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di etby98
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1. Il buio che precede il sorgere di un nuovo inizio. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 - La storia della notte. ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 - Quello che conta tra amici non è ciò che si dice, ma quello che non occorre dire. ***
Capitolo 4: *** Capitolo 04- Cos’era cambiato? (Uno scontro per la pace.) ***
Capitolo 5: *** Capitolo 05 - [ L'eroe e la sua tragedia ] La maschera del buono (I) ***
Capitolo 6: *** Capitolo 06 - [ Le mura cedono ] La maschera del bravo (II). ***
Capitolo 7: *** Capitolo 07 - Il cuore e la mente. ***
Capitolo 8: *** Capitolo 08 - Melodia. ***
Capitolo 9: *** Capitolo 09 - Memorie ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 - La pioggia bagna le rose. ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 - La battaglia per trovare quella luce. ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1. Il buio che precede il sorgere di un nuovo inizio. ***




Autrice.

Salve a tutti! Codesta che state per leggere, è una prima FF che pubblico -non stupitevi se non è granché.
Leggete le caratteriste per info in più, oppure scritevete i vostri pensieri sotto nelle recensioni. Okke?
Un enorme grazie, a te Caro Lettore. Grazie, anche solo di averla aperta, e se la leggerai, spero ti piaccia.
Goditi la lettura. Al prossimo capitolo~

  Prologo.
 
Un sussurro.     
"Jean"
«Chi è?»             
Un tunnel vuoto. Guardarsi attorno e inutile: quel paesaggio e cosi familiare. Può sentire delle grida sottomesse. Un odore inconfondibile di morte, sangue.            
Angoscia, dolore, rabbia.            
Emozioni tanto familiari, anch'esse. Il corridoio nero sembra farsi sempre più stretto. Nel mentre cerca di ricordare, di seguire quel ricordo, che gli sembra tanto lontano.       
Un sussurro.     
"Jean"
Corre. Comincia a correre. Non ne capisce la ragione, ma sente che se non sarà veloce, se non si sbriga, non arriverà mai in tempo.
"in tempo, perché?"     
Corre. Perle di sudore gli bagnano la fronte, il respiro e pesante e quasi gli scoppiano i polmoni.            
Corre. Le gambe si fanno man mano più pesanti.           
Corre. Non vede nulla, dinanzi a lui. Il nulla. Eppure continua. Continua a correre.         
Comincia a notare che, quella pesantezza delle gambe, deriva dal fatto che sta sprofondando.              
Comincia ad urlare, vedendo il nero avvolgerlo e risucchiarlo in un altro luogo. Dove? Perché?               
Un sussurro. Allunga una mano, gridando un nome. Grida, mentre le lacrime gli rigano il volto.              
"Ci rivedremo"

***

L'acqua scorre lenta. Calda sui polsi.      
Si era svegliato nel cuore della notte. Il cuore ancora palpitante, minacciava di voler uscire letteralmente dal petto. Sentiva la testa pesante, ed un'angoscia terribile sembrava strisciargli addosso.
«Maledizione..» disse tra sé.    
Si passò un poco d'acqua anche sul viso. Poggiò poi le mani sul lavandino, appoggiandosi con il peso. Si guardò allo specchio. Dei solchi, formatosi sotto i suoi occhi, sembravano tanto profonde e familiari, come una vecchia conoscenza che torna spesso a farti visita.       
Che brutta faccia, tch pensò.   
Fu ancora meno consolatoria la vista del orologio dell'ingresso. Erano circa le 4:45 a.m.               
Non posso certo tornare a dormire. Non voglio di nuovo ritrovarmi in quel buio.            Si passò una mano sul viso, uscendo dal bagno. Dovette accendere la luce, per poter camminar nel corridoio –ma soprattutto per quella sua sensazione di vuoto ed angoscia nel rimanere in quel buio pesto.    
Dopo essersi svegliato, era corso nel bagno, portandosi dietro la coperta. Ora era tutta stropicciata a terra, come un serpente silenzioso pronto ad attaccare. Sbuffando, decise di lasciarla dov'era.             
A piedi nudi, arrivò in cucina. Prese un bicchiere di vetro, vi versò un poco d'acqua. 2 ore.
Che fare in 2 ore?          
Sorseggiando l'acqua fresca -che gli diede un poco di sollievo- non poté non ripensarci.             
Quel sogno.      
No, un incubo. 
Un assillante scena, che tornava. Tornava. Notte dopo notte. Da un mese oramai.       
Stessa scena. Sempre. Sempre..            
Eppure, anche se più volte rivista, quella scena non cambiava. Sapeva bene come finisse, ogni volta. Ma non poteva evitarlo. Sentiva quel sussurro. Una voce tanto lontana. Ma di chi? Chi era?     
Non poteva ricordare. 
Nemmeno il nome.       
Lo ripeteva sempre. Durante il sogno, quel sussurro lo chiamava per nome, ed anche lui chiamava il sussurro. Lo gridava, quel nome, ma nel risveglio tutto svaniva.         
Era irritante.     
Poggiò il bicchiere sul tavolo.    
Si adagiò con la schiena al muro. Portò la testa indietro, sentendo le piastrelle sulla nuca, fredde.
Socchiuse gli occhi.  Fissò a lungo il soffitto. Chiuse gli occhi, cercando di metter ordine a quella miriade di pensieri.

 
Capitolo 1
Il buio che precede il sorgere di un nuovo inizio.



Era una mattina come tante.  Al centro di Londra, uomini d’affari indaffarati e distratti attraversavano la strada, con le loro valigette nuove e la puzza sotto il naso.              
Nel mentre li osservava, Jean non poteva far meno di sbuffare tra sé. Ricordava che, da giovane, anche lui desiderava esser come quei uomini che tornano tardi da lavoro, con una bella moglie, dei figli, ed uno stipendio niente male.   
Cazzate.. pensò.            
Il gelido inverno era appena iniziato. Il leggero strato di ghiaccio formatosi sul marciapiede, faceva sì che qualche innocuo passante rischiasse di cadere. Quello sì, che era spassoso. Soprattutto per i ragazzini che li osservavano, deridendoli. Con i loro nasi rossi, i cappelli di lana –probabilmente cuciti da una nonna prematura- tirati giù sino alle orecchie e quei loro giacconi rigonfi e colorati.           
Jean, con il borsone a tracolla ed una mano nella tasca del suo impermeabile, se ne stava con il muso nascosto nel colletto. Il respiro formava piccole nuvolette, che gli passavano dinanzi gli occhi. Camminava a passo lento ma lungo, per poter arrivare il prima possibile alla metropolitana.    
Scese le scalette –rischiando di cadere- comprò un biglietto sul momento e si diresse al binario, ad aspettare. Attorno a lui scorgeva molta gente. Tra mamme e padri con i loro bambini, poi anziani con i capelli brizzolati e miriadi di ragazzi che andavano verso i licei.  
Quanto mi manca la scuola, mi stupisco di me stesso. La scuola non era stato tanto male, in effetti. È li che aveva conosciuto i suoi amici.       
Sentì lo sferragliare, poi dinanzi a lui sfrecciò il treno. Fastidiosi brividi lo percorsero, quando fu colpito dalla scia d’aria del vagone. Stringendosi ancor più nell’impermeabile, aspettò l’aprirsi delle porte.             
Quest’ultime fecero un crepitio, poi uno scatto e si aprirono. La gente uscì come un fiume in piena, mentre cercava di farsi strada tra quei visi stanchi ed infreddoliti.          
Riuscito ad entrare, cercò con la mano un qualcosa a cui reggersi.          
Rimase in silenzio, controllando con la coda dell’occhio lo schermo ove veniva indicata la prossima fermata.

***

Risalendo le scale, si ritrovò in Leicester Square. Alle sue spalle, l’edificio in cemento di un pallido grigio/beige, lo salutava tristemente.     
Dinanzi a lui, la gente sembrava aumentare ogni secondo di più.            
Guardò l’ora. Erano circa le 7:43.             
Con passo veloce, questa volta, si diresse verso Cranbourn Street. Svoltò, trovandosi accanto il ristorante “Bella Italia”.                
Le poche macchine che passavano, erano veloci e lasciavano il loro passaggio, scomparendo come erano apparse. I palazzi che si eleggevano tutt’intorno a lui, erano fieri testimoni dell’architettura e grandezza Londinese.       
Finalmente, si ritrovò dinanzi alla Survey Corps.              
La S.C. era, almeno per lui, una scuola. Una specie di scuola. Non era proprio convinto di quella sua scelta, ma oramai era presa.  
Si veniva temprati, addestrati e poi, un giorno forse, mandati a proteggere il proprio paese. Per ora, potevano solo pulire le posate con cui mangiavano e studiare libri di 500 pagine l’uno, senza capire assolutamente nulla su come codeste letture potessero servir loro.   
Sta il fatto che, dopo il pre-corso di metà anno, c’era stata una scelta. Quella scelta, era tra 3 diverse opportunità:       

-Garrison, la meno importante, cui ruolo è sorvegliare le vie della città e star seduti su una scrivania a controllar scartoffie.               
- Survey Corps, cui lavoro principale era il lavoro sul campo. Partecipare a spedizioni speciali, diventare un militare attivo con la pelle sempre a rischio.            
-Military Police: cioè lavorare nel castello della regina, a Buckingham Palace. Un lavoro glorioso, che spettava solo ai migliori 10 del pre-corso.            

Jean, appena entrato nel pre-corso, aveva optato per la Military Police. Ovviamente, non se lo sarebbe mai aspettato di cambiar così facilmente idea.   
Rischiare la vita, non era certo da lui. Ma era troppo tardi per ripensarci.            
Ogni opzione, ha una propria sede. La S.C. è situata su una via piccola e stretta, isolata. Un enorme castello riadattato, con i dormitori appositi sia per maschi che per femmine.      
Visto che il corso vero e proprio iniziava quel dì, Jean si convinse di non esser agitato e che sarebbe andato tutto liscio. Ovvio.  
Entrando, dal enorme portone di legno, posando il suo borsone a terra, non fece a meno di notare la enorme scritta incisa nella pietra.      
“Flügel der Freiheit“     
  «Tradotto: “Ali della libertà” è tedesco, ma tu Jean non sai nemmeno parlare la tua, di lingua.»           
Quella voce, che a lui sembrò tanto irritante, bastò a farlo innervosire. Si voltò, con uno sguardo pieno di disprezzo, verso il ragazzo accanto a lui.    
Eren Jaeger. 5° posto tra i migliori del pre-corso, una testa dura, che credeva ancora ai sogni, che parlava tanto ma che nel agire era solo un bambino pieno di sé. Però aveva qualcosa. In quei suoi occhi, Jean poteva scorgere una scintilla, un qualcosa che lui stesso non aveva. Un qualcosa, che non sapeva spiegarsi. Qualcosa che lo faceva sentire inferiore –oltre al fatto che Jean era arrivato 6°.  
  «Ah, Jaeger. Non parlarmi come se fossi come te.»    
Il ragazzo digrignò i denti, con disprezzo nella voce «Sei solo un cretino, Jean. Ancora non capisco cosa tu ci faccia qui.»               
  «Ho deciso di venire qui di testa mia. La cosa non ti riguarda. »             
  «Forse avevi paura di far brutta figura nella Military Police? Magari non vogliono uno come te.»         
  «Tu, maledetto!» disse, prendendo il colletto del ragazzo. Eren sgranò per un attimo gli occhi, afferrando poi la mano di Jean stretta alla maglia.               
  «Basta voi due.» disse una voce. Una voce dolce, che bloccò il povero Jean. Una mano pallida, dolce ma ben delineata, si posò sulla sua mano e su quella di Eren, per separarle. «Basta.» ripeté.             
Jean schioccò la lingua, lasciando la maglia di Eren, che fece un passo indietro per riprendere l’equilibrio.
  «Sei fortunato, Jaeger. Ringrazia che ci sia sempre Mikasa a salvarti.»               
Mikasa Ackerman. Una ragazza alta e snella, dai profondi occhi grigi e dei capelli neri corti fin sopra alle spalle. Aveva il suo solito aspetto un poco serio. Con la sciarpa rossa al collo. Non accennò a dir nient’altro, al contrario di Eren.    
  «Io me la so cavare anche da solo. Vedrai, un giorno.»              
  «Ah? Minacci, Jaeger? Non mi fai paura, aspetterò con ansia che tu muova quel culetto, invece di lasciar parlare a vanvera quella tua boccaccia.»  
Eren strinse i denti. Sembrò sul dire qualcosa, quando rinunciò ed avanzò, con Mikasa alle calcagna.   
Quando gli passarono accanto, Jean non si voltò. Adorò la scia di profumo della ragazza, sospirando poi. È proprio un bastardo fortunato, pensò.      
Dopo quel incontro mattutino, salì le scale, alla ricerca della sua stanza.              
I dormitori maschili erano al 3° piano, al 2° quello femminile, al 1° le classi e la mensa. Nel sotto suolo, quelle che una volta dovevano esser delle celle, ora erano le biblioteche ed alcuni uffici e la direzione.        
I dormitori avevano 4 posti letto.           
La sua stanza era la 304.              
Mentre passava dinanzi ogni stanza, alla ricerca della sua, si sentì chiamare alle spalle.
Si voltò.              
  «Buondì, Jean» disse il biondo.             
  «Ehilà, Armin.»             
Armin Arlert. Il migliore nelle materie scritte ed orali, ma incapace quasi di alzare una penna dal tavolo. Era un ragazzo bassetto, dai capelli a caschetto biondi, occhi azzurri brillanti, ed una mente anch’essa brillante.
  «Come hai passato il mese per la decisione?»
  «L’ho passato a non far nulla, a parte dormire e fare alcuni giri per la città. Tu?»           
  «Io sono stato con Mikasa ed Eren a nord di Londra, ma nient’altro purtroppo. Ero molto agitato oggi, però questa è una struttura ben organizzata.» disse, sorridendo «Ho saputo che avete bisticciato, tu ed Eren.»                  
  «Tch, già. Quell’idiota che si crede invincibile.» disse Jean con amarezza.         
  «N-Non fare così, Jean.»          
  «Già, non me la prendo con te.»          
Ci fu un attimo di silenzio, che sembrò durare un’eternità.        
  «Ah, stai cercando la tua stanza?» disse Armin.            
  «Sì, sono alla 304.»      
  «Ma è la mia stessa stanza, a quanto pare la condivideremo!» disse, alquanto contento.        
  «A quanto pare.»        
  «Vuoi che ti ci accompagni?»  
  «No, ci andrò da solo.» disse poi, salutando il biondo, che si voltò per poi sparire dietro l’angolo.        
Dopo un poco, trovò finalmente la sua stanza. Introdusse la chiave nella serratura, notando che la porta non era chiusa.  Forse Armin l’ha lasciata aperta?           
Aprendola, ci fu un cigolio sommesso. 
La stanza era spaziosa, ma mal arredata: a destra due letti a castello, così come a sinistra, proprio dinanzi la porta c’era una finestra grande che lasciava passare il sole nella stanza in modo quasi etereo, sotto codesta finestra vi erano due scrivanie.               
Ma la cosa che lo lasciò perplesso, era che non era da solo.       
Accanto ai letti di destra, un ragazzo era intento a sistemare le cose contenute in una borsa da viaggio.             
Il ragazzo si voltò, sorridendo poi al nuovo entrato. «Buongiorno.» disse.          
Era un ragazzo dai capelli corvini, occhi scuri e lentiggini sbarazzine sul volto. Era un poco più alto di Jean, snello e con le spalle sottili.     
  «Ehila.» rispose Jean, un poco disorientato.  
  «Piacere di conoscerti, forse ci siamo visti al pre-corso, di sfuggita.»   
Il viso del ragazzo lentigginoso non gli era nuovo, ma non lo poteva associare a nessun nome.
  «Ti vedo un poco perplesso.» disse il ragazzo ridendo «Marco Bodt.» sorrise, porgendo la mano.       
  «Jean Kirschtein. Sì, mi ricordo vagamente.» disse, stringendogliela.       
  «Spero andremo d’accordo, in futuro.»            
  «Lo spero anch’io.» disse Jean, sorridendo. Non ne capì il motivo, ma provò strana sensazione, nel guardarlo. «Avrai incrociato Armin, il ragazzo biondo, un poco basso…»  
  «Sì, sì. È andato via circa 10 minuti prima del tuo arrivo. Un ragazzo simpatico.» il ragazzo si voltò, tornando a far quel che poco prima stava facendo.        
  «Un tipo ok.» disse Jean. Guardandosi attorno, notò che i letti sulla sinistra erano stati disfatti e sopra ad entrambi vi erano delle borse.      
  «Eh già, quelli sono occupati.» disse Marco.    
Jean sbuffò. L’idea di dividere la stanza con così tante persone, non gli andava per niente giù. Con malumore, tirò la borsa sul letto in alto sulla destra. Marco sussultò, voltandosi prima verso la borsa, poi verso Jean.   
Jean non aggiunse nulla. Né spiegazioni, né scuse. Si avvicinò al letto, mentre il povero ragazzo sembrava diventare un pezzo di legno.
  «Ehi, rilassati.» disse Jean, aggrappandosi alle scalette del letto a castello.      
  «Non vieni a  fare colazione?» chiese timidamente.   
  «Forse. Per ora, voglio solo dormire. Ho fatto 3 ore di metropolitana.»             
  «Capisco.» disse il ragazzo. Jean vide la testa del ragazzo che annuiva, a testa bassa, mentre si dirigeva verso l’uscita.               
Jean si sdraiò sul letto, con accanto la propria borsa. Sentì la porta chiudersi.   
Cercò di riposarsi.          
Sarebbe sceso, più tardi. Avrebbe rivisto i visi già noti, visti un mese prima. Visi amici. Visi conosciuti e visi nuovi. Stranamente, gli passò ancora una volta il volto di quel ragazzo.             
“Spero andremo d’accordo, in futuro.” Gli ripassò alla mente la sua voce. Sospirando, fiaccamente, si rilassò qualche attimo, cercando di prender sonno.      
Sperando di non rivedere lo stesso film, angoscia familiare.      

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 - La storia della notte. ***


Autrice.
Salve a tutti! Wow, il secondo capitolo. Se avete seguito dal primo,
davvero, vi ringrazio di cuore. Se non avete letto il primo
che ne dite di andarlo a cercare sul mio account, ne? Non voglio farvi rimaner indietro (?)
Siamo ancora all'inizio, quindi non aspettatevi chissà cosa.
Spero nella vostra pazienza.
Grazie mille, Caro Lettore. Spero che la storia, in futuro, ti possa piacere.
Per ora è solo una tela con degli schizzi in gesso.
Spero di poterti appassionare, emozionare o almeno far sorridere.
Al prossimo capitolo~

  Capitolo 2
La storia della notte.




Jean si voltò, sbuffando.            
  «Sei una testa dura, Jean…» disse Eren, asciugandosi il sangue dal labbro «Impara a non guardare solo te stesso, magari diventerai una persona forte. E non una persona sola.»             
 Jean si voltò con fervore, dirigendosi nuovamente verso Eren. Armin afferrò l’amico d’infanzia per un  braccio, portandolo indietro. Marco si posizionò dietro Jean, cercando di fermarlo.               
  «Non giocare, Jaeger..» disse Jean, scuro in volto. Entrambi i ragazzi erano pronti a scoppiare di nuovo, cercando di avanzare e poter attaccar per primi l’altro. Nel caos, Jean si rese presto conto che la frase di Eren, non era tanto lontana dalla verità. La cosa, lo fece arrabbiare ancora di più. Cercando di liberarsi dalla presa salda di Marco, non si accorse di averlo colpito in pieno volto.  
Dopo la lunga discussione, riuscirono a farli calmare.    
Armin portò via Eren, nervoso, non si voltò nemmeno a guardarlo. Jean si sedette sul letto, poggiando i gomiti sulle ginocchia e guardando a terra. 
  «Mi spiace averti coinvolto, Marco.»  
Il ragazzo dai capelli corvini si sedette sulla sedia dinanzi la scrivania, posizionandola proprio di fronte a Jean. «Non preoccuparti.» 
  «Prima ti ho colpito?» disse, alzando lo sguardo.                          
  «Sì, ma non è niente di grave.» disse, sorridendo, per poi passarsi una mano sulla fronte ove era stato colpito.           
  «Non riesco a credere che dovremmo condividere la stanza con quello la..» sbuffò Jean.       
Marco sospirò, perplesso.         
  «Non aveva torti..» disse Jean sovrappensiero.            
  «Cosa intendi?»           
  «Sono tanto preso da quel che penso io, da non vedere oltre quello che voglio vedere. Niente e nessuno. Sarò una persona sola, ma preferisco sia così piuttosto che stare con persone come Jaeger.» si passò una mano tra i capelli.     
  «Io…non credo sia del tutto vero.» disse Marco.          
  «Mh?» Jean lo guardò incuriosito.       
  «Forse sei un tipo molto scettico, e si, sei cocciuto. Ma sei anche onesto con te stesso.»         
  «E da cosa lo dici?»      
Il ragazzo sorrise all’amico «Dici di esser migliore di Eren, vero, ma non lo credi davvero. Sei onesto con te stesso, dandoti del debole, quando secondo me sei tra i più forti, qui.»              
Jean sbuffò, come se non credesse alle sue parole.      
  «Siete simili..» disse Marco, un poco assente.               
  «Simili? Chi? Io e quell’idiota? Tutte belle parole e pochi fatti. Non serve saper parlare, in casi come questi.» e lo pensava davvero. In guerra o per la strada, non vale la legge delle parole. Bensì del più forte.
  «E tu hai dimostrato di saper agire.» disse, come per scusarsi.              
  «Esattamente.» disse Jean, fiero di sé.             
  «Però..» intervenne il moro «Entrambi avete una forza di spirito incredibile. È difficile abbattere questa vostra forza.»               
  «Tch.»               
  «Dico sul serio. Pur sapendo di essere debole, accetti questa tua debolezza rendendola la tua forza. La forza di esser se stessi, in questo mondo così duro che tenta di distruggerti.»   
  «Non saprei.» s’impuntò Jean.             
Marco sembrò rinunciarvi, sospirando.
La  notte era vicina. Entrambi i ragazzi non aveva cenato. Jean guardò l’ora, erano circa le 20:30.            
La stanza era in subbuglio, con le borse e i vari bagagli buttati a destra e a manca. Il primo giorno in quel istituto era stato assai noioso. Il giorno seguente sarebbero iniziate le lezioni, quelle vere.          
Jean sperava di potersi esercitare in qualcosa di più consono, e non dover rimaner tutto il giorno dinanzi i libri. Si alzò, stirando la schiena.       
  «Perché credi tanto in me?» chiese Jean.        
Il moro sorrise timidamente «Perché sei mio amico. E gli amici, nelle meglio o peggio situazioni, si aiutano.»
In quei secondi di silenzio, che scorrevano freddi tra i due ragazzi, Jean fu trasportato dai pensieri e la sua mente vagò tra essi.      
  «Marco..» lo chiamò assorto. 
  «Sì, Jean?»      
  «Chi ti aspetta qui fuori?»        
  «Qui fuori?» disse il moro, senza capire.           
  «Sì, nel senso, fuori da qui. Da questo mondo. Avrai qualcuno che ti riabbraccia, non appena ritorni da una spedizione importante, no?»          
  «Be, non sono…fidanzato, fuori ci sarebbe la mia famiglia, ma non credo mi accoglierebbe a braccia aperte..» disse Marco, passandosi una mano sul capo, ridendo con amarezza.               
Da quel che ne sapeva, Marco era entrato nella  Survey Corps, ma era entrato al pre-corso con la stessa idea di Jean: voleva lavorare al servizio della Regina.             
Non gli aveva mai chiesto come mai quel cambiamento. Nemmeno sapeva perché lui stesso avesse sconvolto tutti i suoi piani, di una vita piena di pace e tranquillità.     
Da quel che ne sapeva, Marco non andava d’accordo con i propri familiari. Per via della scelta da lui condotta, voler servire il proprio paese. Non parlava con la sua famiglia da tempo, oramai. Jean aveva lo strano dubbio che, fuori da quelle mura, quel povero ragazzo non avesse niente e nessuno a cui affidarsi.
Ma anche per Jean era così.      
Solo, sempre solo. Non lo turbava codesto fatto, anzi, era un suo vantaggio. I suoi amici erano tutti lì, dentro quella struttura.           
Era stranamente confortante. Amici, tutti i miei amici, sono qui.             
Marco sussultò, come se si fosse ricordato qualcosa. Si alzò, si diresse verso una borsa-ghiaccio e ne tirò fuori due bottiglie di Cola, gliene porse una, poi stappò la propria e l’alzò in aria. «Un brindisi!»    
Jean lo guardò un poco confuso.            
  «Un brindisi a questo inizio.» rimase con la Cola in mano, alta sopra di sé, portandola poi verso l’amico.
Jean, sospirando, stappò la propria Cola, porgendola sino a quella del amico. «Un brindisi.»    
Le bottiglie di vetro tintinnarono. Bevendola, era fredda lungo la gola.                Si sedettero entrambi a terra, rivolti verso la porta, con la luce della finestra alle spalle. Ombre venivano proiettate a terra, tanto grandi e tanto scure.
  «Spero sia un anno…indimenticabile.» disse Marco.   
  «Noi diventeremo soldati, Marco. Speriamo di riuscir a diventare i migliori. Io lo sarò, sicuramente.»
Marco rise tra sé. «Modestia eh?»        
  «Eh? Modestia o meno. Mi impegnerò al massimo. Voglio poter combattere, ora come ora.»              
  «Combattere?»            
  «Cosa c’è? Dubiti che possa farcela?» disse con tono scherzoso, ma un poco offeso. 
  «Non dico questo…solo che…»             
  «Dai, spara.»  
  «Prima della scelta finale, dicevi di voler andare nella Military Police. Ad esser sinceri…»          
  «Cosa?»           
  «Quel che penso è che, nella Military Police, ci son persone che chiacchierano tanto, usando belle parole, ma senza mai combattere per l’umanità che dovrebbe difendere. Sentirti parlare di combattere, può sembrare strano. Perché eri quello che diceva che le parole non servono a molto, bensì serve l’azione. Ora come ora, siamo due ingenui, eh?»   
  «Forse hai ragione. Forse voglio combattere, mentre quei bastardi al servizio della Regina se la spassano sulle seggiole pregiate ed il culo firmato. Forse voglio solo vivere, combattere per me stesso.» bevve un sorso «E questo è da egoista. Se penso solo a me, rimarrò solo e molto presto anche. Come diceva quel Jaeger.»           
  «Non sarai solo, Jean.»             
  «Come fai a dirlo?» disse, come stufo.              
  «Perché ci sarò io con te.» gli sorrise «Gli amici non si abbandonano, no?»     
Jean sorrise. Marco, grazie, pensò. Ma non riuscì a dirlo ad alta voce. Non ci riuscì.       
Trascorsero la serata a parlare, del più e del meno,       
Alle 22:05, la sveglia analogica illuminava la stanza con quella poca luce che proiettavano le cifre su essa scritte. I due ragazzi sorseggiavano dalle bottiglie, sospirando.          
Fu Marco a rompere il silenzio: «Se posso chiedertelo…come mai scorre così mal sangue tra te ed Eren?»
Jean sembrò ragionarci sopra, irritato. 
  «S-Solo se vuoi rispondere..» continuò Marco «A volte, al pre-corso, vi vedevo litigare. Alla mensa.»               
  «Bei spettacolini eh?» disse Jean, ironico.       
  «Be, sì.» rispose al suo tono ironico «Però, forse è una mia impressione, ma si è creata un altro tipo di “tensione” nella vostra amicizia.»             
  «Amicizia, così pensavo.»        
  «Cosa intendi?»           
Jean rimase qualche attimo in silenzio, osservando la sua bottiglia di Cola oramai vuota. «Il giorno prima del diploma pre-corso, prima di dover scegliere dove andare, prima di quel mese di vacanza, la squadra ha fatto una festa. Ricordi? »                 
  «Sì, ricordo di esser stato accompagnato da Mikasa e di aver portato in groppa Armin…e per mano Connie entrambi brilli.»                              
  «Be…quando tutti furono rincasati, io e Jaeger decidemmo di far la strada insieme. Non eravamo del tutto brilli, ma forse mi sbaglio. Fatto sta che lui rischiò di cadere, per circa 2 volte. Era notte fonda e ed eravamo ancora agitati per via della festa.»
Marco dondolò la bottiglia, ascoltandolo attentamente. Jean prese un bel respiro, e continuò.              
  «Il nostro discorso è andato a parare in un punto un poco dolente.»  
  «Che vuoi dire?»          
  «Abbiamo fatto una scommessa, ma non è finita nei migliori dei modi.»          


