Hunger TH

di ChiiCat92
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** La Mietitura ***
Capitolo 3: *** Capitol City ***
Capitolo 4: *** Sorridi ***
Capitolo 5: *** Gli Invitati alla Festa ***
Capitolo 6: *** Prepararsi alla Lotta ***
Capitolo 7: *** Perché? ***
Capitolo 8: *** 24, Leone Morto ***
Capitolo 9: *** Ultimatum ***
Capitolo 10: *** L'Intervista ***
Capitolo 11: *** L'Arena ***
Capitolo 12: *** La Città Dell'Eterno Tramonto ***
Capitolo 13: *** La Sabbia Bianca e la Bestia Nera ***
Capitolo 14: *** Confuso Risveglio ***
Capitolo 15: *** La Notte Arancione ***
Capitolo 16: *** Svegliami più tardi con un bacio ***
Capitolo 17: *** A sangue freddo ***
Capitolo 18: *** Il mare di pioggia ***
Capitolo 19: *** Il bacio di Giuda ***
Capitolo 20: *** Una serpe in seno ***
Capitolo 21: *** Quando si premedita freddamente un delitto, si premeditano freddamente anche i sistemi per celarlo ***
Capitolo 22: *** L'unico amico che mi resta ***
Capitolo 23: *** La donna non è leggera come l'uomo, che tradisce anche per gioco o per puro piacere; no, la donna trova sempre un valido motivo ai suoi tradimenti. ***
Capitolo 24: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


25/04/2013

 

Prologo

 

Quando io e mio fratello nascemmo, fu subito chiaro a tutti che saremmo stati un problema.

Non perché fossimo dei bambini irrequieti e dessimo in qualche modo fastidio.

Da un certo punto di vista, non eravamo altro che due normalissimi bambini. Guardavamo il mondo con gli occhi spalancati, piangevamo se avevamo fame, ci piaceva dormire vicini, profumavamo di buono, facevamo versetti: insomma, niente di sorprendente, erano cose che che facevano tutti i bambini.

Quello che disturbava della nostra esistenza, era il fatto che fossimo gemelli.

Gemelli.

Un parolone che, fino a quel momento, era stato usato per le cucciolate di cani e gatti.

Ma una gravidanza del genere in un Essere Umano, a Panem non si era mai vista.

Per questo, quando venimmo al mondo, fu tutto un correre e scappare e un avvertire i Pacificatori.

Per una settimana dopo la nostra nascita, fummo tenuti lontani da nostra madre, e portati a Capitol City, per motivi che ancora oggi non ci sono chiari.

Nessuno avrebbe mai pensato che la nostra nascita avrebbe potuto sollevare un tale polverone.

Ma in un Distretto dove l'ingegneria genetica era la maggior fonte di sostentamento, e che creava tutti gli ibridi che si presentavano nell'Arena ogni anno, noi non potevamo essere altro che un esperimento riuscito male.

Soprattutto quando si venne a sapere che nostro padre lavorava sulla fertilità femminile. Che fossimo davvero quello che dicevano che fossimo?

Del periodo a Capitol City, comunque, per ovvie ragioni, noi non ricordiamo nulla, e quando proviamo ad aprire il discorso con qualcuno, immediatamente riceviamo risposte affrettate, che tendono a far scivolare l'argomento della conversazione su qualcos'altro.

Sono tutti bravi a cambiare discorso, quando si parla di noi.

Tom e Bill Kaulitz, i gemelli dei Distretto 10, gli unici gemelli del Distretto 10, anzi gli unici di tutta Panem.

All'inizio, non è stato così problematico convivere con la nostra diversità, forse perché entrambi eravamo abituati ad essere considerati come degli emarginati. D'altronde, nostro padre è un vincitore degli Hunger Games, e noi viviamo felici e contenti al Villaggio dei Vincitori, con tutti i confort, il cibo, e le comodità che da questo ne deriva.

Essere figli di qualcuno che ha ucciso ventitré ragazzi della sua età, di cui un suo concittadino, a sangue freddo e senza mostrare alcun sentimento, rendeva di per sé inavvicinabile.

