Unless you show me how

di Acinorev
(/viewuser.php?uid=194161)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologue ***
Capitolo 2: *** Vic, Vicki, Victoria ***
Capitolo 3: *** Nice to meet you, or maybe not ***
Capitolo 4: *** I don't want you here ***
Capitolo 5: *** She's everywhere ***
Capitolo 6: *** I'm in ***
Capitolo 7: *** Five questions ***
Capitolo 8: *** Shit, you're here ***
Capitolo 9: *** Fuck you all ***
Capitolo 10: *** I'm sorry, ok? I'm sorry ***
Capitolo 11: *** Secrets vs gossip ***
Capitolo 12: *** Help me ***
Capitolo 13: *** What do you want from me? ***
Capitolo 14: *** Thank you, anyway ***
Capitolo 15: *** What he actually needs ***
Capitolo 16: *** Don't ignore me ***
Capitolo 17: *** Tell me everything ***
Capitolo 18: *** You did it on purpose ***
Capitolo 19: *** Look at me ***
Capitolo 20: *** 4:32 am ***
Capitolo 21: *** Explanation ***
Capitolo 22: *** I'm yours ***
Capitolo 23: *** Stay ***
Capitolo 24: *** Different plans ***
Capitolo 25: *** Would you listen to me? ***
Capitolo 26: *** I know ***
Capitolo 27: *** More than I can say ***
Capitolo 28: *** The anchor ***
Capitolo 29: *** You were right ***
Capitolo 30: *** A promise is a promise ***
Capitolo 31: *** To tell or not to tell ***
Capitolo 32: *** Make me stay ***
Capitolo 33: *** Epilogue - Alive ***



Capitolo 1
*** Prologue ***



Per chi fosse interessato, ecco il TRAILER

Prologue

 

Quando perdi la persona che ami, il mondo sembra vacillare.
E non è solo un modo di dire, è esattamente quello che succede. Crollano i progetti fatti insieme a lei. Crollano le sicurezze che avevi fino a pochi giorni prima, ma che si sono ormai volatilizzate. Crolla la forza che pensavi di possedere, perché non vedi più un valido motivo per cui sfruttarla. Crollano le promesse che avevi fatto a te stesso, quelle secondo le quali avresti dovuto affrontare la sua scomparsa a testa alta e con coraggio. Crolla tutto quello che ti sta intorno, come se lei avesse trascinato con sé ogni cosa.
Forse è per questo che si dice che una persona ti manca: perché era un pezzo di te, il pezzo più grande e migliore di te, quello che ti rendeva ciò che eri nel bene e nel male, e perché quel pezzo non c’è più. Senza di lei ti senti incompleto: ha portato via quasi tutto, dentro e fuori di te. Eppure, al posto di tutto quello che ti ha rubato, ha lasciato il suo ricordo, che diventa come un martello pneumatico nella tua testa e nel tuo cuore, pronto a ricordarti in ogni attimo della giornata che lei era tua e che ora non c’è più.
Te lo ricorda quando la mattina ti svegli, quando stai pensando a tutt’altro, quando stai ridendo a crepapelle ma devi fermarti perché la sua immagine ti si è ripresentata davanti, quando vorresti solo far tacere tutti i tuoi pensieri pur di passare un solo minuto di pace. Ed è in quei momenti che la maledici: "Se ne è andata! Perché diavolo mi tormenta ancora?" continui a chiederti.
Sei arrabbiato perché, nonostante non sia più con te, senti la sua assenza in ogni gesto che compi, in ogni respiro che fai durante la giornata, così intensamente da diventare una presenza: sei arrabbiato perché semplicemente non è più al tuo fianco. Ti torturi, domandandoti se anche lei stia passando quello che stai passando tu, ma non credi sia possibile e non glielo auguri nemmeno: sarebbe crudele farlo, perché vorrebbe dire destinarle un dolore inimmaginabile, un dolore che non sapevi nemmeno potesse essere così soffocante. Ti torci le mani imprecando, perché nonostante ti stia facendo così male, nonostante ti abbia abbandonato, tu la ami ancora come il primo giorno, come il primo secondo in cui ti sei accorto che senza di lei avresti smesso di vivere: e per ironia della sorte, ora stai sperimentando quell’assenza che tanto avevi temuto.
Ma ci sono anche i momenti in cui il suo ricordo cerca di torturarti e di strapparti il cuore, mentre tu sei pronto a farti cullare da lui solo per poter sentire di nuovo la sua presenza. Sei pronto a soffrire, a sentire ogni cellula del tuo corpo fremere per quella mancanza, sei pronto a tutto pur di rivederla ancora una volta. Quindi ti lasci trasportare da una miriade di ricordi che, sebbene sembrino delle coltellate in pieno petto, sono anche la cosa più piacevole che ti sia mai capitata. La rivedi davanti a te mentre prepara la colazione, come quel giorno in cui si era raffreddata perché tu non ne volevi sapere di alzarti. La senti respirare al tuo fianco mentre dorme, come quella volta in cui eri tornato tardi a casa e l’avevi trovata addormentata nel tuo letto. La ascolti urlare perché gelosa di una ragazza che ti ha guardato un secondo di troppo, come quella sera che l’hai dovuta trattenere prima che potesse rincorrere la cameriera del ristorante per dirgliene quattro.
Ti ritrovi immerso nella vita di prima - quella che poteva ancora essere definita tale -, sentendo il dolore pungerti il cuore, ma vieni pervaso da un senso di calore e di tranquillità che vorresti durasse per sempre: perché mentre pensi a tutte quelle piccole cose, lei è ancora lì, al tuo fianco. E non ti importa se in quel ricordo ti sta urlando contro, se è imbronciata, se è più bella del solito, se ti sta prendendo in giro o se nemmeno ti sta guardando: quello che conta è sentirla viva ancora una volta, seppur in un ricordo sbiadito.
 
Ogni mattina, quando ti svegli, ti siedi sul letto e affronti sempre lo stesso problema: dimenticare o ricordare? Ma come ogni mattina, ti alzi da quel letto senza una soluzione: non riesci a trovarla, o forse non vuoi trovarla. Forse è così: forse sei solo troppo debole per prendere una decisione.
Fatto sta che dimenticare ti sembra tanto impossibile quanto ricordare: come puoi dimenticarla? A volte stai così male che è l’unica cosa che vorresti fare, ma l’hai amata, le hai promesso di continuare a farlo contro ogni logica e contro ogni difficoltà, riesci ancora a percepire i brividi che ti provocava la sua vicinanza: come puoi pensare di far finta che non sia mai esistita?
Dimenticare significherebbe mettere da parte i suoi occhi e le mani che ti accarezzavano ogni giorno; o la sua bocca quando baciava ogni centimetro della tua pelle; la sua ironia, quella che ti faceva ridere e arrabbiare allo stesso tempo; il suo coraggio nell’affrontare ogni piccolo problema e anche il più grande, quello che vi ha divisi; significherebbe mettere da parte tutto, come se quelle piccole cose non fossero quelle senza le quali non riuscivi a stare e di cui ancora non sai fare a meno.
Dimenticare ti sembra dannatamente impossibile e ingiusto: ricordi che lei avrebbe voluto che tu lo facessi, perché non riusciva a sopportare l’idea di sapere che avresti sofferto, ma non se lo merita e tu non vuoi dimenticarla. Ti sembrava infattibile anche allora, quando lei era ancora al tuo fianco: e gliel’avevi detto. "Come pensi che potrei dimenticarti?" le avevi chiesto, credendo che fosse una pazzia. Eri convinto di quelle parole anche se non sapevi a cosa stavi andando incontro: e ora ti trovi in mezzo a tutto questo, consapevole del fatto che avevi ragione, che non avresti potuto dimenticarla.
Quindi scarti l’idea e cerchi rifugio nell’altra opzione: devi ricordare? Sarebbe molto più facile e allo stesso tempo molto più doloroso: ti accorgi che vivere ogni giorno della tua vita con la sua immagine nella testa sarebbe straziante, nonostante qualche volta ti dia sollievo. Significherebbe lasciare da parte tutto il resto, perché il suo ricordo è talmente insistente, talmente carico di sentimento, che non ti lascia respirare: lo senti mentre ti comprime il petto, tanto da farti temere che possa scoppiare da un momento all’altro, e ti chiedi come potresti sopportarlo per tutta la vita senza soccombere, quando ci sei già così vicino.
Quindi sei ad un bivio: devi scegliere, e ti sembra che non sia mai esistita una scelta più difficile di questa.
Hai rimandato per molto, troppo tempo, aspettando che la soluzione piovesse dal cielo e credendo che sarebbe bastato accettare qualsiasi cosa sarebbe accaduta: ma sono passati giorni, settimane, mesi, e tu sei sempre al punto di partenza, in una specie di limbo da cui non riesci più a uscire.
 
Poi, ogni tanto ti riscuoti: pensi che forse non devi per forza dimenticare o ricordare, che forse devi semplicemente accettare quello che è successo. Le tue labbra si incurvano in un sorriso amaro mentre ridi di te stesso, perché è una cosa così scontata che ti chiedi come tu abbia fatto a non capirla prima: eppure, appena realizzi che la tanto agognata soluzione è sempre stata sotto ai tuoi occhi, vai nel panico.
Non sai come si faccia ad accettare la sua assenza.
"Qualcuno me lo insegni, vi prego - pensi, come se il mondo potesse effettivamente sentirti. - Alcuni di voi ci sono già passati, come ci siete riusciti?"
Sei convinto che tante delle persone che incontri per strada abbiano dovuto affrontare quello che stai passando tu ora, e le osservi alla ricerca di qualche indizio. Vorresti fermarle e chiedere: "Come ha fatto a continuare a vivere senza di lei?"
Ipotizzi che sia stato altrettanto difficile anche per loro e che abbiano avuto bisogno dell’appoggio di qualcuno per andare avanti, quindi provi ad affidarti ai tuoi amici. Eppure nemmeno loro sembrano comprendere: ti stanno vicino e ti spronano ad andare avanti, preoccupati per te, ma nessuno capisce. Non capiscono cosa tu stia realmente passando e che stai cercando con tutto te stesso di superarlo, che ci stai provando da quando lei se n’è andata. Sai perfettamente che non è colpa loro, perché in effetti nemmeno tu ti aspettavi che sarebbe stata così dura, nonostante la tua immaginazione si fosse data alla pazza gioia. Allora ti limiti ad apprezzare i loro sforzi, sebbene siano stati inutili, e cerchi di non far pesare loro il fatto di non essere riusciti ad aiutarti.
Ti convinci di dovercela fare da solo: in un modo o nell’altro, devi rialzarti e riprendere in mano la tua vita.
Speri che succeda il più in fretta possibile, ma non vuoi illuderti.
Preghi perché succeda e basta, ma sai che molto probabilmente non sarà così.
E come ogni sera, appena posi la testa sul cuscino, la tua mente ti disegna il suo volto davanti quasi come se fosse un’abitudine. Quindi non puoi fare altro che aspettare il giorno in cui vederla non ti farà più tanto male, senza sapere se quel giorno sarà domani o tra qualche settimana.
"Buonanotte, Kathleen" ti limiti a pensare, e la vedi sorridere in tutta la sua bellezza, in un modo talmente reale da far tremare il tuo cuore.






 


 

Ciaaaaaaaaao ragazzuole! Sì, Veronica la rompipalle è tornata con un'altra storia ahhaha
Lo so, a molte avevo detto che sarebbe passato un mese circa e bla bla bla ma insomma, questo prologo è nel mio computer da circa due mesi e mezzo, mi stava praticamente implorando di essere pubblicato D:
Per chi mi conosce sa che i primi capitoli per me sono un trauma, quindi vi chiedo di lasciarmi un misero parere positivo o negativo che sia! E poi, a parte la mia mente complessata, è sempre bello sapere cosa ne pensate :) Soprattutto perchè è la continuazione di "Unexpected"!!!
A proposito di questo, vorrei ribadire che chi non l'ha letta non avrà difficoltà a seguire questa :) (ovviamente vi consiglio di leggerla)
Poooi cosa potrei dire? Ah, sì: questo prologo è un po' a parte dalla storia in sè, ma quando pubblicherò il primo capitolo capirete perchè :) Si capisce relativamente poco, ma posso anticiparvi che la storia non avrà un tono drammatico come questo, almeno non sempre :) Di certo chi ha letto "Unexpected" sa già a chi si riferisce, ma io non posso dirlo qui per non rovinare la storia alle altre :)
Dovrò mantenere un certo mistero per le nuove lettrici (?)
E niente spero di avervi incuriosite e che questo prologo vi sia piaciuto :3 Mi dispiace non potervi dire molto, ma prometto che quando aggiornerò potrò dirvi altro c: Aspetto i vostri pareri!

(Sì, di solito vi lascio con le gif, ma fa tutto parte della storia del "mistero" ahahah)
Ok, ora me ne vado davvero hahaah Ciao splendori!

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Vic, Vicki, Victoria ***




Vic, Vicki, Victoria

Capitolo 1


 

«Vicki, Cassidy ci ha dato buca!» urlò Steve, correndo verso di me.
«’Fanculo!» imprecai tra me e me, arrendendomi allo chignon che stavo disperatamente cercando di mettere in ordine da una manciata di minuti.
«Che significa che Cassidy ci ha dato buca?» chiesi al mio amico, voltandomi verso di lui. Il moro si fermò, appoggiando le mani sulle ginocchia per riprendere fiato, mentre mi guardava con i suoi occhi scuri: «Significa che non è ancora arrivata e che non risponde alle chiamate.» spiegò, rimettendosi in piedi. Sapeva che dopo quelle parole sarei diventata una furia, e infatti non mi smentii: «Che cosa?! Che diavolo ha di sbagliato quella ragazza?! – sbraitai, alzando le mani al cielo – È già la terza volta che fa uno scherzo del genere! Sa benissimo quanto sia importante questa serata per tutti noi e lei decide di sparire?! Spero per la sua salute che sia solo in ritardo!»
«Vicki…»
«Ora dovrò telefonare a Max e chiedergli se c’è qualcuno disponibile nel caso lei non dovesse arrivare! Dio, appena la rivedo l’ammazzo!»
«Vicki …» riprovò Steve.
«Che c’è?!» urlai, interrompendo il mio sproloquio.
«Ehm... – borbottò, grattandosi la testa e distogliendo lo sguardo da me - Manca anche Joseph.»
Spalancai gli occhi, mentre sentivo l’agitazione crescere sempre di più: credevo di poter scoppiare da un momento all’altro, anzi, ne ero certa. Appena aprii la bocca per maledire anche lui, Steve me la tappò con una mano, guardandomi con aria di suppliche: «Almeno lui ha la bronchite.» spiegò, cercando di farmi calmare.
«Merda! - esclamai, quando la sua mano mi lasciò libera la bocca - Merda, merda, merda!» continuai, facendo avanti e indietro per la saletta già affollata. Tutti i ragazzi del catering si agitavano da una parte all’altra della stanza cercando di fare il più in fretta possibile per essere pronti: c’era chi non trovava le scarpe; chi, come me, litigava con i capelli; chi si dimenava per avere un angolino in cui cambiarsi; insomma, era un vero e proprio inferno.
Entro un quarto d’ora sarebbe iniziata la festa e dovevamo essere tutti perfetti; era mio compito, in quanto responsabile di quella serata, assicurarmi che andasse tutto per il meglio: avevo risolto il ritardo in cucina, avevo corretto l’errore nell’ordine delle tovaglie, avevo riordinato la disposizione dei posti ai tavoli, e ora il problema era assicurarmi che filasse tutto liscio con due membri che mancavano all’appello. La presentazione dello staff doveva essere cambiata, ci sarebbero state due persone in meno a servire gli ospiti, le portate e le bibite dovevano essere adattate al nuovo numero di camerieri e io dovevo assolutamente tranquillizzarmi, se volevo evitare un attacco di panico.
Prima che potessi pensare ad una soluzione, il telefono nella tasca dei miei pantaloni eleganti prese a vibrare: pregai perché non fosse lui, ma Dio in quel periodo si divertiva a prendermi per il culo.
«Christian!» risposi, massaggiandomi una tempia e continuando a camminare avanti e indietro.
«Vicki! – mi salutò il mio superiore - Come procedono le cose?»
«Ehm, bene, bene. Siamo quasi tutti pronti!» mentii, mordendomi il labbro inferiore.
«Oh, ne sono felice! So che non mi deluderai!»
«Lo spero.» mormorai, alzando gli occhi al cielo. Perché non peggiorare le cose con tutte queste speranze riposte in me?
«Ora ti lascio: mi raccomando, conto su di te! A più tardi.»
Attaccò senza darmi il tempo di rispondere e io mi voltai verso Steve, che era rimasto per tutto il tempo al mio fianco aspettando degli ordini. Lo guardai per un secondo come se sul suo viso avessi potuto trovare delle risposte, ma oltre a qualche brufolo e ad un filo di barba non c’era proprio niente.
«Steve, prova di nuovo a rintracciare Cassidy e se non risponde chiama Max e chiedigli se può mandarci due persone. Io intanto cerco di sistemare le cose nel caso… Dio, non voglio nemmeno pensarci. Muoviti, avanti!» esclamai, correndo poi a cercare Stephanie.
Dopo qualche minuto perso a farmi largo tra la gente, la trovai seduta a terra, mentre armeggiava con le sue scarpe: «Steph, ho bisogno di aiuto.»
La ragazza alzò gli occhi verdi su di me, guardandomi con un’espressione confusa: «Che succede?»
«Joseph ha la bronchite e Cassidy Dio solo sa dove sia. Forse Max riesce a sostituirli, ma ho il vago presentimento che…»
« Vicki!» urlò di nuovo Steve alle mie spalle, come in un deja-vù. Mi girai a guardarlo e lui scosse la testa con aria dispiaciuta: evidentemente quei due non sarebbero stati sostituiti. Cosa dicevo a proposito del mio presentimento?
«Come non detto. – sospirai, rivolta a Stephanie - Dobbiamo riorganizzare un po’ di cose.» affermai, contando sull’aiuto della mia migliore amica.
 
Con ancora il viso bagnato dall’acqua gelida, appoggiai le mani sul lussuoso ripiano in marmo del lavandino e fissai la mia immagine riflessa nello specchio: lo chignon aveva deciso di graziarmi quella sera, rimanendo in perfetto ordine, e il trucco diede conferma di essere davvero a prova di acqua, dato che era rimasto esattamente intatto. Per quanto riguardava il mio stato d’animo, quello era cambiato: ero più sollevata, più rilassata, nonostante i miei occhi scuri riflettessero la mia stanchezza.
La festa di beneficenza era iniziata da due ore e mezza ormai e tutto stava andando a gonfie vele: ero riuscita, con l’aiuto di Steph, a fare in modo che la mancanza dei due nostri compagni non pesasse sul lavoro degli altri. Io stessa avevo dovuto vestire i panni della cameriera per poter aiutare nel servire gli ospiti: non che mi dispiacesse, ma era strano ricoprire un ruolo che non provavo da un anno e mezzo. La gavetta era una cosa schifosa.
Avevo fatto molta strada da quei giorni e l’agenzia stava diventando sempre più famosa grazie a dei recenti successi: quella stessa sera era una prova per noi. Dovevamo dimostrare di essere in grado di gestire un evento del genere e, se ci fossimo riusciti, avremmo acquistato prestigio agli occhi dei clienti.
“Tutto sta nella soddisfazione del cliente.” ripeteva sempre Christian.
Riscuotendomi da quei pensieri, guardai l’orologio al mio polso e mi accorsi di dover ritornare in sala, quindi mi asciugai il volto e mi diressi verso l’uscita. Prima che potessi appoggiare la mano sulla maniglia, però, la porta si spalancò sbattendo con un tonfo sulla mia fronte.
«Dannazione…!» mi lamentai, massaggiandomi la pelle. Che diavolo, quella giornata faceva proprio schifo.
Qualcuno si affrettò ad avvicinarsi a me, appoggiando una mano sulla mia schiena: «Dio, scusami tanto. Non pensavo che… Non…»
Alzai lo sguardo su quello che dalla voce avevo capito fosse un ragazzo e incontrai i suoi occhi azzurri, fin troppo vicini al mio viso. Due profondi occhi azzurri.
«Ti sei fatta male?» chiese, cercando di trattenere una risata. Storsi le labbra in una smorfia e mi ricomposi, riconoscendo in quel ragazzo un membro degli One Direction: se la mia memoria non mi ingannava come al suo solito, doveva essere Louis, ma non ne ero completamente certa. La nostra agenzia era stata assunta dai loro manager per organizzare l’evento, anche se durante tutta la serata avevo incontrato quei cinque ragazzi forse solo un paio di volte: non sapevo nulla di loro, se non l’indispensabile, dato che vivere a Londra implicava dover subire la loro pubblicità spietata ad ogni angolo della strada. Eppure non mi ero mai interessata ai numerosi gossip che li riguardavano, né alla loro musica: insomma, sapevo della loro esistenza, conoscevo i loro nomi e qualche curiosità, ma niente di più.
Per qualche secondo mi fermai ad osservare il ragazzo di fronte a me: i capelli castani erano alzati in una cresta disordinata che lasciava completamente scoperto il viso leggermente abbronzato; gli occhi azzurri erano due fessure mentre le labbra sottili si incurvavano in un sorriso, e il mento era ricoperto da un fine strato di barba. Un momento: sorrideva ancora?
«Ti fa così ridere che la mia fronte abbia avuto un incontro ravvicinato con la porta?» chiesi retorica, alzando un sopracciglio.
«Sì, abbastanza. – ammise, senza togliersi dal viso l’espressione divertita - È che… non mi aspettavo di vedere una ragazza qui
«Già, perché è molto strano trovare una ragazza nel bagno delle ragazze. Tu piuttosto, sei un pervertito o non sai leggere?» domandai, aprendo la porta e indicando il punto in cui ci sarebbe dovuto essere scritto “Donne”.
Appunto, ci sarebbe dovuto essere scritto.
In realtà, la scritta in ottone diceva “Uomini”.
Rimasi qualche secondo a fissarla incredula: sicuramente, per la stanchezza e la fretta, non avevo nemmeno fatto caso a in quale bagno stessi entrando. Pensai di aver bisogno di una lunga pausa, mentre sentivo il ragazzo ridacchiare al mio fianco.
«Quindi… - cominciò, più che divertito - Sei una pervertita o non sai leggere?»
Lo guardai spalancando gli occhi, senza riuscire a trattenere una risata. Scossi la testa e mi arresi a quella giornata disastrosa: «Credo di essere solo molto stanca.» ammisi sorridendogli.
«Devi essere del catering.» provò ad indovinare, dando una veloce occhiata al mio abbigliamento.
«Sei perspicace.» lo presi in giro, inclinando la testa da un lato.
«E tu sei divertente. – continuò, porgendomi poi la mano destra - Louis Tomlinson, piacere.»
Aprii la bocca per presentarmi a mia volta, ma il mio cerca-persone prese a squillare freneticamente: gli diedi un’occhiata e mi scusai con Louis: «Scusa, ma il dovere mi chiama.»
«Aspetta…» esclamò, mentre io stavo già uscendo dal bagno. Non avevo tempo di parlare con il famoso cantante che mi aveva appena sbattuto la porta in faccia, e letteralmente, purtroppo.
Un’espressione soddisfatta si dipinse sul mio volto, mentre raggiungevo Steve: avevo appena parlato con un famoso cantante. Anche se il mio lavoro consisteva nell’organizzare grandi eventi per persone famose, queste cose non succedevano quasi mai: avevano sempre la puzza sotto il naso e mantenevano le dovute distanze. Molte volte avevo dovuto mordermi la lingua per non risultare scortese e quindi mandare all’aria diversi eventi, per questo cercavo di fare il mio dovere senza aspettarmi alcuna forma di comunicazione che andasse oltre le solite formule di cortesia.
 
«Non posso credere che questa serata sia finita. – sospirò Stephanie al mio fianco - Temevo che sarebbe continuata all’infinito.»
«Per carità! Non vedo l’ora di infilarmi nel letto!»
«Vic? – mi chiamò, guardando alla mia destra - Perché Louis Tomlinson sta venendo verso di noi?»
Mi voltai per accertarmene ed effettivamente Louis Tomlinson si stava avvicinando, con il suo immancabile sorriso e la sua impeccabile perfezione: le gambe strette in pantaloni grigi che contrastavano con il bianco della camicia, sulla quale erano tese delle bretelle nere. Le interviste in televisione e i cartelloni pubblicitari non gli rendevano affatto giustizia.
Il fatto che avessi appena fatto un’analisi così approfondita di quel ragazzo mi fece capire che avevo davvero bisogno di dormire.
«Allora, - esordì Louis, appena fu a qualche passo da noi - chi devo ringraziare per questa magnifica serata?» domandò allegro. Subito porse la mano alla mia amica per presentarsi, mentre a me rivolse un cenno del capo.
Stephanie non mi lasciò rispondere, anticipandomi: «Lei. – disse, indicandomi con una mano - È stata Vicki ad organizzare tutto.»
Louis spostò lo sguardo su di me e il suo viso si illuminò: «Quindi è così che ti chiami. – esclamò, ricordandomi di non essermi presentata in bagno – Be’, devo farti i miei complimenti, Vicki. È stato tutto impeccabile, e anche gli altri ragazzi ci terrebbero a ringraziarti.»
«Grazie, sono felice che siate rimasti soddisfatti.» risposi, con la solita cortesia nauseante che nel nostro lavoro bisogna rivolgere ai clienti. La mia fronte, però, urlava insulti a colui che le aveva procurato un bernoccolo appena accennato, anche se doloroso.
Louis sorrise ancora, facendomi chiedere se sapesse dell’esistenza di qualche altra espressione: «Che ne dici di unirti a noi per festeggiare questo successo? – domandò - Può venire anche la tua amica Stephanie, se le fa piacere.»
«Oh, grazie dell’invito, ma non credo che il mio corpo riuscirebbe a reggere un minuto di più.» si scusò Steph, scuotendo la testa. Da quanto ne sapevo, gli One Direction non erano esattamente uno dei suoi gruppi preferiti. Quando ci avevano affidato quell’incarico, dall’alto dei suoi 23 anni, aveva detto: quindi ci aspetta una serata al servizio di ragazzini spocchiosi?
«Esatto. – confermai io - Inoltre, se proprio volessi festeggiare per il successo della serata, dovresti invitare ad uscire tutti i miei compagni dato che hanno fatto loro tutto il lavoro.» precisai.
«Hey, non toglierti tutti i meriti!» mi rimproverò Stephanie, dandomi una gomitata.
«Divertente e leale, eh? – commentò Louis – Be’, dovrai darmi ragione se dico che invitare tutti i tuoi compagni sarebbe una cosa impossibile.»
In effetti non aveva tutti i torti, dato che erano venticinque.
«Solo una birra.» insistette. Lanciai uno sguardo alla mia amica, che alzò le spalle come per lasciarmi libera scelta, poi tornai sul ragazzo di fronte a me: sebbene una piccolissima parte di me si fosse lasciata incantare dai suoi occhi cristallini e dai suoi denti bianchi, la stanchezza prevalse, portandomi a declinare l’offerta.
«Mi dispiace, ma non ne ho davvero le forze.» Non avevo le forze di fare un altro passo che non fosse in direzione del mio letto, non avevo le forze di conoscere persone nuove o di ridere alle loro battute. In quel momento non avevo le forze di vivere.
Louis fece schioccare la lingua sul palato in una nota di disapprovazione, mantenendo l’accenno di un sorriso mentre io rimanevo in attesa di una sua risposta. In quel momento Freddie, un altro ragazzo del catering, chiamò Stephanie dicendole di aver bisogno del suo aiuto: lei si congedò da noi, salutando velocemente Louis, per poi lasciarmi sola con lui dopo avermi sussurrato di doverle spiegare un po’ di cose. Probabilmente si stava chiedendo come facessimo a conoscerci.
Louis la guardò allontanarsi, tornando subito a concentrarsi su di me: «È un peccato che tu sia stanca.» mormorò, con un’espressione… maliziosa, se così potevo definirla. Rimasi spiazzata da quell’affermazione, tanto da limitarmi a fissarlo. Fu lui a parlare di nuovo, interrompendo quel silenzio imbarazzante: «Come va la fronte?» mi chiese.
«Oh, niente che non possa sopportare. Ma, se posso, ti consiglierei di fare un po’ più di attenzione la prossima volta. Ora come ora potrei chiederti un risarcimento danni.» scherzai.
«Chiedimelo.» mi sfidò, inclinando le labbra in sorriso tutt’altro che innocente.
Ridussi gli occhi a due fessure, cercando di decifrare la conversazione che stavamo avendo e «Ci penserò, - risposi - ma ora devo andare.»
«Allora a presto.» disse divertito, avvicinandosi a me. Di nuovo la sua mano era dietro la mia schiena e di nuovo il suo viso era troppo vicino al mio: lasciò un bacio sulla mia guancia, per poi sorridermi per l’ennesima volta e andarsene.
Lo guardai allontanarsi con una strana sensazione che cresceva dentro di me: un misto di stupore, piacere e… curiosità.
«Cazzo di persone famose.» mormorai tra me e me, alzando gli occhi al cielo.
 
Mi trascinai  fino al cancello della villetta che mi stava di fronte, anche chiamata casa, e lo aprii dopo qualche tentativo non riuscito: «Maledetta, stupida chiave!» borbottai, una volta entrata nel vialetto.
Feci qualche passo, ma uno scricchiolio nell’erba mi fece spaventare: mi immobilizzai e rimasi in ascolto, mentre sentivo l’adrenalina aumentare sempre di più nel mio corpo. Mi voltai, ma prima che potessi riconoscere qualcuno o qualcosa, trenta chili di pelo e tenerezza mi erano saltato addosso, facendomi cadere rovinosamente a terra: «Teddy! Teddy, a cuccia!» lo richiamai, cercando di levarmelo di dosso mentre lui mi leccava il viso. Il mio adorato collie mi diede ascolto: si mise a cuccia, ma su di me.
«Oh, fantastico!» mormorai.
Mentre mi dimenavo, la luce della porta d’ingresso si accese, cosa che mi stupì non poco dato che vivevo da sola. A meno che…
«Chi c’è?! – gridò una voce familiare - Theodore, vieni qui!» urlò di nuovo.
A meno che mio fratello non fosse tornato.
«Brian, sono io!» biascicai, cercando di sgattaiolare via da quell’ammasso di peli. Ringraziando il cielo Teddy aveva dato ascolto a mio fratello liberandomi dal suo peso. Oh, mio fratello…
«Victoria? – mi chiamò incredulo - Sei tu?»
Sbuffai, ricordandomi del suo amore per i nomi interi, e mi alzai in piedi pulendomi i vestiti dalle zampate di terra del mio tenero cagnolino: «Perché non gli abbiamo mai insegnato ad accogliere le persone in modo più delicato?» chiesi più a me stessa che a lui.
«Oh, Victoria! – esclamò Brian, prima di correre verso di me - Mi sei mancata così tanto.»
Alzai lo sguardo su di lui e dovetti impegnarmi per mantenere l’equilibrio, dato che mi aveva già stretto in un abbraccio: «Anche tu.» sussurrai, sorridendo nell’incavo del suo collo.
Brian Tomphson, 26 anni, era un mix di muscoli e di senso di protezione nei confronti della sua sorellina di 21.
Brian Tomphson era arruolato nella marina e mancava da casa da un mese e ventidue interminabili giorni.
Brian Tomphson era la mia salvezza.
Brian Tomphson era finalmente tornato.






 


 

 
Eeeeeeccomi qui con il primo capitolo dfjakls 
Eravate impazienti di leggerlo e io non potevo tenerlo nel pc ancora per molto, perché avrei rischiato di continuare a modificarlo e modificarlo e modificarlo… Insomma non l’avreste letto molto presto hahaha Comunque ci sono delle cosette da dire:
1. La storia non è narrata da Zayn, come in Unexpected, ma da Vicki, il che per me è abbastanza strano, ma ho pensato che fosse meglio così :)
2. Si scoprono un po’ di cose su di lei, ma nei prossimi capitoli se ne scopriranno delle altre :)
3. Non è una fan degli One Direction: so che a Londra loro sono praticamente delle divinità, ma credo che ci siano anche persone, come la nostra Vicki, che non se ne interessano. Voglio precisare che non li odia eh, semplicemente non li segue :)
4. Zayn non compare in questo capitolo, ma in compenso c’è Louis :) Secondo voi quale sarà il suo ruolo? :)
5. Riguardo Vicki che declina il suo invito ad uscire: so che molte di noi avrebbero accettato senza tante storie, ma noi non siamo lei (?) Per Vicki Louis è solo una persona normale, non diversa dalle altre che ha conosciuto nel suo lavoro, e non è “soggetta” al suo fascino lol E non bisogna dimenticare che è reduce da una stancante giornata di lavoro :)
6. Sono incazzata perché ho provato a pubblicare per 4 volte di fila ma efp ha deciso di bloccarsi ogni santa volta -.-
E niente, spero davvero che il capitolo vi sia piaciuto jdfsal Non c’è più la drammaticità del prologo, anzi, quindi sono curiosa di sapere cosa ne pensate! Vi chiedo di lasciare un vostro parere, anche perché vorrei sapere cosa pensate di Vicki :) Ho molti dubbi riguardo questa storia, quindi per favore, siate critiche e spietate lol
 
Non possono mancare i ringraziamenti djfhak Io so di essere fin troppo sensibile, ma 31 recensioni ad un capitolo sono qualcosa a cui non credo di potermi abituare djksfal Davvero siete state… boh, non c’è un termine! E poi tutti quei complimenti…
Io… Vi voglio bene, ok?! Ok.
 
Vi lascio con una foto di Vicki e una gif di Louis fjskdl Ciao bellezze mie :3

 

     

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Nice to meet you, or maybe not ***



TRAILER

Nice to meet you, or maybe not

Capitolo 2


 

«Devi per forza andare?» chiese Brian, seduto al posto del guidatore.
«Che razza di fratello maggiore sei? – ribattei divertita, recuperando la borsa dal cruscotto - È colpa tua se ora ho queste occhiaie sotto gli occhi, dato che mi hai tenuta sveglia tutta la notte con le tue chiacchiere, e ora vorresti impedirmi di andare a lavoro?» Non gli avrei mai detto che sarei stata a sentire le sue chiacchiere per un’intera giornata ancora.
«Non ti ricordavo così… noiosa.» brontolò, storcendo le labbra in una smorfia.
«Io invece ti ricordavo esattamente così rompipalle.» lo presi in giro per poi baciarlo su una guancia. Lo sentii ridere mentre scendevo dalla macchina: «Alle tre e mezza, ok?» chiesi per l’ennesima volta.
«Ci sarò.» mi assicurò, improvvisando un saluto militare un po’ sacrificato dal piccolo spazio dell’abitacolo. Gli sorrisi e chiusi la portiera, chiedendomi se ci sarebbe davvero stato: la sua memoria era pressocché una schifezza. Mi chiedevo come riuscisse a cavarsela nella marina.
 
«Buongiorno, Allison.» esclamai, appena varcata la soglia dell’ufficio.
«Victoria, Christian ti sta aspettando nel suo ufficio.» mi informò, con il suo solito tono piatto di voce. Stupida leccapiedi di una segretaria, pensai.
«Frena un attimo. – esordì una voce familiare – Dove pensi di andare?»
Stephanie era seduta su un divanetto a pochi metri dalla minuscola stanza che mi piaceva chiamare ufficio: i suoi occhi indagatori erano fissi su di me, nonostante conservassero la loro pacatezza.
«Ehm, a lavorare?» risposi retorica, fermandomi al centro del corridoio per guardarla.
«Che fine hai fatto ieri?» domandò, alzandosi e venendomi incontro con i suoi capelli castani che ondeggiavano ad ogni sua parola.
«Ti avrei chiamata ieri sera, ma quando sono tornata a casa ho trovato Brian ad aspettarmi e…»
«Brian è tornato?» mi chiese, ritraendosi leggermente da me. La sua solita calma era stata messa a dura prova per un attimo, il che mi incuriosiva parecchio.
«Sì, ieri sera, mentre noi eravamo alla festa di beneficenza. – spiegai, scrutando i suoi lineamenti - Che ti prende? È Brian, non un maniaco sessuale.»
A quelle parole sembrò riscuotersi, scoppiando in una delle sue sonore risate, quelle che mi sono sempre sembrate contrastanti con la sua indole tranquilla e riflessiva: «Lo so stupida, è che non me l’aspettavo.» mi garantì, regalandomi uno schiaffo affettuoso sul braccio.
«Certo, certo. Piuttosto, sai perché il capo vuole vedermi?»
«No, non ne ho idea.» rispose alzando le spalle.
Sospirai e la superai, dirigendomi verso l’ufficio di Christian mentre la mia amica mi ricordava di doverle ancora delle spiegazioni: bussai e la sua voce mi ordinò di entrare. Sembrava tranquillo, il che era un sollievo.
«Oh, Vicki! Buongiorno!» mi salutò vedendomi entrare: si alzò dalla sedia per aggirare la scrivania, lasciando apparire il suo fisico tutt’altro che snello. Il doppio mento gli ingombrava il collo e gli occhi del colore della pece erano fin troppo piccoli per quel viso cicciotello. Insomma, non era un granché per avere quarantadue anni.
«’Giorno.» ricambiai sorridendogli.
«Vieni, siediti.» disse, indicandomi la sedia a un metro e mezzo da me. Io obbedii, chiedendomi cosa volesse da me: potevo scommettere che riguardasse la sera precedente, ma potevo solo sperare che fosse qualcosa di positivo.
«Ho parlato con i manager degli One Direction a proposito dell’evento di ieri sera.» cominciò, rimanendo in piedi e appoggiandosi al bordo della scrivania di fronte a me. Deglutii a vuoto, pregando in tutte le lingue del mondo.
«Vicki, avete fatto un ottimo lavoro!» esordì in tutta la sua allegria, per poi prendermi la testa fra le mani e schioccarmi un sonoro bacio sulla fronte. Mi lasciò andare e io ciondolai per l’energia con cui mi aveva afferrata, un po’ stupita da quella dimostrazione d’affetto: certo, mi conosceva da quando ero nata, ma insomma… con calma.
«Dire che siano soddisfatti è poco: ci hanno promesso di farci sapere per nuovi incarichi. Ti rendi conto? – continuò, preso dall’entusiasmo - Gli One Direction! Questa sarà una fantastica occasione per noi! Ed è tutto grazie a te!»
Io mi limitavo a sorridere, estremamente soddisfatta ed estremamente incredula: tanto lavoro alla fine era stato ripagato e il fatto che ci aspettassero altri impieghi per quella boy-band era di sicuro una rampa di lancio per la Christian&Catering, nonostante il suo nome banale.
«Il merito è anche degli altri.» lo corressi, pensando a quanto fossi fortunata ad avere dei compagni del genere.
«Oh, certo, certo. Ma ho saputo che ieri sera Cassidy e Joseph si sono assentati e che tu hai dovuto riorganizzare molte cose, senza contare gli imprevisti del pomeriggio.»
«Stephanie mi ha aiutata molto, non ho fatto tutto da sola.»
«Vicki! – mi richiamò con tono più deciso - Posso farti dei complimenti senza che tu me lo impedisca?»
Lo guardai per un attimo, per poi accennare un sorriso e abbassare il capo.
«Continua così e verrai ricompensata, anzi, per oggi puoi anche prenderti un giorno libero.»
«Davvero? – chiesi incredula - Grazie.»
«Ora va’, te lo meriti! Ho anche parlato con i tuoi genitori e sono molto fieri di te.»
Ah, i miei genitori. Come potevano mancare?
«Grazie ancora, Christian.» mi sforzai di sorridere, per nascondere la mia scocciatura.
«Oh, quasi dimenticavo: c’è una persona in sala d’attesa che ti sta aspettando.” mi informò, mentre mi alzavo dalla sedia.
«Chi è?» chiesi, in preda alla curiosità.
«È una sorpresa.» mi assicurò, spingendomi con una mano verso la porta del suo ufficio.
Chi poteva essere? E a chi veniva in mente di venirmi a trovare sul posto di lavoro?
 
Percorsi il corridoio fino al fondo, arrivando all’entrata della saletta accogliente in cui ricevevamo i clienti. Quando aprii la porta, avvistai qualcuno seduto sul divanetto bianco al fianco della finestra: indossava una felpa blu con il cappuccio tirato sulla testa, nonostante fosse agosto inoltrato, degli occhiali scuri a coprirgli gli occhi e un paio di pinocchietti in jeans chiaro che lasciavano scoperte le gambe. Era sicuramente un ragazzo e il fatto che avesse delle gambe più belle delle mie era alquanto… degradante.
Tossicchiai per attirare la sua attenzione, che fino a quel momento era stata rivolta al cellulare tra le sue mani. Alzò lo sguardo su di me e le sue labbra si incurvarono in un largo sorriso.
«Vicki!» mi chiamò, togliendosi gli occhiali e abbassandosi il cappuccio della felpa.
«Louis?» esclamai, stupita da quella visita inaspettata. Che ci faceva lì?
«Come stai?» mi chiese avvicinandosi a me con il suo solito sorrisetto. Alla luce del giorno quegli occhi erano ancora più lucenti.
«Ehm, bene. – balbettai, - Ma che ci fai qui?» domandai mentre mi chiudevo la porta alle spalle.
«Anche io non me la passo male, grazie. – rispose ridacchiando - Comunque sono venuto ad assicurarmi che non avessi riportato un trauma cranico.»
«Un trauma cranico?» ripetei confusa, alzando un sopracciglio. Poi mi ricordai che la sera prima la mia fronte non si era proprio divertita: «Ah, per la fronte… - borbottai, rivolta più a me stessa che a lui - Nessun trauma cranico, per fortuna.» gli risposi.
«Bene.» commentò, annuendo leggermente con il capo. Non sapevo cosa dire data la stranezza di quella situazione, ma poi mi venne in mente qualcosa: «Fammi capire, - cominciai, gesticolando - Louis Tomlinson, membro degli One Direction, si presenta sul mio posto di lavoro vestito da latitante, solo per accertarsi che la ragazza del catering che ha gestito la sua festa di beneficenza non abbia riportato un trauma cranico?” Detto ad alta voce sembrava ancora più assurdo.
«Ehm… sì. – esclamò, confuso dal quel racconto - Cioè, no.» si corresse subito dopo.
«Hm, quindi sei qui perché…» dissi, lasciando di proposito la frase in sospeso. Di nuovo mi sorrise, scuotendo la testa: «Perché volevo risarcirti i danni.» rispose, usando le parole che erano uscite dalla mia bocca la sera prima.
«E in che modo vorresti farlo?» domandai curiosa.
«Il tuo capo non ti ha dato il giorno libero? Allora potresti accettare di fare colazione con me, dato che ieri sera mi hai dato buca.»
«Io non ti ho dato buca. – lo corressi, corrugando la fronte - E poi come fai a sapere del mio giorno libero?» Che quel ragazzo fosse uno stalker?
«Diciamo che ho espresso la mia soddisfazione per il servizio di ieri sera… E forse ho proposto una ricompensa per la responsabile.» spiegò soddisfatto, schioccando la lingua sul palato.
Aprii la bocca per dire qualcosa, o forse solo per esprimere la mia sorpresa, ma lui mi anticipò: «Oh, non ringraziarmi.» Così la richiusi, divertita da quel ragazzo.
«Allora, andiamo?» chiese, rimettendosi gli occhiali.
Ci pensai su per qualche secondo e mi accorsi che in fondo non avevo nulla da perdere: sarebbe stato divertente uscire con lui in un giorno di riposo dal lavoro: «E va bene! Ma solo perché ho l’impressione che se non accettassi continueresti a sbucare ovunque.» scherzai, accettando il suo invito.
«Vedo che hai già capito qualcosa di me!» confermò mettendosi a ridere. Prima che il suono della sua risata potesse incantarmi, lo vidi alzare il cappuccio della felpa: «Dimmi solo perché sei conciato così.» lo pregai soffocando una risata e indicando con un cenno veloce della mano il suo abbigliamento.
«Sono in incognito! – spiegò, imitando le mosse di un agente segreto - Voglio evitare folle di fans scalpitanti: sai, sono sveglio da nemmeno un’ora, non sarebbe molto piacevole.»
«Giusto.» mormorai, ricordandomi di star parlando con uno dei cinque ragazzi più famosi in Inghilterra al momento. Mentre lo seguivo fuori dall’ufficio, lo guardavo camminare un passo davanti a me con i suoi centimetri di altezza in più; pensavo che non mi sarei mai aspettata che quella giornata potesse prendere una piega del genere: insomma, stavo uscendo con Louis Tomlinson, che oltre ad essere una persona giusto  un po’ conosciuta, era anche una specie di dio sceso in terra. Un dio estremamente attraente, con un sorriso estremamente irresistibile e degli occhi estremamente ipnotizzanti.
Appena usciti dall’edificio si guardò intorno e si grattò la testa, pensieroso: «Hai due scelte: possiamo andare a fare colazione in un posto carino, rischiando di essere assaliti dai fans, oppure possiamo andare a casa mia e farcela portare. Io preferirei la seconda opzione…»
«Non verrò a letto con te.» precisai, come se sapessi dove voleva andare a parare.
«Ehm, ok… - rispose, confuso dalla mia risposta – Lo terrò a mente, anche se non era esattamente quello il mio piano.»  disse mettendosi a ridere.  Lo guardai divertita, senza riuscire a trattenere un sorriso: mi trovavo stranamente a mio agio con lui.
«Allora, che vuoi fare?» chiese, aspettando una mia risposta. Che volevo fare? Certo, mi faceva piacere passare del tempo con lui, anche se dovevo ancora capire il perché, ma non credevo di essere disposta ad affrontare una folla di ragazzine in calore: d’altronde, però, andare a casa sua non mi sembrava l’idea migliore.
Sbuffai: «Vada per casa tua.» decisi, chiedendomi quale strana forma di pazzia mi stesse affliggendo. Uno dei suoi sorrisi spontanei accolse la mia risposta con piacere.
«Ottima scelta! – esclamò, battendo un pugno sulla mano aperta - Seguimi.»
Gli obbedii, ritrovandomi poco dopo in un Suv nero tutt’altro che piccolo: «Non voglio che pensi che ti salterò addosso una volta a casa.» mi assicurò senza distogliere lo sguardo dalla strada. Osservai la linea del suo viso, costantemente rilassato e sereno: guidava senza alcuna difficoltà e i suoi occhi sembravano osservare qualsiasi dettaglio oltre il parabrezza. Non riuscivo ancora a capire come mi sentissi nei suoi confronti: mi divertiva molto il suo modo di fare e la sua spontaneità, per non parlare del suo aspetto fisico a dir poco invidiabile, ma ero convinta che fosse la curiosità ad avere la meglio. La curiosità di sapere se oltre quel costante sorriso ci fosse qualcosa di più.
«Tranquillo, saprei come difendermi.» gli assicurai, assumendo l’aria di chi la sa lunga.
In risposta ottenni un’altra risata: «Voi ragazze sapete sempre come difendervi, anche se poi ci vanno di mezzo i nostri gioielli di famiglia.»
«Non ci andrebbero di mezzo se voi sapeste comportarvi da gentiluomini.» precisai.
«Ah, siamo arrivati.» esordì, parcheggiando di fronte ad un complesso di appartamenti a dir poco lussuosi. Ci avevamo messo poco ad arrivare, quindi casa sua era vicina al mio posto di lavoro.
Prima che potessi scendere dalla macchina, lo vidi fare il giro dell’auto e venirmi ad aprire la portiera, sfoderando uno dei suoi sorrisi: «Stai cercando di proteggere i gioielli di famiglia?» lo provocai divertita, poggiando i piedi a terra.
«Forse. - rispose mettendosi a ridere - Vieni, ti faccio vedere casa. Non dovrebbe esserci nessuno.»
«Ah, non vivi da solo?» domandai guardandomi intorno. L’androne del palazzo aveva un pavimento in marmo bianco che contrastava con le parete grige: al centro sostavano due ascensori ultramoderni circondati da scale a chiocciola dello stesso marmo del pavimento. Una baracca, insomma.
«No: vivo con Harry, anche se gli altri stanno praticamente sempre da noi.» spiegò, avvicinandosi agli ascensori. Quando lo vidi chiamarli tramite un pulsate, storsi il viso in una smorfia. Lui mi guardò con fare interrogativo: «Che c’è?»
«Diciamo che gli ascensori non sono la mia passione.» confessai, accennando un sorriso di imbarazzo.
«Oh, scusa. – disse sorridendomi - Faremo le scale.»
«Grazie. – sussurrai, seguendolo per quelle immense scale - Dicevi che vivi con Harry: è quello riccio, non è vero?» chiesi ingenuamente. Louis si voltò di nuovo a guardarmi: sembrava cercare di capire se lo stessi prendendo in giro oppure no, così cercai di spiegargli come stavano le cose.
«Vedi, non sono una vostra fan. – provai a dire, accorgendomi subito dopo che così sembrava mi facessero schifo, - Voglio dire, non vi ho mai seguiti. Non che la vostra musica sia da buttare, il fatto è che non so nemmeno che musica facciate di preciso. Oh, dai, hai capito.” conclusi, imbronciandomi.
«Come?» fu il suo commento, mentre si fermava guardandomi con uno sguardo serio.
«È un problema?» chiesi confusa e un po’ a disagio sotto i suoi occhi così penetranti.
«Certo che è un problema! Che diavolo ti passa per la testa? Chiama un taxi e torna a casa.” rispose, riprendendo a salire le scale, ma senza di me. Per qualche secondo rimasi a fissarlo sbalordita da quella reazione, chiedendomi quale forma di pazzia lo affliggesse.
«Ma che cazzo…» commentai borbottando tra me e me, corrugando la fronte.
Poi Louis si fermò per voltarsi verso di me: mi guardò per un attimo negli occhi senza cambiare espressione, per poi scoppiare in un fragorosa risata, una di quelle che ti fanno venir voglia di ridere anche se non ne vedi un motivo.
Scese i gradini che ci separavano mentre io cercavo di capire cosa gli fosse preso e se fosse bipolare: quando la sua mano passò delicatamente sulla mia schiena per invitarmi a seguirlo, salutai i brividi che erano tornati a farmi visita.
«Sto scherzando, Vicki. – mi assicurò, cercando di placare la sua risata – Non è un reato non conoscerci.» esclamò, mentre ci avvicinavamo ad una porta in legno chiaro.
«Cavolo, dovevi vedere la tua faccia.»  sospirò con il suo tono di voce leggermente stridulo, mentre cercava la chiave la giusta.
«Tu sei pazzo.» fu il mio unico commento, accompagnato da un sorriso.
 
Quando la porta si aprì, non potei fare a meno di notare l’immenso salone in stile moderno: era indescrivibile con il suo camino al centro e i divani tutt’intorno; Louis continuava a parlare illustrandomi i vari angoli della casa, ma io avevo smesso di ascoltarlo, troppo concentrata a perdermi in ogni dettaglio dell’arredamento. Ero convinta che se avessero messo in vendita anche solo metà degli oggetti di quella stanza, sarebbero riusciti a sfamare buona parte dell’Africa.
«Ciao Louis!» esclamò una voce alle nostre spalle, dopo un rumore di chiavi nella serratura; smisi di osservare un vaso contorto su se stesso per voltarmi a guardare la ragazza che era appena entrata. Indossava un paio di pantaloncini non troppo aderenti e una camicetta a quadri rossi e bianchi che metteva in risalto il suo fisico minuto: gli occhi sembravano di ghiaccio, soprattutto se messi a confronto con il colore nero dei capelli che le sfioravano le spalle. La prima cosa che pensai quando la vidi fu: che figa.
Non mi sentivo molto a mio agio nel paragonare i miei semplici capelli castani troppo spenti e i miei occhi semplicemente scuri, con i suoi. E il mio fisico? Diciamo che le forme che rendevano il suo dannatamente armonico, sembravano odiare il mio.
«Abbie!» la salutò Louis andandole incontro.
«Non sapevamo che fossi a casa. – esclamò lei, sorridendogli - E non sapevamo che avessi ospiti.» continuò, non appena si accorse di me. Le sorrisi mentre si avvicinava con la mano tesa: «Abbie, piacere.»
«Victoria, piacere mio.» mi presentai, stringendo la sua mano bianca. Trasmetteva allegria anche solo a guardarla.
«Hei, amico!» esclamò Louis, attirando la mia attenzione. Dalla porta d’ingresso era entrato un ragazzo dalla pelle scura: riconoscevo i suoi tratti stranieri, perché più volte li avevo incrociati durante la festa della sera prima e perché era impossibile ignorarli nella Londra del 2013. Ero sicura che fosse uno degli One Direction, ma in quel momento non riuscivo proprio a ricordare quale fosse il suo nome. Mi limitavo ad osservare i suoi occhi scuri contornati da ciglia lunghe; le sue labbra carnose abbozzavano un sorriso mentre salutava il suo amico, e il suo fisico era avvolto da jeans strappati e una canottiera bianca. Mi chiedevo come facesse tanta bellezza a stare racchiusa in un solo corpo.
Appena incontrò il mio sguardo, però, il suo sorriso scomparve, facendo piombare sul suo viso un alone di serietà: sembrava scrutarmi ed osservarmi, proprio come avevo fatto io poco prima con l’arredamento del salotto.
«Malik, non essere il solito maleducato e vieni a presentarti. – lo esortò Abbie, facendogli segno di avvicinarsi - Questa è Victoria, un’amica di Louis. Victoria, lui è Zayn.»
Zayn, ecco come si chiamava. Mentre Louis mi guardava con sguardo di scuse, il moro era arrivato tanto vicino da permettermi di stringergli la mano: per smorzare la sua espressione fin troppo seria, accennai un sorriso, ma non feci che peggiorare le cose. I suoi occhi si spalancarono leggermente e la sua mano smise di stringere la mia, come in una reazione di ribrezzo: be’, piacere di averti conosciuto Mister Asociale.
Nonostante avesse reagito così, continuava a fissarmi negli occhi mettendomi quasi in soggezione, e io non ero una persona timida.
«Louis, non ti sarai dimenticato delle prove.» ci interruppe Abbie, avvicinandosi al castano.
«Cazzo, le prove.» imprecò lui, sbattendosi una mano sulla fronte. Io, per cercare di sfuggire allo sguardo indagatore di Zayn, avevo spostato il mio sugli altri due.
«Sei un disastro! – lo rimproverò la ragazza in tono scherzoso, - Dovrei farmi pagare per tutte le volte che vi faccio da balia. Sbrigati, iniziano tra mezz’ora. Io e Zayn siamo venuti a tirare giù dal letto Harry.»
«Harry? Ma stamattina non era a casa quando io sono uscito.» esclamò confuso.
«Non c’era perché ha fatto le ore piccole con Liam: poi è tornato ed è venuto a casa per dormire.» spiegò lei. Doveva essere molto legata a quei ragazzi se sapeva tutte quelle cose: ma che collegamento c’era tra di loro?
«Ci penso io a svegliarlo. – la informò Louis - Vicki, mi dispiace tanto: mi ero completamente dimenticato di avere le prove con la band questa mattina.» disse rivolgendosi a me. La sua espressione non era più allegra e spensierata, ma quasi colpevole e corrucciata.
«Oh, non preoccuparti.» lo rassicurai sorridendogli.
«Scusa davvero. – continuò, accarezzandomi un braccio - Se aspetti qualche minuto ti accompagno a casa: farò in fretta.»
«Tranquillo, abito qui vicino: fa’ con comodo.»
«Sei sicura?»
Annuii cercando di nascondere il leggero fastidio che provavo nel pensare che non avremmo fatto colazione insieme: per l’ennesima volta il mio modo di essere mi faceva saltare i nervi.
«Prometto che rimedierò.» sussurrò al mio orecchio, prima di lasciarmi un bacio sulla guancia e scomparire nel lungo corridoio. Stavo ancora pensando al contatto inaspettato che c’era stato quando Abbie parlò: «Se vuoi possiamo accompagnarti noi.» propose, guardandomi sorridente.
“No, per favore: tutto quello che voglio è allontanarmi da Zayn e dal suo sguardo.” pensai, mentre lo sentivo ancora su di me. Che problemi aveva?
Abbie gli si avvicinò e lui si mosse di conseguenza, come se i loro movimenti fossero coordinati: «Grazie, ma non ce n’è bisogno.» esclamai, stringendomi nelle spalle. Per un istante incrociai lo sguardo di Zayn e mi sembrò di perdermi nel marrone nocciola di quelle iridi: possibile che fossero così penetranti, così insistenti? Mi infastidiva il modo in cui mi fissava: non ne capivo il motivo e lo trovavo davvero strano. Così decisi di prendere in mano la situazione: «Zayn, giusto?» chiesi, alzando un sopracciglio.
Sembrò stupirsi di esser stato interpellato, ma io ero curiosa di sentire la sua voce e di sapere cosa avesse tanto da guardare.
Non si mosse, né rispose, così io continuai: «Sai che è da maleducati fissare le persone?» domandai.
«Victoria, giusto? – ribatté lui, senza mutare espressione e permettendomi di sentire per la prima volta la sua voce calda – Non credi di poter dire che ti sto fissando solo perché tu stai facendo altrettanto?»
Asociale, maleducato e anche presuntuoso: ma chi diavolo si credeva di essere?
«Oh, scusalo, Victoria. – ci interruppe Abbie, notando la tensione tra di noi, - È solo un po’ stanco a causa dei vari impegni.»
«Sì, immagino.» borbottai, tornando a guardarlo negli occhi. La mano della ragazza si era poggiata sull’avambraccio di Zayn, sfiorandolo appena, ma quel contatto sembrò riscuoterlo: la sua espressione si rilassò all’istante, mentre i pugni, che erano rimasti serrati dal momento in cui ci eravamo presentati, si erano sciolti. Era come se quei due avessero un collegamento più intimo: che stessero insieme?
«È meglio che vada. – dissi, impaziente di uscire da quella casa - Piacere di averti conosciuto, Abbie. Zayn.»
«Ciao, e scusa per l’interruzione.» mi salutò Abbie sorridendomi.
Senza aspettare un saluto da parte di Zayn, che nemmeno arrivò, uscii fuori dall’appartamento: per sfuggire a quel ragazzo il più velocemente possibile sarei persino stata disposta a prendere l’ascensore.
 
Con una giornata libera davanti e nessun programma in mente, mi ritrovai seduta in un parco a cercare qualcosa da fare. Per prima cosa mandai un messaggio a Stephanie: “Steph, scusa se non ti ho detto niente: il capo mi ha dato la giornata libera e devo assolutamente raccontarti cosa mi è successo. Ti chiamo stasera.”
Poi ne mandai un altro a Brian: “Hey rompipalle: ho la giornata libera. Pranziamo insieme?”
Posai il telefono sulle mie gambe in attesa di una risposta da uno dei due, ma mentre aspettavo non pensavo a Louis e alla sua gentilezza, o al brivido che avevo percepito quando aveva sussurrato quelle poche parole al mio orecchio: pensavo alla faccia da culo di Zayn e a dieci modi per rovinarlo.







 


 

 Buoooooooooooooongiorno :D Il solo splende, sono iniziate le vacanze, è l’una e mezza e io non mi sono ancora alzata dal letto YEEEAH!
Come state bellezze? Avete programmi per pasquetta? :)
Mmh, passiamo al capitolo eheheh: innanzitutto ci saranno altri incarichi per gli One Direction, quindi chissà che non ci sia  un’altra occasione per Vicki di incontrarli? c:
Poooi: Louis le fa una piccola sopresa e i due scherzano un po’. Scrivere di lui mi è venuto relativamente semplice, anche se il suo personaggio non è lo molto: ed è così che lo immagino, sostanzialmente, uno a cui piace molto scherzare, ma poi lo conoscerete meglio :) Mi dispiace solo che di Vicki non si scopra ancora quasi nulla, se non si tiene conto dell’accenno ai suoi genitori e al suo “modo d’essere”.
Ah, non si può non parlare dell’entrata in scena di Abbie e Zayn fdsajlkdfa Le lettrici di Unexpected sanno già chi loro siano, ma vorrei sapere cosa ne pensano del loro rapporto ora! Voglio dire, Vicki arriva persino a pensare che stiano insieme :) 
Vorrei le vostre ipotesi, anche sull’astio tra Zayn e Vicki, eheheh :) Dalle recensioni ho capito che gran parte di voi conferisce a Louis un ruolo marginale, un semplice mezzo per far conoscere a Vicki tutti gli altri: chissà, chissà, non ne siate così sicure :)
 
È il momento dei ringraziamenti dfjkal
52 recensioni per soli due capitoli: sapete che di questo passo io avrò un infarto, morirò e voi non potrete più sapere come finirà la storia? hahaha No, davvero: è impressionante! Ma sono felicissima che la storia vi piaccia! Anche se fino ad ora non è successo nulla di che, insomma, la trama deve ancora entrare nel vivo! Infatti volevo scusarmi per questi capitoli “di passaggio”, ma vi prometto che si arriverà al dunque abbastanza presto :)
Be’, continuate a lasciarmi le vostre opinioni, perché sapete che ne ho bisogno!
Grazie ancora di tutto jdfksal
 
Ah, su Twitter sono
@itstarwen_ e su facebook questo è il mio profilo!
 
Solita gif di Louis/Zayn e vi saluto!
Ciao dolcezze (buona Pasqua in anticipo :))

 

  

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** I don't want you here ***




I don't want you here

Capitolo 3


 

«Vic! Pensi di poter tornare tra noi o devo prenderti a schiaffi?» domandò la voce pacata di Stephanie, mentre lei avanzava sbadigliando verso la mia scrivania.
Mi raddrizzai sulla sedia, stiracchiandomi appena: «Che vuoi?» chiesi, corrugando la fronte. Aveva interrotto il mio stato di letargo e non era affatto piacevole.
«Inizio a preoccuparmi seriamente per te.» annunciò, prendendo una sedia e sedendosi al contrario, per poi appoggiare le braccia sullo schienale.
«E perché dovresti preoccuparti, sentiamo?»
«Mi prendi in giro? Stai diventando una specie di vegetale e di questo passo dovremo passarti da mangiare con una flebo.»
Alzai gli occhi al cielo: «Sei sempre la solita esagerata. – la rimproverai - Ho solo un po’ di cose per la testa.»
«Sono sicura che l’unica cosa che hai per la testa si chiama Louis Tomlinson.» mi assicurò alzando un sopracciglio, come se si aspettasse che le dessi ragione. E infatti aveva ragione, almeno in parte: era passata una settimana da quando Louis mi aveva invitato a fare colazione a casa sua, una settimana in cui non l’avevo sentito né visto. Certo, lo conoscevo appena, e in tutta sincerità non sapevo nemmeno il perché dell’improvvisa nostalgia che sentivo. Volevo semplicemente rivedere il suo sorriso e magari scherzare con lui ancora una volta, quindi il fatto che fosse sparito mi dava sui nervi.  
«Ti sbagli, invece. – le assicurai - La cena di stasera con i miei è quello che mi preoccupa di più.» spiegai, abbandonando di nuovo la testa sulla scrivania. Ero riuscita ad evitare i miei genitori per una settimana intera, ovvero da quando Brian era tornato, ma ormai avevo esaurito le scuse: era giunto il momento di affrontare le persone più esigenti ed impiccione sulla faccia della terra. Carly e David Tomphson, signore e signori.
Stephanie spalancò gli occhi: «In effetti è un bel problema.» mormorò, storcendo le labbra in un’espressione pensierosa.
«Oh non disturbarti, non ho bisogno di un po’ di incoraggiamento.» ironizzai, alzando una mano in segno di nonchalance.
«Però di’ la verità: c’entra anche Tomlinson.» continuò, senza badare al mio commento. A quelle parole alzai la testa di scatto, fissando i suoi occhi verdi: «Sì, ok? – ammisi dopo qualche secondo, esasperata, - C’entra anche Louis. Non si è più fatto vivo e sto cercando di capire perché.»
«Ah, lo sapevo! – esultò Steph - Anche se avrei preferito sbagliarmi. So già che cosa ti sta succedendo e non è affatto una buona cosa, soprattutto perché c’entra uno come lui.E poi perché ti preoccupi tanto per quello lì? Jackson, il ragazzo delle consegne, è molto più carino e di sicuro più alla tua portata.» Eccola, la solita ramanzina, quella che non mi ha mai salvata dall’affezionarmi ad una persona: la mia amica sapeva benissimo che bastava poco per farmi crollare ai piedi di qualcuno, ed evidentemente aveva capito senza troppi sforzi che anche in quel caso mi stavo lasciando trasportare un po’ troppo. Il fatto era che non lo facevo di proposito, anzi, se avessi potuto l’avrei evitato: potevo affermare con sicurezza che il mio inconscio fosse genuinamente masochista. Decisi comunque di lasciare perdere quel tasto dolente.
«Ma se dici sempre che Jackson sembra un topo? E cosa significa che sarebbe più alla mia portata? Non credi che un ragazzo come Louis possa…»
«Andiamo Vic, sai benissimo cosa intendevo dire. – mi interruppe - È di Louis Tomlinson che stiamo parlando, non un ragazzo qualsiasi: persino io, che non voglio avere niente a che fare con quella boy band, so che ha milioni di ragazze tra cui destreggiarsi. Non c’è da meravigliarsi se non richiama tutte quelle su cui mette gli occhi. Non pensi che sia più semplice per te trovarne un altro?»
Mugugnai qualcosa, tornando ad appoggiare la testa sulla scrivania: per quanto volessi il contrario, le parole della mia amica erano la pura verità. Io non nutrivo false speranze: sapevo benissimo che Louis non avrebbe baciato la terra su cui camminavo, ma non riuscivo a scacciare quel blando dispiacere che provavo nel pensare che fosse scomparso così.
«Se vuoi mi faccio dare il numero di Jackson.» propose Stephanie.
«Non hai del lavoro da sbrigare?» domandai retorica, pregando che mi lasciasse in pace.
«E va bene, va bene: ci vediamo dopo.» si congedò, scompigliandomi i capelli.
«Ti odio.» borbottai, mentre usciva dal minuscolo ufficio. Per fortuna era troppo piccolo per ospitare più di una scrivania, o sarei stata costretta a dividerlo con qualcun altro: mi piaceva averlo tutto per me, soprattutto perché potevo sfogare la mia frustrazione se la cena con i miei era imminente o se Louis Tomlinson spariva dalla circolazione.
Mi guardai intorno decisa a non demoralizzarmi e a riprendere in mano la mia esistenza: avrei dovuto occuparmi della festa di una famiglia dell’alta società per il compleanno della figlioletta viziata, che voleva tutto a base di pesce e i camerieri con almeno un particolare rosa. Solo al pensiero mi veniva il voltastomaco: odiavo il pesce, per non parlare della pessima scelta di colori.
Prima che potessi aprire il fascicolo, però, la porta si spalancò: «Che c’è, hai recuperato il numero di Jackson?» scherzai, appena vidi Stephanie in piedi sulla soglia.
«Spiritosa! – rispose, facendomi una smorfia  - Allison mi ha detto di dirti che c’è una chiamata per te.»
«Arrivo.» borbottai, quasi sollevata di dover rimandare quel piccolo lavoro.
Mi alzai e uscii dalla stanza, mentre Steph si allontanava nel corridoio. Allison, la spocchiosa segretaria ultracentenaria, stava armeggiando con il suo computer, mentre la cornetta del telefono giaceva sulla scrivania.
«Pronto?»
«Vicki, ciao. - mi salutò una voce – Sono Louis, Louis Tomlinson.” continuò, facendomi spalancare gli occhi. «Louis? – chiesi, stupita, con un tono di voce leggermente più alto del normale - Ehm, Louis, ciao.» mi corressi, cercando di contenermi, mentre Allison mi guardava sospettosa con i suoi occhietti marroni. Sostenni il suo sguardo per poi farle una smorfia, appena si voltò con aria sprezzante.
«Tutto bene? Scusa se non ti ho più cercata dopo quella volta, ma sono stato un po’ impegnato con la band e…»
«Oh, non preoccuparti, anche io sono stata molto impegnata.» lo interruppi mentendo. In realtà mi piaceva il fatto che si stesse scusando e mi piaceva ancora di più il fatto che mi avesse chiamata.
«Mi concedi una possibilità per farmi perdonare?» esclamò, facendomi sorridere.
«Cosa proponi questa volta?» Era già il terzo invito ad uscire e non eravamo ancora riusciti a passare un’intera ora insieme.
«Io e i ragazzi abbiamo organizzato una festa per stasera: è il compleanno di Abbie, te la ricordi? E vorremmo farle una sorpresa. Mi farebbe piacere se venissi anche tu; senza contare che un’esperta di catering potrebbe darci qualche dritta.»
«Sii sincero: mi hai invitata solo per le mie doti organizzative.» scherzai, più che felice di quell’invito.
«Be’, in effetti non hai tutti i torti.» fu la sua risposta, seguita da una leggera risata divertita.
«Ah, è così, eh?» stetti al gioco, mordendomi un labbro per soffocare un sorriso.
«Allora, ci stai?» chiese, mentre potevo sentire la sua risata affievolirsi. Cominciai ad arrotolare il filo del telefono intorno alle mie dita e «Dove sarà la festa?» ribattei, accettando implicitamente il suo invito.
«A casa di Zayn, ma non preoccuparti: passo a prenderti io per le otto, se per te non è un problema.»
Da brava figliola avrei dovuto declinare l’invito e andare alla cena con i miei, ma avevo finalmente trovato una scusa per non presentarmi e non potevo certo sprecarla: poco importava che la festa  fosse a casa di Zayn, preferivo mille volte lui alle domande insistenti sul mio futuro incerto da parte dei miei genitori.
«No, va benissimo. A stasera, allora.» lo salutai, già impaziente.
«Ehm, Vicki?» mi richiamò.
«Sì?»
«Mi dai il tuo indirizzo o devo tirare ad indovinare?» domandò, mentre potevo distinguere la sua risata. Alzai gli occhi al cielo, dandomi della stupida da sola.
 
«Sai che si incazzeranno, vero?» domandò Brian infilandosi la giacca.
«Sai che non mi interessa, vero?» ribattei, comodamente sdraiata sul divano.
«Dovresti almeno provare ad accontentarli qualche volta.»
«Ma tu non eri in ritardo?» chiesi retorica, decisa a non affrontare quell’argomento. Mio fratello sbuffò e uscì di casa dopo avermi rivolto un cenno del capo in segno di saluto. Scossi la testa, decisamente stanca di tutta quella storia, e guardai l’ora: erano le sette e io dovevo assolutamente sbrigarmi se non volevo fare tardi.
Se non avessi tenuto ad esser puntuale, sarei potuta rimanere a mollo nella vasca da bagno per ancora due ore: ma il dovere mi chiamava e sapevo che avrei dovuto dedicare la maggior parte del tempo solo ai i miei capelli. Avevano il vizio di contraddirmi sempre: quando li volevo lisci sulla schiena si ostinavano ad arricciarsi in punta, quando li volevo mossi, non bastavano nemmeno i bigodini della nonna.
Dopo esattamente quindici minuti piantata di fronte all’armadio spalancato, avevo deciso di scegliere qualcosa di informale: un paio di pantaloncini di jeans e un top azzurro che lasciava la schiena coperta, sarebbero andati più che bene per una festa in casa, o almeno speravo. In realtà, dietro la scelta della maglia, c’era il malcelato desiderio di sentire la mano di Louis a contatto diretto con la mia schiena, sicura che anche quella sera avrebbe compiuto quel gesto abitudinario.
Afferrai le ballerine bianche da sotto il letto e andai in bagno, dove la lotta con i capelli aveva inizio: avrei sfidato qualsiasi parrucchiere a dare una sistemata a quel groviglio che mi ritrovavo in testa, ma sapevo che chiunque ci avesse provato avrebbe perso la battaglia. Alla fine, stanca e troppo impaziente per occuparmi di loro, li lasciai sciolti sulle spalle in una via di mezzo tra il liscio e il mosso che di sicuro non era opera mia.
Alle 7.51 ero pronta: appoggiata allo schienale del divano, tamburellavo con le dita di una mano sulla stoffa rossa e con un piede battevo nervosamente a terra.
 
I minuti passavano ma di Louis non c’era traccia: non credevo che mi avrebbe dato buca, o forse lo speravo, ma quell’attesa era snervante.
“Buon divertimento per stasera, e ricorda: se proprio vuoi darti alla pazza gioia non sarò io a impedirtelo, ma non farmi diventare zia prima che mi siano spuntate le rughe.” era stato il messaggio di Stephanie qualche minuto prima. Ed era quello che stavo rileggendo quando il rumore di un clacson fuori casa attirò la mia attenzione.
«Cazzo. – imprecai, senza nemmeno un vero motivo - Ok, calma Vicki.» mi ripetei, sospirando davanti alla porta d’ingresso. Avevo aspettato per più di mezz’ora il suo arrivo, ma stranamente non ero ancora pronta psicologicamente.
Uscii fuori, imbattendomi in una leggera brezza estiva che mi fece rabbrividire: Louis era appoggiato alla macchina con le braccia incrociate e le labbra incurvate in un sorriso. Indossava un pantalone nero che arrivava alle caviglie e una t-shirt grigia molto semplice. Più volte durante quella settimana mi ero ritrovata a desiderare di rivedere i denti bianchi lasciati scoperti da un sorriso e in quel momento potevo finalmente godere di nuovo di quello spettacolo.
«Hey.» lo salutai avvicinandomi.
«Hey. - ripeté, baciandomi una guancia - Scusa per il ritardo, ma quello stupido navigatore mi ha abbandonato a metà strada.» si scusò, aprendo lo sportello per farmi entrare.
«Hai notato che ogni volta che ci vediamo mi chiedi scusa per qualcosa?» feci caso, sedendomi sul sedile del passeggero. Lui rimase qualche secondo affacciato all’abitacolo: «Sono un disastro, lo so. -  ammise, scuotendo la testa in maniera divertita - Scusa anche per questo.»
«La smetti di scusarti?» lo ripresi, mettendomi a ridere. Mi imitò, chiudendo la portiera e salendo al posto del guidatore.
«Tieniti forte!» mi ammonì, spingendo il piede sull’acceleratore. Spalancai gli occhi quando partì sgommando e, senza pensarci due volte, mi strinsi al sedile come in un riflesso spontaneo: «Non metto in dubbio le tue capacità di guida, ma vorrei almeno fare gli auguri ad Abbie.» scherzai, mentre lui si divertiva a sfrecciare nel traffico londinese. Un’altra sua risata e la macchina rallentò.
Mi accorsi di non essere poi così pronta a quella serata: non ero solita farmi troppi problemi quando si trattava di conoscere nuove persone o uscire con un ragazzo, ma probabilmente era perché non ero mai uscita con qualcuno come Louis. La sua spontaneità e la sua tranquillità mi confortavano, in un certo senso, ma allo stesso tempo c’era qualcos’altro in lui che mi rendeva nervosa.
Il viaggio in macchina comunque non durò molto, tra le sue domanda e le mie risposte: per qualche strano motivo, nonostante non fosse la prima volta che rimanevamo da soli, non trovavo niente da dire, facendo cadere spesso la conversazione in un silenzio imbarazzante. Ringraziai il cielo quando accostò davanti ad un palazzo quasi al centro di Londra.
«Ti avverto. – esclamò, appena gli fui affianco sul marciapiede - I ragazzi sono un po’ movimentati, ma in fondo sono innocui.»
Mi misi a ridere e lo seguii all’interno del palazzo: «Ti farò sapere cosa ne penso.» gli assicurai, reprimendo la voglia di insultare Zayn.
«Così… Abbie è una vostra grande amica?» chiesi, curiosa di saperne di più su tutti loro. Mi chiesi perché non mi fossi ancora informata: era degli One Direction che stavamo parlando e potevo scommettere mille sterline che su Internet avrei trovato anche quanti peli avevano. Forse era la mia repulsione per qualsiasi forma di pettegolezzo e gossip ad avermi  trattenuta dal fare delle ricerche.
«Oh, sì. – rispose lui, fermandosi di fronte ad una porta per suonare il campanello - Ci conosciamo da quasi due anni, ormai.» spiegò, abbozzando un sorriso. Non feci in tempo a ribattere, che la porta si aprì: Zayn comparve in tutta la sua perfezione e in tutta la sua serietà, con indosso un pantalone beige e una maglietta bianca. Dopo avermi rivolto una veloce occhiata, si concentrò sull’amico, lasciandosi sfuggire un sorriso: era il contrario di Louis. Mi chiedevo perché non sorridesse quasi mai.
«Non è ancora arrivata, vero?» chiese Louis in tono preoccupato, riferendosi ad Abbie.
Il moro aprì ancora un po’ la porta, facendosi da parte per lasciarci passare: «Dovrebbe essere qui tra una decina di minuti: Liam la sta distraendo.» spiegò.
«Giusto in tempo allora.» esclamò il mio accompagnatore, soddisfatto, guidandomi dentro casa con la sua mano sulla mia schiena. Mi beavo di quel contatto, nonostante le sue dita fossero un po’ più fredde di quanto sperassi.
Camminammo lungo un piccolo corridoio, tragitto in cui potevo percepire gli occhi di Zayn trapassarmi la nuca con insistenza, e arrivammo ad un salotto non molto grande, dove una ventina di persone si affollavano tra i divani e il tavolo, che era stato allestito con cibo e bevande: «Harry, Niall!» chiamò Louis.
Due ragazzi si voltarono verso di noi, per poi sorridere e raggiungerci.
Il più alto dei due, con i capelli ricci lasciati disordinati sulla fronte, doveva essere Harry: quando fu abbastanza vicino potei distinguere i suoi occhi verdi e mi ritrovai a paragonarli a quelli di Stephanie. Non c’era confronto: i suoi erano decisamente più… più… più tutto.
«Harry, piacere.» si presentò, stringendo la mia mano nella sua, fin troppo grande.
«Victoria, piacere mio.» mormorai, incantata dai suoi lineamenti e dalle labbra rosee che in quel momento mi stavano regalando un sorriso giocoso.
«Lou, non ci avevi detto che avresti portato qualcuno.» esclamò l’altro ragazzo, Niall. Anche lui si presentò, sorridendomi con una simpatia mai vista prima: gli occhi azzurri luccicavano ad ogni suo movimento, e potevo dire di aver trovato qualcuno che emanasse più allegria di Louis.
«Ragazzi, tutti ai vostri posti! Stanno arrivando!” urlò Zayn, lasciando intravedere un briciolo di entusiasmo. Io non capii subito quello che volesse dire, ma in men che non si dica mi ritrovai nascosta dietro ad un mobile con Louis a pochi centimetri da me. Eravamo faccia a faccia, mentre la musica veniva spenta e le persone correvano a trovarsi un nascondiglio. Mi stavo inebriando del suo profumo e dovevo concentrarmi per non chiudere gli occhi e inspirare profondamente, come se fosse la fragranza più dolce al mondo.
Ci guardammo per qualche secondo, senza fiatare e senza muoverci: nessuno dei due sembrava dispiacersi per quella vicinanza eccessiva. Poi lui sorrise, come al suo solito, e io quasi cedetti nell’osservare la linea della sua mascella e gli occhi che si riducevano a due fessure luminose. Ci pensò la voce di Abbie a distrarmi, perché subito dopo eravamo usciti dai nostri nascondigli per farle gli auguri, mentre lei ci guardava incredula ed emozionata.
«Io… non ho parole.» balbettò, ridendo per la sorpresa. Si voltò verso Zayn e, per la prima volta, vidi quel ragazzo sorridere davvero: sorrise sinceramente prima di stringerla in un caloroso abbraccio, facendola quasi scomparire tra le sue braccia.
«Tanti auguri, Pitbull.» lo sentii dire, intensificando la presa su di lei. Abbie, in tutta risposta, cercò di tirargli un pugno ridendo, ma la sua posizione non glielo consentiva. Poi Zayn la liberò e lei non esitò a fare quello che prima le era stato impossibile, suscitando le risate di tutti.
C’era qualcosa di strano nel modo in cui quei due si guardavano: la mia prima impressione era stata quella di avere di fronte due piccioncini, ma non facevano niente di eclatante che me ne desse la conferma. Eppure Zayn riservava a quella ragazza minuta i sorrisi che non gli vedevo fare agli altri e lei, dal canto suo, si muoveva intorno a lui come se ne fosse dipendente.
«Di’ un po’. – sussurrai all’orecchio di Louis, rimasto al mio fianco, - Quei due stanno insieme?» chiesi indicandoli con un cenno del capo, decisa a scoprire un po’ di più sul loro rapporto.
Il castano mi guardò un po’ confuso e dopo aver gettato un’occhiata ad Abbie, sommersa da altri abbracci ed auguri, mi rispose: «Zayn ed Abbie? No, no. Assolutamente no.-  ribadì divertito, sorseggiando un bicchiere di birra, - Cosa te lo fa pensare?»
«Be’…» balbettai, continuando a guardare il moro, che non sembrava volersi allontanare da lei di più di mezzo metro. «Non lo so, in realtà.» risposi, volendo evitare di sottoporgli i miei stupidi dubbi.
«Loro… - cominciò, fermandosi subito dopo come per pensare a cosa dire, - Diciamo che sono molto legati, più di quanto noi possiamo immaginare.» spiegò velocemente, fissandoli quasi con dolcezza. In che modo poteva essere possibile qualcosa del genere? Il mio spirito curioso ribolliva per l’impazienza.
«Tommo, non mi presenti?» chiese un ragazzo dagli occhi nocciola, sbucato da chissà dove. Le varie foto sparse per Londra degli One Direction mi garantivano che anche lui facesse parte della band.
«Liam, amico! – lo salutò Louis, dandogli una pacca amichevole sulla spalla, - Lei è Vicki: era a capo del catering durante la serata di beneficenza.» spiegò, mentre l’amico mi porgeva una mano.
«Piacere.» esclamai, ricambiando il sorriso gentile che mi aveva rivolto.
«Ah, sì: Louis mi aveva parlato di te. – raccontò, rivolgendogli uno sguardo complice - È un piacere poterti finalmente incontrare.»
«Ragazzi! Non so davvero come ringraziarvi!» esordì la voce di Abbie, distogliendo la mia attenzione dalle parole di Liam. Si era avvicinata a noi con tutta la sua bellezza e la sua allegria, abbracciando i due amici calorosamente: «Victoria! Grazie anche a te! È stata una bellissima sorpresa.» continuò, abbracciando anche me, mentre le rivolgevo i miei auguri.
«Se questo qui ti tratta male non esitare a dirmelo.» si raccomandò, riferendosi a Louis e puntandogli contro un dito.
«Lo farò di sicuro.» le assicurai sorridendole. Prima che potessimo dire altro, però, Niall ed Harry ci avevano raggiunti per farle gli auguri, e Louis mi stava trascinando via da quel gruppetto. Non avevo fatto caso alla sua mano nella mia, ma me ne accorsi quando ci ritrovammo davanti ad altri amici della festeggiata e della band, ai quali Louis mi stava presentando. Mi concentrai per pochi secondi sulla linea delle sue labbra sottili, che si muovevano secondo le sue parole, e accennai un sorriso spontaneo prima di spostare la mia attenzione sul gruppo di persone intorno a me.
 
«Avanti, Vicki!»
«Liam, non vorrai farti stracciare così facilmente!»
«Credevo fossi tu uno dei cantanti più famosi al mondo!»
Erano questi i cori da stadio che regnavano in casa Malik mentre io e Liam Payne ci sfidavamo al karaoke.
La festa era iniziata da un po’ di tempo e subito ero stata messa a mio agio, soprattutto dai ragazzi, che si erano rivelati esseri umani e non solo persone estremamente famose con la puzza sotto al naso.
Era un paradosso il fatto che io stessi effettivamente vincendo contro quel ragazzo, dato che non ero la persona più intonata che si potesse incontrare, ma stava succedendo e non potevo nascondere una certa soddisfazione. Sapevo benissimo che l’avermi lasciata scegliere la canzone era un modo per venirmi incontro, così come lo erano i suoi acuti resi stonati di proposito, ma non mi lamentavo.
Quando la canzone finì, si elevarono urla di approvazione e prese in giro, mentre io ridevo divertita per quella situazione: «Sono più che sicura che tu mi abbia lasciato vincere.» ammisi, rivolgendomi a Liam.
Lui mi guardò con i suoi occhi ricolmi di tenerezza e mi sorrise facendomi un occhiolino, che non era altro che una conferma della mia convinzione.
«Hey, dovrei forse temere per la mia carriera?» fu il commento di Louis, non appena mi ritrovò al suo fianco seduta sul bracciolo del divano. I suoi occhi erano un po’ più lucidi a causa della birra che stava bevendo velocemente, ma il suo sorriso era rimasto immutato dall’inizio della serata. Dopo un paio d’ore passate con lui, mi ero resa conto di quanto mi facesse ridere: ma non era un semplice divertirsi per una stupida battuta, era un vero e proprio ridere in modo spensierato, come se tutto quello che mi circondava non esistesse più. Non avevo mai sperimentato una sensazione del genere, né mi ero mai sentita così tranquilla in compagnia di un ragazzo appena conosciuto. Eppure Louis era così: mi girava intorno come se mi conoscesse da anni, sempre intento a farmi divertire con qualche scherzo o con qualche aneddoto tratto dai suoi impegni in giro per il mondo. Sorrideva e io non potevo che sorridere a mia volta, come se il mio corpo fosse programmato per farlo spontaneamente.
«No, la tua carriera è al sicuro. Liam mi ha palesemente lasciato vincere.» borbottai, incrociando le braccia al petto.
«Liam è sempre stato troppo buono. Se ci fossi stato io al suo posto, non avrei fatto la stessa cosa.» ammise, alzando le spalle e lasciandosi andare ad una leggera risata.
Spalancai gli occhi e mi mossi per regalargli una gomitata scherzosa nel fianco: «Dov’è finita la galanteria?»
«Hey, ho una reputazione da difendere. - fu la sua risposta, - Infatti ora vado a ricordare al mio caro amico Payne chi è il migliore tra noi due.» continuò, lasciando la bottiglia di birra a terra per poi alzarsi dal divano.
«Sappi che non tiferò per te.» lo informai, alzando un sopracciglio.
«E tu sappi che vincerò per te.» esclamò facendomi un occhiolino prima di raggiungere Liam e iniziare un’altra sfida.
Con ancora un sorriso ebete stampato in volto, mi guardai per qualche secondo intorno, stringendomi nelle spalle, e sentii la gola bruciarmi per la sete: l’idea di avvicinarmi alla birra di Louis mi dava il voltastomaco, dato che odiavo l’alcool, così mi alzai per andare alla ricerca di qualcosa di mio gradimento. In giro, però, non c’era traccia di bevande analcoliche.
Sbuffai mentre mi dirigevo verso la cucina per recuperare almeno dell’acqua: quando entrai nella stanza, il lavandino sembrava essere un miraggio, data la sete che mi stava divorando, quindi mi ci precipitai vicino senza taste storie. Raccolsi un bicchiere di plastica dal ripiano lì accanto e lasciai che l’acqua fresca portasse a nuova vita la mia gola.
Un rumore improvviso alle mie spalle, però, mi fece spaventare: sobbalzai portandomi una mano al petto e mi voltai per capire chi ci fosse.
Davanti a me, dall’altra parte della stanza e appoggiato ad un ripiano, Zayn mi stava fissando con la sua solita espressione fin troppo seria: le sue sopracciglia scure formavano un cipiglio a causa del nervosismo che i suoi occhi esprimevano mentre erano fissi su di me. La sua mano destra stringeva tra le mani una lattina di RedBul e l’altra era nascosta in una tasca dei pantaloni.
«Zayn… - mormorai per la sorpresa - Mi hai fatto spaventare.»
Sospirai, tranquillizzandomi dopo lo spavento preso, e mi chiesi come avessi fatto a non accorgermi della sua assenza durante la sfida di karaoke e della sua presenza  in quella stanza. Anzi, sapevo bene perché: la verità era che quando lui non c’era io stavo molto meglio, tanto da sentirmi libera dal suo sguardo impertinente e quindi da dimenticarmi di lui.
Non ero ancora riuscita a capire cosa lo spingesse ad odiarmi in quel modo, ma una parte di me era decisa a fargli cambiare idea.
«Come mai non sei di là con tutti gli altri?» provai a chiedere, cercando qualcosa di cui parlare.
Lui serrò la mascella: «Non mi piace il karaoke.» fu la sua risposta, caratterizzata da un tono di voce duro e quasi riluttante.
«Strano che ad un cantante non piaccia il karaoke.» sorrisi, pensando a quanto fosse paradossale la cosa. In realtà il mio sorriso era più che altro dettato dal nervosismo, dato che Zayn non accennava ad ammorbidire il suo modo di porsi nei miei confronti.
«Che ne sai di cosa è strano se nemmeno mi conosci?» disse duramente dopo qualche secondo, assottigliando gli occhi a due fessure.
Corrugai la fronte, stupita da quella risposta così poco amichevole, e lentamente iniziai a perdere anche la voglia di intrattenere un rapporto quantomeno civile con lui.
«Be’, tu dovresti essere un esperto in questo, dato che mi odi, praticamente, senza sapere niente di me.» ribattei, tirando fuori un po’ del mio lato difensivo. Come poteva dire una cosa del genere quando lui era il primo a giudicare senza conoscere? E poi non mi sembrava di aver detto qualcosa di male.
Zayn non disse altro, limitandosi a guardarmi con quella che poteva sembrare rabbia ma che si avvicinava molto al disprezzo: sospirai profondamente prima di muovermi e incamminarmi verso l’uscita per allontanarmi da lui.
«Fa’ come ti pare. – borbottai – Non ho voglia di cercare di entrare nelle tue grazie.»
Un rumore metallico seguito dalla stretta improvvisa di una mano intorno al mio polso mi fece sobbalzare, facendomi fermare e voltare alla mia sinistra: il moro mi stava di fronte, guardandomi dall’alto con il respiro leggermente accelerato, ad una vicinanza quasi soffocante. La lattina non era più tra le sue mani e i miei occhi spalancati e sorpresi scrutavano il suo volto in ogni suo particolare, intimoriti dal suo sguardo intenso e scuro come la pece. Cosa aveva in mente?
Per qualche secondo i nostri visi rimasero a qualche centimetro di distanza, mentre io restavo immobile con la sua mano serrata intorno al mio polso e il suo profumo nelle narici. Mi dava alla testa: era più forte di quello di Louis, più deciso e decisamente troppo influente sul mio corpo, che sembrava esserne stregato.
Fui allontanata da quella fugace sensazione quando Zayn sembrò riscuotersi per parlare, avvicinandosi al mio orecchio: «Voglio che sia chiara una cosa: io non ti voglio qui. – disse a denti stretti, respirando profondamente, - Non ti voglio in casa mia, non voglio averti intorno né vederti con i miei amici mentre ti comporti come se fossi una di noi. Quindi fammi un favore, sparisci. E stai tranquilla, puoi smettere di sforzarti, perché non entrerai mai nelle mie grazie.»
Strattonò il mio braccio e sciolse la stretta sul mio polso per allontanarsi da me e uscire velocemente dalla cucina senza degnarmi di un altro sguardo. Io rimasi lì, in piedi nel mezzo della stanza, con ancora le sue parole nella testa, chiedendomi cosa avessi fatto di male per meritarmi un trattamento del genere.
Aveva pronunciato quelle parole con una tale rabbia e una tale insolenza da farmi quasi sentire colpevole per qualcosa che non sapevo nemmeno di aver fatto. E il suo sguardo… Cavolo, sembrava stesse scrutando il suo peggior nemico.
Mi portai una mano al polso, massaggiando la parte di pelle che fino a poco prima era stata coperta dalla sua, e mi chiesi per l’ennesima volta cosa passasse per la testa di quel ragazzo: che fosse così possessivo da odiare qualsiasi persona si avvicinasse ai suoi amici? Se anche fosse stato quello il problema, mi sembrava eccessivo il suo comportamento: doveva esserci qualcos’altro, ma sinceramente non era più mia intenzione scoprirlo.
Il fastidio che avevo provato nel sentirlo muoversi attorno a me come se fossi una strana e disgustosa creatura aliena era stato rimpiazzato da altro: dal timore che i suoi occhi scuri mi incutevano, dalla sensazione di soffocamento che la sua vicinanza mi provocava, e dalla rassegnazione.
Decisa a tornare il prima possibile a casa, a costo di dover inventare una patetica scusa, mi mossi per fiondarmi in salotto. Speravo che Louis sarebbe riuscito a farmi dimenticare la rabbia che ribolliva in ogni cellula del mio corpo, che il suo solito sorriso mi avrebbe tranquillizzata e che i suoi occhi sarebbero riusciti a scacciare quelli furiosi di Zayn dalla mia mente.






 




Heeeello theeeeeeere! Scusate il ritardo: più avanti vi spiego che cosa mi è successo/sta succedendo :)
Parliamo prima di questa m***a di capitolo! (Mi scuso per aver scritto una cosa del genere, perché è davvero orrenda! E mi dispiace che abbiate dovuto aspettare per poi leggere… questo…)
La nostra Vicki ci rimane un po’ male quando Louis sparisce per una settimana, ma si sa: quando parli del diavolo spuntano le corna! Ha accennato qualcosa riguardo al suo carattere, ovvero il suo lasciarsi trasportare un po’ troppo dalle persone e vedremo questo che ripercussioni avrà sulla storia! Louis la cerca di nuovo a lavoro e le chiede di accompagnarlo alla festa di Abbie, a casa di Zayn.
Lì c’è di nuovo un po’ di Zabbie (?) (La chiama ancora Pitbull **), ma Vicki capisce che i due non stanno insieme. Molte di voi hanno già fatto delle ipotesi, ma non voglio svelare nulla :) Ah, Louis dice di conoscere Abbie da quasi due anni, quindi potete farvi un'idea sul tempo che è passato!
Pooooi… Vic si trova a suo agio con Louis, ma non posso anticipare quale sarà il loro rapporto! Per quanto riguarda Zayn invece, be’… avete letto quello che è successo! Dire che non la sopporta è dire poco ahah Ovviamente io non posso rivelare quello che lui ha nella sua testolina, ma mi piace sapere le vostre ipotesi :) In ogni caso è piuttosto chiaro nel dire a Vicki di levarsi di torno! (Odia il karaoke, questo è un indizio per capire Zayn)
Non so se vi avevo già avvertite, ma in questa storia Zayn è leggermente diverso da com’era in “Unexpected”, per ovvie ragioni! Ma spero che non vi deluderà!

Comunque, ora vi spiego come mai ho ritardato: dovete capire che dentro di me in questo periodo c’è una lotta interiore!
Questa storia mi sta mandando al manicomio, perché ho troppi punti in sospeso, troppe indecisioni e troppe idee. Continuo a cambiare idea sul corso degli avvenimenti, sul ruolo dei vari personaggi e sui loro sentimenti, il che non è affatto un bene.
Credo che gran parte di questo sia dovuto all’affetto (?) che provo per il mio Zayn, come personaggio, che mi porta a sviare dal mio progetto iniziale, e in un certo senso anche per Leen. In sintesi mi è stato difficile scrivere questo capitolo proprio perché, essendo tanto confusa, non riesco a scrivere in modo esaustivo quello che dovrei. Mi dispiace che questo si ripercuota su quello che scrivo e che vi debba far leggere capitoli che non mi piacciono affatto. Quindi ho preso una decisione, purtroppo: ho bisogno di schiarirmi le idee riguardo la storia e tutto il resto, perché così non vado da nessuna parte. Mi prenderò un po’ di tempo per pensarci e per tornare poi a scrivere nella maniera migliore per me, così da non deludere voi. Non sto dicendo che sospendo la storia: semplicemente non sono sicura che il prossimo aggiornamento sarà tra una settimana; potrebbe passare un po’ più di tempo ma non troppo, tranquille :) Quando pubblicherò il nuovo capitolo spero che le mie idee saranno più chiare!
Quindi scusate se vi farò aspettare un po’ di più, ma ne ho bisogno!

Vi ringrazio comunque immensamente per tutto quello che fate per me e per questa storia! Per leggere e recensire, per essere sempre così gentili e disponibili! Allo scorso capitolo avete lasciato 20 meravigliose recensioni e io non so davvero come ringraziarvi fdkalj 
Vi chiedo inoltre di farmi sapere cosa pensate di questo capitolo, perchè ne ho davvero bisogno!
E soprattutto, se avete critiche o dubbi, ditemi tutto!!
 
Vi lascio con le solite gifs! A presto spero!

"Sorrideva e io non potevo che sorridere a mia volta,
come se il mio corpo fosse programmato per farlo spontaneamente."


   

"Si voltò verso Zayn e, per la prima volta, vidi quel ragazzo sorridere davvero:
sorrise sinceramente prima di stringerla in un caloroso abbraccio,
facendola quasi scomparire tra le sue braccia."



 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** She's everywhere ***




She's everywhere

Capitolo 4


Abbie.
 

«Possibile che non ci sia niente in questa dannata televisione?» borbottai tra me e me, continuando a cambiare canale nervosamente. Per quale strano motivo, alle undici e mezza di sera, gli unici programmi disponibili riguardavano l’arte culinaria o cuori spezzati in cerca di conforto? Io chiedevo solo un film, niente di più: mi sarebbe andato bene anche uno di quelli in bianco e nero dell’età della pietra, persino una telenovela brasiliana, a quel punto. Eppure niente, il vuoto più totale.
«Ah, ci rinuncio!» mi lamentai, premendo il tasto rosso del telecomando e facendo piombare il mio piccolo appartamento nel silenzio più totale.  Iniziai a pensare che forse avrei dovuto autoinvitarmi all’uscita dei ragazzi, dato che, sicuramente, si stavano divertendo più di me.
La quiete nel mio salotto fu però interrotta dalla suoneria del mio telefono, che mi fece sobbalzare per lo spavento: sbuffai, ricordandomi che avrei dovuto raggiungere il tavolino a qualche passo dal divano, e cercai di farlo senza alzarmi dalla mia comoda postazione. Niente da fare, i miei muscoli avrebbero dovuto sforzarsi e muoversi.
Appena afferrai il cellulare, notai che sullo schermo lampeggiava il nome di Harry: sorrisi spontaneamente alla vista di quel nome e mi chiesi cosa potesse volere da me a quell’ora.
«Pronto? Harry?» risposi, curiosa e con la timida speranza che quel ragazzo potesse salvarmi dalla noia.
«Abbie, hey. – mi salutò, con un tono di voce tutt’altro che tranquillo – Scusa se ti chiamo a quest’ora, ma… Riesci a raggiungerci?»
«Raggiungervi? Harry, va tutto bene?» chiesi, iniziando a preoccuparmi per l’intonazione che avevano le sue parole.
«Sì… No, voglio dire… ci serve il tuo aiuto. Si tratta di Zayn.»
Zayn? ripetei nella mia testa, spalancando leggermente gli occhi.
«Ci risiamo.» continuò, senza lasciarmi il tempo di rispondere. Quelle due semplici parole fecero aumentare leggermente il battito del mio cuore, sia per il tono di rassegnazione e dispiacere con il quale erano state pronunciate, sia per il loro significato.
«Dove siete?» domandai senza esitare, fiondandomi a prendere la mia borsa.
 
Quando finalmente li avvistai nella penombra di quella stradina, tirai un respiro di sollievo e parcheggiai nel modo migliore in accordo con la fretta e la preoccupazione.
Scesi velocemente dall’auto e mi precipitai verso di loro: i miei occhi riuscivano a malapena a distinguere la t-shirt bianca di Harry e i capelli biondi di Niall, mentre potevo chiaramente riconoscere la voce rassicurante e al tempo stesso nervosa di Liam.
«Zayn, avanti, andiamo a casa.» ripeteva, e potevo già immaginare come la sua faccia fosse alternata da un’espressione dispiaciuta.
«Abbie, finalmente!» mi accolse Louis, comparendo dall’ombra, quando mi vide correre loro incontro.
«Si può sapere dov’eri?» chiese Harry, riferendosi al mio ritardo.
«Non è colpa mia se voi vi siete cacciati nella parte più remota di Londra!» risposi, irritata dal suo rimprovero.
«Non potevamo di certo rimanere in centro a dare spettacolo!» fu il suo commento, aprendo un braccio per indicare qualcuno al suo fianco. Sospirai e seguii la direzione che mi stava consigliando, fino a quando i miei occhi si posarono su Zayn: i suoi lineamenti erano resi ancora più scuri dal buio del vicolo, ma riuscivo a distinguere la sua figura appoggiata al muro, con la testa china.
Liam, al suo fianco, mi guardava scuotendo la testa.
«Che diavolo è successo?» domandai, senza staccare gli occhi di dosso al moro.
«Siamo usciti a bere qualcosa, come ai vecchi tempi. – cominciò Niall, in tono innocente – Zayn ha bevuto un po’ troppo, ma non molto di più delle altre volte.»
«E dopo un paio d’ore siamo dovuti uscire dal locale, perché ha iniziato a… delirare.» continuò Harry, sforzandosi di trovare la parola giusta.
«Non esagerare, Hazza. - lo rimproverò Louis - Diceva cose sconnesse e… urlava il nome di Kathleen.» spiegò infine, dopo qualche secondo. Il respiro mi morì in gola nel sentire pronunciare quel nome e fui costretta a concentrarmi per poter riportare ossigeno nei miei polmoni.
«L’abbiamo dovuto portare via, perché stava attirando troppa attenzione… Be’, si sa quanto velocemente girino le notizie quando si tratta di noi. – riprese Harry – Però non ci ha dato il tempo di tornare a casa, perché anche in macchina continuava a urlarci contro dicendo che voleva assolutamente scendere.»
«Quindi siamo venuti qui.» concluse Niall.
«Ma… Non so, vi ha raccontato qualcosa? Voglio dire, era un po’ che non si comportava così.» ragionai, mordendomi il labbro inferiore.
«No, zero totale. Di punto in bianco, appena l’alcool ha fatto il suo effetto, si è scatenato.» rispose Louis.
Per qualche minuto nessuno parlò, lasciandomi sola con i miei pensieri e con le mie domande: nemmeno Zayn fiatava, anzi, più che altro mugolava qualcosa di incomprensibile.
«Abbie, parlaci tu. Cerca di convincerlo.» esordì Liam, avvicinandosi a me: la preoccupazione era dipinta sul suo volto e il fatto che non fosse riuscito a tranquillizzare il suo migliore amico mi faceva capire che la situazione fosse più grave del previsto.
Annuii, dopo aver inspirato profondamente, e feci qualche passo verso il moro, ancora nella stessa posizione: «Zayn…» mormorai, provando ad alzargli il viso con due dita sotto il mento.
Era sudato e vederlo in quelle condizioni mi faceva tornare in mente fin troppi ricordi dolorosi.
«Non toccarmi.» mi ordinò a denti stretti, alzando il volto e fissandomi con gli occhi pieni di alcool e rabbia.
Si scansò velocemente, evitando anche i suoi amici, e si allontanò di un paio di metri: «Andate a casa, cazzo! Lasciatemi in pace!» urlò, alzando le braccia al cielo.
La debole luce di un vecchio lampione mi permise di sorgere la sua espressione, decisamente segnata dal dolore, decisamente non adatta a Zayn, ma soprattutto decisamente troppo familiare.
«Zayn, calmati.» riprovai, andandogli di nuovo incontro. Eppure lui indietreggiava ad ogni mio passo, con gli occhi sbarrati a fissarmi in modo confuso. Notando la sua reazione, mi fermai e lui mi imitò.
Lo guardai per qualche secondo, in cerca di qualcosa di appropriato da dire: «Ti porto a casa, va bene? – cominciai – Ti preparo qualcosa di caldo e poi puoi riposarti. Solo… adesso calmati. È tutto ok.»
«Non voglio venire a casa. Abbie… Tu non capisci, cazzo! Nessuno di voi capisce!» sbottò.
Deglutii a vuoto a quelle parole, perché non le pensava davvero, perché lui sapeva che io lo capivo fin troppo bene e che era proprio questo a tenerci uniti.
«Vuoi urlare? – gli chiesi, cambiando strategia – Perché so urlare anche io, sai?»
«No, voglio solo che mi lasciate in pace!»
«E se io non volessi lasciarti in pace? – continuai, per poi sospirare e addolcire il tono di voce – Zayn, sono io. Sono Abbie. Torna a casa, con me.»
«A cosa mi serve tornare a casa? – rispose, alzando la voce e gesticolando – Non serve a un cazzo, perché lei è anche lì! È ovunque, ovunque io vada, ovunque io guardi!»
Osservai il suo viso sconvolto per qualche secondo, per niente stupita da quello sfogo: Zayn era così, si teneva tutto dentro, ma ad un certo punto sbottava e riversava fuori ogni suo pensiero, ogni suo problema. Il fatto era che avevo iniziato a pensare che non avrei più dovuto fare i conti con queste sue reazioni, perché ormai era da parecchio tempo che… se la cavava. Non stava bene, questo lo sapevo, ma almeno aveva smorzato il dolore e l’aveva nascosto in una parte di sé, chiudendo al di fuori tutto il resto. Invece in quel momento, dopo tutto quel tempo, Zayn era ritornato a soffrire come non faceva da un po’, senza un apparente valido motivo. Ed io, in quelle occasioni, dovevo innalzare un muro a proteggermi, in modo tale da non farmi trascinare via dal mio amico, in modo tale da mantenere la calma per poterlo aiutare e per poter aiutare anche me.
Aprii la bocca per parlare, ma lui mi precedette.
«È ovunque.» ripeté, con un tono di voce tormentato, mentre si lasciava cadere a terra sulle ginocchia coprendosi il volto con le mani.
Mi avvicinai a lui, conoscendo alla perfezione i momenti in cui abbassava le sue difese, e mi accovacciai di fronte alla sua figura. Cercai di ignorare il forte odore di alcool e alzai una mano per portarla sulla sua guancia, con timore: non mi respinse, e questo mi diede coraggio per fare un altro tentativo.
Delicatamente spostai le sue mani, lasciandomi la possibilità di guardarlo negli occhi: poi mi avvicinai lentamente, fino ad abbracciarlo, in modo che potesse sentire la mia vicinanza, il mio essere lì per lui.
Zayn non si mosse: «Lo sai che è lo stesso per me.» gli sussurrai all’orecchio, cercando di impedire ai miei occhi di diventare lucidi. Fu solo in quel momento che sentii le sue braccia circondarmi e il suo volto incastrarsi nell’incavo del mio collo, mentre il suo respiro pesante mi riscaldava la pelle.
«Lasciati aiutare. – lo pregai – Va tutto bene, ricordi?» continuai, lasciando che stringesse la mia maglietta tra i suoi pugni nel sentire le mie parole. Erano quelle a cui ci eravamo entrambi aggrappati per far fronte a qualcosa di più grande e più forte di noi, erano quelle che avevamo usato per illuderci che andasse davvero tutto bene, fino a quando quell’illusione aveva preso la forma della realtà.
 
I raggi del sole mi infastidivano, nonostante io avessi ancora gli occhi chiusi, quindi mugolai qualcosa mentre mi rigiravo nel letto cercando del lenzuolo fresco.  Iniziavo ad odiare l’estate. E il sole accecante. E il caldo afoso. E tutto quello che ne conseguiva.
Cercai con tutte le mie forze di rimettermi a dormire, ma, come sempre, i miei tentativi furono tutti inutili. Quindi, con la vitalità di un bradipo, scivolai giù dal letto combattendo contro il bruciore dei miei occhi mentre andavo alla ricerca dei miei vestiti. Passai dal bagno, prima di uscire dalla camera, e mi rinfrescai il viso: nemmeno mi ero resa conto di essere a casa di Zayn.
Sospirai, ripensando a quello che era successo la notte prima, e uscii dalla stanza degli ospiti dopo aver rifatto il letto e messo un po’ in ordine: la casa era immersa nel silenzio, tanto da farmi pensare che Zayn non si fosse ancora svegliato. L’orologio nel corridoio segnava le dieci e mezza passate e il mio stomaco brontolava per la fame.
Mi diressi in cucina, ma, quando i miei occhi si imbatterono in una figura sul divano, sussultai: «Hey.» salutai stupita, non aspettandomi di vedere il mio amico già in piedi. Era vestito come se stesse per uscire, e il suo viso aveva riacquistato una parziale vitalità: spostò lo sguardo su di me senza mostrare alcuna emozione e si limitò a farmi un cenno del capo per salutarmi.
«Pensavo che stessi ancora dormendo. – spiegai - Come ti senti?»
Lui alzò le spalle e io sospirai: «Preparo del caffè, ne vuoi un po’?»
«Sì, grazie.» fu la sua semplice risposta. Mi ritenni sollevata dall’averlo sentito parlare e gli sorrisi appena, prima di voltarmi e andare in cucina.
«Ah, Abbie? – mi richiamò, facendomi voltare – Grazie anche per ieri sera.»
Accennai un sorriso, facendogli capire che non c’era bisogno di ringraziarmi, e ripresi il mio cammino.
Ormai conoscevo quella stanza a memoria: in realtà, conoscevo tutta la casa a memoria, così come il suo proprietario. Recuperai l’occorrente velocemente e iniziai ad armeggiare sul bancone della cucina.
Sapevo che, appena tornata in salotto, avrei dovuto parlare con lui, ma non sapevo ancora da dove iniziare: il suo comportamento della sera prima, tutto quel dolore nei suoi occhi, mi avevano presa alla sprovvista e per qualche attimo mi avevano fatta vacillare. Era stato come riscoprire vecchie sensazioni, vecchi tormenti, come se il tempo fosse tornato indietro e noi ci trovassimo in una situazione conosciuta a tutti e temuta da tutti.
Zayn aveva avuto un crollo ed era mio compito cercare di capirne il motivo: sapevo bene che Kathleen non era scomparsa dalla sua mente, proprio perché non era scomparsa nemmeno dalla mia, ma ero convinta che dovesse esserci una causa per quello sfogo improvviso. Forse una frase, un particolare, un ricordo preciso che l’aveva portato a scoppiare definitivamente.
I ragazzi non avevano saputo darmi delle spiegazioni a riguardo, persino Liam non ne era stato capace: certo, Zayn aveva modellato il suo rapporto con loro in base al suo nuovo modo di essere, ma avevo sperato che si fosse confidato, almeno un po’.
Ritornai da lui quando il caffè era pronto, imprecando tra me e me per le tazze troppo calde, e gliene porsi una per poi prendere posto al suo fianco.
Provai a lasciargli del tempo, in modo che potesse dire quello che voleva senza che io insistessi, ma dopo una decina di minuti o più, le nostre tazze erano vuote e il silenzio non era ancora stato interrotto.
«Zayn, cos’è successo?» domandai allora, cercando di farlo parlare, di farsi capire.
Lui, con i gomiti appoggiati sulle ginocchia e il suo busto proteso in avanti, si voltò verso di me: i suoi occhi scuri mi scrutavano seri e chissà quante cose nascondevano. Il nostro scambio di sguardi durò pochi secondi, però, perché subito dopo tornò a fissare un punto indefinito davanti a sé, sfregando le mani l’una con l’altra.
Solo dopo qualche minuto la sua voce si fece sentire: «Abbie… Davvero non te ne sei accorta?» chiese, con una nota di stupore e incredulità.
Corrugai la fronte a quelle parole e sbattei le palpebre più volte: «Di cosa parli?»
Zayn si raddrizzò, portando la schiena ad aderire contro la stoffa del divano: «Victoria.» sussurrò soltanto.
Ed io subito non capii a chi si stesse riferendo, così feci mente locale: Victoria, l’amica di Louis.
Cosa c’entrava lei in tutto quello? In che modo aveva potuto scatenare in lui tutto quel dolore?
«Cos’ha fatto?» chiesi, curiosa di sapere.
«Niente, non ha fatto niente. –  rispose – Ma… Non hai visto i suoi occhi? Abbie, persino il suo sorriso…»
Si interruppe, chiudendo per qualche secondo gli occhi come per soffocare le emozioni dentro di sé, come per non farle trasparire dalle sue iridi. Quando li riaprì, si girò di nuovo verso di me: «Non hai notato quanto somigli a Leen?»
Le sue parole mi colpirono come uno schiaffo in faccia. Rimasi a fissare i suoi occhi senza riuscire a parlare o a fare qualcosa, anche quando Zayn interruppe il contatto visivo per concentrarsi sulle sue mani.
Ripensai subito a Victoria, al suo viso, e mi accorsi che il mio amico aveva ragione. Quando l’avevo vista la prima volta avevo pensato solo che avesse un aspetto familiare, ma niente di più.
A pensarci ora, invece, c’era qualcosa in lei che sembrava essere un promemoria vivente di Leen.
E no, non l’avevo notato.
Non avevo notato quella somiglianza e questo mi faceva sentire terribilmente male.
Male, perché l’idea che ci fosse qualcuno di simile a Kath mi bruciava il cuore.
Male, perché il non essermene accorta mi faceva cadere a pezzi. Come era stato possibile? Potevo giurare di ricordare a memoria ogni particolare della mia migliore amica, per quanto doloroso fosse, ogni suo lineamento, ogni sua espressione. Allora perché, davanti a Victoria, non li avevo riconosciuti?
Zayn l’aveva fatto, e, per aver reagito in quel modo, la somiglianza doveva essere straordinaria.
Che mi stessi dimenticando di Kathleen senza nemmeno accorgermene?
Quel pensiero mi fece boccheggiare, mentre il senso di colpa mi attanagliava lo stomaco: «No… Io non…» sussurrai, scuotendo leggermente la testa.
«Non riesco nemmeno a guardarla in faccia. – riprese Zayn, interrompendo il flusso dei miei pensieri – Mi viene voglia di urlarle contro, di rimanere a fissarla per ore solo per quei particolari e poi urlarle ancora contro.»
Deglutii, ancora scossa da quello che stava avvenendo dentro di me e dalle parole del moro, e decisi di mettere me stessa in secondo piano, in modo da poter aiutare lui.
«Perché? Perché è piombata qui?» sbottò, alzandosi rabbiosamente dal divano e passandosi le mani tra i capelli. Io lo seguii con gli occhi, riuscendo a capire come dovesse sentirsi: avrei dovuto essere anche io in quella situazione, e invece non ero nemmeno riuscita a riconoscere in Vicki una somiglianza con quella che era stata come una sorella per me.
Che razza di persona orribile ero?
«Ci stavo riuscendo. Stavo imparando a convivere con… con tutta questa merda. – riprese, camminando nervosamente avanti e indietro di fronte al divano, - E invece arriva lei e… Ed è viva, cazzo. È viva ed è uguale a Leen.»
I suoi movimenti non mi aiutavano a tranquillizzarmi, quindi appoggiai la testa allo schienale del divano e chiusi gli occhi, contando fino a dieci. Avevo bisogno di parlare e di sfogare quello che avevo dentro, ma era meglio cercare almeno di confortare Zayn, di fornirgli una via d’uscita.
«Perché non ne parli con Louis? – proposi, tornando a guardarlo e trovandolo fermo di fronte alla porta-finestra che dava su Londra, - Sono sicura che capirebbe. Senza contare che non credo sia già così preso da lei da non riuscire a lasciarla perdere: con un po’ di fortuna…»
«Dovrei essere così egoista? – mi interruppe, continuando a guardare fuori – Per tutto questo tempo non ho fatto altro che essere un peso per tutti loro, una specie di relitto. Con che coraggio dovrei andare da Louis e chiedergli di mollare una persona che magari saprebbe farlo stare bene?»
Dette quelle parole, si voltò e fissò i suoi occhi nei miei, consapevole del fatto che io non avrei trovato una risposta che potesse incoraggiarlo a farlo. In fondo non aveva tutti i torti: sapevo che Louis avrebbe cercato in tutti i modi di aiutare uno dei suoi migliori amici, ma sapevo anche che Zayn si sentiva terribilmente in colpa per il suo modo di essere.
«E se le cose tra di loro dovessero andare bene? Se lei diventasse la sua ragazza e tu fossi costretto a vederla sempre più spesso?» cercai di farlo ragionare. In realtà, provavo a convincerlo anche per me: ora che mi ero accorta di quella somiglianza, non sapevo che effetto mi avrebbe fatto trovarmela davanti e in un certo senso preferivo rimanere nel dubbio.
«Io non voglio avere niente a che fare con lei. – rispose, indurendo il tono di voce – Non posso e non devo avere niente a che fare con lei. La ignorerò. Farò finta che non esista e cercherò di andare avanti, come ho fatto finora.»
Lo guardai per qualche secondo: «Sei sicuro?»
«Sì. Anzi, non dire niente agli altri, nemmeno a Liam. Se ti chiedono spiegazioni riguardo ieri sera, di’ loro che è stato…  un momento di debolezza, ma che è tutto passato.»
Annuii, poco convinta dalla sua decisione, e abbassai lo sguardo sulla stoffa del divano sotto di me.
C’era un peso ad opprimermi il petto, qualcosa che mi impediva di respirare. Continuavo a pensare che fosse tutto terribilmente sbagliato, che io per prima avrei dovuto saper riconoscere negli occhi di Victoria gli occhi di Kathleen.
Intanto dentro di me qualcosa si agitava, forse perché nel giro di poche ore mi ero dovuta confrontare improvvisamente con un passato che pensavo di aver già affrontato una volta per tutte, forse perché avevo paura di quello che sarebbe successo.
Mi resi conto della lacrima sulla mia guancia solo quando la sentii scorrere sulla mia pelle: mi affrettai ad asciugarla e alzai lo sguardo su Zayn. Si era avvicinato di qualche passo e mi stava guardando un po’ confuso e preoccupato.
«Hey, tutto bene?» chiese.
Se non avessi dovuto fare i conti con quella marea di sensazioni dentro di me, gli avrei detto che era sempre il solito stupido, perché una domanda del genere non era che stupida. Eppure, come era più volte successo, quella semplice e stupida domanda riuscì a sbloccarmi.
Le lacrime iniziarono a farsi più insistenti e a solcarmi le guance senza sosta, mentre singhiozzavo agitata: Zayn si sedette sul divano al mio fianco e mi passò una mano sulla schiena, cercando di darmi conforto.
«Perché non me ne sono accorta? – chiesi, con il tono di voce rotto dal pianto, prima di essere stretta in un abbraccio da Zayn, - La sto… La sto dimenticando?»
A quelle parole la stretta del mio amico si fece più forte e io mi aggrappai alla sua t-shirt per trovare della consolazione: «Non voglio dimenticarla.» mormorai ancora, chiudendo gli occhi nella speranza di interrompere la fuoriuscita delle lacrime.
 


Vicki.
 
Sbuffai, abbandonando la testa sul cuscino e lasciando che i mie capelli si spargessero disordinatamente su di esso. Afferrai il telefono sul comodino e digitai velocemente il numero di Stephanie, sperando che rispondesse.
Dopo qualche squillo, la sua voce raggiunse le mie orecchie: «Vic, ciao!» mi salutò, con particolare enfasi.
«Perché sei così allegra?» le chiesi incuriosita, mentre mi rigiravo nel letto alla ricerca di una posizione comoda.
«Non sono allegra, sono… normale.» mi corresse, senza riuscire a convincermi.
«Farò finta di crederti, almeno avrò qualcuno a farmi compagnia nel mio stato di coma irreversibile dovuto alla noia.»
«Dovresti volere la mia felicità, invece di trascinarmi con te.»
Alzai un sopracciglio come per darle ragione e non risposi. La mia amica, dall’altra parte del telefono, capì al volo: «Che c’è che non va?»
Brontolai qualcosa  e mi misi seduta, con la schiena appoggiata alla spalliera del letto: «Lo sai.» mi imbronciai. Ero un po' riluttante nel dirglielo, perché sapevo che mi avrebbe sgridata come una bambina piccola.
«Stai ancora pensando a quel cretino di Zayn? O come diavolo si chiama lui?» domandò, assumendo il tono da “ramanzina in arrivo”.
«No, che c’entra lui?» ribattei, incurvando le labbra in un’espressione infastidita. Perché me l’aveva ricordato?
«Allora stai pensando all’altro, Louis?» riprovò, e io sospirai sonoramente per dargliene la conferma.
«Vic, ti prego. Ti ha chiesto il numero, tu glielo hai dato e ora non devi fare altro che aspettare che ti chiami.»
«Ma sono passati tre giorni dalla sera della festa.»
«Cosa ti aveva detto la vecchia e saggia Stephanie? Non devi aspettarti granché da gente come lui. Sai meglio di me come funziona e non voglio che tu ti faccia illusioni. Perché so per certo che te ne stai già facendo.»
Inclinai la testa da un lato e presi a giocherellare con l’orlo della mia canottiera, fin troppo consapevole della verità delle sue parole. Il fatto era che avevo sperato che Louis mi richiamasse: d’altronde era stato lui a volere il mio numero, ad avermelo chiesto dopo avermi riaccompagnata a casa. Che fosse bipolare? O forse era stato l’alcool a fargli fare una mossa del genere?
Fatto sta che la cosa mi dispiaceva più del dovuto. E non era una buona cosa.
«Sh, smettila.» sentii sibilare Stephanie, mentre una voce maschile ridacchiava in sottofondo. Corrugai la fronte mentre pensavo che quella risata assomigliava a quella di mio fratello, ma d’altronde sapevo che lui era a casa di alcuni amici. Inoltre, cosa avrebbe potuto mai fare a casa di Stephanie?
«Steph, con chi stai parlando?» le chiesi.
«Eh? Con nessuno, ovvio. – fu la sua risposta, più che evasiva – E ora scusami, ma devo proprio andare. Chiamami se ci sono novità.»
Non feci in tempo a salutarla perché la chiamata era già stata chiusa. Una serie di particolari mi spingevano a pensare che effettivamente la mia amica fosse con Brian, ma la cosa era a dir poco impossibile.
Giusto?






 



 

Heeeeeeeeeeeeeei! Sono tornaaaaata :)
Sono passate due settimane dall’utlimo aggiornamento e io mi sento terribilmente in colpa per avervi fatto aspettare D: Ho pensato un po’ alla storia, come promesso, e ho capito alcune cose, anche se il blocco non è sparito del tutto! Spero comunque di riuscire a portarla avanti senza troppe difficoltà :)
A proposito di questo, vorrei ringraziarvi per l’appoggio che mi avete dato! Insomma, siete state gentilissime e molto comprensive, quindi GRAZIE hdjslfas E grazie anche per le recensioni e per aver letto la storia fino a qui :3
Ma comunque, passiamo a questo capitolo: avrei potuto fare di meglio, ma non credo sia proprio da buttare… Almeno spero ahaha Ci sono un po’ di cosucce di cui parlare! Innanzitutto ho deciso di inserire il punto di vista di Abbie: credo che lo farò anche altre volte, magari anche con gli altri personaggi. Voi cosa ne pensate? Per me è una novità e inoltre non ho mai scritto qualcosa svelando “le mie carte” (?) Voglio dire, introducendo la voce narrante di Abbie ho praticamente rivelato il motivo del comportamento di Zayn, mentre in casi normali sarebbe rimasto un po’ di mistero (?)
Quindi vorrei sapere cosa ne pensate :) Ovviamente anche riguardo Zayn e il suo stato d’animo.
Avevate ragione, Victoria gli ricorda Leen e questo l’ha mandato completamente fuori di testa. Solo l’intervento di Abbie riesce a farlo calmare, anche se lei ne paga le conseguenze: si sente in colpa per non aver riconosciuto in Vicki i tratti di Leen. Ora, come più volte ho detto, non ho mai sperimentato la perdita di qualcuno, quindi non so come “funzioni” esattamente… Però, presumo che qualcosa del genere possa succedere: che ad un certo punto, anche le persone più legate al defunto inizino a dimenticarlo involontariamente. Spero di non aver scritto una gran boiata, e se è stato così ditemelo pure!!
Comunque Zayn ed Abbie si aiutano a vicenda e spero di avervi fatto capire un po’ di più sul loro rapporto :) (“Va tutto bene, ricordi?” ow)
Ah, secondo voi qual è la situazione tra Abbie, Harry e Niall? :)
Poooooooooi, piccola parte su Vicki che, di nuovo, si trova a fare i conti con un Louis che è praticamente scomparso per tre giorni! Spero di farvi capire meglio il suo carattere, così come quello di Louis :) Tra l’altro, secondo voi Stephanie era con Brian?
 
Bene, questo spazio autrice sta diventando esageratamente lungo hahaha
Fatemi sapere cosa pensate del capitolo, le vostre ipotesi: come si comporterà Zayn secondo voi? Riuscirà a far finta che Victoria non esista? E Louis che ruolo avrà? :)
Grazie ancora di tutto fjdsala Solite gifsss e ci sentiamo presto!!
(Risponderò alle vostre meravigliose recensioni il prima possibile :))

 

 

                                                     

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** I'm in ***




I'm in

Capitolo 5

 

Leggete l’avviso nello spazio autrice, please c:

 

Quando avevo sei anni, un mio compagno di classe mi aveva regalato il pacchetto di biscotti che la madre gli aveva dato per fare merenda. Era carino con i suoi occhioni nocciola e i capelli sempre disordinati. Da quel giorno io avevo iniziato a parlare di lui presentandolo come il mio fidanzatino: in realtà quel bambino non era a conoscenza di quella nostra relazione.
A dodici anni,nel negozio in cui mio padre mi portava sempre per comprare nuovi vestiti, il giovane commesso mi aveva fatto notare che avevo perso un pantalone per strada, quando ero uscita dallo spogliatoio: si era fermato a chiacchierare con me, chiedendomi se avessi trovato quello che cercavo, e io ero rimasta incantata dalle sue lentiggini sulle guance. Mi convinsi che fosse segretamente innamorato di me, quindi feci di tutto per tornare tutte le volte che mi era possibile in quel negozio: quando vidi lo stesso commesso sbaciucchiarsi con una moretta poco più bassa di lui, decisi che la nostra storia sarebbe finita. Avrei comprato i miei vestiti da un’altra parte.
Poco dopo aver compiuto sedici anni, incontrai un ragazzo sull’autobus: mi aveva chiesto di sedersi vicino a me, perché non c’erano più posti liberi. A quell’ora del pomeriggio, mentre io tornavo da scuola, c’era sempre un sacco di gente e trovare un sedile disponibile era pressocchè impossibile. Si chiamava Seth e aveva degli occhi grigi quasi ipnotizzanti, nonostante il suo viso non fosse proprio la definizione di “carino”. Lo incontrai più volte su quel pullman e iniziai a tenergli il posto appoggiando sul sedile la mia borsa: inoltre, cominciai a pensare di piacergli, perché, nonostante avesse sempre la musica nelle orecchie, non mi risparmiava sorrisi o domande interessate. Qualche settimana dopo, però, mi accorsi che il suo interesse era solo quello di stare seduto durante il tragitto in pullman, perché, appena il periodo di affollamento finì, lui iniziò a sedersi da altre parti, senza nemmeno salutarmi. La mia borsa da quel giorno rimase sempre sulle mie gambe.
Mancava poco ai miei diciannove anni e il ragazzo con cui stavo, Andrew, mi chiese di vederci. Uscivamo da quasi un mese e io ero cotta a puntino dei suoi capelli biondi e del suo modo di gonfiare le guance paffute quando si offendeva: mi disse che era innamorato di un’altra e che quindi era meglio smetterla di giocare. Il problema era che io non stavo affatto giocando, anzi, ma lui non l’aveva capito.
A ventun’anni inoltrati, una calda sera di agosto stavo lavorando ad una festa di beneficenza indetta dai grandiosi e famosissimi One Direction: nel bagno della sala, incontrai Louis Tomlinson, con il suo sorriso ammiccante e i suoi occhi sottili. Mi venne anche a trovare a lavoro, il giorno dopo, per invitarmi a fare colazione insieme, e poi mi chiese di accompagnarlo alla festa di una sua amica. Pensavo di interessargli, ma, quando sparì dalla circolazione all’improvviso, iniziai a pensare che la sua mano sulla mia schiena e i suoi sorrisi fossero paragonabili ai biscotti che il mio compagno delle elementari mi aveva regalato. Ingannevoli e insignificanti, anche se non per me.
Era questo quello a cui stavo pensando, mentre la vaschetta del gelato al tiramisù davanti a me si svuotava sempre di più: non che fossi depressa perché Louis si era volatilizzato nel nulla circa una settimana e mezza prima, ma ero io a farmi pena. Mi faceva pena la Victoria che non riusciva a non illudersi, che si esaltava per piccolezze e dava ad ogni particolare un’importanza che in realtà non esisteva. E sinceramente ero anche stanca di dover guardare la storia ripetersi ogni santa volta.
Certo, Louis mi interessava, ma il problema che più mi dava noia era il mio modo di essere: nonostante questo, non potevo nascondere che mi dispiacesse particolarmente che un ragazzo come lui fosse sparito così. Era comprensibile che magari si fosse anche dimenticato di me, tra tutte le altre ragazze ai suoi piedi e gli impegni che aveva, ma forse… forse mi aspettavo un po’ di più, ecco.
Il cucchiaio ricolmo di gelato si bloccò a mezz’aria tra le mie dita quando in televisione iniziò una certa pubblicità: la sera stessa, su quel canale, gli One Direction sarebbero stati ospiti in una nota trasmissione televisiva di cui io avevo visto solo poche puntate. La mia attenzione era completamente assorbita dai volti di quei cinque ragazzi, allegri e giocherelloni come li avevo conosciuti io: e lo erano tutti, persino Zayn.
Era stato Louis il primo a parlare, a presentare la band e a scambiare qualche battutta delle sue con Harry: i capelli castani disordinati e le braccia abbronzate lasciate scoperte da una t-shirt bianca. Il sorriso, filtrato dallo schermo del televisore, non rendeva giustizia a ciò che era davvero: un’esplosione di vitalità, un tranquillante, una botta di energia. Certo, anche così si poteva notare la spensieratezza che era in grado di emanare, ma solo dal vivo la si poteva percepire davvero. E a me mancava.
Questi pensieri mi impedirono di concentrarmi sugli altri ragazzi, ma niente mi poté trattenere dall’ascoltare Zayn mentre ribadiva l’appuntamento per quella sera: era così… diverso. Assottigliai gli occhi e cercai di osservarlo meglio: i suoi erano fissi nell’obiettivo della telecamera, quasi allegri mentre la sfidavano come se ormai la conoscessero troppo bene. E le sue labbra non erano increspate in una smorfia di nervosismo o di apatia, come al solito, ma sorridevano: non smettevano mai di inarcarsi per scoprire i denti bianchi, accompagnando qualche sua risata. Mi chiedevo se fosse normale una tale diversità dallo Zayn che avevo conosciuto io, se magari la sua serietà e il suo disprezzo nei miei confronti fossero solo la conseguenza di un brutto periodo o dello stress: o forse, più semplicemente, io non lo conoscevo affatto.
«Victoria, il gelato. – esordì la voce di mio fratello, appena entrato in cucina, riscuotendomi – Si sta sciogliendo.»
«Eh?» chiesi, ritornando alla realtà e guardandomi intorno per constatare la situazione descritta da Brian. Effettivamente, parte del gelato sul cucchiaio era gocciolata sui miei pantaloni neri, lasciando diverse macchie circolari.
«Oh, ‘fanculo.» borbottai tra me e me, prendendo un tovagliolo dal tavolo per poter limitare i danni.
«Sei sempre così fine. Non mi stupisco che tu sia ancora zitella.» mi prese in giro, appoggiandosi al bancone della cucina per bere un bicchiere d’acqua. Io lo fulminai con lo sguardo, alzandomi dalla sedia e cercando di riportare ad una normale funzionalità le mie gambe, rimaste per troppo tempo nella stessa situazione.
«Scusa, tu non dovresti dirmi cose del tipo “Tranquilla, troverai il ragazzo che riuscirà a capire quanto tu valga davvero”, anziché rinfacciarmi il mio essere più sola che mai?» gli domandai, alzando un sopracciglio.
«Hai ragione. – disse lui, posando il bicchiere nel lavandino – Troverai uno sfortunato ragazzo che riuscirà a capire quanto tu valga, nonostante ti piaccia dire spesso “’fanculo”, quasi come se ne fossi dipendente, e nonostante russi nel sonno.»
Spalancai la bocca, oltraggiata da quella falsa affermazione: «Io non russo! – protestai – Sei tu che sembri un trattore ogni santa notte!»
Brian sorrise sotto i baffi e scosse la testa: «La registrazione sul mio cellulare testimonia che tu non sei da meno.»
«La tua… cosa?!» quasi urlai, diventando paonazza.
«Cosa? Ho detto qualcosa?» chiese, facendo il finto tonto. Io sospirai, guardandolo davvero male, e rinunciai a quel battibecco, sicura che il mio fratellone stesse bluffando.
«Sai una cosa? ‘Fanculo. – dissi, ripetendo di proposito quella parola per lui tanto fastidiosa – Vado a correre.»
 