I due ragazzi che si sentivano ridere e schiamazzare, camminavano un poco alla ben meglio per la stradina vuota. Il ragazzo dagli occhi smeraldo, rideva ad una battuta poco sensata del ragazzo poco più alto di lui. Finirono in un vicolo, parlottando tra loro.              
 
«Hai visto poi che volo ha fatto Reiner?» disse Eren.   
  «Annie mi stupisce sempre, è una grande stronza ma è forte e sa picchiar bene.» disse Jean.
 
«Non dirlo a me!» rispose il ragazzo, poggiandosi una mano sulla testa –ove, poco prima, c’era stato un contatto ravvicinato con il pavimento grazie alla sua compagna stronza.            
  «Anche tu, EH. Voli benissimo. Gli occhi di tutti erano puntati sul tuo culone in aria.» rispose ironico. 
  «Non tutti gli occhi.»  
  «Cosa?»           
  «I tuoi non erano certo puntati su di me.»       
  «Dove vuoi andar a parare?»
  «Jean, sai di che parlo.» Eren si bloccò in mezzo alla strada. Jean si fermò poco più avanti.     
  «No, non lo so.»           
  «Lei ti piace,» disse scuro in volto «Mikasa. Lei ti piace. Non le stacchi gli occhi di dosso.»        
Jean guardò altrove, borbottando qualcosa  «Io..»      
  «Lo sapevo.» disse nervoso l’amico, che scattò in avanti superandolo.              Jean lo vide passare, si voltò e gli prese il braccio.                «Eren!» urlò.  
Eren si bloccò, guardando avanti a sé. Jean poteva vedere solo un pezzo del viso.         
  «Perché? Perché ora mi dici questo? Cosa t’importerebbe di cosa provo o non provo per Mikasa, eh? Non puoi certo dire di esser geloso di lei. Ma non vedi come la tratti, eh?»      
Eren si voltò con occhi pieni di rabbia «E tu che ne sai di quel che provo io, eh?! Niente! Sei un cretino!»             
  «Ma di che diamine parli?!»   
  «Lasciami andare, ora!»          
Jean mollò la presa. Eren si fece un poco indietro, massaggiandosi il braccio.   
  «Cosa c’è, Eren?»        
  «Non me ne importerebbe nulla, se fosse Mikasa, Annie, o altri. Mi dai il nervoso..»  
  «Tch, tutto qua? Allora bene, se non ti piaccio così tanto come dici io..» Jean fu interrotto.     
  «Scommetto…Scommetto che sei così codardo e pieno di te, da guardar tutti da un binocolo. Perché sei solo un cretino egoista.»           
A quel dire, Jean lo afferrò per una spalla e lo sbatté sul muretto del vicolo buio. Eren rimase spiazzato, ma non demorse.               
  «Scommetti? Ma cosa dici? Cretino egoista? Non credo che lei stia soffrendo per me, no?»    
  «Io non parlo di lei!» urlò l’altro. Gli occhi smeraldini sembravano poter proiettare  tutto ciò che passava nella mente e nel cuore del ragazzo.         
  «Di che parli?»              
Eren si morse un labbro, borbottò qualcosa. «Un’altra…persona.»       



Marco era immobile, ascoltando ciò che l’amico stava raccontando.     
  «E poi, che successe?»              
  «Niente.» rispose Jean.            
  «Niente?» chiese il moro, poco convinto.        
Jean si strinse tra le spalle, guardando a terra. I minuti passavano indisturbati, mentre la notte si faceva sempre più inoltrata. Erano oramai le 23 meno 20. 


«Ti sfido.» disse lui.     
  «Cosa?»           
  «Ti sfido. Provami che ci sia qualcuno che davvero ci tieni a te, che ti ami.»     
  «Ma che vai dicendo?»             
Il ragazzo era talmente serio, da far gelar il sangue con quel suo sguardo vigoroso che brillava alla poca luce della notte.               
  «Provamelo. Accetti, o sai di perdere in partenza, Jean?»        



Le parole di lui l’avevano colpito, lì ove pensava che nessuno, nemmeno lui stesso, potesse arrivare. Non ne capiva esattamente il motivo.
Forse perché non aveva tutti i torti.      
Le parole di lui risuonavano ancora perfette e limpide, nella mente sua… Sei una testa dura, Jean. Impara a non guardare solo te stesso, magari diventerai una persona forte. E non una persona sola.  
Forse sono davvero solo.           
Forse non dovrei nemmeno avercela con lui.    
Ma lui che ne sa di cosa provo o penso io. Lui ha degli amici. Amici veri. Ed io son sempre a lamentarmi.            

  «Freddo.. » sussurrò tra sé.    
Marco si fece più vicino, non capendo.
Jean lo guardò, per poi guardare dinanzi a sé.                  
  «Marco, pensi che sia una persona sbagliata?»             
  «Cosa intendi?»           
  «Le persone che penso mi siano più vicine, non fanno altro che soffrire. E quando voglio rimaner solo, dicono che penso solo a me e che ho paura di soffrire.» posò la bottiglia a terra «Tutti gli esseri umani sono egoisti, no? Perché venite a rompere a me?»            
  «Mi sembri un bambino, sa?» disse divertito Marco.  
  «Grazie, Marco.»         
  «Dai, non prenderla male.» diede una pacca all’amico, sorridendogli «Io penso che ognuno è com’è. Non è sbagliato. Forse ad occhi altrui può sembrare, ma io posso dire che non c’è nulla di sbagliato in te. Non pensarlo mai. Vedrai che troverai un modo per dimostrar quello che veramente sei, Jean.»        
  «Un modo?»  
Marco sorrise, come se bastasse come risposta. Jean si sentì un poco sollevato.            
  «Nessuno è solo. Non esistono persone sbagliate, finché c’è qualcuno che pensa a loro. Sappi che per qualsiasi cosa, io ci sarò.»  
Jean poggiò una mano sul capo dell’amico, spettinando i capelli corvini in segno amichevole. «Ehi, non sai con chi stai parlando. Sono Jean, ricordi? Non una femminuccia lamentosa. Se sono arrivato sin qui con le mie sole forze, ce la farò sino alla fine.»           
  «A-Ahi, ahi!»  
Jean rise, divertito dalla capigliatura di Marco, ma soprattutto rise come sfogo. Quel peso, i pensieri che non  l’abbandonavano, tutto per via di quella notte. Tutto per via di Eren.                   
Chi è la persona a cui si riferiva? Chi stava soffrendo?  
Quella notte non volle rispondere. E non credeva certo l’avrebbe fatto ora. Ma il povero ragazzo non faceva che pensare a chi stesse soffrendo, qualcuno soffriva per colpa sua? Da lì, Jean, si era messo finalmente dinanzi lo specchio. Notando che tipo di persona fosse in realtà. E pensare a tutte le persone con cui quel suo essere si era presentato loro, non faceva che peggiorare la situazione.            
Si alzò, seguito a ruota da Marco.           
  «Meglio dormire, ora.» disse Jean «Domani ci alzeremo presto, e credo che quei due torneranno presto. Armin e Jaeger.»               
  «Va bene.» disse Marco, prendendo la bottiglia di Jean.          
Quest’ultimo si avviò verso il proprio letto, per poi bloccarsi nel sentire il tocco sulla schiena.  
  «Non darti pene, Jean. Non sei una cattiva persona. Ti sono accanto.»             
La mano dell’amico svanì poco dopo, sentì solo i passi di lui che si dirigevano verso il bagno. Poi il chiudersi di una porta.               
Jean salì sulle scalette, arrivando al proprio letto. Non appena poggiò la testa sul cuscino, sentì uno strano senso di stanchezza e pesantezza. Si portò una mano al petto, sentendolo come vuoto.             
Come se non vi fosse nulla, a parte un battito opaco, quasi come l’ombra di se stesso.               
               

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 - Quello che conta tra amici non è ciò che si dice, ma quello che non occorre dire. ***


Autrice.
Salve ancora tutti! Cavolo, il 3° capitolo. Per ora come va?
Spero almeno di andar bene per voi, miei Cari Lettori <3 La storia va avanti,
Il povero Jean non capisce cosa davvero lo assilla, e si sente sempre più
solo, perchè combatte una guerra con se stesso.
Autrice, che sono io, vi saluta e vi lascia un augurio di buona lettura, leggete e se volete recensite. Lasciate un commentino.
Al prossimo capitolo~
 

Capitolo 3
Quello che conta tra amici non è ciò che si dice, ma quello che non occorre dire.


Scena. 
Il respiro tanto pesante, tanto da sentire i polmoni lamentarsi, scoppiare per poi aver di nuovo un disperato bisogno d’aria, che sembrava mancare ogni passo di più-          
Quel freddo gelido, nelle tenebre profonde e così tanto nere, da fargli credere che ci fosse qualcuno lì nascosto in esse, che rideva di lui e della sua paura. Quella paura.      
Il nero l’assorbe, nella corsa disperata. Allunga una mano, verso il nero infinito. Cosa spera di poter afferrare con la sua esile mano? Pensa di poter battere quel buio tanto nero, tanto forte, tanto opprimente, da richiamarlo nel profondo?       
“Jean”
Il sussurro lo sente ancora. Più volte. Chiama a squarciagola, sperando di risentirlo ancora. Ma, d’un tratto, c’è solo silenzio.               
Lui, il nero ed il silenzio.              

***

Tenne stretto il lembo della coperta, fissando il soffitto, come se avesse appena visto un fantasma.   
Calmo, Jean, calmo. Continuava a ripeterlo, senza alcun effetto.                          
Si accorse di aver premuto con forza una mano sul petto, stringendo la maglia con cui era andato a dormire.
Dopo aver ripreso un poco di fiato, come dopo un’apnea troppo lunga, si guardò attorno. Nessuno dei dormienti lo aveva sentito, a quanto poteva sembrargli.    
Voleva scendere, per potersi bagnare il viso d’acqua fredda, bere un poco, magari rilassarsi qualche secondo, ma non voleva rischiare di svegliare i compagni.              
Che seccatura.. pensò.
In realtà era preoccupato per se stesso. Quel sogno lo disturbava molto, non solo per il fatto del sonno, ma anche per via di quel miscuglio di sensazioni tanto sgradevoli.   
Decise di rimanere immobile a fissare il soffitto di un colore indefinito, nella penombra. Dalla finestra, potevano penetrare alcune luci della notte. Il faro del giardino dell’istituto, la luce della luna. Niente si muoveva, né si sentiva. Si voltò su un fianco. 
Lui alloggiava nel letto in alto. Dinanzi a lui, parallelo, c’erano le piccole spalle coperte dalla pesante stoffa di un lenzuolo dal colore un poco slavato ed i capelli biondi di Armin. Di sotto, Jean poteva vedere il viso rilassato di Eren, dormiente. Be, rilassato per dire. Le poche volte che lo aveva osservato dormire –durante il pre-corso- sembrava sempre corrucciato. Le palpebre sempre strette, come se non volesse tornare nella realtà, e rimanere nel mondo dei sogni. I capelli castani tutti spettinati, lo facevano sembrare ad un riccio.
Sei una testa dura, Jean.            
Irritazione.        
Impara a non guardare solo te stesso, magari diventerai una persona forte. E non una persona sola.
Le parole non sembravano intenzionate a svanire.        
La mente vagò tra i pensieri.     
Com’era davvero essere amati? Se lo chiedeva spesso, in quel periodo. Voler bene davvero a qualcuno ed esser ricambiato. Jean era stato molto solo, nei suoi anni di vita. Non per chissà quale motivo, lo aveva deciso da sé. Non si fidava di altre persone, se non di se stesso.    
Qualcuno soffre.            
Vedendo le persone sofferenti per amore, poteva sentire lo stomaco chiudersi per la stupidità altrui. Almeno, così pensava. Nel pensare che qualcuno stesse soffrendo per lui, gli sembrava strano quanto stupido, ma anche abbastanza snervante.        
Anche se non aveva troppi amici e non era di certo la persona migliore su altre, non voleva assolutamente che qualcuno soffrisse. Non per lui.   
Se solo Jaeger mi dicesse chi sia.  Si voltò dall’altra parte, verso il muro.              
Si sentì stranamente meglio, in uno spazio più ristretto. Poggiò la fronte sul muro freddo, chiudendo gli occhi. Non è il momento di sognare, non è il momento.            

***

Nella grande mensa, miriadi di ragazzi e ragazze sedevano sui vecchi tavoli per pranzare. La stanza era enorme, con i muri in cemento ed i pavimenti in linoleum grigio/azzurro.       
La colazione consisteva in pane, due piccole vaschette di marmellata all’albicocca o frutti di bosco –a scelta-, ed una bevanda tra cui scegliere, thè, latte o succo di frutta.   
Con la sua colazione, Jean prese il vassoio, si voltò dando le spalle alla cuoca e si guardò attorno per cercare un tavolo vuoto. 
Il vociare era immenso, tra schiamazzi, risate e piccoli bisbigli nascosti dal baccano. Oppure c’era chi, come Annie, se ne stava per sé. In un tavolo, a mangiare in pace. 
Convinto di cercare un tavolo vuoto –impossibile impresa- camminò senza meta, prima di sentirsi chiamare.
  «Jean!»            
Stranamente gli vennero i brividi lungo la spina dorsale. Agitò un poco la testa, voltandosi nella direzione ove il suo amico lentigginoso agitava una mano, sorridendogli. 
Si avvicinò, come una volpe in avanscoperta. «Cosa c’è?» gli disse.       
  «Volevo» si guardò attorno «Volevamo chiederti di unirti a noi.» disse Marco.             
Al tavolo erano seduti Connie, Marco, Reiner ed Armin.             
  «Non mi dispiace.» rispose con nonchalance, mentre si sentiva un poco confuso. Non sapeva cosa dire né cosa fare. Non capiva questo senso di smarrimento. Forse perché, durante il pre-corso, si era sempre portato un suo pranzo ed aveva mangiato sempre da solo.         
  «Welcome home, Jean!» disse entusiasta Connie.       
  «Connie, si dice quando una persona ritorna a casa.» lo corresse ridendo un poco Armin.       
  «È la stessa cosa! Insomma, gli amici sono la casa, no? Una famiglia, dove c’è la famiglia, c’è casa.» disse convinto il ragazzo dal capo raso, che prese una fetta di pane con la marmellata rossa e la mangiò con foga.
Jean si voltò verso Reiner, silenzioso, rideva guardando gli amici.           
Armin agitò la testa in segno di sdegno, ma non fece a meno di sorridere.        
  «In fondo ha ragione il pelatino.» disse Reiner «La famiglia è casa, e gli amici sono una famiglia.»        
  «Grazie per avermi dato ragione, Reiner. No, aspetta. Come mi hai chiamato?!»         
  «“L’amicizia è il matrimonio dell’anima.”» recitò Armin.           
  «Armin, non è quel tipo di affetto.» disse Connie.       
  «M-Ma no, Connie, lo disse Francois Marie Voltaire Arouet.» lo corresse Armin.         
  «…Hai strani amici, Armin.» disse Connie, ingenuamente.       
Reiner rise, nel mentre osservava la scena. Jean sorrise, e guardò Marco – seduto dinanzi a lui- che sorrideva anch’egli. Lo guardò a sua volta, avvicinandosi per sussurrare qualcosa. Jean si fece vicino. 
  «Una famiglia. Non sei solo, Jean.» disse gentilmente. Il moro si sedette di nuovo, mantenendo il suo sorriso, rivolto ora verso Armin nel vano tentativo di una spiegazione al povero Connie, convinto delle sue idee.
  «Io preferisco: “Quello che conta tra amici non è ciò che si dice, ma quello che non occorre dire.”» sussurrò Marco.    Jean lo guardò senza capire.    
  «Albert Camus. Un filosofo francese. È una frase che mi piace molto, perché vera. Non credi?»          
Jean ci pensò su, senza trovare una vera risposta. «Forse sì.»  
Marco gli sorrise, contento.      
A Jean sembrò che Marco stesse nascondendo un qualcosa, dietro quel suo sguardo.               
La mattina fu abbastanza rilassante, facendogli dimenticare l’incubo, insieme a quel turbinio di stressanti sensazioni, tanto contrastanti tra loro.     
Dopo la colazione, ogni ragazzo nella mensa cominciò ad alzarsi. Pian piano si svuotò l’enorme stanza, mentre piccole mandrie si dirigevano verso i propri corsi.          

***

Per le prime ore, fu solo un poco noioso. Molto spesso facevano teoria, tattiche di guerra, un poco di geografia e storia, poi materie normali come matematica e qualche esercizio fisico. Ma era solo lunedì. Le cose “toste” che Jean attendeva, venivano dopo. Dopo tutta la teoria.    
In fondo, sembrava più una scuola che un istituto militare. Ma se servivano anche quelle sciocchezze, allora si sarebbe impegnato per esser il primo.  
I superiori erano severi quanto basta, soprattutto il Caporal Maggiore Levi. Se la prendeva soprattutto con Eren –a Jean non dispiaceva affatto. Ognuno di loro aveva delle ottime qualità ed abilità, che lui sperava di acquistare con il tempo.                       
I corridoi del penultimo piano erano opprimenti, con i muri colorati con un giallo smorto, con le colonne in legno sui muri. Le porte non dipinte e rovinate ne davano un’aria ancora peggiore. Il pavimento era di un parquet molto scuro e rovinato dal tempo. Ma che bel posto.  Commentò tra sé.  
Vista l’ora, tutti erano in giro per i corridoi con i propri amici, a pranzare o semplicemente a passar il tempo. Prima di tornare nelle aule.         
Jean passeggiava nei corridoi, cin una sensazione di smarrimento alquanto strana, e con un’emicrania tale da costringerlo a fermarsi e sedersi a terra.          
Era solo.             
Si sentì rovesciare addosso una strana stanchezza e non fece a meno di portarsi le ginocchia al petto, poggiar i gomiti su di esse e posare la testa sulle braccia. Socchiudendo gli occhi, l’ultima cosa che vide fu un albero che sembrava salutarlo dalla finestra. Agitando le sue fronde, in balia del vento.      
 