Se poi, a tutto questo, si aggiunge l'essere delle specie di fenomeni da baraccone, allora il pacchetto “keep away” è bello e servito.

A me non dispiace che Bill sia mio fratello. E non mi dispiace di certo che sia il mio gemello.

Certo, a volte è davvero inquietante specchiarmi in lui. Lo guardo con la coda degli occhi, e rivedo me stesso.

Per i primi dodici anni delle nostre vite, abbiamo cercato di comportarci come se non ci importasse delle occhiate che ci lanciavano, del modo in cui ci trattavano, e anche dell'essere continuamente scambiati.

Ma essere letteralmente scampati alla prima Mietitura, ci ha profondamente cambiati.

Ricordo quel giorno come se fosse ieri.

Nessuno dimentica la prima Mietitura.

Nostra madre era così isterica quel giorno. Non faceva che girare per casa parlando da sola, entrando in una stanza, guardarsi intorno e poi uscirne, come se si fosse dimenticata perché ci fosse entrata.

Poi erano cominciati i preparativi.

Per prima cosa, ci costrinse a fare il bagno. A me e a Bill non piaceva fare il bagno, per nulla al mondo, avremmo preferito che ci ammazzassero, e a dodici anni ci sentivamo degli uomini vissuti, che potevano puzzare ed essere sporchi quanto volevano. Ma quel giorno, qualcosa negli occhi di nostra madre ci disse che dovevamo farlo, semplicemente. E non opponemmo resistenza.

Le fu difficile non aiutarci a vestirci, le vedevamo le mani fremere, quasi si stesse trattenendo.

Ricordo anche di aver scambiato uno sguardo con Bill, e di essermi sentito improvvisamente molto triste per la mamma, infinitamente triste.

Quando fummo pronti, trovammo nostro padre in attesa davanti alla porta di casa. Ci diede solo una pacca sulla spalla, prima di uscire.

Arrivati in piazza, fummo subito separati dalle ragazze, e infilati tra gli altri ragazzini di dodici anni; tutti nostri compagni di scuola, ma non conoscevamo nessuno.

Solo in quel momento, capii esattamente che cosa stesse succedendo. Ma non ebbi paura, non pensai a tutto quello che poteva capitarmi, a cosa avrei dovuto affrontare, al perché avrei dovuto farlo.

Pensai solo a Bill.

Sì, in quel momento pensai solo a lui.

Bill era decisamente diverso da me, anche se nessuno sembrava accorgersene.

Lo vedevo come una continuazione naturale del mio braccio, ma anche come una range zone in cui mi era impossibile entrare.

E quando lo vidi, piccolo e impettito nella camicia bianca, capii che non poteva, e non doveva, partecipare agli Hunger Games.

Qualsiasi cosa fosse successa, mi sarei imposto per salvarlo.

Questo pensai, mentre il primo nome, quello del Tributo femmina, veniva estratto. E sentii di avere il cuore in pace.

A dodici anni, decisi che sarei morto per mio fratello, e nessuna decisione poteva essere più sensata di quella.

Così, quando sentii “Kaulitz”, non aspettai neanche che dicessero chi dei due Kaulitz fosse, né rimasi sorpreso o me ne preoccupai, e mi feci avanti direttamente.

Successe tutto molto in fretta. Mentre mi avvicinavo al palco, sentii che veniva pronunciato il mio nome, e fui felice che non toccasse a Bill, fui felice che lui non dovesse addossarsi il peso della mia morte, perché la sorte aveva deciso che dovevo essere io il Tributo, non lui. E andava bene così, ero assurdamente felice.

Ma qualcuno, tra la folla, urlò, forte e chiaro, “Mi offro come Tributo!”. E come in un incubo vidi Georg che si sporgeva dalla fila e si offriva.

Georg era il mio migliore amico, o forse dovrei dire il nostro migliore amico.

Tra tutte le persone del Distretto, quel ragazzo di due anni più grande di noi, era stato l'unico che ci aveva trattato come persone, e non come ibridi usciti da uno dei laboratori disseminati qua e là.

Era stato sempre gentile, sempre affabile, e non aveva mai avuto problemi nel distinguerci. Per noi, era praticamente un miracolo, oltre che una specie di privilegio. Georg aveva deciso di accettare la nostra esistenza, di prenderne parte, e questo ci faceva sentire veramente speciali.