Ero convinta che le mie orecchie avessero un livello di sopportazione davvero invidiabile, perché se no non si sarebbe spiegata la loro resistenza al volume troppo alto della musica proveniente dalle cuffiette collegate al mio telefono. Mi era impossibile ascoltare una canzone con un volume basso: che senso avrebbe avuto? Inoltre, non riuscivo a correre se non ero completamente isolata da quello che mi circondava.
La passione per la corsa era nata in me grazie a Brian: lui era sempre stato un tipo molto sportivo, sin da quando era un giovane adolescente, e spesso mi portava con sé durante i suoi allenamenti. All’inizio io mi facevo gli affari miei, felice di potergli semplicemente fare compagnia, ma un giorno provai ad accompagnarlo e a correre con lui. Mi era piaciuto, stranamente: ero riuscita a sentirmi libera e… forte. Concentrandomi sulla respirazione, riuscivo a non pensare a nient’altro, quando ne avevo bisogno; eppure era anche un ottimo modo per rimuginare sulle cose, il che succedeva spesso.
Da quella volta, era diventata la mia valvola di sfogo.
 Anche quel giorno, quindi, avevo deciso di correre: con i capelli legati in una coda un po’ sfatta e dei vecchi pantaloncini blu accompagnati da una canottiera bianca, mi aggiravo per Hide Park, godendomi il sole caldo di metà pomeriggio e la strana tranquillità del posto. Di solito c’era molta più gente, ma non sarei stata di certo io a lamentarmene.
Il verde del parco quasi mi accecava, a causa dei riflessi della luce del sole, e un paio di volte dovetti accelerare la mia corsa a causa di qualche scoiattolo sin troppo curioso: io ne ero terrificata, forse quell’animale poteva anche essere considerato come una mia fobia.
«Dovrei aggiornare quest’affare.» borbottai tra me e me, cambiando l’ennesima vecchia canzone che, a causa della mia pigrizia e della mia sbadataggine, era nel telefono da tempi immemori. La mia voce era quasi inudibile, a causa del volume troppo alto della musica, e dovetti rallentare il passo per non inciampare o andare a sbattere contro qualcuno, mentre cercavo di posizionare lo schermo in modo da non essere infastidita dal riflesso del sole.
«Non vedo niente.» mi lamentai di nuovo, continuando a camminare. Quasi mi spaventai, poi, quando sentii qualcosa sfiorarmi la spalla nuda: «Che diavolo…» esclamai, pensando già ad un attacco da parte di qualche insetto o – peggio – di uno scoiattolo volante, nonostante non sapessi nemmeno se ce ne fossero.
Quando alzai lo sguardo, però, non c’era nessun animale a infastidirmi, solo un’uomo: più di alto di me di circa venti centimetri, mi stava guardando fin troppo seriamente attraverso i suoi occhiali da sole scuri.
Corrugai la fronte e sbattei più volte le palpebre, chiedendomi chi fosse e cosa volesse da me: sembrava un normale passante, nei suoi vestiti borghesi. Solo dopo qualche secondo mi fece segno di togliermi le cuffiette dalle orecchie e io gli diedi ascolto, incuriosita.
«Sì?» chiesi, un po’ stordita dal silenzio in cui ero ripiombata.
«Signorina, non può passare di qua.» disse lui semplicemente, addolcendo lievemente la linea dura delle sue labbra. Alzai un sopracciglio e «Come, scusi?» domandai stupita. Che diavolo voleva dire?
«Non può correre in questa zona del parco. – ripeté – Le consiglio di fare il giro per quel sentiero, laggiù.» concluse, indicando un punto alla mia destra. Io seguii il suo braccio, teso verso quella direzione, ma poi tornai a guardare il viso dell’uomo cercando di capire.
«Ehm, penso di riuscire a decidere da sola dove sia meglio correre, grazie.» borbottai, facendo un passo, intenzionata ad allontanarmi da quello sconosciuto. Lui, però, mi bloccò, facendomi tornare dov’ero prima.
«Certo, non lo metto in dubbio. Resta il fatto che oggi quest’area del parco sia riservata.» fu il suo commento.
Stava scherzando?
«Ma si può sapere chi è lei? – chiesi irritata – E poi non mi risulta che i parchi si possano riservare a qualcuno.» Incrociai le braccia al petto, sperando che quel signore si decidesse a lasciarmi stare.
«A quanto pare invece è possibile. Devono essere riprese delle scene per un video musicale, quindi la prego di cambiare strada.» riprovò, questa volta con più gentilezza.
A quel punto alzai tutt’e due le sopracciglia, lasciando cadere le braccia lungo i fianchi: «Oh, ma dai.» sbuffai, notevolmente infastidita dall’interruzione del mio pomeriggio all’insegna della tranquillità.
«Guardi lì. – propose l’uomo, indicando con un cenno del capo alla sua sinistra – Vede quelle persone? Non la sto prendendo in giro.»
Assottigliai gli occhi per accertarmi che stesse dicendo la verità e, in effetti, c’erano delle persone in lontananza, con tanto di attrezzature simili a telecamere. Chissà chi erano.
«Paul, hey!» gridò una voce, proveniente dalle spalle dell’uomo di fronte a me. Questo si voltò e si fece leggermente da parte, lasciandomi libera la vista.
Louis era lì, ad una decina di metri da noi, con i suoi bermuda di jeans e una t-shirt di un rosso pallido che risaltava perfettamente con la tonalità della sua pelle.
Deglutii a vuoto e trattenni il respiro fino a quando anche lui si accorse di me: mi sembrava impossibile che per qualche strano motivo ci stessimo incontrando di nuovo, così. Certo, qualcosa dentro di me si era mosso nel riconoscere quei capelli castani e quel sorriso tanto luminoso, ma qualcos’altro si era ritratto, a disagio: quanto sarebbe stato imbarazzante parlare con il ragazzo che era sparito nel nulla e sul quale io avevo fantasticato come un’illusa – nonostante i miei ventun’anni e la mia presunta maturità – per un po’ di giorni? E per lui sarebbe stato ugualmente strano?
«Che c’è, Louis?» chiese quello che doveva essere Paul, senza riuscire a distrarre i miei occhi dal ragazzo ormai di fronte a me.
«Vicki! Che sorpresa! Che ci fai qui?» domandò Louis, ignorando l’uomo al mio fianco e lasciandomi un bacio sulla guancia. Certo che era parecchio strano.
«Oh, be’, stavo correndo. Anche se mi è stato appena… vivamente consigliato di cambiare strada.» spiegai, cercando di mettere da parte la sorpresa nel vederlo, che ancora mi pervadeva.
«Paul, non si trattano così le signorine! – lo rimproverò con un sorriso bonaccione, mentre l’altro scuoteva la testa divertito – E comunque le riprese sono finite, quindi non c’è nessun problema. »
«Di già?» si intromise Paul, visibilmente stupito.
«Sì, stavo giusto venendo a dirtelo. – rispose Louis, annuendo – Quindi, Vicki, non ci sarà nessuna deviazione di percorso nei tuoi programmi.» annunciò, rivolgendosi a me lasciando scoperti i denti bianchi grazie ad un sorriso.
Aprii la bocca per dire qualcosa, soprattutto perché dovevo evitare di rimanere imbambolata a guardare il viso di Louis, ma lui mi precedette: «A meno che tu non ti unisca a me e agli altri per mangiare qualcosa. Sai, questo caldo mette una certa fame.» Eccolo lì, di nuovo. Perché continuava a comparire e scomparire dalla circolazione? E poi unirsi a loro significava due cose: primo, rivedere Zayn e magari improvvisare una rissa davanti a tutti; secondo, rimanere fregata, di nuovo. Perché lo sapevo, sapevo che accettare l’invito non avrebbe fatto bene alla mia salute mentale, che avrebbe solo peggiorato le mie illusioni e che poi Stephanie mi avrebbe fatto una strigliata degna di nota.
«No, grazie. – risposi subito, cercando di non dare tempo al mio cervello di cambiare idea, -  Non mi sembra il caso. Sono in condizioni… discutibili, mi servirebbe una doccia, e poi non vorrei essere di troppo.» furono le mie scuse.
«Andiamo, Vicki! Ti faccio accompagnare a casa e poi ci raggiungi direttamente, dopo esserti fatta la doccia o qualsiasi cosa ti serva.»
«Ma…»
«Per favore.» mi interruppe, facendo labbruccio come il peggiore dei bambini capricciosi.
 
«Brava, Victoria. Sei proprio una furbona.» borbottai tra me e me, zittendomi non appena l’autista mi lanciò uno sguardo interrogativo dallo specchietto. Distolsi lo sguardo dal suo e tornai a guardare fuori dal finestrino di quel macchinone enorme che mi stava scortando. La destinazione? Louis e l’allegra combriccola. Perché certo, come avrei potuto resistere ai suoi occhi azzurri che mi chiedevano di vederci, nonostante io sapessi che non era una buona idea? Come avrei potuto non essere la solita stupida e lasciarmi abbindolare come al mio solito?
Ce l’avevo a morte con me stessa mentre venivo portata  in un locale di cui non avevo mai senti parlare: persino Brian, che mi aveva vista arrivare a casa a bordo di quell’auto, mi aveva poi guardato scuotendo  la testa quando gli avevo spiegato la situazione. A Stephanie non avevo nemmeno detto del cambio di programma.
«Signorina, siamo arrivati.» mi avvertì l’uomo alla guida, fermando la macchina davanti ad un locale. Se mi avessero chiesto di descriverlo, avrei semplicemente risposto che era il posto in cui, normalmente, non sarei mai entrata per paura di uscirne con le tasche vuote.
Scesi dall’auto quasi con timore e sospirai mentre quel buon uomo che mi aveva scarrozzata in giro mi accompagnava anche all’interno.
Non potei fare a meno di notare quanto quel posto fosse elegante nella sua semplicità: i colori dominanti erano il bianco e il marroncino di alcuni ornamenti in vimini. Per il resto, tutto era intonato a quelle due tonalità. Mi guardai intorno schiudendo leggermente la bocca per la meraviglia, ma fui costretta a richiuderla quando qualcuno mi chiamò, impossessandosi della mia attenzione.
Louis si stava sbracciando da un tavolo a pochi metri da me, con tutti gli altri intorno a guardarmi con diverse espressioni: mentre mi avvicinavo, sorridendo in segno di saluto, ebbi tempo di bearmi della tranquillità e della familiarità degli sguardi di Liam ed Harry; mi scappò da ridere quando Niall alzò lo sguardo su di me solo dopo aver ripulito un piatto che fino a poco prima doveva aver contenuto qualcosa di delizioso; mi si gelò il sangue nelle vene nell’incontrare gli occhi scuri e colmi di risentimento di Zayn; e rimasi stupita dallo sguardo di Abbie, invece. Sembrava… pensieroso, quasi concentrato, mentre mi scrutava insistentemente.
Non ebbi il tempo di farmi altri problemi, però, perché venni sommersa dai saluti: «Eccoti qui!» esclamò Louis, facendomi segno con la testa di raggiungerlo. Gettai un’occhiata veloce al tavolo rotondo, imbandito di parecchie cose dall’aspetto invitante, e mi ritrovai al fianco del castano, mentre anche gli altri mi salutavano con un’allegria che avrebbe dovuto mettermi a mio agio. La verità era che c’erano due paia d’occhi che avevano su di me l’effetto contrario. Perché anche Abbie mi guardava così?
«E così, hai rischiato di iniziare una discussione con Paul?» scherzò Harry, lanciandomi uno sguardo divertito, mentre Louis spingeva davanti a me alcune delizie riposte in piatti raffinati.
«Oh no, non direi proprio così.» lo corressi, arricciando il naso mentre sorridevo, scegliendo da quale bontà iniziare.
«Sai, Paul sa essere molto insistente quando vuole. – intervenne Liam – Mi stupisco che non ti abbia trascinata via a forza.»
«Lo fa anche con noi, continuamente.» continuò Niall, masticando con gusto qualcosa. Io sorrisi e «Perché dovrebbe farlo?» chiesi divertita, immaginandomi la scena.
«Fidati, questi non sono ragazzi. – si intromise Abbie, stupendomi – Sono delle bestioline racchiuse in corpi umani.» mi avvertì, sporgendosi verso di me come se mi stesse raccontando un segreto. Risi e per un attimo mi lasciai consolare dalla sua aria scherzosa, anche se dovetti ricredermi subito dopo: i suoi occhi infatti, riassunsero una sfumatura seria e mi osservarono con attenzione, quasi volessero studiarmi, costringendomi a spostare la mia attenzione su qualcun altro.
«Non darle ascolto. – mi rassicurò Louis, accarezzandomi la schiena con una mano – In realtà ci vuole bene.» Rabbrividii per quel contatto e cercai di non fissare troppo a lungo quelle iridi cristalline, fin troppo vicine a me. Quando mi voltai, davanti a me, Zayn mi stava scrutando, con un braccio sulla sedia di Abbie, al suo fianco, e l’altro allungato sul tavolo. Potevo percepire il suo rancore nei miei confronti, nonostante io non sapessi a cosa fosse dovuto, e mi sentivo come sballottolata da un’emozione all’altra con tutti quegli occhi puntati addosso, ognuno dei quali esprimeva qualcosa di diverso.
Cercai quindi di distrarmi da quelle sensazioni: «Quindi stavate girando un video musicale?» domandai.
«Non ti sfugge niente.» fu il commento mormorato di Zayn. Sentii la rabbia percorrere ogni cellula del mio corpo, ma tentai di non darlo a vedere, provando a concentrarmi sulle risposte entusiaste degli altri, che sembravano non aver sentito l’amico parlare.
La mano di Louis, delicata sulla mia schiena, rischiava ancora di distrarmi.
 
Era passata circa un’oretta da quando avevo messo piede in quel posto e non potevo negare di essermi divertita in compagnia di quei ragazzi, nonostante ci fossero stati dei particolari che mi mettevano a disagio. Per esempio, per tutto il tempo, non ero riuscita ad ignorare lo sguardo rabbioso di Zayn e quello pacato, ma malinconico di Abbie. Avevo persino iniziato a pensare che il moro avesse “portato al lato oscuro” la sua amica, contagiandola con il disprezzo che nutriva nei miei confronti. Eppure mi chiedevo ancora cosa avessi fatto per meritare quel trattamento, le battutine sussurrate e gli sguardi inceneritori.
Io avevo provato a contenermi, ad ignorare tutto in onore del quieto vivere, ma tutti hanno un limite e io presto lo raggiunsi.
Zayn aveva fatto l’ennesima entrata in scena, questa volta – come altre – notata anche dagli amici: «Quindi, il tuo lavoro ideale è fare la cameriera?» mi aveva chiesto in un momento di silenzio. Con la coda dell’occhio avevo visto Abbie dargli una leggera gomitata, mentre io stringevo troppo forte tra le mie mani la forchetta.
«Io non faccio la cameriera. – avevo precisato a denti stretti – E solo perché fai parte di questa band, non significa che tu possa avere una bassa  considerazione di qualsiasi altro lavoro.»
«Oh, mi hai frainteso. – aveva continuato lui, sporgendosi sul tavolo e appoggiandoci i gomiti – Io ho una bassa considerazione di chi non ha alcuna aspirazione nella vita.»
«Che ne sai delle mie aspirazioni?» avevo chiesto, rinunciando al mio autocontrollo. Era solo un ipocrita.
«Dai ragazzi, non vorrete litigare.» era intervenuto Louis, interrompendoci con il suo solito sorriso, ma nessuno dei due gli aveva dato ascolto. Era una vera e propria sfida quella che stava avvenendo.
«Perché ti scaldi tanto? Per caso la piccola Victoria non ne ha?» aveva ripreso Zayn, rivolgendomi un sorriso di soddisfazione e di sfida che mi fece ribollire il sangue nelle vene. Da dove tirava fuori tutto quell’astio, tutto quel disprezzo?
«Che ti prende? – gli avevo chiesto, cercando di mascherare il mio nervosismo – Il piccolo Jawi oggi ha le mestruazioni, per caso?» avevo ribattuto, ripagandolo con la stessa moneta. Per un attimo avevo pensato di averlo zittito, finalmente, ma il suo pugno, sbattuto con violenza e rabbia sul tavolo, mi avevano fatto ricredere: i suoi occhi si erano fermati per un secondo nei miei con un’intensità mai vista prima e per un attimo mi avevano fatto paura. Così, l’avevo guardato spostare la sua sedia con poca delicatezza per andarsene senza dire un’altra parola. Ero sbalordita dalla sua reazione, confusa dal suo comportamento e da quello degli altri, che si erano ammutoliti completamente, scambiandosi sguardi d’intesa e di preoccupazione.
Louis poi mi aveva chiesto di seguirlo, sussurrandomelo silenziosamente all’orecchio, e io l’avevo fatto, sperando che la sua compagnia mi avrebbe distratto.
Così, ci trovavamo all’entrata del locale, in un angolo non visibile dal tavolo a cui erano seduti gli altri. Io continuavo a tamburellare il piede sulla moquette chiara a terra, mentre Louis mi guardava forse in attesa di qualcosa.
«Insomma, cos’ho fatto di male?» sbottai infatti, alzando lo sguardo su di lui, in piedi davanti a me.
«Niente. – rispose, scuotendo la testa – Non hai fatto niente.»
«E allora perché si comporta così? Voglio dire, è sempre pronto a darmi contro e io non so davvero spiegarmene il motivo.»
Il castano aspettò un po’ prima di parlare di nuovo: «Sta attraversando un… brutto periodo, se così si può dire. Credo sia per quello. – spiegò, passandosi una mano dietro al collo – Anche se…  Vicki, non chiamarlo più in quel modo.»
Corrugai la fronte a quelle parole: «In quale modo?»
«Jawi.» rispose, più serio di quanto mi aspettassi.
«Ehm… ok. – borbottai, ma non riuscii a frenare la mia curiosità – Gli dà fastidio essere chiamato così?»
Lui fece una smorfia di indecisione e sospirò: «Sì, molto, anche se non posso dirti il perché. – chiarì – Vicki, ci sono tante cose che non sai di Zayn, che non sono scritte nemmeno su internet o sui giornali. Non vorrei che ti facessi un’idea sbagliata su di lui.»
«Be’, lui non sembra volersi comportare diversamente con me.» precisai, ripensando a Zayn e alle sue parole.
Louis accennò un sorriso: «In effetti hai ragione. – si arrese – Però si può fare qualcosa a riguardo, no? Diciamo che non chiamarlo più “Jawi” sarebbe un buon inizio.»
Mi fermai qualche secondo per ammirare le sfumature chiare dei suoi occhi, fissi nei miei senza alcun ritegno, senza alcun velo. Non parlai più di Zayn, ma cercai di scusarmi: «Mi dispiace di aver creato questa situazione.» sussurrai, abbassando lo sguardo sulle mie mani.
«Non dirlo nemmeno per scherzo. – mi corresse lui prontamente – Anzi, dispiace a me di averti fatto passare un pomeriggio del genere. Se avessi saputo che sarebbe finita così…»
«Non fa niente.» lo interruppi, abbozzando un sorriso che avrebbe dovuto rincuorarlo. Continuai a guardarlo anche quando si abbassò, piegandosi sulle ginocchia per arrivare a guardarmi negli occhi, appoggiando le mani sulle mie gambe: «Ok, allora niente più “mi dispiace”.» scherzò, facendomi sorridere. Non poteva incurvare le labbra in quel modo davanti a me, guardarmi in quel modo, parlarmi in quel modo. Insomma, non poteva essere così Louis a quella distanza.
«Com’è possibile che non riusciamo a stare più di tanto insieme senza che ci siano casini?» domandò poi, interrompendo quel silenzio e illuminandomi con i suoi denti bianchi.
Mi lasciai scappare una risatina e «Non ne ho idea. Immagino che qualcuno, lassù, ce l’abbia con noi.» scherzai.
Lui sorrise di nuovo: «Allora che ne dici di dare del filo da torcere a quel qualcuno? – propose, facendomi saltare il cuore nel petto – Potremmo uscire stasera. Magari da soli, così non ci saranno distrazioni.»
Trattenni un sorriso, di nuovo dilaniata dall mia indecisione: rifiutare l’invito e mantenere un minimo di istinto di sopravvivenza, o buttarmi a capofitto in quello che sembrava a tutti gli effetti un appuntamento con Louis Tomlinson?
«Senza contare il fatto che devo farmi perdonare di non essermi fatto vivo per tutti questi giorni. – riprese, tirando fuori quell’argomento – Quelli del video ci stavano con il fiato sul collo e non ci lasciavano in pace, ma ora è tutto finito, quindi siamo finalmente liberi.»
Mentre cercavo una risposta da dargli, mi venne in mente la pubblicità che avevo visto prima di andare a correre: «Ma Louis… - iniziai, un po’ insicura – Stasera non siete in tv?»
Lui alzò un sopracciglio, pensandoci su per un attimo, ma poi si rilassò: «Nah, quell’intervista l’abbiamo registrata due settimane fa.» fu la sua risposta, che in parte mi sollevò.
Mi presi qualche attimo per scrutare il suo volto, per cercare nella sua pelle abbronzata un indizio, un aiuto che potesse consigliarmi cosa fare, se accettare o meno: le sue iridi erano in trepida attesa di una risposta, e ogni altro suo particolare sembrava invitarmi a seguire il mio desiderio più profondo, quello più irrazionale.
Alla fine, però, mi lasciai andare alla più masochista delle tentazioni: «Ci sto.»  mormorai, accennando un sorriso che lui ricambiò ampiamente.
Con l’indice mi accarezzò scherzosamente la punta del naso, facendomi il solletico: «Perfetto, allora.» disse semplicemente, incantandomi ancora una volta.






 



 

Ciaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaao! Come state splendori? Scusate, scusate, scusate! Sono in tremendo ritardo, di nuovo :(
La verità è che sono stata super impegnata ultimamente e quel benedetto blocco è ancora qui a infastidirmi :/ Spero davvero che se ne vada presto, perché è stancante!! Quindi scusate se mi presento qui dopo due settimane con un capitolo praticamente inutile e privo di senso... Non è assolutamente quello che avrei voluto scrivere, ma per ragioni che spiegherò più avanti ho dovuto accontentarmi…
All’inizio del capitolo ho cercato di farvi capire un po’ di più su Victoria: è una che si illude molto spesso, forse troppo, e sono sicura che ci siano un sacco di persone là fuori come lei (io stessa sono così); e ovviamente Louis non la aiuta affatto, dato che si diverte a sparire e a ricomparire come se nulla fosse! Secondo voi, lei dovrebbe credere alle sue scuse? :)
Poi, argomento Zayn: aveva detto che avrebbe ignorato Vicki, ma a quanto pare sta facendo tutt’altro! Voi cosa ne pensate? :) (Ah, persino Victoria si accorge della differenza tra lo Zayn davanti alle telecamere e quello “normale”) Senza parlare di Abbie: immagino abbiate capito perché continuava a guardarla in quel modo! Comunque tra frecciatine e disagi, scoppia una piccola lite, che però si conclude con Zayn che se ne va incazzato nero per quel “Jawi” di troppo. Ora, le lettrici di Unexpected sanno perfettamente perché lui abbia reagito così, le nuove, invece no, ma tanto prima o poi verrà spiegato tutto, tranquille.
Il capitolo si conclude con Louis che cerca di rassicurare Vicki: voglio ricordare che lui non sa niente del perché Zayn ce l’abbia tanto con lei (non sa nemmeno quello che era successo alla festa di Abbie)! Ma comunque… chiede a Vicki di uscire la sera stessa e lei, ovviamente, accetta! Quiiiindi si può ben capire che il prossimo capitolo sarà incentrato su loro due jfkalsf Vi avverto: Louis non sarà il solito Louis (?), ha un carattere anche lui e vedremo cosa ne penserete :)
Bene, non ho nient’altro da dire, se non: scusate ancora per questo capitolo di passaggio :(
 
AVVISO: oggi, come alcune di voi sanno, inizio il tirocinio, quindi per metà giornata non sarò a casa. Nell’altra metà dovrò studiare per gli esami che avrò, appena il tirocinio finirà, cioè a fine giugno/luglio. Quindi, tenendo conto anche di quel dannato blocco che ho, vorrei che mi capiate se non pubblicherò ogni settimana, puntualmente :/ Con questo non sto dicendo che vi farò attendere mesi! Però, avendo meno tempo, sarò un po’ più lenta quindi magari il capitolo arriverà tra una settimana e mezza o due!
Detto questo, spero che non mi odierete!
 
Vi ringrazio infinitamente per il vostro appoggio, per aver letto, per aver lasciato i vostri pareri, in cui siete sempre troppo gentili fdsjkal E vi saluto, perché indovinate un po’? Devo studiare ahahha Risponderò alle vostre recensioni domani mattina o stasera tardi, credo, perché non ne ho il tempo! Un bacione bellezze!
Ah, su twitter sono
itstarwen_
E su facebook
 
Ciaaaaaaaaaaaao :)


Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Five questions ***




Five questions

Capitolo 6

 

 

La familiare voce pacata di Stephanie arrivò alle mie orecchie un po’ metallizzata, a causa del telefono al quale stavamo parlando: «Sei una stupida.» disse in tono tranquillo, masticando qualcosa rumorosamente.
«Grazie, era proprio questo che volevo sentirmi dire. – borbottai, alzando gli occhi al cielo – E che diavolo stai mangiando? Sembri un ruminante!»
«Sono patatine. Le ho trovate oggi in offerta al supermercato: sai, sono buonissime, e lo sapresti anche tu se solo fossi venuta con me, al posto di unirti a Louis.»
Sbuffai e mordicchiai il tappo di una penna capitatami a tiro sulla scrivania, mentre, spingendomi con un piede a terra, giravo lentamente su me stessa sulla sedia con le rotelle della mia camera: «Steph, cosa avrei dovuto fare?» chiesi, cercando un po’ di comprensione. In realtà la mia era una domanda abbastanza priva di senso.
«Dirgli di no, per esempio?- esclamò lei infatti, e io potevo immaginarla perfettamente con un sopracciglio alzato –  E poi dai, che scusa è “ero impegnato con le riprese”? Insomma, persino io me ne invento di migliori.»
«Però tu non sei parte degli One Direction, quindi non risulteresti molto credibile.»
«Nemmeno lui lo è.» ribatté, facendomi perdere ogni speranza. Era da un po’ che eravamo al telefono e lei aveva continuato a ripetermi per tutto il tempo quanto io fossi stata stupida ad aver accettato l’invito di Louis, più che altro perché mi conosceva sin troppo bene e non conosceva affatto lui.
Inspirai profondamente e «Ok, lasciamo perdere. – dissi, gettando la penna sulla scrivania e alzandomi per avvicinarmi all’armadio aperto – Puoi almeno aiutarmi a capire cosa dovrei mettermi stasera?»
Scrutai indecisa l’ammasso di vestiti sparsi per l’armadio, indici del mio scarso ordine, mentre ascoltavo Steph masticare rumorosamente per qualche secondo. Biascicò qualcosa, ma non si capì nulla: «La smetti di mangiare e mi dai una mano?» esclamai esasperata, passandomi una mano tra i capelli ancora bagnati dalla doccia di poco prima.
«E va bene! – sbuffò lei dall’altra parte del telefono, facendomi udire distintamente il rumore del pacchetto di patatine che probabilmente stava richiudendo – Anche se non capisco quale sia il problema: è solo un appuntamento, non è mica il primo a cui vai.»
Scossi la testa, arresa, e «Certo che non è il primo. – mormorai – Ma è di Louis Tomlinson che stiamo parlando.» Il pensiero di doverlo vedere entro meno di un’ora mi tolse per un attimo il respiro.
«Se non sbaglio anche lui ha due occhi, un naso e una bocca, no? È umano, fino a prova contraria, come tutti gli altri ragazzi con cui sei uscita. Quindi di cosa ti preoccupi? Mettiti quello che ti fa sentire più a tuo agio e vedrai che andrà  bene, Vic.»
Rovistando con la mano libera tra i vestiti e storcendo la bocca ogni volta che avvistavo qualcosa che non mi piaceva, risposi: «Ok, come vuoi, però forse lui è abituato ad altri tipi di ragazze, sicuramente più belle ed eleganti di me: chissà quante ne ha avute che indossavano vestiti firmati e tacchi alti. Io al massimo ho un tacco da dieci, magari anche spaiato, e una maglietta di H&M.»
«Ti giuro che attacco se continui a dire cazzate.» mi rimproverò Steph assumendo un tono minaccioso.
Mi morsi il labbro e rimasi immobile per un minuto buono, con lo sguardo fisso sull’armadio e il caldo insopportabile a darmi fastidio, facendomi desiderare di spogliarmi anche della pelle, coperta solo dalla mia biancheria.
«Che ne dici di quel vestitino che abbiamo comprato quel giorno in cui Nina era venuta a trovarci?» Sgranai gli occhi alla sua proposta improvvisa e mi si scaldò il cuore nel ripensare alla nostra amica francese, Nina, che aveva abbandonato la romantica Parigi per fare visita alle sue due squilibrate amiche inglesi.
«Non ricordo qual è.» borbottai, cercandolo nella speranza di vederlo e avere un’illuminazione.
«Non ha le spalline, se non sbaglio, e forse ha un motivo floreale. Ricordo che ti fa delle tette enormi.» spiegò pacatamente Stephanie, mentre nella mia testa prendeva vita un vago ricordo di quel vestito mai messo.
«Steph, la seconda mi sta grande, com’è possibile che mi faccia le tette enormi?» mormorai, bloccando il telefono tra la mia spalla destra e la mia guancia, mente con le mani rovistavo nell’armadio.
«Ok, nella loro piccolezza sembravano enormi. Così va meglio?» esclamò sbuffando.
«Trovato!» esultai, recuperando il vestito dal fondo di quell’ammasso disordinato di abiti. Lo appoggiai sul letto e lo osservai in ogni suo particolare: Steph aveva ragione, era senza spalline, di un colore tra l’azzurro e il violetto, ma comunque molto chiaro. Quelli che lei aveva descritto come fiori erano in realtà piccole fantasie di sfumature diverse di marrone, lo stesso marrone della fine cintura posizionata appena sotto il seno; scendeva morbido fino a metà coscia e dietro si allungava un po’ di più.
«Secondo te andrà bene?» chiesi indecisa, nonostante fossi letteralmente innamorata di quel vestito.
«Sì.» rispose semplicemente.
«E se non è adatto al posto in cui vuole portarmi?» continuai. Louis mi aveva promesso una sorpresa, quindi non aveva voluto rivelarmi dove si sarebbe tenuto il nostro appuntamento.
«Vic, infilati quel vestito e sta’ zitta.» ribatté Steph. Ecco perché adoravo quella ragazza: mi compensava. Dove io ero insicura e paranoica, lei riusciva a infondermi coraggio.
«Ok. - sussurrai, comunque non molto convinta – Ti chiamo domani allora, così  ti racconto.»
«A meno che la stampa non vi scovi prima.» mi corresse divertita, accennando all’eventualità che le fans ci avvistassero e che quindi il nostro appuntamento diventasse di dominio pubblico.
«Incoraggiante, direi.» commentai sorridendo.
«A domani, Vic. – mi salutò, nel mezzo di una piccola risata – E non preoccuparti, andrà alla grande.»
«Lo spero. Grazie di tutto.»
 
«Chiavi? Prese. Borsa? Presa. – dissi tra me e me, afferrando la borsa marrone sul divano – Mmh… I soldi li ho, i capelli sono a posto e…»
Il suono del campanello interruppe il mio elenco, facendomi sgranare gli occhi per la sorpresa e la paura: «Non apri?» chiese mio fratello con aria beffarda, uscendo dalla cucina con un bicchiere di gelato in mano, per poi salire le scale.
Respirai profondamente e mi sistemai il vestito, in realtà già perfettamente in ordine. Mi avvicinai alla porta di casa e la aprii dopo un altro sospiro: Louis era in piedi davanti a me con il suo solito sorriso raggiante a salutarmi. Se ne stava con le gambe leggermente divaricate, coperte da un paio di jeans chiari che gli lasciavano le caviglie scoperte e che mostravano i suoi tatuaggi proprio in quel punto; le mani, che erano in tasca, scivolarono via quando aprii la porta, e i suoi occhi cercarono di mettere in soggezione i miei, nettamente più insignificanti. Deglutii a vuoto nel costatare quanto la t-shirt grigia che indossava gli donasse.
«Buonasera.» mi salutò.
«Ciao.» ricambiai, sorridendo e stringendomi nelle spalle.
«Sei pronta? Magari stasera riusciremo a stare insieme senza drammi o imprevisti.» disse divertito, incantandomi con il movimento delle sue labbra.
«Le ultime parole famose.» scherzai, sperando che la sua previsione si rivelasse veritiera.
Lui rise e si spostò leggermente per farmi passare: quando gli fui vicina, chiusi la porta alle mie spalle e mi incamminai al suo fianco. Come al solito, la sua mano scivolò gentilmente sulla mia schiena, prima sulla pelle lasciata scoperta dal vestito, poi sulla stoffa: c’erano quasi una tretina di gradi quella sera, ma io riuscivo a distinguere perfettamente i brividi che percorrevano il mio corpo.
 
«Louis, davvero, dove mi stai portando?» chiesi, al limite della sopportazione, torturandomi le mani l’una con l’altra, mentre l’aria condizionata non mi dava sollievo come avrebbe dovuto.
Lui sorrise divertito, stringendo appena un po’ di più il volante con la mano destra, poi mi diede una veloce occhiata prima di tornare a scrutare la strada di fronte a sé: «Sei parecchio impaziente, eh?» mi domandò, probabilmente facendo riferimento al mio continuo chiedere la stessa cosa. Ma d’altronde come poteva biasimarmi? Eravamo in macchina da mezz’ora, ormai, e Londra era lontana: ero sempre più curiosa e sì, sempre più impaziente, come diceva lui.
«Tu non lo saresti al mio posto?» borbottai, spostando lo sguardo davanti a me e scivolando come una bambina nel sedile di pelle beige, per poi incrociare le braccia al petto.
«Nah. – rispose, facendo una smorfia – A me piacciono le sorprese.»
Alzai un sopracciglio e «Sì, anche a me… Però…» sussurrai, lasciando in sospeso la frase. Però mi stai torturando! Avrei voluto aggiungere.
Louis si accorse del mio stato d’animo e cercò di rimediare: «Guarda, siamo quasi arrivati.» mi avvisò , indicandomi con un cenno del capo un cartello stradale. Non riuscii a leggere il nome del paese, data l’oscurità e la velocità alla quale stavamo andando, ma il pensiero di esserci vicini mi sollevò il morale.
Dopo qualche minuto, infatti, stavamo parcheggiando in un’anonima strada del posto: delle villette a schiera sin troppo uguali e tranquille costeggiavano la piccola via, illuminata dalla luce quasi ocra di alcuni vecchi lampioni. Avevo visto pochissimo del paese, dato che vi eravamo appena entrati, e non capivo perché ci fossimo fermati proprio in quel posto, in mezzo al nulla.
Mi guardai intorno, soffermandomi su un gruppo di ragazzini che passeggiavano spensieratamente sul marciapiede, spintonandosi per scherzo. Louis, intanto, si era tolto la cintura e mi fissava allegro: «Allora, non scendi?» mi chiese, riscuotendomi dai miei pensieri.
«Oh, certo.» esclamai, affrettandomi a slacciare la mia cintura e a recuperare la borsa dal cruscotto. Con la coda dell’occhio notai il suo sorriso e non potei trattenere il mio, mentre aprivo lo sportello per scendere.
Mi morsi il labbro inferiore, mentre cercavo qualcosa da dire per interrompere quel silenzio imbarazzante che era appena piombato su di noi: non era affatto da me rimanere senza parole, ma con lui succedeva fin troppo spesso. Mi affiancò e lo vidi mettersi un cappellino in testa, con mio grande stupore: aggrottai la fronte e lui si accorse della mia espressione confusa.
«Che c’è?» chiese con aria innocente.
«È buio, perché il cappellino?» risposi con una domanda, mentre insieme ci incamminavamo: io lo seguivo nella speranza di capire finalmente dove mi stesse portando.
«Dimentichi che potrebbero riconoscermi. - spiegò, assumendo un’espressione furba – Anche se non è un grande travestimento, è già qualcosa.»
«Ah, ora capisco. – dissi annuendo -  Temevo che anche tu fossi come quei geni del male che amano girare con occhiali da sole e cappelli anche di notte.»
Accennò una risata e «E se lo fossi? – chiese divertito -  Mi pianteresti qui, su due piedi?»
Assolutamente no, pensai, ma «Chi lo sa. – risposi – Però potresti provare a compensare questa tua ipotetica mancanza.» Louis si trattenne dal ridere, guardandomi scuotendo la testa, ma non rispose.
«Hai intenzione di tenermi sulle spine fino all’ultimo?» domandai alla fine, quando il rumore dei nostri passi sull’asfalto era diventato troppo fastidioso. Lui annuì semplicemente e questo non mi bastò: «Per favore, dimmelo. Sono una persona troppo curiosa quando si tratta di queste cose. – ripresi, iniziando a parlare a raffica, come ogni volta che ero nervosa – È una specie di tortura per me tutta questa suspense. E poi bisogna aggiungere che tu sei Louis Tomlinson, dettaglio non trascurabile, e che io non so nemmeno se ho il vestito adatto per qualsiasi posto tu abbia scelto, e…»
«Comunque sei davvero bella, stasera.» fu la sua risposta, pronunciata con un tono di voce più serio di quanto mi aspettassi. Mi voltai verso di lui, completamente rapita da quelle parole inaspettate, e incontrai i suoi occhi azzurri, di una strana luminosità dovuta alla luce della sera.
Mi imposi di non imbambolarmi a guardarlo e «Lo hai detto solo per distrarmi?» chiesi, sospettosa.
Louis non fece altro che inclinare le labbra in un mezzo sorriso: «Anche. -  ammise, alzando le spalle e tornando a guardare di fronte a sé – Ma è la verità, questo vestito ti dona.»
Chiusi la bocca per evitare di dover raccogliere la mia mascella dal marciapiede e deglutii, sbattendo più volte le palpebre: stavo ancora fissando i lineamenti del volto di Louis, mentre ringraziavo mentalmente Stephanie e mi crogiolavo nell’emozione che si era impadronita del mio corpo per quel semplice complimento.
«Grazie.» dissi semplicemente, abbassando lo sguardo sulle mie ballerine bianche.
Mi accorsi di Louis che tornava a scrutarmi, ma non mi girai, nemmeno quando «Ho trovato un modo per metterti a tacere.» esordì. Lì, mi limitai solo a sorridere.
 
«Eccoci!» esclamò Louis allargando le braccia, rivolto verso l’entrata di un Luna Park. Io spalancai gli occhi e guardai più volte prima lui e poi il cancello aperto che dava su una folla di gente intenta a divertirsi. La musica era molto alta e alcune giostre si ergevano su di noi, sovrastandoci. Avevo pensato che dovessimo solo passarci di fianco per arrivare chissà dove, invece era sempre stata questa la meta di quel ragazzo.
«Un… Luna Park?» chiesi, ancora in preda allo stupore. Niente in contrario, per carità, ma dire che non me l’aspettavo era dire poco.
Il viso di Louis mantenne la sua espressione soddisfatta e impaziente, mentre i suoi occhi si spostavano su di me: «Esatto!» rispose semplicemente, mostrandomi tutta la sua euforia a riguardo.
Io sorrisi, corrugando la fronte, e lui questo volta se ne accorse, rabbuiandosi: «Che c’è, non ti piace?» chiese, quasi spaventato.
«Eh? No, mi piace. – risposi, sorridendo per incoraggiarlo – Solo che non me l’aspettavo. Tutto qui.» spiegai. insomma, chiunque avrebbe reagito così: chi si sarebbe aspettato che Louis Tomlinson, per il primo appuntamento, avrebbe scelto un posto del genere?
«Meno male. – rispose, evidentemente rincuorato – Il fatto è che era un po’ di tempo che volevo venirci. Sai, tra le riprese e il resto, avevo voglia di distrarmi. Poi ti ho promesso di portarti fuori e… be’, ho pensato che potesse essere una buona idea unire le due cose.» spiegò, in modo naturale.
Io sorrisi e scossi la testa, completamente affascinata da quel ragazzo: mi ero preoccupata come una squilibrata per questo appuntamento, per niente. Alla fine aveva ragione Steph: Louis era un ragazzo normalissimo, che si divertiva in questi posti e a cui brillavano gli occhi alla vista di tutti quei divertimenti, proprio come un bambino.
«Tomlinson, mi hai stupita, lo ammetto.» esclamai, tornando a fissare le mie iridi nelle sue. Potevo coglierci della sorpresa, o forse della soddisfazione, mentre rispondeva: «È una cosa positiva, no?»
Annuii e «Molto.» confermai, guadagnandomi un suo largo sorriso.
«Scommetto che i giornali non parlano di questo lato del mio carattere.» mormorò, stendendo un braccio davanti a sé per invitarmi a varcare i cancelli del Luna Park al suo fianco.
Mi mossi per seguirlo: «Non lo so. – risposi, storcendo il naso – Non mi piacciono i gossip.»
Louis scansò un bambino che correva con un enorme pupazzo a forma di orsacchiotto tra le mani e si sistemò meglio il cappellino sulla testa: «Davvero?» domandò, più che stupito.  Io lo guardai per dargliene la conferma, così lui continuò: «Tomphson, questa volta sei stata tu a stupire me.»
«Ed è una cosa positiva, no?» chiesi, imitando quello che lui stesso mi aveva detto pochi secondi prima. Lo vidi ridere e annuire, mentre io mi ritrovavo a desiderare che quel cappello scomparisse, in modo da lasciarmi vedere al meglio i suoi occhi.
«Vuoi dello zucchero filato?» chiese, indicandone un venditore ad un paio metri da noi. Io lo superai e mi avvicinai velocemente, esclamando euforica: «Stai scherzando? Lo adoro!» Ok, forse anche io potevo cedere allo spirito del posto in cui ci trovavamo.
«Due, per favore.» esordì la voce di Louis, mentre porgeva i soldi al paffuto signore.
«Non dovevi, potevo pagarmelo da sola.» lo rimproverai, spegnendo per un attimo l’entusiasmo e nascondendo la felicità per quel piccolo gesto.
«Prego.» sorrise lui, rimettendosi in tasca il portafoglio. Solo allora mormorai un “grazie” pieno di riconoscenza, mentre la mia attenzione  si concentrava sullo zucchero filato che si formava, man mano che il venditore ruotava il bastoncino intorno al macchinario.
«Allora… - esordii, deglutendo un po’ di quella delizia dolce, mentre camminavamo tra la gente – Visto che non so praticamente niente di te, che ne pensi di dirmi tu qualcosa?» proposi, guardandolo mentre litigava con dello zucchero che gli si era appiccicato sulle dita.
«Oh, ‘fanculo.» borbottò, agitando la mano per cercare di toglierselo. Io sorrisi, sia per la scena, sia per la sua esclamazione, la stessa che Brian odiava tanto quando ero io a pronunciarla: avevamo qualcosa in comune, era già qualcosa.
Trattenni una risata quando, con aria scocciata, si mise l’indice e il medio in bocca, sperando di eliminare ogni traccia di zucchero, e lui si voltò a guardarmi, ancora nella stessa posizione: quando scoppiò a ridere, io smisi di trattenermi e lo imitai, beandomi del suono della sua risata squillante.
«Scusa, ho dei seri problemi quando si tratta di mangiare questa roba. - spiegò, dopo essersi tolto le dita dalla bocca, poi continuò -  Comunque, volevi sapere qualcosa su di me, giusto?»
Annuii, godendomi dell’altro zucchero filato, mentre Louis ricominciava a parlare: «Vediamo… Sono nato il 24 Dicembre del 1991, a Doncaster, nel South Yorkshire.  Ho quattro sorelle e faccio parte degli One Direction, quindi in realtà ho anche quattro fratelli. Il mio hobby è il canto. – aggiunse, sorridendo divertito – Ma anche il calcio è una mia grande passione, e… non saprei cos’altro dire, ad essere sincero. Quindi passo la parola a te, a meno che tu non voglia sapere qualcosa in particolare.»
C’erano un sacco di cose che volevo sapere, ma non osavo chiederle, quindi seguii il suo consiglio: «Credo che la mia vita sia solo noiosa in confronto alla tua. – dissi come premessa – Comunque sono nata il 16 Febbraio del 1993, qui a Londra. Vivo con il mio unico fratello maggiore da quando la vita con i miei genitori mi stava per portare ad una crisi di nervi, anche se per gran parte dell’anno sto da sola perché lui è nella Marina. Lavoro per un’agenzia di catering e… Be’, nemmeno io saprei cos’altro aggiungere.»
«Tuo fratello è nella Marina? Figo!» esclamò, spalancando leggermente gli occhi mentre io annuivo fiera.
«Che ne dici della ruota panoramica?» mi chiese, fermandosi davanti ad essa ed interrompendo il nostro discorso. 
Alzai lo sguardo sulla struttura imponente e annuii: era così piacevole passare del tempo con Louis che sarei stata in quel posto per altri tre giorni senza lamentarmi.
Ci mettemmo un po’ a salire, a causa della folla che si accalcava per fare il più in fretta possibile, ma riuscimmo a passare il tempo continuando a raccontarci piccoli pezzi delle nostre vite e finendo lo zucchero filato: Louis mi aveva confessato di aver scelto quel Luna Park perché fuori città e perché sarebbe stato sicuramente più tranquillo, anche se aveva dovuto constatare che era comunque pieno di gente.
Rabbrividii quando le mie gambe nude entrarono in contatto con il metallo del seggiolino a tre posti su cui ci avevano fatto sedere: il terzo posto era rimasto vuoto, secondo un’esplicita richiesta di Louis, che non fu difficile da accontentare. Abbassammo la sbarra di sicurezza e la giostra cominciò a muoversi, mentre io osservavo le persone farsi sempre più piccole.
Mi voltai verso Louis e lo trovai a guardare giù, come un bambino curioso: allungai una mano e gli tolsi quel cappellino bianco e blu che tanto mi infastidiva, provocando il suo stupore.
«Almeno riesco a vederti bene in faccia, tanto qui non può riconoscerti nessuno.» mi giustificai, alzando le spalle. La verità era che i suoi occhi e il suo volto erano continuamente messi in ombra da quella visiera, che li riparava dalle luci accecanti del Luna Park: certo, erano visibili lo stesso, ma non come avrei voluto.
Louis sorrise e si scompigliò i capelli, lasciati ormai disordinati sulla sua testa: «Non ti piacciono proprio i cappellini, eh?» chiese divertito, riferendosi al discorso di poco prima. Io feci una smorfia per fargli capire che no, non mi piacevano, e per qualche minuto continuammo a punzecchiarci.
«Conosci il gioco delle cinque domande?» esordì poi, mentre la ruota superava il punto più alto per iniziare la discesa. «Mmh, no. Non credo.» risposi, corrugando la fronte.
«È abbastanza semplice: io ti faccio cinque domande e tu devi darmi sempre la risposta sbagliata. Se sbagli, vinco io.»
«E qual è il premio?» domandai curiosa.
«Un bacio.» disse semplicemente, scrutandomi con i suoi occhi sfrontati. Alzai le sopracciglia a quella risposta, ma non mi diede il tempo di ribattere perché iniziò subito il gioco: «Domanda numero uno. Ti stai divertendo?»
Risi e scossi la testa: «Assolutamente no.» risposi, guardandolo con fierezza.
«Bene, passiamo alla domanda numero due. – continuò, sorridendo per la soddisfazione –  Ti piace davvero dove ti ho portata?»
Mi morsi un labbro, cercando di non sorridere, e «No. – mormorai – Louis, ho l’impressione che tu mi stia ricattando per avere delle informazioni.» aggiunsi, puntandogli un dito sul petto.
«Domanda numero tre. – riprese, ignorandomi e alzando l’indice, il medio e l’anulare della mano destra – Vorresti essere qui con qualcun altro?» Che domanda era?
Aspettai qualche secondo prima di rispondere: «No…» sussurrai, questa volta un po’ imbarazzata per quell’ammissione. Vidi il volto di Louis aprirsi in un largo sorriso: «Sei più brava di me a questo gioco! Mancano solo più due domande, giusto?»
Feci un rapido calcolo mentale e risposi con un semplice “sì”, elettrizzata all’idea di dover dare ancora due risposta e indecisa sul voler perdere o meno. Tra di noi calò il silenzio, per un attimo, poi Louis scoppiò a ridere battendo le mani e «Hai perso!» annunciò.
Io boccheggiai per qualche secondo e solo dopo mi accorsi di aver risposto ad una domanda trabocchetto: «Hey, non vale!» protestai.
«Oh, sì che vale! – mi assicurò, sorridendo – E ora mi devi un bacio.»
«Ma…»
«Io, però, sono un gentiluomo. – mi interruppe, alzando le spalle – Quindi, visto che ho giocato slealmente, lascerò perdere.» decretò. In quel momento avrei voluto dirgli che poteva anche prendersi il premio che gli spettava, perché io non lo avrei di certo fermato, ma non so perché non lo feci.
 
«Oh no.» sussurrò, mentre camminavamo per il Luna Park, guardando fisso davanti a sé. Io seguii il suo sguardo e avvistai una gruppo di ragazzine che parlavano tra loro indicandoci: di sicuro l’avevano riconosciuto, anche perché avevano iniziato a camminare nella nostra direzione.
«Ehm, credo che sia meglio andare.» disse, storcendo le labbra. Non so cosa stessi per dirgli, ma mi trattenni, perché la sua mano si strinse attorno al mio polso e mi tirò via, costringendomi a corrergli dietro. Alzai gli occhi sull’insegna del posto in cui mi stava trascinando, leggendo qualcosa come “Casa degli orrori”, e per poco non piantai i piedi urlando di non volerci entrare. Avevo il terrore del buio: non tanto delle creature mostruose che sarebbero di certo apparse, quanto del buio in sé. Sperai comunque che ci fosse solo della penombra, come succedeva il più delle volte in luoghi del genere, convincendomi che non sarebbe stato tanto traumatico come temevo. D’altronde passare del tempo con Louis era più che piacevole: per tutta la sera, tra una distrazione e l’altra, non aveva fatto altro che scherzare, ridere e prendermi in giro, così come facevo io; il nostro era un rapporto naturale, come quello tra due persone che si conoscono da anni. Forse la mia timidezza praticamente assente e il mio essere una chiacchierona aiutavano, e forse anche la sua spontaneità e la sua spensieratezza davano una mano. Eppure io ero ancora convinta che Louis Tomlinson non fosse solo sorrisi e battute divertenti, che quegli occhi nascondessero molto altro, qualcosa di totalmente diverso da quello che traspariva.
I miei occhi, appena entrammo, dovettero arrancare nell’oscurità più totale, per mia sfortuna: Louis si fermò e io con lui, pietrificata. Lo sentii sorridere, o almeno così pensavo: «Hai paura del buio, Vicki?» mi chiese, come se stesse segnando l’inizio di un’avventura degna da film horror.
«No.» sussurrai, deglutendo a vuoto. Bugia.
«E perché stai tremando, allora?» domandò, come se fosse alle prese con una bambina che sa di mentire.
Non riuscivo a capire quanto fosse vicino o dove fosse di preciso: in base alla sua voce, sembrava essere davanti a me e magari, se avessi allungato la mano, sarei riuscita a toccarlo. Improvvisamente, una luce fioca e sfuggevole ci illuminò, probabilmente come effetto speciale, e io riuscii a vedere Louis, più vicino a me di quanto pensassi. Stava sorridendo.
«Mi è venuto freddo.» gli assicurai, chiudendo gli occhi. Un’altra bugia.
Per qualche secondo rimasi immobile, con le orecchie tese a captare qualsiasi rumore: «Perché hai paura del buio?» chiese Louis in un sussurro, al mio orecchio. Io sobbalzai per lo spavento e udii una sua risata soffocata: mi voltai, sicura che fosse alle mie spalle, dato che avevo distintamente percepito il suo respiro sul mio collo. Di nuovo, la stessa luce di prima mi donò la vista, anche se per pochi secondi, ma di Louis non c’era traccia. Quando piombai per la seconda volta nel buio, mi paralizzai: «Dove sei?» chiesi, con la voce tremante. L’oscurità aveva il potere di destabilizzarmi: non sopportavo non vedere cosa mi stava intorno, mi sembrava di vagare nel nulla più totale, ecco perché ne avevo paura. In realtà non sapevo se avessi più paura del buio o del vuoto.
«Sono qui.» rispose lui, mentre sentivo la sua mano sfiorarmi i capelli, sciolti sulle mie spalle.
«Ho paura, ok?» ammisi, mordendomi l’interno della guancia.
«Non mi dire.» rispose in modo ironico, facendomi sorridere.
Per l’ennesima volta, calò il silenzio tra di noi: «Louis?» lo chiamai, mentre i miei occhi cercavano di abituarsi al buio. Ma lui non rispose.
«Louis?» chiamai di nuovo.
«Vicki, posso fare una cosa?» lo sentii chiedere, mentre mi rilassavo al pensiero che fosse ancora con me.
«Che cosa vuoi fare?» domandai, incuriosita e anche un po’ spaventata.
Non rispose a parole, ma i suoi gesti si spiegarono meglio. Sobbalzai quando senti qualcosa sfiorarmi delicatamente un braccio, probabilmente la sua mano, ma lo lasciai fare, sperando che facesse quello che stavo immaginando. L’altra sua mano si spostò sulla mia schiena, come se quel posto fosse il suo preferito, e lentamente mi attirò al corpo di Louis, facendo aderire il mio petto al suo. Il suo profumo un po’ aspro mi invase la narici, facendomi dimenticare per un attimo di dove fossimo.
Rabbrividii quando riconobbi le sue labbra sul mio collo a lasciare dei baci delicati, poi quel contatto finì, con mio grande dispiacere: «Hai ancora paura?» sussurrò, a quella che mi sembrò una distanza minimo dal mio volto.
«No.» risposi sicura, deglutendo la mia impazienza.
Un’altra luce, questa volta di un rosso fioco, mi permise di assicurarmi che il viso di Louis fosse molto vicino al mio, e per un attimo riuscii persino a guardarlo negli occhi. Nessuno dei due disse altro, forse perché Louis si stava già avvicinando, forse perché io non volevo nient’altro.
Quando le mie labbra vennero sfiorate dalle sue, mi accorsi che il mio cuore stava battendo più veloce del solito non più per il terrore, ma per qualcos’altro. Fui io a ristabilire il contatto, a cercare di nuovo la sua bocca per assaporarne il sapore e per sentire le sue labbra sottili farsi sempre più umide e morbide.
La sua presa si intensificò mentre io gli circondavo la schiena con le braccia: in sottofondo c’erano le urla lontane delle altre persone presenti nella “Casa degli orrori”, i versi di chissà quale mostro o zombie che faceva il suo lavoro e una musichetta inquietante che aveva un brutto effetto sulle persone come me, eppure io riuscivo a concentrarmi solo su Louis, sulla sua lingua che cercava la mia e sulla sua dolcezza.
Dopo forse un minuto, dovetti abituarmi all’assenza delle sue labbra sulle mie: «Mi dovevi un bacio, no?» mi chiese, e io non potevo vederlo, ma ero convinta che stesse sorridendo.
«Non avevi detto di essere un gentiluomo?» ribattei divertita, ancora scossa da quello che era appena successo.
«Ci ho ripensato.» mormorò, lasciandomi un altro bacio a fior di labbra.






 




Splendoriiiiiiiiiii! Eccomi qui! Scusate, come sempre, per il ritardo!
Giuro che io ce la metto tutta, ma è già tanto se ho tempo per respirare ultimamente!! In più, sforno questi capitoli che lasciano molto a desiderare, quindi spero non mi odierete!
Come promesso, è tutto incentrato su Vicki e Louis: ho intenzione di farvi capire i loro caratteri un po’ per volta :) Di Louis si intuisce il suo essere un po’ infantile, ma non fatevi ingannare, perché è un ragazzo molto particolare! E Vicki, be’, lei… Perché ve ne sto parlando? Non posso svelarvi troppe cose! Comunque… quante si aspettavano che si sarebbero baciati sulla ruota panoramica? Ci avevo pensato, a dir la verità, ma poi mi sono detta: “Da quando sei diventata così banale e scontata?” ahaha Spero che l’alternativa vi sia piaciuta :)
Come avrete notato, Louis è diventato più di un semplice amico: quale sarà secondo voi il suo ruolo, stando a quello che è successo? Su, su, voglio i vostri pareri :)
 
Grazie mille per continuare a seguire questa storia, nonostante io non riesca ad aggiornare come un tempo e nonostante i miei capitoli stiano un po’ perdendo colpi (?) Me ne accorgo e ne sono consapevole, quindi non provate a farmi cambiare idea!
In ogni caso grazie anche per il continuo appoggio!
Vi chiedo di farmi sapere cosa ne pensate! Anche – e soprattutto – se qualcosa non vi è piaciuto! Ho notato che nello scorso capitolo sono calate un po’ le recensioni, quindi penso che non vi sia piaciuto :/ Ci sta eh, per carità, però mi farebbe piacere che mi diceste perché!
Anche per messaggio privato, se non volete lasciare una recensione, almeno posso rimediare :)
In sintesi: ditemelo pure, se trovate qualcosa che non va :)
Detto questo, vi mando un bacione!
A presto :)

 


 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Shit, you're here ***




Shit, you're here

Capitolo 7


Harry.
 
Vagando per casa senza una vera meta, continuavo a frizionare i miei capelli umidi con un asciugamano, ormai bagnato: il salotto del nostro appartamento era completamente invaso dalla luce ancora debole del sole delle undici di mattina. Mi fermai davanti alla finestra, ammirando la Londra mattutina e il cielo chiaro, che probabilmente sarebbe cambiato da un momento all’altro, come al suo solito.
Ero sveglio per miracolo, nonostante avessi dormito più o meno dodici ore: la sera prima ero crollato come un bambino mentre guardavo la tv, in una delle rare volte in cui rimanevo a godermi la casa vuota.
Mi incantai ad osservare le auto bloccate nel traffico, giù in strada, e quasi non mi accorsi dell’arrivo del mio coinquilino.
«Vuoi farti fotografare nudo davanti alla finestra?» esordì, infatti, la voce di Louis. Mi voltai verso di lui, appena entrato in salotto, e lo guardai sedersi sul divano sospirando.
«Per loro sono solo a petto nudo.» precisai divertito, riferendomi al fatto che la finestra mi arrivasse all’altezza degli addominali. Mi girai completamente, dando le spalle alla città fuori dal nostro appartamento, e mi appoggiai al davanzale, grattandomi la pancia.
«Certo, il resto lo riservi solo a noi.» commentò Louis con tono piatto, chiudendo gli occhi e abbandonando la testa all’indietro sullo schienale.
Sorrisi e appoggiai l’asciugamano sulle mie spalle: «Dopo tutti questi anni avresti dovuto farci l’abitudine.»
Lui non rispose, limitandosi a fare un gesto di noncuranza con la mano, per poi sbadigliare.
«Che c’è, hai fatto le ore piccole? – chiesi, spostando un riccio umido che mi si era appiccicato sulla fronte – Non ti ho sentito nemmeno rientrare.»
«Sembri mia madre.» fu il suo commento, accompagnato da un sorriso.
«Be’, dovrò pur sapere se il mio migliore amico si sta dando alla pazza gioia con una certa Vicki.» ribattei, facendo schioccare la lingua sul palato come se la sapessi lunga.
«Sembri comunque mia madre.» ripeté, aprendo gli occhi per guardarmi con aria divertita.
Alzai le spalle e spostai lo sguardo sull’orologio appeso al muro di fronte a me: era tardi, molto tardi. Sospirai e mi diressi verso la mia stanza, pronto a vestirmi e ad uscire.
«Hai il segno del davanzale sul culo.» esclamò Louis. Istintivamente mi coprii il sedere con le mani, ridacchiando, e , senza fermarmi, «Guarda da un’altra parte.» gli risposi.
 
«No davvero, da quant’è che uscite?» esordii, sistemandomi la t-shirt nera, un po’ troppo stropicciata. Louis era ancora in salotto, nella stessa identica posizione di quando l’avevo lasciato lì pochi minuti prima. Mi guardò avvicinarmi con le braccia aperte e appoggiate sullo schienale, le gambe divaricate: il dipinto della voglia di vivere, insomma.
«Chi?» chiese, confuso.
«Come chi? Tu e Vicki! – risposi, stupendomi di quanto quella mattina il mio amico fosse da tutt’altra parte – Cos’è, la seconda volta che uscite? La terza?»
«La terza, ieri sera.» rispose, tamburellando con i piedi a terra un motivetto familiare ma che non riuscivo a riconoscere. Raccolsi il telefono dal tavolo su cui l’avevo lasciato e «È simpatica.» commentai.
«Hmhm.» fu la sua semplice risposta, appena mormorata. Alzai lo sguardo su di lui e lo guardai un po’ stupito: «Ed è anche bella.» aggiunsi, sperando di ricevere una reazione più… energica.
«Già.»
«Louis Tomlinson, che ti prende?» chiesi, sconvolto dal suo comportamento. Gli si addiceva poco quel muso lungo, anche perché non era mai stato un ragazzo di quelli che hanno le palle girate appena si svegliano. Anzi, quello ero io, per definizione. Inoltre di solito era un gran chiacchierone, una specie di radio che non si riusciva a spegnere, invece quella mattina era come privo di ogni vitalità.
«Hazza, da quando in qua hai tutta questa voglia di parlare, di mattina?» rigirò lui la domanda, guardandomi con un sopracciglio alzato.
«Acido del cazzo.» borbottai, lanciandogli contro una maglietta appallottolata, lasciata su una sedia nel nostro solito disordine. Lo sentii abbozzare una risata, mentre mi tiravo su i pantaloni scuri, e mi arresi al fatto che non avesse voglia di perdersi in chiacchiere: forse era successo qualcosa. A differenza di quanto potesse sembrare, Louis non amava confidarsi e raccontare del proprio stato d’animo: era capace di parlare a raffica per ore, rompere le palle con battute stupide per altrettanto tempo, ascoltare e consigliare i suoi amici su qualsiasi problema, intrattenere le fans e scherzare per l’intera durata di un concerto, eppure non amava aprirsi agli altri, rimanere scoperto.
«Dove vai?» chiese, togliendosi la maglietta dalla faccia e guardandola per capire a chi appartenesse.
«Devo andare a pranzo con Nick.» risposi con aria assente, mentre osservavo lo schermo del mio iPhone,  sul quale comparivano diverse chiamate da un numero che non riuscivo a ricordare. Alzai le spalle e pensai che se fosse stato importante mi avrebbe richiamato, chiunque fosse: era strano che qualcuno avesse il mio numero, dato che lo cambiavo molto spesso e lo davo solo alle persone più vicine a me. Troppe volte le nostre fans/agenti speciali della CIA erano riuscite a scoprirlo e a bloccarmi il telefono con le mille chiamate.
«Ci vediamo stasera allora. – spiegò – Perché dopo pranzo passo da…»
«Vicki?» provai a completare, ricevendo in risposta uno sguardo omicida.
«Da Liam, e poi usciamo.» concluse, stropicciandosi un’occhio con la mano.
«Ok,allora a più tardi.» lo salutai, sorridendogli divertito e scuotendo la testa. Lui alzò una mano in segno di saluto e io uscii di casa, pronto ad imbattermi nel caldo non molto insistente di quella giornata.
Appena misi piede sul marciapiede, recuperai gli occhiali da sole scuri, appesi allo scollo della mia t-shirt, e li misi per ripararmi dalla luce troppo accecante: la vibrazione del telefono mi distrasse e lo tirai fuori.
Sullo schermo troneggiava un messaggio di Louis.
 
«Ieri mi ha chiamato El. Ha saputo di Vicki e vuole parlare.»
 
Ah.

