nella mia stanza, senza chiedermi il permesso.
Raggiunse la mia valigia, ancora aperta ma praticamente vuota, dove avevo appoggiato le due borse che mi ero portata da casa, una per contenere i libri delle lezioni, e l'altra per tutto il resto del tempo. Acchiappò quest'ultima, appoggiando la canna da pesca sul mio letto sfatto che aveva ancora la forma del mio corpo sdraiato.
Aprì il primo cassetto, quello in cui tenevo mutande, reggiseni, calzini e altre cose intime, tra cui il costume, e si bloccò. Grattandosi la testa, lentamente prese un indumento e lo sollevò, voltandosi a guardarmi.
No, no, no, NO! 
Tra tutti i cassetti doveva aprire proprio quello?
Spalancai gli occhi, paralizzandomi sul posto. Percy teneva in mano quel famoso paio di mutandine con il pizzo che Piper mi aveva infilato, di nascosto, nei bagagli e che io avevo accuratamente nascosto nei meandri nel cassetto. Come diavolo aveva fatto a trovarle?
-Che cosa...?- non gli diedi il tempo di terminare la domanda perché marciai come un bufalo imbestialito verso di lui, strappandogli di mano la lingerie.
-Non sono affari tuoi!- ribattei. Poi, anche se era più alto per me, lo presi per un orecchio e lo accompagnai gentilmente verso la porta. -E ora fuori dalla mia camera.- lo spinsi fuori e lui si girò prontamente, alzano un dito e aprendo la bocca per ribattere. 
-Ma...-
Lascia che la porta gli sbattesse in faccia.
Credo che il messaggio non potesse essere più chiaro.
Mi appoggiai alla superficie di legno, chiudendo gli occhi e sospirando per un momento. Dentro di me era in atto un battaglia intellettuale tra i due emisferi del cervello. Uno sosteneva che andare al mare sarebbe stata solo una perdita di tempo, mentre l'altra voleva mandare a quel benedetto paese i miei ideali e lasciarsi andare almeno per una volta.
A quel paese.
Un altro sospiro più profondo, e poi mi precipitai verso la borsa che giaceva sul pavimento vicino all'armadio. 

-Ora puoi gentilmente spiegarmi perché cavolo mi stai trascinando in spiaggia?- domandai, ventilando il mio povero collo madido di sudore con un foglietto che avevo trovato lì dentro.
La temperatura aveva raggiunto la sua massima altezza da quando io ero arrivata a Rio, e lo si poteva capire dalle radiazioni di sudore che aleggiavano nello spazio angusto del camioncino.
I pantaloncini corti e la canottiera bianca non servivano a nulla contro quel caldo torrido.
Guardai storto Percy, che invece teneva lo sguardo puntato sulla strada e le mani sul volante, intento a non perdersi nelle strade intricate di Rio de Janeiro.
Ghignò, lanciandomi una breve occhiata.
-Per divertirci, ovvio!- esclamò.
Con il mio sopracciglio alzato, e lo sguardo scettico doveva aver capito che non gli credevo. Sospirò, diventando, incredibilmente, serio.
-Be', dobbiamo vivere nella stessa casa per sei mesi, lavorando a stretto contatto, giusto?- feci un cenno di assenso. -Io non conosco te, tu non conosci me, quindi dobbiamo fare qualcosa per rimediare a questa mancanza. E cosa c'è di meglio di una giornata al mare?-
Rimasi in silenzio perché quelle parole mi fecero pensare molto. Era vero. Io non lo conoscevo, quindi perché all'inizio ero stata così indifferente nei suoi confronti classificandolo come un arrogante bamboccio?
-E siamo arrivati!- il motore del furgoncino smise di lavorare dopo che Percy girò la chiave dell'accensione.
Mentre aspettavo che recuperasse la sua roba, mi guardai attorno.
La spiaggia era lunghissima, e l'Oceano Atlantico si estendeva in una distesa blu fino all'orizzonte, luccicando sotto i raggi del sole splendente. La riva era già molto popolata da persone di tutte le età, giovani e anziani, intenti a fare il bagno ed abbronzarsi al sole. Quella era vita pura.
-Eccoci qua, possiamo andare.- mi voltai e rimasi impalata davanti a Percy che aveva in mano un ombrellone e un borsone che poteva contenere benissimo una bomba gigante.
-Sorpresa, eh? Devi imparare che io sono super organizzato in qualsiasi occasione, baby.- disse ammiccando.
-Chiamami ancora una volta baby e sarà l'ultima cosa che dirai. Se proprio lo vuoi usare, nomina “baby” tua nonna.- ribattei, girandomi per incamminarmi lungo il ballatoio che separava la spiaggia dal marciapiede.
-Okay, ho capito, non ti piace. Vuol dire che troverò un'altro soprannome.- disse allungando il passo per seguirmi.
Scossi la testa, alzando gli occhi al cielo. Avrei scommesso che non avrebbe smesso finché non avesse trovato un nuovo nome che mi piacesse.
Mi diressi nel punto più spopolato della spiaggia, in cerca di un po' di ombra, ma poi mi ricordai che Percy aveva portato un ombrellone, così mi limitai a lasciar cadere a terra la mia borsa e a stendere il telone variopinto.
Mentre Percy faceva lo stesso on il suo e piantava l'ombrellone nella sabbia, mi sfilai la canottiera dalla testa e slacciai i pantaloncini, abbassandoli.
Sotto indossavo il mio nuovo bikini, quello che Piper (ovvio) mi aveva consigliato di comprare quando aveva saputo che sarei partita per Rio, sostenendo che, anche se dovevo lavorare, un bagno nel mare non me lo avrebbe tolto nessuno. E, per una volta, dovevo ringraziarla.
Il reggiseno bianco, era contornato da un delicato merletto, lo stesso che caratterizzava anche il pezzo sotto. Dovevo riconoscere che il bianco faceva risaltare la mia carnagione californiana, già abbronzata di suo.
Faceva troppo caldo e io avevo il collo sudato, così mi raccolsi i capelli in una coda disordinata, alla bell'e meglio.
Quando alzai lo sguardo, mi accorsi che Percy mi stava fissando.
Aggrottai le sopracciglia.
-Che c'è?- gli domandai, perplessa. Mi ero dimenticata di farmi la ceretta alle gambe? Abbassai lo sguardo, terrorizzata a quel pensiero, ma le mie gambe erano lisce come il culetto di un bambino.
Percy deglutì, poi scosse la testa distogliendo lo sguardo.
-Niente.- disse mentre si toglieva la maglietta, facendola passare dalla testa.
Oh.
Be', il fisico c'è l'aveva, non potevo negarlo. Sentii il sangue affluire alle guance così distolsi lo sguardo, e mi misi a piegare i vestiti, riponendoli nella borsa.
-Allora andiamo?- chiese Percy, accennando alla distesa d'acqua blu.
Annuii e lo seguii.
Camminando nella sabbia, mentre mi lasciavo dietro le impronte del mio passaggio, una felicità che da un po' di tempo mi era estranea, mi accolse con sé, e io sorrisi.
-Io torno all'ombrellone.- comunicai a Percy quando immersi i piedi in acqua, che ritenevo troppo fredda per potermici immergere. Mi ritirai, odiando già la sabbia asciutta che mi si sarebbe appiccicata ai piedi bagnati, come il panne grattugiato si attacca alla bistecca umida.
Lui alzò le sopracciglia e ghignò.
-Oh, no. Non credo proprio.- non mi piacque affatto lo sguardo calcolatore che gli si dipinse in faccia, così, quasi involontariamente, cominciai a indietreggiare lentamente.
Il suo ghigno si allargò, mentre si avvicinava al mio stesso ritmo. Sembrava un leone intento a puntare il pranzo, ovvero la povera gazzella messa alle strette.
-Credo invece che ora mi seguirai in acqua, che ti piaccia o no.-
Spalancai gli occhi, scuotendo il capo con vigore.
-Oh no, Percy. Ti prego, non...- quello che seguì la mia frase fu un grido, perché lui era scattato improvvisamente e io, di conseguenza, avevo cercato di mettermi in salvo.
Corsi in direzione opposta all'acqua, zigzagando tra gli ombrelloni e la gente malcapitata che assisteva al nostro spettacolino. 
Mentre correvo pensai solo che non volevo affatto bagnarmi, ma quando girai il capo per studiare quanta distanza ci fosse tra me e Percy, dovetti ingranare di una marcia perché lui mi era troppo vicino. Tutti i miei sforzi risultarono vani quando Percy mi afferro per la vita con le sue braccia muscolose. Quando mi caricò in spalla, sembravo un sacco di patate vivente, che scalciava e si dimenava, agitando le braccia in direzione di qualsiasi sguardo divertito incontrasse sulla spiaggia.
Nessuno mosse un dito per aiutarmi e la superficie dell'acqua era sempre più vicina.
-Tranquilla, sarò così veloce che non ti accorgerai nemmeno dell'impatto.- sghignazzò Percy con i piedi già bagnati. Mancavo poco.
-Lasciami! Ti prego non voglio fare il..- troppo tardi per evitare l'inimitabile splash che accompagnò il tuffo. Fu come essere nuda in mezza alla peggiore bufera di neve che aveva accolto New York l'inverno prima.
Il mio corpo annaspò, alla ricerca dell'aria presenta in superficie. Boccheggiai, sputacchiando l'acqua che mi era entrata dalla bocca e dalle narici.
Percy, immerso solo per metà del corpo, si stava sbellicando dalle risate.
-Io ti uccido.- ringhiai, mentre cercavo di staccare dalla faccia i capelli fradici che erano sfuggiti dall'elastico.
-Ah, sì? E sentiamo, come faresti ad uccidermi?- domandò Percy cercando di smorzare le risa che ancora gli scuotevano le spalle.
Feci quello che aveva fatto lui con me. Sfruttai la sorpresa.
Con un movimento fulmineo mi immersi in acqua, nuotando fino ai suoi piedi il più velocemente possibile. Li afferrai e con tutta la forza che avevo, li tirai in modo di far ribaltare Percy in acqua.
Mentre io tornavo in superficie, lui cadeva in acqua, producendo un grande spruzzo. Sorrisi soddisfatta del mio lavoro, e lo attesi con un sorrisetto soddisfatto, aspettando che lui tornasse in superficie.
E quando lo fece, non potei che scoppiare a ridere a crepapelle. 
Il grande Percy Jackson grondava d'acqua e i suoi capelli corvini erano coperti niente meno che da alghe verdi. Sembrava che avesse i capelli multicolore. Inoltre l'espressione che aveva in faccia non fece altro che aumentare le mie risa, dato che mi guardava come se fossi un fastidioso moscerino ronzante.
-Povero Testa d'Alghe, si è bagnato.- lo canzonai sghignazzando.
-Ah-ah, molto divertente Sapientona.- disse incrociando le braccia al petto. Mi puntò un dito contro. -Sappi che pagherai molto caro questo tuo gesto.-
Alla sua minaccia mi limitai ad alzare un sopracciglio.
-Sì, certo, vedere per credere, Testa d'Alghe, vedere per credere.- ma il sorrisetto che mostrò, mi fece quasi rimangiare quello che avevo appena detto. Quel ragazzo non prometteva nulla di buono.


-Tregua, tregua!- ansimai mentre mi lasciavo cadere sull'asciugamano, con il fiatone causato dalla corsa che avevo fatto e dalle troppe risate.
Al mio fianco anche Percy prese posto sul suo asciugamano, scuotendo velocemente la testa per togliere le gocce d'acqua che imperlavano i suoi capelli, proprio come un cane.
Sbuffai divertita.
-Sembri un cane, Testa d'Alghe.-
-Oh, be', se sono un cane allora non dovrei aver portato il pranzo, giusto?-
Rimasi piacevolmente sorpresa.
-Ti sei ricordato il pranzo?-
-Be', ovvio, con Chintia che prepara il triplo delle quantità necessarie e sufficienti a sfamare una famiglia, come potevo dimenticarmi una cosa così essenziale?- disse ammiccando, mentre infilava le mani nel borsone che si era portato appresso.
Tirò fuori due recipienti; uno con dei tramezzini avvolti nel cellophane e l'altro con delle fragole rosse, entrambi chiusi da un coperchio di plastica. Per qualche strana coincidenza, aveva preso proprio il mio frutto estivo preferito.
-Mademoiselle, eccole servito il pranzo.- disse Percy imitando la voce di un cameriere francese.
-La ringrazio, monsieur, senza il suo aiuto non saprei proprio cosa fare.- risposi usando lo stesso accento. Dopo due secondi entrambi scoppiarono a ridere.
-Formaggio o prosciutto?-
-Uhm, vada per il prosciutto.- dissi afferrando il tramezzino al volo dopo che lui me l'ebbe lanciato.
Dopodiché diventammo incredibilmente silenziosi. Era come se tutta l'euforia che ci aveva preso fino a quel momento fosse scemata in un istante. Mentre scartavo l'involucro del mio pranzo mi chiesi mentalmente perché mi sentissi così imbarazzata. Un silenzio carico di imbarazzo ci avvolse, così cercai di evitare in tutti i modi il suo sguardo.
Ad un certo punto gli lanciai un'occhiata con la coda dell'occhio e lo beccai che mi stava fissando mentre lentamente masticava. Riportai in fretta la mia attenzione ai bambini che si schizzava giocosamente l'acqua in mare, ridendo e scherzando felici.
Accettando di fare quell'escursione con Percy ero andata contro tutti gli ideali che mi ero prefissata da quella fatidica notte. Da allora avevo evitato praticamente tutti i contatti con i ragazzi, limitandomi a partecipare alle lezioni e a uscire qualche volta con Piper solo perché non mi stressasse troppo sul fatto che non uscivo mai a divertirmi.
Inoltre la mia opinione sui ragazzi era cambiata radicalmente e, nel corso di quei due anni, ero arrivata quasi ad essere terrorizzata nell'avere un qualsiasi contatto con loro. Se mi riservavano un'occhiata troppo lunga io scappavo il più velocemente possibile, e concepibile in un luogo pubblico, nel posto affollato più vicino e se, inavvertitamente, qualcuno mi sfiorava, sussultavo mettendomi quasi ad urlare.
Mi rendevo perfettamente conto che il mio atteggiamento era troppo esagerato, ma c'era qualcosa che mi bloccava e niente sembrava riuscire a sbloccarla. Nè la psicologa, né i gruppi di sostegno.
Ma, in qualche modo, in quel momento mi trovavo lì con Percy e quel senso di oppressione non si era ancora fatto sentire. Speravo con tutto il cuore che, anzi, sarebbe rimasto al suo posto, nel profondo della mia mente, per tutto il resto della giornata perché la sensazione di leggerezza e felicità che provavo mi piacevano molto.
Quando finimmo di mangiare e Percy rimise nella borsa i recipienti vuoti ci sbirciai dentro e vidi un'altro recipiente che, a differenza degli altri due, non era trasparente.
-Cosa c'è lì dentro?- domandai indicandolo.
Lui, in fretta, chiuse la borsa sorridendomi in modo sghembo.
-Lo vedrai più tardi. Ora, se non ti dispiace, io schiaccerei un pisolino.- distese bene il suo telo da mare, spazzolando via quella poca sabbia che c'era salita sopra, poi fece ammucchiò la sua maglietta e i pantaloni e li usò a mo' di un cuscino. Sospirando, si sdraiò con un leggero sorriso di beatitudine sul volto, e gli occhi chiusi.
Perplessa lo fissai addormentarsi in meno di un minuto. Mi ero dimenticata della sua capacità di prendere sonno in poco tempo, eppure erano passate solo due settimane!
Ridacchiando tra me e me, ringrazia il cielo per aver pensato di portare un libro in spiaggia.
Riprendendo da dov'ero arrivata la sera prima, mi immersi nella lettura e tutto il resto svanì, come sempre. Accolsi con piacere i pensieri del protagonista che andarono a sostituire i miei ma, purtroppo, non mi ero accorta di aver quasi terminato le pagine così mi ritrovai ben presto a scorrere gli occhi sulle ultime parole, e a chiudere la quarta di copertina con un sospiro.
Non avevo nient'altro da fare e il tempo, quando ti giri i pollici, non passa mai. Purtroppo, io era un'esperta in materia.
Mi girai su un fianco, piegando un braccio per appoggiarci sopra la testa, sentendo il calore scottante del sole sul polpaccio che sostava dove l'ombra dell'ombrellone non arrivava. E, senza volerlo, mi ritrovai ad osservare Percy che dormiva.
Il suo petto si alzava e abbassava lentamente, con il respiro impostato sulla modalità “sonno”, il viso sereno e la bocca spalancata. 
Sbattei un paio di volte le palpebre per essere sicura di vederci bene ma la visione non cambiare: Percy stava sbavando come un lumacone. Perpendicolarmente alla sua bocca, sull'asciugamano c'era una macchiolina bagnata.
Oddio, che schifo!
Ripensai a come lui mi aveva svegliato sull'aereo, e a come lo avevo odiato in quel momento poi, un sorriso diabolico si aprì lentamente sulla mia faccia.
Beh... chi la fa l'aspetti, no?
Mi alzai lentamente, prendendo la bottiglia d'acqua vuota che avevo nella borsa, poi mi diressi verso il mare maledicendomi per non essermi messa le infradito. Non avevo pensato minimamente che a quell'ora la sabbia scottava con una stufa.
Sembravo una pazza che camminava saltellando, lanciando gridolini ogni tanto.
Accolsi con un sospiro di piacere il momento in cui i miei piedi toccarono l'acqua del mare, ma ben presto dovetti ritornare al mio ombrellone e il balletto di samba riprese.
Feci meno rumore possibile, anche se ero abbastanza sicura che Percy avrebbe continuato a “sonnecchiare” anche se fossimo stati bombardati. Lì accanto a noi, sostava una famigliola con due bambini abbastanza piccoli per poter ancora giocare a fare i castelli. Chiesi in prestito a uno dei due un secchiello piccolo, promettendo che gliel'avrei riportato in pochi minuti. Visto che sembrava un po' perplesso, gli spiegai in modo semplice quello che volevo fare, indicando a volte Percy con un dito, e quando ebbi finito lui mi guardò ridacchiando.
Bene, avevo pure un'alleato.
Riempii il secchiello di acqua e, dopo essermi sistemata in una posizione agevolata per un eventuale fuga, lo feci.
Gli rovesciai il secchiello in faccia.
Mi piegai in due dalle risate mentre lo guardavo alzarsi in fretta, con gli occhi spalancati e l'espressione di chi è scioccato in faccia. L'acqua gli colava lungo tutto il corpo e lui teneva le braccia lontano dal busto, fulminandomi con lo sguardo.
-Non l'hai fatto sul serio, vero?- domandò con una certa inflessione minacciosa nella voce che, purtroppo, fece solo aumentare le mie risate.
Tra le lacrime annuii.
-Oddio dovevi proprio vedere il salto che hai fatto!-
Incrociò le braccia al petto guardandomi truce, come se mi volesse incenerire con lo sguardo.
-Se mi chiedi scusa potrei prendere in considerazione il fatto di perdonarti per la congiura nei miei confronti.- disse dopo un po'.
-Scusa... mi dispiace di non aver registrato tutto per poterlo rivedere in futuro.- e poi ricominciai a ridere.
Percy mi puntò il dito addosso.
-Attenta a te, Chase. Oggi me ne hai già fatte due... di conseguenza la mia vendetta sarà doppia. Fai attenzione perché potrei attaccare quando meno te lo aspetti.- disse assottigliando gli occhi.
-Ripeto: vedere per credere, Testa d'Alghe, vedere per credere.-
Lentamente, come il sole che sorge e il fiore che sboccia, il suo broncio cambiò forma assomigliando sempre più ad un ghigno malefico che mise in allarme i miei sensori di pericolo.
-Che hai da sorridere?- chiesi un po' titubante.
-Oh, beh, mi chiedevo se ti andava di fare un giochino... sono sicuro che ci può aiutare a conoscerci meglio.- disse ammiccando.
Sebbene il suo tono di voce fosse neutro e ben studiato, il suo sguardo non me la raccontava ancora giusta. Se avessi acconsentito forse me ne sarei pentita ma, se non avessi rifiutato lui avrebbe avuto i materiali per sfottermi e stuzzicarmi e io non volevo dargli questa opportunità, sopratutto se Percy stava meditando un qualche tipo di vendetta nei miei confronti.
Così, arricciando le labbra, annuii e, dopo aver riportato il secchiello al bambino e avergli battuto il cinque ridacchiando, ritornai a sedere sul mio asciugamano.
Incrociai le gambe, infilandomi la canottiera dalla testa per evitare di scottarmi la schiena esposta al sole.
Nel mentre Percy aveva recuperato dalla sua borsa il terzo recipiente e lo aveva appoggiato tra la mia e la sua stuoia.
-Questa è una versione un po' modificata del gioco “le prime volte”. Nel vero gioco, al posto di questi,- indicò con l'indice il recipiente. -ci sono dei bicchierini di tequila, ma essendo in spiaggia e non sapendo dove recuperarla, ho pensato ad un'altra alternativa leggermente più... piccante.-
Fece una pausa studiandomi.
-Io dico una cosa, e se tu non l'ha mai fatta devi mangiare uno di questi.- con studiata lentezza, aprì il coperchio di plastica e scoprì dei... peperoncini? -Per esempio: io dico “calciare un pallone”, e se non l'hai mai fatto devi mangiarne uno, altrimenti racconti brevemente come è stata la prima volta che hai fatto quella cosa...- sembrava semplice, e in effetti lo era, ma la penitenza non era di mio gusto. Affatto.
-Andiamo, baby! Non ti vorrai sottrarre ad un giochetto così innocente... dov'è finito tutto il tuo spirito combattivo?- mi punzecchiò Percy vedendomi molto titubante. Aveva pure usato quell'assurdo nomignolo. E come se non fosse abbastanza per farmi cedere: -Dai, Annie! Non vorrai passare per una codarda...-
-Ti ho detto di non chiamarmi così!- borbottai incrociando le braccia al petto. -E comunque sei tu a dovermi temere... perché ti farò mangiare quei peperoncini, uno alla volta, finché mi supplicherai in ginocchio, la gola in fiamme e le lacrime agli occhi.- dissi prendendo in mano un peperoncino rosso e puntandoglielo addosso.
Lui sorrise.
-Scaldiamoci un po', ti va?- disse alzando il mento e guardandomi dall'alto. Gli feci un cenno con il capo, perplessa sul ciò che voleva dire. -Hai mai marinato la scuola?- e fu allora che lo compresi appieno.
Percy aveva preso sul serio quella sfida velata da un certo interesse, dettato dal reciproco bisogno di conoscersi. E, senza dubbio, lui sapeva come giocare pulito, ma con l'obiettivo di vincere stracciando l'avversario.
Senza battere ciglio, allungai una mano verso il contenitore colorato, prendendo un peperoncino. Lo portai alle labbra socchiuse, indugiando qualche secondo così. Guardai Percy negli occhi, e vi lessi una tacita sfida a mangiarlo. Con l'indice, spinsi il peperoncino in bocca e lo morsi.
Il sapore piccante fu immediato, ma Percy non poteva sapere che in passato avevo mangiato cibi molto più piccanti e che, quindi, il mio livello di resistenza a quel sapore era maggiore. Tutto merito di mio padre e della sua fissa per la cucina indiana.
Strizzai gli occhi, fingendo di star soffrendo per la troppa piccantezza, giusto per illudere un po' il ragazzo di fronte a me, che mi guardava con un sorriso fin troppo soddisfatto per i miei gusti.
Spalancai la bocca, inspirando una grossa boccata d'aria fresca che diede solo sollievo al mio palato, poi mi ricomposi.
-Come pensavo... ovvio che una ragazza perfetta come te non abbia mai marinato.- commentò Percy annuendo come se lui l'avesse saputo da sempre.
Restai in silenzio, limitandomi a fare un gesto di noncuranza. Era ora di vincere quella sfida.
-Sei mai stato arrestato?- credevo di averlo inquadrato bene. Così chiuso e scorbutico all'inizio, dopo il suo racconto strappalacrime sulla storia della sua vita, era quasi sicura che volesse molto bene alla madre e che facesse il meno possibile per crearle guai.
E infatti...
Mi fulminò con lo sguardo, prendendo un peperoncino e masticandolo sotto i miei occhi. Bene, voleva giocare duro.
-Hai mai picchiato qualcuno?- sorrisi.
-Avevo 13 anni e lui si chiamava Greg.- mi strinsi nelle spalle. -Per tutto l'anno scolastico mi chiamò “racchia”. Ad un certo punto non ce la feci più... gli tirai un pugno, lui mi lasciò in pace e la questione finì lì.- 
-Oh, oh! Annabeth passione risse. Complimenti, davvero.- disse, porgendomi il dorso delle sue nocche, chiuse a pungo, perché io facessi lo stesso.
-Ti sei mai fatto un tatuaggio?- speravo di averlo inquadrato bene, ma non ne ero così sicura. E infatti, il suo sorriso confermò i miei dubbi.
Lentamente, prese l'elastico del costume e lo calò, tenendo con una mano la stoffa che copriva l'inguine, ma scoprendo il fianco sinistro. Lì, in inchiostro nero sulla sua pelle diafana, c'era un piccolo tridente. Scossi la testa, ridacchiando.
-Visto?- disse beffardo. -Comunque, sei mai stata in una spiaggia di nudisti?- 
Non so se stesse scherzando o no. In qualsiasi caso aveva ingranato la marcia e ora faceva proprio sul serio. Tacitamente presi un peperoncino e lo ingoiai, masticandolo il meno possibile. Il segreto stava proprio in quello...
La voglia di cancellare quel suo sorriso, mise in moto gli ingranaggi del mio cervello finché la domanda perfetta arrivò.
-Hai mai avuto un diario segreto?-
Sorrise colpevole. Oh.mio.Dio.
-Avevo 9 anni e non avevo molti amici! Con chi mi potevo confidare?-
Mi misi a ridere, immaginando Percy chino sulla scrivania e con la penna in mano. “Caro diario, oggi...”. 
-Ehi! Perché è così strano se un maschio tiene un diario? Abbiamo gli stessi diritti di voi femmine!- borbottò mettendo il broncio e creando un solco tra le sopracciglia.
-Hai mai ricevuto o fatto un succhiotto?-
Allungai la mano per prendere un peperoncino, mentre Percy mi guardava incredulo. La sua bocca era leggermente spalancata e le sopracciglia inarcate.
-Davvero non hai mai ricevuto o fatto un succhiotto?-
Mi strinsi nelle spalle, facendo spallucce.
-Che c'è di male?-
Percy ridacchiò, scuotendo il capo.
-Lascia perdere...- 
-Okay... ora tocca a me!- picchiettai l'indice sul mento, pensando ad una domanda. -Uhm, hai mai pensato di uccidere qualcuno?- 
Percy arricciò le labbra, indugiando qualche secondo. Poi sospirò.
-Le sere peggiori, quando Gabe tornava a casa più ubriaco del solito e cominciava a maltrattare mamma, chiuso in camera mia, fantasticavo sui vari modi con cui avrei potuto mutilare quell'uomo... ma non sono un assassino, lo giuro!- disse scuotendo il capo con vigore.
Feci un sorriso sghembo.
-Va beeeene... sei perdonato.-
-Perdonato per cosa?-
Stavo per dire “ti perdono per essere stato così stronzo all'inizio” ma poi pensai che la nostra amicizia era cominciata bene e che non c'era motivo per rovinarla, così scossi il capo.
-Niente, niente.-
Percy assottigliò lo sguardo, poi ghignò.
-Bene, Sapientona, ora si fa sul serio. Pronta per la mia domanda bomba?-
All'improvviso il mio telefono prese a squillare e io mi buttai sulla borsa, per cercarlo in mezzo al casino che c'era. Nel mentre feci un gesto d'assenso a Percy, per comunicargli che poteva procedere con la sua domanda “bomba”.
Era papà.
Nello stesso momento in cui schiacciai il tasto verde, Percy parlò.
-Sei ancora vergine?-
Alla faccia della “bomba”.










Note fine capitolo:
Sì, lo so, sono in ritardo di un giorno, ma vi posso spiegare perché. Ieri ho avuto una giornata assurda e sono tornata a casa giusto per cenare, poi sono dovuta ri-partire per fare un servizio della banda. Se ve lo state chiedendo: sì suono nella banda del mio paese e tra meno di mezz'ora devo scappare per il servizio delle comunioni.
Comunque stavo pensando di spostare la data delle pubblicazioni alla Domenica, così ho più tempo per curare il capitolo...
E a proposito di questo: non so se vi siete accorti, ma ho fermato il capitolo proprio sul più bello... beh, come ho spiegato su FB è perché altrimenti, se seguivo la scaletta che mi ero imposta, risultava troppo lungo e avrei dovuto rimandare la pubblicazione di una settimana.
In qualsiasi caso, la domanda è sempre la stessa: che ne pensate? Questo è un capitolo di passaggio, anche se è molto importante per lo sviluppo dell'amicizia tra Percy e Annabeth. Avevo intenzione di far dire dai protagonisti delle domande un po' più... piccanti (non so se mi spiego) ma poi ho pensato che non fossero concordi con l'immagine che mi ero fatta di loro (e che anche voi dovreste avere in mente). Sopratutto Annabeth.
Ecco che sono comparsi i soprannomi! Yeeeeh :)
Ringrazie, sempre, infinitamente le 10 persone che hanno recensito lo scorso capitolo e tutti coloro che mi sostengono inviandomi messaggi dolcissimi e molto stimolativi (davvero, in queste due settimane ne ho ricevuti moltissimi *^*).
E ora passiamo all'angolo delle NEWS:
-Ebbene, signori, ho finalmente scritto TUTTA la trama di questa storia. Quindi, approssimativamente posso dire che si aggirerà tra i 20/25 capitoli *^*
"La vita di AnnabethJackson-sconsigliato ai deboli di cuore" -->ebbene sì, ora ho anch'io una pagina Facebook, che ho creato con l'intento di farmi conoscere meglio e di interagire con voi... e poi posterò tanti SPOILER e curiosità...
"AnnabethJackson EFP" --> questo invece è il mio account Facebook di EFP (che già esisteva ma che non usavo più). Se volete chiedermi l'amicizia sarò felice di accettarla ;)

Bon, credo di avervi detto tutto... al prossimo capitolo!
Bacioni,
Annie




 

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Capitolo 11
*** Piccolo messaggio per avvertire della mia non-morte ***


Buongiorno/Buonasera a tutti.
Non so quando leggerete questo messaggio e se lo leggere mai, ma in qualsiasi momento avverà, il mio desiderio è che leggiate tutto fino alla fine prima di decidere se mandarmi a quel paese/lanciarmi i pomodori/scoprire tutto sulla mia via per poi uccidermi in circostanze sospette.
Se non sbaglio è da fino Maggio che non aggiorno questa storia e che sono sparita senza lasciare una spiegazione. Da allora sono successe un sacco di cose, forse più di quelle che, sommate, sono successe nell'arco della mia breve vita. Il che la dice lunga.
Non sono brava con le scuse, ma cercherò di impegnarmi.
Innanzitutto non ho intenzione di spiegarvi tutti i miei problemi, vi basti sapere che questa è stata forse una delle peggiori estati della mia vita e forse lo sarà fino alla fine.
Credetemi quando dico che penso a questa storia quasi ogni giorno.
Ho ricevuto un bel po' di messaggi di incoraggaimento da tante persone che evidentemente tengono molto a questa storia, per non parlare poi dei nuovi che recensiscono chiedendomi quando posterò il prossimo capitolo.
La risposta è che non lo so.
La verità è che il capitolo 11 è scritto per metà e la storia è praticamente conclusa dal punto di vista della trama nella mia testa, ma il problema è che non riesco ad andare oltre nella stesura del capitolo 11.
Premetto che questo NON vuol dire che lascerò questa ff incompiuta, ma solo che non so quando ricomincerò a postare nuovi capitoli.
Inoltre, rileggendo alcune parti, ho preso la decisione di rivedere tutti i capitoli, uno alla volta, per correggere alcune parti che non mi convincono e quegli errori di distrazione.
Ogni volta che un capitolo sarà rivisto, comparirà la scritta “CAPITOLO REVISIONATO IN DATA GG/MM/AA” in calce al testo.
Detto questo spero che mi perdoniate e che non abbandoniate questa storia prima di aver letto il finale che ho in serbo per voi.
Grazie ancora per la vostra presenza,

Annie


P.S. Questo messaggio sarà cancellato quando riprenderò in mano la storia.

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Capitolo 12
*** Capitolo 11 ***


Disclaimer:
'Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di Rick Riordan; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro'.


Capitolo 11

 

La stessa Domenica, Spiaggia di Rio de Janeiro

Annabeth

 

Mi bloccai a metà strada tra l'orecchio e la borsa. Le forze mi vennero meno, la mano che teneva il cellulare lasciò la presa, e l'oggetto cadde sul telo da mare mentre sullo schermo i secondi passavano lenti, segno che la chiamata era ancora in corso. La faccia di papà, con il suo sorriso famigliare e gli occhiali inforcati sulla punta del naso, mi guardava dal basso, come se si stesse facendo beffe di me.

Se mi avesse visto in quel momento, quel sorriso sarebbe morto lentamente dal suo volto. Riuscivo ad immaginare benissimo i suoi occhi farsi improvvisamente seri, mentre la sua bambina se ne stava immobile, come la Statua della Libertà che riuscivo a vedere dalla finestra della mia camera le mattine in cui l'alba era rosea e priva di nuvole.

Il tempo si fermò in quell'istante, e io mi bloccai, come se qualcuno avesse schiacciato il pulsante di pausa di un telecomando.

Ma, malgrado fossi immobile, il mio respiro stava accelerando uniformemente.

Non potevo essere così sfortunata, non dopo tutto quello che avevo passato in quegli anni. Sembrava che la sfortuna, o chi per essa, seguisse la mia ombra, come il cane da fiuto, in aeroporto, sente l'odore della droga e, seguendone la scia, si riesce a trovare il colpevole.

Ma io, più che incriminata, mi sentivo una vittima. Un vittima molto, ma molto, sfortunata.

Quel momento passò in un battito di ciglia e io dovetti prendere in mano la situazione, con il rischio di venirne fuori bruciata ancora una volta.

Allungai la mano per riprendere il cellulare e lo riportai all'orecchio, senza alzare mai lo sguardo su Percy. Avevo paura di incrociare quegli occhi verdi in attesa di una risposta, magari anche divertente, di come era stata la mia prima volta.

-Pronto? Papà?- non so come, ma ero riuscita a mantenere un tono di voce fermo, abbastanza per non destare sospetti a nessuno dei due uomini che, in quel momento, stavano richiamando la mia attenzione, seppur in modi differenti.

Ma, dall'altro capo, nessuno rispose. Sentivo solo il fruscio di qualcosa, e in sottofondo un rumore basso e continuo di chiacchiere da corridoio.

Ci riprovai: -Papà?-

Dopo qualche secondo ancora nulla. Guardai lo schermo; la chiamata era ancora in corso malgrado nessuno rispondesse.

All'improvviso mi sentii gelare. Papà aveva sentito? Aveva sentito la domanda di Percy?

Ero quasi sicura di aver schiacciato il tasto di chiamata qualche attimo dopo che Percy aveva parlato ma, vedendo che papà non rispondeva, il dubbio mise le radici nella mia testa.

Mio padre non dava segni di vita perché aveva sentito la domanda? Oppure perché era in attesa di una risposta? L'unica cosa buona, se così si può definire, era che non poteva sapere che fosse stato Percy a parlare...

Deglutendo, mi affrettai a porre fine a quella chiamata, sperando e pregando con tutto il mio cuore che, almeno per quella volta, il destino mi venisse incontro e che la fortuna mi aiutasse.

Con una mano, spinsi indietro i capelli che mi erano caduti sulla fronte e, nell'alzare la testa, purtroppo, vidi che Percy mi stava fissando. Ed era, chiaramente, in attesa di una mia risposta.

Aprii la bocca, boccheggiando. Guardai a destra e a sinistra, in cerca di un'idea per sviare l'attenzione su di me. Era l'unico modo per salvarmi da una catastrofe.

E poi il telefono squillò, di nuovo.

E di nuovo, era mio padre.

Non ero pronta per affrontarlo, così come non ero pronta a rispondere a Percy. Non sarei mai stata pronta, in effetti.

Traendo una grossa boccata d'aria, riportai il cellulare all'orecchio.

-Annabeth? Tesoro, mi hai chiamato?- espirai pesantemente. Di che cosa stava parlando?

-Sì? Papà, guarda che sei stato tu a chiamarmi, prima.-

-Oh... allora forse mi è partita la chiamata per sbaglio. Maledetto aggeggio tecnologico! È già la terza volta che mi parte una telefonata per sbaglio.-

Per una volta, per una singola volta, il fato mi era venuto incontro. Presi l'appunto mentale di ringraziare con un preghiera chiunque fosse stato lassù.

-Non fa niente, tranquillo. Ma dove sei?- risposi, cambiando discorso un po' troppo in fretta per non sembrare infinitamente sollevata.

-In Università, tesoro. Ho una lezione tra pochi minuti.-

-Ah, okay.- ti prego papà, tira fuori un'altro argomento così che io possa stare al telefono ancora un po' per evitare la domanda di Percy. Per esempio, come stanno i gatti della nostra vicina?

Già, peccato che non avessimo una vicina.

E, ovviamente, la fortuna mi aveva aiutato troppo quel giorno.

-Beh, allora ti saluto, tesoro. Ti telefono questa sera, promesso. Ti voglio bene.-

-Ciao, papà.-

Non potevo più scappare. Mi trovavo davanti ad un vicolo cieco e la scelte erano due: rispondere alla domanda e affrontare i miei demoni, o astenermi dal rispondere e attirare l'attenzione di Percy.

Un flash, una scia di luce mi passò davanti agli occhi prima che il ricordo arrivasse, veloce e micidiale come un tir a cento chilometri orari su un'autostrada.

All'improvviso ero ritornata a quella sera. Le sensazioni che avevo provato arrivarono più nitide che mai, mentre da lontano sentivo ancora il miagolio solitario del gatto che accompagnava il mio silenzio di lacrime nel vicolo buio.

La vista mi si offuscò, mentre quelle gocce salate erano pronte ad uscire dagli occhi, per scendere giù e ancora giù, come sempre.

Serrai i denti, con il capo basso e le spalle incassate.

-Sapientona? Ci sei?- una voce lontana ma sempre più vicina, mi fece tornare lentamente alla realtà.

Sbattei le palpebre varie volte, per scacciare il rimasuglio di lacrime amare, sempre più consapevole della realtà che mi circondava. Non potevo permettere a quel ricordo di prendere possesso di me.

Non potevo e non volevo. Non dopo due anni passati a cercare di superarlo in tutti i modi.

-Annabeth?- il mio nome pronunciato da Percy risuonò dolce e premuroso, un tono troppo assurdo per potergli credere. Percy era tutto fuorché dolce e premuroso, ne ero certa.

Scossi il capo, mentre i capelli, legati nella mia abituale coda disordinata, danzavano a destra e a sinistra, come in una danza lenta e delicata.

Traendo un profondo respiro e racimolando tutto il coraggio che avevo, finalmente alzai lo sguardo, incrociando i suoi intensi occhi verdi.

Scossi di nuovo la testa, ma più decisa di prima.

Lui accennò un sorrisetto.

-Allora? Parli o mangi il peperoncino?-

Scrollai le spalle, rendendomi conto che la verità faceva troppo male per essere raccontata.

-È successo...- mormorai deglutendo. -È successo e basta.-

Non valeva come risposta, e lo sapevo bene, ma le parole, quelle vere, non sarebbero mai uscite, con o senza la mia volontà.

Percy aprì la bocca, sicuramente per aggiungere una domanda a quella che era stata la mia spiegazione, ma con una calma che non mi apparteneva lo bloccai.

-Per favore... non chiedere.- forse fu la supplica nella mia voce, o forse le serietà che leggevo nei suoi occhi, fatto sta che lui annuì lentamente.

Lo vedevo che cercava le risposte nel mio sguardo, così guardai altrove, verso la spiaggia, dove i bambini giocavano con un pallone da calcio.

C'era solo un modo per evitare altre domande da parte sua.

-Allora... ti va un bagno?-

***
 

-Smettila, dai! Non è affatto divertente.- ansimai, stendendo il mio telo da bagno sulla sabbia e cadendoci sopra pesantemente. Spostai i capelli bagnati dalla fronte, scuotendo la testa come un cane. Dopo tre ore passate a ridere, scherzare e nuotare ero seriamente esausta.

Quando stavamo uscendo dall'acqua Percy era caduto, scivolando su una tavola da surf bagnata, lasciata lì da un bambino. La caduta era stata così spettacolare, che quando si era alzato con un faccia buffa non ero riuscita a far altro che ridere a crepapelle. Quel ragazzo era assurdo.

E lui, ovviamente, si era offeso, mettendo su il broncio.

-Invece sì che è divertente, e anche molto.- lo presi in giro, tirandogli un amichevole pugno sul braccio.

Il sole stava calando all'orizzonte lentamente e la temperatura si faceva via via sempre più tiepida. I raggi rossastri aumentavano di intensità, mentre la nostra piccola gigante rossa scompariva. Mi voltai a guardare il tramonto e il mare tinto d'arancio. Sembrava una lunga distesa di aranciata fermentata.

Sorrisi, passando la lingua sulle labbra salate.

Presi a passarmi l'asciugamano tra i capelli lentamente, mentre Percy si infilava una maglietta asciutta. Ci rimasi un po' male quando quel suo fantastico torace scomparve dietro al tessuto blu, ma quando presi coscienza di quei pensieri arrossii.

Che diavolo andavo a pensare? Ovvio che non mi dispiaceva.

-Ehi!- voltai la testa di scatto in direzione di Percy. Lui fece un cenno in direzione di qualcosa alle sue spalle. -Ti va di unirci a loro?-

Sbirciai dietro di lui e vidi un gruppo di ragazzi, più o meno della nostra età, che parlavano e ridevano, indaffarati a organizzare un falò sulla spiaggia.

Due ragazzi stavano accatastando su una superficie piana della legna, mentre gli altri preparavano dei tronchi su cui prendere posto. Sentivo i loro schiamazzi allegri fin lì.

-In verità... preferirei andare a casa, sono un po' stanca.- e in effetti era vero. Quasi dal nulla mi era venuto un leggero mal di testa e, in quel momento, mi sentivo la testa piena di ovatta.

Pensai che, probabilmente, ero stata sotto il sole rovente un po' troppo a lungo. In qualsiasi caso volevo arrivare alla fattoria per sdraiarmi un po' sul mio letto prima della cena.

Percy sorrise.

-E dai, Sapientona! Che ti costa? Solo dieci minuti poi carichiamo le borse in macchina e ce ne andiamo.- dopodiché sbatte le palpebre facendo il labbruccio. Come potevo resistere a quella faccia da cucciolo bastonato? E così l'ebbe vinta lui, ancora una volta.

-Va bene, va bene, ma solo dieci minuti.-

Mi misi in spalla la borsa e seguii Percy che mi aveva distanziato di qualche metro.

La testa mi pulsava e sentivo un grande calore avvolgermi il corpo. All'improvviso mi spaventai, pensando che mi fossi scottata la pelle delle braccia.

Se era così, avrei dovuto fare attenzione per giorni e non mi andava.

Rallentai il passo.

-Forza Sapientona, sbrigati!-

-Arrivo, arrivo.-

Percy si avvicinò ad un ragazzo con la pelle scura, presentandomi come una sua amica. Scoprimmo che quei ragazzi erano del posto e che organizzavano un falò in spiaggia ogni Sabato sera.

-Volete unirvi a noi?- chiese poi.

Gli occhi di Percy si illuminarono.

-Certo!-

Dopo aver preso posto su un tronco, Percy si chinò su di me, e io sentii il suo fiato caldo sul collo, molto vicino al mio viso. Sapeva di mare e... di lui.

-Posso svelarti un cosa che non ho mai detto a nessuno?- sussurrò.

Lo guardai negli occhi. -È un segreto?-

-No.-

-Ma se non l'hai mai detto a nessuno è un segreto.- dissi usando quel tono da maestrina che odiavo ma che, a volte, adoperavo involontariamente. Pensavo che Percy si sarebbe irritato ma invece, con mia grande sorpresa, ridacchiò e scosse il capo.

-Certo che sei proprio un tipetto niente male, Sapientona.- mio malgrado, gli tirai una pugno sul braccio, arrossendo. La vampata crescente di calore, che era partita dalla fronte, ormai si era estesa su tutto il corpo e io sentivo le guance scottarmi.

-Ehi, ma che ho detto?- borbottò lui massaggiandosi la spalla, mantenendo, però, quel suo ghigno strafottente.

E poi, all'improvviso, tutto divenne sfocato. Al posto del piccolo fuocherello del falò, ora ce n'erano due e le persone sedute in cerchio, intente a ridere e scherzare, erano raddoppiate.

Strinsi gli occhi, cercando di mettere a fuoco la vista ma, facendo ciò, il male alla testa aumentò di intensità e, come al rallentatore, sentii le forze venire meno. Feci solo in tempo ad appoggiare la mano a quello che credevo fosse il bicipite di Percy.

Caddi a terra.

Poi tutto divenne nero.

***
 

Viaggiavo nello spazio, in quell'universo tra la realtà e la fantasia. Era un limbo sottilissimo, lo stesso in cui si inciampa un attimo prima che ci si addormenti, e un attimo dopo che si chiudono gli occhi.

Tutto intorno a me era nero come se, all'improvviso, qualcuno avesse spento la lampadina per scherzo.

Non sentivo nulla; i miei occhi non percepivano alcun movimento. Mi sembrava di essere diventata sorda, tanto che il silenzio era opprimente. Anche il tempo aveva smesso di correre, lasciandomi completamente priva di una qualche forma di orientamento, temporale e sensitivo.

C'eravamo solo io e il vuoto.

Forse pochi minuti dopo, o forse ore, abbassai lo sguardo su quello che credevo fosse il mio braccio destro perché percepivo un debole prurito.

Più tempo passava, più sentivo una certa pressione farsi maggiormente insistente in quel punto, come se il sangue avesse smesso di circolare. Era come se qualcosa, o qualcuno, mi stesse stringendo il braccio in una morsa ferrea.

Provai a destarmi da quel senso di oppressione scuotendo l'appendice, ma quella non scomparve. Nel mentre, la vista cominciò a farsi più acuta e quando, finalmente, riuscii a distinguere nitidamente ciò che mi bloccava il braccio, il mio cuore prese a galoppare, come impazzito.

L'adrenalina fluiva nelle mie vene, il fiato si era accorciato e nella mia testa scorreva un'unico pensiero: dovevo mettermi in salvo.

Mentre strattonavo il braccio per cercare di liberarmi, le lacrime mi bagnavano il viso.

-Ti piace, non è vero?- il suo alito mi solleticava il collo, mentre sentivo la sua bocca, vicina al mio orecchio, allargarsi in un sorriso perfido.

-Lasciami, ti prego!- urlare non serviva a nulla, me ne rendevo conto, ma la sua mano si stava facendo largo prepotentemente sotto la mia maglietta. L'istinto aveva avuto la meglio.

Qualsiasi cosa cercassi di fare per liberarmi, lui mi stringeva a sé in modo prepotente, rendendomi impossibile il bisogno di scappare.

-Oh, piccola, non lo vuoi anche tu, eh? Andiamo, lo so che non vedi l'ora.- il suo viso era nell'ombra e in qualsiasi modo cercassi di vederlo, lui rimaneva anonimo.

Sapevo cosa sarebbe accaduto dopo. Mi sentivo esattamente come quella notte, persa, sola e vulnerabile.

Niente e nessuno poteva aiutarmi.

Qualcuno mi stava accarezzando i capelli dolcemente. L'ultima cosa che sentii, prima di ricadere nel buio, fu una voce lontana ma nitida, che mi fece sentire a casa.

-Tranquilla, Annabeth, ci sono qui io.-

 

 

-Percy!-

Mi tirai a sedere di scatto, boccheggiando in cerca di aria. Il cuore mi batteva forte nel petto mentre la testa pulsava dal dolore.

Sentii due braccia avvolgermi e per un momento ebbi paura che fosse lui.

-Ehi, shhh. Tranquilla.- qualcuno mi accarezzò i capelli lentamente, tenendomi stretta tanto da avere la guancia premuta sul suo petto. -Va tutto bene, tutto bene.-

Abbassai lo sguardo sulle mie mani che arpionavano tenacemente delle coperte. Mollai la presa e osservai le mie dita tremare.

Tutto il mio corpo tremava.

-Percy?- chiesi confusa quando lui mi lasciò andare.

Era seduto su una sedia accanto al letto e l'unico aggettivo che poteva descriverlo in quel momento era sfinito. Indossava una maglietta nera spiegazzata e i capelli, già di per loro in perenne disordine, erano sparpagliati ovunque. Per non parlare poi delle borse sotto gli occhi che lo invecchiavano di dieci anni tutti assieme. Eppure, un piccolo angolino della mia mente confusa, non poteva non notare che rimanesse sexy malgrado le occhiaie.

Stupido cervello.

-Da quant'è che non dormi?- gli domandai, cercando di concentrarmi su quel pensiero.

Lui ridacchiò, passandosi una mano tra i capelli. Sul suo volto comparvero delle fossette. Poi, dopo avermi preso una mano tra le sue, tornò incredibilmente serio.

-Come stai?-

Non capii subito cosa intendesse ma, accostando una mano alla mia guancia che scottava, sentii che era bagnata. Stavo piangendo.

Cercai di fare mente locale, guardandomi attorno, e di dare un ordine al vortice di pensieri più o meno belli che mi riempivano la testa.

Il mio cuore si attenuò quando riconobbi la mia camera da letto alla fattoria. Era immersa nel buio perché fuori era ancora notte, ma riuscivo ugualmente a vedere la luna dalla mia posizione. Era quasi l'alba.

-Che cosa è successo?- chiesi piuttosto confusa dal fatto che non ricordassi come fossi arrivata lì.

Avevo bisogno di concentrarmi su qualcosa che non fosse la mia mano tra le sue. Inoltre, per quanto mi sforzassi, non riuscivo a ricordare nulla ad esclusione del sogno.

-Eravamo al falò sulla spiaggia e all'improvviso sei svenuta. Ti ho subito portata qui alla fattoria perché scottavi. Durante il viaggio hai cominciato a farfugliare qualcosa e ad agitarti. Con l'aiuto di Chintia ti ho messa a letto, e poi ho continuato a cambiarti il panno bagnato sulla fronte. Tu non smettevi di gridare e tremare. Non volevo lasciarti da sola, così ho detto a Chintia di andare a letto e che a te ci avrei pensato io. Ma devo essermi appisolato mentre ti guardavo.- dice.

All'improvviso, il pensiero che fosse stato a guardarmi tutto il tempo mentre dormivo, mi fece avvampare.

Il solo fatto che era stato accanto a me tutta la notte mi metteva nella posizione di essere in debito con lui. Una strana felicità si fece strada dentro di me, ma io cercai di ricacciarla indietro.

-Grazie, Percy, sul serio. Non sai quando io ti sia riconoscente.- mormorai con gli occhi bassi.

Lui mi sollevò il mento, puntando i suoi occhi nei miei.

-Ehi, tranquilla. Non mi devi niente. Voglio solo che tu stia meglio.-

Forse per la strana luce nei suoi occhi, o forse per le sue parole, un sorriso sincero si dipinse sul mio volto.

Lo guardai negli occhi dove vi scorsi una domanda lecita. Stava morendo dalla voglia di chiedermi perché mi fossi agitata in quel modo mentre ero incosciente e io pregai che non lo facesse perché non volevo rompere quel legame strano che si era creato per una domanda a cui non avrei dato risposta. Così scossi il capo, sperando che capisse.

Lui annuì, distogliendo lo sguardo.

All'improvviso calò un silenzio imbarazzante. Divenni consapevole che lui mi stava ancora tenendo la mano, così la ritirai rapidamente, schiarendomi la voce.

-Perché non vai a dormire un po'? Sei esausto e io ora sto bene.-













Note fine capitolo:
Chi non muore si rivede, dicono. Bhe, come potete vedere non sono morta.
Cercherò di essere breve perché non mi piace parlare troppo di me (come forse avrete notato), e le scuse non sono esattamente il mio forte.
La lista delle cose per cui mi dovrei scusare è infinita (sicuramente molto più lunga della lista dei cattivi di babbo natale, e mi ricordo che in molti film non si vede mai la fine del foglio), e in questo momento ho giusto il tempo di postare e scrivere una nota che vi possa bastare fino al prossimo capitolo.
Come potete vedere, io mantengo quasi sempre la parola, e infatti, come premesso nell'avviso (che potete leggere cliccando sul capitolo precedente) sono tornata (viva meeee! lol). Il capitolo era praticamente pronto giù a fine Giugno (qui si parla di mesi, non di settimane -.-) ma mancava quell'ultima parte che non riuscivo proprio a scrivere.
Scrivevo, cancellavo, scrivevo, cancellavo, scrivevo... e avete capito. Insomma, non ero mai soddisfatta e, se devo essere del tutto sincera, non lo sono nemmeno ora, ma tra tutte le versioni questa è quella che preferisco.
Forse chi seguiva la mia storia ormai si è dimenticato di me, ma per chi arriverà fin qui a leggere devo far un ringraziamento immenso. Avete superato le 100 recensioni e per me è il traguardo migliore a cui potevo mirare. Ovvio che non ho scritto la storia solo per ricevere recensioni, ma come ho imparato al corso di scrittura a cui sto partecipando (e.e ho molte cose da raccontarvi), chi scrive non lo fa solo per sé stesso (a differenza di chi dice così) ma lo fa anche per essere letto.
Quindi grazie, grazie, grazie, grazie all'infinito.
Abbiamo superato anche la soglia delle 4000 visualizzazioni, il che mi sembra incredibile.
Infinite, concludo con il ringraziare chi mi ha supportato con messaggi privati, recensioni e parole d'incoraggiamento. Non potete immaginare quando mi siate stati d'aiuto.
Bhe... per ora credo di aver detto tutto.
Un grandissimo abbraccio,
Annie (che ama i caldi abbracci)

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Capitolo 13
*** Capitolo 12 ***


Disclaimer:
'Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di Rick Riordan; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro'.


Capitolo 12


Fattoria, il Sabato seguente

Annabeth

Un'insistente bussare alla porta seguita dall'istantanea apertura di quest'ultima, senza l'attesa di un mio invito esplicito, preannunciò l'orgogliosa entrata in scena di Percy.
-Da quando si è soliti venire a ficcare il naso nella mia stanza senza prima ricevere una risposta? Un giorno o l'altro entrerai mentre sarò nuda, e credimi, non vuoi avere a che fare con me quando sono incazzata.- commentai, ripiegando una delle magliette nel cesto dei panni che avevo ritirato poco prima dalla lavanderia.
A prima vista, invece, i vestiti che indossava Percy non erano stati affatto ripiegati. La maglietta era ricca di pieghe, come se una gallina ci si fosse seduta sopra.
Forse era la mia immaginazione, o forse dovevo seriamente prendere un appuntamento dell'otorino per un controllo all'udito, perché mi sembrò di sentir mormorare a Percy un: -Ne varrebbe la pena...-. Pensando a quel commento, mi sentii arrossire, ma evitai tenacemente il suo sguardo, convinta di essermi confusa.
Io non piacevo a Percy, e lui non piaceva a me, di conseguenza lui non faceva commenti di apprezzamento mirati al vedermi nuda. Mai e poi mai sarebbe accaduta una cosa del genere. Era scientificamente dimostrato.
-Che ci fai qui? Non dovevi tipo andare a una specie di fiera con Grover?- gli chiesi, riprendendo a piegare i miei indumenti, per poi riporli nell'armadio.
Lui sorrise, ed ecco che comparvero quelle fossette adorabili sul suo volto.
-Sì, però poi il furgoncino ha avuto dei problemi... e quindi niente fiera dei cavallucci marini.- disse quasi deluso, come se i cavallucci marini gli interessassero veramente.
-Aspetta... cavallucci marini? Da quando ci sono fiere dedicate ai cavallucci marini? Pensavo fosse qualcosa sulle capre... o bovini.- dissi prendendolo in giro.
-Da quando il traffico illegale di cavallucci ha spopolato nel paese...- rispose, aggrottando la fronte. -Comunque, dato che il programma per la giornata è saltato, ho dovuto pensare ad un piano B per non annoiarmi, e visto che il medico sostiene che tu sia guarita, sei compresa nel mio piano.- disse, come se io avessi già accettato di fare quello che lui aveva in mente.
Il che non era per nulla scontato, ma il signorino sembrava non avere preso in considerazione l'ipotesi.
-Fermo, fermo, fermo. Time out, Jackson. Quale sarebbe questo piano B? Perché non sono sicura di voler essere compresa...- misi le mani sui fianchi, cercando di darmi un'aria seria perché il ghigno birichino sul viso di Percy non prometteva nulla di buono.
-Andiamo, Sapientona! Lo sai che io ho sempre ottime idee. Ti sei dimenticata della spiaggia? E non venirmi a dire che è stato noioso, perché saresti una pessima bugiarda.- disse, avvicinandosi lentamente alla mia persona. Dovetti reclinare il capo per guardarlo negli occhi.
Strinsi le palpebre, cercando di capire dove volesse andare a parare.
-Va bene, ammetto che l'idea della spiaggia è stata carina, ma non accetterò di prendere parte a questo “piano B” finché non avrò sentito tutti i dettagli.-
Lo vidi chinarsi molto lentamente su di me, avvicinando la bocca al mio orecchio. Sentivo il suo fiato caldo sulla pelle, già bollente per un'altro motivo. Il mio cuore batteva all'impazzata, ma cercai di mantenere il controllo mordendomi un labbro.
-E va bene, Sapientona, se proprio insisti...- la sua voce roca, quasi un sussurro, mi provocò dei brividi lungo il corpo.
All'improvviso Percy si ritrasse, dando vita ad una sferzata di vento che mi costrinse ad avvolgermi le braccia attorno al corpo.
Sorrise, e gli occhi gli si illuminarono.
-Che ne dici di andare alla giostre?-
Quella non ero io. Io non arrossivo quando un ragazzo invade il mio spazio vitale. Mi concessi un secondo per riprendermi, perché ne avevo seriamente bisogno, poi tornai in me.
-A una condizione...-
Lui alzò un sopracciglio divertito.
-E sarebbe?-

-Ora mi dici che ci facciamo qui?- chiese Percy quando gli ordinai di accostare sul ciglio della strada quasi deserta. 
Anche se il furgoncino di Grover era fuori uso era venuto fuori che Chintia possedeva una vecchia Ford da poter usare, testuali parole, “quando quella mammoletta di macchina di Grover tirerà le cuoia definitivamente”. Così ecco come il “piano B” di Percy era iniziato.
E, sinceramente, dovevo ammettere che la sua idea non era poi così pessima come invece avevo pensato all'inizio. Se poi fossi riuscita a fare anche questa cosa, ero certa che tirando le somme sarebbe stata proprio una bella giornata.
-Ora vedrai.- dissi con un sorriso enigmatico. Aprii la portiera dell'auto e uscii, mettendomi gli occhiali da sole sulla testa a mo' di cerchietto. Scrollai i capelli e, chiudendo la portiera, mi avviai al di là del cancelletto diroccato che doveva separare la casetta da quelle adiacenti.
Percorsi con sicurezza quel tratto che in pochi giorni mi era diventato famigliare e bussai, lanciando nel mentre un'occhiata alle mie spalle dove Percy mi stava raggiungendo.
Sul suo volto era disegnata quella che ritenevo un'espressione perplessa, con le sopracciglia aggrottate e la bocca leggermente imbronciata.
Aprì la bocca, probabilmente per chiedere chi abitava in quella casa, ma in quel momento la porta fragile si aprì e Katya occupò la soglia con il grande pancione che cresceva ogni giorno di più.
-Annabeth! Che piacevole sorpresa.- mi sorrise sinceramente, mentre piegava da un lato la testa, incuriosita. -Come mai qui? È qualche giorno che non ti fai vedere. Tutto bene?-
-Sono stata male a inizio settimana e il medico mi ha consigliato di rimanere a letto per un po'. Mi dispiace non poter essere venuta...- era vero. Non vedevo Nico da quasi una settimana, e a causa della malattia non ero riuscita nemmeno ad andare a scuola. Percy mi aveva raccontato che avevano compensato facilmente la mia mancanza con una supplente, e questo mi aveva fatto pensare ai quelli che, ormai, erano diventati i miei bambini. Mi mancavano tutti, in particolare Nico.
-Come sta Nico?- domandai non sentendo rumori provenire dall'interno. Il che era strano perché due bambini producevano molto chiasso.
Katya si illuminò in viso, e un candido affetto accese i suoi occhi.
-Oh, molto bene. Sta leggendo quel libro che gli hai portato tu l'ultima volta. Sinceramente, non sapevo nemmeno che sapesse leggere. Ne sono rimasta colpita.- disse orgogliosa. Poi, colta da un pensiero improvviso, sussultò. 
-Che maleducata che sono. Entra, entra, sarà felice di vederti.- si scostò di lato, ma guardando alle mie spalle per la prima volta da quando aveva aperto, si stupì.
-Vedo che non sei sola.-
Lanciai una breve occhiata a Percy che se ne stava con le mani in tasca e l'aria impacciata.
-Già... lui è Percy Jackson. Insegna anche lui alla scuola, e sfortunatamente dobbiamo vivere nella stessa casa per i prossimi cinque mesi, circa.- dissi, sussurrando l'ultima parte con circospezione. Accidentalmente il diretto interessato mi sentì e non sembrò molto contento.
-Ehi! Lo dici come se fosse chissà che tragedia.- fece un passo avanti e tese la mano in direzione di Katya, facendo quel suo sorriso con le fossette. -Piacere di conoscerti.-
Katya spostò lo sguardo da Percy a me, facendo una faccia che non riuscii a interpretare, e nel mentre gli strinse la mano.
-Forza entrate! Non è il caso soffermarsi qui fuori a lungo.-
Appena Katya chiuse la porta dietro di sé, un piccolo uragano con i capelli in disordine mi corse incontro, stringendosi alla mia vita.
-Annabeeeeeeth!- urlò Nico, sorridendomi dal basso. -Dove sei stata?-
Risi del bizzarro saluto che il bambino mi aveva riservato. Era la prima volta che lo vedevo così entusiasta di vedermi. -Ti sono mancata, vero? Cos'è quella finestrella nulla tua bocca?-
Il suo sorriso si allargò ancora di più. -Mi è caduto un dente!- disse tutto orgoglioso.
Allungai un braccio e gli arruffai i capelli, quando un'altro uragano rosa, più piccolo, mi si aggrappò alla gamba destra. Dopo tutte quelle visite a casa di Katya, pian piano mi ero affezionata anche a Bianca che nutriva una certa ammirazione, inspiegabile, nei miei confronti. Era una bellissima bambina, con grandi boccoli mori e due occhi scuri, molto simili al fratello maggiore. Il suo sorriso, poi, era la fine del mondo.
-Bianca!- mi chinai per prenderla in braccio. La bambina mi buttò le braccia grassocce al collo e appoggiò la testa sulla mia spalla. Il suo corpo era morbido e piccino, ma tanto tanto confortante.
Incrociai lo sguardo di Percy che mi guardava con una strana espressione sul volto.
Non l'avevo mai visto così assorto da un pensiero, anche se, involontariamente, arrossii come un'adolescente in piena crisi ormonale.
Insomma, Annabeth Chase, datti una regolata! 
Mi stava guardando solo perché avevo in braccio Bianca? Oppure avevo qualcosa in faccia? Mi schiaffeggiai mentalmente. Santo cielo quant'ero paranoica! Dovetti costringermi con la sola forza di volontà a distogliere lo sguardo. Mi dissi che andava tutto bene.
Nel dubbio spostai Bianca sul braccio sinistro così da potermi passare una mano sul volto. 
Annabeth, concentrati. Sei venuta qui per un motivo. Cerca di arrivarci prima di sera.
Cercai di ricompormi, facendo un respiro profondo, poi mi concentrai.
-Nico ti andrebbe di venire con me e Percy al Luna Park?- poi, visto che in realtà il permesso non doveva darlo lui ma la madre, mi voltai verso Katya.
-Lo so che è Sabato e che non vi ho avvertito prima, ma è stata un'idea dell'ultimo minuto e pensavo che a Nico potesse far piacere...- mormorai, mordendomi un labbro.
Katya aggrotto la fronte, e nel suo sguardo scorsi una nota di esitazione.
-Non credo che...- ma non riuscì a terminare la frase perché Nico cominciò a saltellare e urlare correndo per la casa con le bracci alzate. Lo guardammo attoniti fare due giri del tavolo e poi cadere in ginocchia difronte alla madre.
-Ti prego, ti prego, ti preeeeego. Posso andare?- disse con le mani congiunte, il labbruccio inferiore sporgente, e gli occhi da cucciolo smarrito.
Non so quale fosse il problema, ma sembrava che nella testa di Katya stesse avendo luogo un conflitto tra due opinioni.
-Nico... ecco... non ho abbastan- Percy la interruppe, mettendole le mani sulle spalle.
La superava di parecchi centimetri in altezza, ma percepii il senso di pace e controllo che emanava anche senza doverlo guardare negli occhi.
-Ascolta, per noi non è affatto un problema portare Nico; anzi ci fa molto piacere. Inoltre mi sembra che lui muoia dalla voglia di venire.- in accordo con la sua affermazione, Nico, ancora in ginocchio, annui energicamente. -Tranquilla, pensiamo a tutto noi. Baderemo a Nico come se fosse nostro figlio.-
E anche se era solo una metafora, quella frase ebbe il potere di farmi battere il cuore al doppio della normale velocità.
Io e lui non avremmo mai avuto un figlio assieme, quello era chiaro a tutti. Inoltre pensai che per fare un figlio bisognava per forza passare per la fase “tabù”, che sembrava essere il centro del pensiero di tutta la popolazione maschile sopra i dodici anni.
Katya tacque per qualche istante, poi sospirò chiudendo gli occhi brevemente.
-Okay, va bene, ma il signorino deve essere a casa entro le nove.-
Con un grido di pura gioia, Nico ricominciò a correre per la stanza come un tornado. Solo quando Katya lo acchiappò per un bracciò lui si fermò, ma sul suo volto persisteva un largo sorriso, quasi folle.
Non lo avevo mai visto così felice.
Non riuscivo a concepire come fosse possibile che solo qualche settimana prima Nico piangesse, tutto triste e solo, ai margini di un campo da calcio, escluso dai suoi compagni perché troppo piccolo.
Nico era semplicemente un bambino bisognoso di affetto, con una padre defunto e una madre che faceva di tutto per renderlo felice e crescerlo nei migliore dei modi, anche se le circostanze e il destino non avevano contribuito.
Per la prima volta capii davvero quanto mi fossi affezionata a quel bambino. 
Per la prima volta da tanto tempo sentivo di volere profondamente bene a qualcuno che non fosse mio padre, Piper e pochissime altre persone.
Per la prima volta da quella notte, lasciai cadere le barriere che avevo retto intorno al mio cuore, e sorrisi alla vita perché era bella.

-Possiamo andare sulle montagne russe? Ti prego, ti prego, ti preeeeego.- disse Nico mettendosi a saltellare in tondo attorno a Percy, che stava cercando di camminare e nel mentre di evitare di finire addosso al bambino.
Per tutto il viaggio, da quando avevamo lasciato la casa di Katya, Nico non aveva smesso un attimo di parlare. E di assillare Percy con domande a cui non era necessario rispondere dato che sembrava non importargli nemmeno.
Avevo sperato che i due andassero d'accordo, ed ero pronta anche a fare qualunque cosa perché ciò accadesse, ma sembrava che il mio intervento non fosse necessario.
Da quando Percy aveva convinto Katya a lasciar venire Nico con noi, il bambino sembrava provare una concreta ammirazione dei suoi confronti, e io non potevo sperare in qualcosa di meglio.
Dal canto suo, Percy sembrava apprezzare la vivacità di Nico, perché gli rispondeva pazientemente, sorridendo ogni volta che lui gli rivolgeva la parola, e prendendolo per mano quando raggiungemmo la biglietteria del parco.
Mentre eravamo in fila, Testa d'Alghe si abbassò, per essere allo stesso livello di Nico, così che potesse guardarlo in faccia.
-Ho bisogno che tu mi faccia una promessa, campione.- disse serio. Non avevo mai pensato di poter vedere un giorno quel lato così autoritario e apprensivo, tipico dei padri, sul volto di Percy visto come si comportava sempre. Ne rimasi profondamente colpita.
-Mi devi promettere che terrai per mano me o Annabeth per tutto il giorno. Non devi mai lasciarci la mano, okay? E se ti dovesse capitare di trovarti da solo per qualche motivo, stai fermo dove ti trovi, non parlare con nessuno e non dare corda agli sconosciuti, d'accordo? Me lo prometti, Nico?- il bambino, evidentemente colpito dal discorso, annuì con decisione, allungando poi una manina davanti a Percy.
-Te lo prometto. Però possiamo salire sulle montagne russe?-
Percy sollevò un angolo della bocca e poi l'altro, lentamente, prendendo la mano di Nico nella la sua.
-Certo che sì, campione. Possiamo fare tutto quello che vuoi tu.-
Mi stupii quando sentii una manina calda insinuarsi nella mia, stringendola forte. Abbassai lo sguardo e sorrisi calorosamente a quella meravigliosa creatura che avevo avuto la fortuna di incontrare.