Quando decise di morire per me, non riuscì ad essere così coraggioso da tenermi in piedi.

Lo shock di vederlo avanzare a passo sicuro, nascosto dai suoi capelli castano ramati, a testa alta e con gli occhi verdi che brillavano, mi bloccò le corde vocali, e mi lasciò attonito.

Lo vidi salire sul palco, orgoglioso tra il silenzio mortifero degli abitanti del Distretto.

Poi il mio sguardo cadde sulla sua famiglia, perché avevo subito percepito l'odio cocente scagliato nella mia direzione.

Non ricordo cosa gli dissi, prima della partenza per Capitol City. Da quel momento, e fino alla sua morte, i miei ricordi si fanno confusi, e mi chiedo spesso se non abbia vissuto in una specie di sbronzo coma in quei lunghi giorni.

Georg morì, la prima settimana dei giochi. Ucciso a sangue freddo dalla ragazzina del suo stesso Distretto; mentre la difendeva da un Tributo del Distretto 1, lei ne aveva approfittato per trafiggerlo alle spalle.

Non c'è bisogno di dire che io e Bill festeggiammo selvaggiamente, quando il Tributo dell'1 le tagliò da parte a parte il collo, dissanguandola.

Quello che era stato il mio migliore amico, l'unica persona che aveva avuto il coraggio di sacrificarsi per me, tornò al Distretto in una bara di legno, pallido, emaciato, e morto.

Non riuscii neanche a piangere.

Da quel giorno, sia io che Bill andammo incontro ad un cambiamento inevitabile quanto drastico.

Le nostre personalità si definirono con precisione matematica, esasperandosi ai due opposti.

Bill si chiuse totalmente in se stesso, e si gettò a capofitto verso il nero: di nero si tinse i capelli, di nero si vestiva, di nero cominciò a truccare pesantemente gli occhi. Usciva raramente, e raramente lo si vedeva intrattenere rapporti con la gente. Perse quasi del tutto la voce, e la voglia di vivere.

Io divenni uno skater boy, lasciai crescere liberamente i miei capelli biondi, e cominciai ad indossare abiti larghi, che mi nascondessero il più possibile.

Mi unii ad una piccola gang di ragazzi di strada, mal visti dal Distretto, quelli che venivano definiti dalla nostra comunità “problematici” solo perché diversi.

I soldi di nostro padre ci permettevano di fare ciò che volevamo, e nessuno riusciva ad avvicinarsi abbastanza a noi da poterci fermare, o cambiare, o anche solo provare a fare una di queste due cose.

Comunque fosse, il nostro comportamento non sfociava mai in qualcosa di tanto eclatante da dover essere puniti dai Pacificatori, ma nonostante questo fummo più volte messi alla gogna, in piazza, davanti a tutto il Distretto, per il solo fatto di aver “guardato male” uno di loro.

L'unico posto dove ci sentivamo al sicuro, era nel silenzio che calava tra di noi ogni tanto, un silenzio speciale, attraversato dai nostri pensieri.

Succedeva al calar della sera, quando cominciavano ad accendersi le prime stelle.

Era diventato un po' il nostro appuntamento fisso, il momento della giornata che dedicavamo solo all'altro, togliendogli la maschera che aveva indossato per tutto il giorno.

Ci incontravamo alla recinzione, quella che separava il nostro Distretto da tutto il resto di Panem, oltre il Villaggio dei Vincitori, dove non c'erano più case, né asfalto, ma solo una lunga distesa di erba alta, che ti mangiava fino al petto se ti immergevi.

Lì ci nascondevamo agli occhi di tutti, finché non diventava abbastanza buio da costringerci a tornare a casa.

Al mercato del Distretto avevo trovato una chitarra. Non avevo idea di cosa fosse una chitarra finché non ne avevo vista una. Costava un occhio della testa, e non era neanche in buono stato, ma sentivo il bisogno di comprarla. Per settimane avevo rubato qualche soldo dalle tasche di mio padre per poter racimolare il necessario per averla. E quando finalmente ci ero riuscito, qualcuno l'aveva già comprata. Abbattuto, quella sera mi diressi al nostro posto segreto, rabbiosamente. Non avevo visto Bill per tutto il giorno, e volevo raccontargli l'accaduto. Quando arrivai, vidi che teneva tra le braccia la chitarra. L'aveva comprata per me.