 

~~~

 
Bussai insistentemente alla porta, dopo aver già suonato, e cercai di regolare il mio respiro reso accelerato dalla corsa di poco prima. Sorrisi, quando sentii la sua voce urlare un “Arrivo!”, seguito da qualche imprecazione.
Mi passai una mano tra i capelli, mettendoli un po’ in ordine o forse in disordine, e aspettai di vedere il viso di Abbie accogliermi: dopo qualche secondo, infatti, la porta era aperta e lei mi stava guardando con un sopracciglio alzato e un’espressione poco rassicurante.
«Ti sembra il caso di bussare così? Sembrava volessi buttare già la porta!» mi rimproverò, con una mano sul fianco e l’altra a tenere la maniglia in ottone.
Ridacchiai e feci un passo verso di lei: «Ciao, Abbie.» la salutai, lasciandole un bacio sula guancia ed entrando in casa.
«Ma noi non dovevamo vederci dopo pranzo?» chiese, un po’ confusa dalla mia irruzione in casa sua, chiudendosi la porta alle spalle lentamente. Mi presi un paio di secondi per guardarla nella sua tuta grigia e con i capelli sempre perfettamente in ordine a contornarle il viso di porcellana: non le piaceva quando la fissavo, ma io lo facevo di nascosto, sempre.
«Sì, infatti ora dovrei essere a pranzo con Nick, ma ho dimenticato qui il portafoglio.» risposi, scrutando ogni angolo del suo piccolo salotto alla ricerca di ciò che mi apparteneva.
«Il portafoglio?» ripeté lei.
Io annuii: «Ieri pomeriggio devo averlo lasciato qui.» spiegai, alzando i cuscini del divano.
«Coglione.» mi prese in giro, scuotendo la testa.
Alzai lo sguardo su di lei e la trovai con le braccia incrociate ad osservarmi: «Modera i termini, signorina. Ti ricordo che se tu non mi avessi rovesciato quel tuo dannato succo di frutta sui pantaloni, io non avrei dovuto umiliarmi indossando dei tuoi pantaloncini e avrei avuto ancora in mio portafoglio.»
Sorrisi al pensiero di quando, il giorno prima, ero stato sommerso dal succo di Abbie, che aveva imbrattato i miei pantaloni, rischiando di mandarmi in pappa il telefono e il portafoglio: per questo l’avevo tolto per farlo asciugare, mettendo al sicuro anche il portafoglio, che poi avevo lasciato chissà dove.
«Se tu avessi le gambe un po’ più corte, la gente non inciamperebbe su di te.» si giustificò, alzando un sopracciglio con aria superba.
«Vorrà dire che la prossima volta terrò le mie gambe lunghe fuori da casa tua.» ribattei, guardandomi ancora intorno.
Con la coda dell’occhio la vidi avvicinarsi a me, facendo ricadere le braccia lungo il suo corpo: mi voltai verso di lei e rimasi di sasso nel constatare quanto mi fosse arrivata vicina.
I suoi occhi quasi trasparenti erano alzati su di me, sfacciati come sempre e in grado di confondermi, come sempre. Per qualche secondo ci limitammo a guardarci con i nostri petti quasi a sfiorarsi. Abbie si avvicinò ancora impercettibilmente e mosse un braccio verso di me: il mio corpo si stava già preparando al contatto, quello che mi provocava dei brividi sempre della stessa intensità, ma dovette ricredersi, perché la sua mano non mi sfiorò nemmeno.
Lentamente, infatti, si intrufolò tra di noi e sventolò davanti al mio viso il mio portafoglio, riempendo la scarsa distanza che ci divideva: «Coglione.» ripeté Abbie, lasciandosi scappare una risata che io imitai, afferrando ciò che mi apparteneva.  Evidentemente, l’unico posto in cui non avevo cercato era il tavolino dietro di me.
Lei si alzò sulle punte velocemente e appoggiò le sue labbra sulla mia guancia, con aria divertita: per un attimo avevo sperato che il suo obiettivo fosse un altro. Mi lasciai distrarre dal suo profumo e dalla voglia di uscire dalla situazione in cui ci trovavamo: non stavamo insieme, ma c’era qualcosa tra di noi; non eravamo semplici amici, eppure non ci eravamo mai spinti oltre. Continuavamo a rimanere in una specie di limbo, entrambi con la voglia di evadere e nessuno dei due con la forza o il coraggio di farlo.
«Ci vediamo dopo. - esclamò allegra, prima di allontanarsi e passarsi una mano tra i capelli mentre si dirigeva in cucina – Salutami Nick.» disse poi, alzando un po’ la voce per farsi sentire.
Io rimasi qualche secondo a fissare il punto in cui era sparita dietro la porta e scossi la testa, arreso alla sua personalità. Mi rigirai il portafoglio tra le mani e lo misi in tasca, ripromettendomi di non toglierlo più.
«A dopo!» la salutai, uscendo di casa con un sorriso sulle labbra.
 
Non riuscivo a capire perché io dovessi essere costantemente in ritardo, soprattutto quel giorno: credevo di fare tutto di corsa, ma alla fine mi ritrovavo sempre ad essere l’ultimo ad arrivare. Nick mi aveva accolto al tavolo con un sopracciglio alzato e scuotendo la testa con aria di rimprovero e di divertimento, probabilmente arreso al mio modo d’essere: ero rimasto con lui per circa due ore e mezza, o almeno era quello che pensavo. In realtà, quando avevo guardato il telefono, mi ero accorto che erano passate più di tre ore, il che voleva dire che ero nuovamente in ritardo, questa volta con Abbie.
Alla guida del mio Suv scuro, stavo giusto andando da lei, nervoso per il traffico e rallegrato dal suo messaggio che mi era appena arrivato: “Sei sempre il solito: ti odio.”
Ebbene sì, lei non sopportava di dover aspettare qualcuno e ammetto che spesso mi piaceva farla arrabbiare solo per poi farci pace subito dopo.
Stavo digitando la risposta, spostando velocemente gli occhi dallo schermo dell’iPhone alla strada, per evitare di fare qualche incidente, quando ricevetti una chiamata: il numero sconosciuto era lo stesso che più volte, quella mattina, mi aveva chiamato senza ricevere alcuna risposta; non l’avevo fatto apposta, semplicemente non avevo sentito la suoneria o ero impegnato a fare altro.
«Ma chi sei?» borbottai tra me e me, corrugando la fronte, incuriosito.
Accettai la chiamata e quasi inchiodai quando sentii un dolce «Harry?» provenire dall’altro capo del telefono. Sbattei le palpebre e deglutii a vuoto, concentrandomi su quella voce, su quell’intonazione a me tanto, troppo familiare.
Era impossibile che fosselei.
«Harry, ci sei?» mi richiamò, risvegliandomi dai miei pensieri, dalla mia confusione.
«Celeste?» chiesi con un fil di voce, come se avessi bisogno di una conferma: ogni millimetro del mio corpo l’aveva riconosciuta, ma dovevo sapere se si stesse sbagliando oppure no, avevo bisogno di sapere se me lo stessi solo immaginando.
«Ciao.» rispose lei. E io la conoscevo bene: sapevo che in quel momento probabilmente stava sorridendo, ma dovevo evitare di pensarci, o avrei perso il controllo sul mio cuore ormai malandato.
Accostai velocemente, innervosito dal traffico e con l’impressione di stare per soffocare.
Dopo qualche secondo di silenzio, che io non ero riuscito a riempire con alcuna parola, fu Celeste a parlare: «Possiamo vederci?» domandò, mentre io trattenevo il respiro.
«Sei… Sei a Londra?» ribattei allarmato, travolto da una decina di sensazioni che tutte insieme mi stavano torturando.
«Sì.» fu la sua semplice risposta, quella che mi diede il colpo di grazia, quella che stavo aspettando da quasi dieci mesi ormai.
«Dove sei?» chiesi senza pensarci due volte e accendendo la macchina con un gesto automatico.
«Sotto casa tua. Sempre se abiti ancora qui.»
«Sto arrivando.» dissi con decisione, il corpo che fremeva per raggiungerla il più in fretta possibile.
«Ti aspetto.»
Feci inversione, preparandomi ad affrontare anche un’ora di traffico pur di arrivare a casa, di arrivare da Celeste: il mio cuore continuava a battere all’impazzata e io dovevo ancora comprendere a pieno quello che stava succedendo.
In fondo era tutto così strano, così impossibile, ai miei occhi: che fosse uno scherzo? Un sogno?
No, non poteva essere, perché la sua voce era ancora nelle mie orecchie, dolce e vellutata come sempre: lei era a Londra, lo era davvero.
Sospirai e mi lasciai scappare un sorriso, scuotendo la testa: era tornata.
In un secondo ogni ricordo con lei riemerse dal cassettino in cui l’avevo rinchiuso parecchio tempo fa; tornò tutto davanti ai miei occhi, comprese le sue parole, quelle che mi avevano spezzato in due quel giorno di ottobre: «Harry, se io andassi a studiare in America… Tu che faresti?»
Tornò la voglia di seguirla, ma la consapevolezza di non poterlo fare.
Tornò il litigio che aveva seguito quella domanda, comprese la mia sofferenza e la sua, che peggiorava tutto.
Tornò il giorno prima della sua partenza, la notte passata insieme, e anche il momento dell’addio, quello in cui salutarsi all’aeroporto era stato fin troppo doloroso, per entrambi.
Tornò tutto e per un attimo mi sembrò di non poter gestire tutte quelle emozioni, tutti quei ricordi.
Venni distratto dalla suoneria del mio iPhone, ma questa volta sullo schermo lampeggiava la scritta “Abbie”. Fissai per un paio di secondi quel nome, poi spensi il telefono.
 
Celeste era appoggiata al muro bianco del mio palazzo e io mi ero preso qualche minuto per osservarla da alcuni metri di distanza: i capelli mossi, lunghi fino al seno, erano di un castano più chiaro di come lo ricordavo, probabilmente a causa di una tinta che si era fatta; gli occhi scuri erano quasi irreali, mentre venivano illuminati dal sole del caldo pomeriggio, e le sue labbra rosee erano di certo migliori di quelle che avevo conservato nella mia scarsa memoria; il suo corpo minuto mi provocava ancora lo stesso senso di protezione, la voglia di stringerlo a me per ore.
Tutto di lei mi attirava. Esattamente con la stessa intensità di una volta.
Presi un respiro profondo e mi mossi, consapevole del fatto che, se avessi aspettato ancora, sarei stato sovrastato da fans in cerca di foto e autografi: mi avvicinai a lei e, quando le fui abbastanza vicino, feci scivolare delicatamente la mia mano nella sua, facendo incastrare le nostre dita.
Celeste si voltò verso di me, spaventata, ma quando mi riconobbe mi regalò uno dei suoi sorrisi: rischiai di rimanere lì impalato ad osservare le sue labbra inclinate e i denti bianchi lasciati scoperti, mentre la fossetta sulla sua guancia destra, così simile alla mia, faceva capolino sul suo volto.
«Harry! Harry!» sentii gridare alle mie spalle da qualche ragazza; quello fu il segnale che mi spinse a correre dentro il palazzo, con la mano ancora stretta alla sua, e a lasciarmi alle spalle il resto del mondo, mentre le porte di vetro si chiudevano dietro di noi.
Salii le scale con lei che mi seguiva in silenzio, proprio come era successo altre volte in passato, e dopo due piani entrammo nell’appartamento senza dire una parola.
L’ultimo rumore che sentii fu quello della porta che sbatteva, a causa della fretta con cui eravamo entrati.
Mi passai una mano tra i capelli, guardando la parete di fronte a me e cercando di regolarizzare il respiro.
Solo dopo un minuto buono mi voltai, fermando i miei occhi verdi nei suoi, tanto scuri da risucchiarmi: mi stavano guardando in attesa, forse senza sapere cosa aspettarsi, e in verità nemmeno io sapevo come avrei dovuto comportarmi in quella situazione.
Non lo sapevo, ma feci qualcosa lo stesso: seguendo l’istinto, ricoprii quel paio di metri che ci dividevano con pochi passi, e velocemente mi ritrovai di fronte a lei. Non aspettai un secondo di più per stringerla a me con tutta la forza che avevo, affondando il viso nei suoi capelli troppo lunghi e nel suo profumo troppo dolce, lo stesso di sempre: chiusi gli occhi nel sentire le sue braccia circondarmi le schiena e le sue mani aggrapparsi alla mia maglietta.
«Cristo, Alice…» sussurrai sulla pelle del suo collo, baciandola delicatamente.
Lei strinse un po’ di più la presa e «Quando mi chiami Alice c’è qualcosa che non va.» rise. Mi beai di quel suono che mi era tanto mancato e raccolsi un po’ di coraggio per allontanarmi dal suo collo e guardarla negli occhi.
«Qualcosa che non va? – chiesi, ironico – Cazzo, tu sei qui.» dissi, come se avessi avuto una rivelazione.
Celeste annuì e sorrise, così io non riuscii a trattenermi e tornai ad abbracciarla, facendola ridere. Era così bello poterla tenere di nuovo tra le mie braccia: non pensavo nemmeno sarebbe potuto succedere di nuovo, almeno non così all’improvviso.
«Quando sei arrivata? – domandai, per poi fissare per la seconda volta i miei occhi nei suoi – E come hai avuto il mio numero? Quanto resterai? Voglio dire… resterai?»
Per un attimo lessi della malinconia nei suoi occhi, ma fu spazzata subito via, anche perché io mi concentrai sul movimento delle sue labbra mentre rispondeva: «Sono arrivata ieri e… Ho chiesto a tua sorella il tuo numero, perché sapevo che non sarebbe stato lo stesso di…  Be’, di qualche mese fa.»
«Gemma? – ripetei, stupito – Non sapevo vi sentiste.»
Celeste alzò le spalle ed entrambi rimanemmo in silenzio, semplicemente guardandoci negli occhi, come se dovessimo recuperare quello che non avevamo potuto fare negli ultimi tempi.
Quando lei mi aveva detto di dover partire, io mi ero arrabbiato: stavano andando così bene le cose tra di noi, che mi sembrava una crudeltà la sua decisione. Mi ero innamorato e lei voleva trasferirsi a migliaia di chilometri da me.
Eppure ci avevamo provato: avevamo cercato di sentirci, di vederci tramite Skype, di usare ogni mezzo di comunicazione da noi conosciuto per rimanere insieme, ma non era stato abbastanza. Io ero un membro degli One Direction e il mio tempo libero era sempre di meno, senza contare che il fuso orario si ritorceva contro di noi senza alcuna pietà: e lei era così felice di studiare in America, che io mi chiedevo se tenerla legata a me fosse passato dall’essere un atto d’amore all’essere un atto di puro egoismo.
Quindi l’avevo lasciata andare, o meglio, ci eravamo lasciati andare a vicenda.
Mi riscossi da quei pensieri quando Celeste mi attirò di nuovo a sé, incastrando il viso nell’incavo del mio collo e sospirando sommessamente: «Mi dispiace, Harry. – sussurrò – Io non…»
«Shh… - la interruppi, accarezzandole i capelli e lasciandole un bacio sulla testa  -  È tutto ok.»
Non ci vedevamo da parecchi mesi: l’ultima volta ero andato a Los Angeles, da lei, durante una pausa dagli impegni, ma poi non ce n’era stata più l’occasione. Tutto quello che volevo in quel momento non era di certo parlare e rivangare sensi di colpa: avevo solo bisogno di assorbire la sua presenza, quella che mi ero visto strappare vie così velocemente.
Portai le mani alla base del suo viso e sul suo collo, avvicinandomi al suo volto, ma la sua espressione era ancora tormentata: «Mi dispiace sul serio. Mi sei mancato così tanto che…»
La zittii baciando le sue labbra, con tutta la passione che il suo semplice sguardo creava in me, con tutto il desiderio che avevo provato a nascondere per tutto quel tempo: Celeste si rilassò, dopo l’iniziale sopresa, ed entrambi mettemmo da parte le colpe che ci sentivamo addosso, pensando solo a goderci quel momento tanto atteso.





 

 

Ma ccccccccccccccccccciaaaaaaaaaaaao :D
Di solito non aggiorno mai a quest’ora, ma stasera ho finito di scrivere il capitolo e ho pensato: “Massì, perché non lo pubblico adesso?” :) Quindi eccolo qui! Allora, che ve ne pare? Non so in quante avevano letto lo spoiler su facebook in cui dicevo che il capitolo non sarebbe stato dal punto di vista di Vicki: vi aspettavate Harry? :)
Molte di voi mi hanno sempre chiesto che fine avesse fatto la coppia Louis-Eleanor e quella Niall-Abbie, però nessuna si è ricordata che alla fine di “Unexpected” Harry stava con Alice :) Però andiamo in ordine, se no viene fuori un casino ahhaha
Innanzitutto: si scopre un altro piccolo lato di Louis, che preferisce tenersi tutto dentro e scrivere poi un messaggio al suo migliore amico, piuttosto che parlarne apertamente! Eleanor è venuta a sapere di Vicki: secondo voi in che rapporti sono? Come interpretereste la reazione di Louis e il suo poco entusiasmo? Io ho la bocca cucita :)
Poi, poi, poi: Harry va da Abbie! (Ilaria bella, so che a quel punto stavi facendo i salti di gioia hahah) Si capisce, o almeno spero lol, che i due passano del tempo insieme e il loro rapporto viene definito da Harry stesso: sono bloccati in una situazione ambigua e Styles sembra aver conservato i suoi vecchi sentimenti per lei. Ma Abbie? E Niall in tutto questo? Ok, lascio a voi le ipotesi hahah
Infine Harry riceve la chiamata da Alice, completamente inaspettata: lei è tornata e vi ho già anticipato un po’ della loro storia durante l’anno che è passato da “Unexpected”, diciamo. I sentimenti del nostro ricciolino non sono molto cambiati, questo si capisce, e anche lei sembra essere ancora molto presa da lui: la loro reazione nel rivedersi parla chiaro :) Be’, non avrei molto da dire, in realtà, perché è tutto abbastanza chiaro, più o meno!
Secondo voi come si evolverà la situazione? Harry ha ignorato Abbie, alla fine: che cambiamenti ci saranno nel loro rapporto? Ed Alice che ruolo avrà? Sì, insomma, fatemi sapere :)
 
Vi ringrazio tantissimo per tutto quello che fate per me ** Sappiate che siete meravigliose e super-mega-gentili, sin troppo! Spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto! È la prima volta che mi cimento (?) nell’uso di POV, quindi se c’è qualcosa che non vi convince ditemelo pure :)
Ah, per chi avesse avuto la curiosità: gli unici punti di vista che non vedrete sono quelli di Louis e di Zayn, ahimè! Anzi, di Zayn ce ne sarà uno: piccolo, ma… parecchio intenso! Ok, ho detto troppo ahahah Ci sentiamo presto bellezze! Risponderò alle recensioni appena potrò, giuro!
Un bacione jfdkshalk

 



 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Fuck you all ***




Fuck you all

Capitolo 8

 

Vicki.
 
«Non vedo l’ora di vedervi insieme» esclamò esaltato Steve, seduto al mio fianco nei sedili posteriori dell’auto. Christian, al posto del guidatore, mi lanciò un’occhiata soddisfatta tramite lo specchietto.
«Vedere chi, scusa?» chiesi, facendo la finta tonta.
«Te e Louis Tomlinson, ovvio. – precisò il mio amico, alzando le spalle – Dalle foto che circolano in giro si direbbe che ormai uscite spesso, no?»
Tossicchiai solo per prendere tempo, mentre le immagini che Stephanie mi aveva sventolato davanti agli occhi mi si ripresentavano in mente: era quasi inquietante sapere quante persone si sforzassero di seguire i nostri spostamenti, pronte a scattare fotografie nei momenti meno opportuni.
«Piantala» lo ammonii, facendogli una smorfia. Non avevo intenzione di parlarne: ero già abbastanza agitata per conto mio.
«Ragazzi, concentratevi su quello che dobbiamo fare, piuttosto. – intervenne il nostro superiore, ridacchiando – Da questo incontro dipendono molte cose».
«Ce la faremo» gli assicurò Steve, sorridendo in modo incoraggiante. Io annuii e spostai lo sguardo fuori dal finestrino, osservando le auto imbottigliate nel traffico di Londra proprio come noi.
Stavamo andando all’hotel “Jupiter”,rinomato per il suo lusso e la moltitudine di persone famose che aveva ospitato: gli One Direction non alloggiavano lì, ovvio, ma proprio un una delle sue sale si sarebbe tenuta la riunione tra loro e la “Christian&Catering”. Dovevamo organizzare un’altra serata per loro – inutile dire quanto il mio capo fosse eccitato e soddisfatto dall’idea – e io e Steve eravamo stati scelti per prendere appunti, per così dire, riguardo le loro richieste.
Ero abbastanza agitata all’idea di rivedere tutti quanti, in particolar modo Louis: due sere prima eravamo usciti e avrei giurato che le cose stessero andando più che bene, a detta del mio stupido cuore; eppure, da quella volta, Louis era sparito – ancora -, obbligandomi a far ruotare tutti i miei pensieri intorno a lui e facendomi creare un centinaio di filmini in testa, filmini in cui ipotizzavo cosa avessi potuto fare di sbagliato che lo avesse potuto portare ad allontanarsi.
Sospirai e, senza che potessi pensare ad altro, la macchina accostò di fronte all’hotel: il momento era arrivato sin troppo in fretta e, per completare il quadretto, decine di fans si accalcavano all’entrata. Scendendo dall’auto, alcune di loro mi riconobbero persino e non tutte sembravano vedermi di buon occhio; respirai profondamente e ignorai tutto e tutti, trovandomi in men che non si dica all’interno della lussuosa hall: pavimenti in marmo lucido, lampadari sfarzosi e mobili preziosi.  Niente di che, insomma: mi chiedevo se anche il signore che ci stava accogliendo con il suo modo di fare gentile e – a mio parere – falso fosse fatto di qualche materiale costoso.
«Mi raccomando» disse di sfuggita Christian, guardandoci con serietà mista a implorazione, prima che le porte della sala venissero spalancate di fronte a noi: i miei occhi balzarono da una parte all’altra della stanza, ammirando la sua eleganza e la sua grandezza. I ragazzi, insieme ad altre poche persone – tra le quali tecnici della musica, e altre figure importanti per l’organizzazione dell’evento - , erano riuniti vicino ad un tavolo coperto da una tovaglia candida che offriva cibo e bevande in quantità. Non potei fare a meno di concentrarmi subito su Louis, intento ad assaggiare con gustoso un pasticcino: ogni volta che lo vedevo, mi dimenticavo di quanto fosse bello.
«Vicki, muoviti, andiamo» mi spronò Steve, esaltato da quello che stava succedendo. Mi riscossi dai miei pensieri e lo seguii verso gli One Direction: fummo fermati, però, da una conoscenza di Christian, che iniziò a parlare di quanto gli facesse piacere fare affari con lui e di come si aspettasse grandi cose da noi. A quanto pare era uno dei loro manager e mi rincuorò il fatto che la nostra agenzia fosse vista di buon occhio.
Una mano sul mio polso mi afferrò proprio mentre Davis, questo era il suo nome, ci invitava a servirci, prima di iniziare la riunione. Qualcosa, dentro di me, sapeva già chi fosse stato ancora prima che potessi girarmi per accertarmene: quando accadde, infatti, non mi stupii nell’incontrare le iridi azzurre di Louis.
Gli sorrisi spontaneamente, cercando di tenere sotto controllo il mio corpo, scosso dall’emozione, ma smisi di farlo quando notai nel suo viso un’espressione fin troppo seria, mentre mi allontanava dal resto dei presenti: aprì una porta secondaria e ci ritrovammo in una saletta  occupata da pochi mobili – meno prestigiosi – e una grande scrivania al centro.
Mi accorsi di aver trattenuto il respiro solo quando la mano di Louis lasciò andare il mio polso: lo guardai stare in piedi davanti a me, con gli occhi fissi nei miei e le labbra serrate. La sua espressione non presagiva assolutamente niente di buono e questo mi spaventava. Lentamente, il mio entusiasmo nel rivederlo stava svanendo.
«Hey…» provai a dire, abbozzando un altro sorriso: in realtà dentro mi sentivo divorare dall’impazienza, perché lui non mi aveva mai guardata in quel modo, né io l’avevo mai visto così serio. Corrugai la fronte e deglutii a vuoto quando non ricetti nessuna risposta: le mie mani stavano iniziando a sudare e io mi ritrovai a pregare che si decidesse a parlare.
«È meglio lasciar perdere. – esclamò dopo qualche altro secondo – Tra noi due, intendo».
Sbattei più volte le palpebre, stupita dalle sue parole: cosa era successo? Avevo fatto qualcosa di male? Qualcosa mi diceva che no, non avevo sbagliato in niente: semplicemente, per l’ennesima volta, mi ero illusa. Stephanie mi aveva avvertita, mi aveva detto che probabilmente Louis Tomlinson si stava solo divertendo, ma io non avevo voluto crederle, perché avevo preferito affidarmi ai suoi occhi azzurri e alle sue carezze delicate. Stupida.
«Sono tornato con Eleanor» aggiunse, dandomi il colpo di grazia.
Eleanor, la sua ex fidanzata storica. Eleanor, la stessa che l’aveva accompagnato per due anni della sua vita. Eleanor, la stessa che lui aveva lasciato pochi mesi prima perché pensava che la loro storia fosse diventata “monotona”. Eleanor, la stessa di cui mi aveva parlato senza mostrare alcuna emozione e baciandomi subito dopo.
Strinsi i pugni e rimasi in silenzio. Stupida.
«Mi dispiace» concluse, guardandomi ancora una volta prima di superarmi. Bugiardo.
Ero interdetta, ma l’istinto mi portò a girarmi e a fermarlo pronunciando una sillaba insensata: lui mi fissò duramente e «Cosa ti aspettavi?» domandò, per poi uscire dalla stanza.
Io continuai a guardare davanti a me, come se lui fosse ancora lì, e rimasi in quella posizione per alcuni minuti, pietrificata da quello che era appena successo, dalla freddezza delle sue parole.
Ero sopraffatta da mille domande: mi chiedevo cosa avesse potuto cambiare le cose tra lui ed Eleanor, quando lui mi aveva chiaramente detto di non voler più stare con lei; mi chiedevo se mi avesse usata come un semplice passatempo; mi chiedevo se mi fossi immaginata tutto, dai baci rubati ai messaggi in piena notte; mi chiedevo se solo io avessi provato una sensazione fastidiosa nel momento in cui mi era passato di fianco facendo attenzione a non sfiorarmi nemmeno.
D’altronde aveva ragione: cosa mi aspettavo?
 
Non guardarlo, ripetei nella mia testa, tornando dopo qualche minuto nella grande sala e avvicinandomi ai miei colleghi.
Ero sul punto di urlargli contro tutta la mia frustrazione, ma non era una buona idea, soprattutto in quel momento. Respirai profondamente più e più volte, cercando di smaltire la tensione: «Allora? Quando mi mostrerete un po’ d’azione? Devi darmi qualcosa su cui spettegolare!» bisbigliò Steve al mio orecchio, rincarando la dose.
«Non ci sarà nessuna azione, come dici tu – ammisi seriamente, tenendo lo sguardo sul tavolo imbandito davanti a noi – Mettiti l’anima in pace».
Sentii la sua mano accarezzarmi il braccio nudo: «Hey… Sembri già di morale, cos’è successo?»
Già, cos’era successo? Alzai gli occhi sul suo viso da ragazzino e lasciai che fosse la mia espressione a spiegare tutto: lui ne rimase quasi sconvolto, anche se non ebbe il tempo di commentarla, perché ci stavano richiamando per iniziare la riunione.
Mi avvicinai lentamente alla mia sedia, mentre Niall mi salutava con un cenno della mano che Liam imitò. Non so quanto assomigliasse ad un sorriso quello che rivolsi loro, ma improvvisamente anche la loro presenza mi dava fastidio: la verità era che volevo scappare da quell’hotell e tornarmene a casa mia. Non avevo voglia di organizzare una serata per i grandi One Direction, non avevo voglia di lavorarci insieme per il prossimo paio di settimane, non avevo voglia di vederli, di ascoltarli: non avevo voglia di stare nella stessa stanza con Louis.
Mi sedetti e, per tenermi occupata, misi in ordine alcuni fogli che avevo davanti: al mio fianco c’erano Steve e Christian, ma davanti a me c’erano due occhi azzurri che si ostinavano a far finta che non esistessi.
Non guardarlo.
Spostai lo sguardo sugli altri presenti e, quando incrociai quello di Harry, gli rivolsi un cenno del capo in segno di saluto: lui ricambiò con un sorriso che avrei quasi definito rassicurante. Sapeva di me e Louis?
Davis iniziò a parlare, sistemandosi il colletto aperto della una camicia azzurrina che indossava, ma venne interrotto dall’aprirsi improvviso della porta: tutti ci voltammo per capire di chi fosse l’intrusione e rimasi stupita nel vedere Abbie entrare di tutta fretta. Si sistemò i capelli corvini, sbuffando mentre si fiondava in una delle sedie vuote intorno al tavolo rotondo, al fianco di Zayn, l’unico che avevo intenzionalmente ignorato sin da subito: «Scusate il ritardo: a quanto pare, oggi, tutti gli abitanti di Londra hanno deciso di prendere la macchina e uscire. Ci ho messo tre quarti d’ora ad arrivare» spiegò, ricevendo in risposta delle rassicurazioni. Doveva essere una figura importante per i ragazzi, se li seguiva anche nelle loro riunioni di lavoro.
«Bene, ora che ci siamo tutti, possiamo iniziare sul serio – esordì di nuovo Davis, annuendo soddisfatto – Innanzitutto grazie a tutti per essere venuti: lo scopo di questa giornata è quella di organizzare un evento che possa promuovere il nuovo album, che uscirà tra circa un mese...»
Continuò a parlare in questi termini per circa cinque minuti: parlava, ma in realtà non diceva nulla di importante. Mi dava l’impressione di una persona che si perdeva nelle sciocchezze anche durante un discorso un po’ più serio: anche lui mi infastidiva. Anche la venatura del legno del tavolo che si estendeva davanti a me, mi dava fastidio: sembrava quasi volesse fare da filo conduttore tra me e Louis.
Non pensarci.
«Harry, inviterai anche Alice? È tornata ieri, no?» esclamò Liam, mentre si stava discutendo del numero di invitati e della loro… qualità, termine utilizzato da un collega di Davis. Dopo quelle parole, calò il silenzio tra i ragazzi, un silenzio strano e carico di imbarazzo: osservai Harry rivolgere uno sguardo di rimprovero al suo amico, che probabilmente si rese conto di aver detto qualcosa che avrebbe dovuto tacere, e poi voltarsi verso Abbie. La ragazza, con gli occhi gelidi fissati su di lui, stringeva tra le mani il bordo del tavolo: sembrava parecchio arrabbiata, anche se io non riuscivo a capire nulla di quello che stava succedendo, dato che non sapevo nemmeno chi fosse quella Alice. Zayn, d’altro canto, le passò una mano dietro la schiena, guardandola come se attraverso le sue iridi avesse potuto infonderle un certo senso di protezione: per un istante mi chiesi come ci si potesse sentire nell’averlo vicino.
«Abbie…» provò a dire Harry, ma il suo fu quasi un sussurro e, subito dopo, fu spazzato via da una voce più che familiare: «Stavamo dicendo? I Dums saranno tra gli invitati?» esordì Louis, probabilmente per salvare l’amico dall’ira che sembrava possedere Abbie.
Feci l’errore di guardarlo di sfuggita e me ne pentii subito dopo, perché la linea delle sue labbra sottili mi mozzava ancora il fiato e perché quegli occhi mi attiravano come poche cose in natura fanno tra loro, nonostante fossero attenti a non posarsi su di me nemmeno per sbaglio.
Stupida, ripetei nella mia testa, distogliendo lo sguardo.
 
Resisti.
Mi posizionai meglio sulla sedia e sospirai, mentre Steve, toccando gentilmente il mio gomito con il suo, cercava di infondermi un po’ di coraggio: stava facendo il possibile per mettermi a mio agio, nonostante fosse impossibile. Rispondeva al posto mio quando Louis faceva domande rivolte a noi, mi bisbigliava all’orecchio qualcosa di divertente quando mi vedeva incantarmi sull’unica persona che avrei dovuto imparare ad ignorare: io, intanto, pensavo a disprezzarmi. Odiavo essere così fragile, così esposta ad ogni forma di delusione. Mi illudevo troppo facilmente, e questo era risaputo, ma con la stessa facilità mi chiudevo in me stessa quando quella stessa illusione si sgretolava: le piccole cose mi abbattevano, nonostante alla mia età avessi dovuto essere leggermente più resistente.
Erano passati circa quarantacinque minuti dall’inizio della riunione e ne mancavano pochi prima di una piccola pausa che ci era stata promessa. Le mie gambe, sotto il tavolo, continuavano a muoversi nervosamente, impazienti di farmi alzare e portarmi lontana da lì, anche se per poco: i fogli per i miei presunti appunti erano scarabocchiati in modo disordinato lungo i bordi e, nell’angolo inferiore destro di uno di quelli, c’era scritto il minuscolo nome di Louis in corsivo. Sembravo una bambina sfigata che entra in depressione per nulla: d’altronde eravamo usciti solo tre volte, che motivo c’era di tirarla per le lunghe come stavo facendo io? Tre uscite erano davvero sufficienti per ridurre una persona nel mio stato? Evidentemente sì, se si trattava di me.
«Direi che possiamo fermarci qui, per ora – esclamò Davis, con grande approvazione di tutti – Ricominceremo tra un quarto d’ora. Ottimo lavoro» concluse, sorridendo.
Scappa, subito!
Mi alzai velocemente dalla sedia, facendola raschiare contro il pavimento e attirando l’attenzione su di me: non mi importava granché dei loro sguardi, in realtà, quindi raccolsi le mie cose e me ne andai. Mi infilai velocemente in una delle porte di quella sala, senza sapere a dove conducesse, e mi ritrovai in un piccolo bagno. Mi avvicinai al ripiano biancastro e lucido su cui erano montati due lavandini e mi guardai allo specchio: che visione triste e patetica. Io, rinchiusa nella stanza più banale e squallida del mondo, come se fossi in una commedia romantica degli anni settanta, a commiserarmi per la mia ingenuità.
Inspirai profondamente, cercando di ignorare la forte fragranza di deodorante per ambienti che aleggiava nell’aria, e appoggiai la mia borsa e i fogli sul ripiano.
Rimasi immobile per qualche minuto, probabilmente, infatti quasi mi spaventai quando vidi la porta aprirsi nel riflesso dello specchio: Zayn entrò nel bagno, deludendomi. Mi aspettavo davvero che Louis mi avrebbe raggiunta lì per riportare le cose a quelle che erano?
Quando alzò lo sguardo su di me, si bloccò per la sorpresa: non disse nulla e io lo imitai, senza nemmeno guardarlo mentre mi superava per varcare la porta con un omino vestito di nero dipinto sul legno.
I miei occhi erano puntati nei miei, in quel dannato specchio. Non sapevo nemmeno cosa stessi aspettando o cosa stessi cercando di fare, fatto sta che ero ancora nella stessa posizione quando Zayn uscì da dove era entrato per avvicinarsi al lavandino e lavarsi le mani: per un attimo mi guardò, forse stupito dal ritrovarmi  di nuovo lì, e io non lo sopportavo, quindi mi voltai, dando le spalle allo specchio e appoggiandomi con la schiena al ripiano.
Sospirai e mi crogiolai nel silenzio che immergeva il piccolo bagno.
Per qualche strano motivo, la presenza di quel ragazzo non mi infastidiva come avevo pensato avrebbe fatto: decisi di alleggerire tutti i pesi che sentivo dentro di me. Ora che si era aggiunto quello di Louis, per lavorare con loro avrei dovuto eliminarne alcuni: mi voltai verso Zayn, che si stava asciugando le mani, e i nostri occhi si incontrarono per circa un secondo.
«Mi dispiace averti chiamato in quel modo, l’altra volta» esordii con voce sicura, ma un po’ sottotono. Lui gettò la carta nel cestino e tornò a guardami, annuendo semplicemente.
«Posso sapere perché ti dà così fastidio?» osai, pentendomene subito dopo. L’espressione di Zayn, infatti, cambiò improvvisamente, indurendosi. Solo dopo qualche secondo mi rispose: «Solo la mia ragazza mi chiamava così» spiegò, inchiodandomi con uno sguardo incomprensibile.
Sorpresa dall’aver ricevuto una risposta anziché un insulto, ripensai alle sue parole: aveva detto “ragazza”, non “ex-ragazza”, eppure aveva parlato al passato.
«Ti… chiamava così?» domandai corrugando la fronte.
«È morta» rispose velocemente. Boccheggiai, senza sapere cosa dire o cosa fare: un certo senso di colpa prese il sopravvento su di me, mentre mi maledicevo per aver scelto proprio quel soprannome quel giorno: che la morte di quella ragazza lo avesse trasformato in quello che era ora? Che quei sorrisi che avevo visto negli spot pubblicitari fossero solo una maschera per nascondere quello che io avevo davanti  a me in quel bagno, in quel momento?
«Scusami, davvero. Io non sapevo…» smisi di parlare, mordendomi il labbro inferiore.
«Scusa anche tu» disse semplicemente, guardandomi apertamente negli occhi e sottintendendo a cosa si stava riferendo. Quelle iridi sin troppo scure mi intimorivano: mi facevano sentire scoperta, indifesa, e non mi mettevano per niente a mio agio.
Per proteggermi, decisi di fingere e mostrarmi sicura di me, inattaccabile: sorrisi appena, nascondendo dietro quel gesto tutta la mia agitazione e la mia tristezza. Forse ne venne fuori una smorfia, perché vidi Zayn concentrarsi sulle mie labbra troppo intensamente: sembrava le stesse studiando, come se le amasse e le odiasse al tempo stesso, e io non riuscivo a capire quella sua reazione. Non riuscivo a spiegarmi l’improvviso cipiglio che le sue sopracciglia avevano appena formato, né i suoi pugni stretti o la mascella serrata.
Quasi sussultai quando, senza che me l’aspettassi, i suoi occhi tornarono velocemente nei miei, confusi e forse spaventati: la mia antipatia per il suo modo di fare scorbutico e presuntuoso era stata messa da parte per un solo attimo, sovrastata dalla confusione e da una certa voglia di capire cosa si nascondesse nel profondo di Zayn Malik. L’attimo prima si era scusato, si era comportato addirittura come una persona civile – rispetto alle altre volte -, ma in quell’istante aveva di nuovo assunto l’aria di chi nutre un profondo disagio verso qualcosa o qualcuno, verso di me.
Tornai seria, scoraggiata dal suo sguardo, e sbattei le palpebre come per accertarmi che si stesse effettivamente avvicinando a me, fin troppo: mi si piantò di fronte, con i suoi centimetri d’altezza in più, e il deodorante per ambienti venne coperto dal suo profumo, aspro come lo ricordavo, duro come il suo atteggiamento nei miei confronti; non potevo nascondere a me stessa una certa paura, data dal ricordo dell’ultima volta in cui eravamo stati così vicini, ma subito dopo mi concentrai sull’assoluta sorpresa.
Velocemente, infatti, Zayn si avvicinò al mio viso fin quasi a far sfiorare i nostri nasi, mentre mi preparavo  ad allontanarlo con tutte le mie forze, più per timore che per altro: era come se ogni più piccola parte del mio corpo mi ordinasse di fuggire da lui, come se volesse mettermi in guardia. Non ci fu bisogno di intervenire, però, perché il suo volto cambiò direzione, privandomi della vicinanza di quelle iridi terribili e facendomi rabbrividire quando sentii il suo respiro tra i miei capelli, vicino al mio orecchio destro. Strinsi le dita sul ripiano dei lavandini, come se potessi afferrarne la superficie, e mi sentii mancare il respiro quando Zayn pronunciò poche parole fin troppo significative, sussurrandole: «Vorrei non averti mai conosciuta».
Spalancai gli occhi e mi pietrificai all’istante, mentre lui si allontanava velocemente da me per andarsene senza degnarmi di un altro sguardo.
Con le sue parole a rimbombarmi nella testa, con il cuore a battere in modo irregolare per permettermi di sopportarle, non ci volle molto perché i miei occhi diventassero lucidi: «Andate tutti a ‘fanculo» sbottai, raccogliendo le mie cose e uscendo dal bagno, solo per tornarmene a casa.
Immediatamente.







 


 

CHIEDO VENIA. SONO IN UN MOSTRUOSO RITARDO

Tra il tirocinio, il poco tempo a disposizione, l’altra storia, la difficoltà di questa e alcune mie pippe mentali riguardanti il destino di questi personaggi, ci ho messo fin troppo a finire questo capitolo :( Mi dispiace tantissimo avervi fatte aspettare! Scuuuusate!
Comunque, commentiamo un po’ quello che succede: si capisce che è tutto ambientato nel giorno dopo il ritorno di Alice. Si preannuncia un periodo di collaborazione tra la C&C e gli One Direction e vi lascio capire cosa significhi! Vicki ha perso di vista Louis, che è sparito dopo la loro ultima uscita, infatti, appena arriva all’hotel, capisce il perché: evidentemente Louis ha poi parlato con Eleanor e ci è anche tornato insieme. Vi ho viste un po’ confuse riguardo la loro storia lol Ma avete ragione, ai tempi di questa storia è tutto stravolto, ripetto ad Unexpected: ora avete capito che non stavano più insieme e che era stato  proprio Louis a lasciarla (più avanti le cose verrano spiegate meglio). Comunque, Tomlinson è abbastanza duro nel chiudere le cose con Vicki: che ne pensate? Vi preannuncio che il suo personaggio è tutt’altro che semplice, ma sono curiosa di sapere cosa ne pensate :)
Spero di essere riuscita a farvi conoscere un po’ di più Vicki, a cui basta una “piccola” cosa per buttarsi giù: tutto fa parte del suo carattere, ma ne saprete di più, ve lo prometto :) Per lei non è facile stare a quel tavolo a parlare di quell’evento con Louis davanti e con la consapevolezza di doverci lavorare per le prossime due settimane (Ah, Abbie ha scoperto di Alice heheh); infatti, quando vanno in pausa, scappa via! E qui entra in scena Zayn, finalmente! D’ora in poi comparirà sempre di più e ci sarà da “divertirsi” :) In ogni caso, accenna a Vicki della morte di Leen (...) e per un attimo sembra che i due si stiano riappacificando, ma non dura molto, perché subito dopo Zayn dice molto sinceramente quello che pensa e Vicki ci rimane di merda (scusate il francesismo ahhahaah): ve l’aspettavate? Cosa pensate del comportamento di Zayn?
Avrete notato che è completamente diverso dallo Zayn di “Unexpected”, ma è proprio questo il bello!
Fatto sta che Vicki manda tutti a stendere, come darle torto?, e se ne va! Mi fa una certa pena in questo capitolo ahahah
 
Vi ringrazio immensamente per tutto quello che fate per me e per la pazienza che dimostrate nell’aspettare che questa povera scema aggiorni!
Grazie davvero jskla Spero che il capitolo vi sia piaciuto! Aspetto i vostri pareri :)
Un bacione

 


Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** I'm sorry, ok? I'm sorry ***




I'm sorry, ok? I'm sorry

Capitolo 9

 

Vicki.
 

Sullo schermo del mio portatile cominciarono ad apparire delle bolle colorate di diversi colori, rimbalzanti da un angolo all’altro del rettangolo luminoso: non ricordavo nemmeno di avere uno screensaver. Passai un dito sul piccolo quadrato fungente da mouse e le feci scomparire, ritornando immediatamente dopo alla posizione iniziale, la stessa che mantenevo da forse venti minuti. Le mie gambe, appoggiate sul tavolino in legno davanti al divano, erano ormai addormentate, tanto che non riuscivo più a muovere o anche solo a sentire i piedi. La mia schiena aveva assunto una strana curvatura, dovuta al modo in cui ero sprofondata nel tessuto chiaro del divano, e le braccia erano abbandonate sul mio grembo.
Capelli arruffati e unghie mangiucchiate nervosamente concludevano il quadro, mentre i miei occhi erano inesorabilmente puntati sullo schermo del computer: davanti a me, il viso sorridente di una ragazza.
I capelli biondo scuro cadevano lisci sul suo petto, coperto da un giubottino nero di cui non si distinguevano i dettagli, a causa della risoluzione dell’immagine: seduta su quella che avevo ipotizzato fosse una sedia, guardava dritto nell’obiettivo della fotocamera, sorridendo e mettendo in mostra i denti bianchi e perfettamente allineati. Gli zigomi alti accompagnavano il movimento delle sue labbra, contribuendo a rendere ancora più allegri quegli occhi scuri che sembravano voler esprimere solo vitalità.
Kathleen Mason, l’ex ragazza di Zayn, era davanti a me, in tutta la sua bellezza perduta, lasciandomi a bocca aperta.
Quel primo pomeriggio, la mia mente era stata pervasa dal pensiero di Louis, dal modo in cui era tutto finito tra di noi senza essere nemmeno iniziato: era tutto quello a cui riuscivo a pensare e non avevo intenzione di darmi pace fin quando non avessi trovato una spiegazione; poi, però, da quell’episodio ero passata ad un altro e avevo continuato a pensare alle parole del pakistano di una paio di giorni prima, pronunciate con così tanta sofferenza repressa da mozzarmi il respiro: avevo deciso di accendere il portatile e di sconfiggere la noia – e la depressione post-Louis Tomlinson - cercando qualche notizia su di lui, sul suo passato. Mi ero convinta, per qualche strano motivo, che non fosse stato sempre così e che la morte della sua ragazza l’avesse stravolto completamente.
Io e i gossip eravamo nemici mortali, tanto che solo una tortura mi avrebbe potuto far acquistare giornalini di spettacolo e pettegolezzi: nemmeno quando uscivo con Louis avevo fatto delle… ricerche. Zayn, però, mi aveva quasi sconvolta con i suoi occhi duri e provati, nonostante potessero accendere una forte antipatia in me, mi aveva fatto incuriosire e aveva fatto nascere in me la voglia di scoprire cosa gli fosse successo esattamente.
Appena ero risalita al nome di Kathleen, avevo anche scoperto la sua triste storia. La loro storia.
La mia inguaribile emotività era riuscita a velare i miei occhi di lacrime insistenti, quando avevo letto della malattia di quella ragazza: ricevere una diagnosi del genere a soli diciannove anni doveva essere straziante, soprattutto se veniva accompagnata da un amore ricambiato. I miei occhi avevano captato e immagazzinato molti particolari: dal tumore, alla velocità con cui era riuscito a vincere; dalla protettività di Zayncon le fans, ai messaggi che ogni tanto scrivevano l’uno all’altra sui rispettivi profili di twitter; da momenti semplici e quotidiani, a grandi eventi e foto che racchiudevano ancora una felicità distrutta; dallo scoop della loro relazione, ai pochi mesi in cui avevano potuto effettivamente viverla;  dalla loro convivenza, all’amicizia che legava lei ed Abbie, il cui ruolo mi era finalmente più facile da comprendere. La morte di Kathleen, tanto improvvisa quanto a lungo attesa e temuta.
Avevo ceduto a qualche lacrima, poi, quando lo sguardo duro e probabilmente incompreso di Zayn mi si era ripresentato davanti, come a rinfacciarmi la mia cecità e il carico di sofferenza che doveva nascondere e che io avevo solo ipotizzato tramite storie riferite e vecchie foto: da quanto avevo capito, la ragazza era scomparsa poco più di un anno prima e la band aveva ripreso i suoi impegni dopo appena un mese. Troppo presto, a mio parere.
La mia testa aveva già iniziato a lavorare, a plasmare un quadro della situazione: per quanto Zayn mi facesse arrabbiare anche solo con un movimento, ero convinta che ci fosse una spiegazione ad ogni suo comportamento. Improvvisamente, infatti, mi era più chiaro il motivo per cui, in televisione o in qualunque altro evento pubblico, rivolgeva sorrisi forzati a tutti, risultando quantomeno il solito di sempre, mentre nel privato –  come con me, per esempio – dimostrava di essere una persona completamente diversa. Evidentemente viveva una doppia vita in cui si era intrappolato per difesa o per forza, dovendo convivere con la scomparsa della ragazza che amava.
Oppure, più semplicemente, Zayn era sempre stato uno stronzo presuntuoso, anche se questa ipotesi non mi convinceva molto.
Sospirai e mossi il puntatore del mouse per passare alla foto successiva: Zayn e Kathleen erano l’uno affianco all’altra, mentre camminavano in quello che aveva tutta l’apparenza di essere un aeroporto. Probabilmente lui stava tornando da un impegno, o forse stava partendo, e il suo sguardo era puntato distrattamente su qualcosa oltre la fotocamera, mentre sembrava volersi mettere in posa per una foto di qualche fan: lei, invece, camminava al suo fianco stretta in un semplice abbigliamento nero, contrastato da una giacchetta e una borsa bianche. Il suo viso, però, era totalmente diverso dalla foto precedente.
Più volte feci avanti e indietro tra quelle due immagini, per assicurarmi di quell’impressione, e ottenni una conferma: i suoi occhi erano sempre sereni, accompagnati dalle labbra increspate in un sorriso, ma  l’espressione che il tutto contribuiva a formare era stanca, smunta, avrei detto. Il suo volto sembrava più magro e le sue iridi erano marcate dai segni della debolezza: la data della foto, infatti, rimandava ad un periodo della sua vita molto vicino a quello… be’, a quello della sua morte.
Rimasi ancora qualche secondo a fissare quell’immagine, che era la dimostrazione di quanto la malattia avesse cambiato i lineamenti della ragazza: mi lasciai trasportare dalla fantasia, da quello che potevo solo provare ad indovinare, e cercai di dipingere nella mia mente uno Zayn diverso, uno Zayn completo.
Quando il cellulare al mio fianco prese a squillare rumorosamente, sobbalzai, rischiando di far cadere dalle mie gambe il portatile in precario equilibrio: il numero che compariva sullo schermo mi era sconosciuto, così corrugai la fronte e risposi.
«Pronto?»
Dall’altra parte della cornetta proveniva solo un profondo silenzio, così mi sentii costretta a ripetermi.
Dopo un paio di secondi, sentii un sospiro, indice che stessi effettivamente parlando con qualcuno e non con un fantasma.
«Chi…»
«Victoria?» esclamò qualcuno, con un tono di voce basso e quasi riluttante. Era familiare, ma non riuscivo a sentirlo bene, ad esserne certa.
«Sì?» chiesi, incuriosita.
«Sono Zayn».
Spalancai gli occhi e mi trattenni dallo strozzarmi con la mia stessa saliva: istintivamente, chiusi tutte le finestre di internet che erano sommerse da foto e articoli su di lui, quasi come se mi fossi sentita colta in flagrante e lui avesse potuto scoprire ciò che stavo facendo. La sorpresa nel sentire la sua voce sfociava in qualcosa di più intenso.
«Zayn?» ripetei, sbattendo più volte le palpebre.
«Che ne dici di… prendere un caffè insieme?» chiese con esitazione, quasi volesse convincersi di quello che stava dicendo. Il suo modo di pronunciare quelle poche parole rispecchiava un certo imbarazzo, forse dovuto al nostro ultimo incontro.
Io ero totalmente sbalordita: «Un caffè?» gli feci eco.
«Puoi smettere di ripetere tutto quello che dico?» sbottò, sbuffando e tornando ad assumere quel tono con cui si rivolgeva sempre alla sottoscritta. Se fino a due secondi prima il mio inconscio mi spingeva a provare quasi compassione per lui, ora era tornato a infuocarmi le vene con il disagio e l’antipatia.
«Cosa dovrei fare, scusa? I salti di gioia?» ribattei, infastidita. Forse si era dimenticato delle cose che mi aveva detto nel bagno dell’hotel? O di tutte le altre frecciatine?
«Potresti accettare l’invito, per esempio» mi consigliò, tranquillizzando la sua voce.
«Zayn, mi hai fatto capire in tutti i modi possibili quanto poco mi sopporti: due giorni fa mi hai detto che avresti preferito non avermi mai conosciuta. Ti aspetti che io venga a prendere un caffè con te come se fossimo amici di vecchia data? E poi, perché mi stai invitando, se mi odi tanto?»
«Cristo, quanto parli – commentò, sospirando, per poi riprendere a parlare solo qualche secondo dopo – Voglio scusarmi per come mi sono comportato, questa volta sul serio».
«Be’, il tuo modo di iniziare non è proprio…»
«Vieni o no?» mi interruppe, troncando la mia lingua biforcuta.
Inspirai profondamente, come se nell’aria intorno a me potessi trovare un consiglio sul da farsi: Zayn era l’ultima persona con cui avrei voluto passare un pomeriggio, ma forse, dopo le mie piccole ricerche, avrei dovuto concedergli una possibilità. Magari l’ultima, ma avrei dovuto farlo.
Mio fratello, d’altronde, mi ripeteva sempre quanto io fossi fastidiosamente buona e infatti non mi smentii: «Ok» bofonchiai, chiudendo gli occhi per un attimo.
 
Lisciai la mia canottiera colorata, controllando intanto lo stato delle converse, perennemente un po’ sporche, per quanto mi impegnassi ad evitarlo: alzai lo sguardo davanti a me e sospirai, per poi varcare la porta con il vetro scuro di una vecchia tavola calda.
Aveva scelto lui quel posto, “per stare tranquilli”, infatti era lontano dal centro di Londra e, da come si presentava ai miei occhi, era anche poco frequentato: ferma all’entrata, mi guardai intorno, soffermandomi sui particolari rustici dell’arredamento e sulla manciata di persone sparse nel locale.
Zayn era seduto ad un piccolo tavolo rotondo in un angolo della sala e i suoi occhi erano fissi sulle sue mani, che giocherellavano con un fazzoletto di carta bordeaux: mi morsi l’interno della guancia, salutando con un sorriso la cameriera che mi passò di fianco, e mi diressi verso di lui, senza sapere cosa aspettarmi o come comportarmi.
Tossicchiai, quando gli fui di fronte,  e lui alzò lo sguardo su di me lentamente: posò il fazzoletto e mi fece cenno di sedermi, così io lo accontentai.
Torturandomi le dita delle mani, continuavo a muovere nervosamente la mia gamba destra, accavallata sull’altra, sotto al tavolo: il silenzio tra di noi era più che imbarazzate, carico di mille cose diverse. Decisi di fare qualcosa a riguardo, appellandomi alla mia loquacità.
«Allora… Ordiniamo qualcosa?» chiesi, abbozzando un sorriso forse poco convincente: Zayn mi guardò dritto negli occhi, per poi annuire e prendere tra le mani uno dei menù lasciati sulla tovaglia color panna. Io lo imitai, ma quelle furono le ultime parole pronunciate tra di noi, fin quando la cameriera non portò le nostre ordinazioni: due semplici caffè, con l’aggiunta di disagio e impazienza.
«Zayn, non credi che dovremmo almeno fare un po’ di conversazione?» lo ripresi, facendo l’ennesimo passo verso di lui: certo, mi aveva invitata qui con - probabilmente - delle buone intenzioni, ma stava dimostrando di volere tutt’altro, dato che si limitava a lanciarmi qualche dura occhiata senza accompagnarla nemmeno con una parola.
«Come stai?» domandò, come se volesse solo accontentare la mia richiesta e mettermi a tacere. Aprii la bocca nell’accenno di una risata incredula e «Ehm, bene, grazie. E tu?» risposi, sperando che, per quanto fosse discutibile, potesse essere l’inizio di un vero e proprio discorso.
Lui increspò le labbra e alzò le spalle, continuando a tenere fisse le sue iridi nelle mie: cosa stava cercando di fare? Mettermi alla prova? Studiarmi? C’era qualcosa nel suo modo di guardarmi che mi faceva sentire scoperta, come se stesse provando a leggere ogni particolare del mio volto per trarne delle informazioni: io, però, non mi sarei arresa tanto facilmente.
«Hai detto che volevi scusarti» esclamai, lasciando intendere che ancora non l’aveva fatto. Non ero certo una persona pignola e con alte pretese, ma il suo comportamento era per me un grande mistero: dopo i nostri piccoli e fastidiosi incontri, dopo le mie scuse sincere e le sue – contraddette subito dopo -, era il minimo che potesse fare.
Alzò un sopracciglio e prese un sorso dalla tazzina fumante di caffè, passandosi poi la lingua sulle labbra piene: «Se mi obblighi a farti delle scuse, non saranno molto spontanee» decretò, scuotendo la testa quasi… divertito.
«Io non ti sto obbligando, ti sto solo… sollecitando. In fondo sei stato tu a tirare in ballo la questione, al telefono» spiegai, assumendo un’espressione soddisfatta.
«Appunto, sono io che devo farle, no? Allora sarò sempre io a decidere quando»  precisò, finendo il caffè nella tazzina.
Sospirai, alzando gli occhi al cielo, e mi abbandonai sullo schienale della sedia, incrociando le braccia al petto: che facesse quello che voleva.
Zayn tirò fuori dalla tasca il suo iPhone e iniziò a digitarci sopra qualcosa, ignorandomi completamente: in quel momento, mi ritrovai a maledirmi per aver accettato il suo invito e per aver pensato anche solo lontanamente che potesse effettivamente aggiustarsi qualcosa tra di noi.
Sbuffai spazientita, ovviamente senza attirare la sua attenzione, e decisi di imitarlo: certo, io non avevo un telefono di ultima generazione, ma il mio vecchio nokia con la fotocamera rotta poteva salvarmi da quella situazione. Per prima cosa, mandai un messaggio a Stephanie: « Malik mi ha chiesto di prendere un caffè con lui per scusarsi: indovina un po’? Passa il tempo ad ignorarmi. Lo prenderei a calci.»
Spostai i miei occhi su di lui, mordicchiandomi il labbro superiore, e rimasi immobile con il telefono in mano: c’era qualcosa nei suoi lineamenti che mi imponeva di scrutarli, come se potessero nascondere qualcosa che io potevo svelare. Le sopracciglia  scure e folte erano inarcate nel riflettere la concentrazione che Zayn stava mettendo nell’usare l’iPhone, contornando gli occhi scuri in maniera quasi protettiva: mi ritrovai a confrontare quell’espressione con quella totalmente diversa che avevo visto nelle fotografie, nemmeno un paio d’ore prima. Inspiegabilmente, sentii la voglia di essere testimone di una specie di ritorno al passato, in cui lui potesse sorridere come un tempo, al posto di portare con sé un simile broncio. Se io non fossi stata sicura che si stesse sforzando tanto di avvicinarmi solo per poi tenermi lontana in tutti i modi, avrei anche potuto chiedergli…
Interruppi i miei pensieri e abbassai lo sguardo, quando il suo si spostò inaspettatamente nel mio: tornai a concentrarmi sullo schermo del mio telefono, stupendomi nel vedere che Steph mi aveva risposto senza che io me ne accorgessi.
«Un calcio nelle palle ben assestato, e io ti amerò per sempre. xx» era il suo messaggio, lo stesso che non riuscì a farmi trattenere una risata. Mi coprii la bocca con una mano, strizzando per un attimo gli occhi per non ridere sguaiatamente, e in pochi secondi mi ritrovai semplicemente a sorridere: il sorriso, però, scomparve quando mi sentii osservata.
Zayn, di fronte a me, aveva ridotto gli occhi a due fessure, inclinando leggermente il capo da un lato e schiudendo le labbra, come se stesse pensando, mentre mi osservava: mi sistemai meglio sulla sedia, ricomponendomi, e mi passai una mano tra i capelli, improvvisamente – e stranamente – imbarazzata.
«Che c’è?» chiesi, sperando di togliergli dal viso quell’espressione. Lui sbatté lentamente le palpebre e chiuse la bocca, ma continuò a guardarmi: «Potrei farti la stessa domanda – spiegò, per l’ennesima volta pronto a ribattere – Prima mi stavi fissando abbastanza… insistentemente» aggiunse poi, forse notando la mia faccia confusa. Deglutii, ripensando a quando mi aveva beccata in pieno a guardarlo spudoratamente.
«E tu stavi fissando me, ora» ribattei.
«Perché ti ho vista fare lo stesso» rispose senza esitazione. Boccheggiai, senza sapere cosa dire, ma non ebbi il tempo di pensarci bene, perché lui trasformò il suo sguardo provocatorio in uno ben più serio, profondo: «Però mi stavi guardando in modo diverso» sostenne.
«Diverso?» ripetei, facendo la finta tonta. Non potevo certo dirgli che la mia espressione era dovuta ai miei pensieri su di lui e Kathleen, sul loro passato e su quello che poteva essere il suo stato d’animo. No?
«A cosa stavi pensando?» chiese semplicemente, appoggiando i gomiti sul tavolo, che traballò leggermente.
«A niente» mentii, scuotendo la testa.
Zayn alzò un sopracciglio, come se sapesse perfettamente che la mia era una bugia: «Andiamo, avevi gli occhi iniettati di… »
«E va bene. Va bene» lo interruppi, mettendo le mani avanti e sospirando, prima che potesse concludere la frase. Per qualche secondo rimanemmo a fissarci, lui in attesa e in cerca delle parole adatte.
Sapevo perfettamente che il nostro rapporto non era assolutamente pronto ad affrontare il discorso “Kathleen”, ma ormai mi ero convinta che la chiave del comportamento di Zayn fosse lei: senza sapere nulla di lui, ne ero certa ed ero risoluta nel volerlo in qualche modo… capire, o addirittura aiutare. Lui non aveva di certo chiesto aiuto, almeno non apertamente e di sicuro non a me, ma sentivo un certo bisogno di valutare la sua reazione nel nominare quella ragazza.
Decisi di buttarmi, dopo aver soppesato tutte le possibilità: nel peggiore dei casi, mi avrebbe mandata a ‘fanculo senza troppe storie, nel migliore, invece, si sarebbe aperto almeno un minimo.
«Stavo pensando a Kathleen» dissi, forse abbassando di un tono la mia voce.
Vidi i muscoli di Zayn contrarsi, mentre i suoi occhi continuavano a inchiodarmi e a minacciarmi con la loro sfumatura troppo scura per essere rassicurante: non disse niente, ma la mascella serrata e la sua posizione solida e irremovibile erano già un indizio.
Aspettai qualche secondo prima di continuare: «Era davvero bellissima» mormorai, questa volta. Non era mia intenzione infierire, ma avevo visto qualcosa nel suo viso smuoversi impercettibilmente, quasi rilassarsi, nel sentire quel nome. E ora, con il mio nuovo commento, le sue spalle si erano rilassate per davvero, mentre le sue mani non avevano più le nocche bianche per quanto si stavano stringendo tra di loro.
«Leen era la donna più bella che io abbia mai conosciuto» disse, colpendomi con quelle parole come non avrebbe dovuto. La mia concezione troppo romantica dell’amore e tutte quelle cazzate che la miriade di film che avevo visto mi aveva inculcato in testa, mi rendevano difficile rimanere impassibile a quell’affermazione tormentata, agli occhi di Zayn nel pronunciarla.
Annuii lentamente, incurvando la linea delle mie labbra in un timido sorriso: lui si limitò ad osservarlo e a distogliere subito lo sguardo, come se l’avesse disturbato, così io tornai seria e mi concentrai sul ricamo della tovaglia sotto le mie mani. Sentivo di non potermi spingere oltre, perché sì, Zayn non mi aveva risposto male o altro, ma qualcosa mi diceva che con lui avrei dovuto andarci piano, quasi fosse un oggetto di cristallo pronto a rompersi alla minima vibrazione di troppo.
«Devo andare, ora» esclamò all’improvviso, stupendomi. Corrugai la fronte nel vederlo alzarsi e lasciare sul tavolo i soldi necessari per pagare il conto, compreso il mio caffè. Boccheggiai, smarrita dai suoi movimenti veloci, quasi urgenti, ma mi alzai di scatto quando, senza dire altro, Zayn si allontanò dal tavolo, dirigendosi verso l’uscita.
«Ma che…» borbottai tra me e me, chiedendomi cosa fosse successo.
Recuperai la borsa dalla sedia e lo seguii, ignorando i saluti cordiali e un po’ confusi dei camerieri: Zayn era appena uscito dalla porta, così io l’aprii e, accelerando il passo, lo raggiunsi, fermandolo per un polso. Cosa gli prendeva?
«Zayn» lo chiamai, mentre le mie dita si stringevano intorno alla sua pelle ricoperta da tatuaggi.
Quello che successe dopo fu talmente veloce e inaspettato, che mi ci volle un secondo di troppo per comprenderlo a pieno: Zayn, infatti, si girò, non appena percepì il contatto tra di noi, e portò le mani alla base del mio viso per avvicinare con urgenza le sue labbra alle mie.
Ad occhi spalancati, indietreggiai di mezzo passo, a causa del suo movimento improvviso, ma, con le mani sul suo petto, lo allontanai subito, guardandolo quasi con il fiatone. Le mie labbra avevano ancora la sensazione di essere schiacciate contro le sue, morbide come non me le aspettavo, ma non riuscivano a capire se le avessero apprezzate o meno.
«Zayn, non…»
Non finii la frase, perché lui era tornato su di me sussurrando a denti stretti «Scusa, ok? Scusa», tra un piccolo bacio e l’altro, prima di andarsene via e lasciarmi lì, su quel marciapiede, a ripercorrere più volte nella mia mente la dinamica dei fatti. A chiedermi se i suoi passi veloci stessero scappando da me. A chiedermi se il battito alterato del mio cuore fosse dovuto solo a quel bacio inaspettato e agli occhi tormentati di Zayn nello scusarsi.






 


 

Ciaaaaaaaaaaaaao bellezze :) Come state? Molte di voi sono già in vacanza (vi invidio), altre hanno la maturità (che spero vi stia andando bene) e forse c’è anche qualcuno, come me, che sta facendo i conti con la sessione estiva degli esami: oh dio, quanto rimpiango il liceo…
In ogni caso, questo non è importante, passiamo al capitolo! L’avevo detto che Zayn sarebbe comparso sempre di più, e infatti eccolo qui :) Allora, ho un po’ di cosette da dire: innanzitutto Vicki indaga su Kathleen (In basso vi metto le foto che ho descritto) e spero voi abbiate capito che è una romanticona di dimensioni cosmiche lol Poi riceve la chiamata di Zayn e, in sintesi, decidono di vedersi per questo caffè.
Ora, tutte avrete notato che lui è molto… strano, nel senso che è silenzioso, un po’ stronzo e distaccato, ma spero che abbiate capito il perché: evidentemente avere a che fare con “la sosia vivente” di Leen non deve essere facile per lui, ma allo stesso tempo non riesce a starle lontano. A voi le interpretazioni! Comunque, Vicki tira in ballo la nostra Kath (sappiate che i miei feels sono andati a puttane quando Zayn dice che era la donna più bella che avesse mai conosciuto T.T) e Zayn, se prima riesce a dire qualcosa, poi scappa (non a caso dopo aver avuto a che fare con il sorriso di Victoria, che sappiamo gli ricorda quello di qualcun altro); lei lo insegue, ma, quando lo ferma, lui la bacia: Vicki lo allontana, ma Zayn la bacia di nuovo, chiedendole scusa. Scusa per cosa, secondo voi? Anche qui, vi consiglio di andare oltre le semplici parole di Zayn (come in “It feels…” lol) perché vedrete che i suoi comportamenti sono più complessi di quanto sembri!
Bene, detto questo, aspetto le vostre congetture lol Ricordo che Vicki è ancora invaghita di Louis - che ne sarà di loro? - e che a Zayn non ha mai pensato in quel modo: ma chissà, chi vivrà vedrà! Come sempre vi consiglio di non andarci troppo con i piedi di piombo nelle mie storie lol
 
Vi ringrazio infinitamente per tutto fskja E spero che mi farete sapere cosa ne pensate :)
Io cerco in tutti i modi di rappresentare lo stato d’animo di Zayn, ma, ovviamente, un conto è averlo in testa, un conto è farlo capire agli altri: spero, quindi, di essere abbastanza chiara! Tenete conto che lui, ogni volta che vede Vicki, vede Leen e questo gli fa male! Basta, sto parlando troppo hahaha Vi lascio con le due foto di Kath e con una di Vicki **
Ho scoperto finalmente come si chiama la sua prestavolto fskjfas
Ciao belle dsljk

 
 

    

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Secrets vs gossip ***




Secrets vs gossip

Capitolo 10

 

Liam.
 
Sbadigliai, storcendo poi il naso in un’espressione mezza addormentata, e scalciai via il lenzuolo bianco appallottolato intorno alle mie gambe, troppo caldo per stare a contatto con la mia pelle.
«Devo andare» borbottai, sospirando. Stare a letto per così tanto, per di più in pieno pomeriggio e dopo un certo tipo di attività, era abbastanza destabilizzante.
Lei si mosse sul mio petto senza rispondere, ma facendomi il solletico con i capelli bruni. La sua gamba sinistra si incastrò tra le mie, come se volesse farmi capire che non potevo andarmene, e il suo braccio destro si avvolse intorno al mio busto. Le unghie non molto lunghe si divertivano a tamburellare delicatamente sul mio fianco scoperto.
Spostai lo sguardo verso la finestra, coperta per metà da spesse tende blu: il sole era ancora alto nel cielo, nonostante nuvole grigiastre minacciassero di far cadere alcune gocce di pioggia sul suolo londinese.
Accarezzai lentamente la sua spalla nuda, facendole venire la pelle d’oca, e sorrisi quando lei mi diede uno schiaffetto scherzoso sull’addome per rimproverarmi: sapevo che le dava fastidio.
Ridacchiai e «Se ti spostassi, sarebbe più facile per me scendere da questo letto» esclamai, guardando la sua testa su di me.
«Povero, piccolo Liam» mi beffeggiò lei, senza muoversi di un millimetro.
Chiusi gli occhi e sbuffai: «Sei insopportabile».
«Hmhm – mormorò – Piuttosto, la prossima volta dove ci vediamo?»
«Ho trovato un hotel in una piccola città non molto lontana da qui – dissi, schiarendomi la voce – Non è male».
«Tanto, per quello a cui serve, andrebbe bene anche un motel, mister SonoPienoDiSoldi».
Alzai gli occhi al cielo, per la sua ennesima presa in giro, e «Se a te non interessa, perché stai sempre a lamentarti?» le chiesi.
«Perché tu non mi tieni occupata in altri modi» rispose, pizzicandomi un fianco.
«Ti ho tenuta occupata per tutto il pomeriggio, direi che può bastare» le ricordai, scuotendo la testa divertito. Insaziabile. Quella ragazza era insaziabile.
«La verità è che non duri» precisò, alzandosi dal mio petto e passandosi una mano tra i capelli, senza preoccuparsi di guardarmi in faccia. Alzai un sopracciglio, rimanendo immobile di fronte alla sua affermazione e sì, anche davanti al suo corpo nudo.
«Sei tu che non riesci a stare ai miei tempi, cara Stephanie» le assicurai, puntandole un dito contro.
Lei curvò le labbra all’insù, ma non tanto da far sembrare quell’espressione un vero e proprio sorriso, come al suo solito: si stava aggirando per la stanza senza niente addosso, alla ricerca della sua biancheria.
«Te l’ho detto, tu sei l’ultimo a poter parlare di tempi» mi corresse, lanciandomi un’occhiata divertita. Afferrai il cuscino al mio fianco e glielo lanciai contro, anche se colpì la porta del bagno dietro la quale si era chiusa: ridacchiai tra me e me, arreso a quella ragazza, e inspirai profondamente, lasciando che il deodorante per ambienti della camera d’hotel mi entrasse nelle narici, accompagnato dal profumo di lei.
Ci misi qualche minuto ad alzarmi dal letto, data la mia scarsa voglia di farlo: non ero ancora pronto a lasciare quel posto per tornare ai miei impegni.
La specie di rapporto che avevo instaurato con Stephanie mi serviva per svagarmi: l’avevo conosciuta due mesi prima in un pub, una sera in cui io e Niall eravamo usciti per distrarci un po’; da quel momento le cose si erano svolte sempre allo stesso modo: io la chiamavo – o lei chiamava me -, sceglievamo un posto in cui vederci, passavamo il nostro tempo insieme e poi sparivamo l’uno dalla vita dell’altra fino all’incontro successivo. Era così che funzionava, tra di noi: nessuno sapeva delle nostre scappatelle ogni volta in un posto diverso – per evitare che qualcuno potesse vederci insieme -, nessuno faceva domande e nessuno poteva mettersi in mezzo. Era quello che di più stabile ero riuscito a creare dopo Danielle e finalmente avevo qualcosa che non poteva essere messo in bella mostra sul primo giornaletto di gossip in edicola.
Abbottonandomi i jeans chiari strappati, sentii la porta del bagno aprirsi: guardai Stephanie passarmi davanti con i capelli mossi raccolti in una coda alta e il fisico coperto dalla biancheria.
«Sei strana, comunque» dissi semplicemente, infilandomi le scarpe.
Lei mi guardò per un attimo, impassibile come sempre: «Grazie? – provò, aggrottando le sopracciglia – Perché sarei strana?» continuò, infilandosi la canottiera nera.
«Ogni volta mi aspetto che tu mi chieda cosa stiano facendo i miei amici con Victoria, ma non lo fai mai» spiegai. Lei non accennava all’argomento, né parlava mai della sua amica, e be’, magari ero io quello strano, ma la cosa mi incuriosiva.
Stephanie era un completo mistero, qualsiasi cosa facesse.
«Cosa stanno combinando i tuoi amici con Vic?» mi chiese allora, recuperando i pantaloncini in tessuto azzurro dalla poltrona nell’angolo della stanza.
Corrugai la fronte e «Non lo so, e comunque non credo che lo direi» risposi.
Louis non era il tipo di ragazzo che andava in giro a raccontare ogni cosa che gli capitava o che decideva, soprattutto perché di solito le sue azioni parlavano chiaramente: era tornato con Eleanor e questo la diceva lunga. Zayn… Be’, lui era cambiato, così come il nostro rapporto: era evidente che Victoria l’avesse sconvolto, in un modo o nell’altro, ma non riuscivo a capire se fosse una cosa positiva. In ogni caso, non avrei mai parlato della loro vita privata con qualcuno, nemmeno con Stephanie.
«Vedi perché non te l’ho chiesto? - ribatté lei, assumendo un aria saccente – E poi non è da me, interrogare il ragazzo con cui vado a letto su questioni che riguardano solo Vic. Sa cavarsela da sola».
Mi aggiustai la maglietta a maniche corte che mi ero appena infilato e la osservai darsi una controllata allo specchio: «Senza contare che lei non sa nemmeno di me e te, quindi non potrei giustificare le informazioni» continuò, avvicinandosi poi a me.
«È la tua migliore amica» dissi soltanto, come se volessi rimproverarla. In realtà nemmeno i miei, di migliori amici, sapevano di lei.
«Sì, lo è. – confermò – Infatti puoi dire ai tuoi amici che, qualsiasi cosa stiano tramando, devono smetterla di pensare con l’uccello, o potrei seriamente pensare di tagliarglielo. Fai finta di dar loro dei consigli, inventa dei segnali di fumo o chissà cosa, ma faglielo capire» mi avvertì, prima di sorridermi in modo sbarazzino e lasciarmi un bacio all’angolo della bocca.
«Fammi sapere per la prossima volta!» esclamò, senza lasciarmi il tempo di dire altro, e sparì dalla stanza, salutandomi con un cenno della mano.
Scossi la testa, stordito ed esaltato dai suoi comportamenti, e guardai ancora per qualche secondo la porta dietro la quale era scomparsa, portando con sé il suo profumo dolciastro che avevo ancora addosso.
 
Entrai nello studio quasi correndo, ormai in ritardo per le prove per il nuovo singolo: i ragazzi, ,però, non stavano di certo facendo quello che dovevano.
Zayn, seduto su un divanetto, continuava a rigirarsi tra le mani l’iPhone, guardandolo con aria assorta: gli occhi spenti indicavano che lui lì, nemmeno c’era.
Harry, seduto al suo fianco, aveva i gomiti appoggiati sulle ginocchia e le mani a reggersi il capo, con le dita intrecciate ai suoi capelli. Niall, appollaiato su uno sgabello, aveva la chitarra in mano e si mordeva le unghie dell’altra, continuando a guardare a terra nervosamente.
Solo Louis aveva alzato lo sguardo su di me, salutandomi con un sopracciglio alzato e un sorrisetto sul volto che sembrava dire “vieni, unisciti a questo teatrino”.
Con la porta ormai chiusa alle mie spalle, aprii la bocca per parlare, ma fui preceduto da Harry, che alzò il viso sull’irlandese inchiodandolo con i suoi occhi verdi: «Insomma, non capisco. Cosa vuoi che faccia?» chiese, quasi lamentandosi.
Niall smise di mangiarsi le unghie e sembrò incenerirlo con lo sguardo: «Qualsiasi cosa! Sono stufo di assistere alle vostre frecciatine» disse, facendo sbuffare il nostro amico.
«Senti, non è colpa mia se Abbie è fatta così, e tu la conosci meglio di me: dovresti sapere che non la smetterebbe in nessun caso, nemmeno se le chiedessi scusa mille volte» spiegò il riccio, rendendomi tutto più chiaro. Evidentemente, Niall stava facendo i conti con la solita storia. Mi chiedevo se l’avrebbero mai risolta, anche se avevo dei seri dubbi a riguardo.
Sospirai e ascoltai la risposta: «Oh be’, magari se tu non l’avessi illusa lei non avrebbe reagito così!» lo accusò infatti il biondo, congelandolo con i suoi occhi di ghiaccio.
«Io non l’ho illusa. – precisò l’altro – E sinceramente non credo che siano affari tuoi».
Ecco che ci risiamo, pensai.
«Avanti, ragazzi. Non credete sia meglio che ci mettiate una pietra sopra, una buona volta?» intervenne Louis, quasi leggendomi nel pensiero. In realtà, io non credevo che ci sarebbero mai riusciti: Harry e Niall sembravano essere condannati alla maledizione che portava il nome della bella Abbie.
Dopo la morte di Kathleen, Abbie e Niall erano entrati in crisi: lei non viveva più, sembrava arrancare, proprio come Zayn, e lui non era in grado di capirla, di confortarla. Non che fosse colpa sua, ma Abbie non era in grado di trovare un rifugio in lui: per questo si erano allontanati sempre di più, fino a lasciarsi definitivamente.
D’altra parte, però, era stato proprio Harry ad avvicinarsi a lei: lui non cercava di farla stare meglio o di farla divertire, non organizzava serate particolari per farla distrarre, né improvvisava grandi discorsi che avrebbero dovuto farla pensare a rimettersi in sesto dopo quella perdita. Lui, semplicemente, c’era: ed Abbie, questo, l’aveva apprezzato molto, tanto da instaurare un rapporto con Harry che sembrava riportare a galla l’iniziale attrazione che c’era stata tra loro, prima ancora della sua storia con Niall.
Quest’ultimo non era di certo felice di questo, ma era disposto a fare di tutto e a sopportare altrettante cose pur di vederla sorridere di nuovo, nonostante il sapere di non essere riuscito ad averne il merito lo divorasse: da quando Harry era tornato con Alice, la tensione era palpabile e Niall aveva iniziato a risentirne più del solito.
Nessuno rispose, all’esclamazione di Louis, anche se l’irlandese sembrò essere abbastanza scocciato da quella situazione, tanto da abbandonare la chitarra nell’angolo della sala e uscire nervosamente dalla porta alle mie spalle, senza nemmeno guardarmi. Scossi la testa e corrugai la fronte, quando sentii la stessa porta sbattere con violenza, dietro il mio amico.
«Sul serio, non vorrete ricominciare?» chiese Tommo, rivolto ad Harry. Quest’ultimo sbuffò e si abbandonò sul divano, mormorando qualcosa come «cazzo ne so».
«Ciao, comunque» esordii io, abbozzando un sorriso e facendo qualche passo all’interno nella stanza per andare a sedermi proprio dove fino a qualche secondo prima era Niall.
«Piuttosto, tu? – domandò il riccio, dando una leggera gomitata nel fianco a Zayn, che fu costretto a riscuotersi – Victoria, eh?» continuò, lanciando una sfuggente occhiata a Louis, che guardava entrambi attentamente, con le mani incrociate al petto e il labbro inferiore tra i denti.
Zayn non era molto propenso a parlarne: «Ho visto le foto di quel bacio: sta facendo scalpore» continuò il riccio. Ormai tutto il nostro fandom e quasi tutti i siti più squallidi di gossip sapevano dell’incontro del mio amico e Victoria, del loro bacio: lui, però, non aveva detto una sola parola sull’argomento.
Anche allora, infatti, si limitò ad alzare le spalle e a continuare a giocherellare con l’iPhone, senza prestare attenzione a quello che lo circondava: sembrava più pensieroso del solito, il che cominciava a preoccuparmi.
Un piccolo rumore attirò la mia attenzione, così mi voltai verso Louis: ancora nella stessa posizione, stava sorridendo con gli occhi sottili ridotti a due fessure, come se fosse divertito da quell’argomento. E io potevo giurarlo, a volte era davvero incomprensibile.
 


Vicki.
 
«Sì, mamma» esclamai sospirando profondamente, mentre mia madre si aggirava per casa con una tazza di thè tra le mani. Io, seduta sul mio divano in salotto, tenevo le braccia incrociate al petto e cercavo di ignorare mio fratello, che, appoggiato all’uscio della porta dell cucina, si prendeva gioco di me.
«Insomma, dovresti tenere più in ordine questa casa» ripeté la signora Carly Tomphson, facendo picchiettare i tacchi spessi sul pavimento.
«Grazie dei consigli, mamma - risposi, sorridendo in modo tutt’altro che cordiale – Ma ti ricordo che ne hai due, di figli, e, fino a prova contraria, anche Brian è in grado di fare qualcosa a riguardo».
«Oh, tuo fratello non sa nemmeno come si tiene in mano una scopa» disse lei, scuotendo la testa arresa.
«Potrebbe sempre imparare» consigliai, fulminandolo con lo sguardo, mentre lui assumeva un’espressione da cucciolo bastonato.
Non avevo ancora capito il motivo della visita di mia madre, anche se forse era dovuta al fatto che io ero scomparsa dalla circolazione: fatto sta che aveva interrotto la mia maratona di film, piombando in casa nostra e impedendomi di continuare a rimuginare su quello che era successo con Zayn e su quello che non poteva più succedere con Louis. Sì, per un solo attimo, vederla sulla porta di casa mi aveva fatto quasi esultare, dato che avevo trovato una specie di distrazione dai miei stessi pensieri; eppure, esattamente dal momento in cui aveva aperto bocca, avevo cambiato subito idea.
Alzai gli occhi al cielo, mentre lei passeggiava tranquillamente per il salotto valutando lo stato di ogni oggetto e soprammobile con un sopracciglio sottile alzato: «Durerà ancora per molto questo tuo esame?» le chiesi, sbuffando e alzandomi dal divano. Lei mi ignorò, conoscendomi abbastanza bene da sapere che avrei continuato a ribattere fino allo sfinimento.
Mi ritrovai a ringraziare il cielo con fin troppa enfasi, quando il campanello di casa suonò con vigore: «Vado io!» esclamai, prima degli altri due.
Corsi ad aprire la porta, ma fui tentata di richiuderla quando mi ritrovai davanti il viso di Louis Tomlinson.
Trattenni il respiro, con il cuore che martellava nel petto ad una velocità insolita, e continuai a tenere gli occhi puntati su di lui anche quando le sue labbra sottili si mossero per salutarmi con l’accenno di un sorriso.
«Ehm… Torno subito!» dissi a mia madre e mio fratello, sperando che non avessero visto l’ospite appena arrivato.
Uscii fuori e mi chiusi la porta alle spalle, rimanendo a fissare ogni particolare del volto di Louis: non sapevo cosa dire, non sapevo come muovermi, non sapevo cosa significasse la sua presenza o quel suo strano sguardo che mi stava mandando in pappa il cervello. Me ne stavo lì, immobile davanti a lui e spalmata sulla porta di casa in legno scuro, aspettando che un segno divino mi desse un consiglio.
«Non mi fai nemmeno entrare?» chiese Louis, quasi risvegliandomi. Sbattei le palpebre più volte e farfugliai qualcosa, prima di spiegargli il perché: «Non credo che tu sia pronto ad affrontare mia madre» ammisi, cercando di trattenere dentro di me i “perché sei qui?”, “mi sei mancato”, “anzi, mi manchi ancora”, “sei un coglione”, “ti odio”, “la verità è che forse non ti odio così tanto”.
Louis alzò le spalle, passandosi la lingua sulle labbra leggermente screpolate, quelle che io stavo fissando intensamente da quando me le ero ritrovate davanti: «Tanto non mi tratterrò molto – disse, con le mani incrociate dietro la schiena – Sono solo venuto a darti una cosa».
Corrugai la fronte, soppesando le sue parole e mettendo a tacere il dispiacere nel sentire che sarebbe rimasto per poco: cosa mi aspettavo, che fosse venuto per parlarmi e scusarsi?
«Cosa devi darmi?» chiesi, deglutendo a vuoto. Mi era difficile stargli davanti: guardavo le sue labbra muoversi mentre parlava e pensavo a quando avevano mormorato qualcosa sulle mie o sulla mia pelle; guardavo la linea della sua mascella e pensavo a quando avevo sentito il solletico provocato dall’accenno di barba; guardavo i suoi occhi e… E mi era impossibile pensare.
«Questa» disse soltanto, facendo comparire da dietro la schiena una fotografia, che subito dopo mi porse.
La presi tra le mani e sbarrai gli occhi quando riconobbi la scena: l’immagine ritraeva me e Zayn, di fronte alla tavola calda di due giorni prima. Le sue mani erano sul mio viso e la sua bocca sulla mia.
Boccheggiai, continuando a guardare la fotografia come se dovessi accertarmi che fosse reale: non sapevo che qualcuno ci avesse visto, quel giorno. E poi cosa significava? Perché Louis me l’aveva portata?
Alzai lo sguardo confuso su di lui e lo trovai a guardarmi con un’espressione serena, quasi soddisfatta: «Siete così carini che… Be’, ho pensato che avresti voluto conservare un vostro ricordo» spiegò, stringendosi nelle spalle.
Se non fossi stata già a contatto con la porta, avrei di certo indietreggiato, come se quelle parole mi stessero spaventando: a bocca aperta, mi chiedevo cosa volesse dire, cosa volesse da me. Senza parlare del suo comportamento assolutamente insensato e fuori luogo: cos’era, un modo per farmi capire che gli aveva dato fastidio quel bacio? E che diritto aveva di infastidirsi, quando era stato lui il primo a tornare a gambe levate dalla sua ex ragazza, piantandomi in asso con poche parole?
Non mi diede il tempo di rispondere, però, perché, con un cenno del capo, mise le mani nelle tasche dei suoi bermuda di jeans e mi voltò le spalle, incamminandosi lungo il vialetto di casa mia.
Strinsi nel pugno la fotografia, aggrottando le sopracciglia: no, non se ne sarebbe andato di nuovo così.
«Hey, aspetta!» lo richiamai, correndogli dietro, senza che si fermasse.
«Che diavolo significa?» gli chiesi, mettendomi davanti a lui per impedirgli di fare un altro passo.
«Te l’ho detto» rispose, come se fosse più che ovvio. In quel momento, pensai che avesse la faccia da culo peggiore del mondo.
«Cosa c’è, cerchi di farmi sentire in colpa per un bacio con il tuo amico?» provai ad indovinare, mentre qualcosa dentro di me mi assicurava che fosse proprio quello il suo intento.
«Ti senti forse in colpa?» rigirò lui la domanda.
«No, ovviamente – precisai – Anche perché è stato lui a baciarmi: peccato che nell’archivio delle tue foto non ci sia il momento in cui io lo respingo. E poi non vedo quale sia il tuo problema, visto che tu stai con Eleanor, ora!» Ero arrabbiata. Ferita e arrabbiata. Soprattutto perché lui mi stava guardando impassibile, come se io fossi una pazza.
«Non ho nessun problema, infatti» rispose, scuotendo la testa.
«Non hai nessun problema, ma vieni fin qui per portarmi questa?» domandai, porgendogli la fotografia e guardandolo come se avessi capito tutto di lui. In realtà, però, non stavo capendo niente.
«Esatto – annuì – E ora, se vuoi scusarmi, devo proprio andare» continuò, rivolgendomi un sorriso tutt’altro che sincero e superandomi.
Spalancai gli occhi, continuando a fissare il punto in cui era fino a pochi secondi prima: la rabbia mi ribolliva dentro. Mi voltai verso di lui e lo guardai salire sulla sua macchina, per poi avvicinarmi ad essa a grandi passi. Le infradito che ciabattavano sul vialetto e i pugni stretti per il nervosismo.
«Sai una cosa? – esordii, sfoggiando un sorriso finto che voleva imitare il suo, sicura che mi avrebbe sentito, dato che il finestrino era abbassato – Puoi tenerla tu, almeno puoi rimuginarci sopra ancora un po’» conclusi, infilando la fotografia tra il parabrezza e il tergicristallo, in modo che rimanesse ferma.
Lanciai un’altra occhiata a Louis, che aveva le labbra increspate in una smorfia che doveva somigliare all’ennesimo sorriso: dal primo momento in cui l’avevo visto, a quella festa di beneficenza, mi ero chiesta se sapesse assumere altre espressioni, ma stavo iniziando a capire che i suoi sorrisi, all’apparenza tutti uguali, dovevano solo essere interpretati con attenzione. E quello che decorava il suo volto in quel momento, era una sfida, una provocazione. Insensata, ma comunque una provocazione, probabilmente data dall’orgoglioso tentativo di non ammettere che sì, quel bacio l’aveva infastidito.
Me ne andai: per la prima volta, ero quasi felice di rivedere mia madre.


 



 

ANGOLO AUTRICE
 
Buooooooooooooooooooongiorno! Il sole è alto nel cielo (almeno qui)
e io sto facendo di tutto pur di non studiare D: Tra pochi giorni vedrete come inizierò
a sclerare male perché sono indietro, ma vabbè hahaha
Cooooomunque: piccolo POV Liam, che, ATTENZIONE ATTENZIONE, se la fa
con Stephanie (: Ve lo aspettavate? Non credo hahaah La loro è una
storia molto... come dire? alla buona: non sono legati particolarmente, ma hanno
questi tipi di “incontri” da ben due mesi eheheh Si capisce che Danielle non è più nella vita
di Liam e che lui tiene a tenere tutto così com’è, senza che qualcuno ne sappia qualcosa!
Stessa cosa Steph: riguardo al suo non dire niente a Vicki e al non impicciarsi, vi anticipo
che lei è fatta così, ma tanto la conoscerete meglio fdsak Ah, qualcuno si ricorda che Vicki
l’aveva sentita con Brian, mentre una volta erano al telefono? Che starà combinando? (:
Poooooooooooi: finalmente avete una visione più chiara del triangolo Niall, Abbie, Harry lol
Ho visto che non ci stavate capendo molto hahah Niall ed Abbie si sono lasciati dopo
la morte di Leen, per questo lei è così vicina ad Harry: e niente, spero che la loro
situazione sia abbastanza chiara, ora (: Non ci saranno litigi tra i due amici come in “Unexpected”,
perché Niall tiene ad Abbie tanto da accettare le sue scelte, ma di sicuro la storia
non finisce qui dsjaklfs Quali sono le vostre impressioni?
E infineeeeeee Louis fkjsdhfkhsdkfjhskgfk Sappiate che io lo amo (sì, lo dico di quasi tutti
i miei personaggi hahaha), anche perché nella mia testolina lo conosco bene, diciamo,
quindi non vedo l’ora di farlo conoscere (?) anche a voi :)
Quando Harry tira fuori il discorso di Vicki, lui sorride, e guarda un po’, va a casa della
nostra bella Victoria a portarle una foto sviluppata di lei e Zayn ahhaha Lo ripeto, lo adoro dsjfka
Lascio a voi le varie congetture (:
E niente, questo è quanto: non è un capitolo fondamentale, ma inquadra meglio alcuni personaggi
e spiega alcune cosette, quindi spero vi sia piaciuto lo stesso :3
 
Aaaaaaaah, prima che me ne dimentichi: alcune di voi mi hanno chiesto come mai
solo Zayn ed Abbie si siano accorti della somiglianza tra Vicki e Leen! Giustamente, direi!
Vorrei precisare che questa somiglianza non è così evidente: innanzitutto è passato un po’ più
di un anno dalla sua scomparsa, quindi, se perfino Abbie ha stentato a cogliere la somiglianza,
figuriamoci gli altri, che non hanno avuto un rapporto così profondo con lei; poi, quelli che le rendono
simili, sono piccoli dettagli: gli occhi, il sorriso… Voglio dire, particolari che solo le persone
che sono state più legate a Kath saprebbero riconoscere facilmente: è un fatto espressivo,
più che altro, e io ci tengo a metterlo in chiaro, perché se no la cosa diventa abbastanza
irreale lol Quindi, spero di aver spiegato tutto al meglio :)
 
Ok, mi sto dilungando troppo, quindi vi lascio con un enorme GRAZIE fsjkfas
Siete davvero dolcissime in tutto quello che fate, dite e pensate ahahha
Risponderò alle vostre recensioni appena ho un minuto libero! Tra l’altro, leggendole ho notato
che sono venute fuori le idee più disparate riguardo il comportamento di zayn nello scorso capitolo!
Mi piace quando esponete tutte le vostre teorie fkjsda Anche se devo ammettere che gran parte
di voi non è sulla strada giusta eheheh :) Ma vabbè, c’è tempo!
 
Mi trovate per qualsiasi cosa su ask: http://ask.fm/AcinorevC
Su Facebook: https://www.facebook.com/acinorev.efp
E su Twitter: @itstarwen_
 
Ah, se volete, ho scritto una OS “Playing with the Moon”, che spero vi piaccia,
se passerete a leggerla fdksjal
Ciao splendori! Un bacione fdskafas

"Esatto - annuì - E ora, se vuoi scusarmi, devo proprio andare".



Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Help me ***




Help me

Capitolo 11

 

Vicki.
 
Ok, dovevo solo respirare tranquillamente e smetterla, di camminare avanti e indietro sotto lo sguardo stranito di Stephanie.
Insomma, si trattava solo di un messaggio.
«E se non risponde? Magari… Magari ho solo fatto la figura della stupida! Perché diavolo gliel’ho mandato?» sbottai, stritolandomi le mani l’una con l’altra mentre le mie labbra chiedevano pietà, sofferenti per tutti i morsi che dovevano subire.
La mia amica alzò gli occhi al cielo, sbuffando: «Vic, piantala – ordinò, guardandomi come una madre guarderebbe la figlia adolescente in piena crisi adolescenziale. – Gli hai mandato quel messaggio perché sei una persona matura – nonostante credo che tu stia solo perdendo tempo - e, se lui non risponderà, vorrà dire che non lo è altrettanto. Devi solo stare tranquilla» cercò di rassicurarmi, incrociando poi le braccia al petto.
Io per attimo mi fermai a guardarla, con la fronte corrugata e mille pensieri per la testa: «No, no e ancora no – sospirai, riprendendo a camminare. – Sono una stupida» decretai, passandomi una mano tra i capelli.
Non era normale che fossi così agitata, non lo era affatto.
«Oh, guarda – esclamò Steph, prendendo in mano il mio vecchio Nokia, lasciato volontariamente sulla superficie di pietra di una delle fontane di Trafalgar Square dove eravamo. – È giusto arrivato un messaggio» annunciò, alzando un sopracciglio.
Mi immobilizzai, spalancando gli occhi per la sorpresa e il terrore: terrore di cosa, poi?
«Ok. Ti passo a prendere tra poco. Dove sei?» lesse lei ad alta voce, facendomi quasi strozzare con la mia stessa saliva.
Mi voltai per osservarla e per qualche secondo non dissi nulla, rielaborando le informazioni nella mia testa: fu proprio Stephanie, però, a riscuotermi.
«Vic, mi sembri una deficiente, sul serio» disse, inclinando il capo da un lato.
«Senti, non lo so nemmeno io perché sia così agitata!» ammisi, arrendendomi alle sue parole, tanto vere quanto difficili da accettare. Si trattava solo di un incontro per parlare: un pacifico scambio di opinioni e spiegazioni. Niente di più e niente di meno. Il mio corpo, però, sembrava essere restio a capirlo.
«Ma sei sicura di volerlo incontrare? Insomma, a me sembra solo un gran casino: da come si è comportato, non mi ha dato l’impressione di essere… come dire? Abbastanza a posto col cervello» spiegò, cercando di convincermi. Secondo lei non avevo nessun motivo per agire in quel modo, perché era convinta che mi sarei messa solo in grandi casini, e io sospettavo di sapere a quali si riferisse.
«A meno che non ci sia dell’altro» aggiunse, assottigliando gli occhi come se stesse scrutando la mia reazione.
Io scossi la testa velocemente, avvicinandomi a lei per riprendermi il telefono e rileggere il messaggio appena ricevuto: ora che ci pensavo, avrei anche dovuto chiedergli come avesse ottenuto il mio numero.
«Non c’è dell’altro» la corressi, senza guardarla.
«Avanti, ammettilo – mi spronò, assumendo quel tono di voce che sembrava urlare “tanto ti conosco, so di aver ragione”. – Ammetti che quel bacio rubato ti ha scombussolata; che il suo modo di scappare dopo aver parlato della sua ex ragazza morta ti ha mozzato il fiato; che, le sue labbra, le ricordi ancora…»
«Steph, non dire stronzate» la ammonii, a disagio. Aveva pronunciato quelle parole solo per prendermi in giro, per prendersi gioco del mio modo d’essere, e io ero stata colta sul vivo. Non perché Zayn mi interessasse davvero o perché quei piccoli baci stonanti mi fossero piaciuti, ma solo perché c’era qualcosa che mi invitava a… A fare non so nemmeno cosa. Avevo ripensato a quello che era successo tra di noi davanti a quella tavola calda, è vero, ma non per le ragioni che insisteva a ripete Stephanie.
«Allora perché non hai fatto lo stesso con Louis?» domandò, guardandomi come se stesse aspettando che io le dessi ragione da un momento all’altro.
Louis.
Quel nome mi provocava ancora del movimento, al centro del petto. Ed io ero un’ipocrita, perché non era solo quello a farmi un determinato effetto: erano i suoi occhi, impressi nella mia mente, le sue mani, la sua pelle, i suoi capelli, i suoi tatuaggi sulle caviglie e quella sua strana espressione beffarda. Tutto di lui provocava una specie di uragano dentro di me: e mi mancava, anche se il suo comportamento era stato abbastanza discutibile, anche se mi aveva portato quella stupida foto due giorni prima, anche se io ero una povera illusa che si era aggrappata disperatamente all’idea di un ragazzo con il quale era uscita solo poche volte.
Abbassai lo sguardo e strinsi la presa sul mio cellulare: «Perché lui… - mi morsi una guancia, cercando le parole adatte. – Perché è un maledetto stronzo e non mi va di incontrarlo» dissi poi, stupendomi per prima.
Lo sguardo di Steph, d’altronde, non era da meno: «Sei consapevole del fatto che questa storia non sta in piedi? – chiese poi, stringendosi la coda di cavallo che le raccoglieva i capelli bruni. – Fino a prova contraria, Zayn è stato più stronzo di Louis, se vogliamo essere precise: ti ha trattata da schifo sin da subito, senza parlare poi di quel bacio che Dio solo sa cosa volesse dire. E tu non ti sei fatta problemi a chiedergli di vedervi per… chiarire – disse, mimando le virgolette su quell’ultima parola. – Da come parlavi di Louis sembrava ti avesse praticamente conquistata, eppure quando ti ha piantata in asso non gli hai nemmeno risposto: non hai fatto nulla per chiedere spiegazioni» concluse. E aveva maledettamente ragione.
Inspirai profondamente, tornando a fissare lo schermo del telefono, sul quale lampeggiava ancora il messaggio di Zayn: gli risposi velocemente, sospirando subito dopo mentre mi guardavo intorno.
Come potevo spiegare a Stephanie che avevo paura di Louis? Che il suo sguardo, quello che mi aveva rivolto quando mi aveva scaricata senza tante storie, era ancora davanti a me, a mettermi a disagio? Che, nonostante avessi sospettato una certa gelosia da parte sua per quello che era successo con il suo amico, continuavo a temere un confronto con lui? Come se avesse potuto ridermi in faccia nel momento della verità?
Il mio ragionamento era illogico, ma c’era qualcosa che mi impediva di andare da Louis e chiedergli spiegazioni: non volevo ripetere la scena di me, imbambolata davanti ai suoi occhi di ghiaccio a scrutarmi come se fossi una sconosciuta.
«Lascia perdere» mormorai, fissando il cemento ai miei piedi.
La mia amica sospirò e si alzò dalla fontana per avvicinarsi a me: «Sto solo cercando di dirti che devi stare attenta…»
«Perché mi conosci» la anticipai, spostando i miei occhi scuri nei suoi, di un verde stranamente brillante a causa del sole del primo pomeriggio.
«E perché so che il tuo smisurato romanticismo potrebbe… Sì, insomma, hai capito» disse, gesticolando.
Annuii e mi crogiolai nel pensiero che la mia migliore amica mi conoscesse così bene: non stava più parlando di Louis, ma di qualcos’altro. Sapeva perfettamente che io ero una specie di cacciatrice di emozioni, di passioni, di sentimenti. Ovunque andassi, non potevo non soffermarmi sui tormenti degli altri, soprattutto quelli che riguardavano quel dannato cuore: forse aveva già capito che Zayn rientrava in uno di quei casi. Forse, dal racconto che le avevo regalato sulle sue espressioni, sui suoi occhi che sembravano chiedere aiuto, era riuscita a cogliere l’attrazione che sentivo verso di lui: un’attrazione dettata dalla sua situazione e dal suo tormento.
Ero strana, questo era risaputo, ma ero in qualche modo curiosa di rivedere di Zayn.
«Cazzo, è tardi - imprecò all’improvviso Steph, battendosi una mano sulla fronte. – Quindi dico a Clarissa che non ci raggiungerai?» mi chiese, riferendosi alla nostra amica, che ci aveva invitate da lei per un pomeriggio tra ragazze. Annuii e risposi con un’alzata di spalle: «Dille che mi dispiace».
«Ok – acconsentì lei. – Ma tu fammi sapere tutto, quando torni a casa!»
«Ti chiamo» le assicurai, prima di lasciarle un bacio su una guancia e guardarla allontanarsi.
Trafalgar Square, intanto, cercava di placare la mia agitazione con la sua caoticità.
 
Cercai di inspirare quanta più aria possibile, mentre un uomo scendeva dall’auto scura per sorridermi cordialmente ed aprirmi la portiera: io ricambiai il sorriso ed entrai nell’abitacolo, dove Zayn era seduto affianco al finestrino con gli occhi seri puntati su di me.
«Ciao» salutai, sentendo la portiera chiudersi dietro di me. Lui mi rivolse un cenno del capo e la macchina ripartì, senza che io sapessi dove ci stesse portando.
Mi strinsi nelle spalle, godendo dell’aria condizionata che contribuiva a formare un enorme sbalzo termico con la temperatura troppo alta dell’esterno.
«Va bene se andiamo da me?» chiese Zayn, attirando il mio sguardo su di sé.
Annuii e «Avrei potuto raggiungerti lì» esclamai, sentendomi quasi come un peso.
«Ero già in giro» spiegò. Mormorai un “grazie” e cercai di accompagnarlo con un sorriso, che però lui si limitò ad osservare: il mio stato d’animo si stava pian piano tranquillizzando, forse perché mi stavo finalmente rendendo conto che tutta la mia agitazione non aveva motivo d’esistere. Guardai fuori dal finestrino, per niente propensa ad accennare all’argomento di cui volevo parlargli di fronte all’autista, o guardia del corpo, o qualsiasi cosa fosse.
Nessuno di noi disse un’altra parola, fin quando l’auto si fermò di fronte casa di Zayn: la ricordavo vagamente dal giorno della festa di compleanno di Abbie, ma alla luce accecante del sole era diversa. Cacciai via i pensieri di quello che era successo nella sua cucina, delle parole dure che mi aveva rivolto, quando mi ritrovai sul marciapiede, con l’uomo di prima che mi sgridava bonariamente per non aver aspettato che si dimostrasse un cavaliere aprendomi la portiera. Dopo alcuni convenevoli e sorrisi di cortesia, mi decisi a seguire Zayn all’interno del grande portone dentro il quale si era rifugiato in fretta e furia, forse cercando di non essere riconosciuto da nessuno nei paraggi.
Il silenzio, lo stesso che ci stava accompagnando come se non potesse essere altrimenti, divenne insopportabile per me, quando ci ritrovammo soli nell’ascensore: gli occhi scuri di Zayn erano puntati di fronte a sé, mentre i miei scrutavano i suoi, facendomi chiedere cosa nascondessero.
«Come procedono le registrazioni del nuovo disco?» azzardai, ricordandomi di Louis che mi aveva accennato della cosa in una delle nostre uscite.
Louis.
Attirai la sua attenzione e forse anche il suo stupore: «Bene, grazie» rispose semplicemente, tornando a guardare le porte dell’ascensore. Non aveva usato un tono sgarbato, né annoiato, ma semplicemente… civile. Le sue labbra si erano mosse come se ci tenessero, a mantenere la calma e a tenere la situazione sotto controllo, ma anche come se avessero cercato di non lasciarsi scappare qualcosa che era meglio tenere per sé.
Sospirai per il sollievo, quando un paio di note registrate annunciarono l’arrivo al piano di destinazione: Zayn camminava tranquillo, con i pantaloni neri che rendevano ancora più magre le sue gambe e la maglietta a maniche corte bianca che lasciava scoperti i numerosi tatuaggi sulle sue braccia. Io non potevo fare altro che seguirlo, impaziente di parlargli e di mettere le cose in chiaro: d’altronde, se aveva accettato di vedermi, era anche plausibile che fosse stato pronto ad affrontare l’argomento.
Mi fece entrare in casa, comportandosi come un gentile padrone di casa mentre mi chiedeva di accomodarmi e se volessi qualcosa da mangiare o da bere: io avevo preso posto sul divano, lo stesso sul quale ci eravamo seduti per giocare al karaoke quella sera, ma avevo declinato ogni altra sua offerta.
Quando lui tornò dalla cucina con una bottiglietta d’acqua naturale, lo osservai sedersi al mio fianco e bere a grandi sorsi: la pelle olivastra accolse un rivolo d’acqua sfuggito dalle sue labbra, ma fu subito asciugata con un movimento del dorso della mano.
Poggiò la bottiglia a terra e si voltò verso di me, come se stesse aspettando di sentirmi parlare. L’avrei accontentato, perché anche io non aspettavo altro.
«Perché mi hai baciata?» chiesi, senza peli sulla lingua. Schietta e decisa. Non avevo intenzione di girarci intorno.
Potevo giurare che per un attimo le sue iridi avessero rispecchiato una certa sorpresa, ma non mi arresi quando lui non rispose alla mia domanda: «Vorrei davvero saperlo, perché sinceramente mi hai un po’… confusa» ammisi, continuando a guardarlo. Lui non sembrava avere problemi nel ricambiare lo sguardo, a differenza di quando si ostinava ad armeggiare con l’iPhone mentre era al tavolo con me: era come assorto e il suo viso non esprimeva nessuna emozione.
All’improvviso, però, un sospiro lo portò a passarsi una mano tra i capelli: alzò gli occhi al cielo e fissò un punto di fronte a sé, immobile.
«Avevo voglia di farlo» esclamò, facendomi corrugare la fronte.
«Avevo voglia di baciarti» ammise, tornando a guardarmi. In quell’esatto momento, mi accorsi di star trattenendo il respiro: c’era qualcosa, nel suo modo di osservarmi, che sembrava incatenarmi a lui. Inoltre, quella confessione mi aveva leggermente sconvolta: certo, era normale che avesse voluto baciarmi, dato che l’aveva effettivamente fatto, ma erano altre le cose che non mi spiegavo.
Deglutii a vuoto, cercando di mantenere la calma: «È questo che non capisco. Perché? - insistetti, provando ad esprimermi meglio. – Non siamo mai stati in buoni rapporti, anzi, fino a quel giorno avrei giurato che mi odiassi. Non mi aspettavo nemmeno che mi chiamassi per chiedermi scusa, figuriamoci il resto» spiegai. Ricordavo ancora le sue scuse, frettolose e tormentate, come se avessero faticato ad uscire dalla sua bocca: ricordavo perfettamente come erano state pronunciate sulle mie labbra. Era tanto orgoglioso? O quelle semplici scuse volevano significare anche altro? Dimenticai quel dubbio, convincendomi di non dovermi fare così tanto paranoie, e tornai a concentrarmi su Zayn.
«Stupida» borbottò, scuotendo la testa con l’accenno di un sorriso sul volto. In realtà era l’ombra di un accenno, dato che solo gli angoli della sua bocca si erano inclinati leggermente all’insù.
«Come, scusa?» domandai incredula, sbattendo più volte le palpebre.
Quando Zayn alzò il viso verso di me, i suoi occhi mi immobilizzarono: era come se avessero voluto scavarmi dentro, sviscerarmi dei miei pensieri più profondi e riempirmi con i loro. Mi destabilizzavano e riuscirono persino a farmi dimenticare il mio sdegno per il suo commento, per un attimo.
L’attimo dopo, infatti, mi stavo già chiedendo perché Zayn si fosse avvicinato a me, strisciando sulla pelle del divano: «Io non ti odiavo» precisò, continuando a guardarmi allo stesso modo.
Alzai un sopracciglio: era poco credibile, quella sua affermazione. Insomma, o lui stava mentendo spudoratamente, oppure io ero davvero una stupida. E di sicuro la prima opzione era più accreditabile.
Si fece ancora più vicino, inondandomi di stupore: ormai avevo il suo volto a circa venti centimetri dal mio.
«Aiutami, Victoria» sussurrò con la voce smorzata da chissà quale emozione, guardando per un paio di secondi le mie labbra, come se stesse cercando di capire cosa fare, come se ne fosse stato attratto.
Il mio cuore sussultò a quelle parole: aiutarlo?
«Non…» capisco, avrei voluto dire, ma lui mi anticipò: «Ti prego» aggiunse, avvicinandosi ancora.
Ad ogni centimetro che lui toglieva tra di noi, io ne aggiungevo un altro, indietreggiando impercettibilmente e facendo aderire la mia schiena al bracciolo del divano.
«Zayn, che stai…»
Che stava facendo? Mi stava baciando, di nuovo. Aveva appoggiato di nuovo le sue labbra sulle mie, sfiorandole delicatamente, in modo diverso dall’ultima volta, quando le aveva letteralmente prese d’assalto.
Mi ritrassi, con il cuore che mi martellava nel petto e il profumo di Zayn che sembrava volermi convincere a lasciarmi andare: i centimetri che ci dividevano mi confondevano, così come i suoi occhi, quei maledetti occhi che avevano improvvisamente perso ogni distacco e che volevano quasi pregarmi.
«No» dissi, appoggiando una mano sul suo petto.
Lui, però, non mi diede ascolto. Fu più veloce, quella volta, nel riunire le nostre labbra, ma io non ero d’accordo. Non volevo che mi baciasse. Non capivo nemmeno perché lo facesse.
«Zayn, smettila!» esclamai, alzandomi frettolosamente dal divano. In piedi di fronte a lui, lo guardavo con una mano tra i capelli, mentre lui sembrava essere stupito da quella mia reazione. Cosa si aspettava? Che ricambiassi? Che diavolo gli passava per la testa?
«Si può sapere qual è il tuo problema?» continuai, smaniosa di ricevere una dannata spiegazione per quei suoi comportamenti contraddittori.
«Sei tu! – sbottò Zayn, mettendosi in piedi. – Sei tu, il mio fottuto problema!»
Indietreggiai di un passo alle sue parole: il respiro accelerato e i pensieri confusi. Perché? Cosa avevo fatto, per essere un suo problema?
Si passò una mano tra i capelli, scompigliandoli ancora di più: le sue iridi si muovevano velocemente sul pavimento, ma non si alzavano mai su di me; avrei voluto che lo facessero, perché speravo che mi sarebbe servito per capire cosa gli passasse per la testa.
«Vuoi sapere perché ti ho sempre respinta? – domandò, spiazzandomi. – Vuoi sapere perché ho cercato di allontanarti in tutti i modi?»
Sì.
Quando spostò improvvisamente il suo sguardo nel mio, mi ritrovai a deglutire, come se avessi potuto buttar già anche il disagio e la confusione, e lui prese quella mia reazione come una risposta affermativa.
«Perché mi fai sentire in colpa – disse, abbassando il tono di voce, come se fosse una confessione da tenere segreta. – Perché quando ti ho vista, a casa di Louis… Ti avrei baciata anche lì, davanti a loro. Ma Leen…»
Osservai l’espressione che gli deformava il volto, e improvvisamente mi sembrò di capire: che provare un’attrazione verso di me lo facesse sentire in colpa nei confronti di Kathleen?
In un attimo tutto sembrò essermi più chiaro: ogni momento in cui mi aveva uccisa con lo sguardo, ogni volta che aveva cercato di respingermi, di allontanarmi il più possibile, tutto era più chiaro.
Schiusi le labbra, come per dire qualcosa, ma non ne uscì nulla. In compenso, fu proprio Zayn a continuare per me.
«Per la prima volta mi ritrovo a pensare a qualcun’altra, ad una persona che non sia lei – riprese, stringendo i pugni. – Ed io non voglio farlo. Non voglio dimenticarla, ma… So anche che non è giusto continuare a vivere nel suo ricordo. Non è questo che avrebbe voluto per me».
Le sue parole mi colpirono come uno schiaffo in pieno viso: erano così piene di contraddizioni, di sofferenza, di… amore. Corrugai la fronte, rilassando tutti i muscoli: cosa si provava a ritrovarsi improvvisamente a pensare ad una persona che non era quella di cui si era innamorati, quella da cui si era stati strappati tanto brutalmente? Cosa si provava a vivere con il senso di colpa e allo stesso tempo con la voglia di andare avanti?
Le risposte erano tutte lì, in quegli occhi che mi guardavano in cerca di un appiglio, di una risposta, di un aiuto. E io cosa potevo fare, per andar loro incontro?
«Quindi, per favore. Aiutami» ripeté, facendo un passo verso di me.
La sua richiesta di aiuto era così esplicita, così disperata, che mi spiazzava. La mia mente era affollata da pensieri, dubbi, rivelazioni, domande, e non riuscivo a ragionare lucidamente.
«Come… Come dovrei fare?» chiesi, con la gola secca a rifiutarsi di emettere ulteriori suoni. In realtà credevo di sapere la risposta a quella mia domanda, ma non volevo dirla ad alta voce, non prima che lui me ne avesse dato conferma.
«Stai con me» disse in un sussurro. Tutto nel mio corpo smise di muoversi, di vivere, per un attimo interminabile: quando riprese, era tutto troppo caotico per essere controllato a dovere. Mi stava davvero chiedendo una cosa del genere?
Scossi la testa, sia per allontanare quella possibilità troppo reale, sia per rispondere alla sua proposta: «No, Zayn».
Louis.
«Provaci» insistette.
«No – ripetei, indurendo lo sguardo come se avessi potuto farmi forza. – Io non… Non ci riuscirei. Non provo… Non provo le stesse cose» conclusi. Non sapevo perché mi ostinassi a balbettare, ma avevo l’impressione che esprimere quel rifiuto potesse farlo stare male. E quello mi confondeva ancora di più, perché mi ritrovavo inspiegabilmente ad interessarmi al suo stato d’animo, cosa che non avrei mai pensato potesse essere possibile, fino a poco tempo prima. Forse era la compassione a farmi pensare in quel modo? Forse era l’idea di un amore così forte da superare anche la morte, da tormentare una persona anche dopo così tanto tempo?
«Allora non stare con me – si affrettò a continuare lui, correggendosi, colto da uno strano entusiasmo. Sembrava cercare un compromesso a tutti i costi. – Lascia… Lascia che sia io ad innamorarmi di te: lascia che io continui a pensarti, lascia che il tuo pensiero sia più forte del suo. Non fare nulla, solo… Restami vicino e fammi innamorare di te».
Spalancai gli occhi, mentre cercavo di capire come mai il mio cuore avesse preso a correre all’impazzata, quasi avesse voluto scappare via e allontanarsi il più possibile. Cosa avrei dovuto dirgli?
Ero così stupita da quella richiesta straziante che non ero nemmeno capace di parlare, di articolare un suono. Ero completamente rapita dall’idea dell’amore di Zayn, così profondo e intenso da essere per lui una tortura.
Lui era lì, davanti a me, a chiedermi disperatamente di salvarlo, di offrirgli una via di fuga e io non riuscivo a fare altro se non fissare i suoi occhi scuri supplicarmi.
«Non ti chiedo niente – riprese, senza darmi il tempo di metabolizzare tutto. – Puoi anche continuare ad odiarmi, perché so di non essere in cima alla lista dei tuoi amici più cari, ma ti prego, lascia che mi innamori di te. Magari non succederà, magari conoscendoti meglio scoprirò di non sopportarti nemmeno: per ora, però, sento questa… cosa, dentro di me, e sto cercando a tutti i costi di non lasciarla sfuggire, perché è la prima fottuta emozione che provo oltre quello schifo di dolore che mi accompagna da un anno. L’unica cosa che ti chiedo è di non farla scomparire, di tenerla in vita, qualsiasi cosa sia destinata a diventare».
Indietreggiai ancora: forse, se avessi aumentato le distanza tra di noi, avrei anche potuto allontanarmi dalle sue parole, da quello che sentivo io. Perché non avrei voluto, ma sapevo esattamente cosa mi stava consigliando di fare quel mio stupido cervello, accompagnato – come raramente accade – dall’altrettanto stupido cuore.
Per qualche secondo gli unici rumori che riuscii a sentire furono il mio respiro profondo ed irregolare, ma, di nuovo, Zayn riprese a parlare. Era come se si trattasse di una questione di vita o di morte per lui, come se non vedesse l’ora di convincermi, di arrivare ad una conclusione: «È Louis il problema? È perché pensi ancora a lui?»
Louis.
Sì, ovvio che pensavo ancora a lui, per qualche strano e malsano motivo, ma non era l’unico particolare che mi spingeva a rimanere in silenzio dinanzi alle sue richieste.
«Potresti sfruttare l’occasione per provare a dimenticarlo – disse, senza lasciarmi il tempo di rispondere, ancora una volta. Era la prima volta che parlava così tanto e che avrei voluto che tacesse per un solo istante. – O magari lui potrebbe ingelosirsi, anche se ora è tornato con El».
«Zayn, fermati» sbottai, alzando il palmo della mano come se avessi potuto evitare che le sue parole si avvicinassero a me. Stava esagerando, stava cercando qualsiasi appiglio per convincermi e intanto mi stava confondendo ancora di più, tirando in ballo Louis ed Eleanor, l’ultima cosa di cui io avevo bisogno.
«Ho capito cosa mi stai chiedendo, non c’è bisogno di… Stai un attimo zitto, per favore» continuai, forse stupendolo per il modo in cui avevo risposto dopo tutto quel tempo in cui non avevo aperto bocca. Le mie mani si stritolavano l’una con l’altra e riflettevano tutto il disagio che provavo in quel momento.
Gli avevo spiegato che io non ero attratta da lui in quel senso, che non sarei mai riuscita a formare una coppia con Zayn Malik, nonostante lui sembrasse averne bisogno: eppure poi mi aveva chiaramente fatto capire che gli sarebbe bastato molto di meno, una semplice vicinanza. Gli serviva la mia presenza, qualsiasi sfumatura essa avesse, solo per continuare a… provare qualcosa. L’idea che si stesse aggrappando così disperatamente ad un’emozione, che stesse cercando in tutti i modi di conservarla dentro di sé, mi spezzava in due.
Eppure, per quanto fosse poco quello che mi stava effettivamente chiedendo, non sarei stata crudele nell’accettare? Nel permettergli di sviluppare quel qualcosa che sentiva, nel dargli la possibilità di trasformarlo anche in amore - in una lontana possibilità che mi sembrava ancora assurda - pur sapendo di non ricambiare quel sentimento?
E non sarei stata altrettanto crudele nell’ignorare quegli occhi torvi e nel far finta che Zayn non mi stesse implorando di aiutarlo?
«Vicki…» mi richiamò in un sussurro. Piantai le mie iridi nelle sue e aspettai qualche secondo, prima di parlare.
 


Abbie.
 
Deglutii a vuoto, spalancando gli occhi sempre di più, quasi con la paura che avessi superato il limite umano.
«Zayn, che cazzo hai fatto?» chiesi poi con un fil di voce. Il telefono ancora attaccatto all’orecchio e il silenzio dall’altra parte della cornetta.
Me l’aveva raccontato. Mi aveva detto del suo incontro con Victoria, della sua richiesta e di tutto il resto. Mi aveva lasciata senza parole, mentre una morsa si era impossessata del mio stomaco, forse per il dispiacere di essere così vicina alla sua sofferenza eppure così lontana dal poterlo aiutare. E mi aveva letteralmente sconvolta, quando mi aveva confessato che Vicki aveva effettivamente accettato la sua proposta.
«Io… Non lo so, Abbie» mormorò lui, dopo qualche istante. Potevo immaginarlo mentre si passava una mano tra i capelli, mentre alzava gli occhi al cielo e sospirava sconfitto.
«Avevi… Avevi detto che l’avresti evitata come la morte – gli feci presente, ancora sbalordita da quella notizia. – Come…»
«Non ci sono riuscito – è la sua semplice risposta. – Non ci riesco, a starle lontano».


 



 

ANGOLO AUTRICE
 
Ok, contro ogni previsione, sono in ritardo solo di un giorno! VIVA ME ahahha
Tra ieri sera e oggi sono riuscita a finire il capitolo, anche se ora devo sbrigarmi ad aggiornare
perché devo studiare D: D:  D:
Allora, cercherò di essere il più breve possibile, nonostante io abbia una marea di cose da dire!
Iniziamo dall’inizio: spero sia chiaro perché Vicki senta il bisogno di parlare con Zayn, a parte
il bacio tra di loro! Ogni volta cerco di presentare il suo carattere al meglio, ma non sono
mai sicura di riuscirci: lei vive di emozioni; è attirata dagli amori passionali, tormentati,
proprio come un’inguaribile romantica e sognatrice. Per questo la situazione di Zayn la “stuzzica”.
E non si comporta così con Louis perché è anche una fifona, nonostante non lo abbia
di certo dimenticato: e di questo si conosce il perché, dato che si è capito come sia facile
per lei illudersi e rimanere aggrappata a qualcuno anche se ha condiviso con lui davvero poco.
Ma passiamo a Zayn, che davvero, mi ha fatto disperare in questo capitolo:
mentre scrivevo avevo anche io una morsa allo stomaco, proprio come Abbie. Prendetemi per scema,
ma scrivere di lui in questi termini è terribile, soprattutto perché so a cosa pensa in realtà…
Ecco, vi avevo detto che il suo personaggio si sarebbe capito meglio, perché avrebbe detto
qualcosa che vi avrebbe fatto rizzare le orecchie (?): tutto questo discorso disperato che fa a Vicki,
è un’enorme, gigantesca bugia. Ha questo profondo bisogno di lei, ma non perché ne sia attratto
come persona, non perché sta pensando ad un’altra, dopo così tanto tempo, come ha detto lui.
Penso che il motivo sia chiaro a tutte: Vicki è Leen, per lui.
E lo so, so che è qualcosa si portato al limite, di profondamente “sbagliato” in qualche modo,
ma Zayn sta affrontando un percorso, che è un po’ alla base di questa storia: per ora lui, nonostante
all’inizio abbia davvero provato a starle lontano (e non perché si sentisse in colpa, ma solo perché era sconvolto),
non riesce a stare separato da lei. Arriva addirittura a supplicarla di stargli vicino
come semplice amica, lasciando che di lui venga fatto quello che si deve: poco gli importa se si
innamorerà di lei o se invece arriverà ad odiarla. Per il momento vuole solo stare vicino a qualcosa
che gli ricordi Leen. Non so se mi sono spiegata, ma ho cercato in tutti i modi di farvi capire
quanto il personaggio di Zayn incarni la “disperazione”: il suo insistere, tutte le sue parole, i suoi
comportamenti, sono urgenti, disperati, appunto. 
Spero davvero di avervi fatto capire cosa intendo e cosa intende lui, ma soprattutto spero
che questo capitolo vi sia piaciuto! Fatemi sapere cosa ne pensate, please!
Questo capitolo è parecchio importante! Inoltre, mi farebbe piacere sapere le vostre ipotesi :)
Vicki ovviamente non sa nulla di questo lato di Zayn, quindi come si evolverà il loro rapporto?
(Lei ha accettato, anche se non ho riportato quella parte, mettendola solo in bocca ad Abbie:
ovviamente Vicki, per come è fatta, non avrebbe mai ignorato la richiesta di aiuto di Zayn).
 
Grazie di tutto, come sempre fjdsfsalk E scusate se ho scritto tutto di fretta ma devo proprio scappare D:
Un bacione,
Vero.
 
 Ask - Facebook - Twitter




Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** What do you want from me? ***




What do you want from me?

Capitolo 12

 

Vicki.
 
Mentre camminavo sul marciapiede, guardandomi le scarpe e ignorando i passanti solo per un soffio, continuavo a rimuginare sempre sullo stesso argomento, o meglio, sulla stessa persona: Zayn.
Perché avevo accettato la sua offerta? Non avevo nemmeno capito in cosa consistesse effettivamente, dato che lui era stato tanto contraddittorio nel parlarne.
Da quel poco che avevo compreso, era attratto da me, tanto da essere dilaniato da due sentimenti contrastanti: la voglia di ricominciare a vivere e il senso di colpa nei confronti di un amore dal quale non era riuscito a distaccarsi, nei confronti di Kathleen. In mezzo, c’ero io.
Mi era più chiaro il perché Zayn mi avesse allontanata, nei nostri primi incontri, nonostante fosse difficile per me convincermi del fatto che i suoi occhi iniettati di fastidio e astio avessero sempre celato dell’altro, qualcosa di ben diverso. Mi era più chiaro il motivo per cui mi aveva chiamata per scusarsi, contravvenendo al comportamento al quale mi aveva apparentemente destinata. Mi era più chiaro il suo bacio, seguito da un altro paio, tanto inaspettato quanto difficile da credere.
Quello che non mi era molto chiaro, era altro: cosa si aspettava Zayn da me?
Due giorni prima, quando mi aveva confessato tutte quelle cose, mi aveva in qualche modo condizionata: quei suoi occhi, che ero abituata a rifuggire per il disagio che volevano intimarmi, continuavano a tenermi incatenata a loro, a pregarmi. Ogni particolare del suo viso si era sciolto, slegato dalla durezza con il quale soleva fronteggiarmi, evidentemente in cerca di una protezione: era come se si fosse ripromesso di dimostrarmi tutto quello che Zayn teneva dentro e che non si era lasciato scappare, non fino a quel momento. E le sue parole… Mi avevano completamente frastornata: mi ero ritrovata immersa nella pura sofferenza che trasmettevano, quasi nel tormento, qualcosa di così profondo da riuscire a scuotere chiunque l’avesse anche solo percepito da lontano. L’amore che quel ragazzo covava dentro di sé, dopo tutto quel tempo, era stato in grado di paralizzarmi.
Quindi no, non avevo rifiutato quella mano tesa verso di me nel cercare un appiglio, una via di fuga: l’avevo afferrata, contro ogni logica. Quando Zayn mi aveva chiesto di stare con lui, era stato troppo per me, è vero: non ero attratta da lui e illuderlo sarebbe stato davvero crudele, per quanto io volessi aiutarlo. Il mio pensiero, poi, era subito volato a Louis, l’unico con cui, in quel momento, riuscivo ad immaginarmi, nonostante tutto. Per quanto Zayn mi chiedesse di tenere in vita quell’emozione che sentiva, l’unica – a detta sua – che l’aveva riscaldato dopo tanto tempo, non mi sentivo in grado di potergli stare accanto in veste di fidanzata: sarei stata falsa, e gli avrei fatto del male. Però, quando si era corretto, pregandomi anche solo di essere presente al suo fianco, io non ero riuscita a trovare una scusante abbastanza valida che mi avrebbe potuto portare a declinare l’offerta: non c’era più niente a trattenermi e il mio stato confusionale, dettato da tutte quelle verità svelate e inaspettate, non mi aveva di certo aiutata.
Avevo ancora ben impresso nella mia mente il mio “ok” appena mormorato, quello che aveva dato il via a tutto, e il sorriso appena accennato di Zayn, seguito da un respiro profondo: da quel momento, nessuno di noi aveva più accennato all’argomento. Forse per l’imbarazzo della situazione, forse perché entrambi non sapevamo cosa dire: avevamo semplicemente passato circa un’ora insieme, a parlare più di quanto mi sarei aspettata e, ogni tanto, a scherzare. Lui si era come rilassato, iniziando ad abbattere quel muro che aveva issato tra di noi, e io mi ero stupita nel ritrovarmi a ridere per una sua esclamazione, o nel vederlo guardarmi con occhi diversi, ma ancora incomprensibili. Da ogni suo atteggiamento, trapelava la sua voglia di scuotere la sua intera vita, di provarci, di tuffarsi in qualcosa di nuovo che da troppo tempo non provava e che, fino a due giorni prima, aveva cercato di allontanare per non sentirsi in colpa. Da ogni mia reazione, d’altro canto, si poteva capire quanto la sua situazione mi avesse destabilizzata, obbligandomi a mettere da parte il sentimento negativo che avevo sempre provato per lui.
Eppure, io non sapevo come comportarmi. Cosa avrei dovuto fare? Uscire con lui come due vecchi amici e lasciare che il nostro rapporto si evolvesse come doveva? O continuare a mantenere una certa distanza? Zayn avrebbe detto di noi, qualsiasi cosa comportasse quel “noi”, agli altri componenti della band? E come si sarebbe rapportato con me? Avrebbe cercato di rendere tutto più intimo, secondo l’attrazione che sentiva? O avrebbe rispettato i miei limiti sottintesi?
Delle urla chiassose, unite a gridolini a dir poco assordanti, arrivarono alle mie orecchie distogliendomi da quel vorticare di pensieri: alzai lo sguardo davanti a me e quello che vidi mi intimò di immobilizzarmi lì, ad una ventina di metri di distanza. Una folla di fans si era accalcata di fronte all’entrata dello studio di registrazione dei ragazzi e io non sapevo davvero come avrei fatto ad arrivare sana e salva all’interno.
Maledissi mentalmente Zayn, che mi aveva chiesto di raggiungerlo lì, in modo da poter uscire direttamente alla fine delle prove, ma la mia attenzione fu attirata dalla vibrazione del telefono che stringevo in una mano.
Steph mi aveva mandato un messaggio: “Più tardi vengo da te” c’era scritto soltanto. Alzai gli occhi al cielo e sospirai, ripensando alla ramanzina che mi aveva fatto: lei non era quel tipo di amica che si immischiava troppo nelle faccende degli altri, non pretendeva di essere ascoltata. Diceva la sua opinione una volta, magari due, ma non si spingeva oltre, convinta che ognuno dovesse fare le sue scelte, giuste o sbagliate: ecco, nell’espormi il suo punto di vista, quando le avevo raccontato di me e Zayn, era stata molto, molto, molto chiara. E spietata. In sintesi, mi aveva detto tranquillamente che stavo facendo una stratosferica cazzata.
E come darle torto?
Risposi velocemente al suo messaggio dicendole che probabilmente avrei fatto tardi, a causa del mio pseudo-appuntamento con Zayn: sapevo che avrebbe storto il naso a quella notizia, ma purtroppo quelli erano i fatti.
Quando riposi il telefono in tasca, inspirai profondamente, impregnandomi dell’odore della pioggia estiva che aveva invaso la Londra pomeridiana fino a pochi minuti prima: scrutai ancora per qualche minuto quelle persone accalcate lì davanti e mi costrinsi a camminare verso di loro.
Non sembravano propense a lasciarmi passare, e le gomitate, i piedi pestati e gli insulti poco velati ne erano una prova più che evidente: in qualche modo, però, riuscii ad avvicinarmi alle transenne, tanto da poter incrociare lo sguardo dello stesso uomo che era alla guida dell’auto, il giorno in cui io ero andata da Zayn. Gli sorrisi, felice di incontrare un volto conosciuto, e gli feci un cenno con la mano: lui mi riconobbe e fece qualche passo verso di me, arrivandomi di fronte; Zayn mi aveva detto che non avrei avuto problemi ad entrare, ma io mi chiedevo se, nel notare quel trattamento privilegiato che mi veniva riservato, quelle fans strepitanti non avrebbero reso vani i suoi sforzi, uccidendomi sul posto.
«Ora ti faccio passare» disse l’uomo, sorridendomi in modo cordiale. Sentivo già qualche protesta, tutto intorno a me. Lui e altre due persone riuscirono a spostare le transenne in modo da lasciarmi uscire da quella calca di gente, stando attenti a contenere le lamentele e le domande delle altre ragazze, per non parlare dei loro tentativi di intrufolarsi all’interno degli studi. In quei pochi istanti ebbi seriamente paura per la mia vita.
Mi strinsi nelle spalle, abbassando lo sguardo sulle converse blu rovinate e puntando la porta d’entrata come se fosse la mia fonte di salvezza, impaziente di lasciarmi alle spalle le urla, gli spintoni e tutto il resto: perché diavolo aveva scelto quel posto, per incontrarci? Senza parlare del fatto che avrei incrociato sicuramente il resto del gruppo, Louis compreso.
Mandai giù il nodo in gola che si era formato nel rivangare quel nome, e feci un passo avanti, finalmente “al sicuro”. Mi guardai intorno sospirando, rincuorata dal trovarmi in un posto relativamente accogliente e semplice: alcune persone si affrettavano nei corridoi spogli, altre erano tranquillamente sedute sui divanetti  grigi all’entrata, chiacchierando del più e del meno con una tazza di caffè tra le mani.
Non sapevo nemmeno cosa fare.
«Victoria?» chiese una voce alle mie spalle, facendomi sobbalzare: una donna poco più alta di me, con il corpo snello di circa quarant’anni stretto in un semplice completo in tessuto nero, mi guardava con gli occhi scuri attraverso le lenti degli occhiali da vista appariscenti, con la montatura di un arancione accesso.
«Sì?» risposi, passandomi una mano tra i capelli per riportarli ad un minimo d’ordine. Lei mi sorrise e si strinse al petto una piccola agenda un po’ logora: «Zayn mi ha detto che saresti arrivata a quest’ora – spiegò, senza presentarsi. – Mi dispiace, ma non hanno ancora finito in studio: se vuoi seguirmi, ti faccio vedere dove puoi aspettarli» concluse, alzando un braccio per mostrarmi la direzione giusta.
Io annuii, un po’ in imbarazzo: non potei fare a meno di chiedermi quale idea si fosse fatta quella donna di me e Zayn. La seguii a fatica, tenendo conto della velocità con cui muoveva quelle dannate gambe, e per poco non divenni cieca, quando, con un gesto veloce della mano, si scrollò di dosso i capelli neri un po’ troppo lunghi, che mi colpirono direttamente nell’occhio destro con le loro punte.
Alzai lo sguardo al cielo e mi morsi le labbra per non commentare, poi finalmente mi vennero indicate un paio di sedie in un corridoio non molto lungo, costeggiato da quattro o cinque porte: c’era un silenzio quasi imbarazzante, nonostante sapessi che le stanze di registrazione fossero insonorizzate.
«Sa, più o meno, per quanto ne avranno ancora?» mi azzardai a chiedere prima che se ne andasse, sedendomi su una delle sedie in plastica blu, attaccate alla parete.
«Forse una quindicina di minuti, o mezz’ora - rispose lei, dando un’occhiata di sfuggita al fine orologio che portava al polso. – Sono dietro quella porta, laggiù» disse poi, indicandomene una alla mia destra, a qualche metro da me.
«Ah… Ok, grazie» mormorai, scocciata da quel ritardo. La donna si congedò con un gesto del capo e un sorriso, lasciandomi in quel corridoio deserto a cercare un modo per passare il tempo.
 
Picchiettai il piede sul parquet scuro e andai alla caccia di alcune doppie punte, ma poi fui costretta ad arrendermi alla noia: mi alzai da quella scomoda sedia e mi avvicinai alla porta che mi stava di di fianco, a sinistra. Come tutte le altre era in legno quasi nero e con una piccola finestrella che mi permetteva di spiare all’interno. Quando capii che si trattava di una stanza per le registrazioni, abbassai la maniglia in ottone per entrare, ma rimasi delusa nel constatare che fosse chiusa a chiave.
Sbuffai e girai su messa lentamente, ammirando un piccolo quadro a dir poco incomprensibile che stava sulla parete di fronte a me: al suo fianco, un’altra porta. Spiai all’interno, proprio come avevo fatto con la precedente, ma, quella volta, la maniglia si abbassò senza fatica, lasciandomi libero accesso alla stanza.
Evidentemente, qualcuno era stato lì fino a poco tempo prima: c’erano scarti di fish and chips, bottiglie d’acqua lasciate a metà vicino ad una birra finita, una chitarra acustica appoggiata al muro più corto e, quella che mi sembrava una maglietta stropicciata, abbandonata sulla sedia girevole di un rosso scuro. Sorrisi, chiedendomi se gli One Direction fossero stati lì, poi mi diressi verso quella che pensavo potesse essere la postazione di “controllo”, dato che non avevo idea di come si chiamasse.
C’erano troppi pulsanti,  troppi monitor, troppe levette e altrettanti aggeggi elettronici, e io non avevo intenzione di toccarne nemmeno uno, data la mia scarsa esperienza con la tecnologia: alzai lo sguardo davanti a me, quasi specchiandomi nell’enorme vetrata che mi divideva da una piccola stanzetta, al centro della quale stava un microfono montato su una lunga asta che lo portava all’altezza del viso, o forse di più: le pareti erano rivestite da materiale isolante.
Mi morsi l’interno della guancia e passai ad osservare ogni particolare che mi circondava, spinta dalla mia indomabile curiosità: quello che notai, però, mi fece corrugare la fronte. Su un tavolino alla mia destra, tra gli avanzi di cibo e alcuni tovaglioli stropicciati, un Samsung Galaxy di ultima generazione aveva attirato la mia attenzione, quasi chiamandomi.
Mi avvicinai e lo presi tra le mani, ammirandone il colore nero troppo lucido e riconoscendo la scheggiatura che stava sul lato destro più lungo: se l’era procurata quando il suo proprietario l’aveva fatto cadere mentre cercava di farmi il solletico.
Inspirai profondamente, accarezzandone la superficie liscia e stringendolo per un attimo al petto, come se potesse aiutarmi a sentire lui più vicino. Prima che potessi fare altro, però,  la porta si spalancò, facendomi sussultare, e proprio la persona alla quale stavo pensando mi apparve davanti.
Per dei secondi interminabili entrambi rimanemmo in silenzio: gli occhi di uno negli occhi dell’altra, il mio cuore a rimbombare nella cassa toracica e la stanza che ritornava ad essere isolata dal mondo, dopo lo sbattere della porta che si richiudeva.
«Victoria» esclamò lui, rivolgendomi un sorriso che voleva nascondere la sorpresa, ma che sapeva anche di provocazione. Trattenni il fiato nel rivedere le sue labbra incurvarsi e cercai di non lasciarmi abbindolare dal modo in cui i suoi occhi mi guardavano, senza però realmente vedermi, non come avrei voluto io.
«Louis…» sussurrai, stringendo ancora di più il telefono tra le mie mani. Deglutii a vuoto, nervosa come non mai e con l’istinto che lottava contro la ragione: sentivo l’impellente bisogno di scappare, ma non volevo concedergli una soddisfazione. Dovevo imparare a fronteggiarlo, qualsiasi cosa comportasse dentro di me.
«Questo… Questo credo sia tuo» dissi dopo qualche istante, riscuotendomi dai miei pensieri e porgendogli il cellulare senza però fare un passo verso di lui. Louis guardò cosa avevo in mano e fece schioccare la lingua sul palato, avvicinandosi a me: «Allora l’avevo davvero dimenticato qui» spiegò, più a se stesso che a me.
Quando lo afferrò, io sentii il cuore fare una smorfia di dolore nel percepire le sue dita sfiorare le mie: perché continuava a farmi quell’effetto?
«Grazie» disse poi, infilandoselo nella tasca dei pantaloni della tuta blu scuro. Io osservai i suoi movimenti, soffermandomi sulla t-shirt grigia con qualche fantasia surreale, che lasciava scoperta il tatuaggio sul suo petto, e poi sul suo volto, a mezzo metro da me: quando incontrai di nuovo i suoi occhi, mi diedi della stupida.
«Prego» risposi velocemente, come se avessi potuto riparare a quel ritardo imbarazzante. Lo sguardo che era tornato sul pavimento sotto di noi e le mani che si erano infilate nelle tasche posteriori dei jeans per il nervosismo.
Di nuovo, Louis sorrise: di sicuro si era accorto della mia reazione, del mio disagio, e di sicuro ne era soddisfatto.
«Cosa ci fai, qui?» chiese, stupendomi.
Tornai a guardarlo, chiedendomi da quando in qua gli interessasse di me: aprii la bocca per dire qualcosa, ma lui mi anticipò, rivelandomi che in realtà, la sua, era stata solo una domanda retorica.
«Ah, è vero – si rispose da solo, infatti. – Te la fai con Zayn».
Sbattei le palpebre più volte, sconvolta da quelle parole taglienti e beffarde: le labbra di Louis, sottili e piegate in un mezzo sorriso, sembravano volermi trafiggere con i suoni che lasciavano uscire.
«Io non me la faccio con Zayn» precisai, incrociando le braccia al petto e cercando di indurire lo sguardo il più possibile.
«Ah, giusto, è una cosa molto più innocente» si corresse lui, assumendo un’espressione affermativa quanto irrisoria. Mi stava prendendo in giro, era più che evidente.
Schiusi le labbra, sentendo la rabbia che iniziava a ribollirmi dentro: «Si può sapere che cazzo te ne frega?» sbottai, stupendomi della decisione con cui avevo pronunciato quelle parole. Il suo comportamento non faceva altro che confondermi e io non lo sopportavo, per niente.
«Woho, non diventare volgare, Vicki – esclamò lui, alzando le mani come per placare la mia reazione e senza togliersi quel dannato sorriso dal volto. – Non ce n’è bisogno».
«A me sembra di sì, invece» lo corressi, trattenendo a stento gli insulti. Quello che mi faceva arrabbiare ancora di più, però, era che, per quanto Louis fosse uno stronzo presuntuoso, continuavo ad avere la malsana voglia di baciarlo, proprio lì e proprio in quel momento.
«Come vuoi, allora» mi concesse, inclinando leggermente il capo da un lato.
Ero stanca della sua espressione perennemente imperturbabile, tanto da mettermi a disagio come mai lo ero stata in vita mia, e forse per questo sbuffai e presi a camminare verso la porta, per allontanarmi da lui e da tutte quelle emozioni contrastanti: non volevo scoprire quale parte di me avrebbe presto avuto la meglio, se sarebbe stata quella che voleva tirare a Louis un calcio dove non batte il sole o quella che voleva stringerlo tra le mie braccia solo per baciare di nuovo le sue labbra.
Quando afferrai la maniglia, però, la mano di Louis afferrò il mio polso, obbligandomi a fermarmi: quel contatto mi diede quasi fastidio, ma solo per le sensazioni nostalgiche che aveva risvegliato in me, andando a peggiorare il mio stato emotivo.
«Sai, Vicki – cominciò, mentre io mi ostinavo a guardare il legno scuro della porta di fronte a me, incapace di incontrare di nuovo i suoi occhi. – Io appoggio Zayn, sul serio. Lui è uno dei miei migliori amici e so che ha bisogno di te, so che magari potresti aiutarlo – continuò, facendomi chiedere dove volesse andare a parare. – Sei tu che mi fai incazzare, perché non vorrei che da un giorno all’altro potessi farti fotografare con Niall o con Liam, o con Harry - chi lo sa - facendo soffrire Zayn, di nuovo».
Spalancai gli occhi, mentre le sue parole, pronunciate con un tono di voce calmo e rilassato, si piantavano dentro di me come delle coltellate, dritte nella schiena, accanto al cuore. Mi voltai lentamente verso di lui, con il polso ancora nella sua mano grande e un po’ ruvida: non sorrideva più. Era serio, fin troppo, ed proprio quel particolare mi fece più male.
«Mi hai appena dato della poco di buono?» sussurrai appena, cercando di riordinare i pensieri nella mia testa. Ero incredula. Ferita ed incredula.
Louis si passò la lingua sulle labbra: «Ho fatto bene?» chiese, assottigliando lo sguardo.
Il rumore della mia mano che colpiva il suo viso rimbombò in tutta la stanza, facendo scomparire per un attimo i battiti accelerati del mio cuore che mi inondavano la testa: Louis rimase per qualche istante con il volto girato, la pelle della sua guancia sinistra che si arrossava sempre di più.
Respiravo velocemente, arrabbiata, confusa, e una serie di altri aggettivi che avrei impiegato troppo ad elencare: da dove tirava fuori tutta quella rabbia? Quella cattiveria?
«Sai cosa ti dico? – cominciai a denti stretti, con i pugni chiusi lungo i fianchi in modo da trattenermi, mentre lui tornava lentamente a guardarmi. – Sei solo un coglione egocentrico. Mi hai piantata in asso come una stupida, facendo finta che tra di noi non fosse successo niente e tornando a gambe levate dalla tua fidanzatina noiosa, senza degnarti nemmeno di darmi una spiegazione. E ora sei qui, a darmi della puttana, praticamente, solo perché ho deciso di aiutare un tuo amico! E tu sai che io e Zayn non usciamo insieme, perché scommetto quello che vuoi che lui te l’abbia detto, ma non ce la fai proprio, a non comportarti come uno stronzo solo perché sei frustrato perché non sei più al centro dell’attenzione! Non sono così cieca da non accorgermi che questa storia tra me e lui ti dà fastidio, sai? Quindi fammi un favore, evita di parlarmi ancora, se tanto ti do sui nervi, e cercati qualcosa di meglio da fare! Delle  tue offese e delle tue frecciatine, io non me ne faccio niente, anzi, sto solo sprecando tempo!» conclusi, accorgendomi solo allora di quanto la mia voce si fosse effettivamente alzata. L’unica testimonianza di quella mia sfuriata, senza capo né coda, stava nel mio respiro accelerato e negli occhi di Louis, che mi stavano guardando troppo intensamente.
Improvvisamente, senza che io me ne potessi rendere conto, le mie labbra vennero occupate urgentemente con quelle di qualcun altro, con quelle di Louis: si era avvicinato a me tanto velocemente, da farmi indietreggiare di un passo e da far aderire la mia schiena alla superficie della porta.
Il suo corpo era premuto contro il mio, facendomi immobilizzare a causa del suo profumo troppo forte e del contatto con la sua pelle: mi diedi subito della stupida, quando non esitai ad assecondare quel bacio, che di calmo e romantico non aveva proprio niente. Era un agglomerato di emozioni incomprensibili e indistinguibili, e Louis ne era al comando, con la sua foga e i suoi respiri sul mio collo, mentre lo sfiorava con le labbra e lo mordeva. Io ero solo in balia di ogni suo gesto, vittima di lui e dei miei sentimenti, che si stavano risvegliando sempre di più sotto il tocco urgente delle mani di Louis, che vagavano sui mie fianchi stringendoli saldamente. Riuscivo solo a pensare a quanto le sue labbra sottili mi fossero mancate, a quanto avessi aspettato quel momento, nonostante non mi fosse chiaro il perché delle sue azioni, tanto contraddittorie.
Mi imposi di non lasciarmi andare, di rimanere aggrappata a quel minimo di lucidità che ancora mi rimaneva, per quanto fosse un’impresa da titani, e la mia voce sembrò trasmettere tutta quella difficoltà mentre usciva tremolante dalla mia bocca: «Mi hai dato della puttana» riuscii a dire, con una mano tra i suoi capelli e una sua gamba tra le mie, a bloccarmi tra lui e la parete. Il mio era stato un lamento, un’arrendevole consapevolezza del dolore che quell’idea provocava in me, e forse anche una preghiera, perché Louis mi stava scombussolando in un modo tutto nuovo e io non avevo idea di come fare per proteggermi.
Sentii le sue labbra risalire la mia guancia e il suo respiro accelerato sul mio volto, mentre appoggiava la fronte alla mia. I suoi occhi socchiusi, così vicini, rischiavano di destabilizzarmi completamente, mentre per un attimo si rendevano chiari, comprensibili: quello che vi lessi dentro, però, era troppo assurdo per essere vero.
Era troppo assurdo, ma dovetti cambiare idea quando Louis aprì bocca per parlare, confermando quella mia ipotesi: «Vuoi che ti dica che devi stare lontana da Zayn? - chiese, spostando la mano destra sul mio corpo fino ad oltrepassare la camicetta che indossavo e fermarsi sulla mia schiena. Quanto mi era mancato quel contatto? Quanto mi faceva male? – Vuoi che ti dica che sono geloso?– continuò, spingendosi un po’ di più contro di me. - Non lo farò» disse, prima di riappropriarsi delle mie labbra, togliendomi il fiato.
Cosa voleva dire? Era geloso e non sapeva dimostrarlo? Preferiva offendere, piuttosto che ammettere qualcosa del genere? Teneva ancora a me? E allora perché era tornato da Eleanor?
I miei pensieri furono interrotti dalle mani di Louis, che mi afferrarono le cosce solo per farmi allacciare le gambe intorno al suo busto e portarmi sul piccolo tavolo al nostro fianco: sentii gli avanzi di cibo cadere a terra, quando mi obbligò a sedermi lì, continuando a baciarmi senza lasciarmi respirare. Io non riuscivo a fare altro se non stringerlo a me, incastrando le dita tra i suoi capelli e cercando di imprimere bene le sue labbra sulle mie, in modo da averne un ricordo più vivido: a distanza di tempo, infatti, quello che avevo conservato di loro non rendeva affatto giustizia alla realtà.
Nessuno dei miei ricordi, in effetti, era all’altezza della realtà: perché non ricordavo che le mani di Louis potessero essere tanto forti quanto rassicuranti, che il suo profumo potesse inebriarmi così tanto abbattendo ogni mio pensiero lucido o che la pelle del suo collo fosse tanto liscia.
«Che cosa vuoi da me?» mormorai inconsciamente, quasi esasperata, contro la sua bocca aperta. Avevo bisogno di un indizio, di un qualcosa che potesse darmi una conferma di quello che avevo iniziato a sperare e a credere: ogni suo bacio, ogni sua carezza, mi stava illudendo sempre di più, invitandomi a concedermi a lui, come avevo spesso fatto.
Ma le parole di Louis, mi fecero capire che mi stavo illudendo davvero troppo, di nuovo.
«Devi starmi lontana» rispose, guardandomi per un attimo negli occhi e provocando una crepa in quello stupido organo al centro del petto che stava dettando legge dentro di me. La ragione, infatti, non esitò a spodestarlo, per cercare di riportarmi alla dolorosa realtà.
Mi baciò di nuovo, stringendomi a sé con le mani sulla mia spina dorsale, i palmi aperti e i polpastrelli a premere contro la mia carne, tesa a causa del suo contatto: fu un bacio veloce, al quale non dovetti nemmeno oppormi, perché fu Louis stesso ad interromperlo, tornando a guardarmi troppo intensamente.
«Stammi lontana» ripeté, con il petto che si alzava e abbassava più velocemente del normale, le mani sul mio volto a tenermi il viso.
Io rimasi immobile ad osservarlo, in cerca forse di un indizio o, più probabilmente, aspettando che mi sorridesse dicendomi che era tutto uno scherzo.
Eppure lui non parlò più, limitandosi ad allontanarsi da me per uscire dalla stanza e lasciandomi lì, seduta su quel tavolino traballante: i capelli leggermente in disordine, le labbra arrossate, le mani che si chiedevano dove fosse quella pelle che avevano accarezzato fino a pochi secondi prima, gli occhi lucidi e il cuore impazzito.
 
La tazza tra le mie mani continuava a riscaldarle troppo, a causa del thè bollente che era al suo interno, ma io continuavo ad ignorare quella sensazione fastidiosa, perché avevo bisogno di stringere qualcosa che potesse farmi dimenticare di Louis. Che potesse distrarre le mie mani da quello che era stato tolto loro così bruscamente e all’improvviso.
Tenevo le gambe raggomitolate al petto, con i piedi avvolti dai calzini bianchi sulla pelle del divano: Zayn, vicino a me, continuava a guardarmi con le sopracciglia aggrottate.
Sentivo il suo sguardo su di me, ma apprezzavo il suo silenzio, tanto studiato quando indeciso: mi aveva già chiesto cosa fosse successo, riuscendo a strapparmi dalla bocca il fatto che c’entrasse Louis, ma io non avevo intenzione di raccontargli l’accaduto. Non dopo il nostro discorso, non dopo la confessione che Zayn mi aveva fatto e non dopo che il suo migliore amico l’aveva in qualche modo tradito.
Per quello rimanevo in silenzio, a fissare le fantasie beige della tazza e a concentrarmi sul calore che emanava, nonostante fosse estate e la temperatura non fosse tanto bassa.
«Victoria…» sospirò lui, muovendosi leggermente verso di me.
Io alzai lo sguardo cercando il suo, forse per comunicargli quello che non volevo dire a parole.
«Puoi dirmelo – continuò, con i suoi occhi seri a fissarmi con tranquillità: non erano duri come al solito, ma quasi preoccupati. – Anche se riguarda Louis. So già che c’è lui, nella tua testa, non c’è bisogno che tu me lo nasconda: per me va bene, lo sai anche tu».
Già, lo sapevo. Lo sapevo perché me l’aveva detto poco prima: mi aveva assicurato che un po’ di gelosia gli avrebbe fatto anche bene, mentre con gli occhi diceva tutt’altro, e io non avevo intenzione di accontentarlo. Non volevo essere una persona orribile e riversare addosso a lui tutti i miei complessi da stupida ragazzina, perché mi conoscevo e sapevo che, se avessi iniziato a parlare, avrei finito per gesticolare tra le parole pronunciate a voce troppo alta per l’esasperazione e la rabbia. Dovevo aiutarlo, no? Bene, il pacchetto non comprendeva il peggiorare il suo stato d’animo con delle frustrazioni inutili.
Scossi la testa lentamente e tornai a guardare davanti a me, sentendolo muoversi impazientemente al mio fianco, sul suo divano.
Mi sentivo già abbastanza in colpa per aver declinato il suo invito ad uscire, a causa del mio stato d’animo, e per aver mandato all’aria qualsiasi cosa avesse progettato per il pomeriggio che dovevamo passare insieme. Non volevo rendermi colpevole di altro, di qualcosa di ben peggiore.
«Vicki, se ti ha fatto qualcosa, o se ti ha detto qualcosa che… Louis… Lui è un po’ impulsivo» tentò di giustificarlo, portandomi ad alzare un sopracciglio. Un po’ impulsivo? Era un cazzo di stronzo, ecco cos’era.
«Io…» mormorai impulsivamente, mordendomi subito dopo le labbra per trattenere qualsiasi altro suono volesse uscire dalla mia bocca. Non dovevo parlare, non potevo farlo.
Eppure, quello che racchiudevo dentro di me con tanta cura, non sembrava essere d’accordo con le mie intenzioni: era tanto insistente, tanto potente, da abbattere tutte le mie difese. Gli occhi, infatti, così deboli e penetrabili come delle fortezze già vinte, iniziarono subito ad inumidirsi, di certo non per la prima volta nell’ultima ora: quella volta, però, non valsero a niente i miei sforzi, e le lacrime cominciarono a cadere sulle mie guance senza che io potessi oppormi.
Abbassai le palpebre, cercando di nascondermi, ma la situazione non cambiava: era impossibile fermarmi, ormai. Sapevo che avrei continuato fino a quando avrei riversato fuori tutta la caterva di emozioni che mi opprimeva, fino a quando sarei riuscita ad allontanare almeno temporaneamente Louis, i suoi baci, le sue parole, il suo modo di toccarmi.
Avevo solo bisogno di dimenticare quell’incontro e di stargli lontana, proprio come mi aveva detto lui.
Riaprii gli occhi per la sorpresa, quando delle braccia incerte mi avvolsero, attirandomi verso il petto di Zayn, ma non opposi resistenza: lasciai che il suo mento si posasse sul mio capo, mentre il suo corpo cercava di concedermi un po’ di conforto tramite il calore che emanava. Mi strinsi nelle spalle, quasi volessi adattarmi meglio a quell’incastro in cui mi trovavo, ma mi accorsi che non c’era molto da adattare, perché quel contatto tanto inaspettato e timoroso quanto nuovo non mi dava per niente fastidio.
Più volte, in passato, mi ero chiesta come sarebbe stato trovarsi  tra le braccia di Zayn, essere stretta a lui, e altrettante volte avevo pensato che sarebbe stato sconfortevole, per me, immaginando con che aria riluttante mi avrebbe guardata mentre si obbligava a circondarmi con le braccia quasi fossi un essere disgustoso. Quel pomeriggio, però, con gli occhi stanchi di piangere e il cuore stanco di illudersi, sentivo Zayn guardarmi come avrei voluto, sentivo il suo profumo fare da tranquillante, o almeno provarci, mentre il suo petto mi cullava lentamente, dopo essersi rilassato in seguito a quella situazione strana per entrambi.
«Va tutto bene» sussurrò, accarezzandomi una spalla.
 

 



 

ANGOLO AUTRICE
 
Buoooooooooongiorno dolcezze (:
Ecco qui il nuovo capitolo: mi ha fatto disperare, lo ammetto D: Sto iniziando a pensare
di essere un po’ masochista nel creare tutti questi personaggi complicati,
perché ogni volta mi fanno penare T.T Infatti mi scuso in anticipo se non sono riuscita
 a trasmettere quello che avrei voluto, ci ho provato sul serio! Giuro!
Comunque, passiamo a commentare: l’iniziale “monologo” di Vicki aveva il compito
di chiarire un po’ di più il suo stato d’animo riguardo la storia con Zayn (molte di voi erano
un po’ perplesse a riguardo, e vi capisco, tranquille haha), e come avete visto è ancora
un po’ incerta su quello che comporterà il loro “accordo”.
Agli studi di registrazione, poi, avviene il tanto atteso incontro tra Louis e Vicki fjskdalfs
Allora, io lo dico: AMO Louis, ok? ahhaah So che la maggior parte di voi forse non lo sopporta,
e sono sicura al 100% che continuerete ad avere con lui un rapporto d’amore-odio,
se così si può dire :) In ogni caso, Louis non ha esitato a tirare le sue solite frecciatine, arrivando
persino a mettere in dubbio la buona fede di Vicki: lo schiaffo era più che meritato,
secondo me u.u E anche la sfuriata di Vicki! Poi Louis la bacia e dice qualcosa che illude la nostra
povera protagonista, anche perché, poco dopo, le intima di stargli alla larga .-.
Ora, io spero che il carattere di Tomlinson inizi a delinearsi, ai vostri occhi: e sinceramente
sono curiosa di sapere cosa pensate di lui, del suo modo di fare e di quelli che sono i suoi
“sentimenti”. So che vi state ancora chiedendo perché sia tornato con El, ma tutto verrà spiegato
a tempo debito :) Intanto, fatemi sapere chi shippate con chi, io mi diverto lol
Poooooooooooi: Vicki va da Zayn! Ho deciso di inserire una piccola parte tra di loro,
solo per far vedere come il loro rapporto si evolve poco alla volta, superando un certo imbarazzo,
dato dalla loro precedente conoscenza! Vicki ovviamente crolla, soprattutto perché
non vuole spiegare a Zayn quello che è successo, giustamente, e tenersi tutto dentro
non le fa affatto bene: nel prossimo capitolo ci sarà un po’ di Vayn (?) :)
Cooooooomunque, spero davvero che il capitolo non abbia fatto schifo!!

Vi ringrazio tantissimo per tutto l’appoggio che mi date, per le parole bellissime che mi rivolgete
e per i messaggi che mi mandate: mi rendete felicissima fjkdshaflkjs
Risponderò alle recensioni appena posso, lo giuro! Anche perché molte di voi mi sono
sembrate un po’ confuse dalla situazione tra Zayn e Vicki, quindi provvederò
a chiarire alcune cose :) Ah, se qualcuno ha delle perplessità, non esitate a scrivermi, mi raccomando!!
E niente, ciao splendori!
A presto fjdskalfhjadksl

ps. Zayn+Vicki=Vayn (?)
Louis+Vicki=Licki?! - Vouis?! - aiuto, non ce n'è uno che vada bene D:
 
AskFacebook - Twitter

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Thank you, anyway ***




Thank you, anyway

Capitolo 13

 

Vicki.
 
Con gli occhi ancora chiusi, storsi il naso a causa di un profumo che arrivava troppo intensamente alle mie narici. Mi mossi leggermente, ancora intorpidita, e spostai la testa verso destra, accorgendomi di averla su un morbido cuscino: la fragranza che sentivo sembrava scaturire proprio da quella stoffa pallida. Era familiare, fin troppo.
Sollevai velocemente le palpebre, come se mi fossi appena ricordata di qualcosa, e mi ritrovai davanti una stanza che non avevo mai visto: di fronte a me, un piccolo comodino in legno chiaro mi presentava il mio telefono e una semplice sveglia, rettangolare e molto moderna nel suo stile asciutto. Dietro di esso, la parete bianca e spoglia veniva interrotta da una porta-finestra coperta da leggere tende di un grigio sbiadito, che sventolavano appena a causa dell’aria fresca che entrava nella stanza.
Il cielo più scuro mi suggerì che fosse quasi sera, ormai.
Sera.
Mi alzai di scatto dal cuscino, facendo leva sulle mani appoggiate sul materasso, e mi voltai per avere una visuale completa di dove mi trovavo: seduta con le gambe piegate e avvicinate al petto, mi guardai intorno, gli occhi ancora assonnati e la testa che girava leggermente.
La stanza non era molto grande, ma dava l’impressione di esserlo a causa dei pochi oggetti che la decoravano: davanti al letto sul quale mi ero svegliata – a due piazze e con delle lenzuola bianche che contrastavano con il copriletto blu scuro appallottolato ai miei piedi -, stava un enorme armadio dello stesso legno del comodino che avevo visto poco prima. Copriva quasi tutta la parete e le due ante centrali erano in realtà uno specchio, che, in quel momento, rifletteva la mia disordinata e confusa immagine: ero ancora vestita come quel pomeriggio e la mia faccia non era per niente riposata. Cercai di dare una forma ai miei capelli, sospirando, e mi voltai alla mia destra, dove una scrivania sembrava concentrare su di sé tutto ciò che mancava nella camera, per quanto era caotica.
Lentamente mi alzai dal letto, ipotizzando che quella fosse la stanza di Zayn – dai pochi indizi che avevo raccolto –, ma trattenendomi dall’esserne troppo sicura, e misi i piedi a terra, mentre i calzini mi impedivano di sentire il fresco pavimento. Quando mi avvicinai alla scrivania, però, trattenni l’impulso di allungare una mano curiosa tra i vari oggetti che erano sparpagliati sulla sua superficie.
Mi morsi un labbro, pensando che Zayn sarebbe potuto entrare da un momento all’altro, e mi diressi silenziosamente verso la porta: mi fermai sulla punta dei piedi quando sentii lo scrosciare lontano dell’acqua della doccia. Quello servì da incoraggiamento alla mia irrefrenabile curiosità, che ebbe la vinta su di me.
Tornai di fronte alla scrivania e osservai per pochi secondi ciò che la affollava: al fianco di un computer portatile nero, chiuso su se stesso, il disordine era creato da quaderni, penne, alcuni cd impilati malamente e altri oggetti personali. Seguendo il mio istinto, presi tra le mani un piccolo block notes che era nascosto tra tutte quelle cose: era pieno zeppo di disegni, anche se sembravano più fumetti.
Ogni pagina rappresentava un personaggio diverso – ero persino riuscita a riconoscere i volti caricati del resto degli One Direction - e, all’angolo inferiore di ognuna di esse, c’era una piccola firma disordinata: Zayn.
Il sospetto di essere nella sua stanza si trasformò in una sicurezza, mettendomi leggermente a disagio. Mi aveva portata lui lì? E quanto tempo era passato? Per quanto avevo dormito? L’ultimo ricordo che avevo ritraeva me, stretta tra le sue braccia, mentre entambi aspettavamo che le mie lacrime si decidessero a scomparire una volta per tutte.
Sospirai e continuai a sfogliare quel block notes, meravigliandomi di quanto fosse effettivamente bravo a disegnare, e lo posai al suo posto una volta finito, attirata da un altro quaderno, leggermente più grande e dalla copertina rossa un po’ rovinata e sgualcita. Quando lo aprii, non mi stupii affatto di ritrovarmi davanti ad altri disegni, ma quello che mi colpì realmente fu l’avere davanti sempre lo stesso soggetto: tornai alla prima pagina e osservai di nuovo il viso femminile che spiccava sul bianco assoluto. La firma di Zayn era sempre presente, ma non era l’unica scritta: in alto, infatti, in caratteri più piccoli e vagamente disordinati, svettava un indizio.
“Kathleen. 28 Febbraio 2013”
Quasi trattenni il respiro nel leggere quel nome e quella data: il disegno risaliva ad un anno e mezzo prima e tutti gli altri lo seguivano in ordine cronologico. Ce n’erano alcuni che raffiguravano solo determinati particolari, come gli occhi, le labbra, le mani. Altri, invece, presentavano quella ragazza interamente: con i suoi lineamenti resi più duri dallo stile artistico di Zayn, sbucava dalla pagine a metà busto, sorridendo, o dormiva sulla spalla di qualcuno, o – ancora – era ritratta in semplici gesti quotidiani.