A volte veniva assalito da immagini sfuocate, quasi inverosimili. Che non poteva spiegarsi. Una volta intravide un viso, ma non lo definì per bene. Un brutto scherzo dei suo inconscio, pensava.
Ora strane immagini lo assalivano, una corsa, tra delle case in pietra, una via sconosciuta. Sente l’odore di morte, perché? Non si trova a Londra, ne è certo. Ma dove? Quando vede queste immagini, pensa alla sua immaginazione.   
Ora corre. Sente mancargli l’aria.            
La corsa sembra tanto lunga.    
Non vuole voltarsi, potrebbe vedere il mostro.               
Non vuole morire.          
Aveva promesso che la sua vita sarebbe durata, che avrebbe sfruttato ogni secondo.
Non vuole non rispettar la parola data.
Non vuole…      
 
   «Ehi» sentì urlare.      
Quel richiamo lo fece sussultare nel dormiveglia, facendogli spalancare gli occhi, guardandosi attorno confuso. Solo dopo riconobbe la figura di Mikasa. Era ancora seduto a terra. Lei lo guardava dall’alto.          
  «Tutto bene?» chiese lei, con la sua solita voce seria. Portava la sua solita sciarpa scarlatta, una camicia bianca a maniche lunghe con  sopra un cardigan nero un poco sbottonato sul davanti. Aveva in dosso dei pantaloni neri anch’essi e degli stivali. Il tutto la rendeva bella, anche se con quel tono privo di colore –fatta eccezione per la sciarpa.
  «S-Sì, tutto ok.» rispose il ragazzo, mentre si passava una mano sul viso mezzo addormentato. Ci pensò su. In quel momento lei lo stava guardando dall’alto, ma era sempre così. Lei era un livello diverso dal suo. Lei era lontana. E questo lo faceva sentire un idiota, soprattutto perché non ne capiva il motivo.   
  «Ti ho sentito urlare.» disse, senza aggiungere altro. 
  «Urlare?» lui si alzò. Ora si trovava i suoi occhi paralleli ai propri.           
  «Sì.»   
  «Mh.. e cosa urlavo?»               
  «Non capivo bene, ma quel che ho capito era “Non voglio”»  
Jean fece un’espressione alquanto perplessa, cercando di riportare alla mente ciò che poteva aver provocato tale reazione. Ma non trovò nulla. Scrollò le spalle.     
  «Non so.»       
  «Se è tutto ok, allora vado.» disse seria, mentre si allontanava «Eren ed Armin mi aspettano.»           
E così, come era comparsa, era svanita. Come un petalo nel vento.      
Jean rimase parecchio tempo immobile, a  fissare la finestra. Al di fuori, alcuni ragazzi si affrettavano a rientrare, spengendo sigarette, buttando le cartacce o ridendo con i compagni. Magari parlando di quel che avrebbero fatto quella sera.     
Lui non poteva far a meno di pensare. Non voglio.. cosa poteva averlo scatenato? Si vergognò di quella sua mente così debole, e soprattutto di aver urlato dinanzi a Mikasa. Che idiota.           

***

Ore più tardi, si ritrovò nella sua camera.            
L’emicrania tamburellava divertita, mentre provava –inutilmente- a massaggiarsi le tempie.   
Voleva tanto buttarsi nel letto a dormire, ma non ne trovò né voglia né coraggio. Dover affrontare il buio da solo ogni notte era dura.            
Scacciò via quel suo pensiero codardo, stupendosi di se stesso.             
Si mise chino sulla scrivania, provando a fare gli esercizi assegnatogli nelle ore precedenti. Rimase così per circa 2 ore, prima di guardare l’orologio, rassegnato e spossato. Erano circa le 7:40.          
Dovrebbe essere ora di cena, ma non ho voglia di scendere con questa faccia.
Sentendo lo stomaco in silenzio e la mente ancora altrove, decise che fu la scelta giusta. Rimase lì, a leggere un libro, guardare la propria valigia e rimaner a fissar il vuoto.    
Accanto al suo letto a castello, notò un blocco di disegni poggiato su un angolo della scrivania alla ben viene. Lo prese, sfogliandolo.    
  «Wow.» sussurrò tra sé.          
I disegni erano di uno spettacolo, tra ombreggiature –chiaro scuri soprattutto a matita-, alcuni soggetti sembravano presi a caso, o forse erano solo inventati. Tra questi, però, ne riconobbe due. Uno era un ritratto del volto di Mikasa, con uno sguardo molto vivo –quasi più di quando l’aveva vista nel corridoio- ed uno era suo. Un profilo di lui stesso. Chi mi ha disegnato?        
Osservò il disegno.        
Quanto aveva pensato di diventare un altro, o di poter vedere con occhi altrui il se stesso che era il quel momento, per capire come apparisse e cosa veramente pensassero le persone di lui.               
Cosa dava a vedere, a chi lo guardava?
Dal disegno, provò ad indovinarlo. Ma non vide nulla, a parte un viso che vedeva ogni giorno e che non poteva abbandonare.  
Posò l’album da dove l’aveva preso, concentrandosi nel rimettere a posto i propri libri.             
  «Ehilà, Jean.» disse una voce, dal tono divertito.                          
Jean sussultò, voltandosi di scatto. «Ma che ti salta per la mente, Marco?!»    
Quest’ultimo rise di gusto, vedendo la faccia dell’amico così irritata e allo stesso tempo congelata dallo spavento. Marco chinò il capo, scusandosi.           
  «Non bastano le scuse, maledizione. Mi hai fatto perdere un anno di vita, sa?»           
  «Ne dubiterei, Jean.»
Jean sbuffò, accorgendosi di aver fatto cadere alcuni libri. Si piegò a raccoglierli, seguito a ruota da Marco.
  «Ti aiuto.» disse il moro.           
  «Non devi, non preoccuparti.»             
Ci fu un attimo lunghissimo di silenzio, che Jean non riusciva ad interpretare.  
  «Sai» cominciò Marco «Mikasa mi ha chiesto che cosa ci facessi nel corridoio a dormire, oggi.»            
Jean sentì uno strano imbarazzo.           
  «Non sapendo cosa risponderle, le ho detto che eri rimasto la notte a studiare e che avevi fatto tardi.»
Jean non aggiunse nulla. Raccolse un mazzo di fogli caduti a terra, li rimise in un libro e si ritirò su.           
  «Jean..» disse, con sguardo preoccupato, Marco «Ti ho sentito, stanotte.»    
Jean rimase un poco paralizzato, sperando di non aver urlato, come in precedenza in presenza di Mikasa.
  «Davvero?» chiese Jean, dandogli le spalle.    
Marco lo guardò malinconico, spostando poi lo sguardo a terra. Si rialzò, con in mano dei libri.                
  «Sì, Jean. Ho solo sentito un rantolo, ero ancora addormentato e non so se hai detto davvero un qualcosa di sensato. Sta il fatto che ti sentivo ansimare, come se ti fossi spaventato.»     
Jean posò i libri sulla scrivania. 
  «Cos’era, Jean?» chiese flebile Marco.             
Nessuna risposta.          
  «Jean…io voglio solo poterti aiutare.» disse, ancora più compassionevole.      
Jean non ne aveva bisogno. Compassione. «Niente. Un incubo come tanti.»   
  «Sicuro?»        
  «Che ti frega?»             
  «Sono tuo amico, non voglio che un incubo o altro ti tenga lontano dal sonno. Quindi te lo chiedo ancora. Cos’era, Jean?»               
Jean si sedette sul letto a castello, con i gomiti appoggiati sulle ginocchia e lo sguardo basso. Marco gli si sedette di fronte, sulla sedia accanto alla scrivania.             
Jean gli raccontò un poco del incubo, saltando però le altre cose. Gli raccontò del buio, della corsa, di quella sensazione terribile di non fare in tempo e di poter perdere qualcosa.        
  «Cosa cerchi di afferrare?»     
  «Non lo so. Mi sveglio prima…di esser risucchiato.»    
Marco sembrò ragionarci sopra.             
  «E da quanto…?»         
  «Dalla fine del pre-corso.» Jean si chiese perché si stesse aprendo tanto con lui. A cosa poteva servire?
  «Il pre-corso? Quindi è circa un mese e più che non dormi?» 
Annuì piano, seduto sul letto. A testa bassa.    
  «Credi sia collegato a ciò che mi hai raccontato l’altra sera?»  
  «Cosa intendi?»           
  «Quel che ti ha detto Eren. Magari, dopo quel fatto, ti sei chiesto se davvero sei così solo e se finirai questa vita in questo modo. Magari per questo.»      
Lentiggine umana non poteva aver tutti i torti. Ma come si potevano spiegare quelle immagini sfuocate che a volte gli apparivano alla mente? Come flashback di cui non ricordava l’esistenza. Ma lo avrebbe scoperto da solo.        
  «Forse.» disse Jean. Di colpo sentì un nodo alla gola. L’emicrania era aumentata. Nella testa, quel suo caos, non faceva che peggiorare le cose.        
   «Esattamente…cosa provi?»                 
  «L’oscurità..» 
Marco lo guardò senza capire. 
  «Non sono una persona debole, eppure quel sogno, uno stupido sogno, sembra poter abbattermi tanto facilmente. Quel senso di perdita, di angoscia, non solo le provo sulla mia pelle ma mi sembrano tanto famigliari. Come se sapessi cosa stessi perdendo, come se l’avessi già perso tanto tempo prima. Ma dove? Perché? Che cosa? Io ho scrutato troppo nell’oscurità, ed ora è l’oscurità che si diverte ad usarmi come un burattino. Quando allungo la mano…sento…come la speranza di poter riuscire, questa volta.» Jean si poggiò una mano sul volto «Quando finirà? Queste sensazioni, emozioni non mi abbandonano durante il giorno…mi sento tanto solo, come se, abbassando lo sguardo, avessi paura di vedermi sparire ed esser risucchiato nel buio…perché…be, sì, perché la mia vita non è tanto lontana da quel incubo…Non sono una...persona debole.»                            
Marco sembrò voler metter a tacere quella voce. Perché non era più Jean a parlare. La voce del amico era tanto spezzata, flebile. Non era la stessa, non sembrava venire dalla stessa persona quella voce piena di angoscia e tristezza.
Marco gli poggiò una mano sulla spalla. Jean alzò di scatto lo sguardo. 
Bastò quello.    
Non parlarono.
Rimasero a fissarsi, nel silenzio.              
Non servivano parole, perché Jean aveva capito. Una famiglia. Non sei solo, Jean.      
Marco spostò la mano, cambiando quella sua espressione preoccupata in un sorriso sincero.  
  «L’oscurità non può prenderti, non finché avrai una luce.» disse Marco, alzandosi.     
  «Una…luce?» chiese Jean.      
  «Ci siamo noi ad illuminarti la strada, Jean.» disse un poco ingenuo «Porterò sempre con me delle pile di ricambio ed una torcia, nel caso dovessi cercarti nel abisso. Non ti lascerò affondare, questa è una certezza.»
Così dicendo, Jean rimase meravigliato. Piacevolmente meravigliato. Si alzò abbracciando calorosamente l’amico. «Marco io..» tentò di ringraziarlo, ma fu interrotto.       
  «N-Non serve dire nulla, Jean.» disse, dandogli una pacca sulla schiena.          
Quando Jean si staccò da quel abbraccio, si sentì stranamente meglio. Tanto da sorridere. Un’emozione nuova, tanto bella e consolante. Felice, poteva dire.           
Marco si guardava attorno, grattandosi nervoso la testa. Aveva le gote un poco rosse. Jean rise.          
  «Femminuccia, non arrossire.»             
  «M-Ma che dici, Jean?» disse, ridendo anche lui.         
Quel loro ciarlare, quel loro ridere, li fece sfogare. Entrambi quei ragazzi non erano tanto diversi. Entrambi , in realtà, si sentivano tremendamente soli. Chi per uno, chi per altri motivi.            
Jean era felice. Quel vuoto dentro sé si era affievolito. Non si sentiva più così solo.                      

Poggiando piano la testa sulla porta, sospirò.   
Sentì una strana tristezza, dopo aver sentito Marco e Jean parlare. Una strana agonia e strana voglia di prendere a calci un muro. Non capiva. Perché mai? Sentire quel loro discorso, origliando quel loro discorso, non solo se ne sentì colpevole, ma soprattutto tanto turbato.         
Perché?              
Chiuse gli occhi dal colore tanto chiaro, sperando di non dover entrare nella stanza. Non ora. Non ci sarebbe riuscito.
Perché tutto ciò, solo ora?         
Le risate si attenuarono nella sua mente, perché cercava di scacciarle. Non volle più origliare, anche se forse non c’era nient’altro da dover ascoltare. Si allontanò. Smaltendo così quella sensazione opprimente che gli pesava come un pattone sul petto suo.   


 

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Capitolo 4
*** Capitolo 04- Cos’era cambiato? (Uno scontro per la pace.) ***


Autrice.
Bentrovati! Bene, siamo al 4 capitolo. Sembrerò un poco scema e scontata
Se vi dico che sono sorpresa, vero? Questo sarà un capitolo corticello.
La storia va pian piano avanti. Il nostro Jean ha trovato la luce dei suoi amici
un qualcosa che pochi trovano, o che pochi sanno davvero apprezzare. In questo capitolo troveremo
un poco di gelosia.
Caro Lettore, goditi questa lettura, spero davvero di averti emozionato, o almeno
spero che sino a qui ti stia interessando. Buona lettura

Al prossimo capitolo~
 

Capitolo04
Cos’era cambiato? (Uno scontro per la pace.)  

 

Il sole batteva sulle loro nuche.               
L’istituto possedeva uno dei più belli ma anche invidiato dei giardini. Dinanzi la struttura, si eleggevano delle siepi di bosso, potato regolarmente. Dietro la struttura, invece, vi era una grande distesa d’erba. Vicino all’uscita posteriore, vi erano degli attrezzi per la ginnastica, un capo da basket e più lontano tanto tempo prima c’era un campo da golf –ora chiuso.       
I professori allenavano i futuri soldati, in quei campi. La professoressa Hanji Zoe spronava la sua classe a correre, mentre altri erano agli attrezzi.
Jean era con la guardia alzata. Conosceva il suo avversario. Un manichino poco imbottito e poco simpatico che, con un meccanismo interno, lo attaccava con dei finti pugni –delle lunghe stecche di legno con dei cuscinetti all’estremità. Era imprevedibile dove colpisse e quando, Jean se ne stupiva.       
Il pugno arrivò da sinistra. Jean si parò, dando poi un calcio di difesa al fianco destro del manichino. Questo, oltre a dondolare un poco, non fece altro.       
Non c’è gusto però.      
Si fermò, asciugandosi il sudore dal viso.            
  «Orecchio bucato.» si sentì ringhiare dietro «Perché ti stai fermando eh? Mezza cartuccia. Continua! Il nemico non aspetta che tu ti sia lavato per bene quel brutto muso sa? Continua a lavorare.» disse l’istruttore.
  «S-Sissignore!» rispose Jean. 
Ricominciò a picchiare il povero ed inerme manichino, mentre quest’ultimo ripartiva a dargli i soliti colpi netti da direzioni diverse. Orecchio bucato, ah forse per via del mio orecchino. Che simpatico. Pensò.    
Nel mentre combatteva –quella che gli sembrava una lotta solitaria- Jean ascoltava le voci alle sue spalle.
  «Palla da bowling! Ti sembra il modo di combattere questo? Mangiando?! Alza quelle chiappe flosce e strozzati con quel panino. Continua il tuo lavoro! E tu, perfettino? Vuoi che ti unica i punti che hai in faccia?! “Incompetente” ecco cosa troveremmo scritto unendo i puntini! Avanti, colpite forte!» la voce aggressiva dell’istruttore tanto ruggiva, da lasciar impauriti e sconsolati ogni recluta.         

***

Poco dopo, Jean si spostò per usare altri tipi di attrezzi, per potenziarsi di gambe e non di braccia. Non che non fossero agili, ma sempre meglio tenerle in allenamento.  Si sentì un qualcosa di pesante sulla spalla. Si voltò, con il sudore freddo.        
  «Jean Kirschtein, allenamento corpo-a-corpo. Ora.» disse, senza cercare né ma né se. Jean non obbiettò. Si diresse senza dir nulla verso la rete del campetto.      
Il campo era contornato da una rete metallica. Veniva usato spesso per gli allenamenti corpo-a-corpo –pochi lo usavano per giocare a basket. L’istruttore lo guardò andare, per poi voltarsi. Faceva sempre così.
Jean, avvicinandosi, cominciò a sentire una strana rabbia montargli dentro.     
Dall’altra parte della rete, c’era Eren Jaeger.     
Bene, un modo per rifarmi. Pensò.        
Eren si stava legando alle mani una fascia bianca protettiva, facendo qualche saltello sul posto come sovrappensiero. Jean aprì la rete, cercando di non farsi troppo notare dal suo avversario. Eren non alzò lo sguardo. 
Si diresse verso il centro del campo. Guardò poi il compagno, che nello stesso istante lo guardò. Jean guardò poi a terra, sulle bianche righe scolorite del campo.           
Eren  lo guardò quasi con diffidenza, mentre si posizionava dinanzi a lui.            
Tristezza, angoscia, rabbia e frustrazione. Jaeger, oggi sarai il mio manichino. Pensò perfidamente, tanto da non riconoscersi in tale pensiero.    
Il primo a muoversi, fu Eren. Cominciò a girare in tondo, come un lento inseguimento tra lui e Jean. Anche quest’ultimo si mosse, camminando a passo lento. Jean teneva la guardia alta, Eren aveva le mani rilassate lungo i fianchi.     
  «Cominciamo.» disse poi.        
  «Cominciamo.» ripeté divertito Jean.                
Eren scattò in avanti, caricando un destro che lo mancò di un soffio. Jean era ben conosciuto per la sua velocità ed agilità. Eren era un tipo che dava pochi colpi giusti con la tecnica giusta, ma quei pochi erano dati con tanta forza da trasmettere alla povera vittima colpita la rabbia che egli stesso provava.              
Nello schivare, Jean rischiò di cadere, ma riacquistò l’equilibrio. Eren si voltò verso di lui, sorridendo.  
  «Come sei bravo a saltare, ballerina.»
  «Potrei dire lo stesso della tua mira, bella talpa.»         
Stranamente, era quasi divertente. Era quello che amava del loro rapporto. Il potersi prendere in giro, prendersi a pugni o litigare, ma ogni cosa veniva messa da parte. Erano amici. Cos’era cambiato, da quella notte? 
  «Rieccomi.» disse Eren.            
Scattò ancora, colpendolo con un sinistro un poco spento in confronto ai suoi soliti colpi. Lo colpì in pieno volto. Jean fu scaraventato indietro, ma mantenne ancora la retta postura. Non voleva cadere. Cadere sarebbe stata la fine.            
  «Deboluccio oggi, Jaeger.»      
  «Zitto, non parlare.» sputò quelle parole come una condanna. Con voce spezzata ma rauca, come se non fosse lui a parlare, ma qualche strana figura in possesso del corpo di Eren.             
  «Zitto? Ehi, chi ti da il permesso di darmi ordini?» non appena aprì bocca, Eren partì di nuovo, questa volta con una raffica di colpi. Jean cercò di non farsi sopraffare.         
Destra.
Sinistra.
Destra. Un calcio.           
Schiva.
Jean non poté che sottostare a quella raffica di colpi, facendo il possibile. Eren era come fuori controllo. Oppure lo faceva a posta? Senza pensarci troppo, Jean gli stampò il volto un pugno, che lo fece piroettare di un poco. Non cadde, solo perché la rete dietro di lui lo sorresse. Eren vi si aggrappò, dandogli le spalle. Poi si voltò. Ansimava.   
  «Che ti prende, Jaeger?»         
  «Non voglio parlare.»
  «Parlare? No, certo che no. Vuoi solo ammazzarmi di botte, pensando che così la rabbia vada via eh? Be ti sbagli. Non voglio essere un anti-stress, anche se lo ammetto anch’io ci avevo pensato.»
  «P-Pensato..?»             
  «Di utilizzarti come mio manichino su cui sfogarmi.»   
Eren respirava rumorosamente, mentre il sudore colava dalla fronte. 
  «Ora dimmi.» disse Jean, avvicinandosi. Poggiò la mano a pochi millimetri dalla sua testa, afferrando la rete. Così da barrargli la via a sinistra. Eren, per un attimo, guardò dinanzi a sé. Poi lo guardò in volto, distogliendo poi lo sguardo. «Jaeger. Mi devi la risposta.»   
  «Non ti devo nulla.»                   
  «Invece sì, Jaeger.» Jean agitò la rete, guardandosi poi attorno. Le reclute sembravano non pensare a loro. Chi correva, chi si riposava, chi invece faceva un poco di stretching prima di partire nell’allenamento. Puntò il suo sguardo su Eren. Cercò quei due cerchi verdi tanto potenti da metterlo in soggezione, la prima volta che li vide pieni di furia.                
Cos’era cambiato, da quella notte?                       
Nel loro primo incontro, lo ammise a se stesso, era stato troppo brusco e spaccone. Commentando quella sua forza, tutte quelle sue belle parole. Non mi piacciono le belle parole, senza dar un senso ad esse. Lo pensava. Pensava, prima. Forse erano proprio le belle parole a dar forza alle persone, più dei gesti.      
Ed Eren era bravo in questo.     
Aveva una forza che lui non possedeva. Ogni volta che lo vedeva, sentiva queste parole rimbalzargli nella testa. Jean si sentiva tanto forte. Eppure, la bocca che tanto dona forza, è riuscita a scalfirlo e quasi abbatterlo.       
Quasi.  
Lo sguardo di Jean si fece più serio e deciso. Tagliente. Eren non poté evitarlo, sta volta.           
  «Sono egoista. Sono una persona debole e sola, come hai detto tu. Avevi ragione, avevi ragione su tutto. Ma non per questo non ho sentimenti o non voglio cambiare. Io voglio poter diventare forte…non per me. Combatterò per altri, ora. L’ho capito, certo non grazie alle tue belle parole. Quindi, sturati le orecchie Jaeger.» si allontanò, senza però deviare lo sguardo «Finché vedo la luce, finché so che ci sarà, niente potrà abbattermi. Nemmeno la mia debolezza, o le mie emozioni. Sono un codardo, lo ero. Tu, sta fermo e ammira. Rimangerai quelle parole, te lo assicuro.»              
Eren non disse nulla per un bel po’. Lo fissò. Nel verde dei suoi occhi, Jean poté vedere stupore, con del rancore.       
Jean si voltò, diretto verso l’uscita del campo.
  «Credevo…in quel tuo “amici” sa?» disse, con tono un poco smorzato.                             
  «Anch’io..» sussurrò Eren.      
  «Spero di poterti ancora chiamare tale. Per ora, potrai disprezzarmi, evitarmi. Andrò avanti. Non posso farci nulla, sei una testa dura come me.» si voltò verso di lui «Siamo simili, non credi?»    
Nel mentre se ne andava, sentì il tonfo familiare, poi un colpo netto alla schiena. Voltandosi, vide una palla da basket rotolare a terra.              
Eren sorrideva, come per sfida.              
Jean lo guardò senza capire. Allora Eren mise mano al cesto delle palle abbandonato in un angolo, tirandogli una palla che –questa volta- prese al volo.                       
  «Mi chiami talpa, e tu sei sordo come una campana. Il pallone ha fatto un bel tonfo e non te ne sei preoccupato, cretino.»               
Jean sorrise in risposta, con tono ironico «Già, sarò sordo, ma almeno avrei lanciato la palla più forte. Cos’è? Sapevo fossi una femminuccia, ma non pensavo volessi non rovinarti le unghie.»    
  «Ah-ah. Che divertente. Mah, sarò cieco, ma so che farò molti più canestri di te.» Eren prese la palla –che rotolava a terra- e palleggiò verso il canestro.     
  «Ah sì? Non credo proprio, Jaeger.» strinse la palla, dirigendosi anch’egli al canestro.               

