Verity Burns

di Swindle
(/viewuser.php?uid=56557)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Sherlock is missing ***
Capitolo 2: *** A Case of Identity - I parte ***
Capitolo 3: *** A Case of Identity - II parte ***
Capitolo 4: *** A Case of Identity - III parte ***
Capitolo 5: *** A Case of Identity - IV parte ***



Capitolo 1
*** Prologo - Sherlock is missing ***


Disclaimer: Sherlock Holmes e tutto il suo universo non mi appartengono. Sherlock è della BBC, Holmes è di sir Arthur Conan Doyle, che a quanto pare odiava a tal punto la sua creatura da volerla donare al mondo, e il mondo gliene è grato. Io mi tengo stretto lui e il divertimento di immaginarlo ballare eternamente.




Non scrivo una fanfiction da due anni, e questa è la prima su Sherlock.
Non ho mai smesso di scrivere però, quindi spero di non aver perso nulla delle mie ben poche capacità. xD
Detto ciò, vorrei passare a un paio di avvertimenti, così ce li togliamo subito e non vi tedio per i prossimi capitoli:
1) questa storia parte dopo la 3x03, quindi se non l'avete vista… ciao ciao cari, ci rivediamo poi. Diciamo che è un po' una mia personalissima versione di un'eventuale 4^ serie.
2) è una storia corale, il POV principale sarà quello di John, ma cambierà spesso (sarà indicato con dei ***), e frequenti saranno anche i flashback.
3) sono abituata a vedere la serie in lingua originale, e non c'è nulla da fare, alcune frasi non posso non immaginarle e scriverle in inglese (vogliamo mettere la voce sexy di Benedict?!), in caso metterò la traduzione in nota.
4) scrivo tanto, perciò i miei capitoli vi potrebbero risultare troppo lunghi.
Insomma, io vi ho avvisati! :P Spero vi possa piacere… e ora basta con le chiacchiere.

 

 

 

 


 


 

Verity Burns









Prologo - Sherlock is missing

 

 

"Sherlock is missing"

L'uomo fissa le tre parole, verde muschio su sfondo bianco, da diversi minuti, come se non riuscisse a credere all'assurdità che sta scrivendo. Un braccio sporge oltre la scrivania, a dondolare ritmicamente la culla dove dorme una neonata. Le lancia un'occhiata veloce, per essere sicuro che sua figlia sia tranquilla, e sorride nel vedere il visino sereno e i pochi sbuffi di capelli biondi spuntare dalla coperta leggera. Emily è da poco al mondo e già ha preso da lui: calma e silenziosa, ma anche tanto empatica che John non saprebbe dire se quella notte si sia svegliata piangendo per una colica o forse abbia compreso il sonno agitato del padre e abbia trovato una scusa per svegliarlo. A John non importa, è solo grato a quell'esserino di averlo destato dai suoi incubi e avergli dato un motivo per alzarsi dal letto.

« È il mio turno. » ha sussurrato a Mary, mentre questa si voltava « Faccio io, non preoccuparti. »

La moglie si è rigirata nel letto con uno sbadiglio e un mormorio, addormentandosi subito dopo, e John si è chiesto come abbia fatto a non accorgersi dei suoi incubi. Sherlock se n'era sempre accorto, pur con metri e pareti a dividerli.

John ha scacciato quel pensiero dalla mente con uno sbuffo, si è alzato e ha scosso un paio di volte la testa, per cancellare le immagini del sogno ancora vivide nel suo cervello, per poi afferrare un maglione, sperando di reprimere con quello i brividi che sente lungo la schiena, anche se, lo sa bene, nulla hanno a che fare con la temperatura della stanza.

Ha preso in braccio Emily, cullandola fra le braccia e sussurrandole con dolcezza per calmarla, quindi si è diretto nel salotto pulito e in ordine, come non mancano di tenerlo lui e Mary. Sporcizia, fogli, cibo, residui di esperimenti o parti anatomiche in giro sono ormai un vecchio ricordo per il medico, un ricordo legato alla vita al 221B di Baker Street. Gli sembrano passati secoli.

Perciò ora è davanti al suo laptop, il blog aperto alle cinque di notte, indeciso se aggiornarlo o meno. Anche lì, sembrano secoli da quando vi ha scritto l'ultima volta. Dopo il suo matrimonio… sono successe talmente tante cose che il blog è stato l'ultima delle sue priorità. Ci ha pensato, davvero, ma non ha trovato il coraggio di scrivere di Mary Morstan, di A.G.R.A., di come sua moglie abbia quasi ucciso il suo migliore amico, dei soprusi che hanno dovuto subire a causa di Charles Augustus Magnussen, e di Sherlock che ha ucciso quell'essere immondo davanti ai suoi occhi, salvandogli la vita, in tutti i sensi possibili, ancora una volta.

Quel caso è stato fin troppo personale e doloroso per essere ricordato e impresso a fuoco su quel mondo telematico che niente dimentica. Mentre John avrebbe solo voluto seppellire tutto e andare avanti.

E poi è iniziato il grande caso - o "the final problem"[1], come l'ha ribattezzato Sherlock -, quasi cinque mesi prima, con quel video di Moriarty e il suo "miss me?", e quando l'ex militare ha riaperto stancamente il blog per ricominciare ad annotare i dettagli del caso, è stato lo stesso Sherlock a fermarlo.

Gli ha messo una mano sulla spalla, l'ha fissato intensamente - tanto che a John è parso di poter scorgere il fondo dei suoi occhi - e gli ha detto:

« No, John. Questo non scriverlo, per favore. »

E lui ha capito, anche se l'amico non l'ha spiegato, che questa volta era troppo personale per il detective, e ha rispettato la sua scelta. Sherlock ha stretto brevemente la sua spalla, e ha stemperato la situazione con una delle sue battute: « D'altronde, non sei più il mio blogger. »

La frase era stata accompagnata da un sorrisetto lieve e un'occhiata verso Mary, ancora con il pancione, seduta in poltrona a pochi metri da loro. John ha inteso, e dunque risposto al sorriso complice, ma questo non ha impedito al suo stomaco di stringersi in una strana fitta.

Ma adesso è diverso. John ha accordato a Mycroft tredici giorni.

« Trecentododici ore. » ha annuito con serietà il più grande degli Holmes, in quella fastidiosa precisione di cui solo i due fratelli erano capaci «Trecentododici ore e poi potrai provare con il blog.»

E l'accordo era stato siglato.

Il tempo è quasi scaduto, sono da poco passate le cinque di mattina, e di lì a pochi minuti i giorni, le ore di tempo che John ha concesso a Mycroft per ritrovare il fratello sarebbero volate via.

Mycroft ha fallito. Sherlock non è stato trovato.

E John pensa che scriverlo sul blog, far sapere che l'unico consulting detective al mondo non si è preso una pausa dalla scena pubblica, no, è proprio scomparso, sarebbe utile.

Sparito, irraggiungibile, introvabile. Nessuno dei suoi conoscenti ha sue notizie da quasi quindici giorni, malgrado lo stiano tutti cercando. E nonostante le indubbie potenzialità che hanno insieme gli uomini di Mycroft, tutta Scotland Yard, e un migliore amico piuttosto agguerrito, il niente assoluto. John non dubita che Sherlock sia in grado di rendersi invisibile, ogni volta vuole, ma perché in quel momento e in quel modo? Non c'è ragione. Perciò si è convinto che la sua sparizione non sia voluta, fin dal primo istante.

Così ha proposto il blog, perché… be', è piuttosto seguito, e chissà, magari qualcuno potrebbe avere delle informazioni, se solo rendessero pubblica la scomparsa. O forse, se è davvero Sherlock a essersene andato, avrebbe compreso la loro preoccupazione e capito che tutto quello era un po' esagerato per essere uno scherzo. O forse, se invece è stato rapito - opzione che, per quanto terribile, è l'unica probabile agli occhi del medico - qualcuno si sarebbe messo in contatto con loro.

In ogni caso non vuole mica stampare dei maledetti annunci del tipo "still missing" e tappezzare Londra, vuole solo scriverlo sul suo blog, dannazione!

Ma Mycroft era stato irremovibile.

« No. » aveva sentenziato « Questa cosa deve rimanere segreta. »

Poi aveva lanciato uno sguardo calcolatore a John: « Mio fratello non ti aveva forse chiesto di non scrivere più sul tuo blog? »

John aveva ignorato la sorpresa per il fatto che ne fosse a conoscenza, ma le sue parole l'avevano punto sul vivo.

« Confido. » aveva continuato l'altro, con studiata seraficità « Che tu possa continuare a rispettare la sua decisione. »

E così l'uomo-governo britannico era riuscito a manipolarlo, usando la promessa stessa che il medico ha fatto al detective. Magnifico.

Questo e un sospetto apparso all'improvviso nella mente di John, l'avevano fatto andare fuori di sé. Aveva spostato il peso da un piede all'altro, cercando di decidere come affrontarlo, per poi avvicinarsi all'uomo con l'ombrello fin quasi a sfiorarlo, l'indice puntato verso il viso dell'altro e un'espressione minacciosa sul volto.

« Se è come l'altra volta » aveva sussurrato secco, cercando di trattenere la rabbia « Se tu e quel pazzo state facendo come quella volta, e tu sai benissimo dove sia e cosa stia facendo, ma non me lo vuoi dire per chissà quale ragione, se è così… giuro che questa volta non risponderò più di me stesso. »

Mycroft aveva sbattuto un paio di volte le palpebre, cambiando la posizione del suo ombrello, e John aveva pensato non ci fosse nulla da stupirsi se lo chiamano "uomo di ghiaccio".

« Le assicuro che non è così, dottor Watson. » aveva scandito lentamente, mentre il medico veniva colpito dal ritorno al tono formale, indice che forse, in fondo in fondo, in qualche modo le sue parole l'avevano scosso.

« Tredici giorni. » aveva aggiunto poi, dopo un attimo di silenzio in cui i due erano rimasti a fissarsi e studiarsi a vicenda.

E John aveva compreso: gli stava chiedendo del tempo, ma anche, in quel modo astruso che solo gli Holmes potevano usare, stava cercando di rassicurarlo, e di dirgli che gli avrebbe riportato Sherlock sano e salvo entro quelle ore.

Il medico aveva accettato in silenzio quel conforto ed era passato a spiegare le ragioni per cui credeva fosse una buona idea usare il blog. Non aveva però menzionato l'ultima possibilità, quella che Sherlock fosse morto, e Mycroft non l'aveva fatto notare. Forse anche lui, come John, non vuole prenderla in considerazione nemmeno per un attimo.

Andato. Di nuovo. Per sempre.

Il solo pensarci, e John deve trattenere l'impulso di rimettere, mentre la sua mente viene invasa dalle immagini degli incubi notturni appena passati.

"Sherlock in piedi sopra il cornicione che gli diceva "Addio, John" con quella voce rotta e il suo cuore che si fermava mentre lo vedeva cadere; Sherlock steso sul pavimento con una pozza di sangue che si allargava sul suo torace, intorno al foro di proiettile, e la sua mente che si bloccava, incapace di formulare un pensiero coerente; Sherlock riverso sulla poltrona, tremante e più pallido di quanto l'avesse mai visto, il respiro quasi nullo, mentre anche il suo si interrompeva per il terrore di ciò che il detective aveva fatto…

Tutti momenti in cui il suo migliore amico è stato in pericolo di vita, e John, in qualche modo, ha sempre sentito qualche suo segno vitale spezzarsi con lui, il suo cuore, la sua mente, il suo respiro, non ha importanza: ogni volta ha rischiato di soccombere.

E riviverlo negli incubi non aiuta.

Si passa una mano sulla fronte, cancellando la patina di sudore freddo che il rammentare quei momenti ha provocato. Poi tamburella con le dita sulla tastiera, rileggendo il post che ha scritto. Semplice, lineare, diretto. Sherlock è scomparso da più di dieci giorni e nessuno ha idea di dove sia finito. Qualunque informazione sarebbe preziosa. Possono contattarlo come vogliono. E un'ultima supplica all'amico stesso: "Se sei lì fuori da qualche parte, ti prego… basta un messaggio."

John lancia uno sguardo fuori dalla finestra, sta per albeggiare; il tempo di Mycroft è scaduto, non è riuscito a ritrovare Sherlock come gli aveva promesso, per cui ora il dottore potrà fare a modo suo.

Si mette composto sulla sedia, drizzando la schiena in quel modo di fare tipico di un ex soldato: non può lasciarsi sopraffare dalle emozioni. Aveva passato due anni a piangere l'amico, eppure quei tredici giorni gli sono sembrati terribilmente peggio. Quel limbo, il non sapere, l'ansia divorante, la consapevolezza che Sherlock potrebbe essere ovunque, solo e in pericolo, aver bisogno del suo aiuto, e lui è lì con le mani in mano. Senza rendersene conto, va a stringere l'immaginario muscolo dolente della coscia. Mycroft non è riuscito, e adesso toccherà a lui salvare Sherlock, finalmente può fare qualcosa.

Avvicina il dito al tasto di invio sulla tastiera del laptop, esitante, ma un rumore basso e fremente spezza il silenzio.

Sobbalza, per poi rendersi conto che si tratta del suo cellulare. Una chiamata in arrivo. "Sherlock", pensa subito. Sarebbe proprio da lui fermarlo un attimo prima che faccia qualcosa che rimpiangerà o che il detective non approva. Non fa in tempo a prendere in mano il telefono che quello smette di vibrare.

Controlla per un secondo Emily, ma la piccola sta ancora dormendo, ignara dei problemi del padre.

John apre il cellulare e guarda il nome apparso sullo schermo. Una chiamata persa, da Holmes, effettivamente, anche se il nome non è quello che il medico ha invocato. Schiaccia il tasto di richiamata.

« Mycroft. » dice subito, non appena sente il segnale acustico che indica che l'altro ha accettato la chiamata, « Novità? » chiede, anticipando la risposta dell'uomo e senza riuscire a tradire il nervosismo nel tono di voce.

« Sì. » risponde con voce piatta « L'abbiamo trovato. »

Il medico non aspetta nemmeno che l'altro gli chieda di raggiungerlo.



 

Le sue gambe lo portano automaticamente in Baker Street. In quella mattina primaverile, la City è ancora mezza addormentata, ma l'aria fredda e l'abituale nebbia contribuiscono a svegliare il medico, se già l'annuncio del maggiore degli Holmes non ha fatto abbastanza. John si sente vigile e scattante ora. L'accenno di dolore alla gamba è immediatamente sparito, e ha percorso, in metro e poi a piedi, la manciata di chilometri che separano casa sua - e ancora gli sembra strano definirla in quel modo -, dal 221B piuttosto in fretta. Poteva aspettare un taxi, ma il sole è appena sorto e John non ha voglia di buttarsi nel traffico dei cittadini in macchina per andare al lavoro dopo una levataccia, perché di solito sono quelli più inclini agli imbottigliamenti.

E comunque ha bisogno di schiarirsi le idee, prepararsi per qualsiasi eventualità. Cos'è successo a Sherlock in quei giorni? Come lo troverà? Ferito? Peggio? O sta invece bene? John vorrebbe credere nell'ultima opzione, ma il suo istinto gli dice il contrario. Può solo sperare le cose non siano troppo gravi.

Repentina gli appare davanti agli occhi l'immagine di Sherlock, davanti al grande schermo televisivo. Gli dava la schiena, e John poteva vedere le spalle contratte sotto il lungo cappotto, mentre quella voce orribile e distorta pronunciava le parole che sarebbero rimaste nella memoria di tutta Londra come impresse a fuoco: "Verity will burn you"[2] aveva detto.

John reprime a stento un brivido, mentre con passo deciso varca la soglia della casa in Baker Street.

« Sherlock? » chiama subito, senza riuscire a trattenersi.

Non ottiene risposta, e lancia una seconda volta il richiamo, cominciando a percorrere i gradini a due a due. È quasi arrivato all'entrata del B, quando Mrs. Hudson si affaccia dal pianerottolo del suo appartamento.

« John? Caro? » chiede con voce flebile « Cosa sta succedendo? »

John torna immediatamente giù, trovandosi davanti l'anziana donna con addosso vestaglia e bigodini. Gli scappa un sorrisetto, pensando che è la prima volta che non la vede di tutto punto, di solito era già sveglia da tempo quando loro si alzavano, ai tempi in cui John era ancora suo inquilino.

« Mrs. Hudson » dice dolcemente « Mi spiace averla svegliata, cercavo Sherlock… »

La donna lo guarda con occhi confusi, che si addolciscono subito dopo.

« John, caro, Sherlock è scomparso da quasi due settimane, ormai, lo sai. »

Per un orrendo secondo John crede di essersi immaginato quella telefonata. Scuote la testa deciso.

« No, Mycroft mi ha chiamato per dire che l'ha ritrovato e così ho pensato fosse qui… »

Non ha nemmeno finito la frase che la porta della casa si apre, e nell'ingresso compare Anthea, la sempre perfetta assistente di Mycroft, occupata come al solito a schiacciare i tasti del suo Blackberry.

John alza gli occhi al cielo: sarebbe mai finita quella storia?

« Il signor Holmes non è riuscito ad avvisarla del luogo in cui avrebbe dovuto recarsi. Ha detto che gli ha spento il telefono in faccia. Non molto carino da parte sua, dottor Watson. » e qui gli occhi della donna si alzano brevemente su di lui, brillando ironici, « Ma ha dedotto con facilità che avrei potuto trovarla qui. Se mi vuole seguire. »

« Ma certo. » sospira John, dedicando un'ultima occhiata di scuse a Mrs. Hudson, per poi superare Anthea e infilarsi nella limousine nera che li aspettava sul ciglio della strada.

« Quindi dove andiamo? » chiede quando anche la donna si è accomodata sui sedili e la macchina è partita « Al Barts? »

La sua voce tradisce il lieve panico che lo sta investendo: se Sherlock non è rientrato subito in Baker Street, qualcosa non va di certo. Il primo luogo che gli viene in mente è l'ospedale.

Anthea alza lo sguardo e gli rivolge un piccolo sorriso, per poi tornare a scrivere sul cellulare.

John sbuffa e sprofonda nel sedile, sa quanto sia inutile insistere, la donna ha evidentemente ricevuto istruzioni di non dirgli nulla. E comunque ci sta andando, sta andando da Sherlock, non ha senso chiedersi altro.

« Dovrebbe dire al suo capo che sarebbe anche ora di smetterla con questi giochetti. » commenta solo, stizzito.



 

La macchina si arresta finalmente, e John scende, riconoscendo il quartiere di MyFair, il più ricco ed elegante della City. Si volta stupefatto verso Anthea che gli sta indicando il palazzo bianco di fronte a loro.

« Entri. » gli dice solo.

John fa un segno d'assenso ed entra nella palazzina. Curiosa intorno con lo sguardo per qualche secondo: "regale" è il minimo per descrivere l'ambiente, tutto è bianco e oro e fronzoli, intarsiato in uno stile barocco che John si dice alquanto eccessivo. Nota a lato dell'entrata un grande tavolo ricurvo di noce chiaro, come fosse la reception di un albergo. Si avvicina e fa appena in tempo a produrre un "ehm" che l'uomo dietro al bancone lo precede.

« Il signor Holmes la sta aspettando. » dice, indicandogli un ascensore sulla parete opposta che il medico non ha notato, tanto è in linea con lo stile della parete e del resto dell'entrata.

« Ultimo piano. » dice ancora, esortandolo.

John non se lo fa ripetere due volte e va all'ascensore, sentendosi un po' imbarazzato e fuori posto.

In ascensore scrolla le spalle, cercando di mandare via quella sensazione. È già stato in luoghi come quelli, è stato persino a Buckingham Palace! Anche se sembra una vita prima…

Quando mette piede fuori dall'ascensore, si ritrova Mycroft a un paio di metri, il solito completo scuro e le mani rigidamente appoggiate al manico del suo inseparabile ombrello. Nota che ci sono piccoli disegni di ombrelli anche sulla sua cravatta, e sorriderebbe della cosa, se non fosse per il nodo allentato e per l'espressione mortalmente seria dipinta sul volto del maggiore degli Holmes.

« Tu vivi qui? » non riesce però a trattenersi dal chiedere, osservando intorno a lui, i corridoi e le porte bianche, asettiche, quasi da brivido. All'improvviso capisce che quello non è un appartamento, no, l'intero piano è di Mycroft.

L'altro intanto gli sta scoccando un'occhiataccia, mentre assume un sorriso tirato.

« No. » risponde « Diciamo che è una delle mie… residenze. »

John ne ha abbastanza di convenevoli. Vuole rivolgergli mille domande. Perché Sherlock è lì e non a Baker Street? Sta male? È ferito? Mycroft ha scoperto cosa gli sia successo? Dove è stato? Come ha fatto a trovarlo? Dove l'ha trovato? È stato il misterioso uomo a prenderlo, come John ha ripetuto per tutto quel tempo, o si è davvero allontanato di sua spontanea volontà?

Sembra che Mycroft possa leggere negli occhi di John tutte quelle domande, nella stessa frazione di secondo in cui al medico passano per la testa. Ma non chiarisce nessuna di esse, e il dottore non le pone.

« Dov'è? » chiede invece, la voce ora piena di agitazione.

« In fondo al corridoio. » risponde Mycroft, indicandogli una porta di fronte a loro « Ma John, devo avvisarti… potrebbe non essere come ti aspetti. »

John non nota la voce dell'uomo che si incrina, tutto il suo essere è teso verso quella porta. Vedere Sherlock, vedere con i suoi occhi, sapere che sta bene. Non è morto, non è andato, non l'ha perso. No. Vuole solo che sia vivo, qualsiasi variante va bene, purché non punti all'esatto opposto.

In poche falcate raggiunge la porta. Non aspetta di sapere se Mycroft sia dietro di lui. Prende un respiro profondo e la mano gli suda, mentre la poggia sulla maniglia, la gira e spalanca la porta, facendo in un tutt'uno un passo oltre l'uscio.

La stanza è bianca, praticamente vuota, eccetto che per un grande letto, sopra il quale c'è…

« Sherlock! » esclama John, confortato dalla sua vista.

Sembra stia bene, forse ha i capelli più arruffati del solito, le guance incavate, le borse sotto gli occhi e la pelle pallida… ma è vivo, lì davanti a lui, respira, sta bene. Un'ondata di sollievo avvolge il dottore.

Il detective alza lentamente lo sguardo, fino a puntarlo in quello luminoso di John.

E poi succede.

I suoi occhi si sgranano, la bocca si apre e Sherlock urla, in preda al terrore.

 

 



 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] Nel canone, "The Final Problem", tradotto in Italia con "L'ultima avventura", è il titolo del racconto (inserito nella raccolta "Le memorie di Sherlock Holmes") dove il professor Moriarty e Sherlock Holmes lottano fino alla morte, alle cascate Reichenbach. Mi sembrava piuttosto appropriato, per quello che ho in mente.

 

[2] Traduzione: "la verità ti brucerà". Sì, c'è decisamente un'allusione a ciò che Moriarty disse a Sherlock nella scena in piscina.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** A Case of Identity - I parte ***


Eccoci!

Innanzitutto, grazie mille a chi ha letto, commentato, inserito nelle seguite/ricordate/preferite *.*

Questo è il primo vero capitolo. Doveva essere mooolto più lungo, ma alla fine ho deciso di dividerlo, non voglio avere i problemi di vista di nessuno sulla coscienza. u.u

E poi ci sono già un bel po’ di informazioni da assimilare, qui. Vi avverto, ci sono anche molte note.

Ho interrotto proprio dove sarebbe iniziato un altro POV, che quindi comincerà dal prossimo capitolo (ma ho lasciato lo stesso i *** al fondo).

Fatemi sapere se i flashback vi fanno venire troppo il mal di mare!

See you soon. ;)

 













 

A Case of Identity [1] - I parte

 

 

 

« No, Mary, tu non capisci. Non hai visto, non hai sentito. »

John è sul divano di casa, i gomiti sulle ginocchia e la testa nascosta fra le mani. È pomeriggio inoltrato, ormai, ma al dottore sembrano passati giorni e giorni da quando solo quella mattina era teso per la scomparsa di Sherlock.

« Aiutami a capire, allora. » dice Mary dolcemente, prendendo una mano dell'uomo fra le sue.

John si lascia sfuggire un gemito sconfortato. "Come posso farti capire, se non comprendo nemmeno io?" si chiede.

Le sue orecchie sono colme di quella voce profonda e baritonale, un suono che mai John avrebbe creduto di poter sentire uscire da quella bocca, quell'urlo di pura paura, il gemito di un animale braccato. E il suo sguardo è ancora pieno della figura fragile del suo amico che serrava gli occhi, si metteva le mani sulle orecchie, e cominciava a dondolarsi avanti e indietro, le labbra tremanti in un sussurro che il dottore aveva faticato a sentire, ma che ora preferirebbe non conoscere "Vai via" aveva ripetuto in una lunga litania, "Va' via".

Era stato uno shock: aveva già visto Sherlock spaventato, pieno di dubbi, quella volta a Baskerville, o distrutto, su quel cornicione del Barts [2]. Ma quello… quello non era il suo migliore amico, non era lo Sherlock Holmes che aveva imparato a conoscere, e questa volta non c'era alcuna speranza che stesse fingendo.

John all'inizio aveva cercato di avvicinarsi, confuso, cercando di rassicurarlo, di dirgli "Sono io, Sherlock. Sono John." Ma il detective non aveva accennato a smettere, e quando il medico gli era arrivato tanto vicino da poterlo sfiorare, Sherlock aveva sussultato e si era ritratto ancora di più, urlando un più forte "Va' via, vattene!"

John si era gelato sul posto, mentre la sua mente registrava quel comportamento, e una vocina da qualche angolo recesso della sua mente lo sbeffeggiava "Ecco, John, cos'è che dicevi? Qualunque cosa sarebbe andata bene, purchè lui fosse vivo? Sarai contento, ora."

E quella voce, per quanto ironica, aveva ragione: si era aspettato di tutto, tranne quello. Aveva continuato a fissarlo, completamente inebetito, impotente, ferito, finché non aveva sentito una mano sulla spalla, e si era lasciato condurre via da Mycroft.

« Andiamo, raccontami dall'inizio. » la voce di Mary è calda e piena di rassicurazione, mentre gli fa una leggera carezza sul viso.

E John, con quella sensazione di gelo nel petto che non vuole abbandonarlo, comincia a parlare.


 

Mycroft aveva chiuso la porta della camera dietro di loro, e aveva portato John in un'altra stanza. John si era reso conto che l'uomo non aveva lasciato la stretta sulla sua spalla fin quando non aveva fatto sedere il medico su una sedia.

« Un bicchiere d'acqua? » aveva chiesto pacato.

John aveva alzato occhi vacui su di lui, aveva dato un'occhiata intorno, mentre il cervello registrava di trovarsi in una cucina ben arredata, priva della ricercatezza propria di quel palazzo, nonostante anche lì fosse tutto candido, un bianco che stava iniziando ad abbacinare John e a metterlo a disagio.

« Credo mi ci voglia qualcosa di più forte. » era riuscito a dire, dopo aver deglutito un paio di volte.

« Scotch, allora? » aveva proposto, senza scomporsi.

John aveva annuito, sorpreso che l'altro non avesse fatto qualche commento ironico, dopotutto non erano nemmeno le nove di mattina. Ma poi aveva visto che Mycroft aveva lasciato il suo fido ombrello in un angolo della cucina, e aveva capito che nessuno di loro due era in vena di scherzare.

La faccenda era seria.

Mycroft gli aveva passato il bicchiere pieno del liquore ambrato, e si era seduto stancamente davanti a lui. Per un breve attimo John aveva potuto intravedere l'uomo, il fratello, dietro la scorza di ghiaccio.

John aveva preso un sorso, sentendo la gola riarsa infiammarsi al passaggio della bevanda.

« Cosa…? » le parole gli erano morte in bocca. John non sapeva cosa chiedere. Cosa fosse successo a Sherlock? Perché avesse reagito così? I pensieri gli vorticavano nel cervello, senza che potesse guidarli verso una risoluzione.

Mycroft aveva scosso la testa. « Non lo so. » aveva risposto, senza tuttavia dargli una spiegazione.

John era sbottato in una risata bassa e senza calore, colma di ironia.

« Mycroft, andiamo. Tu, il Governo Inglese fatto uomo, più intelligente persino di Sherlock, che non ha nessuna idea? Non vuoi mica farmi credere di non aver dedotto nulla? »

Mycroft si era mosso impercettibilmente sulla sedia, le mani intorno sul bicchiere intarsiato. Aveva preso tempo, come se stesse valutando quanto e cosa dire, concedendosi un sorso di scotch, prima di rispondere.

« Non l'ho trovato io, John. È stato Wiggins. »

« Wiggins? » lo aveva interrotto perplesso, per poi collegare: Billy, il ragazzotto a cui John aveva quasi rotto un braccio, con quelle spiccate capacità di deduzione che avevano subito incuriosito Sherlock, e che poi aveva preso a seguire il detective come un cagnolino.

« A quanto pare mio fratello ha trovato qualcuno in cui rivedere se stesso. » aveva seccamente replicato Mycroft, allontanando lo sgradevole pensiero con un gesto stizzito della mano.

« L'ha trovato in quello stesso luogo dove hai conosciuto il ragazzo mesi fa, John. » aveva continuato con uno sguardo penetrante. John aveva spalancato gli occhi. Il fabbricato disabitato, se non dai tossici. Non l'avevano cercato lì.

« Vuoi dire che è…? » non aveva trovato la forza di finire la domanda.

« Sotto effetto di stupefacenti? » Mycroft aveva alzato un sopracciglio, lanciandogli un'eloquente occhiata.

« Oh dio. » era solo riuscito a mormorare il dottore, passandosi una mano sul volto. Era stato in quel buco dimenticato da qualunque divinità per tutto il tempo?

« No, John, non credo. » Mycroft aveva risposto alla sua silenziosa domanda.

Poi aveva sospirato: « Vieni. »

Il medico aveva appoggiato sul tavolo il bicchiere ormai vuoto e aveva seguito il maggiore degli Holmes fuori dalla cucina, poi di nuovo nell'ampio corridoio, e infine verso una porta sulla destra di quella oltre la quale stava Sherlock.

La nuova stanza era vuota e perfettamente normale, se non fosse stato per la parete sinistra, una grande vetrata che dava sulla camera di Sherlock. John poteva vederlo, ancora sdraiato sul suo letto, così come l'aveva lasciato diversi minuti prima. L'ex militare non aveva notato nessun vetro quando era entrato da Sherlock, quindi doveva essere una parete-specchio, come quelle usate per gli interrogatori.

John si era voltato a fissare l'altro con la bocca spalancata.

« Seriamente, Mycroft. Cosa diavolo combini in questa casa? »

L'interpellato aveva sbuffato, ignorando la domanda.

« Se ne accorgerà. » aveva continuato John « Voglio dire, Sherlock capirà che lo spii in questo modo. »

« Mio fratello non è in grado di fare molte deduzioni, per lo meno non adesso. » Mycroft aveva esitato per qualche secondo, « Osservalo, John. »

John aveva obbedito e si era avvicinato al vetro, deglutendo. Poteva vederlo bene, la testa reclinata all'indietro, le mani che tremavano, il petto che si alzava e si abbassava velocemente, la figura magra, le guance scavate. "Da quanto tempo non mangia?" si era chiesto. Era così strano, su quel letto, senza il suo solito cappotto, l'inseparabile sciarpa blu e il sorrisetto strafottente.

« Non appena Wiggins l'ha trovato mi ha fatto chiamare. Ho messo subito insieme un'equipe di medici che gli hanno prestato le prime cure. Non era in quel luogo di sua spontanea volontà, di questo sono sicuro. Qualcuno l'ha portato lì. »

John aveva sentito la voce di Mycroft affievolirsi, mentre l'uomo si avvicinava a lui, fino a fermarsi alle sue spalle. Mycroft aveva quindi iniziato a snocciolare frasi e deduzioni sempre più veloci in quel modo così tipicamente Holmes da far nascere un nodo alla gola al medico.

« Spasmi involontari; impossibilità a prendere sonno; svariate ustioni in tutto il corpo, alcune chiaramente provocate da scariche elettriche piuttosto che da diretto contatto con il fuoco; respirazione accelerata; difficoltà a creare pensieri logici; confusione; cicatrici di diverse entità, la maggior parte vecchie ferite riaperte di recente. Capitano John Watson, del Quinto Fucilieri Northumberland [3], immagino lei sappia di cosa stia parlando quando dico SERE [4], è esatto? » John si era voltato sorpreso, ma l'altro non gli aveva dato il tempo di ribattere, continuando con la sua filippica « Ora, è chiaro che mio fratello non si farebbe mettere in difficoltà da quisquilie come isolamento e dolore fisico, che di certo ha già provato in vita sua [5], quanto alla deprivazione del sonno, è già abituato ad auto-infliggersela quando ha la mente occupata da un caso, nonostante io creda che tredici giorni di insonnia possano piegare persino lui. Ma cosa mi dice della deprivazione sensoriale? Aggiunta anche alle fratture alle gambe, non curate, e ad altri tipi di supplizi che non credo di dover nominare. » "Ah, gambe rotte." aveva pensato stupidamente, mentre Mycroft faceva una pausa "Ecco perché Sherlock non si è ranicchiato tirandole a sé per allontanarsi da me." « Per un uomo come lui, per cui la mente, i sensi, e lo stare sempre in movimento sono tutto… crede che avrebbero potuto spezzarlo? » aveva finito con la domanda retorica.

Gli occhi di Mycroft fiammeggiavano, John non l'aveva mai visto uscire tanto dal suo rigido controllo, e per un attimo si era fatto piccolo sotto il suo sguardo.

« Sta- » aveva balbettato, la lingua impastata « Stai supponendo che sia stato torturato? »

« La mia non è affatto una supposizione. » aveva affermato « Ne sono certo. E non sono state solo torture fisiche. »

« Le droghe… » aveva provato a dire John; non riusciva a pensare in modo lucido.

« Certamente. Quelle che già non aveva in circolo prima, s'intende. Stupefacenti, allucinogeni, e chissà quali altri veleni. Non abbiamo potuto sedarlo per timore che qualcosa facesse reazione. Appena arriveranno i risultati degli esami del sangue, comunque, dovrebbero riuscire a trovare una soluzione. Tuttavia non credo che si potrà individuare, tra tutte le altre, qualche sostanza sospetta che ci potrebbe dare informazioni utili. »

John aveva lanciato un'altra occhiata a Sherlock, per poi distogliere subito lo sguardo, dando le spalle alla vetrata.

« Dolore e droghe sono state solo un mezzo per arrivare all'obiettivo, John. » aveva ripreso Mycroft, implacabile.

« Cosa vuoi dire? » aveva chiesto, aggrottando le sopracciglia.

« La sua mente, miravano alla sua mente. » aveva spiegato.

Qualcosa si era acceso nella mente di John.

« Vuoi dire che… il trauma… ha perso la memoria? »

Il volto di Mycroft si era aperto in un sorriso triste, e John aveva temuto la risposta. "Sto davvero sperando che Sherlock non abbia più i suoi ricordi e non sia in grado di riconoscermi?" si era rimproverato.

« No, John. Sarebbe stato più semplice, molto di più in effetti, invece… »

L'uomo aveva chiuso per un attimo gli occhi, le dita che correvano a massaggiare la radice del naso, mentre l'uomo rifletteva.

« La prima cosa che ho cercato di fare è stato valutare la sua attività mentale. Nonostante le sue condizioni fisiche e lo stato confusionale in cui versava, ha avuto precise reazioni a ogni domanda che gli ho posto, a ogni nome che ho pronunciato. E non ha agito affatto come mi aspettavo. »

Mycroft aveva alzato gli occhi su John, e il medico non avrebbe saputo dire se la sua espressione compassionevole fosse solo indirizzata a Sherlock.

« John, è inutile mentire a noi stessi. Sherlock mi ha riconosciuto perfettamente, e mi ha guardato come… non come sempre, con quella semplice rivalità fra fratelli, il suo astio andava ben al di là di questo. E con te, poco fa, quello non era il comportamento che si riserva a uno sconosciuto. Mio fratello aveva paura di te, anzi di più, un terrore profondo. »

Mycroft si era fermato, ma oramai era troppo tardi per non capire cosa gli volesse dire. John però aveva ugualmente bisogno di sentirlo pronunciare quelle parole.

« Cosa stai cercando di dirmi, Mycroft? » aveva dunque posto la domanda, in un sussurro strozzato.

« Che l'effetto che hai avuto su di lui ha confermato i miei sospetti. Chiunque l'abbia rapito è riuscito a entrare nella sua mente, a stravolgere il suo Mind Palace, a fargli dimenticare il mondo come lo conosceva, e a mettergli in testa idee e ricordi diversi, su di noi, su se stesso. Non è più il medesimo Sherlock Holmes. »

Quelle parole erano rimbombate nella sua testa come una condanna. Aveva chiuso gli occhi, deglutendo, e aveva allungato una mano per sostenersi alla parete, le gambe incapaci di reggerlo.

Pensare a uno Sherlock senza ricordi, o meglio, con memorie modificate, non reali, e senza più controllo sulla sua geniale mente era terribile. Assurdo. Impossibile.

Aveva sentito un leggero peso su una spalla, e aveva aperto gli occhi, trovandosi piegato in avanti, le mani appoggiate alle ginocchia, e Mycroft davanti a sé, sporto verso di lui. Aveva sbattuto un paio di volte le palpebre: le sue reminescenze da soldato avevano impedito al suo corpo di scivolare lungo il muro, nonostante sentisse che la sua mente aveva ormai perso l'equilibrio.