“Suonala.” mi disse, e me la porse.

Non appena le mie dita toccarono il legno scuro e consumato della chitarra, capii che sarebbe stata la mia salvezza.

Per imparare, ci impiegai un po'. Nessuno mi aveva mai insegnato qualcosa di musica, d'altronde, in un Distretto che si occupava di allevamento e manipolazione genetica, a che cosa serviva la musica? Era più una cosa da Capitol City.

Però, quando cominciai ad essere più sicuro, Bill prese a cantare. La voce era ancora incerta, memore dei lunghi mesi trascorsi senza essere utilizzata, ma era bella, e si accompagnava alla mia chitarra in maniera così naturale da farmi quasi venire i brividi.

Ora che ci penso, la musica deve averci salvato la vita, perché ci costringeva a trascinarci lungo un'altra giornata solo per poter arrivare a quei pochi momenti che passavamo insieme alla sera.

Tutto diventava relativo, anche la nostra esistenza.

Gli Hunger Games, la morte di Georg, la sofferenza dell'essere degli emarginati, non aveva più senso niente; il mondo si scoloriva nelle note della chitarra e nei vocalizzi di Bill.

All'inizio, erano solo melodie canticchiate senza parole, perché lui non aveva niente da dire, o forse non sapeva dirlo. Ma a poco a poco cominciò ad unire parole alla musica. Tutto quello che gli passava per la mente, tutto quello che non aveva potuto dire a nessuno, usciva fuori sotto forma di canzoni che potevano durare delle ore, perché non mi stancavo mai di suonare, per me e per lui.

E non era neanche tanto brutto alzare gli occhi al cielo e vederlo buio come la pece e sapere che era il momento di andare. Anche quello divenne il nostro rito.

Io riponevo la chitarra nella sua custodia, e Bill mi aiutava a nasconderla nella fossa che avevamo scavato. Poi, di nuovo in silenzio, tornavamo a casa, con il cuore un po' più leggero.



The Corner

Ciao a tutti,
cominciandomi a sentire meglio,
ogni giorno che passa,
ho deciso di buttar giù questa storia.
Era un po' che volevo scrivere una FF ambientata negli Hunger Games,
all'incirca da un annetto (da quando ho scoperto il libro ahahah),
per cui, ho preso il mio Tom, il suo fratellino, i loro due amichetti,
e bim bum bam, eccoci a Panem.
Come avete visto, la storia è raccontata in prima persona da Tom,
spero che non sembri troppo femminile, data la mia influenza
(non so come pensa un maschio ahahahah).
Fatemi sapere cosa ne pensate :)
In linea di massima, la pubblicazione avverrà di giovedì,
come per tutte le altre storie!
Grazie a tutti,
Chii

 

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Capitolo 2
*** La Mietitura ***


1: La Mietitura

 

Il nostro rapporto con gli Hunger Games, da sempre, era stato di reverenziale timore.

Sapevamo che nostro padre era un Vincitore, e questo ci affascinava e spaventava insieme.

Lui non ci ha mai voluto raccontare di quello che successe l'anno in cui aveva vinto, né delle persone che aveva ucciso.

A volte lo sentivamo urlare, nel bel mezzo della notte. Le sue urla ci svegliavano di soprassalto e ci lasciavano spaventati nei nostri letti.

Questo, prima dei nostri dodici anni, della prima Mietitura e del sacrificio di Georg.

Da quel momento in poi, gli Hunger Games sono diventai un marchio che ci portiamo addosso ogni giorno della nostra vita. Non possiamo cancellarlo, non ci è permesso.

Quando stavamo per dimenticare un'edizione, ecco che ne cominciava un'altra, e dovevamo affrontare l'ennesima Mietitura, che poteva tranquillamente essere l'ultima.

Da qualche parte nella mia mente, mi dicevo che ogni anno dovevo morire, ad ogni costo. Perché non avrei permesso che mio fratello perdesse la vita come Georg.