***

Raccontò tutto a Marco, quella sera. Uno sdraiato nel letto di sotto, l’altro su quello in cima.   
  «Be, a quanto pare state tornando quelli di un tempo..» disse Marco.              
  «A quanto pare. Lo spero.»    
  «Capisco.»      
Jean sospirò, seguito poi da Marco.      
  «Gli hai anche chiesto di quella notte, vero?» disse Marco, quasi in un flebile sussurro. Come se avesse paura a chiederlo.               
  «Sì, ci ho provato.»     
  «E..?»
  «Niente. Non vuole dirmi nulla. Dice di averlo promesso. Quella notte era un poco alticcio –e lo sapevo già- e se lo era lasciato scappare. Ecco perché non racconto nulla a quel cretino.»        
  «Capisco.» Jean sentì il rumore delle vecchie molle del letto dell’amico, si stava alzando «Hai già pensato a chi potesse riferirsi?»           
Jean rimase molto tempo in silenzio. Sbuffò. «Credo di sì.»      
  «Ah» esclamò «Chi?»
  «Non voglio sbagliarmi.» fu la sua risposta. Marco annuì. Jean poteva vederlo, di spalle. Dalla maglia grigia, spuntava il collo pallido di lui. Notò una leggera voglia. La guardò per qualche attimo.    
Jean si tirò su a sedere, pensando ancora a quel che era successo con Eren.    
Se lo chiedeva ancora. 
Cos’era cambiato, da quella notte?       
Senza l’amicizia di Eren, stava peggio? 
Senza poter scherzare con lui, o litigarci, per poi tornare amici, gli era mancato?             
Forse era il fatto che, quel ragazzo, avesse tirato fuori i difetti di Jean, per poi sbatterglieli in faccia senza alcun perché ragionevole.     
Tutto ciò, lo irritava.      
Ora che sembrava aver fatto una “tregua”, poteva sentirsi alleggerito. Ma non del tutto.          
Marco lo osservava con la coda dell’occhio. Era davvero preoccupato per l’amico.         
Chi stava davvero soffrendo, in quella situazione?        
Cos’era cambiato, da quella notte?       
 

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Capitolo 5
*** Capitolo 05 - [ L'eroe e la sua tragedia ] La maschera del buono (I) ***


Autrice.
Rieccomi di nuovo a voi, miei Cari Lettori.
Siamo arrivati al capitolo 5, or dunque. Come vi sembra, per ora?
Ovvio, sono una tipa lenta, quindi, i momenti migliori arriveranno con
molta, molta calma. Impazienti?
Basta con il ciarlare, questo capitolo (molto AU) sarà un poco dedicato ad un personaggio in particolare
e soprattutto lo descriveremo. Così, come nel prossimo a venire
Bene. Buona lettura a te, orsù. Grazie ancora

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Capitolo 05
[ L'eroe e la sua tragedia ] La maschera del buono (I)



Mostratemi un eroe e vi scriverò una tragedia.


L’istituto della Survey Corps era diviso in diversi allenamenti e lezioni, tra il corpo-a-corpo, l’allenamento fisico, oppure le basi di teoria –aritmetica, geometria, progettazione etc., per i piano d’attacco o per difesa-, e gli allenamenti con armi.               
Tra questi ultimi, vi sono gli allenamenti con le spade, per esempio una Claymore –un’antica tipologia di spada, usata dai guerrieri in Scozia nel Medioevo circa-, oppure tiro con l’arco, lotta con il bastone e tiro con i fucili –tra cui alcuni modelli recenti. In questa categoria, nella classe, una persona sovrastava le altre.

***

Come ogni Martedì, Jean e la sua classe, erano diretti verso i diversi corsi. Controllò più volte il foglio delle ore –essendo in ritardo, aveva una certa fretta ed una certa ansia.         
Controllò, ricontrollò. Alla fine un lampo di genio gli riportò la memoria. Era l’ora degli allenamenti con le armi da fuoco. Prese il proprio equipaggiamento –il borsone abbandonato a terra, ai suoi piedi-  e corse giù, giù per le scale.
I corsi del corpo-a-corpo risiedevano al piano terra o fuori nel giardino, quelli con armi al sotterraneo, vicino le mense. Nel mentre scendeva nelle profondità dei sotterranei, un odore di muffa ed umidità si unirono a quello di patate bollite e pane appena sfornato. L’odore gli riempì le narici. Corse, trattenendosi nel guardare continuamente l’orologio.      
Le scale in pietra sembravano tanto fragili sotto ai piedi, ad ogni passo si stupiva della loro solidità. I muri sembravano stringersi. Sollevando lo sguardo dalle scale, si rese conto che era proprio così. Scendendo, i muri si stringevano in un piccolo imbuto.               
Un tempo, quelle erano delle prigioni. Saltò gli ultimi 2 scalini e si affrettò nel corridoio. Guardando le classi ai lati del corridoio, non faceva a meno di pensare che, secoli orsono, quelle stesse stanze non erano che delle celle. Poteva sentire il freddo, la solitudine e l’angoscia, ma soprattutto gli urli che le mura avevano assorbito, per rigettarle addosso ai nuovi inquilini del castello.     
Arrivò verso un angolo, che svoltava a destra. Terza porta a destra, giusto? Sì, eccola. Aprì la porta, silenziosamente.
Dentro, le reclute erano tutte a lavoro. Nessuno lo notò entrare.          
La stanza era come una grande palestra, dalla forma ad L, ove sulla destra vicino all’entrata vi erano dei manichini. In fondo alla stanza, vi erano i tiri a segno per i fucili. La classe era tutta riunita in quella zona. Jean posò il borsone accanto a quelli già presenti, infilandosi poi tra la piccola folla accalcata.      
Riconobbe i capelli castani del suo amico Eren.
  «Ehi, Jean.» disse quest’ultimo appena lo vide «Sbaglio o sei in ritardo? Sei tanto bravo a sgattaiolare di soppiatto per non beccarti le punizioni eh?» rise tra sé, dando una pacca alla spalla del nuovo arrivato.    
  «Ah-ah, divertente Jaeger.» rispose a quel suo tono ironico «Successo qualcosa?»    
  «Il solito. Poco fa c’è stata la gara del smontare e rimontare l’arma. Ora, invece, un test sulle capacità di mira e reazione. Per ora, Reiner, io e Mikasa siamo tra i migliori. Ma non i migliori, ovvio.»          
  «Che intendi?»             
  «Ma come, guarda un po’ chi sta tirando ora.» così dicendo, Eren si spostò un poco. 
Jean si fece strada, guardando oltre le teste curiose che si scambiavano dei piccoli bisbigli.
La “lingua” della stanza ad L era come un corridoio, lungo si e no 20 metri.  I muri in pietra erano stati ridipinti di un grigio scuro e smorto, quello in fondo era rovinato e pieno di fori –stuccati male- , sul  soffitto era installato un meccanismo, che mandava avanti ed indietro delle figure di carta –come per i poligoni da tiro americani. La folla ed i tiratori erano separati da grandi vetri –anti-proiettile- rigati e sporchi, ma da cui gli spettatori occasionali potessero spiare i risultati dei loro compagni. Sulla postazione ove si sparava, Jean notò le spalle –a lui stranamente grandi, più di quanto pensasse- del suo amico, nonché compagno di stanza Marco.      
La figura di carta fu cambiata, mentre quella stracciata veniva portata via. La figura avanzò, Marco ricaricò in pochi secondi la sua arma e se la mise in spalla. 
Il suo Lee-Enfield, dalla canna lunga 640 mm, con l’impugnatura in legno un poco rovinato, con i suoi 3 kg di peso circa, dal calibro 7,62 × 51 mm, mostrava tutta la sua vecchiaia, tanto quanto mostrava la sua bellezza. L’arma, solitamente usata in guerra –nella fanteria britannica- sfoggiava il legno lucido, diritto verso il bersaglio.
Marco portava delle cuffie molto grandi alle orecchie. 
Si sentirono degli spari –ovattati dal vetro. Marco sobbalzò, mentre continuava a colpire la figura di carta. Un foro alla nuca, uno al petto. Altri allo stomaco. Altri alla testa. E così via.            
La cosa che più stupì Jean, era quel fare da “macchina” di Marco.          
Carica.
Spara.
Il bossolo che tintinnava.            
Ancora spara.   
Via il bossolo.   
Carica.
Ancora e ancora.            
Lo faceva con una certa tranquillità. Jean si spostò, così da poter vedere il viso del amico.         
Lo sguardo freddo e diritto sulla figura di carta. Quello sguardo, mai visto in quei occhi dal color nocciola scuro di Marco, fece gelare il sangue a Jean. Il rinculo mandava indietro di qualche centimetro il corpo di Marco, facendo agitare i capelli corvini di lui. Indossava solo una maglietta. Di solito –i tiratori- indossavano per gli allenamenti una tuta intera, d’un colore blu/grigio di un tessuto indefinibile quanto scomodo. Marco aveva aperto la zip e sfilato la parte anteriore, per poter tener meglio il fucile.    
Dalle maniche corte, spuntavano le braccia pallide con delle piccole lentiggini scure. Notò anche delle cicatrici, domandandosi come se le fosse fatte. Madido di sudore, continuava a sparare, ricaricare, e così ancora.          
La figura di carta tornò indietro, piena di fori.   
Jean, guardandosi attorno, notò che il pubblico guardava tra il puro ed innocente stupore e, molto probabilmente, gelosia per quello strano talento automatico del moro.              
Un lato di Marco assai curioso. Ma, in fondo, cosa sapeva di Marco?    

***

Ora di pranzo.                  
La mensa oggi si era risparmiata un poco di fatica. Aveva preparato dei panini.
Jean si diresse verso i giardini dinanzi la struttura. Vi erano siepi, piccoli alberi da frutto ed un vialetto che portava al cancello principale.         
Passò le altre persone, che chiacchieravano, mangiavano, e chi studiava in vano con un panino o un succo in mano.   
Guardandosi attorno, riuscì a trovare l’albero di pesco, che proiettava la sua ombra scura su Marco, sdraiato sotto di esso. Si avvicinò.             
Sedendosi accanto a lui, non poté far a meno di guardarlo. Aveva un braccio poggiato sull’addome, ed uno sotto la nuca. Con gli occhi chiusi, riposava, respirando flebilmente. Le fronde degli alberi producevano delle ombre e delle luci sul suo viso.     
Jean scartò il panino.    
  «Ehilà, bello addormentato.» disse Jean.         
Marco non si mosse, ma parlò «Ciao Jean.» disse, sospirando.
  «Non pranzi, lentiggine umana?»        
  «Uff, primo» alzò una mano, alzando poi un dito «Non sei obbligato a star qui con me, secondo» fece “due” con la mano «No, non ho pranzato, mi sto riposando, terzo» fece “tre” con la mano «Non chiamarmi a quel modo, orecchio bucato.» rise, aprendo un occhio e puntandolo verso di lui.         
  «Vedo che somigli sempre più al nostro allenatore, passate tanto tempo insieme per caso?» Jean addentò il panino «Cocco del maestro.»  
  «N-Non sono il cocco del maestro.» si tirò su a sedere.             
  «Be, tu dici così, ma oggi l’allenatore ti guardava come l’allevatore guarda la sua mucca più grassa.»  
Marco lo guardò, spalancando gli occhi e inarcando un sopracciglio «Mi stai dando della mucca, Jean?»             
 Jean sembrò pensarci su. «Le macchie le hai, no?»      
Rimasero qualche secondo in silenzio. 
Poi Marco rise «Me ne hanno dette di tutte i colori sulle mie lentiggini, ma nessuno mi ha mai paragonato ad una mucca.»               
Jean rise con lui. «Però è vero, sei davvero bravo a sparare.»  
  «Eh già..» disse lui, guardando altrove.             
  «Ehi, vantati un poco almeno. Se no che gusto c’è ad esser bravi in qualcosa?»            
  «Non è una cosa di cui vantarsi.»         
Jean lo guardò, inclinando il capo.          
  «Saper ferire, non è un pregio di cui andar fieri.»         
Jean apprezzava e odiava questo lato di Marco. Quello saggio. Quello che sapeva sempre cosa dire. Una persona degna di rispetto e fiducia, ovvio.             
Ma com’era diventato così?      
Jean guardò il profilo un poco assonnato del suo amico, chiedendoselo più volte.         
  «Non è una cosa di andar fieri, già.» disse Jean, con tono flebile.         
  «Li hai visti..?» disse Marco. Jean lo guardò senza capire. «I nostri compagni. Tutti a guardare me, e non la figura bianca. Ma quella figura rappresenta il nemico.»           
A Jean tornò in mente la figura di carta, piena di fori.   
  «Ora, immagina se avessi usato questo mio “talento” sul nemico.»    
Jean si congelò al pensiero.       
  «Odio questa mia parte, perché so come difendere la mia vita, uccidendone un’altra.»           
  «Non solo la tua.»       
Questa volta, fu Marco a guardarlo senza comprendere.           
  «Non sei un egoista, scemo. Sì, per difendere bisogna uccidere. Certo, non per forza, ma non lo fai per puro piacere personale.» Jean si sdraiò sull’erba «Lo fai per difendere le persone. Non è forse questo il nostro compito? Siamo i Robin Hood della situazione, non credi?» si mise le mani incrociate sotto la testa.
  «Robin Hood, dici?» Marco lo guardò sdraiarsi.             
  «“Rubiamo ai ricchi, per dare ai poveri.” Anche se facciamo del male al nemico, è per proteggere gli innocenti. No?»               
  «La fai tanto semplice, Robin.» disse Marco, sospirando.         
  «È così, Little John.» disse, chiudendo gli occhi e sorridendo. 
  «E quindi…siamo eroi?» disse con fare distratto.          
  «Siamo eroi, certo.»   
  «“Mostratemi un eroe e vi scriverò una tragedia.”» Marco lo disse quasi in modo automatico.             
  «Mh?» Jean aprì gli occhi, guardandolo. Era immobile, con lo sguardo perso nel vuoto.            
Marco…
Jean si diede uno slancio rapido con il bacino, afferrando poi l’amico in una presa. Si trascinò sull’erba Marco, tenendolo in abbraccio, mentre strofinava il pugno sulla sua testa.   
  «Come sei serio, Little John!» rise.      
  «Asp-…Jean! L-Lasciami!» anche Marco rise.  
Dopo una piccola lotta, entrambi rimasero sull’erba a ridere, fissando poi le fronde del pesco.               
  «Marco…»       
  «Sì, Jean?»      
  «Cosa ti ha fatto diventare così?» sembrò uscire dal nulla quella domanda. Comparsa per caso.          
Marco non rispose.       
  «Voglio dire…sei una persona semplice, ma forte e quindi…»
  «Te l’ho detto, Jean.» disse Marco, sollevandosi dall’erba «Non sono forte. Sono come te. Un debole, che però aiuta altri. Un debole che vorrebbe esser forte. Vorrebbe esserlo.»          
  «Vorrebbe?» 
  «A volte le maschere sono tanto pesanti.» disse sovrappensiero.       
  «Maschere…» ripeté a bassa voce. Jean sapeva come fosse quel peso. Fare la parte del duro, sempre solo. Sino all’età di 15 anni, era rimasto a casa con la madre. Il padre era sparito anni prima, quando lui era ancora piccolo. La madre non era certo un amore con lui, e lui era stato più che felice di arruolarsi ed abbandonare quel inferno. Jean è stato costretto a crescere in fretta, ed a cavarsela da sé.               
  «Non lo dico quasi mai» iniziò Marco «Ma sono passato da una famiglia affidataria all’altra. Il giudice della mia piccola città oramai è come un parente, gli assistenti sociali solo dei cuginetti insistenti.» nel mentre parlava, Jean lo guardava da dove era sdraiato. Sembrava raccontare, tappando qua e la con dei cerotti quel che non voleva mostrare. «Mio padre, non lo ricordo nemmeno.» rise, come per sdrammatizzare «Oramai sono abituato a dover far la valigia, trovare un’altra casa, un’altra famiglia. Sono debole, perché potevo provar a dire la mia, ma  ho lasciato fare…» prese un bel respiro.            
Jean si tirò su, sedendosi accanto a Marco. Nella mente gli passarono delle immagini inquietanti, di alcuni poveri ragazzi e ragazze che venivano mandati a delle famiglie affidatarie poco affidabili…         
  «Ma tutto ciò» disse Marco, cambiando tono «Mi rende forte. Pensare a come sto crescendo, magari ce la farò. Pensare a come aiutare altri. Anche se…non ho la tua convinzione, ovvio. Non sono come Eren.»
Jean diede uno scappellotto a Marco «Cosa ti ho detto di Eren? Tante parole e poca azione!» lo guardò serio, per poi sorridere «Tu sei diverso, Marco. Sei una di quelle persone che salverei per prime da un incendio» disse, colpendolo dietro la schiena. Ma perché diceva tutto ciò? Perché vederlo tanto triste, gli dava quel vuoto nel petto?      
  «Davvero?» chiese Marco, stupito.     
  «Certo! Sei mio amico, e ti devo tanto.»           
  «M-Ma che dici..» Marco si posò una mano sulla nuca –dove Jean lo aveva colpito.    
  «Ahaha che fai, mi arrossisci femminuccia?»  
  «Sta zitto.» disse, allontanandolo.       
 Jean rise, vedendo l’amico più lieto e alleggerito. Chissà da quanto lo teneva nascosto. Chissà cosa avrà provato in questi anni. Chissà quanto pesa questa sua maschera.              
Il sole si affievoliva, mentre rientravano per il riinizio delle lezioni. Un vento piacevole sfiorava i loro visi, mentre camminavano, fianco a fianco, entrambi un poco più leggeri.   

***

Quella notte, gli incubi non gli fecero visita. Lasciarono in pace il povero Jean. 
Ma quella stessa notte, vecchi fantasmi del passato si fecero arditi, bussando alla porta del povero eroe buono. Marco rimase chiuso nel bagno, senza farsi notare dai propri compagni.           
Non aveva paura, o almeno, non paura dei sogni. Ma del perdere.  Aveva già perso, più e più volte, per poi ricominciare. Era tanto facile? Lo faceva credere. Il viso stanco, lo sguardo un poco spento. Si fissò allo specchio, per poi sedersi sulla vasca. Si guardò i palmi delle mani.          
Coloro che dovevano difenderlo, si son mostrati per i bluff che davano per vincente. Le carte che avevano in mano, non valevano quel che pensavano. Uno scherzo mal architettato. Era stato ferito, e forse aveva ferito. Questo suo modo di affrontare ogni situazione, quello era il vero bluff. Marco, una volta, fu paragonato ad un sopramobile. Sempre fermo, si lasciava portar via, toccare, rompere e poi ricucire di nuovo. Una statuina di coccio.
Si accarezzò le vecchie cicatrici sulle braccia, ripensando a quel che gli aveva detto Jean.            
Stranamente, Marco si sentì perso. Perso nella propria voce, nella mente. Perso nell’eco. Una di quelle sensazione che rispuntavano a far visita durante la notte, ripensando a suo padre.       

Jean sentì di non poterla trattenere, non sino alla sveglia. Merda. Si alzò dal letto, cercando di non far troppo rumore. Notò solo i numeri colorati della sveglia, erano le 4:56. Non fece caso al letto vuoto sotto il suo. Si avviò verso il bagno, rischiando di sbattere contro il muro. Palpò la porta di legno, fredda, in cerca della maniglia.          
Non era chiusa  a chiave.            
Aprendola, rimase accecato dalla luce. Era accesa? Perché mai?             
Quando riacquistò una vista migliore, vide Marco seduto sulla vasca, fissando dinanzi a sé. I loro sguardi, poi, si incrociarono.               
  «Marco, cosa stai facendo?»  


In fondo, il passato, è legato a noi da un filo. Non si può tagliare, ma si dovrebbe. Non si può dimenticare, ma si vorrebbe. A volte, è così tanto pesante trascinarsi dietro il passato. Il futuro più luminoso è sempre basato su un passato dimenticato, Marco aveva quell’espressione, di chi non aveva dimenticato. Non poteva. Non riusciva.                         
Jean si riconobbe in quell’espressione.               
L’espressione vuota, di chi si toglie la maschera dinanzi lo specchio. Un viso tormentato dai demoni del passato…
 
Continua…

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Capitolo 6
*** Capitolo 06 - [ Le mura cedono ] La maschera del bravo (II). ***


Autrice.
Ed eccolo, il capitolo 6.
Nonché seconda parte “La maschera del bravo”
Eviterò eventuali anticipazioni, dicendo solo che, questo capitolo, è come
un "punto di partenza". Quindi, vi posso solo dire che, se siete curiosi e
non avete letto la prima parte,
sbrigatevi! Cercatela sul mio account. Va bene? Commentante, se vi va!
Be, allora buona lettura, Caro lettore.

Al prossimo capitolo~
 


Capitolo 06
[ Le mura cedono ] La maschera del bravo (II).