« Non sarò legato a mio fratello quanto te, John, ma lo conosco da tutta la sua vita. E avevo notato quanto questo caso lo stesse sopraffacendo, ma non ho fatto nulla. Ancora una volta. Finirà mai la mia lista di errori? »

Il sorriso che aveva fatto voleva essere di scherno, ma John aveva potuto vedere il dolore dietro al tentativo di alleggerire l'atmosfera. Mycroft si stava colpevolizzando, ma il medico non era da meno. Anche lui non era riuscito ad aiutarlo, anzi, non aveva fatto proprio nulla.

L'uomo davanti a lui si era raddrizzato all'improvviso, si era scosso e lisciato l'abito, ed era tornato a riassumere la sua espressione glaciale. John aveva sentito infrangere in mille pezzi l'intimità che avevano condiviso in quei momenti di sconforto.

« Bene. » aveva commentato il maggiore degli Holmes « Ho un piano da mettere a punto, e non si realizzerà di certo da solo. Inoltre devo prepararmi il discorso per mia madre. Non sarà per nulla felice di tutta questa situazione. Chissà se il film di 'Les Misérables' [6] la rabbonirà. »

John era riuscito a rivolgergli un mezzo sorriso stanco, ma quando l'uomo era quasi giunto alla porta della stanza, l'aveva fermato, chiamandolo.

« Sì? » si era voltato appena.

« Posso… posso rimanere ancora un po' qui? »

Mycroft l'aveva fissato, e questa volta la pietà che aveva visto sul suo viso era tutta per lui.

« Certo. Ma… non entrare nella sua camera. Non sarebbe un bene. Per nessuno dei due. »

Detto questo, il maggiore degli Holmes era sparito in un fruscio di vestiti.

John aveva sentito spezzarsi qualcosa in lui, come in tutte le volte in cui Sherlock era stato in pericolo di vita. Ora non lo era, ma il medico non poteva fare a meno di sentirsi allo stesso modo. Come un peso sullo stomaco, una nebbia nel cervello.

Sherlock aveva subito qualcosa di tremendo, come avrebbero potuto riportarlo indietro?

« Oh, my God [7]. » aveva mormorato, distrutto, massaggiandosi le tempie.

Poi aveva preso un respiro profondo, si era rialzato, e aveva percorso la stanza in lunghe falcate, cercando di ritornare in sé, nel composto ex capitano dalla camminata rigida.

Quando era stato sicuro di essere di nuovo se stesso, si era seduto davanti alla vetrata, passando le successive ore a guardare il via vai del team di medici intorno al letto di Sherlock, senza tuttavia vederlo davvero.


 

Non appena John finisce di parlare, si accorge di avere bocca e gola completamente secche, e di aver raccontato in tono atono, distante. A volte il suo animo da militare guida il suo corpo senza che se ne renda conto, a volte pensa di essere lui la macchina, piuttosto che Sherlock.

Mary gli prende la tazza vuota di tè dalle mani - quando l'ha bevuto? - per poi stringerle fra le sue. La donna ha gli occhi lucidi, e il medico la guarda perplesso, come se si fosse dimenticato della sua presenza lì.

« Tesoro, mi dispiace tanto… » sussurra « Deve essere stato orrendo. »

« Orrendo? » chiede, stupendosi di come la sua stessa voce suoni vuota, « Orrendo è stato vedere le lacrime di Sherlock e il mio migliore amico suicidarsi davanti ai miei occhi senza che potessi fare nulla; orrendo è stato essere sotto quel falò e sentire il fumo e le fiamme farsi sempre più vicine; orrendo è stato scoprire che mia moglie mi aveva sempre mentito ed aveva sparato al mio amico più caro, ma questo… i suoi occhi, Mary, quei maledetti occhi chiari accesi da un'angoscia e un orrore che… e io - io… » si interrompe, balbetta, passa la lingua sulle labbra « Lui guardava me con quell'espressione, era colpa mia, aveva paura di me. Paura, Mary. »

Si fissano, e Mary capisce quanto John sia angosciato, quanto gli abbia fatto male vedere il suo migliore amico in quelle condizioni. "Perché, perché ha paura di me?" sembrano chiederle i suoi occhi.

Lo abbraccia di slancio, e John si lascia accarezzare i capelli castani, si appoggia al suo petto, il respiro accelerato, anche se la moglie sa che non verserà una lacrima, né null'altro di simile.

« Andiamo a letto, ti va? » gli propone dopo lunghi minuti.

John gira lo sguardo verso la finestra. È buio fuori, non è ancora notte, ma deve aver parlato a lungo.

« Emy? » chiede con voce fiacca.

« È di là nella sua culla. Dorme per ora, anche se si sveglierà per la poppata. Ma possiamo stare sul letto a riposare anche con lei… »

Improvvisamente John sente tutta la stanchezza accumulata in quella giornata, e ancora prima, riversarglisi addosso, e spandersi per ogni muscolo, in ogni vena. Ed è talmente pesante che quasi boccheggia per lo stordimento.

« Sì. » riesce a mormorare « Sì, andiamo. »


 

John apre gli occhi, volta la testa e individua il suono che l'ha svegliato: il cellulare. Un messaggio, per la precisione, perché questa volta ha messo la suoneria al massimo. Sa già di chi si tratti.

Lo afferra e legge la frase: MyFair, sai dove, entrambi, ora. MH

Sbuffa, cominciando a schiacciare la risposta sui tasti. Mary si sveglia in quel momento, stropicciandosi gli occhi.

« È Mycroft? » chiede.

« Yep. »

La donna si sporge per vedere lo scambio di messaggi, e legge ciò che il marito ha appena scritto: Arriviamo.

« Meno male che è domenica. » commenta ironica, prima di scostare le coperte e alzarsi.


 

Otto persone in una stanza, intorno allo stesso tavolo: Mrs. Hudson, il volto preoccupato, a stringere la borsetta tenuta in grembo; Greg Lestrade, le mani sullo schienale della sedia davanti a lui e il capo incassato fra le spalle; Molly Hooper, seduta a braccia conserte, gli occhi che saettano per la stanza e i denti a torturare il labbro inferiore; Anderson, svaccato sulla propria sedia, lo sguardo rivolto al soffitto; Bill Wiggins, appoggiato a un muro, con le mani affondate nelle tasche e l'espressione svogliata; Anthea, sullo stipite della porta, l'attenzione rivolta inevitabilmente al suo Blackberry; Mary Morstan, le gambe accavallate e una mano a correre nervosa tra i capelli; e infine John Watson, rigido sull'attenti, i pugni stretti lungo i fianchi, a chiedersi che diavolo ci faccia lì.

Sono stati gli ultimi ad arrivare, lui e Mary - hanno dovuto aspettare la baby sitter per Emily - e a giudicare dai volti tesi dei presenti, devono essere passati a trovare Sherlock, e nessuno di loro sembra aver avuto molta più fortuna di Jhon.

In meno di ventiquattro ore l'appartamento sembra completamente rivoluzionato: entrando, si sono imbattuti in dozzine tra medici, infermieri, scienziati, ricercatori, informatici, agenti del governo e dei servizi segreti, e chissà cos'altro. John è riuscito a sbirciare in alcune delle stanze, trovandole piene o di apparecchi ospedalieri o di computer e grossi schermi.

Sembra che Mycroft abbia traslocato lì dentro i propri uffici e interi reparti del Barts. E meno male che non voleva rendere la cosa pubblica. Ma pensandoci devono essere uomini di Mycroft, e aver tutti firmato un accordo di segretezza o qualcosa del genere.

Le uniche stanze a essere state lasciate a grandi linee com'erano sono quella in cui riposa Sherlock, e le due ai suoi lati: quella sulla destra con la grande vetrata e quella sulla sinistra, dove si trovano loro in quel momento, del tutto spoglia ad eccezione del tavolo e delle sedie al centro, e di un'enorme bacheca a occupare una delle pareti.

In quel momento entra Mycroft, solito ombrello alla mano, interrompendo le elucubrazioni del dottore.

Anthea chiude la porta dietro di lui e per una volta posa il cellulare nella tasca, con gran sorpresa di John.

Mycroft invita tutti con un sorriso a sedersi, e John, Greg e Billy, le uniche persone in piedi a parte Anthea, prendono posto intorno al tavolo. Il maggiore degli Holmes si pone a capotavola, accomodandosi con eleganza.

« Credo sappiate tutti il motivo per cui siete qui. » esordisce serio « Perciò andrò subito al sodo. »

E John, mentalmente, lo ringrazia: non crede di poter sopportare un'altra conversazione come quella del giorno precedente.

« Sherlock è stato ritrovato ieri, in condizioni di scarsa lucidità e notevole malessere fisico. Sono giunto alla conclusione che abbia subito torture, fisiche e psicologiche, ma soprattutto è stato sottoposto a un trattamento di manipolazione e controllo mentale, ovvero - »

« Aspetti un attimo. » lo interrompe stupefatto Anderson, tirandosi più su sulla sedia « Non vorrà farci credere che gli è stato fatto il lavaggio del cervello?! »

Mycroft gli scocca un'occhiata sotto la quale John si sarebbe sentito incenerito all'istante.

« Non esistono queste stupidaggini, sono robe da film e favolette! » rincara la dose il capo della scientifica.

John lo guarda alzando un sopracciglio, chiedendosi quanto davvero possa essere idiota quell'uomo.

« Dottor Anderson. » replica Mycroft, la voce pacata ma tagliente, « Sta per caso cercando di mettere in dubbio la mia autorevolezza? Lei è qui solo per mia intercessione, per provare una teoria e fare da contrappeso alle persone di cui veramente mio fratello si interessa. Non vorrei doverle ricordare le promesse » e qui John capisce dal suo tono che per "promesse" intende "minacce" « che le ho fatto non molto tempo fa, e che sono preparato a mettere in atto in qualsiasi momento [8]. »

Mycroft finisce con un sorriso fintamente cordiale, mentre Anderson si agita a disagio, pallido in volto.

« Posso contare sul fatto di non essere più interrotto? » chiede il maggiore degli Holmes.

Anderson fa un cenno con la testa, con l'espressione di chi non parlerà più per il resto della vita.

« Molto bene. Come stavo dicendo, per quanto mi riguarda potete chiamarlo come volete: lavaggio del cervello, controllo mentale; la realtà è che qualcuno è riuscito a entrare nel Mind Palace di mio fratello e a modificarlo a suo piacimento. E non ci sono dubbi in proposito, se consideriamo il fatto che Sherlock non ricordi più Mrs. Hudson, che eppure aveva quasi più a cuore di nostra madre stessa, » l'anziana signora ha lo sguardo affranto e sembra sul punto di scoppiare a piangere, « o se prendiamo in esame la strana reazione che ha avuto con la signorina Hooper, con la quale non ho ben compreso quali trascorsi creda di aver avuto, » la patologa arrosisce all'istante, abbassando gli occhi, « o il comportamento assurdo verso John, e il discorso di mio fratello come suo testimone di nozze è una prova più che sufficiente ad attestare quanto tenga a lui. »

Mycroft si interrompe, facendo schioccare lievemente la lingua tra le labbra, mentre il silenzio è ormai assoluto intorno a lui. Poi sospira e riprende.

« Ciò che voglio dire è che in questo momento non è lo Sherlock che noi tutti conosciamo. E anche se mio fratello è un narcisista egocentrico e idiota, » e John sobbalza, sentendo Mycroft descriverlo in questo modo « non sono affatto certo che questa sua nuova versione sia migliore della precedente. Inoltre, la mia supposizione è che la persona che l'ha rapito e gli ha fatto questo sia la stessa dietro al redivivo Moriarty, la stessa che ha tenuto in scacco Londra negli ultimi mesi, e in tutta sincerità non vedo come potrebbe essere altrimenti, visto che solo una mente superiore sarebbe stata in grado di stravolgere il Mind Palace di Sherlock Holmes. »

Mycroft finisce, appoggiandosi indietro sullo schienale e intrecciando le dita delle mani davanti a sé. Nessuno fiata, tutti troppo concentrati ad assimilare le parole.

« Lei ha già un piano, non è vero signor Holmes? » alla fine è Lestrade a spezzare il silenzio.

Mycroft si esibisce in un sorrisetto compiaciuto.

« Non posso dire di conoscere con esattezza la mente di mio fratello, ma fui io a spiegargli le basi della tecnica da cui poi ha tratto il suo Mind Palace personale. Il mio parere è che stimolandolo nel modo corretto potremmo essere in grado di avviare un processo di autoguarigione, tramite il quale Sherlock potrebbe tornare al suo stato precedente. »

« E allo stesso tempo portarci dal colpevole della sua condizione nonché del caso degli ultimi mesi. » completa per lui Greg.

« Esatto. » annuisce soddisfatto il maggiore degli Holmes.

Anderson apre la bocca per dire la sua, ma si ferma a metà, come ricordandosi all'improvviso del suo proposito di mutismo. Aggrotta le sopracciglia e tace, mentre Mycroft lo guarda compiaciuto.

« E quale dovrebbe essere il nostro ruolo in tutto questo? » chiede Mary, dando voce alla domanda che sta frullando nelle teste di tutti i presenti.

« La ragione per cui vi ho convocati qui: ricostruire insieme il caso a causa del quale Sherlock è finito in questo problema. »

« Come? » chiede Molly, gli occhi grandi come palline da golf.

« Attraverso gli impulsi giusti. Innanzitutto, raccontandogli gli eventi in ordine cronologico, dove ognuno di voi interverrà nel momento in cui è stato partecipe o spettatore di qualche situazione inerente al caso. Voi siete le persone con cui ha più contatti e che più gli stanno a cuore, e questo potrebbe già essere sufficiente a guidare il suo cervello verso la giusta via. Anche se ovviamente il dottor Watson avrà l'onere più grande, essendo sempre stato al fianco di Sherlock. »

John prende un respiro profondo, evitando di incrociare lo sguardo con gli altri.

« E io che c'entro? » si inserisce nella discussione Billy.

Mycroft porta l'attenzione sul giovane.

« Tu sei quello che lo ha trovato, inoltre sei l'unico con il quale mio fratello non abbia avuto un comportamento diverso dal solito. Probabilmente il nostro caro Moriarty, o chi per lui, ha pensato non fossi rilevante. E questo è oltremodo interessante, perché tu nel corso di questi mesi hai aiutato mio fratello; scoprire come e quanto si ricordi di te potrebbe essere utile. »

Billy scrolla le spalle. « Come vuoi. » commenta.

« Posso dunque presumere di avere la vostra totale collaborazione? »

Diverse paia di occhi si scambiano sguardi perplessi o intimoriti, ma sembra che nessuno abbia intenzione di tirarsi indietro. Mycroft lo prende come una risposta affermativa, alzandosi.

« Ottimo. Ho programmato di iniziare fra tre giorni esatti. La mia assistente vi illustrerà i dettagli del piano e della tabella di marcia, potete rivolgervi a lei per qualsiasi cosa. »

Anthea si avvicina al tavolo, estraendo il Blackberry dalla tasca, mentre Mycroft saluta e fa per uscire dalla stanza. John scatta in piedi, seguendolo. È rimasto calmo per tutta la durata della conferenza, ma ora deve proprio dire la sua.

« Mycroft. » lo chiama « Aspetta, avrei bisogno di parlarti un attimo. »

Mycroft lo soppesa per un secondo con lo sguardo, prima di indicargli con un cenno la stanza con il vetro-specchio. John chiude la porta dietro di sé e si lascia sfuggire un sospiro, scompigliandosi i capelli con una mano.

« C'è una cosa che ti devo riferire. Normalmente non lo farei, ma… there is no usual in this case. [9] »

« Ti ascolto. » replica Mycroft, e John inizia il racconto.


 

Era stato all'incirca qualche giorno [10] dopo che Sherlock fu frettolosamente fatto rientrare dal suo esilio - non era nemmeno partito, in realtà - a causa del trambusto che aveva creato la faccia di Moriarty apparsa su tutti gli schermi della City.

John era passato al 221B, preoccupato che l'amico potesse fare qualcosa di stupido, durante l'attesa.

E infatti trovò Sherlock davanti alla finestra, con una sigaretta in mano.

« E-ehm. » si schiarì la gola, avvisandolo della sua presenza, nonostante non dubitasse che l'amico, seppur di spalle, ne fosse perfettamente consapevole.

« Accomodati pure, John. » disse solo, senza voltarsi e con un gesto incurante della mano.

« Si era detto niente più sigarette. » lo rimproverò il medico, andando a sedersi sul divano, visto che Sherlock doveva aver di nuovo buttato la sua poltrona da qualche parte.

« Si dicono tante cose. » replicò inespressivo.

« Moriarty? » chiese John con un sospiro, tentando di capire il motivo di quello sgarro.

Sherlock appoggiò la sigaretta alle labbra, aspirando una lunga boccata, prima di soffiare lentamente il fumo fuori dalla bocca, in eleganti volute che andarono a creare strani disegni sul soffitto.

Dio, era assurdo quanto potesse darsi delle arie anche solo con un semplice gesto come quello.

« Non esattamente. » replicò, andando a sedersi accanto a John.

E per qualche motivo quell'azione disse al medico che qualcosa di grave doveva star girando nella testa dell'amico. Erano rimasti in silenzio, solo seduti accanto, le spalle a sfiorarsi, fin quando la sigaretta si consumò del tutto.

« Ho fallito, John. » disse alla fine, in un sussurro.

John si voltò a guardarlo, e si ritrovò davanti occhi magnetici, oscurati da un'ombra di tormento.

« Cosa vuoi dire? » riuscì a chiedere, l'inquietudine che si faceva strada in lui.

« Con Magnussen. È l'uomo peggiore che io abbia mai conosciuto, e sono stato peggio di lui. »

John aggrottò le sopracciglia, senza riuscire a capire.

« È morto, Sherlock, non può più farci del male. » cercò di rassicurarlo.

« Hai ragione, l'ho ucciso io. Ma lui mi ha sconfitto. Non avevo mai ucciso qualcuno, John. »

"Oh. Quindi si tratta di questo." pensò il medico.

« Non sto dicendo che non lo rifarei. » si affrettò ad aggiungere il detective, interrompendo sul nascere l'obiezione di John, « Era l'unico modo per liberarci di lui, per salvarti… È solo che mi sono abbassato ad annientare il mio avversario fisicamente, perché sul piano mentale sono stato battuto su tutti i fronti. »

« Ma eri già stato superato, prima. » tentò di ironizzare il dottore « Con Irene Adler, con Moriarty… »

« Questa volta è stato diverso. » disse Sherlock, scuotendo i suoi riccioli scuri « Il mio cervello non ha potuto nulla, la mia intelligenza non è bastata, le mie abilità non mi hanno aiutato. Questo è stato peggio di dubitare nelle mie capacità. Io ho perso. »

John non seppe cosa dire per consolarlo, non riusciva nemmeno a capire del tutto quel discorso. Sherlock lo fissò, e John poté leggere nei suoi occhi grigioverdi tutto lo smarrimento, e forse anche qualcosa di più.

Poi Sherlock distolse lo sguardo e si alzò di scatto, allontanandosi da lui. Prese un'altra sigaretta e l'accese.

« Lascia stare, ignorami. Fai come se non avessi detto nulla. » dichiarò, e la questione fu chiusa.


 

« Allora non avevo capito, Mycroft, ma adesso mi è tutto chiaro. » commenta John, finito il resoconto.

« Sherlock stava cominciando a non credere più in se stesso. » chiarisce Mycroft, dopo un attimo di silenzio.

John non ha bisogno di dirgli di essere arrivato alla stessa conclusione.

« Che dici, è il caso di iniziare il racconto da questo avvenimento? » ironizza.

« No. Decisamente no. Non lo accetterebbe, nel migliore dei casi. »

E il medico non desidera per nulla sapere cosa succederebbe in quello peggiore.

« Credi davvero che funzionerà, Mycroft? » chiede invece dopo qualche secondo, in tono preoccupato.

« È la nostra unica opzione. »

John annuisce, determinato, poi gli porge la mano. Mycroft la osserva per un secondo, infine la stringe nella sua.

« Per Sherlock. » dice.

« Per Sherlock. » ripete.

 

***

 













 

Note:

 

[1] A case of identity: "Un caso di identità" è il titolo di un racconto di Doyle, presente nella raccolta "Le avventure di Sherlock Holmes", in cui il patrigno di una ricca ereditiera si traveste e cambia voce per trarre in inganno la ragazza, farla innamorare e poi lasciarla all'altare, così che per la delusione rimanga in casa. Episodio per altro già ripreso nella serie, durante "The Empty Hearse" (il patrigno scrive mail alla ragazza, fingendosi un giovane innamorato). Io ho preso solo il titolo, particolarmente adatto alla situazione di Sherlock nella ff e anche al… uhm… caso.

 

[2] A Baskerville: nella 2x02, quando Sherlock e John sono davanti al camino della locanda, e Sherlock è sconvolto perché crede di aver visto il mastino. Sul Barts: 2x03, ovviamente, non c'è bisogno che spieghi. xD

 

[3] Capitano del Quinto Fucilieri Northumberland: sono i gradi di John, che vengono nominati nella 2x02 prima di entrare nei laboratori di Baskerville, e ancora nella 3x02, durante il caso della giovane guardia reale.

 

[4] SERE: acronimo di "Survive, Evade, Resist, Extract", un programma usato dall'arma inglese per preparare i propri militari. Si tratta di tecniche volte ad insegnare le basi della sopravvivenza e del combattimento anche in territori ostili. È un addestramento molto duro, che contiene anche, fra le altre cose, pratiche non molto ortodosse per ottenere confessioni e estorcere informazioni al nemico. In una parola: moderne torture. Quelle che nomina subito dopo Mycroft sono alcuni degli esempi. Il programma ha un suo corrispettivo statunitense (Survival, Evasion, Resistance and Escape) che venne usato soprattutto durante la guerra in Vietnam. Sembra che intorno agli anni '90 questi programmi vennero abbandonati, o per lo meno la parte riguardante le torture, ma le informazioni sono discordi, e in ogni caso nessuna nazione ammetterà mai di addestrare i propri militari a tecniche tanto controverse. Qui ho supposto che, se anche John non sia stato addestrato in questo modo, abbia una conoscenza per lo meno teorica degli argomenti.

 

[5] Isolamento e dolore fisico: quando nella 3x01 ricompare Sherlock, lo troviamo legato e mezzo nudo con un tizio molto poco raccomandabile a prenderlo a pugni. Si intravedono ferite e cicatrici, e comunque non posso pensare che in due anni passati a smantellare l'enorme organizzazione criminale di Moriarty, Sherlock non sia finito in qualche situazione pericolosa e sia stato trattato come un prigioniero, o peggio.

 

[6] Les Misérables: in "The Empty Hearse", Mycroft è costretto a guardare l'opera de Les Mis, che lui odia, con i genitori. Se non ho capito male si tratta della sua versione teatrale. Da qui la sua battuta sul film (uscito nel 2012).

 

[7] O mio Dio: immaginatevela con l'intonazione e lo sguardo di John, quando nella 2x03 vede che Mrs. Hudson sta bene e non ha subito una ferita da arma da fuoco e capisce che Sherlock gli ha mentito per allontanarlo, e che qualcosa di brutto sta per accadere. Io lo immagino così.

 

[8] Minacce: Mycroft si riferisce alla scena della puntata 3x03, quando Anderson e altri volontari raccolti dal maggiore Holmes si recano a casa in Baker Street in cerca di droghe. Sherlock nomina Magnussen, e Mycroft minaccia sostanzialmente di scavare nelle loro vite e distruggerli se solo avessero riportato a qualcuno di aver sentito il nome dell'uomo in quella casa.

 

[9] "There is no usuale in this case": non c'è niente di usuale in questo caso. Citazione di John da "A Scandal in Belgravia" (scena in cui Irene rivela di essere ancora viva a Jhon).

 

[10] Ecco, aprirei un secondo una partentesi sulle tempistiche. Nella 3x03, Sherlock uccide Magnussen intorno a Natale, siccome sono a casa dei genitori Holmes a festeggiarlo, quindi ho supposto che il suo breve esilio e il video "miss me?" siano da collocare agli inizi di gennaio. Il matrimonio di John e Mary è stato a inizio agosto, come ci rivela il blog di John Watson (quello reale xD ), e Mary era già incinta nel primo trimeste. Perciò ho contato che la bambina nascerà in marzo, e ha più o meno due mesi nel presente della narrazione di questa fic, ambientata cinque mesi dopo l'inizio del caso del redivivo Moriarty, quindi diciamo in maggio.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** A Case of Identity - II parte ***


No, questo capitolo non è lungo il doppio del precedente, no no, è solo un'illusione ottica *sventola orologio a pendolo davanti agli occhi di lettore*. Ci siete cascati? No? Vi chiedo perdono, ci ho pensato a lungo, ma non avrebbe davvero senso dividerlo. :P Almeno visto che vi ho fatto aspettare quasi due settimane, un aggiornamento lungo...

Note come se piovesse, e per non farci mancare nulla, anche una finale!

Con il POV di John è stato facile, con questo capitolo... level up.

Enjoy it! (si spera)













 

A Case of Identity - II parte

 

 

 

***

 

Non è strano vedere l'ispettore Lestrade ancora in ufficio a tarda sera, ma non quel giorno, quando dovrebbe solo essere a casa, buttato sul divano con in mano una birra, i resti smangiucchiati di una pizza abbandonati nel cartone, a guardare la maledetta partita di calcio alla tv.

Invece è alla sua scrivania, ingombra di carte, fascicoli e post-it, una mano a sostenere debolmente la testa e l'altra a impugnare un pennarello rosso, con il quale ogni tanto sottolinea una frase, cerchia una parola o traccia una linea a collegare due indizi.

Se alzasse la testa dai fogli, potrebbe vedere il sergente Donovan passare davanti al suo ufficio, scorgerlo con la coda dell'occhio e tornare sui suoi passi, ma è talmente concentrato sul suo lavoro che non nota nemmeno il cigolio della porta che si apre.

« Signore? » chiede la donna « Che ci fa qui? »

Solo allora l'ispettore si desta dalla trance in cui è caduto, alzando gli occhi dal proprio lavoro.

« Mh? » "Sally?" pensa confuso, "Uh-oh. Guai in vista."

« Ma oggi non è il suo giorno libero? » continua imperterrita « Non sarà rimasto chiuso nel suo ufficio tutto questo tempo? »

Greg la guarda inespressivo, smette di farsi passare il pennarello tra le dita e si stiracchia, inarcando la schiena dolorante.

« Sto lavorando a un caso. » borbotta alla fine a mo' di giustificazione.

Le sopracciglia della donna si alzano sospettose, mentre incrocia le braccia al petto.

« È per Holmes, vero? Lei non dovrebbe permettergli di- »

« Donovan. » la ferma subito in tono tagliente, mettendo distanza fra loro con l'uso del cognome, « Mi dispiace, ma ho smesso di seguire i tuoi consigli in proposito diverso tempo fa. »

Sally barcolla leggermente, la bocca semiaperta.

"Non voglio ferirti." pensa Lestrade "Ma davvero la cosa non ti riguarda."

« Molto bene. » sussurra la donna, cercando di darsi un contegno, come se avesse letto il pensiero di Lestrade nei suoi occhi quieti.

« Molto bene. » ripete, a voce più alta « Buona notte, signore. »

L'uomo la guarda voltarsi e uscire dalla stanza in rigidi movimenti, le scarpe che ticchettano al suolo. Greg sospira, abbassando il capo e passandosi le mani sulla nuca, a massaggiarsi gli ispidi capelli brizzolati.

Non ce l'ha con lei, davvero, e l'ha perdonata, non può biasimarla dopotutto, ma quello non è proprio il momento per vecchie recriminazioni.

Guarda le carte sulla scrivania, il lavoro di mesi e mesi che ha rivisto e ricontrollato tutto in un giorno, e sospira di nuovo.

"É inutile, non riesco a venirne a capo. In casi come questi mi sarei già rivolto a Sherlock…" serra gli occhi, "Peccato che il problema sia proprio questo."

Il suo sguardo appannato si alza fino a individuare il grosso orologio sulla parete di fronte, e non riesce a trattenere uno sbuffo frustrato: mezzanotte. "Troppo tardi. Tutto il mio giorno libero, e ci ho ricavato meno di un buco nell'acqua. Perfetto, davvero ottimo ispettore. Dio, che vergogna."

L'uomo che si tira in piedi è un ispettore alquanto provato, con un principio di emicrania e la fiducia in se stesso ridotta ai minimi termini. Raccoglie con lentezza i fascicoli, riordina i fogli, e sta per riporre tutto al proprio posto, quando cambia idea e decide di infilarli nella sua valigia da lavoro.

Il prossimo passo è scendere nei sotterranei dalle pile bianche e blu per recuperare la macchina e andarsene finalmente a casa a godere di qualche ora di sonno, ma quando si mette la sigaretta in bocca e ci avvicina l'accendino scopre di non riuscirci.

Le mani gli tremano e la testa è invasa da quella voce profonda che gli intima: "Those things will kill you", e Greg vorrebbe sentirsi ancora chiamare con nomi sbagliati, e vorrebbe abbracciarlo come quella volta, e vorrebbe poterlo insultare come quella volta [1]. E invece ha passato tutto il giorno a cercare di legare insieme tracce con fili che solo Sherlock potrebbe vedere.

Si sente ubriaco, pur non avendo toccato alcol, spossato, incapace di mettere un respiro dietro l'altro, così si arrende, e si incammina verso l'uscita e la strada. Perciò dopo, in taxi, mentre si accascia sul sedile e si stampa un cerotto alla nicotina sul braccio, l'indirizzo che da come meta non è quello di casa sua.

 

Greg paga il tassista, ignorando lo sguardo scettico che ancora l'uomo gli lancia.

"Che diavolo hai da guardare?" vorrebbe rimbeccarlo "Non ti sembra credibile un tipo come me in un posto come questo?"

Ma alla fine, invece, sorride, gli lascia una mancia in segno di sfida e volta le spalle verso il suo obiettivo. La Casa Bianca in MayFair, come hanno deciso di chiamarla lui e John, solo… il giorno prima, dopo il meeting di Mycroft. Greg strizza gli occhi un paio di volte.

"Cazzo, sembrano passate settimane. Ma era solo ieri."

« Casa Bianca, che dici? » aveva proposto Greg con un ghigno.

« Sì, mi sembra appropriato per l'ego del proprietario. » aveva ironizzato John.

John. È un buon amico, John, per Greg. Un amico che negli ultimi giorni ha visto spezzato.

Lestrade risucchia l'aria a bocca socchiusa, prendendo un lungo respiro, e entrando nel palazzo.

L'uomo al bancone lo osserva accigliato mentre Greg si avvicina. "Dio, ma questo sta qui ventiquattro ore al giorno?"

« Salve. » saluta poi cordiale « Avrei bisogno di vedere il signor Holmes. Posso trovarlo qui? »

L'uomo lo fissa ancora più torvo, ma gli indica lo stesso l'ascensore. Greg ringrazia e si precipita a schiacciare il pulsante, certo che Mycroft sia già stato avvisato della sua presenza.

Mycroft Holmes. Se possibile, un uomo ancora più enigmatico del fratello. Lestrade si è trovato nella sua stessa stanza in poche occasioni, e solo in un paio hanno parlato faccia a faccia. Sempre così raffinato, posato, equilibrato, non ha nulla della dinamicità del fratello, della sua energia, dei suoi gesti frenetici e delle sue parole incontrollabili, eppure sotto l'aria compìta e gli occhi distanti Greg ha sempre intravisto un cervello da fuori classe e una personalità ingombrante, una persona che induce rispetto, timore, e brividi lungo la schiena.

"Avanti Gregory, calmati." s'impone, torcendosi le mani, "Non sarà mica troppo tardi? Be', avrei dovuto pensarci prima. Ma no ma no, gli Holmes non dormono mai."

Dopo aver bussato e aperto la porta, è il volto disteso del maggiore degli Holmes in persona che Greg si trova davanti.

Si inchioda bruscamente, la bocca aperta in un saluto che non riesce a uscire, sorpreso che sia stato lo stesso Mycroft a riceverlo.

"E dove sono finiti i tuoi maledettissimi lacché, eh?" medita innervosito.

« Detective ispettore, buona sera. » dice intanto quello, in tono placido « A cosa devo il piacere di questa visita a un'ora tanto tarda? »

« Err- » Greg si schiarisce la gola, prima di umettarsi le labbra « Mi scusi per quest'improvvisata, avrei bisogno di parlarle. »

I loro occhi si incrociano, e Greg sente del freddo risalirgli fin dentro le ossa.

« Ma se disturbo, me ne vado subito. » si affretta ad aggiungere, poi scuote la testa, colto dall'imbarazzo: « Anzi, no, guardi, mi scusi, me ne vado. Non so cosa mi sia preso, venire qui così... »

Greg ha già voltato mezzo busto per tornare indietro, quando la voce pacata dell'altro lo raggiunge:

« La prego, detective, entri. Non si faccia problemi. »

Greg si gira con un movimento lento, osservando i lineamenti dell'uomo per cercare qualche traccia di tensione. E la trova: nelle rughe ai bordi degli occhi, nella piega fiacca della bocca, nel bordo stropicciato delle maniche del completo gessato, nell'angolo del panciotto che sporge dalla giacca aperta, nel solito ombrello mollemente appoggiato sul braccio.

"Non è di certo per me che è in questo stato, no. È per Sherlock."

E allora Greg riflette che forse, solo forse, quella sera non è l'unico ad aver bisogno di un po' di compagnia.

 

« So cosa vuole dirmi, Lestrade. » dice all'improvviso Mycroft, prendendo Greg in contropiede.

Sono seduti nell'ufficio di Holmes, ora, su due comode poltrone bianche, a bere scotch da bicchieri decorati, a stare in silenzio da più di venti minuti, tanto che, quasi, Greg si è dimenticato il motivo per cui si trova lì.

Lestrade si stropiccia gli occhi fra pollice e indice, sospirando.

« Dubito che lei lo sappia. » replica poi, aggrottando le sopracciglia.

« Oh, mi creda, si stupirebbe di quante cose io sappia in realtà. » risponde allusivo, e il ghigno che Greg vede stampato sul suo volto è quello di una pericolosa fiera.

« Nella valigetta che tiene stretta a sé ha i documenti del caso che lei e mio fratello stavate seguendo insieme, non è così? Certo che è così. Ci ha lavorato sopra tutto il giorno, rileggendo per l'ennesima volta le stesse carte, riguardando le medesime foto, ripercorrendo collegamenti identici. Cerca qualcosa che ci possa condurre in direzione dell'uomo che ha rapito Sherlock, ma io non sono affatto sicuro che lei possa trovare la risposta che cerca nei suoi fascicoli, per quanto lei si fidi di essi. È il suo lavoro, certo, ma questo caso è molto al di là delle sue possibilità… che certo sono lodevoli. »

Il sorriso rassicurante torna, dopo la sfilza di deduzioni e più o meno velati insulti. Ma Greg è troppo stanco e rassegnato per offendersi e esprimersi di più che con il lieve "Bastardo" dentro la sua testa e stirando le labbra lungo il viso.

« Bene. » commenta quindi ironico, dopo aver fatto schioccare la lingua sul palato, « Allora vuole dirmelo lei quello che sto pensando, o mi fa almeno la cortesia di ascoltarlo dalla mia voce? »
Il sorrisetto astuto e divertito in cui si esibisce il maggiore degli Holmes gli colpisce la memoria, riportandogli davanti agli occhi lo stesso identico ghigno che si era aperto sul volto del fratello minore, appena la mattina prima.

 

Era stato avvisato. Oh, se lo era stato. E non solo dalle parole dirette di Mycroft quando aveva varcato la soglia della casa, o dal messaggio di John del giorno prima che gli diceva che avevano trovato Sherlock ma che "non è così semplice", ma anche, appena pochi secondi prima, dagli occhi gonfi e rossi di Molly che sfregava le spalle di una Mrs. Hudson piuttosto scossa e impegnata a soffiare il naso in un fazzoletto di stoffa, e che cercava di dare all'anziana donna un conforto che, Greg poteva vederlo bene, Molly non aveva nemmeno per se stessa.

Aveva fissato le due donne sedute per un tempo incalcolabile, finché Molly non aveva alzato lo guardo, scuotendo piano la testa. Non c'era nulla che la ragazza potesse dire, a quanto pareva, per prepararlo: Greg avrebbe dovuto scoprirlo sulla propria pelle.

Aveva scrollato le spalle, sperando di potersi togliere di dosso anche la brutta sensazione che gli stava crescendo dentro. Non aveva funzionato, ovviamente. "Andiamo, Gregory! Non essere codardo!" si era rimproverato, prima di avanzare di un passo e spalancare la porta della stanza di Sherlock.

L'aveva già visto pochi minuti prima sugli schermi di sorveglianza, "Dannato Mycroft e le sue manie di controllo!", ma trovarselo davanti, sdraiato su quel letto ospedaliero, il mento appoggiato sulle dita unite delle mani, ferito, gli arti ingessati o fasciati, circondato da macchinari e piccoli tubicini che partivano dalle sue vene... un'immagine familiare e allo stesso tempo estranea.