Arrivata all’ultimo disegno, verso la fine del quaderno, non potei non notare che fosse incompleto, con un tratto più leggero e con le linee meno decise e spigolose, più fluide, armoniose: il viso di Kathleen era il protagonista incontrastato di quel pezzo di carta un po’ sporco per le tante correzioni, e la data – “13 Maggio 2014” – lasciava intendere che Zayn non metteva mano a quel quaderno da qualche mese, ormai. Tornai indietro di una pagina e controllai a quando risalisse il precedente disegno: il paio d’occhi appena socchiusi, circondati di una tonalità leggermente più scura, quasi volessero esprimere stanchezza, erano del 21 Luglio 2013.
La mia memoria faceva schifo, era vero, ma riuscivo stranamente a ricordare che Kathleen era morta proprio in quel periodo: né mi ci volle molto per avvertire una stretta allo stomaco, nel pensare che Zayn avesse impresso sulla carta tutto di lei, ogni sua espressione e ogni momento passato insieme, fino a quando evidentemente non ne aveva avuto più la forza.  Chiusi gli occhi con forza, respirando profondamente, e provai ad immaginare quel ragazzo tanto indecifrabile – almeno ai miei occhi – mentre cercava di rappresentare di nuovo la ragazza che tanto aveva amato, mesi dopo la sua scomparsa.
Perché aveva lasciato incompiuto quel disegno? Così diverso dagli altri?
Fui distratta da un leggero fruscio che mi fece sobbalzare, obbligandomi a guardare ai miei piedi per capire cosa fosse caduto dal quaderno che tenevo in mano. Corrugai la fronte, quando mi accorsi che era solo la busta di una lettera: mi chinai a raccoglierla e me la rigirai tra le mani, notando con sorpresa che non era stata aperta. Sul retro, nell’angolo inferiore destro, appariva una scritta abbastanza grande: “Tua, Leen”.
Il mio cuore sobbalzò quasi, nel rendersi conto di quello che avevo trovato: quella calligrafia era completamente diversa da quella di Zayn, era molto più semplice, delicata – se così poteva essere definita -, ed era evidente che lui non avesse mai aperto quella lettera, qualsiasi cosa essa contenesse.
Quando sentii dei passi lungo il corridoio, mi spaventai e riposizionai tutto al proprio posto, sdraiandomi poi di nuovo sul letto, in modo da fingere che stessi ancora dormendo: non so esattamente perché lo feci, ma forse avevo solo paura che Zayn mi leggesse in viso la mia curiosità e il mio sconvolgimento, oppure che si accorgesse di quanto mi sentissi colpevole per l’aver frugato tra le sue cose, che poi avevo scoperto essere così personali.
Raggomitolata tra le lenzuola, in modo tale da dare le spalle alla porta, lo sentii sospirare e sedersi lentamente sulla sedia davanti alla scrivania, a giudicare dal rumore del legno che sfregava sul pavimento lucido. Cercai di respirare lentamente, come se stessi effettivamente dormendo, ma ero pervasa da un’inquieta agitazione: sentivo i suoi occhi perforarmi la schiena, e il suo silenzio – tanto intenso da mettermi a disagio – mi faceva chiedere a cosa stesse pensando.
Dopo alcuni interminabili minuti, durante i quali il mio labbro era rimasto stretto tra i miei denti solo per scaricare l’inspiegabile tensione che percepivo, il silenzio fu interrotto da alcune parole appena sussurrate, ma che arrivarono alle mie orecchie con tanta irruenza da confondermi: «Che diavolo sto facendo?» disse infatti Zayn, facendomi spalancare gli occhi.
«Cazzo» continuò, questa volta quasi con rabbia.
Richiusi gli occhi quando lo sentii alzarsi velocemente dalla sedia e allontanarsi, chiudendosi in silenzio la porta alle spalle.
Di nuovo sola nella stanza, tornai a respirare, accorgendomi solo allora di aver trattenuto il fiato durante gli ultimi secondi: che cosa significavano le sue parole? Qualcosa sembrava assicurarmi che fossero riferite a me, nonostante non ne avessi una vera e propria conferma: se avessi avuto ragione, però, non sarebbe stato tutto molto strano? D’altronde era stato lui ad insistere così tanto per creare quella… cosa, tra di noi, quindi non avrebbe avuto motivo di farsi una domanda del genere: mi alzai a sedere e scossi la testa, scacciando quei pensieri. Non potevo sapere a cosa si riferissero le sue parole, quindi era inutile iniziare a lavorare di fantasia.
Sospirando, mi infilai le scarpe che trovai appoggiate in modo ordinato al fondo del letto: era ora di raggiungere Zayn e affrontarlo, chiedendogli anche scusa per essermi impadronita della sua stanza.
Lanciai un’altra occhiata alla sveglia che poco prima avevo intravisto sul comodino, ma che non avevo realmente guardato: erano  le 19.03 e voleva dire che avevo dormito per due ore, più o meno. Sbuffai per l’imbarazzo e aprii la porta della stanza, dandomi della stupida da sola.
Percorsi il corridoio guardandomi attentamente intorno, mentre notavo piccoli particolari ai quali non avevo fatto caso durante la festa di Abbie: trovai Zayn seduto sul divano, con gli occhi puntati sullo schermo del cellulare. Non si era accorto di me, quindi io rimasi qualche secondo a guardarlo, ferma sull’entrata del salotto.
I jeans chiari non aderivano alle sue gambe troppo magre, e la canottiera nera lasciava scoperti i suoi numerosi tatuaggi, facendomi chiedere quanti ne avesse in tutto. I capelli, scuri quasi quanto la sua maglietta, sembravano ancora umidi a causa della doccia, mentre cadevano in modo disordinato sulla sua fronte, non molto lunghi.
La mano destra teneva fermo l’iPhone, impugnandolo mentre le dita ci scrivevano qualcosa sopra, e la sinistra, invece, massaggiava il collo scoperto di Zayn: le sue labbra erano increspate in una smorfia di fastidio, forse causata dalla stanchezza, e le iridi vennero nascoste per qualche istante dalle palpebre, mentre lui liberava un sospiro. Mi costò un poco ammetterlo, ma quel ragazzo era davvero…
«Hey» mi interruppe la sua voce, riscuotendomi da quel pensieri. Mi stupii nel ritrovarmi i suoi occhi puntati nei miei, soprattutto perché non mi ero affatto accorta del fatto che lui mi avesse notata, troppo intenta com’ero nello studiare i suoi lineamenti.
Accennai un gesto di saluto con la mano, facendo qualche passo verso di lui, e rimasi in piedi davanti al divano: «Mi dispiace di essermi addormentata - ammisi, improvvisando un’espressione dispiaciuta. – E non c’era bisogno di… Be’, di portarmi in camera tua» continuai, aggrottando le sopracciglia.
Zayn scrollò le spalle e «Non preoccuparti – mi rassicurò. – So quanto questo divano sia scomodo e la mia stanza era la più vicina» spiegò. Sapevo dell’esistenza di alcune camere degli ospiti, in effetti, e non potevo negare di essermi chiesta perché lui mi avesse portata proprio nella sua, dato il rapporto ancora incerto che intercorreva tra di noi.
«Grazie, comunque» dissi, accennando un sorriso. Era stato un bel gesto, il suo: mi veniva da ridere al pensiero che solo poco tempo prima non lo avrei mai ritenuto capace di fare qualcosa del genere.
Lui annuì soltanto, poi rimase qualche secondo a guardarmi: pian piano i suoi occhi stavano acquisendo familiarità con i miei, ed io stavo scacciando sempre di più l’agitazione che solevano causare in me.
«Come ti senti?» chiese poi, battendo delicatamente la mano destra sul tessuto del divano per invitarmi a prendere posto al suo fianco. Sembrava una replica di quello che era successo solo poche ore prima ed io aspettai qualche istante in preda all’indecisione, prima di accettare la sua semplice proposta.
Respirai profondamente, mentre mi sedevo esattamente nello stesso punto di quel pomeriggio: «Non lo so» confessai, con gli ultimi avvenimenti che tornavano ad affollarsi nella mia mente ancora frastornata.
Zayn non rispose, limitandosi a scrutarmi apertamente mentre io tenevo lo sguardo sulla mia camicetta: il ricordo di come le mani di Louis l’avevano evitata, posandosi sulla mia schiena nuda, mi fece rabbrividire.
Inspirai profondamente e aggrottai le sopracciglia quando il telefono vibrò nella tasca dei miei jeans.
Quando lessi il nome del mittente, sbarrai gli occhi e rimasi per qualche secondo a fissare lo schermo del mio Nokia, senza sapere bene cosa aspettarmi: ormai non avevo più alcuna certezza, quando si trattava di Louis.
Deglutendo a vuoto, aspettai che il messaggio si aprisse nell’impeccabile rispetto della lentezza esasperante del mio vecchio telefono: il cuore non voleva proprio a starmi a sentire, e chissà, forse anche Zayn riusciva a percepire i suoi battiti energici, dato che il silenzio tra di noi era quasi irreale.
 
Un nuovo messaggio: ore 19.12
Da: Louis
“Ero serio mentre ti dicevo quelle cose, oggi pomeriggio. E tu devi davvero starmi lontana: dei rapporti quantomeno civili credo che saranno sufficienti, giusto per non rendere insopportabile lo stare nella stessa stanza, dato che – da quello che ho capito – succederà abbastanza spesso, con questa storia di Zayn.
Passa una buona serata, L.”
 
Passa una buona serata.
Passa una buona serata.
Passa una buona serata?! Ma era forse impazzito?! Che cosa diavolo aveva in quella testa?!
«’Fanculo!» sbottai, lanciando in malo modo il telefono sul divano e coprendomi il viso con le mani, mentre cercavo di mantenere la calma per evitare un replay di ciò che era successo con Zayn poche ore prima.
Non potevo credere alle parole che avevo letto in quel messaggio: sembrava… Sembrava che avessimo tamponato con l’auto e lui mi stesse chiedendo di mettere da parte i rancori solo per garantire a tutti una convivenza civile.
Rapporti quantomeno civili, aveva detto.
Civili, cazzo! Che cosa stava a significare? Un “ciao” come saluto, tenendo dentro il “ti prenderei a schiaffi qui e ora”?
Sbuffai sonoramente, inspirando poi profondamente alla ricerca della calma. Gli occhi serrati e le mani che erano passate ad incastrarsi tra i miei capelli ancora disordinati.
«Ehm… È successo qualcosa?» chiese Zayn, facendomi ricordare della sua presenza.
Mi abbandonai all’indietro, appoggiando la testa allo schienale del divano e fissando il soffitto di un bianco sporco.
Dopo qualche istante, in cui le mie mani si stritolarono a vicenda per scaricare la rabbia e il dolore che non potevo certo nascondere a me stessa, mi voltai verso il ragazzo al mio fianco, che mi stava osservando con un sopracciglio alzato in segno di confusione e attesa.
Ero sicura che stesse seriamente rivalutando la sua idea di legarsi a me – di qualsiasi legame si trattasse – dato che in quel momento potevo passare senza problemi per una psicopatica. Lo vidi lanciare un’occhiata veloce allo schermo del mio cellulare, che era rimasto illuminato tra di noi.
Quando riportò lo sguardo su di me, sembrava aver capito qualcosa, pur non avendo avuto il tempo di leggere l’intero messaggio, ma forse solo il mittente: lo ringraziai mentalmente per aver mantenuto un certo ritegno e non essersi impicciato così spudoratamente degli affari miei.
Ora che entrambi sapevamo a cosa fosse dovuta quella mia ricaduta nell’umore, parlai dandolo per scontato, in cerca di un modo per rilassarmi: «Zayn… Come dovrei fare, per capirlo?» gli chiesi, quasi disperata.
«Non puoi» rispose subito lui, mantenendo la serietà sul suo viso. Ed io che cercavo una sorta di aiuto che mi potesse fornire una via di fuga da quella situazione.
«Se Louis non vuole, non puoi capirlo» si corresse poco dopo, facendomi corrugare la fronte. Era davvero così? Era di questo che si trattava? Solo di lui? Della sua stupida ed egocentrica volontà?
Chiusi gli occhi per qualche attimo, passandomi di nuovo le mani tra i capelli, ma fui costretta a rialzare le palpebre quando Zayn parlò di nuovo, forse dopo aver notato la mia confusione: «Vicki, fidati di me: Louis non è uno stupido, nè si diverte a fare lo stronzo – spiegò, fermandosi un attimo e mordendosi il labbro inferiore, come se fosse alla ricerca delle parole giuste. – Dietro ogni sua azione e dietro ad ogni sua parola, c’è una spiegazione. Che lui voglia farla conoscere o meno».
E nel mio caso, era abbastanza evidente che lui non volesse. Quello che non capivo, però, era perché. Perché incasinarmi così tanto? Perché gli era tanto difficile dire la verità, qualsiasi essa fosse?
«Quindi mi stai dicendo che dipende sempre e solo tutto da lui? Da quello che lui vuole?» domandai, sperando in una risposta negativa che potesse fornirmi supporto.
Zayn sospirò sommessamente: «Il più delle volte, sì – affermò, dandomi il colpo di grazia. – Ma ripeto, non è uno stupido. Se ti ha baciata, se è uscito con te, è stato perché voleva farlo: non è da lui prendere in giro le persone» concluse, giocherellando con l’iPhone tra le sue mani.
«Già, eppure deve aver avuto un motivo anche per scaricarmi come se niente fosse o per… Dio, lasciamo perdere» dissi, mordendomi la lingua per zittirmi. Mi ero ripromessa di non parlare di questa storia davanti a Zayn, e invece eccoci lì, a fare esattamente quello.
Scossi la testa e lasciai che il suo sguardo si infrangesse su di me in una muta domanda di spiegazioni, che però io non gli diedi.
«Perché mi stai aiutando? – chiesi, tornando a guardarlo dritto negli occhi, quella volta con la curiosità che mi divorava dall’interno mentre cercavo di comprendere il suo comportamento. – Con Louis, intendo».
«Ti sto aiutando?» ribatté lui, evidentemente poco convinto di quella mia affermazione.
Mi sistemai meglio sul divano, voltandomi verso di lui in modo da potergli stare bene di fronte: «Mi stai dicendo queste cose su di lui e… Voglio dire, possono aiutarmi a capirlo, in qualche modo. Non pensi che sia un aiuto?»
Lui annuì lentamente, attento alle mie parole e con gli occhi che si socchiudevano leggermente come per concentrarsi, così io continuai: «Dopo le cose che mi hai detto, non dovresti volermi allontanare da Louis?» domandai infine, sperando che non mi facesse ripetere le sue esatte parole. In fondo era strano che per lui non facesse alcuna differenza il mio interesse per il suo amico: o forse era solo bravo a nasconderlo?
«Ah, ecco cosa vuoi sapere – esclamò soddisfatto, abbozzando un sorriso in cui le labbra si erano incurvate di poco verso l’alto, facendomi quasi incantare, come se mi fossi trovata di fronte ad uno spettacolo raro. – Pensi davvero che sia così egoista?» La sua domanda era evidentemente retorica, ma la verità era che io non sapevo che risposta dargli.
Mi strinsi nelle spalle, sciogliendomi in un sorriso che fu una resa conseguenza del suo, che stava già scomparendo: «Non lo so, non è che ti conosca molto» ammisi, facendo fronte a quella verità. Alla fine io non sapevo quasi nulla di lui, così come lui sapeva davvero pochissimo di me.
«Già, hai ragione – confermò, inclinando leggermente il capo da un lato. – In questo caso te lo dico io: non sono così egoista» continuò. I suoi occhi scuri, in qualche modo, sembravano volessero offrirsi come prova a sostegno di quella affermazione, e io, stranamente, non avevo molta difficoltà nel crederci.
Annuii, quasi a ringraziarlo di chissà che cosa, poi mi ritrovai a pensare alle parole che aveva sussurrato nella sua stanza, mentre mi guardava “dormire”.
«Zayn, sei sicuro di voler fare questa cosa? Tra me e te, voglio dire» chiesi, senza nemmeno rendermene conto. Non sapevo come comportarmi, né come pormi nei suoi confronti, e mi metteva a disagio l’idea che lui potesse essersi pentito di aver fatto quella scelta: non volevo vincolarlo a qualcosa che non gli faceva bene.
Per un attimo la sua fronte si corrugò, forse riflettendo la sorpresa del suo proprietario nell’udire le mie parole. Subito dopo Zayn annuì con decisione: «Io sì. E tu?»
Schiusi le labbra per dire qualcosa: quella era forse l’ultima possibilità di tirarmi indietro.
«Sì» mormorai appena, senza nemmeno rendermene conto. “Ma cos’è, che stiamo facendo?” avrei voluto aggiungere, eppure non credevo che lui avrebbe avuto una risposta da darmi.
Zayn sorrise di nuovo, questa volta lasciando persino apparire i denti bianchi, ma non troppo, e obbligandomi ad imitarlo: ero sicura che ci fosse così tanto da scoprire, su di lui, da rendere inerme chiunque si avventurasse nell’impresa. Me inclusa.
«Sai, ho sempre pensato che fossi un vero stronzo» confessai, approfittando dell’atmosfera rilassata che si era creata intorno a noi: era strano, sentirmi così a mio agio, e non mi sarei mai aspettata che sarebbe stato così semplice parlare con lui in questo modo. Doveva essersi proprio impegnato per farsi odiare da me, quando in realtà era tutt’altro, rispetto all’acido sbruffone che si era dimostrato nei miei confronti nei nostri primi incontri.
«Ah sì?» domandò Zayn, preso in contropiede, con un sopracciglio alzato e lo sguardo leggermente divertito. Quando io annuii liberando una piccola risata, fu lui a parlare: «In effetti ho fatto di tutto per fartelo pensare, quindi…»
Lasciò in sospeso la frase, stringendosi nelle spalle come se volesse dirmi che avevo avuto tutti i motivi per pensare una cosa del genere, poi, però, sembrò essere attirato da un altro pensiero: «Hai parlato al passato» disse semplicemente, evidentemente in cerca di una risposta.
«Sì, bè, adesso sembri esserlo un po’ di meno» affermai, rimanendo sul vago e continuando a guardarlo negli occhi.
«Grazie – esclamò in modo deciso, quasi soddisfatto delle mie parole. – Pensa che invece tu mi dai ancora l’impressione di essere una bella gatta da pelare» continuò, attendendo una mia reazione che non tardò ad arrivare.
Afferrai il primo cuscino dietro la  mia schiena e glielo tirai addosso, accompagnando alla sincera risata un «Ma davvero?» falsamente offeso, mentre lui inondava la stanza con la sua ilarità.
Stava ridendo, per la prima volta in mia presenza e per la prima volta per merito mio. Questo mi portò ad affievolire la mia espressione in un sorriso, abbassando l’arma improvvisata e lasciando che anche lui si ricomponesse: evidentemente, entrambi ci eravamo accorti della stranezza di quel momento tra di noi.
Ero ancora intenta a studiare la forma che i suoi occhi avevano assunto, ridotti a due fessure dagli zigomi che si erano alzati per accompagnare l’inclinarsi aperto e sfacciato delle sue labbra,  quando Zayn si alzò dal divano, indossando di nuovo la sua maschera di serietà. Per un paio di secondi interminabili, le sue iridi erano rimaste fisse sulla mia bocca, proprio come più volte era successo. Questo doveva averlo infastidito, in qualche modo, portandolo ad allontanarsi.
Evitò di guardarmi, mentre si aggirava per il salotto alla ricerca di qualcosa, che poi mi accorsi essere un mazzo di chiavi: «Devo raggiungere gli altri. Si è fatto tardi – annunciò, dandomi le spalle. – Ti dispiace se non ti accompagno?»
Scattai in piedi, boccheggiando per quel repentino cambio di atteggiamento e per il tono freddo che aveva usato: «No, certo. Vai… Vai pure» lo rassicurai, ravvivandomi i capelli e affrettandomi a raccogliere la borsa da terra, proprio dove l’avevo lasciata quel pomeriggio.
Lo vidi annuire e avvicinarsi alla porta di casa, per poi lasciarmi passare tenendo lo sguardo basso.
Nemmeno una parola fu scambiata tra di noi, né nell’ascensore, né all’ingresso del palazzo: per quanto io cercassi una risposta sul suo viso, per quel suo comportamento, non vi scorgevo nulla che non fosse imperscrutabilità; sembrava riluttante anche solo a guardare una parte di me che non fosse il mio viso e io non capivo a pieno quel suo modo di fare. Forse aveva sentito di essersi lasciato andare troppo? Forse era stato frenato dall’idea di Kathleen? Quanto era presente nella sua vita, se poteva condizionarlo ancora così tanto?
Le ultime cose che mi disse, prima di uscire dal portone di casa in vetro, furono: «Aspetta un po’ prima di andare via, se vuoi evitare le domande. Ti chiamo io». Poi si voltò e si immerse tra una decina di fans che si accalcavano lì davanti, probabilmente dopo aver saputo del suo rientro a casa.
Sospirai, guardandolo mentre cercava di andarsene velocemente improvvisando dei sorrisi forzati che riflettevano il suo cattivo umore: mi sedetti su una poltrona lì vicino e attesi qualche minuto, rimuginando su quella giornata.
La mia testa sembrava sull’orlo di scoppiare, ne ero sicura: conteneva così tanti pensieri – e insulti – su Louis, e così tante domande su Zayn, che ero sicura non potesse trattenere tutto oltre.
Mi ritrovai a pensare che forse tra i due c’era una netta differenza: il primo, probabilmente, era davvero indecifrabile quando voleva, con tutti i suoi comportamenti contraddittori che trovavano una logica solo ai suoi occhi. Il secondo, invece, sembrava di certo più misterioso, ma era forse il più facile da comprendere, se si cercavano bene i vari indizi: magari era proprio come la sua camera da letto. Spoglio e vuoto all’apparenza, ma pieno di contenuti e segreti che dovevano essere solo scoperti, con una migliore osservazione.
Le parole di Stephanie, “Stai facendo una cazzata”, rimbombarono nella mia mente con forza, mentre io ero un po’ riluttante nel darle ragione.
«Cazzo, Stephanie!» borbottai tra me e me, ricordandomi del fatto che doveva venirmi a trovare.
 
Sbattei la porta della mia stanza con tutta la carica emotiva che mi portavo dentro, scaraventando la borsa sul letto e infilandomi le mani tra i capelli, mentre il mio labbro chiedeva pietà per quanto lo stavo mordicchiando senza sosta. C’era un limite, alle cose che potevano andare storte in un solo giorno?
«Victoria»
La voce di mio fratello Brian risuonò nella mia testa facendomi male, mentre veniva attutita dalla porta che ci divideva e che io non avevo intenzione di aprire.
«Vattene» abbaiai con rabbia, incredula.
«Victoria, sto per entrare» mi avvisò, prima di abbassare la maniglia e aprire la porta di poco, per spiare all’interno.
«Per l’amore del cielo, Brian, abbottonati almeno quella cazzo di camicia!» lo rimproverai, indicandolo come se avessi visto un demonio. Evidentemente, la tensione che avevo accumulato in quelle ore si stava facendo sentire.
Lui si guardò la camicia stropicciata e fece come gli avevo ordinato, di tutta fretta: non si poteva negare che fosse imbarazzato, ma a me non interessava. Avevo ancora davanti agli occhi l’immagine di lui che… Davvero, non potevo crederci.
«Ascolta, lascia che ti spieghi» cominciò poi, facendo un passo verso di me. Aveva ancora le labbra arrossate, quindi io cercai di concentrarmi sui suoi occhi, nonostante non riuscissi a stare ferma.
«È Stephanie, Brian! Ma che cazzo ti è passato per la testa?» sbottai, trattenendomi dallo spingerlo via. Solo ripensare a loro due, sdraiati sul nostro divano intrattenendosi con qualcosa di molto diverso delle solite chiacchiere, mi fece tornare i brividi: ero così furiosa, incredula e chissà cos’altro, che non riuscivo a mantenere la calma.
«Oh, andiamo, penso sia abbastanza grande da saper prendere le sue decisioni!» ribatté lui. E aveva ragione, non lo mettevo in dubbio: io stessa avevo più volte avuto qualche sospetto su loro due, ma un conto era un sospetto, un conto era trovarli a procreare sul divano del salotto!
«Sì, ma è Stephanie!» ribadii, cercando una giustificazione che non avevo. In realtà sapevo benissimo che non c’era nulla di male nella loro relazione, a parte il fatto che lui era mio fratello e che lei era la mia migliore amica, e che nessuno dei due aveva avuto la decenza di accennare alla cosa.
«Ma non mi dire!» mi prese in giro lui, con la sua anima bonaria. Sapeva di avere in qualche modo ragione e questo gli provocava un’espressione serena che mi dava a dir poco sui nervi.
«Ti lancio qualcosa in testa, te lo giuro» lo ammonii.
«L’importante è che non mi cacci di casa, come hai fatto con Steph. Non credi di aver un po’ esagerato?» chiese, avvicinandosi di un passo. In effetti le avevo urlato contro in maniera un po’ eccessiva, e lei, conoscendomi bene, aveva evitato di ribattere dandomi ascolto: ma era stato più forte di me, in preda com’ero a mille emozioni contrastanti, soprattutto al pensiero che quel mio piccolo ritardo li aveva convinti a passare il tempo in modo discutibile.
Non risposi a mio fratello, preferendo dargli le spalle, e cercai di tenere sotto controllo il respiro accelerato. Solo dopo qualche minuto di silenzio, Brian parlò.
La sua voce era molto più calma, più seria: «Dopodomani devo ripartire» disse soltanto, facendomi spalancare gli occhi. Strinsi i pungi e sentii un’ondata di rabbia, di incontenibile frustrazione, invadermi in un solo istante.
Mi voltai verso di lui, le lacrime agli occhi e il battito cardiaco accelerato: «Quindi hai pensato che portarti a letto Stephanie sarebbe stato un bel modo per salutarla?! E che farvi trovare sul nostro divano sarebbe stato un bel modo per salutare me?!» urlai, mentre il mio inconscio sviava volontariamente l’attenzione dal reale problema.
Brian stava per ripartire.
«No» rispose lui, con la calma militare che lo caratterizzava.
«Che diavolo significa che devi ripartire?! Sei appena tornato e… Che cosa significa?!» gridai ancora, mentre lui si avvicinava a me per farmi sparire tra le sue braccia, lasciando che io potessi chiudere gli occhi e far cadere le lacrime spesse che ora mi bagnavano le guance.
«Mi mancherai anche tu» sussurrò, dandomi un bacio tra i capelli.
 


 



 
ANGOLO AUTRICE aka PERDONATE IL RITARDO
 
Lo so, sono una persona orribile D: Non solo sono in ritardo, ma non ho nemmeno
risposto alle recensioni arretrate! Vi giuro che non ho avuto davvero tempo, tra lo studio,
gli esami e altre cose che non sto qui a menarvi! Vi chiedo scusa in ginocchio e vi prometto
che risponderò alle recensioni dello scorso capitolo! GIURO! Bene, detto questo, passiamo a questo, di capitolo fdakjsdfs
Stranamente è stato un po’ più facile da scrivere, ma non eccessivamente lol
Ora tutte le sostenitrici di Zayn e Vicki saranno contente, direi ahhaha Avevo in mente di farli
stare un po’ da soli, quindi ho colto l’occasione!
Sarò più breve del solito (almeno spero) e dirò solo le cose più importanti, lasciando a voi
l’interpretazione del resto: innanzitutto, non sottovalutate le cose che Vicki “scopre”, perché
servono molto per capire la situazione di Zayn! La stessa lettera ricomparirà
e avrà un ruolo molto importante! (Secondo voi cosa contiene? :))
(Ah, che ne pensate della scena in cui la guarda dormire? Vi ricorda qualcosa?)
Poi, Zayn cerca di spiegare meglio il comportamento di Louis, che – vi avverto - vi farà
penare, per non parlare di come farà penare Vicki lol Pian piano il suo carattere di sta delineando,
e ho già notato che tra di voi c’è chi non lo sopporta e chi invece ne è affascinata lol
Ah, che ne pensate del suo messaggio? È una testa di c****, lo so, ma io lo adoro fjsfss
Alla fine Vicki chiede una conferma a Zayn su quello che “stanno facendo” ed
entrambi ne danno una, contro ogni logica: arrivano persino a ridere insieme, ma evidentemente
la risata della nostra bella Victoria non mette proprio di buon umore Malik!
Infatti se ne va senza nemmeno riaccompagnarla a casa!
A casa, dove Vicki – povera çç – trova una bella sorpresa! Ora, anche lei sa che non c’è niente
di male se Steph e Brian vogliono stare insieme, ma a farla reagire così è stata l’esagerata sorpresa
del trovarseli davanti a “darsi da fare” e tutto quello che le è successo durante la giornata.
(Che ne pensate, del piccolo triangolo tra Liam, Steph e Brian? c:)
Ah, Brian ripartirà, e questo è un duro colpo per Vicki!
In ogni caso, aspetto i vostri pareri e spero che il capitolo vi sia piaciuto fjsdafds
 
Vi ringrazio immensamente per tutto il vostro appoggio e la vostra gentilezza!
Per leggere e per lasciare quelle magnifiche recensioni :3
 
  


Ci sentiamo presto fdsajk Un bacione!
Ask Twitter - Facebook

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** What he actually needs ***




What he actually needs

Capitolo 14

Per favore, leggete gli avvisi nello spazio autrice, grazie c:

 

Stephanie.
 
Schioccai la lingua contro il palato, continuando a girare il caffè con il cucchiaino di plastica che forniva la macchinetta fuori in corridoio. Le gambe incrociate sotto la scrivania e il viso sostenuto dal palmo della mano sinistra.
Nel piccolo ufficio dalle pareti di un arancione pallido, c’era silenzio, tralasciando il rumore provocato dalle scartoffie che Samantha stava riordinando sulla sua scrivania, a circa un metro da me. Ringraziai comunque mentalmente la giornata tranquilla che mi era stata regalata, dato il mal di testa che non voleva proprio saperne, di lasciarmi in pace.
Il caffè rischiò di rovesciarsi sull’agenda che gli stava di fianco e anche sui miei shorts comprati da poco, quando la porta di vetro si spalancò all’improvviso: mi raddrizzai sulla sedia cigolante e sgranai gli occhi, posando il mio sguardo su Christian. Fasciato da una camicia bianca evidentemente troppo stretta, aveva il viso arrossato, probabilmente a causa del caldo asfissiante, o della cintura che gli stringeva un po’ troppo la vita obbligandolo a trattenere il fiato per evitare di romperla. Si passò una mano tra i radi capelli e fece un paio di passi nella stanza, salutandoci con un sorriso.
La mia compagna tornò  subito al lavoro, ma il nostro capo sembrava non curarsene, dato che ero io il suo obiettivo, qualunque cosa comportasse: «Buongiorno, Christian» mormorai, stringendo la coda di cavallo che intrappolava i miei capelli e che si era leggermente allentata.
«Stephanie» ricambiò lui, posizionandosi proprio di fronte alla mia scrivania.
«Hai bisogno di qualcosa?» chiesi, incuriosita dalla sua piccola visita inaspettata.
«In realtà sì – affermò, annuendo di conseguenza. – Ho due cose da chiederti.»
Aggrottai la fronte e bevvi un sorso di caffè, che ormai avevo fatto raffreddare, dato il tempo che avevo perso a fissare il vuoto con fare annoiato. Lui non attese una mia risposta, anche perché sapeva già quale sarebbe stata, quindi andò avanti, sedendosi con una gamba sul bordo della scrivania. Temetti che si potesse rompere, a dir la verità: non era molto resistente, fatta di quel legno un po’ consumato che era stato maltrattato da una decina di proprietari, in precedenza, e il peso di Christian non era… adatto, diciamo, alla sua portata.
Evitai un sorriso divertito e mi concentrai sui suoi occhietti, più pensierosi del solito: «La prima è: per caso sai perché Victoria non vuole più lavorare all’evento degli One Direction?»
Alzai un sopracciglio, sinceramente stupita: «Victoria cosa?»
Anche lui sembrava essere abbastanza scettico riguardo quella notizia: «Hai capito benissimo: stamattina, quando è arrivata, è filata dritta nel mio ufficio e mi ha detto chiaramente che avrebbe ceduto volentieri il suo posto a qualcun altro. Sai meglio di me quanto sia strano, sia perché si tratta di uno degli incarichi più importanti che ci sarebbero potuti capitare, sia perché… Insomma, Victoria che rifiuta un lavoro?»
Ascoltai attentamente le sue parole, ritrovandomi completamente d’accordo con lui: che diavolo era successo a quella ragazza? Sapevo molto bene che non era da lei: solitamente cercava di portare a termine ogni incarico che le veniva affidato, ben contenta di soddisfare al meglio i clienti e di mandare avanti questa agenzia, che un tempo aveva avuto un successo discutibile. Che fosse accaduto qualcosa? Magari tra lei e Zayn? O con Louis?
«Non so davvero cosa dire, Christian. Non ne so niente e sembra strano anche a me» ammisi, stringendomi nelle spalle. Avrei parlato con Vic, nonostante la nostra piccola “discussione” del giorno precedente.
«Hm, spero solo che vada tutto bene – borbottò tra sé e sé. Quell’uomo aveva sempre avuto un occhio di riguardo nei confronti della mia amica, come se fosse stata la sua protetta: magari l’amicizia che aveva con i suoi genitori era un incentivo a quel senso protettivo che provava verso di lei. – In ogni caso, la seconda cosa che volevo chiederti è: saresti disposta a prendere il suo posto e a guidare l’organizzazione?»
Rischiai seriamente di strozzarmi con la mia saliva, nel sentire quelle parole, e Christian continuò senza darmi nemmeno il tempo di riacquistare un certo contegno: «So che ormai il ricevimento dei Greenshaw, al quale eri stata assegnata, è stato portato a termine con successo, quindi ora non dovresti avere molto di cui occuparti» spiegò, diminuendo le scuse con le quali avrei potuto dare un “no” come risposta.
Occuparmi dell’evento degli One Direction non rientrava esattamente nei miei desideri più grandi: mi era bastato il precedente, nel quale ero stata trascinata contro la mia volontà, e non sapevo se sarei riuscita a mantenere la mia maschera di compostezza di fronte a Liam ancora una volta. Più volte, anzi.
«Inoltre, quei ragazzi, sono ragazzi a posto, non i soliti ricconi esigenti, e potresti divertirti insieme a Steve e agli altri colleghi: non sarà molto impegnativo, anzi, direi che quando abbiamo avuto quella piccola riunione, abbiamo capito che ci sarebbe stato meno da fare rispetto a quanto ci aspettavamo. Dovrai incontrarti con loro solo un paio di volte, o magari con i loro manager, per capire cosa fare: al resto penseranno gli altri» concluse, portandosi le mani grassocce in grembo.
Un paio di volte, aveva detto, e poi ci sarebbe stata la serata vera e propria: magari non sarebbe stato tanto difficile resistere, e poi… Ma che razza di problemi mi stavo facendo? Era solo un altro stupido incarico, niente di più e niente di meno.
«Ok, va bene – acconsentii, accompagnando le mie parole con un debole sorriso. – Accetto».
 
Bussai alla porta dell’ufficio di Vicki e non aspettai un suo invito ad entrare, precedendola: la trovai china su alcuni fogli sulla sua scrivania in legno scuro, i capelli mossi che le finivano davanti agli occhi.
«Vic» la chiamai, chiedendomi quale sarebbe stata la sua reazione. In realtà, se la conoscevo bene quanto credevo, la nostra incomprensione sarebbe stata affrontata e superata, senza tante storie.
Mugugnò qualcosa, senza alzare lo sguardo su di me e continuando a scrivere velocemente: io mi avvicinai e mi sedetti sulla sedia che stava di fianco alla scrivania.
«Christian è venuto a parlarmi, poco fa – cominciai, arrotolandomi una ciocca di capelli intorno all’indice destro. – Perché hai lasciato l’incarico?»
«Perché ti stavi facendo mio fratello sul divano?» fu la sua risposta, pronunciata con una calma tagliente che non le apparteneva.
Sospirai, osservandola mentre si ostinava a concentrarsi su quegli stupidi fogli: «Perché non mi guardi nemmeno?» chiesi allora, reprimendo un sorriso di vittoria, quando lei alzò il capo solo per mettermi a tacere.
Notando il suo sguardo imbronciato e l’espressione in attesa, decisi che sarebbe stato meglio darle qualche spiegazione: «Vic, è stata l’ultima volta» sospirai, accorgendomi solo dopo di aver saltato buona parte della storia, se non tutta.
«Ma non è stata la prima, non è così?» ribatté lei.
Scossi la testa: «No, non è stata la prima» confessai. Forse era meglio lasciare a lei le redini del discorso, farle formulare le domande che più preferiva e limitarmi a rispondere. Non avevo particolarmente voglia di parlare di me e Brian, non mi faceva bene, quindi avrei preferito dire l’essenziale.
«E sentiamo, da quanto va avanti questa storia? Voglio proprio sapere quanto sono stata cieca» affermò, leggermente stizzita. Sapevo, dal modo in cui mi guardava, che il problema non eravamo io e suo fratello, ma io e la mia riservatezza, che mi aveva portato a non dire niente alla mia migliore amica. Vicki mi conosceva, sapeva che non era da me raccontare certe cose, eppure ogni tanto rimaneva delusa, come se non riuscisse ad abituarsi a quel lato del mio carattere, così diverso dal suo.
«Da cinque mesi, tra pochi giorni» risposi, a bassa voce. Era il ricordo a provocarmi quella fitta al petto?
«Cinque mesi?!» quasi sbraitò lei, appoggiando le mani sulla scrivania. Già, cinque mesi.
«Vic, tuo fratello è… - Sospirai, guardando per un attimo altrove. Odiavo parlare di quelle cose, lo odiavo sul serio. – La prima volta è capitata, semplicemente: eravamo un po’ brilli e il resto puoi immaginarlo. O meglio, no, non immaginartelo» precisai, sorridendo mentre scrutavo la sua espressione, che per un attimo perse la sua rigidità.
«Comunque, dopo quella volta ce n’è stata un’altra, in cui eravamo lucidi, decisamente: abbiamo iniziato ad uscire, più o meno, ma lui e quella cazzo di Marina hanno sempre reso tutto più difficile – borbottai, accigliandomi. – Stavamo insieme, credo: voglio dire, non abbiamo mai ufficializzato le cose, ma credo proprio che fossimo una coppia. Poi lui è partito di nuovo ed è stato fuori due mesi, praticamente. Due mesi, Vic, non due giorni. E tu mi conosci, sai perché ho deciso di mettere fine a tutto, qualsiasi cosa fosse quel tutto. Ma alla fine Brian è tornato e ci siamo rivisti, e cavolo, io lo odio, perché riesce ancora a farmi comportare come una stupida bambinetta con gli ormoni a ‘fanculo – continuai, stringendo le mani a pugno per quella verità. - Ieri, noi… Ci stavamo salutando, a modo nostro. Lo odio anche perché riparte e chissà quando torna» conclusi, con lo sguardo ormai fisso a terra.
Era un discorso confuso, estremamente vago, ma rispecchiava alla perfezione me stessa: non ero mai stata brava con le parole e i sentimenti, non ero mai stata capace di legarmi definitivamente a qualcuno. Proprio per questo non avevo retto l’ennesima partenza di suo fratello: se avevo tutte quelle difficoltà mentre lui era a Londra, appena se ne andava, sembravano moltiplicarsi all’infinito e ingigantirsi fino a schiacciarmi. D’altra parte, non ero nemmeno mai riuscita a dare una forma ben chiara alle relazioni che avevo, proprio come avevo fatto e stavo facendo con Brian e con Liam. Liam… Cosa stava facendo con lui, a proposito?
Un piccola parte di me era convinta che avrei dovuto parlarne a Brian: magari avrebbe capito che quel mio pseudo-rapporto con il piccolo Payne era iniziato solo dopo qualche tempo dalla nostra rottura. Magari, però, non avrebbe capito che era continuato anche durante gli ultimi tempi, quando io e lui ci eravamo riavvicinati.
Fu Vicki a riportarmi al presente, strappandomi alle mie rimuginazioni: «Dio santo, Steph, non mi hai mai detto niente!» esclamò, tra l’arrabbiato e lo stupito. Era evidente che stesse ancora riordinando il mio racconto nella sua mente, che stesse cercando di accettarlo.
«Non l’ho mai fatto nemmeno con Andrew, o con Zac, per non parlare di…»
«Sì, lo so, ma questa volta parliamo di Brian! Quel deficiente! Nemmeno lui mi ha mai detto qualcosa» continuò.
«Perché gliel’ho chiesto io – lo giustificai. Mi accorsi delle labbra contratte della mia amica, che stavano per far uscire una domanda stizzita, quindi la anticipai. – Andiamo, Vic, mi conosci» dissi semplicemente.
Lei si limitò a fissarmi, rendendomi quasi difficile interpretare il suo sguardo, ma avevo capito che la sua rabbia si era decisamente affievolita. Solo dopo qualche minuto di silenzio parlò di nuovo: «Provi qualcosa per lui?» chiese, a bassa voce.
La domanda da un milione di dollari. La stessa alla quale non sapevo rispondere.
La guardai dritto negli occhi e mi strinsi nelle spalle, nel mio classico comportamento che stava a significare un “sì” e un “no”, un “che ne so” e un “qualcuno mi aiuti a capirlo”. Vicki sembrò accettare la mia reazione, probabilmente comprendendo al volo il mio stato d’animo, e io le fui grata di aver risposto con un mite silenzio di accettazione.
Notando i suoi occhi che si addolcivano e le sue spalle che si rilassavano, decisi di abbandonare quell’argomento scomodo: «Tu, piuttosto: perché hai lasciato l’incarico?» ripetei, cogliendola alla sprovvista.
Immediatamente, tutta la sua figura si irrigidì, mentre le sue mani stritolavano il bordo della scrivania.
«Ieri sono successe un po’ di cose» ammise, con lo sguardo basso e un tono di voce che non presagiva niente di buono.
Mi raccontò tutto, nei minimi dettagli – come al suo solito -, e condì ogni cosa con la descrizione precisa di ciò che aveva provato ad ogni parola e ad ogni comportamento – cosa che io non sarei mai riuscita a fare -. Mi assicurò che l’aver rinunciato al lavoro per quell’evento era dettato dal tentativo di mantenere le distanze da Louis, perché non aveva alcuna intenzione di sperimentare i “rapporti civili” di cui lui aveva parlato. Non la biasimavo, perché la conoscevo e sapevo che per lei non sarebbe stato affatto facile.
Quando poi finì, tirando un respiro di sollievo o di liberazione, io accolsi il suo racconto con un «Appenderò Louis Tomlinson per le palle», al quale lei replicò con uno «Scusa per averti cacciata di casa in quel modo».
 


Vicki.
 
Casa di Abbie non era molto lontana dal mio posto di lavoro, e i dieci minuti di passeggiata nella Londra caotica del pomeriggio erano stati abbastanza piacevoli: ormai Settembre era alle porte e si notava già qualche cambiamento nel cielo della capitale, nonostante il caldo tentasse ancora di torturarci.
Era un palazzo di tre piani, in muratura di un bianco sporco, con una facciata piatta sulla quale le finestre non avevano nemmeno un balconcino dal quale affacciarsi in strada: mi morsi l’interno della guancia e mi appoggiai al muro, in attesa di vederla comparire da un momento all’altro dal portone di ferro grigio topo dall’aspetto un po’ trasandato.
Mi aveva chiesto di vederci – perché cavolo il mio numero di telefono era alla mercè di tutti? – e io avevo acconsentito, dicendole che l’avrei raggiunta subito dopo il lavoro, se mi avesse dato il suo indirizzo: non potevo negare che la curiosità mi stesse divorando anche l’anima, cosa più che normale per me, anche se non c’era traccia di preoccupazione, in quello che percepivo. Il tono di voce allegro di Abbie, quello che aveva usato mentre mi parlava spensieratamente al telefono, mi aveva in un certo senso rassicurato, nonostante la sorpresa non fosse stata nulla: l’ultima volta che ci eravamo viste, i suoi occhi si erano soffermati su di me in modo pensieroso, tanto da farmi sospettare che Zayn l’avesse “corrotta” con la sua antipatia nei miei confronti. Ora, però, non sapevo più cosa pensare a riguardo e non vedevo l’ora di incontrarla per farmene un’idea.
«Vicki!» squillò una voce al mio fianco, facendomi quasi spaventare. Mi allontanai dal muro e mi girai alla mia sinistra, trovandomi davanti il viso sorridente di Abbie: gli occhiali da sole che indossavo la facevano apparire come abbronzata, mentre io sapevo che la sua pelle era la più chiara che io avessi mai visto, e i capelli sembrava ancora più neri del solito.
«Ciao, come va?» ricambiai, mentre lei si avvicinava per darmi un veloce bacio sulla guancia.
«Bene, e scusa il ritardo! È tanto che aspetti?» domandò, con una vitalità che mi sconcertava. Sembrava emanare energia positiva da tutti i pori e io iniziavo a chiedermi se i cambi repentini di atteggiamento fossero una caratteristica sua e della band, dato che sembravano esserne tutti affetti.
«In realtà sono appena arrivata» annuii, ricordandomi del mio piccolo litigio con la stampante bloccata, che mi aveva fatto ritardare di qualche minuto.
«Perfetto, allora andiamo - disse lei con un sorriso, incamminandosi lungo il marciapiede, diretta verso il centro di Londra. Io la seguii, ma non ebbi il tempo di dire qualcosa, perché fu lei a parlare di nuovo. – Ah, quasi dimenticavo: per te è un problema se facciamo una piccola deviazione? Liam mi ha chiesto di portargli una maglia che si è dimenticato a casa mia, ieri sera» spiegò, facendomi corrugare la fronte.
«No, figurati» dissi semplicemente, senza poter nascondere uno sguardo curioso. Lei e Liam?
Abbie si accorse di qualcosa, però, perché in un attimo scoppiò a ridere, posandomi una mano sulla spalla: «Non fare quella faccia, ti prego – esclamò divertita, facendomi sorridere cautamente. – Hai frainteso: lui e i ragazzi sono solo venuti per una birra, niente di più» concluse, guardandomi dritta negli occhi con quelle iridi… Azzurre? Di ghiaccio? Di che colore erano?
«Scusa, sono saltata a conclusioni evidentemente affrettate – risi anche io, a causa del malinteso. – Dove abita Liam?»
«Oh, lui abita poco distante da casa di Zayn, ma non è lì che stiamo andando. In questo momento Liam è a casa di Harry e Louis, e siccome è uno sfaticato e sapeva che io e te saremmo uscite, mi ha chiesto se potevo approfittarne per portargli la maglia» precisò, mentre io cercavo in tutti i modi di respirare regolarmente.
No, io non potevo andare a casa di Louis. Non era proprio il caso. Assolutamente no.
Sapevo che in quel momento il mio viso doveva aver assunto un’espressione a dir poco sconvolta, e ringraziai il cielo per il trambusto che regnava per la strada e che evitava ad Abbie di sentire il battito irregolare del mio cuore.
«Non preoccuparti – disse poi lei, all’improvviso. Il tono di voce carico di dolcezza e comprensione. – Louis non è a casa» continuò, mentre io mi voltavo per guardarla, ringraziandola mentalmente per aver compreso il mio stato d’animo e per avermi dato quella notizia. Il sollievo che sentii fu una delle sensazioni migliori che potessi provare: non sapevo come avrei reagito nel rivedere quegli occhi sottili e troppo azzurri, nonostante negli ultimi due giorni me lo fossi chiesta più volte.
Le sorrisi sinceramente, in un muto ringraziamento, ma cercai di ricompormi, per niente intenzionata a rimanere impantanata in quell’argomento: Abbie sembrò essere del mio stesso avviso, infatti non esitò a parlare di altro.
«Scusa, comunque, per aver deliberatamente rubato il tuo numero di telefono: giuro di non essere una maniaca» scherzò, alzando le mani come se volesse giurarlo.
Io risi liberamente e «Tranquilla – la rassicurai. – Anche se mi stavo giusto chiedendo come mai il mio numero fosse così facile da trovare: prima Zayn, adesso tu…» confessai.
«Oh be’, è più semplice di quanto credi: perdonami se lo nomino di nuovo, ma Louis ha il tuo numero, no? Ecco, Zayn l’avrà preso sicuramente dal suo telefono, e io l’ho preso da quello di Zayn – dichiarò soddisfatta. – Condividiamo fin troppe cose, e questo è il risultato» affermò, sorridendo quasi come se si volesse scusare. Aveva l’espressione di un bambino che è stato colto con le mani nel sacco, e fece sorridere anche me. Finalmente capivo, anche se era un po’ inquietante.
«A proposito – continuò, schiarendosi la voce. – È proprio di Zayn che volevo parlarti» mi informò, acquisendo un tono di maggiore serietà, nonostante il suo viso conservasse la serenità che lo caratterizzava. Aggrottai le sopracciglia, confusa, e passai in rassegna le molte possibilità che mi si presentavano davanti. Cosa voleva dirmi? E poi, da quanto ne sapevo, lei e Zayn sembravano avere un legame più che profondo, quindi in teoria non ci sarebbe dovuta essere nessuna incomprensione, o meglio, Abbie avrebbe dovuto essere al corrente di tutto. Quindi cosa voleva? Raccomandarsi di trattare bene il suo amico?
Prima di farmi altre domande, mi imposi di smetterla e di chiedere direttamente a lei: «Perché?»
Abbie abbassò lo sguardo sui suoi sandali marrone scuro, che contrastavano con il bianco dei suoi pantaloncini, ma che richiamavano la fantasia della t-shirt larga che indossava: sul suo viso era dipinto l’accenno di un sorriso e io non sapevo come interpretarlo.
«Nessun perché – disse infine, tornando a guardare me. – Mi ha parlato di quello che è successo tra di voi e so che tu non sai molto su di lui, quindi ho pensato che avrei potuto aiutarti. Diciamo» spiegò, stringendosi nelle spalle. Alzai un sopracciglio, senza poter nascondere a me stessa che sapere qualcosa di più su Zayn mi avrebbe di certo fatto comodo, dato che per me rimaneva un mistero sotto molti punti di vista.
«Ehm, non so cosa dire, in realtà» ammisi, spostandomi i capelli su una spalla. Era imbarazzo quello che provavo? Curiosità mista ad un certo senso di prudenza?
«Puoi semplicemente ascoltare»  mi rassicurò lei, incoraggiandomi con uno sguardo benevolo.
Sospirai e le sorrisi, annuendo per darle un consenso.
Lei mi imitò e per qualche secondo rimase in silenzio, con gli occhi puntati sulla strada di fronte a noi e i capelli che le sfioravano le spalle ad ogni passo, mentre io litigavo con i miei occhiali cercando di farli rimanere sulla mia testa, a mo’ di cerchietto.
Quando Abbie aprì di nuovo bocca, qualcosa dentro di me sobbalzò per l’impazienza e per l’insicurezza.
«Io e Zayn andavamo a scuola insieme, sai? – cominciò, cogliendomi da subito alla sprovvista. No, non lo sapevo affatto. Lei, d’altronde, mi aveva presa alla lettera: avrei ascoltato, mentre lei avrebbe continuato il suo racconto. – Eravamo nella stessa classe e con noi c’era anche Kathleen – continuò, fermandosi per qualche istante con un sorriso nostalgico sulle labbra. – Noi due, migliori amiche da sempre, ci divertivamo a prenderlo in giro e lui non perdeva occasione di fare altrettanto con noi. Il fatto è che, all’epoca, io passavo il tempo a dargli fastidio perché non lo sopportavo, mentre Kath lo faceva per il motivo opposto, cosa che io ho scoperto solo dopo anni».
Ascoltavo ogni sua parola con molta attenzione, quasi non volessi farmi sfuggire nemmeno un particolare: e la osservavo, in ogni sua espressione. Nel pronunciare il nome della sua amica, gli angoli della sua bocca si inclinavano leggermente per nascondere un carico di emozioni che forse era meglio non lasciare uscire.
«Kathleen si è trasferita qui a Londra, alla fine della scuola, e ha incontrato Zayn, che da un paio d’anni girava il mondo in veste di grande talento della musica insieme a quattro scapestrati: divertente il destino, eh? – scherzò, con una punta di amarezza. – Hanno iniziato ad uscire: evidentemente i dispetti dei primi anni del liceo erano solo… preliminari, possiamo dire – scherzò ancora, accompagnandosi con una piccola risata che io imitai. Ad ogni sua parola cercavo di immaginare la scena, cercavo di dipingere nella mia mente la storia di quei due ragazzi. – Poi, però, Kath ha scoperto di avere quello… Quello stupido tumore».
Aspettai pazientemente che Abbie riprendesse a parlare, posandole una mano sulla schiena mentre mi accorgevo di quanto i suoi occhi stessero cercando di trattenere il dolore: «Quando io l’ho raggiunta qui, mi sono trovata Zayn Malik tra i piedi: non potevo credere ai miei occhi, sul serio. Mi aveva detto che lui voleva starle accanto, persino da amico, dato che lei non si sentiva pronta a portare avanti una relazione quando non sapeva nemmeno che ne sarebbe stato, di se stessa. Ma all’epoca io avrei preso Zayn e l’avrei buttato giù dal London Bridge, quindi quando diventarono una coppia non ne fui molto entusiasta».
Sorrisi, stupita da quella confessione: a vederli ora, avrei detto che avessero sempre avuto un legame molto forte, mentre iniziavo a capire che forse era stato lo stesso evento traumatico ad avvicinarli. «Non l’avrei mai detto» ammisi sinceramente, mentre lei mi guardava annuendo.
«Non siamo mai andati d’accordo, io e lui: non mi fidavo, basandomi sull’antipatia che mi portavo dietro dai tempi della scuola, e il nostro rapporto non era di certo cambiato. Le offese erano il nostro modo di relazionarci, nonostante Kathleen cercasse di fare da giudice imparziale, nel ring che si creava ogni santa volta – confessò, per poi arrestarsi per qualche secondo. – Lo amava così tanto che… Non sai quante volte ho cercato di farla ragionare e non sai quante volte ho dovuto ammettere che quei due… Quei due erano nati per stare insieme, che a me piacesse o meno».
Un senso di amarezza mi invase, forse proprio come stava accadendo ad Abbie, al mio fianco: percorremmo qualche metro in silenzio, mentre io rimuginavo su quello che mi aveva detto. Zayn e Kathleen dovevano esser stati l’esempio dell’amore più vero che potesse esistere, di un’amore talmente forte da poter essere percepito anche dalle persone che li circondavano. A sentirne parlare, era impossibile non provare invidia e dolore. E al tempo stesso, era impossibile non giustificare lo stato d’animo di Zayn.
«La malattia di Kath è stata una specie di collante, tra di noi: obbligava me e Zayn a lavorare insieme, a starle affianco mettendo da parte ogni nostra rivalità. Ed è stato proprio nei momenti più difficili che io mi sono resa conto di quanto effettivamente quel ragazzo avesse reso Kath il suo scopo nella vita: me ne accorgevo, mi accorgevo di come si stesse spegnendo anche lui, man mano che lei peggiorava».
Deglutii a vuoto, alzando gli occhi al cielo per un attimo: il mio spirito romantico ed empatico stava avendo la meglio, obbligandomi a commuovermi. Il tono di voce di Abbie ormai era basso e calmo, privo della vitalità che l’aveva caratterizzato fino a poco prima: era completamente immersa nel passato e io temevo di disturbarla anche solo respirando.
«Poi Kathleen se n’è andata – riprese, con le mani che si stringevano a pugno. – Ed io e Zayn siamo rimasti da soli, in un certo senso. Solo noi sapevamo quello che stavamo passando, solo noi eravamo in grado si sostenerci, perché provavamo esattamente le stesse cose: a quel tempo avevo messo da parte qualsiasi riserva nei suoi confronti, e ti dirò di più, era diventato essenziale per me. Avevamo questa cosa in comune, che non ci lasciava respirare, e l’unico modo per affrontarla sembrava stare l’uno accanto all’altra».
Ecco spiegato il motivo del loro attaccamento: non mi era facile immaginare a pieno cosa significassero esattamente le sue parole, perché, per fortuna, non avevo mai provato un dolore del genere. Però la mia mente continuava a provare a capire cosa comportasse essere legati dalla morte di una persona cara.
«Quello che voglio dirti, Vicki, è che… Zayn era un vero coglione – riprese, spiazzandomi completamente, mentre le sue labbra si inclinavano in un sorriso divertito. – Lo era sul serio, gliel’ho ripetuto mille volte, se non di più. Eppure, non avrei mai pensato che potesse essere tanto forte e fragile allo stesso tempo: è come se avesse usato tutto se stesso per aiutare Kathleen e alla fine fosse rimasto completamente vuoto. Lo è ancora, sai? È cambiato, è completamente diverso, perché tutto quello che era prima è stato sommerso da qualcos’altro. E io credo che lui non abbia ancora accettato la morte di Kathleen, anzi, ne sono sicura».
Spostai i miei occhi lucidi nei suoi e rimanemmo per qualche secondo in silenzio. Non sapevo cosa dire e la mia testa vorticava pericolosamente a causa dei troppi pensieri.
«Io vorrei solo che tu riuscissi a farlo tornare il coglione di un tempo – confessò, sforzandosi di sorridere, come una madre in apprensione per il suo bambino. Era evidente che stesse cercando di sdrammatizzare. – So quello che ti ha detto, so della specie di rapporto che ora c’è tra di voi, ma voglio darti un consiglio: stai attenta, studialo, cerca di ricordarti che Zayn… Zayn non sta affatto bene, purtroppo, anche se è passato più di un anno, anche se è un bravissimo attore. Tieni a mente che per lui è come se fosse trascorso un solo giorno dalla morte di Kath: qualsiasi cosa lui ti dica, qualsiasi cosa lui faccia, valutala con attenzione. Insomma, fai del tuo meglio. È brutto, se detto così, ma… Non fidarti dell’apparenza, non in questo caso. E lo so, che ti sto caricando di una responsabilità enorme, soprattutto perché lo conosci da così poco che potresti decidere di darti alla fuga in un millisecondo, però Zayn si è legato a te per un motivo: sono sicura che tu possa capire come aiutarlo. Devi solo cercare il modo giusto per farlo, trovare ciò di cui ha realmente bisogno».
Incantata dalle sue parole, che avevano risucchiato ogni mio residuo di attenzione, mi sembrò quasi che quello di Abbie fosse un ammonimento, più che un consiglio: aveva calcato l’ultima frase come se volesse farmi capire che ci fosse dell’altro, qualcosa che io non ero riuscita ancora a cogliere.
«È una delle persone più importanti per me e lo appoggerò sempre, qualsiasi cosa lui decida di fare: ma so perfettamente che anche lui può sbagliare, soprattutto ora. Quindi, conto su di te» concluse, rivolgendomi un sorriso carico di speranze.
Io non potei fare altro che sorridere a mia volta, con un po’ di esitazione, ma comunque felice che Abbie si fosse rivolta a me per aiutare Zayn, nonostante non capissi perché la scelta fosse ricaduta proprio su di me: ero ancora confusa dal suo discorso, perché avevo bisogno di tempo per scegliere quale interpretazione sarebbe stata la migliore.
«E poi chissà, magari ti piacerebbe ancora di più il vecchio Zayn, senza più quel muso lungo: o magari arriveresti ad odiarlo come facevo io» aggiunse, cercando di smorzare l’atmosfera. Eppure, prima che io potessi rispondere qualcosa, mi accorsi che, davanti a noi, c’era un portone che mi era familiare: senza che nemmeno me ne rendessi conto, eravamo arrivate alla nostra destinazione.
Il mio stomaco si attorcigliò al pensiero di Louis, ma la sensazione svanì quando mi ricordai che non sarebbe stato in casa.
«Andiamo, avanti – mi spronò Abbie, tornando all’allegria di sempre. – Ti ho annoiata abbastanza».
 
Casa di Harry e Louis era esattamente come la ricordavo, anche se un po’ più disordinata: Liam ci accolse con un largo sorriso un po’ assonnato, nonostante fosse pomeriggio inoltrato, e ci offrì qualcosa da bere che però noi rifiutammo in onore del pomeriggio che avremmo dovuto passare insieme.
Harry era sdraiato su uno dei divani e la televisione era sintonizzata su un canale musicale che stava passando una canzone a me sconosciuta: il riccio mi aveva salutata con la sua solita gentilezza, ma avevo notato che tra lui ed Abbie i rapporti sembravano ancora un po’ tesi. Mi riproposi, infatti, di chiederle che cosa fosse successo tra loro.
«Avanti ragazze, tanto tra poco usciamo anche noi» fu l’ennesimo tentativo di Liam di convincerci a restare.
Io gli sorrisi, sinceramente felice di vedere quanto ci tenesse, ma poi lanciai uno sguardo ad Abbie, che sembrava tenere in mano le redini della situazione: in fondo speravo che lei declinasse l’invito ancora una volta, perché – magari ero pazza – avevo il terrore che Louis rientrasse da un momento all’altro.
«Sei un rompipalle – fu la risposta divertita della mora, che fece ridere me e alzare gli occhi al cielo a lui. – Ti ho già detto di no: abbiamo di meglio da fare, quindi mi dispiace, ma devi sorbirti da solo Harry Styles» disse, lanciando una frecciatina al ragazzo sul divano, che non perse occasione di ribattere.
«Ti ho sentita, genio» borbottò lui infatti, senza però girarsi verso di noi.
«Era il mio intento - ribatté lei, prima di dirigersi verso la porta seguita da me. C’erano così tanti rapporti sottintesi da scoprire, tra di loro, che non vedevo l’ora di capirne tutti i segreti. – E ora, se volete scusarci, andiamo a divertirci da un’altra parte».
«E va bene! Buona giornata» si arrese Liam, salutandoci con un gesto della mano.
Io lo ricambiai e risposi con un saluto, quando Harry si voltò per esclamare un «A presto, Vicki», accompagnato da un sorriso cordiale.
Quando uscimmo dall’appartamento, Abbie si perse in un discorso sulla testardaggine dei ragazzi, facendomi sorridere: sembrava così a suo agio in mezzo a tutti loro, da sembrare una loro sorella ormai. Mi chiedevo come ci si sentisse.
«Louis» esclamò poi, bloccandosi nel mezzo della rampa di scale e facendo bloccare il mio respiro con lei.
Sgranai gli occhi e li spostai davanti a me, obbligata a posarli su Louis Tomlinson: era al fondo della rampa, le labbra socchiuse per la sorpresa, lo sguardo tra il divertito e il confuso, e una mano sul corrimano in marmo chiaro.
Deglutii a vuoto, mentre lui saliva qualche gradino: «Ragazze» disse, in segno di saluto, mentre io non riuscivo a staccare lo sguardo da lui. Possibile che fossi così sfigata? Dovevo assolutamente regolare il mio tempismo, o non ne sarei uscita sana di mente.
Mentre percepivo chiaramente gli occhi di Abbie spostarsi da me a lui, mi imposi di non soffermarmi sul viso del ragazzo che ormai mi stava di fronte: non mi avrebbe fatto bene, né avevo voglia di dargli quella soddisfazione. Tornai a guardare Abbie e lei cercò un modo per svincolarci da quell’incontro imbarazzante, almeno per me: sentivo le iridi di Louis pesarmi addosso.
«Liam mi aveva detto che non eri a casa! Sono venuta a dargli una maglia: ieri l’ha dimenticata a casa mia - spiegò, mentre io studiavo ogni particolare del suo viso pur di non perdermi in quelli di un altro. – Ma ora noi usciamo, quindi... Ci vediamo!» lo liquidò, facendomi esultare nel profondo per la velocità con la quale aveva congedato entrambe.
Io presi a scendere le scale dietro di lei, stando attenta a guardare meticolosamente ai miei piedi e a non sfiorare nemmeno lontanamente il corpo di Louis. La sua mano, però, si avvolse con calma intorno al mio braccio, bloccandomi: «Abbie, vai avanti: devo parlare un attimo con Victoria» disse, mentre io sentivo il respiro accelerare sempre di più, con gli occhi spalancati fissi sul muro bianco di fronte a me. Il mio cuore era andato, partito, spacciato.
«Ma…»
«Va’ pure, ci vorranno due minuti» insistette lui. Percepii l’indecisione di Abbie, che per qualche secondo rimase immobile nell’altra rampa di scale, poi la sentii allontanarsi. Solo allora mi voltai verso Louis, divincolando il mio braccio dalla sua presa, stranamente delicata.
Lo ritrovai più vicino di quanto pensassi, con gli occhi gelidi fissi nei miei, spaventati.


 



 
ANGOLO AUTRICE
 
Ciaaaaaaaaaaao dolcezze (: Finalmente ce l’ho fatta, a scrivere questo capitolo!
In realtà ho dovuto tagliare l’incontro tra Louis e Vicki, perché se no sarebbe venuto davvero
troppo, troppo lungo e già così non è molto corto ahhah Inoltre, vi lascio
un po’ sulle spine fjfdska Cosa vorrà Tomlinson, ancora? Avete delle ipotesi? (:
Ho notato che molte di voi non lo sopportano ahhaha Ma vabbè, confido nel futuro (Y)
Passiamo ad altro: piccolo POV Stephanie che vi aiuta a scoprire che d’ora in poi
si occuperà lei dell’incarico di Vicki e che fa chiarezza sulla sua storia con Brian!
Avrete notato che lei è molto riservata e anche un po’ incapace di avere una vera
e propria relazione: spero che le sue motivazioni siano state chiare!
Poi, poi, poi: Abbie e Vicki (: Vorrei ricordare che Abbie sa benissimo quale sia il vero
motivo che ha spinto Zayn ad avvicinarsi a Vicki, quindi spero abbiate capito che il suo
intento era quello di “mettere la pulce nell’orecchio” alla protagonista, di avvertirla
e metterla in guarda, senza però mettere Zayn nella merda - scusate la finezza -! Come ha detto lei,
lo appoggerà sempre, ma questo non vuol dire che debba condividere le sue scelte!
Le ho fatto raccontare la loro storia per offrire a Vicki una visione più globale
di tutto, ma non sarà certo l’ultima occasione per lei per capire bene il resto (:
Cosa pensate della “mossa” di Abbie? E di quello che ha detto su Zayn?
Giuro che su di lui c’è ancora molto da scoprire, e non vedo l’ora di scriverlo fdsjakl
E infine, un minuscolo battibecco tra Abbie e Harry: vi avverto che li vedremo presto
in azione, di nuovo (:

Ragazze, vi ringrazio moltissimo per tutto quello che fate per me! Non smetterò mai di dirlo!
Siete fantastiche e mi supportate in ogni cosa io scriva o faccia fjskfdas
(Anche se ho notato che l’interesse di alcune è calato un po’, e mi dispiace :()
 
AVVISO 1: finalmente è arrivata l’ora delle vacanze anche per me ahahah
Domenica parto, e non avrò modo di aggiornare per circa un mese, ovvero fin quando
tornerò! Sappiate che appena torno riprenderò a pubblicare i nuovi capitoli, quindi non
datemi per dispersa hahah 
E inizierò anche un’altra storia :)

AVVISO 2: ho pubblicato un missing moments di “Unexpected”, cliccate su “It doesn’t end”
per leggerlo fdsjka Spero che vi piaccia e magari potreste farmi sapere cosa ne pensate (:
 
AVVISO 3: non so perché, ma ho notato un po’ di confusione nello scorso capitolo!
L’ultimo disegno che Vicki vede, quello incompleto, è sempre Kathleen (:
 
Ora basta, vi ho annoiate abbastanza hahah Ci sentiamo dolcezze! Continuerò ad esserci,
sui vari social networks, quindi per qualsiasi cosa scrivetemi!

Ask Twitter - Facebook
 

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Don't ignore me ***




Don't ignore me

Capitolo 15

 

Piccolo “ripasso”, dato che c’è stata una pausa di un mese:
è il giorno della partenza di Brian e abbiamo lasciato Vicki che incontra Louis a casa di Liam,
dopo un pomeriggio passato con Abbie, che le ha parlato di Zayn e di Kathleen, mettendola in guardia.
Cosa vorrà Tomlinson, adesso?

 
«Rapporti civili, ricordi?» domandò retorico, facendo schioccare la lingua sul palato.
Alzai un sopracciglio e «come?» chiesi, domandandomi cosa diavolo pretendesse da me. Diceva che dovevo stargli lontano, e poi si comportava in quel modo: la coerenza non era di certo una sua prerogativa. Io, intanto, cercavo un modo per scappare, perché i nostri incontri erano sempre troppo imprevedibili e la mia forza di volontà sempre troppo scarsa.
«Credo che sia buon uso salutare, no?» spiegò lui, diminuendo la distanza tra di noi di un gradino.
Sbattei le palpebre più volte: «Davvero, Louis? Stai parlando sul serio?» furono le mie parole, sbalordite quanto me. Non potevo credere che mi avesse quasi rimproverato per non averlo salutato: se era questo, che si aspettava, aveva preso un granchio. E anche bello grosso.
«Non pensi anche tu che sia alla base di un rapporto civile?» domandò, alzando le spalle. Era così tranquillo da farmi saltare i nervi: mi chiedevo, però, se fosse solo una finzione. Se quel sorriso accennato e perenne fosse solo un modo come un altro di nascondere qualcosa: non potevo credere che lui fosse davvero tanto incoerente, doveva per forza provare una certa attrazione nei miei confronti, per quanto essa fosse contrastata dal comportamento contraddittorio del suo proprietario.
Le parole di Zayn presero a rimbombare nella mia testa: se Louis faceva qualcosa, era perché voleva farlo e perché ne aveva un motivo. Il problema era che Louis faceva molte cose, ognuna in contraddizione con le altre. Su quale avrei dovuto concentrarmi, esattamente?
Abbassai lo sguardo, sospirando e scuotendo la testa: dovevo combattere quel suo modo di fare, impormi e fargli capire che mi aveva stancata.
«Primo, io non ho affatto accettato di avere un rapporto civile con te – iniziai, con il tono di voce che tradiva la mia tensione, ma che poteva essere scambiato per sicuro. Avevo ripetuto e sentito pronunciare talmente tante volte quelle ultime parole, che sembravano ancora più ridicole di quanto non fossero già: Louis, intanto, mi guardava in attento ascolto. – Se credi di poter decidere per entrambi, ti sbagli di grosso. Secondo, hai detto che devo starti lontana, no? Bene, è quello che sto cercando di fare» spiegai, cercando di mantenere la calma. Ero sicura che, se mi fossi lasciata prendere dall’emozione, avrei finito per urlargli contro tutta la mia frustrazione.
«Ti ho detto di starmi lontana, infatti – ripeté lui, raggiungendomi sul pianerottolo e fermandosi di fronte a me, con il viso sin troppo vicino. Io feci un passo indietro e lui ne fece uno in avanti, provocando un ulteriore aumento del mio battito cardiaco. – Non ti ho detto di ignorarmi» precisò.
Presuntuoso. Presuntuoso e maledetto stupido.
Cercai di raccogliere un po’ di coraggio e soprattutto la voglia di avere un nuovo confronto con lui: «Peccato che io non sia ai tuoi ordini» ribattei, sforzandomi di spostare gli occhi dalle sue labbra sottili, sulle quali Louis aveva appena passato la lingua e che facevano a pugni con i miei tentativi di rimanere concentrata.
«Be’, allora te lo chiedo» acconsentì, avvicinandosi un altro po’ a me e incastrandomi nell’angolo del pianerottolo. I nostri petti che quasi si sfioravano e io che dovevo controllare il mio respiro per evitare che accadesse, con un’inspirazione troppo ampia. Louis appoggiò una mano alla destra del mio capo, sul muro, e i suoi occhi sembrarono cambiare l’intera espressione del suo viso.
Improvvisamente, ebbi l’impressione di essere davanti al Louis Tomlinson con cui avevo passato una piacevole serata al Luna Park, quella prima volta: il suo volto aveva perso ogni traccia di presunzione, velandosi di qualcosa di diverso che faticavo a decifrare. Sapevo che avrei dovuto spostarmi da lì, ma non ci riuscivo. Non potevo, e una piccola parte di me nemmeno voleva.
Mi appiattii contro la parete quando lui si fece ancora più vicino, quando i suoi occhi si spostarono su ogni particolare del mio viso per poi fermarsi sulle mie labbra: «Puoi non ignorarmi, – cominciò, chiudendo a pugno la mano sul muro. Non c’era contatto tra di noi, ma io lo sentivo su ogni millimetro della mia pelle, ovunque, – per favore?»
Trattenevo il fiato mentre valutavo le sue parole, mentre mi accorgevo che le sue labbra riflettevano una certa tensione, come se Louis si stesse trattenendo dal fare qualcosa, come se… Come se quella richiesta fosse sincera e dovuta ad un reale bisogno.
Quando Louis appoggiò la fronte alla mia, sentii le gambe cedere sotto il peso dei suoi occhi. Abbassai le palpebre e deglutii a vuoto, obbligandomi a respirare con la bocca pur di scampare al suo profumo: per questo riuscii solo a sentire il suo movimento sulla mia pelle, che mi costrinse a tornare a guardarlo. Lasciò dei piccoli baci lungo la mia guancia destra, scendendo verso il mio collo, e io mi ritrovai a pregare mentalmente che la smettesse, perché non ero certa di avere la forza di chiederglielo.
«Non ignorarmi, Vicki» ripeté lui, baciando a lungo e delicatamente il mio collo. Le labbra sottili e un accenno di barba che pungeva leggermente facevano da contorno alle parole sussurrate e penetranti che mi avevano intrappolata.
Avrei voluto dargli ascolto, sul serio: ero tentata di dimenticare tutto e ricambiare quel bacio, ma purtroppo non potevo, perché Louis non mi faceva bene. Mi stordiva e mi confondeva.
Quindi, per quanto il mio istinto masochista e riconosciuto a livello mondiale per le sue scelte discutibili, cercasse di spingermi verso Louis, per una volta mi abbandonai alla mia parte razionale: posai le mani sul suo petto, rabbrividendo a quel contatto, e lo allontanai da me lentamente, riflettendo il mio essere restia a spezzare quel momento.
Mi impressi nella mente le sue iridi confuse e – che Dio mi perdoni – forse anche ferite, e scesi in tutta fretta le scale, raggiungendo Abbie e cercando di convincermi che la frequenza cardiaca alterata fosse dovuta solo all’aver fatto di fretta le scale.
 
Carly e Tyler Tomphson avevano sempre avuto un certo gusto e una rispettabile eleganza nell’arredare la loro villa in campagna, fuori Londra: e a me, da ubbidiente figlia di un chirurgo più che conosciuto e di una cardiologa, non era mai piaciuto né l’uno né l’altro.
Odiavo il tappeto di qualche metro quadrato fatto arrivare da chissà quale paese asiatico, solo per esporlo nel salotto enorme e illuminato da una parete trasformata in una gigantesca finestra: sembrava essere più prezioso di me, o almeno era quella l’impressione che mi dava quando venivo sgridata per bene per averci camminato sopra con le scarpe sporche di fango.
Odiavo anche tutto quello sfarzo, quei soprammobili orrendi che trovavano posto in ogni angolo della casa e che avrebbero potuto fare da palla della discoteca ad una festa, per quanto erano sbrilluccicanti.
In sintesi, non mi piaceva per niente l’ostentazione pacchiana e ipocrita dei miei genitori: per questo motivo, seduta al lungo tavolo della sala da pranzo, continuavo a giocherellare con il cibo con fare nervoso.
Brian, al mio fianco, mi tirava qualche gomitata di nascosto, quando mi perdevo nei miei pensieri e nelle mie rimuginazioni e non sentivo che i miei genitori mi avevano appena interpellata: e io gli rispondevo con un’occhiataccia, perché era solo colpa sua e della sua stupida partenza se io mi ritrovavo a cena nella mia vecchia casa. Ero riuscita ad evitare quello scomodo rituale per parecchio tempo, e lui aveva annullato tutti i miei sforzi in poche ore: sapeva che avrei accettato di accompagnarlo, pur di passare ancora un po’ di tempo con mio fratello.
«Allora, Victoria – esordì mio padre, pulendosi le labbra con un fazzoletto. Sedeva a capotavola, alla mia sinistra, e mi guardava con i suoi occhi scuri e segnati dalla stanchezza: la camicia bianca con il primo bottone fuori dall’asola, nonostante i richiami di mia madre, e i capelli brizzolati che diventavano sempre più radi, lasciando la sua fronte con poche rughe allo scoperto. Puntellò i gomiti sul tavolo e unì le mani per riprendere a parlare. – Come sta andando il lavoro?»
Sospirai pesantemente, alzando gli occhi al cielo e beccandomi un calcio alla caviglia da Brian: possibile che l’argomento dovesse essere sempre quello?
«Bene» risposi soltanto, seriamente infastidita. Ricominciai a mangiare lo stufato che nemmeno mi piaceva più di tanto, e ignorai la sensazione di avere tutti gli occhi puntati su di me. Per qualche secondo l’unico rumore fu quello della mia forchetta che ogni tanto raschiava il piatto.
«Bene? Solo bene?» domandò infine mia madre, senza smentirsi. Sapevo che avrebbe parlato.
Spostai lo sguardo su di lei, con un sopracciglio alzato: i capelli neri a causa della tinta erano intrappolati in un rigido chignon, e la bocca di un rosso innaturale formava una linea dura sul suo viso asciutto. Gli occhi di un verde cangiante erano sicuri e non pronti al compromesso.
«Sì, mamma. Solo bene» la liquidai, sbuffando subito dopo. Non erano nemmeno capaci di farmi credere che si interessassero davvero.
«Allora perché hai rinunciato a quell’incarico?» continuò lei, facendomi spalancare gli occhi.
«Ma perché diavolo sapete sempre tutto di quello che faccio? – sbottai, abbandonando la forchetta nel piatto e passandomi una mano tra i capelli. – Dio santo, devo dire a Christian di farsi gli affari suoi, una buona volta». Ero esasperata da quella situazione: qualsiasi cosa succedesse a lavoro, loro la sapevano, e poi, di conseguenza, pretendevano di parlarne con me. La loro secolare amicizia con il mio capo non era altro che un intralcio.
«Victoria! Regola i toni, in questa casa!» mi rimproverò lei, mentre io potevo vedere con la coda dell’occhio mio fratello che scuoteva la testa con fare arreso e anche un po’ divertito.
«Calmatevi, adesso – intervenne mio padre, tranquillamente. Poi si rivolse a me. – Siamo noi a contattare Christian per rimanere aggiornati, visto che tu non hai intenzione di parlare ai tuoi genitori».
«Be’, mi fareste davvero molto felice se la smetteste, dato che la vita è la mia e sono capace di gestirmela da sola – sputai acida. – E se non vi parlo del mio lavoro, sapete meglio di me il perché».
«Cosa vorresti dire con questo?» squittì mia madre, offesa.
«Andiamo, mamma. Sappiamo tutti che vorreste che io frequentassi medicina e bla bla bla. Non c’è bisogno che sia io a dirvelo: peccato che a me non interessi, perché non è quello che voglio fare. Voglio aprire una benedetta agenzia di catering, quando ve lo metterete in testa? Non mi importa se mi state sul fiato sul collo sperando di portarmi all’esasperazione, né se vi comportate come i soliti maniaci del controllo, perché tanto non mi farete cambiare idea».
«Questa è la ricompensa per le aspettative che abbiamo nei tuoi confronti? Vogliamo il meglio per te, e tu ce ne fai una colpa!» quasi urlò lei, alzandosi dalla sedia con sdegno.
«Ti sbagli di grosso, invece! Io mi lamento solo del vostro comportamento! E poi, siete voi a non capire che il meglio per me, come dici tu, è quello che io voglio fare nella mia vita! Non quello che mio padre e mia madre vorrebbero! Quelli sono i vostri sogni e i vostri desideri, non i miei» sbottai, con il respiro accelerato.
«Bene, allora da oggi in poi scordati qualsiasi tipo di aiuto da parte nostra. Fai quello che ti pare, Victoria, ma non azzardarti a venire a piangere in questa casa quando non concluderai nulla» rispose lei, mettendosi di nuovo a sedere con il fumo che le usciva dalle orecchie e le guance rosse per la rabbia.
«Finalmente» borbottai, impegnandomi a non aggiungere nulla riguardo mia madre che mi sottovalutava. Non riuscivo proprio a capire come mai fosse tanto difficile per loro accettare le mie idee, le mie aspirazioni, per quanto fossero diverse dalle loro: quel lavoro mi piaceva, mi rendeva felice, cosa c’era di sbagliato? Certo, non si trattava di diventare avvocati o grandi leader mondiali, ma era quello che faceva per me, il lavoro per il quale sarei stata quantomeno contenta di alzarmi dal letto ogni mattina.
La sala da pranzo venne invasa da un silenzio ricco di tensione, di sguardi espressivi ed evitati: io rimasi con gli occhi puntati nel piatto per tutto il tempo, ancora troppo arrabbiata e nervosa. Fui costretta a spostarli su mio padre, però, quando parlò dopo circa cinque minuti.
«Un mio amico, qualche giorno fa, mi ha fatto vedere una foto, Victoria» mi interpellò di nuovo, infatti, masticando dell’insalata. Corrugai le sopracciglia e mi voltai verso di lui, quando aggiunse «diverse foto, in realtà».
«Che foto?» domandai incuriosita, nonostante avessi già un presentimento.
«Tu insieme ai ragazzi di una boyband, se non sbaglio» rispose, pensieroso.
Sospirai e annuii molto lentamente: passavo dalla padella alla brace.
«E in una stavi baciando un ragazzo» aggiunse, con fare malizioso.
Brace? Quello era un vero e proprio incendio.
«Sì, ehm…  Siamo solo amici» biascicai, pulendomi le labbra con il tovagliolo.
«Gli amici non si baciano» intervenne mia madre, tossicchiando per precisare.
«Be’, tra noi è successo. Tutto qui» decretai, ripensando a quel pomeriggio con Zayn.
«Avanti, non vorrete farle il terzo grado» esclamò Brian, finalmente.
«Ah, ma allora ci sei anche tu» lo scimmiottai, guardandolo in cagnesco. Se ne era stato zitto per tutto il tempo, lasciandomi alle fauci dei miei genitori. Lui sorrise e mi scompigliò i capelli.
«Nessun terzo grado – lo corresse papà, con aria sincera. – È solo che non capita tutti i giorni che mia figlia diventi amica, o qualsiasi cosa sia, con i ragazzi di una boyband così famosa» spiegò.
«Almeno sono brava a qualcosa» sussurrai tra me e me, prendendo un sorso d’acqua.
 
«Di’, un po’, ti costava molto dire qualcosa in mia difesa?» rimproverai mio fratello, mentre entravamo in casa. Mi tolsi velocemente le scarpe e mi gettai sul divano, a pancia in giù: avevo mangiato davvero troppo, anche quello che non mi piaceva, pur di concentrarmi su qualcosa che non fossero le chiacchiere dei miei genitori.
«Te la sei cavata benissimo anche da sola» si difese lui, scomparendo in cucina.
«E allora? Avrei comunque gradito un tuo intervento. Dio mio, diventano sempre più insopportabili» continuai, sbuffando per spostare una ciocca di capelli che mi era finita sul volto.
«Sei tu che ne fai una tragedia – mi corresse, avvicinandosi a me e sedendosi sulle mie gambe, a dispetto delle mie proteste. – Sono solo due vecchi genitori che vorrebbero vedere la loro bambina sfondare nel mondo del lavoro».
«Che schifo, hai iniziato a parlare come loro» lo presi in giro, fingendo una smorfia di disprezzo.
«Come osi?» esclamò, fiondandosi a farmi il solletico. Iniziai a ridere come una disperata, più perché non riuscivo a respirare con il suo peso addosso, che per il solletico in sé: quando poi Brian decise che la mia punizione poteva essere sufficiente, si accasciò semplicemente su di me, baciandomi una spalla.
Il mio sorriso si spense, mentre tornavo alla realtà: entro pochi minuti lui sarebbe partito e io sarei rimasta sola in quella casa, senza nessuno con cui litigare o senza sentirlo cantare sotto la doccia, stonato come una campana. Sarebbe partito e chissà quando sarebbe tornato, chissà dove l’avrebbero mandato.
«Brian… - sussurrai, chiudendo per un attimo gli occhi. – Prometti che non farai passare due mesi, prima di tornare» gli chiesi, quasi implorandolo. Non sapevo se lui fosse pienamente consapevole dell’importanza della sua figura nella mia vita.
«Sai che non posso – sospirò lui, lasciando un altro bacio tra i miei capelli e sdraiandosi meglio sul divano per abbracciarmi. – Ma ci proverò».
«Sei uno stupido» decretai, con un tono di voce talmente basso da risultare quasi inudibile. La verità è che avevo gli occhi lucidi e non volevo che lui se ne accorgesse, semplicemente studiando la mia intonazione stentata.
 
Quando il telefono squillò sul letto, mi infilai in fretta la canottiera del pigiama che tenevo in mano e corsi a prenderlo: non potei nascondere a me stessa un certo sollievo nel leggere il nome “Zayn” sul display.
Sorrisi a labbra unite e risposi; «Ciao, Zayn».
«Hey, disturbo?» ribatté lui, mentre io mi mettevo seduta sul letto, guardandomi le gambe nude.
Scossi la testa, come se lui avesse potuto vedermi, e «No, affatto: mi stavo mettendo il pigiama per iniziare questa entusiasmante serata all'insegna del divertimento» risposi, chiedendomi se avesse bisogno di qualcosa. Lo sentii accennare una risata.
«Tuo fratello è già partito?» domandò poi, stupendomi. Davvero se ne ricordava? Glielo avevo accennato durante una chiamata, una delle poche che ci coinvolgevano quando non ci vedevamo, ma credevo che se lo sarebbe dimenticato il giorno dopo.
Mordendomi l’interno della guancia, soppressi un sorriso per quei pensieri: «Sì, da mezz’ora, più o meno» risposi, notando che la sveglia segnava le 21.37.
«E come stai?»
Inspirai profondamente, chiudendo gli occhi per qualche secondo: ero vagamente stordita da quell’inaspettato interesse – non che Zayn non l’avesse mai dimostrato, ma era sempre una sorpresa – e percepivo ancora un velo di tristezza per la partenza di Brian. Quando espirai l’aria con uno sbuffo, lui non mi diede il tempo di parlare.
«Hm, senti, passo a prendere un film e poi ti raggiungo, ok?» propose, con il suo tono di voce profondo e leggermente strascicato.
Io corrugai la fronte, spiazzata, ma non potevo ignorare la voglia di acconsentire a quell’improvviso programma: magari sarei riuscita a tirarmi un po’ su di morale, dato che da sola sarei di sicuro finita a mangiare gelato in cucina, rimuginando su quella giornata.
«Va bene» sussurrai soltanto.
«Allora a tra poco» mi salutò lui, facendomi pensare che stesse sorridendo.
«Sì, però… Zayn, niente horror o cose del genere: una commedia andrà più che bene» lo informai, ridacchiando.
«Agli ordini – rispose, quasi prendendomi in giro. – E tu prepara i popcorn» aggiunse subito dopo, prima di terminare la chiamata.


 



ANGOLO AUTRICE aka I'M BACK BITCHES
 
Sono tornaaaaaaaaaata fjsdkal
Ragazze, non avete idea di quanto abbiano fatto schifo le mie vacanze,
di quanto avessi voglia di aggiornare e di quanto mi siate mancate hahah
E lo so, che questo capitolo poteva venire molto meglio (i’m sorry), ma spero che non faccia poi tanto schifo!
La parte un po’ più importante è quella con Louis: mi dispiace avervi lasciate con il fiato sospeso
con lo scorso capitolo ahahah E comunque ora sarete un po’ più confuse, o forse no?
Louis sembra davvero complicato ai vostri occhi, ma in realtà è molto semplice e spero davvero
che imparerete ad apprezzarlo, dato che per ora non è molto amato hahaha
La cena con i genitori di Vicki, l’ho inserita perché almeno si chiariva la situazione familiare:
loro sono molto apprensivi ed esigenti, i classici genitori che pretendono che i figli seguano
le proprie orme e bla bla bla… Poi vabbè, c’è la partenza di Brian (ho notato che alcune di voi
sono spaventate dal suo lavoro in Marina haha Giuro che non morirà nessuno!)
E alla fine ricompare Zayn: nel prossimo capitolo ci sarà Vayn all the way per la felicità
di molte di voi (Y) Anche se forse non quello che vorreste davvero (:
Detto questo, mi scuso per la velocità di questo spazio autrice, e vi ringrazio tantissimo per tutto!
Siete sempre qui a sostenermi e io vi amo, sul serio fjdsalj
 
Ah, mi rende felicissima sapere che leggere di Kathleen vi emoziona ancora così tanto!
Significa moltissimo per me e forse - parlando in grande - lo scopo di questa storia
non è solo quello di far accettare a Zayn quello che è successo, ma anche un po' a voi :)
Kathleen è una protagonista proprio come tutti gli altri personaggi, anche se non è presente fisicamente
e quindi ricomparirà tantissime altre volte, soprattutto in un'occasione!

Ora me ne vado sul serio ahha
Un bacione,
Veronica.

(questa volta niente gif, perchè volevo mettere questa foto. Immagino capiate perchè hahah)

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Tell me everything ***




Tell me everything

Capitolo 16


Vicki.
 
Avevo visto “17 again” più o meno un centinaio di volte, dalla sua prima uscita nei cinema. La mia cotta per Zac Efron era ormai parte integrante di me e mi portava ad avere la malsana voglia di sorbirmi qualsiasi film avesse lui come attore, o anche solo come comparsa. Proprio per questo non avevo protestato, quando Zayn era entrato in casa mia con quel dvd, nonostante la scelta non fosse delle più originali.
Lui mi aveva salutato con un sorriso un po’ insicuro e con una t-shirt nera che stonava leggermente con i pantaloni blu della tuta. Io, d’altronde, non avevo sprecato molto tempo a prepararmi: il mio pigiama era costituito semplicemente da un pantalone color panna e da una canottiera in cotone di un marrone scuro, quindi non mi ero nemmeno cambiata per “l’occasione”.
I popcorn erano finiti davvero velocemente, tra una risata soffocata e un commento sugli avvenimenti del film. Tra le prese in giro di Zayn sui miei occhi a cuoricino nel vedere il prestante Zac Efron, e le mie sopracciglia alzate in una finta offesa. Tra i suoi sguardi a volte troppo insistenti, che io cercavo di ignorare, e la tranquillità che ogni tanto mi invadeva.
Sembravamo davvero due vecchi amici, incontratisi semplicemente per stare insieme: c’era stato persino un momento in cui mi ero dimenticata della partenza di Brian e della preghiera di Louis, e mi ero ritrovata a sorridere per quella constatazione, anche se, subito dopo, avevo sgridato Zayn per aver appoggiato i piedi sul tavolino, macchiandolo con la suola delle scarpe.
E poi, dopo la fine del film, eravamo entrambi a pochi passi dalla porta di casa: lui faceva mente locale per capire se si stesse dimenticando qualcosa, io mi stringevo nelle spalle spostando sulla spalla destra la treccia disordinata che mi ero fatta durante il film.
«Grazie, Zayn» sussurrai all’improvviso, senza riuscire a contenere quelle due semplici parole. I miei occhi erano fissi sul suo viso pensieroso e non potevano negare l’evidenza: stare con quel ragazzo mi aveva fatto bene, mi aveva distratta e fatta divertire, facendomi dimenticare tutto il resto.
Lui si bloccò nei movimenti, ricambiando lo sguardo con un certo stupore. Poi si avvicinò di un passo e rimase in silenzio per un paio di interminabili secondi. «No, Vicki – esordì, deglutendo. – Grazie a te».
Schiusi le labbra per dire qualcosa, ragionando più del dovuto su quello che Zayn aveva appena detto, e trattenni il fiato quando lo vidi avvicinarsi: per un attimo ebbi paura che potesse verificarsi uno sbiadito replay dei baci rubati tra di noi, ma dovetti ricredermi quando le sue labbra si posarono sulla mia guancia, lasciandoci un leggero bacio.
Sorrisi, mentre una certa distanza tornava a dividerci, e lui non esitò a fare altrettanto, anche se il suo, di sorriso, era più smorzato, quasi sofferente.
Quando poi fece per uscire di casa, appoggiando la mano sulla maniglia della porta per aprirla, ebbi di nuovo qualche problema a trattenermi. «Sei diverso» ammisi, assottigliando gli occhi nell’osservarlo.
«Diverso?» ripeté lui, voltandosi verso di me con le sopracciglia aggrottate.
Annuii. «Rispetto a quando ti ho conosciuto, sei diverso» ripetei, sperando di essere abbastanza chiara. In realtà non avrei saputo spiegare nei dettagli quella mia affermazione, ma era come se il significato fosse sottinteso e ben comprensibile.
Per qualche istante l’unico rumore fu il ticchettare delle lancette dell’orologio appeso alla parete. «È per questo che ti ho ringraziato» disse poi, mantenendo un’espressione seria che avrei voluto essere in grado di decifrare.
«Ma io... – borbottai, corrugando leggermente la fronte. – Io non sto facendo niente» confessai, seriamente confusa. Non capivo come potessi essergli d’aiuto, o meglio, non ne ero sicura.
Zayn si inumidì le labbra e continuò a fissarmi senza battere ciglio, mettendomi quasi in soggezione: vedendo che non sembrava intenzionato a rispondere qualcosa, provai a spiegare quello che mi passava nella testa. Avevo bisogno di parlare con lui, anche dopo quello che mi aveva detto Abbie quello stesso pomeriggio.
«Hai detto che ti faccio provare qualcosa – cominciai, accigliandomi a quell’ultima parola. – Che vuoi che io ti stia vicina, che provi a farti innamorare di me, in qualche modo. Ma non sono brava in questo, alla fine, e mi chiedo se… Sei sicuro che sia il modo giusto? Rimpiazzare Kathleen così forzatamente?»
“Perché è evidente che tu non sia pronto” avrei voluto aggiungere, perché era quella la mia impressione: ogni volta che si avvicinava a me c’era qualcosa, nel suo viso, che mi suggeriva che si stesse sforzando per farlo. Ogni volta che mi guardava, sembrava soffrire. Ogni volta che si lasciava andare ad una risata, si tratteneva subito dopo, a volte in modo evidente, altre impercettibilmente.
E sì, avrei voluto aggiungere quelle poche parole, ma lo sguardo di Zayn cambiò in un attimo e mi sconvolse.
«Io non la sto rimpiazzando – disse, serrando la mascella e i pugni. Era rabbia, quella. – Non potrei mai farlo».
Mi morsi le labbra, cercando un modo per affrontare al meglio la tensione che si era formata così improvvisamente: non volevo che Zayn tornasse ad essere scontroso come agli inizi, ma la sua espressione prediceva il contrario, quindi dovevo scegliere con cura cosa dire. Persino l’intonazione giusta.
Mi schiarii la voce e per un attimo mi guardai intorno, respirando profondamente. «Invece è proprio quello che sta succedendo – continuai, osservando ogni particolare del suo viso per prevedere una sua possibile reazione. – Mi accorgo di come mi guardi, di come ti comporti con me, e c’è qualcosa che non va, Zayn. Forse… Forse non sei pronto e stiamo solo sbagliando tutto. Credo che dovresti…»
«Cosa? Cosa dovrei fare?» sbottò, gesticolando con la mano sinistra. I suoi occhi mi scrutavano con rancore, e io ne ero quasi intimorita. Il fatto è che dovevo continuare quella conversazione, qualsiasi cosa comportasse, perché aiutare una persona non significava semplicemente farle fare di testa sua.
«Dovresti prima stare bene con te stesso» sussurrai, cercando di mantenere un tono deciso che potesse essere in qualche modo autoritario.
«E tu cosa ne sai, di cosa è meglio per me? – quasi urlò, avvicinandosi ancora un po’ a me e sovrastandomi in altezza. Feci un passo indietro, con gli occhi spalancati che non avrebbero voluto avere una scena del genere davanti. – Tu non sai un cazzo di cosa significhi essere me, provare quello che provo io!»
«Zayn, calmati… - provai, alzando le mani per metterle sul suo petto. All’inizio della nostra conoscenza gli avrei gridato contro in tutta risposta, lamentandomi dei suoi modi poco cortesi, ma dopo tutto quel tempo, dopo averlo conosciuto meglio, vedevo in lui solo tanto dolore. – Non ho detto questo, sto solo cercando di aiutarti, di fare la cose giusta».
«La cosa giusta? – ripeté lui, corrugando la fronte, prima di alzare di nuovo la voce. – Ma non capisci? Non c’è una cosa giusta da fare! Non c’è una soluzione a tutto questo, se no l’avrei già seguita e ‘fanculo, a quest’ora starei bene! Non c’è una soluzione, perché sono costretto a convivere con il suo ricordo, con il rimorso di non essere stato con lei fino all’ultimo per colpa di quelle prove di merda! Con il senso di colpa per non averla salutata! Non c’è una fottuta soluzione, e tu non ne sai un cazzo!»
Con il respiro accelerato, persi la capacità di ribattere, mentre Zayn si voltava velocemente per uscire di casa facendo sbattere la porta: schiusi le labbra e feci un passo avanti, ma sapevo che rincorrerlo non avrebbe fatto bene a nessuno dei due.
Avevo appena scoperto che il suo cuore conservava molte più emozioni, per quanto negative fossero, di quelle che lui avrebbe potuto imparare a sopportare: ed Abbie me l’aveva detto. Mi aveva avvertita su quale fosse il reale stato d’animo del suo amico, riponendo in me le sue speranze: dovevo aiutarlo, questo ormai era chiaro, ed ero davvero intenzionata a farlo, anche perché all’inizio ero mossa solo da un senso di pietà, di compassione, mentre ora sentivo qualcosa di diverso, una specie di affetto verso Zayn, un affetto che mi vincolava.
Il problema era che non avevo idea di come fare, di cosa avrei dovuto correggere e provare. L’unica cosa della quale ero certa, era che quel ragazzo, prima di legarsi a qualcuno, aveva bisogno di accettare fino in fondo la scomparsa di Kathleen, di sradicare da se stesso il senso di colpa in modo da essere libero.
 

Niall.
 
Sospirai e varcai la porta-finestra che dava sul piccolo balcone del mio appartamento, inspirando aria fresca che non sapesse di fumo o cibo. Il cielo di Londra non era come avrei voluto vederlo, come sempre: reso troppo chiaro dalle luci della città, nascondeva gelosamente anche la stella più luminosa.
«Avevi bisogno di rinfrescarti?» chiese qualcuno alla mia destra, facendomi sobbalzare.
Dalla penombra si avvicinò la figura di Abbie, mentre io mi rassicuravo e appoggiavo gli avambracci al muretto che delimitava il balcone. Cercai di ignorare i suoi occhi tanto chiari, concentrandomi sul modesto panorama di tetti e strade che si estendeva davanti a me. Annuii semplicemente e seguii i suoi movimenti senza guardarla.
La sua vicinanza era già abbastanza, per me.
«Anche io» disse poi lei, inspirando a pieni polmoni.
Era così strano averla lì, a qualche centimetro da me, e non poterla toccare come una volta. Ogni volta che ci pensavo, dovevo fare i conti con una stretta allo stomaco, che, fortunatamente, sembrava affievolirsi impercettibilmente di giorno in giorno.
«Come mai non sei di là con gli altri?» chiesi, cercando di distrarmi da quei pensieri. Dentro casa, Liam stava bevendo qualcosa immerso nelle chiacchiere con i ragazzi della band; Louis ed Eleanor erano appena tornati in salotto – non volevo nemmeno sapere quale stanza avessero inaugurato – e si erano messi a parlare del più e del meno con Harry ed Alice, abbracciati sul divano. Zayn era da Vicki e a me girava la testa.
«Non so nemmeno perché io sia venuta, stasera» fu la sua risposta, mentre si voltava per appoggiarsi al muretto con la schiena e poter guardare all’interno. Io la imitaii dopo qualche secondo e seguii il suo sguardo fino ad Harry, sospirando subito.
«Se avessi saputo che sarebbe venuto con lei, te l’avrei detto» le assicurai, immaginando i suoi pensieri in quel momento. Osservai il suo viso e il modo in cui le sue labbra si incurvarono in un sorriso incredulo, tutte cose che conoscevo a memoria.
«Non dire cazzate, Niall» mi riprese, scuotendo la testa in modo divertito.
Corrugai leggermente la fronte e sorrisi a labbra chiuse. «È vero.»
Abbie non ribatté nulla, limitandosi a sistemarsi i capelli neri sulle spalle: la sua pelle sembrava ancora più chiara, illuminata dalle luci artificiali della città e da quella naturale della luna piena di quella notte. Avrei voluto accarezzarla.
Dopo qualche minuto, il silenzio era diventato insopportabile. «Il tuo amico è un tale coglione» esordì lei a denti stretti, quasi leggendomi nel pensiero.
Io tossicchiai e «sono un po’ di parte, non credi?» chiesi retoricamente, tornando a girarmi verso la città. Lo sguardo ora era fisso sulle strade sotto i miei piedi.
«Sì, so che è un tuo amico e…»
«No, Abbie. Sono di parte nell’altro senso» la corressi, ridacchiando amaramente.
Il silenzio che seguì le mie parole mi fece capire che Abbie si stava mordendo le labbra come al suo solito, probabilmente maledicendo se stessa per quel piccolo errore.
«Comunque sì, è un coglione» continuai, sperando di metterla un po’ di più a suo agio. Ed era anche da stupidi, perché dopo tutto quel tempo mi ostinavo a porre lei al centro delle mie priorità.
«Mi dispiace, Niall – sussurrò, avvicinandosi a me  e imitando la mia posizione. Chiusi gli occhi per un paio di secondi, poi mi voltai a guardarla, sforzandomi di tener testa alle sue iridi, addirittura più chiare delle mie. – Per aver fatto quello stupido commento e anche per tutto il resto».
Sapevo che era sincera, lo sapevo benissimo. La nostra storia non era mai stata una menzogna, per quanti problemi ci fossero stati: certo, Harry era stato parte di questi, agli inizi, ma io ed Abbie ce l’eravamo sempre cavata, rimanendo uniti. E anche dopo la morte di Kathleen, io avevo continuato a fare di lei il mio centro, cercando in tutto i modi di starle vicino e di aiutarla: avevo dovuto imparare, però, che non tutto è possibile, e che, evidentemente, non spettava a me caricarmi di quei compiti. Abbie non trovava rifugio nella nostra storia: per quanto si sforzasse, per quanto volesse che fosse così, si stava allontanando sempre di più.
Piangeva spesso, all’epoca: la maggior parte delle volte per la morte della sua amica, ma l’1% delle volte per me. Non riusciva a capire cosa ci fosse di sbagliato, perché non riuscisse a stare meglio con un mio abbraccio, perché non fosse quello ciò di cui aveva bisogno: lo voleva disperatamente, ma, semplicemente, non era così.
Per questo motivo io non ce l’avevo con lei. Perché sapevo quanto ci avessimo provato, quanto l’avessimo voluto, e perché sapevo anche che non era stato abbastanza.
Il suo riavvicinamento ad Harry non mi aveva fatto bene, ovvio, ma nemmeno per un secondo io avevo dubitato della fedeltà di Abbie: erano due cose diverse, per quanto simili, e io non potevo farci niente.
«Lo so – risposi, annuendo lentamente. – Lo so».
Lei accennò un sorriso esitante, mentre la forma degli occhi si adattava all’espressione nostalgica del suo viso: avrei potuto dirle che pensavo di amarla ancora, ma non sarebbe servito a niente, perché Harry era a pochi metri da noi con la sua ragazza.
Sospirai e distolsi lo sguardo, godendomi il leggero venticello che ci aveva appena investiti: per fortuna, per un attimo, allontanò il suo profumo da me, facendomi dimenticare anche dei suoi shorts scuri e della maglietta bianca che le lasciava scoperte le clavicole sporgenti.
Fui costretto a riscuotermi, però, obbligandomi ad allontanarmi dal muretto per rientrare in casa, prima che dalla mia bocca potessero uscire parole delle quali mi sarei pentito: lei non mi fermò, limitandosi a guardare i miei movimenti, e io posai la mano sulla maniglia della porta-finestra, aprendola.
Prima di entrare in casa, però, mi voltai un’ultima volta verso Abbie, deglutendo a vuoto. «È davvero un coglione, perché una volta guardavi me, in quel modo, e lui non sa quanto sia fortunato».
 

Vicki.
 
Erano le 4.33 del mattino: la mia stanza era immersa nel buio più totale e io sentivo Teddy sognare e piagnucolare fuori dalla mia finestra, accompagnando l’unico altro rumore che mi faceva compagnia, ovvero quello dei miei respiri lenti ma irrequieti.
Afferrai il cellulare dal comodino e sbloccai lo schermo, chiudendo gli occhi per quella luce improvvisa e fastidiosa.
Dovevo chiamarlo. Era quella la conclusione ottenuta da un paio d’ore di rimuginazioni e da una sana scarica di coraggio.
Il telefono squillò a lungo, per ben tre volte, facendomi quasi perdere le speranze. Alla fine, infatti, mi stupii nel sentire la sua voce assonnata. «Pronto?»
«Zayn» mormorai, girandomi a pancia in su e fissando il soffitto. Il labbro inferiore stretto tra i denti e le dita della mano sinistra incrociate.
«Vicki? Che…» borbottò dopo qualche secondo, probabilmente ancora un po’ stordito dal sonno, mentre io potevo distinguere il fruscio delle lenzuola.
«Zayn, raccontami tutto» lo interruppi.
«Cos-»
«Io voglio aiutarti, lo voglio sul serio. Ma ho bisogno che tu mi racconti tutto: quello che è successo, quello che senti… Tutto, Zayn.»
Passò qualche istante, prima che lui parlasse, istante in cui io avevo sperato che non mi riattaccasse il telefono in faccia, che capisse quale fosse il mio vero intento, che stessi facendo davvero la cosa giusta per lui e anche per me.
Quando la sua voce tornò a spezzare il silenzio della mia casa, bassa ed esitante, io chiusi gli occhi e respirai profondamente.
«Sento un vuoto enorme. Ogni giorno, ogni momento, io lo sento e fa male, Vicki. Fa male più di qualsiasi altra cosa, perché non so riempirlo. E sento il dolore. Un dolore così forte da farmi chiedere se potrò sopportarlo ancora per molto. Ma sento anche la rabbia. Rabbia per Kathleen, che mi ha lasciato. Rabbia per me, che ne parlo come se fosse colpa sua e che la sto deludendo.
Sai cosa mi diceva sempre? “Non voglio che tu stia male nel pensare a me, quando non ci sarò più: voglio che tu sia felice per entrambi”. E guardami adesso… Le avevo promesso che l’avrei fatto, che ci sarei riuscito, e ho fallito, perché ogni giorno è una cazzo di tortura. E l’ho uccisa di nuovo, capisci? Io…
L’ultimo giorno sono uscito di mattina per andare alle prove: sai che stavo per andarmene senza salutarla? Dormiva e io non volevo svegliarla, perché respirava meglio delle altre volte e volevo farla riposare: ma è stata lei a fermarmi, a chiedermi un bacio. E poi, nel pomeriggio, Abbie mi ha chiamato e io sono corso all’ospedale, e Kathleen era su una barella, Vicki. Era su una barella e mi guardava, sapendo che sarebbe stata l’ultima volta: lo rivedo sempre, quello sguardo, e non hai idea di come mi faccia sentire.
E mi chiedo, perché non mi sono accorto che qualcosa non andava, quella mattina? Perché non sono rimasto con lei? Perché l’ho lasciata sola? Perché non ho potuto salutarla? Perché non mi hanno dato il tempo di dirle qualcosa, prima di portarla via su quella fottuta barella?
Me lo chiedo ogni giorno ed è sempre peggio: mi sento una merda, una vera e propria merda, una persona orribile. E sai anche perché? Perché quando mi hanno detto che era morta, c’è stato un momento, un piccolissimo istante, in cui l’ho odiata: l’ho odiata con tutto me stesso perché se ne era andata, lasciandomi solo, perché stavo soffrendo come mai in vita mia ed era colpa sua. Che razza di persona penserebbe mai qualcosa del genere? E lo so, so che è stato solo un secondo, ma c’è stato e io mi sento così in colpa che…
Le avevo promesso tante cose: le avevo promesso che senza di lei sarei stato bene, che avrei fatto di tutto per andare avanti con la mia vita e che avrei trovato un modo per vivere anche per lei, di renderla fiera di me. Invece non ho fatto niente di tutto questo, assolutamente niente. Il fatto è che, quando le ho promesso quelle cose, lei era con me, era viva e lo ero anche io: adesso, invece, Kathleen non c’è e il vuoto che sento è tutto quello che rimane, insieme alla sua mancanza.
Una volta mi ha detto che ero io a tenerla in vita, ma te lo giuro, Vicki, ti giuro che era il contrario: infatti lei è scomparsa, e io sono qui, ma non c’è  lei a farmi sentire vivo. E mi manca terribilmente, perché non ho mai amato una persona come ho amato lei: non amerò mai nessuno, come ho amato lei, capisci?
È tutto uno schifo, Vicki. Fa tutto troppo schifo e io sono stanco.»
Mi asciugai una guancia, bagnata da qualche lacrima, e lasciai a Zayn il tempo per smettere di piangere.
 

 

 
ANGOLO AUTRICE

Heeeeello everybody fdjsakl Capitolo in anticipo, questa volta! Da quanto tempo non succedeva hahha
Coooomunque, ci sono un po’ di cose da dire, immagino!
Per prima cosa, premetto che non era così che me l’ero immaginato, questo capitolo!
La prima parte sì, poi tutto il resto no: è uscito dal nulla e mi ha fatto venire una crisi nostalgica haha
Ma andiamo per ordine: Zayn e Vicki si avvicinano con una semplice serata
in compagnia (“17 again” è il primo film che mi è venuto in mente, scusate hahha), tanto
che alla fine lei si sente in dovere di ringraziarlo. Il problema è che, da lì, nasce una discussione:
Abbie ha messo la pulce nell’orecchio a Vicki, riguardo ciò che è meglio per lui, e questo
si somma alle sensazioni di Victoria, che comunque non è stupida e si accorge
dei comportamenti di Zayn. Lui sbotta e tira fuori una piccola parte di ciò che sente, andandosene via.
Poi ho intervallato con il POV Niall, per alleggerire un po’ gli argomenti, e si capisce un po’
di più la situazione tra lui ed Abbie :) Come vedete non c’è rancore tra i due, e la loro rottura
è stata “forzata”, per quanto ci tenessero: sono dell’idea che certe storie siano semplicemente
destinate a finire, e questo è stato il caso di loro due! questo per dire che Abbie non è
una stronza approfittatrice, ma che ha davvero amato Niall!
E infine, Vicki è ancora sveglia alle 4 e mezza di notte (Teddy è il suo cane, per chi non lo ricordasse)
e decide di chiamare Zayn: ho scelto la telefonata in piena notte, perché certe cose
è meglio affrontarle a quell’ora e tramite un telefono, secondo me. Non tutti sono pieni di coraggio,
soprattutto se c’è da parlare di certi argomenti.
Zayn, alla fine, scoppia: dà retta a Vicki e butta fuori tutto. Ora, riguardo a questo, premetto
che ho pianto come una deficiente ahhaha Mi sto facendo del male fisico a scrivere questa storia hahah
Ma comunque, la parte in cui Zayn parla non l’ho nemmeno corretta: è uscita così, proprio
come secondo me uscirebbe ad una persona ferita. Con frasi a volte sconnesse e con le idee
che saltano da una all’altra senza un filo logico: un accavallarsi di pensieri confusi e non, che alla fine
riflette bene ciò che lui ha dentro. Infatti non ho nemmeno intervallato le sue parole
a periodi narrativi perché credo che si sarebbe rotta “l’atmosfera”: solo alla fine si capisce che Zayn
stava piangendo. Spero comunque che la mia scelta vi sia piaciuta (Y)
Ah, non mi va di commentare il suo stato d’animo punto per punto, perché mi piacerebbe
che foste voi a farlo, a darmi un’impressione su quello che lui pensa dopo tutto quel tempo!
Vi avevo detto che il suo personaggio nascondeva molto (: L’altro grosso problema è la bugia che
ha detto a Vicki! eheheh!
Comunque ora devo andare, prima che questo spazio autrice si trasformi in un altro capitolo hahah
 
Grazie mille per tutto, come sempre! Siete fin troppo gentili e affettuose con me :))
Un bacione,
Veronica!
 
Ah, questa è la mia nuova storia! Un’orginale che si intitola “Morning Bar”: passate a dare un’occhiata se vi interessa!

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** You did it on purpose ***




You did it on purpose

Capitolo 17

Vicki.
 
Clarissa raschiò la coppetta di gelato con il cucchiaino in plastica verde, recuperando gli ultimi rimasugli con gusto ed impazienza. Il sole coperto per metà da nuvole bianche le rischiarava i capelli bruni, facendo risaltare le punte bionde che le sfioravano il seno: gli occhi neri e marcati dall’eye-liner blu erano socchiusi e concentrati, mentre anche le labbra sottili si contraevano in riflesso.
La panchina sulla quale eravamo sedute da più di un’ora, ormai, non mi dava più fastidio con le sue assi in ferro lievemente arrugginito. Il mio gelato era finito già da un po’, e ne ero sollevata, perché quel giorno l’aria era fin troppo fresca, dato l’avvicinarsi tempestoso di settembre.
«Comunque non ti ho ancora perdonata per quella volta che mi hai dato buca» esordì lei all’improvviso, con la sua solita “r” moscia, mandando giù l’ultimo boccone di gelato e pulendosi la bocca con il fazzoletto stropicciato, rubato al bar.
Corrugai la fronte, cercando di ricordare quando fosse successo, ma poi mi venne in mente: il giorno in cui ero andata a casa di Zayn, quello in cui avevo accettato di aiutarlo, avrei dovuto passarlo con lei e Stephanie, in teoria.
«Ehm, sì, lo so. Mi dispiace» improvvisai, spostando lo sguardo sul piccolo parco giochi davanti a noi. Clarissa non era a conoscenza di tutto quello che mi stava succedendo, nonostante fosse una mia cara amica: non che volessi tenerglielo nascosto a tutti i costi, ma semplicemente non c’era stata l’occasione di raccontarle gli ultimi avvenimenti.
«Guarda che so tutto» disse lei di rimando, facendomi spalancare gli occhi in un gesto di stupore.
Sbattei più volte le palpebre e «tutto cosa?» chiesi, fingendomi ingenua e innocente.
Lei alzò un sopracciglio e si sporse all’indietro per buttare la coppetta di gelato nel cestino, prima di tornare a guardarmi in modo divertito. «Non tutti sono allergici alle riviste di gossip e ad internet come te. Credi che non abbia visto le tue foto con Louis Tomlinson e poi con Zayn Malik? No dico, Louis Tomlinson e Zayn Malik
Deglutii a vuoto e ripresi a respirare: finivo sempre per dimenticare quel piccolo particolare. Quei ragazzi facevano parte degli One Direction, erano famosi – esageratamente famosi - e non c’era possibilità di scappare all’occhio dei paparazzi o di qualsiasi fan. Tanto meno si poteva passare inosservati a Clarissa Senkinton, appassionata di musica e spettacolo.
«Cosa stai combinando?» continuò, sfiorandomi la punta del naso con l’indice smaltato di un rosso fuoco.
«Niente – risposi prontamente, sorridendo in modo quasi nervoso. – Sono uscita con Louis alcune volte, ma poi lui mi ha scaricata senza nemmeno una spiegazione…»
«Ma non è fidanzato?» mi interruppe, corrucciando la fronte. La caratteristica principale di Clarissa era il senso della giustizia: era sempre pronta a fare ciò che era giusto, a rifuggire qualsiasi tentazione che potesse essere scomoda a lei o agli altri. Di certo sapere della mia pseudo-relazione con Louis, un ragazzo impegnato, le aveva fatto storcere il naso.
Roteai gli occhi e li puntai sulle mie mani. «Sì, infatti – dissi meccanicamente, cercando di ignorare il moto di stizza che mi aveva appena percorsa. – Anche se, quando uscivamo, lui ed Eleanor non stavano insieme. E con Zayn è solo… Amicizia, direi».
«Diresti?» ripeté con aria scettica e inclinando il capo da un lato. Era le seconda volta nel giro di nemmeno una settimana che mi ritrovavo a dover giustificare il nostro rapporto. Non che non fossi sicura della nostra amicizia, perché da parte mia non c’era nulla di più, ma era davvero troppo complicato definire ciò che ci univa. Insomma, nemmeno io lo capivo a fondo, figuriamoci se sarebbe stato semplice spiegarlo agli altri.
Boccheggiai, in cerca di qualcosa di sensato da dire, ma proprio in quel momento mi trovai a ringraziare la suoneria del mio Nokia, che vibrava nella borsa. Sorrisi a Clarissa facendole la linguaccia come una bambina dispettosa, mentre andavo alla ricerca del cellulare, e, quando lessi il nome sul display, «Parli del diavolo…» dissi, lasciando la frase in sospeso.
Clarissa mi guardò tra l’emozionato e lo stupito, ma non protestò quando aprii il messaggio, incuriosita.
 
1 nuovo messaggio: ore 13.12
Da: Zayn.
“Tomphson, sì o no?”
 
Rimasi qualche secondo con lo sguardo fisso sullo schermo, chiedendomi cosa stesse blaterando, mentre Clarissa continuava a chiedermi cosa ci fosse scritto.
Erano passati due o tre giorni da quella telefonata nel mezzo della notte, dalla sensazione opprimente che avevo provato nel sentire la voce di Zayn rotta da un pianto sommesso e trattenuto, dal silenzio che aveva preceduto le prime parole dopo il suo sfogo tanto libero quanto inaspettato. Avevo dovuto sforzarmi parecchio per trovare le cose giuste da dire, nonostante avessi un’esperienza pari a zero in quell’ambito: tutto sembrava così scontato e banale da farmi sentire una vera stupida, eppure non mi veniva in mente nient’altro. E poi, ebbi un’idea, per quanto discutibile potesse essere: forse quel ragazzo aveva solo bisogno di ascoltare proprio quelle parole che nessuno gli rivolgeva più per paura di risultare banale, appunto.
“Zayn, non devi sentirti così.”
“Non posso farci niente.”
“Sì che puoi.”
“Se sai come, allora ti prego, insegnamelo.”
 
Messaggio invitato: ore 13.14
A: Zayn.
“Ehm, mi sono persa qualcosa?”
 
«Ok, ho capito» sbottò Clarissa, notando che non le avrei risposto perché ero troppo impegnata a sorridere divertita. Alzò le mani in segno di resa e si alzò con la scusa di chiamare Charlie, il suo ragazzo.
Ero impaziente di sapere di cosa stesse parlando Zayn e avevo anche una certa voglia di vederlo: da quella sera il nostro rapporto era leggermente cambiato. Non sapevo in che modo, esattamente, ma era così, potevo sentirlo. Sembrava che avessimo abbattuto quel muro che ci divideva, rendendo tutto più vero, più sincero, e quella situazione mi piaceva parecchio. Mi era piaciuto molto anche l’abbraccio prolungato e silenzioso con il quale ci eravamo salutati il giorno dopo, senza accennare esplicitamente all’accaduto, ma sottintendendolo con uno sguardo.
“Ci proverò. Ma tu devi sforzarti e… Aspetta, aspetta, lasciami finire. So che lo stai già facendo, che lo hai fatto fino ad ora, ma devi sforzarti ancora di più.”
“Ho paura di non averne le forze. Non più.”
“Zayn, ti sei solo lasciato andare a sentimenti negativi: è questo che ti blocca, secondo me. Ti senti in colpa per tutto e in qualche modo è come se ti stessi punendo da solo, ma non devi. Hai capito? Non hai nessuna colpa, perché sono sicura che tu abbia fatto tutto il possibile per Kathleen, e anche di più. E se proprio vuoi pensare di averne, cerca di riscattarti: fai quello che lei avrebbe voluto per te, sii felice.”
“Voglio esserlo, lo voglio davvero.”
“E
puoi esserlo.”
 
1 nuovo messaggio: ore 13.17
Da: Zayn.
“Non fare la guastafeste: sì o no?”
 
Sbuffai, mordendomi il labbro e maledicendolo mentalmente, mentre digitavo velocemente la risposta.
“Ah, Zayn?”
“Hm?”

“Tu non l’hai uccisa di nuovo.”
 
Messaggio inviato: ore 13.18
A: Zayn.
“E va bene! Sì! Ora puoi dirmi cosa ho appena accettato?”
 
“Hai sentito? Non l’hai uccisa.”
“Ho sentito.”
“Fidati di lei: ti ha detto che eri tu a tenerla in vita.”
“Ho reso la sua morte inutile, perché non sto vivendo la vita che avrei voluto darle, o quella che lei sperava per me. Ho deluso le sue aspettative, quindi sì, l’ho uccisa di nuovo.”
“Zayn, smettila. Sei ancora in tempo per rimediare a qualsiasi cosa tu pensi di aver sbagliato, ma devi smettere di buttarti giù. Io non ci sono mai passata, ma sono sicura che sia difficile per tutti, andare avanti dopo la scomparsa di una persona cara, quindi non devi pensare che sia così dura solo perché sei tu o perché te lo meriti: lo è perché non può essere altrimenti, perché tu la amavi e questa ne è l’ennesima dimostrazione. E credo che lei non ti incolperebbe mai di niente.”
“Non so nemmeno da dove cominciare.”
“Hai già iniziato e nemmeno te ne sei reso conto.”
 
 
1 nuovo messaggio: ore 13.20
Da: Zayn.
“Verrai con me all’evento per la promozione del nuovo album, tra due giorni! Tanto ci sarà anche la tua amica Stephanie, dato che hai lasciato a lei l’organizzazione.”
 
Sbarrai gli occhi e sospirai, senza sapere se essere felice per quella specie di invito o un po’ agitata: avevo sempre partecipato a feste del genere lavorando nel catering, e non sapevo proprio come sarebbe stato avere il ruolo opposto. Senza contare che non avevo il vestito adatto, che non mi piacevano i riflettori puntati addosso e che ci sarebbe stato Louis. Probabilmente – sicuramente - con Eleanor.
Un nodo alla gola mi rese difficile respirare per qualche secondo, a quel pensiero, e arrivai anche a pensare di declinare l’invito. Eppure c’erano alcuni punti a sfavore della mia tentazione: primo, dovevo smetterla, di farmi influenzare da Louis in qualsiasi cosa – mi ero persino pentita di aver rinunciato all’incarico per quell’evento - . Secondo, volevo davvero accompagnare Zayn, dimostrargli la mia vicinanza.
 
“Grazie, Vicki.”
“Non ringraziarmi.”
“Era da tanto che non… Io ed Abbie è un po’ che non ne parliamo.”
“Devi farlo, se ne hai bisogno. Non tenerti tutto dentro, anche perché credo che lei possa capirti meglio di chiunque altro.”
“Anche tu non te la sei cavata affatto male. Mi ha fatto… bene, parlare con te.”
“Ne sono felice, davvero.”
“Scusa per la sfuriata di prima, comunque.”
“È tutto ok.”
“Già, è tutto ok.”
 
 
 
Sospirai e varcai la soglia della “Christian&Catering”, salutando con un semplice cenno del capo Allison, la segretaria che purtroppo non accennava a cambiare mestiere o almeno posto di lavoro. Lei mi ignorò, limitandosi ad alzare un sopracciglio fine, per poi tornare alle sue scartoffie.
Erano le due e mezza e Steph doveva essere in giro da qualche parte, dato che il suo turno sarebbe finito entro mezz’ora: di lei, però, non c’era traccia, quindi io mi diressi nel mio piccolo ufficio e mi abbandonai sulla sedia, ancora appesantita dal pranzo con Clarissa.
Non avevo molto da fare, in realtà, perché il mio unico incarico di quel periodo era quello di una festa a sorpresa per un tale che sarebbe tornato da un lungo viaggio in giro per il mondo. Per questo, persi un po’ di tempo al telefono e lasciai che i secondi scorressero fin troppo lentamente, mentre la noia iniziava a conquistarmi inesorabilmente.
Dopo circa venti minuti, mi decisi a fare qualcosa della mia vita, quindi recuperai dal cassetto alcune pratiche che dovevo fotocopiare e mi alzai dalla sedia, nonostante fosse più comoda ed invitante del solito. Lasciai uscire uno sbuffo d’aria dalle labbra per levare dal viso una ciocca di capelli e mi aggiustai la maglia larga che indossavo, con un manica fino al polso e l’altra che invece non esisteva, lasciandomi la spalla scoperta. I jeans mi si erano appiccicati alla pelle per il caldo all’interno dell’ufficio e avrei solo voluto buttarli.
Percorrendo il corridoio, sorrisi inconsapevolmente nel momento in cui riconobbi la voce tranquilla e professionale di Stephanie: potevo già immaginarla con i capelli in ordine e le labbra inclinate all’insù per pura cortesia, mentre intratteneva un qualche cliente.
I miei occhi stavano controllando che quelle pratiche fossero in ordine e che, soprattutto, ci fossero tutte, ma dovettero sbarrarsi quando mi decisi ad alzare lo sguardo: l’avevo fatto solo perché potevo sentire di essere vicina alla mia amica, alla fine del corridoio, ed ero quindi intenzionata a salutarla almeno con un cenno della mano, ma non avevo assolutamente idea che mi sarei trovata davanti il signor Davis, il manager degli One Direction che avevo incontrato anche alla riunione all’hotel “Jupiter”, e Louis, al suo fianco.
Mi bloccai completamente. Le mani che stritolavano i fogli, le labbra socchiuse che intrappolavano il respiro fermatosi nella mia gola e il cuore che scalpitava. Non era affatto contento di quella piccola sorpresa. Per niente.
In breve tempo i loro sguardi si posarono su di me: Davis ci mise un po’ a riconoscermi, salutandomi con un semplice «Signorina Tomphson, giusto? È un piacere rivederla». Stephanie inspirò profondamente, probabilmente ipotizzando quale fosse il mio stato d’animo, mentre mi rivolgeva un’occhiata di scuse silenziose. E Louis… Be’, non mi soffermai su di lui, in uno studiato piano per evitare che le mie gambe cedessero, ma riuscii ad intravedere i suoi occhi vivaci e inesorabilmente fissi su di me, le labbra increspate in un sorriso accennato e i capelli schiacciati da un cappello di lana, nonostante il freddo non fosse ancora tra noi.
Deglutii e salutai tutti e nessun in particolare con un veloce «Salve», che in realtà si adattava solamente al signor Davis e al suo taglio di capelli serio e professionale, dato che la ragazza era la mia migliore amica e Louis era quello che era. Abbassai di nuovo gli occhi sulle scartoffie ormai tutte stropicciate, riprendendo a camminare verso la fotocopiatrice e maledicendo il destino, o Dio, o chiunque altro ce l’avesse con me.
«Ma perché? – sbottai tra me e me, appoggiandomi per un secondo al muro accanto all’aggeggio che era stata la mia meta e anche l’inaspettato e scomodo pretesto per quell’incontro. Avevo girato l’angolo, quindi ero lontana da sguardi indiscreti, e potevo alzare gli occhi al cielo, sbuffare, puntare i piedi a terra e passarmi una mano tra i capelli nervosamente senza che nessuno mi vedesse. – Cos’ho fatto di male?» dissi ancora, domandandomi perché dovessi incontrare quel ragazzo sempre nei momenti meno opportuni, sempre all’improvviso.
Sospirai e mi imposi di ricompormi in onore del mio orgoglio femminile. Strinsi le mie labbra tra i denti e iniziare a fare quelle fotocopie, fingendo che Louis non fosse a pochi metri da me e che io non riuscissi a riconoscere la sua voce acuta tra le altre: era evidente che fosse lì per l’evento promozionale, ma questo non implicava che dovesse essere anche nella mia testa – ecco, meglio non mettere in mezzo altri organi -.
O che dovesse essere a pochi centimetri da me.
Perché, quando sentii qualcuno schiarirsi la voce, dopo circa un minuto, è proprio lì che lo vidi: appoggiato all’angolo della parete, con le braccia nude e tatuate incrociate sul petto e la canottiera bordeaux che lasciava parte del suo petto in bella mostra. Di nuovo, mi immobilizzai, deglutendo a vuoto la sorpresa e la voglia di scappare.
«Salve» esclamò lui senza troppa esitazione, continuando a sorridere in modo beffardo. Mi stava prendendo in giro, con le labbra sottili che si muovevano lentamente e la barba più lunga del solito che gli dava un aspetto più maturo.
Io distolsi lo sguardo e mi morsi l’interno della guancia, continuando imperterrita a fare il mio dovere. Giusto, le fotocopie. Quante ne dovevo fare?
«Che c’è, ora che ti ho salutato non va bene nemmeno questo?» protestai con aria tranquilla, nonostante non sapessi dove sbattere la testa. Il ricordo del nostro incontro sul pianerottolo di casa di Liam, del suo respiro sul mio collo, era ancora vivido in me, e mi distraeva.
«Credo di potermi accontentare» rispose lui, questa volta in maniera differente. Non sembrava presuntuoso, ma… Sollevato? Privo di qualsiasi malizia? Non lo sapevo nemmeno io, realtà. Era solo diverso.
Annuii semplicemente, ostinandomi a non guardarlo, e passò qualche interminabile secondo prima che lui parlasse di nuovo. «Zayn mi ha detto che tuo fratello è partito di nuovo – disse seriamente, obbligandomi ad alzare lo sguardo sul muro di fronte a me e a mettere da parte qualsiasi altra sensazione che non fosse il dispiacere per quel ricordo. – Stai bene?»
Louis lo sapeva. Sapeva cosa significasse Brian per me, perché io gliene avevo parlato: nella sua macchina, una sera, eravamo sotto casa mia da almeno mezz’ora e nessuno dei due sembrava voler interrompere quel momento, allora avevamo continuato a raccontarci di noi, delle nostre vite. E lui sapeva perfettamente come mi sentivo, quindi non poteva chiedermi se stessi bene con quel tono di voce, pacato e in apprensione: non poteva, perché non riuscivo a respirare.
Si stava preoccupando per me, giusto? Con tutto quello che avrebbe potuto dirmi, con tutte le frecciatine che in altre occasione mi avrebbe rivolto, aveva tirato fuori l’unico argomento che mi avrebbe portata a vacillare. Mi aveva colta sul vivo e io non sapevo se essergli riconoscente per l’interesse – illudermi per il suo interesse – o spaventata.
«Passerà» risposi soltanto, tornando a concentrarmi sulla fotocopiatrice. Sarebbe passato come sempre, come ogni volta che Brian partiva.
Avevo voglia di abbracciare Louis. Di baciarlo. E stritolare la superficie grigia e dura della macchina davanti a me sembrava l’unico modo per resistere a quelle masochiste sensazioni.
«Presto» aggiunse lui, cogliendomi alla sprovvista. Per la prima volta mi girai a guardarlo, a studiarlo, con il respiro che si dimenava per diventare irregolare, mentre io cercavo in tutti i modi di evitarlo. Proprio in quel momento Louis continuò. «Passerà presto, vedrai» spiegò, inclinando le labbra in un sorriso che scopriva i denti bianchi e che rendeva ancora più sottili gli occhi di quell’azzurro fuori dal normale.
Per quanto quel ragazzo fosse incomprensibile per la maggior parte del tempo, avevo imparato ad interpretarlo, in certe occasioni: il tempo passato con lui non era mancato, anzi, e alcune cose non potevano passare inosservate alla mia attenzione, dovuta solo a quanto mi piacesse studiare ogni suo particolare. Per esempio, era impossibile pensare che lo sguardo che mi stava rivolgendo in quel momento fosse falso, ricco di malcelato divertimento infantile e beffardaggine, come in molte altre occasioni. Era impossibile non fidarsi di lui, non sentirsi… meglio.
Prima di lasciarmi andare alle sensazioni che si stavano intensificando sempre di più, dentro di me, mi riscossi. Dovevo ricordarmi che non potevo lasciarmi abbindolare dai suoi comportamenti contraddittori, e che lui era fidanzato, che mi aveva piantata in asso e che aveva spesso giocato a fare lo sbruffone. Avevo bisogno di mantenere le distanze.
«Allora – esordii infine, abbassando lo sguardo sullo schermo della fotocopiatrice e schiacciando qualche tasto a caso. – Tra due giorni c’è la festa promozionale».
Brava Victoria, cambia argomento, mettiti in salvo. E ricordati che non puoi baciarlo.
«Già – rispose lui prontamente, mentre io potevo vederlo muoversi con la coda dell’occhio. Infilò le mani in tasca. – Davis voleva controllare che fosse tutto pronto».
«Davis?» mi lasciai sfuggire, dando vita a quella inconscia domanda che mi aveva appena distratta. Tornai a guardarlo senza una vera intenzione e lui si inumidì le labbra, trattenendo un sorriso.
«Sì. Io… Diciamo che non avevo di meglio da fare» rispose, continuando a guardarmi quasi volesse sottintendere qualcosa. Ma io non volevo cogliere nessun significato, perché con Louis non era concesso un tale privilegio – era assolutamente sconsigliato, anzi -, quindi annuii con un sorriso di circostanza e recuperai i fogli già pronti.
«Tu ci sarai? – chiese poi, tranquillamente. – Lavorerai con Stephanie?»
Decisi di prendermi una piccola rivincita, dato che ne avevo l’occasione, nonostante fosse un gesto davvero patetico e disperato. Anzi, non era nemmeno il mio unico intento: volevo anche metterlo alla prova nel modo più stupido del mondo. Quindi, alzando le spalle e fingendo una nonchalance che ero in grado di dimostrare solo all’esterno ma non di ignorare dentro di me, parlai senza incontrare i suoi occhi.
«In realtà Zayn mi ha invitata. Verrò con lui» dissi, permettendomi solo allora di alzare lo sguardo sul suo viso.
«Ah» fu il suo commento, mentre abbassava di poco il capo.
Victoria 1 – Louis 0.
Riuscii a stento a tenere per me un sorriso, perché ero una povera illusa, certo, ma quella reazione non poteva essere fraintesa tanto facilmente. E questo mi mandava ancora più in confusione, perché i miei tentativi di capire Louis Tomlinson erano stati abbattuti nuovamente, ma almeno ero riuscita a provocare in lui una piccola reazione.
Dovetti incassare il colpo, però, quando lui tornò a guardarmi velocemente e con un sorriso nuovo di zecca sul volto. «Ne sono felice. Almeno questa volta non dovrò colpirti con una porta per incontrarti» esclamò, ridacchiando sotto i baffi.
Spalancai gli occhi e alzai un sopracciglio, sia perché era strano ripensare a quel nostro primo maledetto incontro e a quanto tempo fosse passato, sia perché le sue parole lasciavano trasparire un certo significato.
«Tu… Tu l’hai fatto di proposito?» chiesi dubbiosa, ma sbalordita da quell’eventualità. Possibile che mi avesse seguita in bagno solo per attaccare bottone, dopo avermi notata in mezzo a tutta quella gente? E poi, se io fossi entrata nel bagno delle ragazze, al posto di sbagliare porta, cosa avrebbe fatto? Mi avrebbe semplicemente aspettata fuori per poi presentarsi senza troppe storie? O mi avrebbe seguita, fingendo di essersi sbagliato? Magari ne sarebbe stato capace, a dirla tutta.
Misi da parte quelle congetture, degne del mio animo sognatore, e ripensai al fatto che, diavolo, non potevo crederci.
«Ci vediamo tra due giorni, allora» disse soltanto, senza togliersi quel sorriso dalla faccia e senza rispondere alla mia domanda. Non a parole, almeno.
Aprii la bocca per dire qualcosa, ma lui si era già voltato per svoltare l’angolo del corridoio e andarsene, lasciandomi con il rumore della fotocopiatrice nelle orecchie e il cuore che si ribellava nel mio petto.
 



ANGOLO AUTRICE

Holaaaaaaaaaaaaaaa!
Ed eccomi qui, con un altro capitolo “di passaggio”, questa volta (:
Non ho molto tempo per dilungarmi come al mio solito, quindi dirò soltanto l’essenziale
(tanto si sa che alla fine verrà comunque un papiro ahhaha)
Allora, Clarissa non so bene che ruolo avrà, anche se ho già un’idea, ma comunque
avrà le sue piccole comparse! Tramite il pranzo con lei, si ha l’occasione di spiare Vicki
mentre scambia qualche sms con il nostro caro Zayn: innanzitutto, mi fa davvero piacere che lo scorso
capitolo e il suo sfogo vi siano piaciuti, che vi abbiano emozionate fjdksa Poi, ho deciso di riportare
l’altra parte della loro telefonata come flashbacks, perché… Boh, mi andava così ahhaha
Ho scritto solo i dialoghi, però, senza le espressioni, le intonazioni e tutto il resto:
sono sicura che voi possiate immaginarle benissimo, anche senza la mia guida! Ah, i consigli
che Vicki gli dà sono DAVVERO da parte di qualcuno di inesperto: voglio dire, alla fine sono partiti
da me che, come lei, non ho avuto a che fare con queste cose, quindi spero che non siano
tanto orribili ahahah In ogni caso a Zayn sono “piaciuti” e ha apprezzato molto l’aiuto di Vicki.
“Se sai come, allora ti prego, insegnamelo”: questa battuta spiega in parte il titolo della storia (:
E poi Louis: lo state odiando come non mai e sapete che a me dispiace un sacco ahhaha
Comunque, va alla Christian&Catering per vedere Vicki, penso che questo l’abbia fatto capire,
anche se lei si impone di non lasciarsi andare a certe congetture (e come biasimarla?): le chiede subito di Brian (aw),
rimane leggermente deluso dall’invito di Zayn a Vic, ma si riprende subito svelando un piccolo
particolare sul loro primo incontro. Ve lo sareste aspettato? (:
Spero davvero che in questo capitolo Louis vi abbia dato un’altra impressione, perché vi posso
assicurare che non è solo uno stronzo mestruato, e credo che qui si sia un po’ capito!
In ogni caso, il prossimo capitolo sarà incentrato sulla festa promozionale, quindi armatevi
e stay tuned, perché sarà il capitolo che darà il via alla storia, quella un po’ più movimentata hahah
 
Grazie mille per tutto, davvero! Ogni messaggio che mi scrivete su twitter, facebook e ask
mi riempie sempre di gioia jfskd Per non parlare delle recensioni **
Grazie, grazie, grazie!

Detto questo, vi saluto! A presto dolcezze (:
Vero.
 
Nuona storia: Morning Bar
Ask Twitter Facebook
 
   
 

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** Look at me ***




Look at me

Capitolo 18

Vicki.
 
Chiusi il cancelletto a chiave per la seconda volta, come se potesse darmi più tempo per prepararmi alla serata che mi attendeva, come se non ne avessi già avuto abbastanza. Sospirai profondamente e accarezzai Teddy, che continuava graffiare il ferro scuro con le zampe.
«A cuccia» gli intimai in un sussurro, ravvivandomi i capelli sciolti e mossi che cadevano sulle mie clavicole, coperte dalla porzione trasparente e più scura del vestito che indossavo, quello che Stephanie mi aveva aiutato a trovare per le vie di Londra, senza darmi la possibilità di fermarmi anche solo a pensare. A volte la sua decisione nel fare le cose mi lasciava senza parole.
Con l’auto parcheggiata davanti casa in mia attesa, cercavo di comportarmi in modo naturale, mentre stringevo nella mano sinistra la pochette nera nella quale riposi le chiavi, occupando gli ultimi centimetri di spazio libero: in realtà, ero terribilmente preoccupata e agitata – anche se avrei solo dovuto pensare a divertirmi, o qualcosa del genere – e continuavo a concentrarmi meticolosamente su ogni movimento da compiere per non inciampare nei tacchi in velluto nero, o per non far alzare troppo l’orlo dell’abito. Non arrivava nemmeno a metà coscia e aveva una forma relativamente semplice, lineare, se non fosse stato per la sua decorazione: era completamente ricoperto da strass colorati, che fasciavano il mio corpo senza segnare alcun difetto, ma che si fermavano a coprire il seno. Da lì, fino al collo delimitato da un bordino nero, il vestito continuava con un tessuto trasparente, appunto.
Non sapevo assolutamente se sarebbe andato bene, se sarebbe stato adatto, nonostante avessi più volte osservato gli invitati alle feste alle quali lavoravo: lo sguardo che mi fu rivolto da Zayn, però, che mi aspettava nell’auto guidata da Paul – nostro autista per l’ennesima volta -, mi rassicurò molto.
Quando aprii lo sportello di un nero lucido, infatti, mi immobilizzai in piedi sul marciapiede, con le labbra socchiuse e il cuore un po’ agitato: gli occhi del moro studiarono velocemente ogni mio particolare, forse con un po’ troppa insistenza, così io cercai di cavarmi fuori da quella situazione e dal silenzio che ci aveva avvolti da subito.
«Vado bene così?» chiesi timorosa, dando un’occhiata al mio vestito, come se non l’avessi fatto almeno trenta volte prima di uscire di casa. Quando alzai lo sguardo su Zayn, lui mi sorrise e annuì.
«Scherzi? – domandò, scivolando sui sedili in pelle finta per farmi posto. – Avanti, entra, prima che qualcuno ti rapisca e ti stupri».
Scossi il capo e ridacchiai, dandogli ascolto. «Se doveva essere un complimento, sappi che non era dei migliori – lo presi in giro. – Ma grazie lo stesso» aggiunsi, sorridendogli sinceramente.
 
Il vetro scuro dell’auto rifletteva il mio viso, mentre guardavo le strade sfrecciare al nostro fianco. O, più tardi, le persone dietro le transenne, che aspettavano impazientemente l’arrivo degli ospiti della serata, e i fotografi.
Deglutii a vuoto, inumidendomi le labbra coperte da un rossetto di un rosa poco appariscente, e chiusi le palpebre cercando di mantenere un certo contegno, appena Paul frenò per accostare: con le mani sulla pochette e gli occhi ancora chiusi, pregai che il mascara prestatomi da Clarissa non mi macchiasse le guance e che andasse tutto bene. Non avevo particolari timori o pretese, volevo solo che andasse tutto bene.
Spostai lo sguardo su Zayn quando sentii la sua mano raggiungere la mia per stringerla appena, per darmi un po’ di coraggio: avevamo parlato relativamente poco durante il tragitto, principalmente a causa delle mie risposte più simili a telegrammi, ma era ora di lasciare andare tutta quella tensione.
Gli sorrisi e annuii, facendogli capire che ero pronta, che potevamo scendere dall’auto e affrontare tutta quella gente che aspettava solo noi. O meglio, che aspettava lui, e che forse sarebbe rimasta seriamente colpita dal vedere anche me.
Cosa avrebbero pensato tutti? E io avrei dovuto ignorare qualsiasi loro ipotesi?
Appena lo sportello si aprì, le grida dei fans e il chiacchiericcio diffuso arrivarono ancora più forti alle mie orecchie, facendomi letteralmente stritolare la mano di Zayn. Lui aveva già una gamba fuori dall’abitacolo, ma si voltò verso di me con un’espressione comprensiva: probabilmente anche lui aveva dovuto fare i conti con le sensazioni che stavo provando io in quel momento. O forse aveva dovuto comportarsi in maniera simile anche con Kathleen.
«Rilassati, Vicki – disse semplicemente. – Ci sono anche gli altri qui fuori, e tutte quelle persone sono solo… Persone» concluse, alzando le spalle.
Inspirai profondamente e mi mossi verso di lui, mordendomi un labbro.
Zayn scese dall’auto e si piegò leggermente in avanti per porgermi di nuovo una mano e aiutarmi a scendere, in perfetto stile gentiluomo. Con gli occhi nei suoi, sorrisi debolmente mentre mi ritrovavo in piedi davanti a lui, immersa nel caos che tutte quelle voci e quei flash causavano.
Era davvero bello, quella sera: il completo elegante nero gli stava a pennello, senza creare alcun difetto e senza nascondere i suoi lineamenti armonici.
«Guarda me» aggiunse, assumendo un’espressione rassicurante, che mi fece sentire meglio.
Non ebbi il tempo di voltarmi o di fare un passo, che Niall sbucò alle mie spalle salutandomi con un affettuoso bacio sulla guancia: i pantaloni neri che indossava sembravano un tutt’uno con la camicia e le scarpe dello stesso colore. E nonostante il suo abbigliamento non fosse la definizione di “vivace”, gli donava moltissimo, contrastando con la sua carnagione chiara e i capelli biondi e spettinati.
«Sono su di giri - esclamò, continuando a muoversi. – Questa serata sarà epica» continuò, con un sorriso che gli illuminava il volto.
«Sembri iperattivo» commentai, posandogli una mano sulla spalla.
«E questo è niente – mi informò Liam, arrivando alla mia destra, mentre Zayn salutava Harry ed un’altra ragazza, ad un paio di metri da noi. – Devi vederlo quando inizia a bere». Abbie ridacchiò al suo fianco, avvolta da un vestito bianco che metteva in risalto quegli occhi vitrei e che sembrava molto semplice, se non si notava l’ampia scollatura sulla schiena.
«Allora credo che ci sarà proprio da divertirsi.»
«Oh, su questo non c’è alcun dubbio – mi assicurò Abbie, prendendomi a braccetto per dirmi qualcosa all’orecchio. – Tu vorrai anche dimenticare Louis, ma non credo che Louis riuscirà a dimenticare te, se sfoggi quelle gambe».
Mi sentii arrossire a quelle parole, e avrei voluto negare tutto, dirle che in realtà lui non doveva dimenticare niente, ma non ci riuscii, perché il respiro mi morì in gola proprio mentre il mio sguardo si posava sul soggetto dei miei pensieri, a qualche metro di distanza da noi.
Louis stava firmando degli autografi alle fans che allungavano braccia e mani anche solo per sfiorarlo, continuando a sorridere incredule quando lui rivolgeva loro qualche parola. I capelli castani non gli coprivano più la fronte, ma avevano un taglio simile a quello di Niall: erano alzati in modo disordinato, casuale.
Vedevo i suoi occhi azzurri brillare, nonostante lo spazio che ci divideva, e non potei fare a meno di soffermarmi sui suoi pantaloni eleganti di un grigio topo, abbinati al gilet sulla camicia bianca, che copriva tutti quei tatuaggi che mi piacevano tanto.
La sua mano sinistra, però, era stretta in quella di Eleanor, che sorrideva al suo fianco in un vestito blu elettrico e lungo fino a terra: era bella, più di quanto le foto lasciassero immaginare, più di quanto riuscissi a sopportare.
Guarda me, furono le parole che mi tornarono improvvisamente in mente.
Serrai la mascella e andai alla ricerca di Zayn, nella speranza di trovare un po’ di tranquillità nei suoi occhi.
«Non ci pensare, almeno per ora – esordì Abbie, interrompendo il mio trambusto interiore. Mi ero persino dimenticata di essere in mezzo a tutta quella gente. – Non credo che Louis si avvicinerà a noi, adesso: Eleanor non è molto felice della tua presenza qui».
Alzai un sopracciglio e annuii lentamente: in effetti, se loro si fossero uniti  a noi, cosa sarebbe successo? Io ed Eleanor saremmo finite l’una con i capelli nelle mani dell’altra, mentre Louis probabilmente peggiorava il tutto con uno dei suoi soliti commenti?
No, era meglio così. Era meglio non averli vicini, poter respirare.
Zayn guadagnò la mia attenzione, quando mi circondò la vita con un braccio facendo lo stesso con Abbie, alla quale lasciò un bacio sulla guancia che la fece sorridere. «Allora, andiamo?» chiese, guardando lei e poi me. Le labbra inclinate all’insù e gli occhi vivaci.
Guarda me.
 
Stephanie era una delle poche persone che io fossi davvero felice di vedere, tra quelle centinaia di invitati che affollavano l’enorme salone decorato a dovere. Per la maggior parte del tempo rimaneva in piedi nei pressi di uno dei lunghi tavoli allestiti da cibi e bevande di tutti i tipi, e supervisionava tutto e tutti con i suoi occhi attenti e vigili.
Spesso ero andata da lei per sentirmi un po’ più a mio agio: la prima volta avevo usato la scusa di doverla salutare, perché Louis ed Eleanor si erano appena uniti a noi e lei mi aveva rivolto un cordiale “non aspettarti che io faccia finta che tu esista” al quale io non avevo risposto, perché in fin dei conti potevo capirla, e perché Louis si era solo morso un labbro, guardandomi seriamente e obbligandomi ad allontanarmi con Abbie fingendo di stare bene. La seconda volta, avevo semplicemente fame. E la terza era dovuta alle troppe attenzioni che stavo ricevendo e che mi infastidivano: chiunque salutasse Zayn o il malcapitato che era in mia compagnia, chiedeva di me, voleva sapere in che rapporti fossi con tutti loro e mi studiava nei minimi particolari.
Questa volta, invece, avevo solo voglia di allontanarmi un po’ da tutti: non era una questione personale, perché Niall brillo era davvero divertente, così come lo erano Liam che cercava di contenere l’entusiasmo dell’amico, Abbie, che invece tentava di sopprimere i suoi istinti omicidi nei confronti di Alice – che avevo scoperto essere la ragazza di Harry – e Zayn, che cercava in tutti i modi di mettermi a mio agio, nonostante il suo carattere riservato e tranquillo. Il fatto era che loro erano abituati a eventi del genere, a tutte quelle persone e a tutti quei fotografi, che mi avevano strappato chissà quanti sorrisi finti nell’arco di un’ora e mezza, ma io non lo ero affatto.
Mi feci versare della semplice acqua in un bicchiere – forse l’unica bibita analcolica in circolazione -, nonostante fosse strano che a servirmi fosse Jackie, una mia collega con la quale avevo scambiato poche parole in passato. Steph si era allontanata e, probabilmente, stava controllando che tutto stesse andando per il meglio.
Avrei voluto che fosse lì, però, perché la voce di Louis Tomlinson era esattamente quello che non mi sarei mai aspettata.
«Eleanor è andata in bagno» disse soltanto, facendomi quasi sobbalzare. Mi voltai verso di lui e lo trovai troppo vicino a me, tanto che le nostre braccia quasi si sfioravano. Scelse un pasticcino, tra tutti quelli offerti, e per un attimo mi chiesi se fosse solo un pretesto.
Dovetti lottare contro l’istinto di perdermi volontariamente nei suoi occhi, quindi inspirai e presi un altro sorso d’acqua, tornando a guardare davanti a me. «E dovrebbe interessarmi?» chiesi.
Lo sentii abbozzare una risata, ma non gli diedi retta: possibile che non riuscissi a farmi prendere sul serio? Qualsiasi cosa dicessi per tenergli testa finiva per essere un fiasco.
«Sì, dovrebbe – confermò, annuendo con le mani in tasca. Aveva tolto il gilet e la camicia aveva i primi due bottoni fuori dalle asole. – Perché probabilmente sarà l’unico momento in cui potremo rimanere soli».
Mi girai lentamente a guardarlo, incredula e con il fiato sospeso. Che diavolo stava dicendo?
«Soli?» ripetei, con un sopracciglio alzato.
Lui annuì con tranquillità, inchiodandomi con le iridi fisse nelle mie.
«Tu sei un tale…» borbottai a denti stretti.
Lasciai la frase in sospeso, sbuffando e scuotendo la testa, mentre finivo tutta l’acqua nel mio bicchiere.
Un deficiente. Un presuntuoso. Una contraddizione vivente. Un incubo. Ecco cos’era.
Mi imposi di ignorare lo stomaco contorto su se stesso per le sue parole, di non dare il via libera alla mia immaginazione e alle mie illusioni, quindi rimasi semplicemente zitta.
«Lo so» esclamò, stupendomi per il tono serio che aveva scelto. Mi guardava come se avesse voluto fare un’ammissione di colpe, ma io ero davvero riluttante a fidarmi del mio istinto, perché fino a quel momento mi aveva sempre portata a sbagliare.
«Bene» buttai fuori in un sussurro, per fingere di riuscire a respirare normalmente. Anche con il suo profumo ad intontirmi. L’aveva cambiato: era più dolce e – per me – più letale.
Quando distolsi lo sguardo dal suo, per posarlo su qualsiasi altra cosa su quel tavolo, non ebbi il tempo di fare altro, perché Louis riprese a parlare e io fui costretta a tornare a studiare il suo viso.
«Ascolta, devo parlarti» furono le sue parole. E lui era così serio da farmi preoccupare: certo, è una sensazione che provano più o meno tutti in circostanze del genere, ma qualcosa nei suoi occhi mi spingeva a credere che stesse per succedere. Cosa stesse per succedere, però, non lo sapevo affatto.
Presa da una sorta di panico, mi guardai intorno velocemente – forse il mio inconscio, provato da tutti gli sbalzi di umore di Louis, stava già cercando un’ipotetica via di fuga per salvarmi dalle non poche illusioni che mi stavo facendo -, ma mi pietrificai quando mi accorsi di Eleanor.
«La tua ragazza è tornata dal bagno» dissi lentamente, senza nemmeno preoccuparmi di nascondere il fastidio e il dispiacere, indicandola con un cenno del capo. Stava chiacchierando con una distinta signora, a pochi tavoli dal nostro, e, se una parte di me pregava affinché non ci vedesse insieme, l’altra sperava che invece lo facesse: volevo farle un dispetto, proprio come una bambina, dato che si era presa ciò di cui io avevo bisogno.
Louis si voltò di scatto, cercandola tra tutte quelle persone, e io ne approfittai per godermi la linea della sua mascella, del collo. La forma delle labbra sottili e il profilo del suo viso. Tutte cose che mi imponevo di ignorare quando eravamo faccia a faccia, ma che non smettevano mai di chiamarmi, di tentarmi.
Mi riscossi solo quando tornò a guardare me, probabilmente cogliendomi in flagrante, dato che schiuse le labbra quasi con sorpresa. «Devo andare» disse lentamente subito dopo, senza lasciare andare i miei occhi.
Io annuii, stringendo la pochette tra le mani, anche se no, non volevo che Louis se ne andasse. Nonostante mi facesse arrabbiare, mi rendesse nervosa e fosse completamente imprevedibile, volevo che rimanesse lì al mio fianco, a mangiare pasticcini solo per avere una scusa per starmi vicino, a fissarmi con sfacciataggine e a farmi ridere per la rabbia che avrei voluto dimostrare ma che invece non riuscivo a buttar fuori.
O forse volevo solo che restasse perché così avrei potuto essere io, ad osservarlo: perché Zayn mi aveva detto “guarda me”, ma il più delle volte, quando mi sentivo a disagio, quando Stephanie non era al tavolo, io cercavo Louis solo per guardarlo e stare meglio. O peggio.
Lo seguii con gli occhi mentre si allontanava senza dire altro, scambiando parole veloci e vivaci  con le persone che incontrava.
Mi voltai e sorrisi a Jackie, che mi chiese se desiderassi qualcos’altro in un tono troppo cordiale. «Ti prego Jackie, sono una di voi: non preoccuparti» le assicurai in tono scherzoso.
Spalancai gli occhi quando due mani grandi si posarono sui miei fianchi, e in un attimo mi trovai faccia a faccia con Zayn, che mi sorrideva in modo spensierato. «Vuoi ubriacarti per dimenticare questa serata?» mi prese in giro, lasciando la presa dal mio corpo solo per prendere un bicchiere di vino.
Avevo constatato che riusciva a cambiare radicalmente, in mezzo a tutte quelle persone: all’inizio della nostra conoscenza avevo notato che il cipiglio nervoso, che caratterizzava il suo viso nel privato, scompariva completamente durante le interviste, le apparizioni televisive e il resto. Eppure, adesso, conoscendolo meglio, avevo capito che quel cambiamento era molto più accurato, perché era proprio il suo sorriso a cambiare nei suoi più piccoli particolari, le sue labbra ad inclinarsi diversamente, i suoi occhi a sforzarsi di risultare costantemente allegri: tutte cose che dall’esterno passavano inosservate.
Doveva aver faticato parecchio per imparare a fingere così bene, solo per ingannare i media e i fans.
«Se non fossi astemia, sarebbe un bel modo per farlo» risposi, ridendo per la sua espressione.
«Andiamo, non è così male – ribatté, mentre camminava al mio fianco verso il tavolo al quale erano seduti anche Harry ed Alice. – Devi solo farci l’abitudine» aggiunse, alzando le spalle.
Louis aveva raggiunto Eleanor, alla fine.
«È solo che è strano partecipare a eventi del genere… stando dall’altra parte» tentai di spiegare.
E no, sicuramente mi ero solo immaginata lo sguardo insistente di Louis su di me.
«Sì, immagino di sì» concordò, ricambiando il saluto di un fotografo, che subito dopo ci rubò una foto. L’ennesima.
La mano di Louis sul fianco di Eleanor, però, era più che vera.
«Vicki, guarda me» ripeté Zayn, spostandomi il mento verso di lui, in modo da dare le spalle alla coppia a pochi metri da noi che io non riuscivo ad ignorare. «Non puoi consumarlo in quel modo» continuò.
Abbassai lo sguardo, colpevole, e annuii esitante, mentre lui mi rivolgeva un mezzo sorriso che avrebbe dovuto rassicurarmi.
«Scusa» sussurrai, schiarendomi la voce. Era imbarazzante che qualcuno dovesse notare la mia gigantesca e fastidiosa gelosia, o anche la nostalgia masochista che provavo.
Zayn scosse il capo e si inumidì le labbra, dando una veloce occhiata alle mie spalle.
«Il fatto è che… Louis devi saperlo prendere. Devi provocarlo e fare il suo gioco, se non di peggio – spiegò, facendomi inarcare le sopracciglia. – Ha bisogno di una piccola spinta, diciamo».
Si avvicinò a me e io fui tentata di indietreggiare, ma non lo feci, nemmeno quando la mano destra di Zayn mi accarezzò il collo, spostandomi i capelli.
«Ma  io non…»
«Sta’ ferma» sussurrò, interrompendomi con gli occhi sulla mia bocca. Non aveva usato un tono imperativo, era più simile ad una richiesta, come se avesse sottinteso un “per favore” esitante.
Subito dopo, mi dimostrò senza troppe esitazioni di quale “spinta” stesse parlando: poggiò le sue labbra sulle mie, con tanta delicatezza da stupirmi, e io mi irrigidii, ma non lo allontanai.
 
 
Liam.

«Vieni qui» le ordinai con un sorriso sulla faccia, mentre lei scappava in uno stanzino che sbucava sul corridoio in cui ci eravamo intrufolati.
«Devo lavorare» si difese lei, passando dietro ad un piccolo tavolo, in modo da interporlo tra di noi, mentre io chiudevo la porta.
«Se ti lasciassi prendere, sarebbe tutto più semplice» ribattei.
«No, Payne – mi corresse, con il suo solito tono di voce calmo ma determinato. – Se tu la smettessi di rincorrermi per tutto l’hotel, io potrei tornare in sala e fare il mio lavoro».
«Stephanie, non rompere» la ripresi, facendo il giro del tavolo per raggiungerla. Lei non si mosse, al contrario di ciò che credevo, e io fui finalmente in grado di arrivarle tanto vicino da poter respirare il suo profumo.
«Sei un rompipalle» borbottò, alzandosi sulle punte dei piedi, intrappolati in quelle scarpe eleganti di un nero lucido, e baciandomi sulle labbra velocemente.
Quando fece per allontanarsi, mentre esclamava un «ecco, ora che mi hai presa posso anche andare, no?», avvolsi un braccio intorno alla sua schiena e la attirai di nuovo a me.
«Dovresti dire al tuo capo di farvi usare altre divise – sussurrai tra i suoi capelli, baciandole poi una guancia. – Sono un po’ troppo provocanti, non credi?»
Stephanie ridacchiò, con quella risata tanto in contrasto con i suoi modi di fare silenziosi e rilassati, e mi accarezzò il collo. «Stai parlando di un pantalone e di una camicia, comprese le scarpe orribili che dobbiamo anche comprare con i nostri soldi» disse, prendendomi per pazzo.
La feci indietreggiare fino a farla sedere sul tavolo, posizionandomi tra le sue gambe. «Sono comunque provocanti. Su di te.»
 
 
Vicki.
 
Nemmeno io avevo ben chiaro quale fosse il mio stato d’animo riguardo il bacio che io e Zayn ci eravamo scambiati in modo così inaspettato e impacciato. Non mi era dispiaciuto, se dovevo essere sincera, ma ero più che convinta che fosse solo perché l’idea di infastidire Louis in qualche modo mi aveva stuzzicata.
E mi sentivo in colpa, in parte, perché avevo usato Zayn, nonostante fosse stato lui a proporre quel piccolo stratagemma e nonostante io non l’avessi accettato con cattiveria.
Eppure non mi aspettavo che le cose si sarebbero evolute in quel modo.
Tanto per cominciare, Louis non mi aveva più degnata di uno sguardo per tutta la serata, nonostante io avessi continuato a cercarlo: forse era stizzito per quel che aveva visto – sempre se l’aveva visto – o, più probabilmente, era stato troppo impegnato a passare il tempo con la sua amata Eleanor.
Zayn, d’altra parte, era cambiato completamente, tanto da farmi chiedere se fosse tornato il ragazzo scontroso che avevo conosciuto: subito dopo quel piccolo bacio, infatti, si era rabbuiato e aveva iniziato ad ignorarmi senza troppe storie, facendomi scontrare di nuovo con i suoi occhi duri e tormentati.
Avevo paura che avesse osato troppo, per il suo stato d’animo: che il senso di colpa nei confronti di Kathleen si fosse accentuato e che quindi avesse voluto prendere le distanze da me. Ma non potevo parlargli, perché in mezzo a tutta quella gente era davvero impossibile.
Era meglio farlo adesso, con le chiavi di casa strette nella mia mano e lui davanti a me, in attesa che riuscissi ad aprire il cancelletto: mi aveva accompagnata a casa, sempre con l’aiuto di Paul, ma il silenzio si era fatto così intenso da diventare insopportabile.
«Posso entrare?» chiese poi all’improvviso, obbligandomi a guardarlo in viso. Aveva la mascella tesa e le mani in tasca, forse strette a pugno: avevo l’impressione che sarebbe potuto scoppiare da un momento all’altro.
Quando feci scattare la serratura del cancelletto, annuii lentamente e lui, dopo un veloce cenno del capo rivolto a Paul, entrò nel vialetto ignorando Teddy e piantandosi di fronte alla porta di casa. Lo seguii con le sopracciglia aggrottate e i piedi che mi facevano male: era così impaziente di entrare?
A quanto pare lo era davvero, perché non si fece problemi a precedermi in casa, nonostante poi fosse rimasto in piedi a pochi metri dalla porta, in mia attesa.
Io sospirai e mi tolsi le scarpe, godendomi la sensazione di non dover più camminare su quelle specie di trampoli ai quali non ero abituata, ma mi fu impossibile fare altro.
«Non ho provato niente» esclamò Zayn, con una tale enfasi da farmi sospettare che quelle parole fossero rimaste sulla punta della sua lingua per troppo tempo. Inchiodai i miei occhi nei suoi, stupita e leggermente confusa.
Mi stava guardando con serietà, ma anche con una certa agitazione. «Cosa?» chiesi, più per la sorpresa che per altro.
«Quando ti ho baciata, non ho provato niente» ripeté, rendendomi più chiaro l’argomento del nostro discorso, mentre un qualcosa si muoveva dentro di me, a disagio.
«Oh...» sussurrai soltanto, senza sapere cosa dire. Cos’altro avrei potuto rispondere? Mi dispiace di non essere stata in grado di farti provare qualcosa, nonostante tu me l’avessi chiesto? Mi dispiace di non essere riuscita ad aiutarti? Mi dispiace di avere Louis in testa ed essere praticamente risucchiata da lui in qualsiasi cosa faccia?
Era assurdo, ed io ero una stupida.
«E sai che c’è? È normale. – continuò, come se stesse parlando da solo. Probabilmente se io avessi risposto altro che quella semplice sillaba, a lui non avrebbe fatto nessuna differenza. – È normale, perché tu non sei Kathleen».
Sbarrai gli occhi a quelle parole e rimasi in silenzio: lo osservavo muoversi nervosamente sul posto, con una mano tra i capelli e il labbro inferiore tra i denti. Era evidente che io non fossi abbastanza per aiutarlo a dimenticare Kathleen, e se lui aveva bisogno di questo per rendersene conto, io ero disposta ad accettarlo, senza ribattere.
«Mi dispiace» dissi poi flebilmente, mentre un velo di tristezza mi invadeva. Era come se fossi venuta meno ad un dovere: Zayn mi aveva implorato di aiutarlo, stimolandomi a tenere in vita quelle sensazioni che diceva di non provare da tempo, e ora ero stata messa di fronte al mio fallimento.
«No» mi contraddisse con durezza, facendo un passo verso di me. Le sue iridi esprimevano qualcosa che andava oltre alla delusione e che sfiorava la rabbia.
«Avrei voluto…»
«No, cazzo! – mi interruppe, urlando e spaventandomi. Mi sentii mancare il fiato per un secondo, turbata dalla sua reazione così improvvisa. – Non capisci. Tu non sei Kathleen» aggiunse, tornando a parlare normalmente, quasi avesse avuto una rivelazione.
Boccheggiai per qualche istante, tentando di capire come avrei dovuto comportarmi, poi feci un passo verso di lui. «No, non sono lei – mormorai, cercando il suo sguardo, che però continuava a sfuggirmi. – E forse tu non sei ancora pronto per provare qualcosa per qualcun altro, ma non devi…»
«Zitta – mi fermò, scansandosi dal contatto con la mia mano, che aveva provato ad accarezzargli una spalla. – Zitta, per favore» ripeté.
Allora io gli diedi ascolto: serrai le labbra e portai entrambe le braccia lungo il corpo, in attesa di qualcosa, di un indizio che potesse aiutarmi a capire cosa fare e cose dire per farlo sentire meglio. Perché lo Zayn che avevo davanti era sull’orlo di uno sfogo troppo intenso da sopportare, glielo si leggeva in faccia.
Forse passò qualche minuto, minuto in cui lui si era tolto la giacca, allentando il colletto della camicia, e io ero rimasta in piedi ad osservare ogni suo movimento, a contare i miei respiri.
«Ti ho mentito» disse infine, con gli occhi sul pavimento che ci divideva.
Deglutii e corrugai la fronte. Il cuore perse un battito, ma aspettai di sentire una spiegazione, qualsiasi cosa.
Zayn si passò di nuovo una  mano tra i capelli ormai spettinati e sospirò. «Ti ho chiesto di starmi vicino perché tu… - Fece una piccola pausa, nella quale tornò a guardarmi, mentre io iniziavo a fare i conti con una sensazione decisamente spiacevole. – Tu le somigli così tanto che…»
Lasciò la frase in sospeso, serrando la mascella e i pugni, e io rabbrividii: non avevo ancora rielaborato il tutto, nella mia testa, quindi lasciai che un flebile dubbio mi uscisse dalle labbra quasi in un lamento.
«Assomiglio a Kathleen?» chiesi, senza nemmeno pensarci.
Tu non sei Kathleen.
Zayn non rispose, limitandosi a fissarmi in silenzio, con il respiro accelerato.
E io cosa potevo fare?
Migliaia di immagini nella mia testa continuavano a susseguirsi senza pietà, migliaia di pezzi di puzzle tornavano al loro posto e sì, anche qualche pezzo di me si stava sgretolando.