 
  «Marco, cosa stai facendo?»          
Il ragazzo dai capelli corvini, riabbassò lo sguardo a terra. Non disse nulla. Marco si passò una mano sul viso, come se fosse tanto stanco da non tener gli occhi aperti.         
Eppure, non riusciva a dormire. Stanco di cosa?              
Jean lo guardò, preoccupato. Cosa gli poteva esser successo? Sentì uno strano nodo in gola, come se non potesse parlare. Come se avesse paura di scoprire che, la causa della sua sofferenza, non fosse altro che Jean stesso. Che sia così? Si chiese. Chiuse a chiave la porta dietro di sé.     
Marco non riusciva a dire nulla. Nulla. Come poteva spiegargli? Jean era suo amico, non voleva addossargli i suoi incubi, sapendo quanti  ne possieda. Tanti quanto lui. Non voleva farlo soffrire.           
Jean allungò una mano, per portar un poco di conforto o almeno un poco di supporto all’amico. Marco vide la mano avvicinarsi, la scansò via.             
Entrambi si osservarono in silenzio. Marco con occhi increduli, quanto quelli di Jean.   
  «Jean, io…» sussurrò Marco. Poi si strinse ancora di più nelle spalle.   
Indossava il suo solito pigiama bianco, anonimo. La pelle era pallida, facendo risaltare ancor più le lentiggini del ragazzo. Con i capelli scuri tutti spettinati, era seduto sulla tazza, stringendosi tra le braccia. Come se avesse freddo. O forse, era paura..? Lo sguardo vuoto, osservava un punto infinito dinanzi sé.         
  «Marco, cosa succede?»          
Marco strinse i denti. Sentì la mandibola protestare e le mani, strette ad un lembo del pigiama, indolenzirsi. Gli scappò una risata amara, flebile e debole. Sollevò lo sguardo allo specchio.              
  «Chi ci aspetta qua fuori..» disse il corvino «Melo chiesi giorni fa. Ricordi?»    
Jean lo guardò senza capire, mentre si sedeva sul muro dinanzi a lui. Accanto al lavandino. Marco si esaminò gli occhi rossi e ancora assonnati, passandovi un dito. Continuò a parlare.                        
  «Siamo simili, Jean.» disse, sorridendo ma senza guardarlo in viso «Soprattutto, perché abbiamo tutto ciò a cui vogliamo bene, qui. In questo luogo. Fuori, non c’è nulla. A volte…mi sento tanto solo nel pensarci.» Marco chiuse gli occhi. Le palpebre si serrarono, mentre portava una mano al petto. «Mi manca.» sussurrò. «Non ci penso mai, perché spero di dimenticare. Ma credo…sia impossibile.»           
  «Cosa Marco, Cosa?» disse a voce bassa Jean.              
  «Mio padre.» gli si bloccò in gola, mentre parlava. Le palpebre chiuse, si mossero, come agitate durante il sonno «Mio padre, era un brav’uomo. Lavorava sodo, per poterci mantenere. Non ricordo il suo volto, ero troppo piccolo. Era anche un bevitore incallito, si divertiva con il gioco d’azzardo. Tornava tardi, a casa. Mia madre…era una donna gentile, sempre con un sorriso in volto. Tanto bella. Mi voleva bene. Ricordo una volta, in cui era davvero brillo. Non si reggeva in piedi…ed era parecchio arrabbiato. Aveva passato una giornata davvero stressante, e litigò con mia madre. Li sentii urlare, strepitare, poi silenzio. Mi rasserenai, ma non mi trattenni e scesi dal letto per vedere. Mio padre..» si portò una mano sul volto. I denti gli tremavano, come se stesse cercando di trattenersi «Mio padre, era un…brav’uomo. Lavorava sodo, per poterci mantenere, ma gli piaceva maltrattare mia madre. Maltrattare me. Non ricordo il suo volto, e spero di non rivederlo mai nei miei sogni. Non cosa successe a mia madre, non so cosa successe a mio padre. So solo che…divenni solo. Ed io..» si portò anche l’altra mano in viso. Si piegò in avanti «Io non ho fatto nulla, non ho mai chiesto nulla.  Se avessi dato me stesso, al posto suo…Se fossi…se avessi…mia madre..» si strinse le mani sul volto, sussurrando tra sé  «Dovrei forse sparire...»
Jean si alzò di scatto, afferrando Marco per le spalle. Quest’ultimo alzò lo sguardo, sorpreso. Uno sguardo tanto vuoto e sofferente.       
  «Di cosa parli, Marco? Me lo dissi tu che non siamo soli. Abbiamo gli amici, ricordi?»                  
  «Jean, lasci-» provò a dire il moro.       
  «Marco. Non sei solo, e soprattutto non è colpa tua.»              
Marco si dimenò, staccandosi dalla presa di Jean. Che però non si arrese.         
  «Quello che ti fece tuo padre, ciò che successe, ciò che provi, forse non posso saperlo. Ma non ce né bisogno. Non sei come quel mostro, non sei lui.» si ricordò dei compagni di stanza, che dormivano, abbassò il tono della voce. Marco si alzò, guardandolo in volto.   
  «Mi spiace, Jean Sto bene, non volevo farti stare in pensiero.» gli sorrise.      
  «Certe volte mi fai davvero incazzare.»            
  «Eh?» Marco non capì, e non ebbe tempo di pensar troppo alla cosa. Jean lo prese e lo trascinò al muro. Non ebbe più vie di fuga.
  «Sei così gentile, ti preoccupi tanto degli altri. Metti gli altri prima di te stesso. Mi fai incazzare, con i tuoi bei discorsi.» gli afferrò il colletto del pigiama «Perché hai sempre ragione, alla fine. Ma la cosa che davvero. Davvero. Davvero mi fa incazzare di più, è il fatto che non ti freghi nulla di te stesso.»  
  «Jean..» cercò di bloccarlo, afferrandogli la mano.       
  «Marco, tu eri la persona forte.» strinse i denti, facendo un respiro profondo «Non importa come avessi trattato le persone,  tu mi aiutasti, sempre. Riesci ad oltrepassare il muro che avevo creato con tanto riguardo. E questo, mi faceva davvero incazzare…eppure…mi dava pace.» gli lasciò il colletto «Ora, non puoi certo parlare così! Non sei stato forse tu a dirmi che la famiglia sono gli amici, e ora? Siamo amici, e d è mio dovere aiutarti. Nel bene. Nel male. Nel dolore o meno. Mi da il nervoso, vedere che la persona che più stimavo, di colpo mi somiglia tanto, e non ha speranze a se stesso. Non rimaner bloccato, Marco. Lascia che…ti prenda per mano, per favore.» si mise ritto sulla schiena «In fondo, sono in debito con te.»              
  «Jean, non voglio che tu…» Marco tremava, come sul punto di piangere. Perché mai piangere? Qualcosa mise in moto il corpo di Jean. Il suo pensiero, fu solo: No, non piangere. Non riuscì a spiegarsi il perché. Con molta nonchalance, Jean prese il braccio di Marco e lo trascinò in doccia. Marco non capì, e si ritrovò nella cabina in plastica semi-trasparente. Jean aprì l’acqua senza preavviso.             
  «Jean, ma ch…Jean!» Marco si agitò sotto l’acqua fredda.       
  «Ora va meglio?» disse lui, serio. «Spero ti sia svegliato.»        
  «Chiudila, chiudila!»   
  «Sveglio?»      
Marco lo guardò silenzioso. Che modi brutali. Sveglio? Si passò una mano sul volto bagnato. Pensò. Ha ragione. Per tutto il tempo, Marco non aveva fatto altro che darsi la colpa di tutto ciò. Chiudendosi in se stesso. Era diventato la persona che sorrideva, che aiutava, un puntino tra tanti. Non aiutava mai se stesso. Come potrebbe rendersi utile, se non riesce a tener a bada i suoi demoni interiori?
Era un’idiota.    
  «Già, che idiota..» sussurrò tra sé.       
Jean lo guardò, poi chiuse l’acqua. Marco si posò una mano sulla bocca. «Marco?» chiese inquieto.     
L’amico lentigginoso scoppiò in una risata, da tempo trattenuta. Una liberatoria. Una di quelle che non ti lascia via di scampo, impedendoti di piangere a dirotto, o di urlare a squarciagola. Jean sorrise.     
  «Idiota, non ti contraddico.»  
  «E tu sei volgare.» disse, facendogli una faccia terribilmente seria.     
  «Volgare? Ma di che parli?»    
  «Mi fai incazzare, mi fai davvero incazzare, io essere incazzato.» Marco fece una strana imitazione di Jean, che gli provocò un’altra risata. 
Jean prese un asciugamani, e glielo gettò in viso.           
  «Smettila, cretino. Asciugati quei capelli. Tra poco quelli la si sveglieranno.» Jean gli porse la mano.   
 Marco la guardò. Sorrise, afferrandola. Era sottile, calda, e tanto rassicurante da sentire contro la propria. «Hai ragione…hai ragione..»          
Jean sorrise soddisfatto, poi strofinò l’asciugamani sulla testa nera del amico. Spettinandogli ancor più i capelli.            
Dall’altra parte del muro, si sentì la sveglia suonare. Un grugnito sottomesso, e dei piedi che battevano stanchi e striscianti a terra.   

***

Marco spense il phon, ed uscì dal bagno.           
Vide Jean, seduto sul letto, mentre si allacciava le scarpe. Costui alzò lo sguardo. «Raperonzolo, hai asciugato i tuoi capelli?»               
  «Sì, fata turchina.» scherzò Marco.     
  «Va meglio?» 
  «Un poco..»   
  «Bene.»           
Marco si sedette accanto a lui sul letto. «Jean…vorrei dirti..»   
  «Non dire nulla.»         
  «Eh?» disse stupito Marco.     
  «Non devi. Era solo per sdebitarmi. Niente di più. Non volevo ringraziamenti.» disse, stranamente rosso in volto.     
  «Ah sì? Capisco.» disse sorridendo Marco.      
Jean guardò altrove.     
  «E tu?»             
  «Io cosa?» disse Jean.               
  «Come ci si sente a non esser più così egoisti come si pensava?»         
Jean sgranò un poco gli occhi. Ha ragione. Dopo anni, è una strana sensazione sentirsi davvero utili. Ha ragione. Sorrise tra sé. Marco lo guardò, come se potesse leggergli nel pensiero.  
  «Anche se come approcci..» guardò il pigiama sulla stufetta portatile ad asciugare.    
  «B-Be sono fatto così, non volevo. È stato l’istinto.» disse un poco irritato.     
  «Che primitivo.»          
  «Che fai, cerchi le rogne ora? Guard, non mi fermerò ad un poco d’acqua sa?»            
Marco rise, come se non credesse a tali parole. Marco non aveva certo paura delle minacce di Jean. Era anche questa una cosa che non sopportava.          
Marco abbassò lo sguardo. «Però avevo ragione.»        
  «Ragione?»    
  «Non sei così egoista.»             
  «Tch.» Jean si alzò, dirigendosi verso la porta. «La prossima volta, vienimi a cercare. Non devi tener dentro ciò che non riesce a rimanervi. E non devi avere paura…delle tue memorie.»           
Marco parve non capire. Jean gli diede le spalle.            
  «La memoria, i ricordi, non sono solo spine dolorose. Ma anche dei piccoli fiori durante l’inverno. Possono confortare…o convincerci ad andare avanti. Sono la forza e la nostra debolezza, ecco. Bisogna solo saperli tenere con cura. Sono parte di noi.»    
  «Wow Jean.» sussurrò Marco.              
  «Mi sento stranamente positivo.» disse ironico. Si posò una mano sulla testa. Sospirando. «Mi hai infettato, cretino.»                
  «Meno male.» disse Marco. Sospirando.         
Non capiva bene quel miscuglio di pensieri. Non voleva vederlo soffrire, e questo lo faceva sentire strano. Semplice quanto complicato.  «Da oggi in poi» iniziò Marco «Impegniamoci insieme. Demoni o maschere che ci saranno, ostacoli o strade libere. Insieme.»            
Jean si voltò a guardarlo.            
Marco sorrideva. Sinceramente. Non sembrò servirgli una risposta immediata «Grazie, Jean.»              
Uno strano palpito, lo fece sussultare. Salutò l’amico, per poi uscire con la sua borsa. Marco rimase seduto sul letto, con una mano sospesa.

***

Jean camminò a passo veloce nel corridoio.      
Si sentiva rinvigorito. Stranamente più allegro. Il discorso –o meglio dire, la tiritera- che aveva sbattuto in faccia a Marco, era vera anche per se stesso. Insieme. Quella parola lo aveva fatto sussultare. Eppure si sentiva tanto entusiasta. Come se gli avessero restituito un qualcosa, da tempo perso.          
Corse nel corridoio, verso la sua aula. Insieme. Era vero, non era solo.
Marco rimase un poco imbambolato, per poi posare la mano –sospesa poco prima in aria-  sul petto. Sentiva il cuore nel cessare del suo sussulto frettoloso. Poco prima, voleva solo piangere. Urlare. Scomparire. Quando, in realtà, doveva solo venir svegliato. Jean lo aveva fatto, mentre altri non vi erano riusciti.  
Ora sorrideva. Sentiva che poteva davvero tener i ricordi a bada. Continuare, senza doversi voltare indietro. Sentiva più vicino Jean, e questo gli scaldò inaspettatamente il cuore. Avrebbe continuato, non più solo.
Si alzò, prendendo la sua borsa. Aprì la porta.  
Insieme.             
Sono sempre così ottimista?     
Si diresse a lezione. Lasciandosi dietro le schegge e le tracce. Quei resti delle sue maschere. Ora distrutte. Li lasciò alle spalle. Sarebbe stato sincero con se stesso, e con lui.  


Il muro era stato abbattuto, e finalmente si sentì inverosivilmente libero. Fu lo stesso, per entrambi.            
Un nuovo fiore, da poter ammirare nei giorni di pioggia. Il ricordo, del nuovo inizio.            

E i giorni, passeranno, col sbocciare di altre gemme..   

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Capitolo 7
*** Capitolo 07 - Il cuore e la mente. ***


Autrice.
Ehila, eccoci dunque al capitolo 7.
Wow ragazzi, non credo di esser arrivata sin qui. Non credevo di arrivarci
Sono una persona che ha delle idee, ma che molto spesso rimangono
chiuse in un cassetto per molto, molto tempo.
Quindi, non perdiamoci nel cianciare.   
Questo capitolo è un poco un altro “ponte”.
Be, vi auguro come sempre buona lettura, Cari lettori!

Al prossimo capitolo~
 



Capitolo 07
Il cuore e la mente.



Il cielo era piatto, eppure di un divino splendore.           
Il gelo stava pian piano svanendo, così come i colori spenti della città. Il sole batteva forte sulle abitazioni, sulla grande torre dell’orologio, sul London Eye, così come per il resto della città.
La gente passeggiava allegramente per le strade. Maniche corte, cominciavano a sostituire i giacconi e felpe dei ragazzi.               
Nel mentre osservava da lontano il Millenium Bridge, Jean non poté far a meno di prendere una boccata d’aria. Il venticello era piacevole sul viso.  
La mattina precedente, era stata organizzata un’uscita. Eren –colui che aveva organizzato tutto ciò- era tanto emozionato, quanto irritante. Dopo le lezioni, si diedero appuntamento al “The Wall”, un bar.          
Jean si guardò la punta delle Converse rosse, mentre scendeva le scale per andare in metro. Si guardò attorno, cercando chissà quale viso familiare. Non trovò nessuno.              
La gente era accalcata all’interno dei vagoni, sembrando tante piccole sardine in scatola. Quando si aprirono le porte, alcuni di troppo rischiavano di cader fuori. Altri si catapultarono nei vagoni strapieni, tra questi, Jean cercò di sovrastar la calca. Sfortunatamente non trovò un posto libero. Rimase in piedi, cercando di mantenere l’equilibrio.         
Osservò il proprio riflesso in un finestrino. Le borse sotto gli occhi cominciavano a svanire, la stanchezza c’era ancora ma migliorava. Gli incubi non gli facevano visita, se non qualche volta. Erano passati alcuni mesi dall’inizio del corso, e ancora molti dovevano superarne. Jean ripensò al fine semestre, ai voti che avrebbero avuto. Già poteva immaginare la faccia sconsolante e talmente snervante del Caporal Maggiore Levi, mentre spiegava loro quali erano i pregi o difetti delle reclute –ovviamente, nessuno andava mai bene. S’immaginò il momento in cui sarebbe diventato un soldato effettivo. Di recente, altre reclute si stavano diplomando, e Jean poteva ammirare il tutto: i preparativi, l’agitazione, l’emozione, ma soprattutto i visi fieri delle foto che sarebbero rimaste solo come un ricordo, ma che segnavano la svolta in quelle piccole vite. Jean poté immaginare quel momento, come se fosse già accaduto. Il momento in cui avrebbe fatto vedere di che pasta era fatto. Quel pensiero, però, fu sovrastato dai soliti pensieri: “Bisogna avere mente e cuore” disse una volta il suo addestratore. Jean eccelleva nel corpo-a-corpo, era veloce e scattante, nella teoria non era di certo un mago –non sarebbe diventato un Comandante, molto probabilmente- ma anche solo poter diventare capo di una squadra di poche persone, sarebbe stato un trionfo.         
Ci fu una frenata. Jean rischiò di cadere, ma si tenne in equilibrio.         
La voce meccanica annunciò la sua fermata. Si sistemò la giacca ed uscì. Non appena mise la testa fuori dalle porte del vagone, sentì l’inconfondibile voce di Connie. Si guardò attorno.           
Notò un giacchetto rosso, ed una testa pelata coperta da un orrendo berretto usato e sporco. Connie lo vide, e lo salutò con una mano. Accanto a lui, vi erano Bertholdt e Armin.           
  «Ehi Jean! Siamo qui!» urlò Connie.    
  «C-Credo ci abbia visto, Connie..» disse Bertholdt.      
  «Non urlare così, Connie!» disse Armin.           
I tre si avviarono verso Jean, che si stava avvicinando. Jean vagò lo sguardo, come per vedere se ci fosse qualcun altro. Poi salutò i ragazzi. «Siamo solo noi?»         
  «Probabilmente Eren sarà già lì.»         
  «Reiner mi ha detto si sarebbe presentato direttamente lì» disse con tono insicuro il povero Bertholdt, che cercava di tener a bada il sovra agitato Connie.     
  «Be, allora andiamo. Non voglio esser sgridato da quella principessina per esser arrivati tardi al suo thè pomeridiano.»               
Connie rise, dando una gomitata a Bertholdt, un poco perplesso. Armin sembrò un po’ troppo silenzioso.       

***

Scesero dal taxi, pagando ognuno una parte del conto.              
Si guardarono attorno, alla ricerca dell’insegna del bar. Era una zona poco frequentata di Londra. Vi erano vari ristoranti giapponesi, cinesi, tailandesi, anche svariati ristoranti italiani. Molti negozietti con svariati gadget e ricordini di Londra, straripavano dalle vetrine. Una versione spassosa della Regina, era disegnata e appesa fuori da un fast food da 4 spiccioli.               
Chiedendo alcune informazioni, trovarono la loro destinazione.             
Una scritta –da poco ridipinta- su una tavola di legno appesa su un’asta che spuntava dal muro, diceva “The Wall”. Dinanzi alle porte di legno e dal vetro –oramai non più trasparente- videro la loro “principessina”.
  «Ehi voi! 10 minuti di ritardi, ma siete peggio dei bambini, vi perdete davvero così facilmente?» disse Eren, strepitando.               
  «Oi, Jaeger, se tu non avessi la capacità di disegnare mappe, pari ad un bambino di 5 anni, forse saremmo arrivati anche prima di te.»     
Da dietro Eren, Jean notò Reiner accomodato addosso al muro, e Marco. Si sorrisero, mentre tutto il gruppo entrava dalla porta a vetri.    
Quel che, pensavano fosse un bar, si rilevò un ristorante. Un lungo bancone di legno si estendeva in fondo alla stanza, macchiato e molto vecchio. Diverse bottiglie erano adagiate su lastre di vetro –alcune sostituite da tavole di legno- dietro il bancone. In mezzo a tutta la stanza, spuntavano come funghi i tavoli con 4 sedie per uno. Dei tavoli tondi, anch’essi di legno.  
  «Questo posto» iniziò Eren «L’ho trovato per caso, passeggiando per questa zona. Ho chiesto informazioni. È qui da circa 80 anni. Prima era un ristoro per le guardie, poi un luogo malfamato nell’epoca della prima guerra mondiale, così pure nella seconda. Poi, fu dimenticato qui. Ma il nonno del padre del proprietario, decise di riaprirlo.»  
Molti dei clienti sembrano datati quanto questo posto.                              
Si sedettero al bancone, ciarlando tra loro. Una ragazza si avvicinò loro, dall’altra parte del  bancone. Chiese loro cosa volessero. Tutti optarono di mangiare un qualcosa.      
Reiner intrattenne un po’ il gruppo, insieme a Connie, con una strana imitazione del Comandante Erwin Smith del Caporale. Tutti risero quando, al posto del solito foulard del Caporale, Connie usò un tovagliolo con chiazze di ketchup e Reiner usò due patatine da appoggiarsi alla fronte per imitare le folte sopracciglia del Comandante.           
Eren ordinò due bibite, passandone una a Jean.             
  «Perché mai questo riguardo, Jaeger?»            
  «Nulla. Volevo solo offrire una bibita.»             
  «Mi vendicherò per ogni cosa tu ci abbia messo dentro.» disse ironico.            
  «Ma che fiducia, Jean.» gli diede una pacca sulla spalla.            
Jean ridacchiò, osservando la strana scena. Ora, i due attori principali, canticchiavano una strana canzone. Bertholdt si coprì il viso, ridendo ma anche pieno di vergogna. Armin cercava di trattenere una risata ed un urlo di disapprovazione, mentre Marco li osservava ridendo. Quando Marco guardò Jean, alzò un bicchiere. Jean ricambiò il gesto. Eren li osservò.       
  «State facendo amicizia.» disse poi.    
  «Chi? Io e Marco, be sì. È più intelligente di te. Soprattutto nel disegnare le mappe.»               
  «Ah sì?» Eren osservò il fondo del bicchiere.  
  «Ehi, era per scherzare sa?» disse, dandogli una pacca sulla spalla. Eren si allontanò. 
Che cretino. Pensò Jean.            
Al banco si avvicinò Armin, guardando l’amico andarsene. Poi posò il suo sguardo su Jean.       
  «Cos’è successo ad Eren?»     
  «Non so. Chiedilo a lui.» Jean si appoggiò al bancone.
Armin lo guardò, con fare comprensivo.             
  «Non guardarmi così.»              
  «Così come, Jean?»    
  «Così…come se volessi aiutarmi, come se mi comprendessi e compatissi. Odio quel tipo di sguardo.»               
Non ne ho bisogno. Giusto, non più. Non aveva bisogno di sguardi compassionevoli. Di finti sorrisi o belle parole che dicevano di aiutarlo. Non ne aveva bisogno.     
Armin prese una patatina, sgranocchiandola piano. «Eren ha la testa calda, come suo padre. Quando pensa una cosa, è difficile smuoverlo.»     
  «E con questo? »         
  «Probabilmente ora si era convinto che sareste tornati come una volta…» evitò il suo sguardo.           
  «Be, non m’importa. È lui che ha cominciato. Io oramai ci ho messo una pietra sopra, ma non dimentico. Lui invece vorrebbe eh? Be non so cosa gli dia fastidio, ma dovrà dirmelo in faccia.»          
Armin sospirò.
Jean, nel mentre, fece due più due. Marco, che sia la nostra amicizia a dargli fastidio? La risposta gli sembrò tanto ovvia, quanto improbabile. Ma non impossibile.          
Non si accorse della scomparsa dell’amico. Voltandosi si sentì stranamente solo e stupido, per non aver notato che se ne fosse andato. Bevve ancora dalla sua lattina, sospirando.          
  «Un sospiro, equivale ad un giorno in meno di vita.» disse divertito Marco.    
  «Allora durerò poco.» sospirò ancora.               
  «Non fare così, Jean. Stiamo festeggiando.» disse, sedendosi accanto a lui.   
  «Bah, che cosa esattamente?»             
Marco sembrò pensarci su un poco. «Per questo semestre, per come è iniziato, perché sta per finire. Per i nostri risultati, se buoni o brutti che siano. Stiamo festeggiando, siamo tra amici. Questo è ciò che conta.»           
  «Assomigli sempre di più ad un nonnetto di campagna.»         
Marco rise. «Forse hai ragione.»            
Per tutta la sera, non fu che bere e cavolate. Armin che veniva pettinato da donna, Connie con il suo berretto intonava una canzone poco convincente, e Reiner a prendere in giro il povero e timido Bertholdt. Fu una serata piacevole. Jean sorseggiò la sua bibita.     
  «Un giro di birra per tutti!» si sentì urlare Connie.
Sulla strada di casa, Marco si reggeva su Jean, che a sua volta si reggeva su Armin.        
Eren, Reiner e Connie avanzavano trotterellando dinanzi a loro. Qualche birra di troppo, ma non erano del tutto brilli. Jean poté godersi i visi di Armin e Marco –che non reggevano per niente l’alcool.

***

Si buttò nel letto, con i giramenti di testa per via della birra.      
Marco rimase appoggiato al muro, con gli occhi socchiusi. Entrambi ridevano come idioti, insieme ad Eren ed Armin. Tutti e quattro si misero in cerchio per terra. Ci fu una lunga chiacchierata, del più e del meno. Pettegolezzi, e svariate cose abbastanza stupide. Ma tutto per via dell’alcool. Armin si addormentò alle 23. Seguito a ruota da Eren, che non riuscì a resistere più a lungo.    
Jean si sdraiò sul materasso di Marco. Quest’ultimo era a terra, a godersi la frescura del pavimento.   
  «Una stella marina.» sussurrò tra sé.  
Con quelle sue lentiggini, poteva anche sembrar una stella marina. Jean allungò una mano verso Marco. «Marco, ma quanti puntini hai? » chiese quasi spiritoso.     
  «Puntini?» ci pensò su «Lentiggini? Bah…non le ho mai contate. Ma le ho ovunque.»               
  «Un giorno te le conterò.» si rigirò nel letto.   
Marco sembrò arrossire di colpo «M-Ma che vai dicendo?»      
  «Era per scherzare, stai calmo.» alzò lo sguardo verso di lui. Notò un tale rossore nel suo volto, da sentirsi persino lui le gote rosse. Ma scherziamo?     


Il silenzio si diffuse nella stanza. Jean si addormentò nel letto di Marco, che dormiva a terra con Eren ed Armin.           
Eren si strinse tra le braccia, come se si sentisse in colpa per un qualcosa. Come se non potesse rimediare più a quel che aveva architettato. Non più.     
Jean rotolò a terra, senza però svegliarsi.           
Tutti e quattro rimasero addormentati profondamente. Solo Marco sussultò. Trovandosi il volto dell’amico a pochi centimetri. Jean russò, si passò una mano sulla testa e sembrò cadere di nuovo in un sonno profondo.             