Familiare, perché quante volte l'aveva osservato riflettere in quella cavolo di posa durante i loro casi?, e quante volte l'aveva trovato in ospedale ridotto male per qualche sua sconsideratezza?

Ma estranea, perché la smorfia feroce con cui l'aveva accolto, no, non aveva nulla dell'uomo che nonostante tutto aveva imparato a chiamare amico, l'uomo che gli aveva salvato la vita inscenando la propria morte e inseguendo l'impero di Moriarty per due anni, l'uomo che non avrebbe esitato a stringere in un abbraccio fraterno, incurante di qualunque possibile protesta.

Sherlock non l'aveva mai guardato in quel modo, piegando la testa, gli occhi che lampeggiavano di disgusto, neanche quando ancora si conoscevano poco, più di cinque anni prima ormai. All'epoca era solo il geniaccio psicopatico che i suoi colleghi non avevano esitato a soprannominare 'freak', lo spostato che compariva sulle scene del delitto, insultava tutti e sputava sentenze a destra e a manca per poi sparire all'improvviso, che aveva vinto la sua battaglia contro la droga, ma che spesso si lasciava lo stesso andare al suo irresistibile richiamo.

Lestrade non l'aveva mai trattato male, fin dal loro primo incontro, ormai una decina d'anni prima, perché riconosceva la sua genialità nonostante provenisse da una mente tanto irritante, anche se non era mai riuscito ad avvicinarlo realmente. Non prima che John Watson piombasse nelle loro vite, almeno.

E comunque, nemmeno allora Sherlock l'aveva fissato con l'orribile sguardo che invece gli stava rivolgendo in quel momento.

A Lestrade era bastata quell'occhiata a capire. Non aveva bisogno dell'intelletto dei fratelli Holmes per avvertire l'avversione che l'uomo davanti a sé provava nei suoi confronti.

"Chi sei tu?" aveva pensato, afflitto.

« Bene bene bene. » aveva esordito il detective con un sorriso sghembo « Chi abbiamo qui? »

Greg aveva deglutito, sotto lo sguardo indagatore dell'altro, che nel frattempo aveva ridotto gli occhi a due fessure, abbassando il capo per far scorrere le dita sulle labbra.

« Il traditore. » aveva sibilato.

A quell'accusa glaciale, la bocca e la gola dell'ispettore erano diventate secche.

« Cos'è, non riesce a trovare nulla di più intelligente da fare che strabuzzare gli occhi? » lo aveva deriso « Peccato, mi aspettavo almeno un tentativo di discolparsi dal Detective Ispettore Gregory Lestrade di Scotland Yard. »

Greg era rimasto impietrito, totalmente incapace di muovere un muscolo, mentre le parole dell'altro s'insinuavano fin nei recessi della propria mente.

« Su, mi faccia questo favore, Lestrade. Almeno questo me lo deve. » aveva infierito.

« Io non ti ho tradito. » era riuscito a ribattere alla fine, la voce malferma, accorgendosi solo in quell'istante come l'amico gli si stesse invece rivolgendo in modo formale.

Sherlock aveva alzato un sopracciglio.

« Un po' debole come difesa, ispettore. » si era bloccato, come a riflettere sulle prossime parole da usare « Allora rendiamo l'accusa più specifica. Non è stato forse lei quel giorno ad arrestarmi? »

L'espressione di Greg si era oscurata, mentre rifletteva sulle sue parole.

"L'unica volta in cui è succesa una cosa simile è stato quando… oh."

La comprensione gli aveva disteso i lineamenti, e lo sguardo vigile di Sherlock non si era lasciato scappare il cambiamento.

« Vedo che cominciamo a comprenderci. Lei mi ha arrestato, e accusato di essere un impostore, un criminale per giunta! »

"Tutto ciò non ha senso." aveva pensato l'ispettore, senza sapere cosa rispondergli "Sa benissimo cos'è successo davvero, non era mia intenzione, diamine!"

« Io non… » aveva balbettato.

« Vuole forse dirmi che non è stato lei ad arrestarmi? » l'aveva interrotto.

« No, io… l'ho fatto. » era stato costretto ad ammettere.

« Con l'accusa di essere un bugiardo, di aver inventato tutti i casi, di esserne stato io l'artefice? Per un vezzo e divertimento? » l'aveva incalzato.

« Sì, quella era l'accusa, ma- »

« Dopo che io l'avevo aiutata nel corso di innumerevoli anni a risolvere praticamente tutti i suoi casi, senza chiedere nulla in cambio? »

« Certo, hai ragione, però- »

« Non è forse successo che queste ridicole imputazioni abbiano messo tutta l'opinione pubblica e la polizia contro di me? »

« È andata così, non lo posso negar- »

« Non è vero quindi che, con le spalle al muro, sono stato costretto a fingere la mia stessa morte e nascondermi da tutti per ben due anni? »

« Sì, immagino che sia stato anche quello il moti- »

« E non è meschino, secondo lei, che tutto questo sia avvenuto a causa del tradimento dell'unico amico su cui potevo contare? »

La voce di Sherlock si era abbassata di un poco, rotta, come una breccia in quel fiume di attacchi verbali.

E a quelle parole la nebbia nei pensieri di Lestrade si era schiarita.

"Il suo unico amico?" si era chiesto, "Ma… John? Oh, no, sta parlando di me!"

Lestrade sapeva bene che Sherlock poteva essere crudele quando voleva, cattivo con le parole… ma quello non era solo un tentativo di ferirlo per un infantile desiderio di vendetta.

"Non si sta riferendo a John, e con ogni probabilità nemmeno esiste Moriarty in questa equazione. È tutto sbagliato, tutto… contorto. Tuttavia Sherlock crede in quello che dice, crede davvero a questa bugia, a questa realtà distorta." aveva realizzato.

« Bene, ispettore, come vede abbiamo raggiunto un accordo. » aveva continuato il detective, prendendo il silenzio di Lestrade come un'ammissione di colpa « Lei mi ha tradito, e io non voglio più avere nulla a che fare con lei. Lieto di aver messo in chiaro le cose. E ora, mi faccia il piacere: se ne vada. »

Detto questo, si era girato di lato nel letto, dandogli le spalle, come un bambino offeso che tiene il broncio. Un bambino deluso, pieno di sfiducia negli altri, un bambino a cui hanno tolto l'unico amico al mondo, un bambino solo.

A Greg non era rimasto altro che indietreggiare, la testa leggera e le gambe molli, provato da quell'incontro, scosso dal senso di colpa, perché nonostante l'alterazione delle cose, rimaneva un fondo di verità in quello di cui l'amico l'aveva accusato. Sulla porta, l'aveva sentito borbottare: « Caring is not an advantage. [2] »

Ma non aveva trovato la forza di contraddirlo.

 

Mycroft fa un gesto vago della mano, come a voler scacciare via una mosca molesta, e Greg intuisce che quello sia il suo modo per dargli il permesso di parlare. Per quanto irritabile sia, almeno ha l'efficace conseguenza di riscuoterlo da quel ricordo.

Sotto il cipiglio austero del maggiore degli Holmes, si schiarisce la gola impastata dal liquore, per poi cominciare a parlare.

« Dunque. Ho provato a ripercorrere tutte le mosse di Sherlock da quando è iniziato questo caso, oltre a quelle del nostro misterioso uomo. E sono abbastanza sicuro del fatto che a un certo punto lui… » esita per un attimo, sperando di leggere negli occhi dell'altro quanto la sua ipotesi sia semplice follia, ma non incontra nulla se non una glaciale compostezza. Tira un respiro più lungo, che usa per dire la frase tutta in una volta: « Io credo che Sherlock sapesse chi fosse il suo avversario, ben prima di essere rapito. Deve averlo capito a un certo punto. Questa è l'unica spiegazione al suo strano comportamento. »

Era solo un'idea lontana in qualche recesso del suo cervello, non aveva mai davvero riflettuto su un'opzione simile, ma ora che l'alcol ha sciolto le parole e l'ha pronunciato ad alta voce, comprende che non può essere altrimenti.

Greg osserva di sottecchi Mycroft, aspettando che questi gli dia dell'idiota o qualcosa di simile, ma questo non accade. Anzi, l'uomo incrocia elegantemente le gambe una sull'altra, in un gesto fluido mette a posto la giacca con la mano destra, mentre con la sinistra si porta il bicchiere alle labbra. Nient'altro come risposta.

« Tre… tre anni fa. » continua allora l'ispettore, persuaso di avere via libera nelle sue elucubrazioni « Sherlock sarebbe davvero stato pronto a suicidarsi su quel cornicione, non è vero? Se qualcosa fosse andato storto, intendo. » si passa la mano sul volto, « È probabile che non glielo avesse detto in modo aperto, ma io… io credo che avrebbe potuto farlo sul serio. E lei deve averlo saputo. Doveva saperlo… eppure gliel'ha lasciato fare. È stato, è stato forse per il senso di colpa? Per aver svelato tutto a Moriarty, dico. No, cioè. John me l'ha detto che era un vostro piano fin dall'inizio. Però c'era la possibilità che morisse davvero, no? Oppure, oppure voi Holmes vi credete davvero onnipotenti, e lei non si è nemmeno posto il problema? »

Greg si blocca, torturandosi un labbro, per fermare quella scia di parole balbettanti. "Gesù, che diavolo sto dicendo?"

Si costringe a guardarlo apertamente, certo che troverà sfida e ira nei suoi occhi. Invece Mycroft è rimasto nella stessa posizione di prima, prima che Lestrade lo sommergesse di critiche. Negli occhi solo un leggero luccichio a indicare che qualcosa sia cambiato.

"Come cazzo fai a conservare il tuo dannatissimo aplomb anche in una situazione del genere?" si chiede Greg, indispettito, poi guarda nel bicchiere, trovandolo vuoto. "Ho decisamente bevuto troppo."

Chiude gli occhi per un secondo, dando un finto colpo di tosse, dunque posa il bicchiere sul basso tavolino.

« Quello che voglio dire… » apre gli occhi e li fissa in quelli dell'altro « Quello che voglio dire è che credo sia possibile che Sherlock avesse capito qualcosa, ma non l'abbia detto a nessuno. E questo mi porta a pensare che sia stato per proteggerci, in qualche modo, come aveva già fatto con il suo finto suicidio. Magari… forse è andato incontro a tutto questo di sua spontanea volontà. »

Lestrade si abbandona sulla poltrona, lasciando cadere la testa all'indietro.

« Ecco, l'ho detto. » non ottiene nessuna reazione dall'altro, dunque lo sbircia a occhi socchiusi « Ora può anche insultarmi, se vuole. Era questo che pensava volessi dirle? »

« Esatto. E non lo pensavo, l'ho dedotto. » infine Lestrade ottiene una reazione da Mycroft, « E, visto che se lo sta chiedendo, non ho risposto alle sue insinuazioni solamente perché stavo aspettando che mi desse il permesso di parlare, avendomi chiesto di ascoltarla con attenzione. »

Lestrade lo guarda sbalordito, mentre Mycroft si esibisce in uno dei suoi sorrisetti più cordiali e sfacciati.

« Umpf. » sbuffa poi Greg, arrendendosi, « Quindi crede che… la mia supposizione sia giusta? »

« Mi sono fatto un'idea simile, sì. Non ne ho le prove, tuttavia la sua analisi è stata abbastanza accurata. »

Greg alza gli occhi al cielo: "Ed ecco il miglior complimento che otterrò da questa voce, signori e signore!"

Lestrade gli lancia un'occhiata speculativa. "E non risponderà a nessuna delle mie allusioni, ovvio." capisce "Ma forse è meglio così."

Cade il silenzio nella stanza, permettendogli di riflettere per qualche secondo a quello che ha detto, a quello che entrambi credono, e si lascia scappare un sospiro frustato, mentre l'enormità della cosa colpisce la parte ancora lucida del suo cervello: "Dio Sherlock, cosa diavolo hai fatto?"

Senza alcun preavviso, Mycroft gli posa una mano sull'avambraccio, in un lieve gesto incoraggiamento, e Greg rimane a fissarla con sguardo vacuo, incredulo per quel contatto.

« La mente di mio fratello è… ottenebrata. » sussurra il maggiore degli Holmes, senza capire quanto quell'inaspettato tocco abbia sorpreso il suo ospite, "O molto più probabilmente, lo sta ignorando" pensa Greg.

« Lui non sa quello che dice, o meglio, crede di saperlo, ma in realtà non lo pensa davvero. » continua Holmes, mentre Lestrade è sempre più confuso: "Di che cazzo stai parlando?", « Per lo meno non il vero Sherlock. Non deve stare troppo a rimuginare su ciò che le ha detto ieri, Gregory. »

Al suono del suo nome, Lestrade alza gli occhi sull'altro, e le sue palpebre sbattono un paio di volte, prima che gli arrivi l'illuminazione: "Ah. Parla della nostra conversazione. Sherlock che mi dice che l'ho tradito. Sì, quella roba. Cacchio, sono lento. Inizio a essere ubriaco. "

Seguito da un altro pensiero: "Un attimo… ma allora stava registrando con le telecamere anche quello! O l'ha solo visto dalla parete-specchio! Brutto stronzo bastardo! Che fine ha fatto la privacy?"

Greg apre la bocca per esternare quei pensieri, ma alla fine rinuncia e la serra. Non ha nessuna intenzione di scoprire quanto in là possa spingersi la pazienza del Governo Inglese in persona.

"E poi… mi ha chiamato per nome. Questo deve violare almeno una decina delle sue regole del cazzo."

I loro sguardi s'incrociano per un attimo, e Greg vede Mycroft esitare, come se fosse a disagio. "Mh, Mycroft 'maledettissimo' Holmes in imbarazzo. Questo sì che è un evento."

« Io lo so che lei è sempre stato un buon amico per Sherlock. » afferma alla fine « Gli è stato vicino. La ringrazio. »

L'ispettore lo fissa senza parole. Nonostante tutto, forse Mycroft sta davvero cercando di rassicurarlo. Perciò Greg si limita ad annuire rudemente e a farfugliare: « Uhm, sì… grazie. Cioè, prego… di nulla. »

Il maggiore degli Holmes sposta la propria mano dal braccio dell'altro e sorride di poco, in un'espressione che Lestrade noterebbe come più aperta e sincera del solito, se non fosse occupato a riordinare i propri pensieri e a costruire la prossima frase.

« Quindi… cosa facciamo ora? John? » chiede alla fine, speranzoso, per cambiare discorso.

« No, non credo sia il caso di coinvolgere il dottor Watson. Avrà già il suo bel daffare nel riportare indietro mio fratello. Lui è l'unico che potrebbe farcela davvero. »

« Lui non- err… lui non è stupido. »

« No, certo che no. Only an idiot would surround himself with idiots. [3] Vuole sapere se secondo me John ha intuito qualcosa di questa nostra ipotesi? Credo proprio di sì, ma non a livello conscio. »

Greg si ritrova ad annuire in modo sciocco "Sarebbe da John, sì. Capire Sherlock… senza però capirlo. Ha senso questa cosa?"

« Vuole invece sapere se secondo me intuirà che stiamo portando avanti un'indagine parallela senza di lui? Forse lo scoprirà, ma lascerò a lei il compito di occuparsene. »

Mycroft gli sorride enigmatico, e Greg ci mette qualche secondo a capire il vero significato di quelle parole.

« Aspetti… cosa? » mormora alla fine, tirandosi su sulla poltrona « Indagini parallele? »

« Esatto. » assente « Io e lei. »

Greg passa incredulo lo sguardo dalla sua bocca ai suoi occhi. Sorriso da squalo, occhi che luccicano in modo sinistro, ghigno compiaciuto, sguardo persuasivo.

"Oh, no. Non scherza." pensa, "Com'è che avevo detto a Sherlock? 'Non faccio solo quello che mi dice tuo fratello'[4], eh? Mi sa che dovrò ricredermi."

E quello che si accascia con un gemito sulla poltrona, coprendosi gli occhi con una mano, è un Gregory Lestrade piuttosto ubriaco e malridotto, arreso a un destino di complicazioni chiamati 'Holmes'.

 

 

***

 

 

Mycroft ha trascorso gli ultimi tre giorni a tentare di comunicare con il fratello, a vegliare sui suoi progressi, a provare a comprendere qualcosa di più, senza ottenere molti risultati; Sherlock si sta ristabilendo in fretta, nonostante le tracce delle torture che ha subito rimangano ben impresse, non solo sul suo corpo: è più lucido ogni ora che passa, favorito anche dal fatto di avere sempre meno sostanze estranee in circolo, ma la sua mente non da segni di qualche miglioramento significativo; chiunque si sia occupato del suo Mind Palace, ha svolto egregiamente il proprio compito.

Mycroft è dietro alla parete-specchio, appoggiato al suo ombrello prediletto, tentando di trovare conforto in quella posizione tanto abituale; osserva Sherlock, al momento catturato dai genitori in un affettuoso abbraccio: per un attimo, quando sono entrati nella stanza, Mycroft ha temuto che il fratellino si fosse dimenticato di loro e si era domandato quanto questo avrebbe spezzato il cuore dei propri genitori, ma poi Sherlock aveva sorriso, e tutto era andato bene, per fortuna; tuttavia ci sarebbe da chiedersi come mai suo fratello non abbia la solita espressione sgomenta e sofferente, costretto in quella stretta fin troppo espansiva.

A quanto sembra, i loro genitori sono le uniche due persone, oltre al ragazzo, Bill, di cui Sherlock abbia conservato un ricordo intatto, e cosa dovrebbe dedurre da questo, Mycroft? Sempre che ci sia qualcosa da dedurre.

È piacevole scrutare quel quadretto famigliare, Mycroft può scorgere con chiarezza il bambino gentile e curioso che Sherlock è stato; allontana la leggera fitta di invidia e nostalgia, e per l'ennesima volta nella sua vita si chiede come sia successo che Sherlock sia diventato l'uomo che ora ha davanti. Non in quel preciso istante, in realtà: ora a Mycroft ricorda un misto fra quel bambino fragile e pieno di sentimenti e passioni, e l'uomo distaccato e solo che era prima di incontrare John Watson.

Quel medico è stato una benedizione per lui, alla fine è riuscito a tirar fuori il meglio di suo fratello [5], come lui si era sempre auspicato, malgrado non fosse mai stato capace di realizzare quella speranza di persona; ha avuto successo nell'impresa di riaprire il cuore di Sherlock a quelle emozioni che aveva serrato in fondo al cervello, nei ricordi della sua infanzia, gli ha rimembrato l'importanza del contatto umano, dei valori quali l'amicizia e l'affetto.

Mycroft non ha mai necessitato di quel genere di sentimenti: li comprende, e forse ogni tanto li apprezza, ma non ne avverte la mancanza; mentre Sherlock è sempre stato dissimile da lui: da ragazzino aveva cercato disperatamente di ottenere per sé quelle cose, ma la sua stranezza, la sua intelligenza l'avevano sempre più allontanato dalle altre persone, rendendolo incapace di stringere legami. E se questo aveva reso Mycroft indifferente al resto della popolazione mondiale, Sherlock ne era uscito distrutto: si era chiuso in se stesso, preferendo dimenticare piuttosto che affrontare di nuovo il mondo, per non rischiare di ferirsi ancora.

In questo modo era diventato l'high-functioning sociopath [6], come amava definirsi, mentre lui… lui era divenuto l'Uomo di Ghiaccio.

A rifletterci accuratamente, Mycroft trovava ironico quanto partendo da due situazioni tanto simili, fossero sfociati in percorsi così diversi: Mycroft era pigro, detestava l'avventura, e preferiva l'esercizio mentale al lavoro sul campo, perciò era diventato un uomo di governo, tanto abile a tramare e tirare i fili delle sue marionette, riparato dall'ombra, quanto a placare le necessità del proprio corpo con dolci e sfizi analoghi, pago di essersi stabilizzato in un'esistenza con la quale sentisse di essere utile al proprio Paese, in qualche modo, senza allo stesso tempo annoiarsi mai; Sherlock non aveva avuto altrettanta fortuna: era un uomo d'azione, bramava il brivido del pericolo e anelava il trovarsi sempre in prima linea, incapace di ammansire la propria mente, se non con enigmi e casi efferati, e, in mancanza di questi, si era ridotto ad applicare soluzioni autodistruttive, come il fumo o la droga, e pur tuttavia, l'inevitabile tedio lo afferrava a cicli costanti, forse perché avvertiva di non avere davvero qualcosa d'importante nella propria vita. Ovviamente prima dell'arrivo di John, esatto?

Eppure, la sostanziale differenza non consisteva in questo, quanto nel rapporto con il resto del mondo; Mycroft era giunto presto alla conclusione di come in realtà bastasse poco per farsi spazio nella vita: le labbra sempre aperte in un sorriso gentile, anche se non coinvolgeva gli occhi, perché in ogni caso quante persone se ne accorgono?, il tono calmo e suadente, parole garbate; in un mondo di goldfish l'unico modo per ottenere quello che si desidera è far pensare loro di essere carp, lucenti, fiere e capaci di risalire la corrente, e quando sono ormai satolli del loro finto successo, rivelarsi per quello che si è: shark pronti a mangiarli, oppure divorarli senza nemmeno dar tempo di rendersene conto [7]; ma Sherlock? questa era una lezione che il suo fratellino non aveva mai imparato: Mycroft riusciva ad affascinare le persone e a sfruttarle come voleva, pur continuando a vedere tutti come un oggetto; Sherlock, che invece aveva sempre agognato la compagnia altrui, non faceva altro che allontanarle con i suoi modi e tutto il suo essere.

Chiaramente Sherlock non ammetterebbe mai una cosa del genere, ma Mycroft conosce bene suo fratello, e sa dove risieda la verità.

Perciò i due fratelli, così simili eppure tanto diversi, avevano instaurato quel rapporto strano e a tratti morboso: si respingevano e si cercavano come magneti, consci di non poter trovare in nessun'altro una mente che potesse capirli altrettanto bene; tra loro è sempre stata un'infinita lotta a chi deduce prima, una gara a chi intuisce meglio, e guardandolo ora attraverso quel vetro a parete, Mycroft si dice che in fondo la loro relazione è sempre stata tale: Mycroft che lo osserva e ha cura di lui, rimandendo nascosto dietro a un muro e Sherlock, dall'altra parte, troppo cieco per accorgersi davvero della sua presenza; è mai stato un problema per Mycroft? non è sempre stato più divertente, più stimolante in questo modo? mentirebbe a se stesso, se dicesse di non aver adorato ogni singolo istante di quel loro gioco, di quel loro tiro alla fune: alcune cose devono semplicemente andare nel modo in cui vanno. E ora Mycroft ha perso il suo rivale, il suo acerrimo nemico, l'unica persona che davvero ami e che conti qualcosa per lui.

Perché lo Sherlock che lo fissa con odio oltre la porta, mentre i loro genitori escono dalla stanza, è tutto, è chiunque, fuorché il suo little brother.

 

I signori Holmes chiudono la porta della stanza di Sherlock, facendo scomparire la sua espressione dalla vista di Mycroft; tuttavia sarà difficile togliersela dalla mente, non è vero?

Sua madre si avvicina a lui, lo sguardo triste, sfiorandogli la guancia in una carezza dolce, e Mycroft non riesce a fare a meno di chiudere gli occhi per assaporare quel contatto, quel conforto accennato; ma dura solo un momento, poi il maggiore degli Holmes si rammenta di chi sia, ricorda che il ghiaccio è freddo e duro e non può avere esperienza del calore, pena la morte; perciò si scosta dalla mano della madre, sbuffando infastidito.

L'anziana lo guarda con occhi limpidi, forse appena un po' amareggiati, ma non sembra stupita della cosa: lei sa, Mycroft sa, Mycroft sa che la madre sa, e viceversa; non c'è nulla da dire.

« Mycroft… tuo fratello. »

Nessun nomignolo di quando era ragazzo; non una domanda ma nemmeno una risposta; nessuna intonazione nella frase; che cosa, madre? cosa vuole sapere? cosa vuole che Mycroft le dica? cosa vuole da lui? che le assicuri che si prenderà cura di Sherlock? che le spieghi perché, per quale motivo, per l'ennesima volta non è stato capace di proteggerlo, di tenerlo lontano dai guai? perché continua a fallire come fratello, come suo figlio?

Mycroft scruta negli occhi della madre, la posizione rigida, le mani che stringono spasmodicamente il manico dell'ombrello; ma non può dedurre nulla, anzi, ha la sgradevole sensazione che sia la madre a dedurre tutto di lui: è più di una percezione, è una certezza. Dopotutto, i geni dei fratelli Holmes provengono dritti da lei, e se anche la donna ha rinunciato anni prima alla sua mente geniale, e non si è mai spinta oltre come i suoi figli, quelle tre parole, quel silenzio al posto del solito chiacchiericcio, indicano che sta leggendo l'anima del figlio, e Mycroft si sorprende a non esserne infastidito, a desiderarlo quasi, perché lei è l'unica che abbia mai saputo e avuto il diritto di farlo.

Mycroft si chiede se abbia trovato ciò che cerca; si chiede se non siano tutte cose che, dopotutto, la madre conosce già.

Le labbra della donna si stirano in una linea grave, in un sorriso che non trova la strada per riemergere da sotto la pelle; ma Mycroft lo vede, Mycroft sa, e la madre anche.

La signora Holmes annuisce lieve, prima di passare oltre al figlio con un ultimo sguardo carico di affetto.

Il padre ha un'espressione più aperta, Mycroft impiega una frazione di secondo a decifrare il suo volto, e le sue parole sono rotte, sofferenti.

« Resteremo al solito Hotel, finché ce ne sarà bisogno. »

Poi il signor Holmes lancia uno sguardo alla moglie, che si sta allontanando verso l'uscita.

« Lei… si preoccupa, lei… » deglutisce, « Si sente in colpa, ha paura che accada di nuovo come con… »

« Lo so, papà, lo so. » lo ferma Mycroft, e dopo aver pronunciato le parole si accorge con disappunto di non essere riuscito del tutto a nascondere il tremolio nella sua voce.

Il padre gli stringe una spalla per qualche secondo, gli sorride e raggiunge la moglie.

Solo quando Mycroft sente il portone della casa richiudersi, riesce a tirare un sospiro per scaricare tutta la tensione accumulata. Le sue nocche sono diventate bianche, tanto ha stretto l'ombrello.

 

« Fratello. » lo accoglie a mo' di saluto Sherlock, non appena Mycroft chiude la porta dietro di sé.

Il detective è seduto sul letto, avvolto da una vestaglia beige, la schiena poggiata alla testiera, i piedi nudi intrecciati, la testa reclinata all'indietro sui morbidi cuscini, i polpastrelli congiunti nella consueta posizione del pensatore.

Mycroft potrebbe fingere che non sia cambiato nulla, se non fosse per la stanza estranea, per il fatto che quella non è Baker Street, il suo regno; per i macchinari intorno al letto, per la flebo attaccata al dorso della mano, per i gessi alle gambe e le fasciature intorno al torace, per i segni violacei sulle braccia, sul collo, per le ferite che i suoi occhi non possono vedere sotto i vestiti ma che il suo cervello è capace di contare con estrema precisione; e per la voce fredda, per il tono calcolatore, per l'espressione ferina che gli sta dedicando; Dio, Mycroft non avrebbe mai immaginato che sarebbe arrivato il giorno in cui avrebbe rimpianto le sue chiamate insensate, il suo tono beffardo, le frasi come "Hello, brother dear. How are you?" [8] pronunciante con quell'irriverenza, quella sfida a cui non sapeva rifiutare nulla.

« Sherlock. » risponde alla fine, cercando di infondere nel suo tono una sicurezza che in realtà non sente di possedere; fortunatamente, anni di esercizio fanno la loro parte.

Il fratello alza un angolo della bocca in un sogghigno accennato, gli occhi accesi da una luce arrogante.

« Fammi indovinare. Sei qui per convincermi della tua versione dei fatti, giusto? » non gli da il tempo di rispondere, « Ancora Mycroft? Da quando ti sei ridotto a ripetere le cose come un volgare e comune uomo? »

La mascella di Mycroft si contrae, mentre unisce le mani sul manico dell'ombrello, facendo sbattere la punta a terra per qualche secondo; non ha intenzione di dargli la soddisfazione di rispondergli, no, non si abbasserà ai suoi giochetti; o piuttosto è che ha paura di tradirsi, se solo aprisse bocca?

Sherlock lo tenta con il silenzio, scrutando con attenzione, poi separa le dita, portandosi l'indice alla bocca, e quindi scuotendolo contro di lui.

« Lo sai, Mycroft, questo è il terzo giorno di seguito che vieni qui, con le stesse intenzioni. È commovente. » il suo volto si apre in una smorfia, « O meglio, lo sarebbe se me ne importasse qualcosa e se non fossi convinto che in realtà faccia tutto parte del tuo piano. »

I suoi occhi vagano per la stanza, indifferenti, per poi posarsi di nuovo sul fratello.

« Comunque. È chiaro che questa volta non hai intenzione di reagire alle mie provocazioni. Ammirevole, devo riconoscerlo. Allora permettimi di continuare, ti dispiace? »

Senza aspettare un segno da parte sua, si volta, afferrando il laptop lasciato sul comodino vicino; lo accende e prende a fissare lo schermo, per un attimo acceso dalla stessa abnegazione che sempre si può osservare sul suo viso durante lo svolgimento di un enigma.

« Partiamo dal mio caro amico Gregory Lestrade. I fascicoli dei casi che mi hai dato da controllare… lo ammetto, li ho trovati piuttosto illuminanti. »

Per un secondo Mycroft viene afferrato dalla speranza di essere riuscito a far breccia in quella oscura corazza, ma quando gli occhi di Sherlock si alzano nei suoi, si ricrede immediatamente; lo sta deridendo: è solo un gioco per lui.

« Dico sul serio. » prosegue, ignorando il cambio di postura nel fratello, le emozioni che sono passate sul suo viso, « Cinque anni di casi che ho risolto per New Scotland Yard riscritti, modificati, aggiungendo dettagli assurdi, sfumature che… sul serio credevi che ci sarei cascato? »

Ora il fratello minore lo schernisce apertamente, il volto sfigurato in un'espressione di irrisoria incredulità; e Mycroft si chiede come possa fargli vedere la verità: come può convincerlo che quella sia la realtà, mentre tutto ciò che crede di conoscere… è solo una menzogna?

« Lestrade è la mente più brillante di Scotland Yard, il migliore in un branco di imbecilli [9], questo l'ho sempre sostenuto, e con te a fianco immagino abbiate smosso il mondo intero per mettere su tutta questa commedia, ma Mycroft, te lo devo dire, tu mi stai sottovalutando. Mi basterà un particolare minimo, una punta di spillo, e tirerò giù questo castello di carte che hai creato. »

Mycroft pensa all'ispettore, all'abbattuto uomo che solo due sere prima ha accolto in quella casa: l'interessante reazione che Sherlock ha avuto nei suoi confronti è stata determinante per comprendere la vera entità della situazione, per capire quanto a fondo fossero riusciti a deviare il suo Mind Palace, a mescolare i suoi ricordi e riscrivere gli eventi togliendo particolari più o meno importanti, per renderli distorti, eppure così maledettamente reali, poiché appena differenti dalla verità; ma il modo in cui Lestrade era uscito da quel confronto aveva annullato in Mycroft ogni briciolo di esultanza.

« Sherlock. » ha finalmente la forza di replicare, « Te l'ho detto, non è come pensi. »

« Certo, certo. » il fratello svolazza la mano in sua direzione, tornando a concentrarsi sul computer « Me l'hai raccontato. Moriarty prima e la sua gigantesca rete d'inganni poi, che a quanto pare mi hanno tenuto impegnato almeno per tre anni, come no. Mi sembra ragionevolissimo. Quasi quanto tu che ti diverti a inventare tutto, con la tua costosa stilografica in mano, nell'ombra del tuo ufficio. Moriarty. Potevi almeno sforzarti un po', con il nome, per renderlo più credibile, eh? E poi… » si lascia sfuggire una risata amara, « Consulente criminale, addirittura. Consulente criminale, Mycroft, sul serio? »

L'istinto gli suggerirebbe di alzare il suo ombrello e darlo più volte in testa al suo caro fratellino; ma l'autocontrollo è da sempre il miglior talento di Mycroft Holmes, perciò si limita a rotearlo di trecentosessanta gradi, cambiando poi posizione.

« Infine il pezzo forte: questo. » e Sherlock gira lo schermo del computer così che il fratello possa vederlo, « E qui Mycroft hai decisamente superato te stesso. »

Quello che Sherlock gli sta mostrando è il blog di John Watson.

« Un blog! Un blog dove questo presunto mio migliore amico, John Watson » e Mycroft nota la smorfia e il brivido che percorrono il fratello nel pronunciare il suo nome, « Ha descritto i casi che abbiamo risolto insieme in questi anni. Insieme! Un collega per i miei casi! Un migliore amico! Io! » ogni frase esclamata con un misto di stupore, scherno, e disgusto in parti uguali.

« Sherlock, non so come altro dirtelo, è la verità. Non ho inventato nulla, non ho nessun piano. Non so cosa pensi che ti abbia fatto, ma John è sul serio il tuo migliore amico, anzi tu sei stato il suo testimone di nozze. Il blog è vero, tutto quello che c'è scritto è accaduto. Qualcuno ha messo mano nel tuo Mind Palace, Sherlock, ciò che credi di sapere non è reale. »

Sherlock scoppia a ridere, un suono freddo e metallico che fa gelare il sangue persino all'Uomo di Ghiaccio in persona.

« Io non ho amici, Mycroft. Ho solo avversari, e nemici mortali. »

E all'improvviso Mycroft realizza che l'uomo che ha davanti non è suo fratello bambino, fragile e sperduto, non è l'autolesionista manipolatore che è stato prima di John, né il brillante detective con il suo blogger accanto: è lo Sherlock come sarebbe diventato se non avesse conosciuto John, se non avesse incontrato una persona abbastanza intelligente e onesta da riconoscere il suo genio senza tacciarlo del soprannome di mostro, una persona tanto sensibile da riuscire a oltrepassare le sue barriere e renderlo un uomo migliore; Mycroft si chiede se il dottore sia consapevole del miracolo che ha ottenuto con Sherlock, se sia consapevole di averlo salvato da un'esistenza grigia e solitaria, se sia consapevole di essere riuscito a fargli comprendere di essere "a ridiculous man, redeemed only by the warmth and constancy of yours friendship" [10].

Lo sguardo di Mycroft è mesto, ora, mentre scuote piano la testa, non ha senso dire null'altro ormai.

« Questo significa » decide solo di chiedergli, « che domani non prenderai parte al - »

« Al tuo piccolo show? » gli occhi di Sherlock brillano « Oh, no, caro fratello. Non me lo perderei per nulla al mondo. Sono proprio curioso di sapere cosa ti inventerai. Hai in mente qualcosa, fratello, lo so. E sta sicuro che lo scoprirò. »

Mycroft annuisce meccanicamente, decidendo di accettare quella piccola vittoria senza commentare; ma il modo in cui lo sta guardando… non può più sopportarlo: sostiene quello sguardo astioso per appena un secondo, poi si volta, sicuro che potrà vederlo davanti a sé ogni volta che chiuderà gli occhi, imperituro memento della sua fallibilità, della sua debolezza.

« Sai, Magnussen aveva ragione. » afferma Mycroft, allontanandosi verso l'uscio, mentre pensa a quello che il disgustoso uomo aveva detto: Sherlock è sempre stato il suo pressure point [11], e lo sarà sempre; « Te lo prometto, Sherlock ti farò tornare come prima. »

Mycroft ha già una mano sulla maniglia della porta, quando Sherlock apre di nuovo bocca.

« Io ti odio. » dichiara, scandendo con cura e lentezza le sillabe.

Mycroft si blocca, chiude gli occhi, e in quel momento non è più tanto sicuro che il suo cuore sia una lastra di ghiaccio: da come si sta stringendo, colpito da quelle parole, da come si sta sciogliendo, è molto più simile a una fragile pallina di neve, piuttosto sporca, oltretutto.

« Sì, lo posso dedurre, Sherlock. » sussurra in risposta, prima di sparire oltre la porta, la maledetta voce che lo tradisce e trema, « Lo vedo. Lo so. »

 

 

***

 

 

L'uomo si rigira e si dimena nel letto, irrequieto. La notte è scesa da diverse ore ormai, ma non ha portato con sé il sonno ristoratore che desidera e di cui avrebbe bisogno.

« John? » sussurra Mary, la voce impastata, « Non riesci a dormire? »

« No. » è la laconica risposta che arriva dal medico.

« Vuoi parlarne? »

« No. » replica ancora, dopo un attimo di esitazione.

La donna accende la luce della abat-jour sul comodino, poi si volta verso il marito, scostando il copriletto color perla e stendendosi su un fianco, le mani unite a far da cuscino al volto.

« John? » chiede ancora, osservando il volto teso del marito, i suoi occhi serrati con forza, « John, parla con me. »

John sospira e si arrende, preferendo però nascondersi dietro il palmo della propria mano, dopo aver sospirato e essersi strofinato la fronte in cerca di un sollievo irraggiungibile.

« Sei in agitazione per domani? » prova allora a spronarlo con delicatezza.

John annuisce piano.

« Lo so, amore, lo so. » risponde Mary, per poi appoggiargli una mano sulla spalla. È l'incoraggiamento che l'uomo stava aspettando.