Non mi attraversava neanche per un istante l'idea di poter vincere. Ero troppo minuto, troppo debole, e probabilmente troppo codardo, per potermi guadagnare il diritto di vivere a suon di omicidi.

Io e Bill, in linea di massima, la sera prima di ogni Mietitura, ci davamo l'ultimo saluto. Non avremmo sopportato di doverlo fare prima della partenza, sarebbe stato come conferire altro potere a Capitol City.

Nessuno di noi si sarebbe presentato davanti all'altro, se fosse stato scelto come Tributo (o se si fosse offerto come tale); tutto quello che dovevamo dirci, lo dicevamo la sera prima della Mietitura, chiudendo tutti i conti in sospeso con noi stessi, e mettendoci l'anima in pace.

Come figli di un Vincitore, non abbiamo mai dovuto iscriverci per avere le tessere. Il cibo e il denaro non sono mai stati un problema per noi.

Quindi i nostri nomi compaiono solo una volta all'interno dell'urna.

Eppure, qualcosa ci costringeva a pensare che ogni anno toccasse a noi.

Forse era il semplice panico dilaniante che si insinuava nei corpi di due ragazzini in bilico sull'orlo di un precipizio mortale.

Sono convinto che proverei meno terrore nell'Arena.

Una volta arrivato lì, accetti il fatto di essere un cadavere che cammina, no?

A quel punto non conta più niente, che tu respiri o meno.

Potresti anche prendere un coltello e ucciderti durante le sessioni dell'addestramento.

Chissà come la prenderebbe Capitol City, sapendo che ancora prima dei giochi un Tributo è morto.

Hanno pensato al campo magnetico sulla terrazza del centro addestramento, ma a questo?

Non credo.

Forse perché tutti sperano di avere una possibilità di salvezza, e perderla ancora prima di cominciare non avrebbe alcun senso.

Una possibilità su ventiquattro di sopravvivere. È quasi più di quello che la metà degli abitanti del Distretto 10 potrebbe mai sperare.

Chi ci sputerebbe?

No, uccidersi durante l'addestramento sarebbe stupido.

 

Oggi ho diciotto anni. E anche mio fratello Bill.

E domani prenderemo parte alla nostra ultima Mietitura.

L'ultima Mietitura fa davvero schifo, perché ti senti in colpa per tutti quelli che rimangono.

Se neanche quest'anno nessuno dei due dovesse essere scelto come Tributo, vorrebbe dire che potremo passare tutto il resto della nostra vita in tranquillità, conoscere una ragazza, provare dei sentimenti, forse mettere su famiglia. Finché non verranno dei figli, e anche noi dovremo sopportare le loro Mietiture.

Così mi immagino la vita dopo l'ultima Mietitura.

È una cosa davvero scontata, come poche altre.

Però, è così.

Bill non lo sa. Penso che nessuno lo sappia. Ho l'impressione di voler convincere anche me stesso di non saperlo.

Dopo l'ultima Mietitura cerco di immaginare anche come sarà la vita di mio fratello.

Forse, senza il peso della morte sulle spalle, potrà diventare un ragazzo normale.

Aprirsi, scrollandosi di dosso tutto quello che ora lo opprime.

Riuscirebbe a essere felice, ne sono quasi sicuro.

Mi infilo le mani in tasca mentre supero il Villaggio dei Vincitori.

Ci sono giusto una decina di villette, ma solo una è occupata, quella della nostra famiglia.

C'è del fumo che usciva dal comignolo. Il forte odore del legno si mischia con quello di una torta di mele che mia madre deve aver appena finito di sfornare.

Non riesco a sorridere, pensando a cosa significa quell'odore di mele cotte.

È la torta preferita di Bill; probabilmente c'è qualcos'altro di buono preparato anche per me.

Visto che domani potremmo essere mandati a morire. Lo sappiamo tutti, ma nessuno ha il coraggio di dirlo. Solo la tavola della cena imbandita con i nostri cibi preferiti, ce lo urla a gran voce.

Supero casa, voltando lo sguardo altrove, verso il campo di erba alta.

Sto ben attento che non ci sia nessuno, prima di infilarmi nell'erba.