-Guarda c'è lo zucchero a velo!- urlò tutto felice Nico, tirando con insistenza per mano Percy in direzione del chiosco dove vendevano vari dolci. Il carrello dello zucchero filato era in bella mostra, in modo da attirare più clienti. O meglio, più bambini.
Percy si lasciò trascinare in quella direzione, con una mano già nella tasca dei pantaloni, in cerca del portafoglio. Li seguii tacitamente e insolitamente felice.
Nico sorrise al venditore della bancarella che fece una smorfia. Che problemi aveva? Era un uomo sulla quarantina, con i capelli brizzolati e due baffi incolti. Indossava un grembiule che tirava sull'addome prorompente e una maglietta a righe orizzontali rosse e bianche.
Non mi piaceva affatto.
Aggiunse lo zucchero alla macchinetta e avviò il tutto, mentre con un bastoncino raccoglieva i filoni di zucchero che si formavano pian piano. Quando alzò lo sguardo e mi vide, mi fece letteralmente la radiografia da capo a piedi, distraendosi da quello che stava facendo.
Ripeto: non mi piaceva proprio per niente.
-Le conviene concentrarsi su quello che sta facendo. Il bambino ha una certa fame.- disse bruscamente Percy, porgendogli una banconota.
Poi fece una cosa che, al momento, non capii. Allungò il braccio sinistro, mettendomelo attorno alla vita, e mi tirò al suo fianco con decisione.
-E preferirei che non guardasse la mia fidanzata in quel modo. Sa, sono un tipo geloso.- aggiunse quando il venditore gli porse il bastoncino di zucchero. Lo mise in mano a Nico che si avventò su quel batuffolo bianco come se ne dipendesse la sua vita.
-Buona giornata.- disse poi, mentre ci giravamo per andarcene.
Resistetti finché non superammo un angolo nascosto, poi tolsi bruscamente la mano di Percy dalla mia vita, guardandolo storto.
-Perché l'hai fatto?- chiesi, incrociando le braccia al petto.
Lui alzò un sopracciglio, poi scrollò le spalle.
-Ti guardava in un modo strano, e non mi piaceva affatto.- disse come se fosse ovvio. E in effetti dovevo dargli ragione, ma questo non giustificava quello che aveva detto.
Aveva affermato che io ero la sua fidanzata. La. Sua. Fidanzata. Non sarebbe successo, mai e poi mai, nemmeno nei suoi sogni.
-Questa non è una buona ragione per dire bugie. E poi, non sei tenuto a immischiarti nei miei affari. So difendermi da sola, grazie mille.- il che era una bugia, visto quello che era successo due anni prima, ma lui non lo sapeva e io ero arrabbiata.
-Non mi piace vedere una donna trattata in quel modo, come se fosse solo oggetto di desiderio sessuale. Non ho dubbi che tu sappia difenderti da sola, ma se non altro quel tizio non ti darà più fastidio.- disse guardandomi negli occhi. Aveva ragione ma per qualche motivo quando aveva detto che ero la sua fidanzata, la cosa mi aveva fatto un certo effetto. E poi, quando la sua mano mi aveva stretta a sé, per un momento solo, avevo desiderato che non mi lasciasse più andare.
Ovviamente il mio subconscio era stato preso alla sprovvista da quel gesto fulmineo, altrimenti non avrei mai pensato una cosa del genere.
Eravamo così immersi nella nostra discussione che non ci accorgemmo di Nico che, sempre con in mano il suo bastoncino di zucchero filato, ci guardava incuriosito, spostando lo sguardo da uno all'altra come se stesse seguendo una partita di tennis.
-Quindi è vero che siete fidanzati?- chiese innocentemente.
Diventai rossa come un peperone mentre mi affrettavo a distogliere il mio sguardo da quello di Percy che, ora, stava sogghignando.
-No, campione, stavo solo scherzando prima.-
-Oh, peccato. Se stavate insieme potevamo far finta di essere una famiglia. Tu il papà, Annabeth la mamma e io il figlio.-
Non so se c'era un limite alla quantità di sangue che poteva affluirmi alle guance, ma in qualche modo diventai ancora più rossa. Per non parlare poi di quanto mi batteva forte il cuore. Stavo per morire di infarto. 
Addio mondo crudele, sappi che non ti ho mai voluto bene.
-Ehi, ora possiamo entrare nella casa degli orrori? Dopotutto sono un uomo, io.- incredibile come un bambino potesse passare da un argomento ad un'altro in così poco tempo.
L'assurdità della frase unita al senso di disagio che stavo provando mi fece scoppiare in una fragorosa risata.
Percy, dal canto suo, sorrise scuotendo il capo.
-Certo, ometto. Scommetto che morirai di paura lì dentro.- 
-È una sfida?- chiese Nico imbronciato, con le sopracciglia aggrottate e la mano chiusa a pugno, come se si stesse preparando a fare a botte.
Percy scoppiò a ridere di gusto, poi alzò il mento e sghignazzò.
-Sfida accettata, campione.-

Alla fine quella che morì di paura fui io.
Innanzitutto c'è da dire che poche cose nella vita mi mettevano paura. Pochissime. Un ragno, per esempio, era in grado di farmi urlare come una pazza, anche se si trovava a dieci metri di distanza ed era completamente innocuo.
Mentre varcavamo i cancelli per entrare nella casa stregata, Nico proclamò a gran voce che, essendo un uomo, non aveva bisogno di dar la mano a nessuno. L'aria sicura con cui lo disse mi fece ridere, perché immaginavo che appena fosse comparso il primo fantasma lui sarebbe corso a piangere da Percy.
Dovetti ricredermi perché mano a mano che procedevamo in quel lungo corridoio oscuro, con sagome alate e ragnatele finte un po' dappertutto, Nico sorrideva e indicava entusiasta.
Sembrava inserito nel suo elemento naturale, e questo mi mise i brividi.
Ma non fu vedere Nico sorridere che mi mise paura.
Mentre svoltavamo un angolo particolarmente buio, con la coda dell'occhio vidi qualcosa muoversi. Mi sentivo osservata. L'atmosfera funesta e il leggero venticello che si propagava dai ventilatori al soffitto non fecero altro che aumentare il mio disagio.
E mi arrabbiai con me stessa perché ogni occasione anche lontanamente simile a quella sera, me la faceva ricordare. Mi sentivo particolarmente vulnerabile, e io odiavo essere così esposta e fragile.
Di riflesso cercai la mano di Percy che stava camminando accanto a me, tenendo d'occhio Nico.
Lui girò di scatto la testa, guardandomi sorpreso. Io, semplicemente, gli strinsi più forte la mano, mordendomi la lingua.
Non avevo intenzione né di dargli una spiegazione, né di proferire parola, ma per qualche motivo aveva bisogno di quel contatto come si ha bisogno di respirare.
Il cuore mi batteva forte, ma con la mia mano nella sua, la paura e la vulnerabilità sparirono all'improvviso, così come erano arrivate.
Ero felice che ci fosse lui, perché in due anni non ero ancora riuscita a trovare un modo per far passare quelle “crisi” di paura. E lui sembrava possedere questo potere.
Non sapevo bene come interpretare questa cosa, ma capivo che fosse positiva sotto molti aspetti.
Ben presto uscimmo dalla casa stregata, con Nico in pole position e noi che lo seguivamo.
-È stato bellissimo! Supermegafantastico! Possiamo rifarlo?- chiese entusiasta, saltellando mentre varie persone lo guardavano perplesse.
Scommetto che non avevano mai visto un bambino così felice di ritornare nella casa stregata dopo esserne appena uscito. 
Percy sorrise, ma scosse il capo. -No mi dispiace, non si può entrare più di una volta al giorno nella casa.-
Nico aggrottò la fronte, incrociando le braccia al petto.
-E chi lo dice?-
-Lo dico io, ometto. Ora, sarà meglio che tu scelga un'altro gioco su cui andare, altrimenti lo faccio io. Non vuoi rischiare di andare nel tunnel dell'amore, vero?-
Dovevo ammettere che Percy ci sapeva fare con i bambini. Era consapevole che trattandoli in un certo modo, loro avrebbero fatto il contrario di quello che volevano fare in realtà.
Quello che invece non riuscivo a comprendere era il motivo per cui Percy avesse proibito a Nico di fare un secondo giro nella casa stregata. 
Lui sembrò leggermi nella mente perché chinando il capo, mi sussurrò nell'orecchio: -Ho pensato che preferissi evitare di entrarci una seconda volta. Mi è parso che non ti fosse piaciuto poi molto.- Detto così sembrava che mi stesse prendendo in giro, ma nei suoi occhi non c'era traccia di scherno. Era sinceramente preoccupato per me. E questo mi colpì più di qualsiasi altra cosa lui avesse fatto prima.
Non solo aveva capito che mi sentivo a disagio, ma, con tutte le occasioni che aveva avuto per approfondire l'argomento, non mi aveva mai chiesto nulla in merito. Dovevo dargliene atto.
Abbassando gli occhi, quasi mortificata, mi accorsi con stupore che la mia mano era ancora intrecciata con la sua.
Arrossendo, mi affrettai a liberarla, per poi inserirla in tasca, imbarazzata. 
Quello che sicuramente non mi aspettavo era che lui mi prendesse il polso delicatamente, e ristabilisse quel contatto, stringendola saldamente.
Preferii non soffermarmi troppo su quel gesto, perché la mia testa era già incasinata e un'analisi più approfondita sarebbe stato troppo per la mia salute mentale.
Non sapendo cosa dire, lo trascinai con me, per raggiungere Nico che continuava a parlare imperterrito di quanto fosse stata bella la casa stregata.

Ben presto, per grande dispiacere di Nico, venne l'ora di tornare sotto espresso ordine di sua madre, che lo voleva a casa prima che facesse buio.
Pensavo che durante il viaggio avrebbe continuato a parlare ininterrottamente di quanto fosse stato bello questo, e di quanto fosse stato emozionante quello. Invece, con mia grande sorpresa, poco dopo essere usciti dal parcheggio, guardando dallo specchietto retrovisore, vidi Nico addormentato sul sedile posteriore, con le gambe raccolte, la testa posata su un braccio, e il dito in bocca.
Anche Percy se ne accorse perché sorrise e scosse il capo.
-Lo sapevo che prima o poi gli si sarebbero scaricate la batterie. Quand'ero piccolo ero uno scalmanato come lui. Ne combinavo di ogni, e poi arrivavo alla sera che non riuscivo a restare sveglio più delle 9.- disse divertito. -Bei tempi, quelli.-
-Ah, quindi eri un bambino iperattivo?-
-Iperattivo? Stai scherzando? Ero molto più che iperattivo! Non riuscivo a stare fermo un minuto. Dovevo per forza fare qualcosa, altrimenti rischiavo di impazzire. Le maestre non sapevano che cosa farne di me.- sorrisi, cercando di immaginarmi una versione più piccola di Percy.
Non mi era difficile farlo, sopratutto se prendevo come esempio Nico.
-Cosa faceva tua mamma? Non deve essere stato facile crescere tutta sola un bambino come te.-
-Oh, bhe, lei limitava i danni, per quel che riusciva a fare. A sentire lei, solo il fatto che non sono morto e che non sono rimasto gravemente ferito sono già degli ottimi traguardi.- scoppiai a ridere, e per non svegliare Nico mi misi una mano davanti alla bocca
-Tua madre mi sta già simpatica. Quando torniamo a New York devi farmela assolutamente conoscere.- ed ero sincera. Quella donna aveva tutta la mia stima.
-Stanne certa, cara. Non ho dubbi che la vedrai in aeroporto. Conoscendola, sarebbe capace di raggiungermi qui se solo glielo chiedessi.- Percy amava sua madre, ne ero sicura. Dal suo tono di voce potevo capire quanto le volesse bene. 
-E invece la tua, di madre? Che tipo è?- quella domanda mi colse alla sorpresa, perché erano anni che nessuno mi chiedeva qualcosa inerente a mia madre.
Per quanto non amassi parlarne, non mi dispiacque rispondere a Percy. Dopotutto era una domanda lecita.
-Beh, lei è il tipo di madre che non è portata per ricoprirne il ruolo. Diciamo che è uno spirito libero.-
Lui distolse per un attimo lo sguardo dalla strada, guardandomi in modo strano. Aveva capito perfettamente.
-Scusa, non lo sapevo. Non volevo essere indiscreto.- mormorò.
-Tranquillo, non potevi saperlo. Comunque non è una tragedia. Ad un certo punto ha deciso di fare le valigie e di andarsene. Evidentemente io e mio padre non eravamo abbastanza per lei.- dissi senza espressione nella voce. -Non è un dramma, ormai l'ho superato.-
Restammo in silenzio per qualche minuto, ognuno perso nei propri pensieri.
-L'hai mai più rivista?- chiese lui, ad un certo punto.
-Solo un paio di volte in dieci anni, in occasione del mio diploma e...- e una volta quando ero ricoverata in ospedale, dopo essere stata stuprata da uno stronzo, avrei voluto dire. Ma non potevo, così lasciai la frase in sospeso.
-E...?- chiese lui, sincramente incuriosito.
-E un'altra volta.- tagliai corto, improvvisamente taciturna. -Poi, in occasione del mio compleanno, mi chiama, ma non sempre si ricorda. Io ho mio padre e questo mi basta, perciò non me la prendo tanto.-
Paragonato al fatto che lui non aveva mai conosciuto suo padre, la mia sembrava solo una barzelletta, questo lo capivo benissimo, perciò non avevo il diritto di rivolgermi a lui con quel tono duro.
-Scusa, è che non amo parlare della mia vita passata. Io ho mio padre e lui ha me. È questo l'importante, giusto?-
Per fortuna stavo parlando con una persona che mi capiva. Percy tolse la mano destra dal manubrio e la mise sulla mia, stringendola.
-Giusto.- e questo mi bastava.











Angolo autore:
Salve, salvino, salvetto. Come va? Visto come sono stata veloce?
NEMMENO DUE SETTIMANE GENTE! Sono soddisfatta di me stessa :')
Allora che ne pensate? Questo è un capitolo abbastanza importante e, se avete letto attentamente, succedono un sacco di cose tra Annabeth e Percy... e sopratutto c'è una netta differenza tra come pensava prima Annabeth e come pensa adesso.
È diventata più aperta anche se la fiducia... bhe quella scarseggia ancora.
Bon, oggi sarò breve perché ho un impegno in serata.
Ringrazio semplicemente chi mi sostiene, chi ha accolto il mio ritorno con entusiasmo, e TUTTE, ripeto, TUTTE le persone che hanno recensito il capitolo precedente.
Spero solo che questo sia all'altezza delle vostre aspettative.
Se volete seguire i miei progressi, o anche solo leggere alcuni estratti del capitolo che scrivo man mano, potete seguirmi sulla mia pagina Facebook che trovate nel mio account.
Basta, vi ringrazio soltanto.
Bacionissimi,
Annie <3

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Capitolo 14
*** Capitolo 13 ***


Disclaimer:
'Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di Rick Riordan; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro'.


Capitolo 13


Fattoria, qualche giorno dopo

 

Annabeth

 

Quando avevo acconsento a partire per il Brasile, o meglio a quel progetto, quando ancora ero schiava di quel buio oppressivo che mi attanagliava la gola durante la notte e che mi stringeva lo stomaco in una morsa quando venivo sfiorata da un uomo, non potevo immaginare di trovarmi, in poche settimane a ringraziare Dio o chiunque ci fosse lassù, per avermi fatto dire di sì. Perché la verità era ben un'altra da quella a cui mi ero preparata all'inizio, ovvero quella di rimanere il fantoccio della Annabeth che ero stata una volta. Neanche nei miei più rosei sogni, praticamente inesistenti fino a quel giorno, avrei sorriso felice a qualcuno che non fosse mio padre, o Piper.

Perché sì, quella notte, finalmente, avevo sognato dopo ben due anni di incubi senza fine.

Avevo sognato come fa un bambino. Che cosa non lo ricordo, ma la sensazione che fosse qualcosa di bello aleggiò dentro di me finché non mi svegliai.

Pensai che Sandman, l'Omino dei sogni del film “Le cinque Leggende”, fosse finalmente arrivato anche nella mia stanza per ricoprirmi di polverina d'oro e inserendo unicorni alati e risatine infantili nella mia testa.

Quel pensiero ebbe il potere di farmi stampare un sorriso radioso sul volto, di quelli che riescono ad illuminare le giornate più buie e a far sorridere persino il musone dei musoni.

Quando, poi, mi ritrovai a fissare il mio riflesso nello specchio sopra al lavello, nel bagno che condividevo con Percy, non mi spaventai più di tanto nel trovarmi diversa. Certo, un sussultò scosse le mie spalle, ma la visione che mi si proiettò davanti era così diversa da quella a cui ero abituata, che il cambiamento non mi condizionò affatto.

La Annabeth che sorrideva di prima mattina, pochi minuti dopo essersi svegliata dopo una notte di sogni, con le guance rosse e gli occhi luminosi, non era la stessa che avevo fissato il giorno prima, con le occhiaie e gli occhi spenti. Era semplicemente l'opposto e, finché non l'avevo vista con i miei stessi occhi, non mi ero accorta di quanto ne sentissi la mancanza o meglio, la necessità.

La necessità di un cambiamento.

Non provai nemmeno a ricordare ciò che avevo sognato perché ero conscia che non sarebbe servito a nulla. Sapevo che, se volevo ricordare qualcosa a distanza di qualche ora da che mi ero svegliata, dovevo appuntarmi tutto su un foglio appena destata.

Quando però bussarono alla porta, desiderai intensamente tornare al calduccio sotto le coperte, al riparo da tutto e da tutti. Il problema non era la mia temperatura corporea, e nemmeno quella esterna. Per quella bastava il sole che già filtrava attraverso la finestra.

Il vero problema era affrontare chi c'era fuori da quella porta e che stava bussando con insistenza.

-Sapientona, forza è ora di uscire da quel bagno. Sei dentro da secoli e io avrei una certa urgenza di espellere i miei bisogni biologici. Sai com'è, la mia vescica ha una certa capienza la quale è meglio non superare.-

Ora, se un ragazzo giovane e carino -sì, perché non potevo negare ancora per tanto che Percy fosse oggettivamente carino- bussa alla porta del tuo bagno -va bene, del bagno in comune- per chiedere gentilmente di entrare ho qualcosa da ridire.

...okay, non vi ho fregato, lo so. Pure uno scemo avrebbe capito che non era quello il problema.

Il fatto era che nemmeno io sapevo quale fosse, il vero problema, e per una come me che era abituata a non avere problemi con i ragazzi era una tragedia. Sul serio.

Quando ci eravamo incontrati -o meglio, scontrati- la prima volta, lo avevo classificato automaticamente come uno da cui stare alla larga, uno scansafatiche, uno di quegli stronzi che ti prendevano e ti usavano finché non eri da cestinare. Scoprire, poi, che dovevamo lavorare, e vivere, gomito a gomito per sei mesi era stato uno shock, non lo nascondo.

Insomma ragazzi, provate voi a condividere un bagno con uno del genere, che lascia la tavoletta del water alzata e il lavandino completamente bagnato ogni mattina, dopo essersi rasato.

No, non ero stata affatto felice. Se poi aggiungevo a tutto ciò il suo comportamento da vero stronzo -io avevo una laurea nel riconoscere la specie- il quadro che ne usciva fuori non era affatto positivo.

Poi era successo qualcosa. Non so nemmeno io cosa fosse stato di preciso.

Forse era il fatto che io avessi scoperto il suo segreto, o meglio che lui mi avesse raccontato il suo segreto; forse si era accorto che non voleva fare la guerra con la sottoscritta per sei mesi.

O forse, e questa era l'opzione che mi spaventava più di tutte, avevamo cominciato a conoscerci, reciprocamente, nel profondo.

Dal Sabato in cui mi aveva portato in spiaggia, passavamo praticamente tutte le giornate assieme, ad esclusione delle ore in cui eravamo impegnati nelle lezioni e quelle destinate al sonno. Qualche giorno prima mi aveva addirittura chiesto di accompagnarlo ad un appuntamento con il detective privato che seguiva il caso di suo padre. Persino quando ero malata mi era stato accanto tutto il tempo, sebbene ci fosse il rischio che lo contagiassi.

In un certo senso io ero... ero... sì, è inutile girarci attorno: ero felice.

Io, Annabeth Chase, ero felice.

Non è di certo una frase che sentivo di poter dire tutti i giorni. Se mio padre fosse venuto a saperlo avrebbe invitato la nostra vicina di casa, che aveva più di novant'anni, a ballare sul pianerottolo a ritmo di una qualsiasi musica rap (e mio padre odiava quel genere di musica). Giusto per darvi un'idea di quanto lo avrebbe colpito.

E, sebbene il farlo super contento fosse un mio punto fisso, c'era qualcosa che mi bloccava dal lasciarmi andare a quella felicità. Avrei desiderato più di ogni altra cosa cancellare dagli occhi di mio padre la malinconia che vedevo sul suo volto quando pensava che non lo stessi guardando. Era diventato uno dei pochi obiettivi che mi ero imposta nella mia inutile vita.

Ma non potevo proprio.

Il problema era molto semplice da risolvere a fatti, ma non altrettanto da spiegare a parole. E poi c'era quel piccolo particolare chiamato paura che andava in giro a braccetto con la sua amica ansia.

Le due care amichette erano i cardini del mio problema.

Io, Annabeth Chase, ero una ragazza felice che non poteva abbandonarsi a quest'emozione perché le avversarie paura e ansia prendevano il sopravvento ogni volta che ripensavo ai momenti passati con Percy. Non lo facevo apposta, ma la mia mente non poteva fare a meno di rimandarmi immediatamente a quella notte e a come mi ero sentita.

La verità era questa: temevo nel profondo il contatto con Percy tanto che una volta avevo avuto persino un attacco d'ansia nel cuore della notte. Ero stata costretta a respirare in un sacchetto di carta che mi portavo sempre dietro per situazioni del genere.

Non potevo fare a meno di immaginare Percy al posto di Luke, come se nel profondo fosse un pervertito. Ovvio, subito dopo mi davo della stupida che si faceva paranoie assurde, costruendo castelli di sabbia mentali. Ma una vocina perfida dentro la mia testa non smetteva di sussurrarmi situazioni analoghe. Percy non era così, punto e basta.

Tutto questo, ovviamente, accadeva in privato, quando nessuno poteva sentirmi e vedermi.

Quando ero in pubblico o in sua compagnia, cercavo sempre di evitare certi pensieri e di concentrarmi su altri.

Non era poi così difficile visto che appena lo vedevo, in particolare quando girava per casa senza maglietta (il che accadeva troppo spesso per il miei gusti), le mie guance andavano a fuoco e imbarazzanti immagini di lui senza canotta mi perseguitavano per le ore successive.

Diciamolo chiaramente: era un supplizio infernale. Credete a me: sarebbe stato meglio se Percy fosse finito all'Inferno, magari proprio nel girone dei seduttori. Non che mi stesse seducendo, sia chiaro.

Era come se mi avesse preso sotto la sua protettrice. Non nei panni di un fratello iperprotettivo, ma in quelli di un amico fidato. E io mi sentivo male perché quando ero sola facevo pensieri poco lusinghieri nei suoi confronti.

Ero un ipocrita, ecco cos'ero. All'Inferno sarei dovuta andarci io, poco ma sicuro. C'era persino un girone tutto destinato a me!

Fatto sta che avevamo trascorso molti momenti insieme, e non potevo accusarlo di essere un tipo noioso.

Anzi.

 

***

 

Con lui scherzavo e sorridevo.

 

-Ehi Sapientona, non trovi che questo top valorizzi le mie forme?- disse Percy ammiccando, mentre con spingeva il petto in fuori.

Le lezioni erano da poco terminate e Percy mi aveva proposto di fare un giro al centro commerciale, per prendere un gelato e magari- testuali parole- soggiornare il mio guardaroba. Gli avevo fatto notare che il mio armadio era ben aggiornato e che non avevo affatto bisogno di nuovi vestiti visto considerato che quelli che avevo già erano sufficienti a riempire più di due valigie.

Ma per un gelato, che non mangiavo da tanto tempo, ero disposta a fare carte false. E poi era Percy che me lo aveva proposto.

Ovviamente, e la cosa non doveva stupirmi, Testa d'Alghe era riuscito a convincermi a fare prima un giretto per i negozi e poi a fermarci alla gelateria che avevo adocchiato all'entrata.

Per prima cosa eravamo entrati in un negozio di ottica, dove Percy si era fermato a provare tutti i modelli possibili ed immaginabili di occhiali da sole, facendo impazzire il commesso che cercava in tutti i modi di convincerlo a comprare questo e quel modello.

Non ero rimasta affatto sorpresa quando Percy mi aveva preso per un braccio trascinandomi fuori dalla porta, lasciando il povero commerciante sbalordito e con un numero non indifferente di occhiali da mettere in ordine.

Poi mi aveva spinto in un negozio di scarpe, sostenendo che avevo urgente bisogno di un paio di decolletè. Avevo protestato, sostenendo che avevo già abbastanza scarpe da riempire un'intera scarpiera, ma lui non aveva voluto sentire ragioni.

Così, quaranta minuti e due vesciche dopo eravamo arrivati alla cassa con un paio di scarpe rosa con il tacco alto, che mi piacevano molto, dove lui aveva tirato fuori la sua carta di credito. Tutte le mie proteste non erano servite a molto visto che alla fine era riuscito a convincere la commessa, con una strizzatina d'occhio e un sorriso ammiccante, a prendere i suoi soldi e non i miei.

Quando la ragazza dietro alla cassa aveva risposto all'atteggiamento ammiccante di Percy con un sorriso spavaldo di chi sa di piacere ai ragazzi, avevo voltato la testa perché avevo avvertito un senso di nausea stringermi lo stomaco.

Alla fine eravamo entrati in discount di abbigliamento e quella era stata la mia fine. Ecco come il mio sogno di gustarmi un gelato in compagnia di un amico era andata a farmi benedire.

Passando tra uno scaffale e un'altro il carico sulle mie braccia aumentava sempre più di vestiti che Percy continuava a passarmi, mentre ignorava qualsiasi mia protesta.

-Ma questa non è la mia tagl...-

-Shh, zitta. Va bene così.-

Finalmente, dopo infinite preghiere e suppliche di metter fine a quell'agonia, eravamo arrivato ai camerini. Credevo di esser finalmente al sicuro.

Mi sbagliavo.

Il supplizio era appena iniziato.

-Allora, mette in risalto le mie forme sì o no?- chiese nuovamente vedendo che non davo segni di voler rispondere.

Pensavo di dover provare tutti gli abiti che mi aveva passato? Beh, mi sbagliavo.

Se li voleva prova lui. Tutti quanti.

Che male avevo fatto per dover sopportare una tale pena?

-Certo Testa d'Alghe, accentua le tue poppe.- risposi ironicamente con voce atona.

-Allora non sono solo io che lo penso! Che dici potrebbe star bene con questa gonna?- disse alzando un pezzo di stoffa striminzito che, personalmente, non avrei mai avuto il coraggio di mettere.

E che lui voleva indossare.

Lui. Un maschio. Con il suo pacco in bella mostra.

O. Mio. Dio.

Repressi un conato di vomito.

-Ti prego, ti prego, ti prego. Dimmi che non lo vuoi provare sul serio.- lo implorai con un filo di voce. Se lo avessi visto in quello stato sarei morta sul colpo. Il mio cuore non poteva reggere un simile attacco.

Lui ghignò, ed ebbi paura quando un lampo di divertimento passò nei suoi occhi.

Non si metteva affatto bene.

-Che c'è Sapientona, evidenzierebbe troppo poco le mie forme?-

Diventai tutta rossa. Questa era una sfida a sire quello che pensavo. E che mi imbarazzavo a dire.

Ma in fin dei conti, io ero io, e sebbene fossi una ragazza tutto sommato abbastanza timida, una sfida era pur sempre un sfida. E il mio orgoglio non tollerava una sconfitta.

-Al contrario Testa d'Alghe, ti farebbe il culo enorme. Poi la vedo difficile rimorchiare le ragazze in discoteca.-

Percy incrociò le braccia al petto, appoggiandosi alla parete del camerino con un sorrisetto divertito sul volto. Era facile che una semplice frase diventasse l'inizio di frecciatine scherzose con quel ragazzo.

-Oh, povero me, come farò ora? Rimarrò zittello, dovrò comprare una casa in campagna e mi circonderò di gatti per rendere la mia misera vita un po' più felice. E tutto questo per colpa di una stupida gonna? Perché non mi hai fermato in tempo?- si lamentò fingendo una voce drammatica e addolorata.

-Vorrà dire che dovrò farti da badante finché non tirerai le cuoia.-

Il suo sorriso si allargò ancor di più. E la maglietta, già troppo piccola per i suoi pettorali, si alzò lentamente scoprendo la base dei pettorali. Deglutii per un attimo spaesata.

-Va bene. Ma ti assumerò solo ad un condizione.-

Alzai la testa inizialmente confusa, poi finalmente riuscii a connettere il cervello e a comprendere il significato di quello che mi stava dicendo.

-E sarebbe?-

-Se mi farai da badante dovrai indossare la divisa da infermiera sexy, altrimenti mi rivolgerò ad un'altra agenzia di collocamento.-

Malgrado sentissi un calore risalirmi le guance, riuscii a stirare le labbra in un sorriso sornione.

-Sogna, Testa d'Alghe, sogna che magari si avvererà.-

 

Percy era di più.

Molto di più.

 

***

 

Con lui ridevo ed ero felice.

 

La temperatura esterna aveva raggiunto il picco, e io cominciavo a rimpiangere l'inverno. Eppure odiavo quella stagione cosi fredda!

Grondavo sudore da tutti i pori, persino parti di me che credo resistenti alla sudorazione erano fradice. Indossavo solo una canotta, con le spalline più sottili il possibile, e un paio di shorts, il più corti possibile. Non potevo fare molto altro. Sfioravo già i limiti del pudico.

In quella casa non esisteva un condizionatore e, pensando a quei poveri angioletti nei quartieri poveri poco distanti da me, non credevo di avere nessuna pretesa al riguardo. Non sarei di certo morta per un po' di caldo. Un bel po'.

Ero seduta sulla poltrona di pelle in salotto che era uno dei pochi posti all'ombra in quella stanza, ma dopo due minuti capii che era stata una pessima idea. La mia pelle a contatto con quella della poltrona erano diventati un'unica cosa.

All'improvviso ricordai che la macchina che Percy aveva preso in affitto aveva il condizionatore funzionante. Detto fatto, corsi all'entrata dove trovai la chiave dell'auto nella ciotola delle chiavi di casa.

Finalmente un po' di fresco! Ringraziai tutti i santi e gli dei del cielo per quel piccolo paradiso. Era come aver superato il Purgatorio ed essere entrati nell'Eden.

Chiusi gli occhi, ripromettendomi che sarei stata lì solo per qualche minuto, giusto il tempo di non morire per asfissia.

-Che ci fai nella mia auto, Nocciolina?-

Il cuore mi saltò in gola per lo spavento.

-Oddio, Percy, mi hai spaventata!- brontolai portandomi una mano al petto. -Nocciolina?- chiesi poi con un sopracciglio alzato.

-È colpa di questo caldo. Mi fa perdere i colpi un po' alla volta. Comunque con quell'abbronzatura sembri una nocciolina tostata.- sorrise. -Io adoro le noccioline.-

Avevo come l'impressione che quell'affermazione avesse un doppio senso, ma scacciai l'idea quando Percy aprì di scatto la portiera.

-Forza, Sapientona, è ora del bagno.-

-Del bagno?- afferrai la mano che lui mi porgeva e mi lasciai tirare in piedi. -Grazie.-

-Di niente. Sì, del bagno. Questa ragazza ha bisogno di una bella lavata.- disse battendo la mano sul cofano dell'auto. -Mi aiuti?-

-Certo.-

Percy aveva già preso la canna attaccandola ad un rubinetto lì vicino. Un secchiello e alcune spugne completavano l'attrezzatura. Cominciammo a insaponare la macchina, ridendo e scherzando ogni tanto, ma per lo più restando in silenzio. In un ora riuscimmo a fare un lavoro con i fiocchi e al momento di passare la canna per lavare via il sapone, Percy mi fece una domanda.

-Che ci facevi nella mia auto?-

-Approfittavo del condizionatore. In casa stavo arrostendo.-

Mi appoggiai alla portiera che aveva appena lavato, osservando i bicipiti che guizzavano sotto alla maglietta di Percy, aderente alla pelle per il sudore che la imbrattava.

-Ah, sì? E perché non mi hai chiesto il permesso?-

Sorridendo furba, alzai il mento in segno di sfida.

-È un problema?-

-Certo che sì, Sapientona. Ti meriti una punizione?-

-Una punizione?- okay, ora non c'era più nulla da ridere.

-Una bella punizione coi fiocchi.-

-Che genere di punizione?-

-Una tipo... questa!- e così facendo indirizzò la canna nella mia direzione, bagnandomi dalla testa ai piedi in poco tempo.

E io, cercando di schernirmi con le braccia, risi perché era la prima volta che mi così felice di scherzare con un ragazzo.

 

Percy era di più.

Molto di più.

 

***

 

Con lui parlavo ed ero me stessa.

 

Adoravo il tramonto. Era forse il momento che preferivo nell'arco di tutta la giornata.

Non so spiegare perché, ma il sole che calava lentamente per scomparire dietro all'orizzonte, qualunque esso fosse, e che cambiava colore mi infondeva un senso di calma come poche altre cose.

Avevo appena finito di cenare con gli altri e, sebbene avessi insistito con Chintia perché mi lasciasse lavare i piatti, lei si era imposta, sostenendo che stessi già facendo molto con quei bambini e che, senza dubbio, dovevo essere stanca.

In realtà ero stranamente reattiva, e non volendo subito tornare in camere per dedicarmi interamente alla lettura, cosa che avrei fatto poco dopo, avevo deciso di fermarmi in terrazza catturata dalla luce rossastra del tramonto.

Era tanto che non lo ammiravo.

Era tanto che non mi sentivo così in pace con me stessa.

Tirava un leggero venticello estivo, e nessun rumore disturbava il silenzio ad esclusione delle fiandre mosse dall'aria.

Percy era comparso all'improvviso, ma non mi aveva spaventata. Ero solo sorpresa che non avesse nient'altro di meglio da fare.

La luce del tramonto tinteggiava i suoi capelli, solitamente corvini, di sfumatura morroni che lo rendevano strano, ma non per questo meno bello.

Perché sì, non avevo problemi ad ammettere che Percy era oggettivamente bello alla vista.

Si era appoggiato alla ringhiera, con il busto leggermente piegato in avanti, ed era rimasto a farmi compagnia, con lo sguardo perso all'orizzonte.

In un'altro momento sarebbe stato di troppo, ma finché rispettava il tramonto poteva stare dove si trovava in quel momento.

Poi, quando anche l'ultimo raggio di sole spariva dietro la linea del mare e il cielo si scuriva sempre più, lui parlò, ma a bassa voce, come se avesse avuto timore di spezzare quella strana atmosfera che si era creata.

-Lo conosci il mito di Aristofane?-

-Intendi quello citato nel discorso che Aristofane fa nel Simposio?- ricordavo di averlo studiato qualche mese prima per preparare un esame di Filosofia, ma i dettagli non mi erano chiari. -Non lo ricordo molto bene, a dire il vero.-

-All'inizio non esistevano solo i maschi e le femmine, come due sessi distinti, ma c'era una terza identità, l'androgino, che non era né maschio né femmina, ma entrambi. Un bel giorno questi tre esseri decisero di prendere il posto degli Dei dell'Olimpo, scalando le montagne come fecero i giganti Efialte e Oto. Ma, ovviamente, vennero sconfitti e Zeus, per punizione, decise che questi dovevano essere separati così, con l'aiuto di Apollo, recise in due parti distinte ogni individuo. Da allora ognuno di noi è destinato a vagare senza meta, sempre alla ricerca della metà che ci completi e di cui, dopo, non potremo più farne a meno.- il modo la sua voce catturava l'attenzione su di sé mi fece venire i brividi. Poche volte lo avevo visto così serio mentre parlava con me. -Tu credi a questo? Credi che ognuno di noi è destinato a incontrare la parte mancante, l'anima gemella?-

Qualcosa nella sua voce mi convinse a prendere sul serio quella domanda e a ragionarci.

Ma non sapevo neppure io a cosa credevo. Le mie certezze da due anni a quella parte era limitate.

-Sinceramente non credo all'anima gemella. Tutte quelle scemate sul colpo di fulmine, sul primo sguardo e sul destino sono baggianate raccontate ai bambini piccoli per farli sognare. Con questo non dico che l'amore vero non esiste, la mia amica Piper e il suo ragazzo Jason ne sono l'esempio, ma penso che sia molto raro. L'amore è qualcosa che costruisci giorno per giorno, basato innanzitutto sul reciproco rispetto.- feci una pausa per raccogliere le idee. -Non è che con la prima persona che incontrerò ora deciderò di costruire un rapporto d'amore solo perché lo rispetto. Ovviamente c'è qualcosa che mette inizio a tutto, un interesse comune, una persona in comune... qualcosa. Quindi no, non credo nell'anima gemella, ma credo in due persone con una profonda capacità empatica, due persone a cui basta uno sguardo per capire quello che l'altro vuole dire senza bisogno di troppe parole. Questo per me è il vero amore.-

Da dove venivano quelle parole? Sul serio pensavo queste cose? Fino a quel momento per me l'amore, e l'anima gemella, erano qualcosa che alla sottoscritta non potevano capitare, sopratutto per il fatto che non le volevo.

L'amore portava solo guai e sofferenza, e gli uomini erano dei bastardi. Ecco quello che pensavo fino a quel momento. Evidentemente dovevo ricredermi.

Azzardai una timida occhiata a Percy che mi stava guardando intensamente, come se cercasse di vedere al di là delle mie parole. E io mi persi in quegli occhi immensamente verdi, alla disperata ricerca di un'ancora che mi tenesse a galla.

-Sai, Sapientona, mi piace come ragioni.- disse alla fine, ridestandomi dalla trance in cui ero caduta.

-E tu, come la pensi?-

Alzò l'angolo della bocca, ma non sorrise.

-Penso che sia ora di andare a dormire.- e detto ciò ritornò in casa, lasciandomi senza una vera risposta.

Alcune volte, faticavo sul serio a capire cosa passasse nella testa di quel ragazzo.

 

Percy era di più.

Molto di più.

Era qualcosa di molto pericoloso per me.

 

 

***

 

-Eeeeeehiiiii...-

Mi destai piuttosto bruscamente dai miei pensieri quando Percy ricominciò a bussare con insistenza alla porta del bagno, miagolando con un gatto. Non era affatto quello il momento di farmi un esame di coscienza per molti motivi, uno dei quali stava aspettando che io mi dessi una mossa.

Annabeth, concentrati.

-Sei morta lì dentro? Sul serio, Sapientona, se non esci in fretta rischio di farla qui dove sono ora.-

Incredibile come la sua voce fosse salita di un ottava, diventando in poco tempo stridula. Doveva star soffrendo molto, ma io mi stavo divertendo troppo a sentirlo implorare.

-Ti prego lasciami entrare!- cercò di abbassare il pomello della porta ma io, ovviamente, avevo chiuso a chiave. -Dai, Sapientona! Farò qualsiasi cosa mi chiederai!-

Ridacchiai tra me e me. Così era troppo facile!

Presi il pigiama che mi ero tolta, e incalzai le ciabatte, poi aprii la porta.

Percy mi osservò meravigliato, con gli occhi leggermente socchiusi, come un povero martire che soffriva. Stava in una posizione buffa: piegato leggermente in avanti, con le gambe strette e le mani all'altezza delle sue parti basse.

Mi spostai leggermente di lato, lasciandogli lo spazio per entrare in bagno cosa che lui fece quasi nell'immediato, ma prima che riuscisse a chiudere la porta gli voltai le spalle e sorrisi.

-Lo sai vero di avermi appena promesso di fare qualsiasi cosa quando di sotto ci sono due bagni?-

E non ebbi bisogno di una risposta per sapere che aveva realizzato di essersi fregato con le sue stesse mani.

Tornai nella mia camera, all'improvviso consapevole di aver ridacchiato come una ragazzina davanti ad un complimento dal ragazzo che le piace un po' troppe volte quella mattina. Non ero molto sicura che questo fosse positivo, ma scacciai quel pensiero nei magazzini della mia mente, perché quel giorno volevo rimanere dov'ero, ovvero nel Paese delle Meraviglie, dove non esistevano lupi cattivi e stupratori nascosti dietro l'angolo.

Ma, purtroppo, il telefono squillò e io fui costretta a tornare alla realtà dei fatti. Con un sospiro presi il cellulare dal comodino e risposi alla chiamata.

-Ehi, Miss Brasile! Come sta la mia migliore amica?-













Angolo autrice:
No non sono morta, sì questo non è un miraggio. Ebbene dopo altri mesi di attesa, finalmente, ho trovato un po' di tempo per terminare questo benedetto Capitolo 13 che, vi devo confessare, mi ha fatto sudare sette camicie.
Allora, che ne pensate del capitolo? Vi è piaciuto? Vi posso solo dire che nel prossimo le cose cominceranno ad evolvere sul serio u.u
Devo dirvelo: mi stupisco ogni volta di quante persone leggano la mia storia, sul serio! Non potete immaginare il piacere che provo nel leggere le magnifiche recensioni che ogni volta mi lasciate *^* E ovviamente devo ringraziare chi mi scrive messaggi privati di incoraggiamento: siete come l'acqua per un assetato nel deserto.
Tornando a parlare del mio tempo di aggiornamento: sono consapevole che sono lentissima e che questo non è molto bello per voi che leggete, ma vi chiedo solo di mettermi nei miei panni: quest'anno, oltre ad essere un anno impegnativo a scuola, mi sono iscritta ad un sacco di attività extra che mi costringono a rimanere bloccata a scuola oltre l'orario delle lezioni per più volte in una settimana, inoltre suono nella banda del mio paese e seguo un corso di kick boxing. Quindi, vi scongiuro, cercate di capirmi. Non abbandonerò mai questa storia, anche a costo di sacrificare qualcosa per ricavarmi del tempo per scrivere, questa è una promessa (parola di scout). Solamente i miei aggiornamenti saranno lenti...
Vi voglio un mondo di bene, lettori miei <3
Un bacione,
Annie


P.S. Non sono mai stata una scout :P

 

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Capitolo 15
*** Capitolo 14 ***


Disclaimer:
'Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di Rick Riordan; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro'.


Capitolo 14


Rio de Janeiro, Luglio


Annabeth


-Ehi, Miss Brasile. Come sta la mia migliore amica?-
Un'incredibile senso di pura felicità mi travolse quando, accostando il telefono all'orecchio, udii la voce allegra di Piper. Era un'emozione così forte che gli occhi mi si riempirono di lacrime.
Ma non era solo la felicità di sentire la sua voce che mandò in tilt i miei pensieri: all'improvviso, all'altezza dello stomaco, mi si formò un blocco, come se una mano invisibile lo stesse stringendo in una morsa. Avevo nostalgia di lei, o meglio, avevo nostalgia di casa mia.
Deglutii con fatica, ricacciando indietro il singulto che minacciava di uscire dalla mia gola e, strizzando gli occhi, sorrisi debolmente, felice che lei non mi potesse vedere.
-Piper! Sei veramente tu?- non avevo nemmeno finito di parlare che mi maledissi mentalmente. Che diavolo di domanda era quella? Ovvio che fosse lei!
Forza, Annabeth, connetti un po' quel cervello che ti ritrovi! 
Dall'alto capo sentii Piper ridere di gusto. Il che non voleva dire per forza che fosse divertita, dato che quella ragazza era permanentemente allegra e felice. Da quando eravamo diventate amiche, ad esclusione dei primi tempi, l'avevo vista triste e in lacrime pochissime volte.
-Certo che sono io! Chi dovrei essere, scusa?- altra risatina. -Stai bene? Non è che improvvisamente hai sbattuto la testa e hai perso la memoria senza dirmelo? Perché se è così sappi che sono offesa di non essere stata avvertita.-
Scossi la testa, esasperata. Se prima avevo avuto dei dubbi, ora potevo confutarli senza pensarci due volte. Quella era veramente Piper.
-No, Piper, non ho perso la memoria, e sì sto bene.- feci una pausa, mentre mi mordevo il labbro, improvvisamente consapevole che quella domanda comportava molte risposte a seconda dell'interpretazione che le si dava. -Anzi, sto benissimo.- aggiunsi alla fine, con un tono di voce più basso. 
Non saprei dire se fosse stato il tono basso o qualcos'altro che avevo messo nella voce, ma Piper si fece stranamente silenziosa. Se non fosse stato per il tenue respiro che udivo dall'altro capo, avrei pensato che la connessione fosse saltata.
-Sul serio Annabeth...- disse con un bisbiglio appena udibile. -Come stai?-
Sospirai pesantemente, perché avevo pregato che non mi facesse quella domanda. Ero consapevole del fatto che non la temevo più tanto quanto qualche settimana prima, ma quella mattina era iniziata proprio bene, anzi a meraviglia, e quel discorso rischiava inevitabilmente di portarci -o meglio, portarmi- ad una miserabile rovina.
Con tutta la calma del mondo, mi avvicinai al letto ancora sfatto e mi sedetti. Le mani mi tremavano leggermente, così incastrai quella che non reggeva il cellulare in mezzo alle cosce per tenerla ferma, poi chiusi gli occhi.
-Dobbiamo per forza parlarne ora?- mormorai. Stavo fisicamente male al pensiero di dover affrontare quel discorso.
-Annabeth...- 
-Piper, ti prego... ti giuro che sto bene.- ed in qualche modo ero sincera. -Solo... non voglio parlarne.-
Evidentemente ero riuscita a convincerla perché dall'altro capo, dopo qualche secondo, lei sospirò e disse: -Va bene, va bene, è un argomento tabù. Ho recepito il messaggio.- poi si interruppe di colpo, come se le fosse venuto in mente qualcosa. -Centra per caso quel ragazzo che è lì con te? Perché se è così sappi che me ne puoi parlare tranquillamente. Lo sai anche tu che ne sarei solo che felice.-
Ora, vediamo di comprendere bene la situazione.
Mi trovavo a migliaia di chilometri di distanza da New York, nell'emisfero opposto a quello in cui era Piper. Stavamo parlando al telefono quindi non c'era alcuna connessione visiva che potesse in qualche modo permetterle di leggermi in volto quello che pensavo. Inoltre, come se non bastasse, avevo nominato Percy soltanto una volta da quando ero partita, esattamente un mese prima. Quindi come diavolo era possibile che avesse indovinato al primo colpo?
Sul serio, quella ragazza era un mostro!
Il mio unico, piccolo problema – in realtà non così piccolo – era un'altro. Se avessi ammesso che non volevo parlare di come stavo solo perché – e mi era difficile ammetterlo – in qualche modo Percy ne faceva parte, allora Piper non sarebbe stata in grado di riempirmi di domande all'infinito, finché non avessi cambiato numero di telefono. E non stavo scherzando.
Non avevo mai avuto un ragazzo, e l'unico che mi si fosse mai avvicinato non era stato un buon partito, per ovvi motivi. Avevo un serio problema psicologico nel creare legami e nel fidarmi delle persone, sempre a causa del ragazzo sopracitato.
Ora, essendo Piper una persona molto esuberante e una vera intenditrice nel campo delle relazioni, sopratutto quelle che riguardavano i ragazzi, trovarsi all'improvviso come migliore amica un caso patologico di fobia per i contatti umani, non doveva essere stato facile per lei. Quindi, ero certa quasi al cento per cento che, se fosse venuta a sapere del mio rapporto di amicizia sempre più intimo con Percy, sarebbe letteralmente scoppiata. E non avrebbe più smesso.
Cercai di convincermi che lo stavo facendo solo per il suo bene, ma in fondo in fondo sapevo benissimo anch'io che volevo solo salvaguardare me stessa da qualcosa che non ero pronta ad affrontare, sia fisicamente che psicologicamente, anche se questo voleva dire mentire alla mia migliore amica.
Bastava che continuassi a ripetermi che lo facendo per me stessa. 
Mantieni la calma, Annabeth, mantieni la calma e non...
-No! Assolutamente no!- ...rispondere troppo in fretta
Mi schiarii la voce, e deglutii per cercare di rimandare indietro il groppo che mi si era formato in gola. -Lui non centra nulla, davvero. È che sto lavorando troppo, e quei bambini mi succhiano tutte le energie.- cercai di ridere, ma mi uscì solo una suono rauco e poco credibile.
-Sicura?- insistette lei, seguendo il suo intuito che, ovviamente, non sbagliava mai.
-Si, sono sicura. Grazie comunque dell'interessamento. So che posso contare sempre su di te, Piper.-
E, grazie al Signore, questo sembrò tranquillizzarla abbastanza perché si mettesse il cuore in pace e cambiasse argomento.
-Allora, cara la mia Annie.-
-Piper, non mi chia...-
-Si, si, lo so. “Non mi chiamare Annie. Odio quel nome.”- disse facendomi il verso. -Sei abbastanza prevedibile, lo sai cara? Alcune volte mi chiedo perché diavolo ti ho scelta come migliore amica.-
Risi di gusto. Diceva quella frase ogni volta che c'era il rischio che mi arrabbiassi. Sviava l'attenzione da una cosa per concentrarlo su quello che ci legava nel profondo: la nostra amicizia.
-Sono la tua migliore amica semplicemente perché non c'è nessuno che possa competere con me, e lo sai bene.- dissi, scherzando amichevolmente. In fondo, sapevo benissimo anch'io che se Piper avesse voluto, sarebbe riuscita a rimpiazzarmi in pochi secondi. Bastava che girasse il capo perché qualcuno le cadesse ai piedi. Era incredibile come la situazione fosse cambiata radicalmente dal giorno in cui era una bambina sola, che veniva presa in giro da tutti. La gente, a volte, sapeva essere veramente meschina.
-Non tirarti troppo le arie, cara. Siine solo onorata. Comunque, prima che tu mi interrompessi, stavo pensando una cosa.- disse e, dal suo tono, seppi che non dovevo aspettarmi nulla di buono. 
-Che cosa, se posso avere la grazia di saperlo?-
-Cara mia, per quanto tu possa continuare a sviare la mia attenzione dalle cose importanti, io, la tua carissima migliore amica di tutto l'universo, non mi sono affatto scordata che Sabato è un giorno speciale.-
Sabato. Sabato. Sab... 
O. Mio. Dio. No.
Con uno scatto degno di un gatto, balzai in piedi e, con una furia che non mi apparteneva, attraversai la stanza, con l'obiettivo di raggiungere il calendario che avevo appeso vicino all'armadio. Con il dito scorsi la lista dei giorni, finché non individuai quello maledetto, evidenziato in giallo.
Sabato 12 Luglio.
12. Luglio.
Il mio, maledetto e per niente voluto, compleanno.
-No. Assolutamente no. Scordatelo Piper. Qualsiasi cose ti fosse venuta in mente fai in modo di scordartela. Lo dico per il tuo bene.-
-Ma Annabeeeeth! Non puoi sempre rovinare le mie idee in questo modo! E poi, non sai ancora cosa avevo intenzione di dire.- avrei scommesso qualsiasi somma che, dall'altro capo, Piper avesse messo il muso, con il labbro che sporgeva. Ma per quanto potesse farmi tenerezza quando metteva quella faccia, la situazione non cambiava.
-Non mi interessa. Qualsiasi cosa volessi fare, te la puoi togliere di mente.- disse, irremovibile su quel punto. -Sai benissimo anche tu che non ho intenzione di festeggiare il mio compleanno in alcun modo. Solo perché io ora mi trovo in Brasile, non vuol dire che la situazione sia cambiata. E non c'è bisogno che ti dia spiegazioni...- e nel mentre misuravo la stanza con piccoli passi nervosi, andando dall'armadio al letto.
Ci fu un momento di pausa, poi Piper sbuffò, assumendo un tono di voce più marcato. -E va bene, Annabeth Chase. Non espliciterò la fantastica idea che avevo per rendere il giorno del tuo compleanno un po' più allegro di quello che hai intenzione di passare tu, ma non mi venire a dire che io non te lo avevo detto quando verrai a piangere da me in piena crisi di mezza età, lamentandoti di non aver vissuto appieno gli anni migliori della tua vita!-
Alzai gli occhi al cielo, sospirando. Quella ragazza non sarebbe mai combinata.
-Piper, ascolta, lo sai che apprezzo molto il tuo interessamento.- dissi, fissando un punto non ben preciso al di fuori della finestra. -Ma, sul serio, non voglio festeggiare il mio compleanno. Sabato è un giorno come gli altri...-
Seguendo un pensiero momentaneo, vagai con la mente molto lontano, in un mondo dove non esistevano compleanni e giorni speciali da passare con le persone che si amano. Purtroppo era solo una stupida fantasia.
-Va bene, va bene, ho recepito il messaggio. Sappi solo che per qualsiasi cosa io sono qui, reperibile 24 ore su 24, sette giorni su sette, solo per te.- disse alla fine Piper, assumendo un tono serio. -Comunque aspettati un regalo entro qualche giorno. Quello non me lo puoi impedire.-
Risi leggermente, mentre con una mano chiudevo lentamente la porta della camera. Avevo bisogno di crearmi il mio spazio personale per qualche momento.
-Okay, capito. Ora ti saluto perché mi chiamano per la colazione.- mentii -Ti voglio bene.- aggiunsi piano dopo un momento di silenzio.
-Anch'io ti voglio bene, Annabeth. Tanto.- rispose quasi nell'immediato lei, con un affetto nella voce che potevo percepire quasi con la mano. 
Misi fini alla telefonata, per poi lasciarmi cadere a peso morto sul letto e stringendo il cellulare nel pungo chiuso. Era stata una telefonata abbastanza difficile, ma essenziale, eppure, in qualche modo, ne ero uscita indenne.
Volevo un mondo di bene a Piper, e sempre gliene avrei voluto. Era stata una vera amica nel momento del bisogno e, anche se da fuori poteva non sembrare, era più forte di molte altre persone, sopratutto quando le cose si mettevano male.
Potevo solo ringraziare il giorno in cui decisi, seguendo solo l'istinto, di aiutare quella bambina gracile, e di renderla la mia migliore amica.

-Allora, Sapientona, che programmi hai per oggi?- chiese quasi distrattamente Percy, mentre ero concentrata nella difficile arte dell'imburrare un toast.
Mi fermai con il coltello a mezz'aria e, mordendomi il labbro, gli lanciai un'occhiata di sottecchi, per capire che genere di domanda era, se una di rito oppure di interesse genuino.
-Perché ti interessa?- domandai con altrettanta indifferenza, cercando di ignorare il fatto che quell'improvviso interessamento alle mie attività mi facessero molto più piacere di quando ero disposta ad ammettere.
Lui, nel mentre, continuava imperterrito a guardare il cellulare e a far muovere le dita più velocemente di come le muoveva una persona normale. Per scrivere un messaggio di due righe io impiegavo dieci minuti, se non di più! 
E poi, che aveva da scrivere tanto? O meglio, a chi stava scrivendo con così tanta foga?
-Oh, così, volevo solo assicurarmi che non avessi impegni per oggi. Voglio mostrarti una cosa è ho bisogno che tu sia libera per qualche ora.- disse, continuando a ostentare completa indifferenza nei miei confronti. 
Strinsi gli occhi, mentre il mio cuore aumentava il battito cardiaco. Perché caspita mi sentivo le guance così calde? Insomma, era una domanda come le altre, oltretutto che mi era stata posta con assoluta neutralità. 
Chiusi gli occhi per qualche secondo di troppo, cercando di calmarmi, poi ripresi a spalmare il burro sul mio toast che era già diventata troppo freddo per i miei gusti del Sabato mattina.
Sì, esatto, quel Sabato mattina, quello del mio compleanno. Esattamente un giorno come gli altri.
Il sole brillava come ieri, c'erano sempre sessanta secondi in un minuto, e la mia vita era quella di sempre: nulla era cambiato solo perché compivo 20 anni. 
-Allora, sei libera?- ritornò a domandare Percy, questa volta distogliendo finalmente l'attenzione dallo schermo del suo cellulare. Mi fissò intensamente dritto negli occhi, senza accennare a distogliere lo sguardo. E, in qualche modo, non lo potevo fare neppure io perché era come se mi avesse incatenato a sé.
-Sì, sono libera, ma voglio sapere dove mi vuoi portare, altrimenti ritienimi troppo impegnata per alzarmi dal letto per il resto della giornata.- riuscii a dire alla fine, mantenendo incredibilmente la voce ferma. Per tenere le mani occupate, e nascondere il fatto che stessero leggermente tremando in modo incrontrollato, portai alla bocca il toast dandogli un morso.
-Bene, perfetto.- concluse alla fine Percy tornando a concentrarsi sul suo telefono. Incredibile!
-Ho detto che voglio sapere dove andremo.- dissi, mentre Chintia entrava in cucina.
Indossava il suo grembiule preferito, quello ornato di pizzo nero che mi aveva confessato essere l'ultimo regalo di suo marito, defunto anni prima. Era così radiosa, con quel suo sorriso caldo e le guance rosse, che guardarla era come essere baciati dal sole.
-Annabeth cara! Buongiorno, buongiorno.- disse a gran voce, mentre si avvicinava nella mia direzione, per poi avvolgermi in uno dei suoi famosi abbracci stretti, stretti. -Allora, come va?- mi domandò con premura. Il che non era affatto strano, dato che in tutto quello che faceva e diceva metteva tanto amore, ma questo modo di fare era fin troppo anche per lei.
-Chintia!- la rimproverò Percy, immediatamente, come se la donna avesse fatto, o detto, qualcosa di sbagliato. Lei lo guardò per poi spalancare gli occhi e portare una mano a coprire la bocca semi aperta.
Questo era strano.
-Cosa...- stavo per chiedere cosa fosse successo di tanto strano quando Chintia si girò con uno scatto, per poi spalancare le braccia.
-Oh, ecco che arriva Grover!- disse quasi urlando. Corse in contro al nuovo arrivato, che la stava guardando come se davanti a lui fosse comparsa all'improvviso una fiammeggiante auto d'epoca, per poi cingergli le spalle con un braccio. -Allora, Grover, come stai oggi? Tutto bene?-
Okay, stava succedendo veramente qualcosa di strano di cui io ero all'oscuro.
-Ehm... sì?- rispose Grover evidentemente intimorito da tanta dimostrazione d'affetto. Poi prese posto al tavolo, si servì di tutto il ben di dio che aveva cucinato Chintia, e nessuno sentì più una parola da parte sua per un po'.
Malgrado la strana interruzione, non mi era sfuggito il fatto che Chintia si comportava in modo strano e che Percy centrava in qualche modo. 
-Dicevamo... dov'è che mi vuoi portare?- chiesi, decidendo di ignorare qualsiasi cosa stesse ribollendo in pentola. Ero ben intenzionata a farmi i fatti miei.
Percy mi guardò, mentre si passava la mano tra i capelli con il risultato di scompigliarli ancora più di quel che erano prima. Arricciò le labbra, poi sorrise in modo strano.
-Tranquilla, Sapientona, andiamo solo al bowling.- Ma, per quanto quell'affermazione potesse risultare vera, avevo la strana sensazione che qualcosa non andava.

Il bowling era l'unico posto in cui non ero ancora stata. Da quando avevo fatto sul serio amicizia con Percy, eravamo usciti molte volte insieme, sopratutto per permettere a Nico di divertirsi un po' e dare a Katia un po' di tregua. Avevamo girato un po' tutte le attrazioni che Rio offriva al pubblico, per lo più parchi divertimento, circhi e parchi giochi, alcune volte portando con noi anche la piccola Bianca che era diventata come una mascotte.
Io non facevo fatica a pensare che quelle uscite, in qualche modo, mi stessero aiutando a riscoprire la me stessa di un tempo. Era come esser tornata una bambina. Mi divertivo con tutto.
Ma quello che proprio non riuscivo a comprendere era il comportamento di Percy.
Era in un paese che gli poteva offrire un certo divertimento mirato alla sua età, come per esempio locali, discoteche e bar, eppure non l'avevo mai visto uscire di sera o con qualcun'altro che non fosse Grover, ad esclusione delle volte che doveva incontrare il detective privato che seguiva il caso di suo padre.
Giustamente quando la mattina dopo avevamo lezione tendeva a chiudersi in camera sua relativamente presto, ma nei week-end si comportava allo stesso modo. Cenava, chiacchierava con Grover, poi mi proponeva di fare qualcosa, tipo guardare la tv o giocare a carte e, quando io non ne avevo voglia e mi sedevo in terrazza con un libro in grembo, lui si inventava qualcosa da fare in fattoria. 
Insomma, guardiamo in faccia alla realtà: Percy era un ragazzo giovane, simpatico e, purtroppo, anche piuttosto attraente e, dal quel che avevo capito da una recente chiacchierata, anche single. Cosa aveva che non andava? Ovviamente io non facevo testo, visto considerato che i locali, la vita notturna e qualsiasi cosa comportasse le relazioni con estranei era fuori questione. Ma io ero io, e quello che era successo a me non poteva essere successo anche a lui.
L'unica spiegazione plausibile a cui ero giunta era che Percy fosse gay ma, dopo un'attentissima analisi, ero giunta ad escludere quest'ipotesi. Troppo poco credibile.
Bastava guardare come si vestiva e si atteggiava per capire che non era gay. Insomma, sprizzava mascolinità e virilità da tutti i pori persino, e sopratutto, quando nel negozio di vestiti aveva indossato quella minigonna.
No, l'opzione gay era fuori questione. Doveva per forza esistere un'altro motivo a me ancora oscuro.
-Ehi, Testa d'Alghe, l'obiettivo è buttare giù i birilli, non mandare la palla ai lati, te l'ha mai detto nessuno?- lo presi in giro quando, per la quinta volta di seguito, fece cadere la palla sul lato destro senza riuscire a far cadere nemmeno un birillo.
-Ah, ah. Molto spiritosa la ragazza. So benissimo come si gioca a bowling.- rispose lui, raggiungendomi al di fuori dall'aerea di tiro con un sorriso vincente. Cosa ci fosse tanto da sorridere lo sapeva solo lui.
-Vedo, vedo... sicuro che poi non andrai a piangere dalla mamma se perderai?- dissi con un ghigno bellico, scegliendo la palla blu e andandomi a posizionare davanti alla pista per il mio turno.
Con la palla al petto, all'altezza del naso, calcolai la mira con tutta la precisione di cui ero capace, poi, dopo una breve rincorsa, la lanciai e non mi stupii nel veder cadere tutti i birilli tranne uno, visto che con i precedenti due tiri avevo fatto entrambi strike.
-Ridi pure, ragazza mia. Ti ricordo che, senza di me, non potresti vincere.- rispose Percy mentre andavo a recuperare un'altra palla per il secondo tiro consecutivo.
-E perché?- Mi posizionai come avevo fatto prima, e stavo per tirare quando sentii delle mani avvolgermi i fianchi con delicatezza.
Il primo istinto fu quello di divincolarmi e mettermi a correre, ma poi sentii il suo fiato caldo sul collo, all'altezza del mio orecchio destro e, per quanto la situazione potesse sembrarmi simile a quella di due anni prima, qualcosa dentro di me mi implorava di rimanere ferma immobile in quella posizione. Riuscivo a sentire il suo profumo di mare solleticarmi le narici, mentre il suo respiro mi metteva i brividi. 
-Perché senza di me non ci sarebbe un perdente.- mormorò flebilmente e, se non fosse stato per la sua vicinanza, non sarei riuscita a sentirlo.
Si avvicinò, facendo combaciare in modo perfetto i nostri corpi, e approfittando del fatto che non avevo nessuna volontà sul mio corpo, mi prese la mano che teneva la palla e mi indusse a lasciarla cadere sulla pista. Quella, essendo stata lanciata casualmente, dopo un breve tratto, finì per cadere nel lato destro senza mandare a segno alcun punto.
Ma a me non importava nulla del punteggio. Mi sentivo come una marionetta tra le sue braccia.
Poi, con la stessa rapidità con cui si era avvicinato di soppiatto, si allontanò, lasciandomi completamente stravolta.
-Visto? Hai perso.- disse Percy, ammiccando nella mia direzione.
Non avevo più nessun controllo sul mio corpo. Era come se fossi stata posseduta da un'anima vagante. Potevo vedere, sentire e percepire tutto quello che c'era all'esterno, ma non riuscivo a reagire di conseguenza.
Probabilmente, alla fine, nel mio cervello si accese finalmente l'interruttore della luce perché riuscii a raggiungere senza causare incidenti la panchina ai lati della pista, mentre con la coda dell'occhio vidi Percy posizionarsi per il suo turno. Guardandolo ebbi l'impressione che non fosse successo assolutamente nulla. Era perfettamente concentrato sulla palla, gli occhi puntati lontano e nulla che lo distraesse. Come faceva?
Dentro di me sembrava che si fosse scatenato un tifone. Ero molto confusa, anche se il vero motivo di tale scombussolamento purtroppo mi sfuggiva ancora. Che centrasse Percy lo avevo capito da tempo, ma come faceva ad avere tutto quel potere su di me? 
Chiusi gli occhi con forza, nascondendo la faccia dietro alle mani. Viene un momento nella vita di una ragazza in cui, per sopravvivere, bisogna prendere in mano i propri sentimenti e analizzarli con occhio critico. Questo era quello che mi aveva detto una volta Piper, poche settimane dopo che aveva cominciato ad uscire con Jason.
E, per quanto potesse sembrarmi improbabile, forse era arrivato quel momento anche per me.
Purtroppo dovetti rimandare il mio esame di coscienza perché il telefono di Percy prese a squillare proprio mentre lanciava la palla che, come era successo le volte precedenti, finì per colpire solo un birillo. Veloce come un'anguilla, lui recuperò il cellulare dalla tasca dei jeans, per poi strabuzzare gli occhi dopo aver guardato lo schermo.
-È già ora?- chiese, senza aspettare una risposta dall'altra parte della linea. Chiunque fosse il suo interlocutore doveva avere poco da dire perché Percy chiuse subito la telefonata.
Si voltò nella mia direzione, guardandomi intensamente negli occhi. Percy era il contrario di un libro aperto, ma riuscii ugualmente a leggervi qualcosa che non mi aspettavo. Eccitazione e, forse, affetto.
Con passo spedito mi superò, dirigendosi verso l'uscita del bowling. Che stava succedendo?
-Ehi! Dove vai? Non abbiamo ancora finito la partita!- urlai, arrancando dietro di lui per non rimanere indietro.
-Forza, Sapientona, siamo in ritardo. Sbrigati!-
Con il fiato leggermente pesante lo seguii al di fuori del locale, in direzione della macchina parcheggiata poco lontano.
-Siamo in ritardo per cosa, scusa?- chiesi più confusa di prima.
Lui di tutta risposta mi lanciò uno sguardo enigmatico e un sorrisetto sghembo, per poi mettere in moto la macchina.
-Vedrai, Sapientona.-

Non so cosa mi aspettassi dopo la risposta criptica che mi aveva dato, ma sicuramente non credevo che saremmo tornati alla fattoria direttamente. Sul serio, ogni secondo che passava, il suo comportamento sempre più strambo. E se lo pensavo io, che ero stramba da un bel po', voleva dire che la situazione era critica.
-Mi spieghi perché stiamo tornando a casa? Non avevi un appuntamento urgente per cui hai dovuto scappare dalla nostra partita di bowling ancora in corso? Giuro che la prossima volta che mi chiedi di uscire ci penserò due volte prima di accettare!- poi mi accorsi che l'espressione “chiedere di uscire” poteva avere altri significati equivoci, quindi mi affrettai a correggermi. -Cioè volevo dire, la prossima volta che mi chiedi di accompagnarti da qualche parte. Non di uscire... non che tu mi abbia mai chiesto di uscire...- farfugliai, abbassando sempre più la voce fino a farla diventare un sussurro appena udibile.
Annabeth Chase smetti di parlare finché sei in tempo.
Percy mi lanciò un'occhiata strana; sembrava quasi che prendesse la situazione seriamente. Ma poi scoppiò a ridere, scuotendo la testa. -Annabeth, rilassati. Va tutto bene, ho capito cosa intendi anche se non sono d'accordo.- disse con gli occhi puntati sulla strada.
Ma che...? Cosa voleva dire con quella frase? Pensai di aver capito male perché la possibilità che intendesse quello che io pensavo volesse intendere mi faceva tremare le gambe. No, era impossibile.
-Comunque stiamo tornando alla fattoria perché ho scordato una cosa senza la quale non mi posso presentare all'appuntamento.- disse tranquillamente, come se niente potesse turbarlo. -Tranquilla, Annabeth Chase, ritorneremo presto al bowling, se è questo che ti preoccupa. Dopotutto, non ho avuto il tempo di batterti come si deve.-
Strano, ma quella frase ebbe il potere di infondermi una calma assoluta, facendomi scordare il perché le mie guance stessero ancora scottando da quando aveva iniziato a parlare.
-Ti piacerebbe, Testa d'Alghe. Non mi batterai mai, mettiti il cuore in pace.- dissi, stando al gioco.
-Io non parlerei tanto, sopratutto dopo il tuo ultimo tiro. Definirlo disastroso è riduttivo.- ed ecco che il cuore prese a battere veloce, di nuovo. Sembrava lo facesse apposta a inserire delle frasi casuali, mirate a mettermi in imbarazzo. Ma, questa volta, non me ne sarei stata zitta ad arrossire.
-Strano, io ricordo benissimo te che mi prendevi la mano e mi obbligavi a tirare.- e, per quanto imbarazzante fosse stato dire quello che avevo detto, potevo giurare di aver visto Percy arrossire leggermente.
-Che direbbe la tua ragazza se venisse a conoscenza di un tale perfido gesto?- e la mia domanda retorica era mirata solo a metterlo in imbarazzo, ma ebbe l'effetto contrario perché, all'improvviso, l'atmosfera della macchina sembrò congelare. Percy voltò il capo, guardandomi intensamente negli occhi, serio come non l'avevo ancora visto.
-Io non ho la ragazza.- disse, come se quella fosse la cosa più importante da dire. Il mio cuore perse un battito di troppo e il mio stomaco fece una triplo salto mortale. Che importava a me se Percy aveva o no la ragazza a New York? Quella era l'unica ipotesi che non avevo potuto scartare quando mi ero chiesta perché a Testa d'Alghe non interessava uscire la sera per locali. E, ovviamente, non mi ero sentita di chiederglielo, visto che era una domanda fin troppo personale. Non volevo rischiare che fraintendesse la mia curiosità per qualcos'altro.
Ma ora che l'argomento, e la risposta, era venuta fuori per caso sentivo come se qualcuno mi avesse tolto un mattone dallo stomaco.
-Ah.- dissi, non sapendo bene cosa fosse giusto rispondere in quella situazione. -Bene. Mi fa piacere... cioè, non che mi faccia piacere perché non voglio che tu abbia la ragazza, ovvio che voglio che tu abbia la ragazza ma, non...- ecco che ero ripartita per la tangente.
-Annabeth?- mi bloccò lui, riportando per un attimo lo sguardo sul paraurti.
-Sì?- deglutii rumorosamente.
-Siamo arrivati.-
-Oh.- e non so se per il fatto che, guardandomi attorno, mi accorsi che eravamo nel vialetto della fattoria, ma la bolla di tensione che avvolgeva noi e la macchina sembrò scoppiare con un puff.
Nel silenzio assoluto e più strano della mia vita, Percy scese dalla macchina e venne ad aprirmi la portiera, porgendomi una mano con le sue fossette ben in mostra.
-Milady.-
Accettai l'offerta con molta perplessità, curiosa di scoprire cosa stesse accadendo. Perché ero sicura che qualcosa bolliva in pentola. Dopotutto, Percy non si era mai comportato così gentilmente. Con la coda dell'occhio vidi un testa riccioluta scomparire in fretta da una finestra della casa.
-Per caso sto per scoprire cosa sta succedendo?- chiesi, fidandomi del mio intuito.
Lui sorrise, guardandomi per la prima volta con ammirazione.
-Sei troppo intelligente per noi plebei.- si limitò a dire, mentre superavamo l'ingresso.
Quando arrivammo in fondo al corridoio volutamente buio, un boato di urla e grida gioiose ci travolte e, per la prima volta da molto tempo, fui felice che fosse il mio compleanno. Non avevo mai partecipato ad una festa a sorpresa.
-Auguriiiiii!!!!!!-
Stipati nel grande salotto della fattoria, stavano tutte le persone che avevo imparato a conoscere in quelle settimane. C'erano tutti i bambini della scuola, Chintia, Grover, Nico, Pepito e Katia con Bianca in braccio, che indossava un buffo cappellino rosa di cartone. Erano tutti lì per me.
Una risata genuina, nacque dal profondo del mio petto, accompagnata da lacrime di commozione. Non mi sentivo così felice da tanto, tanto tempo.
Voltai il capo in direzione di Percy che mi stava guardando in attesa di una mia reazione.
-Hai organizzato tu tutto questo?- mormorai, non potendo credere ai miei occhi.
Lui si morse un labbro, annuendo lentamente.
-Come... come facevi a saperlo?- dopotutto, ero stata molto attenta nel non dire che giorno fosse oggi.
Lui sembrò in difficoltà perché aggrottò la fronte, portandosi una mano alla testa.
-Ecco... l'altro giorno, dopo essere uscito dal bagno, sono passato davanti alla tua porta che era leggermente aperta e, involontariamente, ti ho sentita parlare con la tua amica al telefono. Dicevi che non volevi nulla per il tuo compleanno. Poi, il giorno dopo, ho ricevuto una chiamata da Piper. Non so come abbia fatto a trovare il mio numero. Fatto sta che abbiamo concordato sul fatto che meritassi di festeggiare il tuo compleanno anche se tu non volevi. Quindi, ecco qua.- disse evitando il mio sguardo. -Lo so che non è un granché, ma è quello che sono riuscito ad organizzare in pochi giorni. Ti prego, non arrabbiarti, noi vole...-
Interruppi il suo monologo, che aveva l'aria di essere ben lontano dalla conclusione, nell'unico modo possibile. Gli buttai le bracci al collo, stringendolo a me senza provare alcun imbarazzo.
-Grazie.- dissi, non riuscendo a dire nient'altro a causa dell'emozione che mi stringeva il petto.
Dovevo averlo preso alla sprovvista, perché impiegò qualche momento per circondarmi la vita con le braccia e appoggiare la fronte sulla mia spalla.
Quella posizione era così perfetta che fu veramente difficile separarsi quando Chintia mi raggiunse, pretendendo un abbraccio. In seguito abbracciai così tante persone, sopratutto i miei bambini, che persi il conto.
La festa proseguì alla grande. Percy aveva organizzato così bene la festa che tutti, persino Grover, si divertirono molto. Mangiammo il cibo e la torta a tre strati, preparata da Chintia con incredibile destrezza, poi giocammo tutti insieme ad un'elaborata caccia al tesoro nel giardino della fattoria. 
Quando, alla fine Grover cominciò ad accompagnare i bambini a casa, a gruppi di 5, cominciai a parlare con Katia del più e del meno, mentre cullavo Bianca.
Stavo ridendo per una vicenda veramente assurda che riguardava Nico da piccolo, quando incrociai lo sguardo di Percy da sopra la spalla di Katia. Smisi all'istante di ridere.
Lui, che stava aiutando un suo alunno a colorare un disegno, sorrise lentamente, mantenendo il contatto visivo con incredibile ardore.
E, in quel momento, capii di essere fregata.
Non c'era bisogno di tarocchi magici o un esame di coscienza, come suggeriva Piper. Non c'era bisogno di niente per sapere di essere caduta in trappola.
Perché mi ero innamorata di Percy Jackson.