« È che… » mormora, « È che non capisco, non riesco a comprendere perché lui dovrebbe aver paura di me, e io… non voglio più che mi guardi con quegli occhi. »

Mary allunga la sua carezza dalla spalla, al collo, al volto, fino a prendere la mano dietro cui John si nasconde, e stringerla nella sua. John si volta a guardarla, e ora sono occhi negli occhi. Mary si mordicchia un labbro.

« Non hai… » inizia a dire, cercando le parole giuste, « Non hai nessun'idea del motivo, non ti viene in mente nulla che potrebbe giustificare questa sua reazione? »

« Mary, sono stato in guerra. E continuo a rispettare la decisione di non sapere nulla del tuo passato, » e dicendo queste parole alza una mano davanti alla moglie per prevenire qualsiasi sua obbiezione, « ma se è vero anche solo l'un per cento di ciò che posso immaginare… sappiamo bene tutti e due quale potrebbe essere il motivo. »

Si fissano per qualche secondo, consapevoli di star pensando alla stessa cosa.

Mary sospira, si avvicina di più al marito, e posa la testa sulla sua spalla, stringendogli forte la mano. John si irrigidisce appena sotto quel contatto, perché - anche se l'ha perdonata - con la gravidanza prima, la bambina poi e i suoi sentimenti ancora scombussolati, sono stati pochi i momenti di intimità coniugale. Ma piano piano i suoi muscoli si distendono, perché quella è sempre la sua Mary, la donna che ama, e lui desidera solo abbracciarla e tenerla vicina a sé.

Esita ancora un attimo, quindi svela il peso che sente sulla bocca dello stomaco: « È il mio migliore amico. Fa male vederlo così, sapere come mi vede. »

« Non è lui, in questo momento, lo sai. È come… è come se fosse malato. Cerca di pensarla in questo modo, cerca di pensare che stai facendo di tutto per aiutarlo. »

« Come farò domani a stare nella stessa stanza con lui? » geme il dottore.

« Ti aiuterò io. Ti starò vicino, ce la faremo. Lo riporteremo indietro, John. »

Mary comincia a coprire il volto di John di leggere carezze, nel tentativo di infondergli sicurezza e tutto l'amore che prova per lui, e per un po' rimangono in silenzio.

« Sai » sussurra alla fine Mary, « Quando ti ho sposato lo sapevo. Sapevo che stavo sposando anche Sherlock, in un certo senso, la vita con il tuo pazzo migliore amico. E Sherlock… mi piace, te l'ho detto fin dal primo momento. Odierei perderlo, quanto te. »

« Disse la donna che gli ha aperto un buco nel torace con un proiettile. » ironizza John.

Mary scoppia a ridere, perché è bello sentire che ci scherza su, finalmente. Non ne hanno mai parlato se non con molta tensione, perciò anche John ridacchia.

Le carezze di Mary si spostano sul suo petto, in circolo, diventando via via più intense. Finché si tira su, lasciando la sua mano aperta sopra il cuore di John, per sentire il suo battito regolare, sostenendosi con l'altro braccio appoggiato sul letto, e lo fissa negli occhi.

« Dico davvero, John. » afferma, e l'azzurro dei suoi occhi è luminoso persino nella penombra della camera, « Dopotutto lui ha salvato il nostro matrimonio. »

« Ha salvato il nostro matrimonio? » ripete John, accigliandosi.

« Sì, perché le sue parole ti hanno convinto a non mandarmi via. » annuisce con un sorriso puro, « Per questo devo ringraziarlo. »

Quello che John sente in quella frase è profondo affetto, e quando Mary si avvicina, annullando piano lo spazio fra di loro, e poggiando le labbra sulle sue, la mano che ora stringe in modo significativo il suo petto, John decide che è ora di lasciarsi andare come non fa da tempo. E mentre chiude gli occhi e risponde al suo bacio, approfondendolo con la stessa urgenza e la stessa passione di Mary, pensa: "Alla fine avevi ragione, Sherlock. Mary è così perché io l'ho scelta, e noi ci amiamo e ci meritiamo come siamo. Tu hai sempre maledettamente ragione, Sherlock."

 

« Tutto ok? » la voce che gli pone la domanda, così come la stretta sulla sua spalla, appartiene a Greg.

John annuisce rigido, ma non si volta a guardarlo, né si fida a parlare - tanto dovrà tenere un lungo discorso di lì a poco.

Hanno discusso per una mezz'ora, poco prima, su chi dovesse iniziare, ma non c'erano molte alternative. John è di sicuro la scelta migliore, anche se da come gli altri l'hanno guardato deve esserci qualche riserva in proposito. John ha detestato i loro sguardi di compatimento, e per questo motivo ha combattuto, fermo nella sua posizione, ancora più strenuamente.

Doveva farlo lui, non aveva senso che fosse qualcun'altro. Anche se l'urlo di terrore che Sherlock aveva emesso alla sua vista ancora rimbomba tra le sinapsi del medico. "Non cederò." si era detto.

Mycroft si era assicurato che nei tre giorni precedenti Sherlock venisse a conoscenza della verità, l'aveva obbligato a leggere i fascicoli di Lestrade, a visitare il blog di John. Ma non era servito a nulla. John non era nemmeno sicuro che qualcuno avesse davvero avuto qualche speranza in proposito.

Sherlock aveva accettato di sottostare all'idea del fratello del racconto in diretta, anche se Mycroft aveva informato il medico di come il fratello minore credesse che avessero messo su una specie di teatrino volto a ingannarlo. Una grande cospirazione. John non si stupisce affatto che il cervello di Sherlock abbia elaborato un'idea tanto assurda come via di fuga, per non accettare la realtà. Tutto sommato, il fatto che si stia prestando alla cosa è comunque un buon segno, per lo meno un inizio.

Avevano deciso che per la prima volta sarebbero stati presenti in pochi, perciò John, Mary e Greg si trovano fuori dalla stanza di Sherlock, aspettando il segnale di Mycroft che è già entrato e sta preparando il fratello, mentre tutti gli altri sono seduti oltre la parete-specchio, nella camera adiacente.

John deglutisce. "Non ce la farò mai a guardarlo. Sì, invece. Ce la devo fare. Mio Dio, come faccio?"

I successivi minuti si confondono nei ricordi del dottore. Mycroft che spalanca la porta e fa un cenno, loro che entrano nella stanza, Sherlock che li scruta ad occhi semi aperti, John che evita il suo sguardo, Mary che gli prende la mano e quasi scivola nella stretta sudata del marito, Mycroft che dice qualche parola che il cervello di John registra ma non comprende appieno, Sherlock che fissa il suo sguardo su di lui e si irrigidisce, non apre bocca ma John riesce comunque a sentirne l'urlo, Mary che carezza con il pollice il dorso della sua mano, Greg che annuisce con occhi pieni di comprensione e incoraggiamento, la punta dell'ombrello di Mycroft che sbatte sul pavimento.

È ora. John prende un respiro profondo e comincia.

 

Era passata una settimana dalla comparsa del video di Moriarty, e tutte le volte che John era andato a trovare Sherlock l'aveva trovato a ripetere ossessivamente quel "Did you miss me?", a percorrere tutto il 221B in lunghe falcate, a rimanere in silenzio per ore, immerso nel suo Mind Palace. Niente di diverso, insomma. Se non fosse che John non abitava più in Baker Street, perciò non aveva tempo di aspettare che si destasse dalle sue elucubrazioni e avesse voglia di scambiare con il suo migliore amico almeno un paio di parole.

Era ormai tardo pomeriggio, John si era stufato di tentare di conversare con uno Sherlock che a malapena si accorgeva della sua presenza, alzare la voce non aveva avuto effetto, l'atmosfera era diventata piuttosto opprimente, così John era uscito stizzito dall'appartamento ed era sceso da Speedy's, nella speranza che un caffè e un po' d'aria respirabile gli distendessero i nervi.

Aveva appena terminato il liquido scuro nella sua tazzina, e stava fissando con sguardo vacuo la televisione sopra il bancone del bar - un noiosissimo telegiornale, sul serio, chi va al bar per sorbirsi un telegiornale? - quando lo schermo si oscurò in righe grigie, producendo un basso brontolio. Le prime note di una canzone cominciarono a spandersi per il locale, e a John bastò una manciata di secondi per riconoscerle. Qualcuno provò a cambiare canale, ma sembrava che tutte le emittenti stessero trasmettendo lo stesso programma. Lo schermo era ora nero, e John si stava già precipitato fuori dal locale, mentre una voce iniziava a cantare.

Well now, I get low and I get high,

And if I can't get either, I really try.

Le parole rimbombavano nelle scale mentre John saltava i gradini due a due. Gli pareva di sentire tutta Londra con il fiato sospeso - "Proprio adesso doveva succedere?"

Quando oltrepassò la porta, con il fiato corto, trovò Sherlock che fissava la televisione, le mani unite sotto il mento.

« Sette secondi, John. » disse Sherlock, senza guardarlo, mentre cominciava la frase successiva della canzone.

Got the wings of Heaven on my shoes.

« È lui? » chiese John, anche se conosceva già la risposta, guardando lo schermo sul quale ora era apparso un grosso '9' bianco.

I'm a dancing man and I just can't lose.

« Questa canzone è praticamente la sua firma. » aveva commentato Sherlock, mentre un '8' si sostituiva al precedente numero.

You know it's all right, it's ok.

« Perché i numeri? » aveva chiesto confuso, sedendosi di fianco all'investigatore.

I'll live to see another day.

« Un conto alla rovescia. » aveva spiegato Sherlock, « Il dieci all'inizio della canzone, poi il nove e ora l'otto a distanza di sei secondi esatti. »

« E cosa succederà alla fine? »

We can try to understand

The New York Times' affect on man.

« Un minuto e lo scopriremo. Ora fa' silenzio, John. » aveva risposto in un sussurro, mentre un '7' si sostituiva al precedente numero.

John aveva preso a tormentarsi le mani, osservando inquieto il televisore e seguendo le note della canzone.

Whether you're a brother

or whether you're a mother,

you're stayin' alive, stayin alive.

Un '6' apparve e scomparve, mentre la canzone arrivava al famoso ritornello.

Feel the city breakin' and everybody shakin',

And we're stayin alive, stayin' alive.

Ah, ah, ah, ah, stayin' alive, stayin' alive.

Ma subito dopo il '5' comparvero altre parole: "Did you miss me, Sherlock?"

Gli occhi del detective si allargarono leggermente, mentre la mascella del dottore si spalancava del tutto.

Ah, ah, ah, ah, stayin' alive.

Mentre il cantante dei Bee Gees si esibiva nel suo assolo, il '4' si sostituì al '5', e altre parole sbucarono al posto delle precedenti: "Stai cercando di capire?", e poi la frase: "Trafalgar Square, tra una settimana esatta."

Le parole si dissolsero, rimpiazzate dal '3', mentre il coro continuava a intonare la canzone, e John sentiva il cuore correre a mille lungo la gola.

Life going nowhere.

Somebody help me, somebody help me, yeah [12].

Quindi il '2', accompagnato dalla frase: "Ti servirà tutto l'aiuto possibile, Londra."

E un '1', con la scritta: "Perché faccio sul serio, yeah."

L'ultimo "stayin' alive" della canzone, prima che lo schermo tornasse a grossi pixel grigi, fu affiancato da uno '0' e dalle lettere: "K A B O O M".

Un enorme boato squassò l'aria. Sherlock balzò in piedi, andando alla finestra, seguito a ruota da John. Entrambi fissarono il cielo della City, percorso da fumo e bagliori rossastri. "Bomba, esplosione", ebbe solo il tempo di pensare John, la bocca e gli occhi spalancati dall'orrore, mentre lo sguardi di Sherlock si muoveva veloce lungo la sua Londra, schioccava le labbra e prendeva a parlare.

« Non una John, ma tre. » disse, per poi prendere a indicare diversi punti in aria, « West London, ha usato un palazzo che doveva essere demolito; Docklands, un magazzino vuoto, ci scommetto; e sul Tamigi, nei pressi del vecchio porto, probabilmente un traghetto rubato, piccolo ma pieno di esplosivo. »

John non si era chiesto come aveva dedotto quelle cose, sapeva che l'amico aveva perfettamente impressa nel cervello la cartina della City.

Lo sguardo di Sherlock si fece cupo, mentre si voltava e andava a sistemarsi sulla sua poltrona, immergendosi nel suo Mind Palace.

John era rimasto a osservare nervoso fuori dalla finestra, sotto i suoi occhi erano passate file di auto della polizia e ambulanze, tutte dirette ai tre punti descritti dall'investigatore. Londra si era fermata, rotta solo dal suono delle sirene. Il medico si era quindi spostato davanti alla televisione, facendo zapping per i canali, nella vana speranza di trovare qualche indizio.

Il suo cellulare aveva tremato due o tre volte, per messaggi da Mary, Greg e persino Mycroft, la prima preoccupata chiedeva sue notizie, il secondo gli aveva inviato qualche imprecazione e una richiesta d'aiuto per quel casino, mentre il maggiore degli Holmes si era limitato a scrivergli: Baker Street, fra un quarto d'ora? MH , come se non sapesse che li avrebbe trovati lì, il manipolatore.

Infine non aveva più resistito ed era andato a piazzarsi di fronte all'amico.

« Allora, Sherlock? » aveva aperto le braccia, esasperato, « Che sta succedendo? »

E l'investigatore questa volta si era degnato di alzare gli occhi nei suoi.

« Mi sembra ovvio, John. Questa è una sfida. Diretta a me. » aveva fatto una pausa ad effetto, e John aveva sbuffato, incrociando le braccia. "Dannata drama queen che non sei altro!" [13] aveva esclamato fra sé e sé.

« Un video mandato su tutti i canali della tv contemporaneamente » aveva continuato ignorando il disappunto dell'altro « Stayin' alive, la sua orma. Un appuntamento preciso. E le bombe, in luoghi innocui ma ben definiti, una minaccia subito messa in atto. Cosa ci sta dicendo, John? »

Il medico aveva alzato le sopracciglia.

« È ovvio, John. In un minuto ha messo bene in chiaro le sue intenzioni, che la città è sua e può farci quello che vuole. È un guanto di sfida, solo per me. »

Sherlock si era alzato dalla poltrona con un balzo, le mani che si producevano in un breve applauso, il volto aperto dall'entusiasmo.

« Ah, John, questo sì che è regalo di Natale in ritardo! » aveva esclamato, mentre si infilava il suo cappotto, annodandosi la sciarpa blu intorno al collo.

« Oh, no, è il momento, vero? » si era lamentato John, sospirando prima di passarsi una mano tra i capelli.

« Il momento? » Sherlock aveva alzato un sopracciglio, « Che momento? »

« Quel momento, Sherlock. » aveva risposto, calcando con enfasi sulla prima parola, per poi fare un gesto vago verso i suoi occhi illuminati da una scintilla di eccitazione.

« Oh. » aveva compreso il detective, le labbra che si arricciavano appena in un ghigno furbo « Sì, John, è il momento. »

Aveva sorriso, alzando il bavero del Belstaff in un solo movimento fluido, per poi pronunciare teatralmente la magica frase:

« The game is on. » [14]

 

 

***













 

Note:

 

[1] Those things will kill you = Quelle cose ti uccideranno. È la frase a effetto, riferita alle sigarette, che Sherlock dice a Lestrade nella 3x01, spuntando all'improvviso e rivelando la sua non-morte. Tutto il passo, l'abbraccio, gli insulti, il nome sbagliato, è riferito a quell'episodio.

 

[2] La famosissima "Caring is not an advantage", detta da Mycroft in "A scandal of Belgravia". Traduzione: soffrire non è un vantaggio, o almeno questa è la traduzione dei subs e anche della versione italiana, se non sbaglio. In realtà il verbo "to care" ha diversi significati: soffrire, curare, tenerci, preoccuparsi, interessarsi, voler bene… In questo caso, Sherlock la usa per dire che avere degli amici non è che uno svantaggio, visto che crede che Lestrade l'abbia tradito.

 

[3] Only an idiot would surround himself with idiots = Solo un idiota si circonderebbe di idioti. Niente canone questa volta: è una frase pronunciata da Mark Gatiss, parlando di come secondo lui Watson non sia affatto un idiota, come invece sembra prenderlo un po' in giro Conan Doyle nei suoi racconti, questo soprattutto perché, appunto, un tipo geniale come Sherlock non avrebbe potuto scegliere uno stupido come amico e collega. Mi sembrava carino mettere in bocca al personaggio di Gatiss le sue parole. ;)

 

[4] Non faccio solo quello che mi dice tuo fratello. Frase pronunciata da Lestrade nella 2x02, quando, a quanto sembra, Mycroft lo spedisce a Baskerville per controllare/aiutare Sherlock. Probabilmente è la frase che ha fatto nascere il Mystrade, visto che è il primo vero indizio di un contatto fra i due!

 

[5] Mycroft si riferisce al suo commento finale nella 1x01: "Interessante, quel soldato. Potrebbe tirar fuori il meglio da mio fratello… o renderlo peggiore che mai."

 

[6] High-funcioning sociopath. Mini nota, solo per dire quanto mi faccia ribrezzo la traduzione italiana "sociopatico iperattivo", mentre è "sociopatico ad alta funzionalità", che è tutta un'altra cosa! :P

 

[7] Goldfish, carp, shark. Rispettivamente: pesce rosso, carpa, squalo. Semplice metafora basata sulla definizione che Mycroft da delle persone normali nella 3x01: "Se per me tu sei lento, Sherlock, riesci a immaginare come vedo le persone normali? Vivo in un mondo di pesci rossi."

 

[8] "Hello, brother dear. How are you?" = "Ciao, fratello caro. Come stai?" Frase ironica e ammaliante con cui Sherlock esordisce al telefono con Mycroft, per chiedergli l'accesso ai laboratori di Baskerville, 2x02.

 

[9] Citazione da "Uno studio in rosso", anche se in realtà ho un po' barato. La frase originale di Doyle è: "Gregson è la mente più brillante di Scotland Yard. Lui e Lestrade sono i migliori in un branco d'imbecilli." Ma siccome l'unica apparizione che la BBC fa fare a Gregson è tutt'altro che lusinghiera (2x03, persino John gli tira un pugno! xD ), ho deciso di riferire tutto al solo Lestrade.

 

[10] Citazione dal discorso da testimone di Sherlock, nella 3x02. La frase originale è "John, I am a ridiculous man. Redeemed only by the warmth and constancy of your friendship." = "John, io sono un uomo ridicolo. Redento solo dal calore e dalla costanza della tua amicizia." Qui Mycroft la sta proprio citando a mente: non ho dubbi che sappia tutto di come sia andato il matrimonio. Ho trovato questa frase la migliore e più bella dichiarazione d'amicizia, non solo del discorso di Sherlock. Inchiniamoci a Gatiss/Moffat.

 

[11] Pressure point = punto di pressione, di debolezza. Particolare che, nella 3x03, Magnussen usa per piegare e minacciare le persone. Insomma, avete capito, la puntata la sappiamo tutti a memoria, ormai!

 

[12] Si tratta del pezzo centrale di "Stayin' alive" dei Bee Gees, che Moriarty ha come suoneria del cellulare sia nella 2x01 che nella 2x03. In italiano sarebbe pressappoco così: //Be', adesso, ho alti e bassi,/ e se anche non riesco a ottenere nulla, ci provo veramente./ Ho le ali del paradiso nelle mie scarpe./ Sono un uomo che balla, e non posso perdere./ Lo sai che va tutto bene. È ok./ Vivo per vedere un altro giorno./ Possiamo provare a capire/ che effetto fa il New York Times sull'uomo./ Che tu sia un fratello,/ o che tu sia una madre,/ tu sei un sopravvissuto, un sopravvissuto./ Ascolta la città, e tutti che iniziano a muoversi,/ e noi siamo dei sopravvissuti./ Ah, ah, ah, ah, sopravvissuti, sopravvissuti./ Ah, ah, ah, ah, sopravvissuti./ La vita non va da nessuna parte./ Qualcuno mi aiuti, qualcuno mi aiuti, yeah.// Notare che "Stayin' alive" si può tradurre anche con il più semplice "rimanere vivi", cosa su cui gioca Moriarty nella 2x03, chiamandolo "il loro problema finale". Naturalmente ogni riferimento e significato non è casuale. ;)

 

[13] Drama queen = primadonna. Il riferimento è alla frase di John nella 3x02, quando sia lui che Mary affermano che Sherlock non ha risolto prima il caso perché non era una questione di vita o di morte: "Non sei e non sei mai stato uno che risolve enigmi. Sei una primadonna!" (Quanto è bella questa scena?)

 

[14] The game is on = Il gioco è iniziato. Frase che Sherlock dice sempre quando… ma che ve lo dico a fare? XD

 

 

Nota finale:

Questo capitolo è un esperimento, e ci ho sudato un bel po' sopra. L'intento è di diversificare i diversi POV a seconda del personaggio usato, anche con la scrittura oltre che con il comportamento. Perciò John usa frasi brevi, pensieri diretti e indiretti, incisi, un registro medio ed è trattenuto con le parole; Lestrade è un po' più ironico e "colorito" nelle espressioni, e i suoi pensieri sono diretti; Mycroft usa frasi lunghe e articolate, con molti più punti e virgola, domande retoriche e rivolte a se stesso, un registro piuttosto alto, e i suoi pensieri escono in modo indiretto.

Questo è ciò che ho cercato di fare, almeno… spero abbia qualche senso per voi! :P

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** A Case of Identity - III parte ***


Perdonatemi per l'immenso ritardo.

La Real Life mi ha rapito, in più questo capitolo ha richiesto molte più ricerche e sforzi di quanto avessi immaginato, e alla fine è stato un parto... un parto lungo un mese e qualche giorno! xD

I flashback in questo capitolo la fanno da padrone, e c'è un nuovo POV che spero vi piacerà.

Siccome questo è un capitolo davvero molto importante e ho sputato sangue per scriverlo (e-ehm >.<), vi sarei molto grata se mi lasciaste un vostro parere, qualsiasi feedback è ben accetto, giuro, non siate timidi! :D

Non mi dilungo ulteriormente e vi lascio al capitolo (più lungo del precedente, yay!)...

Happy reading! ;)













 

A Case of Identity - III parte

 

 

 

***

 

 

Avrebbe dovuto intervenire, e in fretta anche; Mycroft lo capisce prima di chiunque altro, la sua mente è stata in modalità 'osservazione e deduzione' fin dall'inizio, e in verità non sarebbe nemmeno necessario il suo genio per arrivare a una tale conclusione e prevedere gli eventi che si susseguono rapidi: la voce del dottor Watson che si incrina e muore in un mormorio sommesso, i pugni chiusi lungo i fianchi, la schiena rigida, la mascella contratta e tremante, il volto abbassato a fissare i propri piedi. È riuscito a mantenere il contatto con lo sguardo di Sherlock più a lungo di quanto Mycroft avesse preventivato, questo bisogna concederglielo, ma le iridi velate di rabbia e ironia e odio di suo fratello hanno fatto desistere il caro dottore ben presto, costringendo i suoi occhi a trovare riparo ovunque nella stanza tranne che posati sulla sua persona; a metà racconto il suo tono ha cominciato ad abbassarsi, il corpo a rabbrividire lievemente, il respiro a farsi più corto, ed è davvero un miracolo che sia riuscito a giungere fino a quel punto.

Ma ora, è evidente, non ce la fa più.

Mycroft lancia un'occhiata alla signora Watson, riuscendo a intercettare il suo sguardo: quello che vi legge è la stessa comprensione dello stato in cui versa John, e il maggiore degli Holmes non si sorprende che la donna l'abbia letto quasi nel suo medesimo istante, considerando il suo passato e quanto conosca il proprio marito: Mary non si disturba a fargli un cenno di assenso e invece poggia una mano aperta dietro alla schiena di John, in un gesto rassicurante, mentre l'uomo strizza gli occhi e boccheggia per qualche secondo.

Mycroft torna perciò a concentrarsi sul volto del fratello, trovandolo a leccarsi le labbra con uno sguardo ferino di vittoria e un sorrisetto astuto sulle labbra; si sta compiacendo del disagio di John, si sta beando del suo dolore, e il maggiore degli Holmes è costretto a reprimere un inaspettato moto di ira e fastidio, prima di poter aprire bocca e prendere parola.

« Dottor Watson. » dice infine infondendo la sua voce di gentilezza « Le dispiace se continuo io? »

L'uomo alza gli occhi su di lui, guardandolo confuso: non erano questi i piani; Mycroft aveva messo in chiaro quanto preferisse restare estraneo alla narrazione dei fatti, in quanto riteneva essenziale poter studiare le reazioni che il fratello avrebbe avuto; tuttavia questa è una situazione di emergenza: non è nell'interesse di nessuno che John venga sopraffatto dalla pressante analisi di Sherlock, dalla sua arroganza e volontà di distruggere le persone che si trova davanti e che ritiene propri nemici. E considerato il punto in cui è arrivato Watson a raccontare, Mycroft è l'unica scelta possibile per finire.

« Preferirei riferire io a mio fratello gli eventi immediatamente successivi. » continua quindi, sforzandosi di alzare un angolo della bocca in un sorriso rassicurante, « Se questo non le crea disturbo, è logico. »

Mantenere le apparenze: questa è la parola d'ordine. Nonostante sia indubbio che nessuno dei presenti - da Lestrade che si dondola da un piede all'altro con le mani intrecciate dietro la schiena, a Mary che continua a tracciare le spalle del marito con lievi carezze, dalle persone che stanno seguendo la vicenda dietro alla parete-specchio, a, il maggiore degli Holmes ne è sicuro, Sherlock i cui occhi passano vigili e divertiti da John a Mycroft - possa non comprendere la reale ragione, tenere alta quella facciata è essenziale.

John annuisce docile, grato di quella via d'uscita che il maggiore degli Holmes gli ha insperabilmente presentato.

Lo sguardo di Mycroft si fissa sul fratello, che gli restituisce un'occhiata di sfida, prende un breve ma profondo respiro, e prima di cominciare a parlare si chiede se stia facendo la cosa giusta.

 

Si era preso il suo tempo, per salire le scale del 221 di Baker Street, ma quando alla fine era giunto al pianerottolo dell'appartamento B aveva trovato un impaziente Sherlock già sulla porta, completo di cappotto e sciarpa annodata, il piede a battere freneticamente al suolo, e uno sbuffante John intento a infilarsi la giacca.

« Fratello. » aveva sorriso Sherlock, rivolgendogli lo sguardo, « A cosa devo questa sgradevole visita? Non è di cortesia, immagino. »

« Immagini bene, infatti. » aveva replicato, fronteggiandolo e unendo le mani sul manico di legno di canna del pregiato ombrello.

« Non sarai qui per controllarmi? » aveva alzato un sopracciglio, ironico.

« L'idea era quella, sì. »

Mycroft aveva risposto con sorriso serafico allo sguardo stupito del fratello, che di certo non si aspettava tanta sincerità da parte sua, poi aveva approfittato del suo sbigottimento per continuare.

« So quanto le sfide ti attraggano, Sherlock. E penso che questa sia per te il corrispettivo di una donna attraente e disponibile per il dottor Watson. »

L'interpellato si era girato di scatto, fissando gli occhi sui due fratelli.

« Ehi! » aveva sbottato infastidito « Sono un uomo sposato, io! »

I due Holmes non gli avevano badato, troppo impegnati in una lotta di sguardi infuocati e sorrisetti acuti e appena accennati, e il dottore non aveva potuto far altro che borbottare ancora qualcosa per poi avvicinarsi a seguire meglio lo scambio di battute fra i due.

« Niente di interessante dalle tue CCTV [1]? » aveva dunque chiesto Sherlock.

« Silenzio di tomba. » Mycroft aveva scosso piano la testa « Tutto oscurato, per un intero minuto, come se non esistessero nemmeno. E quando il segnale è tornato non siamo riusciti a rintracciare la fonte dell'hacker. Ci stanno lavorando ancora, in questo momento. » aveva fatto una pausa, il pomo d'Adamo che scendeva e saliva, a disagio « Non era mai successa una cosa del genere. »

Gli occhi di Sherlock avevano brillato sinistramente.

« Abile, oltre che astuto. » aveva commentato, stupendo il fratello per l'assenza di qualche colpo basso al suo orgoglio ferito.

« Decisamente. Ed è questo che mi mette in allarme. »

« Perché mai dovrebbe angustiarti, brother dear? »

« Sei tu che mi preoccupi, Sherlock. »

Un risolino aveva abbandonato le labbra del fratello minore.

« Non vedo perché dovresti. Ho tutto sotto controllo. »

« Per ora. » aveva sussurrato Mycroft, le sopracciglia che si aggrottavano di poco.

Ma Sherlock non vi aveva prestato attenzione, rivolgendosi invece a John: « Vogliamo andare? »

Il medico si era riscosso dai propri pensieri e aveva annuito; Mycroft si era chiesto se anche l'uomo avesse compreso la pericolosità della situazione in cui Sherlock si stava buttando a capofitto, senza fermarsi a riflettere. Non nel modo che Mycroft avrebbe voluto, per lo meno.

I due uomini avevano preso a scendere le scale, quando il maggiore degli Holmes, senza riuscire a trattenersi, l'aveva chiamato.

« Sherlock? »

« Mh? » si era appena voltato, lasciando che il dottore lo superasse di un paio di gradini.

Mycroft aveva esitato, tuttavia sentiva il dovere di chiederglielo, e quella con ogni probabilità sarebbe stata l'unica occasione che avrebbe avuto.

« Credi che sia davvero Moriarty? »

Le pupille di Sherlock si erano ristrette, mentre i suoi occhi si fissavano in quelli del fratello, guardinghi.

« Lo stile è il suo. » aveva commentato alla fine Sherlock « La canzone, la minaccia, la sfida. Ma io l'ho visto morire su quel cornicione, Mycroft. Ho visto la pistola premuta nella sua bocca, il grilletto scattare, la pallottola perforargli il cervello, il sangue correre sull'asfalto. Non si può fingere una cosa del genere. O almeno non è facile come simulare una caduta. »

E Sherlock si era congedato con un sorriso sornione che poteva voler dire tutto o nulla, e aveva percorso il resto della rampa con una lunga falcata.

Il dottore gli era caracollato dietro, e Mycroft aveva ancora potuto sentire uno sprazzo della loro conversazione, mentre si affrettavano su un taxi.

« Ma come? » aveva obiettato John « Avevi detto di essere sicuro fosse Moriarty! »

« Non mi sembra di aver mai affermato una cosa del genere. »

« Gesù, Sherlock, sei proprio… »

E Mycroft aveva solo potuto dedurre il resto del commento indispettito e veemente del dottore, coperto dal suono delle portiere del taxi che si chiudevano e delle ruote che partivano sgommando. Come aveva ipotizzato, Sherlock non gli aveva dato una risposta precisa; era impossibile fosse Moriarty, si era accertato personalmente che il corpo sul tetto del Bart's fosse quello del consulente criminale, eppure bisognava considerare che già una volta si era sbagliato, con Irene Adler; inoltre era difficile presumere l'esistenza di qualcuno che potesse imitarlo tanto bene; e ancora, Moriarty in persona avrebbe di sicuro avuto diversi motivi per voler fare tutto quello, sfidare così apertamente Sherlock; Mycroft avrebbe voluto che il fratello lo mettesse a parte dei suoi ragionamenti, che per una volta loro due potessero parlarsi con franchezza, cercare di capire cosa fare insieme, ma non sembrava che l'altro fosse del suo stesso avviso.

Nell'ultima occhiata beffarda che Sherlock gli aveva rivolto, Mycroft aveva potuto quasi sentire la sua irritante voce nella propria mente: 'when I've eliminated the impossible, whatever remains, no matter how mad it might seem, must be the thruth.[2]'

 

Mycroft conclude, e serra la bocca in una linea tesa: non si era aspettato di farsi prendere tanto dal racconto; intorno a lui il silenzio, e il maggiore degli Holmes si prende qualche secondo di pausa, si schiarisce la gola, prima di alzare gli occhi sulla stanza.

Lo stanno tutti fissando, aspettando qualcosa da lui, persino Sherlock, anche se Mycroft allunga ancora i secondi prima del momento in cui dovrà rivolgere l'attenzione verso il fratello; gli basta un lieve cenno, e l'atmosfera sembra rilassarsi, mentre i presenti si sentono congedati e liberi di uscire dalla camera: lo fanno tutti in modo deliberatamente lento, persino, a passi rigidi, John, che Mycroft non dubita stia solo aspettando di poter tornare a respirare fuori di lì. Qualcosa in fondo al cervello gli ricorda della recita: ah già, 'salva le apparenze' era la parola d'ordine.

« Credo sia ora di prendersi una pausa. Continueremo oggi pomeriggio. » dice, osservandoli sparire dietro la porta.

Allora Mycroft si volta ad affrontare il fratello, che lo sta studiando ancora con lo stesso sguardo divertito, con lo stesso luccichio crudele nelle iridi di un azzurro che mai è stato tanto glaciale.

« Sherlock. » lo apostrofa « Devi smettarla. »

« Di fare cosa, fratello? » lo canzona Sherlock, la voce leggera eppure priva di qualsiasi colore.

Mycroft muove qualche passo verso di lui.

« Sai perfettamente di cosa stia parlando. » afferma, cercando di tenere la sua voce bassa e dura, senza riuscire a capire se vi sia riuscito o meno.

Sherlock gira gli occhi al soffitto e mette su il broncio tipico di un bambino capriccioso.

« Oh, ma quanto sei noioso. » si lagna.

« Avevi promesso che avresti collaborato. » replica.

« E lo sto facendo. » sorride, irridendolo con gli occhi e con il tono delle sue parole, « Ma vuoi mica che non mi diverta almeno un po'? È così affascinante che io riesca a mettervi tanto a disagio. Ci sarebbe da chiedersi chi sia davvero il predatore e la preda in questo nostro piccolo giochino, non credi? »

« Sherlock, ti avverto… » comincia a dire, la voce che trema.

« Che cosa, fratello? Che cosa? » la voce di Sherlock si abbassa di un tono, contratta dalla rabbia, « Vuoi rinchiudermi da qualche parte, ridurmi a un ammasso di carne tremante e farmi rimpiangere di essere nato? Devo deluderti, credo che tu l'abbia già fatto! »

Mycroft non ci vede più: in un moto d'ira che non riesce a prevedere né a fermare, gli si avvicina bloccandogli un braccio in una presa ferrea, il respiro pesante.

« Toglimi le mani di dosso. » scandisce in un sibilo Sherlock, gli occhi ridotti a due fessure.

Ed è incredibile quanto quell'orribile suono, sputato con una tale cattiveria che Mycroft non avrebbe mai immaginato il fratello potesse provare, costringa il maggiore degli Holmes a indietreggiare, colpito nel profondo.

I due fratelli si squadrano a vicenda per pochi attimi che sembrano dilatarsi all'infinito nelle rispettive menti, avvolgendosi più e più volte tra pensieri, deduzioni e memorie di vite passate; è davvero quello che Sherlock crede sia successo? Mycroft non è riuscito a fargli dire una parola riguardo ai suoi ricordi del tempo in cui è stato prigioniero, il fratello ha affermato di non rammentare nulla, ma è evidente che qualcosa in quel suo cervello costantemente attivo debba essere rimasto, e la sua mente a soqquadro deve aver fatto il resto, portandolo a conclusioni sbagliate. Per un orribile istante, mentre guarda il fratello negli occhi, cercando di vedervi più a fondo possibile, un pensiero si fa strada nella mente di Mycroft: cosa succederà se non riusciranno a riportarlo indietro? Come sarà se l'uomo che ha davanti in quel momento sarà d'ora in avanti l'unico Sherlock esistente? Mycroft si sente afferrare da dita di fredda angoscia, ma prima che questa giunga a travolgere i lineamenti del suo viso, prima che possa farsi tanto evidente da dare a Sherlock la possibilità di aprire in lui una breccia, Mycroft ricorda la parola d'ordine, ricorda cosa sia essenziale. Perciò si ricompone, inumidendosi le labbra e roteando una volta l'ombrello, e senza un'ulteriore parola si volta, con la netta sensazione di aver perso, questa volta, ben più di uno dei loro usuali confronti.

Mentre esce dalla stanza, ragiona che, a ben pensarci, mantenere le apparenze sia tutto ciò che gli rimane.

 

 

***

 

 

"C'è qualcosa che ci sta sfuggendo." pensa Greg, mentre percorre avanti e indietro la stanza le cui pareti sono stipate di post-it, appunti e carte collegate fra loro da puntine e fili colorati.

Mycroft gli aveva concesso quello spazio nella Casa Bianca di MayFair per la loro indagine, anche se Greg se n'era impossessato fin da subito, dato che se anche l'altro aveva il potere di tenere tutto a mente e di scandagliare gli avvenimenti solo con il pensiero, questo non voleva dire che lui non avesse bisogno di qualcosa di più concreto per raccapezzarsi.

La prima volta che Mycroft era entrato nella camera dopo che Greg ci aveva messo le mani, aveva solo alzato un sopracciglio e commentato: « Non avrai imboccato la via della pazzia già intrapresa da Anderson? »

Greg aveva sbuffato e evitato di rispondergli.

"C'è decisamente qualcosa che ci sta sfuggendo." riflette ancora, passando lo sguardo tra le parole scarabocchiate che aveva cerchiato.

Lestrade è perfettamente cosciente del fatto che siano molte più le cose che non sanno rispetto a quelle che abbiano compreso, eppure ha in fondo al cervello qualcosa che lo solletica, che tenta di avvisarlo di come esista in quell'equazione un particolare piuttosto essenziale di cui però non hanno tenuto conto.