***

Si grattò la testa, sbadigliando. Notò con dispiacere di esser caduto dal letto. Si posò una mano sulla testa, indolenzita. Poteva vedere i numeri del orologio analogico: 2:24 a.m.           
Mamma che mal di testa..         
Cercò di muoversi, ma fu bloccato. Sentì un pesò. Stropicciò gli occhi, cercando di guardar bene nella penombra. I suoi occhi distinsero il capo corvino di Marco, appoggiato sul proprio ventre. A mo’ di cuscino.    
Bloccato, si sentì stranamente imbarazzato ed impotente.        
Marco si mosse, ma non si svegliò.        
Invece di scacciarlo, Jean lo osservò. Fece un gesto azzardato. Posò una mano sulla sua nuca, accarezzando i capelli scuri di lui. Si sentì stranamente sollevato. Come se avesse il cuore colmo di calore. Forse, per il contatto con un’altra persona.               
  «Jean…»          
Un sussurro. Jean si congelò, pensando fosse un altro sussurro. Della sua mente. Di nuovo? Gli incubi? Tornano? Li sentiva ancora ora? Ma poi si convinse che fosse solo paranoia.             
Marco si voltò su un lato, mostrando il viso addormentato. Così pacifico.           
Di colpo. Un tumulto travolse il cuore di Jean. Sentì come lo strano impulso di accarezzarlo, come per fargli sentire la sua presenza. Per rassicurarlo. Ma perché mai?      
Quando una persona rimane sola per parecchio tempo, e qualcuno si interessa a quest’ultima chiedendo nient’altro che amicizia, può succedere che la persona sola possa scambiare queste nuove emozioni –affetto puramente amichevole- in qualcosa di più forte.    
Jean sentì montare una strana rabbia, mischia a confusione –e l’alcool ancora in circolo.            
Non è così.        
Forse sì.              
No, è solo l’alcool. Dormi. Si ordinò Jean.           
Chiuse gli occhi, ma non riusciva a dormire. Sentiva il respiro di Marco, finirgli sulla maglia. E la cosa lo agitava ancor più.               
Chiudi gli occhi, non pensare a cose impossibili.              
Eppure…             
              
                    

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Capitolo 8
*** Capitolo 08 - Melodia. ***


Autrice.
E dopo una piccola assenza, rieccomi qua per voi!
Sono stata assente per via della scuola (sono partita) E, giusto per dire
all’hotel, mentre assegnavano le stanze, mi hanno dato la 304.
Non sapete quanto ero contenta *-*
Comunque sia, sto cercando di scrivere capitoli più corti ma essenziali
per non annoiare nel leggere, ma suscitar qualcosa –cosa un po' impossibile per me.
Be ci proverò. Buona lettura a te, Caro Lettore
Al prossimo capitolo~

 
 
Capitolo 08
Melodia.

 
 

L’asia lo mangiava da dentro.   
Il sole fuori faceva capolino dalle nuvole minacciose, ripiene di amara pioggia. Era incerto se, nella giornata, sarebbe rimasto il sole a splendere nel cielo. Così, come quel che stava accadendo in quel momento.   
Tutti i ragazzi e ragazze si stavano riunendo dinanzi ad un cartellone. Erano fuori dalla struttura, e molti di loro avevano indosso la tuta per il tiro con le armi da fuoco. Molti erano sporchi in viso, per le attività fisiche, altri ancora erano perfettamente vestiti ma si accalcavano ad osservare la bacheca.         
Jean sentì un groppo in gola.    
Sulla bacheca avevano appeso i voti di ogni singola persona. Chi doveva recuperare. Chi aveva il massimo. Jean cercava la propria classe, cercando il proprio nome, cercando i propri voti.             
Sapeva di essere intelligente.  
Lo dava quasi per scontato.       
L’unica pecca, era che non amava le cose scritte o orali. A lui bastava esser bravo sul campo. Non gli interessava diventare un bravo comandante –anche se l’idea non gli dispiaceva. Non capiva il senso. Perché studiare cose del genere, quando sul campo bisognava maggiormente improvvisare?             
Trovò l’elenco della sua classe.
Notò subito che Eren aveva qualche problemuccio con la teoria. Avrebbe sghignazzato di nascosto, se non fosse che c’era scritto che anche lui aveva lo stesso problema. Maledizione.    
Da dietro, sentì una mano sulla spalla. Si voltò. Eren guardava il foglio, incredulo. Come se, nella mente sua, pensasse che avessero sbagliato qualche nome. Guardò poi Jean, come per chiedergli spiegazioni. Jean non riuscì a dire nulla. Controllando gli altri nomi, notò Mikasa –tra le migliori in tutti i corsi- Armin, che eccelleva nella teoria ma era scarso nella pratica. Marco aveva ottimi voti. Alla mente, gli balenò l’ipotesi di studiare con lui. Si sentì leggermente irritato, al pensiero. Si posò una mano sulla nuca.    
  «Non preoccupatevi, ragazzi.» disse Armin «Non è andata malissimo, no?»   
  «No, ma se non prendiamo bei voti..» disse Eren, con tono esausto. 
  «..addio, vita da soldato.» terminò Jean.          
  «Perché non ci aiuti tu, Armin?» chiese entusiasta Eren. Gli afferrò le spalle. Armin rimase congelato, ma riuscì a scostarsi.               
  «B-Be potrei…ma non credo..»             
  «Sei il migliore della classe Armin!» disse Eren.             
  «Ti prego, Genio della lampada.» disse Jean. Sia Eren che Jean si misero dinanzi ad Armin, con le ,mani congiunte. Implorandolo.  
  «V-Va bene, ma non chiamatemi mai più così.»            
  «Grazie Raperonzolo.» disse Jean, dandogli una pacca sulla spalla.      
Armin lo guardò un poco irritato. Jean si scusò, mentre la campana suonava. La massa di gente, riunitasi attorno alla bacheca, defluì piano. Fino a che, non ci fu silenzio.      

***

I corridoi erano silenziosi a quell’ora. Era un sabato tranquillo, dopo la fine delle lezioni. Da fuori il sole, alla fine, era sparito, sostituito da una pioggia sottile ma fastidiosa. 
Il fuggi, fuggi generale degli sfortunati che erano rimasti fuori, era assai spassoso per Jean. Guardava le formichine impaurite dalla finestra della sua stanza.            
  «Jean!» lo chiamò ancora Armin.         
Lui si voltò, come se fosse caduto dal letto.       
  «Ti eri distratto ancora…» sospirò Armin.         
  «Scusami.»     
  «A volte non è sempre lo studio che va male.» Armin si alzò, prendendo la sua tazza azzurra, riempiendola di caffè da un termos argentato.         
Jean lo guardò senza capire.     
  «A volte, è la mente che va male.» lo guardò poi, allarmato «Non fraintendere.»       
  «Spiegati, allora.» Jean, seduto a terra, poggiò la schiena sul muro.    
  «C’è qualcosa…che ti distrae, Jean?» 
Jean non rispose. Non capiva bene nemmeno lui cosa gli stesse accadendo. Un attimo prima, non vuole nessuno accanto, dopo si sente solo e non vuole ritornare com’era in passato. Sentiva una strana stretta al cuore, era pieno di dubbi. Ma questo, non poteva dirlo ad Armin.       
  «Nah, nulla.»                 
  «Sicuro?»        
Armin gli allungò una tazza di caffè. Jean la prese. Bevve lentamente, Era caldo, in quell’atmosfera fredda. Fuori si sentì un tuono. 
  «Sei come questo cielo, Jean.» disse, con tono divertito.         
  «Non so se prenderlo come un complimento o meno.» disse Jean, indicando la pioggia torrenziale.  
  «Voglio dire, la mattina quando ti svegli, non sai dire con certezza se il sole ci sarà o meno. A volte sei assente e cupo come nebbia, altre volte vivace e solare come nelle mattine d’estate, altre ancora sei triste e chiuso in te come una nuvola piena di pioggia fredda o neve. Sei stranamente…instabile.»
Jean non sembrò reagire, ma in cuor suo sentì che qualcosa di quel che aveva detto Armin non era del tutto errato. Instabile.            
  «Spero…non ti abbia dato fastidio. Cioè, era solo una mia idea.» disse, imbarazzato.                 
  «No, no. Tranquillo.» disse. Poi si guardò attorno, grattando via una macchia inesistente dalla scrivania accanto a lui «Sono instabile, già, scandito ma ripetitivo  e sono troppo poco, vorrei aiutare ma posso solo far ricordare a me ed altri cose spiacevoli. Posso dire cose spiacevoli. Sono un sacco di cose, eh?» disse, sorridendo amareggiato.                       
Armin sembrò pensarci. «Sei una canzone.»    
  «Cosa?» disse stupito Jean.    
  «Una canzone. Una canzone instabile, note scandite ma che si ripetono spesso. Dura e da troppo poco, fai sì che nel udire qualcuno ricordi cose spiacevoli o meno, e dici. Sei una melodia unica.» Armin sorrise, ridendo timidamente. Si passò una mano tra i capelli dorati.          
Una melodia… 
Armin prese i suoi quaderni ed i suoi libri. Si diresse verso la porta «Vado in biblioteca. Vieni con me?»             
Jean fu tentato di accettare, ma non riuscì a dirlo a parole. Rimase con la bocca aperta, senza dir nulla.              
  «Va bene.» disse Armin, aprendo la porta sconsolato «Ci vediamo stasera.» 
Si richiuse la porta.        
Jean rimase da solo. Idiota. Ora sei solo.            
Era ciò che voleva. Rimaner solo. Una melodia..                             

***

Dopo aver rinunciato circa 5 volte nel suo pessimo tentativo di studio, sentì la porta aprirsi. Alzò lo sguardo dai libri, pensando di ritrovarsi davanti l’amico dai grandi occhi azzurri. 
Vide delle scarpe fradice. Uno sgocciolio. Fradicio.        
  «M-Marco ma cosa..»
Marco era zuppo da capo a piedi. Probabilmente, era una delle formichine sfortunate che erano rimaste sotto la pioggia. Il ragazzo, non sapendo cosa dire, si guardò attorno nervoso.     
  «Idiota. Vieni.»             
Così dicendo, lo condusse nel bagno.                   
Marco aveva in testa l’asciugamano bianco, Jean gli sfregava la testa mentre l’altro si toglieva le scarpe bagnate.         
  «Ho il Tamigi nelle scarpe.» disse quasi assorto.            
  «Ma che diamine dici.»             
  «Ti ho disturbato eh?»              
  «No, non preoccuparti.»          
Marco osservò gli svariati libri posati sulla scrivania e per la stanza. Posò le mani fredde su quelle di Jean, scostandole. «Dovrei cambiarmi, se no prenderò un malanno.» sorrise.        
  «Certo.» disse con tono flebile.            
Sentì il cuore rimbalzar qua e la nel petto. Come quella notte.                  
  «Magari potrei darti una mano.» disse Marco, togliendosi la camicia fradicia.                 
Jean sentì l’impulso di guardare altrove, sentiva la testa confusa. Perché? Si chiedeva.               
  «Jean?»           
  «Cosa?» disse distratto.           
Marco lo guardò, inclinando la testa. «Va tutto bene?»              
  «Certamente.»             
  «Allora lo vuoi, sì o no?»           
  «Vuoi? Cosa?» lo guardò con occhi sgranati.   
  «Un aiuto per lo studio.»         
Jean si sentì stupido per quel che aveva pensato.          
  «No, non preoccuparti.»          
  «Non mi disturbi sa? Dai, mi fa piacere.» sorrise sincero.          
  «Va bene, va bene, ma ora asciugati.»              
  «Va bene mamma.» disse Marco.       
Togliendosi la camicia, Jean notò che le lentiggini lo percorrevano non solo sul volto. Qualche macchia scura era visibile anche sulla schiena. Aveva della spalle più ampie di quanto pensasse.
Marco indossò una t-shirt nera, ed indossò dei boxer comodi. Si passò l’asciugamano sui capelli, mentre prendeva il proprio quaderno.         
  «Da dove vuoi cominciare?»   
Jean fissava le pagine, voltandole silenzioso.    
  «Jean.» Marco gli diede una schicchera sulla testa. Jean si voltò di scatto.       
  «M-Ma che ti prendere?»       
  «Chiederei la stessa cosa a te.» disse il corvino, mettendosi accanto all’amico. «Sono preoccupato. Qualcosa ti turba?»               
Jean pensò subito che Marco sospettasse del ritorno dei suoi incubi. Marco lo guardava con sguardo sincero.
  «Marco, che tipo di musica ti piace?» chiese, senza alcuna motivazione.          
  «Eh?» preso alla sprovvista, si passò una mano sui capelli bagnati «A me piace di tutto, non ho nessun gruppo o cantante preferito. Perché me lo chiedi?»            
  «Niente di che.»          
  «Dai dimmelo.» disse Marco, dandogli una pacca.       
  «Nah, non è niente giuro.» Jean rispose, dandogli una spintarella con la spalla.            
  «Io non ci credo.» disse, sorridendo divertito «Sono curioso, dai.»     
  «Niente!» disse, spingendolo ancora, con il sorriso in viso.      
  «Uffa.» rispose alla spinta. «Questa faceva male, sa?»                             
  «Non faceva male.» disse Jean, dandogli un destro –scarso- sul braccio «Questo faceva male.»          
  «Ehi!» Marco si massaggiò il braccio, allungando la mano verso Jean, che afferrò la mano. Marco tentò una strategia, usando la seconda mano per raggiungere il braccio di Jean per poterlo bloccare. Ma Jean reagì. Il risultato fu che rimasero intrecciati. Marco rise. 
  «Va bene, va bene. Mi arrendo!» disse poi.   
  «Ah si? Ora ti arrendi?» Jean cercò di bloccarlo contro il muro, Marco però non era né così debole né così stupido. Rimasero nella stessa posizione.            
Alla fine, Marco cedette.            
  «Bam.» disse trionfante Jean.                               
Marco socchiuse gli occhi, come per prepararsi ad un qualche tipo di mossa da parte del suo avversario. Rideva ancora. Il cuore di Jean gli batteva in un palpito assillante, che si sentiva nelle orecchie. Questa volta, non per l’adrenalina o lo sforzo del tener a bada Marco.             
Marco lo guardò.            
Non capendo.  
Lo guardò. Jean lasciò la presa, tenendo le mani alzate. Marco lo guardò ancora «Jean…?» sussurrò.
Jean si voltò verso la porta senza dir nulla ed uscì.         
Camminò nel corridoio.               
Senza meta.     
Senza motivo.  
Se sono come dice Armin, ora sento le trombe nella testa. Voglio che smettano. Sento solo il suono di vetri rotti. Perché?                
Si portò una mano al petto.       
Nel silenzio.      
Un silenzio opprimente.             
Nel tragitto, incontrò Armin. Lo guardò in viso, senza capire.    
  «Armin..» disse Jean «Non sento..» si strinse tra le braccia «Non sento la mia melodia, sento solo un grande caos. Che gira, nella mente. Nel cuore. Non…capisco.»               lo guardò in viso. «Sento di voler una seconda voce nella mia canzone, perchè sono stufo di esser solo? Io non…»
Armin lo guardò con pazienza, indicandogli il corridoio, verso la biblioteca.        
  «Andiamo, Jean.» disse sorridendogli «Andiamo a far riposare i musicisti. Cerchiamo un poco di pace.»

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Capitolo 9
*** Capitolo 09 - Memorie ***


Autrice.
Ed eccoci qui, or dunque.
Di recente faccio (e farò ) un sacco di assenze. Vi prego, chiedo perdono.
Alur, Alur: non racconterò nulla su codesto capitolo
A parte che, pian piano, i nodi vengono al pettine.
E poi, sciogliendoli, si rischia di aggrovigliarsi ancora più.
Buona lettura a te, Caro Lettore
Al prossimo capitolo~
 


Capitolo 09
Memorie.

 
 


Armin gli porse la lattina di Coca. Jean l’aprì, sentendo lo spritz molto rincuorante. Bevve un sorso.     
Fredda.               
Armin si sedette accanto a lui, bevendo anche lui una Coca. Giocò con la linguetta, prima di aprirla.     
Si trovavano nella biblioteca. Dopo essersi incontrati per il corridoio, Armin aveva trascinato l’amico solo e stranamente triste e pensieroso in biblioteca. Erano seduti in un angolo buio, nascosto. Non vi era alcun suono. Neanche l’ombra di un suono. 
La biblioteca era una delle stanze più grandi di tutta la struttura: era grande quasi 2 classi e mezzo di una normale scuola britannica. Sulla sinistra, lunghe ed altissime librerie erano piene di vecchi libri, vecchi piani strategici ( copie, riguardanti guerre antiche d’un’epoca oramai persa ), pergamene, e assai altro. Sulla destra vi erano tanti piccoli tavoli in legno e delle sedie, una scrivania ove era appoggiato –come se non facesse parte di quella scena- un computer. Di solito, lì vi era una donna bassa e tarchiata, con orribili occhiali a lenti spesse e capelli laccati. Esigeva il silenzio assoluto. Ma, dietro quella sua severa direzione, c’era una signora per bene dedica al suo lavoro. In fondo –dove si trovavano- vi erano le macchinette. Per chi volesse bere una Coca, un caffè o sgranocchiar un qualcosa nel mentre studiava o leggeva. Era il luogo preferito di Armin. Poteva chiudersi lì per delle ore, quando poteva. Si trovava in pace, in quel luogo così pieno di sapere, mistero, che gli scaturiva una strana ed allettante curiosità.
Jean sospirò.    
Armin era davvero preoccupato per lui. Non capiva cosa gli stesse accadendo. Osservava la scena da spettatore, e poteva aiutarlo solo per quello che vedeva: prima, durante il pre-corso, era un ragazzo molto solo. Molto spesso lo aveva trovato in giro per i corridoi, salutandolo. Lui, lo aveva ignorato. «Voglio rimanere da solo. Meglio così.» gli aveva detto, tanto tempo fa. Poi, al corso vero e proprio per far parte della Survey Corps, aveva cambiato idea nel entrare a far parte della Military Police. Tutto d’un tratto, senza motivazione. E, sempre con sua grande sorpresa, si stava aprendo di più con tutti. Ad Armin, sembrava una cosa splendida. Perché, ora, si trovava in quello stato? Sembrava confuso. Quasi di più di come lo aveva visto al pre-corso. Lo guardava, mentre fissava la sua Coca. Come alla ricerca di una risposta, in quella lattina di alluminio.   
Jean staccò la linguetta.              
La gettò via, verso il cesto. Lo mancò.   
Un altro sospiro.             
Il biondo si poggiò una mano sulla testa. Non sapeva cosa fare, in realtà. Doveva chiedergli cos’avesse? Doveva aiutarlo? Doveva lasciarlo stare? Magari, lasciarlo sbollire. Sbollire? Non si era nemmeno chiesto se fosse arrabbiato o solamente disperato. Impaurito.   
Armin gettò la sua Coca, e poi guardò l’amico. Lui fissava a terra, pensieroso. Armin fece per dire qualcosa. Ma non fece in tempo.
  «Non mi piace il silenzio.»        
  «Come?» chiese Armin senza capire. 
  «Odio il silenzio che c’è in questa stanza.» si spiegò Jean, mentre con una mano agitava la Coca «È opprimente. Ecco perché non vengo mai qui dentro. Certo, sembra strano detto da me, che spesso e volentieri si isola.»             
Armin lo guardò. Gli sembrava di aver visto un sorriso amaro sulle labbra dell’amico. Il sorriso tremò un poco, poi svanì tanto velocemente, tanto quanto era comparso.       
  «Non so perché.» disse Jean, come per scusarsi di quel che aveva appena detto.       
  «A me non dispiace il silenzio. A volte, non ci si abitua al caos che c’è là fuori.»             
  «Ah sì?» Jean inarcò un sopracciglio.  
Ci furono lunghi secondi di silenzio.       
  «Perché mi hai portato qui, Armin?» chiese Jean. Dal tono, sembrava aver qualche sospetto sulla sua risposta.          
  «Esattamente, non lo so.» lo guardò «So solo che volevo aiutare un amico.» 
Jean sorrise amaro. «Non voglio aiuto, lo sai.» 
  «Eppure mi hai seguito.»         
Jean non contestò.       
  «Jean, cos’hai?»           
Non rispose.     
  «Sono preoccupato. Non solo io. Anche gli altri. Vorremmo poterti aiutare, in qualche modo. Ma dovresti darcene la possibilità. Cosa ti tormenta?» 
Dopo qualche secondo, Jean rispose: «Nulla.»
Armin scosse la testa «Jean, non voglio immischiarmi, ma vorrei poterti aiutare.»                         
Jean rimase in silenzio.
Armin lo guardò, con fare paziente. Fece per alzarsi, poi sentì un altro sospiro del amico.          
  «Silenzio. Già.» disse Jean distratto.   
Armin lo guardò. Jean aveva incrociato le braccia sul tavolo, con lo sguardo fisso sulla lattina.  
  «Forse hai ragione, Armin. Forse, il silenzio è la cura giusta a tutto quel caso che ti ritrovi spesso in testa.»
Armin rimase seduto. Jean aprì bocca, cominciando a raccontar tutto quel che gli era accaduto sino ad allora. Con una strana, ed intima facilità, riuscì a raccontar tutto senza filtri.      
Armin ascoltò, in silenzio.

***

Quando Jean terminò, senti una strana sensazione. Come se qualcuno gli avesse tolto dalla schiena un masso che lui non poteva raggiungere. Ma sentiva ancora la sua presenza, sulla pelle.     
Armin rimase in silenzio ad elaborare le informazioni.  
Aveva socchiuso lo sguardo, lasciando intravedere solo un frammento di quel azzurro limpido e sincero dei suoi occhi. Jean osservò la sua espressione, chiedendosi come mai avesse raccontato tutti a lui.            
Armin schiuse le labbra «Stai provando un sacco di emozioni contrastanti eh?»              
  «Te ne ho parlato perché mi dicessi la tua, non perché volessi uno psicologo.»             
Armin sospirò «Dico solo ciò che penso.»           
Jean si dondolò sulla sedia, che scricchiolò. «La faccenda di Eren, quella di Marco, questa di non capire un cazzo di ciò che sto facendo. O di quel che sto realmente provando. Sta il fatto che, stasera, stava succedendo qualcosa. Non so cosa. Ma mi sono spaventato di quel che, probabilmente, ho pensato stessi per fare. Ma non so cosa. Forse stavo per…far del male a…» Jean aveva smesso di dondolarsi, fissando incredulo le proprie mani poggiate sul tavolo con i palmi in alto. Come se non le riconoscesse come proprie. Come se l’avessero tradito.            
Armin lo guardò ancora. Un pensiero strano gli passò per la mente. Che Jean è questo? È quello spaventato e senza risposte? Dov’è quello spiritoso e scontroso? E quello sempre solo e triste? Erano tutti delle illusioni, e questo è ciò che ne resta? Tutte maschere, per proteggersi da quel che dovrebbe affrontare fuori? Scacciò quel pensiero, sporgendosi sul tavolo. 
  «Jean,» disse «Sei stupido, certe volte. Sei stupido e troppo sicuro di te. A volte, sei tutto l’opposto di quel che ti ho appena detto. Ma non saresti in grado di far del male.» Armin ci pensò su «Tralasciando Eren.»
Jean sospirò. «Non lo so, Armin. Non so perché sto dicendo a te tutto ciò. Anzi, non mi hai nemmeno cacciato. E non mi stupirei se lo facessi. Mi sento una bimba che piagnucola.»      
  «Lo sai che non ti caccerei mai.»           
  «Sei troppo gentile, Armin.»  
  «Sei un mio amico, mi sembra il minimo.» gli sorrise.  
  «Amico, eh?» Jean sembrò ragionarci sopra.  
Armin lo osservò. «Non so cosa ti passi esattamente per la mente, Jean. Ma sta certo che non ti abbandonerò. Io voglio aiutarti, se me ne darai l’occasione.»    
Jean alzò lo sguardo, fissando il biondo per qualche secondo.  
Armin gli sorrise.            
Jean cercò di ricambiare, ma riuscì a tirar fuori solo un falso sorriso.      
  «Per la faccenda… » disse Armin, titubante «Dei tuoi incubi, non saprei. Forse sono legate ad un qualcosa. Quando sono iniziati, esattamente?»
Jean sembrò pensarci sopra. «Il primo, si era presentato nel periodo del pre-corso. Dopo una “gita/missione”. Quella della foresta.»            
Armin ci pensò su, poi gli tornò alla mente. «Ricordo.» notò lo sguardo perso del amico «Chiudi gli occhi.»
Jean non capì.  
  «Chiudi gli occhi, e racconta.»
Jean prese un bel respiro. Chiuse gli occhi, cominciando a cercare nella memoria di quell’assurda notte.           