«Ero convinto che stare con te mi avrebbe fatto bene, perché hai i suoi occhi e… Il sorriso… Io…»
Di nuovo non continuò, corrugando la fronte per le frasi sconnesse che stava affiancando. Ogni sua parola si incastrava in me, dandomi l’opportunità di capire meglio cosa stesse cercando di dirmi, ma forse io cercavo di respingere quella versione dei fatti ormai ovvia.
Tu non sei Kathleen.
«Tu… Tu non hai mai provato niente per me? – domandai in un sussurro, stringendomi le braccia tra le mani, come se potessi farmi forza. Ero troppo calma per non aspettarmi una reazione da lì a poco, mi conoscevo bene. – Tutte quelle storie sul voler sentire qualcosa… Tu volevi solo lei».
«Sapevo che era sbagliato, l’ho sempre saputo – confermò, con l’aria seria di chi ha ammesso una colpa ma non vuole sentirsi biasimare. – Ed è per questo che all’inizio ti trattavo in quel modo: sei comparsa a casa di Louis e, cazzo, mi è sembrato di avere Leen davanti agli occhi. Mi facevi male ogni volta che ti vedevo, e io ho cercato di starti lontano, di convincermi che fosse solo una stupida somiglianza, ma non ho resistito. Ti ho chiesto di aiutarmi, ma in realtà avevo solo…»
«Mi hai presa in giro» affermai, come se lui non avesse parlato. Il mio tono di voce era piatto e il mio respiro iniziava ad accelerare, perché mi sentivo così male, così usata, da voler solo piangere.
Zayn rimase in silenzio, dandomi l’ennesima conferma di quella verità che ormai era venuta fuori e che io non ero in grado di accettare a pieno.
Tu non sei Kathleen.
Ora era davvero tutto chiaro: dal comportamento di Zayn agli inizi al suo sguardo ad ogni mio sorriso, dal modo in cui si fermava a guardarmi a quello in cui scappava via appena le cose tra di noi sembravano andare meglio. E niente di tutto quello era dovuto ad una sua insensata attrazione nei miei confronti, o al senso di colpa nei confronti di Kathleen per un nuovo possibile sentimento – cosa della quale ero convinta -, no. Ogni singolo momento, ogni parola, ogni respiro, si era basato su una bugia, su una mia ipotetica somiglianza a Kath e sul desiderio di Zayn di averla vicina ancora una volta.
«So di aver sbagliato e  vorrei che tu…»
«Che io cosa? – sbottai finalmente, alzando la voce. – Mi hai solo usata, per tutto questo tempo! Io ho fatto di tutto pur di starti accanto, ho sopportato ogni cosa solo perché volevo aiutarti e il minimo che mi avresti dovuto – il minimo, cazzo! – era la sincerità! Ma a quanto pare per te è troppo!»
Mi tremavano le mani per la rabbia, la delusione.
«Se fosse come dici tu a quest’ora avrei continuato a mentirti e tanti saluti!» urlò lui di rimando, a mezzo metro da me.
«E credi che questo possa scusarti?! Cosa mi dici di tutto quello che è successo prima di oggi? Prima di quello stupido bacio che a quanto pare era privo di significato per entrambi! Mi hai detto la verità solo ora, solo dopo aver capito che io non servivo ai tuoi scopi!»
«Non rinfacciarmi quel bacio, perché sappiamo entrambi che nemmeno per te ha significato qualcosa!» ribatté, puntandomi un dito contro.
«Esatto, è questo il punto! Mentre tu mi facevi credere di provare qualcosa per me, io sono sempre stata sincera con te, Zayn, sempre: ti ho sempre detto dei miei sentimenti per Louis, ti ho sempre detto che per te non provavo la stessa cosa. Perché è questo che si fa con le persone, con gli amici, si dice la verità! Invece tu? Tu cosa diamine hai fatto? – Il mio tono di voce era troppo alto e gli occhi pizzicavano per tutte quelle emozioni che non avrei mai voluto sperimentare. – E poi, per quanto ne sai, a me avrebbe anche potuto piacere quel bacio! Hai mai pensato che io avrei potuto iniziare a provare dei sentimenti per te? Ci hai mai riflettuto sopra? Mentre tu giocavi a scambiarmi per la tua ex-fidanzata io avrei potuto innamorarmi di te, ma tu sei troppo egoista per pensare a qualcosa del genere!»
«Ma cosa credi? Che per me sia stato facile? – sbottò, con le vene del collo in evidenza. – Pensi che non sapessi che fosse terribilmente sbagliato? Che non abbia mai cercato di allontanarmi? Di dirti come stavano le cose e lasciarti in pace?! Ogni santa volta che io e te ci avvicinavamo un po’ di più, ogni volta che il nostro rapporto migliorava, io avrei solo voluto prendermi a schiaffi per quello che stavo facendo, ma non riuscivo a fermarmi! Non pensare che per me sia stato un fottuo gioco, come dici tu, perché non ne sai niente!»
«Sai una cosa? Io credo che per te sia stato più facile di quello che pensi. Credo che tu ti nasconda dietro a questa tragedia che ti è capitata per non ammettere i tuoi sbagli: sei sempre pronto a dire a tutti che solo tu sai cosa stai passando, che sei l’unico a capire fino in fondo quello che ti succede, ma non dai a nessuno una sola possibilità per venirti incontro! E sono tutte scuse, perché puoi soffrire quanto vuoi, Zayn, ma questo non significa che tu possa fare degli altri quello che più ti piace! Non esistete solo tu e il tuo dolore e, soprattutto, non sei l’unico capace di soffrire! Quindi smettila di dirmi che non ne so niente, perché so cosa hai fatto a me e questo mi basta!»
La casa piombò di nuovo nel silenzio, fastidioso alle mie orecchie solo perché strano, dopo tutte quelle urla. Avevo il respiro accelerato e le lacrime agli occhi, la rabbia che mi scorreva nelle vene e la consapevolezza delle durezza delle mie parole che mi faceva sentire leggermente in colpa. Il senso di colpa, però, era di gran lunga eclissato dalla delusione e dalla ferita che Zayn mi aveva provocato.
Lui, d’altra parte, non aspettò molto prima di camminare velocemente e con nervosismo fuori da casa mia, senza guardarmi e senza nemmeno sfiorarmi.
Sentii l’aria spostata dai suoi movimenti infrangersi sulla mia pelle e la porta sbattere con forza. Poi mi sedetti a terra quasi a rallentatore e, con le ginocchia stretta al petto, mi concessi di piangere.
 


 
ANGOLO AUTRICE

SCUSATE, SCUSATE, SCUSATE, SCUSATE
Sono in ritardo, lo so, e mi dispiace tantissimo :(((
Il fatto è che per scrivere questo capitolo ci ho messo più tempo del previsto!
Non voleva proprio venire fuori! Sia per la parte di Louis, che in realtà prima era
completamente diversa, sia per l’ultima parte! Ma andiamo con ordine:
Vicki è super-agitata per l’evento promozionale, e chi non lo sarebbe al suo posto?
Zayn fa di tutto per starle accanto e metterla a suo agio, soprattutto perché Louis
è con Eleanor (il saluto che le rivolge è un po’ da stronze, lo so ahah mi ero stancata
dell’Eleanor dolce e comprensiva, in fondo Vicki non ha un bel ruolo nella sua storia
con Louis, quindi bisogna in un certo senso capirla :))
Pooooi: Louis e Vicki! Lascio a voi i commenti e le ipotesi, non vado oltre hahah
E Liam e Steph fjksa Ora, Steph è un po’ contorta in ambito sentimentale, questo
l’avrete capito ahhah Quindi non stupitevi se dopo tutto quello che ha passato con Brian,
è di nuovo tra le braccia di Liam: d’altronde noi abbiamo vissuto il punto di vista di Payne,
quindi non sappiamo cosa provi lei e perché effettivamente ci sia stata!
Ma tutto a suo tempo :)
Detto questo, passiamo al punto fondamentale della questione: Zayn sbotta e dice tutto!
Ora, questa cosa doveva succedere in modo ben peggiore, ma ve lo risparmierò ahhaha
Ho preferito fargli dire la verità di sua spontanea volontà, dopo quel bacio che
entrambi hanno accettato per motivi diversi, e dire che Vicki ci sia rimasta male
è riduttivo! Entrambi sono stati un po’ duri, ma la rabbia porta a questo e Vicki non ha tutti
i torti: Zayn si è praticamente crogiolato nella sua sofferenza e la usa come scusa
per tutto, senza tener conto dei sentimenti degli altri. Anche se, in effetti, lui sa di aver sbagliato!
So che molte di voi "shippano" questa coppia, ma, come potete bene vedere, 
Zayn non ha provato nulla in quel bacio: tirate le vostre conclusioni (:
Comunque, lascio a voi l’opportunità di commentare tutto fjsajk
Mi piacerebbe leggere le vostre previsioni su quello che potrebbe accadere fjdsk
Spero davvero che il capitolo vi sia piaciuto, anche se è un po’ un casino ahhaha
 
Vi avverto: nel prossimo ci saranno un po’ di novità e… LOUIS, TANTO LOUIS! (quello vero!)
Niente, ora vi abbandono ahahha
 
Grazie mille per tutti i messaggi che mi mandate, siete meravigliose <3
Fatemi sapere le vostre impressioni su questo capitolo per favore fjskla
Un bacione,
Vero.

Ps. Vi lascio anche con una foto di Vicki con l'abito che ho "cercato" di descrivere hahah 


     

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** 4:32 am ***




4:32 am

Capitolo 19

 
Alice.
 
Quando uscii dal bagno, sentivo le voci di Harry e Louis provenire dal loro salotto: a quanto pare quest’ultimo era tornato, anche se sembrava voleva andarsene di nuovo.
Rimasi in corridoio per non immischiarmi nel loro discorso, e anche per racimolare altro coraggio per affrontare Harry e quello che avrei dovuto dirgli.
«Lou, non fare cazzate» esclamò la sua voce, con la solita intonazione che usava per convincere qualcuno pur sapendo che non ci sarebbe riuscito.
«Non sto facendo cazzate – Ed ecco la voce piccata di Louis Tomlinson, quella che invece sapeva di dover dar ragione al suo migliore amico, anche se non l’avrebbe mai ammesso. – Sono le nove di sera e sto andando dalla mia ragazza: questo è quanto».
Sorrisi, scuotendo la testa nel buio del corridoio: quel ragazzo era più semplice da comprendere di quanto facesse credere, anche se era risaputo che scegliesse con cura le persone con cui darlo a vedere.
«Come se non ti conoscessi» sbuffò Harry, e quasi riuscivo a vederlo mentre si sistemava i capelli ricci.
Mi sarebbero mancati così tanto.
«Ciao, Haz. A domani» lo salutò l’altro, quasi soddisfatto della sua resa implicita.
Per un attimo smisi di respirare, quasi terrorizzata dall’idea che fosse arrivato il momento che avevo rimandato tanto a lungo. E la scusa di aspettare il momento migliore, di non rovinare l’evento promozionale per il nuovo album, era solo una stupida scusa. Lo sapevo bene.
Mi schiarii la voce e feci un passo avanti solo quando sentii la porta di casa chiudersi dietro Louis.
Mi passai una mano tra i capelli e indossai un sorriso che mi avrebbe dovuta consolare. «Sempre il solito, eh?» chiesi, mentre guardavo Harry sedersi con uno sbuffo sul divano. La canottiera nera gli stava leggermente larga, lasciando scoperta la pelle tatuata: gli short in jeans, quelli che facevano scoppiare l’invidia di gran parte delle ragazze – e a volte anche la mia – per le gambe che non coprivano, erano chiari e contrastavano con la sua abbronzatura che stava pian piano scomparendo. Gli occhi verdi, quei maledetti occhi verdi, erano su di me, ancora ignari della sfumatura che avrebbero assunto da lì a poco solo a causa mia.
«Sempre il solito» confermò, sorridendomi e scuotendo la testa, per poi farmi segno di sedermi accanto a lui. Ma io stavo meglio in piedi, con le mani che si torturavano a vicenda e la paura a farmi tremare le ginocchia.
«Che c’è?» mi chiese dopo qualche secondo, perché mi conosceva troppo bene.
Schiusi le labbra e abbandonai l’abbozzo di sorriso che mi portavo dietro come uno scudo, obbligando Harry a fare lo stesso, anche se per un motivo diverso.
«Devo dirti una cosa» mormorai, abbassando lo sguardo sul tavolino in vetro che ci divideva.
La pausa che si insinuò tra di  noi fu interrotta dalla sua voce bassa e grave, preoccupata. «Alice, che succede?»
A quel punto tornai a guardarlo, perché mi aveva chiamata Alice e non Celeste – come al suo solito –, quindi significava che aveva davvero capito che qualcosa non andava.
«Io…»
Mi morsi la lingua e chiusi gli occhi: improvvisamente tutto il mio coraggio, tutte le parole che avevo programmato di dire, tutte le mie energie vennero meno, lasciandomi sola in piedi in quel salotto, con Harry che aspettava una mia spiegazione. Lo sentii muoversi sul divano e capii che si era alzato per avvicinarsi a me, solo quando aprii di nuovo le palpebre e me lo ritrovai davanti.
«Hey» disse semplicemente, respirandomi sul viso, mentre con una mano mi sfiorava una guancia. Io andai incontro a quel contatto e sospirai profondamente, sforzandomi di guardarlo negli occhi, quegli occhi che mi avrebbero seguito nel viaggio di ritorno in America, che mi avrebbero perseguitata come avevano già fatto la prima volta.
«Ti amo» sussurrai, consapevole del fatto che sarebbe stata l’ultima volta in cui lui mi avrebbe guardata in quel modo, a quelle mie parole.
Harry infatti sorrise, un po’ insicuro, e baciò le mie labbra delicatamente, solleticandomi la fronte con i suoi ricci disordinati.
«Cosa c’è?» ripeté, a pochi millimetri dal mio viso, come se mi stesse facendo capire di non esserci cascato.
Presi un ultimo ampio respiro e mi morsi le labbra, allontanandomi lentamente ma non di molto da lui. «Quando sono tornata qui, io… Harry, io sapevo di non poter restare».
I suoi occhi, come previsto, rivelarono esattamente e senza ombra di dubbio il suo stato d’animo, la sua sorpresa mista alla confusione per quelle mie parole: ritrasse la mano dalla mia guancia e corrugò la fronte.
«Cosa?» chiese flebilmente, abbozzando un sorriso incredulo, che si spense lentamente mentre io gli rispondevo.
«Sono tornata perché mi mancavi, perché avevo bisogno di stare con te – spiegai, con la voce tremolante di chi sa a cosa sta andando incontro. – Ma ho solo approfittato della pausa estiva dell’università e sapevo… Mi dispiace, Harry, mi dispiace di averti mentito, di averti fatto credere che sarei rimasta qui, con te. Ho sbagliato, ma solo perché non ho resistito al pensiero di stare di nuovo con te anche solo per così poco tempo: quando ci siamo incontrati sotto casa tua io avevo intenzione di dirti la verità, ma tu eri così felice di vedermi che non ne ho avuto la forza e ora… Ora…»
«Alice, che cazzo stai dicendo?»
 
 
Vicki.
 
Quando sobbalzai nel letto, aprendo gli occhi di scatto e trovandomi immersa in un buio troppo intenso, pensai di aver sognato qualcosa e di essermi svegliata di soprassalto. Il campanello che suonava senza sosta e impazientemente, però, era sin troppo reale per essere solo una semplice creazione del mio inconscio.
Mi massaggiai il viso e grugnii qualcosa in segno di disappunto e sonno: la sveglia sul comodino alla mia destra segnava le 4.32 ed io ero ancora stordita, nonostante iniziassi ad essere leggermente preoccupata al pensiero di chi potesse essere a quell’ora e, soprattutto, con quell’urgenza.
Alzandomi dal letto, brancolai per la mia stanza alla ricerca di una maglia da mettermi, e poco importava se non si abbinava ai pantaloni in cotone grigio: sospirai e ricordai finalmente di chiamarmi Victoria e di avere un forte mal di testa per quello che era successo poco più di ventiquattro ore prima con Zayn. Scartai comunque l’idea che potesse essere lui, nonostante non potessi esserne certa.
«Arrivo!» gracchiai con la voce assonnata, stupendomi subito dopo di aver ottenuto il ritorno del silenzio in casa mia: perché Teddy non abbaiava nemmeno? La luce del salotto mi accecò per un attimo, mentre mi stringevo le mani sulle braccia per far fronte ai brividi provocati dai piedi nudi sul pavimento freddo.
«Per quale stupido motivo non c’è uno spioncino, in questa cavolo di porta?» borbottai tra me e me con la fronte corrugata, mentre un’improvvisa agitazione mi invadeva. Dopo aver girato tre volte le chiavi nella serratura, appoggiai la mano sulla maniglia della porta, ma la ritrassi subito dopo, guardandomi in giro con gli occhi stanchi e i capelli che mi finivano davanti al viso, perché erano sfuggiti in piccole ciocche dalla crocchia che mi ero fatta la sera prima: avvistai un piccolo ombrello nel porta-ombrelli all’angolo della sala, alla mia sinistra, così mi fiondai a prenderlo e ne allungai l’asta, rendendolo un po’ più facile da maneggiare e forse anche un po’ più minaccioso. Sarebbe stata la mia arma, se ce ne fosse stata la necessità.
Dopo un respiro profondo, mi decisi ad aprire la porta proprio quando il campanello produsse di nuovo il suo suono fastidioso perché troppo forte per quell’ora del mattino.
Indietreggiai di qualche passo senza nemmeno volerlo, nell’esatto istante in cui riconobbi chi avevo di fronte. L’ombrello cadde a terra e io sbattei più volte le palpebre, assicurandomi che quello non fosse un sogno. O un incubo.
Lui incrociò il mio sguardo senza esitazioni – come sempre -, con la mascella tesa, le labbra serrate che formavano una linea dura, le braccia lungo i fianchi e i pugni chiusi in modo nervoso. Il respiro profondo, potevo avvertirlo solo grazie al suo petto, che compiva movimenti ampi sotto la canottiera di un verde militare che stonava leggermente con i pantaloni blu notte a quadri: era in pigiama. Le espadrillas in tela beige probabilmente erano il primo paio di scarpe che aveva trovato, perché gli occhi assonnati e il segno del cuscino che spiccava sulla guancia destra mi suggerivano che fosse stato a letto fino a poco prima. Se a dormire o meno, non potevo saperlo.
«Louis.»
Il mio fu un sospiro involontario, flebile e inesorabilmente confuso: non solo dalla sua presenza in casa mia, ma anche dalla decisione con la quale entrò in salotto a passo veloce, chiudendo la porta con un gesto della mano. Mi guardò di nuovo, permettendomi di carpire l’inquietudine nei suoi occhi, mentre il mio cuore si agitava ad ogni suo passo nervoso: aveva preso a camminare avanti e indietro di fronte a me, con lo sguardo sul pavimento e i capelli abbassati sulla fronte che gli sfioravano le sopracciglia in maniera disordinata.
La gola secca non mi aiutava a parlare, ma ci provai lo stesso. «È successo qualcosa? – domandai in preda all’agitazione. – Cosa ci fai qui? E a quest’ora?»
Il mio tono di voce era risultato più tremolante e roco del previsto, a causa dell’effetto di Louis su di me e di quella strana ed insensata sensazione. Ma lui non sembrò nemmeno avermi sentito.
Mi mossi verso di lui, allungando una mano per poterlo toccare e magari farlo scappare da quei movimenti irrequieti, perché mi stava davvero preoccupando. Poco importava tutto quello che era successo tra di noi, o quello che non era successo: vederlo in quello stato era sconvolgente.
Quando le mie dita arrivarono a sfiorargli il braccio sinistro e le mie labbra si lasciarono sfuggire di nuovo il suo nome in una specie di supplica, lui si scansò, fermandosi davanti a me: smisi di respirare, appena i nostri occhi si incontrarono di nuovo, perché ebbi l’impressione di essere la causa di quella sfumatura turbata che li possedeva.
Schiusi le labbra e rimasi in silenzio, aspettando chissà cosa o forse cercando di nascondere a me stessa che mi stessi sgretolando davanti all’intensità della sua attenzione su di me.
Passò qualche secondo, secondo in cui nessuno dei due si mosse se non per respirare, poi Louis sembrò riscuotersi, o forse semplicemente decidersi a farlo, avvicinandosi velocemente a me: mi ritrovai con le sue labbra sulle mie e con le sue mani ai lati del mio viso, mentre mi obbligava ad indietreggiare per la sorpresa.
Era sfacciato, irruente, ma era bisognoso. E, questa volta, non c’era nessuna possibilità di fraintendimento.
«Louis, aspetta» riuscii a dire, nonostante il mio corpo volesse dimostrare il contrario, mentre ricambiavo alcuni baci senza riuscire a controllarmi, mentre le sue dita intrecciate ai miei capelli mi impedivano di allontanarmi.
Parlavo sulla sua bocca e respiravo la sua aria, ma dovevo farlo. «Louis, per favore» riprovai, più flebilmente. Cosa stava facendo? Anzi, la domanda giusta era: perché?
Mi morse un labbro solo per poi baciarlo a lungo, e continuò a farlo anche mentre mormorava duramente qualcosa. «Non preferisci essere baciata così?» furono le sue parole, che mi fecero vacillare sotto il loro peso. Concentrata su di esse, lasciai che Louis mi circondasse la vita con un braccio per avvicinarmi a lui, mentre percorreva la linea della mia mascella con dei baci urgenti, fino ad arrivare al lobo del mio orecchio.
Respirò tra i miei capelli e io aprii gli occhi come se potessi trovare una via di fuga da tutto quello.
«Non preferisci me?» continuò, in un sussurro impregnato di orgoglio e possessività.
Inspirai profondamente e raccolsi la forza per separarmi da lui, allontanandolo con gli avambracci sul suo petto e le mani sulle spalle. Avevo capito quale fosse il suo problema e dovevo ancora decidere come sentirmi a riguardo, perché c’erano troppe cose in sospeso, contraddittorie e ingannevoli.
«Quindi è questo quello di cui ti importa di più? – sbottai, passandomi le dita tra i capelli mentre cercavo di tener testa ai suoi occhi nei miei, alle sue labbra arrossate che mi pregavano silenziosamente di ristabilire un contatto. – Che c’è, sei stato ferito nell’orgoglio quando hai visto Zayn baciarmi? È questo che ti ha fatto venire a casa mia nel pieno della notte? Vuoi dimostrarmi di essere migliore di lui?» aggiunsi, corrugando la fronte con indignazione. Avevo appena avuto la conferma del dubbio che ormai viveva con me: quel bacio tra me e Zayn, l’aveva visto eccome.
«Io sono migliore di lui. Per te, io lo sono!» rispose lui a tono, avvicinandosi a me tanto da obbligarmi ad alzare lo sguardo e a sentire il suo respiro sulla mia pelle.
«Ma chi ti credi di essere? – domandai, spingendolo via per guadagnare di nuovo il mio spazio vitale, la possibilità di difendermi. – Fino ad ora sei stato tutt’altro che il meglio per me, quindi con che diritto ti presenti qui a dirmi queste cose?!»
Non lo capivo. Sul serio. E non avevo nemmeno voglia di impegnarmi per farlo, perché sapevo già in partenza che non ci sarei riuscita, che appena avessi trovato un appiglio lo avrei perso dopo una sua parola di troppo o in meno.
Louis si passò una mano tra i capelli, incastrandoli tra le dita nervosamente, e sospirò, come se stesse cercando di dire qualcosa ma non ci riuscisse.
Strinsi i pugni e cercai di controllare il respiro.
«Perché non capisci?» sussurrò dopo qualche secondo, con gli occhi che si alzavano lentamente verso di me. Era possibile che fossero così chiari e comprensibili, per una volta?
«Cosa devo capire, Louis? – domandai, quasi come se fosse una lamentela esasperata. – Ci ho provato in tutti i modi, ma non mi è mai sembrato che tu volessi farmi capire qualcosa, anzi» confessai. Non stavamo più urlando, forse perché eravamo solo stanchi, anche se di cose diverse.
«Lascia stare» farfugliò, voltandosi di scatto per dirigersi verso la porta. Ma io non gliel’avrei permesso, non di nuovo: doveva togliersi la brutta abitudine di sganciare una bomba e fuggire subito dopo, lasciando me al centro del trambusto. Da sola.
Arrivai prima di lui alla sua destinazione, e feci aderire la schiena al legno freddo che mi stava alle spalle, bloccando Louis nel suo tentativo di fuga, dato che era la cosa a cui somigliava di più. «Non te ne andrai – dissi velocemente, tenendo testa al suo sguardo. – Non così, non prima di avermi spiegato tutto».
«Fammi passare, Vicki» ordinò, a meno di un passo da me. Le sue labbra serrate sembravano voler evitare a tutti i costi altre urla, ma io le avrei preferite di gran lunga alla sua assenza.
Per un attimo rimasi in silenzio, guardandolo negli occhi, poi insistetti. «Perché non puoi semplicemente dirmi quello che ti passa per la testa, per una volta?» chiesi flebilmente. Ero pronta a qualsiasi cosa, ormai, ed ero sicura che sapere sarebbe stata la cosa migliore, qualsiasi conseguenza avrebbe comportato.
Louis mi fissò insistentemente, con le spalle rigide ed il respiro irregolare di chi probabilmente avrebbe solo voluto scappare il più in fretta possibile. Intanto io pregavo affinché facesse l’unica cosa che gli avevo chiesto di fare.
Alla fine decisi di osare, di fidarmi di quello che riuscivo stranamente e facilmente a leggere nelle sue iridi. «Di cosa hai paura?»
Ebbi l’impressione che entrambi avessimo smesso di respirare, e lo sguardo che Louis mi rivolse sembrò volermi dare una conferma delle mie ipotesi: avevo centrato il punto, nonostante ancora non capissi a pieno cosa stesse succedendo dentro di lui, ma era già qualcosa. E per la prima volta, ero davvero determinata a scoprire i suoi veri sentimenti, a capire tutti i suoi comportamenti, dal primo all’ultimo.
«Di cosa hai paura, Louis?» ripetei, rilassando i muscoli.
Era strano avere a che fare con un Louis tanto diverso, quasi indifeso.
«Di te.»
Schiusi le labbra e per un attimo ebbi paura di aver capito male, di aver frainteso quel flebile sussurro che si era insinuato tra di noi per scomparire subito dopo, lasciandomi nel dubbio della sua veridicità. Ma Louis mi guardava dritto negli occhi, con l’espressione più sincera e vulnerabile che mi avesse mai dato l’occasione di scorgere, e io sentii le ginocchia tremare.
«Di me?»
Deglutii, mentre lui indietreggiava lentamente, dandomi un po’ più di spazio per respirare, o forse dandolo a se stesso. Di nuovo la sua mano andò a scompigliargli i capelli, di nuovo le sue palpebre si chiusero e di nuovo lo sentii respirare profondamente.
«Hai paura di me?» ripetei, come un disco rotto. Ero incredula e avevo bisogno di sentirglielo dire ancora una volta, o forse ancora un paio di volte, perché mi sembrava impossibile.
«Tu mi terrorizzi» fu la sua risposta, stranamente calma ma comunque capace di stordirmi con il suo significato.
Mi riscossi e studiai il suo viso, in cerca di qualcos’altro, in cerca di un appiglio.
«Ma perché? Io non…»
«No, tu non capisci – mi anticipò, rivolgendomi un sorriso arreso e appena accennato, che non poteva di certo mancare. Svanì subito dopo, però, lasciando posto ad una linea dura e in tensione. – E questo mi fa incazzare».
Corrugai la fronte e «allora fa’ qualcosa – esclamai, con la voce tremante per una serie di emozioni che dovevo ancora distinguere. – Fammi capire quello che dovrei, perché non credere che per me sia divertente dover star dietro ad ogni tuo sbalzo d’umore».
Avevo la sensazione di essere ad un passo dalla verità, quella che per tutto quel tempo avevo cercato disperatamente, ma di dover ancora faticare parecchio per ottenerla. Speravo solo di sbagliarmi.
Louis si morse a lungo il labbro inferiore, distogliendo lo sguardo dal mio, che sì, forse era troppo impaziente per poter essere sopportato senza problemi: lo osservai darmi le spalle e fare qualche passo nella direzione opposta alla mia, con una mano che passava sul suo collo come un antistress poco efficace, mentre il mio cuore tornava a farsi sentire, probabilmente dopo essersi ripreso dallo shock di poco prima.
«Sai cos’ho fatto stanotte? Poco prima di venire qui? – cominciò, appoggiando le mani allo schienale del divano, senza darmi l’occasione di poterlo guardare in faccia. Mi avvicinai lentamente a lui, ma non troppo, mentre aspettavo trepidante che continuasse a parlare. – Sono andato a letto con Eleanor. Più di una volta».
E io sapevo che tra di loro era così, sapevo che era normale, che il tono di voce di Louis era colpevole, che ero io quella di troppo e che non c’era niente che io potessi pretendere da lui, ma nessuna di queste consapevolezze mi impedì di immobilizzarmi per un improvviso dolore proprio al centro del petto.
Chiusi gli occhi con talmente tanta forza da farmi quasi male, perché volevo a tutti i costi evitare di farli diventare lucidi: non era il momento di essere troppo emotiva, come al mio solito, non era il momento per lasciarsi andare.
«Ed è questo quello che faccio – riprese, costringendomi a fare un respiro profondo e ad alzare le palpebre. – Vado a letto con lei perché tanto so che non significa niente, che non c’è niente da rovinare e che per un po’ di tempo posso levarmi te dalla testa».
Quando si voltò verso di me, il suo sguardo si posò sul mio viso e io abbassai il mio: mi asciugai velocemente una guancia con il dorso della mano, sporcandolo con una lacrima che non ero riuscita a trattenere, e serrai le labbra come se stessi pregando che non mi avesse vista.
Le sue parole continuavano a rimbombarmi nella testa e significavano così tante cose da spiazzarmi e confondermi: dentro di loro, c’erano arrendevolezza, timore, menzogne. C’era tutto quello che io avevo bisogno di conoscere di lui.
Aveva ammesso di pensare a me, tanto da dover fare sesso con Eleanor per avere una tregua, per scappare dalla paura che aveva già confessato di provare, ma che io dovevo ancora comprendere a pieno.
«Stai piangendo?» chiese in un sussurro incredulo, facendo un passo verso di me. Io ne feci uno indietro e scossi la testa, mormorando un «no» poco convincente. Non riuscivo ad ignorare il fatto che la sua bocca, prima di quel bacio irruente tra di noi, fosse stata sul corpo di un’altra solo poco prima.
«Vaffanculo» sbottò Louis subito dopo, tirando quello che mi sembrò un pugno allo schienale del divano. Sobbalzai e mi costrinsi ad alzare lo sguardo su di lui, nonostante non volessi farmi vedere così debole: lo trovai con le nocche ancora incastrate nella piccola rientranza provocata nella pelle del divano, le spalle tese e gli occhi chiusi. Sembrava arrabbiato, stanco.
Presi un respiro profondo e mi asciugai gli occhi velocemente, mentre racimolavo un po’ di forze per avvicinarmi a lui, senza nemmeno sapere cosa stessi facendo o se fosse la cosa giusta: gli arrivai di fianco e appoggiai una mano sulla sua spalla destra, attirando la sua attenzione su di me.
«Non sto piangendo – dissi in modo deciso, per quanto ci riuscissi. – Guardami, Louis. Non sto piangendo» aggiunsi, provando a convincerlo con ogni fibra del mio corpo, persino con il mio respiro reso regolare solo da un immane sforzo. Tutto dipendeva dalla sensazione di dover rassicurare il ragazzo che mi stava di fronte, dopo la sua reazione, e io non riuscivo a resistere a quel senso del dovere che si era impadronito di me. Nonostante tutto.
Louis serrò la mascella e si inumidì le labbra nervosamente. Avrei voluto pregarlo di stare tranquillo, perché sembrava sull’orlo di una crisi di nervi, ma non ne ebbi il tempo.
Fu lui, infatti, a prendere la parola. «So fare solo questo – cominciò, con un tono di voce così basso, così represso, da farmi venire i brividi. – So solo rovinare tutto e, cazzo, quante volte ti ho fatta piangere? Quante, eh?» chiese, facendo comparire di nuovo quel mezzo sorriso arreso e colpevole di poco prima.
«È questo il problema – continuò, senza farmi ribattere, assumendo ancora quella maschera dura e quasi sofferente che indossava quella notte. – Non sono capace di farti stare bene, non sono capace di avere una fottuta relazione senza rovinare tutto, ed è sempre stato così».
Lasciai che la mia mano scivolasse lungo il suo braccio lentamente, mentre ascoltavo con la massima attenzione ogni sua parola: era strano sentirlo parlare di ciò che provava realmente, dato che era praticamente la prima volta che succedeva, ma era terribilmente giusto. Sentivo di non essere poi tanto pazza quanto credevo, di non essermi illusa per tutto quel tempo, di interessare davvero a Louis, nonostante i suoi comportamenti e le sue azioni.
In quel momento, l’aver paura di me sembrava avere più senso di prima: dalle sue parole si capiva che non sapeva nemmeno come comportarsi con una persona, che fosse ben consapevole dei suoi numerosi errori e di tutte le loro conseguenze.
«Non sono in grado di fare la cosa giusta, di dire la cosa giusta o di non essere geloso come un fottuto psicopatico. Non ci riesco. – continuò, lasciando trasparire la stanchezza e la rabbia contro se stesso dalla sua voce. – Posso farlo con Eleanor, dato che so benissimo che io e lei non andremo da nessuna parte. L’ho fatto per tutti questi anni mentre stavo al suo fianco, al sicuro da qualcosa che non avrei potuto rovinare perché non c’era, ma non riesco a farlo con te, Vicki. Da quando sei arrivata ho paura anche solo… - Lasciò in sospeso la frase e io inspirai profondamente per tenere a bada le lacrime, che lottavano per uscire solo per alleggerirmi del carico di emozioni che mi gravava addosso: eppure sentivo che a Louis non avrebbero fatto bene, quindi ero disposta a tenerle nascoste, in un istinto protettivo del tutto malsano. – Ho paura di fare anche solo un passo perché finirei per mandare tutto all’aria, come sempre. Come ho già fatto».
Non risposi alle sue parole, perché dovevo assimilarle, analizzarle e capirle fino in fondo: Louis mi aveva appena offerto la chiave del suo comportamento su un piatto d’oro, anziché d’argento, e io non potevo fare altro che ripercorrere mentalmente tutta la nostra pseudo-storia alla luce di quella nuova verità. E tutto aveva più senso, tutto sembrava più chiaro.
Louis che usciva con me, ma che poi era tornato da Eleanor con una freddezza sconvolgente, da una ragazza con la quale si sentiva al sicuro da qualsiasi casino che avrebbe potuto combinare.
Louis che era geloso di Zayn, nonostante avesse voluto chiudere le cose con me, e io che non riuscivo a comprenderlo perché davo per scontato che mi avesse usata per divertirsi, quando invece era solo alle prese con la sua incapacità di tenersi stretta una persona, con la sua paura.
Louis che si avvicinava e si allontanava con la stessa facilità, confondendomi continuamente, mentre forse lui stava peggio di me.
Tutto, nella mia mente, acquistava quel dettaglio mancante che mi aveva impedito di decifrarlo fino in fondo.
«Quindi tu… Tu sei tornato con Eleanor solo perché…»
«No, ascolta, lascia perdere – mi interruppe, con un sonoro respiro, allontanandosi da me con le mani tese in avanti, quasi volesse fermare le mie parole con quel semplice gesto. I suoi occhi mi avrebbero tormentata per parecchio tempo, già lo sapevo. – Devo tornare a casa».
«No, aspetta!» provai a fermarlo, afferrandolo per un polso.
Avrei voluto rassicurarlo, nonostante ne avessi bisogno anche io, avrei voluto dirgli che capivo le sue paure e che ero disposta ad affrontarle con lui, a dimenticare tutto e a ricominciare qualsiasi cosa ci fosse tra di noi, ma in quel momento la mia bocca disubbidì alla mia volontà. «Non tornare da lei» sussurrai semplicemente, con il cuore che mi martellava nel petto al solo pensiero di vederlo andare via, al solo pensiero che potesse dormire accanto ad Eleanor.
Louis scosse la testa, con una maschera di serietà sul viso che non mi era di grande conforto: lentamente ritrasse il polso dalla mia presa e rimase a guardarmi per qualche secondo, come se il tempo si fosse fermato e noi ne fossimo i prigionieri incapaci di muoversi.
Fu molto veloce, però, quando si voltò per dirigersi a grandi passi verso la porta di casa.
«Louis!» lo richiamai, seguendolo lungo il vialetto.
Bastava osservare i suoi movimenti decisi per capire che non aveva assolutamente intenzione di darmi ascolto.
«Louis, per favore! – continuai, bloccandolo per un braccio, poco prima che potesse salire in macchina. – Resta qui. Possiamo parlarne e…»
Mi interruppi quando lui si liberò di nuovo di me, sedendosi al posto di guida senza guardarmi in faccia.
«Cazzo, Louis, ascoltami!» sbottai, passandomi una mano tra i capelli.
Ma non lo fece: per un attimo incontrò il mio sguardo, un attimo così piccolo e allo stesso tempo significativo da lasciarmi sbalordita, poi chiuse lo sportello e se ne andò.
 
 



ANGOLO AUTRICE

Ok, ehm… Ciao hahahha
Credo che a questo punto alcune di voi saranno un po’ sconvolte,
perché questo capitolo è tutto tranne che tranquillo e perché Louis è… Beh, è Louis hahah
Non ho molto tempo per dilungarmi, quindi cercherò di essere breve (certo….)
Due paroline su Alice ed Harry: innanzitutto ora potrete capire perché Harry abbia
raccomandato a Louis di non fare stronzate, dato che evidentemente lo conosce bene e
sa che il suo vero interesse è Vicki e non Eleanor; poi, Alice è tornata dall’America, sì,
ma in realtà deve ripartire, piccolo dettaglio che ha tenuto nascosto per
paura, diciamo. Se andate a rileggere il primo incontro tra lei ed Harry, infatti,
lei non risponde alla domanda “resterai?", ma lui non ci fa caso perché troppo felice di vederla.
Non ho riportato l’intera loro discussione, solo perché ho in mente altri progetti!
Anticipo solo che mooolto presto ci sarà un confronto tra Abbie ed Harry YAY :)
Poi, LOUIS E VICKI aka saranno la mia morte ahhaha In realtà Louis ha già detto tutto,
e io spero davvero di essere riuscita a descriverlo al meglio: come aveva detto Harry un po’
di capitoli fa, a Louis non piace mettere in mostra ciò che prova, parlare dei propri
problemi, ed è quello che ho cercato di dimostrare con questo capitolo. Spero di aver
mostrato bene la sua difficoltà nell'aprirsi!
Inoltre è un ragazzo spaventato, che non sa come comportarsi con le persone a cui tiene
perché finisce sempre per rovinare tutto (e di questo ce ne ha dato una prova più volte!):
ecco perché era tornato con Eleanor senza preavviso, ecco perché continuava ad avvicinarsi
e allontanarsi da Vicki in modo così confuso. Gli piace molto e questo lo spaventa ancora di più.
La sua relazione con El andava bene solo perché per lui non aveva molto significato,
quindi si sentiva più libero, più tranquillo! In ogni caso, la sua paura lo porta
a scappare di nuovo da Vicki, che – POVERINA – sta subendo una batosta dopo l’altra hahha
Prometto che tornerà ad essere felice, GIURO (:
PS. io AMO Louis, ma questo lo sapevate già ahahah E spero che voi abbiate cambiato 
idea su di lui, almeno un po :)
Comunque mi piacerebbe davvero molto sapere le vostre opinioni su questo capitolo,
che è molto importante per la storia!
 
Ringrazio moltissimo tutte voi per l’affetto e l’appoggio che mi dimostrate ogni volta!
E un grazie particolare alla mia bella caterina che ha letto in anteprima questo capitolo!
 
A presto fanciulle, un bacione!
 
AskTwitterFacebook
 
Storia originale: “Morning Bar

 
 
   
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** Explanation ***




Explanation

Capitolo 20

Vicki.
 
Ormai era settembre inoltrato: la temperatura aveva smesso di essere clemente già da un po’, tornando a far rabbrividire tutta Londra accompagnata da nuvoloni sempre più grigi e frequenti.
Io stessa, appena uscita di casa, avevo stretto i pugni e serrato la mascella per l’arietta poco confortevole che mi aveva colpita: certo, era anche colpa mia, dato che avevo indossato solo dei pantaloncini in tuta blu ed una t-shirt. Adesso, però, dopo quaranta minuti di corsa, sentivo solo molto caldo, a causa di tutto quel movimento.
Stephanie, in sella alla bicicletta con la quale spesso mi accompagnava a fare jogging, pedalava lentamente al mio fianco, stando attenta alle rare macchine in strada: non sapevo nemmeno perché avessi preferito rifugiarmi nella periferia di Londra, anziché godermi l’aria e il verde dei grandi parchi che la città offriva.
Mi ero solo svegliata alle sette e mezza del mattino, ancora scossa da quello che era successo con Louis poco più di un paio d’ore prima, ed avevo chiamato insistentemente la mia amica: avevo bisogno di uscire e di correre. Correre via dal salotto di casa mia, in cui quasi riuscivo ancora a vedere Louis camminare avanti e indietro. Correre via dai miei pensieri e correre verso una via d’uscita.
Steph non aveva nemmeno esitato ad accettare il mio invito, nonostante l’ora, e io gliene ero davvero grata.
Non sapeva dell’accaduto, perché non ero riuscita a dirglielo: avevo semplicemente iniziato a correre con lei al mio fianco, in silenzio e con le borse sotto gli occhi. Lei, come sempre, non aveva fatto domande per capire cosa mi fosse successo, limitandosi a constatare mutamente che forse la situazione fosse più grave del previsto. Sapeva perfettamente che, se così non fosse stato, io sarei già sbottata e avrei raccontato tutto per filo e per segno, perché ero sempre stata io quella in vena di confidenza, quella con il costante bisogno di sfogarsi: questa volta, invece, era tutto diverso.
«Hai risposto al messaggio di Zayn, alla fine?» chiese all’improvviso, spezzando il silenzio che ci avvolgeva da più di mezz’ora ormai. Aveva osato e questo significava solo che avesse iniziato a preoccuparsi.
Scossi la testa ed evitai un passante sul marciapiede, con i capelli legati in una coda che continuavano a oscillarmi sulla schiena.
No, non avevo risposto a Zayn. Alle sue scuse, ai suoi due “mi dispiace” e al suo “sei comunque importante per me”. Non l’avevo fatto perché non sapevo cosa dire, cosa ribattere, quindi avevo rimandato: inutile dire che l’arrivo improvviso di Louis in casa  mia nel pieno della notte mi avesse poi distratta da quelle mie rimuginazioni, anche se me ne aveva causate altre.
Appena avessi fatto ordine nella mia testa – e anche nel mio cuore – avrei risposto a Zayn e magari l’avrei anche incontrato, accettando il suo invito: per adesso, però, ero talmente confusa e frastornata da non aver voglia di fare niente. Nient’altro che correre.
«Vado a letto con Liam Payne» furono le parole che seguirono, un paio di minuti dopo.
Mi bloccai immediatamente, spostando lo sguardo su Stephanie con il respiro pesante a scuotermi il petto.
Lei frenò con uno stridore delle gomme sull’asfalto e appoggiò un piede a terra per ricambiare: i suoi occhi, tranquilli come sempre, non potevano però scappare alla mia interpretazione, perché io sapevo che in realtà temevano una mia reazione. Sapevo che se Stephanie aveva confessato qualcosa del genere, allora stava davvero cercando di distrarmi da tutti quei pensieri. Sapevo che era disposta a subire la mia rabbia solo per farmi sfogare, per darmi una scusa per mettermi ad urlare, piuttosto che farmi tenere tutto dentro.
Inspirai profondamente e ricominciai a correre, più veloce di prima.
«Vic, aspetta!» mi richiamò Steph, mentre riprendeva a pedalare per raggiungermi.
Non le diedi ascolto, incapace di fermarmi o di dire qualcosa: ero delusa, di nuovo. Mi aveva nascosto anche questa cosa, che – sinceramente – non mi sarei aspettata nemmeno in cento anni, e per di più aveva messo in dubbio la sua relazione con mio fratello Brian, almeno ai miei occhi. Che diavolo stava facendo?
«Non ho mai tradito Brian – riprese, una volta affiancatasi a me, come se volesse chiarire la situazione. – È iniziato tutto quando lui era già partito e noi avevamo già rotto: mi serviva per non pensarci e… E anche ora è lo stesso, perché tanto è partito di nuovo ed io sono stanca».
Il mio sguardo era fisso davanti a me e sembrava che niente avrebbe potuto attirare la sua attenzione, nemmeno le parole della mia migliore amica.
«Di’ qualcosa, almeno» continuò, schiarendosi la voce.
No.
«Qualsiasi cosa» aggiunse, notando il mio immancabile silenzio.
Non posso farlo.
«So che vorresti» azzardò. Stava tentando in tutti i modi di far traboccare quel vaso di tensione che mi aveva costretta in quello stato, e alla fine i suoi sforzi furono ripagati.
«No! – sbottai infatti, fermandomi nel mezzo del marciapiede e spaventando una signora paffuta, che portava a passeggio il grassoccio cane che mi arrivava alle ginocchia. – Non voglio, invece. Voglio solo stare zitta e continuare a correre, ok? Non mi importa se tu stai con Brian, se ti sbatti Liam o se ne hai altri di cui ancora non so niente! Non mi importa dirti come la penso, urlarti contro che sono la tua migliore amica e che certe cose mi piacerebbe saperle! Non mi importa perché non posso farlo, perché Zayn mi ha usata e io sono stata tanto stupida da lasciarglielo fare, anche se ora vorrei solo andare lì e dirgli che è un coglione ma che voglio ancora aiutarlo! Perché Louis mi sta facendo impazzire e non se ne rende conto, perché non so che cazzo voglia che io faccia, anche se forse non sa che farei davvero di tutto! E perché mi manca Brian e tu mi dici che te la fai con Liam! Non mi importa, ok? Non…»
Soffocai la continuazione della frase sulla spalla di Stephanie che era scesa dalla bicicletta solo per avvicinarsi a me e stringermi a sé nel momento in cui – lo sapeva – avrei lasciato andare le lacrime.
«Va bene – sussurrò, accarezzandomi i capelli mentre io mi sfogavo sulla spalla dell’unica persona che avrei voluto avere vicino in quel momento, nonostante tutto. – Va bene, Vic.»
 
 
Abbie.
 
«Hai scoreggiato?» domandai all’improvviso, alzando di scatto il viso dal suo petto e facendolo quasi spaventare.
«Ma sei stupida? Certo che no» fu la sua risposta, leggermente preoccupata per quel mio esordio inaspettato. Io tornai nella posizione di poco prima e sorrisi, iniziando a giocare con la cerniera della sua felpa nera un po’ malconcia.
«Volevo solo sdrammatizzare un po’» spiegai, mentre potevo sentirlo scuotere leggermente la testa. Il suo braccio, dietro il mio collo, strinse un po’ di più la presa su di me.
«L’ho sempre detto che hai dei problemi seri» borbottò, sospirando con arrendevolezza.
Alzai il viso verso l’alto, in modo da poterlo guardare in faccia mentre ripagavo le sue parole con un pizzicotto: ridacchiai quando lo vidi maledirmi e poi sorridere. Finalmente ero riuscita a vedere le sue labbra inclinarsi all’insù, anche se per poco: Zayn non stava bene e volevo solo che le cose cambiassero.
 
Kathleen era appoggiata al bancone della cucina con un’enorme coperta bianca avvolta intorno al suo corpo: le uniche cose visibili di lei erano il viso pallido e stanco e le mani candide che stringevano una tazza di cioccolata calda che mi aveva chiesto di prepararle.
Erano usciti tutti – chissà in quale stazione radio avrebbero tenuto l’ennesima intervista – e avevano lasciato la casa a noi donne. Il “cercate di non distruggere niente, e tu, Pitbull, non farà pipì sul tappeto” di Zayn mi faceva ancora innervosire.
Per questo, ripensando alle sue parole, feci una smorfia infastidita mentre mi sedevo su uno degli sgabelli, di fronte alla mia amica. E lei mi conosceva come le sue tasche, quindi non ci mise molto a leggermi come se fossi un libro aperto.
«Stai ancora pensando a quanto vorresti picchiare Zayn con una delle gambe del tavolo?» chiese infatti, ridacchiando debolmente e citando le parole che io stessa avevo usato per inveire contro il suo ragazzo, non appena era uscito dalla porta.
Alzai un sopracciglio con aria altezzosa e «sì – ammisi, annuendo in conferma. - Non so come tu faccia a sopportarlo».
Lei tossì dopo aver deglutito un cucchiaino di cioccolata e io aspettai con preoccupazione che tornasse tranquilla. Era straziante vederla in quello stato.
«Tanto so che non lo odi poi così tanto» affermò flebilmente, rivolgendomi un sorriso consapevole.
«Certo, certo» borbottai, liquidando velocemente la questione solo per non ammettere che in effetti era vero. Io non odiavo Zayn e non sarei riuscita a farlo fin quando lui avrebbe continuato ad occuparsi così bene di Kathleen, ad amarla tanto.
Kath non ribatté, ed io mi concentrai su una pubblicità alquanto insensata di detersivi, dipinta sul piccolo televisore su un ripiano all’angolo della cucina.
«Bi, posso chiederti un favore?» domandò dopo qualche minuto.
«Bi!» ripeté, notando che non davo cenni di risposta, evidentemente incantata di fronte ad una specie di telenovela brasiliana che guardavo con un’espressione scettica e quasi disgustata sul volto.
«Pitbull!» mi richiamò, mordendosi un labbro divertito per quel nomignolo che sapeva avrebbe fatto effetto.
E infatti «ma che cavolo – imprecai, riscuotendomi. – Adesso ti ci metti anche tu?» la rimproverai, incrociando le braccia al petto e gonfiando le guance proprio come una bambina.
«Posso chiederti un favore?» chiese per la seconda volta, senza badare al mio commento e guardandomi sin troppo seriamente. Conoscevo quegli occhi e conoscevo altrettanto bene quello sguardo.
«Certo» acconsentii, addolcendo l’espressione e deglutendo a vuoto.
Aspettò un paio di secondi prima di parlare di nuovo. «Potresti occuparti di Zayn quando… Be’, potresti farlo?»
La sua voce era uscita sotto forma di sussurro, debole e carico di preoccupazione, di amore. Notai le sue iridi farsi più lucide e per un attimo nessuna delle due aprì bocca: sapeva che non mi piaceva quando pensava al “dopo”, a quello che sarebbe successo o meno, a quello che sarebbe cambiato e a quello che sarebbe stato di tutti noi. Non mi piaceva perché conoscevo la mia migliore amica, ed era semplice ipotizzare che si colpevolizzasse per tutte le conseguenze che la sua malattia aveva comportato e per tutte quelle che la sua morte avrebbe portato con sé.
La sua morte: mi era impossibile anche solo pensarci.
«Bi, per favore -  continuò poi, quasi pregandomi. – Non ascoltare Zayn, quando assicura che starà bene o che lo farà per me. Ascolta me e… Fidati quando dico che lui crollerà».
Corrugai la fronte a quelle parole e per un attimo mi ritrovai a pensare che riponesse scarsa fiducia in Zayn: l’istante successivo, però, mi accorgevo che era molto più semplice. Lei lo conosceva abbastanza bene da sapere che la forza che pretendeva di ostentare, era in realtà un qualcosa di costruito per lei, per rassicurarla.
«Io non lo contraddico, perché in fondo mi fa sentire bene il fatto che lui stia cercando in tutti i modi di credere a quelle parole. Lascio che se ne convinca e spero… Spero con tutto il cuore che ci riesca, che riesca a stare bene. Eppure temo che non sarà così – aggiunse. La voce rotta dall’emozione e lo sguardo basso. – E vorrei che tu lo aiutassi, perché…»
«Shh – la interruppi, avvicinandomi a lei. – Kath, lo farò» le assicurai, abbracciandola nonostante lo spessore della coperta che la ricopriva.
«Grazie» sussurrò, affondando il viso nell’incavo del mio collo.
«Lo farò» ripetei, quasi per convincere anche me stessa, dato che non ero sicura di riuscire a superare la perdita della mia migliore amica, quindi figuriamoci fare altro.
Lo farò per te.
 
«Mi dispiace dirtelo, Zayn – esordii di nuovo, dopo qualche minuto di silenzio. La mia camera era illuminata dalla luce di una giornata uggiosa e il mio letto aveva visto tante volte quella scena: io e lui aggrappati uno all’altro non solo fisicamente, in cerca di un appoggio e di un sostegno. Dalla morte di Kathleen, quella era diventata una specie di tradizione: ci faceva sentire più uniti, quasi al sicuro da tutto quello che ci circondava. E in fondo, quando lei mi aveva chiesto di stare vicino a Zayn, non avrei mai immaginato che sarebbe stato lui ad aiutare me, il più delle volte. – Però sei un deficiente».
«Grazie» sbuffò lui, teatralmente.
«E scusa, è un dato di fatto» mi difesi, sbirciando il suo viso teso e pensieroso. Vicki, inconsapevolmente, era riuscita ad abbattere tutto ciò che Zayn aveva faticato per ottenere, tutti quei piccoli passi in avanti che aveva compiuto, ma non era stata colpa sua: era stato lui a mettersi in quel casino, a non ascoltarmi e a fare di testa sua.
«Anche la tua mancanza di tatto è un dato di fatto » ribatté lui.
«No, sul serio – ripresi, appoggiando il mento sul suo petto. – Te l’avevo detto che stavi facendo una cazzata: non potevi davvero pensare che stare con Vicki avrebbe potuto farti del bene. Loro sono così… Diverse, per certi aspetti. Un sorriso o un paio d’occhi non bastano, capisci? È questo che ho pensato io quando mi hai fatto notare la loro somiglianza, e alla fine, più guardavo Victoria, più mi accorgevo di quanto fosse completamente diversa da lei».
«Anche io me ne accorgevo – confessò. La voce bassa e profonda. – Me ne accorgevo continuamente, ma ero come… Non so, ho solo combinato un enorme casino».
«Perché sei Zayn Malik e per te è inevitabile – lo presi in giro, alzando un sopracciglio e guadagnandomi un’occhiataccia. – Comunque puoi sempre rimediare».
«Sai anche tu quante volte l’ho chiamata: è evidente che non voglia parlarmi» constatò.
«Genio, perché forse l’hai fatta incazzare giusto un po’? Dalle del tempo e continua a provare! – gli consigliai, riappoggiando la testa sul cuscino e lasciando che il suo braccio tornasse lungo il suo corpo. – Devo spiegarti sempre tutto?»
«Giuro che se non la smetti di rompere ti soffoco con le coperte» commentò, alzando gli occhi al cielo.
Stavo per ribattere come al mio solito, quasi soddisfatta dal modo in cui Zayn avesse ripreso a scherzare, almeno in parte, ma la vibrazione del mio telefono mi impedì di farlo.
Sullo schermo lampeggiava un messaggio di Harry e nel mio cuore lampeggiavano i suoi occhi, così come la confusione per quell’sms.
«Harry mi ha chiesto di vederci – spiegai a bassa voce, con lo sguardo ancora puntato sul telefono. – Vuole venire qui, tra poco».
«Ecco, perfetto – commentò lui, mettendosi a sedere. – Se magari tu e lui vi sbrigaste a fare un po’ di sesso, eviteresti di scaricare la tua tensione da zitella su di me».
«Ma sta’ zitto» borbottai, digitando velocemente la risposta con le mani che – non potevo negarlo – un po’ tremavano.
«Spero tu gli abbia scritto che sei d’accordo – sospirò. – A parte gli scherzi, sarebbe ora che voi due chiariste un po’ di cose».
Lo osservai mentre si rimetteva le scarpe e mi morsi il labbro, pensierosa. Avevo accettato di vederlo, ovvio, ma ero così tesa all’idea di vederlo, di stare di nuovo sola con lui, da dare quasi di matto.
«Te ne vai?» chiesi infine, esponendo quel mio dubbio.
Zayn annuì e, in piedi dall’altra parte del letto, mi guardò come se stesse aspettando qualcosa: forse un segno della mia impazienza?
Poi alzò gli occhi al cielo e si piegò in avanti verso di me, appoggiando un ginocchio sul materasso: lasciò un bacio sulla mia guancia, pungendomi con l’accenno di barba che aveva, e «andrà bene» mormorò, prima di uscire dalla stanza salutandomi con un semplice cenno della mano.
Ed io sorrisi, perché alla fine mi era sempre più chiaro che Kathleen non aveva solo messo Zayn nelle mie mani, per quanto inesperte e un po’ acide: aveva confidato in lui e aveva fatto in modo che la sua forza, che in fondo esisteva davvero, sostenesse me a sua volta.
Grazie, Kath.
 
Da quando Alice era tornata, io ed Harry non avevamo più passato del tempo insieme, cosa che invece succedeva sempre, in precedenza. Ci eravamo allontanati come se fosse la cosa più naturale da fare, nonostante io ne soffrissi, e avevamo macchiato il nostro rapporto della tensione che conoscevamo fin troppo bene.
Per non rimuginare troppo su quell’incontro inaspettato, quindi, iniziai a riordinare casa in ogni piccolo dettaglio, anche dove non ce n’era bisogno: per questo non mi accorsi del passare del tempo, quando il campanello di casa suonò all’improvviso. Avevo sperato nel suono del citofono, in realtà, che mi avrebbe dato il tempo di prepararmi all’arrivo di Harry, ma  lui era evidentemente già dietro la porta di casa.
Sospirai e chiusi gli occhi per un paio di secondi, andando poi ad aprire la porta.
Le sue iridi non esitarono a specchiarsi nelle mie, con un’intensità che mi stupì non poco: avevano qualcosa di diverso, qualcosa di sbagliato.
Harry non disse nulla, limitandosi a serrare le labbra come se avessero impedito ad una domanda di essere pronunciata, così io mi feci da parte e lasciai che entrasse, guardandolo attentamente mentre si muoveva con familiarità nel mio salotto: i soliti jeans neri erano più malmessi del solito e le sue braccia tatuate erano lasciate scoperte da una troppo leggera t-shirt bianca, che confermava le mie prese in giro di quando gli rinfacciavo i suoi problemi con l’abbigliamento correlato alle stagioni.
Inspirai profondamente e infilai le mani nelle tasche dei pantaloni della tuta viola, camminando lentamente verso il centro della stanza per fermarmi davanti al divano, dove Harry si era seduto con i gomiti appoggiati sulle cosce e il viso basso.
Sapevo che non ci fosse bisogno di stimolarlo a parlare, perché non era affatto quel tipo, infatti non ce ne fu bisogno.
«Alice torna in America» esclamò, alzando lo sguardo su di me.
Era serio?
«Oh… Mi dispiace» mormorai, colta alla sprovvista, corrugando la fronte. Quella notizia era davvero inaspettata, perché tutti credevamo che lei fosse tornata per restare, e a quanto pare anche Harry lo pensava: la sua espressione lo suggeriva chiaramente. E certo, non mi struggevo di certo per la partenza di quella che praticamente era la mia “rivale”, ma ero sincera: mi dispiaceva che se ne andasse, perché mi dispiaceva per lui.
«Non è vero» mi corresse, come se volesse far intendere che mi conosceva abbastanza bene da esserne certo. E aveva ragione, in parte, anche se mi metteva a disagio che lui ostentasse così liberamente la sicurezza dei miei sentimenti.
«Non sono così egoista, riesco a provare del dispiacere se so che qualcosa può farti star male» ribattei, quasi fosse un gioco che aveva il compito di smentire la sua spavalderia.
«Già… male» sospirò,  tornando a guardare il pavimento ai suoi piedi.
Inarcai le sopracciglia e mi chiesi cosa gli stesse succedendo, oltre ciò che era evidente, ovvio. E sì, mi chiesi anche perché fosse venuto proprio da me per sfogarsi di qualcosa del genere, se potesse essere tanto insensibile da pensare che per me sarebbe stato facile ascoltarlo come una volta ero solita fare o se avesse qualche altro scopo. In entrambi i casi, avrebbe sbagliato.
«Harry, che cosa vuoi?» domandai alla fine, dopo due minuti buoni di silenzio. Non ero una persona molto paziente, né mi piaceva temporeggiare o rimanere appesa ad un filo di tensione, soprattutto se c’entrava il ragazzo che occupava il mio divano e anche una parte di me. Qualsiasi fosse il motivo che l’aveva portato da me, volevo saperlo al più presto.
Sostenni il suo sguardo, quando lo portò su di me in seguito a quella mia richiesta, e lo sentii respirare profondamente. «Hai detto bene – cominciò, con la voce bassa e roca. – Alice e la storia dell’America mi hanno fatto male. Ma non come avrebbero dovuto» confessò, facendomi corrugare la fronte per la sorpresa. Subito dopo la rilassai, mentre un moto di sollievo mi attraversava senza pietà.
«E poi, mentre litigavamo, io ho pensato a te» aggiunse. Le sue mani che si stringevano in tensione e le mie che si chiudevano a pugno per far fronte alle emozioni contrastanti che mi stavano investendo: avevo capito dove voleva andare a parare, ma non era così semplice.
«Pensavo a te, capisci? E non riuscivo a smettere» continuò, come se quello che aveva già detto non fosse stato abbastanza.
«Cosa stai cercando di dirmi?» insistetti, incapace di aspettare oltre o di rimuginare sui suoi giri di parole.
Harry sospirò e si passò una mano tra i capelli ormai un po’ troppo lunghi, alzandosi lentamente e obbligandomi a sollevare il viso per poterlo guardare in faccia.
«Sto cercando di dirti che forse c’è un motivo se  ora non riesco ad arrabbiarmi con Alice per la sua partenza – sussurrò, perché tanto eravamo abbastanza vicini da non aver bisogno di altro. – Se mi sento uno schifo perché ero così convinto di amarla ancora, dopo il suo ritorno, da diventare cieco e anche stupido. O se tutto quello a cui riesco a pensare è che lei se ne andrà ma tu rimarrai, come se fosse l’unica cosa importante» concluse, allungando lentamente una mano per sfiorarmi il viso.
E le sue mani io le sognavo qualche volta, di notte. Le bramavo e mi mancavano, ma in quel momento non volevo che mi toccassero, proprio perché avrebbero determinato la mia resa. Quindi indietreggiai di un passo o due, continuando a tenere i miei occhi di ghiaccio fissi nei suoi, che invece assunsero una sfumatura confusa.
Era la prima volta che io ed Harry affrontavamo i nostri veri sentimenti, e non avrei mai pensato che sarebbe successo in questi termini.
«Certo che rimarrò - dissi flebilmente, serrando poi la mascella per quella consapevolezza. E per una certa rabbia che scalpitava per essere buttata fuori. – Ed è per questo che tu non hai avuto nessun tipo di problema a tornare a gambe levate da Celeste, appena è tornata. Perché tanto sapevi che io sarei rimasta».
«Ma che stai dicendo?» chiese lui, quasi indignato, facendo un passo verso di me.
Io ne feci uno indietro, finendo per sentire il tavolino in legno contro il polpaccio della gamba sinistra.
Presi un respiro profondo. «Non fare l’ingenuo» dissi, scuotendo la testa con incredulità. Davvero non se ne rendeva conto?
«Abbie…»
«Sei tornato da lei senza dirmi una parola, o te ne sei dimenticato? – lo interruppi, iniziando a lasciar libero sfogo al mio stato d’animo. – Niente, non mi hai detto assolutamente niente. Te ne sei semplicemente andato e, cazzo, a malapena mi parlavi! Quindi secondo te io dovrei tranquillamente dirti che mi fa piacere che tu ti sia svegliato e abbia capito cosa significo per te? Hai fatto i tuoi porci comodi come se io contassi meno di zero, come se in fondo non meritassi nemmeno una spiegazione, e ora che non hai più da divertirti con Alice bussi alla mia porta sperando di ottenere qualcosa con delle frasi fatte!»
Il mio tono di voce si era alzato abbastanza e gli occhi iniziavano quasi a pizzicare. Finalmente gli avevo detto quello che avevo custodito dentro per troppo tempo: avevo confessato che il modo in cui mi aveva completamente ignorata dopo il ritorno di Alice mi aveva ferita più di quanto potesse pensare, e che l’essere una stupida ruota di scorta non era certo nei miei piani.
«Senti chi parla! – ribatté lui, innervosito, imitando inevitabilmente il mio tono di voce. Era più forte di noi, litigare, lo era sempre stato. – Sbaglio o tu ci hai messo mesi per capire qualcosa, per capire me? Non mi sembra che la tua relazione con Niall sia stata tanto diversa dalla mia con Celeste!»
«È stata diversa, invece! Perché quando io stavo con Niall non provavo niente per te e te l’ho sempre detto! L’hai sempre saputo!»
«E secondo te questo dovrebbe cambiare qualcosa?» ribatté, iniziando a gesticolare.
«Certo, perché almeno io non ti ho illuso! – La prima lacrima. – Tu invece cosa hai fatto? Sei scappato da lei come se non ci fosse nulla da cui scappare, come se io non ci fossi!»
«E credi che sia stato facile? – Il cuore mi batteva tanto forte da far male e mi chiedevo se lui provasse lo stesso. – Non è stata una passeggiata essere diviso tra due sentimenti e vedere te odiarmi, praticamente!»
«Certo che ti odiavo, razza di stupido! Ma ovviamente tu non hai fatto niente per chiarire le cose, preferendo ignorarmi! Quindi non venire qui a fare la vittima!»
«La vittima? Sei tu che ti stai comportando come se non avessi mai fatto nessun errore, quando invece ne hai fatti, e molti!»
«Sai una cosa? Sono stanca – affermai, abbassando il tono di voce, con la gola che quasi faceva male per tutte quelle urla. Le guance umide e le mani nervose. – Stanca di te, del nostro continuo rincorrerci e non prenderci mai, stanca di tutte queste discussioni. Mi viene solo da pensare che non ci sia un tempo per noi, è l’unica spiegazione».
Ci eravamo rincorsi troppo a lungo, e io non avevo più le forze di continuare, per quanto una parte di me lo volesse ardentemente: dal primo momento in cui ci eravamo conosciuti avevamo incontrato solo guai, e a quanto pare potevamo stare bene solo se chiusi in un limbo in cui non eravamo niente. Né amici, né qualcosa di più.
Era come se non fosse destino. Come se, ogni volta che stavamo per avvicinarci di più, qualcosa arrivasse a frenarci, ad ostacolarci.
«L’unica spiegazione?» ripeté lui, flebilmente. Il suo viso si contrasse in un’espressione scettica e incredula.
Io restai in silenzio, passando il dorso della mano destra sulla pelle bagnata dalle lacrime che dovevano assolutamente fermarsi.
Lui interpretò la mancanza di una mia risposta come era giusto che fosse, e mi guardò come se fossi la persona più infima del pianeta. Indietreggiò e si voltò di spalle, senza dire altro.
Mi limitavo ad osservare la sua schiena e a tremare fin nel profondo per ciò che non avevo le forze – o il coraggio – di fare, per ciò che il mio modo di essere mi impediva.
Quando Harry arrivò alla porta, si voltò un’ultima volta verso di me. «Non è l’unica spiegazione – esordì a denti stretti, con il dolore e il risentimento in quegli occhi che mi impaurivano. – Ce n’è un’altra che dice che tu sei troppo orgogliosa e codarda per lottare per qualcosa. Figuriamoci per noi».
 

 


ANGOLO AUTRICE

Here I aaaaaaaaaaaaaam (:
Ragazze, scusatemi per il ritardo, ma ho davvero perso la cognizione del tempo
e mi sono dimenticata di dover scrivere il capitolo ahahahha
Ma comunque eccolo qua: ci sono un po’ di cose da dire, quindi cercherò di
fare un discorso sensato senza perdermi troppo ahhaha
1. Vicki scoppia, letteralmente, con Stephanie: già il fatto che si sia svegliata
alle sette e mezza del mattino con la voglia di correre vi dice qualcosa hahha
infatti Steph cerca di farla sfogare senza parole dolci  o di conforto,
ma dandole un motivo in più per riversare fuori tutto! E in efffetti ci riesce!
2. La parte tra Abbie e Zayn non era in programma, in realtà, ma oggi ho iniziato
a correggere il capitolo e mi è venuta voglia di scrivere di loro ahaha
Ho voluto rendervi più chiaro il loro rapporto, il loro modo di relazionarsi (che alla fine
non è nemmeno cambiato molto, rispetto a prima: però si vede come lui sia molto
più tranquillo in sua compagnia, quasi quello di una volta) e il bene che si fanno a vicenda.
Zayn è chiaramente pentito di quello che ha fatto a Vicki e ha cercato
di parlarle, con messaggi e chiamate. Vedrete come si evolverà la situazione (:
3. Il flashback su Kathleen non chiedetemi da dove sia uscito perché non lo so ahahah
Spero comunque che vi abbia fatto piacere leggerlo, come ha fatto piacere
a me scriverlo: e visto che me lo dite sempre, Kath manca molto anche a me!
Comunque, si scopre qualcosina su di lei, ovvero la sua richiesta ad Abbie di
star vicina a Zayn dopo la sua morte: conosceva bene il suo ragazzo e, anche
se non glielo diceva, sapeva che per lui sarebbe stato più difficile di quanto sapesse
(anticipo che di questo si parlerà ancora in un capitolo abbastanza… di impatto? boh ahaha)
quindi la sua non è mancanza di fiducia, ma solo consapevolezza.
In più, Abbie si è resa conto con il tempo che in realtà Kath voleva solo
che Zayn le fosse d’aiuto: conosceva il suo modo d’essere e sapeva quanto fosse
in grado di sostenere qualcuno ma non tanto se stesso, quindi voleva solo
che il suo fidanzato e la sua migliore amica si appoggiassero a vicenda!
(Ha senso quello che ho detto?? hahhaha) Che ne pensate? (:
4. Abbie ed Harry fskjlfhas Quei due sono uno strazio cazzo ahhaha
Non sono capaci di stare insieme, litigano sempre e ogni volta c’è un problema:
ma di loro non ho molto da dire perché alla fine è tutto abbastanza chiaro (spero).
L’unica cosa che volevo precisare è su Harry: lui era davvero convinto di amare ancora
Alice, tant’è che appena è tornata si è fiondato tra le sue braccia senza troppe storie.
Il fatto è che quello che provava per Abbie non era mica scomparso! E quando Celeste
gli ha detto che sarebbe partita di nuovo, lui ha come avuto una relazione
e il suo pensiero è andato direttamente alla persona che vuole davvero.
Capita spesso secondo me di essere convinti che i sentimenti per qualcuno siano
gli stessi di un tempo solo perché se ne ha un bel ricordo!
Comunque, ora direi che basta così ahhahaha
Fatemi sapere cosa ne pensate, sul serio! Mi farebbe piacere :)

Grazie di tutto, un bacione <3333
 
Ah, ps: per quanto riguarda il capitolo precedente, ho notato che alcune sono rimaste
“deluse” da Louis che alla fine se ne va senza troppe storie: il fatto è che doveva per
forza andare così, se no non sarebbe stato credibile. Tutta la sua paura, tutto il suo
disagio nel parlare dei propri sentimenti non potevano scomparire da un momento
all’altro solo grazie ad una parolina di Vicki, ecco aahha

Ciao belle!

 



 

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** I'm yours ***




I'm yours

Capitolo 21


Più avanti, ho messo nel testo il link della canzone (capirete poi quale): se cliccate sulla parola,
vi manderà alla base con il pianoforte, se cliccate sul numerino in alto invece vi manda alla canzone originale!
Scegliete voi quale usare come sottofondo, sempre se volete usarne una :)


Vicki.
 
Erano passati otto giorni: tra il lavoro, il paio di telefonate troppo brevi a Brian, il cavo dell’alimentatore del portatile che non funzionava più per chissà quale strano motivo, Stephanie e le docce lunghe e bollenti, erano passati esattamente otto giorni, anzi, erano a dir poco volati.
Ed io avevo cercato in tutti i modi di separare la mia vita “normale” da quella contaminata dagli altri: dei nomi a caso? Louis Tomlinson e Zayn Malik.
Mi ero imposta di pensare agli ultimi avvenimenti solo quando fossi stata sola, quando avessi potuto assumere le espressioni che più rispecchiavano il mio stato d’animo senza che qualcuno le notasse e mi chiedesse spiegazioni: così, proprio nel buio della mia stanza, ero finalmente arrivata ad una conclusione sulla quale avevo rimuginato per le successive due ore circa, finendo per addormentarmi per la troppa stanchezza ma non per l’indecisione.
Il fatto che mi trovassi sotto casa di Zayn, infatti, era la prova della mia determinazione a portare a termine ciò che mi ero prefissata come obiettivo, come mezzo per smettere di essere una persona passiva pronta a farsi manipolare o condizionare da tutti. Ero decisa a fare ciò che ritenevo giusto, ed il sospiro profondo che fece entrare l’aria fredda di Londra nei miei polmoni ne fu la prova.
Prima che potessi suonare il citofono, il portiere che più volte mi aveva scortata alle scale per raggiungere l’appartamento di Zayn, aprì il portone rivolgendomi un largo sorriso di benvenuto: gli occhi troppo piccoli per quel viso grassoccio e pallido mi accolsero all’interno, mentre io lo salutavo gentilmente e forse un po’ a disagio da quell’inaspettata cortesia.
Non ci misi molto ad arrivare davanti alla porta che mi avrebbe condotta da lui, forse perché ero pervasa da una specie di energia propositiva che speravo non scomparisse da un momento all’altro: sapevo che piombare in casa sua così, senza avvisare, era rischioso e anche un po’ avventato; sapevo anche che avrebbe potuto essere chissà dove a presidiare chissà quale evento o intervista, ma quello era un rischio che ero pronta a correre e al quale la parte più insicura e riluttante di me si aggrappava disperatamente.
Mi inumidii le labbra con la lingua e alzai il viso quasi a volermi dare un certo contegno, mentre la mano destra passava tra i capelli sciolti e disordinati prima di premere con un dito contro il campanello.
Inspirai profondamente e attesi in silenzio una risposta, ascoltando attentamente in caso potessi udire qualsiasi rumore che avrebbe testimoniato la presenza di Zayn in casa.
Dopo un tempo abbastanza lungo da farmi pensare che stessi aspettando qualcuno che evidentemente non c’era, la porta si aprì all’improvviso: Zayn era davanti a me con il respiro accelerato, la t-shirt grigio topo infilata al contrario, i pantaloni un po’ rovinati di una tuta nera e i piedi scalzi.
Aveva i capelli corvini abbassati sulla fronte, bagnati probabilmente dalla doccia che aveva causato il suo piccolo ritardo nel rispondere: quasi trattenni il fiato, quando mi scontrai di nuovo con i suoi occhi dopo tutti quei giorni.
«Hey…» sussurrò, evidentemente sorpreso dal vedermi lì, come suggerivano le sue sopracciglia leggermente aggrottate e lo sguardo curioso. Non lo biasimavo di certo, dato che avevo ignorato tutti i suoi messaggi, che erano poi notevolmente diminuiti con il tempo.
Io non risposi, deglutendo semplicemente mentre continuavo a guardarlo quasi potessi fargli capire tutto semplicemente in quel modo.
«Ero sotto la doccia» spiegò dopo qualche secondo, indicando un punto indefinito dentro casa con il pollice della mano sinistra e schiudendo le labbra come se volesse aggiungere dell’altro.
«Posso entrare?» domandai, stringendo i pungi delle mani.
Mi rilassai solo quando lo vidi farsi da parte, un po’ esitante, dandomi il permesso non solo di entrare ma anche di parlare una volta per tutte.
Esattamente nel momento successivo al chiudersi della porta di casa, la voce di Zayn tornò a farsi sentire. «Vicki, ascolta…»
«No, Zayn – lo interruppi, voltandomi verso di lui con una fermezza della quale mi stupii io per prima. – Fai parlare me».
Lui mi osservò attentamente per un paio di secondi, con le labbra socchiuse e gli occhi tremendamente profondi, poi annuì lentamente, avvicinandosi subito dopo a me: sospirai e lo ringraziai mentalmente per quella concessione, che d’altronde era il minimo che potesse offrirmi.
«Accetto le tue scuse» esclamai semplicemente, sostenendo il suo sguardo e spostando il peso sulla gamba destra. Notai immediatamente lo stupore sul suo viso.
«Come?» chiese infatti, facendo un passo esitante nella mia direzione.
«Ti perdono – spiegai, sospirando via quel peso dal petto. – O dillo come preferisci».
«Davvero?»
Sembrava incredulo e diffidente, ben oltre quanto io avessi immaginato: e forse non aveva tutti i torti ad esserlo, perché probabilmente molte altre persone, al mio posto, non avrebbero di certo agito come me.
«Sì, davvero» confermai, annuendo.
«Perché?» domandò, quasi in un sussurro. Il suo viso era serio, pensieroso, mentre lui si avvicinava ancora, fino ad arrivarmi a nemmeno un metro di distanza.
«Perché voglio ancora aiutarti – ammisi, abbassando la voce e anche lo sguardo. – Perché io sono sempre stata sincera con te quando dicevo di volerlo fare e tu hai sbagliato, è vero, ma questo non ha cambiato nulla, a quanto pare. Voglio ancora aiutarti» ripetei.
Riportai i miei occhi nei suoi, curiosa di scorgere qualsiasi emozione al loro interno: non potevo nascondere a me stessa l’affetto che mi teneva legata a Zayn, la voglia di fare qualcosa per dargli la possibilità di stare meglio – la stessa che mi aveva praticamente obbligata ad aiutarlo anche quando il nostro rapporto non era dei migliori -, e non potevo nemmeno negare che, per quanto il suo errore fosse stato grave, io sentivo di capirlo e di volerlo perdonare. Ed era stupido, ingenuo e mille altre cose poco incoraggianti, ma avevo passato otto giorni a combattere contro la tentazione di chiamare Zayn e confessarglielo, e alla fine l’inequivocabile risultato era stata la mia clamorosa sconfitta.
«Penso ancora che tu abbia sbagliato a mentirmi e ad essere stato così egoista – continuai. Avevo intenzione di mettere in chiaro le cose: ero consapevole della situazione, nonostante stessi cercando di aggiustarla, quindi non volevo che lui credesse che fossi una povera illusa. – Ma penso anche che tutto quello che abbiamo passato non sia ridotto solo a quello, e che tu abbia ancora bisogno di… Non me la sento di abbandonarti».
Non potevo dimenticare tutta la sofferenza che quel ragazzo covava dentro, tutte le sfumature cupe che le sue iridi mi avevano mostrato anche inconsapevolmente e quelle allegre che invece mi avevano incoraggiata a stargli accanto. Non potevo essere cieca e altrettanto egoista.
Osservai ogni sua piccola reazione, in cerca di un indizio riguardo cosa gli stesse passando per la testa, e deglutii una certa impazienza: ero pervasa dalla speranza di non star commettendo un errore.
Zayn non si mosse, per la prima manciata di secondi: potevo solo vedere il suo petto alzarsi ed abbassarsi lentamente ma profondamente, ed i suoi occhi assottigliarsi nel tentativo di comprendere a pieno le mie parole. Subito dopo, chiuse le mani a pugno ed inspirò, per poi arrivarmi di fronte a stringere le braccia intorno al mio corpo.
Spalancai gli occhi per la sorpresa, ma li chiusi subito dopo per godermi quel contatto: sentivo il suo respiro sul mio collo mentre lo abbracciavo a mia volta, aggrappandomi alla sua maglietta, ancora al contrario. E mi venne da sorridere, forse per il sollievo o forse per la felicità di aver fatto un passo avanti con Zayn, un passo che magari avrebbe prodotto qualcosa di buono.
«Grazie» sussurrò vicino al mio orecchio destro, per poi lasciarmi un bacio prolungato sulla guancia.
Lo strinsi un po’ di più.
«E non solo per questo – aggiunse poco dopo, allontanandosi lentamente da me. Riuscii a guardarlo in faccia, mentre le mie braccia tornavano lungo i miei fianchi e mentre la sua mano sinistra mi spostava una ciocca di capelli dal viso. – Grazie per tutto quello che hai fatto e che vuoi ancora fare, nonostante io sia stato uno stronzo. Grazie per aver deciso di restare. E grazie per avermi urlato contro. – Fece una pausa ed io attesi in silenzio. - Nessuno lo fa più, sai? Nessuno mi rinfaccia di essere un egoista, di essermi arreso, né osa ancora dirmi che potrei farcela, anche dopo tutto questo tempo».
Ero incantata a specchiarmi nei suoi occhi, perché continuavano a studiarmi attentamente permettendomi di decifrarli a mia volta, come se volessero mostrarsi innocui e riconoscenti. Erano completamente diversi da quelli che mi trovavo davanti durante i momenti più bui di Zayn.
«Invece tu hai saputo farlo: hai saputo scuotermi e dirmi la verità, perché non ti sei fatta scrupoli e perché non hai avuto paura di ferire il povero ragazzo che ha perso la persona che amava – riprese, pronunciando quelle ultime parole come se fossero una presa in giro. Era evidente che Zayn risentisse dell’amore forse eccessivo che i suoi amici provavano per lui, del loro senso di protezione e comprensione che probabilmente non li faceva essere oggettivi: era facile capire come avessero potuto trattenersi dal riprendere Zayn quando invece ce ne sarebbe stato bisogno, per paura di fargli del male o di mostrarsi insensibili. – Quindi grazie, perché mi hai fatto bene».
Ero ammutolita: non mi aspettavo quelle parole, né il tono di voce estremamente sincero con il quale erano state pronunciate. Per questo non risposi, incapace di trovare le cose giuste da dire, e per questo Zayn ebbe tutto il tempo di riprendere a parlare senza alcuna interruzione.
«Vicki, io voglio che tu sappia che so di aver sbagliato, di essere stato un vero stupido – aggiunse infatti, questa volta con più enfasi, come se sentisse il bisogno di convincermi. – Voglio che tu sappia che mi sono pentito di averti… usata, in un certo senso, e di aver lasciato che la mia debolezza ti facesse del male. E, soprattutto, voglio che tu capisca che, nonostante quello che ho fatto e il motivo che mi ha spinto a farlo, io tengo davvero a te: e non perché hai gli occhi di Kathleen, ma perché sei tu».
Questa volta fui io a cercare un contatto con lui, perché, stranamente, non riuscivo ancora a trovare le parole giuste, quelle che avrebbero potuto esprimere il mio stato d’animo.
Così, mentre affondavo il viso nell’incavo del suo collo – il profumo del suo bagnoschiuma era ancora molto forte -, pensai a quanto sembrasse strano essere arrivati ad un chiarimento così semplicemente, senza bisogno di urlare ancora o di litigare; a quanto sembrasse strano esserci capiti senza troppi sforzi; a quanto sembrasse strano aver aspettato otto giorni per fare qualcosa. Eppure, allo stesso tempo, avevo l’impressione che fosse più che giusto avere il suo sorriso sincero – quello che all’inizio della nostra conoscenza mi ero chiesta se l’avrei mai visto rivolgermi – tra i miei capelli, e il mio cuore un po’ più leggero rispetto a prima. Era terribilmente giusto essere di nuovo l’uno accanto all’altra.
«Promettimi solo che non mi mentirai più.»
«Te lo prometto.»
 
L’orologio da parete appeso sopra la porta della cucina segnava quasi le cinque: io ero seduta su uno degli sgabelli intorno all’isolotto al centro della stanza e stavo mangiando le ultime patatine che Zayn mi aveva offerto poco prima. Lui, intanto, girovagava su internet grazie al computer portatile appoggiato davanti a me, proprio come se fossimo due vecchi amici in un pomeriggio di nulla-fare.
Effettivamente, però, quando spostai lo sguardo su di lui – se l’era presa quando si era reso conto di aver indossato la maglietta al contrario e di non essere stato avvertito -, lo trovai a fissarmi quasi fosse incantato. Gli occhi scuri erano concentrati e assorti.
Smisi di masticare e corrugai le sopracciglia, leggermente a disagio da quella situazione; ora che sapevo cosa pensasse esattamente quando mi guardava in quel modo, era un po’ difficile abituarsi all’idea di assomigliare alla sua ex ragazza: a casa avevo persino cercato delle vecchie foto di Kathleen, forse tentando di capire perché non me ne fossi mai resa conto, e durante quel pomeriggio ne avevo anche parlato con lui, chiedendogli addirittura perché nessun altro se ne fosse accorto. Zayn mi aveva spiegato che la somiglianza che mi legava a Kathleen non era così scontata: derivava da piccoli dettagli, da piccole espressioni che solo lui e - a fatica - Abbie erano riusciti a cogliere.
Quando deglutii, mi rivolsi direttamente a lui. «Pensa alle differenze» gli consigliai.
Zayn corrugò la fronte e si riscosse, sistemandosi meglio sulla sedia. «Eh?»
«Quando ti ricordo Kathleen, pensa a tutte le cose che invece abbiamo di diverso – spiegai meglio. – A quelle cose che amavi di lei e che io non ho».
Lui ci pensò su per un attimo, incupendosi leggermente: sapevo ci fosse ancora molto su cui lavorare, ma il mio obiettivo era proprio quello di farlo sbarazzare di quelle espressioni che ormai regnavano incontrastate sul suo volto in gran parte della giornata. Era impressionante come il suo stato d’animo potesse cambiare da un momento all’altro: talvolta sembrava essersi liberato di tutti i suoi tormenti, ma l’attimo dopo ripiombava nelle sue rimuginazioni.
«Ci proverò» disse soltanto, abbassando lo sguardo e riportandolo sullo schermo del computer. Era ovvio che, dopo la nostra riappacificazione, le cose non sarebbero cambiate di punto in bianco: ci voleva tempo affinché lui si potesse abituare a quel distacco definitivo dalla speranza che l’aveva accompagnato fino ad allora, quella di riavere una parte di Kathleen al suo fianco, ed io ero disposta a concedergliene, perché in fondo serviva anche a me.
«Cazzo» sbottò subito dopo, sospirando e facendomi quasi spaventare.
«Che c’è?» domandai, leccandomi le dita dai residui delle ultime patatine.
«Ehm… Vicki, io non è che voglia cacciarti, però… - farfugliò, alzandosi in piedi. – Non pensavo fosse così tardi».
«Devi uscire?» chiesi, cercando di andargli incontro.
«No. No, non devo uscire – rispose, scuotendo la testa. – È che a momenti dovrebbero arrivare gli altri e… Oh, insomma, ci sarà Louis e quasi sicuramente anche Eleanor».
Schiusi le labbra e il respiro mi si bloccò in gola: il nome di Louis ormai aveva sempre lo stesso effetto su di me, soprattutto se pronunciato ad alta voce, dato che che per tutto quel tempo era rimasto un semplice eco nella mia mente. Era buffo come, dopo la sua comparsa improvvisa in casa mia, non si fosse più fatto vivo: solo una volta, dopo tre o quattro giorni, avevo trovato una sua chiamata persa sul cellulare, e quando avevo provato a richiamarlo – nella speranza di sentire la sua voce e magari di parlargli – lui era scomparso, obbligandomi a fare lo stesso.
«So che tra di voi le cose non vanno molto bene, o almeno così mi è sembrato – aggiunse Zayn, stupendomi. – Alla fine quel bacio è servito a qualcosa, avevo ragione» ridacchiò, per smontare la tensione che mi aveva conquistata nell’arco di pochi secondi.
Io accennai un sorriso, ma tornai seria subito dopo. «Come fai a saperlo? Ti… Te ne ha parlato lui? Ti ha raccontato qualcosa?» domandai. Non avevo detto niente a Zayn dell’accaduto, ma evidentemente lui sapeva più di quanto immaginassi.
«Non so molto, in realtà – ammise, alzando le spalle. – Io e Louis abbiamo solo avuto una piccola discussione, due giorni dopo l’evento: era convinto che io e te stessimo insieme, o qualcosa del genere».
Spalancai gli occhi e deglutii a vuoto: avevano litigato? Effettivamente Louis aveva visto quel bacio tra me e Zayn ed io non avevo mai realmente smentito una nostra possibile relazione, ma solo perché avevo dato per scontati i miei sentimenti, credendo che fossero più che palesi. Che questo l’avesse portato ad essere più insicuro, nonostante le sue parole e nonostante le mie?
«Zayn, dimmi cosa ti ha detto – lo pregai, a bassa voce. – Per favore».
Notò la mia agitazione, quindi non esitò. «È solo piombato qui chiedendomi delle spiegazioni – cominciò. – Mi ha detto che era stanco di doverci vedere insieme anche se sapeva che tu mi avresti potuto rendere felice: vedi, nemmeno gli altri conoscevano tutta la storia. Avevo detto loro esattamente quello che avevo detto a te, ovvero che mi piacevi e che volevo provare a stare bene. Per questo Louis non ha mai avanzato nessuna pretesa su di te, nonostante io sapessi che gli interessassi: ovviamente ha il suo caratteraccio, ma a questo punto credo che volesse anche farsi da parte. Per me».
Forse quello era un altro fattore da aggiungere tra quelli che avevano spinto Louis ad allontanarsi da me? La paura di rovinare tutto e la volontà di mettere il suo migliore amico al primo posto dovevano essere stati un mix fatale, per lui.
Ma in che razza di situazione mi ero cacciata per tutto quel tempo?
«Comunque poi gli ho spiegato come stavano realmente le cose e lui se ne è andato» concluse, facendomi capire di non sapere altro.
Era evidente che Louis non riuscisse ad aprirsi a pieno nemmeno con i suoi migliori amici. Inoltre, a proposito, stava per arrivare a casa di Zayn: significava che avrei potuto rivederlo, anche se ci sarebbe stata Eleanor.
«Posso restare?» domandai, senza commentare il suo racconto e schiarendomi la voce. Ero la solita masochista testarda e sentimentale, ma dovevo fare una cosa.
Zayn mi guardò con tanto d’occhi, forse leggermente spaventato dalle mie intenzioni sconosciute, ma proprio nel momento in cui aprì bocca, il campanello di casa interruppe il nostro discorso.
Mi voltai in direzione della porta ed inspirai profondamente.
«A quanto pare sei già rimasta» mormorò lui, riferendosi alla prontezza con la quale ero stata accontentata.
Io non risposi, limitandomi a concordare con lui nella mia testa: non pensavo che quando Zayn aveva detto che presto sarebbero arrivati gli altri, intendesse così presto. Per un attimo, infatti, andai nel panico: era come se la parte di me che conservava ancora un minimo di istinto di sopravvivenza avesse preso il sopravvento e mi stesse spingendo ad andarmene il più velocemente possibile. Eppure dovevo resistere.
Seguii Zayn in salotto, schiarendomi la voce solo per scaricare un po’ di tensione, e sorrisi apertamente quando Niall entrò per primo, dirigendosi velocemente verso di me per salutarmi: credevo che, dopo aver scoperto ciò che realmente legava me e Zayn, mi avrebbero guardata in modo diverso, invece erano sempre i soliti. Anzi, forse fui io a salutare Liam con un po’ di disagio, dopo la confessione di Stephanie. Harry invece non c’era.
Quando poi intravidi Louis, alle spalle degli altri due, dovetti impormi di continuare a respirare e di fingere un certo autocontrollo: rispondendo all’irlandese riguardo “come me la fossi passata in tutto quel tempo”, sbirciai oltre il suo viso arrossato per il freddo ed i suoi occhi vivaci. Altre iridi, infatti, catturarono la mia attenzione.
Louis indossava una vecchia felpa nera ed un paio di pantaloni grigi in cotone: aveva gli occhi assonnati ma comunque allegri, mentre salutava tranquillamente Zayn – evidentemente la discussione tra di loro era stata di poco conto -. I capelli disordinati e bassi sulla fronte mi ricordavano quelli che aveva quando era venuto a casa mia, anche se lui non era più in pigiama e al posto delle espadrillas indossava dell Vans bianche consumate.
Mi mancava il fiato, perché mi mancava lui e perché Eleanor al suo fianco mi faceva male: fu lei, infatti, – con le gambe magre e lunghe strette in un paio di pantaloni di un blu elettrico e con indosso un maglione largo e biancastro che copriva le sue forme eleganti – a vedermi per prima. Non esitò a farmi notare tutto il suo disappunto tramite uno sguardo di puro odio, per poi alzare gli occhi al cielo sospirando sonoramente.
Io mi concentrai di nuovo su Niall e sorrisi per farmi forza, tentando di fingere che il mio cuore non stesse per uscirmi dal petto.
«Victoria?»
Al suono di quella voce mi immobilizzai, spostando poi lo sguardo su Louis, che ci aveva intanto raggiunti: era parzialmente nascosto da Niall e Liam, che però si spostarono leggermente di lato per permettermi di salutarlo. Ed io sarei potuta rimanere lì ad osservarlo per ore o giorni, perché i suoi occhi erano finalmente di nuovo nei miei e perché le sue labbra mi chiamavano, mi supplicavano. Eppure dovevo attenermi alle mie intenzioni, quindi sorrisi debolmente e «Ciao, Louis» dissi flebilmente, stringendo i pugni per non permettere alle mie mani di allungarsi e di accarezzargli il collo scoperto.
Non parlammo oltre, però, perché Eleanor era al suo fianco e lui era consapevole di cosa significasse, quindi non aspettò a riscuotersi dalla sorpresa e a dirigersi con lei verso il divano.
Zayn, alle sue spalle, scosse la testa come per farmi capire che mi sarei fatta del male da sola, ma io ero pronta.
Sapevo perfettamente che avrei dovuto sopportare la vista di Louis con un’altra a pochi metri da me, sapevo che probabilmente Eleanor avrebbe fatto di tutto per marcare il territorio e che lui, a sua volta, si sarebbe comportato come al suo solito, ovvero come se andasse tutto bene ed io non significassi assolutamente niente. Però sapevo anche che non era così, perché io un significato ce l’avevo, quindi ero disposta a sentire il mio cuore pulsare per il dolore e a nascondere le mani che tremavano per il nervosismo: ero disposta a tutto, pur di far capire a Louis che non mi sarei arresa facilmente. Che poteva nascondere i suoi sentimenti nella relazione con Eleanor, dirmi di essere andato a letto con lei altre mille volte, fare lo stronzo e cercare di allontanarmi di nuovo, ma che non sarebbe riuscito a scoraggiarmi.
Avrei stretto i denti e sarei andata avanti, fino a convincerlo del fatto che non l’avrei lasciato fuggire da ciò che invece voleva anche lui.
 
Sospirai sonoramente, strisciando le mani sul tessuto  dei jeans chiari nonostante le avessi già asciugate in bagno, quasi come segno di tensione: mi richiusi la porta alle spalle e per un attimo rimasi immobile nel corridoio.
Potevo sentire gli schiamazzi dei ragazzi, a qualche metro da me, e mi chiedevo quanto sarei riuscita ancora a resistere: nonostante fossi stata io a decidere di rimanere, non era passata nemmeno un’ora dal loro arrivo – dall’arrivo di Louis insieme ad Eleanor – e già iniziavo a sentire i primi sintomi di stanchezza, quasi di dolore, per quegli occhi azzurri che ogni tanto incrociavano i miei. Mi imploravano tacitamente di andarmene e talvolta sembravano quasi chiedermi spiegazioni, ma di certo erano sorpresi dal vedermi ancora lì: probabilmente non erano abituati a riscontrare tanta ostinazione in me.
C’era qualcosa, nello sguardo di Louis, che era notevolmente cambiato: forse, da quella notte in casa mia, lui si sentiva completamente scoperto? Vulnerabile? Era come se mi temesse e allo stesso tempo non potesse fare altro che osservarmi attentamente: ovviamente solo quando non c’era pericolo che Eleanor lo potesse scoprire, dato che ogni minuto che passava dava l’impressione di essere sempre più infastidita dalla mia presenza.
Appena feci un passo verso il salotto, per tornare proprio dove mi attendeva una tortura che io stessa mi ero imposta, delle note al pianoforte attirarono la mia attenzione: corrugai la fronte, stupita, e rimasi in ascolto. Non sapevo nemmeno che Zayn ne avesse uno in casa, figuriamoci sapere dove fosse: e poi, chi era a suonare?
Esitante, mi mossi verso quella melodia1: era lenta e credevo di conoscerla, perché c’era qualcosa di familiare in lei. Alla fine, percorrendo il corridoio, lasciai alla mia destra la porta aperta della stanza dalla quale sembravano provenire quei suoni delicati: avevo quasi paura di sbirciare all’interno, perché temevo che, chiunque stesse suonando, avrebbe potuto smettere non appena mi avesse vista.
Alzai gli occhi al cielo e mi spostai i capelli sulla spalla sinistra, sbuffando: mi avvicinai alla parete e feci ben attenzione a non mostrare troppo del mio viso mentre davo un’occhiata alla stanza.
Tornai subito ad appiattirmi contro il muro, però, quando riconobbi chi fosse: il pianoforte nero e lucido si trovava al centro di una specie di salottino al quale si poteva accedere grazie anche ad un’altra porta, e dietro di esso, gli occhi seri e concentrati di Louis scorrevano sui tasti come se fossero inesorabilmente collegati ad essi. La luce del tramonto inondava lo spazio di una sfumatura calda e rossastra, illuminando ogni lineamento del ragazzo.
Non sapevo sapesse suonare, né che sapesse farlo tanto bene.
Deglutii ed inspirai profondamente, prima di tornare a spiarlo con discrezione: eppure, appena posai i miei occhi su di lui, Louis alzò i suoi e mi fissò, come se fossi riuscita a chiamarlo. Preoccupata, mi pietrificai sul posto, ma in realtà non ne avevo bisogno: senza dire o fare altro, infatti, lui sostenne il mio sguardo per qualche secondo e poi si concentrò di nuovo sullo strumento che sembrava creta nelle sue mani, quasi fosse indifferente alla mia presenza.
Senza più un motivo per nascondermi, mi raddrizzai e mi appoggiai all’uscio della porta, con le braccia incrociate al petto per l’imbarazzo e per coprire la pelle d’oca che quella melodia mi stava provocando.
Il mio sguardo era fisso sul viso del ragazzo a due o tre metri da me, e non potevo fare altro che osservare ogni suo più piccolo particolare, immaginandomi le sue dita sui tasti bianchi e neri: avrei voluto raggiungerlo e magari sedermi accanto a lui per avere una migliore visuale, ma non osavo farlo.
Poi, all’improvviso,  i nostri occhi si incontrarono di nuovo, facendomi bloccare il respiro in gola, e Louis iniziò a cantare. A cantare di fronte a me e – chiamatemi illusa – a cantare per me.
 
“You touch these tired eyes of mine
and map my face out line by line
and somehow growing old feels fine.
I listen close for I’m not smart,
you wrap your thoughts in works of art
and they’re hanging on the walls of my heart.”
 
Per poco le gambe non cedettero sotto la voce acuta e leggermente roca di Louis. Il mio cuore martellava prepotentemente nel mio petto, quasi volesse fare da ulteriore base alla canzone che ormai avevo riconosciuto e che non contribuiva a farmi sentire meglio, date le parole del testo.
E Louis la stava cantando con le sue iridi che non mi lasciavano scampo – il loro solito azzurro era sporcato dalla luce rossastra del tramonto -, mentre io ero combattuta tra il chiedergli pietà, perché tutto quella era davvero troppo, e il chiedergli di continuare per settimane intere. Era la prima volta che lo sentivo cantare, senza tener conto di quel paio di volte che avevo ascoltato un loro singolo alla radio, e non avrei mai pensato che avrei potuto esserne così affascinata, e indebolita.
Louis, con quella voce, mi stava togliendo le forze.
 
“I may not have the softest touch.
I may not say the words as such,
and though I may not look like much,
I’m yours.
And though my edges may be rough
and never feel I’m quite enough,
it may not seem like very much,
but I’m yours.”
 
E fu proprio in quel momento che mi costrinsi a mordermi il labbro inferiore per trattenere dentro di me tutte quelle parole che in un secondo avevano iniziato a spingere per uscire e farsi sentire.
Era impossibile che il testo di quella canzone potesse essere così… Così nostro. Ed era anche assurdo, perché come sempre stavo lasciando che i miei sentimenti mi guidassero in un’interpretazione della realtà tutta mia, ma non potevo fare a meno di ritrovare Louis in ogni verso.
Lui, d’altra parte, non sembrava voler smentire quella mia sensazione, perché era come se mi stesse parlando: le sue labbra sottili accompagnavano ogni parola con delicatezza, e avrei potuto giurare che, in quel momento, non ci fosse nulla di più sincero di loro.
 
“You healed these scars over time,
embraced my soul,
you loved my mind…”
 
Tutto finì troppo in fretta.
Louis sobbalzò di poco, producendo un suono stonato con i tasti del pianoforte, quando qualcuno si schiarì la voce mentre entrava dall’altra porta. Distolse lo sguardo da me e si voltò verso Eleanor, che gli stava sorridendo dolcemente avvicinandosi a lui.
Io fui veloce a nascondermi di nuovo dietro la parete, con la schiena che aderiva ad essa perfettamente e il petto che si muoveva ad un ritmo leggermente più alto per lo spavento e per tutto quello che avevo provato nei momenti precedenti. Chiusi gli occhi e mi obbligai a non ascoltare le loro parole, perché ne avevo già abbastanza.
Solo dopo circa un minuto, osai spiare di nuovo all’interno della stanza, sporgendomi dall’uscio della porta con cautela: Eleanor lo stava abbracciando da dietro, con le braccia a stringergli il petto e il viso nascosto nell’incavo del suo collo. Inutile dire che quella visione mi fece male, più di quanto avessi previsto.
Louis alzò lo sguardo su di me – forse per controllare se ci fossi ancora o forse per puro caso – dopo una manciata di secondi: eppure non lo distolse, appena incontrò il mio. Anzi, sembrò essere sollevato dalla mia presenza: i suoi occhi erano carichi di consapevolezza ed ebbi l’impressione che volessero farmi fare da testimone a quella che era la realtà e allo stesso tempo chiedermi scusa per quello a cui dovevo assistere, ma che non potevo cambiare.
Strinsi i pugni talmente forte da farmi male, perché non potevo credere che Louis riuscisse così facilmente a farsi baciare la pelle da quella che definiva “la sua ragazza” e al tempo stesso guardare me in quel modo, come se volesse farmi capire che avrebbe preferito che fossi io a farlo e, intanto, come se volesse rendermi chiaro quanto quello fosse impossibile.
L’”I’m yours” della canzone, quello che lui aveva cantato per me solo un attimo prima, era terribilmente in contrasto con ciò che mi stava davanti. In fondo, però, non era così assurdo, perché rifletteva la verità: Louis era mio, in un certo senso, nonostante non riuscisse ad esserlo completamente e nonostante continuasse a rimanere legato ad Eleanor a causa delle sue paure.
Però forse lui non sapeva quanto io fossi determinata, e quanto quei pochi minuti passati ad osservarci nel profondo mi avessero incoraggiata: non sapeva che in quel momento avevo l’impressione che fosse in gabbia, in una prigione che si era costruito con le sue stesse mani e nella quale continuava a tornare di sua spontanea volontà nonostante desiderasse la libertà.
Quindi sospirai silenziosamente e guardai per l’ultima volta quelle iridi azzurre, prima di andarmene da lì con un’idea insistente nella testa.

 



SPAZIO AUTRICE
 
Mi scuso in ginocchio per l’immenso ritardo!!!!!!
Ci ho messo un’eternità a scrivere questo capitolo e ho avuto anche poco tempo!
L’ho finito ieri, però poi mi sono venute le mie solite paranoie, quindi eccolo solo oggi hahaha
(Cate grazie ancora mille volte <3)
Detto questo, ci sono un po’ di cosette da dire:
1. Zayn e Vicki che fanno pace: so che può sembrare “avventata” come cosa, che magari
vi aspettavate un’altra discussione etc etc, però non sarebbe stato realistico. Questo perché
Zayn si è scusato un miliardo di volte, nonostante lei non gli abbia mai dato retta, e perché
Vicki non può fare a meno di aiutarlo e di essere completamente risucchiata dalla sua situazione
e dall’affetto che prova per lui. Se avesse deciso di allontanarsi e di tenergli il muso all’inifito
sarebbe stata in netta contraddizione con quello che è il suo personaggio! Che ne dite?
2. Louis era davvero convinto che tra Zayn e Vicki ci fosse qualcosa: se ci pensate, nessuno
gli ha mai detto il contrario, perché Zayn stava mentendo a lui e a tutti gli altri, e Vicki non lo
riteneva necessario! Quindi anche questo ha contribuito a mettere in difficoltà il complessato Louis ahhaha
3. Spero sia chiaro il motivo per cui Vicki decide di rimanere a casa di Zayn:
vuole solo dimostrartsi determinata e ostinata, per far capire a Louis che qualcosa è successo
e che lei non ha di certo dimenticato le sue parole!
4. la scena del pianoforte è un casino ahahah avrei voluto renderla più intensa, ma spero
che vi piaccia anche così! La canzone che Louis canta l’ho trovata dopo aver iniziato la storia e
subito mi ha fatto pensare a lui e Vicki, quindi non potevo non inserirla hahah
Più che altro tutta la scena è una confessione di Louis riguardo i suoi sentimenti, che per
quanto è orgoglioso e impaurito non riesce a fare a parole, e un involontario meccanismo di incoraggiamento
per Vicki: il fatto che Eleanor entri nella stanza proprio mentre c’è quella canzone,
è proprio per rimarcare un po’ la loro situazione. Louis si mette da solo nelle mani di Vicki,
ma sostiene il suo sguardo mentre è tra le braccia di un’altra per farle capire di non poter
fare altro (secondo lui): è qui che Vicki se ne va con “un’idea” in testa!
Bene, credo di essermi dilungata un po’ troppo ahahha Vi chiedo di farmi sapere cosa pensate
di tutto questo bel casino, perché ci terrei davvero :)

GRAZIE MILLE per tutto quello che fate per me e per le recensioni allo scorso capitolo!
Mi piace che la storia sia seguita anche da persone che non hanno letto “Unexpected” fjsdal
 
Per qualsiasi cosa, mi trovare su Facebook, Twitter ed Ask!
 
Ah, credo di non aver mai messo il link qui, però un po’ di tempo fa ho scritto
un missing-moment di “Unexpected”, per chi è interessato: “It doesn’t end” :)

 
 


Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** Stay ***




Stay

Capitolo 22

Vicki.
 
Probabilmente un qualche meccanismo nel mio cervello aveva fatto cilecca. Era l’unica possibilità.
Non c’erano altre spiegazioni per quell’improvvisa e insistente voglia di fare qualcosa che pervadeva ogni centimetro del mio corpo.
Solo un paio di minuti prima Louis aveva cantato per me, provocando la ribellione di almeno un paio di sentimenti e spronandomi ad agire. E subito. Non che avessi un piano preciso, sia chiaro, ma sapevo di doverne mettere in pratica uno, qualsiasi esso fosse.
Così, mentre tornavo in salotto dagli altri ragazzi, varavo velocemente tutte le possibilità che avevo.
Liam e Niall stavano litigando per il telecomando, perché uno voleva assolutamente finire di vedere un film che era iniziato da poco e l’altro sembrava avere un impellente bisogno di guardare una partita di calcio. Zayn, seduto sul divano con il gomito destro sul bracciolo, teneva lo sguardo basso sul telefono nella sua mano e masticava una barretta al cioccolato.
Mi avvicinai a lui con un profondo sospiro, stritolandomi le mani l’una con l’altra.
«Ehy – mormorò quando si accorse della mia presenza, alzando lo sguardo su di me. – Iniziavo a chiedermi dove fossi finita».
«Zayn – esclamai, cambiando totalmente discorso e mordendomi l’interno della guancia. - Pensi ancora che Louis abbia solo bisogno di una provocazione, di una picola spinta?» chiesi di getto, a bassa voce per non farmi sentire dagli altri e ripetendo le parole che lui stesso mi aveva rivolto la sera dell’evento, proprio prima di baciarmi.
La sua espressione era evidentemente un po’ confusa, ma rispose un po’ titubante appena deglutì. «Sì, perché?»
«Perché sono impazzita e probabilmente sto per rovinare questo pomeriggio tra amici» borbottai guardandomi intorno, mentre sentivo i neuroni nella mia testa andare in fumo. Continuavo a pensare che fosse un’idea pessima, che non ci fosse bisogno di assecondarla proprio in quel momento e che non fosse nemmeno da me essere così audace. Eppure, dall’altra parte, sapevo che quell’occasione non poteva e non doveva sfuggirmi: se Louis doveva scontrarsi con qualcuno più testardo di lui, allora lo sarei diventata, a costo di rendermi ridicola davanti a tutti e una stronza davanti ad Eleanor.
Eleanor. Lei era uno dei contro, nella mia improvvisata lista affiancata dai “pro”: sapevo che il suo comportamento ostile fosse più che naturale, dato che io ero stata con il suo ragazzo in quei pochi giorni in cui loro avevano smesso di essere una coppia. Sapevo anche che vedermi così spesso non dovesse essere piacevole per lei. Eppure anche per me non lo era, e sinceramente ero stanca di lasciare che le cose andassero come gli altri decidevano di farle andare, senza fare o dire quasi niente per oppormi.
Non avrei ottenuto Louis semplicemente aspettando che un aiuto divino arrivasse a salvarmi da tutta quella situazione.
«Vicki, che diavolo hai in mente?» domandò Zayn un po’ preoccupato.
Il suo tono scettico e i suoi occhi indagatori fecero vacillare per un secondo tutta la mia determinazione, ma l’attimo dopo quella sensazione sparì, eliminata dal ritorno in salotto di Louis ed Eleanor. Mano nella mano.
Li osservai attentamente mentre tornavano a sedersi sul divano di fronte a quello di Zayn: parlottavano tra di loro e sembrava quasi che Louis tentasse in tutti i modi di non voltarsi verso di me, di non incrociare il mio sguardo nemmeno per sbaglio. Si stiracchiò le braccia e le appoggiò distese sullo schienale, allungando e poi piegando le gambe coperte dalla tuta. Lei, intanto, si ravvivava i capelli.
Ora o mai più, mi dissi.
«Louis, posso parlarti?» chiesi senza pensarci due volte, tenendo i miei occhi fissi nei suoi, in attesa di poterli di nuovo incontrare.
La stanza sprofondò in un silenzio carico di tensione e per un attimo sentii tutti gli sguardi puntati su di me, tutti esprimenti un’emozione diversa: subito dopo, però, Liam e Niall ripresero a parlare o litigare tra loro, prima a bassa voce e poi sempre più vividamente; Zayn morse di nuovo la barretta al cioccolato, ma bloccò lo schermo del telefono e lo gettò affianco a lui, probabilmente per godersi la scena; Eleanor tossicchiò nervosamente e Louis schiuse le labbra, inumidendosele immediatamente dopo. Era a disagio?
«Da soli» precisai con un fil di voce, obbligandomi a non guardare niente e nessun altro intorno a noi: avrei potuto perdere tutto quel coraggio e non sarebbe stata una buona cosa. In più, sapevo perfettamente che quella richiesta avrebbe comportato reazioni sgradevoli, le stesse conseguenze che fino ad allora mi avevano preoccupata.
Ero consapevole del fatto che Eleanor non avrebbe di certo accondisceso ai miei desideri così facilmente. E come darle torto?
«Qualsiasi cosa tu debba dirgli, possiamo sentirla anche noi, tranquilla» spiegò infatti, con un tono di voce falsamente cordiale. La sua espressione, però, tradiva il tutto con un’ostilità quasi palpabile.
Sospirai, pronta ad una possibile discussione, e «in realtà no» precisai.
Sembrò quasi che Louis stesse per dire qualcosa, ma Eleanor lo anticipò. «Senti, Victoria – esordì, inclinando il capo leggermente di lato e guardandomi come se avesse voluto staccarmi la testa dal collo. – Mi hai stancata, davvero».
Sentii la mano di Zayn posarsi delicatamente sulla mia schiena e accarezzarla come a volermi dare coraggio, o fosse per pregarmi di smetterla. Ma era quello il punto: io non mi sarei mai comportata in quel modo, se non avessi sentito la necessità di farlo in mancanza di altre possibilità. Stavo facendo tutto quello per Louis, per dimostrargli che non avrei gettato la spugna neanche se si fosse impegnato con tutto se stesso per farmelo fare: d’altronde avevo già provato di tutto, avevo provato a capirlo, a parlargli e poi ad urlargli contro, ma niente aveva funzionato.
Si poteva dire che quello fosse il mio ultimo e disperato tentativo di spronarlo.
Spostai lo sguardo su di lui, che mi guardava con la fronte leggermente aggrottata: le labbra serrate e i pugni chiusi. Era nervoso, parecchio, ma fino a che punto avrebbe resistito?
Io non per molto.
«Louis, devo parlarti» ripetei, ignorando le parole della ragazza al suo fianco.
«Questa è bella! – sbottò Eleanor, alzandosi in piedi e passandosi una mano tra i capelli. La stanza si immerse di nuovo nel silenzio e Louis scattò in piedi mormorando un “El, calmati” mentre le afferrava delicatamente un polso. Mi imposi di ignorare quei gesti. – Per quanto ancora cercherai di finire a letto con il mio ragazzo?» sputò lei, velenosa, tanto da farmi immobilizzare per qualche secondo.
«El, per favore» ripeté Louis, rivolgendomi poi uno sguardo arrabbiato e supplichevole al tempo stesso.
Mancava poco, me lo sentivo.
«No» mimò lui con le labbra, per non farsi sentire dagli altri ma per farsi capire da me.
Non gli diedi retta.
«Ho solo detto di volergli parlare» ribattei, stringendo i pungi e deglutendo la frustrazione.
«Certo, come no – riprese lei, gesticolando. – Non sono stupida, sai? So perfettamente quello che stai cercando di fare, perché ci sono state altre mille ragazze prima di te, ragazze che pensavano di poter ottenere un po’ di notorietà e di dividere me e Louis. Ma indovina un po’? Nessuna di loro è mai riuscita nel suo patetico intento, quindi perché non la smetti?»
Nella sua voce non c’era solo rabbia, ma anche molta stanchezza. Doveva essere abituata a situazioni del genere, ad approfittatrici ed opportuniste, ma non potevo fare a meno di pensare che nel mio caso fosse tutta un’altra storia.
Quella fu la prima volta in cui provai davvero pena per lei.
«Non sono come quelle ragazze» affermai, cercando di mantenere la calma. Non volevo mettermi ad urlare o cose del genere, anche perché lei stessa non se lo meritava e in più non ce n’era bisogno.
«Questa è la scusa che usano tutte – ribatté prontamente. Negli occhi ostilità e mancanza di fiducia. – Ma ho già sopportato abbastanza: ho sopportato la vostra scappatella, il tuo essere sempre in mezzo e la tua aria da angioletto. Ora però non rimarrò qui a guardare mentre…»
«Ed io non me ne andrò fin quando non avrò parlato con Louis» la interruppi a malincuore, spostando lo sguardo su di lui. Mi sentivo una persona orribile.
Eleanor serrò la mascella e «Louis» sospirò, come se gli stesse chiedendo aiuto. Ma lui quasi la ignorò, perché i suoi occhi erano fissi su di me: e se avevo l’impressione che volesse uccidermi per tutto quel casino, al loro interno leggevo anche dell’altro.
«Louis!» lo riprese El, scuotendolo leggermente per un braccio. Era esausta. E impaurita.
Scusa, pensai tra me e me.
La mano di Zayn scivolò via e io non osai guardarlo, né guardare Liam o Niall, per paura di notare espressioni ben poco favorevoli al mio comportamento. Ma se conoscevano davvero così bene il loro amico, forse mi avrebbero dato ragione nel dire che metterlo alle strette era l’unica cosa da fare.
Louis si voltò a guardarla, ma non disse niente, e io non riuscii a capire cosa ci fosse in quello sguardo, ma quasi mi stupì nel vedere Eleanor reagire indignata. Non disse nulla, assolutamente nulla, ma si mosse velocemente con rabbia, per raccogliere la borsa dall’angolo del divano e dirigersi a grandi passi verso la porta di casa, solo per poi farla sbattere dietro di sé una volta uscita.
Rimasi a guardare quella tavola di legno per qualche istante, incredula, sollevata e preoccupata al tempo stesso: non potevo crederci.
 
All’improvviso sentii una mano – la sua mano – stringersi intorno al mio polso sinistro e trascinarmi via con forza: spostai il mio sguardo su di lui e osservai le sue spalle tese e il viso contratto dal nervosismo. I capelli disordinati e le sue dita sulla mia pelle.
Si fermò soltanto quando raggiungemmo una stanza alla fine del corridoio, quella che sembrava una camera degli ospiti: chiuse la porta  con un tonfo e si girò verso di me, il respiro accelerato.
«Ma che cazzo stai facendo?» sbottò ad alta voce, avvicinandosi di un passo e paralizzandomi con le sue iridi terribilmente fredde e grate contemporaneamente.
Non risposi.
Lui abbassò la voce e assottigliò gli occhi. «Ti è dato di volta il cervello?» domandò ancora, con un sonoro sbuffo.
Stava reagendo, ed era un bene. Era quello che avevo sperato di ottenere.
«A quanto pare era l’unico modo per obbligarti a parlarmi» spiegai, tentando di mantenere un certo contegno. Essere di nuovo da soli dopo tutto quel tempo mi indeboliva.
«Obbligarmi? – ripeté lui, quasi arrabbiato. – E se io non volessi parlare con te?»
«Non mi interessa. Lo farai – mi imposi. – Devi farlo».
«Ti sbagli.»
«Allora perché non sei intervenuto? Perché non hai seguito Eleanor?»
«Smettila.»
«Per favore.»
«No.»
Quando lo vidi voltarsi in direzione della porta, il mio cuore si fermò. «Te lo giuro, Louis: se tu ora esci da qui, non mi vedrai mai più.»
Il tono della mia voce, nonostante tremasse leggermente per l’improvviso terrore che mi aveva attanagliato lo stomaco, sembrò essere abbastanza deciso da fermare Louis. Forse anche lui aveva temuto qualcosa, con quelle mie parole?
Chiusi gli occhi e respirai profondamente, sollevata dall’avere ancora la sua presenza a pochi passi da me.
«Anche io ho paura – esordii dopo una manciata di secondi, flebilmente e abbassando lo sguardo sul pavimento in mattonelle color panna. Le sue spalle, ciò che mi concedeva di vedere, si contrassero insieme alle sue mani, che si chiusero a pugno: subito dopo si rilassarono. – Ho terribilmente paura, Louis. L’ho avuta dal primo momento e credo che non mi passerà mai completamente: all’inizio avevo paura che tu mi stessi prendendo solo in giro. Poi ho avuto paura dei tuoi cambi d’umore, delle tue parole e dei tuoi occhi. Ho avuto paura di quello che sentivo… che sento, per te. Ho avuto paura anche oggi, quando ho dovuto comportarmi in quel modo solo per avere una tua reazione, paura di essere rifiutata di nuovo da te. E ho paura anche ora: ho paura che ti volterai a guardarmi e te ne andrai come hai sempre fatto, che dirò una parola sbagliata e tu scapperai.»
Mi fermai solo per regolarizzare il respiro e tutte le altre mie funzioni vitali, perché avevo gli occhi lucidi e la voce spezzata. Louis mi dava ancora la schiena e io non sapevo se lo odiassi per questo, o se gliene fossi grata perché mi permetteva di parlare più facilmente.
«Ho paura che, se anche tu deciderai di dare ascolto a quello che provi, noi due non riusciremo a stare insieme. Ho paura delle mie illusioni e del tuo carattere, del tuo essere parte di una boyband di fama mondiale e del mio essere solo un’organizzatrice di eventi – ripresi, alzando il viso. – Ma è questo il punto: è giusto avere paura».
Louis girò impercettibilmente il volto alla sua destra, quasi avesse sentito il bisogno di voltarsi completamente ma avesse poi pensato che fosse meglio non farlo. Quello bastò ad incoraggiarmi.
Mi avvicinai a lui con passi esitanti, quasi non volessi nemmeno farmi sentire, e arrivai a percepire il suo profumo: si accorse subito di me, ma non si scansò né diede segno di fastidio, limitandosi a guardarmi con la coda dell’occhio, dato che il suo viso era ancora nella stessa posizione di prima.
Inspirai profondamente – se i miei polmoni avessero avuto anche solo un po’ più di capacità, sarei riuscita a toccargli la schiena anche solo respirando – e mossi le mani molto lentamente: ero io quella più terrorizzata, tra i due.
Gli toccai i fianchi, quasi sfiorandoli, e subito dopo glieli circondai con le braccia, attenta a valutare qualsiasi segnale che avrebbe potuto sconsigliarmi quel mio gesto: mi sembrava di avere a che fare con un’animale spaventato, uno di quelli che ad ogni minimo movimento brusco scappano a gambe levate senza mai guardarsi dietro. Ed io dovevo proprio evitare che Louis fuggisse.
Quando riuscii a far aderire il mio petto alla sua schiena, appoggiando la guancia sinistra sulla sua scapola, chiusi per un attimo gli occhi e cercai di godermi il più possibile quell’abbraccio stentato e che avrei voluto che lui ricambiasse.
«Si ha paura perché si ha qualcosa da perdere, no?» sussurrai, con le labbra vicino alla sua maglietta e il cuore che batteva contro di lui, quasi a volergli dire “non vedi? non ti accorgi di cosa mi fai?”.
A quelle parole lo sentii respirare profondamente, mentre le mie mani rimanevano sul suo addome.
«Quello che voglio dire è che… Louis, noi abbiamo qualcosa – continuai, lasciando che le frasi si assemblassero da sole. Trattenne il respiro, come se l’avessi ferito. – E tu lo sai, perché se no non avresti paura, così come non l’avrei io. Allora perché non ti concentri su quello che c’è e non su quello che potresti perdere?»
Sentii i suoi muscoli contrarsi, come se quella possibilità l’avesse messo a disagio, come se avesse potuto soffrire al solo pensiero: ma io non sapevo come fargli capire in altro modo che tutto ciò che sentiva era normale, e che io ero esattamente nella sua stessa situazione. Ero con lui.
«Vorrei davvero che tu lo facessi» dissi, talmente piano da dubitare che mi avesse sentito. Sembrava una preghiera, un pensiero sfuggito al mio controllo.
Mi strinsi un po’ di più al suo corpo, quasi a volerlo rassicurare, e aspettai che fosse lui a dire qualcosa: o almeno sperai che così succedesse. Ero talmente sommersa da sensazioni ed emozioni, da non avere nemmeno più le forze di affrontarlo ancora e ancora.
Quando poi si mosse, non seppi se essere preoccupata o impaziente: lasciai semplicemente che mi sfiorasse la mano destra con la sua, facendomi venire i brividi per quel contatto che tanto mi era mancato.
«Io invece non voglio farti soffrire» sussurrò.
Sembrava l’ennesimo rifiuto.
Strinsi le palpebre come riflesso per il dolore che le sue parole mi avevano provocato e mi ritrassi lentamente: abbandonai la sua schiena e portai le braccia lungo il mio corpo. Era come se mi avesse tolto ogni briciola di determinazione e volontà: ero stanca. E ferita.
«Lo stai già facendo» mormorai, più a me stessa che a lui. Il viso abbassato e alcune lacrime che insistevano per lasciare i miei occhi.
Louis si voltò velocemente verso di me e per un attimo nessuno dei due si mosse. Quando vidi la sua mano alzarsi verso di me, feci un passo indietro in modo da essere salva, e mi obbligai a fissare le mie iridi scure nelle sue: non mi importò di leggere in loro ciò che probabilmente stavano cercando di dire o di nascondere.
«Dici che non vuoi ferirmi, che hai paura di rovinare tutto, ma continui a farlo! – sbottai, alzando un po’ la voce a causa del tumulto che regnava in me. Una parte di me sapeva che quelle mie parole andavano contro tutti i tentativi precedenti, ma erano anche la verità. – Ogni volta… Ogni volta che mi respingi, ogni volta che ti tiri indietro, tu… Tu mi fai male, Louis.»
Le ultime parole uscirono a stento dalla mia bocca, perché ormai avevo perso contro la mia emotività, contro quelle stesse lacrime che avevo tenuto a bada fino a quel momento. E Louis mi guardava come se fosse pietrificato, come se non riuscisse a muovere un muscolo e allo stesso tempo avesse voluto ribaltare il letto singolo di quella stanza, rovesciare a terra i soprammobili sulle due mensole, rompere le ante dell’armadio in legno chiaro e poi baciarmi.
Anzi, quell’ultima parte era solo frutto della mia immaginazione.
«Quindi, per favore, smettila – continuai, tirando su con il naso. – Non respingermi più o… Se proprio devi, fallo una volta per tutte e lasciami in pace».
Mi pentii immediatamente dopo di aver parlato in quel modo, di aver lasciato che i miei sentimenti oscurassero tutti i buoni propositi che avevo fino ad allora seguito: temetti di averlo fatto scappare definitivamente e di avergli appena dato il pretesto per scomparire dalla mia vita, mentre era l’unica cosa che non avrei mai voluto. Temetti di averlo perso.
Avrei voluto riaprire bocca e rimangiarmi tutto, pregarlo di far finta di niente e riscrivere la mia battuta, ma fui distratta da un suo movimento.
Chiuse gli occhi e si passò una mano tra i capelli, rendendoli ancora più disordinati: quando rialzò lo palpebre, permettendomi di perdermi di nuovo nelle sue iridi, illuminate dalla luce del tramonto proprio come nella sale del pianoforte, sentii le gambe cedere sotto la loro intensità.
«Non capisci…» cominciò a bassa voce, interrompendosi subito dopo.
Mi asciugai il viso dalle lacrime che mi ero imposta di fermare, e lo guardai fare un passo verso di me: si avvicinò tanto da farmi sentire il respiro sulla mia pelle.
«Non capisci che non ci riuscirei, a lasciarti in pace?» soffiò sul mio viso, alzando un mano per accarezzarlo e incastrare le dita tra i miei capelli.
Non capivo più nulla, non sapevo cosa dire, come comportarmi, se dargli un altro ultimatum o pregarlo di non lasciarmi, se ignorare tutta quella indecisione e cedere all’istinto di stringerlo a me, di baciarlo e tirargli uno schiaffo.
Alla fine, però, tutto si risolse in un semplice ed involontario «allora non farlo».
E in quel momento, mi accorsi che forse non me l’ero immaginata, quella sfumatura dei suoi occhi, quella che mi aveva fatto credere – sperare – che anche lui volesse solo mettere tutto da parte e baciarmi. Infatti, l’istante dopo, era proprio quello che stava facendo.
Gemetti qualcosa, nel momento in cui sentii di nuovo le sue labbra sottili e leggermente secche, ma non esitai oltre: portai le braccia intorno al suo collo e mi avvicinai ancora di più al suo petto, al suo profumo, a lui.
Mi sembrava impossibile che stesse davvero accadendo. Che il mio cuore potesse sopportare un tal carico di emozioni. Che le sue mani fossero di nuovo sulla mia pelle. Che io fossi di nuovo in grado di averlo.
«Tu devi restare» disse sulle mie labbra, quasi con sofferenza, come se si stesse arrendendo con riluttanza e avesse avuto bisogno di un’assicurazione.
Respirai il suo respiro caldo e lo guardai negli occhi, così vicini da farmi perdere il senno.
«Quando sbaglierò, tu dovrai restare» ripeté, rendendomi tutto più chiaro.
Era una richiesta - un po’ dura e quasi presuntuosa, certo -, ma pur sempre una richiesta che racchiudeva in sé tutta la paura di Louis: era come se mi stesse chiedendo di non abbandonarlo, di stargli vicino nonostante il suo carattere discutibile e i suoi modi di fare a volte poco delicati.
Ed io non avevo intenzione di lasciarlo.
«Resterò» gli assicurai, tornando sulle sue labbra dolcemente.
 
 
Harry.
 
L’auto si fermò troppo presto davanti all’aeroporto: Celeste, al mio fianco, si voltò a guardarmi a disagio e io mi nascosi dietro gli occhiali scuri che avrebbero dovuto contribuire a farmi passare inosservato.
Naturalmente sapevo che non sarebbe stato così facile, e per questo erano venuti con noi tre uomini della sicurezza che ci avrebbero scortati fino al gate: nonostante il cambiamento nel nostro rapporto, non volevo che andasse da sola verso l’aereo che ci avrebbe divisi per molto tempo, se non per sempre.
«Andiamo» sussurrai, indicando l’esterno dell’auto, mentre sentivo qualcuno aprire il bagagliaio per prendere la valigia di Alice e mentre lei aspettava che io incontrassi il suo sguardo. Non ne avevo intenzione.
Scesi dall’altra parte, sperando che lei si decidesse ad imitarmi.
Il cielo ormai stava per cadere nell’oscurità e io osservai per una manciata di secondi il sole rossastro che stava scomparendo proprio dietro la struttura imponente dell’aeroporto: non sapevo nemmeno come mi sentissi, in realtà. I miei sentimenti erano disordinati, contraddittori e terribilmente precari: avevo l’impressione di non riuscire a gestirli e passavo dalla convinzione di sapere cosa fare a quella di essere un completo stupido.
Celeste, con i suoi capelli castani e gli occhi scuri che in qualche modo avevano ancora un certo potere su di me, si avvicinò a me in silenzio: mi guardò per un istante che sembrò infinito e io per la prima volta ricambiai lo sguardo, inumidendomi le labbra. Conoscevo quelle iridi e sapevo che quella sfumatura che avevano assunto fosse innaturale: stava soffrendo e, nonostante fossi ancora arrabbiato con lei per ciò che mi aveva nascosto, nonostante mi fossi accorto di quanto l’amore nei suoi confronti fosse stato in realtà dettato da un ricordo, tenevo così tanto a lei da desiderare di prendere quel dolore e lasciarla libera.
Allungai la mano verso la sua e gliela strinsi delicatamente, provando a darle un po’ di conforto. Abbozzò un sorriso e cacciò indietro le lacrime.
 
Forse, se avessi chiesto di non essere seguito e se quindi non fossimo stati scortati da quei tre uomini, le persone all’interno dell’aeroporto non avrebbero nemmeno fatto caso a noi: magari la maggior parte avrebbe solo pensato che io fossi strano, con gli occhiali da sole quando il tramonto lo stava portando via, e che lei fosse bella con quel vestitino color panna con le maniche a tre quarti e le gambe magre scoperte.
Perché bella lo era davvero, oltre ogni limite, come sempre.
Ci volle un po’, comunque, ad allontanare i pochi fans che mi riconobbero, per lo più costituiti da genitori che chiedevano autografi e foto per le loro figlie a casa: alla fine, però, la postazione dei metal detector ci stava di fronte e io non sapevo che dire. La mia mano ancora stretta nella sua e le labbra torturate dal nervosismo.
«Harry, io…»
«Lo so» la interruppi, guardandola negli occhi e lasciando gli occhiali appesi al maglioncino verde militare.
«No – mi contraddisse, ostentando una certa malinconica sicurezza. – Lasciamelo dire».
Annuii dopo qualche secondo e mi passai una mano tra i capelli.
«Immagino che per noi non sia mai stato destino – riprese, facendomi corrugare la fronte. I suoi occhi erano seri e fissi su di me. – D’altronde anche all’inizio Abbie era in grado di dividerci e ora si mettono in mezzo anche migliaia di chilometri, come se non bastasse: e so che sono stata io a scegliere di partire, so che tutto questo è solo colpa mia, ma voglio che tu sappia che… Che non mi pento di niente, nemmeno di un istante passato con te: tutti gli sforzi che abbiamo fatto, tutte le difficoltà che abbiamo attraversato e superato, io ricorderò sempre tutto con un sorriso. E anche se ti amo, perché sai che è così, voglio che tu sia felice, a costo di vederti con Abbie: e mi dispiace… Mi dispiace di averti tenuto lontano da lei per così tanto, perché te lo leggo negli occhi che lei… Che lei è quella che…»
Le lacrime che le bagnavano il viso erano insopportabili per me, così come la sua voce spezzata dal pianto, quindi non le permisi di finire la frase e la abbracciai più forte che potei. La circondai con le braccia e le accarezzai la pelle profumata con il naso, affondando il viso nell’incavo del suo collo.
Avevo deciso di essere sincero con lei, quindi le avevo raccontato dei miei dubbi, dei miei sentimenti e del mio incontro con Abbie: avevo bisogno che tra di noi non ci fossero più segreti, perché non erano corretti e non ci facevano bene. Per questo stava parlando in quel modo, ben consapevole di come mi sentissi.
«E io voglio che tu sappia che mi hai reso felice più di quanto lei abbia mai fatto, e che ti ho amata, più di quanto abbia mai amato lei. Devi ricordartelo» le sussurrai all’orecchio, con una morsa allo stomaco per quelle verità che avrei desiderato potessero ancora valere.
Tornai a guardarla negli occhi e le asciugai una guancia con il pollice. Singhiozzava.
«Tu non mi hai tenuto lontano da Abbie: sono stato io a scegliere te, a volere te, a preferire te. E ti chiedo scusa se ora non sono più in grado di farlo, anche se lo vorrei. Celeste, te lo giuro, io lo vorrei».
La vidi annuire lentamente, mentre tirava su con il naso  e mi guardava negli occhi per l’ultima volta per chissà quanto tempo: ci eravamo promessi che, nonostante tutto, saremmo rimasti in contatto o comunque in buoni rapporti. Io non sapevo se ci saremmo riusciti, perché in fondo non ce l’avevamo fatta nemmeno quando eravamo una coppia innamorata, ma ero deciso a provarci: era il minimo che potessi fare.
«Grazie» mormorò flebilmente, spostando una mano dietro il mio collo. Poi si alzò sulla punta dei piedi e si sporse verso di me, baciandomi le labbra con delicatezza, quasi avesse paura di una mia reazione.
Reazione che però non ci fu, perché io la lascia fare e perché forse anche io ne avevo bisogno.
Quando si allontanò da me, piegandosi per prendere la sua valigia da terra e mettersi in fila per il metal detector, ci guardammo solo più un’altra volta negli occhi: nessuna parola, nessun gesto, niente.
Nemmeno ce n’era bisogno.
Mi diede le spalle e, nonostante io fossi rimasto lì fino a quando non la vidi scomparire dietro l’angolo che l’avrebbe portata al suo gate, non si girò mai a guardarmi: e io la conoscevo.
Sapevo che, se l’avesse fatto, probabilmente non sarebbe più riuscita a partire.
 

 


ANGOLO AUTRICE

La situazione è questa: è da ieri che combatto con raffreddore e febbre, 
quindi non ho idea di cosa sia uscito fuori da questo capitolo (mi scuso se qualcosa non quadra)
ma spero voi possiate capirmi, dato che l'ho scritto oggi mentre ero circondata da fazzoletti ahahah
Detto questo, lasciatemi festeggiare per Louis e Vicki che cazzarola finalmente ce l'hanno fatta hahahahha
So che alcune di voi saranno deluse, perché tengono fede al loro schieramento pro-Zayn,
ma ahimè, questo è quanto e spero comunque che il capitolo vi sia piaciuto :)
In una recensione una lettrice mi aveva fatto notare che non avevo mai rappresentato un vero e
proprio confronto tra Vicki ed Eleanor, ebbene, non l'ho mai fatto perché aspettavo questo capitolo :)
L'idea che Vicki ha avuto nello scorso capitolo era proprio quella di creare un po' di scompiglio:
e se avete apprezzato il suo coraggio nel decidere di rimanere a casa di Zayn (mi ha fatto molto piacere),
avrete di certo apprezzato anche quello con cui si fa avanti in questo capitolo!
Ovviamente non è una stronza insensibile, quindi le dispiace per Eleanor, anche perché
dalle sue parole si può capire quante volte abbia dovuto affrontare una situazione del genere: però alla fine
era l'unico modo che secondo lei rimaneva per prendere Louis e fargli una lavata di testa hahah
E alla fine ci riesce! Louis non poteva smentirsi di certo, quindi continua a fuggire da Vicki - almeno all'inizio -,
ma lei ha più o meno imparato come trattarlo, quindi è capace di farsi stare a sentire (finalmente!!!).
Parlando del suo discorso, io spero sia chiaro ahhaha Ditemi pure se qualcosa non vi torna!
In più, vorrei sapere cosa ne pensate del suo "cambio di strategia" dopo che lui le dice di non 
volerla ferire e quindi in un certo senso la respinge di nuovo: si sa che Vicki e i sentimenti sono pappa e ciccia,
quindi mi è piaciuto scrivere il suo piccolo sfogo, completamente in contrasto con il suo discorso pacato e logico
di poco prima: secondo voi? :)
Comunque lascio a voi qualsiasi altro parere, non vedo l'ora fkjsdalfhs (Vale, soprattutto il tuo ahahha)
Harry e Alice: la tenerezza che non mi fanno quei due, non potete capire hahaha
Creoo non ci sia molto da dire su di loro, se non che sono due cucciolotti e che sono sicura che molte di voi
mi diranno che dovevano stare insieme! Ma io vi giuro che non lo faccio apposta, è colpa loro :(((

Aspetto con ansia le vostre opinioni, perché questo capitolo è abbastanza importante 
e perché con il mal di testa che ho non sono proprio oggettiva hahah
Vi ringrazio come sempre per tutto: adoro il modo in cui mi supportate e in cui analizzate i personaggi!
Quindi grazie, grazie, grazie :) (caterina un grazie in più a te <333)

A presto!!

Storia originale: "Morning Bar"
Ask - Twitter - Facebook

 

Ritorna all'indice


Capitolo 24
*** Different plans ***




Different plans

Capitolo 23

Vicki.
 
Era ora di pranzo e il mio stomaco non poteva essere più impaziente, con tutti i brontolii che da circa un’ora mi tormentavano.
La mattinata a lavoro era trascorsa tra bicchieroni di caffè, ordini di antipasti e quant’altro: fuori il cielo era cupo e minacciava di bagnare l’intera Londra con una pioggia abbondante, ma stare chiusa in ufficio non mi allettava lo stesso.
Sospirai sonoramente, alzandomi dalla sedia e sistemandomi il maglioncino in lana blu: spostai i capelli più crespi del solito sulla spalla sinistra e riordinai le ultime scartoffie sulla scrivania. Dovevo allontanarmi da quei pochi metri quadri, o sarei impazzita.
Avevo voglia di chiamare Louis.
E volevo anche ridere, perché quella situazione era a dir poco strana per me: sentivo già la sua mancanza – sì, proprio come una povera ragazzina – e non erano passate nemmeno ventiquattro ore dalla nostra… Riappacificazione? E poi, qualsiasi cosa fosse stata, era ancora impossibile da credere, come se fosse frutto di un sogno sbiadito: forse perché l’avevo attesa per così tanto che avevo in un certo senso iniziato a credere che non l’avrei mai ottenuta, o forse perché Louis stesso era impossibile da credere.
Sentivo solo il bisogno di intervallare i miei impegni di lavoro con la sua voce, anche solo attraverso un telefono. Anche se, a dirla tutta, sembrava quasi che fosse proprio il lavoro ad intervallare i miei pensieri su di lui.
Sorrisi tra me e me e abbassai la maniglia della porta per uscire finalmente dall’ufficio e fiondarmi a mangiare qualcosa, ma dovetti arrestarmi quando mi trovai davanti a Samantha. Era poco più giovane di me ed aveva appena superato un periodo di prova, qui alla “Christian&Catering”: i capelli rossicci e mossi le scivolavano sempre davanti al viso sottile e gli occhi di un nero troppo intenso sembravano non lasciarsi sfuggire mai un dettaglio.
Abbassò la mano ferma a mezz’aria, che probabilmente aveva avuto intenzione di usare per bussare, e chiuse la bocca per poi rivolgermi un sorriso senza mostrare i denti. «Nella sala d’aspetto c’è qualcuno per te – esordì, indicando con un cenno del capo un punto alla sua destra, mentre arricciava il naso leggermente adunco. – Ha detto di fare in fretta, e no, non posso rivelarti la sua identità» aggiunse senza lasciarmi parlare, incapace di nascondere una certa euforia per quelle ultime parole.
Alzai un sopracciglio e la ringraziai balbettando qualcosa, chiedendomi di chi potesse trattarsi mentre lei si allontanava lungo il corridoio: Stephanie aveva il giorno libero, ma avevamo deciso di vederci nel pomeriggio e comunque non avrebbe avuto un motivo per essere così misteriosa. Che fosse tornato Brian? Aveva detto che avrebbe insistito per avere un paio di giorni di congedo, quindi magari era riuscito ad ottenerli.
Con quella speranza a scaldarmi il cuore mi precipitai verso la sala d’aspetto, ma, appena ne aprii la porta, mi congelai sul posto con il nome di mio fratello che usciva dalle mie labbra involontariamente: Brian non c’era, è vero, ma la delusione per quell’aspettativa bruciata fu sostituita nell’arco di un secondo da qualcosa di nettamente diverso e di nettamente più piacevole.
Anche di spalle, infatti, potevo riconoscere i capelli castani e disordinati, la schiena magra e il profilo dai lineamenti duri. I jeans chiari glieli avevo visti addosso un paio di volte e le Vans nere e rovinate erano ormai parte di lui.
Mi rilassai immediatamente, e strinsi il legno della porta nella mano sinistra per cercare di scaricare a terra il brivido che mi percorse.
Louis si voltò verso di me e mi regalò un sorriso che avrebbe dovuto essere considerato illegale per quell’ora. Gli occhi azzurri resi più scuri dalla luce che arrivava dalla grande finestra dietro di lui e le braccia incrociate al petto.
Mi sembrava di vivere un deja-vù: ricordavo ancora come fossi stata sorpresa di trovarlo seduto sul divano ora a pochi passi da lui dopo l’evento al quale ci eravamo conosciuti. Se pensavo a quanto tempo era passato e a ciò  che avevamo dovuto attraversare, lo stomaco si stringeva in una morsa. Non più dovuta alla fame.
«Aspettavi qualcun altro?» chiese, avvicinandosi a me e portando le braccia lungo i fianchi.
Io sorrisi e scossi la testa, chiudendo la porta dietro di me e cercando di non lasciare al mio cuore libero sfogo: dovevo ancora accettare l’idea di me e Louis insieme, e non sapevo quanto ci sarebbe voluto.
«Avevo pensato a Brian – ammisi, stringendomi nelle spalle mentre attendevo che arrivasse ancora più vicino a me. – Non mi aspettavo che fossi tu». Avrei voluto andargli incontro, ma ero come paralizzata: dal suo sguardo, dalla sua semplice presenza, dal pensiero di cosa sarebbe potuto succedere da lì a poco.
Lui abbozzò una risata e le sue labbra rimasero inclinate verso l’alto, mentre rispondeva. «Tuo fratello è nella Marina, a chilometri e chilometri di distanza, eppure hai comunque pensato che fosse più probabile trovare lui qui, anziché me – esclamò, ormai a meno di un metro da me. Le parole ben scandite dalla sua voce acuta e lo sguardo inesorabilmente su di me, a farmi tremare. – Non trovi che sia divertente?» domandò, riferendosi a quel dato di fatto. Effettivamente era una situazione alquanto paradossale.
Sorrisi di nuovo, leggermente in imbarazzo e forse anche un po’ preoccupata dal suo tono, e mi morsi il labbro inferiore. «È che devo ancora farci l’abitudine, sai…»
Lasciai la frase in sospeso, sperando che lui capisse il mio stato d’animo: in fondo fino ad allora il nostro rapporto si era basato su litigi e baci rubati, qualcosa di estremamente instabile e – perché no? - anche nocivo. Non era facile relazionarsi con lui in quel nuovo modo, soprattutto se decideva di farmi una sorpresa e presentarsi senza avvisare sul mio posto di lavoro: era semplicemente assurdo.
E questo era il pensiero – l’aggettivo, anzi - che mi aveva impedito di prendere sonno quella stessa notte: assurdo. Tra le lenzuola in flanella avevo continuato a rimuginare su quanto lo fosse ciò che era successo nel pomeriggio. Il tempo passato nella stanza degli ospiti a casa di Zayn, le mani ruvide di Louis e il mio cuore finalmente in via di recupero. Le sue promesse mormorate sul mio collo e quelle che io gli avevo rivolto in silenzio.
«Anche io» rispose, quasi a bassa voce. I suoi occhi ormai fissi sulla mia bocca, mentre si avvicinava tanto da farmi sentire il suo profumo, lo stesso che mi aveva sempre reso più difficile del previsto stare senza di lui.
Trattenni il fiato e strinsi i pugni quando i nostri visi si sfiorarono, poi anche il mio cuore riprese a battere e tutto accadde in un secondo: Louis si mosse verso di me per posare le sue labbra sulle mie e io reagii rabbrividendo e alzando le braccia per circondargli il busto, aggrappandomi alla sua felpa di un verdone troppo scuro. Sentii la sue mani sfiorarmi i fianchi e poi stringerli per avvicinarmi al suo corpo.
Il suo respiro caldo mi confondeva e il mio era tanto irregolare da risultarmi quasi ridicolo: non potevo avere questa reazione ogni volta che Louis si avvicinava a me, dovevo imparare a controllarmi e soprattutto a non avere paura di lasciarmi andare. Il fatto che fino ad allora tutti i baci che io e lui ci eravamo scambiati fossero stati il preludio di un disastro mi costringeva a temere che la situazione potesse non essere cambiata, ma ormai dovevo aspettarmi che accadesse il contrario.
Indietreggiai di un passo e mugugnai qualcosa sulla sua bocca, quando lui mi spinse lentamente verso la porta: aderii con la schiena al legno freddo e la inarcai verso di lui, non tanto per i brividi quanto per piacere personale, perché non c’era sensazione equiparabile a quella di sentire il suo petto contro di me.
Strinsi i suoi capelli tra le dita e sorrisi involontariamente, mentre lui bramava il mio corpo con le sue mani, che alla fine si spostarono sulla mia schiena: era ancora il mio punto debole, nonostante tutto quello che era successo, o forse proprio a causa di quello.
«Louis… - mormorai, quando mi morse il labbro inferiore. – Non respiro» scherzai, riferendomi alla foga con la quale le sue labbra non mi lasciavano scampo e alla sua presa su di me. Non che mi dispiacesse percepire le sue mani stringermi in quel modo, ma sentivo che da un momento all’altro sarei potuta stramazzare a terra per l’eccesso di emozioni.
Ne ero sempre più convinta: dovevo abituarmi a Louis, o mi avrebbe sopraffatta definitivamente, più di quanto avesse già fatto.
Lui appoggiò la fronte alla mia e respirò sul mio viso, sorridendo. «Fino ad ora mi sono perso tutto… Tutto questo» sussurrò, scuotendo la testa. Io non sapevo cosa rispondere e mi limitavo ad ascoltare il mio battito cardiaco che si sbizzarriva, irrequieto a causa delle sue parole.
«Ma credo comunque che si possa recuperare – aggiunse, portando una mano sul mio collo. – No?»
E l’attimo dopo io non avevo più bisogno di trovare una risposta adatta, perché le mie labbra erano di nuovo vittime indifese delle sue ed il respiro con il quale avrei dovuto pronunciarla era di nuovo andato perso. Mozzato nella mia gola.
Quando il mio stomaco brontolò per l’ennesima volta, però, sprofondai in un certo imbarazzo. Louis rise, continuando a baciarmi l’angolo della bocca, e io gli tirai un po’ di più i capelli.
«Qualcuno ha fame» commentò, rimanendo a qualche centimetro dal mio viso e senza smettere di rivolgermi quel sorriso beffardo che ormai conoscevo alla perfezione.
«Sarebbe più corretto dire che sto morendo di fame» precisai, inclinando leggermente la testa di lato. Mi sentivo le guance in fiamme e gli occhi incapaci di reggere il viso di Louis ad una distanza così sadica.
«E va bene, va bene – esclamò lui, lasciando la presa su di me e facendomi sentire vuota, per un attimo. – Se volevi che ti stessi lontano bastava dirlo» mi prese in giro, allargando le braccia con fare rassegnato e aspettando una mia risata, che non tardò ad arrivare.
«In effetti avrei fatto prima, sì» ammisi, allontanandomi dalla porta.
Louis alzò un sopracciglio e mi scrutò per un paio di secondi, poi mi puntò un dito contro come per rimproverarmi. «Ed io che ti ho portato il pranzo – sbuffò, fingendosi offeso. – Anzi, te l’ho anche pagato».
Corrugai la fronte con ancora un sorriso sulle labbra e mi guardai intorno per capire di cosa stesse parlando: sul tavolino tra il divano e le due poltrone, giacevano due buste bianche e anche parecchio piene.
«Oh… Grazie» mormorai, completamente sopraffatta dalla sorpresa per quel gesto.
Mi passai una mano tra i capelli, cercando di conferire loro un minimo di ordine, e deglutii a vuoto avvicinandomi a lui. Louis Tomlinson aveva pensato di portarmi il pranzo a lavoro: ero impazzita o qualcuno si stava prendendo gioco di me?
Dentro di me in realtà esultavo, al pensiero che tutto ciò fosse più che reale.
«Ma per fortuna sono buono, quindi credo che non ti lascerò morire di fame» sospirò, facendo schioccare la lingua sul palato. Aveva le labbra arrossate ed io non riuscivo a non pensare a quanto gli donassero.
«Che onore - scherzai, andandomi a sedere sul divanetto. – Non credo comunque che potresti davvero fermarmi dal divorare tutto, in questo momento».
«In realtà non so nemmeno se ti piacerà – esclamò, raggiungendomi e iniziando a tirare qualcosa fuori dalle buste. – Ho azzardato con il cinese» spiegò, sventolandomi davanti una confezione di chissà cosa.
«Non l’ho mai assaggiato, se proprio vuoi saperlo» confessai, stringendomi nelle spalle. Le nostre ginocchia si sfioravano e io avevo voglia di accarezzargli la mascella.
«Cosa mi tocca sentire…» borbottò, scuotendo la testa e allestendo un vero e proprio banchetto su quel piccolo tavolino. Per un attimo mi chiesi se fosse opportuno mangiare lì, ma subito dopo mi accorsi che non me ne importava un accidenti.
E poi non volevo interrompere quel momento, distrarre Louis dai suoi gesti e perdere l’occasione di osservarlo in ogni più piccolo particolare: in quell’istante mi sembrava indispensabile concentrarmi sulla linea delle sue labbra sottili e sulle pieghe intorno ai suoi occhi, quelle che si formavano ad ogni suo cambio di espressione, quelle che mi avevano sempre indicato quando rilassarmi o quando tremare per la paura di un imminente litigio.
«Anche oggi hai il giorno libero?» chiesi, incuriosita. Era soprattutto una strategia per impedirmi di rimanere imbambolata a guardarlo: avevo notato le sue iridi spostarsi velocemente su di me per un attimo, quindi sapevo che si era accorto della mia insistenza nel perdermi nei suoi dettagli.
Louis alzò le spalle, inspirando profondamente e accartocciando una busta di plastica tra le sue mani. «Lo avrei, se non dovessi accompagnare Harry a farsi l’ennesimo tatuaggio» spiegò, voltandosi per guardarmi in faccia. Il gomito destro appoggiato sul ginocchio, con la mano a penzoloni, e il busto leggermente girato verso di me.
Annuii e sorrisi al pensiero della pelle di Harry, ormai diventata un foglio di carta pieno di scarabocchi: anche Louis aveva molti tatuaggi e più volte mi aveva sfiorato l’idea di chiedergli il significato di ognuno di loro. Magari un giorno sarei riuscita a comprenderli a pieno, come se fossero i miei, e a conoscere ogni loro sfumatura a forza di passarci le dita sopra e di studiarli.
«Stasera invece non ho niente da fare – aggiunse, distraendomi da quelle fantasticherie. – Magari potremmo vederci» propose, assottigliando lo sguardo, in attesa.
Non scherzava quando parlava di recuperare il tempo perso, e di certo io non mi sarei opposta a quella sua volontà, che alla fine corrispondeva alla mia.
L’idea di passare una serata intera con lui mi provocò una stretta allo stomaco e una dose di impazienza dritta nelle vene: da quanto non accadeva? Da quanto non avevo l’occasione di passare del tempo con lui come agli inizi? Come quella sera al Luna Park?
Il solo pensiero mi elettrizzava e allo stesso tempo mi rendeva più che nervosa, e forse lasciai trasparire ognuna di queste emozioni, perché Louis parlò di nuovo, quasi mi avesse letto nella mente. «Vicki, è strano anche per me» disse seriamente, catturando il mio sguardo con il suo.
Sembravamo due bambini alle prese con i propri sentimenti, entrambi determinati a non far trasparire quella blanda tensione che invece ci avvolgeva, nonostante le nostre mani tremassero di nascosto.
«È strano, ma è piacevole» ammisi, provocando in lui un sorriso a labbra chiuse.
 
Ben presto scoprii che il cinese poteva quasi essere considerato la mia nuova cucina preferita: ogni singola cosa comprata da Louis mi aveva completamente stregata, tanto da invogliarmi a rintracciare il primo ristorante cinese nei paraggi solo per poter mangiare tutte quelle delizie quando più ne avevo bisogno.
Io e Louis avevamo consolidato un certo equilibrio minuto dopo minuto, quasi trovando un modo per abituarci alla presenza l’uno dell’altra, ai baci rubati di sfuggita e alle risate che tanto erano mancate tra di noi.
Stargli vicino in quel modo era… Be’, non avrei nemmeno saputo descriverlo: semplicemente fino a poco prima avevo creduto che non sarei mai più riuscita a scorgere il Louis scherzoso e apparentemente spensierato che avevo conosciuto in primo luogo, mentre ora eccolo lì, seduto accanto a me, come se non se non fosse mai scomparso.
Sapevo che avrebbe dovuto andarsene da lì a poco, e anche la mia pausa stava per finire, ma prima che uno di noi potesse dire qualcosa, il suo telefono prese a squillare nella sua tasca.
Non era mia intenzione spiare, né essere invadente, ma la vicinanza alla quale ci trovavamo mi rese impossibile non leggere il nome che lampeggiava sullo schermo: Eleanor.
Mi sentii improvvisamente a disagio, anche mentre Louis rifiutava la chiamata e riponeva velocemente il cellulare al suo posto, quasi avesse voluto nascondermelo. A quel punto, però, non riuscii a trattenermi.
«Le hai detto di… Di noi?» gli chiesi senza pensarci, lasciando le redini in mano alla parte più impulsiva di me. In fondo avevo il diritto di sapere una cosa del genere: non sapevo se avessero parlato dopo quello che era successo, e sinceramente ero smaniosa di saperlo.
Louis serrò la mascella e prese a raccogliere gli avanzi dal tavolino. Gli occhi rigorosamente lontani dal mio viso. «Non ancora» rispose semplicemente, alzandosi per buttare ciò che teneva in mano.
In un attimo aveva di nuovo indossato quella maschera cupa e ostile con la quale più volte mi aveva allontanata, e in un attimo l’atmosfera che fino ad allora ci aveva fatto compagnia si era dissolta.
Continuai a guardarlo cercando di capire come mi sentissi a riguardo e cosa avrei potuto dirgli, le labbra tese e il cuore leggermente agitato. Cercavo di non giungere a conclusioni affrettate, di non fasciarmi la testa prima di essermela rotta e di essere oggettiva: magari non ne aveva semplicemente avuto il tempo, dato che non era passato nemmeno un giorno dall’accaduto. Magari le avrebbe parlato presto.
O magari no.
Il fatto era che, per come ero fatta io, se mi fossi trovata al suo posto avrei messo subito le cose in chiaro, senza aspettare un minuto in più: Louis era però diametralmente opposto a me, quindi potevo aspettarmi mille cose diverse e decisioni altrettanto distanti da quelle che avrei preso io. L’unico dubbio era se sarei riuscita ad accettarle nel caso fossero state sbagliate, oltre che diverse.
«Ora devo andare – esclamò, rimanendo in piedi a qualche passo da me. – Harry mi starà già aspettando».
Io annuii, ancora pensierosa, e mi avvicinai a lui per salutarlo: quando lui abbozzò un sorriso, cercando di raggiungere le mie labbra, però, io mi ritrassi impercettibilmente.
Il mio inconscio non voleva proprio saperne di stare al suo posto.
La sua mano sinistra era sul mio fianco e i suoi occhi mi scrutarono in un modo che io interpretai come spaventato. Era certamente confuso da quel mio gesto e dalla mia serietà: io stessa lo ero, perché ogni minuto con lui era una novità e perché c’era una parte di me che voleva – pretendeva – che Louis fosse già mio, solo mio. Nessuna Eleanor, nessun altro.
«Non diventeremo una di quelle coppie in cui tu continui a ripetermi che lascerai la tua ragazza anche se poi non lo fai mai, vero?» domandai in un sussurro. La gola secca e il suo respiro sul mio viso.
Ci avevo appena definiti come una coppia, e poco importava se fosse o meno una descrizione adatta  a noi, nonostante sperassi che per lui lo fosse. Ciò che mi premeva sapere era come si sarebbe evoluta tutta quella situazione: ero consapevole del fatto che le paure di Louis non fossero affatto scomparse, nonostante lui avesse deciso di sfidarle pur di stare con me, e che probabilmente gli sarebbe voluto del tempo per distaccarsi definitivamente da quel porto sicuro che Eleanor era per lui, eppure avrei semplicemente desiderato che le cose fossero diverse. Non ero sicura che sarei riuscita a sopportare di saperlo ancora con lei.
Notai l’espressione di Louis farsi più dura e mi sentii vacillare sotto la sfumatura più seria dei suoi occhi: qualcosa in loro non era in grado di rassicurarmi.
«Glielo dirò» mi assicurò, portando l’altra mano sulla mia guancia destra e facendomi rabbrividire.
Lasciai che mi baciasse di nuovo, lentamente, godendomi quel contatto come se non avessi potuto percepirlo di nuovo per chissà quanto tempo ancora, e cercai di trattenere il suo profumo nella mia memoria mentre si allontanava da me per uscire dalla stanza.
«A stasera» lo salutai, accennando un sorriso che lui ricambiò annuendo.
Ancora una volta il suo cellulare suonò nella tasca dei suoi jeans, ed io lo osservai prenderlo velocemente per controllare il mittente della chiamata: non potevo sapere se fosse ancora Eleanor – nonostante ne fossi quasi certa -, quindi non dissi niente mentre lui rispondeva con un “hey” appena mormorato.
E mentre scompariva dietro la porta in legno, io ero divisa tra i miei sentimenti per lui e il timore che la sua, di paura, fosse ben più radicata e caparbia di quanto pensassi, tanto da impedirgli di fare ciò che doveva.
 
 
Niall.
 
Avevo sempre sentito dire che le ragazze, per segnare l’inizio di un cambiamento nelle loro vita, spesso fanno tappa dal parrucchiere di fiducia: certo, non avevo mai capito a pieno quella logica – logica? – femminile, anche perché non vedevo come un taglio di capelli potesse essere così importante, ma avevo iniziato a pensare che un qualcosa di simile avrebbe potuto aiutare anche me.
Insomma, ero quasi sicuro che tutto si basasse sull’innovazione, su un qualcosa di diverso dal solito e dalla routine: ovvio, io non avevo intenzione di tingermi i capelli, attaccarmi delle extensions o chissà cos’altro, ma avrei potuto applicare lo stesso assurdo concetto a qualcos’altro. La mia scarsa fantasia, infatti, mi aveva fatto scegliere l’ambito sportivo, in cui praticamente ero abbastanza ferrato: ero sempre stato un tipo relativamente atletico – pigrizia a parte -, e avevo sperimentato il calcio, il basket, il baseball e persino il golf, all’inizio da me tanto odiato.
Così, giusto per distrarmi dai miei pensieri su Abbie e dalla tensione che mi torturava i nervi del collo, decisi di fiondarmi nel nuoto: no, non non avrei saputo spiegarne il perché, ma era la prima cosa che mi era venuta in mente pensando a qualcosa di diverso in cui cimentarmi. Certo, sarebbe stato più appropriato un qualche sport estremo o un lancio dal paracadute, ma insomma, ero pur sempre Niall Horan!, e il mio spirito sportivo non era poi così esuberante come sembrava.
Avevo trovato una piscina privata alla periferia di Londra, nascosta da un piccolo parco pieno zeppo di alberi forse centenari e preceduta da un parcheggio mezzo vuoto: cercarne una pubblica sarebbe stato alquanto masochista e avrebbe segnato la mia fine, oltre che il fallimento del mio piano “non pensare a nient’altro se non a non respirare sott’acqua”.
Paul aveva comunque insistito per accompagnarmi, nonostante io avessi cercato di dissuaderlo ricordandogli quanto si sarebbe annoiato, nel tenermi d’occhio mentre sguazzavo in una piscina come un bambino di cinque anni. Così, ora potevo vederlo seduto a bordo vasca, su una panchina bagnata per metà e in legno chiaro: era al telefono con sua moglie, perché quel sorriso non lo interessava in altre occasioni, e intanto io mi godevo l’acqua tiepida che mi faceva sentire tanto leggero.
Ero lì da tre quarti d’ora, forse, e c’erano davvero poche persone a farmi compagnia in quella piscina di una quindicina di metri di lunghezza, ad occhio e croce: solo due persone mi avevano riconosciuto, ed io ne ero sollevato. Non stavo seguendo una vera e propria lezione, nonostante un istruttore di mezza età mi avesse proposto di tenerne una sebbene la sua fosse finita alle cinque e mezza, quindi poco prima: mi limitavo a nuotare avanti e indietro, proprio come un bambino.
Era più rilassante di quanto pensassi, sebbene Abbie non fosse andata via dai miei pensieri come avevo sperato: ad ogni bracciata, ad ogni respiro trattenuto, il suo viso mi si ripresentava davanti ed io mi sentivo annegare al ricordo di quello che non avevamo più. Il dolore più grande l’avevo già affrontato tempo addietro, certo, ma continuavo a vivere con un sottofondo di malinconia che spesso risaliva a galla. Soprattutto dopo gli ultimi avvenimenti con Harry.
Avevo preso la stupida decisione di fare nuoto  solo per distrarmi, ma alla fine era successo esattamente il contrario: il bello era che non mi dispiaceva quanto avrebbe dovuto e non sapevo neanche il perché. Forse avevo raggiunto un livello tutto nuovo di masochismo.
Mi appoggiai con gli avambracci al bordo piscina, per riprendere fiato: avevo i capelli appiccicati alla fronte e i piedi che si muovevano avanti e indietro nell’acqua alta. All’improvviso, però, una voce femminile iniziò ad agitarsi non a troppa distanza da me. Mi guardai intorno e, proprio ad un paio di metri, una ragazza nuotava a fatica, mostrando un’espressione di dolore e continuando a ripetere parole come «cazzo, un crampo». Per un attimo mi limitai a guardarla con la fronte corrugata – non l’avevo nemmeno notata fino ad allora -, poi mi accorsi di quanto fosse difficile per lei rimanere a galla, quindi mi mossi velocemente e la raggiunsi.
«Ti faccio uscire – le dissi, mettendole una mano intorno al busto magro e cercando di reggerla. ‘Fanculo, era più difficile del previsto, tenere a galla due persone. – Reggiti a me».
Ma i bagnini non c’erano, in piscine del genere?
Lei mugugnò qualcosa, probabilmente più per il dolore che per la mia proposta di aiuto, ma mi diede ascolto: i suo capelli scuri mi solleticavano la schiena per quanto erano lunghi, e non mi ero reso conto di quanto i suoi occhi verdi brillassero, a causa della luce che entrava dall’enorme finestra su un lato della piscina. Un’altra rapida occhiata, mentre mi muovevo verso il bordo, e osservai le sue labbra sottili torturate dai denti, probabilmente per non esclamare qualcosa, e le lentiggini sul naso dritto.
Nonostante il mio inconscio si fosse già accorto di quanto fosse bella, non ebbi il tempo di formulare quella sensazione in un pensiero vero e proprio, perché ero troppo impegnato ad aiutarla a salire la scaletta in metallo.
Cercai di evitare di soffermarmi sul suo fondoschiena, mentre zoppicava su una gamba, e la seguii fuori, gocciolando acqua sulle mattonelle azzurre e scivolose. La ragazza indossava un costume intero di un blu scuro, molto simile a quello delle nuotatrici a livello agonistico, ma era comunque impossibile non notare il suo corpo e le sue curve non troppo accentuate. Che lei potesse essere il vero cambiamento che io stavo cercando, anziché il nuoto?
Sospirai e mi diedi dello stupido: ero proprio disperato, se immaginavo cose del genere dopo averla appena aiutata e senza nemmeno conoscerla. Insomma, un po’ di contegno non mi avrebbe fatto male.
«Tutto bene?» le chiesi, a pochi passi da lei, passandomi una mano tra i capelli per evitare che mi gocciolassero sul viso. Lei strizzò i suoi, che le arrivavano a metà schiena, dandomi ancora le spalle: avevano già assunto una certa ondulazione, tanto da farmi chiedere come fossero da asciutti e se il loro colore fosse alterato dall’acqua.
Non mi rispose. Anzi, appoggiò meglio la gamba destra a terra e iniziò a camminare lontana da me, senza dare segni di dolore o quant’altro: era una presa in giro?