"Sì, ma cosa?" si chiede frenetico, "Sherlock si è chiuso sempre più in se stesso, preferendo affrontare tutto da solo piuttosto che chiedere la collaborazione mia, di Mycroft, o persino l'aiuto di John. È evidente che ne era stato costretto… o forse cercava di proteggerci. Quindi è riuscito a entrare in contatto con Moriarty, o chi cazzo è, senza che nessuno di noi se ne accorgesse. Sì, ma come?"

Greg si morde le labbra, si pizzica il mento tra due dita, fissa i fogli davanti a sé fino a non mettere più a fuoco nulla, ma il tempo passa e il suo cervello sembra sempre più vuoto.

« Greg? » sente alla fine una voce gentile dietro di lui.

Si volta, e trova la testa di Mary a sbucare dallo spiraglio della porta che ha lasciato mezza aperta. La donna si guarda in giro curiosa per un attimo, prima di focalizzarsi di nuovo su di lui.

« Stiamo per ricominciare. Tocca a te, ricordi? »

« Sì. » annuisce l'ispettore, « Ho perso la cognizione del tempo. Arrivo. »

Mary gli fa un cenno e sparisce nel corridoio, mentre Greg lancia un'occhiata all'orologio sul polso. Le tre del pomeriggio. La pausa pranzo indetta da Mycroft è finita, ed è ora che lo show continui.

Greg sospira, si dirige verso la camera di Sherlock, si posiziona al posto assegnatogli dopo aver rivolto un cenno agli altri, e senza guardare l'Holmes più giovane inizia a svolgere il proprio compito. Ma una parte di lui è rimasta in quella stanza, a chiedersi quale diavolo di semplice dettaglio si siano lasciati per strada.

 

Non era passata nemmeno mezz'ora dallo scoppio delle bombe, quando Greg vide due figure familiari scendere da un taxi a pochi metri dal nastro blu e bianco della polizia e tirò un sospiro di sollievo, riconoscendole all'istante.

Mentre si avvicinavano, notò che John era di cattivo umore, le sopracciglia contratte e le mani che si aprivano e chiudevano a pugno lungo il fianco, in un gesto nervoso. Sherlock, al contrario, aveva la sua solita aria imperscrutabile, con appena quel luccichio negli occhi a indicare come fosse in 'modalità caso: on'.

Greg non si sorprese della cosa: probabilmente avevano battibeccato come al solito e solo John ne era rimasto turbato.

Lo sguardo di Sherlock si fissò subito sui resti carbonizzati della chiatta che la squadra artificieri di Scotland Yard stava attentamente trasportando dal fiume sulla terraferma.

« Semtex [3], non è vero? » esordì il detective, continuando a camminare, mentre Greg si accodava ai due uomini.

Lestrade si era limitato ad annuire.

« Chiaro. Si ritorna a Moriarty. Il detonatore è stato trovato? »

« Non ancora. Ma è probabile sia finito in acqua con gran parte dei resti del traghetto, e con la forza della corrente del Tamigi… »

« Però potrebbero essere ritrovati quelli usati per le altre bombe, no? » si introdusse John nel discorso.

« Forse. Ma lo trovo poco probabile. » aveva risposto Sherlock, superando agile il nastro della polizia, « Avrà di sicuro coperto le sue tracce. Perciò questa bomba è la più interessante: essendo una barca, non aveva bisogno di pensare a un modo affinché gli indizi sparissero, il fiume ci avrebbe pensato per lui. E questo potrebbe essere stato il suo primo errore. »

Lestrade e John si erano scambiati il consueto sguardo perplesso, mentre Sherlock si abbassava sulle macerie carbonizzate che i poliziotti avevano estratto dalle acque del Tamigi e iniziava a esaminarle con la lente d'ingrandimento portatile stretta nella mano guantata.

« Ci metterai a parte delle tue deduzioni, Sherlock? » aveva sbottato alla fine John, dopo lunghi minuti in cui il detective era rimasto in silenzio, « Credo che Greg abbia bisogno di ogni indizio possibile. »

« Non avevo dubbi che New Scotland Yard brancolasse nel buio. » aveva replicato con freddezza.

« Sherlock… » aveva cominciato il dottore, una nota di avvertimento nella voce. Poi aveva spostato lo sguardo su Lestrade, con un'espressione di scuse, ma Greg si era stretto nelle spalle: erano passati anni, ormai, dal tempo in cui si faceva irritare dalle parole del detective.

« Oh, d'accordo. » aveva intanto esclamato Sherlock, alzandosi e sistemandosi la sciarpa in un gesto di stizza, per poi cominciare con il suo tono da deduzione, le mani che svolazzavano elegantemente davanti al viso: « Quello che sappiamo: tre bombe, un palazzo in demolizione, un magazzino vuoto, e questo traghetto, nell'area di 15 km quadrati, abbastanza vicine al centro da suonare come una vera e propria minaccia, abbastanza lontane, in luoghi isolati e privi di persone, da farci intendere le capacità di colui con il quale abbiamo a che fare. Scoppiate nel medesimo istante, dopo che tutte le emittenti televisive della City hanno trasmesso contro la loro volontà un video di un minuto in cui il colpevole ha lanciato una sfida diretta contro il sottoscritto. In questo stesso minuto tutte le CCTV erano oscurate, isolando Londra. Ha usato del Semtex, impermeabile ad acqua e umidità, quindi sarà difficile capire quando esattamente le bombe siano state posizionate, non mi stupirei se fossero già lì da giorni, ed ecco ancora la genialità dei luoghi che ha scelto, che passano facilmente inosservati. Affinché le bombe si azionassero insieme deve aver usato degli inneschi a distanza, qualcosa di semplice ma efficace, probabilmente detonatori elettrici e onde radio per dar loro il via. Così potrebbe già essere lontano da Londra in questo momento, ma ho ragione di credere che non sia così: si sente al sicuro, sa che non possiamo individuarlo, e avendomi sfidato in maniera tanto palese sono certo che sia lì fuori da qualche parte a tenere d'occhio le mie mosse. Persino in questo momento. »

Sherlock interruppe la sfilza di parole, mentre John lo fissava con uno sguardo penetrante.

« Sembri capire bene la sua psicologia. » commentò lentamente il medico.

« Ma certo. » replicò il detective senza scomporsi, « D'altronde si tratta di Moriarty. Abbiamo già giocato insieme, io e lui. »

« Mor- » la parola morì in bocca a John, che proruppe in un singulto esasperato, si coprì le labbra con una mano, quindi se la fece scorrere sul viso, e indietro fino ai capelli.

Greg lo vide prendere un brusco respiro, mentre cercava di capire cosa stesse accadendo tra i due amici.

« Sherlock. » scandì il medico, cercando vistosamente di contenersi, « Neanche un quarto d'ora fa mi hai assicurato che non si trattasse di Moriarty. »

Sherlock gli lanciò un'occhiata enigmatica, ma non replicò.

« Si può sapere che diavolo ti passa per quella testa oggi? » alzò la voce John, piccato, allargando le braccia.

« John. » disse Sherlock in tono piatto, « Se sei nervoso e non sei in grado di tranquillizzarti, ti suggerirei di tornare a casa da Mary. Potreste fare una bella gara di tiro al piattello, e a essere sincero non sono affatto sicuro che punterei su di te. »

Greg spalancò gli occhi, confuso, senza capire lo scambio fra i due, che pure doveva avere qualche significato a giudicare dalla reazione del dottore. Passò lo sguardo dall'uno, immobile e impassibile, all'altro, furente, l'espressione contratta sul viso, le braccia rigide lungo i fianchi, le dita della mano sinistra che si aprivano a ventaglio e poi si richiudevano a pugno, in quell'usuale gesto che John faceva quando era a disagio.

"Che cazzo sta succedendo?" si era chiesto Greg, "Perché un'infermiera dovrebbe essere più brava di un ex-soldato a sparare?"

« Io… tu… » la voce di John tremava, tratteneva il respiro tra una parola e l'altra, per poi sputarlo fuori dalla bocca in modo violento insieme ai suoni, « Questo… è… »

« John. » lo riprese ancora Sherlock, guardandolo con un'espressione che Greg non comprese, « Non balbettare. »

Se possibile, John si fece ancora più rigido, scattando praticamente sull'attenti.

« Bene. » soffiò, « Me ne vado. »

Fece un cenno a Greg, ancora fermo a bocca aperta, e si voltò.

« Bene. » rispose Sherlock in un sussurro non abbastanza basso perché John non potesse sentirlo.

E infatti il medico lo prese come una sfida, si girò verso Sherlock come una furia, puntandogli l'indice contro, aprì la bocca per qualche commento tagliente, ma all'ultimo sembrò ripensarci.

« Bene! » esclamò invece, prima di rigirarsi e questa volta allontanarsi a passo marziale.

Lestrade, ancora incredulo per ciò che era appena avvenuto, si concentrò su Sherlock, ma quest'ultimo non aveva seguito l'uscita di scena di John, ed era invece rivolto verso il fiume, lo sguardo a puntare dritto verso il sole al tramonto, la cui luce morente giocava sui suoi riccioli e nei suoi occhi verdi.

Se non avesse conosciuto bene Sherlock, Greg avrebbe detto che il suo era un volto pieno di tristezza.

Lestrade stava per dirgli qualcosa, quando un metallico doppio 'bip' lo distolse dal suo proposito. Sherlock si mise una mano in tasca, estrasse il suo telefono cellulare e…

 

"Oh."

Greg si interrompe, la bocca che si dischiude, mentre l'illuminazione lo colpisce.

"Cazzo, ecco cos'era! Come abbiamo potuto essere così ciechi?"

« Be'? » lo apostrofa Sherlock, il tono divertito, « Si è dimenticato la lezioncina imparata a memoria, Ispettore? »

« Cos- » Greg si guarda veloce intorno, ritornando bruscamente coi piedi per terra, « No, certo che no, Sherlock. Nessuna lezione mandata a memoria. Il racconto è finito: hai letto il messaggio che ti è arrivato, hai preteso qualche campione dalla scena del crimine e poi te ne sei andato sputando insulti come tuo solito. »

Lestrade non si fa deconcentrare dal detective che sta già aprendo la bocca per replicare, e si volta verso Mycroft, che è vicino a una parete con una gamba davanti all'altra e che si sostiene in piedi con il suo ombrello, fissandolo negli occhi.

« Signor Holmes. » inizia, cercando di nascondere l'eccitazione nella propria voce, « Avrei bisogno di parlarle. »

L'uomo lo guarda con un'espressione curiosa.

« Immediatamente. » aggiunge allora Greg, sperando che l'altro colga l'urgenza nel suo tono.

« Molto bene. » replica allora Holmes con gentilezza, avvicinandosi alla porta, « Se vuole precedermi… » lo invita.

Lestrade non se lo fa ripetere due volte, e esce dalla stanza, mentre sente Mycroft dare un paio di istruzioni.

« Faremo un'altra pausa. Credo che nessuno abbia qualcosa da ridire. Vi convocherò di nuovo io stesso fra poco. »

Mycroft si congeda, e segue Greg che sta già entrando nella stanza della loro indagine.

Lestrade si torce le mani, e appena Mycroft chiude la porta dietro di sé quasi lo aggredisce con le parole.

« Mycroft, cazzo, come abbiamo fatto a non notarlo?! »

Lestrade sembra fuori di sé, prende a percorrere la stanza in nervose falcate, e Mycroft assume un cipiglio indispettito, che Greg non saprebbe dire se causato dall'imprecazione che si è lasciato sfuggire o piuttosto dall'uso del nome di battesimo di Holmes, che non aveva mai avuto il coraggio di adoperare.

« Per l'amor del cielo, Gregory, calmati! » esclama Mycroft, adeguandosi un poco al registro dell'altro, « Cosa stai cercando di dire? »

Lestrade si blocca, e si pianta davanti a Mycroft, guardandolo negli occhi.

« Il cellulare, Mycroft! The bloody phone! »

L'espressione sul viso di Mycroft cambia all'istante, mentre il suo cervello fa il collegamento.

« Il telefono di Sherlock. » specifica, mentre Greg annuisce con vigore davanti ai suoi occhi.

« Non è stato trovato, giusto? » chiede l'Ispettore, « Né a Baker Street, né addosso a Sherlock. »

« No. » conferma Mycroft, mentre estrae dal taschino della giacca l'orologio d'oro, « Eppure ce l'aveva sempre con sé. »

« Potrebbe essere importante, non è vero? » chiede ancora Lestrade, frenetico.

Mycroft gli scocca un'occhiata penetrante da sopra l'orologio.

« Lo è, Lestrade. Lo è sicuramente. Ottimo lavoro. »

Lestrade si esibisce in un sorriso tirato.

« Potrebbe ancora averlo… »

« Il rapitore di Sherlock? » Mycroft finisce la frase per lui, « Possibile. »

« E potrebbe essere con quello… »

« Che si sono tenuti in contatto? Altamente probabile. Come con Moriarty, d'altronde. »

« Allora metterà i suoi uomini a cercarlo? L'MI-5[4]? » chiede Lestrade, passandosi una mano fra i capelli brizzolati.

« Forse ho un paio di uomini ben più motivati dell'Intelligence. » ribatte il Governo Inglese, il labbro tirato lievemente all'insù e un luccichio negli occhi che, davvero, Greg preferisce non sapere cosa significhi.

« Be' » si limita a sbottare, « Allora si sbrighi a fare le sue chiamate, signor Holmes, perché… Well, the question is: where is his phone now[5]? »

 

 

***

 

 

John é in piedi davanti alla finestra, gli occhi fissi sullo splendido skyline della City che l'essere all'ultimo piano della Casa Bianca in MayFair da l'opportunità di ammirare. In realtà però non é del giusto stato d'animo per riempirsi gli occhi dello spettacolo della sua amata Londra, ed é molto più concentrato sull'interno della propria testa.

Si sta biasimando per come ha agito precedentemente, per non essere riuscito a mantenersi distaccato, rigido, controllato come gli anni da soldato gli hanno insegnato a essere. Ma con Sherlock non è mai stato facile comportarsi così.

« Tesoro, tutto bene? » la voce cristallina di Mary lo fa sobbalzare, e per poco non gli cade di mano la tazza di porcellana.

John inspira a fondo, e si volta ad affrontare la moglie, i raggi del sole pomeridiano che gli illuminano i capelli, facendoli ritornare a quel biondo che gli anni gli hanno portato via.

« Sì, Mary, tutto ok. Sto solo bevendo un tè. » la rassicura, alzando la tazza davanti agli occhi e dunque portandola alla bocca, solo mimando il gesto di bere, perché sa che il liquido all'interno si è freddato da tempo.

Mary entra nella stanza, lo fissa brevemente e poi distoglie lo sguardo, andando a concentrarlo fuori dalla finestra. Ma entrambi sanno che ha capito benissimo.

« Fra poco sarà il tramonto. » dice la donna, iniziando una conversazione che John non ha voglia di seguire.

« Già. » si limita a rispondere, la mente altrove.

« E domani sarà una settimana. »

« Una settimana? » chiede, e la guarda senza capire, senza vederla davvero.

« Una settimana da quando Sherlock è stato ritrovato. » annuisce la moglie.

Lo sguardo di John si fa nuovamente lontano. "Una settimana…" pensa, "Non sembra vero."

Nonostante il tempo passato, Sherlock non ha recuperato la memoria, la propria mente smarrita. E almeno in apparenza, nemmeno i ricordi della sua prigionia. John, non potendo visitare l'amico in prima persona, ha parlato con i medici che si sono occupati della guarigione di Sherlock. Quella fisica, ovviamente.

Gli hanno detto che in casi di tortura come quello, è piuttosto consueto che il paziente elimini quei momenti dal proprio cervello, a volte a causa dello shock, a volte in maniera più volontaria di quanto si potrebbe pensare. Lo Sherlock che John conosce non avrebbe mai fatto una cosa del genere, soprattutto se avesse significato perdere per sempre informazioni utili, e nemmeno riesce a pensare che un uomo forte quanto il suo migliore amico abbia subito un trauma tanto grande. Anche se, presumendo che Mycroft abbia ragione e siano state usate su di lui le tecniche del SERE… John si ritrova a deglutire mentre questi pensieri gli passano per la testa.

"Be', se questa è la verità qualsiasi cosa è possibile, persino lui sarebbe stato in difficoltà." riflette, "E forse è meglio così, che l'abbia cancellato. Ho visto come la consapevolezza di essere stati sottoposti a quelle torture, il loro solo ricordo… possa distruggere un uomo."

In ogni caso, il dottore è costretto ad ammettere che quello, dopotutto, non è lo Sherlock che conosceva.

Gli occhi di John si serrano: "Dio… quanto mi manca."

Una leggera carezza sui capelli riscuote John dai suoi ragionamenti.

« Vado a controllare la signora Hudson. » dichiara Mary, facendo scivolare via la mano dalla testa del marito, « Il suo male all'anca è peggiorato, a quanto pare. Spero che quei due si sbrighino, in quella strana stanza. Non va bene fare aspettare un'anziana donna così a lungo… »

La donna si allontana, continuando a borbottare, ma qualcosa nelle sue parole ha attirato l'attenzione di John.

« Chi? E che stanza? » si volta a chiederle, un'espressione confusa sul volto.

« Greg e Mycroft, intendo. » risponde, la testa che si inclina da un lato, « C'è questa stanza piena di bacheche, appunti, fogli e post-it… in cui stanno conducendo una specie di indagine, direi. Non ne sapevi nulla? »

Le dita di John si stringono intorno alla tazza, alla ricerca di un calore che non trovano.

« No. » risponde secco.

John vede gli occhi di Mary velarsi di comprensione e dolcezza, e non riesce a sopportarlo. Si gira, tornando a fissare lo sguardo oltre i vetri della finestra.

Sente la porta chiudersi, e sa che Mary ha compreso: ha bisogno di stare da solo.

"E così quei due stanno indagando per conto loro. E non mi hanno detto nulla."

D'improvviso John si sente immensamente stanco, e ferito, e tradito, e stufo di sentirsi in quella maniera.

Non gli hanno detto nulla perché credono non sia in grado di sopportarlo. Perché è stato oltremodo inutile fino a quel momento. Perché è solo la pallida imitazione del sicuro medico, forte ex soldato in congedo dall'Afghanistan, che è sempre stato.

Come cazzo è successo che sia finito così? Come ha potuto ridursi in quello stato? Come è possibile che sia stato talmente debole e vigliacco da non meritare più la fiducia dei suoi amici, da non ottenere null'altro che la loro compassione?

John è nauseato da se stesso. "Questa cosa deve finire. Ora."

« Basta! » esclama, le parole che rispecchiano i suoi pensieri.

Di riflesso, le sue mani si stringono con convinzione attorno alla tazza. Usano fin troppa forza, si accorge in ritardo, mentre con un debole schianto la porcellana si rompe, sgretolandosi fra le sue mani. Tè, pezzi di ceramica e sangue gocciolano e cadono al suolo, e John rimane immobile, sbattendo lentamente le palpebre, guardando ciò che ha fatto senza riuscire a rendersene conto.

Il dolore esplode nella sua testa, non così prepotente, d'altronde si tratta solo di taglietti, ma abbastanza forte da colpire la sua apatia. E tutto a un tratto il suo cervello è di nuovo sgombro, libero, lucido. Il dolore ha sempre avuto questo effetto su di lui.

Apre e chiude le dita, le ultime briciole della porcellana che scivolano via, mentre si fissa la mano, e all'improvviso scatta, sentendo di nuovo l'energia inondargli le membra. Va al lavandino, gira il rubinetto e si lascia scorrere l'acqua sui palmi, afferra una spugna e con pochi gesti raccoglie da terra cocci, tè e sangue.

Poi, senza più degnare il pavimento o la finestra di uno sguardo, esce dalla stanza. In bagno fa in fretta, apre un paio di mobiletti e trova ciò che fa al caso suo: disinfettante e una corta benda per il taglio peggiore. La Casa Bianca brulica di dottori, in realtà, ma a John non è mai piaciuto farsi curare da altri, e quelle sono solo ferite superficiali. E poi non ha tempo per sciocchezze del genere, ora, la sua meta è un'altra.

Perciò, prima di rischiare di cambiare idea o di perdere coraggio, John s'infila nella stanza di Sherlock.

Nella camera regna una luce soffusa, e a fatica John riesce a distinguere i lineamenti di Sherlock, distesi, tranquilli, la testa abbandonata sul cuscino. Sherlock dorme, e John non si ricorda di quando l'abbia visto l'ultima volta così in pace, vulnerabile quasi. Il pensiero gli mette malinconia.

Si chiede distrattamente cosa stiano facendo Greg e Mycroft, oramai è passata quasi un'ora, ma non è quello l'importante.

Si accosta all'amico, i polpastrelli della mano sinistra - quella stretta nella benda - che si avvicinano piano al viso di Sherlock, fin quasi a sfiorarlo, ma all'ultimo si blocca, stringendo le labbra, e li abbassa invece sulla spalla, e poi giù lungo il braccio.

"Quanto dev'essere stanco per addormentarsi così in fretta? Non è da lui… Quant'è grande in realtà il dolore che prova?"

John scocca una breve occhiata all'erogatore della morfina, impostato al massimo.

« Oh, Sherlock… » sospira, mentre, senza accorgersene, accarezza il suo polso.

È un attimo, e sotto le dita sente della pelle ruvida, increspata, come arrotolata su se stessa in piccoli fili. Abbassa gli occhi, e con un singulto le vede: cicatrici, bruciature da strofinamento, pelle arrossata e non ancora completamente guarita. John ha visto segni del genere troppe volte per non sapere che sono ferite provocate da corde o qualcosa di simile.

È talmente concentrato nella sua analisi da perdersi il momento in cui Sherlock apre gli occhi.

« Ti compiaci delle tracce che hai lasciato su di me? » la voce carica di sarcasmo gli fa ritrarre la mano di scatto, « Dimmi, John Watson, sono come delle medaglie di guerra per te? »

Gli occhi pieni d'odio di Sherlock si fissano nei suoi, mentre la bocca di John si fa secca e il suo sguardo sconvolto. Le labbra gli tremano appena, e John sarebbe lì lì per rinunciare, perché quelle parole bruciano, bruciano lungo la gola, e sul suo stomaco, e poi fin su, nel suo cervello. Ma John ha fatto una promessa a se stesso, e non è passata nemmeno mezz'ora da allora, e davvero non può gettare via il suo orgoglio in quel modo.

Deglutisce, mandando giù il timore insieme alla saliva, e spera che la voce gli resti ferma abbastanza.

« Sherlock. » inizia semplicemente, « Io non ti ho mai fatto del male. »

« Ah no? » entrambe le sopracciglia di Sherlock si sollevano, e il suo sguardo di ghiaccio fulmina quello di John, « Eppure eri proprio tu. »

Sherlock chiude gli occhi, John li vede stringerli con forza, le mani che si uniscono sotto il mento: si sta concentrando.

« "Io sono John Watson." » recita, la voce contraffatta a imitare in modo terribilmente accurato la sua, « "Sono John Watson. John Watson ti sta facendo questo, non te ne dimenticare. John Watson." »

"Ecco, alla fine, la verità." pensa John, le mani che si aprono e si serrano nervose, "È questo che crede? Quanto ricorda in realtà?"

Il corpo di Sherlock trema, e John è combattuto tra la voglia di prenderlo a pugni per farlo risvegliare da quell'incubo, e il bisogno di stringerlo in un abbraccio per fargli capire che mai, mai, mai gli farebbe una cosa del genere.

Ma la verità è che, quando Sherlock riapre gli occhi e li punta nei suoi, in uno sguardo che mai gli ha rivolto, indifferente, distaccato, disgustato, al diavolo tutti i buoni propositi, John non sa proprio cosa fare.

« Sherlock » inizia balbettando, suoni che gli escono incontrollati dalle labbra, « Devi credermi, io- »

Ma Sherlock non saprà mai a cosa dovrebbe credere, e John non conoscerà mai quello che voleva dire, perché in quel momento la porta della camera di spalanca, la luce del lampadario si accende, e diverse persone entrano, dileguando il momento che c'era fra loro.

« Ah, dottor Watson, eccola. » fa Mycroft in tono affabile, « Ci chiedevamo dove fosse finito, ma vedo che ci ha preceduti. »

John rivolge un ultimo sguardo di Sherlock, che ha già distolto il suo, come non fosse accaduto niente di importante, come se non fosse successo proprio nulla.

Sospira, e si allontana di qualche passo, andando a prendere posto vicino a Mary, mentre Mycroft e Greg hanno già ripreso i loro.

« Possiamo ricominciare? » chiede ancora Mycroft, incrociando lo sguardo di John, in una muta richiesta di rassicurazione.

John annuisce: "Sì, possiamo ricominciare, e sì, Mycroft, va tutto bene."

John lo pensa, anche se non sa più se sia davvero la verità. Il suo sguardo si fa deciso, e mentre raccoglie i pensieri, i ricordi, per ricominciare a raccontare, giura a se stesso che non si farà travolgere, non stavolta, non più.

 

Era passata una settimana da quando Moriarty - o chi per lui - aveva lanciato il suo messaggio di sfida contro Sherlock e tutta Londra. In quel lasso d tempo, John e Sherlock non si erano più visti.

Il detective gli aveva mandato qualche messaggio al cellulare, ma erano solo richieste, a volte stupide e assurde tipo John, mi serve il tuo laptop. Portamelo. - SH. Come se Sherlock non sapesse perfettamente che John non abitava più a Baker Street, e oltretutto ignorando di averlo fatto arrabbiare e averlo ferito con una sola frase. Non che John si aspettasse una richiesta di perdono, figuriamoci, dal signor William "la-parola-scusa" Sherlock "nel-mio-vocabolario" Scott "non-esiste" Holmes. Nemmeno al suo ritorno dalla terra dei morti era riuscito a scusarsi in maniera normale e decente, quindi perché avrebbe dovuto cominciare ora?

John lo sapeva benissimo, e altrettanto bene sapeva quanto fosse inutile rimanere arrabbiato e offeso con il detective, eppure un 'vaffanculo!' gli usciva comunque, ogni volta che leggeva il suo nome nelle inbox dei messaggi.

Aveva deciso di ignorarlo. Era arrabbiato, perché non riusciva a spiegarsi il modo in cui Sherlock l'aveva trattato. Sembrava avesse proprio voluto prenderlo in giro, o peggio, escluderlo dal caso, e John non comprendeva per quale motivo.

Non era più un giocatore? Sherlock aveva deciso che il gioco per lui fosse finito?

Quando aveva creduto che la loro vita così come la conoscevano fosse conclusa, e l'amico gli aveva detto quelle parole - 'the game is never over, John, but there may be some new players now[6]', aveva creduto che Sherlock si riferisse a se stesso, perché in quel momento entrambi pensavano che se ne sarebbe andato via per sempre. Ma adesso?

Era così che sarebbe finita? Piano piano Sherlock si sarebbe allontanato sempre di più, per non coinvolgerlo in casi troppo pericolosi, lasciandolo a casa a crogiolarsi nella sua nuova vita di periferia perfettamente normale?

No, Sherlock non l'avrebbe mai fatto… non era così che funzionava la loro amicizia.

Eppure… "Cosa dovrei pensare? Cosa dovrei fare?" si era chiesto.

Perciò quel pomeriggio aveva trascorso almeno un paio d'ore a girare in tondo, misurando il salotto a rigidi passi, finché Mary, stufa, aveva abbassato sulle ginocchia il libro che stava leggendo in poltrona e aveva sbottato:

« John, smettila di fare così. È ovvio che vuoi andarci. Ingoia l'orgoglio e muovi il culo! »

John l'aveva guardata a bocca aperta, perplesso per come gli avesse parlato.

"Devo essere proprio fastidioso." aveva pensato.

Mary aveva spalancato gli occhi indicando con la testa la porta di casa.

« Be', ancora qui sei? »

John non se l'era fatto ripetere di nuovo, aveva afferrato la giacca e il mazzo di chiavi, e si era scapicollato fuori dalla villetta.

Aveva raggiunto Trafalgar Square che mancavano una ventina di minuti alle cinque e mezzo del pomeriggio, l'ora esatta in cui sette giorni prima Londra si era fermata sotto le minacce di Moriarty.

Chiunque si fosse occupato della questione aveva fatto le cose in grande: Trafalgar Square era completamente chiusa e transennata, l'accesso alla National Gallery interdetto - "Di sicuro hanno paura di un attentato", aveva pensato John - e così si poteva accedere solo dalla parte dello Strand, che infatti brulicava di gente ammassata, a malapena contenuta dalle forze di polizia. In mezzo alle due fontane, proprio davanti all'altissimo albero di Natale - e John si chiese per quale motivo non l'avessero ancora tolto, essendo ormai a metà gennaio - era stato installato un enorme schermo, come quelli usati per le partite di football o per le manifestazioni importanti. Evidentemente si aspettavano che Moriarty usasse di nuovo un video o qualche messaggio del genere, e avevano predetto la folla che ci sarebbe stata.

La piazza era invasa da poliziotti, militari e agenti dell'intelligence nelle loro uniformi scure, a urlarsi ordini l'uno contro l'altro attraverso le radioline attaccate alle spalle, e c'era persino un elicottero, che volava piuttosto basso, illuminando in sequenza tratti della piazza, quasi si aspettassero di veder sbucare Moriarty da un momento all'altro.

John riuscì a fatica, spintonando e lanciando scuse inascoltate, ad arrivare al limite delle transenne, e con disperazione guardò verso il centro della piazza: stava perdendo minuti preziosi, e se avesse continuato così non sarebbe riuscito a raggiungere Sherlock in tempo, ovunque si trovasse.

Percorse ansioso con lo sguardo tutta la piazza, finché non individuò, mollemente appoggiato a uno dei leoni sotto la Colonna di Nelson, l'unica figura che, alta e avvolta nel lungo cappotto, non si muoveva freneticamente da una parte all'altra ma restava immobile, lo sguardo rivolto verso lo schermo, che in quel momento era muto ma sintonizzato su uno dei canali della BBC.

Urlò forte il suo nome, ma ovviamente Sherlock non lo sentì - c'era troppo casino.

Afferrò il braccio di un poliziotto che sostava davanti alle transenne e gli chiese di poter passare, gridando per sovrastare il frastuono della folla. L'agente gli rise in faccia, e John cominciò a scaldarsi, il viso che acquistava una sfumatura rossastra e i pugni serrati.

« Senta. » sbottò, « Devo assolutamente passare. Lo vede quell'uomo là in mezzo? È il mio amico Sherlock Holmes, e io devo raggiungerlo! »

« Sì, come no. » lo derise quello, « E io sono il re d'Inghilterra! »

John era sul baratro, qualche secondo e avrebbe perso la pazienza. Alzò un braccio, preparandosi a una lunga lotta, quando vide passare a pochi metri una sgraziata figura familiare. Gli occhi gli si illuminarono di speranza.

« Anderson! » urlò, « Anderson, sono qui! Sono io, John! »

L'uomo si girò, attirato dal suo nome, spalancò gli occhi, riconoscendolo, e si affrettò a raggiungerlo.

« Dottor Watson! » esclamò, « Che ci fai qui? Credevo fossi già laggiù con Holmes! »

« Bloccato nel traffico. » borbottò seccato John a mo' di scuse, « Ti spiace portarmi dall'altra parte di quest'inferno? »

« Mh? » chiese quello, stralunato, « Oh, certo certo. »

Aprì un varco fra le transenne e John vi scivolò in mezzo, lanciando un'occhiata di trionfo e scherno all'agente con cui aveva battibeccato poco prima, intento a contenere le persone che volevano seguire l'esempio di John e passare oltre.

Anderson cominciò a blaterare qualcosa ma John non lo ascoltò, e si slanciò in avanti per raggiungere Sherlock. Quando gli arrivò vicino aveva il respiro pesante.

« Già a corto di fiato? » lo sbeffeggiò Sherlock, senza guardarlo, gli occhi fissi sul grande schermo davanti a loro.

« Ciao anche a te, Sherlock. » sbuffò John, deciso a non farsi offendere.

Studiò velocemente la figura di Sherlock, trovandolo molto più rigido e nervoso di quanto avrebbe potuto notare da lontano, o capire qualcuno che non lo conoscesse davvero. Aveva le mani affondate nelle tasche del cappotto, e nonostante la postura immobile e il volto fermo, i suoi occhi si muovevano affannosi da una parte all'altra, osservando e catalogando ogni cosa.

« Quanto manca? » chiese John, invece di fare all'amico qualche domanda sul suo stato d'animo.

« Meno di cinque minuti, se è puntuale quanto credo. »

« Cosa pensi che accadrà? » gli chiese, riprendendo fiato, i nervi a fior di pelle.

Il detective scrollò le spalle.

« Potrebbe succedere qualunque cosa. »

John sospirò, e Sherlock gli lanciò un'occhiata speculatrice con la coda dell'occhio.

« Sei venuto. » commentò, la voce bassa.

« Avevi qualche dubbio? » chiese John, appena divertito.

« Nemmeno uno. » rispose, e John vide le sue labbra sollevarsi in un lieve sorriso.

John indicò lo schermo.

« Hanno fatto le cose in grande, vedo. » fece notare.

« Sai com'è fatto mio fratello. » alzò le spalle Sherlock.

« Ah, sì, la solita Regina. »

A quell'uscita di John, entrambi scoppiarono a ridere, e il medico si sentì subito meglio: a quanto pareva si era preoccupato per nulla, niente era cambiato fra loro.

Ma le loro risate si spensero di colpo, quando lo schermo si fece all'improvviso grigio, i pixel impazziti mentre l'immagine del programma della BBC spariva. Qualcuno dovette alzare il volume del video, e subito invisibili casse sparsero per la piazza le prime note di "Stayin' Alive".

John intercettò una smorfia sul volto di Sherlock e seppe che l'amico ne aveva abbastanza di quella canzone, esattamente quanto lui.

Dopo pochi secondi, però, la canzone si interruppe in modo brusco, con un beffardo e secco rumore come di ruote che frenavano sull'asfalto.

I Bee Gees furono immediatamente sostituiti da una voce altrettanto nota ma ben più minacciosa.

Sì sì ok, basta con questa storia, abbiamo capito tutti. Non è forse vero?

John gemette e si strofinò gli occhi con due dita, riconoscendo il tono squilibrato e ironico di Moriarty.

"Dio, è come averlo di nuovo qui davanti." riflettè.

E mai pensiero fu più profetico, perché passarono una manciata di istanti e i pixel grigi sfumarono e vennero sostituiti da un sorridente Moriarty, ripreso a mezzo busto con uno sfondo rosso sangue alle spalle.

John fissò a bocca aperta lo schermo, incredulo, lanciando poi uno sguardo a Sherlock, registrando la sua mascella contratta e comprendendo che non fosse il momento per chiedergli spiegazioni. Non che il medico potesse trovare la forza di aprir bocca, in realtà.

Il Moriarty sullo schermo spalancò le braccia.

Buongiorno Londra! Buongiorno Trafalgar Square! Disse, rendendo il suo sorriso, se possibile, ancora più inquietante.

"Dannato Mycroft e le sue manie di grandezza!" pensò John, perché avere davanti agli occhi un Moriarty centinaia di volte più grande del normale non era affatto una bella sensazione. Quello nel frattempo continuò a parlare, spostandosi nello spazio dello schermo con le sue solite allarmanti movenze, che toglievano ogni dubbio sulla reale identità dell'uomo.

Vedo che avete fatto le cose in grande. Oh, persino uno schermo gigante! Sono lusingato.

Moriarty si portò una mano al cuore, come se fosse davvero deliziato, poi si avvicinò alla telecamera, rendendo il suo volto gigantesco, quasi cercasse un contatto, una qualche complicità con le persone dall'altra parte dello schermo.

Avanti, Sherlock, parla! So che te lo stai chiedendo e sì, posso vederti, sentirti, risponderti. E no, questa non è una registrazione.

Un luccichio ferino apparve negli occhi di Moriarty, e John potè sentire tutta Londra trattenere il fiato con lui. Il silenzio nella piazza era assoluto.

Si voltò verso Sherlock, con l'espressione di chi tenta di aggrapparsi alla sua ancora di salvezza.

Sherlock sembrava calmo, composto, totalmente padrone di se stesso, e John, per l'ennesima volta, si chiese come fosse possibile per il suo amico essere così reattivo.

« Mi sembra quanto meno ingiusto combattere ad armi impari. » disse con lentezza, scandendo bene le parole e accogliendo la silente sfida del suo acerrimo nemico.

Nemico che non perse nemmeno un attimo a rispondergli, notò John, cosa che provava con precisione quanto le parole di quel pazzo fossero vere.

E chi l'ha deciso che dovremmo possedere le stesse armi? Sono io che conduco il gioco, Sherlock. Mio il gioco, mie le regole.

« Molto bene. » la voce profonda e forte di Sherlock era l'unica cosa udibile nella piazza, ormai, « E allora dimmi…»

Dove sono? Cosa sto facendo? Yawn. Moriarty lo interruppe mimando uno sbadiglio. È davvero importante?

Sherlock esitò per un attimo, ponderando la cosa, le iridi che gli si facevano più scure. John avrebbe voluto aiutarlo, davvero, ma non aveva la più pallida idea di quello che stava succedendo. Si limitò a passare lo sguardo dal suo migliore amico, accanto a sé, allo schermo, desiderando tirarsi un pizzicotto ogni volta che i suoi occhi si riempivano della figura di Moriarty.