Adesso sono abbastanza alto da non esserne sommerso, ma quand'ero un bambino sentirsi sparire tra quell'erba che pizzicava era quasi un sollievo. Nessuno avrebbe potuto vedermi, nessuno avrebbe mai potuto sapere che fine avessi fatto.

Se fossi rimasto là dentro, nessuno mi avrebbe ritrovato.

A volte sognavo di rimanerci per sempre, con Bill, per salvarlo dalla Mietitura. Poi sono cresciuto.

Mi faccio strada con le mani, spostando gli steli giallognoli.

Non ho idea di che pianta si tratti; probabilmente è qualche specie geneticamente modificata, come se ne trova ovunque nel Distretto. Un po' come me e Bill.

Quando finalmente fuoriesco da quell'oceano pungente, mi ritrovo all'ombra di un albero tanto alto quando largo, e sulle cui radici ritrovo mio fratello.

Adesso sì che sorrido.

Lui alza lo sguardo e ricambia.

Mi fa un cenno con una mano, e io percorro a grandi falcate lo spazio che ci separa, per andarmi a gettare accanto a lui, pesantemente.

Bill mi squadra per un attimo, cercando non sa neanche lui che cosa, ma qualcosa, perché lui riesce ad entrarmi dentro.

- La mamma ha preparato la torta di mele. -

Gli dico, come se fosse un giorno qualsiasi, e non quello che potrebbe essere l'ultimo della nostra vita.

- Ho sentito il profumo venendo. -

Risponde lui.

Ma non ho molta fame.” pensa, lo so, non c'è bisogno che lo dica.

Però, come tutti gli anni, mangerà con soddisfazione quello che la mamma gli metterà nel piatto, con un sorriso eccitato sul volto, e ringraziandola per aver lavorato così tanto.

Stanotte, vomiterà tutto, e io gli terrò la fronte e sopprimerò i suoi gemiti disperati.

- Ti va se suono qualcosa? -

Lui annuisce, e mi porge la chitarra che ha tirato fuori dal suo nascondiglio tutto da solo; anche se gli ho detto più volte di non farlo, dovrebbe essere compito mio.

Gli lancio un'occhiataccia, ma lui non ci fa neanche caso.

Sospiro, e tiro fuori dalla custodia la chitarra.

Mi prende un senso di sollievo appena le mie mani l'afferrano. Le corde vibrano, sfiorate dalle mie dita.

La imbraccio con delicatezza.

La cassa è di legno scuro, le corde sono un po' ossidate. Ogni giorno spero che non si rompano, perché non saprei dove trovarne altre. Per questo sono un po' stonate, perché ho paura di tirare troppo le chiavette e romperle per errore.

- Vuoi cantare? -

Gli chiedo ancora.

Stavolta, scuote la testa. Stringe le gambe al petto e sospira.

Capisco.

Comincio a suonare una melodia leggera e dolce, che spero lo tranquillizzi.

Dovremmo dirci qualcosa, visto quello che potrebbe succedere domani, ma forse ci siamo detti tutto, quindi non ce n'è bisogno.

- Tom. - comincia lui. Io rispondo solo con “mmm?”, mentre continuo a suonare. - Devi promettermi una cosa. -

- Cosa? -

Inaspettatamente, comincia a battermi forte il cuore.

So già che cosa vuole farmi promettere.

- Se dovessero estrarre il mio nome, promettimi che non ti offrirai come Tributo. -

Le dita mi si irrigidiscono, e smetto di suonare.

Alzo gli occhi e mi ritrovo a specchiarmi nei suoi. Sono lucidi, e grandi.

- No. - sputo tra i denti. Sembra che abbia appena ricevuto uno schiaffo in pieno volto. - Non se ne parla. -

- Perché? - si appende, disperato, al mio braccio - Non voglio dover essere costretto a vederti morire. Ti prego. -

Gli indirizzo un mezzo sorriso. Più sbruffone di quanto potrei permettermi.

- Ma perché dovrei morire? E se vincessi? -

Bill si trattiene dal dirmi che entrambi sappiamo che non è così.

Anzi, potrebbe essere che gli Strateghi decidano di giocare un po' con lo scherzetto genetico del Distretto 10, prima di ucciderlo.