Angolo Autrice:
Zan. Zan. Zan.
Credete ai vostri occhi. Sono riuscita a pubblicare dopo solo un mese. Miracolo! In realtà metà capitolo l'ho scritto oggi quindi se probabilmente sarà una schifezza. Avevo intenzione di postarlo domani ma poi mi sono detta che non potevo farvi aspettare un giorno di più <3
Voi non sapete che emozione scrivere l'ultima frase. Quella frase. Mi è scappata una lacrimuccia :')
Ebbene sì, la svolta è arrivata finalmente. Ve lo avevo promesso o no che questo capitolo sarebbe stato importante? u.u
Allora, che ne pensate? Emozionati anche voi? c:
Devo ringraziare come SEMPRE le persone che mi seguono, che mi scrivono, che recensiscono e che leggono questa storia. Senza di voi non avrei ragione di scrivere, ve lo giuro. Per quanto riguarda il prossimo capitolo... e.e ho la bocca cucita.
Un bacione a tutti voi, siete sempre nel mio cuore e nei miei pensieri.
Annie


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Capitolo 16
*** Capitolo 15 ***


Disclaimer:
'Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di Rick Riordan; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro'.


Capitolo 15


Rio de Janeiro, la sera stessa
 

Annabeth


Ero innamorata di Percy Jackson.
Io, Annabeth Chase, ero innamorata di Percy Jackson.
Io, Annabeth Chase, figlia di Frederick Chase, ragazza con seri problemi a livello personale, ero fottutamente e irreparabilmente innamorata di Percy Jackson, e niente e nessuno poteva farci niente.
Non so come avessi fatto a raggiungere la camera ostentando un'apparente tranquillità, probabile che mi fossi trascinata da una stanza all'altra con un sorriso stampato in volto e una espressione serena. Dopo un tempo che avevo ritenuto sufficiente, avevo salutato e ringraziato tutti, aiutato Chintia a sistemare quel che era rimasto, e poi, con la scusa di dover chiamare mio padre, ero salita nella mia camera, lasciandomi cadere a peso morto sul letto.
In quel momento stavo fissando il soffitto, con le mani intrecciate sullo stomaco e la faccia una maschera inespressiva. Mi facevano ancora male le guance da tanto che avevo mantenuto il sorriso forzato. Non ero abituata a sorridere così tanto, non se non lo volevo sul serio.
Stavo cercando con tutta me stessa di rimandare ancora una volta l'esame di coscienza iniziato al bowling, arrivato al punto cruciale alla festa, e non giunto alle dovute conclusioni. Ma, dentro di me, sentivo di essere stanca di lottare, di combattere una guerra già persa in partenza. Dovevo arrendermi e seguire il consiglio di Piper: prendere in mano i miei sentimenti e analizzarli con occhio critico. E così feci, finalmente.
Dopo aver avuto quell'incredibile rivelazione, mentre i nostri occhi si incrociavano, ero caduta in stato di shock. Era come se un melone mi fosse caduto sullo stomaco, come se il Titanic fosse affondato una seconda volta, come se il mondo fosse finito.
E il mondo doveva essere arrivato davvero alla fine dei suoi giorni, perché non poteva essere reale quello che provavo. Io non potevo essere innamorata di nessuno, sopratutto non di Percy Jackson!
Lo stesso Percy che all'inizio odiavo con tutto il cuore perché era troppo simile all'uomo che mi aveva fatto del male, ma che con il passare del tempo avevo cominciato ad apprezzare. Ed, evidentemente, anche ad amare.
Okay, stop. Annabeth, fermati un attimo. Ragiona.
Dovevo concentrarmi sui problemi, sulle conseguenze, su ciò che la mia presa di coscienza comportava. Non c'era una sola ragione in tutto l'universo per cui questo potesse e dovesse andare bene. Primo tra tutti perché io ero io, e una reazione amorosa in quel momento sarebbe stata come sventolare davanti al toro già infuriato un foular rosso. Ero mortalmente certa che mi avrebbe portata all'autodistruzione. E io, malgrado tutto quello che mi era capitato, malgrado la sofferenza che ancora mi incasinava la vita, volevo vivere ancora.
Eppure, nel momento esatto in cui ero arrivata alla mia conclusione, per un momento, aveva sentito una pace assolta, un senso di spensieratezza ed eccitazione che, per quanto se ne fossero andate in fretta, non riuscivo a dimenticare. Era come se il mio corpo mi stesse dicendo di accogliere a braccia aperte i miei sentimenti, e di coltivarli, quando, invece, la mente diceva tutto il contrario.
A chi dovevo dare retta? Quale era la cosa giusta da fare? A cosa mi avrebbe portato tutto questo?
Quelle e altre domande mi affollavano la mente, ed erano così tante che sentivo la testa quasi scoppiare. Infilai le mani nella testa, cercando di sostenere tutto il peso di quelle domande, ma fu inutile.
Stavo per impazzire un'altra volta. Mi era già successo altre volte in passato, in particolare dopo aver passato la giornata a ricordare, a pensare, a soffrire. E sapevo di non potercela fare. Non da sola.
Le altre volte c'era mio padre che, sentendomi dalla sua camera, correva nella mia e restava con me finché tutto non passava. In quei giorni prendeva dei permessi dal lavoro.
Ma ora ero centinaia di chilometri distante da New York e non potevo lasciare che mi vedessero così. Avevo promesso a me stessa che il mio passato sarebbe rimasto un segreto, qualcosa da nascondere. Non potevo permettermelo.
Così, cercando di richiamare alla mente le parole di mio padre su ciò che dovevo fare in quelle situazioni, mi misi in posizione fetale, con le ginocchia al petto, il capo chino e le braccia a proteggere la testa.
Respirai profondamente, per evitare di andare in iperventilazione, la reazioni più frequente, e continuai così per qualche minuto, nel più completo silenzio. La camera era in penombra perché, prima di piombare sul letto, avevo chiuso le persiane, preferendo un'atmosfera più tetra che si addicesse al mio stato d'animo.
Stavo ancora respirando lentamente, ma con fatica, quando sentii qualcuno bussare alla porta, che avevo scordato di chiudere a chiave.
-Annabeth?- era lui. -Stai bene?- chiese, poi fece un pausa, aspettando una mia risposa.
Dal tono di voce, sembrava sinceramente preoccupato, come se avesse percepito che mi stavo sentendo male. Eppure ero sicura di non aver fatto alcun rumore, ad esclusione dei miei respiri.
Pregai mentalmente che non decidesse di aprire quella porta, perché non ce l'avrei fatta.
Non avevo né la forza, né la voglia di subire le sue domande. Non potevo permettere che mi vedesse in quelle condizioni, non dopo aver scoperto che provavo qualcosa per lui. Non ce l'avrei fatta a sopportare il suo sguardo di pietà e compassione, perché ero sicura che mi avrebbe guardato in quel modo.
Stavo annegando in un mare di non.
Così, mentre lui abbassava la maniglia e apriva la posta, feci l'unica cosa che sapevo fare, ma che sicuramente l'avrebbe mandato via senza dover parlare. Finsi di dormire.
Ero una maledetta codarda.
Lui si fermò sulla soglia, sentivo il suo sguardo su di me. Sospirò e, quando stavo pensando che se ne sarebbe andato, lo sentii avvicinarsi lentamente, con le scarpe da ginnastica che scricchiolavano sul pavimento.
Passarono dieci lenti secondi, in cui tesi l'orecchio al massimo e pregai che non mi scoprisse. Alla fine, mentre pensavo che il cuore mi sarebbe scoppiato nel petto di tanto che batteva veloce, si chinò lentamente su di me e io non capii più nulla.
Cosa stava facendo? Che intenzioni aveva?
Con una delicatezza degna di una piuma, percepii le sue labbra posarsi sulla mia tempia, a pochi centimetri dalla mia mano che tenevo ancora sulla testa. Il contatto durò all'incirca tre secondi, ma a me parvero ore infinite.
Nel punto in cui mi aveva baciato sentii un formicolio piacevole, che avrei voluto si propagasse in tutto il corpo. Era come se mi avesse toccato un tizzone ardente.
-Buonanotte, Annabeth.- sussurrò quasi impercettibilmente vicino al mio orecchio. Il modo con cui aveva pronunciato il mio nome mi mise i brividi.
Poi, con la stessa delicatezza con cui si era avvicinato, si ritrasse e se ne andò, chiudendo lentamente la porta dietro di sé.
Istintivamente mi portai la mano alla tempia, toccando leggermente dove le sue labbra si erano adagiate e le domande nella mia testa aumentarono, cambiando però la loro natura.
Perché mi aveva baciato? Perché era entrato? Cosa significava tutto ciò?
E ancora.
Cosa voleva da me? Come aveva fatto a capire che stavo male? Provava i miei stessi sentimenti?
Su quell'ultima domanda mi bloccai, con la mente improvvisamente vuota...
No. Era impossibile.

 

***


-Toc, toc.-disse bussando alla porta già mezza aperta. -Posso entrare?-
Alzai lo sguardo dal libro che stavo leggendo, per puntarlo su Percy che se ne stava appoggiato allo stipite con le braccia incrociate e il capo leggermente piegato.
La t-shirt bianca, aderente sulle maniche, mettendo in risalto i muscoli delle braccia, pompati anche dalla posizione in cui stava. Sapevo che Percy andava a correre tutte le sere prima di cena, ma da dove venivano quei bicipiti? Che sollevasse anche i pesi?
Scossi il capo, cercando di scacciare quei pensieri inappropriati.
Non ero ancora giunta ad una conclusione, dopo aver capito che Percy Jackson mi piaceva, e anche tanto, ma di una cosa ero certa: in sua presenza dovevo per forza comportami come facevo di solito, perché lui non doveva saperlo, per nessuna ragione al mondo.
Inserii un segnalibro tra le pagine, poi lo chiusi, incrociando le gambe e invitandolo ad entrare.
-Certo, vieni pure.-
Lui entrò, senza fretta, dirigendosi verso il davanzale della piccola finestra che mostrava l'orizzonte e il grande prato della fattoria. La sua attenzione venne attirata da un piccolo scaccia incubi che penzolava dalla maniglia d'ottone, il tipico souvenir indiano che mi aveva regalato Piper per il mio sedicesimo compleanno. Non so perché l'avessi conservato, ma una piccolissima parte di me, quella non razionale, era convinta che funzionasse sul serio, contro gli incubi. E, in effetti, da quando lo avevo appeso alla finestra, dopo aver finito di disfare i bagagli e arredare la camera come volevo io, non avevo più fatto sogni brutti. L'altra parte di me, quella razionale, che faceva affidamento al cervello, era invece convinta che fosse merito dei bambini, e anche di Percy.
Non sapevo a quale parte dare ascolto, ma di una cosa ero certa: non avere incubi era magnifico.
-Qual buon vento ti porta qui?- gli chiesi, piuttosto perplessa dal suo comportamento.
Lui mi dava le spalle, ma lo vidi comunque sospirare pesantemente sempre guardando fuori.
-Ero in camera a preparare la lezione di domani e a correggere i compiti di oggi. Sai che stanno tutti migliorando a vista d'occhio?- disse guardandomi con la coda dell'occhio e sollevando un angolo della bocca.
Annuii, comprendendo benissimo quello che intendeva dire. In poco più di un mese quei ragazzini, con nostra grande sorpresa, si erano appassionati alle lezioni e ora tutti sembravano non vedere l'ora di andare a scuola. Questo cambiamento l'avevo notato sopratutto in Pepito che, sebbene all'inizio cercasse di saltare in tutti i modi la scuola, ora entrava in aula ogni mattina con allegria e felicità.
Mi rendevo conto che per loro, la scuola, era qualcosa che li teneva alla larga dalla malavita e dalla povertà, che dava loro la speranza di costruirsi, nel futuro, una vita più felice.
-Comunque, stavo pensando alla tua festa di compleanno, quando mi sono ricordato che non ti avevo ancora dato il mio regalo.- disse, questa volta voltandosi a guardarmi. Mise una mano nella tasca dei jeans, e ne tirò fuori un piccolo pacchettino, coperto da una carta blu e un fiocchetto argento, tutto spiegazzato.
Aggrottai le sopracciglia, confusa.
-Ma... aspetta un secondo. Già la festa è stato un regalo troppo grande. Pensavo fosse già quello un regalo, il tuo. E poi io non voglio nulla, davvero.- dissi, scuotendo la testa.
Lui sbuffò, e senza preavviso mi si avvicinò, sedendosi sul letto e appoggiando il pacchettino vicino a me.
-Annabeth, piantala. So perfettamente che non lo vuoi, ma ormai io te l'ho fatto e non puoi fare nulla, tranne accettarlo.- disse, serio.
Accennai un piccolo sorriso, cercando di smorzare quella strana atmosfera che si era creata. -E se io non lo accettassi?- chiesi, un po' per scherzare.
Lui ghignò, e finalmente sul suo viso comparvero quelle magnifiche fossette che adoravo e che mi facevano battere forte il cuore.
-Beh, in quel caso sarei costretto a farti questo.- e senza preavviso, con velocità fulminea, mi saltò addosso. Letteralmente.
Come al rallentatore visi le sue braccia allargarsi e tendersi nella mia direzione, e io non potei far altro che cercare di fuggire, alzandomi dal letto, ma lui fu più veloce di me e, prendendomi per la vita, mi fece sdraiare e prese a farmi il solletico, ovunque.
Ecco, se c'era una cosa che proprio non riuscivo a sopportare, questo era il solletico. Ogni volta che qualcuno provava a farmelo, di solito mio padre quando era in vena di ricordi, riuscivo a implorare pietà, ma con Percy sembrava non funzionare.
Mi contorsi sotto il suo corpo, che emanava calore, e presi a ridere e urlare come un pazza.
-Percyyyyyy! Bastaaaa!-
Lui sorrise ancora di più, non accennando a fermarsi.
-Ti prego, ti prego. Ti scongiurooo. Per l'amor del cielo, fermati!- stavo ancora chiedendo venia, quando, all'improvviso, qualcun'altro bussò alla porta della mia camera, che però ora era aperta.
Ci fermammo immediatamente, voltando la testa verso il nuovo arrivato.
Grover ci stava fissando basito, con un sorriso incerto sul volto, e gli occhi spalancati.
-Mi... mi dispiace molto interrompere qualsiasi cosa steste facendo. D-davvero.- balbettò, con evidente disagio. -Ma... Percy c'è un tipo che ti cerca, giù di sotto.- disse, indicando dietro di sé.
La realtà della situazione mi assalì come un tir che va a cento all'ora. Percy se ne stava a cavalcioni su di me, con il corpo a pochi centimetri dal mio, una mano sulla mia pancia e l'altra sullo sterno, molto vicina al mio seno destro. Non so cosa vedesse Grover dall'esterno, ma se fossi stato in lui probabilmente avrei pensato esattamente quello che ero sicura stesse pensando. Per questo cominciai a balbettare, mentre le guance mi si arrossavano.
-N-noi stavamo solo...- cercai di spiegare. -Ecco, lui stava...- ma in qualsiasi modo la mettessi, non riuscivo a concludere la frase senza sembrare ambigua.
Grover scosse il capo.
-Tranquilli, non c'è problema. Allora io... vado. Fate pure con calma.- e così dicendo, si voltò e sparì dalla nostra vista, chiudendo la porta dietro di sé.
Calò il silenzio.
Con la testa ancora puntata dove un attimo prima c'era Grover, deglutii e pregai mentalmente che il mio angioletto custode non fosse in pausa pranzo. Avevo bisogno di aiuto. Sentivo il cuore in gola di tanto che batteva forte.
Raccogliendo tutto il coraggio che avevo, finalmente mi decisi a voltami, per guardare Percy in faccia.
E non so se perché lui era ancora a cavalcioni su di me, o perché la nostra bocca distava poco meno di dieci centimetri, ma entrambi scoppiammo in una fragorosa risata. Mascherare il disagio con l'ilarità era più semplice che affrontare la situazione, me ne rendevo conto, e a me andava benissimo così.
Un po' a malincuore, sentii Percy alzarsi dal letto, per mettersi seduto, e io mi misi al suo fianco.
-Chissà che cosa ha pensato.- dissi, scossa ancora dalle risate. -Hai visto che faccia che aveva?-
Percy mi guardò, ridacchiando al ricordo di Grover che balbettava, ma poi si bloccò e il suo sorriso sparì, rimpiazzato da un'espressione strana, quasi intenerita.
Con una lentezza disarmante, sollevò una mano e l'appoggiò sulla mia guancia, mentre sentivo le gote diventare rosse.
Cosa stava facendo?
Era la secondo volta in pochi giorni che mi toccava il viso, prima con le labbra, ora con la mano. Non riuscivo a comprendere il suo comportamento.
E poi arrivarono le sue parole.
-Annabeth... tu mi...- ma poi si bloccò, e parve ripensarci.
Automaticamente, come un'impulso, il mio cervello completò quella frase con “piaci” e questo scatenò le farfalle nel mio stomaco.
Che cosa stava per dire Percy? Perché non aveva completato la frase?
Chiuse gli occhi, tolse la mano dalla mia guancia, e sospirò.
-Vado a vedere chi mi cerca.- disse solo, mentre si alzava e usciva dalla camera.
Io, invece, ero come pietrificata.
Cosa. Era. Successo.
Cosa. Diavolo. Era. Successo.
Con tutta la calma del mondo, tornai ad appoggiare la schiena alla tastiera del letto, incrociando le gambe. Dentro di me stava avendo luogo una battaglia i cui due schieramenti, però, non erano ben chiari. La mia testa era un marasma di pensieri, tutti inerenti a Percy. Volevo sul serio credere che mi stesse per dichiarare il suo amore, ma dentro di me, nel profondo, sentivo che era sbagliato, che mi avrebbe portato solo sofferenza.
Eppure, c'era qualcosa nel modo in cui mi aveva guardata mentre mi toccava il viso, che risvegliò una parte di me che non sapevo stesse dormendo. Una fiaccola, un calore tenue mi si accese nel petto, alla stessa altezza del cuore e rimase lì, come un faro di speranza.
Ma speranza di cosa?
Non so quanto stessi lì, così, con le gambe incrociate e l'espressione vacua, ma ad un certo punto Percy tornò, e venne in camera mia senza bussare una seconda volta. Era però diventato l'ultima persona che volevo vedere in quel momento.
-Che c'è?- sospirai, pregando che se ne andasse in fretta e mi lasciasse ai miei problemi.
Lui, per niente intimorito dalla mia faccia funerea, sorrise raggiatamente, sventolandomi sotto il naso due foglietti azzurri, rettangolari.
-C'è, cara la mia Sapientona, che giù di sotto era il mio investigatore privato. Sebbene io gli abbia detto che questo era l'indirizzo solo per le emergenze, e che di conseguenza non volevo essere disturbato per delle semplici informazioni che avrebbe potuto dirmi benissimo domani pomeriggio al nostro appuntamento, mi ha portato questi.- disse sprizzando gioia da tutti i pori. -E devo riconoscere che si tratta proprio di un'emergenza.-
Aggrottai la fronte, più confusa di prima.
-E quest'emergenza sarebbe...?-
Il sorriso che fecede dopo, guardandomi in faccia, non prometteva assolutamente niente di buono per la mia persona.
-Preparati, Sapientona, perché Sabato siamo stati invitati al galà di beneficenza dell'Associazione FISH.- disse sventolando quelli che, presumibilmente, erano i biglietti della festa.
-E io che centro, scusa?-
-Centri eccome, perché mi farai da accompagnatrice, e non accetto un no come risposta.- e così dicendo, se ne andò, per poi ritornare sui suoi passi qualche secondo dopo. -Ah, e che non ti venga la malsana idea di indossare dei jeans. Voglio un abito da sera, degno di questo nome.- poi sparì, questa volta definitivamente.
Come... come, diavolo era riuscito ad immischiarmi in questa storia? Un galà? Ma stiamo scherzando? Poi ricordai che era l'Associazione di suo padre ad organizzare l'evento, e per lui doveva essere importante. Dopo quello che aveva fatto per me, glielo dovevo. E poi, se non altro, riuscivo a capire perfettamente la sua situazione.
Ma il problema ora era un'altro: come avrei fatto a trovare un vestito da sera in così pochi giorni? Fortunatamente, per quelle occasioni, c'era Piper che, ero sicura, mi avrebbe aiutato. Sospirando, recuperai il telefono dal comodino e, controllato che a New York fosse un'ora decente per chiamare, composi il suo numero.
Mentre aspettavo che Piper rispondesse, lisciai sovrappensiero le coperte, quando sentii qualcosa di duro al tatto. Dal groviglio che erano diventate le mie coperte dopo l'assalto di Percy, recuperai il regalo che mi aveva fatto e che alla fine non avevo aperto.
Lo rigirai tra le mani, indecisa se aprirlo o no.
Il fiocchetto argento si era disfatto purtroppo, e la carta era un po' sgualcita. Ero curiosissima di scoprire cosa contenesse, perché, in fin dei conti, siamo tutti un po' curiosi.
Ma per qualche motivo che non riuscivo a darmi, preferii lasciarlo intatto.
Così, proprio mentre Piper rispondeva, aprii il cassetto del comodino, e lo misi via.


 
***


-Annabeth! Guarda che facciamo tardi!- sentii distintamente urlare Percy per la terza volta dalla tromba delle scale. -Quanto ti ci vuole per mettere delle scarpe?-
Sbuffai, alzando gli occhi al cielo. Lui non poteva capire la crisi che stavo passando in quel momento, proprio per niente.
In quel momento ero in video chiamata con Piper, su skipe, per i consigli dell'ultimo momento, e anche perché senza la sua approvazione non avrei avuto il coraggio di uscire dalla camera. Insomma, mi sentivo ridicola.
-È lui?- chiese lei, sorridendo in modo allusivo.
Sospirai. -Sì, è lui. E se non la pianta, esco di qui e lo faccio diventare una lei con un calcio ben piazzato.-
Piper scoppiò a ridere, coprendosi la bocca con la mano ben curata, e gli occhi che luccicavano di felicità. Erano anni che non parlavamo in quel modo.
-No, ti prego, prima di castrarlo devo per forza vederlo!- implorò. -E poi, non lo sai che le donne si fanno sempre aspettare?-
-Ah, sicuramente aspetterà perché non ho nessunissima intenzione di uscire conciata in questo modo.- e, per dare più enfasi alle mie parole, gesticolai in direzione del vestito.
Piper divenne all'improvviso seria, puntando un dito allo schermo. Sì, beh, malgrado fossimo in videochiamata riusciva a sembrare minacciosa.
-Annabeth Chase, non ci pensare neanche! Non dopo tutta la fatica che abbiamo impiegato per trovare quell'abito, e per truccarti!- disse. -Sei uno schianto, e non ho nessunissima intenzione di sentire “se” o “ma”. Se fossi lì con te ti spedirei a calci si sotto, perché sono certa che li stenderai tutti, compreso il tuo cavaliere.- disse quell'ultima parola, muovendo le sopracciglia su e giù, ripetutamente.
-Piper, basta. Ti ho già detto che gli sto facendo solo un favore. Non è un appuntamento.- avevo messo in chiaro fin da subito che lui non mi aveva chiesto di uscire, ma solo di accompagnarlo ad una cena di lavoro. Era stato più semplice spiegarlo in quel modo, così da mantenere la parola e non dire la verità. A Chintia e Grover avevamo detto che saremmo solo andati a divertirci.
-Okay, okay. Ho capito.- rispose Piper, alzano le mani. -In qualsiasi caso, devi convincerti che sei bellissima. Oddio, sono così fiera di te.- aggiunse, asciugandosi una lacrima immaginaria all'angolo dell'occhio.
Scossi il capo divertita. Quella ragazza non sarebbe mai cambiata.
-ANNABETH! HO DETTO CHE È ORA!- ecco che Percy ritornava alla carica, cercando di sembrare arrabbiato. Ma io sapevo che non era vero. -Se non esci da quella camera entro due minuti, giuro che vengo a prenderti in spalla e ti carico in macchina senza tante cerimonie!-
Scoppia a ridere, perché quell'immagine era così ridicola da sembrare assurda. Sapevo benissimo che ne era capace, dopotutto mi aveva presa in spalla anche in spiaggia, ma quella sera Percy era così nervoso che non riusciva a stare fermo. Quindi, probabilmente, era sono impaziente di andare, e non non eravamo affatto in ritardo.
Anche Piper scoppiò a ridere.
-Ma quanto testosterone! Chissà se la sua voce rende fede anche al corpo.- disse, con gli occhi che brillavano. Una stretta allo stomaco mi colse alla sprovvista.
-Piper, tu hai già un ragazzo, ricordi?- le chiesi, mortalmente seria.
Calò il silenzio, mentre noi due ci fissavamo negli occhi. Temevo di aver parlato troppo, e di averle fatto capire che, in realtà, ero gelosa marcia.
Alla fine, lei sorrise, e mi guardò con tenerezza.
-Tranquilla, cara. Non te lo rubo.- poi fece l'occhiolino. -Okay, è ora di andare. Mi raccomando, non inciampare, tieni la testa alta, e non toccarti il vestito! Sei perfetta così come sei. Ti voglio bene.- poi mise fine alla videochiamata, prima che io avessi il tempo di controbattere.
Chiusi il portatile e sospirai, decidendo di rimandare la questione di convincere la mia amica che a me non piaceva Percy ad un'altra volta. Meno persone sapevano, meglio era per la mia sanità mentale.
Con nervosità, tirai il tessuto che non mi copriva affatto la scollatura più in alto. Il difetto del vestito era proprio quello. Mostrava troppo delle mie tette. E io mi sentivo a disagio, ma a sentire Piper, era quasi casta.
La ricerca del vestito era stata lunga, estenuante e mi aveva tenuta impegnata per ben tre pomeriggi. Alla fine l'avevo trovato in una piccola boutique in centro, e non l'avevo nemmeno dovuto pagare chissà quanto.
Non so se era stata una coincidenza o un caso fortuito, ma le scarpe rosa che aveva insistito per comprarmi Percy quel pomeriggio di shopping, erano tornate utili perché si abbinavano al mio vestito blu.
L'abito, a sirena, mi fasciava in modo imbarazzante il busto e i fianchi, e con la scollatura a cuore, senza spalline, temevo di essere troppo poco casta. Grazie al cielo, il vestito era almeno lungo, con sei drappeggi di raso che cadevano quasi fino a terra. Ammetto che mi piaceva molto, sopratutto il corpetto di pizzo, ornato da qualche strass che facevano da punto luce. In qualche modo ero riuscita anche a creare un trucco che mettesse in risalto i miei occhi grigi, e ad acconciare i capelli in una morbida crocchia, ovviamente sotto suggerimento di Piper, la mia personale stylist.
Sarei piaciuta a Percy, oppure mi avrebbe guardato dall'alto in basso, desiderando di andare all'incontro più importante della sua vita con una persona più degna? Ecco, ripartivo con i miei pensieri proprio nel momento meno opportuno.
Mi guardai allo specchio, sulla parete interna dell'armadio, e per la prima volta da tanto tempo, mi sentii bella, bella sul serio. Ma ciò che più mi colpì fu quella sensazione, quella certezza di essere una donna, degna di me stessa.
Sorrisi alla mia immagine poi, recuperata la pochette sul letto, uscii, pronta per vivere la serata al meglio.


 
***
 

Con misurata lentezza, per evitare di cadere a causa di quei trampoli che le persone di ostinavano a chiamare scarpe, e la mano sulla ringhiera, scesi le scale di legno che portavano al piano inferiore. Sperai con tutta me stessa che il vestito non restasse impigliato da qualche parte perché non volevo fare la figura dell'imbranata davanti a Percy. Ero certa che non avrebbe più smesso di prendermi in giro.
-Annabeth, se non...-
Percy era in fondo alle scale, vicino alla porta della cucina, e stava per ricominciare ad urlare che eravamo in ritardo quando alzò lo sguardo e mi vide.
Non so cosa mi aspettassi, sicuramente non di vedere un ragazzo in frac, bello come il sole e brillante come la luna, rimanere letteralmente a bocca aperta alla mia vista. Okay, sì, ero vagamente carina quella sera, e sì, sapevo di fare la mia figura conciata in quel modo. Ma c'era un limite al decente, e io credevo di averlo superato con la mia scollatura.
Sì, se non si era capito, ero molto, ma molto a disagio.
Eppure, vederlo così sbalordito, così colpito, mi fece sentire ancora più bella.
-Chiudi quella bocca, Testa d'Alghe, altrimenti entreranno le mosche.- risi, mentre mi avvicinavo. Il rumore dei miei tacchi sul pavimento di legno richiamò l'attenzione di Chintia, che fece la sua comparsa dalla cucina, con in mano un mestolo e il suo solito grembiule addosso.
-Oh, Santa Madonna degli Angioletti. Tesoro mio, sei bellissima.- disse, congiungendo le mani sotto il viso. Passarono alcuni secondi in cui loro guardavano me, e io guardavo loro, non sapendo cosa fare.
-Grazie mille, Chintia.- dissi, sorridendole.
Quando alla fine distolse lo sguardo, si decise a puntarlo su Percy, che non si era mosso di un centimetro, e lo colpì con il mestolo sul braccio.
-Ehi, Principe Azzurro. Vedi di trattare bene questa signorina e di darti una mossa. Non eri tu che strepitavi fino a due minuti fa perché eravate in ritardo?- questo finalmente sembrò smuoverlo, perché chiuse la bocca e annuì, deglutendo.
-Giusto, hai ragione. La cena. Siamo decisamente in ritardo.- si guardò un'attimo attorno, evidentemente confuso e spaesato.
Sorrisi, perché era veramente buffo, ma rimasi senza fiato quando lui tornò a guardarmi, porgendomi una mano.
-Milady.- e potrei giurare di averlo visto arrossire non appena misi la mia mano sulla sua. Che gli prendeva?
Mi aiutò ad indossare il coprispalle, anche se con quel caldo ero sicura che presto me lo sarei tolto. Non volevo rischiare di sudare il più del dovuto, e puzzare. Sarei morta per l'imbarazzo, e non sarei più riuscita a guardare Percy negli occhi.
-Buona serata ragazzi, e divertitevi!- urlò Chintia, quando ormai eravamo usciti dalla porta, e puntavamo verso la macchina.
Sorrisi tra me e me, non sapendo bene il motivo ma sentendomi euforica. Avrei fatto di tutto per rendere la serata più piacevole possibile, senza però dimenticare il nostro vero obbiettivo: Percy doveva incontrare suo padre.
Solo allora mi accorsi che Percy non aveva ancora detto una parola, il che era strano, sopratutto per lui che non sprecava mai l'occasione di punzecchiarmi. E quella sera aveva infiniti motivi per scherzare, sopratutto riguardo al mio abbigliamento.
-Ehi, Testa d'Alghe, sicuro che un pesce non ti abbia mangiato la lingua? Perché non hai ancora detto niente sul mio vestito, ed avrei giurato che avresti avuto da ridire.- dissi cercando di smorzare la tensione quando inserì la chiave nell'accensione per poi mettere in moto e partire.
Lui mi guardò per un secondo, e quella volta fui certa che arrossì sul serio. Il suo collo si era ricoperto di chiazze rosse.
-Non ho nulla da dire, per questo non ho parlato.- si limitò a rispondere, anche se io non mi aspettavo affatto una risposta del genere. Che gli stava succedendo?
Poi un pensiero mi attraversò la testa, e tutto si fece chiaro: era nervoso per l'incontro con suo padre.
-È per l'incontro, vero?- chiesi, sicura di quello che dicevo.
Lui aprì la bocca, sul punto di ribattere, ma poi sembrò cambiare idea, così sospirò e annuì.
-Sì, credo sia per quello anche se...-
-Anche se?-
Esitò. -No, niente, lascia perdere. Ora, ascoltami bene che ti spiego il piano.- e così illustrò nel dettaglio tutto quello che dovevamo fare, mentre io ascoltavo attentamente.
Poi smise di parlare, per immergersi nei propri pensieri così proseguimmo il viaggio in silenzio, con lui che guardava ostentatamente la strada e io che cercavo di capire quello che gli frullava in testa. Più volte lo sorpresi a lanciarmi delle occhiate, e sotto il suo sguardo io arrossivo. Come riusciva a mandarmi così in subbuglio? Come faceva a scatenarmi le farfalle nello stomaco? Io sapevo solo una cosa: quella sera era importante per lui, e io avrei fatto qualsiasi cosa perché fosse felice.








Angolo Autrice:
*Annie controlla il calendario*
Sì. No. SÌ! Vedo male io o sono passate solo tre settimane? O.o
ahahahaha, a parte gli scherzi. Ciao a tutti carissssssimi! Oggi il sole mi ha sorriso, perché son tornaaaaata, e anche con largo anticipo rispetto alle mie previsioni. Qualcuno si ricordi di fare la danza della pioggia anche la prossima volta, perché funziona xD
Oh meglio, qualcuno si ricordi di ringraziare Alex_Logan, perché senza di lei che mi ricorda costantemente di scrivere probabilmente avreste dovuto aspettare ancora un paio di settimane prima di leggere questo capitolo. Quindi, grazie mille Alex_Logan, perché la tua voglia di spoiler mi ricorda che devo scrivere :')
Ebbene, carrissimi commensali, che ne pensate? Piaciuti tutti i momenti Percabetthosi? La nostra povera Annabeth è partita per la tangente, e nessuno può più recuperarla. È peggio fi una pera stra-cotta :') E Percy... beh, se non l'aveste capito è ben che cotto pure lui, ma non dice nulla u.u
Nel prossimo ci sarà il gala, l'incontro con il caro Poseidone e... beh, meglio che non vi dica nulla altrimenti, addio sorpresa :3
GRAZIE MILLE come sempre a tutti coloro che seguono, preferiscono, ricordano e SOPRATUTTO commentano questo mio sputo di fantasia. Senza di voi non potrei fare nulla <3
Sperando che vi sia piaciuto, vi mando un bacione grandissimo.
Annie

 


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Capitolo 17
*** Capitolo 16 ***


Disclaimer:
'Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di Rick Riordan; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro'.


Capitolo 16


Rio de Janeiro, la stessa sera


Annabeth


-Allora, che hai scoperto riguardo a tuo padre?- chiesi quando non riuscii più sopportare di stare in silenzio mentre lui guidavo. L'unica cosa che potevo fare io era torcermi le mani in grembo, aggiustare continuamente la scollatura ed arrossire quando mi guardava di sfuggita. Il mio stomaco, già nervoso di suo, era stato invaso da un'improvviso sciame di farfalle, non gradite, e ce la stavo mettendo tutta per non mordicchiare le unghie, a cui avevo dedicato troppo tempo della mia vita per renderle presentabili.
Così, per evitare come sempre di cedere ai pensieri, mi ero scervellata per trovare un argomento di cui parlare durante quel viaggio in macchina che pareva non finire più.
-Voglio dire, hai scoperto qualcosa di nuovo dall'investigatore?- dissi, visto che lui mi aveva lanciato un'occhiata perplessa. 
Sapevo che Percy si incontrava con l'investigatore privato almeno una volta alla settimana, e che i loro appuntamenti duravano almeno tre ore, comprese di viaggio, quindi qualcosa doveva averlo scoperto per forza altrimenti, quando quella storia sarebbe finita, Percy avrebbe fatto bene a pensarci due volte prima di pagare quel tipo.
-Sì, qualcosa sì, ma mio padre sembra molto determinato a mantenere la privacy. Secondo le ultime notizie, Poseidone, così si fa chiamare da tutti, ha spostato la figlia di un noto parlamentare diciannove anni fa, ma stranamente non hanno mai avuto figli. Si ipotizza che lei non possa averli ma li desiderava molto, così hanno optato per l'adozione a distanza. Se solo sapesse che, in realtà, ha già un figliastro sprizzerebbe gioia da tutti i pori, eh?- domandò con una punta di sarcasmo, guardandomi per un breve momento. -Comunque, lei tende ad amare la privacy ancora più del marito e si presenta al pubblico solo nelle serate ufficiali, sempre al suo fianco, quindi probabilmente ci sarà anche lei a questo gala.- poi smise di parlare. Non so se si fosse bloccato perché aveva finito di parlare, ma a me sembrava che ci fosse ancora qualcosa.
-È tutto?- chiesi, concentrata sul suo volto che, in quel momento, non lasciava trapelare nessuna emozione.
Percy respirò profondamente, con le spalle che si alzavano, poi lasciò andare con tutta la calma del mondo l'aria che aveva trattenuto. Il suo sguardo era costantemente puntato all'orizzonte, forse in cerca di qualche verità nascosta.
-No,- disse, dopo un momento di tentennamento. -Poseidone proviene da una famiglia molto potente. È il secondo di tre fratelli, altrettanto famosi, che lavorano nel campo della politica e della giustizia. Questo vuol dire che era predestinato ad essere un uomo influente fin dalla nascita, anche se si è costruito l'associazione partendo da zero, senza l'aiuto di nessuno.- poi si zittì definitivamente.
Quella era veramente una notizia da prima pagina: Percy era il discendente di una famiglia ricca, legata addirittura alla politica del Paese, e per di più l'unico erede dell'impero costruito da suo padre. Non doveva essere stato facile per lui venirlo a sapere da uno sconosciuto, non dopo che aveva vissuto una vita modesta e umile, obbligato a guardare la madre fare di tutto pur di non fargli mancare nulla.
Non potevo sapere cose si sentisse, ma cercai di fargli capire che ero vicina a lui, così appoggiai una mano sulla sua gamba. Lui girò di scatto la testa, posando gli occhi prima sulla mia mano, poi su di me. Io gli risposi con un piccolo sorriso di circostanza, poi tornai al mio posto.
Passarono alcuni istanti di silenzio, quando lui ritornò a parlare piano.
-C'è una cosa che non riesco proprio a spiegarmi, malgrado ci abbia pensato per settimane. Che diavolo ci faceva su quella spiaggia, ventuno anni fa, con mia madre quando avrebbe dovuto essere già fidanzato con un'altra donna? Cioè, non ne sono sicuro, ma quale altro motivo avrebbe avuto per abbandonare me e mia madre se non che aveva già una sposa promessa?- 
Per quanto lo desiderassi, non avevo nessuna risposta da dargli. Vedevo il suo volto, il suo sguardo, così tormentato che sentivo male a livello fisico per la mia impotenza. Non riuscivo a vederlo così triste e abbattuto, e non credo fosse solo il fatto che provavo qualcosa per lui.
Volevo solo che fosse felice, e che la vita non fosse stata così bastarda con lui.
Con non poca vergogna, mi accorsi all'improvviso che negli ultimi due anni non avevo fatto altro che pensare ai miei problemi, solo e soltanto a me stessa, mentre intorno a me c'erano persone che stavano peggio. Io almeno avevo avuto vicini mio padre e Piper per tutto il tempo, mentre Percy si era rimboccato le maniche, contando sulle sue sole forze, per scoprire la verità. Dovevo venire a patti con il fatto che, per quanto stessi male, il mondo non girava solo e soltanto intorno a me.
Così, con i sensi di colpa, feci l'unica cosa che potevo fare: allungai la mano tra i due sedili, e intrecciai la mia con quella di Percy, che era appoggiata pigramente sul cambio manuale.
-Non lo so Percy.- mormorai. -Non lo so proprio.-
E il silenzio calò, questa volta come se fosse un velo di seta, che avvolgeva tutta la macchina, finché lui non lo spezzò.
-Ecco, siamo arrivati.-


 
***


Ovviamente, nel corso di quei giorni, avevo pensato ad una possibile location per quel gala, ma nemmeno con tutta la fantasia del mondo sarei riuscita a immaginare quello.
Appena varcato il cancello principale della mega villa, era bastato seguire lo sterrato di ghiaia per qualche metro prima che un uomo, vestito in giacca e cravatta neri, comparisse davanti alla nostra macchina, sorridendo gentilmente.
Percy era sceso sistemandosi il nodo della cravatta e, dopo aver lasciato le chiavi nelle mani dell'uomo e aver fatto il giro dell'auto, era venuto ad aprirmi la portiera con un gesto elegante. Aveva allungato una mano, offrendomi aiuto nello scendere dal sedile e, malgrado quel gesto fosse scontato, lo avevo apprezzato molto sopratutto perché avevo timore di inciampare nei miei passi oppure di calpestare inavvertitamente il vestito con le scarpe.
Così, mentre la macchina partiva lentamente in direzione di un parcheggio non troppo lontano dall'entrata, sorrisi a Percy con gratitudine.
Eravamo uno di fronte all'altra, grazie ai tacchi anche quasi alla stessa altezza, e da quella posizione potevo guardarlo negli occhi senza dover inclinare troppo il capo. Ma lui evitava il mio sguardo per indirizzarlo verso la villa, in cerca di qualcosa o qualcuno. 
Vidi il suo pomo d'Adamo andare su e giù, mentre lui deglutiva, segno che fosse più nervoso di quando eravamo partiti dalla Fattoria.
Dovevo intervenire per forza: non potevo permettere che stesse in quel modo tutta la serata.
-Ehi. Guardami.- dissi cercando di attirare la sua attenzione, ma con scarsi risultati. Ci riprovai. -Percy, guardami.- ripetei, usando un tono fermo e autoritario, lo stesso che usavo con i miei bambini durante le lezioni. E, finalmente, lui si girò.
-Respira.- dissi, convinta. -Ora ascoltami bene: questa è la sera che stavi aspettando da tutta una vita, non è così?- non avevo bisogno di conferme, ma lui annuì lentamente.
I suoi occhi verdi, così attenti e intensi, mi incatenarono a sé, senza lasciarmi via di scampo. Per quanto mi mettesse a disagio stargli così vicino, mi sentivo bene ed ero immensamente felice che la sua attenzione fosse solo per me.
-Quindi, adesso, tira fuori le palle, vai là dentro a testa alta e fargli pentire di tutti gli anni che si è perso in tua compagnia, okay?- 
Qualcosa cambiò nel suo sguardo, un cambiamento radicale, importante. Ora sapevo che era pronto.
Non riuscii proprio a trattenermi quando vidi il colletto della sua camicia rivolto all'insù. Mi avvicinai decisa, senza pensare, allungai le mani e lo sistemai, approfittando della vicinanza anche per tirare il bordo della giacca gessata che indossava con piccoli gesti decisi. Purtroppo per me, feci lo sbaglio di alzare lo sguardo e incrociare il suo prima di essere a distanza di sicurezza.
Gli occhi mi caddero involontariamente sulla sua bocca, a pochi centimetri dalla mia. Sembrava che una forza magnetica mi attirasse verso di lui, tentandomi a baciarlo.
NO.
Fermi tutti un attimo.
Avevo pensato sul serio alla possibilità di baciarlo, lì, in pubblico, davanti a tutti, io che evitavo qualsiasi relazione che portasse a quello
Annabeth, frena un attimo.
Non potevo farlo. Per nessun motivo al mondo le mie labbra dovevano toccare le sue perché ero sicura che, se lo avessi fatto, le conseguenze sarebbero state troppo pesanti da sopportare. Era già grave che lui mi piacesse, che provassi qualcosa nei suoi confronti. Non potevo anche baciarlo, non se quello significava venire meno all'accordo che avevo preso con me stessa: non permettere a niente e nessuno di ferirti di nuovo, anche a costo di vivere una vita insoddisfacente.
E, nel momento in cui le nostre labbra si fossero unite, le cose sarebbero cambiate per forza. Non potevo permettere che accadesse: la situazione attuale era già abbastanza critica, una minima variazione avrebbe portato a qualcosa cui non volevo nemmeno dare un nome.
Così deglutii, allontanandomi impacciatamente da lui, rischiando quasi di inciampare e cadere a terra, sempre a causa di quelle maledette scarpe.
Probabilmente me l'ero solo immaginato, ma mi sembrò di scorgere una nota di delusione nello sguardo di Percy, mentre mettevo una distanza di sicurezza tra il suo corpo e il mio, a scanso di equivoci. In qualsiasi caso mi schiarii la voce, facendo un cenno con la testa verso la villa.
-Andiamo?-
Percy piegò un braccio, offrendomelo e io fui felice di prenderlo a braccetto, mentre puntavamo all'entrata dove sostavano solo due persone, impegnate in una conversazione a bassa voce. Evidentemente la festa era già iniziata all'interno perché il piazzale si era svuotato in poco tempo.
Salimmo i dieci gradini di marmo bianco, coperti da uno spesso tappeto nero, che portavano al portone aperto senza fretta e ci fermammo sulla soglia, sbirciando all'interno.
Davanti a noi si allungava un corridoio relativamente sobrio, in quanto gli unici oggetti di arredamento erano una decina di busti bianchi posti sui lati e la continuazione del tappeto nero che copriva le scale. Persino le luci dei due lampadari erano tenue, come se qualcuno avesse voluto creare un'atmosfera di mistero.
In qualsiasi caso, da appassionata e studiosa di architettura quale ero, non potei fare a meno di apprezzare nel profondo quell'ambientazione. 
Dovetti ricredermi quando, percorso quel corridoio a braccetto, sbucammo nella sala del ricevimento. Uno stretto patio si ramificava in due scale di marco, ricurve verso l'interno mano a mano che scendevano, per tornare a pochi metri di distanza uno dall'altro. 
Ma non era quello a stupire: il salone era un immenso spazio quadrato, ricoperto di piastrelle in granito. Cinque vetrate per parete si innalzavano fin quasi al soffitto, coperte da grandi tendoni scuri, quasi a ricreare una sorta di palazzo reale.
Sui lati erano posizionati dei tavoli, su cui erano posate le pietanze, e delle sedie per chiunque si volesse sedere.
Nel semicerchio rialzato da una pedana in legno, sedevano sei violinisti, ingaggiati per animare la serata. Io amavo la musica dal vivo.
La cosa che apprezzai di più fu il giardino esterno, cui si accedeva grazie ad un portone parallelo alle scale. Dalla mia posizione potevo vedere una grande fontana posta al centro del giardino.
Il fiato mi si bloccò in bocca: non avevo mai visto un posto così bello. Quello era il sogno segreto di ogni architetto. Era come essere catapultata in una favola dei fratelli Grimm, di cui io ero la protagonista che indossava il vestito più bello. Una sorta di Cenerentola californiana, con la differenza che il principe era al mio fianco e non c'era nessuna matrigna o sorellastra a minacciare la mia felicità. Solo la mia coscienza.
Le persone, tutte vestite elegantemente, erano sparse per tutto il salone, raccolte in piccoli gruppetti. 
-Si va in scena.- sentii mormorare Percy prima di scendere il primo gradino della scalinata di destra. Io mi limitai a sorridere e stringere leggermente il suo braccio, per rassicurarlo.
Avevo un po' di timore che qualcuno si girasse a guardarci, e notando che eravamo dei completi estranei in quel mondo di ricconi, denunciasse la nostra presenza a qualcuno, mettendo fine alla serata ancora prima che iniziasse.
Quindi fui molto sollevata nel constatare che passammo completamente inosservati agli occhi dei vari invitati per gran parte del tempo in cui sostammo ai lati della sala. Io e Percy avevamo deciso di tenere un profilo basso finché suo padre, che passava da una conversazione all'altra, non sarebbe stato da solo. Il piano consisteva semplicemente nel fare gli invitati a proprio agio, mischiandoci alla gente con discrezione e nonchalance. In seguito Percy avrebbe cercato di parlare con lui.
Dopo appena mezzora percepii i morsi della fame attanagliarmi lo stomaco, così chiesi a Percy se poteva andare a prendere qualche stuzzichino, evitando il più possibile gli alcolici. Non reggevo molto bene l'alcol e non mi piaceva bere.
Mentre lui si allontanava, districandosi tra la folla in direzione della parete opposta, alzai lo sguardo al soffitto, accorgendomi solo in quel momento del magnifico lampadario che illuminava la stanza.
Per un'appassionata di architettura, quello era un caso esemplare di colori e forme. La struttura di ottone si allargava dal basamento, formando una sorta di campana rovesciata. Ma il metallo non si vedeva nemmeno da tanti cristalli lo coprivano, come degli strass che riflettevano la luce, creando un effetto “pioggia” al centro della sala.
Ero rimasta incantata dal lampadario così sussultai quando una mano delicata si posò sul mio braccio. Voltai il capo con un gesto fulmineo, per posare il capo sulla donna più bella che avessi mai visto.
Non era seducente, no, la sua era una bellezza eterea, classica, di quelle che ti obbligavano a voltare la testa ogni volta che entrava in una stanza. Sembrava brillare di luce propria, come il sole, solo più modestamente. Forse anche grazie agli incredibili occhi azzurri incorniciati da lunghe ciglia folte, che catturavano lo sguardo. La bellezza non stava solo nei lineamenti delicati, proporzionati, ma sopratutto nel portamento. Con il mento alto, un sorriso gentile e la sicurezza che sprizzata da tutti i pori, quella era senza dubbio una donna importante. Tutto in lei, dal vestito lungo di seta alla collana di perle, suggeriva di portarle rispetto.
Quello che mi stupì di più fu vedere che, malgrado alcune righe le segnassero il volto, le portava con fierezza, come una medaglia per tutti gli anni trascorsi. Questi piccoli segni di orgoglio la facevano sembrare più umana, e permettevano di darle un'età approssimativa. Doveva essere circa una coscritta di mio padre.
-Oh cielo, scusami tanto.- disse sinceramente dispiaciuta, stringendo leggermente la mano sul mio braccio. - Ti ho scambiato per un'altra persona.-
Mi riscossi dallo stato di trance in cui ero caduta, vergognandomi profondamente di me stessa per averla squadrata da capo ai piedi.
-Non si preoccupi. Non c'è problema.- balbettai, arrossendo e cercando qualcosa da dire per mascherare la mia figura. -Stavo solo ammirando il magnifico lampadario della sala. È forse la cosa più bella che abbia mai visto.-
Incredibilmente i suoi occhi e il sorriso delicato si illuminarono con maggior enfasi.
-Finalmente una persona che la pensa come me! Pensavo di essere la sola ad apprezzare una simile perla di bellezza. Sai, mio marito non era molto convinto della location, ma quando ho visto la sala ho insistito tanto perché la festa si svolgesse qui.- disse sprizzando gioia. -Ah, è dammi del tu cara. Io sono Anfitrite, piacere di conoscerti.-
-Annabeth Chase, piacere mio.- risposti a mia volta, stringendo la mano che mi porgeva Anfitrite. Dalla stretta di mano si riusciva a capire un sacco di cose di una persona, e non mi stupii quando Anfitrite strinse con decisione ma allo stesso tempo delicatezza la mia mano. Come avevo pensato prima, era senza dubbio una donna non indifferente.
-Allora, Annabeth, sei qui da sola oppure il tuo cavaliere ti ha abbandonato?- chiese, facendomi capire che stava scherzando con un sorrisetto condiscendente, per niente fuori posto sul suo volto.
Sorrisi a mia volta, accennando al tavolo del cibo. -Ebbene sì, il mio cavaliere mi ha abbandonato. Sai come si dice, allo stomaco non si comanda.- Anfitrite rise con gusto, portandosi una mano alla bocca. Incredibile, riusciva a ridere anche con classe. -In realtà dovrebbe tornare a momenti. L'ho mandato io a prendere qualcosa. Si può dire che l'ho reso il mio schiavo.-
-Cara mia, hai capito tutto della vita. Gli uomini hanno bisogno di qualcuno che li comandi a bacchetta, altrimenti vagherebbero come anime perse.- commentò lei, facendomi l'occhiolino. 
-Allora Annabeth, di cosa ti occupi?- domandò Anfitrite, con un sorriso gentile. 
Ora, ero perfettamente consapevole che quella domanda era come una mina vangante. Se rispondevo bene, non ci sarebbe stato alcun problema, ma se invece avessi sbagliato, la serata sarebbe finita con me e Percy buttati fuori a calci.
Sapevo anche che il mio non era un lavoro di cui vantarsi, non ad un gala con personaggi importanti e di alto rilievo, ma andavo veramente fiera di quello che facevo, sopratutto perché adoravo quei bambini. Così non me la sentii proprio di mentire. Ero in grado di gestire una conversazione senza creare danno.
-Faccio parte di un ente benefico che si occupa di istruire i bambini dei paesi poveri, i quali non hanno la possibilità di andare a scuola.- dissi senza esitare. E quella sembrò la risposta giusta da dare perché, ancora una volta, gli occhi di Anfitrite di illuminarono, mentre un con un sorriso caloroso accoglieva la mia affermazione.
-Che sorpresa! Sai, anch'io mi occupo di alcune associazioni nel tempo libero, ma sicuramente non è nulla paragonato a quello che fai tu.- poi si chinò leggermente verso di me, abbassando la voce. -Detto tra noi, questa gente è a capo di grandi aziende che non si fanno scrupolo nello sfruttare i poveri. Eppure, stasera, sono qui per donare qualcosa. Questa, mia cara, è tutta una messinscena per mantenere la facciata di brave persone.-
Stranamente quello che disse non mi sorprese affatto. Bastava guardarsi attorno per vedere i soldi sbucare dalle tasche delle giacche su misura che indossavano gli uomini, e gli orecchini o le collane delle donne. E non era assurdo il fatto che partecipassero ad un galà di beneficienza solo per non sembrare avari, cosa che in effetti era vera.
-E dimmi, da dove vieni?- continuò Anfitrite, raddrizzando la schiena e riacquistando il suo portamento.
-New York.- risposi senza esitazione, come avevo fatto in precedenza. 
La donna annuì, come se la mia risposta le fosse servita solo per confermare un'ipotesi. 
-Annabeth ti ho preso alcune tartine. Spero vadano bene ugualmente.- disse Percy, comparendo alla mia destra con lo sguardo posato sul piatto che teneva in mano.
-Oh, grazie mille!- gli sorrisi grata, mentre lui alzava lo sguardo su di me. -Anfitrite, questo è il mio accompagnatore, Percy.- dissi poi, rivolta alla donna che allungò la mano in direzione di Testa d'Alghe. 
Vidi al rallentatore Percy spostare gli occhi dal mio viso a quello di Anfitrite, e il suo sorriso morire lentamente, come se qualcuno l'avesse messo sotto il getto dell'acqua fredda.
Anfitrie, però, non sembrò notare alcun cambiamento in Percy perché il suo sorriso rimane imperturbato mentre si stringevano la mano.
-È veramente un piacere conoscerti.- disse.
Percy serrò le labbra, stirandole in un sorriso finto come i miei orecchini di diamante, mentre annuiva lentamente. Non mi sfuggì il fatto che non aveva risposto a quell'ultima affermazione di Anfitrite. 
Davanti a me sembrava esserci una persona diversa da quella che mi aveva portato il piatto di tartine solo un minuto prima. Che diavolo gli era preso?
-Sarà meglio che io torni da mio marito. Dio non voglia che pensi che sia sparita. Sa benissimo che odio tutta questa gente con la puzza sotto il naso, e veramente non riuscivo proprio a sopportare di stare un minuto di più in compagnia della signora Popires. Credi a me, Annabeth, quella donna è un'arpia dell'Inferno.- disse strizzandomi nuovamente l'occhio. -Buona serata, miei cari. Se non dovessimo più incontrarci, Annabeth, ti auguro una buona continuazione.- mi prese una mano tra le sue e la strinse con calore.
-È stato un piacere incontrarti, Percy.- aggiunse, sorridendogli, per poi voltarsi e andarsene, mentre la folla si apriva magicamente per farla passare.
Doveva per forza essere una fata, perché ero certa che non esistessero creature del genere sulla terra.
-Annabeth, sai chi era quella donna?- ero così concentrata sul guardare Anfitrite allontanarsi che quella domanda mi colse completamente alla sprovvista.
-Come, scusa?-
Percy sospirò leggermente, ma sul suo volto persisteva quello sguardo duro che avevo visto pochi secondi prima, con la differenza che il sorriso finto era sparito, sostituito da un'espressione grave.
-Ho detto, sai chi era quella donna?-
Inclinai la testa, aggrottando la fronte. Perché mi faceva quella domanda? Che avesse paura di essere denunciato da Anfitrite?
-Ehm... credo di sì. Si chiama Anfitrite ed è la moglie del...-
Oh. Mio. Dio.
Ma quanto ero stupida? Come diavolo facevo ad essere così ignorante? Eppure il cervello ce l'avevo, e di solito lo usavo anche bene. 
Perché, perché mi ero fatta sfuggire quel particolare così importante?
-... dell'organizzatore del gala.- conclusi in un bisbiglio. Non fu necessario che Percy annuisse; ricordavo benissimo quando Anfitrite me lo aveva detto, solo pochi minuti prima.
-Quindi quella era la moglie di tuo padre?- domandai senza bisogno di una risposta. Mi sentivo immensamente in colpa, anche in assenza di un motivo preciso. Era come se, parlando con quella donna, avessi tradito Percy.
Capivo perfettamente perché fosse rimasto in silenzio quando l'aveva vista. Non doveva essere stato facile trovarsela davanti agli occhi, senza preavviso. 
Provai un dispiacere così grande per tutta quella situazione che allungai una mano, per appoggiarla sul braccio di Percy.
-Va tutto bene?- domandai, mentre lui teneva gli occhi su un punto indefinito alle mie spalle. Mi voltai, seguendo il suo sguardo, e vidi la fotocopia invecchiata di Percy.
Poseidone. E al suo fianco, Anfitrite.
Non ebbi il tempo di metabolizzare la cosa perché, all'improvviso, venni presa per un braccio e trascinata verso il centro della stanza, dove erano appena state aperte le danze.
Cercai di stare dietro a Percy, evitando di non inciampare nei tacchi, e non mento quando dico che fu una delle imprese più ardue della mia vita. Quelle zavorre dovevano essere proibite dalla legge della moda.
-Balla con me, ti prego.- implorò Percy, fermi in mezzo alla sala.
Lo guardai, sorpresa da quella richiesta, e confusa dal repentino cambio di argomento. Quel ragazzo aveva appena visto sua padre, e la matrigna, per la prima volta nella sua vita, e cosa si metteva a fare? Mi trascinava in pista per ballare.
Incrociai il suo sguardo, e vi lessi una determinazione che mi spiazzò. Non capivo affatto cosa gli passasse dalla testa, ma decisi di assecondarlo.
Così, quando mi porse una mano, io allungai la sinistra, e appoggiai con delicatezza la destra sulla sua spalla, come se fosse cristallo. Mi cinse la vita con un braccio, tirandomi a sé con un'impeto maggiore di quello necessario. 
Sussultai, spiazzata dalla troppa vicinanza tra i nostri corpi. A ogni respiro, il mio petto toccava il suo, ma stranamente, per la prima volta quella sera, non provai imbarazzo o vergogna per la scollatura del vestito. Quel contatto mi faceva sentire strana, ma era piacevole.
Alzai lo sguardo e incontrai i suoi occhi che mi stavano osservando intensamente nel profondo. Percy sembrava leggermi nella testa, come se fossi stata un libro aperto. Temevo seriamente che percepisse tutte le sensazioni che provavo, perché ce n'erano così tante che probabilmente stavano traboccando dai miei occhi. Ansia, agitazione, paura, emozione, felicità, confusione... i miei sentimenti per Percy sembravano essersi amplificati nel giro di pochi istanti, con il solo contatto dei nostri corpi.
Non so quando, e non so come, ma ad un certo punto cominciammo a danzare. Un passo dopo l'altro, muovendoci in sincronia, ci districammo tra le altre coppie, seguendo il ritmo della musica. Io me l'ero sempre cavata un po' con la danza, ma non pensavo che anche Percy fosse così bravo.
-Dove hai imparato a ballare?- gli domandai, sorpresa.
Lui fece un piccolo ghigno, alzando le spalle con nonchalance. -Sai com'è. Io sono bravo in tutto.-
Risi leggermente, sicura che stesse scherzando. -Sì, certo. E io sono la regina Elisabetta.-
-Ah, e non è così?-
Gli diedi un piccolo pizzicotto sulla spalla. -Deficiente. No, sul serio, dove hai imparato?-
-Mia mamma ripeteva sempre che un uomo, per essere tale, doveva essere in grado di guidare la sua dama nelle danze. Così, da piccolo, quando ancora vivevo in quel mondo di innocenza infantile, mi costrinse a prendere lezioni di ballo.-
-Sai, sono sempre più curiosa di conoscere tua madre. Quella donna sta diventano pian piano il mio mito.- dissi, pensando che Sally Jackson fosse davvero una grande donna.
Continuammo a danzare per la sala, con il mio vestito che si gonfiava a causa del vento, e la sensazione di essere completamente protetta e al sicuro tra le braccia di Percy.
Mi cingeva con delicatezza la vita, ma allo stesso tempo con forza e sicurezza. 
Ad un certo punto smisi di vedere la gente intorno a noi, e diventammo le uniche persone presenti nella sala. Persino i musicisti erano scomparsi, e gli strumenti avevano preso a suonare in completa autonomia.
Esistevano solo gli occhi di Percy, le braccia di Percy, le fossette di Percy, le labbra di Percy. Esisteva solo lui, lui e basta.
Poi la musica finì e, pian piano, fui costretta a tornare alla realtà. Sbattei le palpebre, guardandomi attorno per constatare che nessuno si era accorto di noi due e del nostro momento surreale.
-Annabeth?-chiamò Percy, mentre la musica cambiava ritmo, diventando più lenta.
Alzai gli occhi, guardandolo in faccia. C'era qualcosa...
-Stasera sei bellissima.- mormorò, con un sorriso leggero.
Come diavolo doveva reagire una donna sentendosi dire che è bellissima dall'uomo che le piace segretamente, ma che vorrebbe non provare niente?
Sinceramente non ne ho idea, so solo quello che feci io, ovvero rimanere a bocca aperta come una sardina per un'eternità, per poi arrossire e cominciare a balbettare ringraziamenti senza alcuna possibilità di controllare la voce.
I miei occhi vennero attirati sulla parte inferiore del suo volto, a pochi centimetri dal mio. C'era la sua bocca, e c'era la mia bocca. E se non fosse stato per ciò che accadde dopo, probabilmente, avrei ceduto alla parte di me capeggiata dal cuore, e ci saremmo baciati.

Fu un attimo, un battito di ciglia, una pausa troppo lunga tra i miei occhi e i suoi. Con uno sguardo fugace, di cui me ne accorsi a malapena da tanto che ero concentrata sulle sue labbra, Percy colse qualcosa che attirò la sua attenzione.
E così un momento prima ero tra le sue braccia, protesa verso il suo volto, e il momento mi aveva presa per mano, costringendomi a tornare nell'angolino in cui eravamo rimasti tutta la sera, prima della comparsa di Anfirtrite.
-Annabeth, è arrivato il momento. Ho visto Poseidone uscire fuori, da solo.- disse, parlando velocemente. Mi accorsi che era nervoso, grazie al fatto che continuava a stringere la collana a forma di tridente, che rappresentava la sua famiglia d'origine. -Devo andare. Ricordi quello che ti ho detto?- mi chiese, con lo sguardo puntato verso il giardino esterno.
Annuii. 
-Io gli parlo, mentre tu raggiungi l'entrata. Se tutto va bene ti vengo a prendere non appena mi è possibile. Se invece va male...-
Gli appoggiai una mano sulla guancia. -Ehi, Percy, guardami.- 
Si morse il labbro, ma incrociò i miei occhi.
-Andrà bene. Okay? Andrà. Tutto. Bene.- dissi, scandendo bene le parole, per cercare di convincere lui, ma anche me stessa. Doveva andare bene, per forza.
Non so cosa accadde, ma Percy cambiò completamente atteggiamento. Smise di tormentare la collana, raddrizzò la giacca, e accennò un sorrisetto.
-Okay.- e prima che mi potessi muovere, lui si avvicinò e mi posò un bacio sulla guancia. -Ci vediamo tra poco.- poi se ne andò.
Probabilmente rimasi lì, immobile come uno stoccafisso per parecchio tempo. Probabilmente il mio cervello aveva cominciato a regredire, rendendo i cefalopodi molto più reattivi di me. Probabilmente le persone nella sala si fermarono a guardarmi, tirando fuori il cellulare e fotografandomi come si immortala un fenomeno da baraccone.
Percy mi aveva appena baciato sulla guancia. Sì, certo, lo aveva già fatto quando pensava che stessi dormendo qualche settimana prima. Ma ora ero sveglia e cosciente.
Ed eravamo in pubblico.
Una vocina tenue nelle mia testa si fece largo a gomitate tra tutti gli altri pensieri che riguardavano Percy, assumendo il controllo delle mie azioni e decidendo che quello non era il momento giusto per rimuginare sull'accaduto. Dovevo raggiungere il portone d'entrata al più presto. Avrei avuto tutto il tempo del mondo per rivivere la serata quando fossi stata nel mio letto.  
Con passo spedito mi feci largo tra la folla, evitando la maggior parte dei contatti con le persone: ero una persona diversa rispetto a qualche mese prima, ma il contatto fisico con gli estranei mi dava ancora fastidio, creandomi disagio. Meglio limitare al minimo ogni vicinanza.  
Salii le scale e quasi rischiai di cadere sul penultimo gradino, sempre a causa di quelle stupide scarpe. Grazie al cielo ebbi il buon senso di aggrapparmi alla balconata.
Sospirai, fermandomi nello stesso punto in cui io e Percy avevamo osservato il salone appena arrivati. Cercai di imprimere ogni singolo particolare nella mente, perché, probabilmente, non avrei mai più vissuto un'esperienza del genere e prima di voltarmi, promisi a me stessa di costruire un'edificio simile, un giorno.
Nel profondo sentivo che qualcosa era cambiato.


 
***


Il conto alla rovescia verso la distruzione del mondo in cui ero vissuta in quegli ultimi due anni iniziò con Percy che mi correva in contro, urlando il mio nome.
10...
Capii ciò che mi stava dicendo un attimo prima che le sue parole mi raggiungessero.
-Corri, Annabeth. Corri!-
Se volevo arrivare in fondo alle scale ancora con la spina dorsale integra dovevo, innanzitutto, togliere le scarpe, e così feci. Le presi in una mano, mentre con l'altra raccoglievo la coda del vestito, e mi lancia giù per i gradini, con il cuore che mi batteva forte nel petto.

9...
-Veloce, veloce, veloce!- Percy mi affiancò pochi gradini dopo, appoggiando una mano alla base della mia schiena. Io avevo già il fiatone.
-Che sta succedendo?- ansimai, mantenendo gli occhi puntati suoi gradini. -È andata male?- e, per quanto questo mi rattristasse, sapevo che era così.
-Quel figlio di puttana ha chiamato la sicurezza. Se non ce ne andiamo subito finiamo male...- disse Percy, con una rabbia nella voce così radicata da sembrare quasi odio.

8...
I sassolini dello sterrato erano molto fastidiosi, visto che li stavo calpestando a piedi nudi. Strano ma, per quanto potessi essere sensibile, non me ne accorsi. Ero così concentrata sul tenere il passo di Percy senza cadere per forza con la faccia a terra, che il mio unico pensiero fu arrivare alla macchina.
La brava ragazza che era dentro di me, sapeva bene che farsi arrestare dalla sicurezza brasiliana non era proprio il massimo per la carriera. Che esempio avremmo dato ai nostri bambini se entrambi fossimo stati incarcerati?
Okay, mi dovevo calmare. Era inutile immaginare alle conseguenze di situazioni assai improbabili, senza che prima non fossero realmente accadute.
Quando, attraverso il prato curato a doc, finalmente raggiungemmo l'auto, ci fiondammo al suo interno e, non appena Percy riusci ad inserire la chiave nell'accensione, partimmo sgommando, con la portiera ancora parzialmente aperta.

7...
Nell'auto regnava sovrano il silenzio, spezzato solo dal rumore del motore che andava su di giri e nient'altro. Percy schiacciava sull'acceleratore come se stesse spremendo l'uva ma, quando vedemmo arrivare dalla direzione opposta l'auto della vigilanza di Rio, cambiò bruscamente pedale, tornando nei limiti di velocità consentita. Sarebbe davvero stato stupido farci beccare dopo essere riusciti a filarcela senza troppi problemi dalla festa.
Ero consapevole che l'auto ci avrebbe superato senza ulteriori indugi, ma all'accorciarsi dei metri di distanza il mio cuore aumentava di velocità, e continuò così finché le luci non furono alle nostre spalle.
Eravamo scappati dal covo del titano.

6...
Poi ritornò il silenzio e io non seppi dove posare gli occhi. Avevo paura di guardare Percy perché sentivo che stava vivendo un'esperienza personale molto forte. Temevo di guardarlo perché, se lo avessi fatto, molto probabilmente avrei cominciato a dire quanto mi dispiacesse per lui e sapevo con certezza che non era ciò di cui aveva bisogno.
Per quanto fossero due situazioni diverse, non potei evitare di ricordare quanto odiassi la gente che mi guardava con pietà dopo aver saputo quello che avevo subito.
Così strinsi la presa sulle scarpe, che ancora tenevo in mano, e chiusi gli occhi.

5...
Impiegò esattamente un secondo a spegnere l'auto e a scendere, sbattendo la portiera. Non si preoccupò nemmeno di togliere le chiavi dall'accensione.
Speravo almeno in una sua parola, un verso, un'esclamazione.
-Percy...- cercai di chiamarlo inutilmente. Rapidamente fece il girò della macchina, con la giacca sbottonava che si allargava sul suo petto, come un mantello. Se ne andò, di schiena, dentro la casa, inghiottito dall'oscurità dell'ingresso.