« No. » rispose alla fine Sherlock, « Non lo è. Che cosa vuoi? »

Cosa… cosa voglio? Moriarty si coprì teatralmente gli occhi con la mano. Che diavolo, sei davvero così ottuso? Voglio giocare con te, mi sembra ovvio!

« Perché? »

Perché mi sto terribilmente annoiando. E tu sei sempre stato il mio giocattolino preferito, Sherlock.

Sherlock annuì, come se le parole di quel pazzo avessero perfettamente senso.

John lo fissò a occhi spalancati. "Tutto questo non può essere reale." pensò, cercando di seguire le fila di quell'inconcepibile conversazione a cui stava assistendo.

« Spiegami le regole. » disse Sherlock con tono spiccio.

Oh, finalmente facciamo le domande giuste. Bisogna prendere sul serio chi è tornato dalla morte, Sherlock. Proprio tu dovresti saperlo questo.

Moriarty inclinò il viso da un lato, e John rabbrividì per quanto 'psicopatico' fosse quel cenno.

É tutto molto semplice, in realtà. Quelle tre bombe scoppiate non erano che una sciocchezza, capirai. I miei veri obiettivi sono ben altri. Forse la Bank of England, oppure il 10 di Downing Street [7], o forse Buckingham Palace, o perché no… l'intera City.

John deglutì, mentre il sorriso di Moriarty si allargava.

Le possibilità sono tanto illimitate da provocarmi il mal di testa. Riprese Moriarty, voltandosi di profilo, la mano che si agitava davanti a sé e la voce lamentosa. Si rigirò di scatto, guardando di nuovo dritto in telecamera, il dito indice puntato verso i suoi spettatori.

Ma! Devo ammettere che i miei bersagli sono tre. Alzò le tre dita centrali della mano destra, portandosela davanti agli occhi. Quindi tre saranno le manche della nostra partita. Se vinci tu… Abbassò l'anulare, lasciando aperte le altre due dita, e sollevò le spalle, un'espressione noncurante sul volto. Ma se vinco io… I suoi occhi si spalancarono, e John non poteva descrivere con nessun'altra parola se non "pazzia" il modo in cui il suo volto di accartocciò di violenta gioia. KABOOM! Urlò, facendo sobbalzare per lo spavento tutta Londra.

Passarono attimi di quiete e tensione.

Accetti? Chiese alla fine Moriarty, a uno Sherlock stranamente ammutolito.

John lo guardò con terrore, una voce nella sua testa che non la smetteva di urlare: "Cosa facciamo, Cosa Facciamo, COSA FACCIAMO, COSAFACCIAMO?"

Sherlock si passò la lingua sulle labbra, prima di rispondere.

« Sì. » disse alla fine, in un soffio.

Moriarty batté le mani, improvvisamente allegro, in un gesto che gelò il sudore lungo la schiena di John, per quanto ricalcava l'usuale modo di fare di un'altra precisa persona.

Ah, molto bene. Non mi aspettavo nulla di meno. Sì sì sì sì sì…

Si voltò, continuando a ripere quella parola ossessivamente, e allontanandosi sempre di più dal primo piano dello schermo, facendo domandare a John quanto fosse distante il fondale di quella ripresa. All'improvviso si girò di scatto, come se si fosse ricordato di qualcosa, tornando con pochi passi alla posizione di prima.

Però ho bisogno di una prova.

« Una prova? » chiese Sherlock, e per la prima volta dall'inizio di quell'assurda sceneggiata, John percepì della reale confusione nelle parole dell'amico.

Assolutamente sì. È passato un po' di tempo e sai… Gli occhi di Moriarty si assottigliarono, le mani che gesticolavano davanti al volto. Non vorrei che tu avessi perso lo smalto. Devo essere certo che tu sia ancora alla mia altezza.

« Cosa vuoi che faccia? »

Oh, nulla di complicato. Rispondi alla mia domanda: era innocente o si meritava di marcire in prigione?

Le sopracciglia di Sherlock si aggrottarono, ma prima che potesse formulare una domanda, Moriarty lo precedette.

Troverai tutto ciò di cui hai bisogno nel mio pacco regalo. Ti concedo 27 ore, da quando lo aprirai.

Si guardò il polso, come controllando un immaginario orologio, che invece non c'era.

E ora basta, caro, è stato divertente, ma abbiamo chiacchierato fin troppo.

Con uno scatto si raddrizzò, una mano aperta verso l'alto e l'altra in avanti verso un invisibile pubblico, in posa come se si preparasse a declamare qualche pièce teatrale. Poi gridò: Signori e signori, ecco a voi l'eroe di Londra, l'unico e il solo Sherlock Holmes!

« I'm not a hero, I'm a high-functioning sociopath. [8] » mormorò Sherlock a labbra strette, infastidito, mentre Moriarty si voltava, e la sua immagine cominciava a essere distorta in pixel grigi.

« Aspetta! » urlò Sherlock, la mano protesa verso lo schermo, perdendo per la prima volta la calma, « Dimmi perché. »

I pixel arrestarono la loro corsa al divorare l'intera immagine, cosicché solo un'ombra di Moriarty fosse visibile sullo schermo.

Ma le sue parole ironiche arrivarono ugualmente chiare.

Perché… desidero impartirti una lezione, mio caro. Una che non hai mai voluto imparare, accettare.

« Di cosa parli? »

Della verità. The truth hurts, my deary, but this truth… Verity will burn you whole. [9]

Lo schermo si spense definitivamente, con un basso sbuffo, come se qualcuno avesse pigiato il tasto "off" a una gigantesca televisione.

Quelle parole rimasero per lunghi minuti sospese nell'aria, a rendere il silenzio carico di sgomento.

Sherlock, ovviamente, fu il primo a riscuotersi.

Si mosse risoluto, circumnavigando lo schermo e dirigendosi verso l'albero di Natale. John dovette obbligare i propri muscoli a uscire dalla paralisi in cui sembravano essere caduti.

Quando raggiunse Sherlock, lo trovò accovacciato sotto l'albero, chino su un piccolo pacchetto ai propri piedi. John si avvicinò e poté distinguere il nome dell'amico scritto a lettere cubitali sul del regalo, l'inchiostro nero di pennarello che faceva a pugni con la carta rossa.

« Sherlock… » sussurrò John.

Il detective si alzò in piedi, rigirandosi fra le mani il pacco.

« È… » John deglutì, trovando finalmente la voce, « È quello che penso? »

« Credo proprio di sì. Ha detto "pacco regalo", il che era una chiara allusione a questo albero di Natale. E c'è scritto il mio nome, sopra. Non riesco a pensare a un altro motivo per cui dovrebbe esistere. »

« Hai intenzione di aprirlo ora? »

« Non ho ancora deciso se sia la cosa migliore da fare. »

Sherlock si portò una mano ai capelli, scompigliando i suoi riccioli. I due uomini rimasero qualche secondo a fissare il pacco, ognuno perso nei propri pensieri. John si disse con orrore che per quanto ne sapessero avrebbe anche potuto esserci una bomba, all'interno. Ma poi pensò a come i due avevano interagito, seppur separati da uno schermo: la loro era una vera sfida a colpi di intelligenza, per cui no, non poteva trattarsi di una bomba.

« Sherlock » chiese allora John, « Ora hai cambiato di nuovo idea? Su Moriarty? »

Sherlock si voltò a fissarlo negli occhi, con una luce strana.

« Insomma… era lì davanti ai nostri occhi, anche se dietro uno schermo, si muoveva, parlava, ti rispondeva in modo logico! Non posso credere di stare per dirlo, ma… è vivo! »

« John. » rispose con voce ferma, « Non affidarti solo alla tua vista. »

« E questo che diavolo vorrebbe…? »

Ma le parole gli morirono in bocca, perché Sherlock era impegnato a sciogliere il nastro del regalo, deciso ad aprirlo.

« Parte il conto alla rovescia. » disse il consulting detective, « Meno ventisette ore. »

 

Questa volta non appena John finisce il racconto guarda dritto verso Sherlock. L'uomo era stato più tranquillo del solito, mentre John narrava quegli eventi, e ora le sue sopracciglia sono increspate di poco, e ha un'espressione di vaga confusione dipinta sul viso.

Per un attimo, John pensa di aver ottenuto l'accenno di un cambiamento, ma non fa in tempo a pensarlo che viene smentito dalle parole del detective, intrise di veleno e derisione.

« Ma no! Non mi dica che ha davvero intenzione di bloccarsi qui sul più bello? Cercate di farmi appassionare, per caso? »

John scruta a fondo negli occhi dell'amico, ma vi vede solo freddezza e repulsione, e con un sospiro si chiede se non si sia immaginato tutto.

« Non è nostra intenzione, Sherlock. » risponde, sorprendendo persino se stesso per quanto sia ferma la propria voce.

« Il dottor Watson ha ragione, Sherlock. Nessuno sta cercando di manipolarti. » s'insinua nella discussione Mycroft, facendo un paio di passi avanti e roteando l'ombrello, « Per oggi abbiamo concluso. È stata una giornata intensa. »

John annuisce in conferma, e in silenzio tutti escono dalla stanza. John si attarda, fino ad essere l'ultimo in compagnia di Sherlock.

Si volta a guardare l'amico, indeciso se dirgli qualcosa, ma quello, ancora una volta, lo sorprende.

« Non si preoccupi, dottor Watson. Non ho più paura di lei. Oramai la sua presenza non mi provoca altro se non disgusto. »

John sospira e chiude gli occhi, cercando di farsi scivolare addosso quell'ennesima stilettata al cuore.

« Mi dispiace doverti lasciare di nuovo solo. Vorrei poterti essere più vicino. » dice invece gentilmente.

E viene ripagato dall'espressione più stupefatta di cui Sherlock sia mai stato capace.

"Non te l'aspettavi, eh?" esulta nella propria testa, "Prendi questo!"

Si volta, aprendo la porta, tentando di trattenere il sorrisetto di trionfo che sente nascergli sulle labbra.

« Alone is what I have. Alone protects me.[10] » dice Sherlock con voce profonda.

John stringe le dita sulla maniglia della porta.

"Come al solito devi avere sempre l'ultima parola, eh?" pensa, "L'ho capito, sono peggio di un estraneo per te, sono un nemico. Ora non c'è nulla di più vero, per te, della frase 'io non ho amici, ho solo nemici', che eri solito affermare prima che io la cancellassi dalla tua vita, tempo fa. Ma sai, si tratta solo di ricominciare da capo. Devo riguadagnarmi la tua fiducia, di nuovo, pezzo per pezzo. E cazzo se ci riuscirò, fosse l'ultima cosa che faccio!"

John scivola fuori dalla stanza, andando incontro alla moglie.

« Emy? » le chiede.

« Ho appena avvisato la baby-sitter che stiamo arrivando. » risponde.

Il medico annuisce, perché in quel momento l'unica cosa che vuole è tornare a casa da sua figlia, prenderla in braccio, sentire il calore che emana il suo corpicino, riempirsi le narici e la testa del suo profumo, appoggiarsela al petto e cullarla fino a notte fonda.

"Sherlock, ti prometto che non sarai più solo."

 

 

***

 

 

Molly si muove freneticamente per la stanza. Non è mai stata una persona capace di contenersi, è sempre stata piuttosto emotiva e tutta quella situazione… Se ne avesse il coraggio Molly si sarebbe già messa a urlare parecchi giorni prima. Non può contenere tutta quella tensione, quell'ansia. Davvero, non può.

Camminare le sembra una buona soluzione. Lo è. O forse no.

Comunque, camminare è quello che sta facendo in quel momento, e la tiene occupata dal pensare, e tanto le basta. Che poi in realtà pensa lo stesso, quindi non serve a nulla.

Ecco, ha di nuovo perso il filo dei suoi pensieri. Si blocca un attimo. Cos'è che stavo dicendo? Niente, ovviamente, non ha aperto bocca. No, non l'ha fatto. C'è troppo silenzio in quella stanza. Uhm.

Ah, sì, la bacheca.

Si trova nella stanza adiacente a quella in cui riposa Sherlock, quella con il grande tavolo nel centro dove si erano trovati la prima volta che Mycroft li aveva convocati. Molly ancora rabbrividisce a pensare a quel giorno. Appena una settimana prima, poi…

Cioè, non credeva di poter essere così felice (Sherlock che viene ritrovato) e subito dopo così disperata (Sherlock non è più se stesso) e così confusa (Sherlock che le dice tutte quelle cose che… be', meglio non pensarci).

Anche senza pensarci, Molly arrossisce ugualmente.

E quindi.

Molly guarda l'ora. È mezzogiorno e un quarto, e a breve arriveranno anche tutti gli altri. (Nella pausa pranzo, perché nessuno può più prendersi giorni liberi dal lavoro. Tranne Mycroft, naturalmente, e Lestrade, che sta seguendo il caso di Sherlock anche in via ufficiale, come DI. E Mary, che è in maternità, e quindi non lavora.)

Ma lei è arrivata prima, e ora sta cercando di trovare la forza di fare quello che deve fare. Il problema è che non è sicura sia la cosa giusta da fare. Il che è un bel dilemma, perché gli altri arriveranno a momenti, e lei non avrebbe il tempo materiale di parlargli, e allora…

No, ecco. Lo sta facendo di nuovo. Agitarsi, e pensare al peggio.

Si posiziona davanti alla grande bacheca, fissandola. Prendi un respiro profondo, Molly.

Così le avevano insegnato a lezione di yoga. Non ha mai funzionato in realtà, perciò davvero è assurdo che continui a provarci, ma la speranza è l'ultima a morire, no? Che poi ha sempre pensato fosse stupido, quel modo di dire. Mica la speranza può morire.

Uffa, perché continua a distrarsi in quel modo? Avanti, Molly, concentrati!

La bacheca. Sì.

Quella creata da Anthea, con il planning dei giorni, dei turni per i racconti… Molly in persona aveva chiesto di potersi inserire in quella fase. Deve assolutamente raccontare un episodio, avvenuto proprio lì. Molly ci ha pensato bene, e deve essere stato in quel momento. Dopo il racconto di John sul primo enigma lanciato da Moriarty, quella volta a Trafalgar Square. E John l'ha raccontato il pomeriggio prima, quindi ora tocca a lei.

Solo che, davvero, come fare per capire se sia la cosa giusta?

Quello è qualcosa che è sempre stato privato, solo fra lei e Sherlock, una specie di fragilità di Sherlock che solo lei aveva conosciuto, e ora… non è un po' come tradirlo?

Ma come può fare altrimenti? È importante che lo sappiano, che lui sappia, soprattutto.

Molly sa che può essere un mattoncino in più, nell'abbattimento del muro che Sherlock ha eretto contro tutti loro. Per questo ha scritto il suo nome sul post-it colorato e l'ha attaccato sulla bacheca creata da Anthea, la quale ovviamente non ha commentato.

Molly non ha mai sentito parlare quella donna. O se l'ha fatto, è stato per brevi parole. Sempre attaccata a quel suo cellulare. Un po' le mette i brividi.

Comunque. Per questo, Molly deve farlo. È praticamente un obbligo morale, il suo.

Quindi ora uscirà dalla stanza, e andrà da Sherlock, e cercherà di spiegargli perché lo deve fare. Anche se dubita che lui la ascolterà. Per più di un motivo (arrossisce di nuovo). Ma almeno ci avrà provato, e quando Sherlock tornerà in se stesso (perché Molly non dubita che accadrà), forse non se la prenderà con lei. O per lo meno non troppo. Spera.

Ecco, sì, bene. Drizza le spalle, sicura della sua decisione.

Le dodici e venti. Si mordicchia il labbro inferiore. Diavolo, farà meglio a sbrigarsi.

« Sherlock? » la sua voce è flebile (maledetta timidezza!), quando il volto di Molly fa capolino nella stanza del detective.

Sherlock è steso sul letto, il viso rivolta al soffitto. Le lancia un'occhiata, tirandosi su a sedere, mentre Molly entra nella stanza di qualche passo.

« In anticipo, Molly? » chiede, la voce bassa.

Ecco, l'ha chiamata per nome. Questo è un buon segno, no?

« Non ti avevo chiesto di evitarmi? » continua Sherlock.

Mh, forse no.

« Ehm… Io… Volevo parlarti un attimo. Da soli. »

« E credi davvero che questa sia una buona idea? » Sherlock le parla gentilmente, inclinando il capo da un lato, « Dopo tutto quello che ci siamo detti, dopo tutto quello che è successo fra noi? »

Il volto di Molly diventa rosso fuoco, all'istante.

Com'è possibile che fra tutte le cose che avrebbe potuto credere, tra tutto quello che avrebbero potuto decidere di infilare nel suo Mind Palace, proprio quella…? Oh, è così ingiusto! E la cosa più brutta è che Molly quasi vorrebbe che…

No, non deve pensarci! Non deve farsi distogliere dai suoi propositi. Anche se si sente talmente bollente per l'imbarazzo, da essere sicura che da un momento all'altro il pavimento fonderà e lei sprofonderà al piano di sotto e…

NO! Basta con queste stupide fantasie.

Ci sono solo lei, Sherlock, e la cosa che gli deve assolutamente dire.

« Sherlock. » inizia, la voce che trema leggermente. La ignora.

« Sherlock. Sono venuta a scusarmi con te. »

« Scusarti? » chiede meravigliato, « Per come sono andate le cose fra noi? »

È possibile assumere una sfumatura ancora più rossa del vermiglio? Molly non ne ha idea. Meno male che non può vedersi allo specchio in quel momento. Ma Sherlock può vederla, invece. Oh, Dio.

Maledizione, Molly, concentrati!

« No… » riesce a replicare, la voce sempre più malferma, « Ti ho già spiegato che… che quello che credi che sia successo… fra noi, non è mai accaduto, no. »

Molly scrolla forte la testa, sperando di rafforzare le sue parole, poi prende un respiro profondo, e per una volta sembra che lo yoga non abbia poi del tutto torto.

« Ascolta, mi devi credere. » ricomincia, stavolta più risoluta, « Se le cose fossero diverse non lo farei mai, non tradirei mai la tua fiducia raccontando qualcosa di così… delicato, diciamo. Ma non ho altre alternative. Per questo sto chiedendo il tuo perdono. »

Sherlock la guarda attentamente per lunghi secondi, e allora Molly desidera davvero che il pavimento si apra e lei cada al piano di sotto, pur di sottrarsi a quello sguardo indagatore.

« Molly. » dice alla fine, il tono non più gentile come prima, « Tutto quello che esce dalle vostre bocche per me non è altro che una grande menzogna, quindi perché dovrei perdonarti per il racconto che farai visto che tanto non ci crederò? »

Molly chiude gli occhi per un attimo.

Perché se fossi in te stesso, mi detesteresti per questo.

Ma non può dirgli questo, no. Apre la bocca per rispondere qualcosa, ma viene interrotta da John e Mary che entrano nella stanza, poi seguiti dagli altri (tranne la signora Hudson, che è rimasta a casa a causa della sua anca malconcia), e alla fine il momento giusto passa, tutto avviene in fretta, e senza rendersene conto deve iniziare a raccontare.

Molly apre la bocca, poi la richiude, quindi la riapre. C'è la possibilità che quello che racconterà riesca a smuovere almeno un pochino Sherlock, questa è la cosa importante.

Perciò… sì, dai, tutto considerato ce la può fare. Forse. Be', è ora di scoprirlo.

 

Sherlock borbottava a bassa voce, gli occhi che si spostavano dallo schermo del computer al microscopio, su cui stava chino ispezionando qualcosa che Molly non era certa di aver compreso.

Le sue dita volavano leggere dai tasti del laptop alle manopole del microscopio, e non c'era nulla da fare, erano un'enorme distrazione per Molly.

Cercava di osservarlo senza farsi scoprire, ma in realtà il detective non sembrava interessato a lei. (Che novità.)

Erano solo loro due nel laboratorio, John era passato a salutare e poi era dovuto scappare al lavoro. Anche Molly avrebbe dovuto lavorare, ma, oh, come si fa con uno Sherlock Holmes così concentrato a pochi metri di distanza? (Così affascinante.)

Dio, Tom non era mai stato alla sua altezza, come ha potuto pensare diversamente? Ma la verità era che è lei a non essere alla sua altezza.

Oh, andiamo, basta con questi pensieri. Era passato il tempo in cui Molly moriva dietro al detective. Non era più quella ragazza che faceva i salti mortali per ottenere un po' della sua attenzione. Sherlock è suo amico, e questo era tutto ciò che c'era da dire sulla faccenda. Punto.

Deglutendo, Molly percorse il breve spazio che li separava, e si avvicinò a Sherlock, cercando di capire cosa dicesse.

« Verity burns, verity burns, verityburns… » lo sentì alla fine bisbigliare in una lunga litania.

Era qualcosa che aveva detto Moriarty nel suo video la sera prima, se Molly ricordava bene.

Molly l'aveva già visto assumere quell'atteggiamento, quando stava meditando su qualche dettaglio, pur essendo al lavoro su qualcos'altro. Una "nota mentale", l'aveva chiamata lui.

Molly l'osservò attentamente. Osservare era sempre stata la cosa che le riusciva meglio, forse perché spesso era invisibile, così era libera di studiare gli altri in tutta tranquillità, ed era anche piuttosto brava a capire le persone.

Quello che le sembrò di comprendere in quel momento le piacque poco.

« Sherlock. » cercò di attirare la sua attenzione.

Il detective rimase chino sul microscopio, ripetendo quelle due parole, senza dar segno di averla sentita.

« Sherlock? » chiese, a voce un po' più alta.

« Mh? » rispose distrattamente, ma Molly sapeva che ancora non aveva la sua attenzione.

« Sherlock! » questa volta quasi urlò, appoggiandogli anche la mano sulla spalla, con delicatezza.

Finalmente il detective alzò gli occhi su di lei, sorpreso.

« Stai di nuovo facendo quella faccia. » disse con calma.

« Che faccia? » Sherlock scrollò le spalle. « È sempre la mia solita faccia. »

Molly si mordicchiò il labbro inferiore, chiedendosi se fosse il caso di continuare. Ma ormai era in ballo… e quella era una cosa su cui erano già passati. Poteva farlo, adesso.

« L'espressione che fai quando sei triste e non vuoi farlo vedere. »

Sherlock la fissò negli occhi per lunghi minuti, e Molly non ebbe dubbi che nel suo Mind Palace stesse ripercorrendo una conversazione simile che avevano avuto al tempo del "primo Moriarty", prima della sua caduta, prima che fingesse la sua morte… quando aveva temuto di poter morire sul serio.

Lei invece non aveva bisogno di alcun Palazzo Mentale per ricordarselo.

« Ah. » disse alla fine, « Non me ne sono accorto. Se ti da fastidio smetto. »

La sua gentilezza la preoccupò ancora di più.

« No. È solo che… è tutto ok? »

Molly vide passare un brillio nelle sue iridi, e nella sua testa risentì quelle parole che le aveva detto: "You do count.", come se Sherlock le stesse dicendo di nuovo in quel momento, come se stesse ancora una volta decidendo di fidarsi di lei.

« Carl Powers. » disse alla fine.

« Chi? » lo guardò confusa.

Sherlock sospirò, e si spostò vicino al laptop, afferrando il pacchettino rosso che aveva lasciato sul tavolo lì vicino. Era il pacchetto con l'enigma di Moriarty, Molly lo sapeva.

« Qui dentro c'erano tutte le informazioni di cui ho bisogno per risolvere il primo indovinello di questo Moriarty. Vuoi sapere cosa ci fosse dentro? »

Sherlock la guardò con le sopracciglia alzate, scuotendo il pacco. Molly si affrettò ad annuire.

« Un nome, Mary Sutherland [11], due foto della ragazza, » Sherlock le tirò fuori dalla scatolina e gliele mostrò, « E un piccolo campione di tessuto epiteliale sotto formaldeide, che sto analizzando proprio ora. »

Sherlock rimise dentro la scatolina la fiala di formalina che aveva contenuto il campione di pelle.

« Chi è Mary Sutherland? »

Sherlock si spostò davanti al computer, girandolo poi verso di lei e indicando lo schermo, su cui campeggiava quello che sembrava la prima pagina di un vecchio quotidiano. Molly strizzò gli occhi e si mise a leggere.

« Mary Sutherland… dichiarata colpevole per il delitto della sorella maggiore… nonostante continui a dichiararsi innocente. » lesse ad alta voce, man mano che l'articolo procedeva, poi alzò lo sguardo su Sherlock, « È questo che devi fare? Capire se l'hanno condannata ingiustamente? »

« Questo per rispondere alla domanda di Moriarty, sì. Ma non è quello il vero enigma. »

Molly lo guardò senza capire, Sherlock si sedette su uno degli sgabelli del laboratorio, e unì le punte delle dita accanto al mento.

« La sorella di Mary Sutherland venne uccisa nel 1984. » disse, « Io avevo appena cinque anni. Carl Powers, il ragazzo che venne assassinato da Moriarty perché lo infastidiva, è morto cinque o sei anni dopo. Io ero abbastanza grande per accorgermi delle scarpe, per rendermi conto che mancasse qualcosa, e Moriarty era abbastanza grande da portare a termine il suo primo omicidio. Vedi qual è il problema? »

« Ehm… » Molly cercò di ragionare, « Che all'epoca di Mary Sutherland eravate entrambi troppo piccoli? »

« Esatto! Moriarty iniziò con Carl Powers, una cosa successa decenni fa, perché era importante, è qualcosa che ci unisce, ecco perché l'aveva scelto come sua prima sfida. Ma questo delitto? Cosa significa? Non ha senso, è fuori dallo schema! Io non ne avevo mai sentito parlare prima, e Moriarty… sempre che sia lui, ovviamente. »

Molly si ritrovò senza parole, non sapeva proprio cosa potergli rispondere. Sherlock era di nuovo nel suo Mind Palace, a quanto pareva, e Molly non avrebbe dovuto disturbarlo, ma c'era sempre quell'espressione triste sul suo volto, e sapeva di non poter lasciar correre.

« Cos'altro c'è, Sherlock? Voglio dire… so che non è tutto qui. »

Sherlock le scoccò una breve occhiata, ma non sembrava intenzionato a risponderle. Molly avrebbe dovuto spingerlo ancora un po'.

« Perché prima ripetevi "verity burns"? »

« Ah, lo dicevo ad alta voce? » commentò divertito, senza guardarla.

Eh, no. Se Sherlock pensava di potersi nascondere da lei usando l'ironia si sbagliava di grosso.

« Sherlock. » ordinò, la voce ferma, « Tell me what's wrong. [12] »

E Sherlock riconobbe quelle parole. Le sue mani si sciolsero dalla postura del 'pensatore' e gli ricaddero in grembo, gli occhi si scurirono, sembrò che qualcosa in lui si frantumasse, e Molly poté rivedere quello sguardo smarrito, confuso, privo della sua solita sicurezza, della sua forza. Un'espressione che Molly aveva sperato di non rivedergli mai più.

« Sono un uomo di ragione, Molly. Di logica. Non sono avvezzo a sentimentalismi, non sono solito seguire cose futili come le sensazioni. » la fissò per un attimo negli occhi, per poi distogliere subito lo sguardo, come se si vergognasse delle sue parole, « Eppure ho come un presentimento. »

« Che tipo di presentimento? » aveva chiesto in un soffio Molly, esortandolo a continuare.

Passarono lunghi secondi prima che la voce di Sherlock risuonasse di nuovo nel laboratorio, il tono serio e greve.

« Che accadrà qualcosa di terribile, e che non potrò farci nulla. Nessuno potrà aiutarmi questa volta, né John, né Mycroft… nemmeno tu. Sono solo. »

Sherlock la guardò, mentre Molly cercava disperata qualcosa da dirgli per rassicurarlo.

Non la trovò, e Sherlock sbattè le palpebre lentamente, poi scosse la testa, si alzò e uscì dal laboratorio, senza che Molly avesse la forza di fermarlo.

 

 

***













 

Note:

 

[1] CCTV = acronimo per Closed Circuit Television, la televisione a circuito chiuso con cui viene sorvegliata Londra e di cui Mycroft si serve, come vediamo fin da A Study in Pink.

 

[2] When I've eliminated the impossible, whatever remains, no matter how mad it might seem, must be the thruth. = Quando si elimina l'impossibile, quello che rimane, non importa quanto assurdo possa sembrare, deve essere la verità. Famosa frase di Sherlock, usata anche in The Empty Hearse (nella versione: "Se si eliminano gli altri fattori, quello che rimane deve essere la verità"). Ho preferito usare la frase originale del Canone, come fosse qualcosa che Sherlock ripete spesso e che quindi Mycroft può 'sentire' nella propria testa.

 

[3] Semtex. È un tipo di esplosivo plastico, con la particolarità di resistere a più alte e basse temperature rispetto agli altri esplosivi e di essere impermeabile. È l'esplosivo usato da Moriarty sulle sue vittime in The Great Game.

 

[4] MI-5 = Military Intelligence, sezione 5. Sono i servizi segreti interni dell'Inghilterra, per la sicurezza e il controspionaggio, più volte nominate e utilizzate da Mycroft.

 

[5] Well, the question is: where is his phone now? = Be', la questione è: dov'è il suo telefono ora? Citazione da A Study in Pink, pronunciata da Sherlock, quando il problema è ritrovare il cellulare scomparso della donna in rosa. Citazione adattata, in quanto l'originale dice "her" e non "his phone".

 

[6] The game is never over, John, but there may be some new players now. = Il gioco non finisce mai, John, ma potrebbero esserci nuovi giocatori ora. Citazione da His Last Vow, pronunciata da Sherlock durante il suo ultimo saluto con John, prima di partire con l'aereo.

 

[7] Downing Street, 10: è la residenza del Primo Ministro Inglese. Nominando questo e Buckingham Palace, Moriarty sta minacciando i più alti vertici del Governo Inglese.

 

[8] I'm not a hero, I'm a high-functioning sociopath. = Non sono un eroe, sono un sociopatico ad alta funzionalità. Citazione da His Last Vow, pronunciata da Sherlock prima di sparare a Magnussen.

 

[9] The truth hurts, my deary, but this truth… Verity will burn you whole. = La verità fa male, mio caro, ma questa verità… La verità brucierà tutto te stesso. Frase centrale della fic, direi :P Come avevo anticipato nel prologo, c'è un riferimento alla frase di Moriarty detta in piscina in The Great Game ('I will burn… the heart out of you.') Anche se ovviamente qui la parte più interessante è la differenza truth/verity, che Sherlock non esiterà a notare, ben presto. Preferirei non tradurla, nella storia, appunto per questo, poiché la parola "verity" ha anche un'accezione di "realtà" che truth sottolinea meno…

 

[10] Alone is what I have. Alone protects me. = La solitudine è quello che ho. Essere solo è ciò che mi protegge. Citazione da The Reichenbach Fall, pronunciata da Sherlock e seguita dalla bellissima frase di John: 'No. Friends protect people!'

 

[11] Mary Sutherland, è la cliente di Holmes e Watson in "A Case of Identity", racconto di Doyle, dal quale ho chiesto in prestito il titolo per questa parte di storia. Ovviamente non c'entra nulla con il caso della vera Mary Sutherland di Doyle, ma mi sembrava carino tributarle questo nome.

 

[12] Tell me what's wrong. = Dimmi cosa c'è che non va. Citazione da The Reichenbach Fall, pronunciata da Molly quando Sherlock va a chiederle aiuto, dopo che Molly gli ha detto di essersi accorta che lui è triste. Tutta questa scena di Molly e Sherlock è ispirata a quella nella 2x03, l'accenno alla "nota mentale", il 'you do count', il fatto che Molly sappia che Sherlock non stia bene…

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** A Case of Identity - IV parte ***


Eccomi, gente! :)
In questo capitolo, tre nuovi PoV (che spero vi piaceranno), e il solito evergreen (sì, se non si fosse capito John ve lo beccherete praticamente sempre!). E mooolte meno note u.u

Un paio di avvisi:
1. il linguaggio è più volgare del solito (ma non credo vi creerà problemi...)
2. non sono una giallista, quindi non mi lanciate troppa verdura/frutta marcia per i casi, sia qui che in futuro... Insomma, io ho fatto del mio meglio, voi datemela buona ;)

Come dicevo a qualcuno, scrivo per divertimento, e parte di questo è conoscere le ipotesi e le idee che avete su come si evolverà la storia, sui personaggi, su ciò che succede... su qualunque cosa in realtà! (E scommetto che su questo capitolo ne avrete da dire... :P ) Quindi fatevi sentire e non abbiate timore di sparlare, che a me fa piacere! *.*

E ora basta chiacchiere, buona lettura e che il dio della deduzione (DDD) sia con voi! ;)













 

A Case of Identity - IV parte

 

 

 

 

***

 

 

Philip sbuffa. Sbuffa e borbotta. Sbuffa, borbotta e si chiede cosa diavolo ci faccia lì.

Ma ovviamente lo sa bene.

« Il dannato Mycroft "Governo Inglese" Holmes, ecco cosa ci faccio qui! » esclama, seguitando poi a inveire a voce alta contro l'uomo.

Tanto nessuno lo sentirà, non in quel momento - sono tutti a MayFair, ci scommette; non lì - a Baker Street.

« Dio, da quant'è che non entrano in 'sto posto? » si chiede, varcando la soglia dell'appartamento 221B.

Si da una veloce occhiata intorno: il salotto è al culmine della confusione, come è sempre stato ogni volta che il dottore forense vi ha messo piede. Ma bisogna ammettere che la questione sia rovinosamente peggiorata da quando John Watson è andato a vivere lontano da quella casa.

In più, negli ultimi tempi nemmeno Mrs. Hudson deve essere salita a pulire un minimo di quel macello, troppo presa dalla sua anca e da Sherlock e i suoi casini - come tutti d'altronde.

Anche Anderson lo è. Possono pensare quello che vogliono, gli altri - e soprattutto quel pallone gonfiato di un Holmes, ma Philip è preoccupato come tutti loro, per quanto riguarda Sherlock. È vero, ci sono state molte incomprensioni in passato, e ancora rimpiange il suo comportamento durante il caso Moriarty, come colse quell'occasione per vendicarsi di Sherlock e accusarlo di essere un impostore. Tutto era stato colpa sua, era nato da lui e dalle sue illazioni - be', anche da quelle di Donovan.

Ma le cose erano cambiate. Quando Sherlock si era ucciso - sì, era stato per finta, ma allora non lo sapevano - Anderson aveva capito la gravità del suo errore. Sapere di aver portato un uomo - e quale uomo in particolare - al suicidio aveva fatto scattare qualcosa in lui.

Si vergogna profondamente di quello, e anche del suo successivo crollo emotivo e intellettivo - per dirla in modo gentile. Era diventato ossessionato - per dirla in modo più specifico. Ossessionato da Sherlock e dalla sua idea che fosse ancora vivo. Voleva che fosse ancora vivo, perché non riusciva a vivere con quel rimorso addosso. La moglie si era separata da lui, per questo, e anche Donovan si era allontanata. Non che fosse mai stato qualcosa di serio, fra loro.

Philip si era ritrovato senza lavoro, a cercare di convincere tutti di qualcosa che… semplicemente sembrava impossibile. Sherlock si era buttato da quel tetto ed era morto, e nessuno l'avrebbe potuto riportare indietro. Tormentarsi - come aveva detto Lestrade - non sarebbe servito a nulla. Ma Philip l'aveva fatto lo stesso. Non aveva potuto farne a meno.

'Guilt. That's all this is. Do you honestly believe if you have enough stupid theories it's going to change what really happened?'[1] Questo gli aveva chiesto Lestrade, e Philip sapeva che c'era un fondo di verità in quelle parole. Ma non era solo il suo senso di colpa a farlo andare avanti: non aveva creduto in Sherlock quando ne aveva avuto l'opportunità, non avrebbe smesso di farlo nel momento in cui finalmente aveva aperto gli occhi su di lui.

E poi… Sherlock era tornato. Sul serio. E Philip era stato più felice di questo che del sapere di aver avuto ragione - anche del particolare che Molly Hooper ne fosse da sempre a conoscenza. Non aveva rinfacciato a nessuno un "te l'avevo detto", anche se avrebbe potuto. Anzi, era stato ancora ossessionato dal come Sherlock fosse riuscito a sopravvivere, finché lui stesso gli aveva dato una sua versione dei fatti - che ancora Philip non credeva vera, ma… il punto era che Sherlock così facendo l'aveva liberato. L'aveva ringraziato, a modo suo, per aver continuato a credere in lui; forse Philip era l'unica persona che non si fosse arresa. Doveva pur contare qualcosa.

E così Anderson era ritornato se stesso. Aveva riottenuto il proprio lavoro, era ritornato con la moglie, aveva ripreso la sua relazione saltuaria con Donovan - ma allo stesso tempo era cambiato tutto.

Sherlock non l'aveva più sbeffeggiato, e lui non l'aveva più insultato. C'era una specie di accordo silenzioso fra loro, adesso. Certo, non avrebbe potuto dire di essere un suo amico, ma… era una persona che Sherlock sopportava, e non disprezzava più - non più di tanto o più delle altre persone, per lo meno. E questo era già tanto per quel genio di detective.

Lo rispettava, in un certo senso. E a Philip andava bene così.

Per questo gli girano piuttosto i coglioni a vedere come il più grande degli Holmes lo tratti.