«Hey!» la chiamai dopo qualche secondo, accelerando il passo per seguirla. Ovviamente non si voltò a guardarmi, né si fermò.
«Scusa, ma non capisco – aggiunsi, con le sopracciglia aggrottate, camminandole affianco. – Un minuto fa sembrava che stessi patendo le pene dell’inferno per un crampo alla gamba e ora stai meglio di me? E un grazie non mi dispiacerebbe» continuai, sorridendo per alleggerire quel mio sottile rimprovero e la mia confusione.
Solo allora lei si fermò, puntandomi i suoi occhi addosso: non erano solo verdi, erano screziati di un marrone scuro verso la pupilla, e santo cielo!, erano…
«Ero solo curiosa di sapere cosa si prova ad essere salvata da Niall Horan» esclamò, come se fosse la cosa più naturale del mondo, mimando le virgolette alla parola “salvata”.
Sbattei le palpebre e alzai un sopracciglio, passandomi la lingua sulle labbra che sapevano leggermente di cloro: mi aveva riconosciuto e aveva messo su quel teatrino solo per provocare una mia reazione? Non sapevo se esserne lusingato, in un certo senso, o offeso: ma, sicuramente, ne ero divertito.
«Fammi capire, non hai affatto avuto un crampo?» chiesi per sicurezza, spostando il peso sull’altro piede.
«No – rispose, mantenendo un’espressione relativamente seria. In realtà avevo l’impressione che stesse per sorridere. – E dal momento che non ero davvero in pericolo, non vedo perché ringraziarti».
Una stronza, insomma.
«Però io questo non lo sapevo» la corressi.
«Ora lo sai» ribatté. E a quelle parole sì, che sorrise: inclinò le labbra all’insù, scoprendo i denti bianchi, e una piccola fossetta apparve sulla guancia destra. Non c’era provocazione in quel gesto, ma solo divertimento.
«E, di grazia, qual è stato il verdetto? – domandai, sempre più attratto da quella ragazza. – Com’è, essere salvate da Niall Horan?»
«Hm… Ad un certo punto mi hai stretta talmente forte che pensavo volessi farmi morire soffocata…»
«Stavo cercando di non annegare insieme a te» mi difesi, interrompendola e facendola sorridere.
«Ma tutto sommato devo dire che hai superato la prova» continuò, come se io non avessi parlato. Subito dopo si voltò e camminò di nuovo via da me.
Inutile dire che per la seconda volta io la seguii.
«La prova? – ripetei. – È così che passi il tuo tempo?» la presi in giro.
Ero sempre stato un tipo molto socievole, ma con lei questa mia caratteristica era come amplificata: mi trovavo a mio agio e scherzare in quel modo era quasi naturale. Lei, d’altra parte, non ne sembrava affatto disturbata.
«Credo che ci sia un solo Niall Horan, no?» rispose, spostandosi i capelli sulla spalla destra.
«Vuol dire che io ho un trattamento speciale? – domandai, punzecchiandola. – Perché se è così, non so se esserne lusingato o spaventato: la prossima volta farai finta di soffocare a bordo vasca o qualcosa del genere?» risi.
«La prossima volta?» ripeté lei, con tranquillità. Il fatto che mi conoscesse mi faceva presupporre che non gli fossi del tutto indifferente, ed era assolutamente strano per me relazionarmi con lei in un modo tanto rilassato: la maggior parte delle volte le ragazze urlavano o piangevano o ridevano istericamente o Dio santo sa cos’altro.
«Sì – annuii, come se fosse una cosa all’ordine del giorno. – Tra due giorni» aggiunsi. Le avevo appena dato una specie di appuntamento?
«Chi lo sa» rispose, rivolgendomi un altro sorriso e allontanandosi di nuovo. Non sapevo se la sua risposta si riferisse alla mia proposta di rivederci o al mio dubbio su quale sarebbe stata la prova successiva, ma speravo nella seconda opzione.
Mi divertiva e mi intrigava il fatto che non avesse fatto domande, che non avesse mostrato una particolare emozione alla mia allusione, e mi incuriosivano ancora di più i suoi modi di fare.
L’istante dopo, mi resi conto di averle proposto di rivederci ma di non sapere nemmeno il suo nome. Deficiente.
«Aspetta!» la richiamai, senza però muovermi da lì.
Lei non si fermò, ma rispose comunque. «Mi chiamo Rosie.»
 
 
Vicki.
 
Erano le sette e mezza: avevo appena finito la doccia più veloce della mia vita, perché Stephanie era rimasta a casa mia più del previsto ed io dovevo ancora cucinare qualcosa e poi prepararmi per uscire con Louis, che mi sarebbe passato a prendere alle nove.
Mi strinsi nell’accappatoio e nascosi un sorriso a me stessa, a quel pensiero: se non avessi voluto riservare un po’ di salute mentale, probabilmente mi sarei concessa di saltellare come una bambina nel piccolo bagno. Al diavolo le raccomandazioni nemmeno troppo insistenti di Stephanie, che non vedeva ancora di buon occhio Louis: ero dannatamente felice.
In alternativa, iniziai a canticchiare un motivetto che mi aveva messo in testa proprio la mia amica, e mi avvicinai al lavandino per guardarmi allo specchio, un po’ appannato dal vapore: allungai una mano per passarla su di esso in modo da scorgere il mio riflesso, ma mi bloccai quando sentii il cellulare squillare.
Era appoggiato sul ripiano al mio fianco, quindi lo presi tra le mani e mi incuriosii nel leggere che il messaggio proveniva da Zayn.
 
Un nuovo messaggio: ore 19.32
Da: Zayn.
“Vicki, per favore, vieni qui.”
 
Corrugai la fronte e trattenni il respiro per qualche secondo. Provai immediatamente a chiamarlo, ma lui non rispose, così decisi di rispondergli via sms.
 
Messaggio inviato: ore 19.34
A: Zayn.
“Zayn, che succede? Dove sei?”
 
Tamburellavo il piede a terra, in attesa: non sapevo perché fossi così preoccupata, ma quel messaggio non mi rassicurava per niente. La risposta ci mise un po’ ad arrivare.
 
Un nuovo messaggio: ore 19.41
Da: Zayn.
“Sotto casa di Abbie, ma non so dove cazzo sia. Ho bisogno di parlare con qualcuno, vieni qui.”
 
Qualcosa dentro di me si mosse a quelle parole: aveva bisogno di me, era evidente, ed io non potevo lasciarlo in quelle condizioni, qualsiasi esse fossero. Digitai velocemente un “Arrivo” e mi sbrigai nel finire di prepararmi: avrei mangiato qualcosa più tardi.
Solo dopo qualche minuti mi ricordai di Louis: arrestai i miei movimenti, sospirai e mi morsi il labbro inferiore.
 
Messaggio inviato: ore 19.59
A: Louis.
“Louis, mi dispiace ma per stasera c’è stato un imprevisto: devo raggiungere Zayn. Non credo di farcela per le nove, ma possiamo vederci più tardi, se per te va bene. Ti spiego tutto appena ci vediamo x”
 
Il tutto che gli avrei spiegato era ovviamente una piccola bugia: se Zayn per tutto quel tempo aveva evitato di parlare dei propri sentimenti con i suoi migliori amici e se aveva deciso di scrivere un messaggio a me, un motivo c’era, quindi io non avrei potuto né dovuto riferire ad uno di loro tutto ciò che c’era tra di noi. A Louis, probabilmente, avrei solo accennato il motivo per cui mi aveva chiesto di raggiungerlo, qualsiasi esso fosse.
 
Un nuovo messaggio: ore 20.15
Da: Louis.
“Ok. Stavo per scriverti anche io, perché avevo intenzione di vedermi con Eleanor. Ci sentiamo più tardi.”
 
Strinsi il telefono tra le mani e borbottai qualche imprecazione a denti stretti: io avevo cambiato i nostri programmi per una necessità, per un mio ed un suo amico, e gli avevo comunque proposto di vederci più tardi. Invece lui aveva già intenzione di darmi buca per vedersi con Eleanor: ed io sapevo – speravo – che le avrebbe parlato, ma l’idea che dovesse farlo proprio la sera in cui io e lui avevamo sperato di passare del tempo insieme mi infastidiva, e non poco. Era stato proprio lui a chiedermi di uscire, quindi da quando aveva cambiato intenzione?
Senza contare il fatto che non avevo alcuna sicurezza su di lui, per quanto volessi convincermi del contrario: non potevo sapere se avesse davvero intenzione di vederla per dirle di me e lui, non potevo sapere se invece avrebbero fatto altro, non potevo sapere niente.
Mi sentivo una stupida per essere così paranoica, eppure una parte di me mi giustificava.


 

 
ANGOLO AUTRICE aka UCCIDETEMI SE VOLETE
 
Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace!
Sono in un terribile ritardo, lo so, e mi sento in colpa, come sempre!
Il fatto è che, oltre ad avere avuto poco tempo, Louis e Vicki mi hanno fatta dannare!
E la parte di Niall non ci sarebbe dovuta essere, perché avevo pensato ad un altro POV,
così come non avevo immaginato l’ultima parte, ma alla fine il capitolo è venuto così!
Dico “così” perché non solo è totalmente diverso da ciò che avrei voluto, ma è anche
orrendo santo cielo ahhaha Io spero davvero di non avervi deluse, perché temo di sì!
Nella prima parte, Louis e Vicki sono molto particolari perché comunque non sono abituati
a relazionarsi in quel modo: Vicki è stranita/sopresa/cotta e stracotta e altri mille aggettivi,
quindi è un po’ tesa. E Louis invece sta provando a recuperare il tempo perso,
anche se le sue paure non sono affatto scomparse: e lo si vede quando Vicki gli parla
di Eleanor! Mi piacerebbero le vostre impressioni su loro due e su quello che li aspetta, please!
POV Niall: mi sono divertita a scriverlo, nonostante non sia nulla di che :)
Rosie è un po’ particolare e diciamo che il loro incontro è sicuramente fuori dalla norma!
Che ne pensate? :)
Ultima parte: Zayn è un po’ criptico, ma si capisce quanto abbia bisogno di Vicki vicino a sé,
e lei decide di rivedere i suoi programmi con Louis per aiutarlo (se non l’avesse fatto sarebbe
stata un po’ una stronza, insomma). Louis però aveva già intenzione di darle buca
per Eleanor! Zan Zan Zaaaaaaaan! Non mi esprimo su questo hahah Aspetto i vostri pareri :)

Scusate se questo spazio autrice è così sbrigativo ma ho un altro capitolo da revisionare,
quindi sono un po’ di corsa! Vi ringrazio come sempre di tutto e spero che questo vi sia piaciuto <3
 
Un bacione,
Vero.
  

Ritorna all'indice


Capitolo 25
*** Would you listen to me? ***




Would you listen to me?

Capitolo 24

Vicki.
 
Parcheggiai l’auto ad una decina di metri di distanza da casa di Abbie, ringraziando il cielo di aver trovato un misero posto tra un’altra macchina ed un cassonetto in pessime condizioni.
Il mio labbro inferiore stava probabilmente chiedendo pietà, dato che l’avevo torturato senza sosta fino a quel momento, cercando di rilassarmi e di non pensare al peggio: non avevo più sentito Zayn e la curiosità e la preoccupazione non mi lasciavano in pace.
Stringendo la borsa in tessuto nero sotto il braccio, affondai il viso nella sciarpa in cotone dello stesso colore, a causa del vento che quella sera soffiava tra le strade di Londra: potevo già intravedere l’appartamento della mia amica – se così poteva essere definita -, ma di Zayn non c’era traccia.
Il portone di casa di Abbie era deserto e in penombra, perché il lampione lì vicino si stava per fulminare: corrugai la fronte e trattenni il respiro. Dove diavolo era?
Mi mossi lentamente, facendo qualche passo per avvicinarmi un po’ di più e magari accorgermi di aver avuto una svista. Proprio nel momento in cui passai di fianco ad un piccolo vicolo, però, soffocai un grido quando una mano si avvolse intorno al mio polso.
«Sono io!» cercò di tranquillizzarmi una voce, mentre io provavo a liberarmi dalla presa non troppo insistente e mentre il mio cuore batteva talmente velocemente da sembrare che volesse fuggirmi dal petto.
Spalancai gli occhi e assottigliai lo sguardo, respirando con agitazione. «Zayn» mormorai, in un misto di sollievo e rimprovero.
La scarsa illuminazione di quel piccolo vicolo nascondeva in parte il suo viso: i capelli e gli occhi sembravano davvero dello stesso colore delle notti più buie, e – con un po’ di sforzo – mi accorsi del suo viso stanco. Indossava solo una t-shirt scura e i soliti jeans neri un po’ consumati, e mi chiedevo come potesse sopportare la temperatura ostile di quella sera.
«Mi hai fatto prendere un colpo - gli feci presente, portandomi una mano al petto. La sua stava ancora stringendo la pelle del mio polso, anche se più delicatamente. – E cosa ci fai nascosto qui?» chiesi. Sembrava un latitante.
«Fama internazionale, ricordi? Col cazzo che ho intenzione di farmi vedere da qualcuno, stasera» borbottò aspramente. La linea delle sue labbra era rigida, così come la sua espressione: era nervoso, quasi arrabbiato.
In effetti avrei potuto pensarci prima: Zayn non sarebbe rimasto semplicemente sotto casa della sua migliore amica in mia attesa, correndo il rischio che qualsiasi passante potesse riconoscerlo e quindi peggiorare solo il suo stato d’animo.
«Ok, ehm… Allora andiamo: ho la macchina qui vicino» spiegai, guardandolo con un cipiglio confuso.
Cosa ti è successo?
Zayn non rispose. Si limitò ad annuire con la mascella serrata e a superarmi, lasciando la presa su di me e infilando le mani in tasca. Il capo basso e un sospiro a gravargli il petto.
 
Inspirai profondamente e morsi l’interno della mia guancia, stringendomi nelle spalle.
Ormai eravamo insieme da quanto? Tre quarti d’ora? Forse di più? Eppure non c’era modo per capire cosa stesse succedendo a Zayn: dal momento in cui si era seduto al posto del passeggero al mio fianco, non aveva più parlato, se non per chiedermi se avessi già mangiato e per obbligarmi a fare tappa al Mc Drive, nonostante io insistessi nel dire che avrei potuto farne a meno.
Per tutto il tragitto, avevo combattuto con me stessa per evitare di tempestarlo di domande e di incoraggiamenti a dire qualcosa: sapevo che l’avrebbe fatto quando si sarebbe sentito pronto, quando avrebbe smesso di fumare nervosamente e magari quando avrebbe deciso di degnarmi almeno di uno sguardo.
Eravamo seduti su panchine di legno divise da un tavolo rettangolare e abbastanza stretto, uno di quelli che si usano di solito per i picnic, ben fissi nel terreno: era stato Zayn a portarmi in quel piccolo parco, quasi fuori Londra, infatti era a me sconosciuto. Praticamente deserto, oltre a poche giostre per bambini – un po’ cigolanti per il vento – ospitava diversi alberi più o meno grandi, che producevano delle strane ombre sull’erba umida, a causa dei lampioni che emettevano una vivace luce bianca.
Davanti a me, i resti della mia cena: a causa di quella situazione, non ero riuscita a finire tutte le patatine fritte e anche il panino era rimasto a metà.
Tamburellai le dita della mano destra sulla superficie in legno e guardai Zayn con impazienza. Ognuna delle sue gambe magre stava ad un lato della panchina opposta alla mia e lui fissava qualcosa di fronte a sé, o forse nella sua testa, lasciandomi l’opportunità di studiare il suo profilo senza troppi problemi: l’ennesima sigaretta mezza consumata tra le dita e le labbra secche.
Mi schiarii la voce, incapace di aspettare oltre, e «Zayn» lo chiamai, un po’ esitante. Avevo come l’impressione che potesse scoppiare da un momento all’altro e che anche una sola parola sbagliata o di troppo da parte mia avrebbe potuto farlo innervosire ancora di più.
Ovviamente non mi rispose, anzi, sembrò quasi che non mi avesse nemmeno sentita.
Pestai i piedi a terra, sistemandomi meglio sul legno duro. «Cosa c’è?» domandai in un sussurro, sporgendomi leggermente in avanti.
Sospirai, quando di nuovo non ottenni un cenno di vita, e mi guardai intorno cercando di racimolare ancora un po’ di pazienza: non che fosse quello il problema, ma era evidente che lui fosse tormentato da qualcosa, e il fatto che io non riuscissi a farlo aprire mi torturava, perché desideravo solo farlo stare meglio. Fare il possibile, almeno.
Guardai l’orologio al mio polso, senza nemmeno una vera e propria curiosità riguardo che ora fosse. Le 21.17.
Louis era già con Eleanor? Le stava parlando di noi? Come si sentiva nel rivederla? E lei?
Ero ancora infastidita dal suo improvviso cambio di programma, nonostante quella sensazione fosse momentaneamente indebolita da altre preoccupazioni, ma ero comunque tentata di mandargli un messaggio: aveva detto che ci saremmo sentiti più tardi e quello sembrava il momento adatto per fare qualcosa a riguardo, dato che il mio interlocutore non aveva intenzione di intrattenermi in alcun modo. Avrei potuto scrivergli e – chissà -ricevere una risposta che mi avrebbe parzialmente tranquillizzata, chiedergli dove fosse e come stessero andando le cose: insomma, avrei potuto comportarmi da normale ragazza in una normale relazione con un normale ragazzo.
Il punto era che il “normale” non si addiceva a noi, a qualunque fosse il nostro rapporto, di preciso: probabilmente, alla vista di un mio sms, Louis avrebbe solo alzato gli occhi al cielo e pensato che fossi opprimente e paranoica, sapendolo con Eleanor. Probabilmente non era riuscito a dirle di noi e a chiudere i rapporti con lei – sempre che fosse quella la sua intenzione – e probabilmente si stava divertendo in sua compagnia. Probabilmente non mi avrebbe nemmeno risposto e sicuramente io avrei passato il resto del tempo a rimuginare e a darmi della stupida da sola.
Mentre il mio stomaco si rivoltava a quei pensieri poco tranquilli, un movimento improvviso mi fece riscuotere, quasi spaventandomi: davanti a me, Zayn si era alzato di scatto, allontanandosi di qualche passo e incastrando le mani tra i capelli dopo aver gettato la sigaretta a terra.
Schiusi le labbra e lo ascoltai respirare lentamente, osservando ogni suo movimento e ogni muscolo della schiena che gli si contraeva. Non sapevo se parlare di nuovo o se semplicemente stare in silenzio e aspettare che fosse lui a farlo.
«Vaffanculo!» sbottò poi, come se mi avesse letto nel pensiero, calciando qualcosa davanti a sé con più rabbia di quanta me ne sarei aspettata. Mi alzai in piedi velocemente, più per lo spavento che per la preoccupazione, anche se dopo un solo secondo le motivazioni si erano già invertite. Zayn era ancora di spalle ed io avevo il battito accelerato.
«Vaffanculo! – gridò di nuovo, questa volta con il viso rivolto al cielo nero. – Vaffanculo!»
Esitante, mi avvicinai a lui, senza sapere bene come comportarmi. Quando però imprecò di nuovo, il mio istinto prevalse e mi portò ad abbracciare la sua schiena, premendo il viso sulla sua scapola sinistra e chiudendo gli occhi, come se avessi potuto tranquillizzarlo. In realtà sentivo ancora il suo respiro accelerato, mentre le mie mani si intrecciavano sul suo addome, ed ero sicura che, se mi fossi sforzata abbastanza, avrei potuto udire i suoi denti stridere gli uni contro gli altri mentre serrava la mascella.
Era rigido e freddo, ma non si ritrasse, né si ribellò a quel mio gesto affrettato e anche un po’ disperato.
Passò qualche secondo in cui nessuno dei due si mosse e in cui io mi illusi di essere riuscita a placare il suo stato d’animo, almeno un minimo: subito dopo, però, le sue mani si posarono sulle mie e mi costrinsero a sciogliere la presa, con delicatezza.
Io le assecondai, guardando Zayn con apprensione, nonostante si ostinasse a darmi le spalle: mi morsi il labbro inferiore e attesi in silenzio, spostando continuamente il peso da un piede all’altro.
«Ti ho dato ascolto, sai?» esclamò all’improvviso, di nuovo con una mano tra i capelli e il tono di voce basso ma deciso, quasi in procinto di esplodere.
Corrugai la fronte e aspettai. Ancora.
«’Fanculo, io ti ho dato ascolto e non è servito ad un cazzo. Anzi, ora è ancora peggio» continuò, facendo sorgere in me l’istinto di indietreggiare di un passo. Non per paura, no, ma per un sottile senso di colpa, per la consapevolezza di poter aver sbagliato, anche se non sapevo in cosa.
«Di cosa stai parlando?» chiesi con un fil di voce.
Lui si voltò verso di me – finalmente – e mi guardò per un paio di secondi senza aggiungere una parola: non avrei saputo descrivere i suoi occhi in quel momento, perché potevo giurarlo, non pensavo avrebbero potuto racchiudere tanto dolore e tanta stanchezza.
«Mi hai detto di pensare alle vostre differenze – spiegò, con la stessa serietà. E in quel momento, mi diede la conferma su quello che era l’argomento e il problema: fino ad allora le mie erano state solo ipotesi, ma ormai era evidente che tutto si riconducesse a Kathleen. – Ed io l’ho fatto. Ho continuato a farlo, ma ora…»
Abbassò le palpebre e respirò profondamente, prima di tornare a guardarmi. «Ma ora è tutto uno schifo, perché tutte quelle differenze che ho trovato, tutti quei particolari… Io so che non li troverò mai più in nessun’altra. So che non ci sarà mai nessun’altra che potrà farmi sentire come… Non ci sarà più nessuna Kathleen per me».
Quelle parole si incastrarono in me e mi ferirono senza via di scampo.
Avevo dato quel consiglio a Zayn per rendergli più semplice la mia vicinanza, dato che nonostante tutto mi aveva più volte ripetuto che ne avesse bisogno, ma non avevo fatto altro che spingerlo in un altro baratro: perché non ci avevo pensato? Perché non avevo ragionato sul fatto che chiedergli di riflettere su ciò che aveva reso Kathleen unica e sua, lo avrebbe portato a disdegnare tutti gli altri, a sentirsi solo e incapace di trovare pace con un’altra persona? Come se fosse davvero morto con Kathleen e per lui non ci fosse più una speranza?
Il tono di voce che aveva usato, la difficoltà nel concludere una frase per le mani che tremavano e gli occhi iniettati di mille emozioni diverse, erano troppo da sopportare.
«Io… Mi dispiace – balbettai, incapace di dire altro. – Mi dispiace così tanto. Io non volevo… Non… »
Optai per il silenzio solo per non rendermi ancora più ridicola, nonostante desiderassi con tutto il cuore scusarmi per quel passo falso che l’aveva ridotto in quello stato. Il senso di colpa mi stava divorando, e il pensiero che fosse stato un errore non intenzionale non riusciva a consolarmi.
Non sapevo se Zayn fosse infuriato con il mondo o se fosse effettivamente arrabbiato con me per quel dannato consiglio, anche perché se così fosse stato probabilmente non mi avrebbe contattata ammettendo di avere bisogno di me, ma non potevo esserne certa.
«Non è colpa tua – decretò, duramente, alleviando in parte i miei dubbi. – È solo che… Cazzo! Non ho più forze, capisci? Vorrei solo che tutto questo dolore scomparisse una volta per tutte, anziché continuare a mangiarmi vivo».
Le sue parole non mi rassicurarono più di tanto, perché che lui non ce l’avesse direttamente con me non significava che io non avessi fatto un errore: in più, avrei voluto dirgli che anche io desideravo lo stesso. Che anche io avrei solo avuto vederlo sorridere senza doversi incupire subito dopo per i sensi di colpa o per l’immagine di Kathleen nella sua mente.
Ormai la sua voce era un sussurro. Per quanto fosse carica di rabbia, dolore, occhi scuri che da troppo tempo non vedeva e amore che da troppo tempo non provava, rischiava comunque di confondersi con il vento che soffiava ancora.
E cosa potevo dirgli, io? Come si faceva, a dirgli qualcosa?
Perché in fondo aveva ragione ad essere arrabbiato, anzi, furioso. Aveva ragione ad urlare vaffanculo alle stelle che non si vedevano e a stare in silenzio per un’ora intera solo per non gridare troppo. Perché anche io avrei reagito allo stesso modo e perché, effettivamente, la morte fa schifo e l’amore non è da meno.
Il fatto era che, per quanto lui avesse tutto il diritto di avercela con il mondo, non poteva continuare all’infinito, non poteva vivere in quel modo. Ed era lì il problema, perché come si fa a dire a qualcuno che deve smetterla anche se è nel giusto?
 
Non sapevo quanto tempo fosse passato, ma sapevo bene che i miei vestiti avevano assorbito parte dell’umidità del terreno e che le punte dei capelli si sarebbero arricciate ancora di più. Sapevo che non me ne importava e che il respiro finalmente calmo di Zayn al mio fianco riusciva a rilassare anche me, mentre fissavo il cielo sopra di noi, nella speranza di scorgere qualche stella in più che non fosse nascosta dalla luce dei lampioni.
Avevamo finito per sdraiarci a terra, proprio nel punto dove poco prima lui aveva urlato tutta la sua frustrazione: semplicemente, dopo qualche minuto di silenzio, lui si era passato una mano tra i capelli e si era seduto, fissando l’erba sotto i suoi piedi. Io l’avevo seguito e avevo preso l’iniziativa, consigliandogli in silenzio di imitarmi, memore di quanto – da piccola – fosse un buon rimedio contro i pensieri che non mi lasciavano in pace.
Zayn non mi aveva guardata come se fossi stata una pazza, anzi, mi aveva semplicemente dato ascolto, sdraiandosi affianco a me e portando le mani dietro la sua testa. Da quel momento, poi, nessuno aveva più parlato. Di nuovo.
Ormai avevo capito che forzarlo non avrebbe portato a niente e che eventualmente sarebbe stato proprio lui a liberarsi di quei tanti piccoli pesi che gli gravavano sul petto. Quindi mi ostinai a non dire niente ma semplicemente ad esserci, nel modo più semplice e genuino che potesse esistere.
«Io cantavo per lei» furono le prime parole che Zayn pronunciò dopo chissà quanto tempo.
Mi voltai lentamente alla mia sinistra, verso di lui, e lo osservai cautamente: il suo viso aveva in parte abbandonato il cipiglio nervoso e sofferente che aveva indossato per tutta la sera, e i lampioni rendevano le sue linee più chiare e definite, grazie al contrasto con il buio della notte. Non mi guardava, ma a me stava bene così: sapevo che il mio viso gliene ricordava ancora uno ben più doloroso per lui e sapevo che non doveva essere facile, soprattutto se il suo affetto per me in quanto Victoria gli impediva di tenermi lontana.
«Durante i concerti?» osai chiedere, sperando di non interrompere i suoi pensieri.
Lui assottigliò lo sguardo e scosse impercettibilmente la testa. «No – soffiò flebilmente. – Cantavo per farla addormentare» spiegò. Ed io dovetti combattere con un brivido che di certo non era dato solo dall’umidità.
La mia anima da eterna ed inguaribile sentimentale, scalpitava dentro di me nell’immaginare Zayn in un gesto tanto dolce e allo stesso tempo tanto significativo.
Poi, come dopo aver avuto un’illuminazione, mi tornò in mente uno dei nostri primi incontri: la festa a sorpresa per Abbie, nel giorno del suo compleanno.
«È per questo, quindi? – chiesi, sperando di non fare un enorme strafalcione. – Quella volta a casa tua, durante la festa per Abbie, mi hai detto che non ti piace il karaoke: cantare ti fa…»
«Sì – mi interruppe, senza darmi l’opportunità di finire la domanda. – Mi fa male».
Oh.
«E come fai con… Sì, insomma, con tutti i concerti e le esibizioni?»
«Te l’ho già detto, Vicki: non sono così egoista – rispose, come già una volta aveva fatto, quando io gli avevo chiesto perché mi stesse aiutando con Louis. – Faccio parte di una boy band insieme ai miei migliori amici, non posso esserlo».
«E loro sanno come ti senti a riguardo?» domandai ancora, cercando di capire qualcosa in più su di lui. La sua forza era strabiliante e probabilmente ne aveva molta di più di quanto credesse.
«Sì, e all’epoca hanno anche cercato di scendere ad un compromesso – raccontò. Le iridi sempre fisse nel cielo. – Una pausa, o qualcosa del genere. Ma io ho rifiutato».
«Zayn? – lo chiamai dopo qualche istante, nonostante stessimo già parlando. Volevo solo che mi guardasse negli occhi per un attimo, così ripresi solo quando si voltò verso di me. – Credo che Kathleen sarebbe stata fiera di te, per quello che hai fatto. Io lo sono, e forse non ti rendi conto di quanta forza ci voglia per fare quello in cui tu sei riuscito».
Erano le parole che avevo voglia di dire, quelle che sentivo rimbombarmi in testa e che ero sicura che lui avesse bisogno di sentire. Nonostante la linea dura delle sue labbra nel sentire pronunciare il nome di Kathleen, nonostante il dolore dell’ascoltare una frase ipotetica.
Le sue iridi rimasero su di me per una manciata di secondi, facendomi chiedere se avessi azzardato troppo o meno. «In cosa sono riuscito? Guardami adesso» sussurrò, quasi in un rimprovero a se stesso, prima di tornare nella posizione iniziale.
«Hai tenuto duro e hai fatto la cosa che ritenevi più giusta per gli altri, nonostante ti facesse star male. E ora stai così semplicemente perché sei umano e perché ne hai bisogno».
«Bisogno? – chiese, abbastanza scettico. – Credi davvero che io abbia bisogno di tutta questa merda?»
«No – lo corressi, continuando ad osservarlo. – Ma da quanto ne so, in base a quello che mi hai raccontato, non sei mai stato in… In lutto, diciamo».
«Vicki, che stai dicendo?»
Come spiegarmi? «Quello che voglio dire è che ti sei sempre sforzato di fingere. Non fingere di stare bene, ma di non stare così male: ti sei sempre trattenuto, in qualche modo, perché avevi gli impegni con la band e perché non volevi pesare sui tuoi amici. E forse anche per paura. – Sospirai, cercando le parole adatte. – Quindi adesso è normale che tu sia scoppiato, in un certo senso, non credi?»
Zayn non rispose, anche se notai dalla linea dei suoi occhi e dal suo respiro che le mie parole gli erano entrate dentro.
«Hai mai parlato di lei?» domandai dopo un paio di minuti buoni, con delicatezza. Stavo disperatamente cercando un modo per aiutarlo, affidandomi a quel buon senso che speravo fosse sufficiente.
Lo sentii irrigidirsi al mio fianco ed inspirare profondamente.
Per l’ennesima volta, non mi diede una risposta.
«Hai mai ricordato ad alta voce un bel momento passato insieme e riso per un aneddoto che la riguarda?» chiesi allora, lentamente.
«No» disse a denti stretti.
«Perché?»
«Cosa vuol dire “perché”?» ribatté, quasi fosse ovvio.
«Oltre al fatto che i tuoi amici e la tua famiglia la conoscevano, perché non hai mai parlato di lei?» mi limitai a ripetere, ben consapevole che non fosse una spiegazione vera e propria e che in realtà lui avesse già compreso a pieno il significato della mia domanda.
Lo osservai serrare la mascella e poi rilassarla, passando la lingua sulle labbra schiuse.
«Ho l’impressione che sarai tu a dirmelo» sussurrò. Forse, semplicemente, non voleva ammetterlo.
«Io non ho mai dovuto affrontare la morte di una persona a me cara – ammisi, corrugando leggermente la fronte, – però credo che si possa dire di aver accettato la scomparsa di qualcuno solo quando si riesce a parlare di lui o di lei e si è felici di farlo. Quando la malinconia per quello che si è perso c’è ancora, ma il voler ricordare con un sorriso quello che è stato è molto più forte. E allo stesso tempo, credo che non sia solo un traguardo, riuscire a farlo, ma anche un mezzo: farla vivere non solo dentro di te, ma anche al di fuori, nelle cose che fai e in quelle che dici… Io penso che potrebbe aiutarti: al posto di tenerla rinchiusa nel cuore, parlare di lei ogni tanto potrebbe farti accettare la sua assenza, perché la renderebbe più reale, e potrebbe comunque permetterti di sentirla vicina. Non so quanto sia utile fingere con il mondo che lei non sia esistita, non nominarla nemmeno per evitare il dolore».
Ripensai alle mie parole, sperando di non aver fatto un discorso completamente insensato e di aver invece reso bene il concetto: non dissi altro, perché mi resi conto che ammettere apertamente che Zayn avesse ancora molta strada da fare poteva essere davvero eccessivo, soprattutto dal momento che lui stesso era il primo ad esserne consapevole.
«Farebbe troppo male» commentò, mentre il suo viso rispecchiava quell’idea.
«Ci hai mai provato davvero? – indagai, quasi sicura della risposta. – Chi ti dice che non sarebbe un sollievo?» lo incitai.
Avevo notato la tensione che si impadroniva di Zayn ogni volta che io nominavo Kathleen. Avevo notato le sue mani stringersi a pugno e i suoi occhi chiudersi per un attimo. Il sorriso svanire e il respiro accelerare impercettibilmente. E potevo finalmente capire che non era solo il dolore per la perdita, quello che era responsabile di quei gesti, ma anche la volontà di sfuggirgli: reagendo in quel modo, Zayn scappava dal ricordo di Kathleen e soffocava i suoi sentimenti, tenendoli per sé e finendo per renderli il suo stesso veleno, nella speranza di dimenticarli e di metterli a tacere, prima o poi.
Tornai a fissare il cielo sopra di noi, che era testimone di tutto e niente e che quella sera ci stava aiutando a fuggire dagli sguardi di uno o dell’altro, e mi arresi al silenzio di Zayn: per quanto sperassi di avere ragione, non ero intenzionata a spingerlo oltre il suo limite, perché – oltre a non averne il diritto – avrei rischiato solo di recargli un danno.
Lasciai che le mie orecchie si riempissero solo dei nostri respiri leggeri e del frinire di qualche grillo in lontananza. Permisi ai miei pensieri di correre liberamente e di catturarmi in modo totalizzante, tanto da farmi dimenticare dove fossi e quanto l’erba mi solleticasse il collo. Immaginai cosa avrei fatto io al posto di Zayn e mi chiesi se avrei preferito vivere un amore così intenso solo per poi perderlo o accontentarmi di un sentimento più blando che mi avrebbe però accompagnata per tutta la vita: ovviamente non arrivai ad una vera e propria risposta, anche se la parte più masochista e romantica di me – aggettivi che nel mio vocabolario erano inscindibili – optava per la prima possibilità.
«Vicki?»
Corrugai la fronte, riscuotendomi improvvisamente dalle mie fantasticherie, e mi voltai verso Zayn, che non mi stava guardando.
«Sì?»
«Tu mi ascolteresti? – domandò in un flebile soffio. – Se io provassi a parlarti di lei, tu mi ascolteresti?»
Non riuscii ad impedire che le mie labbra si inclinassero lentamente verso l’alto, nell’accenno di un sorriso che sapevo lui non avrebbe potuto vedere. Non sapevo se essere più felice della sua decisione di provarci, o di provarci in mia presenza.
«Sì, Zayn. Ti ascolterei» risposi.
Lo osservai mentre deglutiva e mentre prendeva un respiro profondo.
Più volte schiuse le labbra per dire qualcosa, solo per poi richiuderle per sigillare le parole che trovava difficile pronunciare.
Dopo qualche minuto, però, ci riuscì. «Frequentavamo lo stesso liceo. E una volta, mi ricordo che lei fu beccata dal professore di chimica a dormire sul banco, con uno dei minerali da analizzare al microscopio stretto nelle mani» cominciò, lasciando apparire l’ombra di un sorriso sul suo volto.
Ed io lo accettai. Lasciai che partisse dal periodo scolastico, così lontano, consapevole del fatto che fosse un modo per non toccare momenti più importanti e intimi. Non ancora.
Lo ascoltai in silenzio senza interromperlo. Risi quando era il caso e strinsi le labbra quando lo vedovo fare lo stesso per la nostalgia. Rispettai le sue pause, a volte molto lunghe, e non insistetti nel sapere quegli episodi che iniziava a raccontare ma che poi abbandonava con uno sguardo cupo. Pitturai Kathleen nella mia mente, seguendo le sue descrizioni a volte non molto dettagliate ma comunque in grado di far trasparire il sentimento che li aveva legati e che in qualche modo aveva ancora la sua forza iniziale. Respirai profondamente – ma in silenzio per non farmi sentire da lui – quando, tramite le sue parole, riusciva a trasmettermi le migliori qualità di quella ragazza e anche i suoi vizi più fastidiosi, facendomi chiedere come sarebbe stato conoscerla non solo tramite dei ricordi. E sorrisi quando mi resi conto di che persona forte e testarda dovesse essere.
Così, mentre l’umidità ci entrava nelle ossa e nei capelli, mi lasciavo trascinare da lui nel suo passato, più presente di quanto avrebbe dovuto e di quanto Zayn avrebbe voluto.
 

 


ANGOLO AUTRICE

Buoooonasera! Capitolo in anticipo perché dovevo farmi perdonare per la scorsa volta hahah
Premetto che mi si chiudono gli occhi per la stanchezza, perché sono tornata  a casa
mezz’ora fa, quindi non so quanto sarò coerente in questo spazio autrice!
Detto questo, passiamo al capitolo: i protagonisti indiscussi sono Zayn, Vicki e Leen
e io spero davvero di non avervi deluse e di essere riuscita a trasmettere tutto quello che volevo!
Stranamente non credo sia venuta fuori una cacchetta, ma aspetto comunque le vostre opinioni!
Zayn ha avuto una “ricaduta”, derivata dal consiglio di Vicki: credo che la reazione
di Zayn a quei pensieri sia abbastanza comprensibile, perché dover affrontare in modo così
diretto l’unicità della persona che ha amato con tutto se stesso deve essere demoralizzante.
Il suo “non ci sarà più nessuna Kathleen per me” non è solo un “non ci sarà più Kathleen”,
ma anche un “non ci sarà più nessun in grado di farsi amare da me come amavo lei” (era chiaro?).
Da lì, Vicki cerca di aiutarlo un po’: ora, vorrei precisare una cosa. I consigli che lei gli dà,
non sono assolutamente professionali o frutto di uno psicologo, ma semplicemente
quelli che darebbe un’amica “inesperta” (tant’è che l’ultimo non ha avuto l’effetto sperato),
quindi se non vi piacciono o non siete d’accordo con lei fatemelo sapere :)
Ma comunque, quello che lei dice è giusto: Zayn sta finalmente affrontando davvero la morte
di Kath, dato che per tutto quel tempo era troppo impegnato a fingere. Cosa ne pensate?
E riguardo il parlare di Kathleen? Siete d’accordo con il discorso di Vicki?
Ah, non ho approfondito i racconti di Zayn perché non mi andava e perché forse sarebbe stato
“troppo”: vorrei solo specificare che non si mette a fare un romanzo sulla loro storia haha
Spero di essere stata chiara in questo: racconta solo piccoli pezzi di vita, perché per lui
non è facile e perché è effettivamente la prima volta che lo fa!
Ok, mi sto dilungando troppo! In sintesi, fatemi sapere cosa ve ne pare hahha
 
Riguardo Louis, ricomparirà nel prossimo capitolo (<3333) e i vostri dubbi verranno risolti!
Avete proprio poca fiducia in lui ahhaha Chissà se avete ragione (:
Mi è stato chiesto di scrivere un suo POV ma la risposta per ora è no:
ho in mente di scriverne uno più avanti, ma per ora vedremo Louis solo dagli occhi di Vicki :)
E Zayn: so che molte di voi sperano ancora che possa stare con Vicki, ma credo che ormai
sia chiaro chi lei abbia scelto. E sinceramente, dovreste anche capire a questo punto
perché questa coppia non sia possibile :)
 
Grazie mille a tutte per le recensioni, il sostegno e la gentilezza che ogni volta mi riservate <333
Spero che il capitolo vi sia piaciuto e vi voglio bene <333
 
Nuova flash-fic su Zayn: "Holding on"


 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 26
*** I know ***




I know

Capitolo 25

 
Vicki.
 
Quando mi svegliai era l’una passata e le occhiaie sul mio viso rappresentavano al meglio la mia stanchezza: non che io e Zayn fossimo tornati all’alba, ma era comunque tardi quando fui in grado di lasciarmi cadere a letto e chiudere gli occhi nel confortevole buio della mia stanza.
Dopo una doccia prolungata e rilassante, decisi di preparare un vero e proprio pranzo, soprattutto perché la sera prima ero praticamente rimasta a stomaco vuoto: già immaginavo abbondanti pietanze che avrei potuto cucinare senza troppe difficoltà, la tavola imbandita a dovere e piena dei miei piatti preferiti – che avrebbero placato la mia fame – e la sensazione di pienezza che avrei ottenuto. E stava andando tutto bene, fino a quando mi accorsi che in casa non c’era nulla: mi ero dimenticata di fare la spesa - di nuovo - quindi i mobili della cucina conservavano ancora solo poche cose con le quali avrei potuto fare colazione o al massimo gli antipasti, di quel pranzo da record mondiale che invece avevo in mente.
Sospirai e mi massaggiai le tempie, con i capelli ancora bagnati e con indosso un vecchio pigiama color porpora e panna: tamburellai con le unghie mangiucchiate sul ripiano della cucina e alzai gli occhi al cielo, avvicinandomi poi al congelatore. L’avevo aperto e chiuso almeno tre volte, negli ultimi dieci minuti, ma chissà che ricontrollare non avesse potuto far apparire qualcosa di commestibile: nell’ultimo scompartimento, in fondo e dietro una busta di fagiolini surgelati, c’era una scatola in cartone contenente quattro piccole pizzette con pomodoro e mozzarella che non ricordavo nemmeno di avere. La presi tra le mani e chiusi tutto, tornando in piedi e stiracchiandomi il collo: sembrava la mia unica speranza di mangiare qualcosa, quindi controllai la scadenza e accesi il forno, stringendomi nelle spalle.
La televisione era sintonizzata sul telegiornale, che però si ostinava a ripetere gli ultimi gossip, anziché concentrarsi su notizie più importanti e magari di reale interesse, quindi lasciai le pizze a cuocere e uscii in giardino, rabbrividendo per lo sbalzo di temperatura e chiedendomi perché mi fossi premurata di portare con me il telefono ma non una giacca con cui coprirmi: trovai Teddy disteso di fianco alla porta, con il muso e le zampe che penzolavano oltre il primo gradino che conduceva al vialetto, e mi sedetti al suo fianco lasciandogli un bacio tra le orecchie. Lui ovviamente non si scompose più di tanto, fedele al suo essere un dormiglione di prima categoria, quindi mi accontentai di vederlo scodinzolare appena e di aprire gli occhi, solo per poi chiuderli di nuovo una volta appurata la mia identità.
Continuai ad accarezzarlo, dicendo addio al mio progetto di giocare un po’ con lui per passare il tempo, e usai l’altra mano per controllare il cellulare: mi chiedevo che fine avesse fatto Louis, dato che non lo sentivo dalla sera prima, ovvero da quando mi aveva tranquillamente confessato di aver cancellato il nostro appuntamento per Eleanor. Nonostante la mia stizza e i mille dubbi che non smettevano di assalirmi, decisi di prendere l’iniziativa, non prima di aver tirato un bel respiro e di essermi data della stupida da sola.
Digitai il suo numero e avviai la chiamata, leggermente scocciata dal fatto che avrebbe potuto non rispondere per almeno un centinaio di motivi e anche vittima di una certa nostalgia. Era normale che mi mancasse così tanto dopo un giorno e che potessi essere così paranoica a riguardo?
Mentre mi interrogavo su quanto effettivamente fossi patetica, la voce di Louis – quella voce – mi arrivò alle orecchie, stupendomi e facendomi raddrizzare la schiena, quasi mi avesse colpita.
«Pronto?» disse semplicemente. Lasciai andare un sospiro, sorridendo istintivamente e girandomi a guardare Teddy, come per trovare in lui un riscontro del mio sollievo.
«Louis, hey! – lo salutai, schiarendomi la voce e cercando di ricompormi. – Disturbo?»
La mia era una domanda relativamente stupida, perché in teoria la risposta avrebbe dovuto essere negativa, dato il nostro rapporto, ma non era così scontata come cosa: non potevo dimenticare che Louis facesse parte degli One Direction e che il suo tempo e i suoi impegni fossero di natura nettamente diversa rispetto a quelli di una persona comune.
«Hm, no» rispose.
, fu la  mia interpretazione.
Corrugai la fronte e aspettai qualche secondo prima di parlare o di reagire: era evidente, dal suo tono di voce reso più acuto dal telefono, che ci fosse qualcosa che non andava, che lui non fosse felice di sentirmi almeno la metà di quanto lo fossi io. E la mia mente non poteva trattenersi dal correre e dipingere davanti a me mille scenari diversi, ognuno dei quali finiva puntualmente con noi due che litigavamo, lui che mi diceva di dovergli stare lontana e io che piangevo, e che poi lo mandavo a quel paese.
Decisi di impormi un certo autocontrollo, impedendo alla parte più impulsiva e paranoica di me di agire in modo sconsiderato. Inspirai di nuovo profondamente e serrai la mascella: ci avrei almeno provato.
«Mi chiedevo se… - Tossicchiai e chiusi gli occhi, inarcando le sopracciglia per domandarmi da dove fosse uscita quella voce tremolante. – Visto che ieri non ci siamo visti, potevamo fare qualcosa oggi. Stasera io lavoro a quella festa di cui ti avevo parlato, quindi non ci sono, ma prima delle sei e mezza sono libera, quin-»
«Sì, scusa, ma ora devo andare. Ti chiamo più tardi e ne parliamo» esclamò, prima di attaccare la chiamata senza darmi il tempo di ribattere.
Io rimasi con gli occhi fissi sul pelo lucente di Teddy e con il vecchio Nokia ancora vicino all’orecchio: il mio cuore era nervoso e lo dimostrava battendo insistentemente contro la mia cassa toracica. Ed io non potevo credere a quello che era appena accaduto: Louis mi aveva praticamente chiuso il telefono in faccia, liquidandomi con poche parole disinteressate e facendomi sentire la stupida più stupida che potesse esserci sulla faccia della terra; senza parlare del suo tono freddo e distaccato e della sua promessa che, se era come quella della sera prima, prospettava altre ore passate ad aspettare invano una sua chiamata o un suo misero messaggio.
In quel momento, nonostante i miei sforzi, mi era davvero impossibile non pensare al peggio, ma ero determinata a mantenere un certo grado di dignità personale: non gli avrei permesso di trattarmi in quel modo, per questo composi di nuovo il numero e restai a fissarlo sullo schermo tra le mie mani, progettando almeno due o tre frasi da dire, appena Louis avrebbe accettato la chiamata. Le mie intenzioni, però, furono completamente spazzate via da un movimento improvviso di Teddy, che si alzò velocemente facendomi spaventare ed iniziando ad abbaiare come se non ci fosse un domani.
Corrugai la fronte e lo osservai mentre correva lungo il vialetto per arrivare al cancelletto, richiamandolo più volte per cercare di fargli fare silenzio: sembrava impazzito, anche se la sua coda che si muoveva irrequieta a destra e a sinistra e i suoi movimenti impazienti mi suggerivano che non fosse sulla difensiva, ma solo felice.
Quando io mi avvicinai a lui e dietro al cancelletto vidi apparire il viso di mio fratello Brian, per poco non mi strozzai con la mia stessa saliva e lasciai cadere il telefono a terra.
Brian accarezzò Teddy – Theodore, per lui – attraverso le sbarre di ferro, facendolo calmare almeno un po’, e rivolse a me un sorriso genuino e divertito. «Buongiorno, Victoria» mi salutò, ricalcando il mio nome per intero, dato che sapeva non entusiasmarmi molto se pronunciato da lui.
Io mi portai una mano sulla bocca e mi lasciai andare all’unica grande emozione che viveva incontrastata in me in quel momento, spazzando via tutto il resto: la felicità. Non mi mossi, ma sorrisi e sentii le lacrime pungermi gli occhi, forse per quel passaggio tempestivo e drastico da uno stato d’animo all’altro, per Louis che avrei voluto picchiare e Brian che aveva mantenuto la promessa ed era davvero a casa.
Lo osservai aprire il cancelletto e combattere contro l’allegria di Teddy, mentre si avvicinava a me. «Per fortuna ho il mio mazzo di chiavi, o quella sciagurata di mia sorella non mi farebbe nemmeno entrare in casa» mi prese in giro, appoggiando il borsone a terra e passandosi una mano tra i capelli biondo cenere, più corti dall’ultima volta in cui ci eravamo visti.
Io risi e gli corsi incontro, allacciando le mie braccia intorno alla sua schiena muscolosa e nascondendo il viso sul suo petto, proprio come una bambina, mentre mi godevo il suo profumo e la sensazione di protezione che la sua stretta mi aveva sempre provocato. «Sei tornato» sussurrai, senza riuscire a crederci.
Ero così abituata ad averlo lontano da casa e a sentirmi dire che i suoi superiori non gli avrebbero concesso i giorni di licenza che lui richiedeva, che vederlo lì, in carne ed ossa, mi spiazzava terribilmente.
«Sarò il tuo peggior incubo per quattro lunghi giorni» affermò, passando una mano tra i miei capelli e lasciando tra di essi un bacio affettuoso.
«’Sta zitto» lo rimproverai, tenendo per me il fatto che avrei accettato anche che lui fosse un incubo, pur di averlo accanto.
«Non mi hai aperto il cancello, non mi lasci nemmeno parlare, dimmi almeno che hai qualcosa di pronto da mettere sotto i denti» protestò, ridendo e facendo vibrare il suo petto sotto di me.
Io spalancai gli occhi e mi ritrassi da quell’abbraccio, mentre lui mi scrutava confuso. «Cazzo, le pizze!» esclamai, correndo via per assicurarmi che non fossero diventate mero carbone, all’interno del forno.
 
 
Brian.
 
Sorrisi ancora una volta, camminando per le strade affollate di Londra sotto il cielo rossiccio del tramonto, con i pensieri che correvano alla velocità della luce: ormai mancava poco a casa di Stephanie e non potevo aspettare un minuto di più, per rivedere i suoi occhi così verdi e per sentire la sua pelle così morbida sotto le mie dita.
Da quando me ne ero andato, non avevo fatto altro che pensare a tutti quei suoi particolari ai quali spesso non avevo fatto attenzione: Stephanie mi perseguitava ad ogni ora del giorno ed io non sapevo più come reagire a quei sentimenti che ormai non potevo più negare. Per questo avevo insistito più del previsto con il mio superiore, per ottenere dei giorni di permesso: certo, Victoria era il motivo principale, ma la sua migliore amica – non sapevo definire cosa fosse per me – era stato un grande incentivo. Il Generale Coolin, da dietro la sua scrivania e dopo avermi concesso il riposo, mi aveva chiesto perché stessi premendo più del solito per tornare a casa, dato che ormai aveva perso il conto di tutte le volte che avevo fatto richiesta: «perché credo di essermi innamorato, signore» avrei voluto rispondergli, invece gli avevo rifilato la scusa di gravi problemi in famiglia.
E volevo dirlo a Stephanie: volevo che fosse lei la prima a sapere ciò che provavo, ciò che mi aveva causato dentro. Quindi accelerai il passo e mi fermai sotto il suo appartamento, con ancora il sorriso sul volto e le mani che sfregavano l’una contro l’altra.
Quando suonai al citofono – più volte -, però, nessuno rispose: possibile che fossi tanto sfortunato da essere andato lì proprio nel momento in cui era fuori? Iniziai a chiedermi se fosse davvero stata una buona idea presentarmi senza preavviso.
Presi il cellulare dalla tasca e decisi di chiamarla: da troppo tempo non sentivo la sua voce, perché sapevo cosa le costasse avere una relazione a distanza – se così poteva essere chiamata -, quindi avevo provato a rispettare la sua scelta. Fino ad allora.
«Brian?» rispose dopo innumerevoli squilli, facendomi sorridere, di nuovo. La sua voce era stupita, leggermente più acuta e quasi trafilat: mi era mancata.
«Hey – dissi soltanto, calciando un sassolino davanti a me. – Come stai?»
«Ehm, bene…»
Rispettai la sua evidente sorpresa nel sentirmi, così non me la presi quando non ricambiò la domanda. Probabilmente si stava facendo più di mille domande.
«Sei a lavoro?» chiesi, cercando di indagare un po’ di più, in modo da potermi organizzare e portare a termine il mio intento.
«No – disse velocemente, schiarendosi la voce. – No, in realtà… Sono a casa» spiegò, facendomi corrugare la fronte. Avevo suonato tre volte al suo citofono e non aveva risposto.
Deglutii a vuoto e citofonai di nuovo, stando attento a sentire un’eco dall’altra parte del telefono, ma niente, potevo percepire solo il respiro leggero di Stephanie. E qualcos’altro. Subito dopo, infatti, una voce maschile mi arrivò alle orecchie, ed io non sapevo se essere più infastidito dalla bugia che mi aveva appena detto o da quello che mi stava nascondendo.
«Oh, hai da fare? Ho sentito che c’è qualcuno con te» cercai di provocarla, serrando la mascella.
«Sono da sola, magari ti sei sbagliato» rispose con tranquillità, e non la tranquillità che l’aveva sempre caratterizzata, ma quella costruita per celare qualcosa. O qualcuno.
«Sì, può essere – mormorai, fissando il cemento sotto i miei piedi. - Ora comunque devo tornare a lavoro, a presto!» la salutai, prima di chiudere la chiamata e gli occhi, per concentrarmi sugli ultimi minuti passati al telefono con lei.
Che diavolo stava combinando?
 
 
Vicki.
 
Sospirai profondamente, passandomi una mano sul collo come se avessi potuto alleviare la stanchezza e rendere i miei nervi meno tesi. Strinsi la cinghia del borsone per posizionarla meglio sulla spalla destra e sbuffai quando la sentii troppo pesante.
Ormai se ne erano andati quasi tutti e la hall dell’hotel in cui era stata allestita la sala per l’evento era tranquilla e illuminata placidamente da diversi lampadari: era un posto lontano dal centro di Londra, quindi il solo pensiero di dover guidare fino a casa alle due di notte mi faceva sentire ancora più stanca. Se fosse stato possibile, mi sarei accontentata di accasciarmi sul pavimento lucido su cui camminavo e di addormentarmi lì, indifferente a chiunque mi avesse potuta vedere.
Non era stata una serata eccessivamente impegnativa, anzi, rientrava in quelle nella norma: soliti preparativi, soliti imprevisti e solite persone più o meno snob che si lamentavano o si complimentavano riguardo il cibo a seconda della difficoltà dei loro gusti, senza sapere che era stato proprio il loro ospite a scegliere le varie pietanze. Sulla qualità del servizio, però, nessuno aveva avuto qualcosa da obiettare, ed era questo l’importante.
Sbadigliai e sbattei le palpebre più volte, salutando con un sorriso il distinto signore che stava dietro il bancone nella hall e sistemandomi meglio il giubottino in pelle nera che stonava leggermente con i pantaloni blu della tuta: finalmente ero riuscita a togliermi quelle fastidiose scarpe nere eleganti e a rimpiazzarle con un paio di converse bianche che non avevo mai amato così tanto.
Aspettai il secondo necessario affinché le porte automatiche della hall si aprissero e mi immersi nella notte londinese. La strada era deserta e le luci rendevano il cielo un po’ meno scuro. Io ero ferma sul marciapiede, per un attimo indecisa su dove avessi parcheggiato, e Louis era appoggiato alla sua auto con le braccia incrociate sul petto, un cappellino di lana grigia calato sulla fronte e gli occhi su di me.
Louis…
Louis?!
Che diavolo…?
Corrugai la fronte e deglutii, credendo che fosse solo un’allucinazione dettata dal sonno e dagli avvenimenti della giornata; dal mio intenso desiderio di vederlo e dalla delusione di non aver ricevuto, alla fine, quella tanto attesa chiamata da parte sua; dalla rabbia e dal sollievo.
Eppure le sue iridi azzurre erano proprio a pochi metri da me e il mio cuore era già impazzito, quindi dovevo convincermi che fosse più che reale.
«Cosa ci fai qui?» chiesi in un fil di voce avvicinandomi, ma non troppo. Fu lui, infatti, ad eliminare quasi del tutto la distanza tra di noi, arrivandomi di fronte. Il giubottino di jeans era sbottonato e lasciava intravedere una maglia nera del Leeds Festival, mentre i jeans scuri gli lasciavano scoperte le caviglie magre.
«Mi sembra ovvio» rispose, passandosi la lingua sulle labbra senza smettere di scrutarmi. Nella sue parole scontate e un po’ irritanti, non c’era però traccia di una presa in giro o di sarcasmo, ed io ero troppo stanca per indagare oltre.
«Questo l’ho capito – sospirai, spostando il borsone sulla spalla sinistra. – Intendo dire perché» precisai. Cercavo di mantenere i nervi saldi ed una maschera di serietà che non lasciasse trasparire quanto in realtà avessi voglia di mandare tutto all’aria e di baciarlo, di accarezzargli il collo, insultarlo e poi di stringermi al suo petto.
Louis mi guardò per un paio di secondi, poi allungò una mano e mi strinse il fianco destro per attirarmi a sé: si avvicinò lentamente al mio viso e sfiorò le mie labbra con le sue, fredde e leggermente screpolate, ma sue, quelle che anche in quella situazione non mi risparmiavano dalla loro tortura e dai brividi che mi provocavano.
Per quanto io avessi bisogno di quel contatto, però, mi obbligai a fare un passo indietro, tenendo a bada la parte di me che pestava i piedi a terra, maledicendomi per la distanza che avevo di nuovo stabilito tra me e Louis. Lo osservai duramente – o almeno ci provai – mentre lui alzava un sopracciglio, confuso e anche innervosito.
«Non puoi fare così – affermai, prima che mi potesse togliere tutte le forze per farlo. – Non puoi ignorarmi e poi presentarti qui e baciarmi, come se andasse tutto bene».
Louis schiuse le labbra e strinse i pugni. «Sono stato qui ad aspettarti per oltre due ore, potresti almeno apprezzarlo» disse a denti stretti. Era davvero stato lì per tutto quel tempo? Era evidente che non sapesse a che ora avrei finito di lavorare, ma… Insomma, più di due ore ad aspettare me? Se lui non era lunatico, allora non so chi altro potesse esserlo.
Mi morsi una guancia. «Infatti lo apprezzo – gli assicurai, perché in fondo era la verità. – Ma l’avrei apprezzato di più se oggi non mi avessi praticamente ignorata al telefono e per tutto il pomeriggio, facendomi sentire una povera illusa» ammisi, ricordando l’attesa impaziente con la quale avevo vissuto quella giornata e che poi si era tramutata in delusione e pessimismo. Dovevo fargli capire che non sarei stata buona in un angolino, accettando qualsiasi suo comportamento contraddittorio: non più.
«Non venirmi a dire quello che io avrei dovuto fare o non fare, perché non sei nella posizione adatta» ribatté con nervosismo, dandomi le spalle e dirigendosi verso la sua auto. A cosa di riferiva e perché se ne stava andando?
«Louis - lo richiamai, incredula. – Fermati».
Era assurdo come la maggior parte dei nostri incontri finisse con uno dei due che scappava via. Stranamente quella volta mi diede ascolto. «Di che stai parlando?» chiesi, e lui si voltò verso di me con la mascella serrata e gli occhi colmi di risentimento.
«Di cosa sto parlando? – ripeté, avvicinandosi come se avesse avuto voglia di urlarmi contro. E probabilmente stava per farlo. – Non mi sembra che tu abbia molto da rimproverarmi, dato che sei stata la prima ad ignorare me per Zayn» continuò, facendomi rimanere a bocca aperta.
Allora era questo il problema? Zayn? E da che pulpito veniva la predica?
«Io non ti ho ignorato per Zayn – ribattei, lasciando a terra quel maledetto borsone e impegnandomi con tutta me stessa per mantenere la calma. – Aveva bisogno di parlare con qualcuno e di certo non potevo negarglielo: e se ben ricordi, io ti ho chiesto di vederci più tardi, ma sei stato tu a mandare tutto all’aria per stare con Eleanor». Le cose stavano esattamente così e non mi sembrava di aver commesso un grande errore, quindi perché Louis mi stava guardando con quell’aria ferita quando la situazione avrebbe dovuto essere capovolta?
«Però devi ammettere di aver passato una gran bella serata con Zayn, dato che non ti sei più fatta viva» continuò, questa volta con un tono presuntuoso che mi diede sui nervi.
«Smettila di pronunciare il suo nome come se fosse un nemico mortale: è uno dei tuoi migliori amici! Conosci bene il rapporto che c’è tra di noi, quindi non capisco di cosa tu ti sorprenda. E sì, ho passato una bella serata perché ho cercato di aiutarlo e perché forse ci sono riuscita, ma non è per questo che non mi sono fatta viva – precisai, con le mani che gesticolavano per il nervosismo. – Nemmeno tu mi hai scritto o chiamato, quindi non volevo disturbarti, nel caso ti stessi divertendo moltissimo con la tua Eleanor, per la quale, tra l’altro, non hai esitato a darmi buca all’ultimo minuto. Ah, e visto che siamo in tema: durante il vostro incontro hai per caso accennato a te e me?»
Il mio tono era pungente e ferito al tempo stesso: c’era troppa consapevolezza, troppo sarcasmo che mal celava il mio reale stato d’animo. In più, mi ero lasciata trasportare dalle emozioni, finendo per gettare via quella mia piccola paura: avevo finito per sputare tutto fuori in un’unica volta, facendomi forza con la rabbia che le insinuazioni del ragazzo di fronte a me mi donavano.
«No» rispose velocemente Louis, guardandomi negli occhi.
In quel momento sentii il terreno sbriciolarsi sotto i piedi. Gli voltai le spalle, raccogliendo il borsone, e iniziai a camminare: il solo pensiero che si fossero incontrati per altri motivi bruciava dentro di me, così come la possibilità che Louis non avesse nemmeno intenzione di dirle la verità. E avevo sonno, ero stanca e i piedi mi facevano male: allontanarmi il più possibile da lui era l’unica cosa che mi rimaneva da fare.
Quando la sua mano si avvolse intorno al mio polso, io cercai di liberarmi, fino a ritrovarmi di nuovo faccia a faccia con i suoi occhi, che mi scavavano dentro. «Non le ho detto niente perché non l’ho vista» disse soltanto, con un’espressione più tranquilla, quasi spaventata.
Arrestai i miei movimenti e respirai profondamente, con ancora il cuore irrequieto. «Cosa?» chiesi flebilmente.
Louis mi lasciò andare e si inumidì le labbra. «Era una cazzata – spiegò, distogliendo per un attimo lo sguardo da me e abbassando di molto il tono di voce. – Ti ho mentito».
Lo osservai attentamente, cercando di rielaborare le sue parole e di dare loro un senso. «Perché?» fu la sola cosa che riuscii a dire.
Sospirò e si aggiustò il cappellino sulla fronte. «Perché avevi deciso di uscire con Zayn e io…»
«E tu hai creduto che l’idea migliore fosse inventarti una scusa solo per farmela pagare?» lo anticipai, offesa dal suo comportamento infantile, che aveva causato solo preoccupazioni e discussioni inutili.
«Volevo stare con te - disse seriamente, corrugando la fronte e facendosi un po’ più vicino, mentre i miei occhi cercavano di decifrare i suoi, di testare la veridicità di quella sua semplice frase. – E quando mi hai mandato quel messaggio… Mi hai fatto incazzare».
«Louis…»
«Lo so» mi interruppe, quasi non volesse sentire il resto delle mie parole. Probabilmente sapeva che fossi sul punto di dirgli quanto il suo atteggiamento fosse stato esagerato.
«Anche io volevo stare con te – gli assicurai, abbassando la voce e sentendo una fitta allo stomaco a causa di quel pensiero. – Ed è per questo che ti ho detto che ci saremmo potuti vedere dopo». Se solo fossi stata in grado di fargli capire quanto io volessi passare ogni minuto della giornata con lui.
«Ho agito d’istinto – si giustificò, allungando una mano per raggiungere la mia e sfiorarla delicatamente. Io non la ritrassi. – Zayn ti ha cercata e tu non hai esitato a correre da lui. Avrei voluto dirti che anche io avevo bisogno di vederti, in quel momento, e che vorrei che tu corressi da me allo stesso modo, invece ho finito per fare lo stronzo orgoglioso».
La sua spiegazione mi entrò nelle ossa più del freddo di quella notte. Possibile che dietro le iridi vitree di Louis ci fosse tanta insicurezza e tanta paura? Che lui riuscisse a mascherare tutto con del pungente orgoglio? Non avrei mai pensato che il problema potesse essere quello: in pratica mi aveva detto di doversi vedere con Eleanor solo per ripicca, per farmi provare quello che lui stava attraversando per quel mio gesto nei confronti di Zayn, per nascondere la sua delusione e dimostrarsi forte ai miei occhi, mal celando il fatto che magari stesse aspettando quell’appuntamento tra di noi quanto me, mentre io l’avevo posticipato tanto facilmente.
«E per tutta la sera ho aspettato che tu mi chiamassi, o mi scrivessi anche solo uno stupido messaggio. Invece niente – aggiunse, con la linea dura della mascella che rifletteva la riluttanza con la quale lasciava uscire quelle parole. Aprirsi a qualcuno non era facile per lui, soprattutto se doveva ammettere qualcosa del genere. – È stato lì che ho pensato che…»
«Vuoi sapere cosa ho pensato io, invece? – chiesi, quasi in una preghiera. Non sapevo più come rassicurarlo, cosa dire o fare per fargli capire quali fossero i miei sentimenti per lui. – Ho pensato che tu non ti fossi fatto nessuno scrupolo a cancellare un impegno preso con me per stare con quella che in fondo è ancora la tua ragazza. Mentre ero con Zayn, continuavo a chiedermi cosa steste facendo in quel momento e se tu avessi davvero intenzione di parlarle. E quando il mio telefono continuava a non squillare ho pensato che io fossi l’ultimo dei tuoi pensieri» confessai. Ero decisa a scoprirmi completamente con Louis, perché non volevo tenermi tutte quelle sensazioni dentro: volevo mostrargli quanto i nostri timori fossero simili, quanto i nostri comportamenti ci influenzassero allo stesso modo e quanto anche io avessi paura di perderlo. Speravo che svelando ogni mia più piccola preoccupazione, si sarebbe sentito in grado di fare lo stesso, al sicuro.
Con i suoi occhi ad osservarmi con stupore, continuai a parlare. «E oggi, quando ti ho chiamato e tu mi hai risposto in quel modo, ho pensato che la serata con Eleanor dovesse essere andata bene, o peggio, che tu avessi cambiato idea e che da un momento all’altro mi avresti detto che tra di noi…»
Louis non mi diede il tempo di finire la frase e, tirandomi per la mano che stringeva ancora nella sua, mi avvicinò a sé per baciarmi: io non mi opposi, perché le sue labbra erano l’unica cosa di cui in quel momento avevo bisogno, e sospirai sulla sua pelle. Mi baciò portando una mano tra i miei capelli e mi baciò per smentire quelle mie parole.
«Non cambierò idea» sussurrò sul mio collo, facendomi rabbrividire. Il mio cuore prese a battere ancora più forte, liberandosi dalla morsa del freddo e della preoccupazione che per tutto il giorno mi aveva tenuta prigioniera.
Portai le braccia intorno al suo collo, per stringermi a lui nonostante il borsone mi fosse d’intralcio, e respirai il suo profumo mentre sentivo le sue mani spostarsi sulla mia schiena: avrei voluto che fosse ancora estate, in modo da poter sentire le sue dita sulla mia pelle nuda, lasciata scoperta da un semplice top.
«Non devi pensare che io preferisca stare con qualcun altro – mormorai. Com’era possibile che non capisse cosa significava per me? Cosa solo lui potesse provocare in me? – E non devi mentirmi in quel modo solo per…»
«Mi dispiace» mi interruppe, dandomi l’impressione che fosse la sua tecnica preferita per non sentire parole che avrebbero intaccato troppo da vicino i suoi sentimenti. Io non protestai, finalmente capace di capirlo un po’ di più e finalmente al sicuro da tutte le mie paranoie: ormai avevo compreso cosa aveva spinto Louis a comportarsi in quel modo, e nonostante non fossi d’accordo con le sue azioni, riuscivo a giustificarle e a perdonarle. Forse era stupido e ingenuo, ma non potevo fare altrimenti.
Era evidente che dovessimo ancora imparare a condividere qualcosa, anche un semplice pensiero, e a stare insieme anche nell’accezione più semplice del termine: dovevamo trovare un punto d’incontro tra la sua testardaggine, i suoi modi a volte discutibili e troppo orgogliosi e le sue paure, e il mio carattere spesso insicuro e altrettanto determinato, i miei timori – simili ai suoi – e tutte quelle emozioni di cui io vivevo e dalle quali mi lasciavo sopraffare.
E a proposito, col senno di poi, riuscivo ad apprezzare ancora di più il suo avermi aspettato davanti all’hotel: dopo un’intera giornata passata ad evitarmi per la stizza della sera prima, doveva essergli costato parecchio orgoglio presentarsi lì e mettere da parte il suo risentimento.
«Anche a me» dissi flebilmente, sorridendo sulla sua pelle. Mi dispiaceva, ma ero terribilmente felice che tutti i miei dubbi fossero stati allontanati e che potessi finalmente godermi la sua stretta su di me. Subito dopo, la mia espressione serena fu disturbata da uno sbadiglio che cercai di mascherare. Alla faccia del momento di riappacificazione: la prima volta avevo lo stomaco che brontolava, questa non mi reggevo in piedi per il sonno.
Ovviamente, Louis si accorse di quel piccolo segno di stanchezza. «Sei stanca? Vuoi andare a casa?» chiese, spostandosi leggermente per guardarmi negli occhi. I suoi, a quella distanza ridicola, erano il male puro.
Sì, in realtà volevo andare a casa e sdraiarmi nel letto senza nemmeno mettermi il pigiama, ma c’era qualcosa che cercava di distogliermi da quell’idea. Scossi la testa e mi passai una mano tra i capelli. «No, possiamo stare un po’ insieme – proposi. – Hai aspettato oltre due ore, quindi direi che è il minimo che io possa fare» continuai, ricalcando quelle parole. Louis sorrise, provocando in me la stessa reazione, e scosse la testa, probabilmente pentito di avermi confessato quel suo piccolo grande gesto.
«Vicki, non vorrei che ti addormentassi mentre parliamo – mi prese in giro, mostrandomi di nuovo il Louis privo del cipiglio arrabbiato o nervoso. I suoi cambi d’umore mi avrebbero di certo mandata al manicomio, prima o poi. – O mentre facciamo altro» aggiunse, facendo schioccare la lingua sul palato.
Ignorai la sua aria maliziosa e alzai gli occhi al cielo. «Guarda che non…» Un altro sbadiglio mi interruppe, rendendo i miei occhi lucidi.
«Stavi dicendo? – chiese, divertito dalla poca credibilità che avevo. – Rimane il fatto che non puoi nemmeno guidare fino a casa in questo stato, quindi posso accompagnarti io: prendiamo la tua macchina e poi chiamo un taxi per tornare qui» propose, alzando le spalle. Quanti Louis diversi avrei conosciuto nell’arco di pochi giorni?
«Non…»
«Oppure… - disse contemporaneamente a me, inclinando le labbra all’insù e dando una veloce occhiata all’hotel dietro di noi. – Oppure potremmo prendere una stanza qui e…»
«Maniaco» lo presi in giro, stringendo un po’ di più la presa sul suo collo. Il solo pensiero di condividere la notte con Louis mi emozionava e mi terrorizzava al tempo stesso: era un terrore positivo però, perché avevo solo paura che svegliarmi al suo fianco avrebbe comportato un nuovo livello di masochismo e pazzia dentro di me.
«Pervertita – mi imitò lui, corrugando la fronte. – Intendevo dire che potremmo prenderla per dormire. E poi, mi devi ancora un appuntamento» spiegò.
«Io? Guarda che sei tu c-»
«Allora?» chiese, ignorando le mie proteste per la sua insinuazione con un sorriso divertito sul volto.
Mi morsi il labbro inferiore, sbirciando nella hall dell’hotel e accettando di buon grado quel suo modo di fare giocoso. «Non lo so, Louis. Posso prendere un taxi senza che tu mi accompagni a casa per poi tornare qui, senza contare il fatto che non ho abbastanza soldi con me per pagare la stanza di un hotel a cinque stelle».
 
Dieci minuti dopo, invece, il mio borsone era già posato su un tappeto persiano o di chissà dove in una lussuosa camera d’albergo, dove avevo l’impressione che persino la carta igienica avesse un valore inestimabile. Louis era più testardo di quanto potesse sembrare ad una prima occhiata e non aveva voluto sentire proteste, mentre pagava anche per me il soggiorno per una notte e mentre mi trascinava per i corridoi dell’hotel, elencandomi i motivi per cui non mi avrebbe fatta guidare fino a casa da sola né mi avrebbe lasciata prendere un taxi a quell’ora di notte, dato che io mi rifiutavo categoricamente di farmi accompagnare da lui e di fargli fare mille cambi di auto solo per tornare a casa.
«Ero sicuro di avergli detto di volere due letti singoli» borbottò, con un sopracciglio alzato e un ghigno divertito sul viso, indicando con un cenno del viso il letto matrimoniale che ci divideva, ricoperto di cuscini quadrati e in velluto beige. Io scossi la testa evitando di ridere e lo osservai mentre si toglieva il giubottino di jeans.
Ero imbarazzata e non riuscivo a muovermi da lì: come sarebbe stato dormire con Louis? Sentire il suo respiro regolare e il calore del suo corpo? E come avrei fatto a tenere a bada il mio battito cardiaco in modo che potesse passare inosservato nel silenzio della notte?
«Bella addormentata?» mi richiamò lui, con una mano ad alzare il piumone scarlatto che ricopriva il letto matrimoniale e un ginocchio nudo premuto sul materasso. Con i capelli castani disordinati sulla fronte, aveva tenuto la maglietta a maniche corte del Leeds Festival e si era tolto i pantaloni, rimanendo con i boxer neri come se fosse una cosa del tutto naturale. E forse per lui lo era, ed ero solo io a farmi di questi problemi.
Mi tolsi lentamente la giacca di pelle e mi aggiustai il maglioncino color panna, sfilandomi le converse con i piedi. Feci un passo in avanti e poi mi fermai di nuovo, con il labbro inferiore tra i denti. «Mi faccio prima una doccia» dissi velocemente, voltandomi alla stessa velocità verso la porta elaborata del bagno e ignorando le sue deboli proteste: avrei avuto più tempo per prepararmi psicologicamente alla notte che mi aspettava, e il getto dell’acqua calda attirava le mie spalle stanche.
Poco dopo, i miei capelli erano leggermente umidi e raccolti in una coda disordinata: mi ero rivestita completamente, perché il maglioncino non era abbastanza lungo per farmi da pigiama e perché avrei dovuto depilarmi. La mia pelle sapeva del bagnoschiuma forse troppo dolce che davano in dotazione e le mie guance erano rosse per il vapore.
Tornata in camera, Louis era appoggiato con la schiena alla testiera del letto e tra le mani reggeva il telefono: l’espressione concentrata e le gambe nascoste dal piumone. Sorrise, nel vedermi ricomparire, ed io ricambiai in imbarazzo come una bambina.
Quando mi trovai sotto le coperte, al caldo e su un materasso che – santo cielo! – avrei voluto portarmi a casa per quanto era comodo, mi sentii un po’ più tranquilla: soprattutto perché Louis aveva spento la luce sul comodino, facendo piombare la stanza nel buio e impedendo quindi alle mie guance arrossate – questa volta per il disagio - di essere viste, e perché si era avvicinato tanto a me da farmi sentire il suo respiro tra i miei capelli.
Senza che nessuno dei due dicesse qualcosa, sentii il suo braccio scorrere dietro il mio collo in modo da accogliere il mio viso sulla sua spalla: portai la mia mano destra sul suo addome e mi sistemai meglio, sorridendo senza che lui se ne accorgesse, mentre mi rilassavo nel percepire il sali-scendi del suo petto.
I nostri erano movimenti un po’ impacciati, data la situazione, e mi chiedevo se anche Louis sentisse quella strana sensazione alla bocca dello stomaco a starmi così vicino.
Era strano e allo stesso tempo piacevole, passare il tempo con lui in quel modo: normalmente durante i primi appuntamenti non si dorme insieme in una stanza di un lussuoso hotel, ma in quel caso sentivo che fosse anche giusto, per noi. Quasi avessimo bisogno di stare a contatto l’uno con l’altra senza dover fare altro, senza dover riempire i silenzi e gli sguardi di parole.
«Vicki?» mi chiamò dopo qualche minuto respiri e strusciare di lenzuola.
«Hm?» mugugnai in risposta, alzando il volto verso il suo e cercando i suoi occhi, che, nonostante fossero più scuri a causa dell’assenza di luce, continuavano a brillare debolmente.
«Eleanor non è la mia ragazza, non più – sussurrò, accarezzandomi il braccio con le dita della mano destra. Doveva essere rimasto colpito dal mio sfogo di poco prima. – Devo solo dirglielo, ma questo non cambia le cose».
Annuii lentamente e «va bene» risposi semplicemente, senza sapere cos’altro dire. Era ovvio quale fosse la mia volontà, ma non potevo nemmeno pretendere troppo da Louis: sapevo quali fossero le sue difficoltà e non volevo procurargli troppe pressioni, almeno fino a quando non si sarebbero rivelate strettamente necessarie.
«Prima te ne stavi andando - aggiunse, continuando a intrappolare le mie iridi con le sue. Avrei voluto che la luce fosse accesa, in modo da poter osservare ogni particolare del suo volto. – Quando ho ammesso di non averle ancora detto niente, stavi andando via da me».
Era paura quella nella sua voce? Mi aveva chiesto di restare, nonostante i suoi errori: forse aveva pensato che lo stessi lasciando?
«Ero arrabbiata per tutto il resto – mi spiegai. – Sono ancora qui».
Lo sentii stringermi un po’ di più a sé e mi diede l’impressione di essere una persona che avesse bisogno di più rassicurazioni di quante si potesse pensare: mi allungai verso di lui e sfiorai le sue labbra, provando a trasmettergli qualunque cosa mi stesse torturando il petto in quel momento.
Lui sospirò e sembrò voler dire qualcosa, ma poi si limitò a ricambiare il bacio e a portare la mano sinistra tra i miei capelli, spostandosi in modo da essere quasi sopra di me. Lasciai che mi accarezzasse attraverso il maglioncino e sotto di esso, lasciai che i miei occhi si chiudessero per non pensare a nient’altro se non a quel momento e lasciai che il mio cuore facesse ciò che più voleva, perché in fondo Louis aveva solo bisogno di sentirlo.
Poi, quando le sue labbra si posarono un’ultima volta sulle mie, dolcemente, e lui sussurrò «buonanotte» sulla mia pelle, io sorrisi  e gli risposi allo stesso modo: sentii le sue braccia circondarmi di nuovo e premere delicatamente su di me in modo da farmi girare sul fianco destro, mentre il petto di Louis aderiva alla mia schiena. E mi sentivo così bene, così protetta, da voler restare sveglia ancora per ore solo per poter prolungare quella sensazione. Solo per poter sentire il suo respiro sul mio collo e il suo profumo sul cuscino al mio fianco. Le sue mani intorno al mio addome e le sue gambe magre tra le mie.
«Mi sei mancata» fu l’ultima cosa che sentii sussurrare al mio orecchio, prima di cadere in un sonno profondo, prima di accettare un bacio tra i miei capelli e pensare che avrei voluto addormentarmi in quel modo altre mille volte, anche se non ne avrei mai avuto abbastanza.
 

 


SPAZIO AUTRICE

Lo so: sono in anticipo di un giorno (credo?) ma questo capitolo non è il massimo!
Io mi scuso, ma c’è qualcosa nel Louis Tomlinson di questa storia che mi rende tutto
più difficile del previsto! Spero davvero che il suo carattere emerga da ciò che scrivo,
perché è quella la mia intenzione, ma se non è così ditemelo, per favore!
So che siete abbastanza critiche e oggettive da non farvi problemi in questo (:
Detto ciò, sarò di poche parole e di poca allegria perché sono stanca morta, perdonatemi:
come avete visto, Louis non doveva affatto vedersi con Eleanor, anzi, aspettava
di uscire con Vicki almeno dieci volte di più di lei! Il fatto è che fondamentalmente
è un bambino impaurito/capriccioso/orgoglioso/impulsivo e quindi la sua delusione
l’ha mascherata con quel piccolo dispetto e con una bella dose di fastidio: e da buon
piccolo complessato, ha di proposito aspettato che fosse Vicki a farsi sentire quella sera,
così mentre lei si faceva gli stessi suoi problemi e non gli scriveva, lui si arrabbiava ancora di più!
Da lì, potete ben immaginare il resto! Ovviamente le loro sono incomprensioni
dettate dalla diversità che però continua a tenerli uniti, nonostante tutto!
E Louis sa quanto sia complicato, infatti la ferma ogni volta che lei cerca di farglielo presente:
sapete già quanto non gli piaccia affrontare la realtà delle cose, ma questo non significa
che sia stupido e che non capisca i suoi sbagli! La loro notte in hotel boh,
non so da dove sia uscita hahah Non era prevista, ma spero che non vi sia dispiaciuta!
Per favore, ditemi tutto quello che pensate su di loro perché ne ho bisogno!
Poi, è tornato Brian WOOOHO! Ma con Stephanie c’è qualcosa che non va,
e voi potete immaginare cosa (: Secondo voi cosa succederà in quel triangolo?
Ah, per chi mi ha più volte chiesto di Abbie ed Harry,
credo che già nel prossimo capitolo compariranno! Non disperate!

Vi ringrazio infinitamente per tutto e spero di non avervi deluse con questo capitolo!
Sono felice che abbiate apprezzato il capitolo precedente e che la presenza – anche solo
in un discorso – di Leen mi emozioni ancora tanto!
Mi scuso in anticipo se avrò poco tempo per scrivere e quindi aggiornare: da oggi in poi
starò praticamente dodici ore fuori casa, più o meno, quindi abbiate pietà di me hahah
Un bacione,
Vero. 

PS: i capitoli sono abbastanza lunghi, forse troppo? Vorrei sapere se per voi vanno bene
o se vi annoiate o sono troppo impegnativi! Io li scrivo con piacere, ma so anche che spesso
sono visti un po' negativamente dopo una certa lunghezza! Faccio di tutto per renderli
interessanti, ma vorrei sapere da voi qualcosina, per favore :)

 

Ritorna all'indice


Capitolo 27
*** More than I can say ***




More than I can say

Capitolo 26

Vicki.
 
Se qualcuno – chiunque – mi avesse vista in quel momento, di certo avrebbe pensato che fossi affetta da un qualche disturbo psicologico più o meno grave. Non avrebbe potuto pensare ad un’altra possibilità, nello scontrarsi con il mio sorriso quasi inquietante che mi accompagnava ovunque, mentre pulivo il bagno e rifacevo il letto, lavavo i piatti della colazione e passavo lo straccio sui mobili della cucina.
I capelli legati in una crocchia che stava su per miracolo, una vecchia felpa di mio fratello a farmi da vestito e i calzini di lana grigia che impedivano al freddo del pavimento di raggiungermi. La musica che proveniva dallo stereo acceso e, appunto, le mie labbra inclinate all’insù inesorabilmente.
E non mi importava nemmeno: volevo sorridere, volevo improvvisare qualche imbarazzante passo di danza tra una pulizia e l’altra e canticchiare tra me e me, usando il manico della scopa come microfono. Volevo farlo perché rispecchiava a pieno il mio stato d’animo, la felicità che mi stringeva il cuore e che mi faceva sentire tanto bene da permettermi di ignorare Brian e le impronte delle sue scarpe da ginnastica all’ingresso, che avevo appena reso lucido e splendente con tanto olio di gomito.
Il merito, ovviamente e – troppo – sdolcinatamente, era di Louis. Non lo vedevo da un giorno, ormai, ma la sua assenza mi pesava meno del previsto, perché avevo ancora addosso la sensazione del suo respiro pesante su di me: la notte passata insieme all’hotel mi aveva condizionata talmente tanto da lasciarmi impresse sulla pelle tutte le emozioni che avevo provato tra quelle coperte costose e tra quelle braccia, mentre Louis si muoveva lentamente nel sonno o mi cingeva il corpo senza nemmeno rendersene conto, e mentre cercavo di capire se le sue carezze leggere e delicate fossero solo un sogno. In qualche modo, quel momento era in grado di rincuorarmi e di alleviare la mancanza che sentivo, intervallata da telefonate e messaggi ai quali mi aggrappavo con la paura di doverli perdere: certo, mi era dispiaciuto svegliarmi senza di lui al mio fianco, ma in fondo erano le due passate del pomeriggio e Louis mi aveva precedentemente avvertito dei suoi impegni per quella giornata.
Ricordavo ancora come mi fossi stiracchiata lentamente nel letto, ancora con gli occhi chiusi per prepararmi a trovare Louis accanto a me, magari con i capelli disordinati e gli occhi assonnati: e ricordavo anche come mi fossi messa a sedere di scatto, quando avevo trovato il letto vuoto. Sul suo cuscino, quello con il suo profumo, c’era solo un bigliettino scarabocchiato da una scrittura frettolosa e a tratti poco comprensibile:
 
Russavi così bene che ho preferito non svegliarti :)
Sentiti libera di ordinare la colazione o il pranzo, ho pagato in anticipo.
Buongiorno,
Louis”,
 
c’era scritto. Ed io avevo riletto quelle poche parole innumerevoli volte, attraversando stati emotivi diversi: inizialmente, l’imbarazzo per la prima frase, mentre mi chiedevo se davvero avessi russato e quindi mi fossi fatta una figura degna di me, o se mi stesse solo prendendo in giro. Poi, la curiosità di sapere cosa avesse provato lui nello svegliarsi al mio fianco e se si fosse fermato ad osservarmi, come io ero sicura avrei fatto, se fossi stata al suo posto. E infine, la gratitudine e la pura felicità dovute al suo piccolo grande gesto di galanteria affettuosa.
Tutto quello mi bastava – ancora a distanza di ventiquattro ore – a contrastare la nostalgia, e la lieve stizza che i suoi impegni di lavoro mi provocavano, nonostante io li capissi.
«Victoria, che problemi hai?»
La voce di mio fratello mi fece riscuotere e anche spaventare. Mi voltai alle mie spalle e spostai lo sguardo su di lui, che si stava sedendo sul divano. Bello come al solito e altrettanto sfaticato.
Solo a quel suo commento mi resi conto di quanto energicamente stessi spolverando la vetrinetta accanto al televisore: sbuffai e mi passai una mano sulla fronte.
«Al posto di fare lo spiritoso, perché non mi dai una mano?» lo ripresi, cercando – inutilmente – di convincerlo a muovere anche solo un dito. Ormai, dopo tutti quegli anni, ero sul punto di arrendermi alla sua pigrizia.
«Tanto hai quasi finito – borbottò, alzando le spalle e provocando in me una smorfia di disappunto divertito. – Piuttosto, hai novità di Stephanie?» chiese, cogliendomi alla sprovvista.
«Novità? In che senso?» domandai, con la fronte aggrottata.
Lui si passò una mano tra i capelli corti e sospirò. «Non so. L’altro ieri l’ho chiamata, perché volevo farle una sorpresa, ma mi ha mentito, dicendo che fosse a casa quando io ero proprio lì e il citofono suonava a vuoto. E, forse sono paranoico, ma sono abbastanza sicuro di aver sentito una voce maschile dall’altra parte della cornetta, con lei» spiegò, con lo sguardo perso sulle sue mani, come se stesse ripensando all’accaduto.
Sentii il sangue raggelarsi nelle vene al pensiero di Stephanie e Liam, che avrebbero potuto essere insieme: di sicuro sarebbe stato un buon motivo per mentire a Brian.
«E ieri ho provato di nuovo a chiamarla, ma non ha risposto – aggiunse, interrompendo le mie ipotesi. – So bene che non è affatto una ragazza semplice e che tra di noi le cose sono un po’ complicate, ma… Voglio dire, secondo te si vede con qualcuno?»
Spalancai gli occhi e il respiro mi morì in gola: sì, Brian, Stephanie si vede con qualcuno, e anche da molto tempo e alle tue spalle. Ma non potevo dirglielo, o meglio, avrebbe dovuto saperlo, ma potevo essere io la persona a rivelargli una cosa del genere?
Il tempo che usai per decidere cosa fare e le parole da usare, però, fu una risposta esauriente per mio fratello.
«Lo sapevo – sussurrò, alzandosi dal divano e assottigliando lo sguardo. – Lo sapevo» ripeté.
«No, Brian, cosa…»
«Hai esitato, Victoria. Ti conosco sin troppo bene, e non sono stupido» mi anticipò.
«Ma…»
«Da quanto tempo?» domandò, stringendo i pugni e imponendosi il contegno militare che faceva parte di lui.
«Brian…»
«Sono tuo fratello – mi interruppe, di nuovo. – Me lo devi».
Ero in trappola e lui aveva ragione. Per quanto volessi bene a quella che era la mia migliore amica, mio fratello aveva la priorità, e il suo sguardo cupo e arrabbiato mi suggeriva quanto quel sospetto lo stesse divorando dall’interno: era vero, non erano affari miei né era mio diritto o dovere intervenire, ma Brian me lo stava chiedendo con la mascella serrata ed il respiro accelerato.
Abbassai gli occhi sul tappeto che ci divideva, torturandomi il labbro. «Non dovrei essere io a dirtelo» mormorai, protestando debolmente un’ultima volta, anche se sapevo che non avrei ottenuto nessun risultato.
«Victoria – lo sentii respirare profondamente. – Per favore».
Spostai lo sguardo su di lui e quasi mi sconvolse trovarmi di fronte la sua espressione ferita ed impaziente: era come se stesse aspettando un dolore lancinante che sapeva di non poter evitare. «Un paio di mesi – dissi flebilmente, stando attenta ad ogni suo gesto, ad ogni suo movimento impercettibile. – Ma è un rapporto strano, loro… Tu eri già partito, non ti ha tradito: solo che poi sei tornato, ma… Non è niente di serio e sai com’è Stephanie, lei non è in grado di… Brian, aspetta! Dove stai andando? Brian!»
Ma mio fratello aveva già raccolto il cappotto dall’appendiabiti e si era già precipitato fuori dalla porta di casa.
 
 
Brian.
 
Sentivo la rabbia pervadermi fin dentro i muscoli.
La mascella quasi mi faceva male per quanto la tenevo serrata, mentre cercavo di mantenere la calma nel traffico londinese: mi sarebbe bastato davvero poco per perdere la pazienza, e non volevo che un autista malcapitato dovesse subire il mio pessimo stato d’animo, né che mi rubasse del tempo prezioso.
Dovevo arrivare il prima possibile a casa di Stephanie, e l’avevo giurato: se non l’avessi trovata, sarei rimasto davanti a quel portone fino a quando non l’avessi vista arrivare.
Avevo bisogno di parlare – o di urlare – e soprattutto di capire: ovviamente Victoria non era scesa nei dettagli, e io sapevo di non poter pretendere troppo da lei, ma il solo pensiero che Stephanie fosse stata con un altro mi annebbiava la vista. Era un pensiero insopportabile, per me. Ero consapevole del fatto che il nostro rapporto non fosse dei migliori, che i nostri continui tira e molla fossero esasperanti e – almeno per me – dolorosi, ma non avevo mai pensato che lei potesse trovare un’altra persona: conoscevo a menadito le sue paure e il suo carattere chiuso e riflessivo, ma mai mi era passato per la testa che avesse potuto tradirmi.
Rimuginazioni dopo rimuginazioni, mi ritrovai sotto casa sua: lasciai l’auto in doppia fila, incurante delle altre macchine che avrebbero dovuto adattarsi a quell’intralcio. Mi passai una mano tra i capelli e suonai il citofono con un po’ troppa enfasi, con l’impazienza che mi scorreva nelle vene al posto del sangue.
Stephanie, contro ogni mia previsione e speranza, rispose quasi subito. La voce scocciata da quell’intrusione al limite dell’educazione. «Ma chi è?» sbottò, mentre quel suono leggermente metallico mi feriva per il semplice fatto che provenisse da lei.
«Sono Brian – dissi duramente, chiudendo gli occhi per un attimo. – Fammi salire».
«Brian? Cosa ci fai qui?» chiese subito. Il suo tono stupito non mi sorprendeva più di tanto, dal momento che non sapeva della mia presenza a Londra, ma il solo pensiero che potesse essere con quel ragazzo anche in quell’istante mi faceva innervosire ancora di più.
«Dobbiamo parlare, apri» ribattei, incurante delle sue domande.
Lei non rispose, limitandosi ad accogliere quella mia richiesta imperativa: chissà se immaginava il motivo della mia foga e di quella mia visita inaspettata. Chissà se il senso di colpa la divorava come la sofferenza stava facendo con me, o se in realtà di me non le importava nulla.
Salito fino al terzo piano, trovai Stephanie sull’uscio della porta, in tuta e con i capelli castani sciolti sulle spalle. Era più bella di quanto ricordassi.
Senza dire una parola, si fece da parte per permettermi di entrare, ed io aspettai un paio di secondi prima di votarmi verso di lei e guardarla negli occhi. Dopo tanto tempo e così dolorosamente.
«Che succede? Quando sei tornato?» chiese, tirandosi sulle mani le maniche del maglione blu. Aveva le labbra leggermente secche e l’espressione confusa.
«Ho bisogno di sapere la verità, Stephanie» le risposi. Non avevo tempo per i convenevoli, perché non sapevo per quanto tempo avrei sopportato tutta quella voglia di sapere e tutta quella gelosia.
«La verità? – sussurrò, con la fronte corrugata. – Quale… Quale verità?»
«Non prendermi per il culo! – sbottai, facendola indietreggiare di un passo. – Chi è lui?»
La osservai impallidire, a quella mia domanda, e sperai con tutto il cuore che avesse una buona giustificazione, che avesse delle parole da riservarmi che avrebbero potuto rincuorarmi, alleggerirmi il petto.
«Come sai di…»
«Stephanie, per favore – la interruppi, con più calma, sospirando esasperato. – Per favore, ho solo bisogno della verità».
Aspettò qualche secondo, prima di rispondere. Lo sguardo colpevole e – forse era solo una mia illusione – sofferente. «Non ha importanza chi sia».
«Hai ragione. È più importante che tu mi abbia mentito per tutto questo tempo, come se fossi uno stupido!» Stavo lasciando andare la mia rabbia, iniziando ad alzare la voce sempre di più.
«Non urlare con me!»
«E tu sii sincera, una buona volta!»
Il mio petto si alzava e si abbassava velocemente, e lei mi era davanti in tutta la sua bellezza, che continuava a distrarmi e a farmi più male. Non potevo guardarla e non pensare a quale parte del suo corpo quel ragazzo – chiunque egli fosse – non avesse toccato, quale parte fosse ancora mia: la gelosia mi impediva di pensare lucidamente, di avere pazienza.
«Cosa vuoi sapere?» chiese flebilmente, abbassando lo sguardo. Rilassai le spalle, a disagio: cosa volevo sapere? Cosa mi aspettavo?
A me non interessavano i dettagli. «Perché» dissi soltanto, stringendo i pugni e senza distogliere nemmeno per un secondo lo sguardo dal suo viso. Non era una domanda, ma una pretesa.
Quando incontrò di nuovo i miei occhi, non rispose immediatamente. «Lo sai perché.»
«No, Stephanie. Non lo so.»
«Ma cosa vuoi che ti dica, Brian? – Questa volta fu lei ad alzare la voce, insieme alle braccia, probabilmente per il nervosismo. Il muro di compostezza di Stephanie veniva meno nei modi più imprevedibili, soprattutto quando lei non avrebbe voluto. – Che spiegazioni vorresti? Io non te ne devo! Non ho il dovere di dirti quanto mi faccia male sapere che quando torni è solo per pochi giorni, quanto mi faccia male non avere il controllo di quello che provo! E no, non ti ho tradito, se è questo quello che vuoi sapere! Sono stata con Liam mentre tu non c’eri e mentre tra di noi non c’era niente, perché non sopporto la tua mancanza! Sei contento? Sei soddisfatto, adesso?!»
Spalancai gli occhi e boccheggiai qualcosa, stordito da tutte quelle verità arrivate in una sola volta. Non mi stupivano, se dovevo essere sincero, ma era inconcepibile per me pensare che lei fosse stata tra le braccia di un altro – di questo Liam – solo per non sentire la mia mancanza, solo per non sentirsi sopraffare dai suoi sentimenti. E, come sempre, lei non era capace di verbalizzare le sue emozioni a dovere.
«Tu mi hai mentito! – ribattei, irato. Avevo sperato in una smentita delle mie accuse, per quanto fosse una speranza puramente illusoria, ma niente. – Io sono sempre tornato da te, sempre, e Cristo Santo, quante volte tu eri appena stata con lui?!»
«Quante volte invece tu non ci sei stato?!»
«Non provarci. Non provare a dare la colpa a me o alla Marina! Dal primo momento sapevi quello a cui stavamo andando incontro, sapevi che il mio lavoro mi avrebbe portato via per mesi, quindi non venirmelo a rinfacciare!»
«Ma non sapevo cosa avrei provato per te! Non sapevo quanto avrebbe fatto male, quanto lo avrei odiato!»
«E cosa provi per me? Cosa provi di tanto forte da spingerti nel letto di un altro?!»
Il suo piccolo appartamento cadde nel silenzio. Le nostre urla continuavano a rimbombarmi nella testa, e lei aveva gli occhi lucidi e stanchi, ma mai quanto i miei.
Aspettai che dicesse qualcosa, aspettai che mi desse una risposta che mi avrebbe potuto aiutare a perdonarla e a risolvere la situazione. Ma non parlò.
«Non riesci nemmeno a dirlo – esclamai flebilmente, inumidendomi le labbra. – O forse non puoi farlo, perché non provi nulla».
«Tu non sai niente» ribatté a denti stretti, come se si sentisse oltraggiata.
«No, tu non sai niente! Mi rinfacci tutto il tuo ipotetico dolore, ma cosa ne sai del mio? Ti sei mai fermata a pensare cosa significasse per me tutto questo? Cosa credi che abbia provato, io, ogni volta che ti ho dovuta lasciare qui, partire e tornare dopo chissà quanto tempo? Ogni volta che tu mi ha dai detto di non potercela fare? Ogni volta che mi accettavi di nuovo, solo per poi tirarti indietro per l’ennesima volta? Hai mai smesso di essere così egoista, anche solo per un secondo?! Come pensi che stia io, ora che ho scoperto quanto la ragazza che amo mi abbia preso per il culo?!»
Avevo detto troppo. Non volevo che lei sapesse dei miei reali sentimenti, nonostante il motivo del mio ritorno fosse proprio quello, non dopo quello che avevo appena scoperto e non in quel modo.
La vidi muoversi impercettibilmente verso di me, con una lacrima sulla guancia destra e le labbra socchiuse. La vidi vacillare sotto il peso della mia verità e – probabilmente – sotto la consapevolezza di aver sbagliato.
E la vidi abbassare il capo e rilassare i muscoli, percorsa da un singhiozzo sommesso.
Non potevo guardarla piangere, né avrei avuto le forze per farlo.
Chiusi gli occhi per qualche secondo e serrai la mascella, di nuovo.
Conoscevo abbastanza bene Stephanie da sapere che non mi avrebbe risposto, che avrebbe tenuto tutto dentro, pur di non mostrare un po’ della sua debolezza: così, con le mani che tremavano per la rabbia e per la voglia di accarezzarla per rassicurarla, la superai e uscii dall’appartamento. Il più in fretta possibile e tornando a respirare l’aria che la sua presenza mi sottraeva.
Come previsto, lei non mi fermò.
 
 
Harry.
 
Lux era sulle mie ginocchia, giocherellando con il cibo che in realtà avrebbe dovuto mangiare. Lou e Tom, alla mia destra, la guardavano con l’arrendevolezza che i genitori devono sapere accettare, e sorridevano quando la bambina si portava sul viso le manine sporche di sugo, parlottando in una lingua ancora poco definita.
Liam, a capotavola, scriveva qualcosa al telefono dopo aver fatto una foto alla piccola: probabilmente aveva intenzione di pubblicarla su uno dei social network ai quali era iscritto, dato il sorriso divertito che gli irradiava il volto.
Niall, che occupava l’altro posto a capotavola, continuava a passarsi le mani tra i capelli per l’agitazione: a stomaco decisamente pieno – dopo la cena regale che aveva appena consumato -, ormai non poteva non pensare alla serata che lo aspettava con la sua Rosie. A quanto pareva era riuscito a strapparle un appuntamento, e – nonostante le nostre raccomandazioni riguardo la sua onestà – parlava di lei come se avesse trovato qualcuno per cui sorridere di nuovo, qualcuno che “ve lo giuro, è quasi più divertente di Louis”. Ed io ero felice per lui, perché mi sentivo in colpa per la sua sofferenza riguardo ad Abbie e a tutta quella situazione che andava avanti ormai da anni, e perché era uno dei miei migliori amici: vederlo impaziente e incapace di stare fermo sulla sedia del ristorante per un appuntamento con una ragazza, rallegrava anche me.
Louis non c’era. Mentre si preparava per uscire, poco prima che io mi incontrassi con gli altri per andare a cena, avevo pensato che dovesse vedersi con Vicki: invece mi aveva stupito, confessando in un borbottio nervoso che aveva intenzione di parlare con Eleanor. Io avevo sorriso e l’avevo preso per il culo, fondamentalmente, perché era tanto testardo da dover sempre prolungare i tempi e rendere tutto più difficile di quanto non fosse, mentre io gli avevo ripetuto miliardi di volte che avrebbe dovuto mettere fine alla sua pseudo-relazione con El già da molto tempo. Non sapevo come si fosse evoluta la sua serata nei dettagli, ma avevo ricevuto un suo messaggio, con scritto un riduttivo “Tutto ok.” che però era più eloquente di mille altre parole.
Di fronte a me, Paul e Josh, gli unici che avevano potuto unirsi a noi per quel piccolo ritrovo a metà tra una rimpatriata e un quotidiano ritrovo tra amici, e, alla loro destra, Zayn ed Abbie.
Abbie era meravigliosa, quella sera: i capelli neri come la notte ormai le superavano le clavicole candide e sporgenti, mentre gli occhi vitrei e sempre attenti non potevano evitare di soffermarsi su di me anche solo distrattamente. Per tutta la cena l’avevo osservata anche sfacciatamente in ogni suo più piccolo movimento, facendola a volte sbuffare: le sue labbra sottili e rosee erano un impellente richiamo per me, così come la sua pelle. Addirittura, ero arrivato ad ingelosirmi della vicinanza di Zayn, della sua possibilità di sfiorarla e di prenderla in giro, di metterle una mano sulla schiena magra e di farla ridere. Per quanto fossi a conoscenza del loro rapporto, per quanto fossi felice che Zayn stesse finalmente riacquistando il suo vero sorriso, non potevo fare a meno di serrare la mascella ad ogni parola che si scambiavano: ormai non potevo più nascondere il mio bisogno di Abbie. Ero arrivato al limite.
Per questo, quando lei si alzò dal tavolo, nei suoi skinny jeans chiari e nel suo maglione largo di un marroncino indefinito, la seguii con lo sguardo e poi anche fisicamente: mentre lei si allontanava per andare in bagno, infatti, io cercavo di racimolare il coraggio per parlarle o per baciarla. Aspettai qualche minuto, respirando profondamente, poi sorrisi a Lux, che stava cercando di impiastrarmi i capelli con le sue mani unte, e la misi in braccio a Tom, scusandomi.
Zayn mi lanciò un’occhiata comprensiva, sorridendomi subito dopo come se avesse voluto incoraggiarmi a fare ciò che sapeva Abbie stesse aspettando da tempo. O forse era solo quello che speravo.
Mi schiarii la voce e salutai distrattamente un cameriere che passava da lì, mentre mi dirigevo verso i bagni: una signora mi guardò con un sopracciglio alzato e scettico, mentre sbagliavo di proposito bagno, entrando in quello contrassegnato da una donna poco stilizzata.
Trovai Abbie nel piccolo anti-bagno che precedeva la cabina vera e propria: si stava asciugando le mani, con forse fin troppa forza. Io approfittai della sua distrazione per chiudere la porta a chiave dietro di me, ma allo scattare della serratura lei si voltò verso di me e mi fulminò con lo sguardo.
«Che stai facendo?» chiese, con il solito tono duro che usava per proteggersi. Eppure la sua voce aveva tremato e i suoi occhi erano su di me come se non avessero potuto farne a meno.
Avevo la gola secca e le mani fredde per l’agitazione, ma il mio cuore mi impediva alcun tipo di ripensamento: ero pronto. Lo era anche lei.
Feci un passo in avanti ed inspirai profondamente, osservando ogni particolare del viso di Abbie.
«Harry» mi richiamò, cercando di indietreggiare, ma finendo con il bacino contro il ripiano del lavandino.
«Quando ci siamo conosciuti, avrei dovuto fare qualcosa, dopo quel nostro bacio – cominciai, mentre le sue iridi vacillavano impercettibilmente a quel ricordo. – E forse tu avresti dovuti dirmi la verità, dirmi che lo volevi quanto me. Quando Niall ha iniziato a provare interesse per te, avrei dovuto combattere di più per averti accanto, al posto di darmi dello stupido e di vederti andare via. Avrei dovuto ammettere che tu non eri solo un capriccio e che sì, ero disposto a farmi da parte per darti quello che meritavi, per darti Niall, ma che faceva male da far schifo. – Strinsi i pugni e guardai le sue labbra schiuse, stupite e forse un po’ confuse. – E tu avresti dovuto essere meno orgogliosa, a-»
«Harry, dove vuoi arrivare?» chiese in un sussurro, a metà tra il nervoso e l’impaziente. Potevo vedere come stesse stringendo il bordo del ripiano in marmo tra le mani. Sembrava attenta a mantenere quella minima e fastidiosa distanza che ci separava.
Mi inumidii le labbra e sospirai. «Dalla prima volta che ci siamo visti, abbiamo sbagliato entrambi: l’abbiamo sempre fatto. Per un motivo o per un altro, non abbiamo mai affrontato le cose nel modo giusto, siamo sempre fuggiti e ce ne siamo sempre pentiti. E hai ragione, con Alice io mi sono comportato da egoista, da stupido e da illuso, senza pensare alle conseguenze e soprattutto senza fermarmi a riflettere su quali fossero davvero i miei sentimenti, ma potremmo rimanere qui ad elencare tutti i miei sbagli e subito dopo tutti quelli che hai commesso tu: sono sicuro che la lista sarebbe infinita. Non sto cercando di giustificarmi, anzi, ti chiedo scusa per ogni stronzata che ho fatto e anche per tutte quelle che farò, però dimmi soltanto che senso avrebbe: che senso avrebbe continuare ad aggrapparci agli errori che abbiamo fatto? Dimmelo, Abbie, perché io davvero non ne trovo uno. – Un’altra pausa. - Ogni giorno che passa non riesco a non pensare a quanto tempo noi due abbiamo sprecato, comportandoci sempre così: arrabbiandoci, urlando e mettendo di mezzo il nostro orgoglio, pronti a rinfacciarci ad ogni occasione il nostro passato, una parola di troppo o un gesto di meno. Ed io sono stanco di sprecare tutto questo tempo, di non averne per te.»
Inspirai profondamente e mi avvicinai ancora di più a lei. I suoi occhi erano spaventati, ma non mi stavano rifiutando: erano semplicemente in attesa. I nostri visi si sfioravano e sentivo le mie mani tremare, mentre le appoggiavo ai lati del suo corpo, vicino alle sue, su quel ripiano in marmo.
«Voglio ricominciare ed essere sincero. Voglio commettere altri mille sbagli, ma con te al mio fianco e per te. E voglio poterti dire che ti amo, perché, cazzo Abbie, io ti amo da far male.»
Il silenzio nei pochi metri quadri in cui ci trovavamo era assordante, soprattutto perché aspettavo con ansia una sua parola, persino un suo sospiro: ma lei si limitava a guardarmi negli occhi come se mi stesse ancora ascoltando parlare, e, proprio mentre credevo di doverla spronare a dire qualcosa – il cuore che si ribellava nel mio petto per quei sentimenti che covavo dentro da troppo tempo e che finalmente ero riuscito ad ammettere ad alta voce -, Abbie appoggiò la fronte sul mio petto e spostò le mani per afferrare la mia camicia a quadri con forza.
Spalancai gli occhi e per un attimo guardai la mia immagine riflessa nello specchio di fronte a me: sentivo il suo respiro su di me e mi chiedevo se stesse pensando di uccidermi o se provasse qualcosa di simile a quello che stava mi sconvolgendo in quel momento.
Ero così stanco del nostro continuo prenderci e lasciarci, ma mai per davvero: ero stanco di lasciare che tutti i nostri sentimenti rimanessero sottintesi e che il nostro rapporto fosse sempre così in bilico. Volevo avere Abbie, stringerla e poterla baciare: dopo tutto quel tempo, volevo finalmente e semplicemente stare con lei. Con il suo orgoglio e la sua presunzione, con i suoi sorrisi maliziosi e le carezze esitanti, con i suoi occhi che mi intimidivano e la sua pelle delicata.
«Sei uno stupido» mormorò soltanto, stringendo un po’ di più la stoffa nei suoi piccoli palmi.
Vederla così fragile e a corto di parole mi distruggeva e allo stesso tempo mi rincuorava, perché la conoscevo e sapevo che si sarebbe fatta vedere da me in quello stato solo se ne fosse valsa la pena.
Le accarezzai un braccio con le dita, lentamente, e maledissi il maglioncino che mi divideva dalla sua pelle nuda. Respiravo tra i suoi capelli. Respiravo il suo profumo.
«Abbie.»
Il mio fu un richiamo quasi inudibile, spontaneo: non sapevo esattamente cosa le stessi chiedendo, ma lei alzò il capo e tornò a guardarmi negli occhi.
Ebbi appena il tempo di accorgermi di quanto i suoi fossero arrossati, ma tutto fu scalzato via dalla sue labbra sulle mie, delicate. Abbassai le palpebre e con una mano sulla sua schiena la spinsi ancora di più contro il mio petto, come se avessi potuto tenerla più vicina di quanto già non fosse. E con un sospiro di sollievo trattenuto a stento, la baciai, finalmente.
Dopo quasi due anni, potevo di nuovo sentire le sue dita magre percorrere il mio collo e stringere i miei capelli. Sentire il suo respiro sul mio viso e il suo corpo rabbrividire. Godere del suo calore e morderle un labbro solo per il gusto di farla indispettire e poi sorridere.
Come avevo fatto a sopravvivere per tutto quel tempo senza di lei? Ad averla tanto vicina e allo stesso tempo così irraggiungibile?
Mi resi conto, in quel preciso istante, che non avrei permesso a niente e nessuno di dividerci di nuovo, perché non sarei stato in grado di sopportarlo, non un’altra volta.
Abbie baciò di nuovo le mie labbra, spostandosi poi verso la mia mascella per arrivare al mio orecchio: mi mancava il respiro e mi sentivo sprofondare ad ogni contatto che mi regalava, come se avessi potuto morirne se non avessi fatto attenzione.
Avevo le braccia intorno alla sua schiena sottile e gli occhi chiusi per paura di doverli riaprire e accorgermi che fosse tutto frutto della mia immaginazione. «Io, invece, avrei dovuto dirtelo subito – cominciò flebilmente, facendomi rabbrividire mentre le sue labbra mi sfioravano l’orecchio. – Dal momento in cui me ne sono resa conto, avrei dovuto dirti che ti amo, Harry. Più di quanto riesca a dire».
 
 



ANGOLO AUTRICE aka I’M SORRY
 
Lo so che sono in ritardo, lo so! Però, alcune di voi sanno anche perché!
Ho scritto uno stato di spiegazioni su Facebook, quindi vi consiglierei di dare un’occhiata!
Nel caso non aveste Facebook, posso dirvi che in poche parole mi manca il tempo
per scrivere! Tra l’università, lo studio e gli altri impegni, è un enorme casino!
In compenso, ho superato quel piccolo blocco di idee al quale avevo accennato su Fb (:
Detto questo, spero che capirete se i capitoli non saranno puntuali o in anticipo come sempre!
Poi, passiamo a questo, di capitolo: Brian scopre di Liam e BAM! Esplode!
Poveretto, mi è dispiaciuto scrivere di lui in questi termini, e so già che alcune di voi
odieranno Stephanie hahaha Non sta simpatica a tutte e credo che dopo questo capitolo
continuerete a pensare che sia un po’ frigida ed egoista: in realtà è solo spaventata
e incapace di vivere ciò che sente! Ma lascio a voi i commenti (:
Poi, ABBIE ED HARRY!!!!!!!!!! Finalmente ahhahaah Santo cielo, ci hanno messo due storie,
56 capitoli e praticamente un anno e mezzo per mettersi insieme hahahaha
Ammetto che loro due mi piacciono moltissimo, ora posso dirlo liberamente! Forse io
ci faccio eccessivamente caso, ma credo che tra tutti, il loro sentimento sia il più vero e il più forte.
Semplicemente perché è dato da esperienze di tutti i tipi che hanno vissuto insieme,
sono stati amici e nemici, hanno litigato e sono diventati indispensabili l’uno per l’altro,
senza fisicità e senza la passione che spesso contribuisce in queste situazioni, senza essere una coppia!
Non so se mi sono spiegata, ma vabbè ahhaha In ogni caso, spero non vi sia dispiaciuto il modo
in cui si sono riappacificati: Harry è stanco di tutto quel tira e molla e, nonostante
abbia commesso i suoi errori, ha ragione nel dire che continuare ad elencarli non avrebbe portato a niente!
Abbie questo lo sa, ma è molto orgogliosa e permalosa, quindi…
Insomma, fatemi sapere cosa ne pensate! Spero qualcosa di buono ahhaha
E infine, Vicki e Louis: Louis ha finalmente parlato con Eleanor!!!!! Stappate lo champagne!!!!
Ah, non ho rappresentato il mattino in hotel per ragioni di tempistiche con i capitoli
e bla bla bla, ma spero che non vi sia dispiaciuto! Ci saranno altre occasioni :))
Ok, credo di aver detto tutto: vi avverto, il prossimo capitolo è il tanto atteso POV ZAYN!
Posso dirvi che per me sarà difficile scriverlo, quindi abbiate pietà, ma cercherò
in tutti i modi di non deludervi, anche perché ci tengo molto anche io (:

Grazie mille per tutto! Come sempre sapete come incoraggiarmi e come essere oggettive!
Vi ammiro molto per questo e ve ne sono riconoscente!
Buona serata e grazie ancora <3333


 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 28
*** The anchor ***




The anchor

Capitolo 27

Zayn.
 
Lo show televisivo era finalmente finito, io avevo finalmente smesso di costringere un sorriso perenne e falso sul mio volto – più falso del solito, dato che il presentatore di mezza età era davvero patetico – e, dopo tre quarti d’ora di cambio d’abiti, foto con le fans e tragitto verso casa, potevo finalmente abbandonarmi sul mio divano. L’appartamento era silenzioso, infondendomi il senso di familiarità e quiete che mi serviva per scrollarmi di dosso una parte della stanchezza: i miei capelli erano ormai senza una forma, dato che in auto Louis e Niall avevano deciso di inscenare una piccola lotta in cui io fungevo da povera vittima. Le labbra secche e le palpebre pesanti per quella giornata frenetica.
Gettai un’occhiata fuori dalla finestra e osservai il cielo buio, ma rischiarato a tratti dalle luci di Londra: in un certo senso, odiavo la notte. Non sapevo per quale strano e sadico motivo, ma mi obbligava a pensare più di quanto non fossi solito fare, ed io non volevo pensare, non potevo farlo.
Avrei voluto solo dimenticare tutto e vivere di nuovo, poter respirare a pieni polmoni senza sentire l’ormai solito dolore e dire “sto bene” perché lo pensavo effettivamente. Invece quegli obiettivi sembravano ancora lontani, perché, sul divano che ormai aveva preso la forma del mio corpo sdraiato, i miei pensieri si concentravano inevitabilmente su di lei. Sul modo in cui mi accarezzava il viso e i capelli quando io tornavo da un impegno lavorativo e la stanchezza era troppa per fare altro, sul modo in cui mi raccontava la sua giornata – “di certo è meno interessante della tua, ma chi se ne frega?” – per riempire i miei silenzi e per cullarmi, sul modo in cui, nell’esatto momento in cui sentivo le forze abbandonarmi e gli occhi chiudersi, mi baciava delicatamente le labbra, ed io ero più sveglio che mai.
Vicki aveva terribilmente ragione, purtroppo. Io, Kathleen, non l’avevo mai lasciata andare: era ancora lì, dentro e fuori di me, in ogni oggetto che mi stava intorno anche se la casa era diversa, in ogni movimento e in ogni episodio che avrei solo voluto raccontarle. Ed ero convinto che fosse così che doveva essere, perché una persona non si può semplicemente dimenticare o mettere da parte, ma era il modo in cui il suo ricordo mi influenzava ad essere sbagliato: dovevo imparare ad accoglierlo con serenità, grato che esistesse e che testimoniasse quanto fossi stato fortunato ad avere Leen al mio fianco, anziché reagire con rabbia e dolore, maledicendolo e allo stesso tempo aggrappandomi a lui disperatamente.
E aveva terribilmente ragione anche nel dire che io non avevo mai davvero affrontato la sua scomparsa, limitandomi a nascondere il dolore dentro di me per non deludere i miei migliori amici, la mia carriera e altri milioni di persone: sapevo benissimo che stavo semplicemente reagendo in ritardo, ma che tutto quello era necessario per andare avanti. Per farlo sul serio. Victoria, con la sua ingenuità e la sua sfrontatezza nel dire le cose come stavano, senza preoccuparsi troppo di come le sue parole mi avrebbero potuto ferire o risvegliare, mi aveva scosso e mi aveva fatto aprire gli occhi.
Prima era stato il turno della mia famiglia: aveva cercato di attutire la mia sofferenza con il suo amore puro ed immutabile, ma con scarsi risultati. E quando aveva notato come io mi stessi allontanando sempre di più, solo per sfuggire ai suoi tentativi per me soffocanti, aveva deciso di assecondarmi, di rispettare le mie decisioni e il mio dolore.
Lo stesso dolore con il quale anche i miei migliori amici si erano dovuti confrontare: anche loro, all’inizio, avevano provato a farmi ragionare e sfogare, a farmene venire fuori. Liam con le sue parole calme e i suoi occhi attenti, Niall e Louis con la loro serietà malcelata, che poi smorzavano solo per cercare di farmi sorridere, ed Harry con la sua voce bassa e i suoi discorsi filosofici. Eppure, anche loro avevano desistito, ad un certo punto: intorno a me si ergeva un muro impenetrabile che nessuna parola avrebbe potuto abbattere, ma che ad ogni attacco mi faceva ribollire il sangue nelle vene per la rabbia. Così, nessuno parlò più di Kathleen, facendo finta che anche loro avessero superato la sua scomparsa – cosa che invece sapevo non essere così – e assecondando il mio silenzio straziante.
Ed Abbie. Abbie ci aveva provato più di tutti gli altri, diventando la mia roccia di sostegno e la mia spalla su cui piangere quando nessun altro avrebbe potuto o dovuto vedermi. Ma era una roccia a pezzi, che si stava sgretolando sotto i miei occhi perché non era forte come avrebbe voluto essere, ed io non potevo essere egoista: così, il nostro non era stato un salvarci, ma un tenerci a galla, in  attesa. Abbie, alla fine, era riuscita a mettersi in salvo da sola, con le notti in bianco e le lacrime nascoste da tutti, con l’amore per la sua vecchia amica e i momenti bui in cui tutti i suoi sforzi venivano meno. Io, invece, stavo ancora aspettando che qualcuno accorresse in mio aiuto.
In quel momento era arrivata Victoria, una sconosciuta – anche se dai tratti del viso così simili ai suoi –, ed era riuscita ad influenzarmi più di qualsiasi altra persona, inaspettatamente: mi aveva fatto capire quanto fosse impossibile trovare una persona come Kathleen, nonostante le eventuali somiglianza fisiche, e quanto io fossi uno stupido a sperare in qualcosa del genere. E mi aveva sbattuto la scomoda verità dei miei fallimenti, quella che io cercavo in tutti i modi di mettere da parte. Per questo sentivo di doverla ringraziare, anche se ero convinto che non ci fossero modi esaurienti per farlo. Dovevo ringraziarla perché mi aveva gettato un salvagente, e stava solo a me decidere se aggrapparmi ad esso oppure continuare ad annegare, ancora e ancora.
Ed io avevo preso la mia decisione.
Mi alzai dal divano inspirando profondamente, e mi diressi verso la mia stanza: il letto era ancora disfatto, un paio di calzini spaiati giacevano sul pavimento freddo e la sedia della scrivania era ricoperta di vestiti. Mi passai una mano tra i capelli e sospirai, guardando con intensità il cassetto in cui avevo riposto tutto.
Quando mi decisi ad aprirlo, con il respiro trattenuto e la mascella tesa, il quaderno rosso e leggermente sgualcito risaltò subito ai miei occhi: aspettai qualche secondo prima di prenderlo tra le mani rigide ed esitanti, ed evitai di sfogliarlo tutto. Andai direttamente alle ultime pagine – più per paura che potesse finire il mio momentaneo coraggio, che per il dolore che rivedere quei ritratti avrebbe risvegliato in me – e osservai il disegno incompiuto che spiccava dalla carta bianca. Il viso di Kathleen era ancora un semplice miscuglio di linee indefinite e riluttanti: dopo quasi un anno dalla sua morte, avevo provato a ritrarla di nuovo, basandomi sulla mia memoria, ma per quanto ricordassi alla perfezione ogni suo particolare, era semplicemente insopportabile. Quella era una piccola prova del mio fallimento, del mio tradimento alle promesse fatte a Leen riguardo l’andare avanti e l’essere felice.
Al suo fianco, la busta bianca che conteneva le parole di Kathleen. La lettera che Abbie mi aveva consegnato dopo la sua morte e che io avevo odiato con tutto me stesso, quella che avevo tenuto lontana da me come se avesse potuto ferirmi mortalmente, quella che ormai era diventata la mia ancora. Perché quel mare in cui io stavo annegando, quel mare fatto di Leen e di tutti i momenti passati insieme, io non volevo lasciarlo definitivamente: nonostante il salvagente fosse lì per me, nonostante avessi la possibilità di scappare e vivere, quella lettera era un’ancora che mi impediva di muovermi, che mi teneva legato indissolubilmente a Leen.
Era come se, leggendo quelle sue ultime parole, avessi potuto spezzare quel flebile legame. Come se avessi potuto rendere la sua assenza ancora più vera, perché ero sicuro che dentro quel pezzo di carta avrei trovato un addio. E per tutto quel tempo avevo rifuggito anche solo il pensiero di prenderla in mano, ma ormai dovevo farlo. Dovevo accettare il suo addio e confrontarmi con i suoi ultimi pensieri. Dovevo lasciarla andare e lasciare andare me.
Posai il quaderno sulla scrivania e rigirai la busta sottile tra le mie mani, deglutendo a vuoto quando riconobbi la scrittura di Kath formare una piccola dedica: “Tua, Leen”.
Chiusi gli occhi e mi imposi di farcela.
Scartai la lettera, ripiegata su se stessa un po’ di volte e con l’inchiostro che traspariva in alcuni punti. Lentamente, la riportai alla sua forma originale. Chiusi di nuovo gli occhi, inspirando a lungo.
Quando li riaprii – le mani che tremavano impercettibilmente e le labbra in una linea dura –, capii che non avrei potuto tirarmi indietro. Non più.
 
“Ciao, Jawi.
 
È da qualche giorno che penso di scriverti questa lettera, ed è da altrettanto tempo che penso a cosa avrei potuto metterci dentro o a come avrei potuto iniziarla. Oggi mi sono stancata di rimandare e ho pensato: “Al diavolo, una volta che avrò il foglio bianco davanti, le parole verranno da sé”. Be’, posso dirti che sono seduta qui da più di mezz’ora ed è molto più difficile di quanto pensassi: tutto quello che vorrei dirti è solo un groviglio nella mia testa e non riesco a riordinarlo per poterlo riportare qui, sulla carta.
Sono sola in casa e devo approfittarne: Abbie è uscita e tu starai fuori per tutto il giorno per registrare il nuovo album, anche se hai promesso di correre a casa ad ogni pausa in cui ti sarà concesso. Credo che sia l’unica volta in cui vorrei dirti: “No, rimani lì e lasciami scrivere questa dannata lettera”. Immagino tu sappia già che il mio intento è quello di tenerla nascosta fino a…  Be’, fino a quando non ci sarò più.
Ma non voglio parlare di questo.
Voglio parlare di te, Zayn.
Ho talmente tante cose dentro di me, provo talmente tante sensazioni, che non so più come fare per contenerle tutte: di sicuro in questo momento ti starai chiedendo come mai io abbia deciso di scriverle, piuttosto che parlarne con te. Sono sicura, però, che ti sia anche già dato una risposta: sai benissimo che certe cose preferisco tenerle per me, che non voglio fartele pesare e che anche per me sono difficili da affrontare, e sai anche che non sopporto vedere il tuo viso cambiare espressione quando ci tocca confrontarci con quell’argomento.
Quindi sì, preferisco scrivere questa lettera e metterci dentro tutto quello che non riesco a dire a voce, per un motivo o per un altro; preferisco fartela avere quando non potrai più leggerla per poi guardarmi con gli occhi sofferenti e rassicurarmi, perché io con quegli occhi su di me non riuscirei a respirare.
 
Mi scuso in anticipo se il discorso non avrà un filo logico, ma ho tante cose da dire e poco coraggio per scriverle, o per pensarci abbastanza da poterle rendere quantomeno comprensibili.
Cercherò comunque di fare del mio meglio.
 
Qualche tempo fa, ho letto su una stupida rivista che, per quella settimana, le persone del mio segno zodiacale avrebbero avuto la fortuna dalla loro parte. A quelle parole ho chiuso tutto e non ho potuto fare a meno di sorridere. Da sola, seduta intorno all’isolotto in pietra della cucina, sorridevo: può sembrare un po’ inquietante se raccontato così, ma in quel momento io mi sentivo quasi una vincitrice. Ripensavo all’oroscopo e mi prendevo gioco di lui, così come di tutte le persone a cui si riferiva. Ricordo di aver pensato: “Che cosa stupida. Io sono già fortunata”.
Zayn, io Non credo che tu abbia mai capito – capito sul serio, intendo – quanto tu sia stato importante per me, fondamentale. Quanto lo sei e quanto lo sarai. Forse è colpa mia, perché non mi sono mai impegnata al meglio per dimostrartelo, anche se ci ho provato più volte, o forse una cosa del genere non si può semplicemente spiegare. Ecco, vorrei dirlo ancora una volta: mi hai reso la persona più fortunata del mondo.
Al diavolo gli oroscopi e le parole di qualche vecchia megera alla tv, loro non sanno cosa sia la vera fortuna, quella con la F maiuscola: io l’ho trovata, grazie a chissà quale aiuto divino, e sei tu. Sei tu, perché forse non te ne rendi conto, ma in tutti questi mesi sei stato la mia forza, la mia motivazione.
Sì, credo che “motivazione” sia la parola giusta. Perché, sarò sincera, se non ci fossi stato tu io mi sarei lasciata andare: avrei lasciato che questo dannato tumore mi portasse via ancora prima, avrei passato le giornate chiusa in casa a pensare a mille modi per farla finita. Invece ho avuto te al mio fianco: mi hai tenuta ancorata a questa vita, nonostante tutto. Mi hai dato un motivo per alzarmi ogni mattina e affrontare una nuova giornata, con te. Mi hai preso per mano e mi hai infuso tutto il tuo coraggio, tutta la tua forza, fino a privartene completamente: ed io ho sempre accettato tutto senza nemmeno rendermene conto, comportandomi come la peggiore delle egoiste.
E mi dispiace di averti caricato di tutto questo, mi dispiace di averti legato a me, mi dispiace e credo di avertelo detto mille volte, ormai: tu dici che non devo dispiacermene, ma io non ti ascolto, perché in fondo lo sai che sono testarda. Forse anche ora, mentre leggi queste mie parole, stai corrugando la fronte e mi stai maledicendo per questi miei pensieri, ma il fatto è che non posso farne a meno.
Eppure anche questo sembra costituire la mia fortuna, perché io sfido chiunque, su questo pianeta, ad essere pronto a soffrire ogni giorno pur di stare accanto a qualcuno nelle mie condizioni: me ne accorgo, sai? Mi accorgo di ogni espressione che passa sul tuo viso, di ogni sfumatura che assumono i tuoi occhi, di ogni timore che le tue mani cercano di nascondermi: mi accorgo di quanto tu ti trattenga dal farmi sapere il tuo reale stato d’animo quando le mie condizioni si aggravano, quando sono troppo stanca, quando tossisco sangue, quando non riesco a dormire. E sei un ingenuo se credi di essere un ottimo attore – ne sei sempre stato convinto -, perché dovresti sapere che ti conosco troppo bene, per non fare caso al dolore che provoco in te. C’è da ammettere, però, che ti comporti così anche perché te l’ho chiesto io, perché ti ho implorato di trattarmi normalmente, senza alcuna paura e come se noi avessimo ancora anni da passare insieme, uno affianco all’altra: so che tu non hai mai capito come fare e che hai accettato la mia richiesta nonostante ti stesse stretta, ma credimi, ho bisogno che tu sia lo Zayn di sempre.
Ne ho bisogno per non sentire il senso di colpa e anche per consolare me stessa, come se vederti condurre la vita di sempre potesse costituire una garanzia: come se, nella consapevolezza di doverti lasciare, io potessi contare sulla tua vita a tamponare la mia assenza. Più volte ti sei dichiarato disposto a mettere tutto da parte solo per starmi accanto, e altrettante volte abbiamo litigato perché io non voglio e perché tu non mi capisci: ma il fatto è, se tu azzerassi tutta la tua vita, nel momento in cui io non ci sarò e tu non dovrai più prenderti cura di me, a cosa torneresti?
Ecco, finalmente l’ho detto e tu non puoi ribattere, o almeno, io non sarò lì per sentire le tue proteste: o forse, leggendo queste mie parole, capirai finalmente fino in fondo il perché dei miei comportamenti e – chissà - arriverai persino a ringraziarmi.
Sono la persona più fortunata del mondo anche perché non ti sei arreso. Un futuro noi non l’abbiamo mai avuto, perché ce l’hanno portato via senza nemmeno darci la possibilità di fare qualcosa a riguardo, ma tu non ti sei arreso e hai lottato per assicurarmi un presente. Un presente degno di essere vissuto.
E ci sei riuscito, Zayn: mi hai dato qualcosa per cui valesse vivere. Sei arrivato tu ed io ho vissuto per te, ho lottato per te e, nonostante non sia stata abbastanza forte per vincere, sono felice di aver fatto tutto ciò che era in mio potere, perché ne è valsa la pena.
 
Un giorno, ricordo di averti detto che uno dei vantaggi dell’avere te al mio fianco era poter assistere a concerti privati nel nostro letto o quando più ne avevo voglia, e, quando tu mi hai chiesto quali fossero gli altri, io ti ho promesso che prima o poi te li avrei elencati. E so che probabilmente tu li conosci già, ma ho la sensazione di doverteli comunque ripetere: sei sempre stato tu quello con le parole giuste e adatte a me, quello che riesce a dirle, certe cose, mentre io la maggior parte delle volte do tutto per scontato. Così voglio scriverli qui, questi vantaggi: magari ti convinceranno anche mentre pensi di non aver fatto abbastanza per me. Non voglio rendere tutto più sdolcinato di quanto già sia, ma cercherò di essere il più sincera possibile, con tutto quello che ne consegue.
Ormai credo che tu mi conosca abbastanza bene da sapere che, rispetto ai grandi gesti, quelli minuscoli e spesso inosservati mi colpiscono molto di più: ai allo stesso modo, il tuo rimanermi accanto anche durante la malattia, anche durante la fine di me e di noi – e forse di una parte di te -, non sarebbe stato lo stesso se non fosse stato supportato da quei piccoli particolari che sono solo tuoi e che mi hai sempre regalato oltre ogni logica.
Forse non lo sai, ma sono davvero poche le volte in cui io mi sono addormentata prima che tu tornassi a casa a notte fonda: mi trovi sempre raggomitolata nel letto e con gli occhi chiusi, è vero, ma è solo un piccolo tranello. Voglio sentirti rientrare nella stanza senza avere i miei occhi addosso e senza importi alcun limite: voglio sentire i tuoi sospiri stanchi e i tuoi movimenti lenti, il fruscio delicato delle lenzuola con il quale non vuoi fare rumore e la tua immobilità con la quale so che mi stai scrutando nel buio: e voglio, anzi, ho bisogno di sentire le tue mani accarezzarmi leggermente, come se fossi tanto delicata da potermi rompere con una lieve pressione, o le tue labbra sfiorare le mie ma non troppo, per non svegliarmi. È il mio modo per capirti un po’ di più, per spiarti un po’ più a fondo: perché so che, se tu mi trovassi sveglia ad aspettarti, prima mi rimprovereresti per non essere andata a dormire e poi ti daresti un contegno. Non mi faresti capire quanto sia stanco o quanto le mie occhiaie ti preoccupino, né mi accarezzeresti in quel modo. Non che in altri momenti tu sia indelicato o chissà cos’altro, ma nel tentativo di non darmi alcun peso da sopportare e di non trasmettermi il tuo dolore, non mi tocchi quasi mai come se fosse l’ultima volta, tranne quando la sofferenza è troppa e tu non riesci a contenerla. Quindi direi che uno dei vantaggi è proprio quello di poterti sentire, in ogni tua sfaccettatura. Sentirti vicino e lontano, sentirti per me e sentirti fin nelle ossa, al buio o con i tuoi occhi addosso, nelle bugie di protezione e nella tua ingenuità.
E non posso non aggiungere la tua risata. Hai idea di come ci si senta ad ascoltarti ridere? Ad ascoltarti nel vero senso della parola, facendo attenzione ad ogni intonazione della tua voce e ad ogni particolare del tuo viso che si modifica solo per formare un sorriso. Non puoi nemmeno immaginare quante volte la tua risata mi abbia impedito di lasciarmi andare, di arrendermi e mandare tutto all’aria. Non puoi immaginare quanto mi faccia bene vederti con la testa buttata all’indietro e gli occhi socchiusi che trattengono le lacrime di ilarità. Mi fa sentire ancora viva.
Quante volte ti ho chiesto di raccontarmi tutti i tuoi viaggi? Di descrivermi ogni cosa che tu avessi visto e ogni posto che avessi visitato? Quante volte tu hai sbuffato perché era la terza volta che ti facevo ripetere le stesse cose, poi mi hai sorriso e mi hai accontentata? Sarà banale da dire, ma io ho conosciuto il mondo, grazie ai tuoi occhi: non sto qui a ribadire quanto poco tempo mi rimanga, però ho sfruttato le tue esperienze per immaginare tutto quello che non potrò mai vedere. Ho sempre usato le tue parole per sentirmi piccola di fronte ai grattacieli di New York, per immergermi nell’aria invernale di Parigi a Natale e per sentire il naso freddo mentre ho lo sguardo rivolto verso la Tour Effeil, per ridere dei modi eccessivamente cortesi dei giapponesi e per sentire il sole australiano sulla pelle. Ho viaggiato con te.
Ho provato l’amore, Zayn. Sai quante persone vivono e hanno vissuto decine di anni più di me e non possono dire lo stesso? E non è un amore qualunque: mi toglie il respiro, mi fa sentire così piccola e insignificante da farsi quasi odiare, ma allo stesso tempo è tutto ciò che io avrei chiesto e che ho avuto senza nemmeno dirlo ad alta voce. Ho sentito sulla mia pelle il tuo, di amore, e mi sono lasciata trapassare da esso senza opporre alcuna resistenza, in un modo talmente totalizzante che non so nemmeno come abbia fatto a sopportarlo. Eppure, non avrei potuto avere di meglio.
E ho l’impressione che questa lettera stia venendo fuori fin troppo lunga, anche se mi stanno saltando in mente altre mille cose da dire, altri mille lati positivi di te e di noi: i litigi per i panni sporchi sul pavimento che mi piacciono solo perché poi facciamo pace, i tuoi occhi mentre canti di fronte a migliaia di persone e gli stessi occhi che tra tutte quelle persone vedono solo me, il tuo profumo sul cuscino, le notti in cui non riesco a dormire e cerco di concentrarmi sul tuo respiro profondo e regolare per non pensare, l’arrosto che hai imparato a fare da poco e che è meglio del mio, e le tue mani. Le mani che mi sorreggono, che mi stringono quando tremo e che mi sfiorano quando il dolore è troppo forte: le mani che non stanno ferme fin quando non smetto di tossire e che mi accarezzano i capelli quando sono troppo stanca.
Tu sei il mio vantaggio, Zayn. Lo sei stato e lo sarai sempre, il mio vantaggio sul mondo intero, su tutte le altre persone.
 
All’inizio di questa lettera ho detto una piccola bugia, lo ammetto, anzi, è più corretto dire che abbia omesso qualcosa: la verità è che lo scopo di tutto questo, oltre dirti tutte quelle cose alle quali non riesco dare voce, è lasciarti qualcosa che possa aiutarti.
Mi spiego meglio. Io so quanto tu ci stia provando, Zayn. So quanta forza tu stia usando per tenere in piedi me e per non far crollare te stesso, e so anche che vorresti credere a pieno a tutte le parole di rassicurazione che mi rivolgi. E anche io voglio credere a tutte le tue promesse, al fatto che tu sarai forte abbastanza da sopportare la mia scomparsa e da andare avanti, anche perché mi fa male pensare che potrebbe non essere così. Eppure, c’è una parte di me che non crede a questa illusione, perché ti conosco e so che, per quanto entrambi vogliamo crogiolarci in questa verità costruita per farci bene, la realtà rischia di essere ben diversa: ho paura che tu non ce la faccia, perché anche ora ti vedo sgretolarti davanti a me ogni giorno che passa, e ho paura che io possa renderti infelice.
Quindi voglio che tu sappia che qualsiasi cosa tu stia affrontando in questo momento, qualsiasi giorno sia e qualsiasi quantità di tempo sia passata dalla mia morte, non mi hai deluso. Mai. In qualsiasi modo tu abbia reagito, che tu sia andato avanti o meno, io sono fiera di te perché non potrebbe essere altrimenti: ma voglio anche che tu sappia che, nel caso la tua forza non sia stata sufficiente, devi trovarne dell’altra e rimetterti in piedi, perché ne sei capace e perché te lo meriti più di chiunque altro. Meriti di stare bene, di tornare a sorridere come ora non riesci più a fare e di vivere senza di me: devi poter avere e fare ciò che vuoi, senza badare a nessun malato terminale e senza vivere nel continuo terrore di perdere qualcuno, ridere a crepapelle e in modo spensierato. Devi poter amare di nuovo e rendere fortunata un’altra persona, che saprà come renderti vivo in ogni centimetro di pelle proprio come tu hai sempre fatto con me.
E non importa quanto tempo ci metterai, quanto il senso di colpa ti divorerà – perché lo sta facendo già ora che io sono ancora qui -, perché l’importante è che tu ci riesca: sono convinta che, ovunque io sarò, riuscirò ad aspettare pazientemente tutto il tempo necessario, solo per poterti vedere risplendere, per poterti vedere riacquistare tutto ciò che io stessa ti ho tolto.
In caso contrario, se tutto questo è già avvenuto, non posso che essere felice per te. Nel modo più completo e genuino che esista.
 
Come ultima cosa, vorrei farti una confessione che non riuscirei mai a pronunciare ad alta voce o, peggio ancora, di fronte ai tuoi occhi attenti. C’è una cosa che mi fa preoccupa molto, ultimamente: ho paura che tra di noi non ci sarà un vero e proprio addio, che magari il mio stupido corpo deciderà di cedere mentre tu non ci sei e che io non avrò modo di salutarti. Così ho deciso che, ogni giorno che mi rimane, lo passerò a salutarti: tu non te ne accorgerai ed io non te lo dirò, ma è quello che ho intenzione di fare. E magari mi sbaglio e il nostro addio ci sarà, come nel più drammatico dei film romantici, ma non voglio rischiare: così, ora che hai letto questa lettera, qualsiasi cosa sia successa, sai che ho passato tutto il mio tempo a disposizione a salutarti. A baciarti nel caso non potessi più farlo e a meravigliarmi di svegliarmi il giorno dopo e di averne ancora la possibilità, ad accarezzarti senza motivo per prendere di te tutto ciò che potevo, a sentirti cantare per stampare la tua voce nella mia testa, come se non ci fosse già. E intanto, tu mi avrai salutato a tuo modo, senza nemmeno saperlo: perché in fondo credo che sia meglio di un addio in stile cinematografico. Perché è meglio salutarsi con un sorriso, piuttosto che con paroloni. Perché io sono troppo codarda per poterti dire addio. Perché a me basta così anche se sei tu a non bastarmi mai.
 
Prima non sapevo come iniziarla, e ora non so come finirla, questa lettera, ma sta diventando davvero difficile mantenere gli occhi asciutti e sento di doverla terminare in fretta. Quindi, concludo dicendo che mi hai dato tutto ciò che una persona potrebbe desiderare o di cui potrebbe aver bisogno.
Anche questa notte ti aspetterò sveglia nel letto, anche se tu non lo saprai, e continuerò a vivere fin quando potrò, solo per ringraziarti.
Grazie per esserci stato.
Grazie per avermi amata.
Grazie per avermi fatta vivere.
Grazie per non avermi lasciato alcun rimpianto.
 
E scusa, se io non ci sono più.
 
Ti amo,
Kathleen.” 
 


Abbie.
 
Come ormai da tradizione, mi trovavo davanti alla porta di casa di Zayn, a sbuffare per la frustrazione di non riuscire ad inserire la chiave nella serratura: il mio doppione era sempre stato difettoso, ma non mi ricordavo mai di farlo sostituire. Era normale, per me, aspettare il messaggio in cui Zayn mi avvertiva di essere tornato a casa da un impegno – ad un orario accettabile, con un sopportabile grado di stanchezza e in assenza di miei progetti diversi – e attrezzarmi con due bottiglie di birra e un cartone della pizza, pronta a raggiungerlo e a passare del tempo insieme. Per distrarci, per tirare un respiro di sollievo o per qualsiasi cosa di cui avessimo bisogno.
Alzai gli occhi al cielo mentre la porta si apriva, grata che le birre non mi fossero cadute e che la pizza fosse ancora in equilibrio sulla mia mano sinistra. Soffiai contro una ciocca di capelli che mi era finita dinanzi al viso ed entrai nell’appartamento.
«Perché sono così masochista da non aver ancora cambiato la chiave?» chiesi retoricamente, ad uno Zayn che non avevo ancora visto. La luce del salotto era accesa e non sentivo nemmeno un rumore, tanto che dubitai del fatto che fosse sveglio.
«Zayn?» esclamai, per sicurezza.
Non ricevendo risposta, appoggiai il cartone e le bibite su un tavolino lì di fianco e corrugai la fronte, facendo qualche passo in avanti: il giubbotto ancora a tenermi calda e la stoffa dei pantaloni della tuta che causava un leggero fruscio.
Stavo per chiamare di nuovo il suo nome, quando vidi Zayn seduto a terra.
Era appoggiato al mobile che ospitava il televisore, con ancora addosso gli abiti che probabilmente aveva usato quella sera: una gamba era piegata contro il petto e l’altra era distesa sul pavimento, teneva le mani in grembo e la testa reclinata all’indietro, appoggiata al materiale lucido e scuro del mobile.
«Zayn» sussurrai soltanto, avvicinandomi e studiando con attenzione i suoi occhi vuoti e arrossati, che erano fissi su di me ma che non mostravano alcun tipo di emozione o di interesse.
Mi tolsi velocemente il cappotto, rabbrividendo per lo sbalzo di temperatura e chiedendomi cosa potesse essere successo: non chiesi spiegazioni, però, quando mi accorsi della lettera stropicciata che giaceva tra le sue gambe e quando riconobbi la scrittura di Kathleen.
Rimasi a fissarla per un minuto buono, forse. L’aveva letta. C’era riuscito.
Quando gliel’avevo consegnata, la rabbia che aveva dimostrato mi aveva consigliato di non nominarla nemmeno una seconda volta, perché non avrei ottenuto nulla: sapevo solo a grandi linee quale fosse il suo contenuto – Kathleen me l’aveva rivelato senza però svelare troppo – e non avevo idea di come Zayn avrebbe potuto reagire nel leggere quelle parole.
Era diverso dal solito: non era lo Zayn furioso o stanco, in preda ad un dolore troppo forte da sopportare o ad un senso di colpa che non gli dava pace. Era semplicemente vuoto, esattamente come lo era il giorno in cui Kath era dietro alle porte del pronto soccorso a lottare invano per la sua vita.
Non proferii parola, limitandomi a stringere le labbra in una linea dura e a sistemarmi i capelli dietro le orecchie, mentre mi sedevo al suo fianco con un respiro profondo.
Sapevo che non ci fosse bisogno di parlare o di fare domande. Sapevo che c’era solo bisogno di aspettare, di aspettarlo.
Deglutii a vuoto, muovendo lentamente la mano sinistra verso la sua, fredda e debole. Incrociai le nostre dita e aspettai che lui ricambiasse il gesto, anche solo con un accenno. Immediatamente sentii la sua mano stringere la mia e il suo capo inclinarsi verso la mia spalla, per appoggiarsi su di essa.
Le mie labbra formarono l’abbozzo di un sorriso nel constatare che la situazione fosse meno grave del previsto: se Zayn fosse caduto a pezzi nel confrontarsi con le parole di Kathleen, non mi avrebbe permesso di invadere in quel modo il suo spazio, né mi avrebbe concesso di stargli accanto così tranquillamente. Avrebbe urlato, nel peggiore dei casi, o mi avrebbe dato contro senza motivo per poi uscire di casa facendo sbattere la porta.
Gli lasciai un bacio tra i capelli arruffati.
«È sempre stata troppo testarda» lo sentii sussurrare, così flebilmente da farmi chiedere se avessi sentito bene. E il suo non era stato un tono di rimprovero, né di dolore o rabbia: era quello che usava quando Kath era ancora viva, quello con il quale parlava di lei quando litigavano e non riusciva a farla desistere, quello con il quale si sfogava solo per poi andare a baciarla.
Così io sorrisi davvero, mostrando i denti e accarezzandogli la mano. «Era incorreggibile» ricordai, con la conferma che Kathleen l’avesse sempre anticipato, anche quando gli lasciava credere il contrario: perché lei sapeva cosa sarebbe successo dopo la sua scomparsa, sapeva esattamente che io e Zayn avremmo dovuto sostenerci e che Zayn, per quanto gli piacesse credere il contrario, avrebbe avuto bisogno di lei per andare avanti, anche quando lei non ci sarebbe potuta essere.
Kathleen l’aveva sempre saputo, e aveva fatto qualcosa a riguardo.
 
 
Vicki.
 
Non capivo come un regista potesse avere l’autorizzazione a girare un film del genere: avrebbe dovuto essere un horror, ma – forse per l’anno preistorico a cui risaliva, o forse per gli effetti speciali che speciali non erano nemmeno con tanta fantasia – sembrava più una commedia ironica e realizzata solo per farsi quattro risate.
«Oh, andiamo. Credi ancora che pos-»
Chiusi immediatamente la bocca, quando, voltandomi verso Louis, lo trovai con gli occhi chiusi e il viso rilassato. Sorrisi spontaneamente e dimenticai quell’assurdità di film.
Louis era venuto a casa mia dopo aver partecipato ad uno show televisivo con i ragazzi: avremmo dovuto vederci nel pomeriggio, ma lui si era dimenticato di dover sistemare alcune cose in sala registrazioni, quindi mi aveva promesso che, una volta finito lo show, mi sarebbe passato a prendere per uscire. Ovviamente, quando avevo visto i suoi occhi stanchi e sentito la sua voce un po’ assonnata, l’avevo costretto a cambiare i nostri programmi: era così che avevamo deciso di guardare un semplice film, anche se, data la bassa qualità dei programmi in tv quella sera, il meglio che eravamo riusciti a trovare era quel vecchio orrore.
All’inizio non facevamo altro che prendere in giro ogni piccolo dettaglio che stonasse nella sceneggiatura o anche solo i capelli di un arancione assurdo della protagonista femminile, ridendo come se avessimo avuto davanti la scena più esilarante del pianeta. Poi, con il passare del tempo, i commenti si erano fatti più rari, come se entrambi ci stessimo accontentando di sentire il calore dei nostri corpi intrecciati e dei nostri respiri. Fino a che, Louis si era addormentato, senza nemmeno che io me ne accorgessi: aveva i piedi scalzi appoggiati sul tavolino di fronte al divano, il braccio destro abbandonato lungo il suo fianco con in mano il telecomando e l’altro braccio intorno alle mie spalle. La testa appoggiata sullo schienale e il mio viso sulla sua spalla magra.
Alzai una mano per sfiorargli l’accenno di barba e le labbra sottili, leggermente schiuse per lasciar passare i respiri lenti e regolari. I suoi lineamenti mi lasciavano sempre incantata, in qualsiasi momento o situazione li avessi davanti: quando ero troppo arrabbiata per farmi abbindolare da loro, quando avrei passato ore a studiarli anche se a lui avrebbe potuto dare fastidio, quando si imbronciavano o mi privavano del vero Louis, e quando lui dormiva ed io avevo l’occasione di osservarlo senza temere di essere scoperta. Sembrava così innocente, in quel momento, da farmi desiderare di non avere sonno e di non volerlo imitare, solo per godermi ancora un po’ l’assenza delle sue innumerevoli barriere di protezione.
Aveva parlato con Eleanor. Senza che io glielo chiedessi di nuovo, mi aveva semplicemente chiamata e me l’aveva detto: “Sto andando da Eleanor per chiarire questa storia” aveva detto, e io avevo sentito il cuore accelerare i battiti e la felicità diffondersi lentamente in ogni fibra del mio corpo. Felicità che avevo completamente accettato – mettendo da parte i piccoli dubbi riguardo l’esito del loro incontro – quando Louis era tornato da me con un sorriso sul volto, assicurandomi che, per quanto Eleanor avesse protestato, pianto e masticato velati insulti, per quanto bene le volesse e per quanta paura avesse, non me ne sarei più dovuta preoccupare.
Era strano pensare di avere Louis, di averlo solo per me. Di essere l’unica a poter avanzare delle pretese su di lui, l’unica a cui lui volesse tornare, l’unica a poterlo accarezzare. Ed era talmente forte il calore al centro del mio petto, talmente intenso e in grado di sopraffarmi, che ero arrivata a chiedermi se non si fosse tramutato in qualcosa di più, in qualcosa simile all’amore.
Mi morsi una guancia a quel pensiero, ancora confusa: non ero mai stata davvero innamorata, e sapevo che il mio spirito romantico era un abile ingannatore. Eppure non riuscivo ad immaginare un sentimento più forte di quello che mi univa a Louis, nulla che avesse potuto frenare la mia consapevolezza e smontare quella mia ipotesi tanto assurda da sembrare reale.
Con ancora una mano appoggiata delicatamente sul suo viso, spostai il pollice per sfiorargli la mascella: lui si mosse debolmente, facendomi credere che si fosse svegliato, ma non aprì gli occhi, né diede segno di essere cosciente. Dopo qualche secondo di immobilità, in cui valutai come muovermi, inspirai profondamente.
«Credo di amarti» sussurrai con un fil di voce, stando attenta a qualsiasi emozione mi attraversasse il corpo in quel momento. E per quanto fossi restia ad ammetterlo, per quanto avessi paura di sbagliarmi o addirittura di confessarlo a Louis, nessun’altra parola mi era mai sembrata così giusta, così vera.
 

 

 
ANGOLO AUTRICE

Indovinate un po’? Questo capitolo mi fa più o meno schifo ahhaahah
Ho sempre delle aspettative troppo alte, e poi rimango delusa da me stessa!
Ma non sto qui a menarvela con i miei complessi: piuttosto, spero che a voi sia piaciuto,
nonostante tutto! Forse, non avendo le mie stesse aspettative, sarete più buone haha
Andiamo in ordine: il tanto famigerato POV Zayn, in realtà non era altro che
un infinito POV Leen, il primo in assoluto! Io ho pianto scrivendolo, ma perché Leen
è il mio personaggio, quello a cui devo anche chiedere scusa magari, quindi
sono diventata un attimo masochista e questo è il risultato! Non in molte vi ricordavate
di questa lettera, quindi sono curiosa di sapere le vostre opinioni a riguardo!
Io preferisco non commentare, perché mi piace leggere cosa voi ne deducete :)
Inoltre, anche chi non ha letto “Unexpected” ora può confrontarsi in modo
più diretto con la nostra Kathleen, che santo cielo come mi manca, ma lasciamo perdere!
So che la reazione di Zayn alla lettera non è stata approfondita come magari
avreste voluto, ma ovviamente ci sarà modo di farlo: per ora, secondo voi cosa pensa?
(Scrivere di nuovo di Zayn è stato a dir poco strano, e straziante, come sempre!)
Poi, poi, poi: Abbie e Zayn come vedete non si sono affatto allontanati, anzi,
a discapito di quello che temevano alcune di voi, Victoria non potrebbe mai sostituire
la nostra Abbie! Il loro rapporto ormai è troppo forte per permettere qualcosa del genere!
E Victoria e Louis: c’è poco da dire, si sapeva che lei fosse cotta e stracotta hahah
Vi avverto: dal prossimo capitolo tra di loro succederà un po’ un casino!
Ormai sapete che con me non si sta mai tranquilli ahahah
(ah, scusate se non ho inserito la scena in cui Louis dice a Vicki di aver parlato con Eleanor,
ma ci sarebbero voluti capitoli in più e ho preferito farlo indirettamente!)


Ah, per chi volesse saperlo: conto di arrivare a 31/32 capitoli al massimo!
Beh, detto questo, fatemi sapere le vostre impressioni! Spero davvero di non avervi
deluse con questo capitolo, perché ci tengo abbastanza! Siate sincere!
Grazie mille per tutto, come sempre! Siete meravigliose :)

Un bacione,
Vero.



Ritorna all'indice


Capitolo 29
*** You were right ***




You were right

Capitolo 28


Vicki.
 
Sbuffai sonoramente e sorrisi a Max in segno di saluto, un mio collega arrivato da non molto in agenzia. Erano le due passate, ormai, e il mio turno era finalmente giunto al termine.
Con la borsa in spalla, i capelli leggermente in disordine e il sonno a torturarmi, ero già pronta a tornare a casa, quando, in corridoio, mi imbattei nell’ultima persona che avrei mai potuto immaginare di vedere lì.
Samantha, con i suoi occhi vispi, stava sicuramente pensando che fossi una fonte di attrazione per persone relativamente in vista: la prima volta aveva avuto a che fare con Louis ed il suo volermi fare una sorpresa per pranzo, questa volta, invece, stava scortando Eleanor Calder in persona. Ferma al mio posto, con un sopracciglio alzato, osservai il suo viso poco truccato e i suoi capelli mossi e terribilmente in ordine. Le gambe lunghe e il fisico asciutto, coperto da un paio di jeans a sigaretta e un maglione largo e nero.
Rasentava la perfezione, ma non per questo ero felice di vederla.
Che diavolo ci faceva sul mio posto di lavoro? E perché uno strano presentimento si stava già impadronendo di me?
Deglutii a vuoto, senza ricambiare il sorriso entusiasta di Samantha. «Vicki, lei…»
«Vorrei parlare con te per l’organizzazione di una piccola festicciola» la interruppe Eleanor, facendosi avanti e guardandomi con una espressione cordiale alla quale non riuscivo a credere tanto facilmente. Mi chiedevo quanto mi odiasse, in una scala da uno a dieci, per averle portato via Louis: in fondo non aveva tutti i torti, perché fino al mio arrivo lei non aveva mai avuto nulla di cui preoccuparsi, anzi, era stata tanto tenace da riuscire a vivere la sua storia con Louis più a lungo di quanto forse immaginasse. Eppure, per quale motivo sarebbe dovuta venire alla “Christian&Catering” per esaudire i suoi desideri? A rigor di logica avrebbe dovuto rifuggirmi come se fossi affetta dalla peste, no?
«Oh, certo – balbettai, corrugando le sopracciglia. – Ehm, vieni pure.»
Posai la borsa sulla scrivania, una volta nel mio ufficio, e, per ignorare i brividi di disagio che quella situazione mi provocava, controllai un’altra volta il mio vecchio Nokia. Nessuna chiamata di Louis, né un messaggio: da una settimana, ormai, sembrava che lui si fosse congelato in uno stato di distanza immotivata. Talvolta scompariva per ore e ore senza una spiegazione valida, talvolta non si impegnava nemmeno per darmene una, e altre volte capitava che, mentre tutto andava a gonfie vele, lui si riscuotesse e si impegnasse a stabilire delle distanze impercettibili, ma comunque presenti. Avevo provato a dare la colpa agli impegni e ai ritmi sostenuti della sua vita, ma non sapevo quanto potessi affidarmi a quelle spiegazioni.
Eleanor si schiarì la voce e mi riportò alla realtà. Si era seduta davanti alla scrivania e mi guardava in attesa, con le mani affusolate posate sulla borsa scura che teneva in grembo.
Con un respiro profondo, presi posto sulla poltrona poco imbottita che ormai si era abituata al mio corpo. «Allora, cosa-»
«Oh, non sarà niente di che – mi precedette, con enfasi. – È una festa a sorpresa per una mia cugina di secondo grado. Cugina che va matta per l’oceano, il pesce e tutto quello che ha a che fare con le onde, il surf e i surfisti» aggiunse, sorridendo in modo malizioso per quell’ultima osservazione, mentre io appuntavo le sue parole su una specie di agenda. Se non si fosse trattato di Eleanor, sarebbe potuta sembrare una semplice conversazione con un cliente. Peccato che non lo fosse.
«Quindi vorresti una festa a tema? Menù a base di pesce?» provai ad indovinare, leggermente in imbarazzo. Stavo davvero discutendo riguardo le decorazioni di una festa a sorpresa con la famigerata ex-ragazza di Louis?
«Per il menù va bene, ma ricordati di non inserire i gamberetti, perché non le piacciono. E il tema… Non so, fa ventidue anni, quindi non vorrei che fosse un po’ troppo infantile. Magari potremmo evitare decorazioni appariscenti e scegliere solo un colore dominante per le tovaglie e-»
«Ok, aspetta – la fermai, sorridendo in parte divertita. – Meglio occuparci di una cosa per volta: quante persone sono invitate a questa festa? Giusto per capire quanto cibo ordinare.»
«Ah giusto, scusa – rispose lei prontamente e stranamente a suo agio. Chissà se dentro di sé stesse progettando di uccidermi in modo lento e cruento. – Saremo una trentina, tra parenti e amici. Sai, ci sarà anche Louis.»
Tossicchiai nervosamente, cercando di rimanere impassibile all’udire quel nome.
«Louis?» ripetei soltanto, con un fil di voce. Perché mai sarebbe dovuto andare alla festa della cugina di secondo grado di Eleanor? E in che veste?
Ok, forse stavo esagerando. Magari lui e questa patita di surfisti erano amici, e magari si tenevano ancora in contatto: questo avrebbe spiegato il gesto di Eleanor di invitare Louis al suo compleanno. Quello che non spiegava, però, era il perché Louis non mi avesse detto niente a riguardo. Non voleva farmi preoccupare per la presenza della sua ex-ragazza? O non aveva intenzione di dirmelo, a prescindere?
«Sì – confermò lei, corrugando la fronte come se non capisse la mia reazione. Poi rilassò il viso nell’abbozzo di un sorriso. – Perché ti sorprende tanto?» chiese infatti. E in quel momento, quella conversazione cessò di essere tranquilla come all’inizio, iniziando a dare cenni di avere ben altri scopi.
Schiusi le labbra per rispondere, per mentire e dire che no, in realtà non mi sorprendeva per niente, e che per me non ci sarebbe stato nessun problema, ma Eleanor parlò prima che io ne avessi l’occasione. «Non sapevi che siamo rimasti in contatto? – domandò, facendomi mancare il fiato. Poi inclinò ancora di più le labbra rosee. – Da donna a donna, Vicki, non vorrei che ti facessi strane illusioni, perché rimarresti delusa. Voglio dire, il fatto che Louis abbia chiuso la nostra storia non vuol dire che condivida il suo letto solo con te.»
Spalancai gli occhi e rimasi in silenzio, con le mani a stringere il legno della scrivania fino a sentir male alle articolazioni.
Eppure, prima che potessi formulare un solo pensiero logico, prima che potessi rendermi conto di aver smesso di respirare e di avere voglia di urlare per poi prendere Eleanor per i capelli, lei si alzò e si congedò. «Ma ora devo andare: spero che terrai a mente il mio consiglio. Tornerò per discutere meglio dei dettagli: ah, la festa è tra due settimane esatte». Il viso illuminato – sì, illuminato – da un’espressione trionfante e fintamente bonaria.
Poi mi voltò le spalle e uscì dall’ufficio, chiudendo delicatamente la porta dietro di sé.
Solo in quel momento, con il suo falso sorriso fuori dalla scena e i suoi occhi degni di un premio oscar per l’interpretazione ancora stampati nella mia mente, espirai velocemente e lanciai il fermacarte contro la porta, soffocando un grido.
Come si permetteva di comportarsi in quel modo? Come si permetteva di insinuare una cosa del genere? Avrei dovuto fermarla e dirgliene quattro, farle sapere che ok, aveva perso Louis, ma che era comunque una stronza da competizione. Avrei dovuto farmi valere e impedirle di parlarmi in quei termini, di usare uno stupido pretesto per arrivare a me e ripagarmi del torto subito. Avrei dovuto dirle che mi dispiaceva per il suo ruolo in tutto quello, ma che Louis non l’aveva mai amata e lei avrebbe solo dovuto aprire gli occhi un po’ prima. Avrei dovuto dirle che io, il letto di Louis, non l’avevo ancora condiviso in quel senso e che forse per questo il nostro rapporto andava ben oltre la fisicità. E avrei dovuto dirle che qualsiasi tentativo lei approcciasse per vendicarsi, non sarebbe stato sufficiente.
Eppure non avevo fatto nulla di tutto quello che il mio istinto mi stava consigliando, e purtroppo sapevo anche il perché. Non potevo essere sicura che lei avesse mentito, non avevo nessun dato in mio favore o in suo. Era semplicemente comparsa di fronte a me per sganciare una bomba pronta a farmi a pezzi, ma come avrei potuto capire se fosse solo una bomba giocattolo?
Che Louis fosse davvero stato a letto con lei? Che quello fosse il motivo del suo improvviso cambiamento dell’ultima settimana? Non mettevo in dubbio il legame che io e lui condividevamo, ma non potevo nemmeno ignorare ciò che lui era nel profondo: una persona estremamente fragile e spaventata, strappata via da Eleanor, la sua unica certezza, in vista di qualcosa che lo terrorizzava. Me.
Troppe volte avevo visto Louis fuggire dalla nostra storia o anche solo dalla previsione di un qualcosa tra di noi, e tornare da lei. Possibile che lo stesse facendo di nuovo?
 
 
Liam.
 
Per fortuna, nemmeno quel giorno fui riconosciuto.
Fui gentilmente scortato alla porta della stanza che avevo prenotato quando Steph mi aveva chiamato, poche ore prima, e congedai il gentile uomo sulla quarantina d’anni con un sorriso di ringraziamento.
Non era come le altre volte: Stephanie, con la voce pacata come al solito e leggermente modificata dalla linea telefonica, mi aveva esplicitamente detto che avremmo solo parlato. Il fatto che fossimo di nuovo in hotel non era altro che un modo per proteggerci da quello che per tutto quel tempo avevamo cercato di evitare: Liam Payne non poteva semplicemente parlare con una ragazza in un bar al centro o fuori Londra, perché tutti gli altri avrebbero frainteso, come sempre.