4...
Mi concessi solo un momento per chiudere gli occhi e sospirare leggermente, poi, armata di tutta la terminazione e il coraggio in mio possesso, uscii anch'io dalla macchina. 
Corsi alla porta, lasciando cadere da qualche parte sul mio cammino le scarpe. Speravo che, il mattino dopo, fossero scomparse.
Mi bloccai sull'uscio d'entrata, non sapendo bene il motivo per cui, tutto ad un tratto mi sentissi così agitata. Dovevo solo trovare Percy e accertarmi che stesse bene. Sapevo che voleva stare da solo, ma preferivo prima controllare il suo stato d'animo. 
La casa era più silenziosa della macchina. Chintia e Grover dovevano essere già a letto, il gatto era sicuramente nella camera di Chintia, e le luci erano tutte spente.
Se non fosse stato per il ticchettio costante dell'orologio a pendolo avrei pensato che la casa fosse abbandonata.
Attraversai il corridoio e voltai a destra, in direzione delle scale, mentre il pavimento scricchiolava sotto i miei piedi. Prima di salire il primo gradino voltai il capo a sinistra, verso l'orologio in cucina.
Era quasi mezzanotte e Percy era vicino.

3...
Sapevo dov'era senza bisogno di guardare nelle altre stanze.
Uno, due, tre, quattro... un gradino dopo l'altro, gira a destra e troverai il tesoro.
E il tesoro lo trovai veramente. Non era un indaco, non era un diamante, non era uno zaffiro, però brillava al pari di tutti i gioielli esistenti. Per me era così.
Appoggiato alla ringhiera del balcone, con la camicia chiara e i capelli al vento, Percy era un essere etereo, unico nel suo genere. 
La porta finestra era leggermente aperta, ma non mi mossi perché quell'immagine mi portò indietro di qualche settimana, alla prima volta in cui io e Percy avevamo parlato veramente, senza frecciatine e commenti mirati ad offenderci l'un l'altro. Era lo stesso posto dove Percy mi aveva raccontato del padre, e io di mia madre. 
Forse era iniziato tutto lì. Forse il processo che mi aveva portato all'innamorarmi di quel ragazzo dagli occhi verdi era cominciato dalla stretta di mano. L'unica cosa di cui ero certa coincideva con l'unica cosa che avevo cercato di non aspettare
Amavo Percy con tutto il cuore.
Presi un bel respiro e mi decisi ad uscire da quella porta. Sapevo che lui mi aveva sentito arrivare anche se non si mosse, così mi misi al suo fianco, appoggiando una mano sulla sua. In automatico, come una macchina ben oliata, girò la mano, offrendomi il palmo, e le nostre dita si intrecciarono.
E poi attesi, sapendo che, quando sarebbe stato pronto, avrebbe parlato.

2...
-Gli ho detto chi ero. Gli ho detto che ero suo figlio.- mormorò. -L'ho colto un po' di sorpresa, ma non sembrava poi così spiazzato perché sapeva della mia esistenza. Sai qual'è stata la prima cosa che mi ha detto?-
Mossi il pollice, accarezzandogli il dorso della mano.
-Mi ha chiesto cosa volevo da lui, se mi servivano soldi. Sono passati venti anni e la prima cosa mi dice è se ho bisogno di soldi. Non so cosa mi aspettassi. Certamente non che mi accogliesse a braccia aperte. Fino a ieri pensavo solo alle domande che gli avrei fatto, magari a qualche scusa. Ma non quello.
-Così mi sono arrabbiato. Molto. Ho cominciato ad urlare, accusandolo di aver abbandonato mia madre e di essere un bastardo senza cuore. Ripensandoci, probabilmente non saremmo stati cacciati se non avessi urlato così tanto. Poi, va beh, ha chiamato la sicurezza e sono scappato.-
-Oh, Percy...- non sapevo cosa dire, così continuai a tenerlo per mano e ad aspettare, perché sapevo che non era finita lì.
Finalmente si voltò, piantandomi quei suoi occhi così verdi sul viso. Le sue magnifiche fossette era scomparse, come inghiottite da tutta la rabbia che gli leggevo in volto.
-C'è stato un momento, prima che prendesse il telefono per chiamare, dopo che gli avevo dato del bastardo, in cui mi ha guardato con pietà, come se fossi stato un povero cucciolo smarrito sotto la pioggia. Poi mi ha chiesto di scusarmi per avergli dato del bastardo.- tolse improvvisamente la mia mano dalla sua, e cominciò a camminare avanti e indietro lungo la balconata, gesticolando.
-Lui, che ci ha abbandonato senza una parola, un frase, ha avuto il coraggio di chiedere a me di scusarmi! Come faccio ad essere suo figlio? Come ha fatto mia madre a fidarsi di lui? PERCHÉ MIA MADRE NON LO INCOLPA?!- stava divagando. 
Davanti ai miei occhi vedevo il ragazzo che amavo soffrire per una persona che l'aveva abbandonato, e io non sapevo cosa fare. Volevo con tutta me stessa farmi carico di tutta la tristezza che lo attanagliava. 
Lo volevo guarire perché non meritava tutta quella merda. Lo volevo guarire perché era una persona d'oro, gentile e altruista. Lo volevo guarire perché era migliore di me.
Lo volevo guarire perché lo amavo come non avevo mai amato nessun'altro, e nulla avrebbe cambiato questo.

1...
Fu un attimo, un secondo.
Lui si fermò di fronte a me, guardando ovunque tratte nella mia direzione, continuando a dimenare le mani e ad urlare contro Poseidone.
Aveva i capelli scompigliati, gli occhi che brillavano, il pomo d'Adamo che andava su e giù. Era l'uomo più bello che avessi mai visto.
Qualcosa crebbe dentro di me, una sensazione che nasceva dal petto e si irradiava in tutto il corpo velocemente. Dovevo fare qualcosa per calmarlo.
Fu un attimo, un secondo.
Gli presi il volto tra le mani e lo baciai.










Angolo Autrice:
Vi prego, ditemi che state sclerando anche voi, perché io l'ho fatto quando ho finito di scrivere questo capitolo *^*
Credo che tutti stavate aspettando questo momento da 15 capitoli, non è così? u.u La vera domanda è: ve lo aspettavate? Per quel che riguarda me, vi dico che questo bacio era previsto sin dall'inizio, quindi la storia sta procedendo secondo i piani *^*
Giusto perché lo sappiate: ho in serbo per voi ancora molte sorprese *risatamalvagia* quindi PREPARATEVI PSICOLOGICAMENTE E EMOTIVAMENTE.
Ora, questo bacio non vuol affatto dire che i Percabeth vivano felici e contenti per il resto della storia, anzi. Dovrete avere pazienza ancora per un po'.
Okay, credo di aver detto abbastanza.
RINGRAZIO con tutto il cuore chi ha recensito (sopratutto), preferito, ricordato, seguito questa storia. Sappiate che
VI AMO con tutta l'anima. Cercherò di rispondere a tutte le recensioni arretrate il prima possibile, promesso ^.^
Bene, credo di aver detto tutto. Come sempre sono aperta a tutti coloro che mi vogliono scrivere/ fare domande. Adoro farmi nuovi amici *.* Non siate timidi: uscite allo scoperto :')
Okay, basta.
Un bacione grandissimo a tutti <3
Annie


EDIT: Giusto oggi ho indetto un contest sul forum di EFP. Si intitola "Per il potere conferitomi, vi dichiaro marito e..." e ovviamente tratta di matrimoni! Se volete partecipare, sarei ben felice di accettarvi ^^

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Capitolo 18
*** Capitolo 17 ***


Disclaimer:
'Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di Rick Riordan; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro'.


Capitolo 17


Rio de Janeiro, la stessa sera


Annabeth


La mia testa era come una scatola ermeticamente vuota. Probabilmente il cervello aveva preso, fatto i bagagli e s'era trasferito in una scatola cranica più agevole e accogliente. Eppure, malgrado la mia momentanea deficienza, una pensiero mi attraversò la mente, per mettere radici e decidere di assillarmi finché non fossi rinvenuta dallo stato catatonico in cui ero.
Percy aveva delle labbra morbidissime. Forse le più morbidi di tutto il mondo.
Nel momento stesso in cui i nostri corpi entrarono in contatto intimamente, quello fu il mio unico, costante e assillante pensiero. Ovviamente in seguito ce ne furono molti altri.
Fu l'esperienza più ultraterrena della mia vita, come se la mia anima di fosse separa dal corpo, per assistere dall'esterno. La carne, la fame, il desiderio rubarono il timone delle mie azioni.
All'inizio, forse a causa dell'effetto sorpresa che aveva preso in contropiede sia lui che la sottoscritta, tutto fu calmo e delicato. Era solo un contatto di labbra, le mie sulle sue, le sue sulle mie. Tenni gli occhi ostentatamente chiusi e questo mi permise di sentire le prime ondate di emozioni, senza però riuscire a distinguerle. 
Probabilmente durò pochi secondi, il tempo necessario perché prendessimo coscienza della situazione ma, ovviamente, a me sembrarono millenni. Un nulla in confronto al dopo.
Percepii il cambiamento nell'immediato, come se le nostre menti si fossero attivate nello stesso istante, lasciando libero arbitrio all'istinto. 
Percy schiuse le labbra, io aprii le mie e tutto fu un incrocio di lingue e uno scambio di saliva. Sì, perché c'era anche quella. Ma, logicamente, non ci feci caso. Quello che importava era che fossimo noi due, lì, quella sera, sul terrazzo.
Percy ricambiò il mio bacio con più foga, reagendo alla sorpresa iniziale. Mi strinse a sé, avvolgendo un braccio intorno alla mia vita e appoggiandomi l'altra mano dietro la testa, alla base del collo, forse per paura che mi ritraessi. 
Non mi importava che fossimo in apnea da secoli e che i miei polmoni cominciassero a reclamare l'aria, perché mi sentivo viva e il mio corpo parlava da sé. 
Gli buttai le braccia al collo, per stringerlo a mia volta, e le mie mani si tuffarono nei suoi capelli, dove presero a giocare con le ciocche arruffate, attorcigliandole intorno alle dita. Lo desideravo fare da secoli e finalmente ne avevo l'occasione. 
Quando Percy spostò le labbra verso destra, creando una scia di piccoli baci fino all'incavo dietro all'orecchio, mi sfuggì un piccolo gemito involontario che cercai di mascherare. Ma, ovviamente, lui capì di aver toccato un punto sensibile perché prese a leccarlo e a morderlo delicatamente, toccando così tanti nervi che non riuscivo più a smettere di ansimare. Si spostò leggermente più in basso e appoggiò la bocca, succhiando poi con forza la pelle.
Oh, mio, Dio.
Il mio petto, ormai, si alzava e abbassava velocemente mentre stringevo la sua testa con più forza. Lo volevo più vicino, più vicino.
Quando finì di torturare quel punto riprese il suo cammino con le labbra, passando per la guancia, la tempia, la fronte e poi il naso, dove depositò un ultimo, piccolo bacio. Rimase così per qualche secondo, mentre il tempo ricominciava lentamente a scorrere.
Gli ultimi istanti li passammo fronte contro fronte, naso contro naso, fiato contro fiato. Cuore contro cuore. 
Poi aprii gli occhi, incontrai i suoi e fu la fine del nostro inizio


 
***


Impiegai qualche momento per ritornare in me, forse più del necessario. Fu un processo lento e graduale, come la marea: sale lentamente per coprire la superficie terrestre. 
Non potevo dire che tornare in me mi procurò gioia e felicità perché non era vero. Ero stata così bene, così libera di evacuare per qualche minuto dalla realtà e, sopratutto, dalla mia testa.
Ho baciato Percy, ho baciato Percy, ho baciato Percy
Ho. Baciato. Percy. Cazzo.
Non era solo la consapevolezza del mio gesto a congelarmi ma sopratutto le sensazioni che in precedenza non ero riuscita a identificare. 
Da una parte, a pietrificarmi, c'era l'adrenalina che mi scorreva in corpo, facendomi sentire viva e desiderando di rivivere ancora e ancora quell'esperienza. Dall'altra sorse anche l'imbarazzo e la vergogna per esser stata così sfrontata e impulsiva. Non era da me reagire in quel modo; io osservavo, pensavo, pianificavo, ragionavo. E poi agivo.
Le mani di Percy mi stringevano ancora a sé, una dietro la schiena, l'altra al collo. Pure le mie braccia erano sulle sue spalle, legate dietro la testa.
Qualcosa era cambiato ma non nel nostro corpo. Eravamo ancora fronte contro fronte, naso contro naso, fiato contro fiato. Io guardavo lui, lui guardava me e io temevo il momento in cui lui avrebbe aperto bocca perché, prima o dopo, qualcosa si sarebbe dovuto muore. Io non osavo nemmeno sbattere le palpebre.
Ti prego tienimi stretta così per tutta la vita.
Soppressi quel pensiero nell'angolo più buio del mio cervello, decidendo di fare la razionale e l'adulta. Poi Percy aprì la bocca, sbatté le palpebre, prese aria e...
Io andai nel panico. Letteralmente.
Nelle sue iridi, che nell'oscurità di quella notte parevano neri come la pece, lessi qualcosa di inaspettato. Sorpresa, confusione e qualcos'altro che non riconobbi. Ma le prime due emozioni bastarono: raccolsi le forze necessarie per riuscire muovermi e scappare, come un assassino che fugge dalla scena del crimine.
Bruscamente mi divincolai dalla sua stretta intorno al mio corpo, creando il varco necessario per raggiungere la porta finestra che dava sul balcone e andarmene il più lontano possibile da quel ragazzo. In quel momento mi bastava anche solo distanziarmi di pochi centimetri.
Necessitavo di aria urgentemente.
Ce l'avevo quasi fatta, il traguardo era di fronte a me ma, ovviamente, non avevo fatto i conti con l'oste. Passò un istante dal momento in cui Percy mi bloccò un braccio con la mano, costringendomi a voltarmi, e quello in cui i miei occhi erano di nuovo nei suoi.
Ora, però, non riuscivo più a sostenere il suo sguardo, così abbassai il capo, chiudendo gli le palpebre con forza. Non potevo sopportare di leggervi pietà e rammarico, non da Percy.
Io lo amavo ma lui non doveva saperlo. Lo facevo per il suo bene, e per il mio, sul serio.
-Lasciami!- probabilmente lo urlai con più isteria di quello che volevo ma sembrò funzionare perché, quando riprovai a liberare il braccio, ci riuscii senza troppo sforzo.
Ripresi la mia fuga, senza più guardarmi indietro.
-Annabeth, aspetta!-
Corri. Scostai bruscamente le tende della porta finestra per liberare il passaggio.
Corri. Non sapevo dove stessi andando ma mi fidavo dei miei piedi.
Corri. Entrai nella mia camera e chiudi la porta, a chiave.
Mettiti in salvo.
Mi appoggiai al legno della porta, con le gambe che faticavano a reggere il peso di tanto che tremavano. Inspiegabilmente avevo il fiatone e l'adrenalina aveva ripreso a scorrermi nelle vene, senza motivo apparente. Appoggiai l'orecchio alla porta e cercai di coprire il suono del mio fiato mascherando la bocca con la mano.
Nessun rumore dal corridoio: Percy aveva deciso di lasciarmi scappare sul serio e io non sapevo se esserne sollevata.
Cominciai a camminare per la stanza, lo sguardo che saettava da un punto all'altro senza mai fermarsi. L'acconciatura che avevo all'inizio della serata era ormai un lontano ricordo così, quando immersi le mani nei capelli in preda all'agitazione, nessun senso di colpa si aggiunse al carico di emozioni che stavo portando al momento. Quella posizione, assieme all'affanno, mi conferiva, senza dubbio, un'aria da pazza isterica. Probabilmente, pazza lo ero sul serio.
Fu allora che la mia mente riprese a funzionare attivamente, per mia sfortuna. Fu come se una diga fosse esplosa in seguito ad ordigni ben piazzati, gettando miliardi di litri d'acqua ovunque. Ecco, i miei pensieri erano come acqua: semplici e limpidi all'apparenza, ma pericolosi e tentatori nella realtà.
Il bacio non era arrivato dal nulla, ne ero consapevole; sarebbe stato troppo facile pensare il contrario. Per tutta la serata non avevo fatto altro che guardare le sue labbra ad intermittenza, desiderando ben tre volte di compiere quel gesto e annullare la distanza che c'era tra i nostri corpi. Ma nemmeno nei miei sogni più reconditi mi sarei immaginata di osare farlo sul serio.
Mai e poi mai.
Eppure ero stata proprio io la prima a muovermi, a prendere il suo viso tra le mani, ad avvicinarmi. A baciarlo.
Avevo fatto il primo passo, quello che, inevitabilmente, portava sempre alla rovina. In questo caso alla mia di rovina. Probabilmente ero impazzita. Sì, il mio cervello doveva essersi preso una vacanza dal suo lavoro di vecchio saggio che sperpera consigli razionali e giudiziosi. O, più probabilmente, e questo non andava affatto bene, i sentimenti che provavo per Percy, quelli che prendevano il controllo nei momenti in cui ero soggetta a debolezze da ragazza innamorata, stavano sfuggendo al mio controllo completamente.
Oddio.
Dove mi avrebbero portato se avessi deciso di lasciarmi andare? Perché, ero certa, che dopo il primo bacio ne venivano altrettanti, e altri baci portavano ad un contatto più intimo, e il contatto intimo portava sempre e solo a quello. Sesso
Sesso, sesso, sesso, sesso, sesso...
Chiusi gli occhi ostentatamente, fermandomi per un momento al centro della stanza, ancora  con le mani tra i capelli e la testa che scoppiava, di fronte al letto su cui era posato il mio cellulare.
Annabeth, Dio santo, fermati finché sei in tempo.
Presi un bel respiro, un grande respiro, desiderosa di far passare quella brutta sensazione che mi opprimeva il petto. Da quant'era che trattenevo il respiro?
Stavo in quella posizione, le spalle che si alzavano e abbassavano velocemente, assecondate dall'affanno e dalla necessità di aria nei polmoni. Per una sera ero andata in iperventilazione troppe volte.
La camera era avvolta nel più completo silenzio quindi, quando sentii distintamente dei passi fuori dalla porta, nel corridoio, mi premetti una mano sulla bocca. Quello era l'andamento di Percy, ne riconoscevo la cadenza. 
Percy.
Prima di poter fare qualcosa di avventato e stupido come spalancare la porta e buttarmi tra le sue braccia una seconda volta nel giro di poco tempo, mi appoggiai alla parete, scivolando a terra, con le gambe al petto e la testa incassata tra le ginocchia. Ero stupida, stupida, stupida. Ero pazza, pazza, pazza.
I passi si bloccarono e io temetti seriamente che lui decidesse di bussare perché, in quel momento, non ero sicura di essere abbastanza forte per oppormi a qualsiasi sua richiesta.
Pregai, pregai finché il mio cuore non raggiunse una velocità allarmante di battiti al secondo. Probabilmente, se Percy non se ne fosse andato subito dopo, avrei avuto un infarto. Ero troppo giovane per avere un infarto.
Però Percy lo fece, se ne andò e io ripresi a respirare.
Probabilmente il karma, quella sera, aveva deciso di avercela con me in tutti i sensi perché, un paio di secondi dopo, il mio cellulare cominciò a squillare, la suoneria al massimo. Alzai il capo di scatto: Percy doveva avermi sentito.
E se aveva sentito, probabilmente, sarebbe tornato sui suoi passi, bussando alla mia porta. Poi io sarei stata costretta ad aprire, mentre il telefono continuava a suonare, e me lo sarei travata davanti, con il suo sguardo dispiaciuto e la sua espressione che mi rifiutava.
No, no, no, no, no, no!
Con un gesto fulmineo mi alzai dal pavimento, inchiodando gli occhi su quel maledetto aggeggio rumoroso. Odiavo la tecnologia. Odiavo la tecnologia. Odiavo...
Presi il cellulare in mano e senza più pensare, con la razionalità inghiottita dalla pazzia, lo scagliai sulla parete opposta, con forza e rabbia. Perché sì, ero arrabbiata.
Furiosa con Piper che mi aveva chiamato, furiosa con Percy che mi aveva preso tra le sue  braccia, furiosa con il mondo che sembrava riservarmi le punizioni peggiori. E furiosa con me stessa, perché lasciavo che quella vita di merda mi distruggesse, prendendo il controllo delle mie scelte, delle mie emozioni, della mia felicità. Del mio cuore.
Il telefono cadde a terra, materia immobile, soggetta a forze esterne. Probabilmente l'avevo rotto: non mi importava. Volevo essere anch'io così: inerme, impotente, in modo da non dover commettere azioni sbagliate, rischiose, pericolose.
Ero un pericolo vivente, un pericolo per me stessa.
All'improvviso fu come se la pressione atmosferica intorno a me fosse aumentata di intensità perché mi sentivo oppressa, schiacciata. La testa mi scoppiava, il petto non riusciva ad incanalare abbastanza aria, le gambe erano bloccate. Dovevo liberarmi di quella sensazione, all'istante, altrimenti ne sarei rimasta soffocata.
Con la coda dell'occhio vidi il mio riflesso nello specchio a figura intera, alto, splendente. Il vestito mi avvolgeva il corpo come un serpente. Rimasi così, immobile, a guardarmi per qualche secondo poi scattai. Movimenti urgenti, goffi, essenziali. Tira giù la cerniera, lascia cadere il vestito a terra, fai un passo, poi un'altro. Ti senti libera ora?
Ritornai ad osservarmi allo specchio. Nuda, ero, ad esclusione delle mutande color carne e il reggiseno. Evitai con tutte le forse di soffermarmi sulla faccia: quella era l'ultima cosa che volevo vedere. Probabilmente, se uno psichiatra avesse visto lo stato in cui ero, mi avrebbe internato all'istante.
Un flash. Un cielo stellato, un gatto, dei lampioni, la gonna ai miei piedi. Una nuova emozione mi strinse la gola, espandendosi in tutto il corpo. Paura, avevo paura. Ma di cosa?
Voltai la testa, prima a destra, poi a sinistra, prendendo coscienza di essere nella mia camera, non in una vietta laterale a New York. E stavo bene, almeno fisicamente.
La paura aveva messo in circolo altra adrenalina, ma passò in fretta, non appena quell'emozione si tramutò in qualcosa che stavo aspettando da due anni, da quella sera.
In pochi passi raggiunsi il letto, lasciandomi cadere come un peso morto cade a terra. Presi il mio cuscino, il quale odorava vagamente di menta, e piansi, finalmente.
Piansi come non facevo da tempo.
Versai tutte le lacrime che non avevo versato da allora, liberandomi di un peso enorme, di tutta la tristezza che avevo dentro, del dolore che non mi ero concessa di provare.
Fu come morire dopo una lunga battaglia, giungere all'Inferno e venire assegnati ad un girone, subendo una pena eterna. Invidiavo i vivi nel corpo, ma compativo i morti nell'anima. Perché anch'io ero così: viva all'apparenza, ma deceduta dentro.
Strinsi le lenzuola tra le dita, battendo il pugno destro sul materasso. Perché? Perché proprio a me?
Con il viso affondato nel cuscino, le spalle che si muovevano ad intermittenza e la gola chiusa dai singhiozzi, piansi finché non fui esausta.
Non so che ora fosse quando mi addormentai su quel letto, supina, ma l'ultima cosa che vidi fu un pacchetto, il regalo di Percy per il mio compleanno, che avevo estratto dal cassetto del comodino prima di partire per il Gala. Chissà cosa conteneva.


 
***

 
Impiegai qualche secondo per capire cosa stesse succedendo. Vissi una sorta di deja vu.
Il mio subconscio sapeva che era mattina, forse perché fuori gli uccellini cinguettavano. Percepivo anche la presenza di una questione molto importante, estremamente urgente, che avrebbe dovuto occupare tutti i miei pensieri. Eppure il mio cervello era vuoto; mi limitavo a compiere i soliti gesti quotidiani.
Qualcuno stava bussando alla porta con insistenza, incurante che io stessi ancora dormendo. Chi poteva essere a quell'ora di Domenica mattina?
Sbattei le palpebre, un po' accecata dalla luce proveniente dalla finestra. La sera prima dovevo essermi dimenticata di chiudere le imposte.
Mi misi a sedere sul letto, stroppicciando gli occhi e sbadigliando rumorosamente. Non dormivo così pesantemente da molto, pensai con tristezza. 
Dopo la seconda raffica di colpi alla porta, mi decisi a scostare le coperte, infilare le ciabatte e alzarmi, dirigendomi verso la porta. Giurai a me stessa che se era ancora Grover, in cerca di qualche aiuto per le parole crociate, l'avrei ammazzato.
La brutta sensazione, quella che non riuscivo a identificare, mi fece sprofondare lo stomaco. Cosa poteva essere successo di così brutto? E perché non riuscivo a ri...?
Nello stesso istante in cui giravo la chiave e aprivo, nascosta ancora dietro alla porta, ricordai
Avrei preferito non averlo fatto.
-Finalmente! Pensavo fossi morta qui dentro.- disse Percy entrando nella mia camera senza indugiare oltre. Si diresse a passo spedito vicino al letto, girandosi poi nella mia direzione, mentre io rimanevo imbambolata davanti alla porta.
Quello doveva per forza essere l'Inferno. Un fottuto Inferno. E io dovevo essere davvero molto, molto, molto stupida per aver commesso un'altro madornale errore. Ovvero quello di far entrare Percy in camera mia quando la sera prima ero praticamente impazzita nel tentativo di evitarlo.
Chiusi gli occhi, cercando con tutte le mie forze di non scoppiare a piangere come avevo fatto il giorno precedente. Come mi dovevo comportare? Cosa avrebbe detto? Perché era lì?
-Ehm... Annabeth...?- dai meandri più reconditi della mia testa, sentii una voce lontana, ma che probabilmente era vicinissima. Raccolsi tutto il coraggio di cui ero provvista al momento perché mi sarebbe servito, poi mi voltai verso Percy, dopo aver spinto la porta con una mano. Lui era in piedi, vicino al letto, con le braccia lungo i fianchi e una strana espressione sul viso. Con la bocca leggermente aperta, le sopracciglia alzate e il pomo d'Adamo che andava su e giù frequentemente, sembrava aver appena visto un cane parlante.
Incrociai le bracci al petto, optando per mostrare un atteggiamento sarcastico, aggressivo.
-Che c'è?-
In tutta risposta lui spostò gli occhi dal mio viso, posandoli più in basso. Seguii il suo sguardo e, con orrore, compresi il motivo per cui aveva quella strana espressione.
Non era un cane parlante ciò che Percy aveva visto, ma il mio corpo. Quasi nudo.
Confusa come mi ero svegliata, mi ero anche scordata di indossare qualcosa prima di aprire la porta. E ora stavo davanti a Percy, il ragazzo che amavo, quello che avevo baciato e che volevo evitare con tutta me stessa, con solo un reggiseno e le mutande a coprire il minimo indispensabile. 
Nella stanza non volava nemmeno una mosca mentre io guardavo Percy con gli occhi spalancati e lui ricambiava il mio sguardo nel medesimo modo. Capii che stava cercando con tutto sé stesso di non abbassare lo sguardo, e io gliene fui immensamente grata.
Ed ecco la cosa assurda: lui mi aveva già visto in costume da bagno almeno un paio di volte, quand'eravamo andati al mare. Eppure, per qualche motivo, stavo vivendo quella situazione in maniera completamente diversa.
Il momento passò e io, dopo aver lanciato uno stupido gridolino di sorpresa, mi affrettai ad indossare il primo indumento che mi capitò alla mano: la felpa gigante che Percy mi aveva prestato un pomeriggio di pioggia per coprirmi, dato che io portavo solo una misera canottiera di cotone. Era umanamente impossibile che accadesse, ma con quell'indumento indosso rendevo la situazione ancora più imbarazzante di quello che già era.
Percy mi aveva preso alla sprovvista, questa era la verità. Dovevo ancora capire bene cosa fosse successo la sera prima, sia il bacio che il dopo nella mia stanza. Per questo temevo il confronto con lui. Se non ero in pace con me stessa, come potevo anche solo sperare di chiarirmi con Percy? Lui però era lì, vicino al mio letto, e pretendeva delle risposte, o almeno di discuterne. Non avevo bisogno di conferme, glielo leggevo negli occhi e nella postura: era diventato, in pratica, un libro aperto per me.
-Cosa vuoi, Percy?- chiesi alla fine con un sospiro, ponendo una distanza ragionevole tra di noi nel caso il mio corpo avesse deciso ancora di non rispettare il volere della mia parte razionale. Incrociai le braccia al petto di nuovo, cercando di fargli capire che non volevo compagnia.
-Hai qualche problema?- aggiunsi sarcasticamente. Se voleva davvero parlare dell'accaduto non sarei stata io la prima a cominciare. Chiamatemi codarda, o come volete, ma prima di partire per il Brasile avevo promesso a me stessa di non rinvangare il passato per nessun motivo al mondo e, ammettendo ad alta voce di aver fatto un passo simile, mi sembrava di non essere coerente.
Questo fu il mio primo sbaglio.
-Stai scherzando, vero?- domandò Percy con le sopraciglia alzate e un'espressione incredula in volto. Successivamente anche lui incrociò le braccia al petto. 
Non sapevo cosa si aspettasse esattamente da me, forse delle scuse? Al contrario, io presumevo già quello che lui aveva da dirmi. Si sarebbe scusato perché io ero carina e tutto, ma non provava nulla per me e gli dispiaceva. Non sarei mai riuscita ad ascoltare quelle parole perché io stessa non ero pronta a farmi avanti. Non volevo rovinare nulla e, sopratutto, non volevo incasinarmi più di quello che già ero. Per questo, seguendo il mio ragionamento, reagii di conseguenza, ovvero attuai la politica del silenzio e dell'indifferenza.
E questo fu il mio secondo errore.
-Credi che stando in silenzio quello che è successo si cancellerà?- riprese a domandare Percy quando capì che io non avrei parlato.
-A cosa ti riferisci?- chiesi distogliendo lo sguardo dal suo viso. La tensione era troppa e io non riuscivo a sopportare oltre le sue domande. Mi faceva male al cuore non poter esprimere tutto ciò che avevo dentro ma non potevo.
Non potevo.
-Annabeth, ti prego, non fare così. Sai benissimo di cosa sto parlando. Almeno non trattarmi come uno stupido.- rispose lui dopo un po', risentito. Non avevo il coraggio di guardarlo negli occhi ma la sua voce era come una calamita, così alla fine alzai leggermente il capo, osservandolo da sotto le ciglia. Silenzio.
-E va bene, cosa vuoi esattamente?- domandai alla fine. Via il dente, via il dolore, giusto? Chissà perché non ci credevo molto...
-Non ha significato nulla per te quello che c'è stato tra di noi? Perché malgrado tu sia fuggita, qualcosa c'è stato, non puoi negarlo Annabeth.-
Ero confusa. Dove voleva arrivare a parare con quel ragionamento? Perché non giungeva al dunque? Credevo che, prima mi avesse fatto il suo discorso di compianto, prima io sarei riuscita a superarlo.
-E invece non c'è stato nulla!- esclamai, allargando le mani.
-Ah, vuoi dire che mi hai baciato così, per puro sport?- domandò Percy, scetticamente sarcastico.
-Ti ho baciato solo per fermare il tuo sproloquio! Eri impazzito e io non sapevo cosa fare!- e, in tutta franchezza, questa non era nemmeno una vera bugia.
Poi accadde una cosa che mai mi sarei immaginata potesse succedere nel mio mondo, probabilmente perché era un'ipotesi così assurda e inverosimile che poteva avverarsi solo nei miei sogni più reconditi. Vidi chiaramente Percy esitare; spostava gli occhi freneticamente da destra a sinistra, deglutendo. Sembrava... nervoso.
Alla fine inchiodò lo sguardo nel mio, improvvisamente determinato, e parlò.
-Per me invece sì.- affermò, convinto. -Per me, quel bacio, ha significato molto, perché mi piaci.-
… Dal mio cervello nessuna segnale.
-Ha significato molto perché provo qualcosa per te, Annabeth, e non sono il tipo che reprimere i propri sentimenti a lungo. Volevo dirtelo già da un pezzo, ma credevo non fossi pronta. Ora però non posso più trattenermi perché io sono quasi certo che il bacio di ieri sera non è caduto dal cielo per caso. Probabilmente, in parte, l'hai fatto per calmare me, e di questo ti ringrazio, ma quel bacio era molto di più, Annabeth.- disse.
Percy aveva detto esattamente il contrario di ciò che pensavo volesse parlarmi, esattamente quello che, in realtà, volevo sentirgli dire. Percy provava qualcosa per me. Per me. Da un pezzo.
Oh, Santa Mariolina Incappucciata. 
Ero consapevole che non aveva detto di amarmi, ma gli piacevo. Questo era un inizio, tutto partiva così. C'era solo un piccolo problema: la sorpresa lasciò presto posto al panico e io non pensavo ad altro che fare una cosa.
Negare. Dovevo negare.
Sì, amavo Percy e non c'era cosa che desiderassi di più che essere felice con lui, ma io ero io, e ammettere così, su due piedi, che il bacio della sera prima era stato qualcosa di più di un semplice modo per fermare Percy, significava sacrificare me stessa.
Perché, tutto ad un tratto, compresi di non essere pronta per quello che lui mi stava offrendo. Non ero pronta a mettermi in gioco, sopratutto se questo comportava mettere a rischio il mio cuore. Avevo già sofferto abbastanza per una vita intera.
Deglutii, preparandomi a mentire.
-No, invece. Per me non ha significato nulla di più!- esclamai, scuotendo il capo. Temevo di guardarlo in faccia perché avrei confessato la verità. Ma poi azzardai uno sguardo e vidi il suo volto segnato dall'incredulità. 
Le sue spalle si alzavano e si abbassavano lentamente, la maglietta bianca segnava il petto ampio e le spalle larghe. 
-Quale è il problema, Annabeth?- mi domandò, con le sopracciglia aggrottate. -Ti prego, parlami. Lo so che non mi stai dicendo la verità, lo vedo. E so anche che ti è successo qualcosa di grave, che ti ha lasciato il segno.-
Sbarrai gli occhi. No.
-Io tengo molto a te, credimi, e sarò sempre qui se avrai bisogno di me.- disse lui. -Parlami, Annabeth.-
E lo stavo quasi per fare. Credevo seriamente che Percy mi avrebbe ascoltato, che avrebbe compreso, che la nostra non sarebbe stata una semplice storiella. Probabilmente quel ragazzo era diventato uno dei miei migliori amici, una persona importante per me.
Volevo sul serio lasciarmi andare, aprirgli il mio cuore e non pensare più a nulla. Ma per lo stesso motivo per cui la sera prima ero fuggita, per cui avevo negato che il bacio fosse qualcosa di diverso, alla fine scossi la testa, lentamente.
-Non ho nessun problema, Percy, sul serio.-
Passarono secondi, minuti, ore, mesi, anni in cui non vedevo altro che il volto di Percy e il mio cuore, nel mentre, moriva lentamente, segnato dalle emozioni che gli leggevo negli occhi. Non so cosa mi aspettassi esattamente, ma non quello.
Percy era ferito e deluso. Ed era tutta colpa mia.
Nel silenzio di chi non ha più nulla da dire, abbandonò le braccia sui fianchi e, senza più guardarsi indietro, se ne andò, sbattendo la porta della mia camera.












Angolo Autrice:
... okay, fermi tutti! Prima che qualcuno prenda il forcone e mi ammazzi vorrei dire alcune cose, poi siete liberi di riempirmi di insulti gratuiti. Me li merito.
Prima di tutto: ciao ^^ Come vi va la vita? Avete notato che in questi ultimi mesi sono diventata quasi regolare? *^* Una specie di benedizione, insomma.
Bando alle ciance: non vi nascondo che questo capitolo è stato difficile da scrivere, molto. Per farvi capire: ho dovuto farlo leggere in anteprima all'Innominata Persona Che Mi Ricoda Di Dover Scrivere (aka miss Giuliana) per avere un parere oggettivo sull'ultima parte visto che non ne ero per niente convinta.
Sono successe molte cose, no? uvu Il baaaacio, le pippe mentali di Annabeth, la crisi di Annabeth (qui ci vorrebbe un: finalmente!), la dichiarazione di Percy e poi... beh, il finale. 
Ecco, forse questo è il momento di esprimere una piccola preghierina: pleeese non siate troppo cattivi con me ç.ç vi prometto che nel prossimo capitolo TUTTO si aggiusterà per il meglio.
Una seconda cosa che devo per forza dirvi prima di andare è la seguente: lo scorso capitolo ha raggiunto quota 34 recensioni. 34.MERAVIGLIOSE.RECENSIONI.   CAPITEEE????
Io non so più come dirvi grazie, vi amo già alla follia, sappiatelo.
Nulla, ora siete liberi di scatenare tutta la vostra furia sulla sottoscritta (con moderazione). Nel caso siate molto arrabbiati per l'ultima parte, ricordatevi del bacio inziale :33 
Bacioni,
Annie 



Link 1 --> Ho aperto un contest nella sezione Percy Jackson. Se avete voglia di partecipare, passate :3
Link 2 --> Linko anche la mia pagina Facebook dove ho ripreso a pubblicare alcuni mini-spoiler dei capitolo ogni tanto.

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Capitolo 19
*** Capitolo 18 ***


Disclaimer:
'Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di Rick Riordan; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro'.


Capitolo 18


Rio de Janeiro, la stessa mattina


Annabeth


Il rumore della porta sbattuta si propagò nella stanza per quelli che a me parvero millenni.
E io stavo ancora lì, immobile, con lo sguardo puntato alla finestra ma senza che la vedessi realmente. Tenni aperti gli occhi per così tanto tempo che, ad un certo punto, cominciarono a lacrimarmi per il bisogno di sbattere le palpebre. Con uno scatto, li serrai tenacemente, chinando il capo con il mento al collo. Strinsi e allentai i pugni ad intermittenza, mentre un piccolo singulto scuoteva le mie spalle.
Percy se n'era andato e sapevo che non sarebbe più tornato.
Percy se n'era andato e io l'avevo ferito.
Percy se n'era andato ed era tutta colpa mia.
Perché ero così masochista? Perché dovevo comportami in quel modo? Per quanto cercassi di giustificare le mie azioni, sapevo che non potevo fare in nessun altro modo. Ero stata costretta a dire quelle cose anche se, la verità, era un'altra.
Non potevo, non potevo confessargli di amarlo. Non potevo lasciarmi andare. Non potevo essere felice, non se questo significava sacrificare me stessa.
Calde lacrime mi solcarono le guance, e per la seconda volta piansi. A differenza della sera prima, cercai di trattenermi il più possibile perché non volevo che lui sentisse il mio dolore, non volevo che tornasse.
Ero in guerra con me stessa: una parte di me voleva che Percy venisse a bussare, aprisse e insistesse, finché io non fossi crollata; l'altra, quello che al momento predominava, pensava che mi meritassi quella sofferenza e che lui dovesse restare dov'era.
Quando il sole era ormai alto nel cielo, e dal corridoio percepii un leggero profumino di arrosto, mi destai per la prima volta da che Percy se n'era andato. Con stizza mi asciugai le guance, passando il dorso delle mani sulla faccia, poi vidi il telefono per terra, dove la sera prima l'avevo lanciato e lo raccolsi.
Per fortuna era solo un po' ammaccato nell'angolo in alto. Lo sbloccai e vidi l'avviso di chiamata persa di Piper; non ero affatto pronta a richiamarla così posai l'aggeggio sulla scrivania e mi sedetti sul letto, con lo sguardo puntato alla scrivania.
E fu allora che lo vidi: il regalo di Percy.
Senza indugiare oltre lo presi, portandomelo in grembo. Lo rigirai tra le mani, soppesandolo, indecisa su cosa farne. Mai come prima dall'ora avevo desiderato così tanto di scartare un pacchetto: avevo bisogno di percepire un legame vero con Percy.
Freneticamente ruppi la carta, staccando lo scotch che la teneva chiusa; appoggiai lo scarto sulla coperta e sospirai di sorpresa.
Tenevo in mano una scatola di cartone, con un lato trasparente, di plastica. Al suo interno scorgevo quello che era destinato a diventare il regalo più stupido ma prezioso che avessi mai ricevuto.
Con le mani che tremavano leggermente, aprii la scatoletta ed estrassi una cornice d'argento, al cui interno vi era una foto di cui ne ignoravo completamente l'esistenza.
Probabilmente era stata scattata con un cellulare, perché la qualità non era alta, ma il fotografo era stato abile a catturare il momento. Nell'immagine io ero girata leggermente di profilo e sorridevo a Nico, il quale mi faceva la linguaccia.
Eppure non potevo essere veramente io quella ritratta. La ragazza sorrideva così tanto che sembrava illuminare di luce propria la situazione, mentre gli occhi le brillavano. Mi ricordavo quel momento: eravamo al luna-park e avevo appena rubato un pezzo di zucchero filato dal bastoncino di Nico, a sua insaputa. Quando lui se n'era accorto aveva fatto una faccia così buffa che non ero riuscita a trattenermi dallo scoppiare a ridere.
Mi riscossi dalla trance in cui ero caduta e notai un biglietto, infilato dietro la cornice. Lo girai e non potei fare a meno di sorridere, leggermente, quando lessi il contenuto.

Ho pensato che volessi avere questa foto. Sei bellissima.
Percy



 
***



I due giorni successivi furono, forse, i più tristi della mia vita, il che era tutto dire. Vivevo in una specie di stato catatonico, guidata solo dalla necessità di compiere i miei doveri.
Avevo messo la cornice con la foto sul mio comodino e, ogni notte, quando finalmente la stanchezza mi spingeva ad addormentarmi, l'ultima cosa che vedevo era l'immagine e il bigliettino di Percy, che avevo inserito nell'angolo in basso a destra.
Non ero ancora giunta ad un conclusione riguardo all'accaduto perché ero in guerra con me stessa: da una parte, il cuore voleva che andassi subito a scusarmi con Percy, implorandolo di perdonarmi, ma dall'altro, il timore e la testardaggine suggerivano di non fare nulla, di aspettare. Ma aspettare cosa, esattamente?
Non ce la facevo più a stare così male, non quando la felicità era lì a due passi dall'essere afferrata. Credevo seriamente di meritarmi un po' di pace, ma la paura di ricadere in qualcosa che mi avrebbe ferito maggiormente, mi bloccava.
Dal canto suo, Percy mi evitava in qualsiasi modo, e io non potevo biasimarlo.
Durante i pasti, quand'eravamo costretti alla stessa tavola in presenza di altre persone, limitava i contatti al minimo indispensabile. Ma in macchina, mentre andavamo a scuola, non un mosca si sentiva. Era come se, l'atmosfera, si fosse raffreddata improvvisamente, congelando la sua faccia e i miei pensieri. Perché, sì, nel momento in cui eravamo solo noi due, il mio cervello di bloccava e, qualsiasi intenzione avessi, andava a quel paese.
Avevo paura, paura di aver perso per sempre il ragazzo di cui mi ero innamorata.
L'unica volta in cui il mio sguardo incrociò il suo, durante la pausa pranzo, mi pentii di averlo fatto perché, nei suoi occhi, lessi una tristezza e un distacco così grande da far sembrare il Grand Canyon un piccolissimo divario.
Il terzo giorno dalla Grande Serata, così avevo soprannominato il Bacio, scesi a fare colazione come sempre, tenendo gli occhi bassi per evitare di incrociare quelli di Percy.
Avevo come la sensazione che Chintia avesse capito che qualcosa tra noi due non andava perché mi lanciò un'occhiata perplessa, ma ebbe la decenza di non chiedere e di tornare ai fornelli quando io scossi la testa.
Quando chiusi la portiera dell'auto, mentre Percy faceva il giro per prendere il posto del guidatore, lo seguii con lo sguardo, notando per la prima volta delle occhiaie leggermente marcate che gli incorniciavano gli occhi. Sembrava non dormire da tanto.
Probabilmente fu quello, oppure il modo in cui sospirò mentre accendeva il motore, ad infondermi il coraggio necessario a parlargli, per la prima volta da giorni. Non so esattamente cosa volessi ottenere. Certo, non ero né stupida né ingenua, quindi pretendere che lui mi perdonasse nel momento in cui io avessi fatto il primo passo era impensabile, ma dovevo fare qualcosa per sistemare quella situazione.
Non avevo perso solo l'occasione di avere un ragazzo, ma anche un amico vero.
-Percy?- chiamai con un mormorio, voltando il capo nella sua direzione.
Lui mi lanciò un'occhiata che, se avesse potuto, mi avrebbe trasformata in una statua di ghiaccio, simile a quella che avevo visto al Galà, ma non disse nulla.
Deglutii, pensando che stesse arrivando la parte più difficile, ma presi un bel respiro, sicura di ciò che stavo per dire.
-Mi... mi disp- qualsiasi intenzione avessi fu bloccata sul nascere quando lui alzò una mano.
-No.- la sua voce era bassa, ma se avesse urlato probabilmente sarebbe stato meglio. -Se stai per dire che ti dispiace evita di parlare.-
Una pugnalata, ecco cos'era quella; un coltello dritto nel cuore.
-Ma, io...-
-Stai zitta, Annabeth, stai zitta, ti prego. Non ti voglio sentire.- disse sempre con la stessa finta calma. Non provai nemmeno a ribattere, quella volta, perché non riuscivo più ad emettere un suono. Avevo timore che, se mi fossi imposta con le parole, sarei anche scoppiata a piangere. E lo avrei anche fatto se non fossimo stati vicini alla scuola. Quei bambini non avevano bisogno di altri problemi -i miei problemi-.
Strizzai gli occhi, rispedendo indietro le lacrime che minacciavano di uscire; io ero forte, dovevo essere forte anche se faceva molto male. Per il resto del viaggio appoggiai la testa sul finestrino e feci finta di riposare: se non lo vedevo era meglio.


 
***



-Annabeth?-
Ero così distratta che fu un miracolo se sentii una voce chiamarmi. Le lezioni erano cominciate solo da poco ma non ci stavo con la testa, in nessun modo. Riconoscendo di non essere affatto in grado di tenere una spiegazione, avevo ripiegato sul dare ai bambini un esercizio, preparato in precedenza a casa. In quel modo speravo di potermi sedere alla cattedra e fare il punto della situazione o, nel caso, solo di riprende la mia solita compostezza. Stavo lavorando con dei bambini, santo cielo.
Per quanto odiassi ammetterlo, ciò che Percy mi aveva detto poco prima, mi aveva scosso nel profondo, mutilando anche quella piccola parte di me che ancora era intatta. Percy mi odia, mi odiava sul serio.
Stavo per andare alla lavagna ma mi fermai nel momento in cui qualcuno mi chiamò. Voltai la testa verso sinistra e vidi Nico seduto al suo banco, posto vicino alla cattedra. Aveva una matita in mano e metà dell’esercizio assegnato era già stato completato. Con la testa leggermente piegata di lato, sul volto aveva un’espressione leggermente corrucciata, con gli occhi grandi.
Vedendolo mi ritornò in mente la foto incorniciata che ora stava sul mio comodino, il regalo di Percy. Il paragone tra quel momento e quello che stavo vivendo non avevano nulla in comune, ma non rimpiangevo neppure un singolo istante passato in compagnia di quei due. 
-Hai bisogno di aiuto con l’esercizio, Nico?- domandai, portandomi una ciocca di capelli sfuggita dalla coda, dietro all’orecchio. Ero così scombussolata quella mattina, come le tre precedenti, da aver scordato di passarmi la spazzola. Non osavo immaginare l’aspetto che avevo.
Nico scosse la testa energicamente, mantenendo l’espressione corrucciata. Storse la bocca leggermente a destra e, sulla sua guancia, si formò una piccola fossetta. 
Ero accerchiata da persone con le fossette. Oddio, no.
-Annabeth, sei triste?- mi chiese, serissimo.
Mi bloccai sul posto, agghiacciata. Quella era una domanda che nessun bambino non avrebbe mai dovuto fare ad un adulto, per nessun motivo. Ai loro occhi, i grandi erano delle rocce imponenti, immuni a qualsiasi cosa. Ricordavo ancora il senso di angoscia e tristezza che avevo provato nel momento in cui mia mamma era uscita di casa, per non tornare mai più. Vederla fare i bagagli e infilare il cappotto per uscire in fretta da quella casa mi aveva colpito più di quello che avrei ammesso se qualcuno me lo avesse chiesto. Da piccoli si è soggetti a sbalzi di umore continui, e siamo più inclini a farci condizionare dagli agenti esterni. Si è perspicaci, si coglie subito la nota negativa della situazione. Ma nei nostri genitori, nelle figure adulte più vicine a noi, vediamo un punto di riferimento, un appiglio a cui aggrapparci per trovare la stabilità.
In meno di un’ora, Nico era riuscito a capire –percepire- il mio stato d’animo solo guardandomi. Ero preoccupata, molto preoccupata che anche gli altri si fossero accorti che qualcosa non andava ma, lanciando una rapida occhiata alla classe, mi accorsi che i bambini erano tutti impegnati con l’esercizio.
Guardai Nico, che attendeva una risposta, e sospirai.
Non potevo confidargli i miei sentimenti, non potevo rispondere con sincerità alla sua domanda, non potevo spiegargli il problema. Era solo un bambino e io ne ero responsabile. Io ero un’adulta ed era arrivato il momento di comportarsi come tale anche se questo voleva dire mentire.
-No, Nico, non sono triste.- e per dimostrarglielo cercai di fare un sorriso, ma il tentativo non doveva essermi uscito molto bene perché lui scosse il capo.
-Stai mentendo, Annabeth.- disse serio. –Comunque se hai qualche problema, se qualcuno ti infastidisce, dillo a me che ci penso io.- aggiunse con solennità e, come per sottolineare le sue parole, strinse le mani a pugno, assumendo una vaga posizione di guardia.
Rimasi basita per qualche secondo, non riuscendo bene a comprenderne il significato, ma poi scoppiai a ridere per la prima volta da giorni. Nico era così buffo che non riuscivo proprio a trattenermi.
Sentii un moto di gratitudine e sollievo avvolgermi le membra e, mentalmente, ringraziai il Signore per avermi fatto incontrare quel bambino che era un regalo sceso direttamente dal Cielo.
Nico mi guardò ridacchiare, confuso, ma poi accennò un sorriso incerto e io non potei fare altro che allungare una mano e accarezzargli la testa.


 
***


Ero in Brasile da circa due mesi, ormai, ma con tutti gli impegni che avevo avuto e le “gite” con Percy, non mi ero quasi mai concessa un momento di riposo nel salotto della fattoria. Di solito, nel pomeriggio, appena tornavamo da scuola, ci fermavamo a chiacchierare sul terrazzo o, in alternativa, mi ritiravo in camere per preparare la lezione del giorno dopo, in seguito ad una bella doccia fredda. Ma avevo terminato di leggere tutti i libri che mi ero portata da casa, faceva troppo caldo per uscire e Percy non mi evitava come la peste. Grover era uscito per andare a fare qualche commissione per Chintia e quest’ultima era andata a fare la spesa. L’unico essere vivente in casa che ancora non era arrabbiato con me era un gatto obeso.
Sentivo di aver bisogno di stare con qualcuno che respirava e, non avendo molte altre alternative, quel pomeriggio avevo deciso di andare a cercare Frappola per la casa. Sapendo bene che il suo posto preferito per dormire era la sala mi ero diretta lì dove, in effetti, il gatto stava acciambellato su una poltrona. 
Avevo urgente bisogno di pensare ma sia la mia camera che il terrazzo non andavano bene. La prima perché era il posto dove avevo litigato con Percy, mentre nella seconda ci eravamo baciati. O meglio, io l’avevo baciato. Così, mi ero seduta sulla poltrona adiacente a quella su cui dormiva il gatto, e mi ero messa a fissarlo. Frappola doveva aver percepito il mo arrivo perché aveva aperto gli occhi e non aveva esitato a sdraiarsi sulle mie gambe. 
La domanda che mi aveva fatto Nico quella mattina mi turbinava ancora in testa; ero consapevole di non essere mai stata completamente felice negli ultimi due anni e, nei giorni precedenti il mio livello di tristezza aveva raggiunti i massimi storici, ma mi si leggevano così bene in faccia i sentimenti?
Sapevo con certezza che, dalla sera dello stupro, avevo eretto un muro, costruendo una bella maschera impassibile per la faccia. Ora, però, temevo che quella protezione si fosse spezzata, in seguito al mio crollo emotivo. Sentivo i miei sentimenti più ampliati, più liberi di scatenarsi, come se l’argine che li conteneva si fosse rotto. 
Forse era un bene che io stessi tornando pian piano come prima, una ragazza normale. O forse no. Che sarebbe successo se, invece di oppormi, mi fossi lasciata andare con Percy? Sapevo qual’era la risposta, ma la ignorai. Nel prima io ero una normale ragazza che aveva appena terminato il liceo, spensierata, obiettivamente immersa nello studio per costruirsi un futuro e un po’ interessata ai ragazzi. Ma ero debole e questo era uno dei motivi principali per cui mi ero spezzata dopo l’accaduto. Ero fragile, soggettivamente ingenua e convinta che il mondo fosse tutto, o quasi, rose e fiori. Un ragazzina, ecco cos’ero.
Sapevo anche che l’unico motivo per cui ero riuscita a resistere per ben due anni senza crollare miseramente era che mi proteggevo da tutto e da tutti.
Ma ora le cose erano diverse; io ero diversa. 
La situazione differenziava completamente da quella del prima. Conoscevo i rischi, le conseguenze, sapevo com'era il mondo e cosa mi aspettava. Ma non era solo il contesto ad essere diverso: Percy non era Luke e nemmeno Ethan. Era un ragazzo gentile, altruista, responsabile, abbastanza uomo da ammettere che gli piacevo. E io dovevo farmene una ragione.
Accarezzai Frappola, passando distrattamente le mani nel suo pelo folto. Fuori c’erano trenta gradi e il gatto mi stava facendo fare la sauna alle gambe ma non mi importava.
Percy mi mancava, mi mancava in modo assurdo e lo stomaco mi si chiudeva in una morsa se pensavo al modo in cui mi aveva parlato quella mattina, in macchina. Era stato talmente freddo e distante da non sembrare lui. Nemmeno quando ci eravamo conosciuti in aeroporto si era comportato così.
Non ce la facevo davvero più a sopportare quella situazione così, presa da un disperato bisogno di sentire una voce amica, recuperai il telefono dalla tasca dei jeans, che era un po’ ammaccato dal colpo subito quando lo avevo gettato contro il muro, e composi il numero di Piper. 
Lanciando un’occhiata all’orologio da polso, immaginai che fosse ad una qualche festa oppure sdraiata in riva alla piscina della villa di suo padre con Jason. Non dubitavo affatto che avesse con sé il cellulare e, infatti, dopo appena due squilli rispose con voce squillante e allegra.
-Ehi, tesoro! È onore ricevere una tua chiamata. Cominciavo a temere che ti fossi dimenticata di…-
-Piper.- non dissi altro, solo il suo nome, imprimendo nella tono di voce basso che avevo usato un tacito grido d’aiuto, nella speranza che lei capisse. Dopotutto, era la mia migliore amica per un motivo ben preciso. Piper poteva sembrare solo un’ingenua ragazza ricca, succube della ricchezza del padre, ma era molto, molto di più, e io lo sapevo allo stesso modo in cui lei era in grado di interpretare ogni mio gesto. Eravamo legate, senza dubbio, e per l’ennesima volta in molti anni fui felice di averla incontrata.
Smise subito di parlare, e io percepii il suo repentino cambio di atteggiamento.
-Annabeth?- ora era seria. Pensai che si fosse messa a sedere sulla sdraio, portandosi gli occhiali da sole sulla testa. -È tutto ok? Stai bene?-
Con due sole domande era riuscita ad indovinare il motivo per cui l’avevo chiamata, giungendo al fulcro del mio problema. Nelle numerose chiamate fatte con Piper, malgrado i suoi vari tentativi di chiedermi come andasse con Percy, nella segreta speranza di un risvolto interessante, ero stata muta come un pesce, decisa a mantenere una certa riservatezza sull’argomento. Non riuscivo ad ammettere nemmeno con me stessa i miei sentimenti, figurarsi confessarli a qualcuno.
Ma ora riconoscevo di aver bisogno di un aiuto, se non altro perché non riuscivo più a tenermi tutto dentro e Piper era la persona più indicata a cui mi potessi rivolgere, per non parlare del fatto che fosse l’unica persona di cui mi fidassi per chiedere consiglio e confidarmi.
-No.- mormorai, ricacciando indietro il groppo in gola improvviso. Se avessi parlato più forte la mia voce si sarebbe spezzata sicuramente. –Non va bene niente.-
-Annabeth, ascoltami, respira. Con calma.- me la immaginai vicino a me, sussurrandomi all’orecchio mentre mi metteva un braccio intorno alle spalle, anche se io ero più alta di lei. –Ce la fai a raccontarmi tutto, dall’inizio?-
Deglutii e, per sbaglio, strinsi con un po’ troppa forza il pelo folto di Frappola che, dopo avermi lanciato un’occhiataccia, scappò via, con il muso alto e la coda che ballonzolava. 
-È complicato.- dissi. –Ho fatto un casino, Piper, ed è tutta colpa mia.-
Mi riservai alcuni secondi per raccogliere i pensieri e le idee che mi turbinavano in testa, poi cominciai a raccontare alla mia amica il percorso che mi aveva portato ad innamorarmi di Percy. Lei stette in silenzio per tutto il tempo, dimostrando di essere un'ottima ascoltatrice, intervenendo solo una volta: le avevo appena detto del bacio in terrazza e lei si era lasciata sfuggire un gridolino di gioia, per poi scusarsi. Dopotutto, riuscivo a capirla: non baciavo un ragazzo da... beh, secoli e immaginavo che la storia l'appassionasse molto, visto il suo sfrenato interesse nei confronti dei ragazzi. Accennai anche al fatto che lui mi piacesse, ma accantonai quel discorso in fretta.
Alla fine arrivai al litigio, a come lui se ne fosse andato e la conversazione di quella mattina. 
-Oh, Annabeth. Mi dispiace così tanto...- la sua non era pietà, lo sapevo, semplicemente stava cercando di mettersi nei miei panni come aveva cercato di fare negli ultimi due anni. Il pregio migliore di Piper era proprio quello: non giudicava affatto le persone per quello che facevano o per le scelte che prendevano. Se gli stavi a cuore faceva di tutto pur di essere d'aiuto in qualche modo.
Troppo nervosa per restare seduta, presi a camminare per il salotto, avvicinandomi alle finestre: fuori tutto era tranquillo, non una foglia di muoveva.
-Non so cosa fare, Piper! Non sono nemmeno sicura di dover fare qualcosa.- ammisi.
-Tranquilla, Annabeth.- in sottofondo sentii il cane di Piper abbaiare e lei sospirare. -Quel che è certo è che devi fare qualcosa per rimediare. Vai a parlargli, costringilo ad ascoltarti. Confessagli tutto ciò che provi.-
-Ma non mi vuole più vedere! Come faccio a farmi sentire se ogni volta cambia strada per evitare il mio sguardo?- chiesi.
Lei stette in silenzio per un paio di secondi poi riprese a parlare, ponendomi la domanda più difficile a cui dare una risposta. In tutti quegli anni di amicizia non avevo mai faticato così tanto nel parlarle.
-Tesoro, ami sul serio quel ragazzo?-
Contro ogni mia previsione, però, non esitai. -Sì, Piper, lo amo.-
Era la prima volta che lo dicevo a voce alta e, in qualche modo, questo lo rendeva più reale, più vero. Potevo ripetermelo all'infinito nella mia testa, ma non era la stessa cosa se lo si diceva a qualcuno.
-Allora vai e conquistalo. Dopotutto, te lo meriti.- disse la mia amica.
Accennai un sorriso, sentendo un senso di pace e speranza avvolgermi. Parlare con Piper mi aveva aiutato come nessun'altro avrebbe potuto fare. La salutai, promettendole di tenerla aggiornata in caso di novità. Stavo per attaccare quando lei mi chiamò.
-Annabeth?-
-Sì?-
-Si sistemerà tutto, tesoro, vedrai.- lo disse come se ci credesse davvero. Apprezzai molto la sua sicurezza: era ciò che mi serviva in quel momento.
-Lo spero, Piper, lo spero sul serio.-


 
***


Tra dire e il fare c'è di mezzo il mare. Non impiegai molto a capire appieno il significato di quel detto. 
Mentre parlavo con Piper la speranza aveva avuto la meglio e non mi era parso poi così impossibile salire le scale e cercare di chiarire con Percy; anzi, per un momento era sembrato quasi facile.
Beh, mi sbagliavo alla grande.
Appena schiacciai il tasto di fine chiamata sul cellulare, tutto il debole coraggio che avevo accumulato svanì, dissolvendosi in una bolla di ingenuità e incredulità. Percy non mi voleva nemmeno vedere: quella era la realtà.
Nel mentre Chintia e Grover erano tornati a casa, quasi in contemporanea, e l'ora della cena era giunta in fretta, prima ancora che io mi decidessi ad alzarmi dalla poltrona in cui ero sprofondata. Simulando un improvviso mal di testa dovuto al troppo caldo, saltai la cena, rintanandomi nella mia camera. Chintia non era affatto contenta che io stessi a stomaco vuoto, ma io la tranquillizzai, dicendole che se mi fosse venuta fame sarei scesa in cucina, felice di mangiare gli avanzi: meno vedevo Percy, meglio era per la mia salute mentale.
Passai l'ora seguente a rimuginare, camminando ininterrottamente avanti e indietro nella mia camera. Dovevo prendere una decisione: agire e non avere ripensamenti oppure starmene per i fatti miei, come una codarda. Piper aveva ragione: non potevo sul serio credere di poter continuare a vivere con quel peso sulle spalle. 
Ad un certo punto, da fuori, sentii le chiacchiere di Percy e Grover avvicinarsi sempre più, bloccandosi davanti alla mia porta dove si salutarono, dandosi la buonanotte: il primo proseguì lungo il corridoio mentre l'altro entrò nella sua camera, che stava difronte alla mia. La cosa non mi stupì molto dato che Grover si alzava molto presto la mattina; avendo bisogno anche lui di dormire un po', tendeva ad andare a letto molto presto. Percy invece, da quando avevamo discusso, si chiudeva nella sua camera e Dio solo sapeva cosa facesse lì dentro. Dubitavo fortemente che si mettesse a dormire presto, ma come già mi ero domandata in passato, mi pareva strano che non uscisse un po', la sera.
In questo modo, però, la situazione sembrava volgere a mio favore: sapevo dove trovarlo.
Chiusi gli occhi e sospirai, raccogliendo tutto il coraggio -poco- che mi restava in corpo. Mi passai la mano tra i capelli nervosamente, spingendo in dietro quelli che mi cadevano sulla faccia, poi aprii la porta e uscii.
Marciai nel corridoio, la testa alta e il cuore a mille. Ce la dovevo fare, per forza. Prima che perdessi tutto il coraggio, bussai alla sua porta e, due secondi dopo, entrai.
Sì, esatto, aprii la porta della sua camera senza aspettare una invito ad entrare. Ora, probabilmente starete pensando che fosse un gesto troppo avventato e incosciente, e avrete tutte le ragioni. Se fosse stato nudo come mamma l'aveva fatto? Beh, grazie al Cielo, era vestito di tutto punto quindi non si verificò alcun episodio imbarazzante ma, ripensandoci, forse avrei fatto meglio ad attendere. Ehi, ero nervosa e molto, molto determinata!
Comunque, entrai, premurandomi di chiudere la porta alle mie spalle: prevedevo una lunga conversazione, a meno che lui non mi cacciasse nel corridoio a calci nel didietro.
Percy se ne stava sdraiato sul suo letto, supino, con un libro aperto sulla pancia e il ciondolo a forma di tridente in mano.
Nella posizione in cui era, non gli fu affatto difficile lanciarmi un'occhiataccia nel momento esatto in cui mi fermai davanti al suo letto. Stranamente, il fatto che fossi entrata nella sua camera all'improvviso non pareva averlo colto di sorpresa. Eppure mi parve di scorgere un breve lampo di confusione e disagio nei suoi occhi.
-Prego, entra pure. Fai come se fosse camera tua.- disse ironicamente, tornando a giocherellare con la collana. 
Mio malgrado arrossi, sentendo un'ondata di calore salirmi su per il collo e la faccia, ma strinsi le labbra e incrociai le braccia. Il cuore continuava a battere furiosamente nel  mio petto. Vederlo lì, con i capelli scompigliati sul cuscino e una maglietta verde che richiamava il colore dei suoi occhi, accese in me una senso di malinconia.
-Ebbene? Hai bisogno di qualcosa?- chiese, alzando un sopracciglio. -Se sei venuta solo per perdere tempo con delle stupide scuse puoi benissimo andartene. Non ho tempo da perdere.-
Incassai il colpo chiudendo gli occhi per un breve istante. Mentalmente continuavo a ripetermi un semplice mantra per convincermi a continuare, a non mollare.
Sta solo cercando di proteggersi, Annabeth. L'hai ferito, l'hai deluso. Lui non è così.
-No, non me ne vado.- cercai i suoi occhi con insistenza. Doveva guardarmi. -Devo parlarti. Ti chiedo solo di ascoltarmi per pochi secondi, poi ti lascerò in pace, promesso.-
Percy aggrottò le sopracciglia, visibilmente indeciso su cosa fare.
-Ti prego.-
Quella supplica sembrò essere decisiva: mi fece un cenno con il capo mentre si alzava dal letto, appoggiandosi alla parete adiacente.
Feci un respiro profondo, e mi stupii di quanta calma ci fosse dentro di me: ora che era arrivato il momento della resa dei conti non sentivo assolutamente nulla. Era come se tutto l'ansia e il nervosismo fossero evaporate al chiaro di luna. Era rimasta solo tanta sofferenza e dolore, e anche un pizzico di speranza; finché c'era quella tutto sarebbe andato bene. Nell'ora precedente mi ero arrovellata il cervello per preparare un discorso coerente ed esauriente ma, assieme all'ansia, sembrava essere sparito pure quello, così non mi restò altro che improvvisare, attingendo solo ai miei sentimenti.
-Se devo essere sincera quello che è successo Sabato sera non era programmato. Anzi, non sapevo neanche di avere il coraggio di farlo. Ma tu eri lì e...- arrancai, non trovando le parole per spiegarmi. Percy mi osservava, completamente concentrato su di me.
Ricominciai. -Tutto sommato la mia è stata una vita abbastanza spensierata, se si escludono un paio di episodi. Ho un padre che mi ama e una migliore amica sempre presente. Ma, da quando mia madre se né andata, anche la parte di me che si fidava incondizionatamente delle persone è scomparsa. Tutto sommato, però, ho cercato di vivere gli anni delle superiori con normalità, convinta di essere uguale alle altre ragazze.- deglutii, mentre mi toccavo un lobo dell'orecchio con la mano.
-All'improvviso tutto è cambiato. All'improvviso la realtà si è trasformata in un incubo. Ho passato due anni della mia vita annullandomi, concentrandomi solo ed esclusivamente sullo studio, l'unica cosa che mi permettesse di fuggire per un po' da quell'Inferno. È stato difficile, ma pian piano ho costruito il mio mondo, fatto di convinzioni e prevenzioni. Era un equilibro instabile.- feci una pausa. 
-Poi mio padre mi ha convinto a partire per questo progetto e io ho accettato principalmente perché non volevo deluderlo ancora un volta. Ero stanca di tutti gli sguardi pietosi che la gente mi rivolgeva e ho pensato che cambiare aria non mi potesse fare male. Non avevo alcuna aspettativa riguardo a questo viaggio ma tutto è cambiato, di nuovo. Ho attraversato momento bui che non ti sto a spiegare, e ho conosciuto persone.- no, quello non era completamente esatto. -Ho conosciuto te, Percy.-
Ero consapevole di non essere stata affatto chiara sul mio passato, ma non ero pronta. Speravo solo che a lui bastasse.
-Non ho mai voluto farti del male, mi devi credere.- ripresi. -Faccio molta fatica a fidarmi e non sono abituata ad aprirmi. Ma ho sbagliato a comportarmi in quel modo con te e mi dispiace, sul serio.-
Restammo a guardaci in una strana situazione di stallo. Nessuno dei due parlava. Il modo in cui mi guardava, come se avesse sofferto anche lui, come se stesse soffrendo... non potevo più sopportarlo. Quella distanza non stava facendo bene né a me né a lui. 
-Annabeth, sinceramente non so cosa dirti. Ti credo quando dici che non avevi cattive intenzione, ma non mi basta.- sapevo benissimo cosa intendeva: voleva che gli confessassi il mio segreto, come lui aveva fatto con il suo. Ma io rimasi in silenzio.
-Sono esausto.- evitò di guardarmi, puntando lo sguardo alla finestra sulla sua destra. -Mi hai detto tutto quello che volevi dirmi?-
Per quanto mi sentissi morire dentro per quello parole, ero determinata a finire il discorso.
-No.-
Percy alzò un sopracciglio. -No? C'è altro?-
-Sì.-
-Dimmi.-
-Avevi ragione, l'altro giorno. Quel bacio ha significato molto anche per me, perché la verità è che sono innamorata di te, Percy.- okay, l'avevo detto. Mi sentivo come se una grandissimo masso si fosse spostato dal mio stomaco.
Passarono secoli in cui riuscii a pentirmi di aver parlato: provavo imbarazzo e vergogna. E se lui mi avesse detto che, in quegli ultimi giorni i suoi sentimenti per me fossero spariti? Non sapevo se fosse possibile ma, ehi, mi ero appena dichiarata al ragazzo che amavo ed ero quasi nel panico.
Il suo volto era un insieme caotico di emozioni che non riuscii a decifrare. Alla fine Percy annuì, lentamente, muovendo un passo e poi un'altro nella mia direzione.
-Sei sicura, Annabeth? Perché da qui non si torna più indietro.- mi stava lasciando un'ultima possibilità di andarmene. Ma, sinceramente, ero stanca di scappare con la coda tra le gambe, e volevo con tutta me stessa che Percy fosse mio.
Annuii.
-Se lo vuoi veramente, allora devi promettermi che non mi metterai mai in secondo piano, come io non lo farò con te. Non ho intenzione di restare all'oscuro della tua vita perché mi interessa ogni singola cosa che ti accade. Devi cominciare ad aprirti e fidarti di me, un passo alla volta, altrimenti questa storia non potrà mai funzionare. Credi di poterci riuscire, Annabeth?-
Aveva ragione e, in realtà, io mi fidavo già di lui, anche se non completamente. Mossi il capo su e giù.
Sul volto di Percy comparve un sorriso lento, con le fossette, mentre si avvicinava e allargava le braccia per stringermi a sé. Il cuore saltò un battito quando respirai il suo profumo nell'incavo del collo.
Era tornato.
Restammo così per un po', beandoci del calore reciproco. Mi sentivo bene, ero esattamente a metà strada tra la felicità e l'euforia.
-Non ti farò alcuna pressione, okay? Sappi solo che, quando sarai pronta a parlare, io sarò qui, sempre.- mormorò mentre appoggiava la fronte sulla mia.
Aprii gli occhi, incontrando i suoi.
-Ehi.-
-Ehi.- e mentre sussurravo quell'ultima parola, si avvicinò, posando le labbra sulle mie.