In quei mesi, durante il Grande Caso Moriarty, ha cercato di dare una mano come poteva - non avrà certo l'IQ dei fratelli Holmes, ma non è nemmeno così stupido come sembrano tutti pensare. E anche in quegli ultimi giorni, dopo il ritrovamento di Sherlock, si è messo a disposizione. E Holmes l'ha trattato peggio di uno zerbino - con i suoi sorrisetti e le sue minacce velate.

« Fottuto fottuto fottuto di un Holmes! » ripete, facendo qualche passo all'interno del salotto.

Molla le chiavi dell'appartamento sul tavolino, si porta le mani ai fianchi e con sguardo pensieroso osserva intorno a lui.

« Dunque… da dove comincio? » si chiede.

Ha sempre avuto l'abitudine di parlare da solo, pronunciare ad alta voce i propri pensieri lo aiuta a concentrarsi, ovviamente quando non c'è nessun'altro in vista - soprattutto un certo Sherlock Holmes, o la cosa potrebbe ritorcerglisi contro. Dopo i due anni della morte apparente di Sherlock, oltretutto, la mania si è fatta più pressante.

« Vada a Baker Street, Anderson. » esclama girando gli occhi, la voce bassa e melliflua nell'imitazione di Mycroft Holmes, « Cerchi il suo cellulare, Anderson. Questo è un ordine, Anderson! Non vorrà mica sapere cosa potrebbe succedere, Anderson?! »

Philip sbuffa, imprecando di nuovo a denti stretti.

Mycroft Holmes l'aveva chiamato il giorno prima, ordinandogli di andare a Baker Street in cerca del cellulare di Sherlock. Philip si era permesso di replicare, dicendo che aveva migliaia di uomini al suo comando, il fottuto Holmes, quindi proprio non vedeva la necessità di spedire lui, che aveva altro da fare: un lavoro, ad esempio. In realtà Philip ci sarebbe andato volentieri - desiderava davvero aiutare Sherlock, possibile che nessuno lo comprendesse? - ma non sopportava il tono saccente che il più grande degli Holmes usava con lui, come fosse una marionetta ai suoi comandi.

In più, era chiaro che quello fosse un compito inutile. L'MI-5 aveva già controllato l'appartamento di Sherlock da cima a fondo, come prima cosa quando il detective era sparito. Quindi era impensabile che Anderson, da solo - gli era stato vietato di portare con sè qualcuno del fan club che aveva fondato - potesse trovare qualcosa.

Il fottuto Holmes lo stava facendo apposta, naturalmente.

E in modo altrettanto ovvio, alla fine Philip aveva dovuto cedere. Così eccolo lì, a cercare di decidere da che parte cominciare in quel casino. Per fortuna conosce bene il 221B di Baker Street, per quante volte si è trovato a farci delle retate - in cerca di droga, soprattutto.

Philip si infila lentamente dei guanti in lattice - « Veda di fare un lavoro pulito, dottor Anderson. Baker Street potrebbe ancora essere sorvegliata. » gli aveva detto Holmes. Si guarda intorno.

« Ok, cominciamo dai soliti posti. » dice, dirigendosi verso il camino.

Mezz'ora dopo, il salotto è stato completamente controllato - il camino, il teschio, il poster alla parete, le poltrone, il divano, il tavolino… Philip ha guardato ovunque, non trovando nulla di interessante, a eccezione di qualche sigaretta dimenticata fra i cuscini del divano chissà quanto tempo prima.

« Bene, passiamo alla cucina. » apre bocca solo per abitudine.

La cucina è più lunga da controllare, con tutti gli sportelli dei mobili, gli utensili, le pentole, i contenitori del cibo - anche se nella maggior parte ci sono altre cose, il frigo - quello è un processo disgustoso, Philip storce il naso più volte, e infine tutti gli strumenti che Sherlock usa per i suoi esperimenti.

Dopo un'ora Philip si arrende. Ha trovato di tutto e di più, cose che ci metterà un po' a dimenticare, ma nessuna traccia di cellulari, o anche sostanze stupefacenti, se è per questo. Non che le trovassero mai - nemmeno quando erano sicuri che il detective si stesse facendo.

Si toglie i guanti sporchi, buttandoli a terra, e sprofonda sul divano, reclinando la testa all'indietro.

« Se continuo così starò qui tutto il pomeriggio, maledizione! »

Si passa una mano fra i capelli. Guarda l'ora, sospira, e si infila un nuovo paio di guanti.

« Tocca al bagno. »

Un'altra mezz'ora è persa tra i sanitari, la doccia, e l'armadietto in cui Anderson trova diverse provette il cui colore e odore tutto indicano meno che siano prodotti per la pulizia personale. Philip rimette tutto a posto con una smorfia di ribrezzo sul volto.

« La camera. » geme Philip, uscendo dal bagno.

Ha lasciato la stanza di Sherlock per ultima, sperando di trovare qualcosa nel frattempo, qualcosa che gli impedisse di dover controllare anche lì dentro ma… seriamente, ancora ha speranza di trovare qualcosa?

« Potrei andarmene e dire al fottuto Holmes che non ho trovato niente. Tanto non troverò nulla nemmeno lì, e Holmes lo sa benissimo. Non saprebbe mai che non sono entrato nella camera di Sherlock. »

Si passa una mano guantata sul volto.

« No, invece. Lo capirebbe di sicuro, lui e il suo dannato cervello ipertrofico da Holmes! »

Philip sbuffa, guardando verso il salotto, verso l'uscita che lo chiama a sé. Sospira.

« E va bene. Andiamo. »

Anderson spende altri tre quarti d'ora nella camera di Sherlock, e odia ogni istante di quella ricerca che sembra quasi un'impresa speleologica. L'armadio è un vero disastro: indumenti buttati a caso, cassetti che si chiudono a malapena per quanto sono pieni, libri, strumenti scientifici e resti vari di cui Philip preferisce non conoscere la provenienza.

« Ma quanto cazzo sei disordinato, Sherlock? » chiede, pensando però al modo di vestirsi sempre perfetto del detective.

Un'altra delle sue numerose magie.

Alla fine torna in salotto, buttandosi sul divano, irritato come non mai.

Non c'erano speranze che trovasse qualcosa, è vero, ma ormai era diventata una sfida tra lui e Holmes, e ora Anderson detesta il fatto di tornare da lui a mani vuote. Tanto per dargli un ulteriore motivo per trattarlo come uno straccio, come un incompetente.

Philip riflette, sdraiato sul divano, le mani abbandonate sullo stomaco, una gamba che dondola oltre l'orlo del sofà, lo sguardo fisso al soffitto.

« Che posso fare? Non posso arrendermi così. » medita.

All'improvviso qualcosa passa nei suoi occhi, si tira su di scatto a sedere, continuando a guardare il soffitto.

« John! » esclama, prima di scapicollarsi al piano di sopra, saltando gli scalini due alla volta.

La ex stanza di John Watson è completamente immacolata, come è probabile che l'abbia lasciata l'inquilino prima di sposarsi.

« Strano, avrei giurato che Sherlock l'avesse trasformata in una specie di laboratorio. » commenta in modo distratto.

E invece è vuota, tranne per il letto, il comodino e l'armadio, che sembrano essere intoccati, come appena usciti dal negozio.

La rivelazione di Anderson è semplice: John se n'è andato da quella casa mesi prima, e se nel tempo in cui ha vissuto lì nessuno ha mai pensato che Sherlock potesse aver nascosto qualcosa in quella stanza, ora che non c'è più la cosa è diversa… Ma Philip è abbastanza sicuro che nessuno vi abbia controllato perché, appunto, troppo sicuri che quella fosse una parte pulita e off-limits della casa.

Ci mette meno di un quarto d'ora a girare tutta la stanza, aprendo comodino, armadio, controllando tutti gli sportelli e il letto. Non trova nulla, è tutto tristemente sgombro. Si accascia sconsolato appoggiandosi sullo stipite della porta.

« Troppo bello per essere vero. » sospira. Sembra si sia illuso per nulla.

I suoi occhi vagano ancora una volta per la stanza, ormai pronto a dare forfait, quando all'altezza del suo sguardo, vicino alla testata del letto, nota qualcosa di strano.

Si avvicina, avanzando in ginocchio, per osservare meglio, e ne ha la conferma: la carta da parati che sparisce dietro alla testata ha una piccola incisione, invisibile a meno di non guardarla da molto vicino.

Philip spinge il letto più in là, incuriosito dalla scoperta, l'eccitazione che già comincia a percorregli le vene.

Quando il letto è rimosso del tutto, si trova davanti a un quadrato di venti centimetri per lato, inciso solo su tre lati, mentre il quarto rimane attaccato al resto della carta da parati. È come se qualcuno avesse sollevato il pezzo di carta, tagliandolo con un cutter, per poi riposizionarlo nello stesso punto, facendo ricombaciare il tutto come se nulla fosse cambiato.

Philip percorre le incisioni con il dito, cercando dove far leva per alzare il quadrato di carta senza rovinarlo. Alla fine trova un punto debole nell'angolo in basso, e con attenzione comincia a sollevarlo, fino a scoprire definitivamente il muro dietro.

Solo che il muro non c'è.

Qualcuno ha asportato il mattone che doveva esserci in quel punto, oppure ha fatto un buco direttamente nel muro, così che ora al suo posto vi è una rientranza.

« Bingo! » esclama Philip, per poi deglutire notando cosa si trovi all'interno.

C'è una piccola scatola di legno, quadrata, tra i dieci e i quindici centimetri per lato, per cinque o sei di spessore. Anderson la afferra con delicatezza, asportandola dal buco come se fosse il più prezioso dei tesori.

Il legno è pregiato, di ebano a giudicare dal colore, laccato con dello smalto protettivo trasparente. Tutta la scatola è percorsa da decori argentati, ghirigori a fantasia che fanno un bel contrasto con il legno scuro. Al centro, sul coperchio, svetta una grossa acca maiuscola, scritta con stile medievale, incisa nel legno e poi ricoperta della stessa vernice argentata delle decorazioni.

« Be', almeno non ci sono dubbi di chi sia il proprietario. »

Anderson si interroga per una frazione di secondo: dovrebbe aprirlo? Forse sarebbe meglio consegnarlo così come l'ha trovato nelle mani di Mycroft Holmes. E Philip già pregusta l'espressione stupita che gli si dipingerà sul volto quando gli dirà che ha effettivamente trovato qualcosa di interessante.

« Ora non mi tratterai più come un cretino, mh, Holmes?! » esclama orgoglioso.

Abbassa di nuovo gli occhi sulla scatola, percorrendo con i polpastrelli la lettera incisa sul coperchio. Deglutisce. Cosa si nasconderà all'interno? Un diario segreto, forse? Per poco non scoppia a ridere al solo pensiero di Sherlock che scrive i suoi pensieri su un quaderno. No, la curiosità è troppa. Afferra il coperchio da un lato e lo solleva.

I suoi occhi si allargano, mentre un'espressione sorpresa gli apre il viso.

« Cazzo! » si lascia sfuggire dalla labbra.

In un solo movimento prende il proprio cellulare dalla tasca dei pantaloni e compone un numero. Quasi non da' il tempo a Lestrade di rispondergli.

« Capo. » dice, « Non ha idea di cosa io abbia appena trovato. »

 

 

***

 

 

« Billy. »

Il ragazzo era in piedi nel salotto del 221B, appoggiato alla parete vicino al divano, stuzzicava i fori di proiettili accanto allo smile giallo, l'aria assente e una sigaretta spenta dietro l'orecchio.

Sherlock era sprofondato nella sua poltrona preferita, le gambe allungate davanti a sé, la testa reclinata in avanti sulle dita unite, e gli occhi chiusi.

Era immerso nel suo Mind Palace, e per questo Billy non aveva fatto cenno di averlo sentito quando il detective aveva pronunciato il suo nome. Avrebbe potuto sussurrare qualunque cosa, in quello stato, e poi sgridarlo infastidito se avesse provato a replicare.

« Billy! »

Questa volta il suo nome venne esclamato con più forza, e allora il ragazzo si voltò, guardando l'uomo con occhi spenti.

« Mh? » mormorò.

Sherlock si mosse con uno scatto repentino, aprendo gli occhi e issandosi sulla poltrona con i piedi nudi sulla seduta, accovacciato in bilico in una posizione che il ragazzo non trovava per niente comoda. "Oh be', questo è Sherlock Holmes."

Il detective gli indicò il tavolino davanti a sé, facendogli cenno di avvicinarsi. Billy obbedì, le mani in tasca, senza tuttavia accomodarsi davanti a Sherlock. Quella era la poltrona di John Watson, Billy lo sapeva bene.

Gli occhi del detective erano concentrati sui vari oggetti sparsi sul tavolino. C'era la scatolina rossa, quella che Moriarty aveva usato per mandare al suo sfidante il primo enigma, e tutto ciò che Sherlock vi aveva trovato all'interno.

"Ecco, gli servo. Per riflettere. Perché non c'è John."

Sherlock aveva bisogno di una platea che ascoltasse i suoi ragionamenti, gli serviva per schiarirsi le idee una volta che queste avessero preso posto nel suo cervello, Billy questo lo sapeva. Come sapeva che lo spettatore preferito del detective era John Watson, lui non era che un mero sostituto, in sua assenza. Non che a Billy dispiacesse. Voleva trattenere come una spugna tutto ciò che usciva dalle labbra del genio che aveva eletto a suo mentore, tutto ciò che potesse servirgli a imparare, a emularlo, a essere come lui.

Sherlock, inconsapevole dei pensieri del ragazzo, stava intanto puntando un paio di foto appoggiate sul tavolino.

« Chi è? » chiese.

Billy lanciò uno sguardo alle fotografie. Ritraevano una giovane donna dai capelli di un castano chiaro e i grandi occhi nocciola. Billy aveva sentito parlare di lei, nelle ore precedenti, da quando Moriarty aveva lanciato la sua sfida. Mancavano poco più di sei ore allo scadere del tempo che era stato concesso al detective.

« Mary Sutherland. » rispose con la sua solita voce strascicata.

Sherlock annuì senza guardarlo. Era proprio vero: gli serviva solo un essere parlante per i propri scopi.

"Forse nemmeno pensante." si disse Billy.

« Mary Sutherland, classe 1960, a ventiquattro anni assassinò sua sorella Cassie e per questo venne condannata all'ergastolo. Sotto un'unghia della vittima fu rinvenuto un campione di pelle che il coroner attribuì proprio a Mary, e l'anatomo patologo successivamente confermò, ritrovando anche sul corpo di Cassie evidenti segni di una colluttazione. » Sherlock si interruppe per un secondo, mostrando un frammento di pelle immerso nel liquido di formalina in una piccola provetta, « L'epidermide in questione dovrebbe proprio essere questa che Moriarty mi ha così gentilmente fornito, e a giudicare dagli esami del sangue che sono riuscito a recuperare, il DNA combacia con quello di Mary. »

Sherlock si leccò le labbra, lo sguardo perso per un secondo. Billy avrebbe potuto chiedere qualcosa, ma non era ancora il momento, il detective non aveva finito, avrebbe dovuto solo aspettare. E infatti ricominciò a parlare velocemente pochi istanti dopo.

« La morte sopraggiunse per un colpo dietro alla nuca, piuttosto forte dato il decesso sul colpo, ma i segni intorno al collo, così come lo stato delle vie respiratorie, indicavano un tentato omicidio per soffocamento. Riassumendo: Mary e Cassie devono aver lottato, Cassie ha graffiato la sorella, ma Mary deve aver preso il sopravvento a un certo punto, sovrastandola e stringendole le mani alla gola. La colluttazione deve essere stata piuttosto feroce, Mary deve aver scaraventato la testa della sorella a terra o contro la parete, uccidendola. E questa è stata la ricostruzione dei fatti a opera della polizia prima e dell'avvocato d'accusa poi. Le prove contro di lei erano schiaccianti. Nessun alibi al momento del delitto, venne ritrovata ore dopo l'ora del decesso della sorella in stato confusionale. »

« Sembra semplice. » si lasciò sfuggire Billy.

Sherlock fissò gli occhi nei suoi.

« Esatto. L'opinione pubblica si rivoltò per questo evento e nessuno, delle persone in alto, voleva scatenare una rivolta mediatica. La ragazza, per tutto il processo e, da quanto mi è dato di sapere, anche per tutto il periodo che trascorse in prigione fino alla morte avvenuta solo sei anni più tardi, continuò a professarsi non colpevole. Ma, forti delle prove, dichiararono colpevole Mary di omicidio volontario e la rinchiusero in prigione. Non è raro che il colpevole affermi di essere innocente anche di fronte a prove lampanti, e così il caso venne chiuso molto il fretta. Hai ragione Billy, sembra tutto fin troppo semplice. E non solo per il fatto che Moriarty mi ha sottoposto questo enigma… »

Sherlock prese in mano le due foto e le osservò per qualche secondo, una mano che andava a scompigliarsi i capelli.

« Mary soffriva di depressione. O almeno così è riportato sui referti medici. In ogni caso, era in cura da uno psichiatra già da un anno, quando avvenne il delitto. Uno psichiatra per una semplice depressione, vedi? Non sembra strano anche a te? Non ho trovato nulla di più specifico però. Poi c'è anche da considerare che oltre a professarsi innocente, affermò di non ricordare nulla dell'ora in cui era avvenuto l'omicidio, come se avesse subito un'amnesia. Ovviamente nessuno le credette. E tuttavia, che motivo aveva di uccidere la propria sorella? Il movente è inesistente. »

Sherlock si accomodò di nuovo sulla poltrona, i piedi nudi ancorati a terra, le punte delle dita che cominciavano a toccarsi.

"E ora di nuovo chiuso nel Mind Palace. Fantastico." pensò con ironia, "Ciao ciao Sherlock."

« Che cosa pensi? » chiese allora, per farlo rimanere lì con lui.

Sherlock gli lanciò un'occhiata speculativa, una strana luce che gli passava negli occhi. Con un elegante movimento prese le due foto dal tavolino per poi posargliele in mano.

« Chi è? » chiese di nuovo.

Billy lo guardò confuso. « Mary Sutherland. » rispose esitante, con lo stesso tono di qualche minuto prima.

« È la stessa donna in entrambe le foto? »

Billy guardò le immagini nelle sue mani. Le foto erano a mezzo busto, i vestiti erano diversi ma lo stile lo stesso: camicetta e maglioncino, un pendente d'oro al collo. Il volto era magro, leggermente tondo, i capelli lisci a incorniciarlo, una corta frangetta, gli occhi grandi e le ciglia lunghe.

« Sì che è la stessa donna. » replicò, senza capire dove il detective volesse andare a parare.

« E allora dimmi: ti sembra la stessa donna? »

Billy alzò un sopracciglio, interdetto dalla strana domanda. "Che?!" si chiese.

Tornò a osservare le due foto, questa volta con più attenzione. "Dedurre, dedurre, devo dedurre. Cosa posso dedurre?"

La ragazza non sorrideva in nessuna delle due foto. Nella prima aveva uno sguardo spaventato sul fondo degli occhi spalancati, e si torturava le labbra con i denti, le sopracciglia increspate, un pallore diffuso su tutto il volto.

Nella seconda era completamente diversa: gli occhi erano più stretti, come se stesse affilando lo sguardo e fissando con disprezzo chi le stava davanti, le guance erano percorse da un lieve rossore, i capelli erano spettinati, la frangetta non perfetta come nell'altra foto. Ma l'elemento più disturbante erano le labbra, aperte in un piccolo ghigno, e la luce inquietante a illuminare gli occhi.

Tutte cose che a uno sguardo poco attento sarebbero sfuggite, ma ora che Sherlock gli aveva indicato la via, gli aveva fatto dedurre oltre che guardare, la differenza era lampante.

Era sicuramente la stessa donna in entrambe le foto. Ma non sembrava affatto la stessa persona.

Alzò lo sguardo su Sherlock, per chiedergli spiegazioni, ma quello aveva chiuso gli occhi e si era inabissato nel suo Mind Palace.

 

« Billy. »

Il ragazzo alza appena la testa dalla sua posizione, seduto per terra, la schiena appoggiata al muro, le gambe piegate e larghe, i gomiti appoggiati alle ginocchia, le mani unite davanti a lui. Fissava il terreno fino a pochi secondi prima, senza vederlo, perso nei suoi ricordi.

Ricordi che potrebbero essere essenziali per la ricostruzione dei fatti che stanno tutti facendo per aiutare Sherlock, ma a cui lui non può partecipare. In parte perché, andiamo, cosa potrebbe avere un ragazzetto spostato come lui d'importante da dire?

E anche se fosse, come gli ha spiegato Mycroft Holmes, siccome lui è l'unico di cui Sherlock conserva un ricordo intatto, è bene che non si schieri nella faccenda, ma che rimanga in disparte, magari provando a ottenere quella fiducia che Sherlock ha tolto a tutti i propri amici.

"Come se si sia mai fidato di me." aveva pensato con un pizzico di amarezza, quando Holmes gli aveva detto quelle parole, "Sono solo il suo cagnolino." Mentre aveva solo scrollato le spalle e bofonchiato un « Okay. »

E invece qualcosa da dire ce l'avrebbe, come quando Sherlock gli aveva presentato le sue deduzioni, per quanto in maniera sibillina fossero state poste.

« Billy? »

Il ragazzo solleva del tutto la testa, incrociando finalmente lo sguardo di Sherlock Holmes.

Sherlock Holmes, che stava dormendo fino a poco prima, e di cui Billy aveva cercato la silente compagnia, senza accorgersi poi del suo risveglio. Sono soli nella stanza, e forse anche nell'intera casa, Sherlock nel letto e lui attaccato alla parete di lato.

« Che ci fai qui? » chiede il detective, trapassandolo con occhi cristallini.

Billy alza le spalle. "Tanto non ho altro dove andare."

Gli occhi del detective si assottigliano.

« Non dovresti fumare qua dentro, sai? Il mio caro fratello non te l'ha spiegato? »

Billy sposta lo sguardo sulla sigaretta abbandonata fra le sue dita. "Quando l'ho accesa?" Non lo rammenta. Non che sia importante.

In un gesto accennato sporge dita e sigaretta incriminata verso il detective.

Sherlock annuisce, cogliendo al volo l'invito.

Billy si alza lentamente, si avvicina a lui con calma, per poi allungargli la sigaretta. Rimane al fianco del detective finché questo non afferra la sigaretta dalle sue dita, se la porta alla bocca e prende un lungo respiro.

« Dio. » lo sente gemere, mentre reclina la testa all'indietro e soffia fuori dalle labbra una lunga nuvola di fumo grigiastro.

Billy è sempre stato affascinato dal fumo, e forse è più per questo che per altro che ha imboccato quella strada.

Arretra senza staccare gli occhi da Sherlock, fino a raggiungere con la schiena la parete. Si lascia scivolare per terra, riprendendo la stessa posizione di pochi minuti prima.

Sherlock gli rivolge di nuovo lo sguardo, e questa volta c'è un luccichio divertito nei suoi occhi.

« Solo tabacco, eh? » commenta.

Billy scrolla le spalle. È un qualcosa che fa spesso.

« Niente di peggio della roba che ti stai inniettando tu. » si difende per nulla preoccupato, strascicando le parole, e gesticolando verso i tubicini attaccati al braccio del detective.

Non è difficile capire che si riferisca alla morfina.

Sherlock ride, una bassa risata gutturale, e prende un'altra boccata.

« Non che la cosa ti dispiace, mi pare. »

« No, infatti. » replica, alzando un sopracciglio, « Ma non parlare così. »

« Come? »

« Sgrammaticato. Sei intelligente, lo sai. »

« Allora… » Billy inclina la testa, un sorrisetto che gli appare sul volto per il complimento indiretto del detective, « 'Non ce la cosa ti dispiaccia, mi pare'? » ripete.

« Meglio. » annuisce Sherlock, asciutto.

Poi si abbandona all'indietro sul cuscino, respirando un'altra boccata di sigaretta.

« Mmm. » commenta « Come mi è mancato fumare. »

Billy lo osserva respirare lentamente la sigaretta, tiro dopo tiro, mentre il fumo rotola su se stesso e s'innalza al soffitto.

La verità è che non importa a nessun'altro, tranne che a lui. Mycroft Holmes è fin troppo geniale, volendo ci arriverebbe prima del fratello; Lestrade è interessato solo ai risultati, ad acciuffare il colpevole; John Watson si limita a stupirsi e a complimentarsi entusiasta con lui, cosa che comunque al detective piace moltissimo. "E a chi non piacerebbe?" sbuffa fra sé e sé.

Quindi, rimane lui. Solo a Billy interessa conoscere tutti i procedimenti, il modo in cui funziona la mente di Sherlock Holmes, come arrivi da un particolare a un'idea, da un'osservazione a una deduzione. Solo lui vorrebbe imparare, apprendere, diventare come Sherlock Holmes.

Forse per questo nessuno è attirato dal sapere esattamente come Sherlock sia arrivato alla conclusione di quel primo enigma di Moriarty, a nessuno importa sentire il racconto di Billy.

« A cosa pensi? » gli chiede all'improvviso Sherlock, e per poco Billy non sobbalza, per quanto sia simile alla domanda che lui stesso gli aveva posto quel giorno di diversi mesi prima.

Billy scuote la testa. « Niente di importante. » commenta.

Billy osserva lo sguardo del detective farsi lontano, fino a che è sicuro che non lo stia vedendo nemmeno più, nonostante i suoi occhi siano ancora puntati sul ragazzo.

« Secondo te dovrei crederci? » chiede.

« A cosa? » risponde Billy, un brivido che gli scorre lungo la schiena.

« A questa cosa… del lavaggio del cervello. » ribatte.

"Ecco, ci siamo." Billy si stringe nelle spalle.

« Non saprei. »

Sherlock lo fissa intensamente, e non c'è alcuna possibilità, ora, che non lo stia vedendo.

« Io mi ricordo tutto di te, giusto? »

Billy annuisce.

« Nulla di strano? »

« No. »

« Mettiamoci alla prova, vuoi? »

« Come preferisci. »

« Chi sei? »

« Il tuo protetto. » Billy non esita, « Quando morirai, mi prenderò le tue cose. E il tuo lavoro. »

Sherlock lo guarda, divertito.

« Mh. Nope. »

« Be'… ti do una mano. »

« Ci sei quasi. »

« E se vieni ucciso o qualcosa di simile… » [2]

« Mi pare che sia già successo qualcosa di simile, e tu sei ancora qui. »

Billy fa una smorfia, Sherlock sorride. Ma torna subito serio.

« Allora dovrei potermi fidare di te. »

Billy si lecca un labbro. "E mo' che gli dico?"

« Ti sei mai fidato di me? » chiede alla fine, scegliendo un approccio aggressivo-passivo.

Un sorrisetto spunta a un angolo della bocca del detective, e Billy tira un sospiro di sollievo. Forse è riuscito a evitare la domanda, anche se è sicuro che l'altro abbia capito la sua strategia.

« Cosa ti sta facendo cambiare idea? » chiede però, incapace di contenere la propria curiosità.

« Non sto cambiando idea. » replica lentamente il detective, « È solo… »

Billy osserva, e vede il detective tormentarsi le mani, sente la sua voce affievolirsi. Quello non è lo Sherlock di quei giorni, terribile, velenoso, beffardo, e non è nemmeno il vecchio Sherlock, il genio sempre con tutto sotto controllo. È uno Sherlock diverso, solo, spezzato, combattuto. È strano pensare che sia proprio Billy l'unico che possa vederlo così fragile.

C'è qualcosa di profondamente sbagliato in tutto ciò.

« I miei ricordi sono confusi. » ammette alla fine Sherlock, « Sia quelli del mio rapimento che i precedenti. Su questi ultimi non c'è bisogno che io mi spieghi, ma quelli della mia prigionia… c'è un dettaglio interessante da considerare. »

Billy deglutisce, sapendo che il detective è in procinto di svelargli qualcosa di importante.

« Cioè? » chiede, esortandolo a continuare.

« Perché la mia memoria è nebbiosa anche in quel caso? Se sono stato torturato e seviziato, che motivo hanno potuto avere i miei aguzzini per farmelo dimenticare? »

"Forse perché non volevano che ricordassi la verità? Che capissi quanto a fondo ti hanno fottuto il cervello?" questo Billy sarebbe tentato di dirgli, ma avrebbe un effetto devastante, così si morde le labbra per impedire a quelle parole di uscirgli dalla bocca.

"Che cazzo. Se decidessi io qui, le cose sarebbero diverse!" pensa però con stizza.

« Non ricordi proprio nulla? » chiede invece, tentando di calmarsi.

Sherlock fa un sorriso triste, un'espressione assente negli occhi.

« Qualcosa. Ma sono più parole, sensazioni, immagini… cose che, più che altro, rivivo nei sogni. »

Gli occhi del detective si allontanano da lui, e Billy capisce che la conversazione è finita. Sherlock teme di essersi esposto troppo.

Billy lo guarda, le mani strette in grembo, il mozzicone di sigaretta ancora tra le labbra, lo sguardo perso, la schiena curva.

Osserva e deduce: la verità è che Sherlock Holmes ha bisogno di qualcuno con cui parlare, di qualcuno di amico accanto a sé. Ed è triste pensare che fuori da quella stanza ci siano diverse persone ad esserlo davvero, senza che Sherlock lo ricordi.

Billy vorrebbe essere quella persona, solo che non lo è.

 

Quando Billy svicola fuori dalla stanza di Sherlock, il detective si è appena riaddormentato. Sembra deciso, in quei giorni, a recuperare tutto il sonno di cui si è privato nel corso della sua vita, "O forse durante la prigionia."

La sua intenzione è uscire in silenzio dall'appartamento, così come ci è entrato, ma una mano cala sulla sua spalla, e il ragazzo chiude gli occhi. "Beccato." sospira.

« Wiggins. » lo apostrofa una nota voce melliflua.

Billy si volta con calma ad affrontarlo.

« Mr. Holmes. » dice con voce piatta, a mo' di saluto.

Mycroft sorride affabile.

« Ragazzo, è da ieri pomeriggio che ti cerco. Possibile che tu non sia rintracciabile? »

Billy fa spallucce.

« Nessuno mi ha detto di doverlo essere. » ribatte insolente.

« Attento… » lo avverte Holmes, gli occhi che lo scrutano a fondo.

Poi fa schiocchiare la lingua, e quando torna a parlare il suo tono di voce è di nuovo gentile.

« Ho un lavoretto per te. »

« Che tipo di lavoretto? » chiede, curioso suo malgrado.

« Oh, niente di preoccupante. Vorrei che tornassi in quella vostra casa là » e dal modo in cui pronuncia la parola 'casa' Billy capisce che tutto vuole dire tranne quello, « dove hai trovato Sherlock, per intenderci, e cerchi il suo cellulare. »

« Il suo cellulare? »

« Sì. Non lo troviamo più, e può essere importante per il caso. È possibile che sia finito… da qualche parte, laggiù. »

Mycroft fa una smorfia, come se già Billy non avesse compreso quanto disprezzi la casa di quartiere dove si ritrovano i drogati.

"Vediamo di divertirci un po'." sorride.

« Intende dire nel luogo dove io e suo fratello ci sparavamo in vena qualsiasi schifezza ci passasse davanti? Per caso vuole le porti un souvenir? »

Mycroft lo fulmina con gli occhi, ma evidentemente non vuole stare al suo gioco, visto come replica.

« No, grazie. Mi basta il cellulare di Sherlock. »

"Cambiamo metodo, allora."

« E a me che me ne viene? »

« Prego? » Mycroft solleva un sopracciglio.

« Voglio qualcosa in cambio, per questo… lavoretto. »

Entrambe le sopracciglia di Mycroft si levano sulla fronte. Poi si schiarisce la gola, ricomponendosi.

« Molto bene, allora. Avrai una casa tua. »

Billy spalanca agli occhi. "Ma che cazzo…" Non credeva che il vecchio potesse cascarci sul serio.

Mycroft sorride furbo, sapendo di averlo sorpreso.

« Dice davvero? » non può impedirsi di domandare il ragazzo.

« Penso tu preferisca dormire con un tetto sulla testa, mh? »

Billy annuisce, tentando di riprendersi, ancora esterrefatto.

« Siamo d'accordo? » chiede Holmes, tendendogli una mano.

Billy si affretta a stringerla nella sua. Sta per suggellare l'affare anche a parole, quando il suono di un telefono li interrompe.

Mycroft estrae dalla tasca un cellulare e pigia il tasto verde per ricevere la chiamata.

« Lestrade? » chiede subito, leggermente stupito.

Billy non riesce a sentire cosa il DI dica dall'altra parte della cornetta, ma il volto di Holmes si fa via via più scuro, mentre gli lascia la mano. Si allontana, l'ombrello che batte a terra alcune volte in modo frenetico, dicendo qualcosa che sembra molto un « Fallo venire qui immediatamente. », fino a chiudersi dietro le spalle la porta di una stanza, sparendo dalla vista di Billy.

Il ragazzo sospira, si mette le mani in tasca e esce dalla casa.

 

Sono diverse settimane che non mette più piede nella casa di quartiere. A parte quando ci era andato per cercare il detective.

Sherlock l'aveva obbligato a stare lontano dalle droghe, quelle pesanti se non altro, e negli ultimi tempi si era risolto a dormire quasi sempre sul divano in Baker Street. Alla fine Sherlock Holmes aveva mantenuto la sua promessa di toglierlo dalla strada. Bastava che non desse fastidio al detective, e se c'è una cosa che Billy ha imparato nel corso della sua giovane vita è proprio fare come se nemmeno esistesse. In ogni caso, una parte di lui riconosce ancora quel posto mezzo distrutto e puzzolente come casa.

Billy alza lo sguardo sulle finestre malandate. "Andiamo. Non ci vorrà molto."

Butta a terra la cicca della sigaretta senza averla terminata, per poi schiacciarla con la punta della scarpa destra, ed entra.

Il piano terreno è, come al solito, per lo più deserto. I tossici si radunano al piano superiore, dove i muri sono meglio conservati e delle brandine e delle coperte sono buttate a terra. Quel pomeriggio ci sono una decina di loro, volti che Billy conosce, facce devastate e poco coscienti.

Per prima cosa si dirige nell'angolo della stanza dove appena una settimana prima aveva trovato Sherlock. Ispeziona con cura il pavimento, guarda tra le coperte, sposta assi del pavimento instabile, tentando di ignorare l'odore, senza tuttavia riuscire a reprimere una smorfia disgustata.

A un certo punto il tizio più vicino si lamenta, rivoltandosi nel suo sporco giaciglio, infastidito dai lievi rumori prodotti dalla ricerca di Billy.

"Cazzo. Davvero vivevo così?"

Billy scrolla le spalle, e riprende a cercare il cellulare.

« Ehi, amico. » gracchia una voce dietro di lui.

Billy si volta, individuando un ragazzo che non conosce, un cappello calato in testa e una giacca logora buttata sulle spalle.

"Bianco, diciasette anni." deduce, mentre il suo sguardo percorre tutta la sua figura, "Completamente fatto."

Si sta per girare, deciso a ignorarlo, quando quello tira fuori un oggetto piatto dalla tasca della giacca.

« Per caso cerchi questo, amico? » sorride sghembo il ragazzino, sventolandogli davanti un cellulare.

Billy lo riconosce immediatamente.

« Dove l'hai trovato? » domanda.

« Un po' qua, un po' là… Sai, come trovo di solito le cose. » alza le spalle, « Forse me l'ha dato qualcuno. »

Billy studia il ragazzino, poi alza la mano verso di lui.

« Dammelo. » dice con calma.

« Non ci penso proprio. » sputa l'altro, « È un gran bel cellulare. L'ultimo modello di I-Phone, se non sbaglio. »

Billy scatta, afferrandolo per il colletto della giacca e sbattendolo al muro.

« Uoh uoh uoh! » esclama quello, tossendo, « Stai calmo, amico. »

« Tu non sai chi sono. »

« Certo che lo so. » ride quello, « Sei quella testa di cazzo di Wig, che sta attaccato al culo di Shezza e per questo si crede un grand'uomo. »

Il ragazzino si lecca le labbra, guardandolo con uno sguardo pieno di derisione.

« Puoi dire quello che vuoi, Wiggy, ma non sei diverso da noialtri fattoni qua. »

Billy ringhia, allungando una mano verso il cellulare. Il ragazzino lo allontana subito, portandosi la mano alla tasca dei pantaloni.

« Non così in fretta, amico. Che mi dai in cambio? »

Gli occhi del ragazzino sono enormi e lucenti. Billy ci mette due secondi a capire cosa vuole.

"Che cazzo me ne frega di che fa sto tipo?" si chiede, "Che si fotta il cervello, per quel che me ne importa."

Si allontana leggermente, mollando la presa sul ragazzino, che si accascia al suolo tossicchiando. Poi infila una mano in una delle tasche del pantalone e ne tira fuori un piccolo sacchetto, pieno di una sostanza biancastra. Lo guarda per un secondo, quindi lo tira con disprezzo in grembo al ragazzino.

« Che roba è? » chiede quello.

« Se sai chi sono, sai anche che sono un ottimo chimico. È roba buona, fidati. » tende una mano in sua direzione, « Il cellulare, ora. »

Il ragazzino glielo lancia, e Billy lo afferra al volo. Lo controlla: è proprio quello di Sherlock.

"Che culo."

Se lo rigira fra le mani per qualche secondo, ma non nota graffi o altri particolari fuori posto. Sembra in buono stato. È spento, ma è passata una settimana, e gli I-Phone si scaricano nel giro di poche ore.