Tirai un respiro di sollievo ed entrai nella stanza, lussuosa come molte altre in cui avevo alloggiato durante la mia carriera. Lei era seduta su una poltrona in velluto verde scuro, accanto alla finestra chiusa e coperta da tende leggere e chiare: aveva i capelli mori legati in una treccia lasciata sulla spalla destra, gli occhi verdi – “Harry te li potrebbe solo invidiare” – immersi nella solita calma che mai le avevo visto abbandonare, le mani strette in grembo e i piedi coperti solo dai calzini appoggiati sul letto. Era sempre stata fin troppo bella.
«Hey» mi salutò, senza sorridere, ma inclinando il capo leggermente di lato.
«Scusa il ritardo. Il traffico fa schifo» spiegai, togliendomi la giacca di jeans e avvicinandomi a lei. Mi sedetti sul letto, di fianco ai suoi piedi, e le feci il solletico sotto la pianta, cercando di provocarle una leggera risata.
Ebbi successo, ma sapevo che ci fosse qualcosa di strano in lei e in noi. Nel suo non essermi ancora saltata addosso, insultandomi velatamente e in modo scherzoso tra un bacio e l’altro, e nel suo modo di guardarmi attentamente, senza distrarsi nemmeno per un secondo.
«Allora, di cosa volevi parlare?» le chiesi, impaziente.
Lei si passò la lingua sulle labbra e si schiarì la voce, prendendo a giocherellare con la punta della sua treccia con le dita fini. Inspirò profondamente e assottigliò gli occhi. «Dobbiamo smetterla» disse soltanto, facendomi corrugare la fronte.
«Smetterla?» ripetei, confuso.
«Sì. Questa cosa tra di noi… Io e te. È ora di finirla» sospirò, gesticolando con le mani come per spiegarsi meglio. Non la conoscevo a fondo, ma sapevo che faceva schifo nell’esprimersi a parole.
La sua richiesta mi stupiva, e anche parecchio, ma non mi feriva come forse lei pensava avrebbe fatto. Io e Stephanie avevamo iniziato a vederci – ad usarci – solo per scappare: io dovevo fuggire dalla mia vita in generale, dai miei impegni e dalla stanchezza, dalla libertà quasi inesistente e dalle prime pagine dei giornali, dai paparazzi e dallo stress. Lei… Be’, non sapevo praticamente niente della sua vita, se non il suo lavoro, il suo numero di telefono e i gemiti che uscivano dalle sue labbra. La sua costante pacatezza e il suo umorismo a volte troppo acido. Eppure ero convinto che anche lei stesse scappando da qualcosa: non aveva mai chiesto di più, nonostante ci vedessimo da mesi e non così frequentemente; non eravamo mai rimasti a chiacchierare un’intera giornata e nessuno dei due si era spinto oltre con qualsiasi cosa assomigliasse a dei sentimenti. Io non li cercavo, a lei invece bastava così: avevo sempre avuto l’impressione che la mia compagnia, se così poteva essere definita, la aiutasse a fuggire da qualcosa per un po’, ma che servisse solo a quello.
«Ehm… - borbottai, alzando un sopracciglio. – Non me l’aspettavo.»
«Già» commentò lei semplicemente, abbassando per la prima volta lo sguardo.
«Posso sapere perché?» domandai, cercando di fare chiarezza dentro di me. Ok, il nostro rapporto era in un certo senso malsano e fatto di interessi, ma Steph non era un’estranea: l’avevo stretta a me innumerevoli volte, l’avevo accarezzata e lei mi aveva baciato con tutta se stessa, quasi disperatamente, poi l’avevo presa in giro e l’avevo ascoltata ridere. Era Stephanie, e non potevo nascondere che, nonostante tutto, un po’ di dispiacere per la sua volontà stesse prendendo piede dentro di me. A prescindere dal fatto che non avrei più avuto la mia via di fuga e che probabilmente non ne avrei trovata una che mi facesse star bene come lei, era difficile dire addio, in un certo senso, ad una persona che mi era stata tanto d’aiuto per tutto quel tempo.
Steph mi guardò dritto negli occhi per qualche secondo, facendomi venire i brividi per l’intensità di quel semplice gesto. Poi aprì la bocca e la richiuse. Si morse un labbro. Sbuffò. Sfiorò nervosamente la sua treccia. Incrociò i piedi sul letto. Inspirò.
«Lo amo.»
Espirò.
Lo feci anche io.
«Oh» fu la mia sola risposta.
Avevo sempre sospettato che fosse quello il motivo che portava Stephanie a cercarmi quasi disperatamente, nel mezzo della notte o alla luce indagatrice del giorno. Quella era solo una conferma: tante volte ero stato spinto dalla curiosità, ma non avevo mai ceduto alla tentazione di chiederle qualcosa, perché in fondo andava bene così. Perché noi andavamo bene così, senza sapere molto l’uno dell’altra se non l’indispensabile, senza la necessità di parlare e di toccare tasti dolenti, senza il dovere di preoccuparci di qualcosa. Lei non mi chiedeva perché alcune volte non lasciavo uscire nemmeno una parola dalla mia bocca, mentre lei si offriva di farmi fuggire da qualcosa che non voleva conoscere, ed io non le chiedevo perché nei suoi occhi ci fosse tanto tormento malcelato.
«Hai deciso di affrontarlo?» continuai, spostando una mano sulla sua gamba, per accarezzarla mentre le sorridevo debolmente. Lei non rispose, ovviamente, ed io capii. Aveva smesso di scappare e questo implicava che avesse smesso di farlo con me al suo fianco.
«Dovresti farlo anche tu, qualsiasi cosa sia» disse poi, sbattendo le ciglia di mascara.
«Sì, dovrei» le confermai, annuendo. Aveva ragione ed io lo sapevo. L’avevo sempre saputo ma non avevo mai fatto niente a riguardo. La strada più facile era sempre stata la più allettante, ma ormai ero rimasto solo a percorrerla, e senza nessuno a trascinarmi nel fondo da cui non potevo e volevo risalire, avrei dovuto cavarmela da sola e affrontare le mie stanchezze.
«Mi dispiace, Liam» sussurrò, tirando a sé le gambe e alzandosi in piedi, per raggiungermi sul letto.
Io la guardai in quelle iridi che con la luce del mattino erano una vera e propria tortura. Le accarezzai una guancia e mi sporsi verso di lei, per abbracciarla e stringerla al mio petto.
«Mi mancherai» sussurrai sul suo collo, prima di lasciarci un leggero bacio.
Lei non rispose, ma mi passò una mano sulla nuca e si fece più vicina.
 
Entrai nello studio di registrazione e sospirai, rendendomi conto di non essere poi così in ritardo, dato che sul divanetto – oltre ad alcuni tecnici in giro – c’era solo Zayn. Il viso concentrato su qualcosa tra le mani e le gambe tese in avanti, appoggiate su un tavolino. Stava… disegnando?
«Zayn, hey» lo salutai, avvicinandomi a lui. Mi rispose con un semplice cenno del capo, continuando a muovere la mano su di un foglio per tracciare linee sottili e scure con la matita appena mangiucchiata.
«Spiegami perché, ogni volta che corro per arrivare in orario, non ce n’è mai bisogno» esclamai, alzando le mani per l’esasperazione divertita, dovuta all’assenza dell’altra metà del gruppo. Zayn, di nuovo, si limitò a sorridere con la lingua incastrata tra i denti. I suoi occhi, però, rimanevano fissi su quel pezzo di carta.
«Che fai?» chiesi allora, sedendomi al suo fianco con curiosità.
Mi sporsi per sbirciare la sua piccola opera d’arte e, in quel momento, mi accorsi del perché Zayn non mi stesse prestando l’attenzione che io avrei voluto. Quella era Kathleen, potevo scommetterci.
Zayn arrestò i suoi movimenti e inclinò il foglio verso di me per mostrarmelo meglio, continuando a non dire una parola. Io osservai quel viso che ormai non vedevo da tanto tempo, trovandomi a fare i conti con una sensazione spiacevole alla bocca dello stomaco: Zayn aveva rappresentato alla perfezione gli occhi di Kathleen, la loro forma, il loro colore e le ciglia dietro le quali lei si nascondeva quando era in imbarazzo per qualcosa. Le labbra carnose e aperte in un sorriso che le alzava gli zigomi, un po’ più marcate dai tratti decisi di Zayn e forse da qualche ritocco in più. Il naso dritto e i capelli mossi.
«Che ne dici?» chiese poi, a bassa voce.
Dico che ce l’hai fatta, Zayn, pensai tra me e me, guardandolo per rivolgergli un sorriso.
Avevo ancora in mente il giorno in cui lui aveva iniziato quel disegno, mesi prima: era un pomeriggio chiaro e sereno, e lui si era seduto intorno all’isolotto della sua cucina con quel quaderno tra le mani e le matite colorate sparse intorno a sé. Poi io avevo perso il conto delle ore che aveva passato piegato sul viso di Kathleen, ma alla fine era diventata sera e lui aveva gli occhi stanchi e la mascella tesa. «Non sono nemmeno in grado di finire un suo fottuto ritratto senza aver voglia di urlare e spaccare tutto, dimmi come cazzo potrei dimenticarla!» aveva urlato, buttando tutto a terra con un gesto della mano. Ed io avevo cercato di contenerlo, di farlo ragionare e di fargli capire che non doveva perdere la speranza, perché quello che lui sentiva era solo amore, ancora vivo e pulsante. Avevo fallito, però, perché l’avevo visto uscire dalla porta di casa con la rabbia che gli scorreva nelle vene al posto del sangue e con la consapevolezza che Abbie avrebbe presto dovuto raccogliere gli ulteriori pezzi in cui lui si era appena rotto, quelli che io non ero stato in grado di aggiustare. Di nuovo.
«È bellissimo» mormorai, alzando la mano destra per scompigliargli i capelli e farlo ridere.
Zayn diede un’ultima occhiata a quel ritratto, alla sua Kathleen, e riprese a disegnare, mentre io lo guardavo, fiero. Non sapevo se quell’espressione serena sarebbe durata a lungo, se avrebbe avuto una nuova ricaduta, ma sapevo che Zayn ce l’avrebbe fatta. Un passo alla volta, un pezzettino alla volta, sarebbe tornato intero. Vivo.
 
 
Vicki.
 
Ero sicura che dovessi solo tranquillizzarmi, che la mia fosse solo una paranoia portata all’esasperazione dalla cattiveria malcelata di Eleanor. O meglio, avrei voluto esserne sicura.
Mi sentivo terribilmente in colpa, perché io avrei dovuto avere fiducia in Louis, invece non era affatto così, perché era bastata quella frase, quel “non vuol dire che condivida il suo letto solo con te”, per farmi vacillare e crollare. Forse il tutto era peggiorato dalla distanza di Louis in quei giorni, forse le sue paure – ancora in agguato – mi preoccupavano senza che nemmeno me ne rendessi conto, forse forse e altri mille forse. L’unica certezza era che, per quanto non volevo che fosse così, una grande parte di me mi urlava contro che sì, era più che possibile che Eleanor fosse sincera. Appena se ne era andata dal mio ufficio, il mio cuore aveva iniziato a battere freneticamente, ma la mia reazione era solo all’inizio: più il tempo passava, infatti, più tutto si intensificava, come se il mio corpo fosse percorso da onde di consapevolezza sempre più insistenti e, soprattutto, convincenti.
Continuavo a stritolarmi le mani nella speranza che cessassero di tremare in quel modo: ero ridicola. Non potevo pensare già al peggio, come se Louis mi avesse già confermato quel fastidioso sospetto. Dovevo aspettare, ragionare lucidamente e soprattutto parlare con lui. Nel momento in cui gli avessi chiesto la verità, ero sicura che lui sarebbe stato in grado di rassicurarmi, che si sarebbe infuriato ma che mi avrebbe baciata dandomi della stupida, perché non avrebbe mai voluto qualcun’altra oltre me.
Ovviamente quello era il frutto della mia fervida e sentimentale fantasia, ma preferivo adagiarmi su di essa, piuttosto che dare libero arbitrio alla mia paura: il solo pensiero di Louis ed Eleanor insieme mi provocava un dolore talmente forte da impedirmi di reggermi sulle gambe. Era meglio aggrapparsi ad una illusione, fin quando era possibile.
Aspettai che Louis uscisse dalla doccia, contando i secondi che passavo con lo scrosciare dell’acqua nelle orecchie: mi aveva fatta entrare Harry, prima di uscire per raggiungere Abbie con un sorriso che gli invidiavo. Così ero da sola in casa loro, circondata dai loro oggetti personali – dai suoi – e con il cuore in gola che mi impediva di pensare lucidamente. Quando Louis comparve nel corridoio, con i pantaloncini da basket viola a coprirlo e il petto nudo ancora umido, io mi soffermai sui suoi capelli bagnati e sugli occhi stupiti nel vedermi lì.
«Vicki – mi salutò, allegro, camminando verso di me. – Pensavo che ci saremmo visti a casa tua» continuò, passandosi una mano tra i capelli. In effetti era così, lui avrebbe dovuto passarmi a prendere per poi portarmi a cena fuori: in quel momento, però, io potevo solo sperare che tutto si risolvesse il prima possibile e che quel programma potesse essere rispettato.
Quando Louis si avvicinò a me per lasciarmi il solito bacio a fior di labbra, io mi irrigidii involontariamente. Lui se ne accorse, ovviamente, e indietreggiò subito per guardarmi negli occhi. I suoi, leggermente arrossati e stanchi.
«Cosa c’è?» chiese soltanto, corrugando la fronte. Profumava intensamente di bagnoschiuma o di shampoo, quasi a volermi distrarre inconsapevolmente.
Io inspirai profondamente e mi morsi l’interno di una guancia, senza smettere di torturarmi le mani. Più volte avevo formulato domande che avrei potuto porgergli, ma nessuna mi aveva convinta maggiormente della più semplice e diretta che mi fosse venuta in mente.
«Louis… - mormorai, distogliendo per un attimo lo sguardo dal suo, come a voler trovare coraggio dagli oggetti che mi circondavano. – Sei andato a letto con Eleanor?»
Nonostante il salotto in cui ci trovavamo fosse già silenzioso, mi sembrò che tutto si fosse fatto più quieto, come se anche i nostri respiri avessero smesso di fare rumore. Notai le iridi di Louis reagire a quelle mie parole e la sua mascella serrarsi: probabilmente aveva stretto anche i pugni, ma io ero concentrata sulla linea dura che le sue labbra avevano appena formato e sul piccolo passo indietro che aveva fatto.
Come avrei dovuto interpretare quei suoi minimi gesti? Come indignazione o come paura di essere stato colto in flagrante?
Deglutii a vuoto e aspettai una sua risposta, incapace di dire altro.
«Come?» sussurrò appena, assottigliando gli occhi. Quella la riconoscevo, ed era rabbia.
Presi un altro respiro profondo e sbattei le palpebre. Non potevo fermarmi. «Oggi Eleanor è venuta da me in ufficio, a chiedermi di organizzare una festa… O qualcosa del genere. – Stavo balbettando e non lo stavo guardando negli occhi. – E si è premurata di farmi sapere che ci saresti stato anche tu.»
Lui alzò un sopracciglio.
«Quando io mi sono mostrata sorpresa per quella notizia, lei mi ha detto che non avrei dovuto esserlo, perché che tu avessi chiuso la storia tra voi due non significava che condividessi il tuo letto solo con me. - Di nuovo, quel pensiero si divertì a torturarmi. – Quindi te lo chiedo: avete fatto sesso?»
«Tu cosa credi?» fu la sua risposta. Il tono serio e trattenuto.
«Non importa quello che credo io» sussurrai, abbassando di nuovo lo sguardo. Perché non poteva semplicemente dirmi la verità, qualsiasi essa fosse? Dovevo prendere il suo sviare il discorso come un’ammissione implicita?
«Io invece penso di sì» ribatté lui, con un’intonazione tanto aspra da costringermi ad alzare gli occhi nei suoi, per poi pentirmene subito dopo.
«Louis, per favore. Dammi solo una risposta» quasi lo supplicai, facendo un microscopico passo verso di lui. Volevo solo sentirgli dire che no, Eleanor non l’aveva nemmeno sfiorata, e che aveva fame e la prenotazione al ristorante era ancora valida. Volevo che mi stringesse e mi facesse sentire di nuovo bene, al sicuro. Invece lui stava lì, lontano e freddo, senza darmi la possibilità di comprenderlo, perché quel suo atteggiamento poteva essere giustificato in due modi opposti, sì, ma entrambi plausibili.
«No, Vicki – mi contraddisse, a bassa voce e rivolgendomi un sorriso tutt’altro che sincero. Per un attimo pensai che volesse rispondere alla mia domanda, a quel dubbio che mi stava divorando dall’interno, ma quando riprese dovetti ricredermi. – Non ti do un bel niente. Perché piuttosto non mi dici quale sia il vero problema? Perché non ammetti di essertela già data, una risposta, e di volere solo una conferma?»
Aveva ragione. Anzi, no. Io temevo di sapere già tutto, ma speravo che lui potesse correggermi.
«Non è così, io-»
«Oh, andiamo! – sbottò Louis, aprendo le braccia per quella che sembrava esasperazione. – Guardati, stai solo aspettando che io ti dica che Eleanor ti ha detto la verità. Te lo si legge in faccia!»
«Non urlare! – Lo rimproverai, cercando di fare lo stesso. – Sì o no, Louis, non è difficile. Ho solo bisogno di un sì o di un no. Non mi aiuti, facendo così.»
Ed era vero, perché più lui evitava di rispondere, più io sentivo le gambe cedere sotto il peso dei suoi occhi. Più tentava di farmi sentire in colpa, più mi sembrava che stesse evitando il discorso.
«Facendo così come? Come, Vicki? Sei tu ad esserti presentata qui credendo ad Eleanor. Ad Eleanor, cazzo!» I suoi movimenti erano nervosi ed io ero confusa. Non riuscivo a capire se fosse davvero indignato dalla mia mancanza di fiducia o se stesse solo cercando di camuffare qualcos’altro.
«Io non le credo! Sono venuta qui proprio per questo, perché non voglio crederle!»
Anche io avevo iniziato ad alzare la voce, proprio come un tempo. Eravamo davvero tornati al punto in cui non riuscivamo a parlare normalmente senza litigare o senza che uno dei due se ne andasse? Il problema era che, anche volendo, non sarei riuscita a controllare il mio tono, perché ero troppo nervosa, impaurita, per occuparmene davvero.
«Allora non crederle! Come vedi, il problema non esiste!»
Respirai velocemente, mentre mi prendevo qualche secondo per osservare meglio le sue iridi, nella speranza di scorgere qualcosa al loro interno, qualcosa che potesse aiutarmi.
«Non capisco perché… Non capisco perché tu non possa semplicemente rispondermi, perché tu debba continuare…» borbottai tra me e me, passandomi una mano tra i capelli.
Sentii Louis inspirare bruscamente e mi chiesi fino a che punto saremmo arrivati, come mai riuscissi a percepirlo tanto lontano, come se non fossi in grado di raggiungerlo. Proprio come all’inizio.
«Tu non ti fidi di me» disse all’improvviso, atono. Mi voltai a guardarlo, sconvolta dal suono di quelle parole: vagavano nella mia mente come in un implicito sottofondo e, nonostante io facessi di tutto per ignorarle e per concentrarmi sul resto che io e Louis condividevamo, non potevo negare che ci fossero. Sentirle pronunciare da lui, però, mi fece più effetto di quanto pensassi.
«Ed io voglio sapere perché» continuò. Le braccia lungo il corpo e i pugni chiusi, con le nocche bianche. Il suo petto ancora nudo si abbassava e si alzava velocemente, seguendo le sue inspirazioni e le sue espirazioni. I lineamenti del viso erano duri, fin troppo.
Boccheggiai qualcosa, provando a difendermi in qualche modo, ma non mi andava di mentire. Non volevo negare di aver avuto mille dubbi nel momento esatto in cui Eleanor mi aveva detto quelle cose, ma non volevo nemmeno che Louis pensasse di essere la vittima della situazione. Quella mia parziale e disperata mancanza di fiducia aveva delle fondamenta, e se io non ero propensa a nasconderla, non ero nemmeno propensa a lasciarla ingiustificata.
«Tu sei cambiato – mormorai, con un fil di voce. Lasciai la mia bocca a guidare i miei pensieri, senza filtrarli né rifletterci sopra. – Da qualche giorno sei diverso ed io… Quando Eleanor è venuta da me io ho pensato a voi, alla vostra storia e a te, a tutte le tue paure. E quando ha insinuato di essere stata… a letto con te, io ho temuto di non esser stata abbastanza, di averti di nuovo lasciato andare. Non sono una stronza insensibile, sono qui, di fronte a te, e ti sto chiedendo la verità, Louis. Solo la verità.»
«Io l’ho lasciata. Per te» sussurrò lui, rabbioso. Sembrava si stesse trattenendo dal dire qualcosa.
Ancora nessuna risposta precisa.
«Sì, ma lei ha ragione: che tu l’abbia lasciata non vuole dire che-»
«Vicki, ‘sta zitta» mi interruppe, come se avessi potuto fagli del male continuando a parlare.
«Se non sei andato a letto con lei, allora perché sei così diverso? Perché sei così distante?» insistetti. Non mi sarei arresa, perché avevo bisogno di sapere.
«Non sono distante» mi corresse, assottigliando lo sguardo e facendo un passo verso di me. Per un attimo sembrò essersi calmato, quasi fosse pensieroso.
«Sì, lo sei – confermai, con il cuore ad agitarsi al centro del petto, forse nel tentativo di scappare via. – Hai cambiato idea? Vuoi… Vuoi lasciarmi e tornare da lei? Cosa è successo?» aggiunsi, con la voce rotta dalle lacrime che cercavo di non far uscire dai miei occhi lucidi. Eccole lì, tutte le mie paure più profonde. Da quando mi ero resa conto di provare qualcosa di molto forte per Louis, qualcosa che ormai potevo definire amore, si erano ingigantite fino a schiacciarmi: l’idea di perderlo di nuovo si era poi concretizzata con la sua lontananza immotivata e con l’arrivo di Eleanor nel mio ufficio.
Mi sentivo soffocare.
«Non ci credo» sibilò lui, scuotendo la testa lentamente. I suoi occhi che non sapevo più decifrare, i miei che non sapevano più come guardarlo. «Non ci credo» ripeté, prima di voltarsi e allontanarsi da me.
«Louis! – lo chiamai, alzando la voce. Non poteva andarsene, non poteva farlo di nuovo. – Torna qui e dimmelo!» lo incitai, sottintendendo qualcosa di cui non ero certa. Nemmeno io sapevo se quel “dimmelo” implicasse una rassicurazione per una menzogna raccontata da una persona ferita o una definitiva ferita causata dall’ammissione di un tradimento.
Evidentemente, però, Louis optò per la seconda opzione. Si voltò velocemente verso di me, infatti, urlando con le iridi fisse su di me ma piene di rancore e qualcos’altro. «Dirtelo?! – sbottò, come avevo capito stesse aspettando di fare da molto tempo. – Vuoi sentirtelo dire?! Va bene, ci sto: me la sono scopata! Sei contenta adesso? Mi sono scopato Eleanor e ora hai la tua cazzo di risposta!»
Aveva appena finito di pronunciare l’ultima parola, quando la mia mano destra si abbatté sulla sua guancia, con un rumore sordo che coprì quello dei miei singhiozzi incontrollati.
Avevo il respiro mozzato e veloce, mentre le lacrime scendevano sul mio volto senza più darmi ascolto. Louis mi aveva appena strappato il cuore dal petto e io avrei dovuto piegarmi a raccoglierlo, per riappropriarmene, ma non ne avevo le forze.
Lo guardai dritto negli occhi, mentre lui si portava la mano sinistra alla mascella, lentamente. «Avevi ragione  – sussurrai, con quel filo di voce che era già troppo. Con le labbra che tremavano. – Rovini sempre tutto.»
E mentre lui mi fissava senza alcuna emozione, come se fosse stato una statua priva di vita, io mi stavo già allontanando dal mio aguzzino.
Avevo lasciato lì il mio cuore, ma come avrei potuto cercare di riprendermelo?
 

 


ANGOLO AUTRICE
 
Ma cccccccccccccccciao ragazzuole! Che parto che è stato questo capitolo, santo cielo hahah
Ci ho messo un po’ per scriverlo, sia perché non ho avuto molto tempo, sia perché
Louis mi fa impazzire e gestirlo è davvero un’impresa!!
Ma andiamo con ordine: è passata una settimana dall’ultima volta che abbiamo incontrato tutti,
e ora Eleanor va a far visita alla nostra Vicki e dà inizio alle danze.
Non dirò niente riguardo il suo comportamento e le cose che dice, perché vorrei che foste
voi a commentarle (: Ne sapete quanto Vicki, quindi direi che sarebbe interessante!
Liam e Steph: probabilmente alcune di voi avrebbero voluto che quei due finissero insieme,
ma non è mai stato nei miei “piani”. Il loro rapporto è diverso da quello di tutti gli altri
protagonisti, ed entrambi hanno avuto qualcosa da cui fuggire, nonostante non ne abbiano
mai voluto parlare tra di loro! Si sono “usati” e si sono cercati per evadere: Stephanie per non
pensare all’assenza di Brian e ai propri sentimenti che non sa evidentemente gestire,
e Liam per prendere una boccata d’aria dalla sua vita stressante!
Cosa ne pensate? Vedete con occhio diverso Steph? E il loro rapporto?
Spero di non avervi deluse (:
Piccola parte Ziam! (la prima di tutta lo storia, credo ahhaha) Zayn riesce finalmente
a finire quel ritratto, quindi è decisamente più sereno a riguardo: ovviamente non assicura
niente, ma è già un passo avanti (: E Liam ne è felice, anche perché sente parecchio il peso
di non essere riuscito ad aiutare il suo migliore amico!
E Louis!!!! Oh santo cielo quel ragazzo, non potete capire cosa significhi scrivere di lui ahhahaah
Anche qui non posso sbilanciarmi troppo, perché c’è lo spoiler in agguato:
Vicki ovviamente è sconvolta, e spero che voi capiate da dove nasca la sua mancanza di fiducia:
per quanto le voglia credere in Louis e illudersi, non può di certo negare tutte le sue paure
e il continuo rischio di vedere tornare lui con Eleanor, come in fondo è già successo!
Louis alla fine sbotta, e dice qualcosa di davvero poco gradevole, tanto che uno schiaffo
non glielo toglie nessuno: avrà detto la verità? Avrà mentito?
Lascio a voi qualsiasi tipo di congettura, tanto nel prossimo capitolo sarà tutto più chiaro fjdkl
 
Grazie infinite per tutto e scusate e se sono di poche parole ma devo studiare DDD:
Fatemi sapere le vostre opinioni, vi prego (: Un bacione,
Vero.
 
ps. QUI c'è il trailer della storia, se voleste dare un'occhiata :)

 

 

  

Ritorna all'indice


Capitolo 30
*** A promise is a promise ***




A promise is a promise

Capitolo 29


(Capitolo un pochino più lungo del solito, ma spero di averlo reso interessante :))

 

Vicki.
 
Seduta al tavolo in cucina, tenevo le gambe distese e appoggiate su un bancone e la tazza di thè caldo – lo era ancora? – tra le mani, avvolte dalle maniche un po’ troppo lunghe di un maglione che Brian mi aveva regalato senza regolarsi con la taglia. I pantaloni del pigiama blu scuro lasciavano passare spifferi d’aria sulle mie gambe, che ogni tanto mi facevano rabbrividire, e i capelli erano un ammasso disordinato e assolutamente poco invitante, a causa delle numerose volte in cui – di nuovo – mi ero rigirata nel letto nella vana speranza di riuscire a dormire o, almeno, di smettere di pensare.
Stephanie, appoggiata allo stipite della porta, sbuffò in modo contenuto, tenendo il tempo di una canzone che la radio accesa stava trasmettendo proprio in quel momento. Era sintonizzata su una stazione ben precisa, che io non ascoltavo spesso e che la mia amica non sapeva nemmeno esistesse, e che non avevo intenzione di abbandonare, non prima di aver ascoltato la sua voce: Louis avrebbe dovuto tenere un’intervista da lì a momenti – cosa che il presentatore radiofonico non mancava di ricordare ogni due minuti e con la voce sempre più eccitata. Immediatamente, una morsa allo stomaco mi costrinse a stringere la tazza tra le mani ancora di più in un gesto di riflesso, mentre il pensiero di quegli occhi che non vedevo ormai da quattro giorni tornava a tormentarmi.
Fu Steph ad impedirmi di crollare un’altra volta.
«Tra due giorni parto» disse soltanto, con le leggere occhiaie delle nove della domenica mattina e il labbro inferiore stretto tra i denti. Io corrugai la fronte. «Parti?» ripetei, alzando un sopracciglio.
Lei annuì, prendendo un lungo respiro che sembrò infonderle un po’ più di tranquillità.
«E dove vai?» continuai, colta alla sprovvista. Il pensiero di non poter contare sulla sua presenza, qualunque fosse il motivo, mi agitava, ma non volevo allarmarmi così in fretta, né fare sentire lei in colpa: in fondo, qualche malanno d’amore affliggeva tutti, prima o poi, e che il mio fosse così insopportabile, così come l’assenza di Louis, era solo un caso, una prova in più da superare.
Stephanie aprì la bocca e poi la richiuse, muovendosi lentamente per avvicinarsi al tavolo e appoggiare i gomiti su di esso, protesa in avanti verso di me. «Devo andare da Brian.»
«Da Brian? Ma…»
«È ancora alla base – mi interruppe, abbassando lo sguardo. – Mi aveva detto che sarebbe rimasto lì per due settimane, poi si sarebbe imbarcato. Devo andare da lui e, ti giuro, piuttosto rimango fuori da quella stupida base anche di notte, ma devo vederlo. Non mi muoverò da lì fin quando non accetterà di vedermi.»
Spalancai gli occhi e non cercai nemmeno di nascondere il sorriso spontaneo che mi inarcò le labbra. Non riuscivo a credere alle mie orecchie: possibile che Steph si fosse decisa ad uscire dalla sua paura e a svincolarsi dalla sua incapacità di gestire i propri sentimenti? Che stesse davvero per partire e accamparsi di fronte alla base di mio fratello solo per fargli capire che anche lei lo amava, a modo suo e nonostante i vari errori commessi?
In qualche modo mi ricordava Louis: li accomunavano gli stessi timori, anche se erano provocati da fattori diversi, e i loro comportamenti schivi e contraddittori erano ugualmente irritanti e talvolta incomprensibili. Loro due erano fragili, come non volevano dare a vedere e come in pochi riuscivano a capire.
Quando mi resi conto di essere tornata sull’argomento Louis, chiusi gli occhi e scossi la testa.
«Per favore, di’ qualcosa» mi spronò Steph, assumendo un’espressione supplichevole. Evidentemente quella decisione le costava molto e aveva bisogno di supporto, di forza.
Sorrisi e lei fece lo stesso, anche se in modo più esitante. «Giuro che se ti fa rimanere lì fuori lo uccido» la rassicurai in tono scherzoso, ma più serio di quanto credesse. Brian si era innamorato di Stephanie, la conosceva forse meglio di me e sapeva a cosa andava incontro: era semplicemente arrivato all’esasperazione, a causa di accumuli di errori e menzogne, ma lei si era davvero pentita ed era finalmente riuscita ad ammettere tutto ciò che gli aveva tenuto nascosto, persino i propri sentimenti. Questo non valeva più di tutto? L’amore non aveva il potere di perdonare molte più cose di quante ne potesse sopportare?
Voleva dire che anche io avrei dovuto perdonare Louis?
Vicki, smettila.
«Quindi faccio bene?» chiese Steph, salvandomi di nuovo inconsapevolmente.
Annuii e bevvi un sorso di thè, ormai raffreddatosi. «Sai, credo di conoscere abbastanza bene mio fratello da sapere che probabilmente ti sta aspettando dal momento in cui ha lasciato Londra» esclamai divertita, ripensando al cipiglio frustrato di Brian nel momento della sua partenza e al suo sguardo, che vagava per la strada sperando di posarsi su una Stephanie trafilata e di corsa, pronta a salutarlo e a dirgli che sì, lo amava anche lei.
«Io invece credo che mi odi» borbottò lei, raddrizzando la schiena e sbuffando. Nei suoi occhi verdi e nei suoi modi sempre controllati e calmi, era facile – con un po’ di attenzione in più – seguire la lotta tra le sue paure e la sua reale volontà.
«Oh, smett-»
«Ed ora, il momento tanto atteso! – mi interruppe la voce del presentatore radiofonico, facendomi perdere il respiro. – Louis Tomlinson, membro degli One Direction, si è alzato presto, stamattina, solo per venirci a trovare! Sono convinto ch-»
«Vicki, sei sicura che sia una buona idea? Non credo che ti faccia bene» chiese Stephanie, sovrastando la voce leggermente metallica che riempiva la stanza. Io mi riscossi e la guardai soltanto, pensando che finalmente aveva espresso quel suo dubbio. Non era mai stata una persona invadente, né insistente, e proprio per questo motivo mi lasciava libera di agire secondo ciò che ritenevo più giusto – entro certi limiti, ovviamente. In quel momento, però, aveva fatto uno strappo alla regola.
Non ebbi il tempo di rispondere, perché fui completamente rapita da qualcos’altro. Qualcun altro.
«Eccolo qui, Louis Tomlinson! Benvenuto!» esclamò entusiasta il presentatore di nome Charles.
Trattenni il fiato e chiusi gli occhi.
«Hey Charles, come va?»
«Oh, bene, grazie! Immagino che sia stato spiacevole essere buttato giù dal letto a quest’ora, o sei una persona mattutina?»
No, non lo è. Per niente.
«No, non lo sono per niente. E mi tocca precisare una cosa, detto in confidenza: odio mettere fine alla nostra storia, ma devo ammettere che l’idea di vederti non era allettante come avrebbe dovuto, stamattina. Harry ha quasi dovuto tirarmi una secchiata d’acqua addosso, per farmi svegliare. Le vedi, le occhiaie? Proprio qui.»
«Così mi spezzi il cuore! Pensavo che ti fossi sacrificato per me!»
Illuso. Probabilmente nemmeno ti sopporta.
«Sì, be’, ecco, mi dispiace.»
Di sicuro sta scuotendo la testa con un mezzo sorriso sul volto.
«Ma immagino che sia normale, no? Ormai quasi tutti i fan e non degli One Direction sanno che il tuo cuore è già impegnato!»
Cambia argomento, ti prego.
«E, Louis, lasciatelo dire: è anche una ragazza molto bella. Si chiama Victoria, giusto? Come vanno le cose tra di voi? Sembra una cosa abbastanza seria.»
«Le cose vanno bene, sì. E grazie per il complimento, anche se non te ne concedo altri. Chissà che per la delusione di un mio rifiuto tu non decida di vendicarti provandoci con la mia ragazza.»
«Beccato. Ci ho provato! Ma lasciamo da parte i miei piani di vendetta, e passiamo al nuovo album che state preparando: quando potremo ascoltarlo?»
Smisi di ascoltare in quell’esatto momento. Le dita bianche per quanto forte stavo stringendo la tazza tra le mie mani e la mascella serrata fino a far male. Lo sguardo preoccupato di Stephanie su di me e il mio completamente assente.
Avevo il respiro accelerato e le labbra che tremavano per la rabbia e il dolore.
Quattro giorni. Quattro fottuti giorni di silenzio, di assenza e di lacrime. Io che avevo pianto e mi ero chiesta più di un milione di volte perché fosse successo tutto quello, perché Louis mi avesse tradita e in cosa avessi sbagliato. E lui? Lui, dopo essere sparito e dopo non essersi nemmeno preoccupato di chiedere scusa o di pronunciare un patetico “mi dispiace”, osava presentarsi con un sorriso strafottente in un programma radiofonico, comportandosi come se nella sua vita andasse tutto bene: e ok, era il suo lavoro – doveva farlo -, ma il pacchetto non comprendeva le menzogne. Non comprendeva il mentire davanti a tutta l’Inghilterra e davanti a me, il fingere che tra di noi le cose fossero grandiose e lo scherzare con il suo intervistatore come in un giorno qualunque.
Perché io non ero capace di fare lo stesso? Perché io non riuscivo a fingere? Perché ero costretta a sentirmi un’illusa e una stupida, in attesa di qualcosa in cui avrei dovuto smettere di sperare? Perché sentivo il cuore a pezzi mentre lui era capace di prendersi gioco di tutto e tutti?
La possibilità che per Louis fosse tanto semplice perché di me gli interessava meno di quanto io credessi e sperassi, mi provocò un dolore lancinante al petto.
Mi alzai, sbattendo la tazza nel lavandino e superando Stephanie e le sue domande appena mormorate. Raccolsi la borsa dal divano e cercai le chiavi della macchina.
«Lasciami sola» dissi a denti stretti, prima di uscire di casa.
 
 
Louis.
 
Rubai altri pop-corn dalla busta che Niall teneva in mano e che stava divorando senza pietà, controllando velocemente che non me ne fossero caduti addosso. Ormai era diventata una specie di gara, tra me e il mio amico: rasentavamo il disgustoso, mentre cercavamo di capire chi riuscisse a fare entrare più pop-corn nella propria bocca.
«Che schifo che fate» ci rimbeccò Harry, ridendo e scuotendo la testa. Le mani a cercare l’iPhone per scattare una foto a chissà cosa nella stanza, che nella sua mente aveva di certo un certo fascino, mentre Zayn gli chiedeva su quale social network l’avrebbe pubblicata, quella volta.
Il salotto di Liam era più incasinato del solito e forse lo eravamo anche noi. Io, lo ero di sicuro.
Mancavano pochi minuti a mezzanotte e, dopo aver passato la serata chiusi in studio di registrazione, avevamo deciso di berci una birra in santa pace, lontani dalle urla delle fan e da qualsiasi contatto con il mondo civile che ogni tanto ci stava troppo stretto. Liam aveva offerto la casa, Niall i soldi per comprare da bere e Paul il coraggio di scendere dall’auto per entrare da Tesco e prendere tutto il necessario – ma solo in cambio di una birra.
«Mi viene da vomitare» mugugnò l’irlandese al mio fianco, alzandosi dal divano con una mano a coprirsi la bocca piena e una risata trattenuta, solo per non rimettere tutto sul pavimento.
Cercai di contenere l’ilarità, mentre seguivo Niall con gli occhi, e masticai a fatica la quantità vergognosa di pop-corn che ero riuscito ad infilarmi in bocca. Prima che potessi scoppiare a ridere, Liam rientrò in salotto.
«No, non è qui – esclamò, con il telefono attaccato all’orecchio e un’espressione preoccupata sul volto. – Ora glielo chiedo» disse subito dopo.
Fece qualche passo in avanti, ignorando Harry che si toglieva la maglietta perché “che cazzo, amico, sembra di essere ai tropici, in questa casa”, e puntò il suo sguardo su di me. «Louis, hai sentito Vicki? O l’hai vista?» mi chiese, facendomi spalancare gli occhi.
Il solo suono di quel nome mi impediva di pensare lucidamente e non potevo permettermelo. Strinsi i pugni e scossi la testa, chiedendomi il perché di quella domanda.
Liam annuì e alzò un sopracciglio, passandosi una mano tra i capelli.
«No – disse semplicemente, sospirando. – Sicura?» continuò, come se fosse stato interrotto. Di nuovo mi guardò in un modo che mi stava mandando fuori di testa. Che stava succedendo? E perché mi chiedeva di Vicki?
Stavo per aprire bocca e dare voce a tutti i miei dubbi, ma proprio in quel momento il mio amico salutò chiunque fosse dall’altra parte della cornetta e chiuse la chiamata.
«Allora?» domandai, evidentemente spazientito e irrequieto.
«Era Stephanie, l’amica di Vicki» cominciò Liam.
«Stephanie? Perché Stephanie ha il tuo numero?» si intromise Harry, con un sorriso furbo sul viso.
«Questo ora non è importante – rispose l’altro, tra l’imbarazzato e il divertito. Poi tornò ad assumere una maschera di serietà che non mi piaceva per niente. – Dice che Vicki è sparita. Stamattina è uscita di casa per rimanere da sola, e a quanto pare è colpa tua, ma su questo non si è soffermata più di tanto, anche perché era troppo impegnata ad insultarti. Fatto sta che stasera doveva vedersi con una loro amica, una certa Clarissa, ma non si è fatta viva e non è ancora tornata a casa: non risponde al cellulare. Voleva sapere se tu l’avessi vist-»
«Che diavolo significa che è sparita?» lo interruppi, alzandomi in piedi di scatto. E che diavolo significa che è colpa mia?
Zayn che, dall’altra parte del salotto, mi guardava preoccupato e allo stesso tempo cercava di farmi capire che anche lui non ne sapeva niente. Io che sentivo le mani tremare.
«Louis, sta’ tranquillo. Ha detto di voler rimanere sola, magari-»
«Magari un cazzo, Liam – protestai a denti stretti, mentre sentivo la paranoia invadermi del tutto. Sapevo che probabilmente stavo esagerando, ma era anche possibile che le fosse successo qualcosa. – Sono passate più di dodici ore» continuai, più rivolto a me stesso che a lui, come se stessi valutando la situazione per vagliare tutte le possibilità.
E mentre i miei amici si abbandonavano alle loro ipotesi e rassicurazioni, io tiravo fuori dalla tasca il telefono per chiamarla. Quel maledetto telefono che avrei dovuto prendere in mano molto tempo prima.
 
Non mi era interessato di quante proteste avesse fatto Stephanie, né delle osservazioni di Liam riguardo l’eventuale poca voglia di Vicki di vedere proprio me. Stephanie era finalmente riuscita a parlarle al telefono, ma solo perché la sua amica era rimasta a secco e aveva bisogno di un passaggio a casa, visto che non si era resa conto di essere in riserva, mentre girovaga per Londra senza una vera e propria meta: appena avevamo saputo dove si trovasse, io mi ero precipitato fuori dalla porta, senza preoccuparmi di cambiarmi i jeans neri che iniziavo a non sopportare o la t-shirt grigia sulla quale Niall aveva rovesciato qualche goccia della sua birra. Avevo detto a Liam che ci avrei pensato io, che sarei andato io da Vicki al posto di Stephanie e che spettava a me farlo. Solo a me.
Appena avvistai la sua auto sul ciglio della strada, con le quattro frecce accese e lei che stava appoggiata con la schiena allo sportello del guidatore, accostai bruscamente a qualche metro di distanza. L’auto dietro di me imprecò per la mia manovra improvvisa con il suono prolungato del clacson e, mentre io cercavo di smaltire quelle emozioni troppo forti da sopportare e che in genere non mi facevano mai bene, Vicki si accorse di me. Probabilmente pensò di scappare via, ma era a secco e non aveva altre opzioni se non quella di rimanere lì, con me.
Scesi dall’auto con i pugni chiusi e la mascella serrata, fissando la sua figura buia e rigida, a causa della mia presenza. Aveva i capelli sulla spalla destra e in disordine, un semplice maglione a proteggerla dal freddo dell’una di notte e i pantaloni del pigiama. Mentre mi avvicinavo sempre di più e avevo l’opportunità di studiarle il viso serio e falsamente coraggioso, segnato dagli occhi gonfi e dalle labbra secche, mi chiesi perché l’avessi ridotta in quello stato.
«Ma che cazzo pensavi di fare?» le urlai contro, arrivandole troppo vicino anche per me e sbattendo la mano destra sulla carrozzeria dell’auto. Vicki respirava velocemente, a testa alta e con una sfida negli occhi.
Volevo dirle che in quell’ora mi aveva fatto passare le pene dell’inferno, ma anche prima, fin dall’inizio, e che lei stessa era il mio inferno, ma ero arrabbiato e dovevo liberarmi dalla preoccupazione e dal senso di colpa.
«Come ti viene in mente di sparire per un giorno interno?» continuai,  con gli occhi fissi sul suo viso e la voglia di baciarle le labbra, morderle per dispetto e poi baciarle ancora.
Vicki abbozzò un sorriso di arrendevolezza che mi colpì come uno schiaffo, obbligandomi ad indietreggiare di pochi centimetri. «Ora ti preoccupi per me? – domandò, con la voce bassa che mi era mancata come non sarei mai riuscito a dire. – Dov’è la tua Eleanor? Perché non ti occupi di lei?»
Inspirai profondamente e diedi un altro colpo contro la carrozzeria dell’auto.
«Quando la smetterai di parlare di Eleanor?» sputai a denti stretti, tentando con tutto me stesso di controllarmi.
«E tu quando la smetterai di essere bipolare?!» gridò lei di rimando, stupendomi. Le iridi arrossate perché stava cedendo e perché era di nuovo colpa mia. Era facile carpire ogni briciola di esasperazione che scuoteva il corpo di Vicki: non lo davo mai a vedere, ma ormai la conoscevo a memoria. Sapevo perfettamente come rabbrividisse ad una mia particolare carezza, quali sorrisi fossero di cortesia e quali invece nascondessero qualcosa di più, come si socchiudessero gli occhi per una risata trattenuta e come le tremassero le mani per la rabbia. Sapevo perfettamente come potesse rompersi di fronte a me – come era successo a casa mia, solo quattro giorni prima – e, di conseguenza, sapevo anche che si fosse appena sgretolata un po’ di più, sotto i miei occhi.
«Io non sono bipolare – le assicurai, provando a moderare il tono di voce. – Sei tu ch-»
«Fammi indovinare: sono io che non capisco? – sbottò, interrompendomi e spingendomi con le mani sul petto, in modo da allontanarmi da sé. – È sempre così, non è vero? Sai dire solo questo! Eppure non vedo come io possa aver frainteso qualcosa, dato che hai anche scelto delle ottime parole: di’ un po’, com’è stato scopartela?!»
Quelle parole mi gelarono il sangue nelle vene, proprio come era successo quando erano uscite dalla mia, di bocca. Per un attimo dovetti concentrarmi sul mio respiro, perché avevo paura di reagire in modo sbagliato, come sempre.
«Santo cielo, com’è possibile che tu sia così cieca?!» ribattei, ancora con un tono di voce troppo alto.
Non capivo perché non riuscissi ad ottenere la sua fiducia. Sapevo di non essere perfetto, di aver sbagliato mille e più volte e di meritare meno di quanto Vicki mi avesse mai dato, ma ci stavo provando: per lei, avevo cambiato tutto ciò che più mi rendeva sicuro, buttandomi in qualcosa che mi logorava e di cui allo stesso tempo non potevo fare a meno. Eppure, nonostante tutti gli sforzi, lei sembrava soffermarsi solo sui miei errori: innumerevoli, sì, ma sempre accompagnati da motivazioni e sforzi per rimediare, da sacrifici per me più impegnativi di quanto si pensasse. Perché Vicki doveva continuare a mettermi in dubbio in quel modo? Perché, al posto di puntare subito il dito contro di me, non aveva pensato a quanto rancore Eleanor potesse avere nei suoi confronti e a quanto desiderasse fargliela pagare?
Perché tutto quello che avevo fatto non era stato abbastanza, di nuovo?
«Cieca?! Io sarei cieca?! L’hai detto tu, che te la sei scopata! Sono venuta da te e mi hai confermato di essertela scopata!»
La prima lacrima le solcò il viso e io dovetti trattenermi dall’urlare a pieni polmoni. Tutto di me sembrava essere un macchinario perfetto per farle del male.
«Smettila di ripeterlo!» le ordinai. Cosa aspettavo a dirle che non era vero? Che io, Eleanor, non l’avevo sfiorata nemmeno con un dito? Che non avrei potuto farlo neanche volendo, perché Vicki era come una persecuzione in ogni respiro che compivo e in ogni minuto che passava? Che era stupida a pensare che avrei anche solo potuto toccare qualcun altro, dopo tutto quello che avevo cercato di fare per lei?
Forse dovevo solo riuscire a gestire le numerose e contrastanti emozioni che mi stavano divorando, prima di poter effettivamente dire qualcosa a riguardo. Alla fine era sempre stato quello, il mio problema: dare la precedenza all’impulsività, alla più piccola goccia di dolore che qualcuno mi procurava, al nervosismo e sì, anche alla paura.
«Perché dovrei? Ti senti in colpa, per caso? Eppure non mi sembra che tu te la sia passata tanto male, o sbaglio? In fondo in questi quattro giorni non ti sei nemmeno degnato di farti vivo, di parlarmi o anche solo di sbattermi in faccia la verità per la seconda volta! Anzi, sei riuscito anche a vantarti di quanto le cose vadano bene con la tua ragazza, ad una stupida intervista radiofonica di fronte a tutta Londra! Quindi ora non venirmi a dire cosa devo o non devo fare, perché a me non interessa! Sono stata costretta a ripetere nella mia testa quelle tue cazzo di parole fino alla nausea negli ultimi giorni, e vorrei che tu sentissi lo stesso dolore che provo io, invece sembra che tu non ne sia nemmeno capace!»
Vicki stava crollando davanti ai miei occhi ed io la stavo seguendo. Ad ogni sillaba pronunciata da quelle labbra, ad ogni lacrima che brillava grazie alla scarsa illuminazione di quella strada appena fuori città, io sentivo qualcosa dentro di me cedere inesorabilmente. Era riuscita a farmi a pezzi semplicemente sbattendomi in faccia la realtà, e la consapevolezza di averle procurato tutto quel dolore era insopportabile. Era su questo che si fondavano tutte le mie paure, tutte le mie riserve: Louis Tomlinson non sapeva fare altro che ferire qualsiasi persona gli si avvicinasse, e ormai me ne stavo convincendo sempre di più. Per quanto cercassi di evitarlo, tutti i miei sforzi mi portavano sempre a ciò che più rifuggivo.
Non potevo sopportare la vista di Vicki in quello stato e non ero nemmeno in grado di formulare una frase, perché ero sconvolto dalle mie stesse azioni e da mille altre cose che dovevo ancora distinguere, così feci l’unica cosa che pensavo avesse potuto trasmettere più di qualsiasi parola: mi avvicinai a lei con un solo passo, portando le mani fredde sul suo viso, e le baciai le labbra, con un’enfasi che sapeva più di disperazione. E mentre lei si ribellava a quel contatto, provando a spingermi via con i pugni sul mio petto, io glielo dissi. «Non sono andato a letto con Eleanor. Non l’ho fatto, cazzo, hai capito?» le dissi, prima di ricevere una spinta più forte delle altre e indietreggiare di riflesso.
«Come… Come ti aspetti che io ti creda?» domandò, con le mani tra i capelli e il petto che si muoveva velocemente seguendo i suoi respiri irrequieti.
Io serrai la mascella e finalmente abbassai la voce. Dovevo farlo per lei, e quindi anche per me. «È questo il punto – quasi sussurrai, per la stanchezza e la rabbia. – Tu non mi credi. Qualsiasi cosa io faccia, tu la metti in dubbio.»
«Ma cosa pretendi, Louis? Dopo tutto quello che è successo tra di noi, come pretendi che io non abbia nemmeno un dubbio?» ribatté lei, tirando su con il naso ma increspando le labbra per un singhiozzo. Si tirò le maniche sulle mani e si strinse nelle spalle, probabilmente per il freddo. Era così bella che mi faceva impazzire.
«E tu come pretendi che io faccia tutto da solo?! – sbottai, perdendo di nuovo l’autocontrollo. – Credi che sia difficile solo per te?! Ho cercato di fare tutto il possibile  per superare le mie fottute paure, per darti almeno un quarto di quello che meriteresti, anche se pensavo di non esserne capace, eppure tu sembri dimenticartene! Sai perfettamente quanto sia dura per me, eppure non importa quanto io mi sforzi, quanto ci provi e quanto cerchi di dimostrarti, perché ti concentri solo sui miei errori ed io ogni volta devo ricominciare da zero! E perché, appena Eleanor arriva da te e ti racconta qualche cazzata, tu non esiti e darla per scontata! Cosa devo fare per essere abbastanza?! Cosa vuoi che faccia?!»
Dopo quelle mie parole, entrambi rimanemmo in silenzio. Io a vedermela con l’affanno e il tremore che mi invadevano il corpo per quello sfogo inaspettato ma anche necessario, e lei a confrontarsi con i miei pensieri più profondi, che a quanto pare la colpivano più di quanto io credessi.
Vicki aprì la bocca per dire qualcosa ed io feci lo stesso, ma nessuno dei due parlò. Poi distolsi lo sguardo dal suo, perché in fondo faceva male e perché stava ancora piangendo, e con la coda dell’occhio mi sembrò che avesse fatto un piccolo passo avanti.
«Louis – mi chiamò, flebilmente. Chiusi gli occhi e inspirai l’aria fredda che ci circondava. – Ho bisogno di sapere se-»
«No – risposi, prima ancora che finisse la frase. – Non l’ho nemmeno toccata» aggiunsi, tornando a guardarla con i pugni chiusi, sia per la tensione sia perché le mie mani fremevano per raggiungere il suo corpo, sfiorarlo e consolarlo.
La osservai mentre tratteneva il respiro e non si opponeva alle lacrime meno frequenti che le bagnavano il viso, mentre arretrava lentamente fino ad avere di nuovo la schiena contro la carrozzeria della sua macchina e mentre abbassava lo sguardo sul terreno ai suoi piedi, immobile.
«Devi credermi» aggiunsi flebilmente, diminuendo la distanza tra di noi. Ci divideva circa un metro, ma sembravano chilometri. Vicki continuò a non guardarmi, a proteggersi nel suo maglione scuro, ed io avevo solo bisogno di incontrare i suoi occhi, qualsiasi cosa loro volessero esprimere.
«Tu… Allora perché? Perché mi hai detto di-»
«Perché tu sembravi esserne certa: ti ho dato solo quello che ti aspettavi. E stavo impazzendo al pensiero di averti deluso di nuovo, di aver deluso me stesso» ammisi dopo qualche secondo, a bassa voce e aspettando che mi concedesse di nuovo le sue iridi scure, anche se arrossate.
Quando lo fece, deglutii e attesi che si sfogasse. Sembrava trattenere così tante cose dentro di sé, che non capivo nemmeno come facesse a sopportarle.
«No – disse semplicemente. – No, l’avresti negato. E poi in quei giorni eri così strano... Chi mi dice che tu non stia mentendo ancora?» Pronunciava le parole come se fossero un fiume in piena, come se riflettessero il groviglio di pensieri con cui doveva confrontarsi.
Sentii distintamente la delusione prendere il sopravvento: per l’ennesima volta, mi stava mettendo in dubbio. Eppure, mi costrinsi a pensare lucidamente: dovevo tener conto della situazione in cui si trovava. Nonostante le motivazioni che mi avevano spinto a farlo, io le avevo urlato contro di essere andato a letto con la persona che lei temeva di più e per quattro giorni non mi ero fatto vivo. Era normale che fosse restia a rielaborare il tutto.
«Te lo dico io, Vicki – le assicurai, facendomi ancora più vicino. Mi aveva respinto così tante volte, negli ultimi minuti, che temetti potesse farlo di nuovo. Invece si limitò a fissarmi attentamente ed io le diedi il rispetto che meritava, rimanendo ad una distanza che fosse accettabile per lei e non troppo dolorosa per me. – E mi fa incazzare il fatto che tu abbia davvero creduto che io fossi andato a letto con lei, ancor prima di saperlo con certezza, ma te lo giuro: Eleanor ti ha mentito.»
Non era convinta, glielo si leggeva in faccia, e c’era solo un modo per farle cambiare idea, per farle capire che io non sarei mai stato capace di farle del male volontariamente, nonostante la mia impulsività dimostrasse il contrario.
«Vuoi sapere perché ero strano? – domandai allora dopo qualche secondo, con tono esitante. Ero a disagio, perché il suo sguardo mi destabilizzava, perché continuavo a chiedermi se potessi azzerare quell’insopportabile distanza che ci divideva e perché, per l’ennesima volta, mi stava costringendo a mettermi a nudo. Odiavo sentirmi così esposto, quasi fossi alla mercè di qualcuno, ma glielo dovevo. – Ti ho sentita. Quella sera a casa tua, quando mi hai detto che credevi di amarmi, io-»
«Stavi dormendo» mi interruppe lei, allarmata e – chissà – imbarazzata, mentre il suo corpo si irrigidiva.
Mi venne spontaneo addolcire lo sguardo, al pensiero di quelle sue parole sussurrate, anche se – subito dopo – un brivido diverso mi percorse la schiena. «No – la corressi. – Mi ero svegliato, ma ho continuato a tenere gli occhi chiusi, perché… Perché volevo che tu continuassi ad accarezzarmi in quel modo, pensando che io non me ne accorgessi» spiegai, corrugando leggermente la fronte e abbassando per un paio di secondi lo sguardo.
Vicki non rispose, non subito almeno, e potevo avvertire il suo respiro farsi sempre più lento, nonostante fosse ancora disturbato da qualche sporadico singhiozzo. «Hai avuto paura?» chiese poi in cerca di una conferma, talmente piano da farsi quasi sovrastare dal rumore di sottofondo causato dalla vita della città e dal passaggio di qualche macchina.
Io serrai la mascella e rimasi in silenzio. Solo dopo poco, mi concessi di andarle incontro e di aiutarla a capire. «Sapere che tu possa provare qualcosa del genere per me… Vicki, questo cambia tutto. Ho pensato che se avessi sbagliato in qualcosa avrei causato più danno di quanto avrei potuto sopportare e tu… Mi sono allontanato perché sono il solito codardo, ma alla fine tutte le mie paure si sono realizzate lo stesso. Guardaci ora». Desideravo chiederle se mi amasse davvero, ma non mi sembrava il momento e forse temevo anche una sua possibile risposta negativa.
Quando Vicki aveva confessato i suoi sentimenti, nonostante pensasse che io stessi dormendo, il mio stomaco si era accartocciato su se stesso. E non solo perché, che diavolo, una persona come lei non poteva amare uno come me, ma anche perché era un pericolo: ero convinto che prima o poi avrei commesso qualche errore, e il solo pensiero di cosa avrebbe significato per lei mi faceva impazzire. Non riuscivo a pensare alla possibilità di ferirla – nonostante poi quella stessa possibilità si fosse tramutata in realtà poco dopo – e, mentre cercavo di interporre delle distanze tra di noi, non riuscivo neanche a lasciarla andare, perché sì, anche io la amavo.
Forse avrei dovuto confessarglielo. Forse avrei dovuto essere più coraggioso, per una sola volta, e dirle che l’amavo più di quanto riuscissi a sopportare o di quanto io credessi. Che non sapevo quando me ne fossi reso conto, ma che era come se fosse sempre stato così. Che mi era impossibile respirare, se lei non era al mio fianco o se sapevo di non poterla vedere per più di ventiquattro ore, o forse meno. E che, cazzo, avrei fatto di tutto per lei, nonostante fossi un totale fallimento e nonostante l’avessi delusa più quanto una persona dovesse accettare. Ma non potevo farlo lì, sul ciglio di una strada e nel bel mezzo di un litigio: non volevo che quelle mie parole fossero scambiate per un tentativo di farmi perdonare.
«Avresti dovuto dirmelo – sussurrò, mentre vedevo il suo corpo rilassarsi. – Anzi, no, avresti dovuto rimanere con me, invece di allontanarti. Ti ho già detto che è normale avere paura, che anche io ne ho e anche tanta, ma tu sembri non capirlo. Quando smetterai di scappare? Di scappare da me?»
Era arrendevolezza, quella nella sua voce? Stanchezza?
Aveva ragione, lo sapevo bene, eppure era più facile a dirsi che a farsi: se fossi riuscito a dimostrarle i miei sentimenti, avrebbe capito che l’amavo così tanto da esserne paralizzato e forse anche che ogni mia azione dipendeva da lei. Persino il mio allontanarmi era lo specchio del mio tentativo di darle il meglio.
«Mi dispiace, Vicki – mormorai, mettendo da parte quel fastidioso orgoglio e avvicinandomi impercettibilmente a lei. Le sue labbra continuavano a tentarmi e non sapevo fino a che punto avrei resistito. – Per tutto» aggiunsi, pensando che sarebbe stato troppo lungo elencare tutti i miei sbagli uno alla volta. Erano banali e scontate, ma quali altre parole avrei potuto utilizzare?
Lei chiuse gli occhi per qualche istante e mi posò una mano sul petto, delicatamente. «E a me dispiace di non averti capito fino in fondo, di essermi lasciata influenzare da Eleanor quando avrei dovuto soffermarmi un po' di più su quello che io e te abbiamo costruito. – Fece una pausa ed io contai i secondi. - Mi dispiace… Di averti fatto credere di non essere all’altezza dei tuoi sforzi. Ma non basta» disse lentamente, provocando un’anomalia nel ritmo del mio cuore. Cosa intendeva?
«Tu mi hai mentito e mi hai urlato contro di esserti… scopato la tua ex ragazza, solo perché eri ferito e arrabbiato. L’hai fatto di proposito, per farmi del male e magari farmi sentire esattamente come te, e, come se non bastasse, per quattro giorni sei scomparso. Non-»
«Avevo bisogno di riflettere – la interruppi, cercando di giustificarmi e di farle capire tutto ciò che doveva. Il fatto che si ostinasse a ripetere le esatte parole che io le avevo urlato contro a casa mia era un segno di quanto ne fosse rimasta colpita. – Ero stanco di provare a dimostrare qualcosa a te e a me stesso, senza ottenere dei risultati. Ero stanco di non essere mai abbastanza e di non aver ottenuto la tua piena fiducia. Avevo solo bisogno di pensare, e sì, anche di sbollire la rabbia, perché era inconcepibile che per te fosse così facile credere ad un mio tradimento. E stamattina… Vicki, ho mentito solo perché non voglio che la nostra storia diventi il titolo in prima pagina di una stupida rivista di gossip, ma questo non significa niente. Mi serviva del tempo p-»
«E cosa è cambiato da allora? Il fatto che io sia sparita per un giorno interno? Non l’avresti nemmeno saputo se Stephanie non avesse chiesto a qualcuno dove fossi, perché ci scommetto che è stata lei ad avvertirti. Quindi ora cosa è cambiato? Non sei più stanco o arrabbiato? Se io oggi fossi tornata a casa prima, per quanto ancora tu saresti rimasto lontano, lasciandomi credere di avermi tradita con Eleanor?»
Fece una pausa, respirando lentamente.
«Cosa stai cercando dire? Non vuoi… Mi stai lasciando?» domandai, spiazzato da quell’eventualità che temevo più di qualsiasi altra. Il suo discorso sembrava terribilmente negativo.
Vicki corrugò leggermente la fronte. «No, io… No, non ti sto lasciando – rispose, tranquillizzandomi. – Ma ho bisogno di stare lontana da tutta questa storia e da te, almeno per un po’. Per schiarirmi le idee.»
«Vicki, per favore-»
«Louis, sono io a chiedertelo per favore. Fino a pochi minuti fa ero convinta che il mio ragazzo mi avesse tradita e che di me gliene importasse così poco da non sforzarsi nemmeno di venirmi a parlare, né per chiedermi scusa, né per infierire un po’ di più. E credimi, avrei accettato anche quello. Adesso, invece, ho scoperto che no, non mi ha tradita, ma mi ha mentito di proposito solo per farmi soffrire come lui stava facendo, senza preoccuparsi di dirmi che alla fine non era vero. Quindi no, non insistere. Per favore.»
Sbattei le palpebre più volte, incapace di rielaborare a pieno il tutto. Aveva ragione ed io dovevo accettarlo, ma l’idea di starle lontano mi torturava. Sì, io stesso per tutto quel tempo mi ero tenuto a distanza, ma era stata colpa dell’orgoglio, della delusione e del rancore, della consapevolezza di aver di nuovo sbagliato, per l’ennesima volta: in quel momento, invece, avevo paura che Vicki potesse arrivare una conclusione definitiva.
Combattuto  tra l’istinto che mi implorava di convincerla e la ragione che invece mi spingeva a rispettare lei e le sue decisioni, nemmeno tanto assurde, rimasi in silenzio. Le labbra socchiuse e la fronte corrugata.
Feci un passo indietro e tornai a respirare l’aria che la vicinanza a Vicki mi rubava.
«Devo chiamare Stephanie, così può darmi un passaggio. Tornerò domani a prendere la mia macchina» sussurrò, voltandosi per prendere il telefono dall’abitacolo della sua auto e – se non avevo le allucinazioni – per nascondere gli occhi che erano di nuovo lucidi.
«Ti riaccompagno io» le assicurai, osservandola in ogni suoi più piccolo movimento.
«No, non fa niente.»
«Vicki, posa quel telefono» le ordinai, irritato. Il pensiero di doverle stare lontano mi innervosiva e quelli erano i risultati. Lei fissò lo sguardo su di me e sembrò ammonirmi, poi avviò la chiamata e parlò con Stephanie.
«Sta arrivando» mi informò subito dopo, riponendo il vecchio Nokia sul sedile.
Prima ancora che potesse voltarsi, le afferrai un polso e la tirai a me, stringendola finalmente tra le mie braccia. Sentii il suo corpo adattarsi al mio dopo qualche istante e percepii la sua sorpresa, sostituita subito dopo da un senso di familiarità che ormai ci apparteneva: con la guancia appoggiata alla sua testa, premuta contro il mio petto, chiusi gli occhi e respirai il suo profumo. Solo quando le sue mani si aggrapparono alla stoffa della mia maglia in segno di resa, potei sentirmi davvero sollevato. Avevo così bisogno di quel contatto e, semplicemente, non avevo potuto rimandare oltre.
«Mi sei mancata in questi quattro giorni – sussurrai tra i suoi capelli, cercando con tutto me stesso di parlare con la sincerità che mi era concessa. – Non devi pensare il contrario. Mi manchi anche ora, mentre sei qui, e ti chiedo scusa. Di nuovo».
E ti amo, ma questo non lo dico perché ti amo troppo e perché non è il momento giusto.
 
Passarono quindici minuti circa, prima dell’arrivo di Stephanie. Quindici minuti di assoluto silenzio: Vicki seduta al posto del guidatore, con lo sportello aperto e lo sguardo basso, ed io seduto a terra, con la schiena appoggiata allo sportello dei sedili posteriori. Avrei voluto dirle così tante cose, che alla fine non ero riuscito a pronunciarne nemmeno una.
In quel momento, Vicki si stava avvicinando all’auto della sua amica, che continuava a lanciarmi sguardi minacciosi senza troppi problemi, ed io la stavo seguendo non solo con gli occhi ma anche fisicamente.
Appoggiai una mano alla carrozzeria della macchina, sporgendomi nell’abitacolo mentre Vicki abbassava il finestrino e si allacciava la cintura. Diedi un’occhiata a Stephanie, che con la sua presenza mi metteva leggermente a disagio, poi cercai quegli occhi che conoscevo così bene e che stavano cercando me allo stesso modo.
«Me l’hai promesso – sussurrai, avvicinandomi al suo viso per rendere quelle parole un po’ più private. – Resta con me» aggiunsi, con il cuore che si dimenava nella cassa toracica per implorarla.
Vicki si limitò ad increspare le labbra come se avesse voluto dire qualcosa, ma non rispose. Deglutì ed inspirò profondamente, prima di posare un bacio prolungato e leggero sulla mia guancia, al quale io chiusi gli occhi.
Non sapevo se prendere quel gesto come una promessa o come un qualcosa di molto meno piacevole, ma non protestai e la lasciai andare.
Mentre la loro auto si allontanava lungo la strada, mi chiesi se sarei stato capace di darle il tempo e lo spazio di cui Vicki necessitava: la risposta, per quanto cercassi di cambiarla, era un categorico no. Avevamo troppe cose di cui parlare, problemi dei quali discutere e verità da svelare: era semplicemente impossibile che io la lasciassi sola senza prima averle detto tutto, o almeno averci provato. Senza contare che ero sempre stato un po’ egoista: dovevo semplicemente ammettere che non volevo passare un altro giorno lontano da lei.
 

 

 
ANGOLO AUTRICE
 
Buoooooooooooooooooooooooooongiorno e scusate per il ritardo!
Allora: da dove cominciare? hahahaha Cavolo, questo capitolo è stato un parto!!!
Premetto che l’ho scritto tutto ieri, di getto, quindi non sono stata a modificarlo più di tanto:
è molto lungo, ma spero di non avervi annoiate! Non potevo tagliare delle parti per ovvi motivi!
Scrivere di questo Louis è un’impresa, non ne avete idea hahah E devo ammettere che
ogni tanto mi veniva voglia di cambiare POV e parlare dal punto di vista di Vicki, perché
mi sembrava di averla lasciata “da sola” a confrontarsi con Louis (queste sono mie pippe mentali…).
Ma comunque: piccolo appunto su Stephanie e Brian. Finalmente Steph ha preso in mano
la situazione e ha deciso di fare una piccola “pazzia” (: Lascio a voi i commenti!!
Quella parte in realtà serve anche per introdurre l’intervista radiofononica - ovvio – (spero
sia venuta abbastanza bene (?), ho cercato di dipingere un Louis un po’ scherzoso e sassy (????))
e per far notare quanto Vicki faccia ruotare ogni suo pensiero e ogni cosa che la circonda intorno a Louis!
Poi, poi, poi: il tanto atteso POV LOUIS!!!!!!!!!!!! Io l’ho sempre detto che è complicato,
giusto per non dire complessato ahahaha Spero di avervi svelato quanti ragionamenti,
paure, attenzioni e problemi si celano dietro ogni parola di Louis, dietro ogni minuto che passa con Vicki.
E anche la sua impulsività: non so se ci sia riuscita, ma ho provato a dimostrare come la sua testa
dica una cosa e la sua bocca vada per tutt’altra strada ogni tanto, guidata dalle emozioni!
Facciamo il punto della situazione: Vicki pensa che Louis l’abbia tradita, ovviamente, ed è ancora
più incazzata per il fatto che per quattro giorni lui non si sia fatto vivo e che riesca a mentire
spudoratamente in un’intervista mentre lei passa le giornate a deprimersi.
Louis, invece, non è andato a letto con El (sono felice che la maggior parte di voi l’abbia capito già
dallo scorso capitolo jdsk), ma l’ha detto solo perché era come se dovesse essere così:
Vicki non aspettava altro e lui l’ha accontentata, anche perché era molto arrabbiato con lei che
non si fidava e con se stesso che ancora una volta aveva fallito. Ah, aveva sentito il “credo di amarti”,
e questo ha peggiorato un po’ tutto: il suo ragionamento è stato “a prescindere dai miei sentimenti,
voglio che lei stia bene: ora che so che i suoi, di sentimenti, sono ancora più forti, sono fottuto,
perché vuol dire che ogni mio sbaglio sarà amplificato mille volte. Faccio meglio a tenere
un po’ le distanze”! Ripeto, è complicato hahahah
E i quattro giorni di silenzio sono dovuti un po’ alla rabbia, un po’ al senso di colpa, un po’
al suo darsi del coglione da solo e magari dare della cogliona anche a lei (??).
Fatto sta che questi due vivono la stessa storia ma da prospettive molto diverse ahhahaa
Ecco, vorrei spendere qualche parola a favore di Louis: è un deficiente, questo si sapeva già, orgoglioso
e chi più ne ha più ne metta, ma è anche molto fragile. Immaginate una persona come lui
che continua a provarci, che continua a fare di tutto per rendere felice Vicki anche se ha paura
di non riuscirci e anche se, questa stessa paura, lo porta inevitabilmente a ferirla (un cane che si morde
la coda!). E immaginate come debba sentirsi nel momento in cui si rende conto di non aver fatto
abbastanza: su questo ha un po’ ragione, insomma, per quanti sbagli abbia fatto c’è anche da dire
che si è impegnato a modo suo. Vicki avrebbe dovuto approcciarsi alla questione in maniera diversa,
nonostante tutto: anche lei, però, ha le sue paure… Ma oddio, sto parlando davvero troppo ahahahahha
In sintesi: Vicki è comunque ferita dal suo comportamento e decide di prendersi del tempo per sé.
Cosa ne pensate di tutto questo? È un casino, vero??? D:
Spero davvero che mi facciate sapere cosa ne pensate, perché in fondo è un capitolo abbastanza
importante! (ah, mi sono dimenticata una cosa: anche lui la ama – ma dddddai? hahah – e secondo
voi ha fatto bene a non dirglielo? Vicki se lo aspettava?)
 
Detto questo, grazie infinite per tutto, davvero!! Non so più come ringraziarvi :)))))
Mancano pochissimi capitoli alla fine di questa storia e io non posso crederci DDD:
Un bacione,
Vero.
 
Ask - Facebook - Twitter

 
  
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 31
*** To tell or not to tell ***




To tell or not to tell

Capitolo 30


 
Vicki.
 
Quando il giovane cameriere fin troppo elegante e fin troppo silenzioso del “Glance’s” si congedò con un freddo inchino, accanto al tavolo prenotato a nome di Malik, io corrugai la fronte e abbozzai un sorriso stranito e anche sollevato. Subito dopo, spostai lo sguardo su Zayn, che intanto si era alzato in piedi con un largo sorriso sul volto, mostrando la sua felpa di un verdone scuro che spezzava con i soliti pantaloni neri e gli scarponi dello stesso colore.
Mi era impossibile trattenere la felicità nel vederlo, dopo così tanti giorni: mi era mancato come non pensavo sarebbe stato possibile ed era buffo pensare a quanto io avessi bisogno di passare del tempo con lui, di farlo ridere per sentirmi bene e di parlare come solo noi riuscivamo a fare.
«Zayn!» esclamai impaziente, ignorando gli sguardi indispettiti degli altri clienti che, come noi, erano a pranzo in quel rinomato ristorante. Un’auto nera ed eccessivamente lussuosa era passata a prendermi a casa, quando avevo chiesto a Zayn di vederci. La destinazione mi era stata svelata dall’autista, ma per me non era affatto fondamentale, dato che l’importante era rivedere Zayn e scaricare un po’ della tensione che continuava a torturarmi le spalle.
«Hey» mi salutò di rimando, mentre io mi lanciavo letteralmente verso di lui nel tentativo di abbracciarlo, cosa che mi permise di fare allargando le braccia magre e sussurrando tra i miei capelli. Il suo profumo era sempre lo stesso, così come l’effetto rilassante che aveva su di me.
Mi godetti per qualche secondo quel contatto, dandomi della stupida per averlo rifuggito così a lungo, poi mi costrinsi ad allontanarmi, per non dare spettacolo nonostante fossimo in un tavolo più appartato. Con ancora un sorriso sulle labbra, mi tolsi la giacca e mi sistemai il golfino color crema prima di prendere posto sulla graziosa sedia in ferro grigio topo: Zayn, davanti a me, mi guardava con occhi quasi arresi e soddisfatti.
«Come stai?» mi chiese subito, appoggiando i gomiti sulla tovaglia cremisi e passandosi la lingua sulle labbra.
«Mi dispiace – dissi invece io, ignorando deliberatamente la sua domanda. Era di primaria importanza per me scusarmi per il mio comportamento e dargli delle spiegazioni. Poi sarebbe venuto tutto il resto. – Mi dispiace così tanto essere sparita in quel modo, sul serio».
«Tranquilla, n-»
«La verità è che, dopo tutto quel casino con Louis, avevo bisogno di allontanarmi da lui e da tutto quello che lo riguardava. Te compreso. Dovevo prendere aria e in un certo senso tornare alla vita di prima, senza gli One Direction e tutto il resto. Io…»
«Vicki, respira» mi interruppe, abbozzando una risata rassicurante. Rilassai le spalle e sorrisi, mordendomi le labbra e scuotendo leggermente la testa. «Non fa niente, davvero: l’avevo immaginato» aggiunse.
«Sicuro? Sono stata un po’ impulsiva a comportarmi così, e ammetto di essermi sentita in colpa» confessai, distogliendo per un attimo lo sguardo. Il rapporto tra me e Zayn era diverso da tutte le altre mie amicizie, sia per intensità sia per trascorsi: ciò che ci aveva legati era inusuale e allo stesso troppo d’impatto per poter essere accantonato in quel modo per una mia debolezza.
«Ok, probabilmente mi sarebbe piaciuto esserti d’aiuto – confermò, giocherellando con il fondo di un bicchiere, a bassa voce. – Ma ora sei qui e mi hai dato le tue motivazioni».
«Mi perdoni?» chiesi, con un’espressione supplichevole sul volto. Ero felice che Zayn non fosse arrabbiato, anche se effettivamente ne avrebbe avuto il diritto.
Lui alzò gli occhi al cielo e scosse la testa, arreso. «Perché non ordini qualcosa, invece di fare domande stupide?» rispose, prendendo in mano il menù con indifferenza e facendomi sorridere come una bambina alla quale viene comprato il suo giocattolo preferito.
Non ribattei e diedi un’occhiata a quella infinita lista di piatti prelibati e bibite che per la maggior parte non avevo mai sentito nominare. Ovviamente non tralasciai i prezzi.
«Pago io» esclamò poi Zayn, probabilmente dopo aver notato la mia espressione affranta per le quattro sterline per un semplice caffè. Tossicchiai e mormorai con “grazie” con il labiale.
 
«Fine» conclusi, con un sospiro leggermente impacciato e le mani che continuavano a stringersi nervosamente sulle mie gambe. La sala da pranzo si era leggermente svuotata, dopo circa un’ora, e tutto era molto più silenzioso, se non si teneva conto del mio racconto concitato e irrefrenabile, ricco di esclamazioni, respiri profondi, labbra morse e parole veloci perché più dolorose di altre.
Zayn strabuzzò gli occhi e inclinò il capo di lato, alzando un sopracciglio. «Wow - mormorò, schiarendosi la voce subito dopo e sistemandosi meglio sulla sedia. – Sapevo a grandi linee quello che era successo, ma la tua versione è certamente più dettagliata di quella di Louis. Più… assurda.»
Sì, in effetti era proprio quello l’aggettivo giusto: Zayn aveva insistito molto – anche se non ero certo da convincere – affinché gli raccontassi meglio cosa era successo tra me e Louis, cosa era successo a me da sconvolgermi in quel modo. Come previsto, Louis aveva omesso qualche dettaglio, mosso dal suo solito orgoglio e dalla sua caparbia riservatezza, ma non gliene facevo una colpa. Mi sentivo leggermente più leggera, dopo aver riversato fuori di me quelle miriadi di parole che mi vorticavano nel cervello, e forse era anche merito dell’ottimo ascoltatore, che, con la sua solita espressione composta e i suoi silenzi innati e certe volte un po’ studiati, mi aveva permesso di parlare liberamente.
«Non dirlo a me» commentai, abbassando lo sguardo e la voce.
«Ed ora ti sta lasciando lo spazio che hai chiesto?» domandò poco dopo, quasi in modo esitante, come se temesse una risposta negativa. Evidentemente anche lui conosceva l’impulsività del suo amico.
Alzai subito gli occhi su di lui, mentre il mio cuore si riscuoteva a quelle parole: erano passati tre giorni e di Louis non avevo ricevuto alcuna notizia, cosa della quale non sapevo se essere stupita o sollevata. Io avevo bisogno di vederlo, era ormai una necessità ben connaturata e solida dentro di me, indiscutibile quanto i sentimenti che mi legavano a lui e quanto le occhiaie che avevo dovuto coprire con il correttore per venire a pranzo con Zayn: eppure, allo stesso tempo, sapevo che non dovevo essere impulsiva, che non dovevo lasciarmi guidare dalle emozioni come sempre, perché i problemi tra di noi non potevano passare inosservati. Proprio per questo, avevo impedito a me stessa di avviare le innumerevoli chiamate che ero stata tentata di fare, ostinandomi a rifugiarmi nei pensieri e nella ricerca di una soluzione. L’unica mia speranza era che anche Louis sentisse la mia mancanza.
«Hmhm» annuii, senza aggiungere altro.
Zayn, astuto e un po’ manipolatore, non rispose, limitandosi a guardarmi insistentemente. Questo, ovviamente, scatenò la reazione sperata in me, che mi costrinse a dire tutto ciò che il mio cuore cercava di nascondere per non farsi dare del pazzo per l’ennesima volta.
«È che… - sbottai improvvisamente, agitandomi sulla sedia e mordendomi un labbro come per impedirmi di continuare. Notai l’espressione soddisfatta di Zayn, ma non glielo feci presente. – Sembrerei tanto stupida se ti dicessi che non voglio che continui a darmi spazio? Voglio dire, sì, deve darmene, ovviamente, ma non voglio, capisci? Dio mio, certo che sembro una stupida» borbottai, in un fiume di parole che riflettevano tutta la mia frustrazione per quella sensazione logorante. Appoggiai i gomiti sul tavolo e incastrai entrambe le mani tra i miei capelli, ai lati del mio viso.
Con un sospiro arreso, aspettai una sua risposta.
«Vicki-»
«È perché mi manca, ecco perché – lo interruppi, come se fossi in un monologo. – E mi sento tanto… patetica, da vergognarmene. Non riesco ad essere indipendente o almeno non così dipendente da Louis, quando invece ho l’impressione che lui sia più bravo di me in questo. In fondo è proprio questo il problema, no? Lui riesce a dare la priorità ad altro rispetto a me, come al suo stupido orgoglio, invece io sono bloccata in questa mia ingenuità da ragazzina alle prime armi che mi impedisce di avere uno straccio di spirito di sopravvivenza o di dignità, quando si tratta di Louis.»
L’avevo fatto di nuovo: avevo di nuovo blaterato, da sola, senza che Zayn dicesse effettivamente qualcosa. Il fatto era che mi sentivo sull’orlo di scoppiare: Stephanie era partita ed io non sapevo più come gestire tutte quelle sensazioni, tutto quell’amore che il solo pensiero di Louis, delle sue mani o della sua voce mi faceva esplodere dentro.
«Patetica, o semplicemente innamorata» precisò lui, senza sprecarsi in troppe parole, come spesso succedeva.
«Non c’è un modo per essere innamorata senza per forza ridursi in questo stato?» ribattei, anche se senza speranze. Possibile che non ci fossero altre possibilità? Che amare Louis dovesse essere inevitabilmente qualcosa di così totalizzante e distruttivo? Eravamo destinati a commettere sempre gli stessi errori? E se le cose stavano così, avremmo comunque imparato a convivere con tutti i nostri sbagli o saremmo arrivati ad un punto di rottura? Il solo pensiero di quella eventualità mi raggelava il sangue nelle vene.
«Credo sia inevitabile – sospirò lui, appoggiando gli avambracci sul tavolo e sporgendosi leggermente in avanti. – Però pensaci: non credi che anche Louis si senta terribilmente patetico? Lui, con tutto quell’orgoglio, messo in trappola da una ragazza che ha il potere di destabilizzarlo.»
Mi fece sorridere l’idea di tenere in scacco una persona come Louis, nonostante fosse molto più vero il contrario. «Se si sentisse un po’ meno patetico, allora, forse riuscirebbe a non fare certe stupidaggini» affermai a bassa voce. Era un cane che si mordeva la coda: più il suo orgoglio veniva intaccato da…
«Dovrebbe essere meno innamorato, per riuscirci» esclamò Zayn, interrompendo i miei pensieri e facendomi trattenere il respiro. Louis innamorato? Non me l’aveva detto, nemmeno quando aveva ammesso di avermi sentito confessarglielo, né c’era un modo per capire se provasse davvero amore o qualcosa di leggermente meno intenso. Mi amava?
«Credi che… Credi che lo sia?» chiesi, quasi balbettando. Desideravo con tutta me stessa che fosse così: la sola idea mi mandava in pappa il cervello e forse anche tutti gli altri organi del mio corpo. Eppure con Louis non si poteva mai essere sicuri, perché troppo spesso le sue azioni avevano contraddetto i suoi reali pensieri, quindi non potevo che aggrapparmi a delle ipotesi. E se davvero mi amava, com’era possibile che fosse in grado di ferirmi di proposito, per non essere l’unico a soffrire e per fare ammenda al suo orgoglio?
«Tu no?» domandò Zayn di rimando, prendendo un sorso d’acqua ma senza staccare lo sguardo dal mio.
Sì. No. O meglio, forse?
Sospirai a fondo e mi passai una mano tra i capelli, evitando di rispondere a quella domanda. A differenza delle aspettative, parlare di Louis mi era facile fino ad un certo punto: dopo un po’, era inevitabile che i miei pensieri iniziassero a rendermi la vita impossibile, che i ricordi e tutti gli sbagli commessi tornassero a soffocarmi, ed io sapevo di dovermi fermare per riprendere aria.
«Ora basta parlare di me – dissi infatti, scuotendo la testa come a voler fuggire dai miei stessi pensieri. – Tu come stai?» chiesi, sinceramente interessata.
Zayn sorrise abbassando lo sguardo, e per qualche secondo si limitò a percorrere con le dita le cuciture della tovaglia. Sembrava stranamente sereno, in quel momento, come se fosse in procinto di darmi una buona notizia: non volevo illudermi, comunque, dati i continui alti e bassi che ormai caratterizzavano la sua vita. C’era la possibilità che la sua fosse solo ironia o assenza di speranza.
Quando cominciò a parlare, non alzò gli occhi su di me ed io ebbi l’occasione di osservare attentamente le sue espressioni, nei minimi particolari. «Un mese dopo la morte di Kathleen, sai cosa mi ha detto Harry? – mi domandò, senza però aspettarsi una vera risposta. Il fatto che pronunciare quel nome non avesse provocato una smorfia di dolore sul suo volto mi rassicurò. – Mi ha paragonato ad una di quelle persone che tentano di superare i record di apnea, dicendo che, come loro devono imparare a stare sott’acqua dove non c’è l’ossigeno, così io dovevo imparare a vivere senza di lei.»
Rispettai la sua pausa, approfittandone per ragionare su quel consiglio: Harry in realtà avrebbe potuto scegliere un paragone migliore dato che, per quanto quelle persone possano migliorare, è semplicemente impossibile vivere senza ossigeno.
Zayn si inumidì le labbra e tornò ad appoggiarsi allo schienale della sedia, con gli occhi che finalmente incontravano i miei. «All’inizio ho pensato che fosse una stronzata, uno dei soliti discorsi senza senso di Harry, perché nessuno può vivere senza ossigeno, quindi era un po’ demoralizzante. – Un sorriso accennato gli illuminò il viso, come se si sentisse soddisfatto. Subito dopo tornò serio. – Ci credi che solo qualche giorno fa ho capito cosa volesse dire?»
Alzai le sopracciglia per lo stupore e la curiosità, aspettando che mi desse una spiegazione esaustiva, che non tardò ad arrivare. «È vero, non posso vivere senza Kathleen, nel senso che non posso negare che sia ancora con me, in un modo o nell’altro. Quindi anche io devo andare in apnea, qui senza di lei: devo riuscire a vivere mentre mi manca l’aria, mentre mi manca lei. E sarà sempre più facile, ma non sarà mai qualcosa di definitivo. Arriverà sempre un momento in cui l’apnea finirà ed io dovrò di nuovo avere un po’ di Kathleen per poter andare avanti. – Smise di parlare ed io lo osservai con il cuore in mano e gli occhi lucidi. – Harry voleva semplicemente dire che non devo cercare di cancellarla dalla mia vita, perché sarebbe impossibile, ma che devo solo imparare a starle lontano, accettando gli alti e bassi che sono inevitabili» concluse, stringendosi nelle spalle, come se avesse appena spiegato le condizioni metereologiche, come se quelle parole non fossero strazianti e allo stesso tempo ricche di un amore che non pensavo potesse esistere.
Mi sopraffaceva il pensiero di quanto amore Zayn potesse contenere e sopportare, di come fosse riuscito a fare di Kathleen la sua vita – letteralmente – nonostante la malattia e l’assenza di un futuro, di come fosse ancora in piedi, a combattere.
«Fino ad ora ho sbagliato tutto – aggiunse, senza traccia di rancore verso se stesso, quanto di consapevolezza e spirito di iniziativa. – Ma sono pronto a ricominciare».
«E ce la farai - precisai. – Ne sono sicura.»
Ero sinceramente felice dei progressi, se quello era il termine giusto, compiuti da Zayn: se ripensavo al giorno in cui l’avevo conosciuto, mi veniva la pelle d’oca nel contare le differenze che ormai non gli appartenevano più, nell’immergermi di nuovo in quel dolore tangibile e asfissiante anche per chi gli stava intorno. Non credevo di avere grandi meriti, ma ero comunque soddisfatta di aver avuto un ruolo in tutto ciò, grata di aver potuto conoscere una persona come lui e – indirettamente – una persona come Kathleen.
«Non sai come ci si senta a sentirtelo dire» mormorò, con lo sguardo riconoscente e le labbra inclinate all’insù.
E tu non sai come ci si senta a vederti finalmente sorridere.
 
Quando scesi dalla macchina – Zayn aveva insistito affinché l’autista mi riaccompagnasse a casa, dato che lui doveva vedersi con Abbie e non poteva farlo da sé – non feci nemmeno un altro passo. Avevo lo sguardo fisso davanti a me, sull’ultima persona che pensavo avrei incontrato quel giorno.
Appoggiato al cancelletto di casa, Louis teneva le braccia incrociate e il viso rivolto verso di me, con le labbra socchiuse e i capelli più in ordine del solito. La maglietta nera dei Ramones coperta dal solito giubbotto di jeans e i pantaloni scuri che stranamente gli coprivano anche le caviglie tatuate.
Da quanto tempo mi stava aspettando?
Possibile che solo a vederlo sentissi il corpo paralizzarsi e poi fremere silenziosamente? Possibile che mi venisse da piangere solo per quant’era bello e per quanto l’amavo?
Con il respiro bloccato in gola e mille domande nella testa, mi mossi impercettibilmente, solo per poi arrestarmi di nuovo: dov’era lo spazio che gli avevo chiesto? Non ero ancora pronta per confrontarmi con lui, per quanto lo volessi e per quanto ne avessi bisogno. Ero ancora troppo debole per poter sopportare quella dannata sfumatura dei suoi occhi e le mie mani tremanti.
Louis, di rimando, fece un passo verso di me, che quasi mi fece indietreggiare. «Ciao» disse soltanto, a bassa voce e con le iridi che continuavano a passare in rassegna ogni particolare del mio viso.
Deglutii la voglia di sfiorargli il volto e le spalle, chiudendo le mani a pugno. «Ciao» risposi, schiarendomi la voce. Avevo detto a Zayn che avrei voluto sentirmi meno patetica, eppure non facevo nulla per raggiungere quell’obiettivo: dovevo smetterla e tirare fuori un po’ di determinazione, camminare verso il cancelletto di casa ed entrare, senza mostrarmi esitante. Così ci provai.
Sotto lo sguardo attento di Louis, che il mio cuore non riusciva di certo ad ignorare, presi il mazzo di chiavi dalla borsa e cercai di far scattare la serratura. L’avere Louis a nemmeno mezzo metro da me, però, non mi era affatto d’aiuto, perché le mani continuavano a tremare – per l’impazienza di toccare quella pelle che tanto amavano o per la voglia di scappare, o per entrambe – e quella dannata chiave sembrava odiare il buco in cui doveva entrare. Il silenzio che ci circondava, le infinite domande che continuavo a pormi e le mentali imprecazioni che continuavo a ripetere, mi rendevano difficile mantenere la calma.
Sobbalzai quando Louis posò le mani sui miei fianchi e il suo respiro caldo si infranse sul mio collo. Chiusi gli occhi e mi concentrai sul mio petto che si muoveva sin troppo velocemente, pur di non soffermarmi su quanto quel contatto mi stesse torturando, su quanto avessi bisogno di baciargli le labbra ed inspirare il suo profumo aspro. Incapace di muovermi, lasciai che le sue mani mi accarezzassero lentamente, fino ad arrivare alle mie, ancora sospese a mezz’aria di fronte al cancelletto.
Mi fu impossibile trattenere il brivido che mi percorse per intero nel momento in cui le sue dita ruvide sfiorarono la mia pelle, delicatamente, come se fosse una punizione. «Vicki» sussurrò vicino al mio orecchio, e quello fu davvero troppo.
Pur di fuggire e di mettermi in salvo, mi mossi velocemente e riuscii ad infilare la chiave nella serratura contro ogni previsione, mentre Louis – stupito – allentava la presa su di me. Camminai velocemente verso la porta di casa e feci la stessa cosa, con i capelli che a causa del debole vento si scontravano delicatamente contro le mie guance. Sapevo per certo che Louis mi avrebbe seguita, percepivo i suoi passi, e quando lo sentii chiudere la porta dietro di noi ne ebbi la conferma. Avrei dovuto cacciarlo via, ma come si faceva? Forse non ero pronta ad affrontarlo, ma a quanto pare ero ancora meno pronta a stargli lontana.
Continuai a tenermi impegnata, solo per non incontrare i suoi occhi ancora, sempre su di me. Mi tolsi la giacca e la lasciai sul divano, posai la borsa sull’attaccapanni e appoggiai le chiavi sul tavolino al centro del salotto. Mi aggiustai il maglioncino che tendeva sempre a salire un po’ e mi passai una mano tra i capelli, ignorai il mio nome di nuovo sussurrato e serrai la mascella, poi mi diressi verso la cucina senza un vero e proprio movente.
«Victoria» mi chiamò di nuovo, con un tono calmo ma autoritario, quello che usava quando voleva ottenere qualcosa e allo stesso tempo cercava di trattenersi. A quel punto chiusi gli occhi e mi fermai, inspirando a fondo come a racimolare anche un po’ di coraggio, e solo dopo qualche istante mi voltai.
Mi maledissi per averlo fatto, quando solo guardandolo negli occhi sentii di aver perso quella battaglia già in partenza. Louis strinse i pugni e si avvicinò a me, fino ad arrivarmi di fronte, fino a respirarmi sul viso, ma senza toccarmi. Avrei voluto scappare, invece mi limitai ad accogliere le sue labbra sulle mie, con tanta foga da sembrare frustrazione: Louis portò le mani dietro la mia schiena e mi attirò contro il suo petto senza che io potessi o volessi oppormi, mentre continuava a baciarmi senza nemmeno prendere fiato, mentre mi impediva di pensare lucidamente con il suo profumo e con quel cazzo di amore che provavo per lui.
Gemetti quando lo sentii stringere un po’ troppo forte i miei capelli in un suo pugno e il mio corpo contro il suo. «Non ce la facevo più – mormorò sulle mie labbra, mordendole subito dopo. – Come faccio a lasciarti spazio? Come…» Non finì la frase, perché, mentre io sentivo le gambe reggermi a malapena sotto i suoi attacchi, lui preferì parlare con i baci e con le carezze che tanto mi mancavano.
Ed io avevo così voglia di dirgli che nemmeno per me era facile, da non riuscire a pensare ad altro, eppure non potevo arrendermi così: ormai era lì e tanto valeva cogliere la palla al balzo. Avevamo bisogno di parlare, di chiarire tutto ciò che nella nostra storia rimaneva un punto interrogativo e di affrontare le nostre difficoltà: proprio per questo motivo usai tutta la forza di volontà che possedevo per spingere via Louis da me, con riluttanza e lentamente, ma lontano.
Notai la sfumatura confusa e passionale dei suoi occhi e cercai di ignorarla. «Aspetta» sussurrai.
«Cosa? – domandò lui, avvicinandosi ancora. – Cosa devo aspettare?»
Con le mani sul suo petto, mantenni le dovute – dolorose - distanze. «Non è così che risolveremo le cose – spiegai a bassa voce, sforzandomi di non rimanere incantata dalla linea della sua mascella. – Dobbiamo parlare».
«Per favore» insistette, sporgendosi per baciarmi di nuovo le labbra. Io indietreggiai ed ignorai la voglia di assecondarlo.
«Sono venuto qui e ho bisogno di… Di te, invece mi stai respingendo di nuovo. Quanto tempo ancora ti serve?» sbottò, dicendo addio ai tentativi di non farsi guidare dalle emozioni, come al solito.
«Non ti sto respingendo» dissi soltanto, senza nemmeno offendermi per quel comportamento istintivo che stavo imparando sempre di più a conoscere. Respingere Louis Tomlinson non rientrava assolutamente nelle mie capacità, purtroppo.
«Ah no? Vuoi parlare, parlare e parlare, ma possiamo farlo dopo» continuò, allungando una mano verso il mio collo. La voce che si addolciva e gli occhi che la tradivano: avevo la netta sensazione che Louis non volesse solo stare con me, ma anche evitare di calcare uno alla volta gli errori che aveva fatto e quelli che avevo commesso io. Scappare era più semplice, soprattutto per uno come lui: avevo l’impressione che fosse sull’orlo di sfogarsi, ma che preferisse trattenere tutto dentro di sé per evitare un altro litigio. Anche io avrei preferito poter risolvere le cose in un altro modo, ma purtroppo non sarebbe stato giusto né salutare, per noi.
«O possiamo farlo adesso» lo contraddissi, liberandomi dalla sua presa e superandolo, dirigendomi verso il divano. Avevo di nuovo dello spazio per respirare.
«E va bene! – esclamò, probabilmente alzando le braccia al cielo. Era nervoso. – Parliamo! Parliamo del fatto che dopo tutti i miei sforzi tu non ti fidi di me e ti aspetti che a me vada bene. Ma soprattutto parliamo del fatto che mi abbia rinfacciato senza un minimo di esitazione il mio rovinare sempre tutto, nonostante tutte le tue belle parole riguardo quanto sia giusto avere paura di sbagliare: o erano tutte stronzate?»
Spalancai gli occhi, osservandolo stringere i pugni mentre camminava lentamente verso di me: avevo indovinato e lui alla fine era esploso. Ricordavo quella frase, seguita allo schiaffo che per me era stato più esauriente di mille parole, e dentro di me sapevo che gli aveva fatto male. «Senza esitazione? Mi avevi appena detto di avermi tradito, perché avrei dovuto esitare?» ribattei, con l’agitazione a stringermi lo stomaco in una morsa.
«Perché mi ami! E-»
«Non osare nasconderti dietro i miei sentimenti! - lo interruppi, improvvisamente a disagio e indifesa. Mi sentivo terribilmente esposta, ora che lui sapeva cosa provassi nei suoi confronti, dato che io non potevo dire altrimenti. Avrei voluto chiederglielo, “tu mi ami”? – Mi avevi detto di avermi tradito!» ripetei, come per riportare il discorso sulla strada giusta.
«Invece tu hai creduto ad Eleanor senza problemi, mi hai fatto sentire un incapace, come se la mia parola non valesse niente per te!»
«E questo ti sembra un buon motivo per farmi del male di proposito, sapendo perfettamente quanto mi avresti ferito?»
«Quindi tu sei libera di ferirmi, ma io non posso fare lo stesso? Parli come se fossi completamente innocente, ma non è affatto così!»
«Non lo sei nemmeno tu! E almeno io non lo faccio con tutte le intenzioni, non ti mento solo per sentirmi meglio e sono capace di ammettere i miei sbagli!»
Louis non rispose, continuando a respirare velocemente, proprio come me. Eravamo tornati ad urlarci contro sempre le stesse cose, come se non fossimo capaci di fare altro, ma non era quello che volevo. Il nostro problema era il non riuscire ad assumerci a pieno le nostre responsabilità, sempre pronti a trovare delle scusanti e delle motivazioni dietro le quali nasconderci.
Sospirai e aspettai qualche istante, prima di riprendere. «Abbiamo sbagliato entrambi – dissi a bassa voce, guardando il pavimento ai miei piedi, anziché lui. – E continuiamo a farlo, a commettere sempre gli stessi errori. Sono stanca» ammisi flebilmente.
Solo a quel punto alzai lo sguardo su Louis: sapevo quanto le sue parole fossero da considerare solo fino ad un certo punto, perché mi aveva più volte dimostrato quanto potessero essere fuorvianti e impulsive, ma facevano comunque male ed io non volevo essere costretta a dover cercare di interpretarle al meglio, nella speranza di esserci riuscita. Louis mi guardava con la fronte corrugata e le iridi confuse, mentre probabilmente si chiedeva cosa significasse quell’ultima mia frase. Io feci un passo avanti e poi un altro ancora, così lentamente da farmi domandare se mi stessi davvero muovendo o no.
Quando gli fui abbastanza vicina, ero pronta – o quasi – a dirgli tutto, ogni più piccolo pensiero. Probabilmente solo in quel modo avrei potuto rendermi tanto indifesa e inoffensiva da permettergli di sentirsi al sicuro: inoltre, non avevo più intenzione di incolparlo, perché mi sarei limitata a parlare dei miei errori, nella speranza che questo potesse renderlo meno esposto e impaurito, meno propenso a scappare. Rinfacciargli i suoi sbagli non era l’approccio giusto e, se volevo ottenere dei cambiamenti nella nostra storia, dovevo essere pronta ad essere la prima ad attuarne. Non solo Louis doveva cambiare. «Hai ragione – ammisi, impregnando la mia voce di una determinazione alla quale mi aggrappavo disperatamente. – Quando Eleanor è venuta nel mio ufficio io sono stata impulsiva e le ho creduto, perché aveva colpito la mia paura più grande. Volevo che fosse il contrario, volevo riuscire a convincermi che non l’avresti mai fatto e che lei stava solo soffrendo, ma non ci riuscivo e, credimi, mi sentivo terribilmente in colpa. Così, quando sono venuta a casa tua, ho continuato ad insistere perché ero terrorizzata e perché questo mi aveva resa cieca, impedendomi di vedere quanto tu stessi cercando di farmi capire che davvero non mi avresti mai tradita. – Feci un pausa e osservai attentamente Louis, che per tutto il tempo era rimasto immobile ed in silenzio. Non mi interessava quante volte avrei dovuto ripetere le stesse cose, perché ero pronta a tutto pur di chiarire la situazione tra di noi. – E mi dispiace di averti detto che rovini sempre tutto, eppure non credo di aver sbagliato. Sapevo che ti avrebbe fatto male, ma non ho scelto di urlartelo contro per questo motivo: lo pensavo sul serio e non sono riuscita a tenerlo per me. Quello che voglio dire è che, se tu mi avessi tradita, io te l’avrei ripetuto altre mille volte, perché in quel caso avresti davvero rovinato tutto. In ogni caso, ti chiedo scusa se quelle parole ti hanno ferito.»
Louis stava respirando nervosamente, forse perché avrebbe voluto interrompere quel mio monologo almeno dieci volte, ma gli ero grata per non averlo fatto. Avrei avuto altre mille cose da dirgli, ma tutte prevedevano puntare il dito contro di lui e non era quello che volevo: doveva essere Louis a riconoscere i propri errori come io avevo appena fatto, ad ammetterli senza spostare la colpa su di me. Eravamo entrambi molto bravi a scaricare la responsabilità l’uno sull’altra, ma era evidente che non funzionava.
Lo vidi aprire la bocca e poi richiuderla, mentre il mio cuore sperava con tutto se stesso di sentire le parole che più desiderava, eppure il tempo passava e il silenzio si faceva sempre più assordante.
«Non hai niente da dirmi?» sussurrai, preoccupata. Pregavo affinché si sbloccasse, affinché mettesse da parte quel quintale di orgoglio e timori.
Louis serrò la mascella ed espirò bruscamente, continuando a tenere gli occhi nei miei. «Come avrei potuto tradirti? – cominciò lentamente, mentre io trattenevo un sorriso dovuto sia al fatto che avesse parlato al posto di scappare o urlare, sia per il significato di quella domanda. – È questo quello che non riesco a farti capire: io non voglio tradirti, non posso farlo. Sto provando in tutti i modi a dimostrarti qualcosa, a… Quando ho visto quanto poco ti fidassi di me, ho pensato che sarebbe stato così per sempre, che tutti i miei sforzi non erano serviti a nulla né sarebbe mai serviti a qualcosa: per questo motivo ti ho detto di esser stato con Eleanor, non solo per ferirti. Solo quando ho pronunciato quelle parole e ho visto la tua reazione ho capito… Ho capito di aver fatto una cazzata, di averti di nuovo fatto del male, ma non lo faccio di proposito: non è qualcosa che progetto, immagino sia più una difesa. Mi sentivo uno schifo mentre continuavi ad insinuare che ti avessi tradito, e quello mi è sembrato l’unico modo per proteggermi.»
La sua fragilità era lì di fronte a me, timida ed intimorita come sempre, ma c’era: dovevo solo accoglierla e farla sentire al sicuro, in modo che Louis si potesse sentire libero di lasciarla trasparire quando più ne aveva bisogno. Nel profondo sapevo che l’aver confessato quel finto tradimento non era stato un atto premeditato, quanto più istintivo e abitudinario, che si sarebbe scatenato anche se al mio posto ci fosse stato qualcun altro: eppure, era proprio questo il punto. Non potevamo continuare così.
Louis mosse una mano per arrivare alla mia, per accarezzarla con le dita e poi stringerla, fino a portarsela al viso: con il battito cardiaco in gola, lo assecondai e gli accarezzai una guancia, guardandolo mentre chiudeva gli occhi e tratteneva il respiro. La sua pelle sembrava bruciarmi, ma era anche ciò di più piacevole potessi desiderare in quel momento.
Avevo paura di parlare, paura di interrompere quel suo sfogo, quindi continuai a stare in silenzio, in ascolto. Si rivelò una buona scelta, quando Louis stesso riprese a parlare. «Io voglio solo farti stare bene – sussurrò, con una tale intensità da destabilizzarmi. La scarsa distanza tra di noi non aiutava ed io non potevo fare altro che rimanere in sua balìa e accarezzargli lo zigomo con il pollice. – Ma immagino di non essere bravo in questo.»
«Non è vero – lo corressi, avvicinandomi impercettibilmente a lui. – Non è vero» ripetei. Sarebbe stato eccessivo dirgli che sì, il più delle volte era in grado di trascinarmi con lui nel bel mezzo dell’inferno, ma che subito dopo era capace di farmi sentire la persona più felice e completa del mondo?
«Non sono bravo nemmeno ad ammettere i miei errori – continuò, inclinando leggermente il capo di lato per andare incontro alla mia mano, ancora sulla sua guancia sinistra. – Dimmi di cosa hai bisogno, Vicki. Dimmi dove sbaglio ed io cercherò di venirti incontro: non voglio più vederti piangere per me, è qualcosa… È insopportabile.»
Era disarmante la limpidezza dei suoi occhi e delle sue intenzioni in quel momento, e lo era ancora di più la sua capacità di cambiare completamente atteggiamento da un momento all’altro, pur rimanendo coerente con se stesso, come se le sue due facciate non potessero stare separate. Ora che mi aveva permesso di entrare nella sua debolezza, potevo spingermi oltre.
Mi inumidii le labbra e appoggiai l’altra mano sul suo petto, cercando il battito del suo cuore. «Vorrei... Vorrei che tu la smettessi di dare più importanza al tuo orgoglio, che pensassi a me prima di parlare a sproposito. A noi» confessai, notando la linea delle sue labbra indurirsi ma il suo braccio circondarmi la vita. «Vorrei che entrambi la smettessimo di urlarci contro e di incolparci a vicenda, quando succede qualcosa, ma che fossimo in grado di parlare di quello che non va» aggiunsi, con la voce sempre più bassa, mentre Louis mi spingeva sempre più vicino a sé. «Ed io ti prometto di riporre più fiducia in te, perché te la meriti» ammisi. Effettivamente tutti i suoi sforzi e tutti i suoi sacrifici, che agli occhi di alcune persone potevano sembrare banali ma che per lui erano vere e proprie imprese, non dovevano essere ignorati, ma incoraggiati ed elogiati: aveva fatto tutto per me, per quanti errori ci fossero stati sulla sua strada, e si meritava la mia riconoscenza, la mia fiducia. Non dovevo permettere alle mie paure più profonde di condizionarmi.
Non protestai, quando Louis mi sfiorò il naso con il suo, respirando sul mio volto, né quando le sue labbra si poggiarono sulle mie lentamente e quasi con esitazione. Non approfondì il bacio, nonostante io fremessi perché succedesse, e quella fu per me una promessa: i suoi occhi cristallini e finalmente così facili da interpretare, sembravano volermi confermare che ok, lui non era bravo con le parole e probabilmente non avrebbe espresso in quel modo le proprie responsabilità, ma che non era necessario, perché aveva capito e avrebbe fatto di tutto pur di rendermi felice. Non potevo pretendere che Louis cambiasse da un momento all’altro, che fosse uguale a me, anche perché non sarebbe più stata la persona che amavo: dovevo accettare i suoi limiti e imparare a fidarmi di ogni suoi gesto ed espressione, più che delle parole.
Con ancora i nostri visi a pochi millimetri di distanza, cercai di resistere oltre, almeno un minimo. «E tu? – chiesi a bassa voce, con la fronte appoggiata alla sua. – Tu cosa vorresti?» Mi sentivo sull’orlo di scoppiare per tutte le emozioni che sentivo, e sapevo che avessimo ancora moltissimo su cui lavorare, ma eravamo ad un buon punto di partenza.
Louis portò una mano sul mio collo e per qualche istante rimase in silenzio, studiandomi attentamente. «Vorrei solo sapere se mi ami veramente: questo mi basterà» sussurrò, provando in me un impercettibile sussulto ed un certo disagio. Ero pronta a dirglielo? E lui avrebbe ricambiato? Se non l’avesse fatto?
Prima di corrucciarmi con tutti quei dubbi, seguii il mio spericolato istinto. «Lo giuro» affermai.
Louis mi strinse tanto da farmi mancare il fiato e chiuse gli occhi mentre un sorriso gli illuminava il volto, come forse poche volte prima d’ora. Sorrisi anche io di rimando e lasciai che mi baciasse di nuovo le labbra, con una spensieratezza che mi impediva di smettere di sorridere.
«Vicki – mormorò sul mio collo. – Puoi dirmelo?» domandò, tornando a guardarmi negli occhi e facendomi vacillare.
Mi morsi l’interno della guancia e mi convinsi che tanto valeva accontentarlo, dato che quei sentimenti stavano scoppiando dentro di me e non sarei riuscita a trattenerli ancora a lungo. Al diavolo le conseguenze, avevo bisogno di dirgli la verità e forse lui aveva un bisogno analogo di sentirla. «Ti amo, Louis» dissi con la voce e il cuore tremolanti, con una mano tra i suoi capelli.
Lui continuò a guardarmi senza muovere un muscolo e senza aprire bocca, limitandosi a conservare quel sorriso bello come il sole sul suo volto e a tenermi stretta a lui come se non potesse lasciarmi andare. Io, invece, attendevo speranzosa e preoccupata qualsiasi sua reazione.
Lo vidi provare a dire qualcosa, ma poi il suo tentativo non portò a niente. Sbattei le palpebre e deglutii, sentendo l’imbarazzo cominciare ad aumentare, man mano che i secondi di silenzio si accumulavano: dopo quell’ultima mezz’ora i dubbi sui suoi sentimenti erano diminuiti, ma ce n’erano ancora. Non che pensassi che non tenesse a me, ma non potevo essere sicura che il suo fosse propriamente amore: probabilmente, però, gli era solo difficile confessarlo.
«Io…» cominciò all’improvviso, facendomi trattenere il fiato per l’emozione.
Niente.
«Io… - ripeté. – Ora devo andare» si congedò, baciandomi velocemente le labbra e allentando la presa su di me per allontanarsi e uscire il più in fretta possibile da casa.
Cos’era appena successo?
Rimasi immobile nel salotto, con il cuore a martellarmi nel petto e il cervello a fare gli straordinari per i troppi pensieri. Sentivo ancora il suo profumo su di me e la sua pelle contro la mia, ma lui era scomparso alla velocità della luce senza nemmeno che io avessi l’opportunità di fermarlo o chiedergli spiegazioni. Come avrei dovuto interpretare quel suo gesto?
Da buona illusa quale ero, continuavo a ripetermi che la sua fosse solo la solita paura mista ad un leggero imbarazzo che per un attimo gli aveva attraversato gli occhi. E probabilmente, come poche volte nella mia vita, non era nemmeno un’illusione.
Prima ancora che facessi un passo, il campanello di casa suonò ed io quasi mi spaventai. Andai ad aprire la porta e corrugai la fronte quando mi trovai Louis davanti, con i pugni stretti lungo i fianchi e lo sguardo nervoso ma sereno. Era impacciato.
Stavo per dire qualcosa, quando mi trovai di nuovo vittima di un suo bacio – l’ennesimo.
«Louis» dissi soltanto, appena divise le nostre labbra per sostenere il mio sguardo.
Di nuovo, aprì la bocca e la richiuse.
«Ci vediamo domani» esclamò fin troppo velocemente, rivolgendomi un sorriso che trasmetteva un disagio imbarazzato e forse anche qualche imprecazione.
E mentre io annuivo e lo guardavo allontanarsi lungo il vialetto di casa, sentivo sempre di più quell’illusione diventare una certezza.
 
 



ANGOLO AUTRICE

Buongioooooooooooooooooooooooooorno! Auguri a tutti, per tutte le feste ahhaha Come le avete passate?
Non ho molto tempo, quindi cercherò di essere breve (anche se non ci riesco mai)!
Piccola scena Zayn/Vicki, che non poteva assolutamente mancare: si erano allontanati per il semplice fatto
che Vicki aveva bisogno di staccare la spina, quindi si era un po' chiusa in se stessa, ma Zayn non se l'è presa!
Tra chiacchiere e confessioni, Zayn spiega il consiglio di Harry, quello che è riportato nell'introduzione della storia
e che è praticamente una specie di flashback, dato che risale ad un anno prima. Spero di essere
riuscita a spiegarlo al meglio (?), ma se avete qualche dubbio ditemelo pure :)
Preciso che Zayn ora non sta bene, sta meglio e ci sta lavorando!
Poi, figuriamoci se Louis avrebbe lasciato stare Vicki ahhaha Per sintetizzare, posso dire
che il loro fondamentale problema è di non riuscire a comunicare: quando succede qualcosa, al posto
di parlarne, covano rancori e preoccupazioni ,poi urlano e si incolpano a vicenda. Nessuno dei due è perfetto
ed entrambi hanno commesso i propri errori: Vicki, in questo capitolo, cerca di cambiare approccio,
perché ormai ha capito che incolpare Louis non porta a niente, se non a rabbia e urla.
Lui, d'altra parte, non può cambiare da un momento all'altro, quindi ho preferito non farlo sciogliere completamente,
tanto che chiede a lei di parlare al suo posto, di dirle cosa non va (?).
Insomma, entrambi hanno qualcosa su cui lavorare ed entrambi vogliono solo il meglio per l'altro,
anche se hanno modi diversi di dimostrarlo! Ovviamente ora non è tutto risolto, nel senso che
dovranno comunque lavorarci su ed impegnarsi, ma è già un inizio (:
Vicki gli dici il fatidico "ti amo", sotto sua richiesta, ma Louis non ricambia: a voi le ipotesi ahahah
Io non posso che sperare di aver descritto nel miglior modo possibile entrambi,
per rendervi più semplice l'interpretazione dei loro comportamenti! E spero anche che il capitolo vi sia piaciuto!
È quasi sicuro che dopo di questo ci sarà l'ultimo capitolo e poi l'epilogo: non preoccupatevi per gli altri personaggi,
perché ci sarà spazio anche per loro :)

Per favore, ditemi cosa ne pensate, perché con Louis io vado sempre in palla hahahah
E grazie infinite per tutto quello che fate per me!
Un bacione,
Vero.

 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 32
*** Make me stay ***




Capitolo 31

Make me stay

 

Vicki.
 
Rimasi ancora qualche istante ad occhi chiusi, mordendomi nervosamente l’interno della guancia che temevo potesse iniziare a sanguinare da un momento all’altro. Quella era la prova del fatto che avevo ragione, che non sarei riuscita a fare quel piccolo discorso di fronte a Louis, nonostante ne avessimo affrontati di peggiori: era più forte di me, mi imbarazzava e in qualche modo mi intimoriva. Forse perché si trattava di sentimenti allo stato puro, di quelli che avevo sempre sognato e che non volevo sapere di non poter ancora raggiungere.
Il giorno prima Louis se ne era andato lasciandomi a bocca aperta e con il cuore in attesa, promettendomi che ci saremmo visti l’indomani, anche se quella garanzia non mi aveva offerto consolazione. Io gli avevo confessato i miei più profondi sentimenti nei suoi confronti, ma lui non aveva ricambiato: avevo passato la notte sveglia a rimuginarci su – ovviamente – ed ero arrivata alla conclusione che dovevo smetterla di essere paranoica. Louis provava qualcosa di molto forte, che ero quasi sicura fosse amore: certo, non potevo giurarlo al posto suo, ma non potevo nemmeno metterlo in dubbio. Come si sarebbero spiegati, altrimenti, gli ultimi mesi? Il suo paralizzante terrore e quel modo di guardarmi che lo era forse ancora di più?
Più che altro, credevo avesse paura: conoscendolo, ero arrivata ad ipotizzare che esternare i suoi sentimenti li potesse rendere troppo reali e quindi spaventosi. Non sarebbe stata la prima volta, in cui si tirava indietro per non affrontare la realtà, ed io volevo che fosse l’ultima: volevo che capisse che con me poteva sentirsi al sicuro, qualsiasi cosa temesse, da una semplice frase ad un gigantesco disastro.
Ovviamente cercavo di mantenere i piedi per terra e di tenere in considerazione la possibilità che lui non mi amasse quanto io amavo lui, e che per questo non volesse dirlo.
Strinsi il mio vecchio Nokia tra le mani e sbuffai: presa da un irrefrenabile attacco di codardia, proprio come se fossi tornata ad essere una bambina timida alle prese con il mio primo fidanzatino, decisi di scrivergli un messaggio. Persino chiamarlo mi sembrava un’idea troppo azzardata.
 
Nuovo messaggio: ore 13.42
A: Louis
“Ok, tutto questo è imbarazzante, perché dovrei essere in grado di parlarti a voce, invece sono qui a scriverti uno stupido messaggio. Il fatto è che devo ripetertelo ancora una volta, anche se ormai penserai che sono noiosa almeno quanto un disco rotto: non devi avere paura. Voglio dire, io ti amo, adesso questo lo sai e di certo non cambierà: se tu provi lo stesso, non devi temere che possa rovinare qualcosa tra di noi, perché credo che ormai ci voglia ben altro. E se non provi lo stesso… Be’, va bene comunque: non devi temere di ferirmi, perché io lo accetterei e perché non posso di certo convincerti a ricambiare un sentimento tanto forte. Ed ora che l’ho detto, non so come finire questo messaggio, quindi… Ciao?”
 
Rilessi quelle parole almeno una decina di volte: nonostante le innumerevoli correzioni, i sospiri e l’indecisione, riuscivano comunque a far trasparire un certo disagio, un certo imbarazzo. Avrei voluto che così non fosse, ma ormai ero sicura che sarei potuta rimanere a correggerle ancora cento volte e il risultato sarebbe stato lo stesso. Proprio per questo, evitai di rimuginarci ancora su e premetti il tasto di invio.
Louis avrebbe avuto un piccolo incoraggiamento da parte mia al quale non poteva sottrarsi e dal quale, magari, non si sarebbe sentito in dovere di scappare. Speravo soltanto che sarebbe servito a qualcosa.
Sobbalzai e rischiai di far cadere il fermacarte dalla scrivania del mio ufficio, quando il telefono mi vibrò tra le mani, nemmeno due minuti più tardi.
 
Un nuovo messaggio: ore 13.43
Da: Louis
“Stasera vieni da me per le 9? Mangiamo insieme, quando finisco in studio”
 
Corrugai la fronte e inspirai fino a riempire completamente i miei polmoni.
Come diavolo avrei dovuto interpretare quella sua risposta? E perché diavolo il ragazzo che amavo doveva essere sempre così criptico?
Dopo tutte quelle parole, mi invitava semplicemente a cena? Insomma, lo sapeva o non lo sapeva quanto fossi paranoica? Si divertiva a tenermi sulle spine rimandando così a lungo un argomento tanto delicato?
Arrivai ad odiarlo.
 
 
Niall.
 
Avevo voglia di uscire all’aria aperta, di camminare per strada a testa alta e incurante dei passanti che mi avrebbero riconosciuto, o che avrebbero scritto su qualche sito internet persino quali calzini indossavo. Volevo avere il braccio di Rosie a sfiorare il mio e il suo sorriso illuminato dal sole, volevo che tutti la vedessero e capissero perché rimanere nell’anonimato fosse così stressante per me. Lei era da mostrare al mondo intero, ma non per vantarsene – non solo, almeno -, quanto più per dimostrare che esisteva per davvero.
Eppure non era possibile, non ancora. Ci vedevamo di nascosto e in posti lontani dalla folla, quasi come se fossimo due clandestini: entrambi eravamo d’accordo a non rischiare di rovinare tutto a causa del gossip e delle malelingue, o delle eccessive attenzioni che quella ancora precoce relazione tra di noi avrebbe attirato su di sé. E in fondo, nonostante io volessi iniziare a viverla nel modo più completo, dovevo anche proteggerla, perché sapevo che uscire allo scoperto non sarebbe stato semplice.
Proprio per questo, anche quel giorno avevamo deciso di rimanere in casa, la sua. Era un appartamento a quindici minuti dal centro di Londra, al terzo piano e arredato con mobili in legno scuro sommersi da cianfrusaglie, libri e videogames – videogames! –, che però dichiarava di non usare da un po’ di tempo.
Rosie non aveva esitato a mostrarmi tutti gli angoli di quelle quattro piccole stanze, adatte ad una ragazza di vent’anni che cerca di vivere e mantenersi da sola, anche i più disordinati. Io, d’altro canto, l’avevo seguita in silenzio, cercando di cogliere tutti i particolari che avrebbero potuto darmi qualche altro indizio su di lei: sapevo che praticava nuoto a livello agonistico, che non le piaceva la pasta e che era nata in Scozia, che lavorare nell’ufficio di un commercialista e che odiava Lady Gaga senza un motivo preciso, eppure volevo di più.
«È strano» esclamai, dopo la fine del film che avevamo fatto finta di guardare, dato che avevamo passato il tempo a parlare e a raccontare. Gli immancabili pop-corn erano finiti da un pezzo – e stranamente potevo dire che non fosse merito mio – e le sue gambe erano distese su di me, seduto sul divano con un braccio allungato sullo schienale piuttosto comodo. Rosie si era sdraiata, occupando i rimanenti due cuscini in stoffa beige del divano e appoggiando la testa sul bracciolo: teneva gli occhi socchiusi ma fissi su di me, in grado di farmi sentire al posto giusto, e i capelli lisci sciolti un po’ dappertutto, per quanto erano lunghi.
«Che cosa?» domandò, arricciando leggermente il naso cosparso di lentiggini. La sua naturalezza era disarmante, così come la sua spontaneità, che le permetteva di trattarmi come un amico di infanzia e allo stesso tempo provocarmi come non credevo fosse capace di fare.
«Questo – sospirai, guardandomi di nuovo intorno. – Stare qui a vedere un film, con te che mi hai fatto addormentare una coscia per come ti ci sei sdraiata sopra, e questa casa che è così… vissuta. Non ci ero più abituato» confessai, abbassando il tono di voce e anche gli occhi. Sembrava di essere tornato a quando gli One Direction non erano famosi, a quando Abbie non esisteva ancora, e sembrava che ci fosse sempre stata Rosie e solo lei.
Quando la sentii ritrarre la gambe da me per mettersi a sedere, tornai a guardarla: si passò la lingua sulle labbra e mi osservò limpidamente, portandosi i capelli sulla spalla destra. Il maglioncino color panna aveva risentito di quel movimento e la scollatura si era abbassata forse un po’ troppo, ma feci finta di niente.
«Niall?» esclamò, senza far trasparire alcuna emozione sul suo volto.
«Hm?»
«Perché non mi hai ancora baciata?» chiese, cogliendomi alla sprovvista. Per poco non mi strozzai con la mia stessa saliva, per quella domanda schietta e sincera. Già, perché non l’avevo ancora fatto? Perché quelle labbra non me le ero mai prese, se le desideravo così tanto? Se le conoscevo ormai a memoria e se non potevo fare a meno di studiarle in ogni dettaglio?
Cercai di non far emergere l’imbarazzo e «Tu perché non hai baciato me?», ribattei, alzando un sopracciglio.
Rosie si strinse nelle spalle e incrociò le gambe davanti a sé, con i jeans aderenti e chiari che gliele definivano con cura. «Perché non mi va» rispose.
Oh.
«Oh» ripetei soltanto, in un respiro stupito. Mi schiarii la voce e provai a nascondere quel disagio che mi aveva appena colpito lo stomaco, guardando qualsiasi altra cosa in quel piccolo salotto che non fossero le sue iridi verdi.
«È sempre troppo facile prenderti in giro» disse qualche istante dopo, liberandomi da tutti i pensieri che avevano iniziato a vorticarmi in testa, riguardo quanto fossi stato ingenuo e un illuso.
Mi voltai a scrutare il suo viso, sbalordito. «A volte i tuoi stupidi scherzi sfiorano il sadismo» la rimproverai, sorridendo sia per il sollievo sia perché, per l’ennesima volta, era riuscita a farmela. Lei rise, con una di quelle risate che ti contagia e che ti fa sentire schifosamente sentimentale, perché rimarresti incantato a guardarla per minuti ed ore.
«Sì, però adesso baciami davvero» esclamò, distendendo le labbra sottili in un sorriso genuino.
E ok, va bene, come vuoi tu.
 
 
Brian.
 
«Amico, te l’ho già detto: o vai tu da lei, o me la porto io in stanza» borbottò Maxime, scuotendo la testa e passandosi una mano sui capelli rasati e più neri della sua carnagione.
Io alzai gli occhi al cielo e diedi un’altra occhiata fuori dalla finestra, dove Stephanie perseverava e stava seduta sul marciapiede dall’altra parte della strada.
«Tu provaci e poi ti ritrovi appeso per le palle» ribattei, facendolo ridacchiare. E pensare che ero serio.
Forse però aveva ragione, forse dovevo davvero raggiungerla e perdonarla e stringerla a me. Anzi no, probabilmente perdonarla non ancora, ma almeno ascoltarla. In fondo si era presentata lì il giorno prima ed era ancora lì, sempre: mi ero sentito addirittura in dovere di controllare che non fosse rimasta in quel punto anche di notte, ma fortunatamente aveva avuto il buon senso di prendersi una stanza da qualche parte.
Aveva chiesto di me a chiunque l’avesse avvicinata, mentre io mi limitavo a raccogliere i racconti dei miei compagni, ad ascoltare le parole riferite e a mettere al proprio posto chi esagerava con i commenti su “quella figa di Brian”. Era impossibile, per me, credere davvero che Stephanie – Stephanie! – fosse partita e si fosse stabilita sotto la mia base in attesa di vedermi e di parlarmi: ne ero lusingato, mi apriva una breccia di speranza e sentimenti nel petto e mi sconvolgeva, ma era abbastanza?
«’Fanculo» mormorai, staccandomi dalla parete alla quale mi ero appoggiato e precipitandomi fuori dalla stanza.
Quando Stephanie, dall’altra parte della strada, mi vide varcare la porta d’ingresso, si alzò in piedi con uno scatto e per poco non si fece investire per raggiungermi. Io la aspettai immobile sul marciapiede, con gli occhi che ripercorrevano quel viso che tanto mi era mancato e con le mani a stringersi a pugno perché il dolore era ancora presente e faceva ancora schifo.
«Ciao» sussurrò, con il respiro accelerato, fermandosi ad un metro da me. Vieni più vicino.
«Hey» ricambiai flebilmente, spiazzato dal modo in cui quelle iridi verdi avessero assunto una sfumatura particolare a causa del sole di quel pomeriggio.
Non volevo parlare, non volevo ripetere sempre le stesse cose: stavolta toccava a Stephanie dare voce ai propri pensieri, quelli veri. Non avevo nemmeno intenzione di chiederle cosa ci facesse lì, quando fosse arrivata e quanto sarebbe rimasta, perché non volevo aiutarla in alcun modo. Doveva imparare a rendermi partecipe di quello che le passava per la testa, o nel cuore. Era il minimo che potesse concedermi ed io ne avevo un disperato bisogno, perché avevo bisogno di lei.
La vidi mordersi un labbro e stringersi nella giacca in pelle nera, spostare il peso da un piede all’altro e inspirare a lungo. Dentro di me, la incitavo silenziosamente, perché sapevo quanto fosse difficile per lei.
«Mi dispiace, ok?» sbottò all’improvviso, stupendomi nonostante stessi aspettando quelle parole dal momento in cui l’avevo salutata. Altrettanto inaspettatamente, non mi diede il tempo di rispondere. «Sono un disastro e mi dispiace così tanto. Tu… Tu hai ragione: sono stata schifosamente egoista e non ho mai pensato a te, come se potesse essere difficile solo per me. E sono stata una stronza di prima categoria a stare con Liam, perché in fondo sapevo che, anche se io e te non eravamo insieme, tra noi c’era qualcosa. C’è sempre stato. Invece… Voglio dire….»
Corrugai leggermente la fronte e aspettai che continuasse. Il cuore mi batteva nella cassa toracica, tanto da farmi temere che se un mio compagno fosse passato di là avrebbe potuto sentirlo.
«Ti amo anche io, ok?» disse velocemente, in un respiro secco e con gli occhi spaventati e increduli ad attendere una mia risposta.
 
 
Vicki.
 
Inspirai a pieni polmoni e alzai il mento, quasi come se quel semplice gesto potesse infondermi più coraggio. Strisciai per l’ennesima volta gli stivaletti neri sullo zerbino, cercando di asciugarli dalla pioggia infima di quella sera o di prendere tempo, e mi ravvivai i capelli sciolti sulle spalle.
«Ok» sussurrai tra me e me, decidendomi, dopo dieci minuti buoni, a suonare il campanello di casa di Louis.
Aspettai pazientemente, ma dovetti premere di nuovo il pulsante, perché la porta rimaneva chiusa e dall’appartamento non arrivava alcun rumore. Eppure erano le nove passate e Louis sarebbe dovuto essere a casa.
All’improvviso, la porta si aprì e davanti a me apparve Harry, con un accappatoio allacciato male a coprirlo e i capelli più in disordine del solito. Non sapevo ci sarebbe stato anche lui: mi impedii di lasciar correre la fantasia, che stava già insinuando che a Louis la sua presenza non disturbasse perché la cena programmata non sarebbe stata importante. Di quel passo avrebbero potuto rinchiudermi in manicomio.
«Harry, ehm, ciao» lo salutai, colta alla sprovvista.
«Vicki! – ricambiò lui, alzando un po’ troppo la voce e sorridendomi in modo poco convincente. – Che piacere vederti qui!» continuò, stavolta gettando un’occhiata alle sue spalle, come se stesse cercando di farsi sentire da qualcuno.
«Anche per me… - mormorai, un po’ confusa. – Dovevo vedermi con Louis-»
«Sì, certo, entra pure! – mi accolse, con ancora il tono di voce alto. Che diavolo stava succedendo? – Mi aveva detto che saresti venuta, ma-»
«Harry! Ma che cazzo fai?» sbottò una voce femminile, interrompendolo e attirando la mia attenzione. Abbie?
Ah.
Harry, con ancora una mano sulla mia schiena per guidarmi in salotto, si voltò giusto in tempo per vedere Abbie nascondersi dietro il divano mentre cercava di infilarsi i pantaloni, con la sua maglietta messa al contrario.
«Ok, questo è imbarazzante» confessai, girandomi di spalle e cercando di trattenere una risata. Ecco perché nessuno rispondeva al campanello, evidentemente non ne avevano l’intenzione, ed Harry di sicuro aveva cercato di avvertirla della mia entrata, in modo da permetterle di rivestirsi, urlando un po’ di più.
«No, cioè sì – si corresse lui, con una mano tra i capelli e un sorriso divertito sul volto. – È che forse abbiamo perso un po’ la cognizione del tempo, ma ora ce ne andiamo. Sì» mi assicurò.
«Vicki, scusami tanto – riprese Abbie. – Sono vestita adesso, puoi voltarti» aggiunse, un po’ in imbarazzo e un po’ ilare. Io lo feci e risi liberamente, mentre la guardavo fulminare con lo sguardo il suo ragazzo.
«Ma sei stupido, scusa? – sbottò infatti, mentre lui raccoglieva qualche vestito da terra, a pochi passi da lei. – Dammi almeno il tempo di vestirmi, prima di far entrare qualcuno!»
«Ti ho dato del tempo! Non per niente Vicki mi avrà preso per pazzo mentre urlavo per farti capire che stava per entrare – ribatté Harry, mentre io assistevo alla scena. Erano esilaranti, tutti presi a recuperare in fretta le loro cose e a rimediare a quell’inconveniente. Non stavano davvero litigando, anzi, i loro potevano essere considerati quasi preliminari per il secondo round. – E non è colpa mia se ci impieghi tre anni, a metterti una maglia addosso.»
Se avessi saputo cosa stava succedendo in quella casa, non mi sarei di certo accanita contro il campanello. Dovevano aver pensato che fossi una vera scocciatura.
«Quanto sei idiota, santo cielo.»
«Ti amo anche io – fu la risposta, seguita da un bacio a fior di labbra. – E tranquilla, Vicki sa com’è fatto un paio di tette.»
Spalancai gli occhi ed evitai di ridere solo per non scatenare ancora di più l’ira che si stava impadronendo di Abbie, mescolandosi al divertimento. «Non è questo il punto» borbottò lei, imbronciandosi.
 
Harry ed Abbie erano usciti da circa dieci minuti, quando la porta di casa si aprì, mostrando un Louis trafelato e con il fiatone: tra le mani teneva due cartoni della pizza, le labbra erano serrate intorno a quello che aveva l’aria di essere lo scontrino e da una tasca dei pantaloni della tuta pendevano le chiavi della macchina.
Mi alzai dal divano con un involontario ma immancabile sorriso sul volto e osservai meglio il suo viso, che si plasmò in un’espressione sorpresa e leggermente colpevole quando si accorse della mia presenza.
«Aspetta» sussurrai, andandogli incontro per aiutarlo.
Lui mi concesse di prendere le pizze dalle sue mani e si tolse lo scontrino di bocca, mentre io potevo specchiarmi negli occhi chiari contornati da leggere occhiaie e immergermi nel suo profumo di dopobarba. «Grazie» disse sospirando, prima di togliere le chiavi dalla porta e chiuderla alle nostre spalle, mentre io andavo ad appoggiare i cartoni sul tavolo della cucina.
Quando tornai in salotto, facendo i conti con quello strano silenzio che occupava l’appartamento e che mi pesava addosso, trovai Louis ormai senza la giacca di pelle e in maniche corte, in piedi accanto al divano mentre controllava qualcosa sul cellulare: rimasi ad un paio di metri di distanza, impacciata con non mai, e infilai le mani nelle tasche posteriori dei miei jeans.
Lui alzò lo sguardo su di me e corrugò la fronte, riponendo l’iPhone in tasca. «Be’, cosa fai lì?» mi chiese, aprendo le braccia in un tacito invito a raggiungerlo, mentre mi rivolgeva un sorriso stanco ma sincero. Ed io sentii il mio cuore sciogliersi, come se quel semplice gesto potesse rassicurarmi, quindi non esitai a mordermi un labbro e ad avvicinarmi velocemente a lui.
Louis mi accolse sul suo petto e affondò il viso nell’incavo del mio collo, respirando a lungo tra i miei capelli e permettendomi stringermi con tutta me stessa alla sua maglietta, al suo corpo. Cercò la mia bocca e la baciò ad occhi chiusi, una volta, due, tre, fino a quando sembrò averne abbastanza, anche se non era lo stesso per me. Mi era mancato così tanto e tutta quella situazione non faceva che gravare sulla mia povera salute mentale.
«Mi dispiace per il ritardo – sussurrò con la fronte appoggiata alla mia, avvolgendomi i fianchi con le braccia. – Abbiamo fatto un casino con una canzone e-»
«Non fa niente» lo interruppi, scuotendo piano la testa. Ed era vero, perché alla fine come poteva essere altrimenti se lui era lì e se io non capivo più niente?
Louis sorrise, obbligandomi a fare lo stesso, e mi baciò di nuovo, mentre io mi chiedevo se quei baci potessero già anticipare la sua risposta al mio messaggio di quella mattina. «Sto morendo di fame» aggiunse dopo qualche istante, mordendomi la mascella e facendomi il solletico.
«Andiamo, allora.»
«Potevamo mangiare qui», disse con la fronte corrugata, mentre io facevo scivolare la mia mano nella sua per guidarlo verso la cucina.
«No, fidati – lo contraddissi, ridendo e voltandomi verso il suo viso confuso. – Non ci tengo a mangiare su quel divano» spiegai.
«Perché?»
 
Era tutto apparentemente normale. Io e Louis avevamo finito le pizze molto lentamente, a causa delle infinite chiacchiere che non eravamo riusciti a trattenere: avevamo parlato, avevamo riso e parlato ancora, lui mi aveva baciata ed io l’avevo accarezzato, un morso di pizza e un sorso di birra, “ne vuoi ancora?”, “stasera avrei ucciso Niall”, avevamo passato in rassegna alcuni aneddoti avvenuti la settimana scorsa e “avrei voluto che ci fossi anche tu”. Era tutto normale.
Evidentemente, la confusione era solo nella mia testa, eppure non volevo fargli troppa pressione. Non potevo chiedergli per l’ennesima volta di farmi chiarezza sui suoi sentimenti, anche se il suo silenzio a riguardo mi torturava in modo intollerabile, né volevo spingerlo ad una reazione dettata dal disagio, perché quella serata stava andando così bene da non poter essere rovinata. Mi sembrava di essere tornata a quei pochi momenti in cui la nostra storia non era scossa da alcun dramma, da alcun litigio: era talmente naturale, per noi, ridere fino ad avere mal di stomaco e guardarci subito dopo come se non potessimo fare a meno l’uno dell’altra, che tutto il dolore affrontato mi appariva quasi giusto, necessario affinché potesse esserci dell’altro.
Forse dovevo solo smetterla di pretendere, lasciare che Louis facesse tutto con i suoi tempi, che ovviamente non corrispondevano ai miei. Perché insistere? Perché essere così egoista? Se anche io ero consapevole e quasi sicura dei suoi sentimenti, che bisogno c’era di esigere una loro verbalizzazione? Non mi bastava percepirli ad ogni sguardo e ad ogni contatto anche involontario?
Era questo che continuavo a ripetermi, mentre lavavo i due bicchieri e le posate che avevamo usato durante la cena. Un sorriso sul volto mentre lui mi raccontava la discussione di Liam e Niall su una questione di calcio che ancora non mi era chiara.
«Per me stai parlando arabo» commentai infatti, quando lui mi chiese conferma della sua teoria. Io facevo jogging, certo, ma la mia vena sportiva si esauriva esattamente a quel punto: non me ne intendevo di cartellini rossi o quant’altro, né avrei saputo dire se il giocare di cui mi stava parlando fosse davvero in fuorigioco come Liam sosteneva.
«Vicki, ti avrò spiegato le regole del fuorigioco più  o meno una ventina di volte» si lamentò lui, tra l’esasperato e il divertito.
Io riposi i bicchieri nel mobile sopra la mia testa e «Credo che dovrai farlo ancora una volta», gli risposi, ridacchiando tra me e me.
«No, mi arrendo» mi assicurò, mentre potevo immaginarlo scuotere il capo. Era seduto su uno sgabello intorno all’isolotto della cucina, al centro della stanza, e ogni volta che apriva bocca io mi divertivo ad immaginare ogni sua espressione, dato che non mi era dato di osservarle.
Mi asciugai le mani e con lo stesso straccio iniziai a pulire il lavabo.
«Oggi in ufficio stavo per scoppiare a ridere in faccia ad una cliente, te lo immagini? – cominciai, spostandomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio e sorridendo per quel ricordo. – Avrà avuto settant’anni, ma indossava dei tacchi che nemmeno io mi sognerei mai di mettere, per quanto erano alti. E aveva una pelliccia che era tipo il doppio di lei, senza contare lo stupido Chihuahua che si è portata dietro e che ha continuato a ringhiarmi per tutto il tempo. Sembrava uscita da un film, perché era davvero troppo ridicola. Ma la cosa divertente è che vorrebbe che le organizzassimo il ricevimento per i suoi dieci anni di matrimonio con il suo “amorevole Charles”, testuali parole: sai qual è il tema? Il leopardato. Il leopardato, capisci? Quale pazzo pot-»
«Ti amo.»
Mi immobilizzai, stringendo lo straccio nella mia mano destra con tutta la forza che mi era concessa. Gli occhi spalancati fissi sulle mattonelle chiare della parete che mi stava di fronte ed il respiro fermo.
«Cosa?» dissi flebilmente, quasi con un suono strozzato, mentre mi ostinavo a non muovermi. Le avevo davvero sentite, quelle parole, o me le ero immaginate? Magari avevo frainteso, magari avevo raggiunto il massimo livello di pazzia e quella era un’allucinazione.
«Ti amo.»
Chiusi gli occhi e inspirai a lungo, mentre mi lasciavo invadere da un sorriso che non riusciva ad esprimere nemmeno un quinto di quello che in realtà mi stava avvenendo dentro. Quando rialzai le palpebre, mi accorsi di avere gli occhi lucidi e di non essere interessata a fare qualcosa a riguardo, perché quella era solo la prova di quanto le due parole che Louis aveva appena mormorato mi fossero entrate nelle ossa, a scuotere ogni cellula del mio corpo.
Louis mi amava. Io potevo amarlo di più solo per quello?
Mi voltai lentamente, come se temessi di svegliarmi da un sogno con un movimento troppo brusco, e cercai i suoi occhi: erano fissi su di me, diretti e fieri, anche se potevo cogliere in loro un barlio di esitazione.
Non sapevo cosa dire, ero letteralmente paralizzata: forse anche lui aveva provato quella sensazione quando io gli avevo confessato di amarlo, forse anche lui si era sentito sprofondare sotto una felicità troppo grande e poi riemergere solo per potersi far abbattere di nuovo, come in un gioco masochista.
«Che fai, piangi?» domandò dopo qualche istante, passandosi la lingua sulle labbra e guardandomi con uno sguardo quasi terrorizzato. Sapevo quanto odiasse vedermi piangere, eppure non ero in grado di dirgli che in quel caso era tutta un’altra storia.
Quando lo vidi scendere lentamente dallo sgabello e fare un passo verso di me, fu come se mi fossi risvegliata: improvvisamente, la consapevolezza di ciò che era appena accaduto, di ciò che Louis mi aveva appena confermato, mi colpì in pieno. «È che… - singhiozzai, cercando di asciugarmi gli occhi umidi e continuando a sorridere senza sosta. – È che sono così… felice» riuscii a dire, mentre sentivo le sue braccia stringermi con foga e le sue labbra posarsi sul mio collo.
Chiusi gli occhi e lo abbracciai senza riserve, sentendomi stupida per quella reazione in pieno stile romantico e allo stesso tempo indifferente ad essa, perché non sarebbe potuto essere altrimenti. Avrei voluto ringraziarlo – si poteva essere grati di un amore, no? -, urlare al cielo e poi ripetergli cento volte che lo amavo anche io e che, santo cielo!, non potevo credervi. Invece mi limitai a baciargli le labbra e a sorridere, a sorridere e a stringergli i capelli tra le mani, a baciarlo ancora e a lasciarmi accarezzare.
Louis respirò sul mio volto e posò una mano sulla mia schiena, in quel gesto che sin dal primo momento che ci eravamo conosciuti mi aveva fatto rabbrividire, poi mi sfiorò le labbra e mi fece tremare le gambe. «Non ho avuto paura – sussurrò, guardandomi negli occhi mentre i miei fremevano per averne di più. – Voglio dire sì, ovviamente ne ho avuta. Avrei voluto dirtelo subito, perché ci penso da prima ancora che tu mi dicessi di amarmi, ma non è stata la paura ad impedirmelo. Io…»
Lo sentii sospirare sulla mia pelle e chiudere per qualche istante le palpebre. Aveva davvero appena confessato di amarmi da prima ancora che io me ne rendessi conto. Aveva davvero appena attentato alla mia vita.
«Hey» lo spronai flebilmente, stringendolo un po’ di più e regalandogli un sorriso di conforto. Sul suo viso c’era un’espressione un po’ sofferta, quindi tentai di alleggerire l’atmosfera. «Non vorrai dirmi che eri timido» scherzai, abbozzando una risata per quella che avrebbe dovuto essere una scadente battuta.
O la verità.
Louis, infatti, si voltò verso sinistra senza dire una parola, ma continuando a tenere salda la presa su di me, dandomi l’occasione di studiare ogni suo lineamento. Avevo ragione? La sua era stata timidezza? In effetti, ripensando a come aveva aperto e chiuso la bocca più volte, sospirato e guardato altrove, dopo la mia dichiarazione, quella spiegazione era più che plausibile.
«No, sul serio, ti vergognavi?» domandai, cercando di assumere un tono meno scherzoso. Quella eventualità mi spiazzava, forse perché Louis non si era mai dimostrato timido. Anzi. O forse perché avevo dato per scontata la sua paura, come se fosse stata in grado di giustificare qualsiasi comportamento.
Lui increspò le labbra in una linea dritta – orgogliosa – e rispose solo con un respiro più pesante degli altri.
La presi come una conferma e mi fu impossibile trattenere un sorriso che poi si trasformò in una piccola risata, appena accennata ma che lui riuscì a cogliere. Senza guardarmi negli occhi, si voltò e mi morse il collo solleticandomi i fianchi. «Non fare la stronza» mi ammonì, mentre ridevo e mentre lo sentivo sorridere sulla mia pelle.
Cercai di fermarlo, portando le mani ai lati della sua testa e divincolandomi dalla sua presa - “scusa, scusa!” -, ma più mi agitavo più lui mi mordicchiava e mi torturava: solo dopo una manciata di secondi riuscì ad avere pietà di me, concedendomi di tornare a respirare anziché di farmi morire sommersa dalle risate spensierate, e a guardarmi negli occhi con le labbra socchiuse e giocose.
La mia espressione si fece sempre più seria, mentre il mio respiro si regolarizzava e le mie dita gli sfioravano il collo magro, mentre le sue pizzicavano l’orlo del mio maglioncino e mentre il mio cuore cercava di sopravvivere, in qualche modo. Sentii la sua bocca posarsi all’angolo della mia, spostarsi sulla mia guancia e sfiorarla dolcemente, soffermarsi sull’angolo della mia mascella e poi baciare il lobo del mio orecchio destro.
Tenevo gli occhi chiusi e cercavo di non soccombere sotto gli attacchi del suo profumo.
«Ti amo – ripeté in un sussurro, come se, una volta detto, non potesse più fermarsi dal ripeterlo, ancora e ancora. – E ti voglio» aggiunse, premendo un po’ di più contro il mio corpo e bloccandomi tra sé e il lavabo. Sentii lo stomaco dimenarsi, stretto in pugno da quelle parole che mi percorrevano in lungo e in largo ad una velocità disarmante, e non riuscii a rispondere in altro modo se non afferrando i capelli di Louis tra le mani.
«Ti voglio dalla prima volta che ti ho vista – continuò, mentre con le dita fredde superare la stoffa sul mio addome per accarezzarlo, mentre io rabbrividivo per il contatto e per il desiderio. – Così tanto» soffiò tra i miei capelli, stringendo il mio seno sinistro con la mano.
«Mi hai» sussurrai con la voce rotta, assecondando i suoi movimenti. E sapevo che lui si stesse riferendo anche ad altro, ma mi ero comunque sentita in dovere di dirglielo, di fargli sapere che mi aveva nell’accezione più totalizzante del termine.
Anche io lo volevo, come poche volte o forse mai avevo desiderato qualcuno nella mia vita. Volevo sentirlo a pieno, non solo tramite un bacio e o un preliminare, che per tutto quel tempo non si erano mai rivelati abbastanza: avevo bisogno di unirmi a lui per sentirmi completa, come se mancasse solo quello affinché fosse possibile. Era una necessità, non un semplice capriccio.
Louis respirò più velocemente e tornò sulle mie labbra, per torturarle e arrossarle, mentre mi faceva sedere sulla cucina con delicatezza, stringendomi un fianco e continuando ad accarezzarmi. Io lo assecondai e cercai un contatto maggiore con la sua pelle, cercando di sfilargli la t-shirt e aiutandolo a fare lo stesso con la mia. Baciandogli la spalla e il collo, mi chiesi se sarei riuscita a sopportare tutto ciò che Louis era ormai diventato per me, tutto ciò che implicava e comportava.
Spostandomi i capelli su una spalla per permettergli di slacciarmi il reggiseno, gli sfiorai la mascella con una mano e con l’altra gli abbassai i pantaloni della tuta, per quanto mi fosse possibile. Ero quasi sicura che stessi tremando, anche se quei movimenti urgenti che non potevamo evitare mi impedivano di accertarmene, ma non avevo dubbi sul fatto che fosse il mio cuore stesso ad incespicare ad ogni carezza e ad ogni bacio.
«Fammi restare – soffiai sulle sue labbra, con il respiro accelerato. – Vuoi che io non me ne vada, ma tu… Costringimi a restare» ripetei, come in una preghiera. Era sempre stato lui a chiedermi di non lasciarlo, di resistere e sopportare, di rimanere, ed io ci avevo sempre provato: con tutta me stessa, con ogni fibra del mio essere, avevo combattuto per lui a costo di sentirmi soffocare per le conseguenze, a costo di perderlo e poi riaverlo. Ma era questo il punto, per quanti drammi potessero interessare la nostra storia, per quante volte noi avremmo discusso e urlato, io avrei cercato di stringere i denti e andare avanti e lui mi avrebbe tenuta con sé. Solo così avremmo potuto sopravvivere, aggrappandoci l’uno all’altra, aguzzini e salvatori di noi stessi.
«Tu mi distruggi» mormorò con la bocca sul mio petto, trattenendo un gemito quando le mie dita presero a giocare con l’elastico dei suoi boxer.
E no, avrei voluto dirgli. No, sei tu a distruggere me e a ricompormi con la stessa facilità. Sono io a lasciartelo fare e a volerlo, anche se lo nego e anche se è doloroso, perché questo sei tu e lo giuro, non posso farne a meno.






 
 
Buoooooooonasera! Oggi pomeriggio, come promesso, mi sono messa a scrivere il capitolo e ho finito solo ora (perdonate l’orario!)! (nuovo banner che ci ho messo trent’anni per fare hahah pian piano lo cambierò anche negli altri capitoli (:)
Insomma, PENULTIMO capitolo!!!! Non mi dilungo su quanto questo sia deprimente hahaha Piuttosto, passiamo al contenuto:
  1. Niall e Rosie: spero che vi piacciano almeno la metà di quanto piacciono a me hahah Preciso che Niall non è innamorato o robe del genere, ma che è sulla strada giusta :)
  2. Brian e Steph: finale aperto per loro due, e lo so che mi odiate per questo hahahaah Ma tranquilla, si avranno loro notizie!
  3. Harry ed Abbie: non commento ahhaha
  4. LOUIS E VICKI CAZZO CE L’HANNO FATTA ahahhaha Sorridevo come un ebete mentre quel deficiente si dichiarava! Ha fatto penare anche me, immaginate un po’! Come avevo anticipo su facebook, lo avete di nuovo frainteso, come in fondo ha fatto anche Vicki: è vero, i sentimenti l’hanno sempre terrorizzato e bla bla bla, ma quello che gli ha impedito di rispondere “anche io” alla nostra Vicki è stata semplice timidezza. Insomma, non  è facile dirlo e diciamo che lui si è sentito un po’ a disagio, orgoglioso e tonto com’è :)
Per il resto, lascio a voi i commenti! (Vicki non poteva non piangere hhaahha)
Detto questo, scappo, perché ho delle cosucce da fare: spero che il capitolo vi sia piaciuto! Il prossimo sarà l’ultimo, AIUTO! Cosa vi aspettate di leggere? (: Ah, in questo non è comparso Zayn, ma don’t worry (Y)
Per favore, fatemi sapere cosa ne pensate: ho notato che gli ultimi capitoli sono stati recensiti meno, quindi temo di aver fatto qualche cazzata (?)
Grazie di tutto, un bacione,
Vero.
 
AAAAAAAAAAAH, dimenticavo: qui c’è la nuova storia, su Harry! Cliccate sul banner per il link, si intitolo "Little girl" (:

 
 
  

Ritorna all'indice


Capitolo 33
*** Epilogue - Alive ***




Alive

Epilogo

 
(Scusate per l’immenso e vergognoso ritardo.
E scusate per la lunghezza del capitolo!)

 
Due mesi dopo: 24 Dicembre.
 
Vicki.
 
Con le labbra inclinate all’insù per la soddisfazione, mi passai il dorso della mano sinistra sulla fronte, spostando le ciocche di capelli che continuavano ad infastidirmi sfuggendo al mollettone con il quale cercavo di tenerle raccolte. Mi morsi una guancia inclinando il capo come per pensare meglio, poi presi un grande respiro e decisi di allungare la parte finale della “s” della scritta “Louis”, in modo da decorare quello spazio che sembrava troppo vuoto: non sapevo come fosse effettivamente venuta, quella torta, se la glassa con la quale avevo scritto “Buon Compleanno” fosse abbastanza dolce, se il pan di spagna si fosse impregnato troppo di crema o se gli strati di cioccolato sarebbero stati graditi, ma riponevo grandi speranze in quella mia piccola opera d’arte. E se Louis non l’avesse apprezzata, l’avrebbe mangiata lo stesso, perché avevo dedicato davvero molto tempo a stare dietro a tutti i particolari, quindi non avrei accettato capricci.
Ovviamente Liam si era premurato di ordinare anche un’altra torta da un fidato pasticcere, nel caso la mia fosse stata proprio da buttare.
«Fatto» esclamai entusiasta, posando il barattolo di crema sul tavolo ricolmo di attrezzi da cucina, stoviglie e chi più ne ha più ne metta.
«Fa’ vedere» rispose Abbie, raggiungendomi con l’espressione curiosa. «Ma è fantastica! – commentò subito dopo, sorridendo con gli occhi grigi a manifestare la sua ammirazione e i capelli neri che ormai non erano più corti sulle spalle come quando ci eravamo conosciute, ma lunghi fino al seno formoso. – Sono sicura che rimarrà a bocca aperta».
«Lo spero per lui!» scherzai, facendola ridere.
Da un paio di settimane mi ero messa in testa di fare una sorpresa a Louis per il suo compleanno: niente di che, in realtà, ma mi piaceva di l’idea di punzecchiarlo fingendo di non ricordarmi di quella ricorrenza e di non aver organizzato niente a riguardo. Conoscendolo, sapevo che non avrebbe mai osato farmelo presente ma che si sarebbe limitato ad imbronciarsi e a comportarsi da bambino capriccioso, un po’ offeso: e così era stato. Ovviamente i ragazzi avevano deciso di darmi corda, facendo gli auguri al loro amico ma senza accennare a particolari festeggiamenti: Louis sapeva soltanto che per le sei del ventiquattro dicembre ci saremmo trovati tutti a casa di Zayn per festeggiare la Vigilia di Natale, mentre il giorno dopo lo avremmo passato con le rispettive famiglie. L’idea di conoscere quella di Louis mi terrorizzava e al tempo stesso mi rendeva terribilmente impaziente, senza contare che in una relazione con una persona come lui era davvero un grande passo.
«Quindi se l’è bevuta? O sospetta qualcosa?» domandò Abbie, indietreggiando leggermente per sedersi su uno degli sgabelli intorno al tavolo. Sgranocchiava delle patatine trovate in un cassetto della cucina di Louis – che ormai era anche un po’ mia, data la quantità di tempo che trascorrevo in quella casa – ed era davvero invidiabile come riuscisse a mangiare quintali di carboidrati senza mai ingrassare di un chilo.
«È troppo impegnato a borbottare per sospettare qualcosa» le feci presente, sorridendo al pensiero di come Louis continuasse a tenermi il broncio. Non aveva assolutamente accennato all’argomento compleanno, nemmeno quando ci eravamo trovati a discutere dei nostri programmi per le feste, e anche quel giorno io l’avevo salutato e chiamato più volte facendo la finta tonta. Mi divertiva vedere i suoi occhi sottili scrutarmi con un pizzico di rabbia o le sue labbra tendersi alla mia indifferenza, mi divertiva immaginare la sua reazione di quando sarebbe arrivato a casa e avrebbe trovato tutti i suoi amici ad aspettarlo.
«Già me lo immagino» rise Abbie, scuotendo la testa.
«Ancora non ho capito come hanno fatto a trattenerlo, però» pensai ad alta voce, mentre mettevo un po’ di ordine sui mobili della cucina. Erano le sei meno un quarto, Louis era in ritardo, noi eravamo in ritardo e quattro membri su cinque degli One Direction erano in salotto a distruggere chissà cosa.
«Sai che oggi si sono esibiti in quel programma, per la Vigilia? Non mi ricordo nemmeno come si chiami… Ma comunque, i ragazzi si sono inventati delle scuse per andarsene subito dopo e venire qui, mentre Paul, Lou e un paio d’altri hanno praticamente rapito Louis con il pretesto di offrirgli qualcosa da bere» mi spiegò velocemente, rendendomi tutto un po’ più chiaro. Organizzare delle sorprese ad una persona che sta quasi ventiquattro ore su ventiquattro con i suoi migliori amici non è affatto semplice.
«E di sicuro avrà pensato qualcosa come “persino i miei colleghi si ricordano del mio compleanno, a differenza di quella stronza di Victoria”» aggiunsi, modificando il tono di voce per imitarlo e ridendo subito dopo. Ormai conoscevo a memoria ogni suo comportamento: mi ci ero impegnata e ne avevo fatto una specie di crociata personale, con il risultato di essere diventata in grado di decifrare quasi tutte le sue espressioni in occasioni diverse e addirittura di prevederle – e non era affatto stato semplice. Louis non era più un mistero per me, anzi, mi piaceva conoscere ogni suo punto debole e di forza: era come se fossi finalmente riuscita a capirlo e farlo mio, ad interiorizzarlo. Lui, d’altra parte, non aveva dovuto sforzarsi troppo dato che mi teneva in pugno dal primo momento in cui ci eravamo visti.
Gli alti e bassi continuavano, ma erano solo una pallida e ignobile copia dei problemi che avevano segnato l’inizio della nostra storia: avevamo trovato un equilibrio e l’avevamo fortificato.
«Perché saresti una stronza?» intervenne Harry, entrando in cucina con una mano tra i capelli ma gli occhi fissi su Abbie, che gli dava le spalle.
«Perché il tuo migliore amico in questo momento mi odia per essermi dimenticata del suo compleanno» spiegai, mimando le virgolette sulle ultime parole.
«Oh, puoi giurarci» commentò lui sorridendo, mentre avvolgeva i fianchi di Abbie con le braccia e le strofinava il viso sul collo. Lei sembrava scomparire in quell’abbraccio, nonostante la sentissi borbottare qualcosa come “mi fai cadere” e “levati” in tono affettuoso.
«Sai che il pesce è afrodisiaco?» domandò Harry poco dopo, facendomi sorridere e chissà, forse facendo arrossire la sua ragazza.
«Il tuo o quello che dobbiamo cucinare?» ribattè lei, con ancora le sue mani addosso. Nel primo pomeriggio eravamo uscite per fare la spesa e comprare tutto ciò che ci sarebbe servito per preparare il cenone a base di pesce: non che me ne intendessi, era lei infatti ad essere la grande cuoca ed io mi sarei limitata ad eseguire i suoi ordini, cercando di non bruciarmi ai fornelli e di non fare troppa pena con le mie pessime abilità.
«Entrambi» fu la risposta, seguita da un morso giocoso che fece ridere e contorcere Abbie, con una patatina in mano e gli occhi chiusi per il divertimento e l’amore.
«Vi lascio soli, eh?» mi intromisi, rallegrata da quell’atmosfera di spensieratezza. Il sentimento che li legava era in grado di illuminare una stanza, di far dissolvere parte della tensione e di influenzare tutti quelli che ne erano testimoni: io ed Abbie avevamo legato molto negli ultimi mesi e più volte si era dilungata su quale fosse stata la loro storia, partendo dagli inizi di tutto. Ripensandoci, li ammiravo davvero molto: erano riusciti a respingersi talmente tante volte da far credere a tutti di non essere destinati a stare insieme, di essere un capriccio per uno e un fastidio per l’altra, ma alla fine il tempo aveva svolto il suo compito. Aveva dimostrato a loro e a tutti gli altri che si sbagliavano, che non solo avevano un destino, ma che erano l’uno quello dell’altra: dopo quasi due anni di lontananza, di rotture e altri amori, erano finalmente emersi dal passato e dalla paura, forti come una roccia consolidata da un sentimento puro e mai macchiato.
«Non ci dispiace avere degli spettatori» esclamò Harry ridendo, mentre io mi avvicinavo alla porta della cucina.
«E piantala» lo ammonì Abbie, probabilmente tirandogli una gomitata scherzosa nello stomaco mentre si voltava per baciargli le labbra.
 
In salotto, l’alto albero di Natale addobbato con decorazioni rosse e dorate illuminava l’intera stanza, con le luci colorate che si accendevano ad intermittenza sempre diversa. Niall era quasi letteralmente sdraiato su Rosie, che si trovava schiacciata sul tappeto al centro della stanza alla disperata ricerca di aria, in modo da scampare a quella tortura. Liam era in piedi accanto alla televisione accesa che stava trasmettendo il video musicale di “Love on top” di Beyoncé, che lui stava cercando disperatamente di imitare con scarsi risultati. Zayn, seduto sul divano di fronte, aveva una sigaretta accesa e lo guardava con un sorriso divertito sul volto, prendendolo in giro per qualche movimento a dir poco ridicolo: il maglione natalizio che indossava – decorato da quella che doveva essere una renna stilizzata – gli stava un po’ largo, ma lo faceva apparire un bambino.
A volte rimanevo quasi incantata nel bearmi dei suoi sorrisi sempre più frequenti, sempre meno forzati: solo pochi giorni prima l’avevo maledetto per avermi fatta piangere – che novità! – dato che si era messo in testa di rivolgermi un discorso sincero su quanto mi dovesse ringraziare per tutto quello in cui l’avevo aiutato. I suoi “grazie” mormorati con le labbra sottili e gli occhi fissi su di me, mi avevano spiazzata e resa fiera, anche se mi ostinavo a non prendermi i meriti di qualcosa che secondo me era solo frutto della sua forza. Non pensavo che la felicità di Zayn, ancora timorosa e discreta, potesse condizionare così tanto il mio umore, rallegrare così tanto l’atmosfera nella quale si collocava.
Prima che potessi commentare qualcosa, comunque, il cellulare iniziò a squillarmi nella tasca: subito pensai che fosse Louis, ma tirai un sospiro di sollievo quando lessi il nome “Steph” sullo schermo dell’iPhone. Avevo detto addio al mio vecchio e fedele Nokia un mese prima, anzi, a dir la verità era stato Louis a dirgli addio senza prima avvertirmi che mi avrebbe comprato un telefono nuovo: sapeva che non l’avrei mai accettato, quindi si era premurato di gettare via il mio anziano e malandato compagno per non lasciarmi altra scelta, facendomi trovare tutta quella tecnologia chiusa in un pacchetto sul comodino accanto al letto.
«Hey!» risposi, allontanandomi lungo il corridoio.
«Victoria!»
«Brian? Perché ti sei impossessato del telefono di Steph?» chiesi con un sorriso sulle labbra, passandomi una mano dietro il collo.
«In realtà c’è il vivavoce» spiegò, mentre sentivo la voce della mia amica salutarmi con un’allegria che dopo tutto quel tempo riusciva ancora a stupirmi e a riscaldarmi il cuore.
«State festeggiando?» domandai, curiosa di sapere i loro piani per la serata. Stephanie era partita due giorni prima per festeggiare il Natale con quello che poteva finalmente chiamare il proprio fidanzato: alloggiava in un hotel vicino alla base e aveva ormai conosciuto quasi tutti i suoi compagni – anche quelli che lui non avrebbe mai voluto farle conoscere. Brian non l’aveva perdonata subito quando lei l’aveva per la prima volta raggiunto sul suo posto di lavoro: o meglio, l’aveva perdonata ma non gliel’aveva detto, perché aveva preferito essere più sadico e aspettare che lei pensasse di non poter avere più niente a che fare con lui, credendo che potesse essere un buon modo per ripagarla. Quando poi l’aveva vista allontanarsi con le lacrime agli occhi e le parole incastrate in gola, si era arreso a quel sentimento che non riusciva più a contenere e le aveva detto che era una stupida, ma che l’amava contro ogni logica.
«Se festeggiare vuol dire mangiare cinese la sera della Vigilia, be’, sì, ce la stiamo proprio spassando» sbuffò Stephanie, mentre io potevo immaginarla alzare gli occhi al cielo senza scomporsi troppo.
«A te piace il cinese – precisò Brian. – E poi non è colpa mia se la cucina del tuo hotel fa schifo.»
«Alla base festeggiano, avremmo potuto unirci a loro.»
«Dovrei portarti in mezzo ad una mandria di uomini incapaci di tenere per loro i commenti sulle tue tette?»
«Allora un ristorante!»
«Ti ho già detto che…»
«Ragazzi, hey – li interruppi, ridendo per il loro battibecco. – Non vorrete litigare per questo.»
«Vicki! Vicki, sbrigati! Louis sta arrivando!» gridò Abbie dalla cucina, prima ancora che Steph o Brian potessero rispondere.
«Cazzo – borbottai, con l’adrenalina e l’entusiasmo che iniziavano a farsi sentire ancora di più. Evidentemente Paul aveva avvertito qualcuno dei ragazzi della partenza di Louis. – Scusate ma Louis sta tornando a casa e gli stiamo facendo quella sorpresa di cui vi avevo parlato e ci sono ancora mille cose da mettere a posto e i ragazzi dev-»
«Vic, frena – mi rassicurò Stephanie, probabilmente sorridendo. – Respira e fai del tuo meglio.»
«Non rovinare tutto come al tuo solito» aggiunse Brian.
«Simpatico!»
«Buona Vigilia, Victoria» disse poi, addolcendo il tono.
«Buona Vigilia anche a voi» li salutai, mentre anche la mia migliore amica mormorava un augurio. Mi mancava già, anche se erano passate appena quarantott’ore dalla sua partenza: forse perché ormai partiva sempre più spesso, come se una volta confessati i suoi sentimenti non potesse fare altro che assecondarli e seguirli, o forse perché ero sempre la solita emotiva.
Nemmeno un minuto dopo, ricevetti un messaggio da Brian.
 
Un nuovo messaggio: ore 17.52
Da: Brian
“In realtà ho prenotato un tavolo in un ristorante in città per stasera, ma non so se riuscirò a mantenere il segreto ancora per molto. È una rompipalle.”
 