Angolo Autrice:
Ciao, bella gente! Come va? Finita bene la scuola? Grazie al cielo, a me è andata bene quindi, quest'estate mi concentrerò maggiormente su questa storia ;)
Comunque, passiamo al capitolo perché ho un paio di cose da dire.
Innanzitutto, come sempre, è d'obbligo la domanda: vi è piaciuto?
Vi confesso, mentre scrivevo l'ultima parte mi sono scappate 5 lacrime (ma anche 10 xD). Per me è stato un traguardo enorme arrivare a questo capitolo per vari motivi, in particolare per l'ultima scena. Era programmato già da tempo (dall'inizio) ma è venuta meglio di quello che credevo, sinceramente. Mi piace un sacco, anche se alcune parti non mi convincono pienamente.
Ebbene, dopo 3000 e mila pippe mentali di Annabeth, Nico che diventa la guardia del corpo della nostra protagonista e una bella chicchierata-schiarisci-pensieri con Piper, arriva LA dichiarazione. :3
Non credo ci sia bisogno di commentare oltre u.u
Come sempre ringrazio INFINITAMENTE tutti colore che seguono/preferiscono/ricordano e recensiscono questo mio sputo di storia. È solo grazie a voi se sono arrivata così lontano °-° VI AMO <3
Prometto di cominciare a rispondere da domani a tutte le vostre recensioni dello scorso capitolo ;) Abbiate pazienza.
Nella speranza che questo capitolo vi sia piaciuto come a me è piaciuto scriverlo, vi mando un bacione.
Annie




Link 1--> Ho aperto un contest nella sezione Percy Jackson. Se avete voglia di partecipare, passate :3
Link 2--> Pagina Facebook dove ho ripreso a pubblicare alcuni mini-spoiler dei capitolo ogni tanto.
Link 3--> Ho deciso di aprire una pagina Ask per il mio profilo di Efp. Se volete sapere qualcosa su di me, sapete dove chiedere :3

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Capitolo 20
*** Capitolo 19 ***


Disclaimer:
'Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di Rick Riordan; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro'.


Capitolo 19


Rio de Janeiro, qualche giorno dopo


Annabeth


Incredibile come la vita possa sembrare un esperienza bella ed entusiasmante quando si è felici e spensierati. Basta un sorriso, un piccolo gesto, una parola detta al momento giusto, e tutto si sistema. Così, come una magia molto efficace. Si viene stregati, si viene ingannati, ma finché si sta in quella bolla idilliaca nulla ci può incupire più. Il sole sembra splendere più forte, le persone paiono più buone, il male scompare dalla faccia della terra. Ai tuoi occhi è come essere arrivati improvvisamente in paradiso.
Oppure è sufficiente la presenza di un’altra persona a renderti felice, chi lo sa. In quel caso il paradiso cambia residenza: non sta più intorno a te, ma dentro di te nell’istante esatto in cui vedi quella persona. In quel momento il paradiso spalanca le ali e include l’altra persona nel tuo mondo, stringendovi in un bozzolo protettivo, riservato solo a voi due.
Insomma, senza ulteriori giri di parole, ci si isola dalla realtà della vita e si entra nella zona vip, accessibile solo a coloro che hanno sperimentato e toccato con mani proprie l’esperienza più sconvolgente di tutte: l’amore.
Questa, però, è una menzogna, o quasi: sì, l’amore può cambiare molte cose in meglio, ma la vita non è mai del tutto felice perché, dietro l’angolo, qualcosa sarà sempre pronto a sconvolgertela, a rovinartela. Io lo so bene. Bisogna solo saper apprezzare quei brevi istanti di pace.


 

***



Sbadigliai rumorosamente, spalancando la bocca come un serpente che attacca. Piper sosteneva che sbadigliare in quel modo mi avrebbe procurato delle rughe profonde nel momento in cui avessi compiuto quaranta anni ma, da buona sostenitrice dei metodi naturali quale ero, non riuscivo a cogliere la logica di quell’affermazione, soprattutto visto che lo sbadiglio era un riflesso immediato e naturale.
Stropicciandomi gli occhi, mi misi a sedere sul letto. Non sapevo esattamente che ora fosse, visto che il giorno prima qualcuno –leggasi, il mio presunto fidanzato- mi aveva rubato la sveglia, affermando di aver accidentalmente fatto cadere la propria nella vasca. Cosa ci facesse in bagno una sveglia, per me rimaneva un mistero. Così, dovendomi arrangiare alla solita maniera moderna, mi allungai verso il comodino per prendere il cellulare.
La prima cosa che vidi sulla schermata principale, oltre all’ora, fu un messaggio di Piper, ricevuto intorno alle tre di notte. Che diavolo ci faceva sveglia a quell’ora?

 

Ehi, tesoro! Come va con Mister Occhi-Verdi? (a proposito,
sono andata a cercarlo su Facebook… ragazza mia, hai fatto Jackpot!)”


Contro la mia stessa volontà mi ritrovai a sbuffare, divertita da quel messaggio. La mia migliore amica sapeva proprio essere buffa certe volte. Digitai una breve risposta, promettendole di chiamarla non appena avessi avuto un po’ tempo per raccontarle tutto. O almeno, una parte del tutto.
Malgrado tutto, non ero ancora pronta a condividere alcuni dettagli di ciò che era successo con Percy qualche giorno prima. Preferivo gustarmi il momento ancora un po’ prima di raccontarlo a Piper.
Era Sabato quindi, in teoria, potevo tornare a dormire tranquillamente, ma non ne avevo voglia per vari motivi, primo fra tutti l’urgenza e il bisogno di vedere Percy. Suppergiù, conoscendo le sue abitudini, doveva essersi svegliato da poco anche lui.
Bene.
Mi alzai, scostando le coperte e, per prima cosa, mi misi davanti allo specchio a figura intera. Indossavo la mia solita tenuta per dormire, pantaloncini di cotone e una canottiera, senza reggiseno, e mi stupii di quanto il riflesso fosse diverso da quello della settimana precedente, la sera del gala.
Ero sempre io, sì, ma sembravo un’altra ragazza.
Passandomi una mano tra i capelli disordinati dopo la notte di sonno, sorrisi alla mia immagine, la quale ovviamente ricambiò, poi mi spostai per andare a rifare il letto. Ero incredibilmente aperta al mondo e alle sue possibilità, propensa a fare qualsiasi cosa senza sentirne il peso o la fatica.
Persa nel mio mondo com’ero, non mi accorsi nemmeno del lieve rumore proveniente da fuori, finché non sentii un miagolio indistinto e insistente.
Aprii la porta, guardando a destra e a sinistra nel corridoio ma, con una punta di delusione, appurai che non c’era anima viva ad esclusione del gatto, seduto sulla soglia con accanto un foglietto bianco e delle… scarpe?
Frappola mi osservava con il muso piegato, in attesa di una mia qualche reazione che non tardò ad arrivare. Sospirai, accovacciandomi sulle ginocchia per accarezzargli la testa e lui prese a fare le fusa. Quel gatto era un ruffiano, ma a malincuore dovetti ammettere che l'apprezzamento era reciproco.
Presi le scarpe e il bigliettino, prima che mi sfuggisse di mano, e mentre mi rialzavo, osservai le prime. Erano fin troppo familiari. Ricordavo bene che in principio erano rosa pastello, di raso, ma dopo la brutta fine che gli avevo fatto fare, ora tendevano ad essere più verdi che non del colore originale. Mi dispiaceva immensamente averle rovinate, abbandonandole sul prato davanti a casa, perché, in fin dei conti, erano un regalo di Percy, il primo regalo di Percy.
Un momento.
Che diavolo ci facevano davanti alla mia porta, una settimana dopo che le avevo buttate? Guardai di nuovo nel corridoio silenzioso, ma, ovviamente, non c'erano nessun altro oltre a me e al gatto. Chi era stato a trovarle e a riportarmele?
Con perplessità voltai il foglietto bianco, curiosa di scoprirne il messaggio contenuto.

 

È un vero peccato buttare via un così bel regalo, non trovi?
Tienile. Potrebbero tornare utili, un giorno.

Percy


Un sorriso spontaneo, immediato, mi si disegnò sul volto, non riuscendo a trattenerlo. Come aveva fatto Percy a trovarle se, quella sera, lo avevo sentito distintamente andare in camera dopo il disastro del Bacio? E perché le aveva tenute con sé per una settimana prima di riportarmele? Malgrado tutte le domande che mi turbinavano in testa, ero felice di quella piccola sorpresa inaspettata anche se non ne comprendevo bene il motivo. Cosa voleva dire con quel “potrebbero tornare utili, un giorno”?
Lancia un'occhiata al gatto, desiderando che avesse il dono della parola. In tale modo, magari, avrebbe potuto aiutarmi a dare una risposta a quelle domande. Frappola mi osservava di rimando; sembrava quasi chiedermi tacitamente cosa mi passasse per la testa.
«Andiamo, Frappola, abbiamo delle scarpe da mettere nel cassetto.»
Rientrai in camera, chiudendomi la porta alla spalle, seguita dal gatto che andò a sdraiarsi sul mio letto, nascondendo la testa nei cuscini. Lo stavo viziando un po' troppo.
Riposi le scarpe nell'armadio, ai piedi del vestito blu che avevo indossato e che, dopo il trambusto, mi ero premurata di non rovinare ulteriormente. Malgrado tutto, avevo dei bei ricordi legati a quell'abito.
Con calma, presi un paio di pantaloncini di jeans, una canottiera rossa e un cambio di intimo, e andai in bagno, per vestirmi e lavarmi: per quanto le cose stessero cambiando lentamente, le abitudini restavano.
Certo, non si poteva dire lo stesso del resto: ora, svegliarsi alla mattina era molto più semplice di quanto lo fosse solo pochi giorni prima. Sorridere mi veniva quasi spontaneo nel momento in cui ce n'era l’occasione. Probabilmente era anche più facile interagire con me: non ero solo io ad essermi accorta del cambiamento ma anche i bambini, a scuola, erano più sereni. Era incredibile quanto il mio umore condizionasse il loro.
Eppure le cose non erano tutte rose e fiori. Sì, ero diversa rispetto a prima, ma facevo ancora un certa fatica nell'aprirmi e nel lasciarmi andare. In alcuni momenti questo mi preoccupava molto; e se non fossi più riuscita a ritornare quella di un tempo? In altri, però, ricordavo le parole di Percy, sul fatto di andare con calma, a piccoli passi, e questo mi tranquillizzava.
Dovevo almeno provarci.
Chiusi il rubinetto e mi asciugai la bocca con l’asciugamano e, dopo aver lanciato un'occhiata al mio riflesso, uscii dal bagno, pronta a vivere quella nuova giornata.
«Buongiorno, Sapientona.»
Spontaneamente sul mio volto si aprì un sorriso radioso.
Percy se ne stava appoggiato alla parete di fronte, con le braccia incrociate, un gamba leggermente piegata di lato e il suo solito sorriso sghembo, tratto caratteristico del tipico piantagrane. Lo adoravo, sopratutto considerato che le fossette erano in bella mostra.
«Ciao.» lo salutai, beandomi di quella sensazione di leggerezza che mi travolgeva ogni volta che lo vedevo. -Che ci fai qui?-
Lui si strinse nelle spalle, staccandosi dalla parete per venirmi incontro.
«Ti stavo aspettando.» disse mentre si fermava di fronte a me, alto e sorridente.
Quell'affermazione mi fece sorridere ancora di più: stava diventando quasi un'abitudine che lui attendesse la mia uscita dal bagno per andare a fare colazione assieme. Mi piaceva.
Con tutta la calma del mondo, Percy mi avvolse una braccio intorno alla vita per poi chinarsi, avvicinando il suo volto al mio, e darmi il bacio del “Buongiorno”. Era solo uno sfiorarsi di labbra, ma il mio cuore saltò un battito e prese a battere più velocemente del normale.
Si ritrasse dopo un secondo ed ebbi la sensazione che, in realtà, lo facesse per me, come se non volesse prolungare a lungo il contatto, temendo in un mio rifiuto. Anche se non ne ero certa, gliene fui molto grata.
Un passo alla volta.
Mi lasciò andare e sorrise.
«Andiamo giù.»

«Ah, ecco che arrivano i piccioncini!» sogghignò Grover, mentre io e Percy ci sedevamo uno di fronte all’altra al tavolo, come nostro solito. Quello non era affatto cambiato.
Sorrisi timidamente con le guance che diventavano rosse mentre allungando una mano per prendere una fetta di toast. La fame rimaneva comunque tanta.
«Underwood, piantala.» lo rimproverò Chintia mentre faceva il giro del tavolo con una grande padella sfrigolante in mano. Passandogli vicino, ne approfittò per tirargli un capoccione leggero sulla testa.
«Ehi! Che ho fatto?» si lamentò Grover con una smorfia indignata e una mano sul capo.
«Smettila di fare lo stupido e lasciali in pace!» riprese Chintia. Quando si arrabbiava, o faceva finta di esserlo, parlava con un lieve accento latino, molto carino a mio parere.
Si voltò, per continuare a distribuire bacon e uova sui nostri piatti, così Grover poté farle la linguaccia alle spalle.
«Underwood, guarda che ti vedo!» disse la donna senza più degnarlo di un’occhiata.
Grover sbuffò, ma poi riprese a mangiare, o meglio a ingozzarsi, incurante di essere stato scoperto. Quei due mi piacevano ogni giorno di più. Avevano un rapporto strano, il più delle volte conflittuale, ma si vedeva che Chintia voleva bene a Grover nello stesso modo in cui ne voleva a me e a Percy. Quella donna si comportava proprio come una madre, adottando chiunque le capitasse sotto tiro.
Lanciai un’occhiata a Percy, il quale mi indirizzò un piccolo ghigno e un occhiolino, allungando la mano per prendere la mia. Io cercai di ritrarla, non volendo farmi vedere da nessuno in quel modo, ma lui strinse la presa e mi sorrise rassicurante.
«Va tutto bene.» sillabò, senza emettere alcun suono.
«Oh, ma che teneri che siete! Mi ricordate tanto io e mio marito alla vostra età. Ah, bei tempi quelli!» commentò Chintia mentre finalmente si sedeva a tavola, con lo sguardo puntato sulle nostre mani intrecciate. Sorrideva, ma sembrava distante, come se stesse rivivendo un ricordo lontano. Poi, all’improvviso, il sorriso cambiò forma, trasformandosi in qualcosa di amaro e nostalgico. Chissà a cosa stava pensando.
Non mi ero mai soffermata a pensarci, ma di Chintia non sapevo poi molto. Mi aveva raccontato qualche cosa sul marito e sulla figlia, ma nulla di più. Dov’erano ora? Perché Chintia non era con loro?
«Allora, miei cari, che programmi avete per oggi?»
Automaticamente guardai verso Percy, impegnato a battere il record di cereali in bocca in una sola volta. Era buffo, con le guance piene e lo sguardo confuso, quindi non potei fare a meno di scuotere la testa divertita. Ecco comparire il solito Testa d’Alghe. Ero felice che quel lato di lui non fosse affatto cambiato, malgrado la storia con suo padre e il resto. Feci un cenno in direzione di Chintia, che stava aspettando una risposta e lui si affrettò a deglutire bevendo un sorso di latte.
«Uhm, in realtà pensavo di lavare la macchina. Dovendo andare e tornare dalla città due volte al giorno, si sporca facilmente. Ti va?» chiese poi rivolto a me.
In realtà non avevo alcun programma in agenda, ma anche se lo avessi avuto l’avrei rimandato: passare la mattinata in compagnia di Percy aveva la priorità su qualsiasi altra cosa.
«Certo.»
Finimmo di fare colazione con calma, sempre tenendoci per mano. Ogni tanto incrociavo il suo sguardo ed era come se il sole mi stesse baciando la testa, riscaldandomi. Che diavolo mi stava succedendo?
Non avevo mai avuto un ragazzo, rispetto a molte altre mie coetanee avevo baciato solo due uomini in tutta la mia vita, Percy compreso, e i pochi film romantici che avevo visto – o meglio, che ero stata costretta a vedere con Piper – non corrispondevano per nulla alla realtà. La mia esperienza in campo, quindi, era minore o pari a zero. Eppure tutte le sensazioni che mi aveva descritto Piper nel momento in cui si era messa con Jason corrispondevano perfettamente a quelle che stavo provando.
Questo, però, non doveva essere per forza un bene: ero già innamorata irreparabilmente di Percy, anche se non glielo avevo detto chiaro e tondo, ma se lui alla fine si fosse accordo di non voler più stare con me? Non ne sarei uscita affatto bene da quella storia, proprio no. Sì, la sua intenzione era di costruire qualcosa di duraturo, me lo ricordavo molto bene, ma gli imprevisti potevano cogliere chiunque.
«Forza, Sapientona, andiamo.»
Mi riscossi bruscamente dalla trance in cui ero caduta, sorprendendomi della facilità con cui mi ero isolata dalla realtà. Guardando Percy che si alzava dalla sedia, promisi a me stessa di non pensare più a quei dubbi e timori che continuavo a portarmi dietro. Dovevo solo chiuderli in un cassetto e andare avanti a testa alta.
Dopo aver salutato gli altri, raggiunsi Percy mettendomi al suo fianco, mentre lui mi cingeva le spalle con un braccio e mi posava un bacio sulla tempia.
«Spero che tu non tenga troppo ai vestiti che indossi perché probabilmente non usciranno indenni dalla mattinata.» sogghignò, con un cipiglio divertito negli occhi.
«Tranquillo Testa d’Alghe, so bene in cosa mi sto cacciando.» risposi di rimando.
Il suo ghignò si allargò. «Vedremo, tesoro, vedremo.»
E, in effetti, aveva ragione lui. Non passò molto tempo da che “pulire la macchina” si trasformò in una battaglia a chi riusciva a bagnare di più l’altro. Tutto era iniziato bene, avevamo riempito un secchiello di acqua e, dopo aver aggiunto un po’ di sapone, ci eravamo messi a strofinare, una spugna a testa.
Tra chiacchiere e sorrisi fuggiaschi, ero un po’ perplessa di non essermi ancora bagnata nulla.
Come sempre, avevo parlato troppo presto.
Stavo passando ripetutamente lo strofinaccio sul cofano a causa di una macchia che non ne voleva sapere di venire via, quando un getto di acqua fresca non mi colpì la schiena, spostandosi in fretta lungo le gambe.
Il fiato mi si mozzò in gola mentre udivo Percy scoppiare in una fragorosa risata.
Mi girai, con il fiato grosso, e lo fulminai.
«La tua… faccia, dovevi… oddio…» era talmente piegato in due dalle risate che non si accorse di me.
Presi il primo secchio pieno che mi capitò a tiro e, senza pensare, glielo versai in testa. Smise subito di ridere. Beh, almeno ora eravamo entrambi zuppi, no?
«Dicevi, Testa d’Alghe?» domandai fiera, incrociando le braccia al petto e facendo un sorrisetto.
«Non male, Sapientona, non male.» commentò con una nota di ammirazione nella voce e un cipiglio di orgoglio. Fece un passo avanti, poi un altro, e capii dalla sua faccia che il mio breve momento di gloria era già terminato. Lui aveva ancora in mano la canna e io ero a mani vuote.
«Ehi, no, non ci provare!» dissi, alzando la mani in alto e arretrando lentamente. Per mia sfortuna, mi trovai con le spalle alla macchina. Guardai nervosamente a destra, poi a sinistra, e proprio quando lui azionò il getto d’acqua, scattai a destra, cercando di sfuggirgli.
Per quanto fossi sempre stata veloce, Percy lo era molto di più e aveva anche le gambe più lunghe. Doveva aver abbandonato l’idea di bagnarmi con la canna da qualche parte perché, quando mi raggiunse le sue mani erano libere.
Mi circondò il corpo con le braccia, tirandomi a sé, e prese a farmi il solletico sulla pancia. La canottiera mi aderiva al corpo come una seconda pelle quindi non c'era via di scampo. Caddi a terra, con Percy sopra di me che non smetteva un attimo di torturare le mie zone sensibili: collo, piedi, pancia, braccia...
Quando finalmente si fermò gradualmente, rimanemmo a guardarci per un'eternità che parve infinita, con il fiato grosso. Parallelamente pensai a come ci fossimo trovati nella stessa situazione qualche settimana prima: io sdraiata, lui sopra di me leggermente piegato in avanti, entrambi con il fiato pesante. Era tutto uguale, tranne per una cosa. Ora stavamo insieme.
Fulmineamente Percy si chinò su di me, baciandomi con trasporto. Risposi al suo attacco, circondandogli il collo con le braccia per tirarlo più vicino. Lo sentivo, lo percepivo. Fremevo.
Le sue mani presero a toccarmi la pancia, infilandosi sotto la maglietta, ma in modo diverso rispetto a prima: erano più lente, meno delicate, più curiose, passionali. Mi baciò la mascella e poi il collo, arrivando alla clavicola.
E io mi irrigidii automaticamente. Non lo feci apposta: piuttosto, era come se il mio strumento di difesa si fosse attivato meccanicamente. Più mi avvicinavo a quello, più mi addentravo in un campo minato. Avevo paura di ferirmi irreparabilmente.
Percy, grazie a Dio, parve accorgersi del mio tentennamento e, nell'immediato, si staccò, tornando verso la mia bocca dove depositò un ultimo bacio leggero, conclusivo.
Mi guardò negli occhi, passando una mano sulla mia guancia che, sicuramente, era rossa per l'affanno. Non riuscii a cogliere ciò che stava provando in quel momento perciò ero frustata: mi preoccupava non conoscere i pensieri di Percy visto che ero stata io a sottrarmi per prima.
«Scusa.» mormorai.
Sapevo che non c'era nessuna ragione per cui mi dovessi scusare, ma non avevo idea di cos’altro dire.
«Tranquilla, è colpa mia: ho esagerato.» disse con una dolcezza nella voce che mi sciolse il cuore mentre continuava ad accarezzarmi il viso. Sentivo il suo fiato caldo in faccia di tanto che era vicino.
Non meritavo Percy e non l’avrei meritato nemmeno dieci vite dopo.
«Su, finiamo di pulire questa macchina.»
Mi porse una mano e io l’accettai, lasciandomi tirare in piedi.
C’era stato un momento, dopo che si era attribuito la colpa dell’accaduto, in cui avevo visto i suoi occhi accendersi di una luce strana, che scomparve pochi attimi dopo, come se avesse raggiunto il suo momento eureka.
Tornammo alla macchina e fu come se, tra noi, non fosse cambiato nulla, come se io non mi fossi appena sottratta al suo tocco, proprio come una codarda.


 

***



Oscurità.
Il buio proiettava strane ombre sul muro, lunghe, sfalsate, inquietanti. Tutti i miei peggiori incubi erano raccolti lì, assieme, formando il gruppo di mostruosità meglio assordito di tutto il pianeta.
Vedevo la paura, il terrore, il panico e tra di essi un’unica figura umana.
Ero di spalle perciò mi era impossibile distinguerne i particolari, ma la forma dell’ombra bastava a mettermi i brividi. Era familiare perché lo conoscevo. Eccolo lì, il mio peggior nemico, il mio peggior male.
Intorno a me non c’era assolutamente nulla ad esclusione della parete su cui veniva proiettata la luce. Non potevo voltarmi, non volevo voltarmi.
Poi, improvvisamente, quella luce si fece più intensa come se, la fonte da cui proveniva, si fosse ingrandita a dismisura, diventando più simile ad un faro che non ad una torcia. E, tra le altre ombre, ne scorsi un’altra, una nuova che, in qualche modo, cacciò le altre con un semplice gesto della mano.
Apparteneva sicuramente ad un uomo alto, snello, forte. Con una nota di panico osservai la figura diventare sempre più grande, segno che si stava avvicinando lentamente. E se voleva farmi del male?
Senti qualcosa di caldo toccarmi la spalla, ma ero ancora impossibilitata a voltarmi. Mi beai di quel contatto delicato che ebbe il potere di scacciare qualunque timore avessi avuto in precedenza.
«Va tutto bene.» mormorò la voce dell’uomo, calma e sicura. Anche quella era stranamente familiare, ma non riuscivo a darle un nome.
Proprio mentre sentivo di potermi finalmente girare per guardare il mio misterioso salvatore, mi svegliai bruscamente, scacciando le coperte dal mio corpo.
Ero ricoperta di sudore da capo a piedi e il respiro un po’ affannato. Intorno a me non c’era assolutamente niente di anormale: fuori era ancora notte fonda, la casa era avvolta nel più completo silenzio e gli altri dormivano.
Perché avevo fatto quel sogno? Che significava? Non potevo nascondere che quell’incubo mi preoccupava: erano settimane, ormai, che mi addormentavo nella più completa serenità, svegliandomi al mattino più riposata di prima. Che quei sogni oppressivi fossero tornati di nuovo?
Mi sentivo la gola secca così decisi di scendere in cucina per bere un bicchiere d’acqua fresca: male non mi avrebbe fatto sicuramente e, inoltre, sapevo di non poter tornare a dormire perché avevo troppi pensieri inquietanti per la testa.
Scesi le scale che portava al piano terreno, con le infradito che facevano un rumore sordo nel momento in cui sbattevano contro i miei talloni, e rimasi molto stupita di vedere la cucina illuminata dall’interno. Che Percy fosse sveglio per uno spuntino notturno?
Una piccola parte di me sperava sul serio che quell’ipotesi fosse vera. In quel modo avrei potuto bearmi del calore del suo corpo, nascondere la faccia nel suo petto, stringermi a lui. Perciò rimasi inevitabilmente un po’ delusa quando sentii qualcuno gemere e poi soffiarsi il naso: quello sicuramente non era Percy.
Non so esattamente cosa mi aspettassi ma nel momento in cui vidi Chintia seduta al tavolo da pranzo, con il capo chino, un pezzo di carta in mano e il volto solcato dalle lacrime, rimasi un po’ spiazzata.
Nel corso del tempo mi era capitato spesso di trovarmi davanti a persone tristi, disperante. Chi volevo prendere in giro, io stessa ero una persona triste e disperata! Ciò che, però, non rientrava nel quotidiano era l’essere l’unica persona presente nella stanza con il malcapitato. Sopportavo a malapena di vedere qualcuno piangere, forse perché non tolleravo vedere le mie, di lacrime.
Ma quella al tavolo era Chintia, la stessa donna che mi aveva accolto in casa sua con un sorriso cordiale, che non aveva mai mostrato un accenno di debolezza: insomma, una vera costante. Vederla in quello stato non giovava al mio umore già di per sé nero.
Mi avvicinai silenziosa, mettendole una mano sulla spalla. Lei sussultò, sorpresa, e, non appena mi vide, si affrettò ad asciugarsi le lacrime con un fazzoletto di stoffa già bagnato. Da quant’è che era lì?
«Ehi, Chintia. Che succede?» domandai, mantenendo un tono di voce basso.
Presi posto accanto a lei, cercando di circondarle le spalle con un braccio e infonderle quanta più solidarietà possibile. Quella donna era sempre stata un punto fermo, una roccia per me: ora che aveva bisogno di aiuto non potevo sottrarmi dal ripagare il favore come meglio potevo.
Osservai come i capelli le fossero sfuggiti dall’abituale crocchia, incorniciandole il volto; le guance erano paonazze, com’erano diventate le mie dopo l’ultima crisi di pianto, mentre gli occhi erano rossi. Mi si strinse il cuore a quella vista.
«Oh, Annabeth cara, non dovresti vedermi in questo stato.» mormorò, ispirando rumorosamente dal naso.
«Sciocchezze.» dissi, facendo un vago gesto con la mano. Lanciai un’occhiata al pezzo di carta che teneva in mano e rimasi sorpresa nel constatare che era una foto a colori.
Al centro, a figura intera, era ritratto un ragazzo sulla ventina, vestito con una tuta mimetica. Con la mano destra stava facendo il saluto militare mentre con mano sinistra teneva un fucile a canna. Sorrideva all’obiettivo in modo un po’ rigido, come se non fosse abituato a stare al centro dell’attenzione.
«Chi è?» domandai, completamente rapita dalla figura.
Chintia lanciò una breve occhiata alla foto e cercò di trattenere un singhiozzo.
«È… era mio figlio maggiore. Jùlio.» mormorò a fatica.
E io mi sentii una merda, una merda totale: non mi era affatto sfuggito il riferimento al passato.
«È morto in Afghanistan esattamente tre anni fa, in seguito ad un’incursione in una scuola finita male. Gli ufficiali hanno detto che è morto da eroe, cercando di salvare dei bambini tenuti in ostaggio.» fece una pausa per prende un respiro profondo. «Era il mio bambino.»
«Mio marito, Jose, non l’ha presa bene. Era così fiero di suo figlio e della scelta che aveva fatto. Sai, Jose è sempre stato un po’ debole di cuore e la morte di Jùlio è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Pochi mesi dopo la scomparsa di Jùlio ha avuto un infarto che gli è stato fatale.»
Rimasi senza fiato: non riuscivo ad immaginare quanto dolore si potesse provare nel perdere un figlio e un marito nel giro di poco tempo. Come aveva fatto Chintia ad andare avanti da sola? Stava soffrendo, ma vedevo la necessità che aveva di parlare, di buttar tutto fuori, così la lasciai continuare senza interromperla.
«Ogni anno, esattamente questo giorno, vengo in cucina, apro questo scrigno e piango per una notte. La mattina richiudo tutto e lo metto via, finché non passa un altro anno.» mormorò con lo sguardo perso nel vuoto.
Rimasi in silenzio per un po’, cercando solo di trasmettere il mio conforto a Chintia con il contatto umano: sapevo molto bene che, in quel genere di situazione, le persone non voleva sentirsi dire nulla. Nessun “mi dispiace” sarebbe servito a riportare indietro ciò che si era perduto. L’avevo provato sulla mia pelle.
«Grazie al cielo, il Signore mi ha lasciato mia figlia, ma lei ora lavora in un altro Paese e quindi la vedo solo durante le festività. Dopo la loro morte non riuscivo più a rimanere nella mia vecchia casa, così piena di ricordi e di fantasmi. Dentro di me c’era ancora quell’amore riservato a mio figlio e a mio marito, e io non sapevo che farne. Poi è arrivata questa possibilità, quella si aiutare persone meno fortunate. Finalmente avevo trovato un posto dove mi potevo rendere utile.»
Si asciugò le ultime lacrime, stringendo poi la mia mano nella sua. Non potevo immaginare che la sua storia fosse così complicata, ma ero felice che fosse lì. Assomigliava molto alla madre che non avevo mai avuto, una persona su cui contare, e questo, legato al fatto di avere in comune una storia tragica alle spalle, mi faceva sentire molto vicina a Chintia.
Lasciammo passare qualche minuto, beandoci solo di essere lì, insieme. Guadandola, compresi che Chintia sapeva del mio passato; forse non i particolari ma ci era molto vicina. Eppure restammo in silenzio, sostenendoci a vicenda per un bel po’.


 

***



Mi svegliai con Frappola che mi stava leccando tutta la faccia. Strinsi gli occhi.
Che diavolo ci faceva in camera mia il gatto se -ne ero sicura- avevo chiuso la porta? Che avesse sviluppato dei pollici opponibili e fosse cresciuto in altezza tutto d’un colpo? E da dove diavolo mi venivano fuori quelle domande assurde? Ovvio che un gatto non poteva entrare magicamente in una stanza, se questa era chiusa, e poi non mi aveva mai leccato la faccia quindi non vedevo il motivo di iniziare ora.
Sbattei le palpebre piano e mi trovai faccia a faccia con il mio ragazzo. Se ne stava seduto sul bordo del letto, chinato in avanti e le mani ai lati della mia testa, per sostenere il peso. Faceva il contorno della mia faccia depositando dei piccoli baci un po’ ovunque: naso, occhi, tempie, fronte, guance, mento...
Quando vide che mi ero svegliata si ritrasse di qualche centimetro, sorridendo.
«Buongiorno, Sapientona.» mormorò.
Sorrisi a mia volta, leggermente a disagio in quella posizione ma molto felice del modo in cui mi ero destata: non c’era niente di meglio che essere baciati dal proprio ragazzo.
«‘Giorno.» oddio, ma che voce avevo? «Cosa ci fai qui?»
Percy si strinse nelle spalle, vago, ma non rispose.
«Lo sai vero che, anche se stiamo insieme, non hai ancora il diritto di entrare in camera mia senza il mio permesso?» domandai alzando un sopracciglio.
E, finalmente, sul suo volto comparve il ghigno, accompagnato dalle fossette.
«Sì, certo, raccontalo a qualcun altro. So benissimo che, in realtà, non chiudi la porta a chiave solo perché speri che io mi intrufoli in camera tua.» sogghignò, facendomi l’occhiolino.
Okay, va bene, lo ammetto, forse, e dico forse, aveva un po’ ragione. Ma, ehi, e se fosse scoppiato un incendio e io fossi rimasta chiusa nella mia stanza solo perché ero troppo in panico per infilare la chiave nella serratura?
Mio malgrado mi sentii arrossire, così, per sviare l’attenzione, mi tirai un po’ su e gli baciai le fossette, cosa che adoravo fare. Lui chiuse gli occhi, con il sorriso che si ampliava mano a mano che i miei baci si facevano più vicini alla sua bocca e, proprio quando stavo per arrivare alle sue labbra, si tirò indietro.
Sbuffai spazientita mentre lui mi prendeva la mano tra le sue e mi guardava.
«Che c’è?» domandai, aggrottando le sopracciglia.
«Nulla. È solo che, stando in questa posizione, mi viene in mente quando ti sei ammalata…» mormorò.
Era vero. Ricordavo ancora quel momento, con lui che se ne stava seduto al mio capezzale tenendomi una mano, rifiutandosi di andarsene finché non fossi guarita. In quei giorni aveva delle occhiaie da far paura e la preoccupazione era tangibile. Pure allora, sebbene fossimo diventati amici da poco, una parte di me sapeva di avere accanto un ragazzo speciale, più unico che raro.
«Forza, in piedi!» disse Percy all’improvviso, riportandomi alla realtà. «Vestiti che dobbiamo andare a sistemare una questione urgente.» aggiunse mentre si avviava verso la porta.
«Una questione urgente?»
Sì fermò di spalle, lanciandomi un’occhiata da dietro, con una mano sulla maniglia.
«Esatto, Sapientona. E cerca di sbrigarti! Non vorrei dover attendere ore in corridoio.»
In tutta risposta gli lanciai il mio cuscino che, purtroppo, andò a sbattere contro il legno della porta chiusa. Da fuori sentivo la sua risata.
Qual’era l’urgente questione da risolvere alle –lanciai un’occhiata all’orologio- sette di Domenica mattina? Che centrasse suo padre? Eppure mi era sembrato così di buon umore che faticavo a credere che Poseidone centrasse qualcosa, ma non avevo nessun’altra ipotesi plausibile. Uffa, dovevo smetterla di farmi domande a cui non potevo dare risposta: era un tortura per il mio cervello e un insulto gratuito alla mia intelligenza. L’unico modo per sapere era vestirmi e uscire.
E così feci.
«Era ora, Sapientona! Hai dovuto cucirteli al momento i vestiti?» mi prese in giro quel simpaticone del mio ragazzo quando, finalmente, uscii dalla camera.
«Ah. Ah. Molto divertente, davvero. Evita di parlare, visto che alla mattina stai in bagno quasi un ora.» risposi, colpendolo leggermente al braccio. Era una bugia, ma non sapevo come altro ribattere.
Lui continuò a ridacchiare mentre scendevamo al piano inferiore. Passando per la cucina, Percy mi porse una mela e una banana, dicendo che ci saremmo dovuti accontentare di una misera colazione, poi mi sospinse fuori, in direzione della macchina.
«Allora, dove siamo diretti di bello?» chiesi quando ci lasciammo la strada sterrata alle spalle per prendere quella che portava verso il centro della città.
Prima di voltarsi e sorridermi, pose una mano sopra alla mia, portandola sul cambio delle marce, dove la strinse.
«Andiamo ovunque tu voglia.» rispose alla fine, riportando lo sguardo sulla strada.
Quella era, in assoluto, la risposta più criptica che mi potesse dare: amavo i misteri e gli indovinelli, ma sinceramente non ne avevo voglia in quel momento. Aggrottai le sopracciglia, lanciandogli un’occhiata perplessa.
«Dio, non sai quanto adoro la tua faccia quando fai quell’espressione. Ti si forma una fossetta proprio in mezzo alla fronte.» mormorò quasi sovrappensiero, guardandomi brevemente. «Ora viene il bello. La vedi quella sciarpa sul cruscotto? Prendila.» aggiunse con un sorrisino enigmatico.
Feci come mi aveva detto e aspettai. Nel frattempo ci eravamo fermati ad un incrocio anche se non c’era alcun semaforo rosso da rispettare: in giro non c’era anima viva quindi non c’era il rischio di bloccare il traffico.
«Bendati.»
«Come scusa?» domandai, certa di aver capito male.
«Mi hai sentito bene: usa quella sciarpa per bendarti. Per favore, fallo.»
Ma che diavolo stava facendo? Perché dovevo bendarmi? Lo guardai a lungo mentre lui ricambiava l’occhiata: leggevo nei suoi occhi la sincerità più pura, così intensa che non potei fare a meno di ubbidirgli. E poi ero veramente curiosa di scoprire che intenzioni aveva.
Legai la sciarpa dietro alla testa e su di me calò il buio: tanto valeva chiudere gli occhi. Sentii una folata di aria fredda davanti alla faccia, come se qualcosa mi fosse passato davanti velocemente.
«Smettila di sventolare la mano. Non ci vedo comunque!» protestai.
Sentii la risata di Percy alla mia sinistra e storsi la bocca. Lui si avvicinò e mi posò un bacio all’angolo delle labbra, poi si scostò.
«Bene, ora scegli: destra o sinistra?»
«Eh? Sei impazzito, per caso? Pensavo che tra i due, fossi io quella da internare e invece ora scopro che non è così!» okay, stavo parlando troppo, ma per qualche ragione ero nervosa.
«No, mia cara. La pazza rimani ancora tu, io sono sano come un pesce. Forza, Sapientona, non è difficile! Destra o sinistra?» ripeté, facendo andare su di giri il motore.
«Ehm… destra?» la mia sembrava più una domanda che non un’affermazione, ma lui non controbatté.
«E destra sia.» e mentre lo diceva sentii la macchina riprendere a muoversi, girando nella direzione che avevo deciso. Rimasi in silenzio per qualche secondo, scervellandomi nel trovare un significato a tutto quello, ma non ce ne fu bisogno perché Percy ricominciò a parlare.
«Ora proseguiremo su questa strada e, ad ogni incrocio, tu deciderai che via prendere. Non c’è una meta, non c’è un obiettivo; andremo ovunque tu deciderai di andare.» la sua voce si era abbassata di qualche un tono, suggerendo la serietà con cui mi stava parlando. «So bene che per te è difficile, lo vedo nel modo in cui ti muovi, nel modo in cui a volte esiti. Ma riesco a vedere anche gli incredibili passi che hai fatto fino ad oggi e di questo ne sono immensamente felice e fiero. C’è ancora molta strada da fare, lo sai, ma ho bisogno che tu capisca, Annabeth, che qualsiasi cosa tu faccia, qualsiasi decisione tu prenda, io sarò al tuo fianco, sempre. Nello stesso modo in cui ora sto seguendo le tue scelte su che strada prendere, io ci sarò
Strinsi la sua mano, intrecciando le sue dita alla mie perché ne avevo bisogno.
Ciò che aveva fatto, ciò che stava facendo in quel momento, non poteva essere valutato: essere al fianco di una persona come Percy era la cosa migliore che mi potesse capitare. Non c’erano parole per ringraziarlo di una fiducia così cieca.
Capivo che mi stava chiedendo la stessa cosa, e per me era difficile, molto, ma Percy era Percy, ed era lì con me. Questa era un’assicurazione più che sufficiente.
Continuammo a fare quel gioco per un po’ senza bisogno di altre parole: ogni volta che sentivo il motore fermarsi, sceglievo la strada da prendere, poi nella macchina ritornava il silenzio.
Mano nella mano con Percy tutto era possibile. 












Angolo Autrice:
E' imbarazzante la puntualità con cui sto aggiornando, ragazzi! Dovrei proprio prendermi qualche mese sabbatico per tornare a fare la cattiva ragazza, non trovate?
...
Naahh, poi come fareste a vivere senza sapere come continua la storia? lol Non correi essere responsabile di qualche futuro depresso ;)
Comunque, tornando a noi, ciao! Come va? Spero bene ^^ Io sono appena uscita da tre settimane di stage che mi hanno prosciugato tutte le energie e, da Lunedì, comincerò a lavorare (di nuovo). Ma non vi rammaricate, avrò molto (relativamente) per scrivere :3
Passiamo al capitolo che forse è meglio. Ebbene ora che i due piccioncini di sono messi assieme (tre Hippip-Urrà per loro!) possiamo vedere quanto HAMORE ci sia nell'aria :3 Vi giuro, voi non sapete quando mi piaccia scrivere dei loro momenti più Percabetttthosi *^* Confesso, l'ultima parte, quella della macchina, è la mia preferita in assoluto, fino ad ora (e.e ne vedremo delle belle), ma anche le altre non scherzano. Il capitolo è focalizzato per lo più su una maturazione del loro rapporto, sui piccoli/grandi passi di Annabeth per quanto riguarda la fiducia (spero che abbiate capito il gioco della benda) e, beh, sulla storia di Chintia.
E' un personaggio secondario, è vero, ma, sin dall'inizio, avevo fatto intendere che nascondesse un passato non proprio idilliaco e mi dispiaceva non raccontare la sua storia e il motivo per cui fa quel lavoro...
Come sempre la domanda è d'obbligo: vi è piaciuto? u.u
Il prossimo capitolo sarà... beh, abbastanza interessante. Ci avviamo verso la fine della storia anche se, in realtà, mancano quasi una decina di capitoli (e lasciatemelo dire: che capitoli!).
Nulla, arriviamo ai ringraziamenti: come sempre, grazie infinite a tutte quelle persone che preferiscono/ricordano/seguono e, sopratutto, recensiscono questa storia. Come spesso dico, non sarei mai arrivata dove sono ora senza il vostro supporto, davvero. A fine storia farò la lista dei nomi, promesso.

Okay, credo di aver detto tutto.
Un bacione immensamente grande,
Annie

 




Link 1--> Ho aperto un contest nella sezione Percy Jackson. Se avete voglia di partecipare siete anche in tempo :3
Link 2--> Pagina Facebook dove ho ripreso a pubblicare alcuni mini-spoiler dei capitoli.
Link 3--> Ho aperto una pagina Ask per il mio profilo di Efp. Se avete qualche curiosita sapete dove chiedere :3

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Capitolo 21
*** Capitolo 20 ***


Disclaimer: Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di Rick Riordan; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.
   

Capitolo 20

 

Rio de Janeiro, qualche giorno dopo

 

Quante volte, da quando ero arrivata in Brasile, avevo avuto l'occasione di camminare sola per la casa prima ancora che Chintia cominciasse ad armeggiare con le stoviglie?
Domanda interessante, se ci si pensa, no? Dopotutto quella donna era capace di stare sveglia anche tutta la notte a incitare le galline perché deponessero le uova per paura di farci rimanere senza cibo per fare colazione.
Ma la vera domanda, quella che perfino mio padre non avrebbe mai osato pensare di formulare, era un'altra. Quante volte mi ero svegliata alle 5:30 del mattino, quando ancora i grilli friniscono del prato e il gallo russa beatamente sulla sommità del camino, senza che mi venisse la benché minima voglia di tornare ad appoggiare la testa sul cuscino e lanciare un dardo alla sveglia se questa avesse osato anche solo emettere un piccolo suono?
Sul serio, non c'era persona meno mattiniera di me. E tutti lo sapevano bene. Anche Percy, che non aveva mai avuto il coraggio di venirmi a svegliare prima delle 7.
Quindi perché diavolo ora mi trovavo davanti alla porta della sua camera, con la mano alzata già pronta a bussare e un sorriso deficiente stampato sulla faccia? Ed ero sicura al cento per cento di stare sorridendo vista l'immagine riflessa che mi ero trovata davanti allo specchio solo due minuti prima.
Due minuti prima. Le 5:28.
Roba da far venire la pelle d'oca anche a chi lavorava di notte.
A sostenere la mia tesi sul sorriso deficiente ci pensava il vago dolore che cominciavo a sentire alle guance, non proprio abituate a stare in quella posizione così a lungo.
Non so bene come era potuto succedere. Insomma, un momento prima stavo dormendo beatamente, mentre quello dopo ero lì, seduta nel letto, con un pensiero confuso in testa e la sensazione di dover fare qualcosa. Così mi ero alzata, inorridendo davanti all'orario proiettato dalla sveglia, ma avevo continuato a seguire quella strana idea: mi ero cambiata, indossando dei vestiti abbastanza leggeri e una felpa in vita, poi ero uscita il più silenziosamente possibile, lasciando la porta leggermente aperta nel caso in cui il gatto avesse voluto entrare.
Sì, Frappola mia piaceva e sì, era riuscito a corrompermi in cambio di qualche miagolio ben piazzato.
In realtà, se devo dirla proprio tutta, l'idea che avevo non era caduta dal pero solo nel momento in cui mi ero svegliata. No. Era un pensiero che vagava nella mia testa da un po', esattamente dal giorno successivo all'episodio della macchina.
Mi era piaciuto molto, non potevo nasconderlo a nessuno. Il fatto che Percy avesse pensato di dover fare qualcosa, quella cosa, per me, per farmi capire ciò che ancora non avevo compreso, aveva significato molto. Davvero tanto.
Non aveva fatto nulla di maestoso o prestigioso, ma alcune volte un gesto semplice, spontaneo, vale molto di più di ciò che si può fare con i soldi. E lui era riuscito a guadagnarsi qualcosa d'importante, di speciale, che non concedevo a nessuno da molto, molto tempo: la mia totale e completa fiducia.
Quando eravamo tornati a casa qualche ora dopo, mi ero premurata di riporre la sciarpa che avevo usato per bendarmi in fondo all'armadio, vicino alle scarpe e al vestito. Un'altro tesoro da aggiungere alla mia collezione di ricordi di quel viaggio che difficilmente avrei scordato.
Quella mattina avevo deciso che era il giorno giusto per farlo, ma non potevo pensarci da sola: il piano comprendeva anche la presenza di Percy perché avevo bisogno di un passaggio.
E perché la cosa non avrebbe avuto senso senza di lui.
Non potevo però presentarmi in camera sua alle 5:30 di mattina, vestita di tutto punto e con il pretesto che lui si alzasse dal letto solo per accontentare un mio capriccio quindi dovevo trovare un motivo valido per convincerlo, e io sapevo come.
Per mio fortuna, e sua sfortuna in base ai punti di vista, ricordavo bene che lui mi doveva ancora un piccolo favore, frutto della promessa che aveva fatto nel momento in cui gli avevo lasciato il bagno sotto scongiura, poche settimane prima.
E io ero intenzionata a riscuotere il mio premio proprio alle 5:30 di un Mercoledì mattina, già.
Posai la mano sulla maniglia e, senza indugio ma con delicatezza, l'abbassai lentamente, buttando poi la testa oltre la soglia per spiare l'interno della camera.
Era tutto buio, ma si riusciva a vedere abbastanza bene nella stanza perché Percy aveva lasciato le imposte della finestra aperte. Diceva che, così, non rischiava mai di rimanere a letto, visto che la sua sveglia era magicamente caduta nella vasca qualche settimana prima. Già, alla fine ero riuscita a farmi ridare la mia, di sveglia, anche se in cambio gli avevo dovuto dare un bacio – una vera catastrofe, insomma – .
Feci scorrere lo sguardo nella camera, soffermandomi poi sul letto, dove il mio ragazzo stava dormendo beatamente. Entrai con cautela, avvicinandomi a lui silenziosamente. Grazie al cielo le assi di legno del pavimento non scricchiolarono sotto il mio peso, cosa che invece succedeva nella mia camera.
Non potei proprio evitare di sorridere divertita quando, vicina a lui abbastanza per distinguere bene i suoi lineamenti, vidi il modo in cui era sdraiato: con un braccio a penzoloni oltre il bordo del letto, l'altro appoggiato sul petto e la bocca spalancata, Percy era il ritratto del principe azzurro. Per completare tutto ciò, stava pure sbavando, proprio come quel primo giorno sull'aereo.
Mi stupii nel constatare quanto tempo fosse passato. Quante cose fossero successe da allora. Quanto io fossi cambiata.
Appoggiai le ginocchia a terra per essere all'altezza del letto, poi allungai una mano per scostare un ciuffo di capelli dalla fronte di Percy. Ero più che sicura di non poterlo svegliare con un leggero sfioramento di dita, e infatti lui continuò a dormire spensierato.
Non mi sarei mai stancata di guardarlo mentre dormiva. Un po' mi dispiaceva di non poter vedere i suoi meravigliosi occhi verdi, ma il suo volto restava bello ugualmente. Sopracciglia scure, naso dritto e una mascella squadrata. Vicino alla tempia vi era una piccolissima cicatrice bianca, il ricordo di una brutta caduta dallo skateboard quand'era piccolo, così mi aveva raccontato.
Erano poche le occasioni in cui ero io a osservare lui e non il contrario.
Avevamo preso l'abitudine di stenderci su un telo nel prato davanti a casa nel pomeriggio, dopo esser tornati dalla scuola, e stare semplicemente così, lui con le gambe incrociate e io con la testa sul suo petto e un suo braccio a cingermi le spalle. In un paio di quelle occasioni era capitato che mi addormentassi mentre ascoltavo il battito del suo cuore, e al mio risveglio lo avevo trovato a osservarmi intensamente, dritta negli occhi. Secondo lui, stare sdraiato un'ora e passa a guardarmi dormire non era affatto uno spreco di tempo. Vallo a capire.
Dovevo smetterla di addormentarmi, sul serio! Sopratutto visto che mi sentivo ancora un po' a disagio al pensiero di essere osservata, ma alla fine questo non importava perché era Percy e andava bene così.
Mi riscossi da quei pensieri a malincuore, costringendomi a concentrare la mia parte razionale sul motivo per cui ero nella camera del mio ragazzo prima dell'alba, proprio come una stalker.
«Percy?» lo chiamai a bassissima voce, nella speranza che bastasse quello per svegliarlo.
Vane speranze, lo sapevo, infatti lui continuò a ronfare bellamente e a sbavare.
«Percy, svegliati!» riprovai con un tono più alto, questa volta scuotendolo piano per la spalla.
Lui si mosse leggermente, farfugliando qualcosa di incomprensibile, poi...
… nulla, perché tornò a dormire.
Sapevo benissimo che destarlo dal suo sonno sarebbe stato un grave problema nel mio piano, come un'incognita, ma speravo sul serio di non arrivare a tanto. Beh, io ci avevo provato, no? Se con le buone proprio non funzionava, rimanevano solo le cattive, purtroppo.
Quindi lasciai scorrere lentamente la mano sul suo braccio, accarezzandolo, per poi fermarmi sul bicipite e dargli un forte pizzicotto. E, finalmente, lui si tirò su dal letto di scatto, con gli occhi spalancati e il respiro trattenuto. Mi scansai appena in tempo per evitare di subire una testata.
«Ma che dia–»
Gli appoggiai una mano sulla bocca per evitare che svegliasse Grover o Chintia. Riconoscevo di non essere stata proprio delicata, ma lui si era svegliato e questo era l'importante, no?
«Shhh! Ora ti lascio andare, ma cerca di non urlare, okay?» sussurrai.
Lui fece un segno di assenso con la testa, alzando gli occhi al cielo, quindi ritirai la mano.
«Tutto bene?» domandò subito.
Io annuii, sorridendo leggermente dopo aver acceso la lampada sul suo comodino. In questo modo potevamo vederci meglio.
«Ma che ore sono?» chiese mentre si stropicciava gli occhi con entrambe le mani, per poi passarsele nei capelli combinando un vero e proprio disastro di proporzioni epiche. Quello era il suo tratto distintivo e amavo sul serio quando riuscivo a trovare il coraggio di allungare le braccia e mettere le mani nei suoi capelli per giocarci un po'.
Alzai le spalle, cercando di fare l'indifferente. «Sono le 5:30.»
Com'era prevedibile, Percy si accigliò vistosamente mentre si chinava in avanti, verso di me.
«Le 5:30? Sei davvero sicura di stare bene? È scoppiato un'incendio?» domandò sarcastico. La sua faccia esprimeva sbalordimento, ma il della sua voce era un po' canzonatorio.
«Ah. Ah. Molto divertente, davvero. E sì, sono sicura di stare bene» risposi cercando di far trapelare tutto il sarcasmo di cui ero capace, ma sotto sotto ero felice che la prima cosa che mi aveva chiesto era se stavo bene. Significava davvero molto.
La sua bocca si curvò in un sorrisetto e, ai lati, si formarono due piccole fossette. Cercai con tutte le mie forze di non allungare una mano per toccargliele.
«Ne sono felice» mormorò.
Passò ancora una volta la mano tra i capelli, poi si scostò leggermente a destra per farmi un po' di spazio, in modo che potessi sedermi sul suo letto anch'io. In effetti, cominciavo a sentire male alle ginocchia.
«Dunque, bando alle ciance» disse mentre prendevo posto accanto a lui, piegando una gamba sotto l'altra. «È un vero onore averla nelle mie stanze, signorina Chase. A cosa devo tale piacere?»
Non potei evitare di sorridere divertita davanti al suo tono formale. Insomma, indossava una maglietta che aveva visto giorni migliori, era coperto da un lenzuolo stropicciato e i suoi capelli erano un incubo anche per il più temerario dei parrucchieri. Il tutto risultava davvero buffo.
«Sono contenta che tu ti diverta con così poco, Testa d'Alghe, ma sono venuta a riscuotere ciò che mi aspetta» gli risposi, guardandolo alzare un sopracciglio.
«E sarebbe?»
Allargai le mani. «Il tuo debito, ovvio! Hai presente il favore del bagno, no?» domandai, alzando un angolo della bocca.
Quando lo vidi spalancare gli occhi e aprire la bocca, non riuscii a trattenermi dal sentirmi soddisfatta. Di cosa, non lo so proprio.
«Ma io stavo scherzando!» rispose facendo un finto broncio.
In risposta gli diedi una piccola pacca sul braccio. «No che non scherzavi! Ricordo perfettamente di averti sentito dire “Farò qualsiasi cosa mi chiederai”.»
Passarono alcuni istanti di silenzio, durante i quali ci sfidammo reciprocamente con lo sguardo, ma alla fine, com'era ovvio, vinsi io in seguito a un suo sospiro.
«Quindi?» domandò rassegnato.
«Quindi ora ti alzi, ti cambi e poi porti la tua magnifica ragazza al mare per vedere l'alba, proprio come l'altro giorno» dissi con un sorriso, chinandomi poi in avanti per dargli un sonoro bacio sulla guancia.
In risposta al mio piano geniale lui sbuffò, poi all'improvviso, sfruttando il fatto che mi fossi avvicinata per baciarlo, mi prese per le braccia, attirandomi a sé. Così ci ritrovammo sdraiati, una sopra l'altro, e non feci in tempo neanche a dire qualcosa che lui aveva unito le nostre labbra.
Capii subito che quello sarebbe stato un bacio lungo per svariati motivi, uno dei quali il fatto che né io né Percy sembravamo avere intenzione di mettervi fine a breve.
Non posso dire che il bacio non fosse ben voluto perché mentirei a me stessa, ma ero sul serio intenzionata a portare a termine il mio piano e restare a letto avrebbe solo rallentato il tutto. Malgrado ciò non potei proprio evitare di ricambiare il bacio mentre arrotolavo una ciocca di capelli tra le dita e con l'altra mano stringevo la sua maglietta all'altezza della spalla. Nel momento in cui finalmente schiusi le labbra, quel contatto divenne qualcosa d'intimo, di proibito, quasi peccaminoso.
Era il primo ragazzo che baciavo in quel modo, il primo ragazzo a cui permettessi di baciarmi in quel modo. In un paio di occasioni era capitato che lo dovessi bloccare perché immagini di quella sera mi tornavano in mente, e il cuore rischiava di esplodermi nel petto. Ma la maggior parte delle volte riuscivo a vincere la paura del momento, sopratutto se pensavo che lì con me c'era Percy e nessun'altro.
In cerca di aria, mi separai dalla sua bocca mentre lui si spostava verso l'incavo del mio collo, dove sapeva di trovare una zona davvero molto sensibile. Cominciò a far passare la punta della lingua sulla pelle, per poi tornare a posarci la bocca e mordere leggermente. E io non potei far altro che trattenere il respiro, lasciandomi sfuggire un piccolo gemito gutturale dalla gola.
Cambiai posizione, spostando la gamba dall'altra parte del letto e mettendomi a cavalcioni sulle sue cosce. In quel modo riuscii a far passare le mani sul suo petto, attraverso la maglietta percependo i suoi muscoli guizzare sotto il mio tocco leggero.
E poi... beh, lo sentii sotto di me. Il suo desiderio. La sua eccitazione.
Doveva essersene accorto anche lui di quel contatto perché, dopo essersi lasciato scappare un profondo sospiro, posò le sue mani sulle mie, bloccando qualsiasi cosa stessi facendo.
Ero confusa. Davvero molto confusa.
Una parte di me sapeva che, se lui non si fosse fermato, probabilmente avremmo continuato fintanto che la mia stabilità mentale poteva sopportarlo. Il problema è che non aveva idea di quanto sarei riuscita ad andare avanti. Inoltre, sentire con il mio corpo quanto il suo mi desiderasse, aveva annebbiato completamente i miei pensieri, e ora non sapevo cosa pensare: dovevo esserne felice? Oppure era il caso che mi preoccupassi?
Stavamo insieme soltanto da qualche settimana e lui mi aveva detto chiaramente, forse perché qualcosa sospettava, di volerci andare piano con la nostra relazione, di fare le cose con calma. Ero stata felice di questo: non sarei mai riuscita a passare del tempo in compagnia di qualcuno che voleva solo approfittarsi di me nel giro di un paio di appuntamenti. Sarei andata completamente in paranoia, comprando il primo biglietto per New York e decidendo di non uscire più di casa.
Che Percy avesse cambiato idea sull'andarci piano? In quel caso, probabilmente, dovevo uscire in fretta dalla sua camera e mettere fine a quella relazione.
«Ehm... Scusami» mormorò Percy, grattandosi la testa con evidente imbarazzo. Il collo gli si era tinto di rosso e i suoi occhi sembravano guardare ovunque tranne me. «È che, sai... è mattina presto e, beh... tu sei bellissima.»
Oh.
Oh!
Dio quant'ero stupida! Dovevo smetterla di arrovellarmi la testa con dei stupidi e infondati dubbi su Percy visto che, ogni volta, lui riusciva a dimostrare di essere il miglior ragazzo che avessi mai potuto sperare d'incontrare in tutta la mia vita.
Non solo era stato lui stesso a fermarsi, dimostrando di avere un autocontrollo notevole –, ma si era pure scusato. E poi aveva detto che ero bellissima.
Arrossii involontariamente, sentendo che il silenzio carico del mio e del suo imbarazzo stava diventando davvero opprimente.
Alla fine Percy tossicchiò, schiarendosi la voce, e azzardò una piccola occhiata nella mia direzione. «Ehm, potresti darmi cinque minuti, per favore?» domandò. «Sai, devo cambiarmi e ho bisogno di qualche minuto per... riprendermi.»
Saltai in piedi all'istante, e solo in quel momento capii perché faticasse a guardarmi in faccia: mi sentivo allo stesso modo.
«Oh, certo, sicuro» balbettai. «Allora io aspetto fuori» aggiunsi indicando la porta e dirigendomi in quella direzione.
«Okay, ehm, grazie...» rispose Percy ancora seduto sul letto. Prima di uscire notai che teneva stretto in pungo il lenzuolo, che lo copriva fino in vita. Decisi che fosse meglio rimanere all'oscuro di ciò che c'era sotto.
Non chiedere se non vuoi sapere, giusto?


 


Raggiungere la spiaggia non fu affatto facile come avevo pensato. Diverse volte dovemmo tornare indietro da dov'eravamo venuti e imboccare la strada opposta e, solo quando Percy scorse un paio di palme dalla forma strana, riuscimmo a districarci per le vie, arrivando alla spiaggia pochi minuti prima del tramonto.
La causa di tutto ciò era forse dovuta al fatto che io, la volta precedente, ero rimasta bendata fino alla fine mentre lui guidava. Se invece avessi guardato la strada, probabilmente sarei riuscita a ricordamela meglio di quanto non facesse il mio ragazzo. Certo, al ritorno non avevo nessuna benda a coprirmi gli occhi, ma diciamo che ero con la testa altrove, concentrata sul rivivere quell'ultima esperienza avuta con Percy.
A forza di andare a destra e a sinistra, alla fine eravamo finiti vicino a una piccola spiaggia, ben isolata dalla città. Non raggiungeva nemmeno i dieci metri in lunghezza, ma trovandola deserta, avevamo deciso di fermarci per qualche minuto. Alla fine eravamo rimasti lì per un paio di ore, dopo le quali eravamo tornati alla fattoria mano nella mano, con un sorriso sulle labbra e la certezza di potermi fidare ciecamente del mio ragazzo.
Quella mattina, però, c'era scuola e quindi avevamo davvero poco tempo prima di dover tornare. Malgrado ciò, non avevo davvero saputo resistere al desiderio di guardare l'alba con Percy su quella spiaggia, che era divenuto un po' il nostro piccolo posto nel mondo.
«Ebbene, ho riscosso tutti i miei debiti?» domandò Percy.
Ci eravamo messi sulla sabbia, qualche metro prima della risacca. Io sedevo tra le gambe di Percy, con la schiena e la testa sul suo petto caldo. Era piacevole stare in quella posizione, con il vento che mi soffiava leggermente sul viso e nessuna preoccupazione imminente su cui lambire il cervello.
«Uhm... Direi di sì, Testa d'Alghe. Anche se sarai sempre in debito con me» risposi.
Lo sentii sbuffare leggermente, con il fiato che mi solleticava il collo. Immaginai che sul suo volto fosse appena comparso un ghigno. «Ah, sì? E sentiamo, come mai?»
Feci spallucce, ma non potei nascondere un piccolo sorriso divertito.
«Beh, perché io ho accettato di mettermi con te, ovviamente! Sai quanta fatica ci vuole per sopportarti?» dissi con un finto tono lagnoso.
Calò il silenzio da parte sua ma, qualche attimo dopo, non riuscii a trattenere una risata genuina: sul serio, non c'era frase più falsa di quella che avevo appena detto.
«Ah, ti diverti a fare la spiritosa di prima mattina, eh?» borbottò mentre voltavo leggermente la testa e le spalle, in modo che potesse vedere che stavo sorridendo. I nostri volti distavano poco meno di una spanna.
Ero felice di quella vicinanza, non solo fisica ma anche mentale: sentivo di essere sulla stessa linea d'onda di Percy, ed ero immensamente grata di trovarmi lì in quel momento.
«Un po'.»
Lui scosse leggermente il capo, e alzò gli occhi al cielo. «Non mi lascerai mai in pace, vero?» chiese con un sopracciglio alzato.
«Esatto, Testa d'Alghe. Meglio che ti ci abitui» risposi appoggiando una guancia sulla sua e chiudendo gli occhi. Inspirai il profumo dei suoi capelli che si mischiò con quello del mare: un lato positivo dell'essere andati in spiaggia era che, per tutto il resto della giornata, Percy avrebbe profumato di sale e freschezza, quel misto di odori che potevi sentire solo al mare.
«Comunque ti ringrazio di avermi portato qui» dissi, tirando indietro la testa per lasciargli un bacio sulla guancia ruvida: frettolosa com'ero stata, non gli avevo nemmeno lasciato il tempo di radersi quella mattina.
Lui mi sorrise in risposta, poi io tornai a guardare l'orizzonte, appoggiando il capo vicino al suo collo.
All'improvviso la mia mente venne attraversata da un ricordo, non troppo lontano da quella mattina: davanti agli occhi vidi il giorno in cui io e Percy eravamo andati in spiaggia e lui, intenzionato a scoprire qualcosa di più sul mio conto, aveva proposto di giocare a dire-non dire con i peperoncini portati da casa. Ricordavo molto bene il momento in cui lui aveva fatto quella domanda, quella sulla mia verginità proprio mentre stavo per rispondere alla chiamata di mio padre al telefono. Ero andata completamente nel panico, lo dovevo riconoscere, ma per dei validi motivi. Grazie al cielo, alla fine Percy aveva deciso di non insistere nel sapere i dettagli che, sicuramente, non sarei mai riuscita a dirgli.
Ora però la situazione era cambiata: oltre a conoscerci meglio, avevamo deciso di provare a stare insieme, e questo implicava l'avere fiducia uno dell'altra; credere che, qualsiasi cosa fosse successa, lui ci sarebbe stato per me.
Ma questo valeva anche per quello che già era successo? Cosa avrebbe pensato di me Percy se avesse scoperto il mio passato? Mi avrebbe più guardata allo stesso modo? Avrebbe più avuto voglia di starmi vicino sapendo il fardello di problemi che mi portavo dietro?
Perché la verità era che avevo paura, paura che Percy mi lasciasse senza più guardarsi alle spalle.
Serrai le palpebre, ripetendomi che dovevo smetterla di pensare. Non c'era motivo per cui dovessi rovinarmi una bella mattina in compagnia di quello che ancora era il mio ragazzo a causa del mio passato: avevo rinunciato già a troppe cose per colpa di Luke ed ero stanca, stanca di tutto.
Era arrivato il momento di dire basta.
«Perché ci tenevi tanto a vedere l'alba?» chiese Percy all'improvviso, riportandomi bruscamente alla realtà. Con un po' di buona volontà, riuscii ad arginare i miei pensieri sul fondo della mia testa per riuscire finalmente a godermi quel momento.
Si creò una strana, ma piacevole, atmosfera: con il vento che soffiava leggermente dal mare, i raggi rossastri del sole all'orizzonte e Percy vicino, dentro di me cominciò a regnare una calma assoluta, quasi totale. Poche volte nelle ultime settimane – ma che dico? Negli ultimi anni – avevo avuto il piacere di sentirmi così bene. E tutto questo solo per merito di Percy Jackson, un ragazzo speciale, gentile e dal cuore nobile, il quale era stato in grado di strapparmi dal mondo isolato che mi ero creata. Dopotutto, forse per me c'era ancora speranza...
«Non lo so... Ne avevo voglia e basta, credo» mormorai, mentre le mie parole venivano catturate dal vento.
Stetti ad ascoltare Percy inspirare profondamente per poi lasciare andare l'aria con la stessa lentezza. Distese le gambe e fece passare un braccio sotto il mio, stringendomi la vita contro di sé, mentre percepivo i battiti del suo cuore aumentare.
«Che c'è?» domandai aggrottando leggermente la fronte.
Pochi attimi dopo lui chinò il viso, avvicinandosi al mio tanto che riuscivo a sentire la sua guancia ispida sul mio orecchio destro.
«Non voglio spaventarti, non voglio allarmarti e sopratutto non voglio metterti fretta. Accettalo e basta, non c'è bisogno che anche tu ricambi. È importante che tu ti prenda tutto il tempo, ma io ho l'urgenza di dirti che...» mormorò con un tono di voce pacato, ma carico di emozioni.
E poi accadde, senza alcun preavviso. «Ti amo, Annabeth.»