Rialza gli occhi sul ragazzino, con l'intenzione di rivolgergli un'ultima battuta sarcastica, ma quello è riverso sulla brandina, il sacchetto aperto nella mano, e il bianco degli occhi fra le palpebre semichiuse.

Billy fa una smorfia, e non saprebbe dire se più per il disgusto o la compassione, e si affretta a uscire da lì, chiedendosi come abbia potuto considerarla casa.

 

 

***

 

 

John fissa Sherlock e Sherlock fissa la tazza di tè.

John fissa Sherlock e Sherlock fissa il soffitto.

John fissa Sherlock e Sherlock fissa le proprie unghie.

La cosa continua su questa linea da più di mezz'ora: John che lo scruta intensamente, senza lasciare cadere lo sguardo, e Sherlock che guarda ovunque tranne che il medico.

La loro è una sfida, anche se John non l'aveva pensata proprio così, un'ora prima quando, dopo essere uscito da lavoro, si era recato nella Casa Bianca di MayFair con l'intenzione di parlare faccia a faccia con Sherlock, una volta per tutte.

Così gli aveva preparato il tè, come aveva fatto milioni di volte, e gliel'aveva portato, sedendosi poi vicino al letto. Aveva preso a sorseggiare dalla sua tazza, fissandolo, mentre Sherlock non faceva nessuna di queste due cose: non aveva bevuto, non aveva ricambiato il suo sguardo. E non aveva nemmeno aperto bocca.

Perciò ora la sfida era a chi avrebbe ceduto per primo, chi avrebbe parlato o distolto lo sguardo dal suo proposito.

Entrambi sapevano che sarebbe stato John.

Infatti il medico non ce la fa più, ha ormai finito il tè e quasi gli bruciano gli occhi per averli mantenuti tanto a lungo fissi sull'amico.

« Continuerai così per molto? » sbuffa alla fine.

Un sorrisetto feroce appare sul volto di Sherlock.

« Ha perso. » annuncia, vittorioso.

John alza gli occhi al cielo e sospira.

« Non hai nemmeno assaggiato il tè. »

« Ci vuole ben altro per corrompermi. »

Lo sguardo di John si incupisce.

« Non era un tentativo di corromperti. Era una gentilezza. È il tuo tè preferito. »

« Come fa a saperlo? » chiede, e John pensa che potrebbe essere positiva questa curiosità

« Siamo stati coinquilini per molto tempo, Sherlock. Dicevi che faccio il miglior tè del mondo. »

« Ho detto davvero qualcosa del genere? » chiede, scettico, un sopracciglio che vola in alto.

« Naturalmente no. Non mi avresti mai fatto un complimento diretto. »

John, nonostante la situazione sia tutt'altro che serena, ridacchia. L'espressione di Sherlock si fa ancora più allibito, ma non dice nulla. John prende la sua incapacità di ribattere come una piccola vittoria.

« Me lo facevi capire in altri modi, Sherlock. Non sei mai stato bravo a esprimerti, ma io ti ho sempre capito. »

John quasi si commuove al ricordo, mentre sente il cuore stretto in una morsa asfissiante. Fissa gli occhi in quelli confusi dell'amico, l'ha lasciato senza parole. Forse persino lui inizia a essere stanco di essere sempre sulla difensiva, sempre pronto a rispondere con battute sarcastiche.

"O forse, più semplicemente, non ha più voglia di ribadire il concetto che tanto non mi crede."

Il detective distoglie lo sguardo e appoggia la tazza di tè, intoccata, sul vicino comodino. John segue il movimento con aria triste.

« Perché è qui? » schiocca le labbra.

« Voglio parlare con te. »

« Non ho nulla da dirle. »

« Io sì. »

Quest'uscita fa scattare gli occhi di Sherlock sul suo volto. John sa che lo sta studiando, che sta cercando di dedurre le sue prossime mosse, di capire cosa gli nasconda, di far collimare l'idea che ha del dottore con la figura placida e sorridente che ora ha davanti.

Nonostante il volto impassibile dell'amico, John lo conosce, e può sentire la sua confusione come un'onda che lo sovrasta. Prende un respiro profondo.

« Volevo dirti che… » le parole gli muoiono in bocca, pur con tutta la preparazione mentale che John ha fatto per affrontare quella discussione.

"No, non posso mollare ora."

John si obbliga ad alzare gli occhi nei suoi, ad assumere uno sguardo diretto e limpido.

« Volevo dirti che non sono stato io. Sei il mio migliore amico, una delle persone più importanti della mia vita. Non ti farei mai del male. Lo giuro. »

Sherlock si immobilizza, le palpebre che si chiudono e riaprono velocemente, perplesso.

"Andiamo, Sherlock. Guardami. Fidati del tuo istinto, piuttosto che dei tuoi ricordi. Non ti sto mentendo."

« Che cosa deduci? » prova a stimolarlo.

Sherlock sembra riprendersi dall'attimo di defaillance.

« Che lei è un abile mentitore, John Watson. » sbotta, la voce fredda.

John sospira, passandosi una mano sul volto. Per un attimo appena, solo per un attimo, ha creduto di esser riuscito a scalfire quella corazza… "Perché deve essere così difficile?"

« Sai, Molly non mi aveva mai raccontato quelle cose. » dice all'improvviso.

Sherlock inclina la testa, interdetto.

« Mi dispiace di non aver capito quanto ti sentissi solo. »

John si azzarda ad appoggiare una mano sulla coscia dell'amico, proprio sopra al ginocchio, dove finisce il gesso e cominciano le fasciature. È un contatto accennato, il tocco di pelle su pelle separato da diversi strati di tessuto, ma è pur sempre un punto d'unione.

Sherlock fissa la mano di John come se stesse prendendo fuoco davanti a lui, e apre la bocca deciso a riprendere il medico per aver osato tanto, ma John ritrae la mano, dopo aver intensificato appena la pressione.

"Meglio non esagerare."

Sherlock lo guarda in volto, e John può vedere con chiarezza parole e immagini passargli negli occhi, nel cervello, nel suo Mind Palace. Ma può solo ipotizzare quello che l'amico stia effettivamente passando.

La porta della stanza, alle spalle di John, si apre. Il medico si volta, seguendo l'entrata di Lestrade.

« Ehi, Greg. » lo saluta, « È già ora? »

« Mi hanno ricordato che c'è una tabella da rispettare. » sbuffa il DI, e John ridacchia.

"Si sta riferendo ad Anthea, ci scommetto."

« Mary? » chiede Lestrade.

« È a casa con Emily. La baby sitter è ammalata. » spiega.

« Ah. » commenta Greg.

« Mycroft? » chiede invece John.

Lestrade fa cenno di no con la testa.

Le sopracciglia di John s'increspano. "Come mai non viene?" si chiede, ma non è il momento di porre ad alta voce questa domanda, non con Sherlock che li studia a due passi, pronto a divorare qualunque loro momento di debolezza.

« Allora siamo soli? » chiede John, per avere conferma. Non ci sono nemmeno Molly e gli altri, infatti.

« Siamo soli. » conferma l'ispettore.

John annuisce, voltandosi di nuovo verso Sherlock, che sembra aver riconquistato la sua aria apatica e distaccata. Il medico fa per alzarsi, ma poi ci ripensa.

"Se devo ristabilire un punto di contatto fra noi, tanto vale che lo faccia in tutto."

Racconterà da lì, dalla sedia accanto al letto di Sherlock.

« Questo ti piacerà. » commenta in un sorriso, cercando gli occhi di Sherlock.

 

Quando John era arrivato, trafelato, in Baker Street, aveva trovato Sherlock comodamente seduto sulla sua poltrona, il pc sulle ginocchia e un bicchiere di vino in mano.

« Sherlock! » aveva chiamato John, allarmato dalla calma del detective, che aveva alzato gli occhi su di lui.

« Oh, John, ciao. » aveva fatto roteare il vino del bicchiere, « Ne vuoi un po'? »

« Sherlock, che diavolo… » John si era passato una mano fra i capelli, « Lo sai che mancano meno di due ore, vero? »

« Mh mh. » aveva solo commentato l'altro, lo sguardo che tornava a concentrarsi sullo schermo del computer.

John notò il pacchettino rosso appoggiato sul tavolino in mezzo alle poltrone.

« Hai già risolto l'enigma? » chiese.

« Ovvio che sì, John. Ora zitto, che sto cercando di concentrarmi. »

John sospirò, cominciando a togliersi la giacca. Un rumore proveniva dalle casse, Sherlock stava guardando un video.

"Un momento… questa voce la conosco."

In pochi passi percorse il salotto e raggiunse le spalle di Sherlock, chinandosi a lato di una sua spalla per controllare cosa stesse guardando.

Era il video di Moriarty. Quello andato in onda il giorno prima a Trafalgar Square e su tutte le reti nazionali.

« Come fai a…? » boccheggiò John, gli occhi spalancati.

« Ad averlo? È una registrazione, ovviamente. »

« Sei riuscito a salvare il file andato in onda? » chiese, avvicinandosi di più al computer, senza riuscire a reprimere un brivido nel vedere nuovamente quel volto e quella figura sullo schermo.

« No. Moriarty si è assicurato di non lasciare alcuna traccia. È come se non fosse mai andato in onda. Nemmeno Mycroft e l'MI-5 sono riusciti a recuperarlo. »

« E allora come? »

« Te l'ho detto, è una registrazione. » Sherlock voltò il capo leggermente verso di lui e un sorrisetto furbo gli andò a illuminare il viso.

« Sospettavo che non saremmo riusciti ad avere il video. Così ho messo un mio uomo sull'elicottero, e quello ha ripreso il mega-schermo con una telecamera. »

« Quindi… » scandì John, mentre una certa consapevolezza gli strisciava nel cervello, « L'idea di usare uno schermo enorme è stata tua! »

« Certo. » annuì, « Così come per l'elicottero. Non potevo farmi sfuggire alcun particolare. »

« Hai lasciato che dessi la colpa a tuo fratello, che lo chiamassi Regina! »

« Ma lui è una Regina. » ribatté alzando un sopracciglio, come fosse la cosa più ovvia del mondo.

"Ci manca solo che faccia la linguaccia." pensò John, senza impedirsi di seguire Sherlock nelle risate.

John si abbassò nuovamente a lato del detective, fissando il video di Moriarty, che era arrivato al momento in cui il pazzo omicida stava minacciando le alte sfere inglesi. Erano vicinissimi, ora. Ma nessuno dei due sembrava curarsene.

Rimasero in silenzio per qualche minuto, mentre Sherlock univa le dita davanti alla bocca, e John deglutiva. Quando il video ricominciò, John fece per parlare, ma, con sua gran sorpresa, venne preceduto da Sherlock.

« Allora? Cosa ne pensi? » gli chiese il detective.

John si alzò dalla sua posizione, circumnavigando la poltrona per guardare Sherlock negli occhi.

« Stai davvero chiedendo la mia opinione? » si accigliò, sospettoso.

« Ma certo. » sorrise Sherlock con un'espressione angelica che non ingannò il dottore nemmeno per un secondo.

John lo scrutò ancora per un secondo.

« È Moriarty. Più di questo non saprei proprio cosa dirti. Non ho idea di cosa possa passare per quella testa da pazzo psicopatico. »

« In un certo senso hai ragione. » gli rispose Sherlock.

« Davvero? »

« È Moriarty… ma allo stesso tempo non lo è. »

John sospirò esasperato.

« Sherlock, seriamente, non credi sia ora di smetterla con quest'aria teatralmente enigmatica? »

Il detective sorrise, poi saltò in piedi e con un solo fluido movimento si pose alle spalle del dottore.

« Siediti, John. » disse, spingendo contro la sua schiena perché obeddisse, « E osserva attentamente. »

John si accomodò sulla poltrona, mentre Sherlock faceva ripartire il video.

Ed ecco di nuovo i pixel grigi, la voce ironica che prendeva a parlare. John non era sicuro di volerlo rivivere ancora.

All'improvviso il braccio di Sherlock si materializzò vicino al suo volto, mentre il detective andava a bloccare il video.

« Ecco! L'hai visto? » chiese, la voce febbrilmente eccitata.

John non aveva bisogno di vederlo in volto per sapere l'espressione che avrebbe avuto. Guardò lo schermo, osservando la figura di Moriarty immobilizzata, la bocca aperta mentre formulava una frase e le mani bloccate a mezz'aria.

« Ehm… cosa avrei dovuto vedere? »

Sherlock gli sbuffò contro l'orecchio, e portò indietro il video.

« Ecco, guarda ancora. »

Il video ripartì: era il punto in cui Sherlock si era lamentato perché non giocavano con le stesse armi, e Moriarty aveva risposto che fosse lui a decidere le regole del gioco.

Sherlock bloccò di nuovo la registrazione. John increspò le sopracciglia.

"Cosa vuole che veda?!"

Senza commentare, spostò la mano di Sherlock dal mouse e fece ripartire il video, guardando gli stessi secondi che gli aveva già fatto vedere l'amico. Poi si lasciò andare con la schiena sulla poltrona.

« No, mi spiace, qualunque cosa tu stia cercando di farmi notare… non la vedo. »

Stranamente, Sherlock non commentò la sua straordinaria stupidità, limitandosi a far tornare indietro il video per l'ennesima volta. Questa volta, lo interruppe dopo un paio di secondi: Moriarty aveva appena avuto il tempo di dire "E chi l'aveva deciso…"

« La voce è ritardata rispetto al video. » annunciò Sherlock in tono solenne.

John fissò lo schermo, confuso.

« E cosa vorrebbe dire questo? » chiese, « Insomma, potrebbe semplicemente essere per un ritardo nelle onde radio nella trasmissione, oppure un errore nella registrazione che ha fatto il cameraman dall'elicottero, no? »

Si voltò verso Sherlock che, in piedi dietro di lui, stava scuotendo la testa.

« Potrebbe. Ma sono abbastanza sicuro che i mezzi usati da Moriarty siano stati piuttosto potenti, e per quanto riguarda il mio uomo, mi sono assicurato che facesse un lavoro di alto livello. »

« Non puoi basarti su una cosa come questa, però. Mi sembra troppo persino per te. »

« Hai ragione. Se non fosse anche per un altro particolare: se osservi molto bene, il labiale di Moriarty non coincide esattamente con la frase pronunciata dalla sua voce. »

John si mosse a disagio sulla sedia.

« Come fai a dirlo? Parla così veloce, e poi siccome il video è fuori tempo… »

« Esatto! » esclamò Sherlock, « E proprio qui sta la genialità: con un audio di qualche frazione di secondo spostato rispetto all'immagine, nessuno si sarebbe preoccupato di leggere il labiale. Sempre se qualcuno se ne fosse dato la pena, s'intende. »

« Ma tu l'hai fatto. » sottolineò il dottore.

« Ovviamente. »

Sherlock si abbassò di nuovo sulla spalla dell'amico, andando ad afferrare il mouse.

« Ma se sincronizzi l'audio con il video… »

Sherlock toccò qualche pulsante nel programma di lettura del video, e lo fece ripartire. Questa volta John si concentrò sulle labbra.

« Incredibile. » disse quando finì, gli occhi pieni di ammirato stupore.

Sherlock sorrise.

« Lo so, grazie. »

John lo ignorò.

« E te ne sei accorto solo per questo? »

« Quello è stato il primo punto discordante, ma ce ne sono altri, sparsi, per quanto siano difficili da identificare. »

« Fammi vedere. » chiese il dottore, e Sherlock fece ripartire da capo tutta la registrazione, fermando e indicando i momenti giusti.

« In pratica, ogni volta che commentavo o chiedevo qualcosa di leggermente imprevisto, abbiamo quel piccolo errore. » aveva commentato Sherlock alla fine.

« Cosa vorresti dire? »

« Voglio dire che Moriarty aveva preparato già in precedenza il video, deducendo e prevedendo le mie reazioni, e quindi il modo per ribattervi, e quando sviavo un po' da quel che aveva pensato, è stato costretto a correggere velocemente il tiro. Da qui quegli errori minimi. »

« Ma questa cosa è possibile? È stato davvero in grado di farlo? »

« Gli è bastato fare il video in precedenza e poi aggiungerci la voce in diretta quando qualcosa non andava secondo i suoi piani. »

« Stupefacente. » riuscì solo a dire John, senza sapere se il complimento fosse diretto alle capacità di quel Moriarty o all'incredibile deduzione di Sherlock.

Ci pensò per qualche secondo.

« Quindi il fatto che proprio all'inizio abbia detto "questa non è una registrazione"… »

« Un bluff. Triplo bluff, a dire il vero. Per sviare l'attenzione. »

« E il passaggio finale? Quello senza video? »

« Ah, quello supporta ancora di più la mia idea: non aveva preventivato la domanda che ho fatto alla fine, probabilmente il video che aveva girato a quel punto era già finito, perciò non aveva più immagini da mandare in onda. Ma non poteva di certo tradirsi in quel modo. Ed ecco spiegata la risposta solo vocale. »

"Sembra tutto così complicato…"

« Ma perché? Voglio dire, per quale motivo l'avrebbe fatto? Non era molto più semplice fare esattamente quello che sembra, mettersi davanti a una videocamera e interagire in diretta con te? »

Sherlock recuperò il bicchiere di vino e si sedette sul divano, lo sguardo vacuo.

« Questa è la cosa interessante. Perché disturbarsi così tanto? Di sicuro un motivo è che volesse testare le mie capacità, ancora una volta, e divertirsi. Ma deve esserci di più, e ho due teorie. Una, è che volesse studiarmi, e quindi si stesse nascondendo in qualche luogo in grado di vedermi. In questo caso, parlare con me in tempo reale l'avrebbe distratto troppo dal suo compito. »

« E l'altra teoria? »

« L'altra teoria… è che non sia Moriarty. »

John spalancò la bocca. "Ancora?"

« È per questo che prima hai detto che è Moriarty ma allo stesso tempo non lo è? »

Sherlock annuì, ma non sembrava dell'idea di spiegarsi meglio. John si alzò dall poltrona, andando a mettersi di fronte al detective, le mani sui fianchi e lo sguardo deciso.

« Vorresti per favore spiegarmi? »

Sherlock alzò gli occhi su di lui, posò a terra il bicchiere vuoto e si scompigliò i capelli con le mani.

« Se questo non fosse Moriarty, il vero Moriarty intendo, non avrebbe potuto far niente di diverso per convincerci che invece lo sia: usa tutti i suoi trucchi e conosce il suo modo di agire, ma ci doveva dare una prova più lampante perché fossimo certi della sua identità. Quindi, un video realizzato in precedenza e una voce… contraffatta. »

Le sopracciglia di John scattarono verso l'alto.

« Una voce contraffatta? Cazzo, Sherlock, se fosse vero qui si tratterebbe di molto di più! Quella era la voce di Moriarty, e su questo non si discute. Capisco averlo ripreso quand'era ancora vivo e aver tenuto quel video, cosa che comunque presupporrebbe che questo tizio conosca più che bene Moriarty, ma la sua dannata voce! Come è possibile riprodurre tanto fedelmente la voce di un altro essere umano, e per di più anche in tempo reale, per brevi frasi, come le tue deduzioni ci hanno mostrato! » John riprese fiato per la tirata, e si lasciò cadere sul divano, « Insomma… non è possibile! »

« Se è così » considerò cauto il detective, « Vorrebbe dire che abbiamo a che fare con un mostro, il peggiore che abbiamo mai incontrato: un mostruoso genio. »

« Quasi quasi preferisco credere nella miracolosa resurrezione di Moriarty. » ironizzò John con voce tesa.

Rimasero in silenzio per parecchi secondi.

« C'è anche un'altra cosa che mi da' da pensare. » ruppe alla fine il silenzio, in tono basso.

John gemette, passandosi una mano sugli occhi. "Cosa può esserci ancora?"

« Le parole finali che mi ha rivolto. »

« The truth hurts? » chiese il dottore, cercando di stare dietro ai pensieri dell'amico.

« 'The truth hurts, my deary, but this truth… Verity will burn you whole.' » recitò Sherlock, « Vedi la stranezza, John? »

« Quale delle tante? Che si sia rivolto a te con peggio di 'mio caro'[3], ad esempio? » chiese ironico.

« No, il fatto che abbia esitato, e poi che si sia corretto cambiando termine. »

« E questo va solo a supportare la tua tesi secondo la quale questi pezzi non fossero programmati. »

« Mentre il resto era perfettamente accurato, sì. » annuì il detective, « Ma è proprio il cambiamento in sè che mi incuriosisce. Perché si è corretto? Perché prima ha usato 'truth' e poi 'verity'? »

« Perché è un maledetto megalomane teatrale? » chiese retorico, « Non sarebbe il primo psicopatico del genere che incontriamo. »

Sherlock gli lanciò un'occhiataccia.

« Invece io credo che ci sia un motivo… Un motivo ben preciso. »

John si voltò a guardarlo, esasperato, e stava per ribattere qualcosa, quando vide il detective assumere la sua posa da pensatore e iniziare a ripetere sottovoce "truth verity thruth verity" in modo ossessivo.

"Oh, lasciamo perdere." pensò, mentre sbuffava.

John si alzò, deciso a prepararsi un tè. Ne aveva decisamente bisogno.

 

John esce dalla Casa Bianca in MayFair un pochino rincuorato. Certo, la sua offerta di pace non è andata secondo i suoi piani, Sherlock non ha bevuto il tè che gli aveva preparato ed è stato scontroso come al solito, ma quando John aveva finito il suo racconto e aveva incrociato lo sguardo di Sherlock, vi aveva potuto scorgere, per una frazione di secondo, uno scintillio eccitato.

Sherlock era sempre Sherlock, d'altronde, e davanti a un caso interessante non avrebbe mai detto di no.

Si stava evidentemente appassionando ai racconti di John e gli altri, al caso Moriarty, e John sperava che fosse un segno positivo.

Per lo meno, potevano sperare di catturare la sua attenzione, in quel modo.

Preso com'è dalle sue elucubrazioni mentali, quasi travolge Bill Wiggins, apparso davanti a lui all'improvviso.

« Ehi, Billy. » gli sorride, « Che ci fai qui? »

« Hm. Una consegna. » fa spallucce, la voce annoiata.

"Com'è che sto ragazzino assomiglia sempre più a Sherlock?" si chiede.

Poi vede guizzare un oggetto in mano al ragazzo, mentre lo nasconde nella tasca posteriore dei jeans sgualciti. John lo riconosce all'istante.

« Quello è il cellulare di Sherlock! » esclama, la voce strozzata, « Dove l'hai trovato? »

"Cazzo, il suo cellulare! Non lo vedevo da… come ho fatto a non pensarci?"

« L'ho detto, una consegna. »

E John intuisce subito cosa, o meglio chi, si nasconda dietro a quella frase.

« È per Mycroft, non è vero? » chiede, « Ti ha ordinato lui di portarglielo. »

Billy si limita a fissarlo con sguardo vuoto.

"Lui e i suoi dannati segreti!" impreca dentro di sè, "Ma ora basta, hanno finito di tenermi fuori."

« Cambio di programma, ragazzo. » digrigna i denti, « Ora lo dai a me. »

John gli porge la mano. Billy la fissa per un secondo, per poi rialzarlo negli occhi del medico.

« No. » sillaba.

« No? » chiede sorpreso, e quasi si soffoca con quelle due semplici lettere.

John viene sopraffatto da un'ondata di furia. Non ci pensa due volte: afferra il braccio del ragazzo, glielo stringe e glielo piega dietro la schiena, in modo che, con un gemito di dolore, Billy sia costretto a voltarsi e a inginocchiarsi davanti a lui. John comprime la stretta, facendo pressione con l'altra mano sulla sua spalla.

« Ti ho già quasi rotto il braccio, una volta. Non vorrai mica che finisca il lavoro? »

« No! » si lamenta.

« Molto bene. Ora sì che questa parola mi piace. Te lo ripeto: dammi quel maledetto cellulare. »

Billy fa scivolare la mano libera nei propri pantaloni, e ne estrae l'I-Phone.

« Avevi proprio ragione. » geme Billy, « Sei un pazzo, un drogato del cazzo! » [4]

John sbuffa e afferra il cellulare, mentre al contempo libera il ragazzo dalla presa costrittiva. Il medico si guarda intorno, allarmato, ma è ormai buio, ora di cena, non si vede nessuno in giro, ed è avvenuto tutto troppo in fretta perché qualcuno possa essersene accorto.

John si lascia sfuggire un sospiro di sollievo, mentre fissa il cellulare, percorso da una strana fitta di adrenalina e eccitazione. Billy si alza, massaggiandosi il polso e fissandolo con uno sguardo aggressivo, ma il medico non ci fa caso: riprende a camminare verso la stazione metropolitana più vicina.

 

Quando arriva a casa, ha il fiatone. Non vede l'ora di poter accendere il cellulare, ma prima deve aspettare che sia carico.

"Cacchio, Mary." capisce all'improvviso, "Cosa posso dirle? No, non deve sapere nulla. Questa è la mia pista, ora. Ma come faccio senza che se ne accorga?"

Decide di tenere quel fatto per sé proprio mentre oltrepassa l'uscio della villetta.

« Sono a casa, amore. »

Mary gli appare subito davanti, con Emily in braccio.

« Oh, finalmente! » sbotta la moglie, posandogli la bambina fra le braccia in un gesto sbrigativo.

John sorride a sua figlia, baciandola sui corti capelli biondi. Emily risponde con un gran sorriso, un versetto felice, e battendogli il pugnetto su una guancia.

Mary nel frattempo si sta infilando sciarpa e giacca. John la guarda confuso.

« Stai uscendo? »

« Sì! Te ne sei dimenticato? Ho la lezione in palestra. E sono pure in ritardo, per colpa tua. » lo fulmina, « Ci vediamo dopo, eh? »

Poi si avvicina alla figlia in braccio al padre, scoccandole un bacio sul nasino.

« Ciao, Emy! » esclama, prima di sparire oltre la porta, il borsone in spalla.

John rimane a fissare l'uscio per diversi secondi. "Che colpo di fortuna!" pensa, realizzando di avere tutta la serata libera per dedicarsi al cellulare di Sherlock, in casa da solo.

Emily emette alcuni gorgoglii infastiditi.

« Hai ragione, piccola. Andiamo a prepararti un biberon, che dici? »

Un urletto di gioia fa capire a John di avere tutta l'approvazione della figlia.

 

 

***

 

 

Mary cammina spedita, stringendosi nel cappotto. È una sera particolarmente ventosa per essere maggio.

In teoria non avrebbe nemmeno tutta quella fretta, ma Mary non è una donna abituata a perdere tempo, in più John l'aspetta a casa massimo in un paio d'ore. Non ci starebbe di più in palestra, non con una figlia neonata e un neo-papà impacciato a tenerla d'occhio. Non che John non sia un buon padre.

Adorabile ingenuo John.

Non ha sospettato nemmeno per un attimo che Mary non gli stesse dicendo la verità.

E lei non ha nessuna intenzione di dargli qualche motivo per dubitarne. Quindi, cammina veloce, visto che non sa quanto durerà il suo incontro.

Il portiere le lancia appena un'occhiata, mentre si dirige a colpo sicuro verso l'ascensore, ormai abituato a vederla passare di lì. Mary sale fino all'ultimo piano, poi suona al campanello.

La porta le viene aperta da uno spossato Gregory Lestrade.

« Mary? » chiede, mentre i suoi occhi si spalancano per la sorpresa.

La donna non replica a quella domanda stupida.

« John è andato via più di mezz'ora fa, non è… » si affretta a dire il DI.

« Lo so, è a casa con Emily. » sbuffa, sorpassandolo e varcando la soglia, senza aspettare che l'altro si sposti per farla passare.

« E allora perché sei qui? » le chiede confuso l'ispettore, mentre Mary si dirige decisa verso una porta.

« Devo parlare con Mycroft. » spiega semplicemente, entrando nella camera senza annunciarsi.

Mycroft Holmes è comodamente seduto dietro una scrivania, nella stanza che ha eletto a proprio studio personale nell'appartamento in MayFair. Quando Mary entra, subito seguita dall'ispettore Lestrade che chiude la porta dietro di lui, Holmes si limita a guardarla, portando alle labbra un largo bicchiere colmo di scotch.

« Mr. Holmes. » dice Mary con un cenno di saluto.

« Signora Watson. » risponde l'altro, alzando il bicchiere verso di lei.

Non le chiede cosa ci faccia lì, nota Mary, niente di meno di quel che si era aspettata. Lo guarda dritto negli occhi.

« Desidero parlare con Sherlock. »

Le labbra di Mycroft si tendono in un mezzo sorriso.

« Dritta al punto, vedo. » commenta, senza dar segni di esserne sorpreso.

« E c'è di più. » continua la donna, « Voglio un incontro privato. Da sola. Nessuno dietro al muro-specchio. E a telecamere chiuse. »

Mycroft si irrigidisce impercettibilmente sulla poltrona, in un modo per cui Mary, se non fosse per il suo spirito d'osservazione e la sua intelligenza, non potrebbe nemmeno accorgersene.

Ma è Lestrade a scattare, dietro di lei.

« Cosa?! » esclama, avanzando fino al fianco della donna, « Questo non è possibile, Mary! È per la sua sicurezza! Perché vorresti fare una cosa del genere? »

Mary continua a tenere gli occhi fissi in quelli di Mycroft. L'uomo non apre bocca, segno che sia interessato ad ascoltare la risposta che la donna ha intenzione di dare al quesito del DI. Risposta che Mary non ha in programma di fornire. Per lo meno non una spiegazione sincera.

« Il perché sono affari miei. » dice alla fine, rispondendo all'ispettore ma continuando a guardare Holmes, « Tu e il signor Holmes avete la vostra indagine, mio marito ha il suo piano per riconquistare la fiducia di Sherlock. Ora tocca a me. »

« Ma che stai dicendo?! » alza la voce Lestrade, « Qui stiamo lavorando tutti insieme. Puoi parlare con Sherlock, anche da sola se vuoi, ma non possiamo permetterti di oscurare le telecamere e mettere in pericolo- »

« Gregory. » la voce calma e profonda di Holmes ferma immediatamente la tirata dell'ispettore, e Mary vede passare un luccichio in quelle sue iridi ghiacciate.

Lestrade ammutolisce, e si passa una mano fra i capelli. Mycroft gli rivolge l'attenzione.

« Ispettore Lestrade, credo che questi giorni siano stati piuttosto affaticanti per lei. Perché non si prende il resto della serata libera e non torna a casa? »

L'uomo strabuzza gli occhi, mentre comprende come l'altro lo stia gentilmente mettendo alla porta.

« Ma…! » prova a replicare, arrestato subito dallo sguardo dell'altro.

« Lestrade. Lo consideri un favore personale. Non mi serve a nulla un ispettore distrutto dalla stanchezza. »

Mary avverte l'ispettore irrigidirsi al suo fianco.

« Molto bene. » dice, secco, senza riuscire a nascondere il tremito di rabbia nella sua voce, « Mr. Holmes. Mary. » si congeda, lanciando uno strano sguardo alla donna.

Mary gli sorride tranquilla.

In un paio di falcate, Lestrade esce dall'ufficio sbattendo la porta.

Poi torna a osservare Holmes, che si è un pochino rilassato sulla poltrona, posando il bicchiere sulla scrivania, gli occhi rivolti alla finestra buia. Mary registra il movimento distratto delle sue dita, i cui polpastrelli stanno sfiorando con riverente attenzione una scatolina di legno scuro, ebano capisce subito, con una vistosa H maiuscola d'argento sul coperchio.

Le sopracciglia della donna si increspano per un secondo, interessata a quell'oggetto, ma subito i suoi pensieri tornano al motivo per cui si trova lì: non ha tempo da perdere.

« Dunque posso andare da Sherlock? »

Holmes riporta il suo sguardo in quello della donna. I due si fissano, i volti impassibili, per interminabili minuti. Alla fine, Holmes annuisce.

« Dirò ai miei uomini di interrompere le registrazioni per venti minuti. » afferma.

Mary capisce al volo che quello è il tempo che l'uomo le ha concesso. Avrebbe creduto che Holmes ci mettesse di più ad accordarglielo, ma è evidentemente preso da altro. Mary non si lamenterà di certo per quello.

« Grazie. » risponde solo, congedandosi.

Fuori dalla porta di Sherlock, prende un profondo respiro. Fino a lì, tutto secondo i piani.

Entra nella stanza. Sherlock è sveglio, nota con piacere. La sua figura calamita subito lo sguardo dell'uomo.

Mary si muove lentamente, con attenzione. Afferra una sedia, e la sistema di fronte a Sherlock, allineata con i piedi del letto, in modo che possano guardarsi negli occhi con facilità, in modo che siano allo stesso livello. Quindi si siede, la postura dritta, le gambe divaricate alla stessa larghezza delle spalle, e con le mani si liscia i pantaloni.

Solo a quel punto, porta lo sguardo dritto negli occhi di Sherlock, sapendo che il detective non si è perso nemmeno il più minimo dei suoi movimenti.

Lascia che si studino a vicenda per qualche secondo, lascia che sia Sherlock a fare la prima mossa.

« Non sei mai venuta qui, prima. » considera il detective.

« Non da sola, no. » conferma Mary.

« Al contrario degli altri. » Sherlock stringe gli occhi, « Sei l'ultima. »

La domanda silenziosa del detective, il "perché?", aleggia fra di loro. Ma Mary non gli renderà le cose così facili.

Deve o no stimolare la sua curiosità?

« Sai chi sono? » chiede allora lentamente, dopo una studiata pausa.

Sherlock la guarda per un attimo, poi comincia a snocciolare informazioni con il suo solito tono.

« Ex agente segreto, di origine slava, ma hai lavorato per diversi governi, cambiato bandiera molte volte, nascondendo spesso la tua provenienza. Il tuo accento inglese è falso. Hai un'ottima memoria fotografica, intelligente, dai riflessi allenati e abilità tattiche sorprendenti, una calcolatrice con una stupefacente mira e attitudine all'uso delle armi. Sei una killer, fuori dal giro da sei anni, quando sei scappata e hai assunto il nome di Mary Morstan, ma il tuo vero nome è- »

Mary alza la mano, interrompendolo. Forse Sherlock ha dedotto tutto, oppure aveva fatto ricerche per conto suo, dopo che Mary gli aveva sparato. O forse ancora ha addirittura letto l'usb A.G.R.A.

A Mary non importa, non è questo l'importante ora. Gli sorride, e Sherlock ricambia con un sorrisetto furbo.

« Io ho cercato di ucciderti. » afferma, lentamente.

Le sopracciglia di Sherlock si increspano.

« Non è vero. Questo non è mai successo. » risponde.

Lo sta dicendo perché non lo ricorda o perché crede sempre che non volesse davvero la sua morte?

In ogni caso, sorride: è ironico come Sherlock sia sicuro che Mycroft, John e gli altri stiano cercando di ucciderlo o gli abbiano fatto del male e l'abbiano ingannato, mentre non lo crede di lei, che l'ha fatto sul serio.

Mary si passa la lingua sulle labbra.

« Ti propongo un patto. »

Gli occhi di Sherlock brillano di sorpresa e un pizzico di curiosità.

« Che tipo di patto? »

« Un'alleanza. »

« Un'alleanza? » ripete Sherlock, la meraviglia ora chiara nel suo tono di voce.

« Sì. » annuisce Mary, « Non desideri avere un alleato in questo gioco, Sherlock? »

Il detective la studia per lunghi secondi, inclinando la testa di lato e unendo le dita.

« E perché mai » inizia a chiede Sherlock, gli occhi che la scrutano ridotti a fessure, « la moglie di John Watson dovrebbe essere interessata a stringere un accordo del genere con me? »

« La moglie di John Watson è Mary Morstan. » risponde lentamente.

Sherlock allarga gli occhi, soppesandola. Poi sorride.

« E tu non sei Mary Morstan. » considera piano.

« No, non lo sono. »

Ora il sorriso che si scambiano Sherlock e Mary è più aperto, sincero. Complice.

Alla fine Mary ha ottenuto la sua attenzione.

 

Quando i venti minuti che Mycroft le ha accordato scadono, Mary sta uscendo dalla camera di Sherlock.

Si appoggia per un attimo alla porta, i palmi aperti contro il legno, e fa tre respiri profondi.

Se lui potesse, gli chiederebbe se sia andato tutto ok, se abbia agito bene.

E Mary risponderebbe: è che a volte la cosa migliore da fare non è la cosa giusta.

 

 

 

***

 

 

 



 

Note:

 

[1] 'Guilt. That's all this is. Do you honestly believe if you have enough stupid theories it's going to change what really happened?' = 'Senso di colpa. È solo questo. Onestamente, credi davvero che se se crei abbastanza teorie stupide queste cambieranno quello che è successo in realtà?' Battuta di Lestrade ad Anderson, all'inizio della 3x01.

 

[2] Tutto questo botta-risposta tra Billy e Sherlock è ripreso dalla 3x03, nella scena a casa dei signori Holmes.

 

[3] Con 'mio caro' John si riferisce al 'my deary' della frase finale di Moriarty, che è leggermente intraducibile in italiano, perché sarebbe un vezzeggiativo di "my dear", una specie di "mio carino", quindi ancora più informale, affettuoso e allo stesso tempo sarcastico.

 

[4] Billy si riferisce a quando John, nella scena nel laboratorio del St. Barts nella 3x03, per nascondere di essere stato lui a slogare il braccio del ragazzo, dice che è stato un drogato in cerca di una dose, e Sherlock, comprendendo cosa sia successo, conferma dicendo che "in un certo senso lo era".

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2428607