***

Buio.    
Umidità.             
Il crepitio della pioggia, troppo somigliante al ticchettare del orologio. Troppo veloce, ma allo stesso tempo lento e snervante. Buio. Il silenzio che sembrava soffocarlo. Sentiva quelle sensanzioni, che gli strisciavano sulla pelle come quel dì'.
    
Quella mattina erano partiti, con la sua classe del pre-corso, per quella che –credeva- fosse una gita per la foresta. Arrivati, si ritrovarono dinanzi a distese di alberi, alti più di un palazzo. I tronchi erano robusti e segnati dal tempo. Non un rumore, se non il frusciare del vento.     
Gli addestratori, poi, dissero loro che quella gita si sarebbe trasformata in una missione, un test. Ad ognuno di loro, fu dato uno zaino.         
Dovevano avventurarsi nella foresta, alla ricerca di una bandierina rossa. Quello, sarebbe stato il punto d’incontro. Chi non si fosse presentato alla bandierina entro 1 ora, avrebbe fallito il test. Se entro quell’ora, qualcuno avesse usato un razzo segnalatore –per eventuale emergenza- il test si sarebbe fermato.     
Jean era convinto che ce l’avrebbe fatta.           
Era bravo ad orientarsi, di solito. L’occorrente era nello zaino. Molti dei suoi compagni avevano stabilito dei gruppi con quelli della propria classe. Jean voleva fare da solo. E ce l’avrebbe fatta da solo.         
Gli addestratori fecero partire il tempo. I ragazzi partirono, correndo nella foresta. Ramoscelli spezzati, respiri eccitati, tintinnii metallici dell’attrezzatura dei giovani.

Erano passati solo 20 minuti, e Jean non si perdeva d’animo. Non era nemmeno stanco. Correva, tra le foglie secche della foresta. Con la vista aguzza, scrutava tra il verde della natura. Alla ricerca del rosso che avrebbe dato a lui quella soddisfazione che sembrava tanto cercare.      
Correva, sentiva solo il suo respiro.       

Dopo mezz’ora, Jean era fermo ad un albero. Beveva da una borraccia. Ogni 10 m si fermava a segnare il tronco d’un albero. Per non girar in tondo. 
La foresta era stranamente grande. Guardandosi attorno, mentre riprendeva fiato, non vedeva nulla di diverso dai soliti tronchi grigi e foglie verdi. Anche il terreno, sembrava una foto ripetuta più e più volte. Si chiese se davvero non stesse girando in tondo.           
Mentre pensava ciò, sentì un botto. Un sibilo, poi notò qualcosa nel cielo. Sussultò. Un fumogeno rosso. Qualcuno si era già arreso? Non lui. Lui ce l’avrebbe fatta. Rimise lo zaino in spalla, correndo ancora.          
Dopo poco, sentiva la stanchezza avvolgerlo.   
Così come l’oscurità.     
Si era fatto abbastanza scuro, il cielo. La maglia a maniche corte cominciava a sembrargli troppo leggera. Correva, correva non sapendo da quanto. Un pensiero fulmineo gli passò per la mente. Cercò di scacciarlo via, ma la sua mente l’aveva già visualizzato. Mi sono perso.      
Si convinse, anzi, costrinse a non credere in quel suo stesso pensiero. Continuò a correre. Sentiva il battito del proprio cuore nelle orecchie, l’unico rumore che poteva fargli compagnia. Sentì un tuono. Aveva cominciato a piovere, e presto si sarebbe trasformata in una tempesta. Ma non voleva perdersi d’animo.
Un botto. Per un attimo, Jean sollevò lo sguardo aspettandosi un fumo rosso –ne erano comparsi altri 3 dopo il primo. Ma non ne vide. Distratto, si accorse troppo tardi del tronco. Quando guardò dinanzi a sé, il tronco cadeva proprio verso di lui, o almeno così sembrò a lui. Per evitarlo, si spinse verso destra, saltando. Il tronco sbatté contro un altro tronco e poi cadde rumorosamente a terra. Jean, invece, stava per perdere l’equilibrio. Con la coda dell’occhio notò una cosa che lo fece gelare: era saltato in direzione di un burrone. Pregò di riuscire a mantenere l’equilibrio. Ma fu inutile.               
Cadde, rotolando lungo la parete ove –per via delle piogge recenti- la terra si era smossa e aveva portato alla luce delle radici. Queste, gli tagliavano le braccia, le gambe, il torace, gli strapparono via lo zaino dalle spalle mentre rotolava. Come degli artigli, che lo afferravano e ferivano. Batté la testa, poi non vide nulla.     

Quando riprese i sensi, era sdraiato a terra. Era sdraiato di lato. Il viso era immerso nel fango. Non riusciva a muovere un millimetro del suo corpo. Non ci provava nemmeno. Prima di tutti gli altri dolori, sentì il martellare della testa. Non sapeva che danni aveva subìto, ma non poteva muoversi.        
Sanguinava? Aveva qualche osso rotto? Probabile.       
Nel mentre di quei dolori, solo una cosa lo teneva legato a quella realtà: il silenzio.       
Quel assurdo silenzio.  
La pioggia batteva forte sulla sua pelle lacerata, sui rami del tronco che aveva ceduto ed era caduto a terra. Il tintinnio dei suoi attrezzi, appesi alle radici scoperte su quel muro di terra fangosa. Ma quei rumori non lo raggiungevano.                
Il silenzio. Un ruggito del nulla. Una presenza vuota. Un silenzio che lo spaventava. Troppo silenzio. Nel silenzio, sentiva i tuoni lontani. Ma non sentiva nient’altro. Un silenzio che non poteva aiutarlo, ma lo derideva.              
Sdraiato com’era, faceva fatica a respirare. Il fango si faceva sempre più morbido, mentre la pioggia cadeva senza freno. Alla mente gli tornò quell’articolo che aveva letto per caso sul giornale che, quel giorno, l’aveva fatto ridere: un uomo di 80 anni era inciampato mentre faceva la doccia, aveva sbattuto la testa ed era caduto della vasca. Anche se non si era riempita, aveva lasciato il getto d’acqua aperto. Fu sufficiente per entrargli nel naso e morire affogato in 3 o 4 cm d’acqua. La mente lo portò ad osservare il terreno. Continuando così, l’acqua piovana avrebbe scavato un buco in quel fango troppo molle. La pioggia stava scavando la sua stessa fossa. Quel pensiero gli sembrò tanto stupido, quanto terrorizzante.        
La cosa che lo fece innervosire, fu di nuovo il pensiero fulmineo. Sono perso. 
Sentì la voglia di piangere e di urlare, per farsi sentire. Ma non riusciva. Provò a muovere una mano, ma non riuscì. Il fango lo faceva affondare sempre più. Ogni movimento che provava a fare, era come scavare con una vanga.           
Stranamente e senza preavviso, sentì i pensieri scivolar via. Il corpo si rilassò. 
Sono perso.      
La paura sembrava essersi assopita, così come la sua mente. Si sentiva tanto stanco. Non tentò nemmeno di fermare le palpebre, che volevano chiudersi. Si sentiva solo, eppure..       
  «Jean»              
Avvertì quel lieve sussurro, ma la sua mente sembrava già altrove.      
Poi, una scarica di dolore. Intenso. Tanto. Gemette, mentre riapriva gli occhi. Ora vedeva il cielo. Grigio. Le gocce gli cadevano sul viso ricoperto di fango. Sentì un leggero suono, molto lontano. Vide un fumo rosso nel cielo, lento. Osservò l’andatura del fumo. Poi, notò la figura accanto a sé. Qualcuno gli teneva un braccio, gli parlava. Lo chiamava. Ma non vedeva. Non sentiva. Non capiva.          
Ero perso.          
Sentì dei ramoscelli scricchiolare, dell’acqua che veniva calpestata con forza e del fango che schizzava. Voci lontane, delle torce. Poi, si fece tutto buio.    
Nel silenzio, che gli sembrò tanto crudele.         

***

Quando finì, Armin si alzò.         
Camminò per la stanza. Si teneva il mento con una mano. A Jean, diede l’impressione che stesse pensando ad un qualcosa che non gli aveva ancora svelato.           
Si accorse dell’ora tarda, e si alzò.          
  «Grazie, Armin. Non l’ho mai raccontato a nessuno. Mi ha fatto bene. Ora torno…nella mia camera. Probabilmente staranno dormendo tutti, ora.»              
Mentre Jean si girava, camminando verso l’uscita, si sentì chiamare.    
  «Jean…io..»    
Jean si voltò. «No, non dire nulla. Cioè, sono in debito. Quindi..»           
  «Non è questo, Jean.»                             
Jean si voltò lentamente. Erano distanti. Armin si fece più piccolo di quel che già era. Si straziava nella decisione di parlare o meno.
  «Armin..?»      
  «Jean.» disse con fermezza. Prese un lungo respiro, guardandolo dritto negli occhi. Come se stesse rischiando qualcosa. Ora, la distanza, sembrava diminuire con quello sguardo serio di Armin. «La persona di cui Eren ti parlò, quella sera.» Jean si drizzò «Credo sia la stessa che ti salvò, quel giorno, nella foresta.»    
Un ticchettio.   
No, non era l’orologio della biblioteca. 
Era la pioggia, che da fuori picchiava sulle finestre. Un suono familiare, che scandiva il tempo.
Mentre nella stanza, gelava il silenzio. 

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 - La pioggia bagna le rose. ***


Autrice.
Chiedo umilmente perdono per questi ritardi,
questo mese sarà faticoso. Chiedo venia.
Comunque sia, rieccomi con il capitolo 10! Wow. Vorrei scrivere tante
Cose, per farvi capire quanto sono contenta.
Non pensavo di arrivar sin qui!
Ma non mi perderò in chiacchiere, e non voglio farvi perdere ancora tempo
Buona lettura a te! Caro Lettore, grazie di tutto.
Al prossimo capitolo~
 


Capitolo 10
La pioggia che bagna le rose.   






Cadeva lenta. Rivoli d’acqua sulle finestre. Il ticchettio incessante. L’aria era umida e quasi irrespirabile.
Armin gli passò accanto, sussurrando qualcosa. Delle scuse.     
Quando si chiuse la porta, rimase solo. Si sedette su una sedia, che scricchiolò. Poggiò i gomiti sul tavolo. Osservando. Armin aveva lasciato il libro sul tavolo. Lo prese.           
Lo sfogliò. La rilegatura era consumata. Le pagine ingiallite. Armin aveva lasciato un segnalibro. Sfogliò sino alla pagina. Sulla pagina bianca, era scritta una sola frase:

“La vita e i sogni sono fogli di uno stesso libro: leggerli in ordine è vivere, sfogliarli a caso è sognare.”
{ Cit. Arthur Schopenhauer }

Rimase a fissarla per qualche secondo.
Socchiuse poi gli occhi. La pioggia, fuori dalla finestra, era l’unico suono che poteva raggiungerlo. Provò a sfogliare le pagine della sua vita. Provò. Ciò che vide, non gli piacque. L’introduzione e l’inizio, erano noiosi. Poi, divenne sempre più scuro. Le pagine erano rovinate. Una addirittura strappata alla mente, non ricordava cosa vi fosse scritto. Continuò. Arrivò ad uno dei capitoli più difficili e tortuosi. Non leggeva parole, vedeva immagini. Immagini già passate. Ma che lo tormentavano ancora. L’aria attorno a sé si fece più fredda. Sentì un nodo alla gola, come se qualcuno gli avesse poggiato delle fredde mani sulla gola. Pronte a stringere. Non aprì gli occhi. Continuò.   
Le pagine si fecero pesanti da girare. Lui non voleva girarle, lo sapeva. Ma alla fine lo fece. Voltò la pagina. I capitoli successivi, sembravano meno plumbei.              
Arrivò il pre-corso.         
Arrivarono gli amici.      
Conobbe lui.     
I primi segreti. I primi patti. Armin che gli stringe la mano, sorridendo. La sofferenza. Quello strano dolore, che però poteva sopportare.      
Gli amici.            
Le uscite con loro. Le giornate passate insieme. Quella loro casa. Questa sua nuova famiglia.
Le pagine erano leggere. La morsa si faceva meno pressante al collo. La pioggia non sembrò più un suono secco e costante. Nella mente, sembrò solo una lancetta di un vecchio orologio. Lenta. Scandiva ogni secondo. Si concentrò su quell’immagine.             
Alla fine, il libro non era finito. Non ancora. Quel capitolo, doveva venir concluso. La pagina seguente era bianca. Pallida. Vuota. In attesa.            
Riaprì gli occhi. 
Non sembrava esser passato troppo tempo. Giusto qualche minuto. Osservò il libro. Sognare. Lesse.
Aveva perso la possibilità di sognare. Ma non la speranza.        
Chiuse il libro. Si alzò dalla sedia. Si diresse verso la porta. Strinse la maniglia. Gelida. Soppesò l’ipotesi di rimanere lì. Ad aspettare. Si voltò.        
Dalla finestra arrivava una strana luce buia. La luce della luna. I rami degli alberi aldilà della finestra, proiettavano ombre oscure a terra. Come se cercassero di raggiungerlo. Di afferrarlo. Le osservò.  
Aprì la porta. Uscì. Gli adii fanno soffrire. Si ritrovò a pensare. Scacciò quel pensiero.   

***       

Nel mentre..     
Jean camminava a passo pesante nel corridoio.              
La fronte cominciava ad esser madida di sudore. Si passò una mano sul viso. Sentiva il cuore palpitare in petto, come se potesse fuggire.             
Doveva ricordare.          
Doveva.              
Ma non sapeva come fare. Aveva lasciato andare Armin. Doveva farcela da solo. Tornò indietro. Camminò avanti. Poi ancora indietro per il corridoio. Se fosse passato qualcuno in quel momento, lo avrebbero scambiato per un sonnambulo. O forse per un pazzo. Ma che differenza c’era? Da sempre lo avevano trattato come se fosse diverso. Ma ora voleva cambiare. Si era fatto una vita, pensava. Sarebbe entrato nella Survey Corps. Avrebbe sacrificato se stesso per altri. Si fermò. 
Per altri.             
Diventare un soldato. Prima, il suo desiderio era poter servire la regina. Poter rendersi fiero di se stesso. Ma è davvero così? Voleva solo elevarsi? Poter dire “io sono qui. Tu no.”? Voleva sentirsi finalmente qualcuno e non la nullità che si sentiva. E lui odiava le persone che s’impegnavano solo per apparire chi non erano. Il bue che da del cornuto all’asino, pensò. 
Ora, invece?     
Aveva cambiato idea. Voleva combattere sul campo. Voleva sacrificarsi. Perché? Voleva poter dare una mano, a chi pensava non ci fossero più speranze. Perché di colpo pensa tutto ciò? Perché so cosa si prova. Mi hanno ripescato nel mare in cui ero caduto, ed ora sono diventato il salvatore. Pensò. Ma non era un pensiero suo. Non avrebbe mai pensato ciò. Eppure, era cambiato. 
Cambiato.          
Grazie a chi? Ai suoi amici.         
Ora aveva uno scopo. Ora aveva qualcuno che gli voleva bene. Ora, sentiva che la sua vita era davvero iniziata. I suoi amici lo avevano aiutato a trovarlo. A trovare se stesso. Presto o tardi coloro che vincono sono coloro che credono di poterlo fare. E lui, ora, sentiva di poter vincere. Vincere l’ombra. Poter vivere, per quello che è davvero. E non ciò che dovrebbe essere.               
Tuonò.
Sussultò, voltandosi verso una finestra. I rami si agitavano, fuori dalla finestra. Sentì un brivido lungo la schiena. Si passò una mano sul braccio, ove ancora si potevano vedere le cicatrici. Di quel giorno. Ecco. Le risposte ai suoi incubi.     
Ma non erano andati via.           
Sentì qualcosa di pesante sulla spalla. Si voltò, trattenendo il fiato.       
  «Jean.» esordì Eren «Cos’hai?»            
Lui non rispose. Lo guardò. Eren lo prese per il braccio.               
  «Vieni. Se ti vedono qua fuori, potresti passare un brutto quarto d’ora.»        

***

Eren gli porse una tazza di caffè.             
Jean si era seduto sul letto. Erano nella loro stanza. Jean sorseggiò il caffè, probabilmente di una macchinetta. Lo guardò di sottecchi.           
  «Perché eri in mezzo al corridoio?» chiese Eren.          
  «Che t’importa.» disse Jean, distratto.              
Eren si appoggiò al muro. Bevve il caffè, guardandolo. «Perché mi va.»              
  «Smettila Jaeger. Non è il momento.»              
  «Perché?»      
  «Porca mi seria, ti ho detto che..»       
Eren gli lanciò un cuscino rubato dal letto accanto a sé. Jean lo riprese. Osservò il cuscino. Poi guardò stupito Eren.      
  «Jean, non dire cazzate. Hai qualcosa di recente. Anzi, da sempre. Cosa succede?»   
  «Non mi va di parlarne.» provò ad alzarsi.        
  «Non uscirai di qui finché non mi dirai cos’hai.» il tono divenne insistente.      
  «Ho detto di no.» quando si alzò, Eren si mosse dal muro. Jean l’osservò Aveva notato la sua insistenza, ma ora poteva vedere anche la sua agitazione. Si fissarono allungo.    
  «Jaeger, cos’hai?»       
  «Io? Lo chiedi tu a me ora?»   
  «Non sei il solito.»       
Eren sbuffò, guardando fuori dalla finestra «Il solito? Cioè lo stronzo Eren Jaeger che ti rompe le palle?»
Jean lo guardò senza capire.     
  «Quello che ti è amico. Quello che…si divertiva a stare con te. Ma alla fine è sempre il “solito” Eren. » abbassò il tono «Mai abbastanza.»   
Jean provò a parlare, ma non riuscì.      
  «Tutta colpa di quella notte.» continuò Eren «Quando litigammo. Quando insistetti. Litigammo. Ed io…mi sentii così in colpa. Pensavo cose come “dovevo dirglielo?” oppure “dovrei dirglielo adesso?”. Ma non volevo. Certe volte sono davvero uno stronzo.» posò la tazza. «Poi ci siamo riavvicinati. E pensavo che sarebbe tornato tutto…come prima.» si passò una mano sul viso «Ma non era…come prima.»       
  «Davvero credevi sarebbe cambiato, Jaeger?»             
  «Ci speravo.» 
  «Speravi.»       
  «La speranza è l’ultima a morire.»       
  «Così come la stupidità.»         
  «Non ti do torto.»       
Rimasero in silenzio. Secondi infiniti. La pioggia tamburellava impaziente alla finestra. Come per avvisarli di qualcosa. Jean sospirò, voltandosi.       
  «Devo andare.» disse poi.       
  «Come? Dove?» Eren parlò come se sapesse già la risposta.  
Jean non rispose. Mise mano alla maniglia. Jean si bloccò. Sentì qualcosa sulla manica. Leggero come il tocco di una piuma, poi un poco più pesante. Voltò un poco la testa. Eren gli aveva afferrato la manica. Capo basso.            
  «Ehi.» disse Jean.        
Nulla.   
  «Jaeger..?» sussurrò, poggiando una mano su quella che lo teneva per la manica.      
Eren singhiozzò.             
Jean sgranò gli occhi.    
  «Ero io…il tuo migliore amico?»             
  «Come?»         
  «Volevo la tua amicizia, Jean. Solo questo. Non volevo…perderla.»    
  «Di cosa parli.»              
  «Mi spiace di essere così egoista.» singhiozzava ad ogni pausa. Jean cercò il suo sguardo, ma teneva la testa china, evitando i suoi occhi.    
  «Jaeger. Di cosa stai parlando?»           
Nulla. Jean lo prese per le spalle, scuotendolo.               
  «Jaeger. Oi.» lo sbatté al muro accanto alla porta. «Eren!»      
Eren sollevò lo sguardo. Sembrò sorridere, per qualche attimo. Gli occhi verdi erano lucidi ma cupi. Sembrava sul punto di scoppiare a piangere. «Ecco..» sussurrò.            
  «Cosa?»           
  «Era da tanto che…non mi chiamavi per nome.»          
Jean deglutì. Sentiva un nodo snervante in gola.            
  «Mi spiace tanto..»     
  «Perché?»      
  «Perché non volevo perderti. Perché ti volevo per me. Perché…io..»
Jean allentò la presa.    
  «Mi spiace, Jean.» sorrise. Un sorriso triste e vuoto.  
  «Eren. Io non..»           
  «Poi arrivò lui.» disse «Armin voleva…ed io non…non sapevo cosa fare. Aiuto i miei amici. Sempre. Ma mi sentivo senza forze, senza alcuna via di fuga. Non volevo perdere. Ecco perché sono egoista.»           
Jean continuava a non capire.                  
  «Anche stasera…pensavo…pensavo sarebbe cambiato tutto. Ora che se n’era andato. Poi ti ho visto fuori al corridoio. Ed eccoci qui.» disse, cercando di liberarsi.              
  «Eren non capisco, spiegati.» 
  «Lasciami, Jean.» disse a bassa voce. 
  «Eren, rispondi.»         
Déjà-vu. Guardò Eren negli occhi. Senza fiato. Era come quella sera. Eren al muro, Jean che non capiva, Eren che urlava. Che diceva egoista. Non lo diceva a Jean, quella sera? Che lo stesse dicendo… a se stesso? Jean lasciò Eren. Gli tornò alla mente quella sera.       
 
«Scommetti? Ma cosa dici? Cretino egoista? Non credo che lei stia soffrendo per me, no?»    
  «Io non parlo di lei!» urlò l’altro. Gli occhi smeraldini sembravano poter proiettare  tutto ciò che passava nella mente e nel cuore del ragazzo.                  
  «Di che parli?»                             
Eren si morse un labbro, borbottò qualcosa. «Un’altra…persona.»       


Un’altra persona. Jean guardò Eren.     
Quest’ultimo lo guardò, senza dir nulla. Poi Jean, ruppe il silenzio.        
  «Tu..»
Eren rimase stizzito. Serrò la mascella. Jean lo fissò. Perché..?  

***

Quella sera piovosa..    