 


«Sapientona?»
Aprii un occhio, alzando una mano per mascherare i forti raggi del sole che mi davano fastidio, in modo da poter vedere meglio il profilo di Percy.
«Uhm?»
Non sapevo esattamente che ore fossero ma, calcolando il tempo approssimativo da quando eravamo tornati da scuola e la posizione del sole all'orizzonte, doveva essere quasi ora di cena. Sospettavo che, da un momento all'altro, Chintia avrebbe mandato Grover ad avvertirci che era pronto da mangiare.
Purtroppo, però, stavo pensando di saltare la cena e di andare dritta a letto, magari dopo un bicchiere di latte fresco, perché ero davvero molto stanca e, se non fosse stato per Percy che mi aveva chiamato, probabilmente mi sarei addormentata con la testa sulle sue ginocchia di lì a breve. Mi ero già fatta un promemoria mentale per il futuro: mai, e dico mai, decidere di alzarsi dal letto prima che il resto del mondo si svegli, nemmeno per passare un momento magnifico in compagnia del proprio ragazzo.
Okay, forse alla fine ne era valsa davvero la pena, ma non sarebbe di certo diventata un'abitudine!
Il fatto era che non riuscivo ancora bene a inquadrare la situazione, malgrado la scarica di emozioni che, ogni volta in cui ripensavo a quel momento, mi travolgeva il petto, facendomi desiderare di possedere una macchina del tempo per tornare indietro: Percy aveva detto di amarmi.
Lui. Amava. Me.
Come potevo essere sicura che, in realtà, non si era trattato solo di un brutto scherzo giocato dalla mia mente? In cuor mio, però, sapevo che era stato reale, proprio come lui era fatto di carne e ossa.
Ma oltre alle tre fatidiche parole, c'era quello che Percy aveva detto prima. Non solo lui accettava che io non fossi pronta a dirgli la stessa cosa – ne ero poi così sicura? –, ma si era premurato di avvisarmi, sicuro che mi sarei spaventata. E sicuramente sarebbe andata così se me lo avesse detto solo qualche settimana prima.
Forse per il luogo, forse per il tempo scelto, la paura che pensavo di sentire nel momento in cui Percy mi avrebbe detto “ti amo” non si era vista: al contrario, avevo avuto quasi la tentazione di ricambiare le parole. Alla fine, però, me n'ero stata in silenzio, limitandomi a cambiare posizione tra le sue braccia e a baciarlo intensamente.
La giornata, poi, era trascorsa velocemente e, in men che non si dica, eravamo tornati da scuola e ci eravamo accampati sul prato fuori casa, come altri pomeriggi prima di quello.
«È ora di rientrare. Sai anche tu quanto a Chintia dia fastidio il cibo freddo» disse Percy, spostando una ciocca dei miei capelli dietro l'orecchio svogliatamente.
Sbuffai contrariata da quell'idea, mettendomi seduta di malavoglia mentre lui si alzava, porgendomi una mano.
«Credo che andrò a letto direttamente. Sono troppo stanca per alzare anche solo una forchetta» mormorai, soffocando uno sbadiglio con una mano.
Percy mi rivolse un sorrisetto sghembo, mentre si chinava per lasciarmi un bacio all'angolo della bocca. «Come fa-»
«Percy Jackson?»
Non trascorreva giorno in cui non mi stupissi di come si facesse in fretta a passare dai momenti migliori a quelli che proprio non vorresti vivere, quelli che si evitano come la peste perché causano troppa sofferenza e amarezza.
Il bel viso di Percy, prima governato dalla pace più assoluta, impiegò esattamente un attimo di secondo a diventare di ghiaccio, con il sorriso congelato sulle labbra e una scintilla di rabbia repressa nello sguardo. Ancora chinato su di me, vidi il cambiamento repentino come l'arrivo violento di un uragano e non ebbi nemmeno il tempo di bloccarlo prima che lui si voltasse, posando gli occhi verdi sulla donna che stava alle sue spalle.
Anfitrite si ergeva in tutta la sua altezza in mezzo al vialetto, in cui era parcheggiata una lussuosa macchina praticamente nuova da tanto che scintillava, con una mano a chiudere il cardigan nero e l'altra abbandonata lungo il fianco.
Malgrado l'ultima volta che l'avevo vista indossasse un vestito da sera che le donava ovviamente un'aria da signora, in pantaloni kaki e semplice maglietta a tinta unita non era da meno: sembrava quasi che a circondarla ci fosse un'aurea regale, che solo le persone nate e cresciute nell'alta borghesia possedevano. La invidiai un po' per il modo naturale in cui si prestava, ben lontano dalla sciatteria con cui, di solito, mi presentavo io.
Eppure, a differenza di molte altre persone appartenenti al suo rango, Anfitrite non emanava quella sorta di arroganza mascherata da benevolenza. Se ne stava solo lì in piedi, con gli occhi puntati su di noi. Mi rivolse un breve sorriso cordiale, facendomi un cenno con il capo, poi si concentrò su Percy che, dal canto suo, non si era mosso nemmeno di un millimetro da quando si era voltato.
Avanzai di qualche passo, posando leggermente una mano sul braccio del mio ragazzo.
«Che cosa ci fai qui? Come fai a sapere dove vivo?» domandò lui, serrando la mascella. «Questa è violazione di domicilio! Vattene.»
C'era da riconoscere che la donna non si lasciò minimamente scalfire dal tono duro con cui Percy le aveva parlato, ma, anzi, mosse qualche passo, accorciando la distanza a meno di due metri da dov'eravamo noi. Sotto la mano sentii i muscoli del braccio di Percy tendersi, segno che avesse serrato i pugni.
«Sono venuta in pace, davvero. Vorrei solo parlare qualche minuto con te, se è possibile, e poi toglierò il disturbo» rispose Anfitrite. «Annabeth può restare, se preferisce»aggiunse poi, rivolgendomisi con gentilezza e cordialità.
Non avevo dubbi che fosse venuta in pace, malgrado il pensiero che Percy aveva su di lei: da ciò che avevo potuto apprendere la sera del gala, Anfitrite era l'eccezione a tutte le regole dell'alta borghesia. Questo, ovviamente, rendeva ancora più curiosa la storia di Percy e di suo padre che, invece di stare con Sally, era scomparso, lasciando una collana a forma di tridente e un bambino di cui prendersi cura, per sposare una bella donna ricca, più agevole al tipo di famiglia da cui proveniva Poseidone.
Se avessi dovuto azzardare un'ipotesi, avrei optato per il classico matrimonio combinato, ma Anfitrite non sembrava affatto il genere di donna che permetterebbe a un uomo di abbandonare il proprio figlio, anche se questo è costretto da un contratto.
E poi, il tempo dei matrimoni combinati era passato da un pezzo, anche per i nobili.
«No. Te ne devi andare subito. E non osare più tornare.»
Guardai Percy e non potei evitare di dispiacermi per lui vedendo la sofferenza mascherata dalla rabbia nei suoi occhi. Non era facile da cogliere, ma io sapevo che c'era. E sentivo anche che, se Anfitrite se ne fosse andata senza dire nient'altro, Percy se ne sarebbe pentito per tutta la vita, domandandosi cosa lei fosse venuta a dirgli.
«Percy, guardami» dissi, appoggiando una mano sulla sua guancia per convincerlo a voltarsi con riluttanza. «Sei sicuro che non te ne pentirai se ora lei sale in macchina e se ne va? Sei convinto che sia meglio ignorare il problema e fare finta che non esista? Dopotutto, cosa ti costa ascoltarla per qualche minuto?»
Lui aprì la bocca, pronto a ribattere, ma io gli appoggiai una mano sulle labbra e scossi leggermente la testa. «Ascoltala, Percy, ti prego. Io sono qui, di fianco a te, ricordalo» mormorai a voce più bassa, accarezzandogli la guancia, fino ad arrivare all'orecchio.
Lui mi guardò negli occhi per quelli che mi parvero anni, poi alla fine chiuse le palpebre e sospirò profondamente, deglutendo.
«Va bene, parla, ma sii veloce. Avrei altro di meglio da fare...» disse, rivolgendosi ad Anfitrite con astio, senza mascherare il diniego.
La donna sorrise brevemente, incrociò le braccia e parlò.
«Ho sempre saputo della tua esistenza, ancora prima di sposare Poseidone, e più volte ho cercato di convincerlo a incontrarti, a parlarti. Oggi non sono venuta qui con lo scopo di raccontarti tutta la storia, perché quello spetta a tuo padre farlo, ma ci tenevo a dirti che è una davvero una brava persona, malgrado ciò che la situazione faccia presagire. E vorrei chiederti di dargli un'altra possibilità di spiegarsi.»
Percy produsse una breve risata amara. «Ti ha mandato lui, non è vero?»
Anfitrite scosse il capo e nei suoi occhi lessi che era davvero sincera. «No, lui nemmeno sa che sono venuta qui. Pensa che in questo momento io sia da qualche parte al circolo di bridge.» Alzò gli occhi al cielo come se quell'idea fosse ridicola. «Ti prego, dagli un'altra possibilità. È davvero pentito del modo in cui ti ha trattato la sera del gala.»
Guardai preoccupata Percy serrare maggiormente la mascella per lunghi istanti di silenzio, ma poi lui si rilassò visibilmente, sospirando. Prima di rispondere mi lanciò un'occhiata, forse per scoprire la mia opinione in merito. Tutto ciò che feci fu un gesto con mento e una stretta sul braccio, e questo sembrò bastare per convincerlo definitivamente.
«Ci penserò, va bene? Non posso prometterti niente di più» disse alla fine.
E in quel momento sentii di essere veramente fiera di lui, per tutto. Allungai una mano e strinsi la sua nella mia, rivolgendo un sorriso ad Anfitrite.
«Okay. Grazie, Percy» rispose lei, annuendo. «E grazie anche a te, Annabeth, per averlo convinto ad ascoltarmi.»
Feci un gesto vago, guardandola dirigersi verso la sua macchina, dopotutto io non avevo fatto altro che Percy non volesse fare.
«E per quel che vale, sarei davvero felice di essere la tua matrigna, Percy» aggiunse poco prima di salire in auto.
La guardammo allontanarsi, un puntino sempre più piccolo all'orizzonte, poi mi voltai verso il mio ragazzo, che si strinse nelle spalle come se si volesse giustificare, e mi allungai per baciarlo.
«Sono fiera di te, Testa d'Alghe.»

 


 

E' lei o non è lei? Ma certo che è lei! Tranquilli, non avete ancora le allucinazioni ;)
Beh, buongiorno a tutti! Come vi va la vita? Le vacanze procedono per il meglio? Io tra lavoro e tutto il resto certo di districarmi per scrivere e, beh, per fare i compiti che, al 5 di Agosto, NON ho ancora iniziato. Ah. Ah. Divertente, vero?
Mi ridurrò a farli all'ultimo come sempre ._.
Btw, passiamo al capitolo! Dopo due settimane di pausa che mi sono presa, ecco a voi cosa la mia testa ha partorito (?). Un bel capitolo, eh? u.u Sì, mi faccio i complimenti da sola perché ne ho bisogno per alimentare il ego smisurato :3
Anyway, che ne pensate? Vi è piaciuto? Avete avuto anche voi le palpitazioni nella prima scena? E il "ti amo"? Ve lo aspettavate? E poi ecco che torna in scena Anfitrite! Eh, sì, perché prima o poi anche quella faccenda deve giugere al termine u.u 
Regalo un biscotto a coloro che trovano la semi-citazione da "Lo scontro finale" (non è difficile da trovare) u.u
Tornando al resto, sto pensando se unire il capitolo 21 al 22, entrambi di passaggio. Il 22 è un po' scarno e non voglio annoiarvi troppo, quindi pensavo di unirli (in tal caso il capitolo sarà un po' più lungo del solito) e di finire con un BOOM! u.u Ovviamente non vi dico nulla su cosa sia quel "BOOM" lol
Quasi dimenticavo: che ne pensate del nuovo banner? Vi piace più o meno del vecchio?
Bon, direi di passare ai ringraziamenti! Come sempre devo ringraziare di tutto cuore voi che mi seguite, che leggete, che preferite, che ricordate e che recensite *^* Le recensione, rispetto agli scorsi capitoli, sono un po' calate, ma presumo sia colpa di sto caldo e del mare che usa le sirene per chiamarvi è.è Ugualmente, vi chiedo di lasciare un piccolo pensierino, visto che siamo quasi alla fine ç.ç
Anyway, GRAZIE DI TUTTO! Risponderò al più presto a tutte le recensione dello scorso capitolo.
Al prossimo capitolo (che dovrebbe arrivare verso la fine del mese, prima che la sottoscritta parta per le vacanze in Puglia u.u).
Un bacione grandissimo,

Annie

 
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Capitolo 22
*** Capitolo 21 ***


Disclaimer: Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di Rick Riordan; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.
   

Capitolo 21

 

Rio de Janeiro, il sabato seguente

 


Il ronzio basso del motore sembrava essere quasi una cantilena, una sorta di sigla d'apertura per la destinazione verso cui ci stavamo dirigendo con estrema lentezza.
Troppa lentezza.
«Io l'avevo detto che bisognava partire mezz'ora prima!» esclamai all'improvviso, battendo ritmicamente il piede sul tappetino della macchina e incrociando le braccia al petto.
«Non è colpa mia se abbiamo trovato traffico» si giustificò Percy con le mani alzate davanti a sé. Tanto, per la velocità con cui stavamo procedendo, avrebbe potuto benissimo anche guidare a occhi chiusi e le mani legate dietro la schiena: il pericolo di fare un incidente era assai remoto.
Mi lanciò un'occhiata ed ebbe anche il coraggio di sogghignare prima che io mi allungassi per tiragli un pugno sul braccio.
«Che hai tanto da ridere? Arriveremo tardi solo perché tu hai insistito tanto per “prendercela comoda” e “fare con calma”» esclamai cercando di scimmiottare la sua voce con scarsissimi risultati e facendo il segno delle virgolette con le dita.
«Ehi! Io non ho la voce così stridula!» si lamentò Percy mentre aggrottava leggermente la fronte.
Scossi la testa e alzai gli occhi al cielo, pensando che fosse davvero difficile trovare un fidanzato più deficiente del mio, ma evitai di rispondere alla sua ultima affermazione, così riportai lo sguardo sulla strada, mettendo una gamba sotto l'altra.
Da quando avevo ricevuto la telefonata, non avevo perso tempo nel programmare tutto nei minimi particolari, tappa per tappa, assicurandomi di puntare preventivamente la sveglia per il serio rischio che, quel sabato mattina, mi svegliassi in ritardo. Ma poi, probabilmente per le poche – okay, lo ammetto, erano state molte – volte in cui avevo fatto avanti e indietro dalla mia camera a quella di Percy con il foglio del programma che svolazzava al vento, quest'ultimo aveva deciso all'improvviso di prendere in mano la situazione, sostenendo che io fossi un tantino esaltata ed emotivamente coinvolta per prendere decisioni razionali – forse, e dico forse, puntare la sveglia alle 4 di mattina era stato un po' troppo.
Perciò, seguendo il magnifico e studiatissimo programma ideato dal mio ragazzo, eravamo entrati in macchina a un orario umano – o almeno così preferiva definirlo lui – e, inavvertitamente, eravamo caduti nel più banale e stupido contrattempo che, chiaramente, Percy non aveva messo in conto: il traffico di una città nell'orario di punta.
Eravamo bloccati a un incrocio da almeno cinque minuti, davanti a noi c'erano centinaia di altre macchine, e alla nostra destinazione mancavano ancora un paio di miglia. Mentre ricominciavo a battere il piede sul tappetino, Percy si chinò in avanti, posandomi un bacio sulla guancia e io proprio non riuscii a trattenere il broncio più a lungo.
«Ah-ah! Lo sapevo che non eri davvero arrabbiata» commentò lui con un sorriso largo, puntandomi un dito contro.
«Non ho mai detto di essere arrabbiata» feci spallucce. «Ma non mi piace arrivare in ritardo, e lo sai!» dissi, lanciandogli un'occhiata di traverso.
«È vero, ma so anche quanto tu sia in ansia e trepidazione per questa cosa.» Percy allungò una mano, per posarla sulla mia gamba. «O forse mi sto sbagliando?»
Mi costava ammetterlo, ma aveva ragione: non ero così agitata per un bell'evento dalla sera del gala, poco prima di uscire dalla camera e fare la mia apparizione sulle scale. Sentivo il cuore battermi forte e l'adrenalina, causata dall'eccitazione, scorrermi nelle vene.
Feci un cenno di assenso, posando la mia mano su quella di Percy per stringerla. Sebbene in quell'occasione fosse abbastanza evidente, il mio ragazzo riusciva quasi sempre a capire ogni mio stato d'animo, ma non avevo ancora deciso se ciò fosse da considerarsi positivo oppure negativo.
«Okay, Sapientona, eccoci arriv-»
Non ebbe nemmeno il tempo di terminare la frase che io avevo già posato la mano sulla maniglia ed ero uscita, stando però attenta a non ammaccare la macchina di fianco alla nostra a causa dello slancio con cui avevo aperto la portiera.
Respirai a pieni polmoni l'aria calda di fuori, battendo a intermittenza il dito indice sulla gamba mentre aspettavo che Percy mi raggiungesse.
«Sai che mi sembri uno di quei cagnolini super esuberanti, che non smettono mai di muoversi, con la lingua fuori e che saltellano di qua e di là?» domandò, mettendomi una mano sul fianco, con fare protettivo.
Gli lanciai un'occhiata torva. «Ti ringrazio per la descrizione articolata, Testa d'Alghe» dissi. «Ora però andiamo.»


 


«ANNABEEETH!»
Una volta, su un giornale locale, avevo letto per caso che nessun essere umano era in grado di propagare le onde soniche della propria voce più di un paio di chilometri al massimo di distanza. Non sapevo se quell'informazione fosse vera, ma in tal caso, evidentemente, gli scienziati responsabili di quella ricerca non avevano mai conosciuto Piper McLean perché il suo urlo, con molte probabilità, aveva raggiunto anche i cittadini di San Paolo.
Ovviamente tutto l'aeroporto si era voltato a guardarla, non solo per la sua voce: Piper era così bella che difficilmente sarebbe mai passata inosservata da qualcuno.
Chiariamoci, non faceva poi molto per accentuare il suo charme. Anzi, molto spesso preferiva indossare qualcosa di sobrio come jeans e maglietta, ma anche in quelle occasione difficilmente non la si notava. Non so esattamente cosa fosse, ma aveva qualcosa nel modo di camminare, di atteggiarsi, qualcosa negli sguardi che lanciava, nelle emozioni che esprimeva, qualcosa nella voce. E tutto ciò era sbalorditivo.
La prima volta che l'avevo incontrata non ero riuscita ancora a notarlo, ma non appena Piper era sbocciata, durante le superiori, era stato difficile non accorgersi di lei anche per gli altri. In men che non si dica, era diventata la ragazza che tutti volevano al proprio tavolo durante il pranzo, la prima a essere invitata alle feste più esclusive, la ragazza che conosceva tutti. Eppure, malgrado ciò, non un solo giorno mi aveva trascurata. Anzi, se possibile, eravamo diventate ancora più unite.
E ora, dopo mesi di lontananza, finalmente la potevo rivedere.
Camminava spedita appena fuori dal gate, con un trolley nella mano destra e gli occhiali da sole a mo' di cerchietto. Era impossibile non notare il suo largo sorriso e la mano che sventolava in aria come un'ossessa, per cercare di attirare la mia attenzione. Qualche metro dietro di lei, arrancava un ragazzo biondo e alto che trascinava una valigia per mano, cercando di stare al passo di Piper malgrado la sua velocità e le persone che gli bloccavano la strada. Aveva un'aria un po' imbarazzata, probabilmente dovuta all'attenzione esagerata che Piper aveva attirato su di sé mentre urlava a squarciagola.
Sorrisi, un po' per la scena buffa, un po' per l'emozione che sentivo travolgermi il petto e, istintivamente, cominciai a correrle incontro, spalancando le braccia quando fummo a pochi passi di distanza. Lei fece la stessa cosa, lasciando cadere malamente il trolley con un gran tonfo, e così ci trovammo di nuovo insieme.
Finalmente.
La strinsi a me con forza, sentendo subito il profumo familiare del suo shampoo, e ringraziai il cielo per quell'inaspettata sorpresa che lei e Jason mi avevano fatto.
Il giorno successivo alla visita di Anfitrite, Piper mi aveva telefonato e subito avevo capito che c'erano novità dalla sua voce entusiasta: inutile dire che i giorni seguenti non ero riuscita a pensare ad altro. Sfruttando le vacanze estive, Piper aveva pensato fosse un'ottima idea venirmi a trovare: sentiva il bisogno di prendersi una vacanza dalla solita routine e non aveva smesso un secondo di ripetere che le mancavo.
«Oddio, Annabeth» mormorò al mio orecchio, poco prima di prendermi per le spalle e allontanarmi da sé per farmi la radiografia completa. «Caspita, ragazza, sei uno schianto!» esclamò poi, ammiccando.
Risi. «Mi sei mancata anche tu, Piper.»
Ci guardammo negli occhi per qualche secondo, intensamente, e fu come avere una conversazione completa, senza bisogno di parlare: compresi che, molto presto, avremmo fatto una bella chiacchierata, solo io e lei. E un sacco di domande da parte sua.
In fondo, se devo essere sincera, me lo aspettavo: dopotutto, ero consapevole del fatto che uno dei motivi principali per cui era venuta a trovarmi era proprio l'urgenza di aggiornarsi di persona su come stava procedendo la mia vita. Dopotutto, certi discorsi non di potevano fare solo e soltanto al telefono, con migliaia di chilometri a dividerci.
Piper aveva pure pensato a come tenere occupato Percy mentre io e lei eravamo impegnate: ecco come Jason era stato coinvolto nel viaggio. Beh, in realtà, il vero motivo era che quei due vivevano perennemente in simbiosi e difficilmente sarebbero riusciti a stare una settimana senza vedersi, ma non c'era bisogno di specificarlo: stando insieme da parecchi anni era diventato quasi naturale che, dove andava una, c'era pure l'altro. Non sarebbe stata una sorpresa così grande se, a breve, quei due fossero andati a convivere.
Alla fine io e la mia amica ci separammo, voltandoci in direzione dei nostri ragazzi che erano intenti a squadrarsi.
Percy alzò un sopracciglio. «Quindi tu sei Jason.»
«E tu devi essere Percy...» rispose l'altro di rimando, con la medesima espressione indecifrabile in volto. Poi, all'improvviso, entrambi si aprirono in un sorrisetto e allungarono simultaneamente il braccio per scambiarsi un pungo, proprio come dei veri macho.
Lanciai un'occhiata a Piper, la quale ricambiò proprio come un tempo, e scoppiammo a ridere per quell'assurda scenetta. Avevo come la sensazione che quei due sarebbero andati d'accordo, malgrado l'evidente differenza di personalità.
Da una parte c'era Percy, occhi verdi e capelli scuri, dal carattere chiuso e un po' schivo all'inizio, ma molto socievole nel momento in cui cominciava a prendere confidenza. Con il passato della sua famiglia, era difficile trovare qualcosa in comune con Jason. Eppure il detto non diceva che gli opposti si attraggono? Certo, non volevo che funzionasse proprio alla lettera, ma il discorso si applicava anche per le amicizie, no?
Ero così assorta nel studiare i ragazzi che mi accorsi con qualche attimo di ritardo che Piper si era allontanata, abbandonando bagaglio e borsa sul pavimento, per avvicinarsi senza timore a Percy e fermandoglisi a pochi centimetri di distanza.
Lo squadrò da capo a piedi per parecchi secondi con uno sguardo serio, incurante del fatto che Percy la stesse guardando confuso e un bel po' a disagio, tant'è che si grattava la testa nervosamente. Sapevo benissimo, fin dal primo momento in cui lei mi aveva dato la notizia di quella visita, che Percy non l'avrebbe passata liscia senza prima essere stato sottoposto all'occhio critico della mia migliore amica, essenziale, secondo la medesima, perché la nostra relazione potesse continuare. Ovviamente stava scherzando – o almeno, ne ero quasi certa –, ma con imbarazzo mi resi conto di essermi dimenticata di avvisare Percy dell'esame, giunto completamente inaspettato per lui.
Non mi accorsi nemmeno di star trattenendo il fiato fino a quando Piper non si voltò a guardarmi, annuendo con un sorrisetto soddisfatto stampato in volto.
Malgrado non fosse necessario, Piper mi stava dando la sua approvazione ufficiale, e io non potevo che esserne felice perché ciò significava che Percy, sotto tutti gli aspetti, era il ragazzo giusto per me.


 


«Che meraviglia!» esclamò Piper, con il naso spiaccicato sul finestrino e gli occhi spalancati che si muovevano, cercando di assorbire ogni singolo particolare di ciò che stava vedendo al di fuori.
Sorrisi, pensando alla prima volta che anch'io avevo fatto quella strada: seduta davanti accanto a Grover, ricordavo di essere rimasta spiazzata da tutti quei colori e dalla baraonda di gente riversa nelle strade anche a tarda sera.
«Credimi, di notte la città diventa persino migliore di adesso» dissi.
Piper si voltò, piantandomi quei suoi singolari occhi caleidoscopici in viso, mentre sul volto le compariva un sorrisetto storto. Potevo vedere alla perfezione gli ingranaggi nel suo cervello girare furiosamente e produrre un'idea che, sospettavo, non sarebbe stato di mio gradimento, come succedeva la maggior parte delle volte in cui aveva quell'espressione.
«Che c'è?» domandai a malincuore per poi pentirmene subito dopo, quando Piper allargò il suo sorriso fino a mostrare i denti perfettamente curati dopo anni di apparecchio.
«Niente» rispose e io alzai un sopracciglio, scettica. «Sappi solo che questa sera sei prenotata dalla sottoscritta.» Poi, si voltò fulmineamente verso i sedili anteriori, dove Percy e Jason alternavano momenti di silenzio ad altri di chiacchiere, e sporse la testa nel mezzo.
«Ragazzi stasera usciamo a mangiare» li informò come se fosse stata una cosa già decisa da tempo. Successivamente ritornò a sedersi composta sul suo sedile, prendendo una mia mano tra le sue e guardandomi.
«Su, forza, raccontami tutto!» esclamò con entusiasmo, stringendo la mia mano per incitarmi a parlare.
La guardai negli occhi, beandomi della sensazione di familiarità che esprimevano e, solo in quel momento, capii quanto Piper mi fosse mancata in quei mesi di lontananza. Avevo la nostalgia di tutto: delle chiacchierate al telefono fino a tarda notte, delle serate passate nel mio letto con un barattolo di gelato al cioccolato, due cucchiai e un sacco di lacrime; ma, sopratutto, dei suoi abbracci, dei suoi consigli, delle sue parole di conforto nei momenti più bui. Insomma, mi era mancata Piper e basta.
Incitandomi a raccontarle tutto, sapevo con assoluta certezza che la cosa non includeva quel discorso perché i ragazzi erano davanti ,a portata di orecchio, e quello era solo una faccenda tra me e lei. Ero sicura, però, che saremmo giunte anche a parlarne prima o poi, da sole e in privato, quindi, malgrado non morissi dalla voglia di affrontare l'argomento, potevo tirare un sospiro di sollievo momentaneo e concentrarmi nel raccontarle le cose più futili, come il lavoro, i miei bambini e tutto il resto.
Un paio di volte, mentre parlavo di Nico e di sua madre, incrociai per caso lo sguardo di Percy nello specchietto retrovisore e, automaticamente, risposi al suo sorriso. Piper se ne accorse perché, quando tornai a concentrarmi su di lei, mi guardò in modo strano, oserei dire quasi orgoglioso, ma poi tornò a concentrarsi sulle mie parole e il momento venne superato.
Quando, finalmente, smisi di parlare, eravamo ormai quasi giunti alla fattoria, e Piper rimandò il racconto di come andassero le cose a New York, compresi i pettegolezzi su dei vecchi compagni e quant'altro: ovviamente, tutto ciò non poteva interessarmi in alcun modo, ma dovevo ammettere che un po' mi mancavano anche le sue chiacchiere futili su chi si fosse messo con chi.
«Allora, Percy, raccontami un po' di te. Ho saputo che sei di New York! Perché non ti abbiamo mai visto in giro?» domandò Piper all'improvviso, sporgendosi di nuovo tra i due sedili.
Gemetti: la mia amica aveva cominciato con il suo interrogatorio a cui nessuno riusciva a sfuggire e, difficilmente, avrebbe terminato in breve tempo. Un po' mi dispiaceva per Percy che, del tutto impreparato alla furia rappresentata da Piper, si ritrovò dopo appena un paio di domande a boccheggiare, non riuscendo a stare dietro a tutto quel brio.
Vedendolo lanciarmi un'occhiata disperata, con una smorfia di panico in volto, scoppiai a ridere senza volerlo e ciò bastò a distrarre Piper, che si voltò a guardarmi con un'espressione seria e sbalordita allo stesso tempo.
«Tu stai ridendo!» esclamò, puntandomi un dito contro come se mi volesse accusare di un qualche reato.
«Ehm... sì?» Ero un po' spiazzata da quell'uscita quindi la mia risposta uscì più come una domanda, ma mi affrettai a scuotere il capo. Che c'era di strano nella mia risata?
Piper rimase in silenzio per qualche secondo, fissandomi intensamente negli occhi, poi, all'improvviso, spalancò la bocca in un largo e lento sorriso, e tornò a voltarsi in direzione del conducente che, dal canto suo, lanciava delle brevi, ma perplesse, occhiate allo specchietto retrovisore.
«Tu! Percy Jackson» disse, battendogli un dito sulla spalla. «Hai tutta la mia stima eterna per essere riuscito a far ridere questa ragazza, sappilo» continuò imperterrita.
Il mio ragazzo attese qualche secondo prima di voltarsi lentamente verso Jason, che stava al suo fianco e seguiva la scena con interesse, e scuotere il capo.
«Amico, la tua ragazza ha dei seri problemi mentali» commentò.
Scoppiai a ridere di nuovo, un po' per il tono con cui Percy aveva parlato, un po' per la situazione, mentre Jason si apriva in un ghigno.
«Credimi bello, tu non l'hai mai vista al centro commerciale durante il periodo dei saldi. Varie volte ho pensato di fissarle un appuntamento da un bravo psichiatra.»
«Jason Grace!» esclamò Piper con le braccia incrociate e un'espressione stupita in volto. «Ti ricordo che dormiremo nello stesso letto stanotte e questo mi permette di evirarti con tutta tranquillità se non stai attento a ciò che dici.»
Dal canto suo, il ragazzo non sembrò affatto intimorito da quella minaccia di castrazione perché guardò Percy e fece un cenno con il mento in direzione di Piper. «Visto?»
In tutta risposta, Percy rise, tornando a prestare attenzione alla strada per parcheggiare nel suo posto auto. Piper mi lanciò un'occhiata esasperata, alzando lo sguardo al cielo, e io allungai una mano per stringere la sua, come per confortarla.
I maschi erano tutti uguali: con una palla ai piedi e un campo di erba verde, erano capaci di perdersi per ore a rincorrere una sfera di cuoio, ma sia mai che dovessero entrare in un negozio. Lo spazio chiuso poteva seriamente compromettere quei due fortunati neuroni ancora in vita e renderli del tutto degli idioti patentati. Da una parte, però, potevano anche essere utili: altrimenti, chi pagava il conto alla cassa e trasportava tutti quei sacchetti pesanti?
Pensandoci, dovevo riconoscere che con Percy non era successo niente del genere. L'unica volta che lui aveva trascinato me al centro commerciale, mi aveva quasi costretta a fare degli acquisti e si era pure divertito nel comportarsi da scemo, indossando un misero top e una stupida gonna attillata. Santo cielo, al solo pensiero rischiavo ancora di arrossire per l'imbarazzo di quel momento e per la figura che avevamo fatto.
Vedendolo, però, insieme a un altro ragazzo della sua età, finalmente scorsi quel lato del suo carattere che, in mia sola compagnia, non era mai riuscito a emergere: per la prima volta, mi resi conto che Percy riusciva ad essere un ragazzo normale se messo vicino a un altro ventenne.
Guardandoli sghignazzare come due deficienti per delle battute idiote, ero pronta a scommettere che quei due sarebbero diventati grandi amici in poco tempo, proprio come aveva sperato Piper. In questo modo, secondo lei, non c'erano pericoli che i due ci interrompessero e, sicuramente, non si sarebbero annoiati.
Slacciai la cintura di sicurezza e uscii dalla macchina, rimanendo piacevolmente stupita quando Percy mi si avvicinò intrecciando la mia mano alla sua. Appoggiai la testa sulla sua spalla, beandomi di quel contatto finché non mi accorsi che Piper ci stava guardando con gli occhi che brillavano, le sopracciglia quasi all'attaccatura dei capelli, e la bocca mezza spalancata. Dietro di lei, Jason era intento a guardarsi attorno, con un'espressione di meraviglia stampata in volto mentre osservava l'incredibile paesaggio che la fattoria offriva.
Fischiò ammirato. «Caspita, amico! Questo posto è una figata. Un po' mi dispiace di dover passare la settimana in un albergo.»
Piper alzò gli occhi al cielo e scosse il capo, poi lo prese a braccetto. «Ti ricordo che è pur sempre un albergo a quattro stelle! Se ti fa davvero così schifo, puoi chiedere a Percy di prestarti una tenda e dormire in questo prato» commentò ironicamente, prendendolo in giro con malcelato affetto.
«Naah! Credo che, alla fine, niente possa reggere il tuo confronto» rispose Jason, attirandola a sé per darle un bacio profondo, l'anticipo dei probabili piani lussuriosi che aveva in programma per quella sera.
Quei due erano incredibili: battibeccavano almeno un paio di volte al giorno, ma si vedeva lontano un miglio che Jason sarebbe stato perso senza Piper e che si amavano alla follia.
Distolsi lo sguardo a disagio, di fronte a cotanta inibizione a cui non ero abituata, e incrociai quello di Percy che mi stava sorridendo: chissà se anche noi, da fuori, sembravamo così affiatati. Molto spesso evitavamo i contatti intimi davanti agli altri per due ragioni principali: lavorando con dei bambini, non era molto consono che ci vedessero scambiare effusioni durante l'orario di lavoro, e poi c'ero io che ancora avevo alcune difficoltà a mostrarmi così vulnerabile in pubblico. Preferivo di gran lunga quand'eravamo solo io e Percy, e nessun altro.
«Su, forza, andiamo. Chintia ci starà aspettando per il pranzo» dissi ai miei amici per riscuoterli dal momento d'intimità, mentre comminavo in direzione della casa, sempre mano nella mano con il mio ragazzo.


 


Raggiunsi il mio telo azzurro ridendo con difficoltà, a causa del fiato corto per la corsa che avevo fatto nel tentativo di uscire dall'acqua prima che Percy mi acchiappasse. Stramazzai al suolo in contemporanea con Piper, alla mia destra, e allargai braccia e gambe mentre guardavo il cielo azzurro sopra di me.
«La prossima volta non mi sfuggirai, Sapientona, ricordatelo» mormorò Percy al mio orecchio con voce roca, dopo avermi raggiunto assieme a Jason ed essersi chinato al mio fianco.
Risi divertita, sicura che la sua fosse solo una minaccia scherzosa, ma poi vidi i suoi occhi verdi che parevano quasi liquidi sotto quella luce, e la mia risata si spense pian piano, ritrovandomi a fissarlo a mia volta intensamente.
«Se lo dici tu...» sussurrai e, senza volerlo, abbassai lo sguardo sulla sua bocca, deglutendo con difficoltà.
Sì, in quel momento desideravo ardentemente baciarlo fintanto che le labbra non avessero cominciato a farmi male, accarezzargli i capelli e immergere gli occhi nel suo verde fino a perdermi in quel mare. Ma, con un sussulto al cuore, ricordai che fossimo in compagnia a che, comunque, eravamo in un luogo pubblico, attorniati da centinaia di bambini in costume e madri molto suscettibili.
Accolsi comunque con immenso piacere il bacio a fior di labbra che mi diede Percy, durato qualche istante più del dovuto, ma rimanendo molto casto in confronto all'eccessiva effusione tra Piper e Jason del giorno prima alla fattoria.
«Non vedo l'ora di essere soli, questa sera, per poterti baciare come si deve» sussurrò Percy direttamente a contatto con il mio orecchio, per evitare che chiunque altro potesse udirlo. A quelle parole il mio cuore andò in fibrillazione e io faticai a spiccicare parola: il cervello era completamente andato, fuso, partito per la tangente dopo quell'ultima frase di Percy.
Per fortuna – o sfortuna in base ai punti di vista – Piper scelse proprio quel momento per intromettersi ed ero quasi sicura che lo avesse fatto apposta, malgrado fece finta di non aver visto niente.
«Percy? È un problema se ti rubo Annabeth per una breve passeggiata? Sai, non abbiamo ancora avuto il tempo di fare i nostri discorsi da donne visto che ieri la serata è saltata a causa del jet leg...» disse con gli occhiali da sole tirati sulla testa, mentre metteva una mano sulla fronte per mascherare lo sguardo dai raggi del sole alle spalle di Percy. Accanto a lei, Jason si era sdraiato supino sul suo telo, ancora gocciolante di acqua dopo il bagno che ci eravamo fatti poco prima.
«Certo, certo, andate. Non vorrei essere d'intralcio alla mia bellissima ragazza e alla sua bella amica» rispose Percy, alzando le mani davanti a sé, ancora leggermente chinato in avanti.
Sentendo quella frase, Jason si rizzò a sedere in un battibaleno, e puntò un dito verso Percy con fare minaccioso. «Ehi, amico! Stai attento a ciò che dici. Piper è la mia, di ragazza, capito? Mia» protestò in modo molto bellico, tant'è che tutti, ad esclusione di Jason, scoppiammo a ridere a crepapelle.
Piper si allungò per lasciargli un bacio affettuoso sulla guancia, poi gli fece una carezza. «Andiamo, gelosone, non vedi come Percy guarda Annabeth? Non riuscirebbe a fare il filo a nessun'altra nemmeno se lo volesse» disse lei mentre si alzava in piedi, porgendomi una mano.
Il mio sorriso scomparve all'istante, colpita da quell'ultima uscita di Piper, ma, per qualche strano motivo a me incomprensibile, non osai voltarmi a guardare Percy. Così, seguendo Piper, mi alzai, lasciando i ragazzi soli, dirette verso la scogliera che distava poco più di duecento metri da dove c'eravamo accampati.
Rimasi in silenzio per un po', concentrata sull'apprendere appieno il significato della frase di Piper e a domandarmi perché lo avesse detto: dopotutto, non le avevo più parlato di Percy da quando ci eravamo messi insieme, a parte qualche messaggino all'inizio. Ero stata così presa da quella novità che avevo preferito tenere tutto segreto per un po'.
Girai il capo, osservando il profilo della mia amica: tra i suoi capelli portava delle piccole piume di colomba che venivano sospinte dal vento leggero di quel pomeriggio, mentre la pelle color caffellatte creava un piacevole contrasto con il suo costume nero, che le calzava a pennello. In quegli ultimi mesi le si erano leggermente induriti i lineamenti della faccia: pian piano Piper stava assumendo i tratti decisi di una donna adulta e questo mi fece capire quanto il tempo stesse trascorrendo in fretta.
Stranamente né io né lei aprimmo bocca per tutta la durata della camminata e, in poco tempo, raggiungemmo il primo scoglio su cui ci arrampicammo, stando attente a non scivolare o a inciampare negli appigli scoscesi. Quando, finalmente, ci sedemmo in una rientranza liscia della roccia, capii che quello sarebbe diventato uno dei miei posti preferiti in Brasile: da quella postazione si riusciva a vedere tutta la baia e anche di più, fino all'orizzonte illimitato dell'oceano blu.
«Wow» mormorò Piper, con il fiato sospeso e gli occhi spalancati.
Annuii, non potendo evitare di darle ragione. «Già...»
Calò uno strano silenzio, frammentato solo dagli spiragli del vento e dal rumore tranquillizzante della risacca delle onde che, giungendo a riva, tornavano indietro poco dopo.
«Come vanno le cose, Annabeth?» Il mio cervello recepì nell'immediato il tono serio con cui Piper aveva posto quella domanda. Capii che era arrivato l'agognato momento della verità, malgrado, in quei due giorni, avessi fatto di tutto pur di evitarlo.
Il problema non era che non fossi pronta: stranamente, per qualche ragione a me inspiegabile, sentivo il bisogno mentale, e quasi fisico, di lasciarmi andare con la mia migliore amica, raccontarle tutto. Forse, in questo modo, speravo che quel sogno idilliaco non avrebbe più avuto fine, e io avrei potuto vivere per sempre felice con Percy, senza che i problemi potessero scalfirci; rendere la realtà attuale eterna.
Eppure, sempre per lo stesso motivo, avevo anche il timore di parlarne: io prima fra tutti sapevo come le situazioni più rosee potessero trasformarsi all'improvviso in un incubo senza fine, un lungo tunnel buio di cui era difficile trovarne l'uscita.
E io avevo bisogno di un lieto fine, proprio come respiravo.
«Lo so che te l'ho già chiesto, e credo anche che tu sia stata più o meno sincera ogni volta, ma... Tesoro, sei davvero felice con lui?» ricominciò a domandare Piper in seguito al mio lungo – e involontario – silenzio.
Come sempre, Piper aveva capito tutto quasi meglio di me: mi ero sempre trovata in difficoltà a rispondere a quella domanda perché, dopotutto, cosa determinava la felicità? Non era una cosa oggettiva, facile da decretare in base a prove effettive, ma qualcosa di astratto, che si sentiva e provava. Ma chi mi dava la certezza che quello spiraglio positivo che io chiamavo felicità non fosse, invece, altro che sollievo?
Sì, riconoscevo di essere complicata e di farmi innumerevoli problemi riguardo a qualsiasi cosa, ma, dopotutto, si trattava pur sempre della mia vita, della mia esistenza, e avevo sofferto abbastanza per riuscire a permettermi di scottarmi un'altra volta con una relazione.
Eppure, quando aprii la bocca, non indugiai un secondo di più nel rispondere positivamente a quella domanda. Perché, con Percy, io ero felice sul serio, e non c'era ragione di dubitarne più.
Piper annuì seria, con lo sguardo puntato all'orizzonte, e prima di porre un'altra domanda lasciò passare qualche secondo di silenzio in cui percepii l'atmosfera farsi più leggera: sapevo perfettamente che dovevamo ancora giungere al fulcro centrale del discorso, ma ero riuscita a superare indenne almeno il primo scoglio.
Piper girò leggermente il capo verso di me e alzò un sopracciglio perfettamente curato, accompagnando il tutto con un sorrisetto furbo. «Allora, cara la mia Annabeth, raccontami un po', com'è Percy? E tu sai cosa intendo...» aggiunse, muovendo la fronte allusivamente.
In tutta risposta scoppiai a ridere, spintonandola amichevolmente per la spalla: discorsi seri o non seri, Piper rimaneva sempre la stessa, e forse era per questo che le volevo così bene.
«Ehi, che ho detto di male? Vi ho visto insieme prima, sai? Ero pronta a scommettere che se non ci fossimo stati io e Jason, e tutto il resto della spiaggia, non vi sareste limitati solo a un casto e banale sfioramento di labbra.»
A quelle parole, arrossii lievemente, scuotendo la testa. Sì, aveva ragione, ma non doveva saperlo per forza.
Lei alzò un angolo della bocca, poi tornò all'attacco, con la vera domanda. «Avete già fatto...» si bloccò, mordendosi un labbro: sapevo fin dall'inizio dove voleva andare a parare, ma le ero grata per il tatto che stava usando, come se avesse avuto paura di rompermi in mille pezzi.
E, in effetti, se solo me lo avesse chiesto qualche mese prima, probabilmente mi sarei chiusa in un mutismo assoluto, rifiutandomi di parlarne categoricamente. Ma io ero cambiata completamente, e, dopotutto, Piper aveva il diritto di domandarmelo, in quanto mia migliore amica.
Tutto ciò, ovviamente, non voleva per forza dire che non potessi arrossire come una scolaretta alle prime esperienze, cosa che, infatti, feci.
«No...» mormorai, abbracciandomi le gambe e appoggiando la guancia sinistra sulle braccia, in modo da poterla vedere in faccia. «Non ne abbiamo ancora parlato seriamente, anche se Percy ha sottolineato varie volte che vuole procedere con calma perché percepisce il mio disagio in certe situazioni... Piper, quel ragazzo è incredibile! Gli basta uno sguardo per capire come mi sento, ciò che provo, quello che penso. Secondo te è reale?» domandai, dando voce a un pensiero assurdo che girava nella mia testa da un po' di tempo.
La mia amica scoppiò a ridere. «Certo che è reale, Annabeth! Si chiama amore e sono felicissima che tu abbia trovato finalmente un ragazzo che ti meriti abbastanza da stare al tuo fianco... E che sappia aspettare i tuoi tempi» aggiunse, tornando seria.
«In realtà... Qualche giorno fa eravamo nel suo letto e ci siamo lasciati andare un po' troppo oltre, ma poi lui si è bloccato all'improvviso perché le cose cominciavano a farsi serie... Sai...» balbettai alludendo al fatto che avevo sentito l'eccitazione di Percy poco prima che tutto finisse, mentre ripensavo a quella mattina della spiaggia, quando io ero entrata nella sua camera per svegliarlo ed eravamo finiti con il baciarci appassionatamente.
Piper annuì. «Capisco...» mormorò. «Quindi, anche tu lo desideri?»
Rimasi leggermente spiazzata da quell'ultima domanda, anche se era assolutamente lecita visto il territorio delicato in cui eravamo cadute. Tentennai qualche secondo, mentre nella mia testa passavano in rapida successione tutti i momenti d'intimità vissuti con Percy, dal quel primo bacio sulla terrazza, fino allo sfioramento di labbra di poco prima.
«Sì... lo desidero» mormorai, la voce quasi un sussurro. «Ma non credo di essere ancora pronta per fare il grande passo, Piper. Io non... posso, non ci riesco.»
Puntai lo sguardo all'orizzonte, appoggiando il mento sulle braccia, mentre qualche ciocca bionda di capelli sfuggita alla coda mi solleticava il volto.
«Annabeth? L'hai già detto a Percy?»
Ed ecco che arrivò.
Sapevo benissimo che prima o poi saremmo giunte a quello, ma avevo preferito ingenuamente ignorare la questione come se non esistesse. In un certo senso, però, quella domanda rivelava quanto Piper mi conoscesse bene.
Sorrisi amaramente, sentendo crescere in me un senso di colpevolezza, mentre scuotevo il capo, sicura che lei mi stesse guardando. E, infatti, Piper lasciò andare un breve sospiro subito dopo, allungando una mano per stringere la mia in un gesto di conforto.
«Lo sai che prima o poi dovrai dirglielo, vero?»
Chiusi gli occhi, isolandomi visivamente dal resto del mondo, anche se potevo ancora percepire il contatto con la mano di Piper: lei aveva solo evidenziato l'inevitabile, ma io preferivo ignorare la questione ancora e ancora, finché, ne ero certa, non mi avrebbe distrutto.
Rimasi ostentatamente in silenzio, finché Piper non aggiunse ciò che entrambe pensavamo. «Glielo devi, Annabeth.»
Annuii. «Lo so, Pip, lo so...» Spostai gli occhi a sinistra, in direzione della spiaggia, e vidi le figure dei ragazzi intenti a schizzarsi con l'acqua del mare, come due bambini dell'asilo. E proprio in quel momento, come se avesse percepito il mio sguardo su di sé, Percy si fermò, e guardò verso gli scogli.
«... E gli parlerò, presto.»


 


«Saluta mio padre, okay? E digli che mi manca tanto e che non vedo l'ora che sia Dicembre» mormorai all'orecchio di Piper mentre la stringevo in un forte abbraccio.
«Lo farò sicuramente, tranquilla» rispose lei, con lo stesso tono. «E grazie per questa meravigliosa settimana! Sai, in un certo senso ti invidio. Non ti aspetta mica un nuovo semestre appena messo piede a New York.»
Sorrisi divertita dalla sua espressione burbera: Piper non era mai riuscita a instaurare un “legame” con le lezioni del college, ma, sotto sotto, sapevo che le piaceva molto ciò che studiava.
«Credimi, non sai quanto mi manca stare dall'altra parte della cattedra...» dissi sinceramente per smorzare un po' la situazione. «E comunque, sono io che ti devo ringraziare per la visita... Non potevi farmi regalo più bello, davvero.»
Pip mi buttò nuovamente le braccia al collo, stringendomi forte. «Ti voglio bene, Annabeth.»
La strinsi a mia volta, seppellendo il naso nelle sue treccine. «Anch'io, Pip, tanto.»
Al nostro fianco, Percy e Jason stavano sghignazzando per qualche ragione idiota, esattamente come avevano fatto innumerevoli volte nel corso di quell'ultima settimana. Era incredibile vedere quanto avessero legato nel giro di pochissimi giorni, riuscendo a creare uno strano rapporto di amicizia fatto di battutine rivolte a stuzzicare l'altro e occhiate complici, che terminavano poi in una grossa e grassa risata.
Scossi il capo, sconsolata, mentre scambiavo una breve occhiata con Piper che, evidentemente, stava avendo il mio stesso pensiero.
«Forza, Superman, è ora di andare, altrimenti perdiamo il volo» disse la mia amica per redarguire Jason, dopo che gli si fu affiancata, prendendolo per mano con quella non occupata dal trolley.
«Ehi! Lo sai che non mi piace affatto quando mi chiami in quel modo!» protestò lui. Ma il suo broncio durò poco, perché Piper si alzò sulle punte dei piedi per posargli un bacio sulla guancia, che lo addolcì.
Osservai quella scena con un sorriso che si spense un po' quando i miei amici si voltarono, dopo un ultimo saluto, sparendo oltre i cancelli del gate.
Dentro di me, sentivo molte emozioni contrastanti fare a gara per prendere il sopravvento: da una parte ero triste: la visita di Piper e Jason aveva risvegliato la malinconia di casa, mentre dall'altra ero felice perché avevo potuto rivedere Piper prima del previsto. Inoltre, era giunta proprio in un momento di estremo bisogno: mi era stata incredibilmente d'aiuto nel mettere in ordine qualche pensiero che affollava la mia testa, ponendolo al posto giusto, come aveva sempre fatto.
Non ero ancora pronta a raccontare tutto a Percy, ma stavo cominciando pian piano a prepararmi in vista di quel momento, sicura che dovessi parlargli al più presto.
Ero così immersa nei miei logorroici ragionamenti che sussultai lievemente quando qualcuno mi circondò la vita con una mano e, quando compresi ch'era solo Percy, mi rilassai automaticamente, appoggiando la testa sulla sua spalla mentre lui mi accarezzava il fianco pian piano con fare comprensivo.
«Su, forza, ora dobbiamo andare» mormorò, dandomi un bacio leggero sulla fronte. In seguito mi prese per mano, dirigendosi verso l'uscita dell'aeroporto.
«Dove ci porti oggi?» domandai, una volta entrati in macchina, mentre Percy metteva in moto.
Si strinse nelle spalle. «Pensavo di andare al Luna Park. Credi che a Nico possa andare bene?»
Rimandavamo quell'uscita con Nico da giorni a causa del soggiorno di Piper e Jason, ai quali avevamo dedicato tutti i pomeriggi liberi della settimana, in modo da poter passare più tempo possibile in loro compagnia. Avevamo però promesso a Nico di portarlo da qualche parte per farci perdonare l'assenza di quei giorni, ma eravamo ormai stati praticamente ovunque in città, quindi le opzioni non erano poi molte.
«Certo! La scorsa volta si è divertito un mondo e sono sicura che non gli dispiacerà ripetere l'avventura» dissi, trovando l'idea davvero ottima. «E poi, sono solo le 10. Abbiamo tutta la giornata a nostra disposizione» aggiunsi consultando l'orologio del cellulare, mentre controllavo le notifiche.
Essendo l'ora di punta, incappammo nel traffico giornaliero e impiegammo un bel po' per arrivare a casa di Nico, ma non me ne preoccupai: al massimo, avremmo rincasato leggermente dopo il tramonto, ed ero sicura che Katia non avrebbe avuto molte obiezioni in merito, visto che, di recente, con l'avanzare della gravidanza, cominciava ad essere sempre più stanca e, con due bambini a cui badare, per me era un piacere aiutarla a rilassarsi.
L'ultima volta che le avevo fatto visita, poco più di due settimane prima, ero stata un po' spiazzata nel trovarla visibilmente stanca, così mi era venuto naturale offrirmi di ospitare Nico e Bianca alla fattoria per una notte, durante il weekend. Ero sicura che Chintia ne sarebbe stata entusiasta e Percy non avrebbe avuto assolutamente nulla in contrario. Ma lei aveva rifiutato con tenacia la mia proposta, e solo in quel momento avevo capito quanto forte – e testarda – fosse quella donna. Avrei davvero voluto avere un po' del suo enorme coraggio.
Lasciammo la macchina qualche centinaio di metro prima, in una zona non troppo malfamata, in modo da evitare il maggior rischio di furto, e ci dirigemmo mano nella mano verso la baracca di Katia, chiacchierando del più e del meno.
Arrivati davanti alla porta, bussai come sempre due volte, in attesa di sentire la voce entusiasta di Nico e quella di Katia che lo rimproverava di urlare troppo forte, ma non accade nulla di tutto ciò.
Negli istanti seguenti, nessuno comparve alla porta e io cominciai a capire che qualcosa non andava quando udii un pianto provenire dall'interno, molto simile a quello di Bianca, e la voce di Nico che gridava parole sconnesse. Nell'immediato, il mio sguardo incrociò quello di Percy al mio fianco, mentre una strana sensazione andava a depositarsi sul mio stomaco, stringendolo in una morsa familiare.
Terrore.
Paura.
Bastò un'occhiata per comprendere i pensieri dell'altro. Percy non perse tempo e spalancò la porta, fortunatamente aperta. L'immagine che ci trovammo davanti, probabilmente, sarebbe rimasta impressa nella nostra memoria per molto, molto tempo, ne ero sicura.
Impiegai qualche attimo per comprendere appieno la situazione prima di scattare, ricacciando indietro la paura forzatamente. Perché, riversa a terra accanto al tavolo della cucina, in apparenza priva di sensi, con Nico al fianco che la scuoteva istericamente per le spalle e Bianca in lacrime nel suo seggiolone, c'era Katia.
E un'inconfondibile pozza di sangue sotto di sé.

 


Buondì a tutti.
Prima che mi ammazziate per questa merda di finale, permettetemi almeno di commentare il capitolo e fare i solito ringraziamenti di rito, poi avrete via libera per il linciaggio, promesso.
Allora, partiamo con le solite domande di rito: come va o come non va? Siete in vacanza o siete già tornati? Come, probabilmente, saprete (visto che l'ho ripetuto troppe volte), io parto questa domenica per la Puglia, quindi è per questo motivo che ho tirato per le lunghe nel pubblicare questo capitolo e per il fatto che sia un po' più lungo del solito. Vi dirò, in fase di revisione, ho tagliato alcuni spezzoni perché il testo mi sembrava davvero molto lungo e davvero molto ricco di elementi, abbastanza per lasciarvi sazi per un po'.
Quindi, eccoci qua.
Che ne pensate? Sì, alcuni di voi avevano ipotizzato già tempo fa che la nostra cara Piper avrebbe fatto una visitina in Brasile, ma mi è sembrato solo questo il momento adatto per fare la sua comparsa. È un momento delicato perché Annabeth è evidentemente cambiata rispetto a quand'è partita da New York, ma deve ancora completare il suo percorso verso la completa “guarigione” (passatemi il termine). E poi, probabilmente lo sapete meglio di me, non c'è persona migliore del proprio migliore amico per capire alcune cose, sopratutto in campo amoroso.
So, chi meglio di Piper poteva aiutare Annabeth con gli argomenti ostici del sesso e del raccontare a Percy il suo passato? Ebbene sì, ci stiamo avvicinando alla fine e al momento clou u.u
Forse non sono riuscita a renderlo appieno, ma ho cercato un po' di ricreare il rapporto “bro” tra Percy e Jason (che io stra-adoro nei libri). In realtà avevo in mente di approfondirlo meglio, ma sempre a causa del poco tempo e del già lungo testo ho dovuto sintetizzare un po'.
Don't worry, darling, ho in serbo una (spero) bella sorpresa per voi a breve... di cui vi parlerò a tempo debito, ovviamente ;)
E poi, va beh, c'è il finale... vi avevo avvertito che era una bomba a orologeria, no? Sì, sono sadica e sì, sono perfida, ma credo sia un po' il tratto distintivo di tutti coloro che si dilettano nello scrivere...
Credo, spero, di esser riuscita a dire un po' tutto quello che avevo bisogno di specificare, ma probabilmente ho saltato qualcosa, come sempre.
Per quanto riguarda il prossimo capitolo, andando in vacanza quasi due settimane e tornando che la scuola inizia già, non so esattamente quanto tempo materiale avrò da oggi in poi, ma cercherò di non farvi aspettare troppo, visto che mi sono ripromessa di finire questa storia entro Natale di quest'anno.
Btw, passiamo ai ringraziamenti: come sempre mi inchino davanti alle numerosissime e magnificissime (?) persone che seguono/ricordano/preferiscono (il numero sale ogni volta o.o) e, sopratutto, recensiscono questa storia (prima o poi dovrò farvi una statua ciascuno). E, ovviamente, anche ai lettori silenziosi che non mi sono mai ricordata di nominare, ma che meritano un grandissimo grazie per il numero incredibile di visualizzazioni ai capitoli. Sono numeri così grandi che ho paura persino ad immaginarli...
Un bacione immenso,
Annie

P.S. Se a qualcuno di voi interessasse, ho aperto un nuovo contest, questa volta affiancata dalla mia collega Kirame amvs, e potete trovarlo qui. Passate, se vi va ^^


 
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Capitolo 23
*** Capitolo 22 ***


Disclaimer: Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di Rick Riordan; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.
   

Capitolo 22

 

Rio de Janeiro, il giorno stesso

 


Vissi la scena al rallentatore, un po' come succede nei film, quando la tragicità raggiungeva livelli massimi. Non ero mai stata una vera e propria appassionata di lungometraggi, probabilmente per il fatto che avevo passato la maggior parte della mia vita con gli occhi sempre puntati su un libro. Probabilmente era anche dovuto al fatto che il padre di Piper faceva l'attore e che, durante i nostri pigiama party, lei si rifiutava categoricamente di passare la serata a sbavare dietro a qualche stella del cinema che, con assoluta certezza, lei conosceva di persona.
La mia immaginazione, però, era abbastanza ampia da riuscire a proiettare la scena al di fuori, come se fossi stata solo una spettatrice.
«Mamma, svegliati!»
La porta distava esattamente quattro passi dal tavolo della cucina, ma a me parvero infiniti: sembrava che Katia si distanziasse sempre si più da noi, mano a mano che avanzavamo, quasi non volesse farsi raggiungere. In quegli istanti – interminabili – potei memorizzare vari particolari che, in situazioni normali, sicuramente non avrei colto appieno. Come il moccio che colava dal naso di Bianca, la quale faceva capolino per mezza testa dal box, sorreggendosi al bordo di metallo con le sue piccole manine. Sul fornello della piccola cucina vidi un pentolino di metallo sul fuoco, al cui interno vi era un biberon colmo di un liquido bianco – latte per Bianca, presumevo.
Poi, all'improvviso, fu come se il tempo avesse ricominciato a scorrere normalmente, e io quasi rischiai di inciampare a causa della forza invisibile che mi travolse: non c'era tempo per i dettagli.
Mi accovacciai a terra sul fianco destro di Katia, scostandole i capelli dal viso per poterla guardare in volto, mentre Percy, di fronte a me, le appoggiava due dita sul polso.
Katia era pallida – pallidissima –; le guance incavate rendevano la sua figura ancora più ingrigita di quello che già era. Feci scorrere lo sguardo lungo il suo corpo, oltre il seno, dopo la pancia rigonfia: in mezzo alle sue gambe, leggermente piegate, c'era una piccola pozza di liquido rosso e io non ebbi alcun dubbio nell'accertare che fosse sangue.
«Mamma! Mamma, svegliati, ti prego!»
Voltai la testa a destra, tutt'a un tratto incredibilmente consapevole della situazione: Nico stava ancora scuotendo la madre, ma i suoi tentativi di svegliarla erano diventati fiacchi, quasi avesse perso tutte le energie. Le lacrime, però, continuavano a bagnare il suo viso ininterrottamente.
«Annabeth, c'è polso!» esclamò Percy, guardandomi con la fronte aggrottata e un barlume di speranza negli occhi. Sapevo qual'era stato il suo timore fino all'attimo precedente perché rispecchiava alla perfezione il mio: che per Katia non ci fosse più nulla da fare.
E, invece, non era così.
Mi concessi di trarre un breve – brevissimo – respiro di sollievo.
Poi Percy mise una mano sotto alle ginocchia di Katia e l'altra a cingerle la schiena, sollevandola senza apparente sforzo. «Presto, dobbiamo portarla in ospedale.»
E mentre lui si accingeva a uscire in fretta dalla baracca, premurandosi prima di coprire Katia con un maglioncino trovato sul tavolo, io mi diressi verso il box, dove Bianca seguiva i miei gesti con i suoi grandi occhioni neri.
«Ehi, piccolina» mormorai. Mi chinai per afferrarla sotto le ascelle, appoggiandomela al petto. Con la coda dell'occhio vidi un sonaglietto giallo disperso in mezzo alle coperte gialle e lo presi: sapevo che sarebbe tornato utile nell'eventualità in cui Bianca si fosse addormentata. Poi mi voltai verso Nico, che aveva preso a seguirmi da quando Percy era uscito dalla baracca.
«Vieni, Nico» dissi, offrendogli la mano libera che lui afferrò senza indugio, stringendomela.
Nell'uscire, diretti alla macchina, mi costrinsi a non accelerare troppo il passo, per permettere a Nico di starmi dietro senza dover correre, ma era difficile, assurdamente difficile perché la paura aveva cominciato a stringermi il petto: se mi fossi lasciata andare, sapevo che non sarei più riuscita a muovermi, a rendermi utile. E, al momento, la priorità non erano le emozioni che spingevano per uscire dal vaso di Pandora nella mia testa.
Deglutii, ricacciando indietro tutto quel caos mentre raggiungevamo la macchina: non potevo crollare proprio in quel momento. Non potevo e basta. Dovevo concentrarmi solo e soltanto sulle cose importati. Come far salire in fretta Nico nell'auto, sedermi nel sedile posteriore accanto a Katia e tenerle la testa sulle gambe, mentre Bianca piangeva vicino al mio orecchio. Cose importanti come cullare la piccola durante tutto il tragitto – che sembrò infinito – e assicurarmi che Katia non sballottasse troppo. Cose essenziali come il correre al pronto soccorso, cercando di richiamare un infermiere, un medico, qualcuno.
Con il fiato corto, quasi inciampai nell'entrare nell'ampio spazio bianco delle emergenze: la maggior parte dei pazienti in attesa, seduti su delle sedie di plastica collegate una all'altra come quelle degli stadi, si girarono a guardarmi incuriositi dal trambusto che stavo evidentemente causando, ma io non prestai badai a nulla che non fosse chiedere aiuto più e più volte, indicando il fuori gesti frenetici della mano agli infermieri, i quali stavano accorrendo da dietro agli sportelli con una barella di metallo, ricoperta da un lenzuolo bianco.
Li seguii a ruota, arrivando alla macchina giusto in tempo per vedere Percy adagiare Katia sul lettino con delicatezza, spiegando in poche parole la situazione al medico li accanto. Registrai solo qualche secondo più tardi la figura di Nico in piedi vicino ai fanali della macchina. E non potei evitare di provare un tuffo al cuore quando vidi che teneva in braccio sua sorella.
Lo avevo visto già altre volte intendo a prendersi cura di Bianca quando li andavo a trovare per passare un po' di tempo in loro compagnia, e mi era sempre sembrata un'immagine tenerissima. Ma lì, in quel momento così carico di negatività, non potei proprio evitare di immaginare uno scenario parallelo, in cui quei due bambini erano orfani, sia di madre che di padre, lasciati a loro stessi. L'espressione impaurita di Nico e il volto deformato dal pianto di Bianca erano sufficienti a far sembrare tutto molto, molto reale ai miei occhi.
E mentre l'equipe di personale sanitario con Katia appresso mi passava accanto, io mi costrinsi ancora una volta a muovermi da quella situazione catatonica in cui stavo riversando e dai cui difficilmente sarei uscita se mi ci fossi arresa.
Stringi i denti, Annabeth, stringi i denti.
«Grazie per esserti occupato di Bianca, Nico» mormorai scompigliandogli leggermente i capelli, per poi chinarmi a prendere sua sorella in braccio. «Sei stato molto bravo» aggiunsi, cercando inutilmente di sollevargli un po' il morale. Non riuscivo proprio a vederlo di nuovo con quell'espressione triste in viso, proprio come quando l'avevo conosciuto ormai mesi prima.
«... ospedale. Già» sentii dire a Percy quando si avvicinò con il telefono accostato all'orecchio e lo stesso cipiglio serio che gli avevo visto assumere durante il viaggio in macchina la sera del galà. Lo guardai passarsi una mano tra i capelli per poi alzare lo sguardo, incrociando il mio. Gli bastò un solo istante per capire buona parte delle cose che mi passavano per la testa. Compresi ciò dal modo in cui si avvicinò ulteriormente, poggiandomi una mano alla base della schiena e stringendomi leggermente il fianco. «Okay, grazie. Chiamatemi quando arrivate così vi dico a che piano siamo. Ciao.» Chiuse la chiamata con un tocco del pollice sullo schermo, poi ripose l'aggeggio nella tasca anteriore dei suoi jeans, allungando una mano verso Nico che, proprio come aveva fatto con me poco tempo prima, la prese senza indugio, lasciandosi guidare.
Io feci la stessa cosa: seguii il mio ragazzo lungo quell'intrigato labirinto di corridoi fastidiosamente bianchi senza prestare veramente attenzione a ciò che stava accadendo attorno a me, le persone che incontravamo, i medici che incrociavamo, i pazienti che camminavano, finché non giungemmo in una piccola sala, stranamente circolare – sul serio, non c'era nessuno spigolo in quello spazio – ovviamente bianca. Percy si sedette sulla terza sedia dall'entrata, esattamente a metà della fila, e io presi posto alla sua destra lasciandomi sfuggire un piccolo sospiro involontario.
Di nuovo, ero vincolata dal lasciarmi andare: Bianca mi strillava ancora a pieni polmoni nelle orecchie e dovevo cercare almeno di calmarla un po', così presi a cullarla in una serie di sussulti e pacche leggere alla base del sedere.
«Shh... va tutto bene. Va tutto bene» mormorai pacatamente, con lo sguardo fisso in un punto impreciso, più o meno tra l'angolo del basamento e la linea gialla disegnata dieci centimetri dal pavimento sulla parete. Molto presto la vista mi si fece opaca, ma non chiusi le palpebre per schiarirla finché non sentii dei passi veloci nel corridoio adiacente alla stanza e delle voci famigliari. Solo allora mi decisi ad alzare gli occhi per vedere Chintia, accompagnata da Grover, fare la loro comparsa.
Provai – tentai – a fare un debole sorriso di circostanza, ma evidentemente i muscoli della faccia non rispondevano più ai comandi inviati dal mio cervello visto che mi dovetti accontentare di quella che, ero sicura, fosse una smorfia. E mentre Grover era andato a sedersi vicino a Nico e a Percy, dando una pacca sulla schiena a quest'ultimo, Chintia mi si avvicinò, allungando le braccia. Capii subito le sue intenzioni ed ero pronta a protestare, ma lei prese delicatamente Bianca, che nel frattempo si era calmata. Percepii immediatamente un vuoto assalirmi, riempiendo lo spazio lasciato dal corpicino della bambina che avevo usato per mantenere la calma per tutto il tempo, perciò impiegai tutte le forze che mi erano rimaste per mantenere una faccia neutra, mentre dentro di me iniziava la devastazione.


 


Il tempo passò. Ai minuti ne seguirono molti altri, finché non divennero un ora, due ore, interminabili ore di attesa durante le quali nessuno si mosse più del necessario dalla sedia su cui eravamo seduti. O almeno, così mi parve, ma quando alla fine tornai alla realtà, dopo essermi estraniata da tutto e da tutti involontariamente per chissà quanto tempo, Chintia teneva in braccio Bianca, la quale ora dormiva beatamente, Grover si torceva l'orlo della maglietta tra le mani, mentre Nico sedeva vicino a Percy con la testa appoggiata sulle sue gambe a qualche sedia di distanza rispetto a prima. E a causa di quella posizione rilassata e del fatto che anche il mio ragazzo aveva gli occhi chiusi, pensai che si fosse finalmente addormentato, ma quando incrociai il suo intenso sguardo nero sussultai per la sorpresa.
«Ehi, Nico» mormorai, allungando una mano per fargli una leggera carezza sui capelli. «Come va?»
Lui si alzò e venne a sedersi vicino a me, lasciando le gambe di Percy il quale, come succedeva quando era nel mondo dei sogni, non diede segno di averlo sentito muoversi.
Aiutandosi con le mani, si arrampicò sulla sedia e prese a muovere le gambette che non toccavano terra come se fosse su un'altalena. Era l'immagine stessa dell'infanzia e dell'innocenza, ma con una nota malinconica, quasi drammatica.
In risposta alla mia domanda si strinse nelle spalle, continuando a mantenere lo sguardo basso.
Mossa dal puro istinto primordiale, allungai una mano con il palmo in alto, facendola entrare nel suo campo visivo: lui alzò il capo immediatamente, guardandomi con gli occhi spalancati per qualche attimo, poi allungò a sua volta una mano, stringendola alla mia. In seguito lo sentii appoggiare la testa sulla mia spalla senza però smettere di muovere le gambe.
Sentendo il suo calore a contatto con il mio corpo, immediatamente nella mia testa prese forma un'immagine, un ricordo di appena qualche settimana prima: per puro caso, un pomeriggio io e Percy avevamo deciso di fare una passeggiata in un parco, poco distante dalla scuola, e di fermarci a mangiare qualcosa per cena. Quando dopo una curva, seduti su una panchina nascosta da alcuni cespugli, c'eravamo imbattuti in Katia e Nico. La prima con una mano spingeva avanti e indietro un seggiolino che, evidentemente, era stato raccattato da una discarica o qualcosa del genere, e al cui interno – immaginavo – ci fosse Bianca. Madre e figlio erano nella medesima posizione in cui ora ci trovavamo noi, con Nico appoggiato alla spalla di Katia e lei che lo coccolava.
Io e Percy avevamo preferito non interferire visto che sembravano particolarmente presi dal momento, così ce n'eravamo andati per i fatti nostri, ma l'istante in cui rivissi la scena non potei evitare di risvegliare i demoni dentro di me, i quali si erano stranamente assopiti in seguito al mio estraniamento dalla realtà.
E se non fosse stato per Nico, con tutte le probabilità mi sarei lasciata andare inevitabilmente, rompendo l'argine che tratteneva tutto dentro di me.
«Annabeth?»
Mi passai una mano sotto il naso in un gesto casuale, ma che in realtà era volto a cancellare l'unica traccia del mio turbamento, poi voltai leggermente il capo in basso, verso Nico. «Che c'è, tesoro?»
«Dov'è la mamma?» chiese lui guardandomi con una leggera esitazione.
Quella era una delle domande più difficili cui, ne ero sicuro, mi sarei trovata a rispondere nell'arco di tutta la mia vita perciò esitai, abbastanza a lungo per riuscire a vedere un bagliore di speranza negli occhi di quel bambino, troppo piccolo per comprendere appieno la situazione ma troppo grande per accontentarsi di una risposta qualunque. Perciò, alla fine, optai per la sincerità, nella speranza di non sconvolgerlo.
«La tua mamma ora si trova in un posto con delle brave persone che stanno cercando di aiutarla. Sta combattendo una battaglia difficile, Nico, molto difficile. Ma ce la farà, vedrai» mormorai, facendogli un buffetto sulla guancia che, al contatto, era calda malgrado dal colore pallido della sua carnagione sembrasse fredda.
«Annabeth?» tornò a domandare lui dopo qualche secondo, con un tono di voce più basso di prima, così basso che quasi credetti di essermelo solo immaginato. Aveva parlato così piano che Chintia e Grover non potevano sentirlo: capivo perché Nico non volesse farsi udire dagli altri, quindi risposi nello stesso modo, sussurrando: «Dimmi, Nico.»
«La mamma morirà?»
Mi aspettavo quella domanda, davvero. E credevo anche di essere pronta a gestirla, ma quando vidi gli occhi di Nico farsi lucidi e il suo labbro inferiore tremare leggermente, mi si strinse il cuore e non potei evitare di agire di conseguenza, stringendolo a me e circondando il suo capo per accarezzargli i capelli.
«Oh, Nico...» dissi dopo aver appoggiato la guancia sulla sommità della sua testa. «Vorrei dirti di no, davvero. Ma la verità è che non lo so» confessai amaramente, vittima dell'empatia che sentivo per quella incredibili e fortissima famiglia, la quale mi era entrata nel cuore senza possibilità di oppormici. «Non lo so proprio...»
E stemmo così a lungo, io che cullavo avanti e indietro Nico, ancora stretto tra le mie braccia, e lui in silenzio. Non passò molto che cominciai a sentire la maglietta leggermente bagnata, all'altezza dello stomaco, in corrispondenza del volto di Nico. Lo lasciai piangere senza dire un'altra parola, impotente nell'alleviare la sua – e la mia – sofferenza, ma sicura che non ci fosse altro modo di combattere la situazione che piangere, sopratutto per un bambino della sua età. Ne ero certa perché anch'io sentivo la stessa necessità.
Inevitabilmente, mentre i miei pensieri correvano veloci lungo una strada ricca di insidie e molto pericolosa, finii a immaginarmi cosa stesse succedendo proprio in quel momento al di là delle due porte, il cui vetro era oscurato per evitare di mostrare ciò che c'era al di là. Ma la mia mente era così provata dagli ultimi avvenimenti che, senza possibilità di oppormici, immaginai una futuro non troppo lontano, in cui i medici uscivano da quelle due porte con i camici sporchi, gli occhi appena socchiusi e la faccia di chi preferirebbe non dare una brutta notizia.
«Ehi.»
Sussultai, alzando di scatto la testa e incontrando due intensissimi occhi verdi. Percy era in piedi davanti a me, con il capo leggermente piegato e un sorriso gentile. Nell'immediato, sentii un calore propagarsi dal punto in cui lui mi stava toccando la spalla, per irradiarsi nel resto del corpo. Tentando di ricambiare – miserabilmente – il sorriso come risposta al suo saluto, alzai il braccio con cui non sorreggevo Nico per appoggiare la mano sulla sua e sentire ancora il calore famigliare della pelle di Percy a contatto con la mia.
Gli bastò solo quello e qualche secondo per capire, con una semplice occhiata, che non ero affatto in vena di sorrisi e smancerie, ma accettai con più gratitudine di quanto non volessi ammettere il bacio che mi diede sulla fronte, prima di prendere posto al mio fianco. Subito il suo braccio andò a cingermi le spalle, esercitando una leggera pressione per far sì che io andassi ad appoggiarmi a lui, proprio come stava facendo Nico con me.
Per un momento, un brevissimo istante, quando inspirai l'odore di Percy dalla sua maglietta di cotone, mi sentii... bene. Quasi come se tutto quel casino non fosse mai successo e io mi trovassi nel prato della fattoria con Percy, sdraiati al sole pomeridiano con nessun pensiero per la testa. Ma nel momento esatto in cui presi coscienza di quel benessere, il senso di colpa mi colpì così forte da togliermi il fiato.
Come potevo io sentirmi bene quando una persona – la madre di tre bambini – da qualche parte dietro a quella porta stava combattendo una battaglia più grande di lei? Come potevo far quello a Katia? Ero una persona orribile. Non meritavo niente che mi potesse rendere felice, non quando qualcuno stava soffrendo più di quanto avessi mai sofferto io in tutta la mia vita.
E poi ci arrivai: quello era esattamente ciò che avevo fatto negli ultimi due anni. Mi ero autocommiserata tanto da pensare solo e soltanto a me stessa, fino ad arrivare a pensare che nessuno poteva capire ciò che stavo passando io. Io che, se confrontata a Katia o a Chintia, nemmeno sapevo cosa fosse il vero dolore.
Sbarrai gli occhi, shockata da quell'ultimo pensiero. Che andavo a pensare? Perché tutt'a un tratto ero entrata nella zona a rischio del mio cervello? Era ufficiale: stavo impazzendo. Quei pensieri erano troppo grandi, troppo sbagliati da fare in quel momento che non potei evitare di essere delusa da me stessa. Negli ultimi tempi, sopratutto grazie alla presenza di Percy, avevo fatto incredibili passi avanti, sia a livello di relazioni che mentalmente. Lasciarmi andare a quegli assurdi pensieri autocommiseranti non avrebbe sortito altri effetti che farmi regredire, cancellando tutti i recenti successi. Quindi dovevo stringere i denti – un'altra volta – e concentrarmi su qualcos'altro.
Già... ma come potevo pensare a qualcosa di diverso quando ero seduta da ore in una sala d'aspetto fastidiosamente bianca di un'ospedale?
«Percy... Io... Io credo di non farcela» mi ritrovai a sussurrare contro la mia stessa volontà, con voce talmente flebile che pensai – sperai – Percy non mi avesse udito. E invece lo sentii muoversi e immaginai si fosse girato verso di me. Io però continuai a tenere il capo basso perché avevo timore di alzare la testa e di leggere nei suoi occhi qualcosa. Qualcosa che si avvicinava pericolosamente alla delusione.
«Ehi, Sapientona, guardami» disse in tono grave, mentre con due dita mi incitava a sollevare il mento. Il suo sguardo mi catturò inevitabilmente. «Tu sei forte, okay? Sei fortissima. Lo sai tu e lo io. Entrambi sappiamo anche che puoi farcela, quindi resta qui con me, okay? Io credo in te.»
Per tutto il tempo in cui Percy parlò, non staccai mai gli occhi dal suo viso. La sua voce roca, appena più forte di un sussurro, era così ipnotica che annuii lentamente, senza alcuna possibilità di fare altrimenti: Percy mi aveva incantata, Percy mi aveva lanciato un'ancora di salvezza metaforica.
E io la colsi.