~~~~
 
In tempo record avevamo riordinato la cucina, cercando di nascondere tutte le cianfrusaglie che dal salotto si sarebbero di certo intraviste; tutti si erano nascosti nella lavanderia, dove sapevo che Louis non sarebbe entrato, almeno non prima che gli altri ne fossero usciti sorprendendolo, ed io ero rimasta ad aspettarlo in salotto.
Mi guardai intorno per controllare che Niall si fosse ricordato di portare con sé la chitarra, poi presi un lungo respiro e infilai le mani nelle tasche posteriori dei jeans chiari.
Quando sentii le chiavi incastrarsi nella serratura della porta, mi riscossi e cercai di nascondere un sorriso spontaneo, aggiustandomi i capelli che avevo sciolto sulle spalle e il maglione verde scuro che mi teneva fin troppo calda. Qualche secondo dopo, Louis comparve con il broncio che negli ultimi giorni si era accentuato e con gli occhi persi in qualche pensiero, tanto che quasi si spaventò nel trovarmi davanti a sé.
«Sei in ritardo – lo ripresi, avvicinandomi e osservando l’accenno di barba sulle sue guance e sul mento, il suo sopracciglio alzato e la sua espressione a metà tra l’incredulo e l’infastidito. Gli baciai le labbra e rischiai di lasciar trasparire un po’ del divertimento che provavo, mentre lui si chiudeva la porta alle spalle. – Pensavo ti fossi dimenticato che dobbiamo andare da Zayn» continuai con la mia piccola sceneggiata, guardandolo mentre si toglieva le Vans rovinate con un sospiro e rimaneva a piedi nudi.
«Non sono io quello che si dimentica le cose» borbottò a bassa voce, camminandomi di fianco senza degnarmi di uno sguardo. Io mi morsi un labbro e sorrisi, approfittando del fatto che non potesse vedermi.
«Hai detto qualcosa?» gli chiesi, facendo la finta tonta.
«No» disse schietto, lasciando il telefono sul tavolino accanto al divano e passandosi una mano tra i capelli disordinati. I pantaloni della tuta grigia strisciavano sul pavimento, perché erano un po’ troppo lunghi se non ostacolati dalle scarpe, e non si era portato nemmeno una giacca che potesse coprirlo oltre la felpa blu che indossava. Nella sua semplicità era in grado di incantarmi.
Nell’esatto momento in cui io iniziai a stringermi le mani l’una nell’altra per l’agitazione e Louis pronunciò il mio nome quasi con esasperazione, gli altri fecero letteralmente irruzione nel salotto urlando qualsiasi tipo di augurio e facendo un terribile baccano che mi costrinse a corrugare la fronte, mentre ridevo per l’espressione del mio ragazzo. Sommerso da abbracci, pacche sulle spalle e prese in giro per quella sorpresa improvvisata e così semplice, continuava a guardare i suoi amici uno alla volta con uno stupore negli occhi che forse non gli aveva ancora permesso di elaborare ciò che stava succedendo.
Mi avvicinai a loro e «Guarda che nemmeno io dimentico le cose», rimproverai Louis, incrociando le braccia al petto mentre lui si voltava a guardarmi per rivolgermi un sorriso finalmente privo di rancore. Il suo viso era così bello, quando era vittima di un’emozione così pura.
«Amico, stavolta te l’abbiamo fatta» rise Niall, mentre Louis scuoteva la testa con le labbra sottili inclinate verso l’alto, borbottando qualcosa come “Tanto lo sapevo che avevate in mente qualcosa”, che avrebbe dovuto mascherare la sua ingenuità.
«Dovevi vedere la tua faccia, giuro – continuò Harry, mettendogli una mano sulla spalla e tenendo l’altra intorno al busto di Abbie. – L’attimo prima te la stavi facendo sotto per lo spavento, poi sei stato per un attimo felice e poi ti è venuta voglia di prenderci a schiaffi, ammettilo».
«Ma ‘sta zitto» mormorò l’altro in risposta, abbracciando Zayn che gli ripeteva gli auguri all’orecchio e subito dopo baciando Rosie sulle guance per accogliere il suo allegro “buon compleanno”.
«E ci siamo tutti, hai visto? Sei proprio un coglione, se hai creduto che non avremmo festeggiato il tuo compleanno» continuò Harry, scuotendo la testa in un sospiro.
«Sì, ci siamo tutti e siete quasi tutti delle coppie, ora che ci faccio caso – precisò Liam, sbattendo le palpebre come in un momento di rivelazione. – Zayn, tu sarai il mio accompagnatore per la serata, ho deciso» decretò, afferrandolo per un braccio e attirandolo a sé come a fargli interpretare il ruolo di fidanzata. «Ok, ma non aspettare che ti riaccompagni a casa per poi baciarti davanti al cancello» acconsentì lui, facendoci ridere mentre l’amico alzava gli occhi al cielo e commentava qualcosa.
Aspettai in disparte che Louis ringraziasse tutti per la sorpresa, approfittandone per godermi l’espressione serena che gli illuminava il volto e il sincero affetto che cercava di dimostrare tramite una battuta beffarda o i suoi modi a volte un po’ da orso. Sorridevo ogni volta che il suo sguardo si posava su di me, impaziente di dirmi qualcosa che avrei dovuto aspettare per ascoltare, e non potevo contenere il libero benessere che pervadeva ogni fibra del mio corpo.
«Ben fatto» mormorò Abbie avvicinandosi a me e dandomi una piccola spallata giocosa.
«Grazie per avermi aiutata» esclamai, incrociando le braccia al petto.
«Figurati, non dirlo nemmeno per scherzo – mi contraddisse lei, corrucciando le sopracciglia scure. – Anzi, ti avevo promesso che avrei cucinato, quindi corro in cucina» aggiunse, arricciando il naso sottile.
«Vengo anch’io» dissi prontamente, facendo un passo per seguirla.
«Ferma lì – protestò, bloccandomi con le mani alzate tra di noi e un’espressione determinata. – Stai con Louis e prenditi qualche merito: alla cena ci penso io, tu intanto vai a prepararti. E non osare ribattere!»
 
In camera di Louis rovistai nella borsa che mi ero portata da casa con il cambio per quella sera e alcuni oggetti personali: mi muovevo lentamente, come se non avessi avuto alcun motivo di affrettarmi, come se in quel momento andasse tutto così bene da impormi di prolungare quella sensazione. Sentivo distintamente le note sempre più esperte della chitarra di Niall e la sua voce acuta che le accompagnava in una canzone che non conoscevo. Ormai sapevo che quei ragazzi non erano capaci di stare nemmeno mezz’ora senza strimpellare qualcosa o canticchiare qualcos’altro, quindi i loro piccoli concerti improvvisati mi erano più che familiari.
Mi sfilai il maglione e rabbrividii leggermente per la mia pelle scoperta e non abituata a quella temperatura, poi mi sbottai i jeans e li spinsi in fondo alle mie caviglie, calciandoli via con i piedi. Per quella serata avevo comprato un vestito molto simile ad un classico tubino, semplice nella sua stoffa di un grigio scuro anche se leggermente provocante per l’ampia apertura che aveva sulla schiena. Speravo che a Louis sarebbe piaciuto e che – come sempre – avrei potuto sentire la sua mano appoggiarsi sulla mia pelle nuda.
Come se l’avessi chiamato con un semplice pensiero, Louis entrò nella stanza aprendo cautamente la porta e lasciando sgattaiolare all’interno un po’ di baccano in più, messo a tacere subito dopo.
Gli sorrisi spostandomi un ciuffo di capelli dietro l’orecchio e mi sentii lusingata di avere il suo sguardo su ogni centimetro della mia pelle. Bruciava su di me, ma non poteva che farmi sentire terribilmente viva.
«Hai intenzione di consumarmi?» scherzai, mentre mi voltavo completamente verso di lui incrociando le braccia al petto.
Lui si leccò velocemente le labbra tornando a guardarmi negli occhi. «Sei proprio una stronza» commentò con la voce acuta e un sopracciglio alzato.
«E a cosa devo tutta questa gentilezza?» domandai, sfoggiando un sorriso provocatorio e facendo un passo verso di lui. Di nuovo si soffermò sul mio corpo, mentre in me non c’era nemmeno una traccia di pudicizia o imbarazzo: Louis era in grado di farmi sentire nuda anche con mille abiti indosso, quindi della stoffa non avrebbe di certo fatto la differenza.
Schiuse le labbra lentamente e mi venne incontro con estrema calma, come se stesse decidendo cosa fare. Allungò una mano tra di noi e mi sfiorò il seno lasciato scoperto dalle coppe poco imbottite in ricami bianchi, facendomi rabbrividire. Alzò lo sguardo nei miei occhi ed io mi avvicinai ancora, fino ad avere il suo viso a pochi centimetri dal mio, fino a respirare la sua aria.
«Mi hai fatto così incazzare in questi giorni» mormorò con durezza, circondandomi i fianchi con il braccio sinistro e attirandomi con forza contro il suo corpo. Sentivo la sua presa imprimersi sulla mia pelle e la mia volontà rimanerci incastrata. Accennai un sorriso e portai una mano tra i suoi capelli, mentre la sua destra si posava sul mio collo.
«Non riesco a credere che tu abbia davvero pensato che io mi fossi dimenticata del tuo compleanno» gli sussurrai con le labbra a sfiorare le sue.
«Sei un’ottima attrice» ribatté lui, afferrandomi i capelli dietro la nuca e passando a baciarmi il collo, mentre faceva piccoli passi avanti portandomi a seguirlo.
«Non ho ancora sentito un “grazie”, però» precisai.
Con gli occhi chiusi e la voglia di Louis a farmi da ossigeno, sorrisi quando sentii la mia schiena aderire contro la parete della stanza. Strinsi la sua maglia tra le dita e gli morsi un labbro, cercando di fargli capire quanto avessi bisogno di un suo bacio. Ma lui in certe cose non era cambiato ed era ancora in grado di farmi perdere la ragione per puro gusto.
«Posso ringraziarti come si deve?» sussurrò sulla mia guancia, chiudendo una mano sul mio seno destro.
«Sto aspettando.»
Louis emise quasi un gemito nell’udire il mio consenso – come se d’altronde ne avesse avuto bisogno – e si spinse contro di me facendomi perdere il fiato. Mi chiedevo se l’effetto che aveva su di me prima o poi si sarebbe alleviato, se mi avrebbe lasciata respirare o se avrebbe semplicemente continuato ad ardermi dentro, senza pietà. Eppure erano passati mesi ed io ancora tremavo tra le mani ruvide di Louis.
«Cristo, Vicki» sussurrò contro il mio orecchio, dopo essersi sfilato la felpa con il mio aiuto. «Sei così bella.»
Strinsi un po ‘ di più la presa intorno al suo corpo mezzo nudo e mi torturai un labbro quando lui prese a fare lo stesso con il mio collo. «Per favore» mi lamentai, cercando la sua bocca. Lui sorrise e mi guardò negli occhi accarezzandomi i capelli, ma non mi accontentò.
Proprio in quel momento, dal salotto provennero una serie di accordi che Niall stava suonando con più enfasi del solito e, ad accompagnarli, una voce acuta e limpida, che si divertiva a toccare più note e a prendersi gioco di loro, riuscendo ad intonarle alla perfezione nonostante la loro difficoltà.
Io alzai leggermente il viso, improvvisamente catturata da quella piccola performance inaspettata, e percepii Louis sorridere fiero, mentre mi sfiorava il mento con il naso. «È anche merito tuo» mormorò, notando la mia espressione sbalordita.
Perché quella era la voce di Zayn, la preziosa e potente voce di Zayn, quella che solo da poco avevo potuto conoscere al di fuori degli studi di registrazione o dei programmi televisivi. Perché Zayn era tornato a cantare come Louis mi raccontava che un tempo faceva. Ed io ero così fiera di lui.
Mi fu impossibile trattenere un sorriso, soprattutto al pensiero che quel piccolo e significante cambiamento potesse essere stato in qualche modo stimolato da me, da ciò che io e Zayn avevamo passato e da ciò che tutto quello gli aveva fatto capire.
«Però ora torna da me» continuò Louis, cercando di attirare la mia attenzione.
«Non essere egoista» lo rimproverai scherzando, nonostante io fossi più che favorevole a riprendere ciò che avevamo interrotto.
«Sempre più stronza - commentò, mordendomi il lobo dell’orecchio e facendomi ridere. La passionalità di Louis mi lasciava sempre senza parole, anche dopo tutto quel tempo: era come rapportarsi con una fiamma pura, che attira e ferisce allo stesso tempo, rendendo masochista chiunque la conosca. Quante volte ancora mi sarei lasciata bruciare da lui? - Riesci a sentire quanto ti amo?» aggiunse dopo una manciata di secondi, scendendo a baciarmi la clavicola sporgente e poi un seno.
E sì, sì che riuscivo a sentirlo.
«Me l’hai insegnato tu - spiegò, fermandosi a pochi millimetri dal mio volto e permettendomi di rimanere incantata dai suoi occhi sottili e carichi di sentimento. - Mi hai insegnato ad amarti e io non voglio più smettere.»
A quel punto, con le sue parole incastrate dentro di me, mi presi ciò che mi stava torturando e mi appropriai delle sue labbra, gemendo per il modo in cui Louis reagì stringendo le mani sulla mia schiena nuda.
«Neanche io voglio smettere – confermai senza fiato. – E non posso farlo.»
 
~~~~
 
25 Dicembre, ore 00.13
 
Zayn.
 
La signora Carden si ricorda ancora di me, sai? Mi è dispiaciuto disturbarla, ma non ho più le chiavi del tuo vecchio appartamento e non avevo altra scelta. È lei che mi ha aperto il cancello, aspettandomi poi con un sorriso sulle labbra e un pezzo di panettone sulla porta, nonostante io fossi solo di passaggio. Mi ha fatto gli auguri e mi ha chiesto come stessi, mentre negli occhi piccoli e grigi teneva ben saldo il tuo ricordo, il ricordo della sua giovane e sfortunata vicina di casa.
Io comunque le ho detto che sto bene. E non ho nemmeno dovuto mentire o serrare la mascella per nascondere la verità, anche se non so quanto mi abbia creduto. Ma non importa, giusto?
Il tetto del tuo vecchio appartamento è sempre uguale: immagino che sarei potuto andare al cimitero, portarti un fiore e stringere i pugni di fronte alla tua lapide, ma ho pensato che venire quassù mi avrebbe avvicinato un po’ di più a te, in qualche modo. È tutto sempre uguale, anche se i ricordi sono sbiaditi rispetto a quando mi ci hai portato tu: solo il giorno prima avevamo avuto quella grossa discussione riguardo ciò che il dottore ti aveva detto e ciò che tu mi avevi tenuto segreto. Riguardo i tre mesi che ti – ci – rimanevano e riguardo tutto ciò che ne conseguiva. Avevi detto che questo era stato il tuo posto segreto, ma che ormai ero diventato io il tuo rifugio: mi crederesti se ti dicessi che avrei voluto urlare al cielo notturno tutta la mia felicità per quelle semplici parole?
Mi sembra ancora di vederti seduta su quel blocco di cemento, a guardare in silenzio le luci di Londra e ad aspettare che la mia presenza ti consolasse.
Alla fine l’ha fatto?
A me piace pensare di sì: è vero, quell’ultimo giorno… Quella volta non ci sono stato e credimi, è l’unico rimpianto che ancora mi logora l’anima, l’unica cosa che non riuscirò mai a perdonarmi, ma sono stanco di ridurre tutto a quel momento, per quanto importante: io voglio pensare a tutti gli altri minuti che abbiamo condiviso, a tutte le carezze che hanno scandito il poco tempo che avevamo. Voglio credere a quando mi dicevi che io ti bastavo e che ti tenevo in vita, voglio crederti perché te lo meriti e sì, perché forse me lo merito anche io.
Un grande cambiamento, vero? Non avrei mai detto che sarei riuscito a vedere le cose da questa prospettiva, ma forse ti ho resa un po’ più fiera di me ora che sono di nuovo in piedi, o almeno tento di resistere: la verità è che ho capito di aver sempre sbagliato tutto. Ci sono arrivato troppo tardi, ma ci sono arrivato e voglio aggrapparmi a questa certezza, a questa speranza. E la verità è che tu eri troppo, Leen.
Come poteva il mondo lasciarti vivere quando tu, con tutto quello che eri e con tutta la vita che sprigionavi, lo mettevi in ombra e lo screditavi anche solo con un sorriso? A questo punto credo che fossi davvero troppo per lui, per tutti gli altri e persino per me.  Quindi io avrei solo dovuto essere riconoscente: avrei dovuto asciugarmi le lacrime molto tempo fa e riempirmi della gratitudine che l’averti conosciuta e avuta scaturisce in me.
Ormai ho capito che la tua assenza sarà sempre una cicatrice nella mia vita, qualcosa che rimane perennemente anche quando ti dimentichi di averla, ma che è sempre in grado di balzare all’occhio nel momento in cui meno te lo aspetti. E in questa tua assenza, io devo avere un appiglio che mi impedisca di sentire il dolore per quella ferita ormai rimarginata ma presente e infima, della quale non mi sbarazzerò mai: fino a poco tempo fa ho usato la rabbia per la tua scomparsa, il risentimento e il rancore per l’ingiustizia che tu non ti meritavi. Invece adesso ho fatto di te la mia arma vincente: ho preso tutto ciò che hai significato per me, tutto ciò che sei stata e persino quello che saremmo potuti essere insieme, e ne ho fatto la mia fortuna. Per andare avanti, ho bisogno di ripetermi che sei stata mia, anche se non ci sei più, anche se ancora non capisco perché debba essere toccato a noi. Tu sei stata mia e sei davvero esistita. Le tue labbra mi hanno davvero baciato il petto. Il tuo profumo era davvero sul mio cuscino. La tua pelle era davvero sulla mia. Tu hai davvero amato me.
Chi sono io per tradire la tua vita soffermandomi su ciò che è scomparso e mettendo da parte tutto il resto? Come posso essere così ingrato, quando tu sei esistita per così poco regalandomi l’onore di averti accanto? Nessun altro può dire lo stesso, nessun altro ha avuto i tuoi capelli tra le dita e la tua forza nelle proprie vene. Nessun altro ha avuto il mio stesso privilegio.
Ed io voglio onorarlo, questo privilegio.
Leen, ho smesso di piangermi addosso, ci sto provando con tutte le forze che ho e so anche di averci messo troppo tempo. Voglio tener fede alla promessa che ti ho fatto e riprendere a vivere anche per te, un po’ acciaccato e ancora in ginocchio, ma ho intenzione di farlo. E mi dispiace che tu abbia dovuto vedermi ridotto a qualcosa di così patetico e immeritevole di ciò a cui tu hai dovuto rinunciare. Mi dispiace tanto. Ma questa è l’ultima volta che ti faccio una promessa, perché non la infrangerò più e di questo sono convinto.
 
Mentre guardo le luci Londra sento ancora il tuo profumo di quella sera, e sai una cosa? Penso che continuerò a sentirlo sempre, in ogni momento della mia vita, ma se prima mi sembrava una condanna, una tortura alla quale non sarei potuto sfuggire, ora riesco ad avere un altro punto di vista: io non devo liberarmene, né ignorare qualsiasi ricordo che ti coinvolga, perché non avrebbe senso e perché in fondo non ne sono mai stato capace. Non voglio che tu diventi qualcosa da nascondere perché troppo doloroso, da temere perché troppo pericoloso: ricorderò sempre ogni tuo particolare e ogni secondo condiviso, per ricordare a me stesso l’amore che sei riuscita a donarmi e la vita che hai riversato direttamente dentro di me, nonostante io l’abbia sprecata così a lungo. E non cercherò nessuno che possa essere simile a te o migliore, perché sono arrivato alla conclusione che ciò che abbiamo vissuto non può essere emulato né superato: ho sempre cercato un modo per riparare alla tua assenza, ma non si può riempire un vuoto con un pezzo di ricambio smussato o imbellito, perché non combacerà mai perfettamente. Così, mentre la mia vita andrà avanti, io accetterò ciò che il destino mi riserverà, consapevole dell’amore che ho già avuto il privilegio di provare e che non posso cercare perché troppo raro.
Sarai sempre l’amore che mi ha consumato il cuore e questo non voglio cambiarlo, per quanto possa essere doloroso: sono disposto a pagarne il prezzo. Sarai sempre la mia Leen e nessuno potrà uguagliarti, per quanto cercherà di riempirmi di sentimenti sinceri, perché non saranno mai intensi come quelli che univano me e te.
 
Grazie per avermi insegnato a vivere davvero.
E buon Natale: io ti amo ancora e questo è il mio piccolo regalo per te.
 
 
Uscii dal cancelletto in ferro battuto alzando per l’ultima volta lo sguardo verso il tetto del palazzo. Dalle mie labbra schiuse uscì un respiro lento che si condensò di fronte al mio viso, mentre le mie mani cercavano un po’ di calore all’interno delle tasche del giaccone nero che non sembrava essere abbastanza, contro la rigida temperatura della notte di Natale.
Mi soffermai sul cornicione che contornava il tetto dell’edificio, sulle finestre dei vari appartamenti che lasciavano intravedere gli alberi addobbati e le persone in festa. Evitai di immaginare come sarebbe stato passare quella festività con Kathleen e mi strinsi nelle spalle, come per mettermi a riparo da un pensiero che forse non ero ancora pronto ad affrontare, nonostante i miei piccoli grandi progressi.
Con un ultimo sospiro, mi voltai per attraversare il marciapiede e la strada, pronto a tornare dagli altri che, stando ai messaggi che mi avevano mandato, si chiedevano dove diavolo fossi finito – effettivamente avrei dovuto avvertirli della mia uscita in piena notte, al posto di scomparire semplicemente. Immediatamente, però, mi scontrai con qualcuno che evidentemente non avevo visto né sentito arrivare, immerso com’ero nei miei pensieri.
Mi riscossi e allungai una mano verso il braccio della donna contro la quale avevo appena sbattuto. «Mi dispiace, non l’avevo vista» mormorai, mentre lei continuava a tenere il capo chino sui fogli e sulle cartelline in cartone che teneva precariamente tra le mani.
«No, è colpa mia, non stavo guardando dove andavo. Sono mortificata…»
Arrestò le proprie scuse pronunciate velocemente e con in imbarazzo nell’esatto momento in cui alzò lo sguardo su di me. I suoi occhi a mandorla, dalle linee morbide e dalle iridi scure come la pece, si fermarono nei miei quasi con incredulità: stavano analizzando ogni particolare del mio viso, come se stessero aspettando di mettere insieme i pezzi.
Non era una donna, ma una ragazza. Una ragazza asiatica e bella da lasciarmi interdetto per qualche secondo. La carnagione chiara definiva il viso armonioso e contrastava con i capelli neri che scendevano in onde ampie sulla sua spalla sinistra, arrivandole fin sotto il seno nascosto dal cappotto in tessuto beige. Le labbra erano schiuse per quella che sembrava sorpresa, permettendomi di ammirare ancora meglio la loro forma semplice. Le gambe magre erano coperte da quelli che sembravano leggins scuri, abbinati ad un paio di stivaletti dello stesso colore.
Sentii qualcosa di strano muoversi dentro di me, spingermi a parlare per riempire quel silenzio quasi imbarazzante. «Non fa niente» sussurrai appena, corrugando impercettibilmente la fronte a causa della sensazione alla bocca dello stomaco che mi stava stupendo e agitando al tempo stesso.
Immediatamente dopo, gli innumerevoli fogli le caddero dalle mani, sparpagliandosi a terra. «Oh mio Dio» disse la ragazza flebilmente, continuando a tenere lo sguardo fisso nel mio.
Io non seppi cosa fare prima: se chiederle se stesse bene, se domandarle cosa stesse facendo in giro per Londra la notte di Natale o se piegarmi a raccogliere il suo materiale, sperando di aiutarla a ricomporsi. Optai per la terza opzione, ipotizzando che se avessi rotto il contatto visivo probabilmente avrei potuto mettere a tacere ciò che stava succedendo dentro di me. Perché stava effettivamente succedendo qualcosa ed io non sapevo come gestirlo, cosa farmene e come interpretarlo.
Con le dita fredde e arrossate, raccolsi i fogli uno ad uno, sbirciando i titoli scritti in grassetto che suggerivano fossero recensioni di libri e articoli letterari. Quando li riordinai, sotto il suo sguardo ancora muto, glieli porsi senza dire una parola.
Iniziavo seriamente a temere che si sentisse male.
«Oh mio Dio» ripeté, immobile di fronte a me.
«Ehm… Questi li rivuoi, o…?» chiesi scherzosamente schiarendomi la voce e sperando di ottenere una sua reazione.
Solo a quel punto lei quasi sobbalzò, assumendo un’espressione tra l’imbarazzato e il terrorizzato. Afferrò il materiale dalla mia mano e boccheggiò qualcosa. «Grazie – disse con il respiro bloccato. – Voglio dire, grazie, sì. Ma tu sei Zayn Malik, vero? Sì, certo che lo sei ed io… Oh mio Dio.»
Sorrisi per quelle sue parole balbettate e per il modo in cui si stava sistemando nervosamente i capelli sulla spalla, continuando a guardarmi come se dovesse ancora capire se fossi reale. Evidentemente mi conosceva e l’avermi incontrato in modo così inaspettato doveva averla sconvolta: ero abituato a scene del genere, perché ormai erano all’ordine del giorno, ma lei era più buffa del solito.
«Vuoi, non so, un autografo? Una foto?» domandai, cercando di smorzare la sua agitazione. Non potevo lasciarle ripetere quell’esclamazione ad oltranza, quindi smuovere la situazione avrebbe potuto funzionare: non che fossi così egocentrico da pensare che chiunque volesse un mio autografo, ma era quello che succedeva il più delle volte e in quella situazione era la prima cosa che mi era venuta in mente.
«No – rispose lei, scuotendo con energia la testa. Quei suoi occhi probabilmente stavano cercando di logorarmi. – Voglio dire, sì, certo che li vorrei. Ma non ho una penna e ho lasciato il telefono in ufficio e sono così in ritardo che non posso nemmeno fermarmi, capisci? E tu sei Zayn Malik, cazzo!»
Accennai una risata per quel suo piccolo sfogo frettoloso e confuso: il suono della sua voce era leggermente acuto, ma per niente fastidioso, e stranamente avevo voglia di studiarlo un po’ di più.
«In persona – ammisi, annuendo divertito. – Se posso chiedertelo, dove devi andare così di fretta la notte di Natale?» domandai, incuriosito dalla sua urgenza. I suoi movimenti impazienti e agitati lasciavano trasparire quello che sembrava un enorme ritardo.
«Come dove devo andare? – ribatté lei, leggermente confusa. – L’hai detto tu, è Natale! Devo andare da mia sorella e so già che mi ucciderà, perché le avevo promesso che sarei arrivata per cena e invece ho dovuto terminare degli stupidi incarichi per il mio capo! Quale razza di essere umano costringe a lavorare in una notte come questa? Forse è solo perché non conosce mia sorella: mi ucciderà, te lo dico io. E quando le dirò di averti incontrato non mi crederà e mi ucciderà di nuovo!»
Pose fine alla sua parlantina inarrestabile e sospirò a lungo. «Oh mio Dio, sto parlando con Zayn Malik» ripeté ancora, in un attimo di realizzazione. Era esilarante tutta quella sua irrequietezza.
«Ok, calma – esclamai, rivolgendole un altro sorriso. – Posso accompagnarti io da tua sorella, se per te va bene» le proposi, contro ogni logica. Di norma non l’avrei fatto, ma c’era ancora quella insistente sensazione alla bocca dello stomaco che si ostinava a decidere per me. Era frenesia quella che mi spingeva a buttarmi a capofitto in quella situazione, un’immotivata frenesia.
Per la prima volta vidi le sue labbra inclinarsi all’insù in un sorriso spontaneo e sinceramente incredulo: fui costretto a soffermarmi sugli angoli della sua bocca, non potei farne a meno.
Mi riscossi solo quando tornò improvvisamente seria. «Stai scherzando, vero?» mormorò, quasi si fosse resa conto di essere caduta in un tranello.
«No – la rassicurai, scuotendo la testa. – Ho la macchina parcheggiata dall’altra parte della strada e non sono di fretta: mi dispiacerebbe lasciarti qui, sapendo che tua sorella è un soggetto così pericoloso» scherzai.
«Oh m-»
«Ogni volta che lo ripeti perdi del tempo - la ammonii, sicuro di quello che era sul punto di dire e divertito dalle sue reazioni. – Devo prenderlo come un sì?» indagai oltre, andandole incontro.
Lei annuì lentamente, con gli occhi leggermente spalancati e un sorriso che si andava di nuovo delineando sul suo volto. Stringeva i fogli al petto e ad ogni respiro più pesante si formava una nuvoletta di condensa tra di noi, che si disperdeva lentamente.
«Bene – commentai, infilando di nuovo le mani in tasca per cercare le chiavi della macchina. Non capivo perché il fatto che avesse accettato il mio passaggio mi avesse reso così sollevato: era assurdo e privo di senso. – A proposito, come ti chiami?»
Lei si schiarì la voce e si inumidì le labbra, poi mi tese velocemente la mano, contorcendosi lievemente per non far cadere tutti quei documenti. «Sono Jae, Jae Yoon. E tu mi avrai preso per pazza, ma giuro che non lo sono. Lo giuro.»
Le strinsi la mano e mi si strinse lo stomaco. Le dita piccole e stranamente più calde di quanto sarebbe stato normale quasi tremavano per quel contatto, mentre le mie cercavano di abituarsi a quella pelle. Improvvisamente sentii il bisogno di scappare, di allontanarmi da lei e dai suoi occhi scuri, da quello che mi stava facendo provare e che non sapevo spiegare: una parte di me, quella che per un anno e mezzo si era rifiutata di andare avanti, mi stava di nuovo trascinando indietro, mettendo sulle mie spalle il peso dello sbaglio e del senso di colpa. Kathleen, mi gridava il mio inconscio.
Eppure sentivo distintamente anche il resto di me, quello che si ostinava a lottare con coraggio per potersi rialzare da quel periodo di sconfitta, e lo sentivo rassicurarmi e spingermi oltre le mie paure. Sentivo il mio cuore leggermente accelerato e sentivo il profumo di Jae, insistente e terribilmente persuasivo.
Non sarei fuggito di nuovo, non mi sarei di nuovo privato di qualcosa che avrebbe potuto farmi bene: dovevo continuare ad andare avanti, imperterrito, e l’avevo promesso a Kathleen nemmeno un quarto d’ora prima, ancora una volta, quindi non potevo abbattere tutti gli sforzi e i risultati ottenuti fino ad allora.
Deglutii il disagio e la resistenza che un corpo diverso stava creando in me e abbozzai un sorriso, respirando meno regolarmente. «Andiamo?» le chiesi, ritirando la mano per metterla in tasca e per stringerla a pugno per il calore che aveva sentito.
Jae sorrise e annuì allegra, stringendosi nelle spalle mentre faceva qualche passo al mio fianco, con la punta del naso leggermente arrossata e i capelli mossi dal leggero vento di quella notte.
Ed io non sapevo ancora definire ciò che stavo provando, nonostante sapessi che mi stava terrorizzando e che non ci ero più abituato, che mi stava cogliendo alla sprovvista e che mi stava logorando dall’interno. Non sapevo perché una sconosciuta dovesse avere una così intensa influenza su di me, dal momento che non era diversa dalle altre migliaia di ragazze incontrate nei mesi passati. Non sapevo perché avessi voglia di metterla di nuovo in imbarazzo solo per sentirla di nuovo parlare senza freni e guardarmi dritto negli occhi, spaventata e caparbia al tempo stesso.
Eppure sapevo che qualcosa stavo provando e questo mi destabilizzava, mi faceva venir voglia di urlare a pieni polmoni al cielo di quella notte di Natale scuro come i capelli di Jae e correre liberamente per le strade di Londra senza una meta. Perché forse non avrei mai potuto definire esattamente ciò che si stava risvegliando dentro di me.
Perché forse era solo vita, pulsante e totalizzante.
 
Sono vivo.






 
 

Ma voi avete capito che questo è l'ultimo capitolo in assoluto di questa serie??? Capite il mio stato emotivo????? Giuro che è stranissimo e altrettanto triste, se penso che porto avanti questi personaggi da quasi due anni praticamente :(
Mi scuso ancora una volta per il papiro di epilogo che vi ho propinato, ma come ho già detto su facebook non avrei saputo quale parte tagliare perché ognuna ha la sua importanza! E mi scuso anche se è venuto una cagata, gli ultimi capitoli non sono il mio forte! E ora non so cosa dire ahahah
Credo si commenti tutto da sè ed io ho una specie di blocco che mi impedisce di parlare oltre, forse perché la mia psicologia contorta si rifiuta di mettere la parola fine a questa stora... Però posso spendere due paroline riguardo Zayn: spero vi sia piaciuto il suo piccolo monologo, perché per me è stato un po' difficile scriverlo, dato che è in una situazione delicata! E spero che sia chiaro il suo ragionamento, il suo nuovo proposito :)
Riguardo Jae (della quale vi lascio la gif sotto!), be', è un finale molto aperto! Non volevo dare a Zayn una nuova ragazza, perché sarebbe stato forzato in vista di un lieto fine e perché io mi rifiuto di scrivere di Zayn con qualcuno che non sia Kathleen (ricordate quando all'inizio dicevo che ero in crisi e che non riuscivo a scrivere quello che avrei voluto? Ecco, praticamente succedeva che mentre dovevo far avvicinare Zayn e Vicki, ogni loro momento passato insieme in maniera un po' più "intima" mi faceva contorcere lo stomaco ahahah Leen mi condiziona ancora ahahah) Ma comunque, lascio quindi a voi immaginare cosa sarà di questi due: se Zayn la porterà semplicemente a casa o se ne nascerà qualcosa :)


È arrivato il momento dei ringraziamenti e oddio, rischierei di fare un altro papiro: voi non avete davvero idea di cosa abbiate fatto per me durante questa storia ma anche durante "Unexpected". Mi avete sopportata in tutto, credendo in me anche quando io avrei preferito darmi all'ippica, e mi avete spronata a migliorarmi sempre di più, continuamente. È grazie a voi se sono riuscita a scrivere queste storie e se mi è piaciuto tanto farlo, è grazie a voi che mi sono commossa di fronte alle vostre recensioni ed è grazie a voi se posso dire di aver conosciuto delle persone meravigliose! Quindi GRAZIE, mille volte grazie!

E ora vi saluto o mi commuovo ahahahah Per favore, fatemi sapere i vostri pareri dato che non ce ne sarà più occasione! Anche chi magari non ha mai recensito, mi farebbe piacere conoscere le vostre opinioni sulla storia :)
Vi lascio i miei contatti, per chi volesse parlarmi o che so io!
Ask - Twitter - Facebook
 
Per chi volesse, qui c'è la nuovo storia su Harry! Cliccate sul titolo per il link, si intitolo "
Little girl" (:
 
 
   

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1696804