Eren era quasi arrivato al traguardo. Già poteva sentire l’odore della vittoria. In cielo erano comparsi circa 3 fumi rossi. Quindi, 3 in meno. Era così entusiasta, che nel sentire un 4 botto, assaporò ancor più la vittoria. Si guardò attorno.      
Nessun fumo rosso.     
Strano. Correva. Correva sempre più veloce. La pioggia gli batteva sul viso. Era gelida e pizzicava. Ma non si voleva arrendere. Sentì il cadere di un albero. Lo vide in lontananza. Era così strano. Nel mentre correva, non si accorse su quel che stava camminando. Inciampò. Cadde a terra.                   
Con il viso nel fango, borbottò qualcosa. Si tolse il fango dal viso. Si voltò. Un qualcosa era caduto a terra. Lo sollevò. Era una mantellina, non sua. La osservò. Era stata portata dal vento? Era strappata. La osservò, finché non sentì le grida.         
L’adrenalina salì, il cuore si bloccò. Sperò di aver sentito male. Si avviò, seguendo le grida. Corse, nella foresta. Foglie, rami, pioggia, volevano fermarlo.      
Arrivò ad un fossato. Vide uno zaino. Guardò giù nel fossato.  
Una scena che non avrebbe mai dimenticato.  
Qualcuno stringeva a sé un ragazzo, ricoperto di sangue. La camicia, un tempo bianca, era piena di strappi. Il viso, irriconoscibile. Eren si bloccò. Osservò quelle due figure. Sentiva delle grida, ma non capiva. Così decise. Si buttò anche lui nel fango, raggiungendo le due figure.
  «Che cos’è successo?!» chiese, lo ripeté perché si sentisse.   
  «Eren…Jean…lui…è…il dirupo..»            
  «Sta calmo. Ora lo portiamo…lo salveremo.»  
Eren era agitato. Jean. Jean era ricoperto di ferite. Sangue. Sangue ovunque. La pioggia gli colpiva il volto. Eren mise una mano sul collo. Il battito. Era svenuto. Si guardò attorno. Cercò idee, ma non gliene venne nemmeno una. Si sentì inutile. Non ora. Non ora che lui aveva bisogno. Ora che poteva far vedere di che pasta era fatto.       
  «Eren…chiama aiuto.»               
Eren alzò lo sguardo, con occhi allucinati.            
  «Eren. Vai!»   
Così, Eren si alzò, affondò i piedi nel fango, cercò il proprio zaino. Cercò i razzi. Ma non riuscì a sparare. Non al primo. Sparare significava arrendersi. Significava perdere. Eren si stupì di quel pensiero. Era davvero egoista? Perché? Perché?                
  «Ti si è bloccata?»        
Eren non disse nulla. Fissò l’arma da fuoco. Mosse debolmente la testa.                           
  «Lo farò…io..» prese la sua arma, tenendo Jean appoggiato sulle ginocchia, poi sparò un colpo. Un sibilo. Il botto finale.               
  «Andrà tutto bene…» sussurrò.            
Eren lo guardò.
Sentì le grida di altre persone. Le torce in lontananza, sopra il burrone.              
  «Eren…»          
Lui si avvicinò. Prese la mano di Jean. «Mi dispiace. Mi dispiace. Mi…dispiace..» sussurrò.           
  «Non voglio perderlo.»             
Eren alzò lo sguardo. Vide le lacrime sul suo volto. Che non si mischiavano con il fango che aveva sul viso.
  «Non ora. Non così» strinse a sé il povero Jean «Non senza averglielo detto..»            
Eren sentì un’altra emozione. Una più oscura. Una più potente della paura in sé. Qualcuno dietro di loro urlò qualcosa. Presero in braccio Jean. Lo portarono via.          
Eren osservò la scena, senza dire nulla. Immobile.         
Era accanto a sé, piangeva ancora.         
Pianse anche Eren.        
L’adrenalina che andava via. La paura e la tristezza, la sostituirono. Lo guardò. Si guardarono a vicenda.             
  «Troppo tardi..» sussurrò Eren «Spero non sia…troppo tardi..»            
  «Come..?»      
  «Anch’io. Devo dirglielo…io..»                               
Marco annuì. Come se avesse capito. Guardò la macchina, ove alloggiava il povero Jean. Marco ed Eren. Uno accanto all’altro. Osservavano un punto indistinto, dove sparì la macchina.        
Sotto la pioggia, Eren pianse.    
Pianse perché aveva rischiato di perderlo per sempre.
Pianse perché poteva perderlo in seguito.        
Ma non sarebbe stato così.       
Quella storia, sarebbe stata un loro segreto. Un segreto.           
La pioggia cadde. Nessuno vinse la gara. Ma Eren voleva vincere la guerra. Non avrebbe perso.            
Lo giurò a se stesso.      

***

Dopo averlo raccontato, Eren guardò l’amico.                  
Jean fissava fuori la finestra. Ma certo. Pensò. Ora posso capire. Marco, lui mi salvò quella sera…lui sta soffrendo per…me? Che stupido che sono.  
  «Devo andare. »            
  «C-Come..?»  
Jean si diresse nuovamente verso la porta, ma Eren gli bloccò l’uscita.
  «Eren, spostati.»                         
  «Sai che non lo farò.»
  «Eren. Togliti di mezzo.»          
  «No!»
  «Ho vinto. »    
  «Cos-»              
  «La scommessa. Ricordi? Ho trovato qualcuno che mi ama. L’ho trovato..» sorrise involontariamente. «E credo…di amare anch’io questa persona.»          
A quelle parole, Eren sembrò spezzarsi. Gli occhi cedettero, lasciando uscire rivoli di lacrime. «Non puoi…tu..»              
  «Togliti.» disse più deciso. «Voglio andare da Marco.»              
  «Non puoi..»  
  «Smettila!»     
  «Lui se né andato!»    
Jean rimase in silenzio.
  «Poco prima che t’incontrassi…ho parlato con lui. Con Marco. Lui mi ha raccontato di quel che era successo…cioè…mi aveva chiesto una mia opinione..»      
  «Su cosa?»      
  «Sul..» singhiozzò.       
  «Su cosa, Eren!» gli afferrò un braccio, scansandolo.  
  «Sul partire.» disse poi. «Voleva partire. Non so.. dove. Ma quando me lo chiese…io pensai sarebbe stata la mia occasione…io…»             
  «Partire?..»    
  «Questa sera, sarebbe andato all’aeroporto. Domani mattina…sarebbe stato in aereo.»          
Jean lo lasciò.   
Eren rimase immobile.
Jean aprì la porta, correndo fuori.          
Eren cadde a terra.        
Appoggiò la testa al muro. Rimase così, per un lungo tempo. Sperò che il tempo si congelasse. Che potesse tornare indietro. Ma sapeva che non era possibile.        
Mi dispiace…    

Jean corse. Corse per il corridoio. Corse per le scale. Si guardò attorno. Guardò l’uscita. Corse verso essa. Spalancò la porta.               
La pioggia trasformava l’immagini in oggetti sfuocati. Jean sentiva il cuore in agitazione. Paura. Paura di non fare in tempo. Ora che l’aveva trovato, non poteva lasciare che…

 
Continua…

                               

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 - La battaglia per trovare quella luce. ***


Autrice.
E quindi, eccoci qui. Eh già. Questo è l’11° capitolo.
Eviterò chiacchiere inutili, ringraziandovi di tutto.
Per chi mi ha seguito sin qui.
Mi addolora dover dire addio, a codesta storia. Spero vi abbia fatto
emozionare, amici miei.
Se questa FF vi è piaciuta almeno un poco, allora consigliatela!
Vi adoro ragazzi e ragazze <3 Sono quasi commossa
Ma ora basta, se no potrei piangere davvero. Buona lettura.
Cari Lettori.


 
 
 
 
Capitolo 11
La battaglia per trovare quella luce.

 




Un sussurro.     
Cerca di ricordare quel che credeva aver perso, quella voce che prima gli sembrava solo uno spirito irrequieto.
Corre.  
Il respiro pesante, gli entra ed esce dalla bocca formando delle nuvolette. Non sente più dolore alle gambe, solo un tumulto incessabile nel petto. Sente il battito nelle orecchie. Le gambi compiono lunghe falcate, fendendo l’aria.        
Piove.  
La pioggia gli picchia sul viso, fredda e pungente, sembra volerlo rimandare indietro. Il terreno è come uno specchio. Ad ogni suo passo, l’acqua forma dei cerchi. Spruzza. Lui stesso sente l’acqua addosso a sé. Nella camicia, nei capelli, l’acqua che lo appesantisce per tutto il corpo. Ad ogni respiro, l’acqua s’intrufola. Lui ne sente il sapore quasi metallico, poi poco più salato. No, questa volta non è solo la pioggia.  
La mente.          
Dopo quel che gli ha detto Armin, dopo quel che gli ha detto Eren, dopo tutte le frottole, la mente è in subbuglio. Cerca la verità. Cerca. Ma non riesce a trovare la memoria. Quella pagina di vita che credeva di aver strappato, ancora è nascosta.               
Il cuore.              
Sembra voler spaccare in due il petto suo, sembra voler saltar fuori e correre sotto la pioggia. Perché il cuore è forte, affronterebbe la tempesta in corso, ma ancora pieno di dubbi. Emozioni confuse. Tra il corpo, che corre sotto la pioggia. Tra la mente, che non vuole ricordare ma deve. Tra il cuore che vuole solo metter fine a questo caos, vuole solo poter riposare. Anche lui lo vorrebbe. 
La strada è buia. Non sa dove si trovi esattamente. Segue la sua memoria. Deve correre. Deve far presto.
Fare presto?     
Questa scena, più corre, più poggia i piedi nell’acqua, più respira, più questa scena gli sembra familiare. Soprattutto quel che sta provando.          
Vede la fine della strada, che si divide in due direzioni. Lui svolta a destra, scivolando sull’asfalto. Vede dei fari, si sposta. Una macchina suona il clacson, passando veloce accanto a lui. La macchina alza dell’acqua, bagnandolo ancora di più. Non può più aspettare. Continua a correre.                
Sente il rumore dei suoi passi, ma il rumore è lontano e quasi invisibile.             
Non sente nemmeno più il suo respiro.              
Non sente quasi più nulla.         
 “Jean.”               
Un sussurro.     
  “Jean.”              
La pioggia gli bagna il viso, ma questa volta sente un’emozione diversa. La paura. Un’angoscia amica. Che gli ha fatto compagnia per tanto tempo. Sente le tenebre che lo circondano. Si ricorda di se stesso, disteso. Il viso viene schiaffeggiato da mille e mille gocce pungenti. La testa gli martella duramente. Sente il sapore del sangue in bocca. La mano viene sollevata, stretta.                          
  “Jean!“             
Lui cerca di aprire gli occhi, ma si sente tanto stanco. Gli occhi non vedono bene. Le palpebre sono tanto pesanti. Ma la voce lo chiama ancora, ridestandolo ogni volta da quel che potrebbe esser un sonno tranquillo. Vuole solo questo, dormire.               
  “Jean, ti prego, non addormentarti!” 
Lui ascolta quella preghiera. Cerca di nuovo di aprir gli occhi. Vede un cielo grigio e scuro. Alcune gocce d’acqua gli entrano negli occhi. Sente qualcosa che gli accarezza la fronte. Poi si rende conto che la voce gli stava ripulendo il viso.               
  “Jean..”            
Si sente lo scrosciare d’acqua. Qualcuno urla. La superficie di alcune pozzanghere che viene infranta, producendo un rumore secco, attutito dal fango. La voce ora chiede aiuto. Parla. Ma non si sente nient’altro. Ora tiene la testa ferita tra le sue braccia. La stringe a sé, chiamandolo ancora.           
  “Jean. Jean mi senti? Rimani sveglio.”                
Un razzo. Lui vede la scia rossa, ben distinta nel cielo scuro. La guarda, finche non sembra svanire. Il dolore comincia a farsi strada nel corpo. Più lui è cosciente, più il dolore gli martella nella testa. Sente ogni singola parte del corpo indolenzita. Sente dei tagli. Brucia. Sente le ossa lamentarsi anch’esse. Cerca di muoversi, ma non riesce. Gli sembra così irreale. Eppure il dolore lo è. La pioggia severa sul viso. Il fango mescolato al sangue nella sua bocca. Quel cielo, così scuro. Così vero. Così crudele. La voce gli passa una mano sulla guancia.         
  “Jean.” Sussurra. “Non aver paura. Presto sarà tutto finito. Tornerai a casa.” 
Casa.    
  “Devi esser forte, so che lo sei.”           
Forte.  
  “Rimani con me, Jean.”             
Lui cerca di parlare, ma non sa cosa dire. La gola sembra bloccata. Vuole poter dire alla voce che non si arrenderà? Vuole far sentire che non si è ancora arreso, ed è ancora lì?         
  “Non sei solo, Jean.”  
Quella frase lo pervade, facendolo sentire stranamente al caldo. Non sente la paura punzecchiargli il cuore. Non sente più lo scrosciare della pioggia. Non sente nemmeno più i passi veloci di qualcuno in lontananza. Ci sono delle luci, tra le macchie scure che sembrano alberi. L’unica cosa che davvero sente, è quella mano gentile sul viso. La voce sussurra ancora, ma lui non può sentirla. Di colpo viene sollevato. Il fango fa un rumore simile allo schioccare della lingua. Il fango goccia dalla sua schiena, fradicia. Sente i grumi che si staccano, cadendo a terra. La voce è lontana, poi vicina.
  “Ci rivedremo”              
Dice. Poi silenzio. Lui non riesce più. Ha sopportato sino a quel momento, ma ora la voce è lontana. Non serve tener gli occhi aperti. Cala nel buio, mentre lo portano via. Dalla guancia scivola una goccia, segue il suo percorso con il pensiero. Finché non cade. E lui sprofonda nell’oscurità. 
Un tuono.          
Viene risvegliato da un lampo del cielo. Solleva lo sguardo. Sta ancora correndo. Il cielo si è fatto pece, le stelle non ancora emerse. La luna però è alta. La vede dinanzi a lui. Un sorriso perverso del manto scuro. Tano divertito nel vederlo correre come un topo spaventato.        
Stringe i denti, correndo più veloce. Ora sente il sangue nelle gambe, che viene pompato con fervore. Svolta a sinistra, questa volta senza scivolare.    
Non sei solo.     
Se lo ripete.      
Ancora e ancora.            
Stringe le mani a pugno, talmente forte da sentire le unghie nella carne. Osserva le sue braccia. Ballano dinanzi a lui, come se non fossero davvero sue. Come se cercassero qualcosa nel buio della strada. Una avanti. Una indietro. Avanti. Indietro.               
Vede qualcosa.               
Un qualcosa di scuro.   
Cerca di andar più in fretta, pensando di poterlo raggiungere. Le gambe si fanno stanche. Lui prega, prega di non fermarsi. Sente la tristezza ed un pensiero che vorrebbe scacciare. Ci prova. Ma non riesce.       
Potrei non farcela.         
Corre ancora, allungando le mani, come se potesse afferrare quella figura scura. Ma non può.              
Sulla sua destra c’è una fermata per i taxi. Una panchina con un tettuccio per tenerla asciutta. Sta per passarvi accanto. Dall’altra parte della strada c’è un palo. Il cono di luce che lascia cadere a terra è l’unica luce oltre alla luna.      
Posa lo sguardo in fondo la strada.        
La figura è sparita.         
Lui rallenta, mentre si avvicina al palo. Poggia la mano sul metallo. Acqua. Freddo. Un volantino si sta staccando. S’immerge nel cono  di luce. Si ferma. Sente le gambe tremare, il cuore in fermento, il respiro troppo veloce. I polmoni chiedono altra aria. Lui respira veloce. L’aria fredda gli entra nei polmoni, facendolo tossire un paio di volte. Si sente sprofondare.    
Jean.    
Non riesce nemmeno più a muoversi. Sente le lacrime farsi largo nel suo volto fradicio di pioggia. Sente di non esser abbastanza forte. Sente che non ce la potrà fare. Troppo tardi.              
Jean.
Punta lo sguardo a terra, poggiando le mani sulle ginocchia. Vede il suo respiro, nuvole che spariscono. Nuvole che spariscono ancora. Sente ancora il sapore metallico in bocca. Si passa una mano sul viso. La testa non da pace al cuore.               
Non sei solo. Jean. Ci rivedremo.                            
Solleva il capo. Guarda in alto. Non vede le stelle. Vede il cielo scuro. La pioggia fredda gli punge il viso come mille spilli. Chiude gli occhi. Sente ancora le voci, nella testa. I suoi sussurri. Ancora.           
Jean.                    
La pioggia non cessa.                    
Resta con me.  

Il respiro continua, lentamente.             
Non sei solo.     
Lui prova a dire qualcosa, ma non riesce. Vuole urlare.                
Jean.    
Sente ogni muscolo dolorante. Ogni punto. Ogni millimetro del corpo che si lamenta, che chiede una tregua. Lui, però, è pronto a correre ancora. Perché non si arrende.            
  «Jean.»            
Perché lui non vuole più sognare.          
  «Jean..?»         
Lui vuole vivere. Non vuole sentir più quella stanchezza, quello sprofondare.  
Un altro tuono. Lui apre gli occhi. Osserva il marciapiede. Guarda la strada, vuota. Posa lo sguardo verso la fermata dei taxi.               
Lui lo sta guardando.    
Si scambiano occhiate sbigottite.            
Silenzio.              
Una macchina passa tra di loro, tagliando per un secondo quel silenzio.              
  «Jean…cosa..»                              
  «Marco..»                       
Jean guarda a destra, poi a sinistra. Vorrebbe fiondarsi dall’altra parte. Ma le gambe non si muovono. Ma non perché sono stanche. Perché?            
  «Perché sei qui?» chiede Marco.         
  «Che domande. Sono qui per te. Sono venuto a prenderti.»  
Marco lo guarda senza capire «Perché? Non devi. Io.. Io…»      
  «Io so, Marco.»            
Silenzio.              
  «Ora so, di quella notte.»        
Ancora silenzio.              
  «Quella notte, fosti tu a salvarmi. Tu mi hai tenuto la mano. Tu mi hai chiamato. Mi hai detto di non arrendermi. Tu mi sei stato accanto. Tu. Sono rimasto nell’ignoranza per troppo tempo. Senza sapere la verità.» un’altra macchina. «Perché, Marco?»            
Esita poi evita il suo sguardo «Per Eren. Lui ed io…quella sera.»              
  «So anche questo.» sussurra Jean.     
  «Lui mi ha chiesto di non raccontarti nulla. All’inizio pensavo perché si vergognasse. Voleva assolutamente vincere. Quella notte, non fece nulla. Rimase a guardarti andar via e mi chiese di non rivelartelo. Poi, capii che c’erano anche altri motivi. Lui…non voleva perdere te.» lo guarda per qualche attimo negli occhi. «Si era reso conto dei suoi sentimenti. Se io avessi rivelato tutto, pensava che tu ti saresti allontanato da lui. Non volevo…»           
  «Le persone che soffrivano… non era una sola.»          
Marco abbassa lo sguardo. Addosso ha una giacca. Sulla testa porta il cappuccio, che gli copre ora una parte del volto.               
  «Tu, Eren, Armin-.. »  
  «Soprattutto tu. Tu eri la bambola che veniva strattonata qua e la.»   
  «Ma tu non mi hai strattonato mai, Marco.»   
  «Ed è stato questo il mio errore. Se fossi stato più sincero. Se avessi dato retta ai tuoi incubi, alla tua continua ricerca di risposte. Avrei evitato ogni dispiacere.»             
Jean fa un passo. Ma non muove più di così.    
  «Quella notte..»           
Marco solleva lo sguardo.          
  «Quando ho capito che tu…tu stavi andando via…mi sono sentito solo. Come nel mio incubo.» si porta le mani sul viso. Jean sente lo scalpitio. Sente l’acqua. Il cono di luce viene brevemente interrotto. «Sento l’oscurità. Sento che mi risucchia. Sento che non sono abbastanza veloce…abbastanza forte per correre. Non riesco ad avanzare. Ho paura. Paura di rimanere solo.» Jean respira forte. «Così, come ti stai sentendo tu ora.»               
Jean alza lo sguardo. Marco ora è vicino. Sorride.           
  «Marco, non sei solo.»              
Jean non trattiene più le lacrime. Non sa se per angoscia, per malinconia, per felicità. Sa solo che quelle lacrime sono li da tanto tempo, aspettando di esser versate. Così come ogni suo dubbio.              
  «Grazie.» sussurra Marco, con gli occhi lucidi.
  «Insieme.» sussurra Jean. Si toglie le mani dal volto. «Non importa cosa dovrà accadere. Non importa se diventeremo soldati, andremo sul campo di battaglia. Non importa quanti nemici ci saranno. Non m’importa. Non sarai mai solo, Marco. Tutte le difficoltà…le supereremo. Insieme.»   
Marco poggia la fronte sulla sua. Jean tiene gli occhi chiusi. Sente di esser riuscito a trovare quei sussurri. Marco cerca la sua mano. Jean sente di esser riuscito ad uscire dal tunne buio. Di aver varcato quell’unica luce lontana, che pensava fosse troppo lontana.              
  «Insieme» ripete Marco.         
E mentre la pioggia diventa meno irrequieta, mentre ogni vicolo, pezzo di cielo, nuvola, tutto fa silenzio, si fanno più vicini.  Il buio li avvolge, ma nemmeno quella può più raggiungerli.      
Mentre le loro labbra si toccano, l’angoscia non ve n’è più. Jean può solo sentire quel contatto, che sa di vita. Sa di sogni. E quel silenzio, prima pieno di pioggia ed orrore, ora è semplice e vivo.  
 
 
 
 
Epilogo.

 
 
Il corso finì in primavera. La classe fu promossa a pieni voti. Una volta in servizio, non tutti rimasero in contatto. Anni dopo, s’incontrarono tutti a quel bar insolito, che visitarono un dì.     
Reiner, Bertholdt e Connie erano diventati ottimi soldati, appena tornati da un’uscita verso il caldo Egitto.
Mikasa, Sasha ed Annie erano rimaste a Londra, servendo per l’esercito britannico. Mikasa veniva spesso chiamata da altri altolocati delle Americhe e d’Europa.   
Armin era diventato un facoltoso Comandante, in attesa di una seconda medaglia per l’ottimo servizio presso i paesi Asiatici.               
Eren era insieme ad Armin, come suo Caporale. Uno dei migliori soldati –dopo Mikasa, ovviamente.  
Marco era rimasto anche lui a Londra. Come Caposquadra, non si credeva il migliore, ma i suoi superiori lo ritenevano tale.               
 
Si toglie il cappello dalla testa, sistemandosi la maglia. Era appena atterrato, e non si era potuto cambiare. Sente l’odore familiare di ciambelle. Sente le voci. Le voci che da tanto non udiva. Rimane ad ascoltarle. Sente delle risa. Sente Connie urlare qualcosa. Sente Reiner ridere, con voce roca esulta. Armin che chiede scusa, magari al barista. Sente il tintinnio delle bottiglie.            
Per un attimo, ritira la mano dalla maniglia.       
Sente il foglio nella tasca. La lettera. La tira fuori, per poi leggerla.      


Caro Jean.         
La missione sta procedendo regolarmente. Se tutto finirà bene, tornerò a casa entro la fine di aprile. Sarebbe magnifico, non credi?  
Qui l’aria è fin troppo calda. Mi manca la brezza di quando scendi le scale verso la metropolitana. Mi manca persino l’odore delle ciambelle di quel negozio sotto casa. Qui si sente solo puzza di polvere da sparo, o di polvere. A volte di muffa. Forse, qualche lucertola del deserto e le sue prede.
Non so se riuscirò ad arrivare in tempo per quella cena. Avvisali, nel caso. Mi mancano tutti quanti. Vorrei rivederli tutti.
     
Spero di poter prendere una pausa, in questi giorni. Così, potrò vedervi tutti. Mi mancano. Voglio rivederli, tutti i miei amici. Chissà, magari finiremo per lavorare tutti insieme. 

Ti manderò una lettera, domani. E poi ancora dopodomani. Ogni giorno, se potrò.      
Mi manchi, quando osservo le stelle dalla mia branda, dalla finestra.  
Mi manchi, quando il sole si fa rosso all’orizzonte.         
Mi manchi, sveglio o dormiente.             
A presto.            
Ti amo, con tutto me stesso
Marco.
 

La ripiega con cura, la rimette al suo posto e prende un bel respiro.      
La vita va avanti. Ed io non faccio che pensare a cosa mi attenderà il tramonto seguente. Ti aspetterò, Marco. La mia vita è legata alla tua. Ti aspetterò, sogno o realtà che sia. Oltre la vita, ti cercherò.
Apre la porta. Viene avvolto dalla luce calda di una lampada. Entra, chiudendosi dietro la porta.
Fori, il vento fischia. Un uccello si alza in volo, lasciando cadere una piuma. Questa, vola, sino a posarsi sullo zerbino della porta. Poi, si alza ancora in volo, sino a sparire nell’orizzonte.   

Non credo in certe cose, ma penso che in una vita passata, codesto legame era stato come lo era ora. Ma ora è più forte.               
Sento che il nostro, è un amore che non può esser tagliato dal tempo. Non può esser toccato dalla paura. Perchè so, nel profondo, che questo amore è legato dal passato. Vive nel presente. Illumina il futuro.
Ti amo, per sempre.      
Jean.    

 

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