 

 

«Va bene, dottore. La ringrazio.»
Aspettai di udire queste parole e di vedere l'uomo con il camice bianco scomparire dietro le porte scorrevoli prima di alzarmi finalmente dalla sedia, prendendo Nico per mano e raggiungendo Percy, il quale ci aspettava sulla soglia della sala d'aspetto. Cercai il suo sguardo, malgrado avessi il timore di conoscere la verità, ma, quando lo guardai, la sua faccia era una maschera inespressiva, che non lasciava trasparire alcuna emozione.
Seguimmo Percy lungo un paio di corridoi, opposti alla direzione da cui eravamo venuti quella mattina, inoltrandoci in quelle che dovevano essere le camere dei pazienti. Era molto tardi – non sapevo che ore fossero precisamente – ma le luci delle camere erano spente e quello servì solo a confermare la mia supposizione. Per tutto il tragitto, tenni lo sguardo puntato in avanti, sulla schiena di Percy, mentre Nico mi seguiva in silenzio. L'unico segno di turbamento era la stretta ferrea con cui mi stringeva la mano.
E poi ci fermammo davanti a una porta socchiusa, dietro alla quale si vedeva una luce soffusa, ma abbastanza intensa da creare un cono di luce sul pavimento.
Bloccandomi, rimasi a guardare Percy che sospingeva la porta per aprila, mentre Nico lasciava andare la mia mano, correndo verso l'unico letto al centro della stanza. «Mammaaa!»
E poi, dopo aver fatto un paio di respiri profondi per cercare di calmare i battiti del mio cuore, la vidi.
Katia.
Trattenni il respiro senza accorgermene quando vidi il colorito terreo del suo volto, quasi cianotico. Sembrava essere stata truccata per assomigliare a un cadavere. L'unico segno che in lei ci fosse ancora vita era il battito lente e regolare del suo core, scandito con piccoli suoni dalla macchina che le stava accanto, attaccata a lei da un lungo filo che terminava con una pinza sul suo dito indice.
Fu allora che tornai veramente a respirare, per la prima volta da quando l'avevamo scoperta riversa a terra, nella baracca.
Inevitabilmente il sollievo mi travolse come un tir sparato a cento all'ora lungo un'autostrada, ma cercai di attenuarlo un po' visto che non ero ancora a conoscenza delle dinamiche dell'intervento. Per quanto ne sapevo, Katia poteva avere la vita appesa a un filo di seta.
Feci due passi in avanti, socchiudendo dietro di me la porta in modo da non disturbare gli altri pazienti che dormivano.
«Fai piano Nico, mi raccomando. La tua mamma ha bisogno di tanto riposo» disse Percy, mettendo una mano sulla testa del piccolo e scompigliandogli un po' i capelli. Dentro di me, sorrisi leggermente, pensando che Percy si stava comportando proprio come un padre con il proprio figlio. Per tutta la giornata, ma anche nelle settimane precedenti, il rapporto tra Nico e il mio ragazzo si era evoluto in poco tempo: per il primo, Percy era diventato come il padre che non aveva più, vedendolo come una figura di riferimento per tutti i problemi. E quando Nico annuì alla raccomandazione di Percy, quel legame fu palesemente evidente.
Dopo un po' mi avvicinai, mettendomi al fianco di Percy. In quel modo eravamo a un paio di metri di distanza da Nico, per permettergli di godersi tutto il tempo che aveva a disposizione tenendo la mano della madre che aveva visto cadere a terra solo quella mattina.
Eppure, sembrava passata un'eternità...
Quando sentii il braccio di Percy avvolgermi il fianco, mi voltai automaticamente per guardarlo, trovandomi davanti a due occhi verdi che mi scrutavano nel profondo. Sapevo che stava cercando di capire il mio stato d'animo e i miei pensieri, proprio come aveva fatto prima, perciò gli posi subito una domanda, cercando di distrarlo dal suo intento: per qualche motivo a me sconosciuto, preferivo tenere le mie emozioni per me ancora per un po'.
«Che ha detto il dottore prima?»
La risposta a quella domanda mi interessava davvero, visto che, quando il chirurgo era uscito da quelle porte, avevo avuto improvvisamente paura di ascoltare delle brutte notizie. Certo, mi ero sentita stupida, ma era stato più forte di me. Perciò avevo lasciato che Percy si alzasse per andare in contro al dottore, insieme a Chintia e Grover, mentre io rimanevo seduta con Nico, il quale dormiva ancora.
Nel momento in cui avevo posto quella domanda, sapevo di dover stare pronta a tutto: dopotutto, un'operazione di svariate ore significava sempre complicazioni, complicazioni e ancora complicazioni. Ma nulla, proprio nulla, mi avrebbe mai preparato a quello.
«Secondo lui c'è stato un distacco di placenta dovuto a non so quale problema impronunciabile. Tutto si sarebbe potuto evitare con delle visite ginecologiche regolari, ma... beh, immagino che Katia non avesse disponibilità economiche sufficienti e che fosse impegnata con Nico e Bianca. Così hanno dovuto fare un parto cesareo d'urgenza per tentare di salvare il bambino. È stato un rischio perché Katia ha perso molto sangue durante l'operazione, ma il bambino...» Percy tentennò, bloccandosi.
E io impiegai un millesimo di secondo per capire. Un millesimo di secondo prima che Percy scuotesse il capo con un'espressione grave sul volto. Un millesimo di secondo prima che chiudessi gli occhi per non vedere, troppo consapevole della situazione. Un millesimo di secondo in seguito al quale le braccia di Percy mi avvolsero e mi stinsero a sé.
«Ehi, ragazzi.»
Alzai il capo, facendo capolino dalla maglietta di Percy per vedere Grover e Chintia sulla soglia della camera, quest'ultima con in braccio Bianca, la quale dormiva ancora. Chintia subito focalizzò la sua attenzione su di me, e io seppi che, in quel momento, stavamo condividendo qualcosa di unico, di speciale, che solo le donne potevano comprendere: la morte di un bambino risvegliava l'istinto materno, che in Chintia era più accentuato, a causa del figlio. Perciò accettai senza alcuna remora l'abbracciò con cui mi strinse a sé, dopo aver dato delicatamente Bianca a Percy.
«Andrà tutto bene, tesoro... ne sono sicura» mi sussurrò Chintia all'orecchio, regalandomi un sorriso rassicurante poco prima di staccarsi.
Annuii, anche se, dentro di me, ero ancora parecchio turbata e titubante. Come potevano le cose andare bene quando la situazione attuale era così tragica? Come poteva Chintia, la quale sapeva molto bene cosa volesse dire perdere un figlio, sperare in un futuro migliore?
Ero persa nei miei pensieri quando Percy si avvicinò, dopo che Chintia si era allontanata per accomodarsi su una sedia vicino al letto di Katia. Appoggiando una mano sulla mia spalla, mi guardò negli occhi per qualche istante prima di dire: «Forza, andiamo a casa.»
«Cosa? No! Dobbiamo restare...» tentai di protestare, spalancando gli occhi e scuotendo energicamente la testa: è se Katia si fosse svegliata mentre noi non eravamo lì? E se avesse avuto altri problemi? E se fosse... morta? È vero, il medico aveva detto che era fuori pericolo per il momento, ma la prima notte è sempre la più importante dopo un intervento chirurgico complesso. E lei era rimasta ore intere sotto i ferri.
Percy scosse il capo, facendo un cenno verso l'unica finestra della stanza, le cui persiane non erano ancora state abbassate. La notte era calata su Rio.
«Annabeth, è tardi. Nico e Bianca hanno bisogno di mangiare e dormire, e anche tu devi riposare» disse Percy irremovibile. Malgrado mi fosse difficile ammetterlo, era evidente che lui avesse ragione: Nico, seppur concentrato sulla madre da quand'eravamo entrati, non aveva toccato cibo per tutto il giorno; Bianca, invece, stava già dormendo tra le braccia di Percy.
«Ma Chintia... e Grover... Qualcuno...» balbettai, pensando che qualcuno doveva restare per forza in ospedale con Katia.
«Tesoro, non ti preoccupare. Io e Grover resteremo qui stanotte, in modo che voi possiate occuparvi dei bambini. Se ci sono novità vi chiamiamo subito» intervenne Chintia, appoggiandomi una mano sulla spalla, in modo rassicurante. «Ci vediamo domani mattina» aggiunse poi, allungandosi per baciarmi sulla guancia. Le sue mani, a contatto con la mia pelle, erano ruvide, ma molto morbide. Quella sensazione mi conferiva un senso di... pace. Proprio come il tocco di una madre premurosa.
La guardai negli occhi, ammettendo me stessa che le sue tesi non facevano una piega. Eppure volevo trovare a tutti i costi qualche motivo per protestare, per restare in quella stanza d'ospedale finché tutto non si fosse sistemato per il meglio, finché Katia non si fosse svegliata sana e salva. Ma, dentro di me, sentivo il bisogno di staccarmi anche solo per qualche istante da quella situazione, e di tornare a casa.
Perciò, dopo qualche attimo di esitazione, alla fine annuii.


 

 
«Hai freddo?» domandai a bassa voce, sistemando le pieghe del lenzuolo sul mio letto con qualche gesto e rimboccando le coperte sul corpo di Nico.
Nico scosse il capo lentamente, mantenendo lo sguardo puntato su un punto imprecisato della parete di fronte al letto: da quand'eravamo entrati in macchina all'ospedale, non aveva detto una parola. Al momento non ci avevo fatto caso, dando la colpa al fatto che fosse emotivamente e fisicamente esausto, ma anche quando ci eravamo fermati in un fastfood per cenare si era limitato a indicare con un dito un piatto dell'elenco. Avevo preferito non interferire, pensando che non fosse molto in vena di chiacchiere visto che l'avevamo separato dalla madre, ma si vedeva ch'era stanco. E poi non aveva fatto storie, quindi avevamo dato per scontato che a lui andasse bene.
In quel momento però, sdraiato nel letto della mia camera, continuava a mantenere il suo stato di mutismo e io non riuscivo a capirne il motivo. Accanto a lui, Bianca dormiva su un fianco, con il pollice in bocca e un'espressione rilassata in volto: grazie al cielo non si era lamentata troppo quando avevamo dovuto svegliarla per farla mangiare. In seguito, si era riaddormentata di nuovo poco prima di arrivare alla fattoria.
Sapendo che il mio letto era il più grande dell'intera casa, non c'era stato bisogno che io e Percy ci domandassimo dove far dormire i piccoli: lui era salito direttamente al secondo piano, mettendo Bianca su un lato e coprendola con un lenzuolo. Nico aveva fatto lo stesso, ma, dopo aver tolto le scarpe – avevo sorvolato sul fatto che le avesse lasciate cadere senza preoccuparsi di sistemarle – ed essersi infilato sotto le coperte, non aveva voluto saperne di appoggiare la testa sul cuscino.
Sospirai, lanciando un'occhiata a Percy che stava chiudendo le persiane della porta-finestra: era strano pensare che solo quella mattina eravamo stati in aeroporto per accompagnare Piper e Jason. Sembrava passata invece un'eternità.
Con questi pensieri per la testa mi chinai, lasciando un piccolo bacio sulla fronte di Nico prima di alzarmi in piedi e voltarmi, per sistemare un po' alcuni vestiti sparsi su una sedia. Però, non feci in tempo a girare la schiena, che qualcosa mi tirò per l'orlo della maglietta, trattenendomi.
«Ehi. Che c'è?» domandai il più premurosamente possibile. Con la coda dell'occhio vidi Percy fermarsi in mezzo alla stanza, osservandoci. Nico, invece, sembrò tentennare: era evidente che qualcosa lo turbava, ma per qualche motivo era insicuro.
Gli accarezzai la tempia, scendendo lungo la guancia, e alla fine confessò, gli occhi spalancati e il labbro tremante.
«Ho paura.»
«Di cosa hai paura, tesoro?» sussurrai, appoggiandogli anche l'altra mano sulla guancia: il mio cuore stava andando lentamente in mille pezzi perché era evidente che Nico fosse sull'orlo delle lacrime come mai prima di quel momento.
«Che la mamma muoia.»
Lo sapevo. Davvero, una parte di me sapevo cosa stava per dire perché era lo stesso pensiero che avevo trattenuto per tutto il giorno, ma ingenuamente avevo sperato che Nico non ci pensasse perché non avevo idea di come potessi aiutarlo. E, infatti, successe ciò: rimasi a bocca aperta, con gli occhi puntati in quelli di Nico, ma senza che una singola parola uscisse dalla mia bocca.
All'improvviso, senza che io l'avessi sentito muoversi, Percy comparve al mio fianco, appoggiandomi una mano sul braccio.
«Ehi, ometto. Ti va di ascoltare una storia?» mormorò, accovacciandosi accanto al letto per essere alla stessa altezza di Nico.
L'espressione facciale di quest'ultimo mutò all'istante, anche se sul suo volto rimase una nota di tristezza: interessato alla proposta di Percy, Nico strinse impercettibilmente la presa sulle lenzuola.
«Quale storia?» domandò.
Percy si strinse nelle spalle, mentre io mi alzavo, affaticata dalla posizione in cui ero rimasta per un bel po' di tempo.
«Non lo so... Tu cosa vorresti ascoltare?»
«Conosci la favola della cicala e della formica? La mamma me la racconta sempre!» disse Nico con un accenno di entusiasmo che mi riscaldò il cuore: vederlo distrarsi anche solo per qualche secondo dalla drammatica realtà era magnifico.
Volevo solo che fosse felice.
Percy annuì, sorridendo leggermente. «Certo che la conosco. Anche la mia mamma me la raccontava sempre prima di andare a dormire» disse prima di appoggiare le ginocchia a terra per stare più comodo e iniziare a raccontare.
I miei occhi non lasciarono la sua figura nemmeno per un istante: ero come calamitata alla vista della sua bocca, dei suoi occhi, del suo viso... della sua voce. Il modo in cui parlava e si relazionava a Nico, arricchendo il suo racconto con voce stridula quand'era nei panni della cicala e profonda con la formica, mimando la scena con facce buffe, stimolò la mia mente. All'improvviso rivissi tutti i momenti passati in compagnia di Percy: il nostro primo incontro; la prima volta che avevamo parlato come amici e non solo come conoscenti; la volta in cui io avevo fatto finta di dormire e lui era entrato nella mia camera, chinandosi vicino a quello stesso letto dov'era sdraiato Nico, per baciarmi su una guancia. Il gala, il nostro primo bacio, la prima litigata e il momento in cui finalmente mi ero lasciata andare, accettando di stare con lui. E poi tutto quello che ne era seguito fino a quell'istante.
La sua voce giunse alle mie orecchie e io lasciai che dentro di me si scatenassero una serie di emozioni che solo lui riusciva a provocarmi.
Percy c'era stato sempre, ma non solo per me: metteva il dovere prima di qualsiasi altra cosa e questo era uno degli aspetti che più amavo di lui. Contro ogni mio timore iniziale, Percy aveva mantenuto la promessa di starmi vicino qualunque cosa fosse accaduta, qualsiasi cosa mi fosse successa.
Mentre Nico entrava inevitabilmente nel mondo dei sogni, esausto, per la prima volta in tutta la giornata mi dimenticai di Katia e di ciò ch'era successo. Percy finì di raccontare la storia, rimboccando le coperte a Nico, e poi alzò lo sguardo, incrociando il mio. Vidi sul suo volto disegnarsi un'espressione confusa, perplessa forse per il modo intenso con cui lo stavo fissando incessantemente. Così, mentre Percy inclinava il capo e domandava: «Annabeth? Cosa stai...», io pensai solo a quanto fossi stata fortunata a incontrarlo e...
«Ti amo.»


 



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Innanzitutto, benritrovati carissimi!
AnnabethJackson è finalmente tornata, dopo un bel mese abbondante di assenza da questa storia. Vi avevo avvertito che sarei andata in vacanza e che presumibilmente l'inizio della scuola mia avrebbe travolta come un tir, no? Ebbene, ancora una volta, le mie previsioni si sono avverate. Anzi, sono state anche peggiori: queste prime settimane mi è parso di essere nel periodo di Maggio. Il che non va affatto bene. No, no.
Comunque, come la sottoscritta nella sua testa si era immaginata, questo capitolo si è rivelato essere un vero osso duro da scrivere. Ma proprio duro, eh! Ho passato praticamente le ultime 4 settimane a scrivere pezzetti sporadici, a cancellarli e a riscriverli. Le parole non venivano anche se le scene c'era già.
Quindi, bhu, non so esattamente quale è stato il risultato. Secondo la mia fedelissima Giuly il capitolo va benissimo così (anche se non era molto d'accordo per il finale interrotto visto che è una Percabeth shippers incallita), ma vorrei avere anche la vostra approvazione, giusto per essere sicura di non aver fatto un'enorme cazzata xD
E, no. Anche se l'avessi fatta, probabilmente non cambierei nulla ahahahaha
Quindi, come l'avete presa la storia di Katia? Ve lo aspettavate? E, sopratutto, siete rimasti con il fiato sospeso per quell'ultima nota percabetthosa? e.e Voi NON VI IMMAGINATE nemmeno cosa capiterà nel prossimo capitolo, davvero.
E nulla, anche se il capitolo non mi convienceva, non me la sono sentita di farvi aspettare ancora due settimane perché domani (oh, god) parto per la Romania e quindi non avrei possibilità di metterci mano xD
Come sempre potete trovarmi e contattarmi per qualsiasi cosa cliccando sui link delle mie pagine social. Un ringraziamento INFINITO sempre va a coloro che seguono questa storia, che ricordano e preferiscono, ma sopratutto che recesiscono. 
Se ve lo siete persi, ho pubblicato il primo capitolo del Missing Moments di questa storia, raccontata dal punto di vista di Percy. Lo trovate qui.

Okay, credo di aver detto tutto (ma probabilmente ho dimenticato qualcosa, as always). 

Un bacione immenso,
Annie

 

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Capitolo 24
*** Capitolo 23 ***


Disclaimer: Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di Rick Riordan; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.
   

Capitolo 23

 

Rio de Janeiro, quella sera

 


Non si pensa mai che, dal punto di vista anatomico e fisico, l'articolazione dei suoni è un processo complicatissimo. Ci viene inevitabilmente naturale. Due o più suoni, posti in una sequenza precisa, generano delle sillabe che, a loro volta, secondo lo stesso ragionamento, formano delle parole di senso compiuto. Parole che posso essere banali o articolate, ma pur sempre una combinazione di suoni il cui significato cambia, a seconda di ciò che noi vogliamo comunicare.
Parlare, per noi, è naturale, come se fossimo nati solo per fare quello. Ma, in realtà, la questione è molto più complicata di così e il dono della parola non dovrebbe mai ritenersi scontato, come invece avevo sempre fatto io.
Solo quando quelle due parole, le quali se prese singolarmente possono andare a comporre altre immagini, uscirono dalle mie labbra, senza prima passare per quello che io chiamavo “filtro coscienzioso”, compresi il potere che secernevano. Avevo sempre banalizzato la diceria secondo cui tutte le parole, se poste in un certo modo, avevano un potere, un qualcosa di speciale, di unico. Ma mi dovetti ricredere nell'istante immediatamente seguente alla mia uscita brillante.
Lo avevo detto, davvero.
Finalmente.
E, a differenza di ciò che avevo immaginato in funzione di quel momento, parlare mi era venuto così naturale che mi parve quasi di non aver aperto bocca. 
Eppure lo avevo fatto. 
Io, proprio io che mai avrei creduto di poter dire quelle parole senza che un peso mi opprimesse il petto; senza che mi sentissi obbligata a dirlo. Credevo fermamente in ciò che avevo affermato, senza alcuna dispensa o dubbio in testa.
In contrapposizione, ma prevedibilmente, il cuore prese a battermi più forte nel petto, sebbene fossi quasi certa che la causa fosse attribuibile più alle emozioni che stavo provando dentro di me che non alla paura di una possibile reazione negativa da parte di Percy. 
Trassi un respiro, accorgendomi solo in quell'istante di star trattenendo il fiato, e mi sentii bene, assurdamente ma piacevolmente bene con me stessa. Sbattei velocemente le palpebre, tornando a focalizzare l'attenzione su quello che era il mio bellissimo e incredibile ragazzo, sebbene non avessi mai distolto lo sguardo dal suo. Percy mi stava fissando a sua volta, in un modo talmente intenso da creare un mondo parallelo, i cui protagonisti eravamo esclusivamente noi: io e lui, lui e io.
Non badai affatto al silenzio vuoto che si creò tra noi perché, quando il suo volto si aprì in un sorriso lento e largo, ma unico nel suo genere, tutto al di fuori di lui perse di significato. L'unica cosa che importava era che Percy fosse lì a sorridermi come mai aveva fatto prima di allora: era la prima volta in assoluto che lo vedevo indossare quel sorriso, molto diverso da quello che usava nei giorni migliori, in cui il sole splendeva e noi potevamo passare del tempo insieme. Con quel sorriso, Percy mi stava trasmettendo uno squarcio nella visione della felicità più assoluta, ma non solo: vedevo sollievo, aspettativa e gratitudine. 
Amavamo Percy Jackson.
Lo seguii con lo sguardo mentre, dopo aver lanciato un'occhiata a Nico che dormiva beatamente con le coperte rimboccate fin sotto il mento, si alzava dal pavimento, spostandosi dal capezzale del letto e avanzando nella mia direzione, le braccia quasi ferme lungo i fianchi e quel sorriso imperturbabile disegnato in volto. 
Solo quando fu a poco meno di due passi di distanza allargò le braccia, protraendole in avanti, per poi avvolgerle intorno al mio corpo, stringendomi a sé come mai aveva prima di allora. O meglio, io mi aggrappai a lui come mai avevo fatto, trovando in Percy la colonna portante della mia stabilità fisica e mentale. 
Mi lasciai semplicemente abbracciare, trovandomi improvvisamente con la faccia premuta contro la sua scapola, le braccia intrappolate tra le sue, bloccata in quell'istante. Ma poi, non appena trassi un respiro, sentii quell'aroma inconfondibile che solo Percy aveva e il resto fu inevitabile: le mie braccia andarono a stringere le sue spalle e sentii le sue mani allargarsi sulla mia schiena, una all'altezza della vita e l'altra sulla parte dorsale, avvicinandomi in qualche modo ancora di più a lui. 
Non eravamo mai stati così vicini, né fisicamente né sensibilmente.
Dopo un po' di tempo, Percy ritrasse leggermente il capo, tenendomi comunque ancorata a sé in un movimento cullatorio, e io percepii distintamente il suo fiato caldo vicino alla tempia. «Ti amo anch'io, Annabeth» sussurrò. «Su, forza, è ora di andare a dormire. È stata una giornata lunga anche per noi» aggiunse.
Solo in quel momento, in seguito a ciò che aveva detto Percy, presi coscienza del fatto che il mio letto era effettivamente occupato da Nico e Bianca e che, di conseguenza, per quella notte non avrei potuto usarlo. Proporre di mettere i bambini nel mio letto era stato istintivo: loro venivano prima di tutto, non c'erano dubbi.
Le mani di Percy mi presero le spalle e mi allontanarono di qualche centimetro: in quel modo lui riusciva molto bene a guardarmi in volto, ma era abbastanza vicino da poter toccarmi toccare il naso con il suo.
«È tutto okay?» chiese mentre una piccola ruga d'espressione si formava in mezzo alle sue sopracciglia.
Non avevo idea del perché lui avesse fatto quella domanda né perché, tutt'a un tratto, mi sentissi il cuore battere forte, ma di una cosa ero certa: quella notte più che mai avevo bisogno della presenza di Percy accanto a me, della sua pelle, del suo profumo. Quella era stata una delle giornate più difficili che avessi mai vissuto e in segreto speravo che lui potesse alleviare un po' gli incubi che, sicuramente, avrei avuto.
Perciò, dopo aver mosso il capo su e giù brevemente, mi protesi in avanti, con gli occhi incollati ai suoi, sfiorandogli a fior di pelle le labbra calde con le mie. Sostai per qualche secondo in quella posizione, senza però cercare di approfondire il contatto, e alla fine, quando tornai a una distanza tale da poterlo guardare senza che il verde delle sue iridi invadesse tutto il mio campo visivo, sentii la sua mano sul fianco premere con maggiore intensità.
«Grazie» mormorò. Aspettai che aggiungesse qualcos'altro per giustificare quella sua uscita, ma Percy non parlò più.
Ero leggermente confusa. Perché mi ringraziava? 
Rivissi nella mente gli ultimi istanti invano, in cerca di qualche dettaglio che mi fosse sfuggito involontariamente. E poi una piccola voce fastidiosa nella mia testa bisbigliò: Percy si stava per caso riferendo alla mia dichiarazione improvvisa? Forse pensava che mi fossi lasciata andare definitivamente con lui? 
Una parte di me, in effetti, si sentiva fiera di aver superato un ostacolo così grande, ma l'altra parte, quella più influente nel mio cervello, pensava colpevolmente che Percy, in fin dei conti, non doveva ringraziarmi perché io non mi ero affatto aperta con lui. 
Buona parte del mio passato – se non l'intero passato, quello più importante – era ancora per lui ignota.
Con un sospiro di sconforto, allentai la stretta sulle sue spalle, abbassando le mani fino a incontrare le sue, che nel mentre avevano lasciato il mio corpo. 
«Dai, andiamo a letto...» Con le dita intrecciate, lo seguii fuori dalla mia stanza.
Prima di chiudere piano la porta, lanciai un'ultima occhiata ai bambini, i quali per fortuna dormivano beatamente, poi attraversammo il corridoio per raggiungere la camera di Percy che si trovava in fondo.
Non contai quanti passi fossero, né quanto impiegammo, ma il pensiero che invase la mia testa in quel lasso di tempo fu talmente sconvolgente che la camminata mi parve senza fine.
Mi stupii di me stessa per non averci pensato prima quando ricordai che quella era la prima volta che passavamo tutta notte assieme, nello stesso letto, a stretto contatto. Anzi, era la prima notte in assoluto che io dormivo con una persona – un ragazzo – che non fosse Piper.
Io e Percy nello stesso letto per un'intera notte.
Con tutta sincerità non ero in grado di capire se fossi pronta o meno, ma anche solo il fatto che non stessi scappando a gambe levate era per me un grande traguardo e un segno positivo.
Percy mi lanciò un'occhiata fugace e discreta, ma io me ne accorsi ugualmente e presi coscienza anche del fatto che lui fosse evidentemente preoccupato per qualcosa. Che avesse i miei stessi pensieri? 
Era altamente probabile che lui si stesse domandando se io fossi pronta per una cosa del genere, ma ero intenzionata a superare molti dei miei ostacoli quella sera e, dopo le due famose parole, in me regnava la convinzione che con lui potevo farcela, perciò feci finta di niente e proseguii mentre raggiungevamo la porta della sua camera.
Nell'istante in cui misi piede al di là della soglia, fu come se la mia vista si fosse acuita tutta in un colpo, come se il mio udito fosse diventato più fino: ogni più piccolo particolare di quella stanza catturò la mia attenzione. Come le scarpe da ginnastica poggiate accanto alla sedia delle scrivania, rivolte con la punta verso le gambe di quest'ultima; come lo scacciapensieri nero appeso alla lampada sul comodino; come il ticchettio dell'orologio chiodato alla parete che batteva ininterrottamente ma con una certa costanza. E poi, a interrompere quel rumore regolare arrivò un click, più forte, e io seppi che Percy aveva chiuso la porta. 
Con la mano appoggiata sulla tastiera inferiore del letto, mi voltai lentamente, come se qualcosa mi stesse attirando in quella direzione. E inevitabilmente incrociai il suo volto, la sua bocca, i suoi occhi che mi fissavano.
Con una mano sulla maniglia della porta e la schiena appoggiata al legno levigato, le sue spalle si muovevano su e giù e io presi a contare quante volte il suo petto si allargava. Non riuscivo a spostare lo sguardo da quel punto su cui, in realtà, non ero concentrata perché la mia testa era da tutt'altra parte.
Nella stanza regnava un silenzio strano, carico di qualcosa che io non riuscivo a cogliere, anche se, dentro di me, ero consapevole di esserne la causa. Era evidente che Percy stava aspettando una mia mossa, qualcosa che gli facesse capire che dopotutto stavo bene, che sarei stata bene.
Ma io sapevo che tutto ciò non sarebbe mai potuto accadere: la menzogna, quella cosa non detta, avrebbe sempre aleggiato sopra di noi, come una tenda pronta a chiudere il sipario della nostra storia. Quanto tempo sarebbe passato prima di giungere in una strada a fondo chiuso? Mesi? Addirittura anni?
Sul serio potevo vivere con la consapevolezza di star distruggendo la sua fiducia e, sopratutto, me stessa di nuovo? Potevo davvero vivere con quel peso incontrastabile del mio passato, sostenendo sulle spalle tutto e niente, lasciando che la mia vita andasse alla deriva?
Perché è quello che sarebbe successo se non avessi aperto bocca, se io, quella stessa sera, non mi fossi lasciata andare definitivamente.
Nel mio piccolo, sapevo benissimo che Piper aveva ragione senza ombra di dubbio: Percy non meritava nulla di ciò che gli stavo facendo passare temporeggiando ancora e ancora. 
Però sapevo anche ciò che dava origine ai miei dubbi, ai miei timori. Mi ritrovavo a dover combattere una battaglia contro il futuro, contro la consapevolezza di star procedendo alla cieca. Dopotutto, avevo qualche garanzia che Percy non sarebbe scappato?
Sì, ormai lo conoscevo bene e sapevo che non sarebbe mai stato in grado di voltarmi le spalle all'improvviso, ma che sarebbe successo con l'avanzare del tempo? Proprio come la menzogna aveva il potere di distruggerci, anche la verità poteva portare al medesimo destino.
Perciò tutto si riduceva a una semplice scelta fatta alla cieca, un lancio della monetina: testa o croce? Verità o bugia? Adesso o mai più?
Sbattei le palpebre una, due, tre volte in successione e, alla fine, mi dissi basta.
Mossi un piede in avanti lasciando andare la tastiera del letto e, quasi nello medesimo momento, Percy fece lo stesso. Fu solo quando ci incontrammo a metà strada che crollai tra le sue braccia, in tutti i sensi.
Il modo in cui mi strinse a sé, come io strinsi lui, fece affiorare involontariamente tutte le emozioni provate nel corso dell'intera giornata, ma anche tutto ciò che avevamo – che avevo – passato prima.
E allora dentro di me presi una decisione che, malgrado i miei timori, si rivelò essere la più facile e anche la più normale di tutte. Dopotutto se non potevo riporre tutta la mia fiducia nel fatto che Percy sarebbe rimasto, allora nulla aveva più senso.
«Non lasciarmi mai» mormorai, sentendo l'ombra calda delle lacrime che percorrevano la loro strada verso il basso. «Promettimelo, Percy, ti prego.»
Lui aumentò la stretta delle sue braccia attorno al mio corpo, spostandone una alla base della schiena e l'altra appena sotto il mio sedere, sulla coscia. Non compresi subito le sue intenzioni, nemmeno quando i miei piedi vennero staccati da terra e io mi trovai a stringere più forte le braccia al collo di Percy. Ma, nel momento in cui lui camminò in direzione del letto su cui si sedette un'istante dopo, smisi di domandarmi cosa stesse per fare, consapevole che il suo abbraccio valeva più di mille parole al vento.
Seduta a cavalcioni su di lui, con le ginocchia lasciate scoperte dai pantaloncini che sprofondavano nel materasso, piansi per molto tempo in silenzio, senza mai osare di alzare la testa dalla sua spalla o di allentare anche solo per un secondo la morsa delle braccia.
«Per sempre, Annabeth. Non ti lascerò mai, a meno che tu non voglia» disse tutt'a un tratto, il mento appoggiato sulla mia spalla e la bocca a pochi centimetri dal mio orecchio. «Te lo prometto.»
E io mi abbandonai a lui, credendogli senza alcuna remora perché sapevo che stava dicendo la verità.
Restammo in quella posizione a lungo e a un certo punto le lacrime finirono, lasciandomi solo con il viso bagnato e un senso di vuoto e pieno allo stesso tempo. Fu parecchio strano perché non mi ero mai sentita in quel modo: era come se tutto andasse bene e male contemporaneamente, come se il mondo stesse per finire e iniziare.
Non mi accorsi nemmeno che Percy si era mosso e che si era alzato in piedi tirandomi con sé fino a quando non percepii le sue mani sui fianchi e le dita a contatto con la mia pelle. I suoi movimenti erano lenti, molto lenti, mentre la mia maglietta veniva alzata fin sotto alle ascelle e poi sfilata dalla testa dopo che ebbi sollevato le braccia. 
Poi fu la volta del pantaloncini. Osservai Percy mentre sfilava il bottone di metallo dall'asola e tirava giù la cerniera. Non mi stupii affatto quando incrociai i suoi occhi che erano sempre stati fissi sulla mia faccia: comprendevo che, non guardando il lavoro che stava facendo, voleva farmi capire che non aveva altre intenzioni che spogliarmi semplicemente. Ma non ce n'era bisogno: sapevo che i suoi erano gesti automatici, volti solo a togliermi i vestiti e basta.
Mi fidavo di lui ciecamente.
A prova della mia certezza andava il fatto che le sue mani non avevano toccato altro che i vestiti, senza mai andare a sfiorare la mia pelle se non necessario. Eppure ero lì, vulnerabile e quasi nuda.
Stetti a guardarlo mentre si voltava verso un cassetto dell'armadio a muro, da cui prese una delle sue magliette bianche che mettevano sempre in risalto la sua carnagione. Me la infilò, facendo passare un braccio alla volta dalle maniche e poi, quando la mia testa sbucò oltre la scollatura della maglietta, con dei movimenti lenti mi sistemò i capelli su una spalla, sfiorandomi inavvertitamente il collo. 
Sentivo il suo profumo, vedevo i suoi occhi seguire i gesti che faceva.
L'orlo della maglietta mi solleticava le cosce.
«Tutto bene?» sussurrò, mentre spostava la mano dalla mia spalla al viso, accarezzandolo. Io piegai la testa, appoggiando la guancia sul palmo della sua mano e mossi il capo su e giù, una sola volta.
«Okay, allora» disse. Poi mi prese in braccio, come aveva fatto prima, e mi adagiò sul materasso, nello stesso punto dove prima eravamo rimasti abbracciati. Il letto era ancora caldo.
Rimasi lì a osservarlo mentre anche lui si spogliava dei vestiti usati durante il giorno, che appoggiò su una sedia sopra i miei, infilandosi una maglietta abbastanza logora e rimanendo in boxer. 
In quel frangente di tempo il mio cervello tornò attivo: sapevo che era arrivata l'ora e sentivo il cuore battermi nel petto, ma stranamente i battiti non accelerarono e il panico o la paura non presero il sopravvento. Ero guidata solo da un senso di determinazione.
Poi Percy si avvicinò al letto dalla parte opposta alla mia e scostò l'angolo delle lenzuola. Passandomi dolcemente un braccio intorno al busto, mi sospinse in giù, facendomi sdraiare accanto a lui. Il letto, proprio come quello nella mi camera, era studiato per la completa comodità di una sola persona, ma vicini com'eravamo potevamo starci senza il rischio di cadere. Il calore del corpo di Percy, poi, era molto meglio di quello che una qualsiasi coperta avrebbe potuto darmi.
Strofinai la fronte sulla sua un paio di volte, con gli occhi chiusi e un labbro stretto tra i denti, e mi immaginai di aprire bocca e sputare fuori quelle fatidiche parole, una in successione all'altra. Provai anche a formulare l'immagine dell'espressione che Percy avrebbe avuto, ma non ne ebbi il tempo perché lui, quello vero, mi posò un bacio sulla fronte e io aprii gli occhi, guardandolo intensamente.
Presi un profondo respiro.
«Avevo diciotto anni e nemmeno un mese prima avevo ritirato il diploma» mormorai, distogliendo lo sguardo dal suo per la prima volta con intenzione, per fissarlo su un punto imprecisato sopra la sua spalla. Sentivo già che una parte di me stava tornando indietro, nel passato.
Attesi qualcosa d'indefinito, forse che Percy mi dicesse che non c'era bisogno che parlassi, che tutto andava bene così. Ma, al contrario, lui mi prese il mento tra le dita e mi costrinse gentilmente a tornare a guardarlo e capii che no, non volevo affatto che lui mi fermasse, ma solo che lui rimanesse lì con me, per evitare che io cadessi troppo nei ricordi. Volevo che mi incoraggiasse, che capisse.
E che, infine, non fosse disgustato di me.
«Ero una ragazza normale. Insomma, avevo anch'io i miei sogni e sì, in un certo senso ero interessata ai ragazzi molto più di quanto lo sia stata negli ultimi anni. Ma avevo appena ricevuto una delusione tosta e desideravo solo allontanarmi il più possibile dalle persone che avevo conosciuto al liceo, tranne Piper e Jason.» Mi bloccai perché guardare quegli occhi verdi così seri e concentrati su di me era diventato troppo. Se volevo davvero avere qualche speranza di arrivare alla fine in un modo o nell'altro, dovevo concentrarmi, perciò tornai a chiudere gli occhi e ad appoggiare la fronte su quella di Percy, il quale non si mosse.
«Ero andata a quella festa solo perché Jason compiva diciotto anni e perché Piper sa essere molto insistente quando vuole, l'hai vista anche tu. A un certo punto della serata, non ricordo l'ora precisa, mi sono accorta che un tipo mi fissava. Al momento non gli ho fatto troppo caso perché, insomma, ero insieme a Piper. Ero abituata alla gente che la fissava.» Ora che avevo iniziato, era come se le parole fossero sempre state dentro di me, lì, pronte a uscire non appena io avessi cominciato a parlare.
«Ma avevo questa sensazione... Poi me ne sono andata: casa mia distava pochi isolati e non pioveva più.» Sentii la mano calda di Percy poggiata sulla guancia e questo mi diede un po' di sicurezza in più. Lui era lì con me.
«Eppure quella strana sensazione continuava ad assillarmi. Fossi stata meno stupida, probabilmente avrei chiamato un taxi e nulla sarebbe successo. Ma non l'ho fatto quindi, quando la borsa mi è rimasta impigliata in un cespuglio e quel tipo è comparso all'improvviso, penso che dentro di me sapevo già di essere in pericolo. E poi...» Trassi un profondo respiro tremante mentre una sola lacrima cadeva sul cuscino e strinsi le labbra.
Non ci fu bisogno di aggiungere nient'altro: penso che Percy trasse le sue conclusioni palesemente ovvie perché l'istante immediatamente dopo mi ritrovai a soffocare un singhiozzo contro il suo petto, nella sua maglietta e la mia visuale divenne nera. 
«Va tutto bene. Ci sono qui io ora e non permetterò a nessuno di farti del male, Annabeth, mai più.»

 


 



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Ci sono ricaduta di nuovo. Mi ero ripromessa che non vi avrei mai più fatto attendere delle ere tra un capitolo e l'altro, ma è accaduto nuovamente. E, di nuovo, è colpa della vita privata che è insorta più prepotente che mai.
In questi tre mesi mi sono capitate un sacco di cose - fin troppe.  
Probabile che io sia cresciuta parecchio, non in altezza (quella è bloccata da anni) ma a livello di carattere e di persona. Riconosco anch'io che c'è qualcosa di diverso in me. Non sto qui a spiegarvi il motivo perché è piuttosto personale.
Voi dovete solo sapere che, malgrado tutto, non mi sono dimenticata di voi, di questa storia, né delle altre. Molto spesso mi sono trovata ad aprire il documento di questo capitolo, cercando di buttar giù qualche frase, di tirare assieme qualche periodo decente, ma lo chiudevo quasi subito.
Non so se mancasse la voglia oppure qualcosaltro, fatto sta che fino a questa mattina il capitolo era completo solo per un terzo. Poi, evidentemente, oggi mi sono svegliata con la luna giusta e tac! Al posto dei maledetti compiti mi sono messa a scrivere e ho deciso di finire finalmente questa capitolo per molto ragioni: primo fra tutti il fatto che voi avete atteso troppo e che molte persone (sopratutto su wattpad) mi continuano tuttora a scrivere di continuare, e poi perché manca davvero molto poco alla fine.
Non so come sia uscito questo capitolo. So solo che è più corto degli altri, ma ho preferito lasciarlo così apposta: non voglio caricarlo troppo perché finalmente Annabeth si apre con Percy. Quindi credo che il capitolo di commenti da solo.
Anche il finale - se notate - è piuttosto scarne, quasi frettoloso. Beh, è fatto apposta.
In questi giorni provvederò a rispondere a tutte le recensioni (comprese quelle dei due capitoli precendenti) e a ringraziarvi tutti. Vi ringrazio solo di essere rimasti e di non aver dimenticato questa storia se arrivate fin qui a leggere.
Ora, non so quando aggiornerò, se tra poche settimane o mesi. Non nascondo che la vita privata insorgerà più forte di prima nei prossimi mesi, ma cercherò di fare il possibile, lo prometto.
Null'altro. Grazie di aver letto <3


Annie
 

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Capitolo 25
*** Capitolo 24 ***


Disclaimer: Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di Rick Riordan; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.

 

 

Capitolo 24

 

Rio de Janeiro, quella notte

 

Qualcuno si era dimenticato di chiudere le imposte della finestra.

Non so dire il perché, ma fu la prima cosa che notai e su cui il mio cervello di concentrò, come se, fino a un momento prima, non fosse stato occupato da altri pensieri. Neppure ero girata verso quel vetro; anzi, il mio sguardo era puntato di fronte a me, sulla parete opposta a dove stavo io.

Lo sapevo e basta: le imposte della finestra non erano state chiuse e ora, non solo potevo immaginare, ma anche voltarmi e guardare ciò che accadeva fuori.

Eppure non lo feci, rimasi lì, sicura che quella notte non un filo di vento tirava nell'aria estiva e che la luna, a qualunque punto del suo ciclo fosse, emetteva dei raggi, i quali filtravano attraverso la finestra e rischiaravano la stanza. Un cono di luce inframmezzava la forma quadrilatera della camera. La convinzione che l'umidità regnasse incontrastata la notte selvaggia derivava dal fatto che non udivo il familiare fruscio delle foglie degli alberi che attorniavano la fattoria e il grande prato.

C'era silenzio. Ne ero talmente certa che avrei potuto metterci la mano sul fuoco.

Eppure sentivo un rumore, un suono fastidioso, qualcosa che mi faceva male, che mi urtava il petto, lo sterno, la gola. Era come se stessi soffocando, ma ero sicura che i miei polmoni si stessero riempiendo di aria con una certa regolarità, ininterrottamente.

E poi ci arrivai: ero io.

Il rumore che mandava in frantumi quel silenzio pacifico ero io che respiravo, io che ansimavo. I polmoni, il petto mi facevano male perché li gonfiavo a dismisura, come se fossi appena riemersa da un periodo di apnea lunghissimo, in cui l'ossigeno non era arrivato al mio cervello, il quale urlava urgentemente una richiesta di aiuto.

Alla fine abbassai lo sguardo al grembo, su cui le mie mani tremavano in una posizione simile a quella di un povero che chiede uno spicciolo, un pezzo di pane per sopravvivere alla giornata. In corrispondenza di quelle appendici, scorsi l'orlo delle lenzuola a motivi blu e oro che mi coprivano le gambe.

Un pensiero fulminante, qualcosa che mi travolse la mente tanto da far crescere il mio livello di paura alle stelle, mi costrinse a voltare il capo a destra e a sinistra, con frenesia, mentre i miei occhi vagavano per la stanza in cerca di una grata, di una scala, di una pozza d'acqua, di un gatto nascosto dietro a un cartone. Ma del vicolo di New York non vi era alcuna traccia.

L'unico elemento che potevo mettere in relazione era il tempo, il buio oppressore della luce solare, del giorno, sinonimo di notte e di paura per molte persone. A volte, io compresa.

Sapevo di non essere in America, una parte di me era consapevole del Paese in cui mi trovavo, ma quelle pareti non mi erano per nulla familiari; niente in quella stanza mi faceva sentire al sicuro, probabilmente perché il ricordo vivido del sogno da cui mi ero appena svegliata mi rimbombava ancora in maniera chiara nella mente.

Malgrado ciò, sapevo che non era stato l'incubo a destarmi, né la paura provata negli ultimi istanti che ancora mi scorreva nelle vene. Nell'aria c'era ancora il fantasma dell'eco di un orologio a pendolo che batteva l'ora ad occupare lo spazio e io, che a causa del tema protagonista del mio sonno non stavo dormendo molto bene, ne ero stata disturbata.

Mossi una delle mani a coprirmi l'avambraccio nudo, i cui peli erano rizzati, segno che il calore del mio corpo non era in equilibrio con quello dell'ambiente, malgrado quest'ultimo fosse senza dubbio molto caldo e confortevole.

In seguito a un rapido momento di meditazione, constatai che, in contrasto alla parte superiore, quella inferiore del mio corpo era bollente, quasi fosse riscaldata da un termosifone appena acceso. Ma quelle intrecciate ai miei piedi erano delle gambe umane, calde e ispide.

Solo in quel momento sentii la sua presenza accanto alla mia, come se il suo corpo mi fosse comparso all'improvviso accanto, con un peso ben preciso che premeva sulla parte destra del materasso.

E poi, quando una mano venne posata delicatamente accanto alla mia sul mio avambraccio, il cuore prese a rallentare e il respiro si fece più regolare: i polmoni e la gola non mi facevano più male, anche se la sensazione provata continuava a riverberarsi lungo il mio corpo, nei muscoli, nelle vene.

Lo riconobbi come se fosse sempre stato parte di me, come se il suo profumo, il suo odore indistinguibile avesse messo le radici nel mio cervello, nella sezione dedicata alle interazioni con le altre persone.

«Annabeth» mormorò pianissimo prima di tirarmi giù con la mano, e io caddi inevitabilmente sul materasso che molleggiò sotto di me, attutendo il colpo. Immediatamente mi trovai schiacciata contro il suo petto, la faccia premuta sulla sua maglietta profumata e lui che mi circondava la nuca con un braccio, impedendomi qualsiasi movimento, come se avessi davvero voluto sfuggirgli.

Ma le mie intenzioni erano davvero distanti anni luce da quel pensiero e quindi accolsi con immenso piacere la nuova posizione.

«Va tutto bene, Annabeth, tutto bene. Io sono qui con te» continuò, passando lentamente il palmo della mano sui miei capelli, cullandomi, rassicurandomi. E io davvero gli credetti: potevo sentire distintamente il suono del suo cuore, di quel battito regolare che già altre volte aveva avuto il potere di calmarmi. Lo vivevo.

«Era solo un sogno» disse dopo un po' da qualche parte sopra la mia testa. Me lo immaginai con la tempia appoggiata al cuscino, il mento che sfiorava i miei capelli e gli occhi che puntavano qualcosa di fisso ma di lontano, quasi irraggiungibile, con un'intensità tale da costringerti a distogliere lo sguardo se solo avessi incrociato il suo. Mossi la testa su e giù una volta, con la fronte che sfregava sulla sua maglietta e gli occhi appena aperti, la vista talmente sfocata che tanto valeva chiuderli del tutto.

Andava tutto bene: Percy aveva promesso di proteggermi da tutto e tutti e io, credendogli, nemmeno per un attimo misi in dubbio le parole che aveva detto non molto tempo prima quella stessa notte. Perciò costrinsi me stessa ad alzare la testa sul cuscino, per affiancarla a quella di Percy in modo che le nostre fronti fossero allo stesso livello, con la sua mano sotto il mio collo e il fiato caldo che mi sfiorava il volto.

Mosse appena la testa prima di dire: «Ehi.»

L'angolo della sua bocca ebbe un piccolo fremito, come se fosse indeciso se accennare un sorriso oppure rimanere serio e io, cercando con tutto il cuore di rassicurarlo che andava tutto bene ora, che io stavo bene, mi avvicinai ulteriormente, baciandolo leggermente sulle labbra.

«Ehi» risposi quando mi ritrassi.

Mentre lo guardavo pensai inevitabilmente a quanto mi sentissi a mio agio in quell'abbraccio, a quanto non fossi in ansia per il fatto di essere nello stesso letto con metà della pelle spoglia dei vestiti che di solito ricopriva i nostri corpi. Era una novità, ma allo stesso tempo no: dopotutto, sarebbe stato strano se non avessi avuto voglia di restare sdraiata accanto a Percy, il mio ragazzo. Era bello sentirsi una ragazza normale anche se per molti aspetti non lo ero.

Infransi per un breve periodo il contatto con i suoi occhi, per posare i miei sopra la sua spalla, dove sapevo di trovare l'immagine della sua sveglia. Essa segnava le tre e pochi minuti: ricordavo perfettamente di aver fatto lo stesso gesto poco prima di addormentarmi tra le braccia di Percy, con le guance ancora umide di lacrime e la preghiera muta nella mia testa di non fare quel sogno – si era poi rivelata essere una speranza ingenua e invano. Perciò sapevo che era trascorsa solamente poco più di un'ora da quando ero caduta nel mondo di Morfeo, anche se mi sembravano secoli interi.

E di nuovo mi sentii come calamitata da qualcosa nello spostare i mie occhi su Percy l'istante dopo. Accarezzai la sua fronte liscia, il suo naso dritto, i suoi occhi verdi e brillanti anche alla luce della luna, la sua bocca sottile e schiusa con lo sguardo, soffermandomi infine su quest'ultima per un tempo non indifferente. Lui era lì davvero con me, lo sentivo dal calore del suo corpo, dai peli ispidi del suo braccio sotto il collo, dalla mano che aveva appoggiato con delicatezza sulla mia vita. Lo sentivo e basta.

Con non troppa sorpresa, mi riscoprii essere stufa marcia di quella situazione. Ne avevo fin sopra i capelli del mio passato, di sentire la mia parte razionale essere sempre in disaccordo con ciò che l'istinto mi suggeriva per una questione di principio, per non lasciarmi influenzare troppo. Ero stufa di dover porre un freno a qualsiasi cosa mi andasse di fare, dopo aver trascorso gli ultimi due anni a non sentire minimamente l'accenno di quella voglia di vivere che da quando ero arrivata in Brasile mi aveva guidata.

Era vero che la paura era stata la mia unica compagna di vita da quando avevo permesso a Luke di fare quel che aveva voluto fare al mio corpo, senza cercare di ribellarmi o chiedere aiuto, ma era anche vero che la paura si era attaccata al mio corpo come un parassita, condizionando tutto.

E io non potevo permettermi di continuare così.

Perché lì davanti ai miei occhi si era presentato il futuro; un futuro inaspettato, ma talmente invitante che mi era impossibile rifiutare ancora a lungo l'invito a intraprenderlo, accettandolo come dato di fatto. La mia vita nuova aveva un nome: Percy. Un nome brillante, rassicurante che portava con sé sia il bello che il brutto, proprio come qualsiasi altra strada avessi deciso di percorrere. Dopotutto, non potevo permettere che lo schifo del mondo mi portasse via colui che mi stava salvando, colui che sempre mi aveva creduto, sostenuto, senza mai lasciarmi andare alla deriva o abbandonarmi nel momento del bisogno, com'era stata tutta quella giornata e, non ultima, quella notte.

Quindi no, non avevo più bisogno di vivere nel passato come avevo fatto negli ultimi due anni, di lasciare che il freddo entrasse dentro di me pur di non provare nulla, pur di sentirmi vuota e inerme. Avevo bisogno dell'offerta che il futuro mi stava lasciando, del futuro che potevo costruire insieme alle persone che mi volevano bene, che non avrebbero mai permesso di lasciarmi andare ancora un volta se solo ne avessero avuto l'occasione. Solo in quel momento compresi che quei pensieri, quella consapevolezza, si traducevano esattamente nelle parole che papà aveva sussurrato al mio orecchio il giorno della partenza da New York.

Hai bisogno di vedere con i tuoi occhi ciò che ti perderai se continuerai ad essere quello che sei adesso.

Percy. Percy era il prezzo che avrei pagato se avessi permesso al passato d'interferire ancora e ancora.

E io non volevo.

Trassi un tremante respiro mentre la consapevolezza di ciò che stavo per fare, di ciò che dovevo fare mi investiva: c'era solo un modo perché tutto avesse fine, perché io mettessi un punto fermo al capitolo della mia vita passata e iniziassi a scrivere il successivo.

Passai una mano sulla guancia del mio ragazzo, seguendone il percorso con lo sguardo per sfuggire al suo.

Innanzitutto, accettarlo a me stessa: avevo bisogno di essere di Percy, sua soltanto, di appartenergli.

Avevo bisogno che lui fosse il primo e unico uomo della mia vita.

Accettalo, Annabeth. È così che deve essere. Tu lo sai e lo vuoi.

Perciò ero consapevole di me stessa e del mio corpo quando mi misi seduta sul letto con uno scatto improvviso. I capelli mi solleticarono le spalle, la schiena, le guance. Lasciai che una tenda di crini biondi mi coprisse il volto per qualche istante mentre Percy si sollevava al mio fianco, appoggiando poi una mano sulla mia spina dorsale, delicatamente.

No, tu non hai paura, mi dissi nella mente prima di incrociare lo sguardo del mio ragazzo e vedere la muta domanda disegnata sul volto. Non gli diedi il tempo di aprire bocca che dalla mia uscirono appena due parole, ma un numero sufficiente per fargli comprendere tutto, o almeno così speravo: non potevo più perdermi in parole inutili.

«Guariscimi, Percy.»

Il dubbio precedente sul suo volto venne amplificato dalle mie parole, anche se nel profondo dei suoi occhi vidi un barlume di comprensione affiorare lentamente. Probabilmente era troppo assurdo anche per lui che intendessi dire proprio quello, perciò presumo che le sue parole seguenti fossero lecite.

«Che cosa... Che cosa intendi?»

Avvolsi le mie mani intorno al suo braccio sinistro, stringendolo impercettibilmente per infondere più enfasi a ciò che volevo dire, poi mi chinai in avanti lentamente, dandogli tutto il tempo per ritrarsi, cosa che lui non fece. Perciò arrivai a toccare la sua fronte con la mia, spingendo un po' in avanti, esortandolo ad ascoltarmi. Con le bocca a pochi millimetri dalla sua, mi fermai, socchiudendo le palpebre abbastanza da poter vedere solo le sue labbra socchiuse.

«Guariscimi, Percy» ripetei ancora una volta, più piano. «Ti prego...»

Lo sentivo dentro nel cuore, percepivo il cambiamento, ciò che avevo scatenato nel momento in cui quelle sillabe erano uscite dalla mia gola, dalla mia bocca investendo quella di Percy grazie alla ravvicinata distanza tra noi. Azzardai ad altare gli occhi dopo qualche istante, incrociando i suoi che erano lì ad aspettarmi. Non so cosa mi aspettassi di vedere esattamente, ma presumo che lo strano luccichio negli occhi di Percy fosse uno di quelli. Non era uno scorcio di malizia, quello no di certo; presumo che il piccolo barlume di consapevolezza di prima fosse aumentato soltanto e ora lui stava lì a guardarmi.

Rimase a soppesarmi per tanto tempo, ma nessuno di noi due mosse un muscolo.

Mi era evidente che lui avesse capito dall'intensità con cui mi osservava, eppure non riuscivo a capire per quale motivo non dicesse niente. Un debole panico di diffuse nel mio stomaco, ma io lo scacciai nel momento in cui comparve, grazie alla tenacia e alla consapevolezza che stava guidando le mie azioni e le mie parole. Così spinsi ancora un po' con la fronte, cercando di esortarlo.

«Ti prego» ripetei per l'ennesima volta. «Ho bisogno che tu lo faccia, Percy.»

Non sapevo se avesse funzionato perché in quel momento chiusi gli occhi e piegai impercettibilmente il capo, ma poco dopo sentii la sua mano appoggiarsi sulla mia guancia, prima delicatamente, poi facendo aderire il palmo e le dita fino a sfiorare la tempia.

«Che cosa ti prende, Annabeth?»

Di certo non mi aspettavo quella sua risposta, non dopo essere arrivata a una decisione con me stessa. Eppure, sapevo che lui stava per capitolare dal tono di voce con cui aveva parlato. Il suo non era stato un rifiuto categorico, ma avevo sentito qualcosa di molto simile allo smarrimento.

«Ho bisogno di superare questa cosa, Percy, lo sappiamo entrambi» mormorai, separandomi di qualche centimetro dal suo viso per poterlo vedere meglio. «L'unico modo perché ciò accada è rubare questa cosa a lui. E solo tu puoi farlo. Adesso, in questo istante e per sempre, tu devi essere il primo e unico, Percy, altrimenti non riuscirò mai a guarire.»

Non gli diedi il tempo di controbattere: presi la mano che non stava sulla mia guancia e la posai in corrispondenza del mio cuore, sul petto coperto dalla sua maglietta. «Lo senti Percy? Il mio cuore batte così per te, ma c'è questa parte invisibile che solo io posso sentire che è rimasta ancorata al passato come se avesse messo radici e ha condizionato tutte le mie decisioni, tutta la mia vita da due anni a questa parte. Questo è l'unico modo perché io sia libera, capisci?» Non c'era una singola parola che non fosse vera nel mio discorso. Gli avevo parlato a viso aperto come poche volte nella vita avevo fatto, aprendogli non solo il mio cuore, ma anche la mia anima corrosa e pronta alla rinascita.

Lo guardai prendere un respiro tremante negli istanti immediatamente successivi, deglutire un paio di volte e spostare lo sguardo a destra e a sinistra, come se fosse in cerca di qualcosa, un appiglio a cui si potesse aggrappare. Ero consapevole di averlo messo in difficoltà: nel caso contrario avrei dovuto rivedere molte delle mie priorità, prima fra tutte la decisione appena presa di affidare nelle sue mani la mia salvezza.

Ma mai come allora, quando infine smise di mordicchiarsi la parete interna della guancia per avvicinarsi al mio viso, sentii di amarlo e di essere al sicuro.

Il bacio che mi diede fu il più lento, gentile e se possibile semplice che una persona potesse mai dare a un'altra.

Le mie palpebre non ne volevano sapere di abbassarsi, perciò rimasi a guardare le ciglia di Percy a lungo mentre il contatto tra i nostri corpi continuava tramite la bocca. Le sue labbra erano morbide, calde e invitanti come sempre, ma il modo in cui mi baciò quella volta fu diverso: c'era qualcosa che fece risvegliare il mio istinto, costringendomi a rispondere al suo bacio con più forza, imprigionando il suo labbro superiore nelle mie. Con l'avambraccio circondò la mia vita, spingendomi verso il basso delicatamente: così ci trovammo entrambi sdraiati di nuovo sul letto, la mia testa appoggiata in mezzo ai due cuscini e le sue mani ai lati della mia testa, in modo da non pesarmi addosso.

Per qualche buffo motivo, la mia mente andò ad analizzare la situazione, soffermandosi in particolare su come le lenzuola aderissero ai nostri corpi, spiegazzate, ruvide, tiepide tra di noi. L'instante in cui però Percy si ritrasse, la mia attenzione tornò dove doveva essere in quel momento: su di lui, e lui soltanto.

Il fatto che si fosse fermato presagiva una nefasta continuazione, ma nel vederlo sopra di me, nemmeno così lontano, a guardarmi negli occhi e ad accarezzarmi i capelli sparsi sul cuscino con una mano, il mio cuore saltò un battito, e io mi trovai a desiderare con tutta me stessa che non mi rifiutasse.

Il suo pomo d'Adamo salì e ridiscese una sola volta prima che lui chiudesse nuovamente gli occhi, strizzasse le palpebre e li riaprisse, sempre sotto la mia minuziosa attenzione. Dentro di me stavo pregando chiunque ci fosse lassù che Percy non si ritraesse: in gioco non c'era solo la mia salvezza e il mio cuore, ma anche il nostro futuro e presente.

«Va bene» mormorò all'improvviso, riportandomi alla realtà. Il mio corpo aveva percepito il suo assenso molto prima che le parole arrivassero alla mia mente, così il cuore già aveva cominciato a battere impazzito. «Okay, allora...»

Lasciò andare un lungo sospiro mentre i suoi occhi si incatenavano ai miei. Sentii la sua mano sulla coscia, leggera, delicata, calda. Familiare. Fu quello a sconvolgermi di più: non avevo chissà quali aspettative e di certo non mi aspettavo di sentirmi completamente a mio agio, ma dovetti ricredere quando Percy fece scorrere la mano verso l'alto, sempre con estrema lentezza, alzando pian piano l'orlo della sua maglietta che mi aveva infilato quella stessa sera. Arrivò al mio fianco, in corrispondenza dell'elastico dei miei slip, e li si fermò definitivamente.

La pelle sembrava andare a fuoco dove la sua aveva toccato la mia in uno sfioro continuo. Dalle labbra schiuse mi sfuggì un sospiro quasi impercettibile.

E poi lui riprese a baciarmi, all'improvviso. Fu come se la mia bocca e la sua fossero state due calamite di poli opposti: mi stava reclamando come solo un assettato in mezzo al deserto poteva fare alla vista dell'acqua. Malgrado tutto non fu irruento, né impetuoso e nemmeno scortese. Ci appartenevamo e questo bastava per giustificare qualsiasi cosa stesse facendo, qualsiasi cosa io volessi che facesse. Perciò appoggiai una mano dietro al suo collo, attirandolo il più vicino possibile e ricambiando come meglio potevo il suo bacio. Non passò molto che, utilizzando i denti, mi tirasse il labbro inferiore verso il basso, in una muta richiesta di lasciarlo entrare; e io lo feci: schiusi le labbra e il bacio si intensificò.

Il mio corpo aveva esattamente due fuochi accessi dove la sua pelle era a contatto con la mia. Ero fin troppo consapevole della mano posata sul mio fianco, dove lui l'aveva messa prima senza osare più muoverla di un singolo millimetro. Ora, invece, la stava muovendo, seppur impercettibilmente, su e giù, più e più volte. Come poteva sapere che la mia pelle, lì, era sensibile? Com'era possibile che anche da quel punto tutti i miei sensi venivano amplificati?

Un movimento di pochi centimetri, e dalla mia bocca uscì una serie di sospiri più articolata, che finirono direttamente in quella di Percy. Avevo bisogno di respirare perché ciò che mi stava facendo provare era troppo forte, troppo opprimente. Ringrazia il cielo quando lui si fermò, posandomi un'ultimo bacio tra le sopracciglia, sulla fronte, dove più volte mi aveva baciata in passato in un modo che solo lui poteva fare.

Quando il suo corpo non fu più sopra il mio trassi un respiro profondo, sentendo involontariamente un senso di gelo avvolgermi tutta: come poteva lui avere quel potere su di me solo dopo avermi baciata?

Ne ero diventata dipendente, non c'era altra spiegazione plausibile.

Mi stupii nell'accorgermi che, da quando lui aveva detto “Okay”, il pensiero del mio passato, o di qualsiasi altra cosa che non fosse l'essere lì insieme a Percy, non mi aveva minimamente sfiorata.

Era... bello.

Quella era la prova che potevo davvero sconfiggere una volta per tutte quel ricordo e concentrarmi sul mio presente. Ma un piccolo dubbio, che ancora non avevo avuto il coraggio di analizzare, affiorò nell'istante in cui azzardai un sorriso di sollievo nella mia mente: sarei davvero riuscita ad andare fino in fondo? Potevo davvero superare l'ansia e la paura che sempre mi aveva colta nel pensare a quello?

Strinsi la mano destra in un pugno, artigliando le lenzuola tra le unghie, mentre Percy si metteva in ginocchio tra le mie gambe, attirandomi più vicino per i fianchi. Riprese con il lavoro di prima, ovvero sollevarmi la sua maglietta con lentezza, come per darmi tutto il tempo necessario per tirarmi indietro.

Ma io, malgrado tutto, non volevo: doveva continuare.

Concentrati, Annabeth, come prima, e vedrai che tutto andrà bene, mi dissi.

E così feci; mentre lui scopriva la mia pelle fin sopra il reggiseno, seguii ogni suo movimento, concentrandomi nel sentire il suo tocco sfiorarmi, nel modo in cui le sue spalle si alzavano e si abbassavano, nel modo in cui i suoi occhi fissavano ogni centimetro della mia pelle mano a mano che questa veniva rivelata. Mi alzai leggermente sugli avambracci, permettendogli di sostenermi la schiena mentre mi sfilava completamente la maglia dalla testa: e così rimasi con poco più di venti centimetri quadrati di tessuto a coprirmi il corpo mentre Percy buttava il capo a terra, senza curarsi di dove andasse a finire. Poi le sua bocca tornò sulla mia e lì vi rimase, in un bacio leggero, uno sfioramento di labbra che poco aveva in comune con il contatto di prima.

Mi resi conto fin troppo chiaramente che lui si ritrasse, ma di certo non mi aspettavo che si avvicinasse al mio orecchio, una mano sul mio collo, e sussurrasse: «Sei okay?»

Compresi ciò cosa voleva dire all'istante: non solo era evidentemente preoccupato per il modo in cui stavo reagendo e comportando, ma pure era a disagio nell'andare oltre qualsiasi limite fossimo mai andati prima di allora. Come potevo meritare un uomo del genere? Cosa avevo fatto per averlo al mio fianco? Mai nella vita sarei riuscita a ripagare il mondo per ciò che mi aveva donato, né mai avrei potuto meritarmelo appieno. Ma sapevo di avere bisogno di una persona così come sapevo di dover respirare per continuare vivere, e quindi mi limitai solo a ringraziare nella mia testa nessuno e tutto allo stesso momento.

Mi sollevai in ginocchio talmente all'improvviso che vidi Percy sussultare impercettibilmente, poi appoggiai le mani sulle sue spalle, posta esattamente di fronte a lui nella medesima posizione. Ero consapevole del mio corpo e del suo quando mi avvicinai, passando un ginocchio e poi l'altro ai lati per mettermi a cavalcioni sulle sue gambe.

Ci guardammo a lungo, il suo volto contrito in un'espressione assieme sorpresa e confusa, ma anche consapevole e – qui il mio cuore perse un battito – eccitata. Più di tutti, però, nei suoi occhi leggevo preoccupazione per me che sapevo di non poter cancellare solo a parole: ne avevamo passate troppe e lui mi conosceva fin troppo bene. Perciò, con tutta la calma del mondo, presi tra le dita l'orlo della sua maglietta di cotone, temporeggiando qualche istante per poi cominciare a sollevarla verso l'alta, esattamente come lui aveva fatto con la mia. L'unica differenza stava nel modo in cui le mie mani entrarono in contatto con la pelle del suo petto: lo scorsi tutto, utilizzando il dorso del palmo e sentendo il calore intenso che il mio contatto percepiva. Non so dire esattamente se il termosifone fossi io o lui, oppure entrambi, fatto sta che sentivo caldo, molto caldo, ma non per questo mi dava fastidio.

Era come se lui stesse emanando sicurezza assieme all'alta temperatura; una sicurezza che mi confortava, che mi conferiva il coraggio necessario per continuare. In tutta la vita non avevo mai avuto quell'audacia e nemmeno mi sarei mai sognata di averla, ma in quel momento ne ero felice: era ciò di cui Percy aveva bisogno per capire quanto io volevo che diventasse il primo e solo uomo della mia vita.

Non posso nascondere che una parte del mio cervello, sebbene la maggioranza fosse concentrata sui molteplici pensieri riguardanti ciò che stavo per fare, era consapevole del suo corpo: i miei palmi entrarono in contatto con la sua pelle liscia, con l'addome piatto e contratto, con il rigonfiamento dei muscoli delle sue braccia. Era... perfetto.

Ma ben presto accantonai quel pensiero, in corrispondenza del momento in cui feci passare la sua maglietta attraverso la testa sfilandola del tutto e noi tornammo a guardarci, perché nei suoi occhi lessi una consapevolezza che prima mancava, un bisogno primario che andava al di là si qualsiasi parola potessi usare per descriverlo. I raggi tenui della luna ci investivano e io ero felice che lui si fosse scordato di chiudere le imposte perché, ora, potevo vederlo meglio di quanto non avrei potuto se la stanza fosse stata avvolta dalle tenebre più fitte.

Aveva bisogno ancora di qualcosa, lo vedevo e lo sentivo, perciò allacciai le mani dietro il suo collo, dopo aver buttato la maglietta approssimativamente dove lui aveva buttato quella che indossavo io poco prima, e mi avvicinai ulteriormente. Così facendo i nostri petti entrarono in contatto: se avessi abbassato lo sguardo mi sarei accorta di quanto il mio seno fosse premuto contro il suo sterno, come ogni suo respiro coincidesse con il mio rilasciare l'aria in modo che i nostri movimenti si completassero. Ma poi io chiusi gli occhi, appoggiando la fronte sulla sua spalla destra e lasciai che il contatto colmasse il vuoto che avevo sentito quando lui si era ritratto.

«Va tutto bene, Percy» dissi, premendo forte la fronte sulla sua pelle liscia. «Sto bene... Starò bene, ne sono sicura.»

Percy mi appoggiò una mano sulla nuca, ma non fece niente per ristabilire il legame visivo. «Non sei obbligata, Annabeth. Abbiamo tutto il tempo del mondo per questo, davvero. Lo so che pensi sia essenziale, ma tu guarirai ugualmente anche se stasera non facciamo l'amore, Annabeth. Sei forte, sei tenace, non hai bisogno di questo per superare il tuo passato» disse. «Non c'è alcuna fretta, amore.»

Per assurdo, quella era la prima volta che mi chiamava in quel modo e, malgrado avessi sempre creduto che i soprannomi fossero inutili e assurdi, mi trovai ad amarlo ancora di più per averlo fatto. Ma non solo: stava cercando di rassicurarmi, di convincermi a non fare qualcosa di affrettato.

Quello che però lui non capiva era che io ne avevo davvero bisogno, a discapito di qualsiasi impressione potessi dare: non avevo fretta, anzi, ma lui era lì e io volevo andare avanti. Una volta per tutte.

Ostinatamente alzai lo sguardo per l'ennesima volta, con la differenza che ora lui mi guardava studiando ogni mio minimo movimento.

«Fallo» dissi. E lo baciai come mai avevo fatto: fortemente, disperatamente, volutamente.

Non seppi se avesse funzionato davvero finché Percy non respirò dal naso prendendo un lungo respiro e poi si mosse, spingendomi di nuovo giù sul materasso, con delicatezza e allo stesso tempo determinazione. Come prima, io ero sdraiata sotto e lui mi stava sopra appoggiato agli avambracci, con la differenza che, quando riprese a passare la mano sul mi fianco, il suo tocco era frenetico.

Passò dallo sfiorare l'elastico dei miei slip, al ventre cui dedicò qualche istante di più di attenzioni prima di arrivare al pizzo del reggiseno che indossavo, scelto a caso quella mattina. In realtà non mi importava più di tanto se la prima volta che mi vedeva senza vestiti portavo un banale completo nero: presi da tutt'altro, ero certa che lui non ci avrebbe badato minimamente. E poi non sapevo nessuno se ai ragazzi quelle cose interessavano: certo, nei libri nominavano spesso quanto il pizzo e il rosso li facesse andare fuori di testa, ma chi mi garantiva che fosse vero? Percy, comunque, sembrò apprezzare visto che le sue labbra lasciarono le mie per scendere lungo la mascella, il collo e poi la clavicola, arrivando a posare un singolo bacio appena prima di incontrare l'orlo della coppa del reggiseno che copriva la mia pelle.

Inserii la mano tra i suoi capelli morbidi mentre lui sfiorava il mio sterno con la punta del naso; poi mi sollevò leggermente la schiena, per sganciare il gancetto del reggiseno e io scacciai immediatamente l'immagine dell'altro che faceva il medesimo gesto, ma nel modo completamente opposto a quello del mio ragazzo. Fu proprio questo a darmi sicurezza, molto più di quanto le altre azioni non avessero fatto fino a quel momento, più di quanto le frasi che continuavo a ripetermi in testa potessero aiutarmi.

Perciò non provai alcun disagio quando lui mi sfilò quell'indumento, lasciandomi quasi nuda davanti ai suoi occhi. Non lo odiai nemmeno per essersi dimenticato di chiudere le imposte quando i raggi della luna gli permisero di osservarmi tutta, di percorrere centimetro dopo centimetro la mia pelle, perché mi persi nel suo sguardo e non capii più nulla.

Fu come se avesse premuto un bottone, azionando il meccanismo per cui tutto intorno a me sparì, lasciando solamente i nostri due corpi intrecciati, a contatto. All'improvviso c'era solo lui, Percy, unico e solo centro di rotazione dei miei pensieri. Scomparve anche quel senso di inadeguatezza che ancora condizionava in parte i miei movimenti studiati: diventai istintiva.

Seguii con lo sguardo il mio ragazzo, mentre questo allungava una mano verso il comodino al fianco del letto, estraendo un quadratino scricchiolante dal suo interno, appoggiando poi il preservativo sul cuscino, qualche decina di metri distante dalla mia testa, e poi riprese a baciarmi da dove si era interrotto prima.

Le sue labbra accarezzavano le mie, giocavano, mordevano, creavano movimenti e intrecciamenti che mai avrei immaginato possibili: lo sentivo dentro, saggiavo il suo sapore che si andava ad infrangere su tutte le mie papille gustative. Mordicchiai leggermente il suo labbro inferiore, mentre lasciavo che un ultimo pensiero razionale sconvolgesse la mia mente prima di isolarmi: lì, in quel momento, c'eravamo solo noi due e basta. Nessun gatto dietro al cartone ci osservava, nessuna pozza di pioggia bagnava il terreno e l'aria non era intrisa di sapore acre fuoriuscente dalla cappa di un locale. Per quanto ci provassi, non riuscivo proprio a trovare nessun termine di paragone per legare al presente quella sera e questo significava solo una cosa: i ricordi non potevano in qualcun modo rovinare la mia rivincita contro il passato.

Ero libera di vivere.

Percy era come una doccia che lavava via la pioggia contaminata, lo sporco e lo schifo dal mio corpo, pulendomi e rinvigorendomi a tal punto che la mia anima parve occupare un spazio nuovo, mani nuove, braccia nuove, gambe nuove. Un cuore nuovo.

Continuò a baciarmi, mentre le sue mani percorrevano tutta la lunghezza del mio corpo, scorrendo sulla pelle fino al collo, dove rimasero posate in una carezza continua. Poi scesero a sfiorare le spalle e le braccia, mentre la sua bocca scendeva. Dapprima Percy si limitò a lasciare una scia infuocata nell'incavo creatosi in mezzo ai miei seni, ma poi le sue labbra dedicarono un buon margine di tempo ad esplorare la pelle delicata di quella zona. Artigliai i suoi capelli tra le dita, stringendolo a me perché non sapevo a cosa aggrapparmi: le cose che stavo provando andavano al di là della mia comprensione e l'unica cosa che desideravo era che non smettesse mai.

Probabilmente mi lasciai sfuggire qualche suono strano perché l'istante successivo lui alzò gli occhi, puntandoli nei miei, e io vi lessi una sorpresa genuina. Non ebbi neanche il tempo di ricambiare lo sguardo che mi ritrovai a ricambiare il suo bacio con foga. Appoggiai la mano sul suo petto, sentendo un ringhio sommesso scuotergli le spalle quando gli mordicchiai la mascella e il collo, mentre lui teneva la fronte premuta contro il cuscino.

E poi mi persi senza volerlo: non riuscivo più a distinguere chi stesse baciando chi, o dove le mie mani finissero e le sue cominciassero. C'erano solo i nostri corpi, vicini – molto vicini – e il suo fiato che si mischiava al mio. In qualche modo ci ritrovammo ad essere senza vestiti, nudi l'uno di fronte all'altra per la prima volta, e io sapevo solo di non aver nessun attacco di panico o paura imminente né di voler fuggire da quel letto. Anzi, se possibile, desideravo ardentemente essergli più vicina, ancora e ancora, finché i nostri tratti non si fossero confusi fra di loro in una massa informe di pelle e ossa.

L'unica cosa che posso dire con certezza è che non ho mai amato una persona quando Percy nel momento in cui ci ritrovammo uno sopra l'altra, nella stessa posizione da cui eravamo partiti, già ansimanti e sudati, ma troppo avanti per poterci fermare. Dopo aver abbandonato le mie labbra, era salito a baciare la fronte, la tempia, la guancia, il mento, il naso e poi di nuovo la mia bocca, posizionandosi tra le mie gambe.

Sapevo che il momento era arrivato e sapevo di essere pronta da tutta una vita per diventare sua.

Perciò accolsi con piacere la carezza che mi fece con la punta del naso sul mio, prima di guardarmi negli occhi e aspettare un mio cenno che non tardò ad arrivare.

Annuii solo, una volta, e poi lo sentii entrare, pianissimo. Ero già preparata psicologicamente al dolore, ma quando lui intrecciò le dita delle nostre mani sul cuscino e tornò a baciarmi, non sentii più nulla se non la sua presenza dentro di me.

Potrei dire di non aver mai goduto così tanto in vita mia, oppure che ebbi talmente tanti orgasmi da perderne il conto, ma sinceramente nemmeno quasi mi accorsi del tempo che passava: lui ed io eravamo diventati qualcosa che non si può descrivere a parole, qualcosa di unico. All'improvviso stavamo condividendo non solo un'esperienza, ma anche il cuore e la vita. Perciò, quando lui diede un'ultima spinta, lasciando uscire dalla gola un gemito, e posò la fronte sul mio petto, nemmeno mi accorsi che avesse finito e che il momento era passato.

Rimanemmo così, fronte contro fronte, respiro contro respiro, cuore contro cuore. Anima contro anima.

E, nel momento in cui Percy aprì finalmente i suoi occhi verdi per incrociare i miei, sentii di non essere più la vecchia Annabeth, ma nemmeno una nuova Annabeth.

Ero Annabeth e basta. E questo andava bene.

Non ci fu chissà quale grande rivelazione o cambiamento, semplicemente interruppi l'intreccio sulle nostre mani, che era rimasto tale per tutto il tempo, e legai le braccia intorno al suo collo stringendolo a me perché avevo bisogno di sentirlo il più vicino possibile, fino a soffocare.

Restammo in quella posizione finché i nostri respiri non si calmarono, tornando a un ritmo più normale, ma poi Percy rotolò verso destra e io, in quel singolo istante di smarrimento, sentii freddo, tanto freddo, quel genere di gelo che avevo sentito solo quella sera. Mi aspettavo che il ricordo cominciasse a invadermi la mente, e invece, a differenza del passato, ciò non accadde semplicemente perché io ero guarita e perché il mio ragazzo, una volta sdraiato al mio fianco, mi attirò di nuovo a sé.

E tutto andava bene davvero.

L'emozione che provai nell'apprendere di essere libera dal passato, libera di vivere la mia vita come volevo, fu talmente forte che involontariamente delle calde lacrime uscirono dall'angolo dei miei occhi, cadendo pian piano verso il basso, nel più completo silenzio, andando a scontrarsi sul petto di Percy. Forse per questo, lui aprì il palmo della mano sulla mia nuca, stringendomi ancora più forte al suo petto.

«Scusami...» Pensai di averlo solo immaginato quel sussurro, uno scherzo del mio subconscio, ma lui mi circondò il viso, guardandomi con un'intensità tale da essere destabilizzante. Mi pianse il cuore quando capii cosa stesse provando: nei suoi occhi c'era sofferenza.

«Scusa, scusa, scusa...» continuò. Capii che le mie lacrime l'avevano sconvolto, facendogli credere che rendendomi libera avesse commesso chissà quale reato capitale. Non riuscivo a guardarlo così, a soffrire per una cosa di cui doveva solo andare fiero.

Così scossi il capo, una volta, due e poi tre, senza osare a spostare gli occhi dai suoi. «No, Percy, no ti prego» mormorai, appoggiando le mie mani sulle sue. «Non ti devi scusare per nessun motivo al mondo, scordatelo. Tu non ti immagini neanche del dono che mi hai fatto questa notte. Sono io a doverti ringraziare, anzi, non riuscirò mai a ripagarti.»

Vidi che si tranquillizzava nell'istante in cui i miei occhi smisero di lacrimare.

«Sei il mio eroe» sussurrai, lasciando uscire quelle parole nate dal profondo del mio cuore.

Percy sbuffò, scuotendo il capo. «Sei incredibile, in tutti i sensi...» Risi, sentendomi molto più leggera. «No, sono serio. Sei incredibile, Annabeth. Non ho mai incontrato una persona come te. Sei forte, coraggiosa, fantastica...» disse, passando un pollice sulla mia guancia in una carezza continua. «... e bellissima» aggiunse in un sussurro, tirandomi a sé con un braccio a circondare la mia vita.

Il mio cuore saltò un battito, ma l'emozione che provavo mi fece agire d'istinto: sfruttando la vicinanza, mi chinai in avanti per baciarlo dolcemente, non solo per ringraziarlo, ma anche per fargli sentire l'amore che provavo nei suoi confronti.

Restammo abbracciati nella notte giovane, mentre la lancetta della sua sveglia girava quasi impercettibilmente. Pensai si fosse addormentato, sentendolo respirare con regolarità, ma poi spostò una mano sulla mia schiena per iniziare a percorrerla dal collo alle fossette dei reni.

«Piper mi ha minacciato» mormorò, lasciando andare una risatina. «Venerdì mi ha preso da parte, mentre tu sei andata in bagno in quel pub, e ha detto che mi avrebbe ucciso se non ti avessi trattato bene... Credo si riferisse anche a questo, sai?»

Seguii la sua risata, non potendo mettere in dubbio le sue parole: Piper era capace di quello e molto altro.

«Son felice che questo ti faccia ridere» disse ironico. «No, sul serio: potresti chiamarla uno di questi giorni per rassicurarla?»

«Da quando in qua hai bisogno di farti salvare la pelle da una fanciulla?» lo presi in giro.

«Da quando la mia virilità è in serio pericolo» rispose con lo stesso tono. «E dovresti esserne preoccupata anche tu!»

A quel punto non potei più trattenere una fragorosa risata genuina, la fronte appoggiata sul suo petto e la sua mano tra i miei capelli. «Ridi, ridi, intanto potrei cacciarti dal mio letto e farti dormire con Frappola giù in salotto.»

«Sì, certo, e poi a chi vai a chiedere i baci? Al gatto?» domandai, appoggiando le labbra sul suo collo. Per tutta risposta, lui mi strinse più forte a sé, lasciando andare un sospiro.

«Sei un diavolo tentatore, ecco cosa sei...» mormorò, congiungendo nuovamente le nostre bocche.

E io lo lasciai fare con immenso piacere, sapendo di essere tra le braccia del mio salvatore.


 



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(Mi scuso per il pessimo html del capitolo: ho avuto problemi con l'editor di efp e ho dovuto fare tutto a mano, un vero lavoraccio che nemmeno mi è uscito come volevo -.- Pace amen, appena si risolveranno i problemi lo aggiusterò, promesso.)
Salve. Sono tornata con.... beh, questo.
Cos'è? Beh, questo capitolo coincide con la chiusura di un grande quadro della storia, il filo portante di tutta la vicenda. Prima che possiate dire/pensare qualcosa lasciatemi dire una cosa. Ho pensato molto a questo capitolo, sia in termini di contenuto che di posizione. Dopotutto non si tratta dell'ultimo capitolo e terminare qui il filo portante della storia può sembrare affrettato; fare fare a Percy e Annabeth quello che hanno fatto sembrava affrettato, banale e scontato. Ma fin dall'inizio avevo deciso che la cosa doveva andare in questo modo, e così è stato.
E' stata una cosa troppo prematura per aver appena superato la confessione di Annabeth? Può darsi, non lo so. Io vi posso dare solo le mie motivazioni.
Sicuramente la cosa non è campata in aria per caso, per quanto possa sembrarlo in apparenza. Ho cercato di spiegarlo anche nel capitolo, attraverso i pensieri di Annabeth: lei ha bisogno di fare questa cosa, non perché fosse arrivato il momento di farli scopare (passatemi l'espressione xD), ma per il suo cammino. Dopo aver sognato per l'ennesima volta l'episodio del suo stupro, si rende conto che l'unico modo per superarlo è che Percy diventi il primo, che Percy porti via questa prima volta a Luke per sempre. Annabeth crede che, in tal modo, può trovare la pace, la forza di andare avanti e chiudere il capitolo del suo passato. Per questo motivo insiste tanto davanti al temporeggiamento di Percy; dal canto suo, quest'ultimo, come ho cercato di far capire, non vorrebbe proprio farlo perché pensa che Annabeth sia nel bel mezzo di una crisi e che gli stia chiedendo di fare una cosa affrettata dettata solo dalla foga della confessione che gli ha fatto qualche ora prima.
Ecco, questo è quanto. Spero di essermi spiegata. Per qualsiasi chiarimento/dubbio/opinione sono qui, come sempre ;)
Non vi nascondo che sia stato difficile scrivere questo capitolo: ho passato tutta la gionata di ieri in preda all'ansia, fancendomi infinite pare mentali xD In pratica scrivevo due frasi e mi bloccavo, mettendomi una mano sul cuore e borbottando "Oh Gesù, Maria e Giuseppe COSA sto facendo, qualcuno mi fermi". Fortuna che ero a casa da sola, perché quando è suonato il telefono per due volte consecutive bloccandomi proprio nel bel mezzo di un momento d'ispirazione ho urlato come una pazza, imprecando contro chiunque avesse osato interrompermi :') 
Quindi nel caso questa scena fosse TROPPO oltre il rating arancione avvertitemi che provvederò a modificare ;)
E nulla... vi ringrazio di essere arrivati fin qui, come sempre. Mai come prima d'ora sento di essere vicina alla fine di questa avventura... Mancano solo 2 capitoli più l'epilogo. Ma le lacrime le trattengo per la fine e intanto mi limito solo a salutarvi con un caloroso abbraccio, dandovi appuntamento al prossimo capitolo.
 
Un bacione, Annie
 

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Capitolo 26
*** Capitolo 25 ***


Disclaimer: Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di Rick Riordan; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.

 


Capitolo 25

 

Rio de Janeiro, il giorno dopo

 


«Ho fame.»
Spostai la mano verso l'interno, mettendo una certa forza nel movimento del polso. Essendo lisci e molto scuri non sembrava, ma i capelli di Nico erano nemici giurati di qualsiasi spazzola e quella mattina avevano deciso di dichiarare guerra al mio pettine blu. Così, non solo il mio polso cominciava a dolere, ma Nico non smetteva un attimo di agitarsi sullo sgabello e a lamentarsi di stargli strappando tutti i capelli dalla nuca.
«Appena finisco scendiamo a fare colazione, promesso» dissi, cercando di districare una ciocca particolarmente ostinata e, allo stesso tempo, di non tirare troppo per evitare di fargli ancora del male.
Probabilmente Nico non gradì la combinazione delle mie parole con il movimento della spazzola perché sporse il labbro inferiore e incrociò le braccia al petto. «Ma è un oooora che mi stai pettinando, Annabeth!» protestò, incrociando il mio sguardo allo specchio.
Non era colpa mia se odiava passarsi il pettine al mattino, ma dal momento che lo avevo aiutato a prepararsi per la giornata, non potevo permettere che non si sistemasse un minimo anche i capelli.
Sospirai, alzando gli occhi al cielo: quel bambino era una trottola anche di mattina presto. Il sole e i suoi raggi avevano già fatto la loro timida comparsa all'orizzonte scuro – si preannunciava un bel temporale – ma Nico sembrava aver appena bevuto una tazza di caffè.
«Okay, ho finito» dissi, appoggiando il pettine sulla base del lavandino del bagno. «Forza, campione. È ora di colazione!»
Mentre Nico alzava i pugni al cielo liberando un urlo di esultazione, feci passare le mani sotto le braccia di Bianca e la presi in braccio, sollevandola dal pavimento. La piccola era rimasta tutto il tempo seduta a terra a guardare il fratello lamentarsi, ridendo sporadicamente delle sue facce di sofferenza che lei, evidentemente, trovava buffe. Dovevo solo ringraziare il cielo che Bianca fosse una bambina molto brava, altrimenti, se si fosse messa a strillare mentre cercavo di sistemarla un po' dopo la notte, avrei fatto molta più fatica.
«Nico, non correre sulle scale altrimenti rischi di cadere!» urlai rivolta al corridoio dove lui era già scomparso, probabilmente diretto al piano inferiore. Ovviamente era una raccomandazione inutile: sentii distintamente i suoi passi leggeri sugli scalini uno di seguito all'altro e il successivo tonfo sordo di chi atterra pesantemente sul pavimento di legno dopo un salto.
Tutta quell'energia, in effetti, era un bel po' fuori dall'ordinario per Nico. Non l'avevo mai visto così impaziente per qualcosa e, sebbene non l'avesse ancora nominata, ero sicura che la ragione fosse la prospettiva di andare da Katia in ospedale dopo la scuola.
Con Bianca appoggiata sul fianco, scesi le scale e girai a destra, entrando in cucina e venendo subita travolta da un profumo paradisiaco: era come entrare nella cuore pulsante di un ristorante di lusso, il cui chef – pluristellato – aveva appena finito di preparare una quantità tale di piatti che anche un esercito ne sarebbe uscito più che sazio. Sentii distintamente l'odore del bacon, quello del pane tostato e un dolciastro profumo di arancia.
Che diavolo stava succedendo in quella cucina?
I patti erano stati chiari: mentre io svegliavo e preparavo i bambini, Percy doveva occuparsi della colazione.
Logicamente entrambi i compiti si addicevano più a una figura femminile per ovvi motivi e quindi, tra le due, ero stata quasi tentata di lasciare il primo a Percy – dopotutto, la prospettiva di una cucina in fiamme non era molto invitante –, ma lui mi aveva subito bloccata dicendo che avrebbe pensato lui alla colazione. Dopo un istante di tentennamento, alla fine avevo capitolato vedendolo piuttosto determinato: l'immagine che lo vedeva coinvolto in un incendio domestico persisteva ancora nella mia testa, ma, in fin dei conti, ero giunta alla conclusione che, nella prospettiva peggiore, un paio di fette di pane bruciato non avrebbero ammazzato nessuno.
In qualche modo la mia logica aveva fatto un grosso buco nell'acqua perché Percy era in piedi dietro ai fornelli con una paletta di metallo in mano e un grembiule allacciato in vita sopra la maglietta a mezze maniche blu.
«Oh, ehi!» esclamò, accogliendo me e Bianca con quel sorriso sbilenco che tanto amavo. «Cosa prendi, Sapientona? Bacon? Uova? Succo d'arancia?»
Inevitabilmente rimasi a bocca aperta.
Fissai con gli occhi sbarrati la famigliare figura di Percy che, però, non era Percy. La faccia era la stessa, le spalle pure, e così anche gli occhi brillanti. Tutto era a posto, così come lo avevo lasciato poco prima. Ma quello non poteva essere lui.
Dove cavolo era finito Percy Jackson? Nell'ultima ora erano per caso sbarcati gli alieni senza che me ne fossi accorta, rapendo la versione originale del mio ragazzo e lasciando al suo posto un fantoccio parlante, sorridente, e che – orrore degli orrori – sapeva cucinare?
Per qualche motivo ero più favorevole ad accettare quell'assurda ipotesi pur di credere che Percy si fosse messo ai fornelli, preparando quella che – a naso – sembrava una colazione migliore anche a quelle paradisiache di Chintia.
«Tu» dissi, indicandolo con l'indice della mano libera.
Entrai in cucina, avvicinandomi alla figura del mio ragazzo che mi guardava con il capo leggermente piegato e un'espressione divertita in volto, un sopracciglio alzato e l'angolo della bocca arricciato.
«Io?» domandò innocentemente, mentre mi fermavo a mezzo metro da lui.
Lo guardai in faccia, accigliata. «Sì. Tu» articolai. «Che ne hai fatto del mio ragazzo?»
La sua risposta fu immediata: nemmeno si sforzò di trattenere la fragorosa risata che lo scosse. Continuò solo a ridere sguaiatamente, incurante che le altre tre persone presenti nella stanza – io, Nico e persino Bianca – lo stessero fissando straniti, un'espressione confusa e il dubbio di una presunta instabilità mentale che cresceva – questo per quanto riguardava me.
«Guarda che sono seria» borbottai, mentre andavo a posare Bianca nel seggiolone che Chintia aveva scovato dallo scantinato la prima volta che Katia e i figli erano venuti a cena da noi. Mi accertai che le sicure fossero allacciate, prima che due braccia mi circondassero la vita, attirandomi indietro.
Sentii il corpo di Percy aderire al mio, mentre il suo fiato caldo mi solleticava il collo.
«Suvvia, Sapientona. Sono un uomo dalle mille sorprese» mormorò al mio orecchio, facendomi rabbrividire visibilmente. Dovette accorgersene perché la sua presa si fece più salda e io mi trovai a inclinare la testa nella sua direzione. «Mi dovrei sentire offeso che tu non te ne sia accorta prima, sai? Per tua fortuna, oggi mi sento piuttosto generoso quindi potrei anche prendere in considerazione l'idea di perdonarti questa tua ignobile svista» aggiunse, dandomi un pizzicotto sul fianco.
D'istinto mi piegai, ma non potei trattenere una risata e un tentativo di fuga, divincolandomi nelle sue braccia che, per ripicca, mi strinsero ancora più forte.
«Ma quale onore e onore! Sentiamo, per quale motivo oggi si sente così magnanimo, signore?» domandai, stando al gioco.
Sentivo il cuore battermi nel petto e quella sensazione di leggerezza – felicità, forse? – irradiarsi nel mio petto. Mi girai nelle braccia di Percy con un sopracciglio alzato e uno sguardo eloquente dipinto in volto.
«Non vedo perché non dovrei sorridere alla vita in un giorno così radioso! Vede, signorina, la notte appena trascorsa è stata alquanto piacevole e anche il risveglio si è rivelato sorprendente. Sa come vanno le cose... Un letto... Un uomo... Una bella donna... Credo lei possa trarre le dovute conclusioni in autonomia» disse, facendo l'occhiolino.
Scossi il capo, alzando gli occhi al cielo. Quel ragazzo non si smentiva mai.
Eppure, tutto ciò che aveva detto era realisticamente vero: un letto, un uomo, una – sull'aggettivo di mezzo avevo qualche dubbio – donna... In fin dei conti si era solo trattato di quello: sesso. Ma tra del semplice sesso e ciò che avevamo condiviso quella notte vi era un oceano di differenze, ed entrambi ne eravamo consapevoli.
Perciò risi brevemente e lo spinsi via, per andare al piano cottura, versare del latte e cacao in un bicchiere e appoggiarlo di fronte a Bianca che era prevedibilmente affamata. Dall'altro capo del tavolo, Nico era concentrato sul far sparire anche la più microscopica briciola presente sul suo piatto, la bocca cosparsa da dei residui di polpa d'arancia e le guance gonfie di cibo.
Percy si sedette accanto a Nico, appoggiando davanti a sé e nel posto di fronte due piatti bianchi, ricchi delle più golose leccornie mattutine, in linea con la tipica colazione della tradizione americana: bacon a volontà, uova strapazzate, pane tostato e un grosso bicchiere di aranciata fresca.
«Grazie» gli dissi, accomodandomi al tavolo. Impiegai un istante per incrociare il suo sguardo e rimanervi incastrata: con gli occhi stava cercando di comunicarmi tutto ciò che, in quel momento, non poteva proclamare a voce alta e così feci anch'io.
Vorrei tenerti tra le mie braccia. Baciami. Stringimi a te. Mi manchi anche se sei qui con me. Ti amo.
«Figurati» rispose Percy, allungando la mano per intrecciare le sue dita alle mie.
Bastò quel contatto e la consapevolezza che non sarebbe svanito da un momento all'altro per sorridere.
Potevo essere felice.
«Quando andiamo dalla mamma?» chiese all'improvviso Nico, prendendo alla sprovvista sia me che Percy – il quale sembrò sobbalzare sulla propria sedia.
Per essere del tutto sincera, stavo aspettando quella domanda – e molte altre – fin da quando lo avevo svegliato. Era sorprendente che si fosse trattenuto fino a quel momento: mentre gli passavo la spazzola tra i capelli, più volte lo avevo visto perdersi nei proprio pensieri, aggrottare la fronte e guardarmi di sottocchio, cercando il coraggio di domandarmi ciò che più lo tormentava.
E io, un po' in difficoltà su come affrontare l'argomento, me n'ero rimasta in silenzio, preferendo che fosse Nico a iniziare il discorso se ne avesse avuto voglia.
Lanciai un'occhiata a Percy che scosse leggermente il capo.
«Oggi pomeriggio, Nico» rispose, optando per la sincerità. Era disonesto – e completamente inutile – mentire a un bambino in una situazione del genere: si sarebbe solo fatto false speranze.
«Perché così tardi? Non possiamo andare subito, ora?»
Tentennai davanti a quegli occhi grandi, spalancati e le sopracciglia aggrottate in un'espressione contrita. Mi piangeva il cuore doverlo far attendere per ricongiungersi con la madre, ma purtroppo era lunedì e avevamo pur sempre degli impegni da rispettare.
«Nico, c'è la scuola. Io e Percy dobbiamo lavorare e tu non puoi saltare le lezioni senza un permesso scritto dalla tua mamma» dissi, allungandomi per stringere la piccola mano calda del bambino nella mia, cercando di rassicurarlo. «Ti prometto che appena suonerà la campanella, tu, Percy ed io correremo in ospedale dalla tua mamma, okay?»
Nico mi fissò negli occhi per un istante che mi parve infinito, il labbro inferiore appena sporgente. Pensavo che stesse per mettersi piangere o a fare i capricci, ma dopo un lungo istante alla fine annuì con la testa, tornando subito a mangiare, ma con meno foga di prima.
Io e Percy avevamo passato quasi un ora al telefono con Chintia e Grover appena prima di alzarci dal letto: eravamo stati svegliati dalla suoneria del mio cellulare che squillava insistente e non avevamo impiegato molto per ritornare al triste presente, malgrado fossimo ancora abbracciati sotto le lenzuola.
A Grover era stato gentilmente rubato di mano il telefono pochi istanti dopo averci salutati da una Chintia premurosa e sbrigativa. Ci aveva aggiornati in poche parole sulle condizioni stabili di Katia e poi si era dilungata a spiegarci – o meglio, dettarci – ciò che avremmo dovuto fare quel giorno.
Senza troppi giri di parole, aveva proclamato con chiarezza che non potevamo non andare a scuola, malgrado la situazione: che lo volessimo o no, era impensabile lasciare due classi intere di bambini e ragazzi scalmanati nelle mani di un burbero signor Dioniso. Perciò, in base al semplice piano che Chintia aveva ideato durante la notte, io e Percy avremmo tenuto le lezioni normalmente, mentre lei e Grover sarebbero rimasti al fianco di Katia per tutto il corso della mattinata e buona parte del pomeriggio.
Mentre ascoltavamo la voce di Chintia dall'altoparlante del mio telefono, io e Percy ci eravamo scambiati un paio di occhiate, convenendo di essere d'accordo su una cosa: la voglia di passare ore intere lontano da Katia era praticamente nulla, ma Chintia aveva ragione.
Perciò, dopo esserci accordati sulla sorte di Bianca, avevo proposto di permettere anche a Nico di saltare le lezioni per stare con la madre, ma sia Chintia che Grover avevano contravvenuto – già, quei due erano miracolosamente d'accordo su qualcosa una volta tanto – che il bambino non poteva passare un'intera giornata all'ospedale, stando a guardare la madre stesa su un letto, pallida e triste per la recente perdita del figlio. Nico aveva bisogno di distrarsi e la scuola era l'unica opzione possibile.
Anche io e Percy non avevamo impiegato molto per capire che i due avevano ragione, così ci eravamo inventati una scusa da rifilare a Nico nel caso – concreto – in cui avesse posto la domanda e, poco dopo, avevamo chiuso la conversazione per iniziare la giornata e seguire le direttive dateci da Chintia.
Grazie al cielo, Chintia non si era accorta – o aveva preferito ignorare – l'inusuale fatto che Percy avesse risposto al posto mio allo squillare del telefono: sarei morta d'imbarazzo se avesse cominciato a fare domande.
Mi destai dai miei pensieri quando Percy cominciò a raccogliere le stoviglie sporche per posarle nel lavandino, mentre Nico osservava il prato della fattoria con la faccia attaccata al vetro della porta-finestra. Bianca, invece, stava ancora bevendo il suo latte e aveva cominciato a giocare con un laccetto della bavaglia sfilacciato che aveva allacciata al collo.
Sbrigammo velocemente le ultime faccende, finendo di rendere quantomeno presentabili i bambini e, prese le ultime cose, salimmo in tutta fretta sulla macchina di Percy e partimmo diretti a scuola, fin troppo in ritardo sulla nostra abituale tabella di marcia che avevamo sviluppato nel corso degli ultimi mesi.

«Eccovi qua, finalmente! Pensavo vi foste persi a sbaciucchiarvi nella stanza di Percy» esclamò Grover allargando le braccia, un sorriso sbilenco sulla faccia e le sopracciglia alzate. «Non pensate che non me ne sia accorto, stamattina: so bene che eravate nello stesso letto, furbacchioni.» Poi scoppiò in una risata genuina, dando a Percy una pacca complice sulla spalla.
Inevitabilmente, sentii la mia faccia andare a fuoco: anche se Grover non l'avesse capito da solo, gli bastava guardarmi in viso per sapere di aver centrato il punto. Spostai lo sguardo su Bianca, che avevo in braccio, fingendomi troppo occupata a togliere un filo invisibile dalla sua tutina per potergli rispondere, mentre, con la coda dell'occhio, vedevo le guance di Percy tingersi di una leggera sfumatura rosea e accennare un sorriso di circostanza in direzione di Grover.
«Suvvia, ora non fate i timidi. Io ho sempre saputo che saresti finiti a fare coppia fissa» continuò lui, facendo un occhiolino a Percy.
Grazi al cielo, il mio ragazzo ebbe il buonsenso di non commentare. In quel modo ogni tentativo di continuare il discorso da parte del nostro amico venne troncata in fretta: nel caso contrario, avrei sul serio potuto prendere in considerazione l'idea di telefonare a Piper per lamentarmi di quanto Percy fosse stato cattivo nei miei confronti e lasciare che lei facesse il resto.
Certo, avrei mentito su tutti i fronti – perché, in definitiva, non c'era bugia più grande di quella –, ma almeno non mi sarei macchiata le mani con del metaforico sangue.
«Allora, come sta?» domandai, lasciando che implicitamente capisse a chi mi stessi riferendo.
Grover si strinse nelle spalle assumendo un'aria seria, ma accennò un debole sorriso. «Se la caverà. I dottori dicono che non dovrebbe avere problemi a riprendersi completamente, anche se le hanno consigliato di frequentare uno psicologo per un certo periodo. La perdita del bambino è stata un forte trauma per lei.»
Annuii mentre i miei presupposti venivano confermati: se il perdere un bambino valeva anche solo un decimo della situazione che avevo passato io a mio tempo, potevo capire come Katia si sentisse.
Venimmo interrotti da un suono metallico proveniente dall'edificio alla nostra sinistra, segno che le lezioni stavano per cominciare.
Presi Bianca per le ascelle e l'allungai a Grover, il quale la prese con cautela e se l'appoggiò sul fianco, facendole le smorfiette per farla ridere.
«Okay, ora dobbiamo proprio andare» disse Percy, appoggiando una mano alla base della mia schiena e tenendo con l'altra Nico che guardava Grover con un'espressione triste. Sapevo esattamente cosa stava pensando: quando aveva saputo che sua sorella sarebbe andata in ospedale fin da subito, aveva cominciato a lamentarsi che non fosse giusto e avevo passato tutto il tragitto dalla fattoria fino alla scuola a cercare di tranquillizzarlo.
«Ci vediamo dopo» dissi, salutando Grover già diretto verso il suo furgoncino.
Rivolsi un sorriso rassicurante a Nico, poi diedi un rapido bacio a Percy sulla soglia del cancello e andai dritta nella mia classe per iniziare quella lunga giornata, sperando che passasse in fretta.

Prevedibilmente non fu così: le ore si susseguivano una di seguito all'altra, ma il passaggio era così lento che sembrava stesse durando un'eternità di più rispetto all'effettiva realtà. Passai la mattinata cercando di svolgere una normale lezione, ma concentrarsi risultò più difficile che mai. I miei alunni, fortunatamente non si accorsero di nulla, ma Nico passò tutta la mattina con lo sguardo perso fuori dalla finestra, il broncio sul viso e completamente disinteressato rispetto alla lezione.
Non potevo certo biasimarlo: lo avevo già costretto a venire a scuola e stare lontano dalla madre. Era impensabile pretendere che seguisse anche le mie spiegazioni mostrando interesse.
Quando alla fine arrivò l'ora di pranzo, mi trovai a ringraziare tutti gli Dei del cielo per quell'ora di pausa. Non sarei riuscita a mantenere il mio ruolo professionale ancora a lungo senza scoppiare.
Katia non era solo una donna che avevo preso a cuore, ma anche un'amica. Tenevo a lei tanto da farmi prendere dall'ansia al pensiero di ciò che stava affrontando, proprio perché in qualche modo riuscivo a capirla.
E poi... Poi, c'era l'altro motivo.
Quello che inevitabilmente tornò a galla nel momento in cui i miei occhi si posarono su Percy quando lo vidi seduto al nostro solito tavolo, con il vassoio davanti a sé e il capo chino.
Non potei evitare che i ricordi della notte appena trascorsa mi invadessero la mente nel vedere i suo capelli corvini spettinati, la linea della mascella spezzare quella armonica delle labbra. Le sue braccia che nemmeno dodici ore prima mi stringevano a sé, le dita che avevano toccato ogni centimetro della mia pelle, avanti indietro, ancora e ancora finché non ero riuscita più a capire se mi stesse accarezzando il fianco o la gamba. E poi i suoi occhi, quegli occhi che mi avevano vista. Che mi avevano coccolata, venerata, amata.
Non c'era niente di più sbagliato che lasciare libera la mente di ripensare al nostro atto d'amore per molto motivi, uno dei quali la presenza di decine di bambini nella mensa. Ma non potei evitare di sorridere come un'idiota per un momento.
Mentre mi avvicinavo al bancone per prendere il mio vassoio e servirmi il pranzo, cercai di darmi un contegno, riuscendo per lo meno a non dare l'impressione di essere una pazza con problemi di paralisi facciale quando mi sedetti di fronte a Percy. Lui alzò lo sguardo, e ricambiò il mio sorriso e fu come se il mondo si rischiarisse molto più di quanto il sole non stesse facendo con i suoi raggi.
La mano che avevo appoggiato sul tavolo, accanto al mio vassoio, venne stretta dalla sua: con le dita andò a farsi largo tra le mie in modo da poterle intrecciare. Sentivo il calore del suo palmo, la morbidezza della sua pelle a contatto con la mia e inevitabilmente mi persi nel mondo di Percy Jackson salvo poi sussultare quando Nico prese posto accanto a me, abbassando il capo sul suo piatto e cominciando a giocherellare con la forchetta.
Ritrassi con uno scatto la mano, appoggiandomela in grembo per poi stringerla in un pugno: a scuola ci era severamente vietato alludere a dei contatti intimi – e non – sopratutto dopo esserci messi insieme. Eravamo così presi da noi stessi da non esserci accorti di essere andati oltre il semplice sorriso complice che ci scambiavamo ogni giorno.
Diedi un colpo di tosse e sfuggii allo sguardo di Percy, leggermente in imbarazzo, per concentrarmi su Nico.
«Tutto bene?» gli domandai, accarezzandogli la testa con un gesto lento. Volevo solo che lui stesse bene: gli ero troppo affezionata per far finta di nulla nel vederlo giù di morale.
Nico annuì con la testa e io percepii una leggera pressione sul palmo della mano quando lui si piegò impercettibilmente indietro, permettendomi d'infondergli un po' di conforto. Per lo meno non rifiutava l'aiuto che cercavo di dargli.
Perciò, con il cuore un po' meno pesante, iniziai a mangiare.
Sentivo come se, da quel momento in avanti, la giornata fosse migliorata in qualche modo, anche se la tragedia del giorno prima rimaneva a infestare i nostri animi come un fantasma, alleviata solo dalla rassicurazione di non essere più la persona della settimana precedente, degli ultimi due anni trascorsi.

Riuscimmo davvero a raggiungere la fine di quella lunga giornata lavorativa, dopo la quale saltammo in macchina e andammo da Katia in ospedale velocemente, traffico permettendo. La trovammo seduta sul suo letto, due cuscini bianchi dietro la schiena e la piccola Bianca sdraiata accanto a lei, un pollice in bocca e l'espressione beata di chi si trova nel mondo dei sogni.
Chintia e Grover, una volta rassicurati che tutto fosse apposto, tornarono alla fattoria per dormire un po' e compiere le loro faccende: erano stati al fianco di Katia per tutta la notte e anche il giorno e questo era un evidente gesto di quanto anche loro si fossero affezionati a quella famiglia.
Non nascondo che fu strano vedere il volto pallido e incavato di Katia mentre cercava di articolare le labbra in un debole sorriso di circostanza. Nella stanza aleggiava uno strano senso d'inquietudine, come se tutti stessimo aspettando che qualcuno sottolineasse l'evidenza, che desse esponesse quanto la situazione fosse tragica.
Che dicesse la verità.
Ma era chiaro come il sole che Katia non aveva bisogno di sentirsi ripetere l'esperienza del giorno prima visto che, probabilmente, i dottori avevano già provveduto abbastanza a sottolineare l'evidenza.
Perciò, quando Nico si buttò tra le braccia della madre, mostrando un'incredibile delicatezza nello stringerla a sé, e Katia immerse la fronte nell'incavo tra la spella e la testa del figlio trattenendo il respiro, non riuscii a impedire che la lacrima sfuggisse al mio controllo dall'occhio destro.
Provvedii subito ad asciugarne il percorso incriminato, ma Percy se ne accorse perché il suo sguardo attento catturò il mio: con naturalezza il suo braccio salì a circondarmi le spalle e io mi strinsi a lui.
Katia non stava bene, me ne accorsi subito quando cominciammo a parlare del più e del meno. Si sforzava di mostrarsi normale, ma è difficile mantenere una maschera imperturbabile quando il peso del mondo passa dalle spalle di Atlante alle tue senza che tu possa opporre resistenza. Stringeva a sé i due figli a intervalli uguali: da una parte c'era Bianca che dormiva, dall'altra Nico che aveva trascorso un ora a raccontarle la notte e la mattinata precedente, soffermandosi sui dettagli più curiosi e buffi – come la morbidezza del mio cuscino e il profumo di bacon che aleggiava in tutta la casa quando si era svegliato.
Tutto sommato fu un bel pomeriggio. Tra chiacchiere leggere e silenzi ovattati, alla fine Katia si addormentò e io e Percy ci ritrovammo seduti su due sedie gemelle, io con la testa appoggiata sulla sua spalla e lui che mi stringeva a sé. Parlammo un po' di argomenti futili come se avessimo voluto ignorare la realtà della situazione: ero sicura che, con il passare del tempo, questa si sarebbe fatta più facile da affrontare.
Certo, le cose non sarebbero cambiate in meglio per miracolo: Katia aveva perso il bambino, non c'era rimedio a tutto ciò. Ma, se con me la terapia non aveva funzionato finché non l'avevo provata sulla mia pelle intraprendendo quel viaggio che mi aveva portata lontano da casa ma, allo stesso tempo, vicina, ciò non precludeva che con lei le cose non sarebbero potute andare diversamente.
Inoltre, ci saremmo sempre stati noi a riempire i buchi lasciati vuoti nella vita di Katia, almeno fino a Dicembre.
A quel punto, però, la situazione si traduce in un altro problema: che sarebbe successo dopo il nostro ritorno a New York?
La domanda rimbombò nella mia testa a lungo quel pomeriggio, ripresentandosi a intervalli regolari malgrado il mio impegno a scacciarla lontano. Ero appena riuscita ad alleggerire la mia vita del più grande peso che mi avesse mai afflitto. Possibile che fossi destinata a non essere mai del tutto tranquilla, malgrado ora, in compagnia di Percy, fossi decisamente più felice?
«Ehi, tutto okay?»
Alzai lo sguardo e reclinai il capo poco dopo per evitare di andare a scontrare la fronte con il naso di Percy, data la vicinanza. La sua era una domanda casuale, un gesto divenuto abituale negli ultimi tempi.
Non era tutto “okay”, ma, nel vedere quella scintilla viva nei suoi occhi, non riuscii a dare voce alla questione che mi assillava perché volevo che continuasse a guardarmi in quel modo ancora e ancora. Non avevo voglia di cancellare il senso di pienezza e completezza che, dal nostro risveglio quella mattina, ci aveva avvolto. A quel punto, inevitabilmente, divenni fin troppo consapevole della sua mano sulla mia vita, dell'altra sulla mia guancia e della sua fronte che sfiorava la mia.
Lo sentivo.
«Tutto okay» mormorai, sfiorando per un istante le sue labbra con le mie.
Avevo una voglia pazza di dargli un altro genere di bacio, decisamente meno casto, come mai in vita mia, ma preferivo aspettare di essere in un ambiente più intimo e meno denso di tristezza e tragedia.
Presi dunque la decisione di tenere i miei tormenti per me, almeno finché la situazione non si fosse assestata un po', e di vivere alla giornata facendo il possibile per alleviare il peso sulle spalle di Katia e, nel mentre, di godermi al meglio quell'incredibile esperienza educativa.

I giorni passarono, uno di seguito all'altro, finché non si trasformarono in settimane, e le settimane in mesi. Sull'iniziare di Ottobre la situazione ebbe una sorprendente svolta positiva, malgrado Katia fosse diventata una persona molto diversa da quella che avevo conosciuto prima di Agosto.
Dopo essere stata dimessa in fretta dall'ospedale, Chintia aveva insistito affinché Katia e i figli venissero a vivere con noi, nelle due camere vuote al piano terra. Come sosteneva la donna, lo spazio nella fattoria non mancava affatto. Dopo continue suppliche, alla fine Katia si era lasciata convincere, sopratutto perché era difficile dire di no a Nico – il quale si era rivelato essere un ottimo alleato per Chintia. In quel modo, noi tutti avevamo avuto l'occasione di tenere d'occhio Katia nel suo cammino di recupero: seguendo il consiglio del dottore che l'avva seguita in ospedale, eravamo riusciti a organizzare degli incontri con uno psicoloco tramite l'associazione per cui io e Percy lavoravamo.
Le prime settimane erano state difficili. La donna si ostinava a non voler uscire dalla sua stanza, se non per mangiare. Si era inevitabilmente lasciata andare.
Grazie al cielo però, Nico e Bianca non se n'erano accorti – forse anche perché trascorrevano la maggior parte del tempo a giocare con Frappola in giardino o ad aiutare Grover e Percy con il furgoncino. Quei tre avevano sviluppato una complicità particolare e io non potevo che esserne più felice.
A metà Settembre la situazione non era cambiata di molto, malgrado le visite dello psicologo si fossero fatte meno frequenti. E poi, un sabato mattina, la sua sempre più esile figura aveva fatto capolino sull'uscio della cucina mentre noi facevamo colazione, delle ciabatte chiare ai piedi e i capelli legati in una coda.
Da quel momento in poi la situazione era nettamente migliorata e Katia si era fatta sempre più partecipante alla vita della casa. Aveva acquistato forze a sufficienza per potersi alzare ogni mattina e poter abbracciare i suoi figli senza scoppiare a piangere ogni volta.
E, per ora, tutto ciò poteva bastare.
Io, nel mentre, mi ero applicata per risolvere la questione che mi assillava da quel pomeriggio in ospedale e quel giorno, finalmente, avevo trovato ciò che cercavo. Ero tornata alla fattoria qualche minuto prima di cena con la macchina di Percy – presa gentilmente in prestito, malgrado mi fossi dovuta sorbire venti minuti di raccomandazione su cosa fare e non fare con la sua amata auto a noleggio – e, con un largo sorriso spontaneo, avevo annunciato a tutti che ero riuscita a trovare un lavoro a Katia in un ristorante di lusso in centro città e che lei era convocata per una prova il giorno dopo.
Come avevo sperato ardentemente, la notizia era stata accolta con esultanza da tutti, Katia compresa che, con un largo sorriso, mi aveva chiesto incredula se stessi dicendo sul serio: nelle ultime settimane mi ero accorta di quanto fosse brava nell'aiutare Chintia con i pranzi e le cene.
Ero sicura che avrebbe superato la prova senza troppi problemi e, a quel punto, anche l'impiccio degli orari non sarebbe stato un grosso problema: Nico e Bianca erano diventati parte della famiglia. Qualcuno che se ne occupasse ci sarebbe sempre stato.
Con quel gesto speravo solo di poter ridare un po' di speranza a una donna infranta, come lo ero stata io a mio tempo.
Fu come se un altro grosso capitolo della mia vita stesse volgendo al termine: i tasselli del complicato puzzle che era stato il mio passato avevano trovato gli incastri perfetti con l'esperienza vissuta negli ultimi mesi.
C'era ancora una cosa che disturbava il mio animo, anche se non direttamente: capitava che a volte, mentre ero al telefono con mio padre, Percy si estraniasse dal mondo, puntando lo sguardo fuori dalla finestra come se si domandasse cosa il suo, di padre, stesse facendo in quel momento.
Più volte avevo cercato di affrontare l'argomento, ma lui trovava sempre un modo per cambiare discorso, oppure diceva chiaramente che non aveva voglia di parlarne, interrompendomi con un bacio – a cui, ovviamente, non potevo dire mai di no – e una carezza.
E poi, un giorno, sul finire di Ottobre, io e Percy scendemmo a fare colazione come tutte le mattine, dopo aver passato la notte abbracciati nel mio letto, e Chintia allungò una mano per porgergli una busta all'apparenza completamente bianca, chiusa da un sigillo di cera.
Percy, seduto di fronte a me come sempre, abbassò lo sguardo mentre girava e rigirava il verso della busta, la fronte aggrottata e le labbra leggermente dischiuse. Chissà perché, ero certa che entrambi fossimo consapevoli di cosa, quel pezzo di carta, significasse, malgrado il suo contenuto o il mittente non fosse dichiarato esplicitamente con dell'inchiostro.
D'istinto, allungai la mano per posarla sull'avambraccio scoperto di Percy, stringendolo in segno di vicinanza. Io ero lì per lui e ciò era l'unica cosa importante, in quel momento.
Percy, di rimando, alzò gli occhi nei miei e deglutì. Eravamo lui ed io, isolati dal mondo per un istante: qualsiasi cosa fosse accaduta, qualsiasi decisione Percy avrebbe preso, qualsiasi incontro avremmo fatto, noi due saremmo stati lì, l'uno per l'altra.
Perciò, quando alla fine del nostro momento Percy annuì impercettibilmente, mi scoprii felice di poter essere in due compagnia anche nell'affrontare quella questione che coinvolgeva la sua vita e, di conseguenza, anche la mia.

In realtà, trascorsero varie settimane prima che Percy decidesse di prendere in mano il telefono e comporre il numero inserito nella lettera. Non ebbi mai il piacere di leggere per intero quel foglio perché preferii aspettare che fosse Percy a parlarmene, quando fosse stato pronto.
Probabilmente, però, senza una mia esortazione – diciamo che avevo messo un promemoria con il numero anche sotto il cuscino, proprio come mio padre aveva fatto nei miei confronti con la brochure del progetto – Percy avrebbe aspettato molto più tempo.
Alla fine, un sabato pomeriggio d'inizio Novembre, mi trovai nella veranda di una maestosa villa, costruita sulla spiaggia di Rio. All'orizzonte vedevo solo una distesa limpida di mare blu, tinteggiato di svariate sfumature infuocate. Il tramonto faceva da sfondo a due figure alte, volte di spalle, fianco a fianco.
Da quella distanza riuscivo a vedere chiaramente i capelli neri di Percy – che, a ben pensare, necessitavano di un taglio – svolazzare a causa del vento e le sue spalle alzarsi e abbassarsi.
«Vedrai, andrà tutto bene.»
Voltai la testa alla mia sinistra, non riuscendo a trattenere un sorriso leggero davanti a quello confortante di Anfitrite. Come sempre, quella donna era uno spettacolo per gli occhi: i capelli erano ordinatamente raccolti in una crocchia sopra la testa e sulle spalle portava un maglione di seta rosa, perfettamente intonato alle scarpe. Ero felice che si fosse posta come intermediaria tra padre e figlio, cercando di farli parlare almeno una volta.
Non ero così ingenua da pensare che le cose tra Percy e Poseidone si sistemassero in un'ora, ma da un piccolo passo ne potevano nascere molti altri. E poi, chissà, magari un giorno saremmo potuti tornare su quella spiaggia per un pranzo di famiglia.
Annuii, tornando a guardare il mare.
«Lo so.»
Un po' di tempo dopo, quando Percy salì in solitario gli scalini della veranda e si avvicinò, chinandosi per lasciarmi un leggero bacio sulla fronte, lo guardai e vidi nei suoi occhi la serenità più assoluta.
«Va tutto bene?»
«Ora sì.»
E quella era senza dubbio la verità.


 


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Dunque. Eccoci qua riuniti nuovamente.
Okay, come saluto introduttivo fa abbastanza schifo.
Facciamo finta che non abbia mai scritto nulla e ripartiamo da capo: CIAO! A parlare è sempre la rompiballe che, ogni tanto, un mese si e i seguenti due no, ricompare con un puff! polveroso per postare dei capitoli che fanno schifo.
Pace.
Ormai sapete anche voi come la penso sul ritardo cronico e, sopratutto, sui motivi per cui sembro scomparire dalla faccia di Internet per un po'. La scuola fa la sua grande parte, ovvio, ma anche i periodi di scrittura vanno e vengono a loro discrezione. Conseguenza: riesco a scrivere qualcosa di decente solo quando la vena creativa si risveglia dal suo sonno eterno. Pace all'anima sua.
Per tornare a ciò che ci interessa: questo è il capitolo 25.
E, guardacaso, corrisponde anche al PENULTIMO capitolo :)))))))))))) *momento di risate allegre per mascherare la depressione che scaturisce da tale affermazione*
Già, avete capito bene: pernultimo capitolo. Il che vuol dire che il prissimo sarà l'ultimo e poi... *sigh*... non voglio nemmeno pensarci. Anche perché, in effettiva, il prossimo sarà più una sorta di epilogo e non un capitolo vero e proprio, ecco.
Lo so, lo so, la scorsa volta avevo detto che ne mancavano tre di capitoli, ma quando mi sono trovata davanti alla trama da me scritta e a tutto il resto mi sono accorta di non avere elementi sufficienti a scrivere un capitolo in più che risulterebbe soltanto noioso, tedioso, inutile, piatto e _________ (aggiungete nello spazio qualsiasi altro sinonimo vi viene in mente). Già questo non mi convince molto, ma è quello che è la conclusione che ho pianificato da quando ho iniziato a scrivere questa storia, quindi mi sembrava giusto rispettare i canoni predisposti.
Spero, malgrado ciò, che possa piacervi, come sempre.
Eeeee... null'altro, in realtà. Credo di aver detto tutto.
Come sempre, non aspettatevi l'epilogo domani o il giorno dopo perché chiaramente non arriverà in tempo. Anzi, mettetevi già da ora il cuore in pace: probabilmente pubblicherò in Giugno, dopo aver (spero) superato l'inferno di Maggio. Che Zeus me la mandi buona.
Vi voglio tantisssssssssimo bene, pulcini miei <3


Annie

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Capitolo 27
*** Capitolo 26 - Epilogo ***


Disclaimer: Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di Rick Riordan; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.

 


Capitolo 26 – EPILOGO

 

New York, Dicembre

 


Passai le dita sul finestrino e tolsi il sottile strato di condensa che vi si era creato sopra. Ai miei occhi comparve lo spettacolo più bello che potessi sperare di vedere dopo sei mesi.
New York era coperta di bianco come se qualcuno l'avesse avvolta in una calda coperta color latte per assicurarsi che non prendesse freddo, alla pari di un bambino. I candidi fiocchi di neve cadevano a una lentezza estenuante, ma pur sempre rilassante, andando ad aggiungersi allo strato biancastro che già occupava le strade e tutti gli edifici della città.
Non si trattava proprio di una bufera, grazie a Dio, perché altrimenti avremmo dovuto rimandare il rientro a dopo le feste natalizie. Bensì, era proprio quello che ci si aspettava dal clima di quei giorni: un miracolo di Natale.
Non avevo mai viso la città così bella. Sentii lo stomaco stringersi in una morsa e tutto il mio corpo fu pervaso da una piacevole sensazione di familiarità.
Ero a casa. Eravamo a casa.
Con il sorriso sulle labbra spostai lo sguardo alla mia destra e la vista cambiò completamente. Altro che neve candida! Percy stava sbavando beatamente con la testa appoggiata sulla mia spalla e il rivolo di bava che minacciava seriamente il mio maglione intatto – fino a quel momento, per lo meno.
Scossi il capo e alzai lo sguardo al cielo.
«Dopotutto qualcosa è rimasto uguale» mormorai mentre scuotevo delicatamente la sua spalla nel vano tentativo di svegliarlo. Percy dormiva da ben quattro ore, più o meno da quando avevamo sorvolato l'inizio del Messico e mai una volta aveva dato segni di essere vicino alla fine di quello stato catatonico.
Beato lui che riusciva dormire! Con tutta l'adrenalina che avevo in corpo mi era difficile anche solo immaginare di poter chiudere occhio.
«Ehi, bella addormentata nel bosco, il gallo sta cantando già da ore» ironizzai facendogli uno buffo sulla guancia. Quella non sporca di bava, s'intende. «Siamo quasi arrivati, tra poco inizieremo l'atterraggio» aggiunsi, aggiornandolo sulle parole dette poco prima dal pilota.
«Uhm, bene, non vedo l'ora di farmi una dormita come si deve nel mio letto.»
Alzai entrambe le sopracciglia, incredula. «Stai scherzando? Ti sei appena svegliato, Testa d'Alghe!»
Lui si strinse nelle spalle e mi guardò di sottecchi, sorridendo furbo. Si sporse in avanti, palesemente intenzionato a baciarmi, ma prima che potesse essere troppo vicino per non essere bloccato gli misi il palmo della mano sulla bocca. Aggrottò le sopracciglia e cambiò espressione del viso, spalancando gli occhi nell'evidente tentativo di addolcirmi con lo sguardo da cucciolo, ma, sfortunatamente per lui, non funzionò. Ci avevo fatto gli anticorpi, ormai.
«Scordatelo. Sei ricoperto di bava. Prima ti pulisci e poi ci posso ripensare» lo redarguii, anche se, in realtà, non avevo alcun problema a baciarlo così, tutto bavoso. Ero così abituata a lui appena sveglio, ormai, che la cosa non mi toccava minimamente. Ma era divertente vederlo mettere il broncio e tenerlo al guinzaglio per un po' non avrebbe fatto troppo male alla sua autostima, che era andata innalzandosi da quando ci eravamo messi insieme, mesi prima.
«Guastafeste. Non posso nemmeno dare un innocente bacetto alla mia ragazza che questa mi blocca. Dovrei seriamente prendere in considerazione l'eventualità di cercarmene un'altra, di fidanzata. Una che accoglie i miei baci divini e la mia bava come oro, che ne pensi?» domandò, alzando un angolo della bocca nella sua solita espressione strafottente.
Che dicevo sulla sua autostima?
«Penso che se quest'eventualità dovesse lontanamente accadere sarà meglio per te se cambi Paese. Se non addirittura Stato. Parlando per ipotesi, s'intente.» Sorrisi angelica e ripetei il buffetto sulla sua guancia mentre l'aereo cominciava ad abbassarsi di quota.
Strinsi la mano di Percy che, tutt'a un tratto, si era fatto silenzioso e pensai che nulla e tutto era cambiato in sei mesi. Eravamo seduti fianco a fianco su un aereo che stava percorrendo la medesima rotta di sei mesi prima, solo al contrario. Percy aveva ancora paura di volare e continuava a sbavare mentre dormiva. Io avevo ancora la stessa capigliatura e la convinzione che gli uomini fossero dei maiali non era cambiata, malgrado non potessi dire la stessa cosa di Percy e di molti altri che avevo incontrato negli ultimi mesi. Ma ora sapevo che al mondo, quegli stessi maiali erano davvero davvero pochi e le cose brutte capitavano. Sempre. Bisognava solo imparare a sopravvivere. Proprio come avevo fatto io.
«Ricordami di spedire una cartolina domani. Ho promesso a Nico che gli avrei mandato una foto di New York così che potesse vederla prima ancora di arrivare» dissi un po' per distrarre Percy, un po' per essere sicura di non dimenticarmene.
«Ma domani è la vigilia! I postini di certo non fanno gli straordinari per te.»
Alzai gli occhi al cielo. Di nuovo.
«Grazie tante. Hai capito cosa volevo dire, dai. Ricordamelo e basta.»
Percy alzò le mani davanti a sé mentre l'aereo toccava bruscamente terra con un sobbalzo che ci sbalzò tutti sui sedili. Un pilota davvero provetto quello alla guida...
Il fatto che Nico mi avesse fatto quella richiesta prima di partire non era così stramba. Io e Percy avevamo promesso a Nico che in estate sarebbe potuto venire a trovarci a New York se tutto sarebbe andato secondo i piani. Quel bambino mi mancava già. In realtà tutti mi mancavano: Chintia, Grover, Katia, Bianca... A Rio avevo lasciato una parte del mio cuore, e sarei sempre stata pronta a prendere un aereo per andare a riprendermela. Ed ero sicura che per Percy valesse la stessa cosa.
Ora però ero in fibrillazione: dietro i cancelli degli arrivi c'era mio padre. Mancava poco perché potessi tornare ad abbracciarlo. Mi era mancato talmente tanto che il cuore quasi mi faceva male.
«Sei sicura che sia una buona idea?» domandò Percy ridestandomi dai miei pensieri quando fummo davanti al carrello mobile del ritiro bagagli.
Aggrottai la fronte, confusa sul significato delle sue parole. «A cosa ti riferisci?»
Lui spalancò gli occhi, quasi indignato, e allargò le braccia. «All'incontrare tuo padre, ovviamente! Come fai a non essere preoccupata? Penso di avertelo già detto, ma i padri di solito tendono a odiarmi» borbottò, scuotendo il capo.
Davanti alla sua espressione così buffa, scoppia a ridere, lasciandogli un bacio proprio sulla guancia sporca. «Che c'è da ridere? Fossi in te io sarei preoccupato. Anzi, no. Me la starei facendo letteralmente addosso! Che succederebbe se mi odiasse? E se ci vietasse di vederci? Sai, non è che posso vivere a lungo senza i tuoi toast al burro d'arachidi e lattuga. Alla fine morirò!»
Attesi che terminasse con la sua crisi isterica da donna e poi lo presi per le spalle, anche se era più alto di me. No, quello non era affatto cambiato.
«Non è che i ruoli tra noi due si sono invertiti e nessuno mi ha avvertito? Da quando ti preoccupi di cosa pensa la gente?» gli domandai, ignorando il fatto che i bagagli avessero già iniziato a girare e che, probabilmente, i nostri fossero tra quelli. Puntai i miei occhi in quelli di Percy e non li distolsi più. «Ti amo, Percy, okay? E questo non cambierà mai, anche quando non mi ricorderai di inviare la cartolina perché sarai troppo impegnato a rimetterti in pari con la Play Station. Non mi importa cosa dirà mio padre, tua madre o chi per essi. Siamo tu ed io. Questo è ciò che conta.»
Passò qualche istante di silenzio mentre noi due non smettevamo di guardarci negli occhi. Probabilmente le persone intorno a noi pensarono che ci fossimo incantati, ma poco importava perché, quando Percy colmò la distanza che ci separava, tutto scomparve come sempre e le mie ultime parole divennero realtà. Eravamo solo lui ed io.
«E poi mio padre ti adorerà, scemo. Ma solo se ora muovi il culo e recuperi i nostri bagagli, altrimenti farò qualsiasi cosa in mio potere perché ti renda la vigilia un inferno» aggiunsi con un sorriso d'intesa. Sì, mi piaceva strapazzarlo qualche volta.
«Agli ordini, capo» disse Percy, facendo il saluto militare.
Venti minuti, qualche imprecazione e un piede schiacciato dopo, Percy riuscì nella sua impresa e ci incamminammo verso l'uscita. Presi un respiro profondo mentre Percy faceva passare una braccio intorno alla mia vita e mi stringeva a sé, poi le porte scorrevoli si aprirono davanti a noi e uscimmo.
Fu facile individuare mio padre tra la folla: stringeva tra le mani un cartello formato A3, giallo fluo, e il mio nome scritto sopra a caratteri cubitali.
Non posso dire esattamente quello che provai perché solo una figlia che ama tanto sua padre come me può comprenderlo. Posso dire solo che i metri che ci separavano scomparvero e io mi trovai stretta tra le sue braccia così all'improvviso che il cuore mi saltò in gola.
Ero a casa. L'altra mia casa.
Solo più tardi mi resi conto che Percy era ancora al mio fianco e che stava facendo la medesima cosa: per uno strano caso del destino Sally, sua madre, e mio padre si erano appostati vicini ad aspettarci e avevano cominciato a chiacchierare. Quando si dice scherzo del destino.
«Mamma, lei è Annabeth Chase» disse Percy indicandomi alla donna al suo fianco, mentre mi guardava con un'espressione strana sul viso che non riuscii a interpretare. Al contrario, a sua madre bastò guardarlo in volto per comprendere qualcosa che mi sfuggiva perché, un'istante dopo, malgrado avessi allungato la mano per stringere la sua, mi trovai stretta in un grosso abbraccio impossibilitata a muovermi, così non mi rimase altro che stringerla a mia volta.
Mi ricordava un po' Chintia.
«Annabeth, è un vero piacere conoscerti. Non c'è stata telefonata in cui Percy non mi abbia parlato di te.»
Inarcai le sopracciglia per la sorpresa essendo all'oscuro di tutto, ma ne fui felice, ovviamente. Sapevo da Piper che non era affatto facile trovare una suocera così benevola nei confronti della nuora.
«Beh, ehm, lui invece è mio padre. Papà, lui è Percy...» dissi, cercando di trattenere un sorriso. «Il mio ragazzo» aggiunsi e l'espressione che balenò per un istante sul volto di mio padre scacciò qualsiasi microscopico dubbio mi fosse venuto in merito.
Ma poi il suo voltò si fece duro. Si avvicinò a Percy e gli strinse la mano, arricciando le labbra. Che diavolo stava succedendo? Non avevo mai visto mio padre comportarsi in quel modo.
«Ragazzo, Sox o Yankees?»
La faccia perplessa di Percy rispecchiava la mia, anche se cominciavo a capire cosa avesse intenzione di fare mio padre. Sperai solo nella mia buona stella in cielo. Ormai mi restava solo quella.
«Yankees, signore.»
Sospirai un attimo prima che mio padre annuisse, solenne, e sorridesse a Percy per la prima volta. «Adoro la tua risposta, ragazzo. Benvenuto in famiglia.»
«Ehm... grazie?» rispose Percy, sorridendo nervosamente, ma visibilmente più rilassato di cinque minuti prima. Dal canto mio, mi lasciai andare a una risata divertita, cingendo le braccia intorno a Percy.
«Dunque, ora che abbiamo fatto le presentazioni... Vi va di venire da noi a cena, domani?» domandò Sally tutt'a un tratto. La vigilia era una cosa seria a New York, ma da quello che mi aveva raccontato Percy, sua madre non aveva problemi ad accogliere a braccia aperte chiunque facesse lo stesso con suo figlio. Quindi la proposta non era poi una sorpresa.
Lanciai un'occhiata a mio padre e bastò un istante per capirci. «Beh, non vogliamo rischiare di finire in ospedale per la seconda vigilia di fila, vero papà?»
Mio padre annuì una volta, solenne. Percy mi guardò confuso, ma io feci spallucce.
«Storia lunga. Beh, se mio padre è d'accordo, a me farebbe molto piacere, signora Jackson.»
Poi, tutti assieme, ci dirigemmo verso l'uscita.
Malgrado solo sei mesi prima pensassi il contrario, sapevo che la vita sarebbe continuata, in molti modi diversi.
Non avevo grandi piani, in realtà, ma non erano necessari.
Io e Percy avremmo ripreso l'università in Gennaio per completare gli studi e poi chissà. Magari potevamo prenderci un periodo per viaggiare, vedere il mondo e la bellezza che gli angoli più nascosti della terra celavano. Sicuramente ci saremmo amati.
«Ci vediamo domani» mormorò Percy chino sul mio orecchio quando, all'uscita, i nostri genitori si diressero nelle direzioni opposte. Lo guardai negli occhi e annuii, stringendolo a me per un ultimo istante. «Ti amo, Annabeth.»
Sorrisi.
Percy era al mio fianco e io non avevo dubbi che, insieme, potevamo fare e affrontare qualunque cosa.
Dopotutto ero Annabeth Chase, ed ero pronta a vivere.




 

~ F I N E ~

      

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Sapete cosa voglio fare ora? Andare a comprare un barattolo di Nutella formato famiglia (sì, comprare, perché in casa mia non esiste), tornare a casa dopo aver catturato qualche pokemon, ignorare mia sorella che chiede dove diavolo sto andando, chiudermi in camera, mettermi sotto le lenzuola (anche se è Luglio), spararmi a mille la playlist di Adele e piangere.
Piangere come se non ci fosse un domani.
Sentite i miei lamenti da tricheco dopo essere salito sulla bilancia e aver visto il numerino rosso?
Ecco, sono io.
Perché, beh... Okay, lo dico... E' finita. Finita sul serio.
La verità è che volevo rendere questa parte dei saluti speciale, ma probabilmente durerà molto meno di quello che è durato l'ultimo capitolo perché ho il cervello talmente vuoto al momento che non riesco a pensare.
Ci sono così tante cose da dire, tante persone da ringraziare, tanti insulti da fare a me stessa che è difficile stare dietro a tutto, tricheco in vacanza quale sono.
Sì, questo epilogo è arrivato dopo mesi, ma a mia discolpa dico che vi avevo avvertito. Voi lo sapete quanto sono incostante. L'importante è che è arrivato, no?
Il fatto è che negli ultimi mesi, più in generale nell'ultimo anno, sono cambiata quasi completamente. Non mi riconosco più nella persona che ero solo l'estate scorsa, e non so nemmeno se il cambiamento sia stato positivo o negativo. Poco importa perché ora sono qui e questa cosa, fanfiction se vogliamo proprio essere precisi, è giunta inesorabilmente al suo termine dopo.... quanti? Due anni e mezzo signori! Due. Anni. E. Mezzo.
Roba da pazzi dal mio punto di vista visto che non sono mai riuscita a portare a termine qualcosa di così lungo.
Mi ricordo ancora quando pubblicai il prologo (molto diverso da quello che potete leggere ora). La mia idea generale era molto vaga e inesperta per quanto riguardava i temi trattati. Non che ora sia cambiata di molto.

Vorrei citare ogni singola persona che mi ha accompagnata in questo lungo cammino, ma ho una memoria molto corta e, sopratutto, sono piiiiigrissima. Grazie, grazie, grazie, grazie, grazie.
G R A Z I E. Voi che seguite, ricordate, preferite, recensite: siete le mie persone
(e sì, ho rubato palesemente la citazione).

Ora il punto dolente.
Ci sarà un sequel? Ehm.....................
Mi rammarica dirlo a chiare lettere, ma no.
Probabilmente no.
Per varie ragioni, una tra le quali è che mi sto concentrando su un'originale (trovate il prologo QUI).
E poi, gente, mi aspetta un anno d'inferno (alias quinto anno per i comuni mortali) e dopo di quello inizia la vera vita.
Si cresce, purtroppo. Sigh.
Non escludo però completamente la cosa, sia chiaro. Chi lo sa? Magari mi viene lo sghiribizzo dei cinque minuti e mi invento qualcosa.
Il fatto, però, è che io odio i sequel. Trovo che tolgano quel tocco di magia che l'originale ha. Non so se mi spiego...
Duuuuunque. Chiudo qui.
Oddio, sto davvero per mettere la parola fine.
Okay, vado a immergere la faccia nel barattolo. Fanculo la dieta. Questa è una situazione di emergenza. Ti prego, Santa Adele, cura le mie ferite.


Non mi resta che dire una sola cosa: grazie.
 
Valentina

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