- Potrei vincere anch'io allora. Quindi che senso avrebbe se ti offrissi al mio posto? -

Non ce la faccio, non ce la faccio a trattenermi dal dargli uno scappellotto sul collo.

- Smettila. Sei rachitico, non sai neanche tagliarti la carne da solo, figurati se uccideresti qualcuno! Sei goffo, e rumoroso quando di muovi - indico i suoi capelli. Da un po', li acconcia come una criniera, tutti sparati verso l'alto; ha qualche meches bionda, ma per il resto sono neri. Da lontano, potrebbe passare per una palma. - e con questi capelli non potresti nasconderti neanche volendo. Saresti un bersaglio facile nell'Arena. -

Do in una risata, che vorrebbe smorzare la tensione, ma che sembra solo un macabro epitaffio.

Bill sa che ho ragione, ma sa anche che nemmeno io avrei possibilità di sopravvivere.

Lentamente, mi abbraccia, stringendomi tanto forte da farmi mancare il fiato per un attimo.

Non piange, non credo che abbia più lacrime, ma la sua tristezza e il suo dolore fluiscono in me come un fiume che ha appena rotto gli argini.

Ricambio la stretta.

Lo allontano con la scusa che è tardi, e che dobbiamo tornare a casa, perché non voglio che capisca che se continua così non riuscirò più a lasciarlo.

Lui tira su col naso e si alza, traballando sulle gambe esili.

Mannaggia a lui, quando capirà di dover mangiare di più?

Conservo con cura la chitarra e non gli permetto di aiutarmi a sotterrarla nella sua fossa.

La guardo per un lungo momento prima di gettare l'ultima cascata di terra che la nasconderà ad occhi indiscreti.

Spero, domani sera, di poter tornare per suonarla.

Raggiungo Bill, e insieme ci incamminiamo verso casa.

 

La mamma ha preparato una cena che potrebbe bastare per trenta persone, anche se a tavola siamo solo in quattro, e nessuno di noi ha voglia di mettere niente nello stomaco.

C'è il pollo arrosto, che io amo tanto, e la torta di mele per Bill: l'ultima cena di un condannato a morte.

Bill ride e scherza come se niente fosse.

È sempre stato bravo a nascondere i suoi sentimenti ai nostri genitori. Sembra quasi che abbia due facce, come una moneta. Loro non vedranno mai quella che io, invece, conosco bene.

Non gliene ha mai dato la possibilità, non la da a nessuno.

Provo a mangiare un pezzetto di patata al forno, che contorna il pollo, ma il gusto che sento in bocca sembra quello del cartone.

So che è buonissimo, so che è la cosa più buona del mondo, ma non riesco a gustarmelo.

- Ti piace? -

Alzo la testa dal piatto. Mia madre mi guarda con gli occhi colmi di aspettativa.

Io e Tom abbiamo il suo naso, e la forma del suo viso, ma lei è rossa, di un rosso acceso, mentre noi siamo biondi, come nostro padre.

Le faccio una sottospecie di sorriso, infilzo il pezzo di patata e lo infilo intero in bocca.

Fingo di assaporarlo in tutte le sue sfaccettature. Poi le rivolgo un pollice alzato.

- Uonissimo Amma! -

Biascico, con la bocca piena.

Le si riempiono gli occhi di lacrime, ma non aggiunge altro, a parte un sorriso tremolante.

Ora dovrò mettermi d'impegno per finire di mangiare la mia porzione.

Bill spazzola tutto con avidità, e si fa dare una doppia porzione di torta di mele con tanto di gelato alla vaniglia sopra.

Le scorgo per un secondo, le lacrime che gli brillano agli angoli degli occhi.

Finita la cena, i nostri genitori rimangono un po' a crogiolarsi di fronte al camino.

Ci augurano la buonanotte. Mia madre mi stringe con un po' più di forza, mentre mio padre mi da una pacca sulla spalla.

L'unica cosa che avrebbe un senso, nel caso in cui io fossi un Tributo, è che potrei rimanere con mio padre fino alla fine, dato che come unico Vincitore del Distretto 10 ha l'obbligo di fare da Mentore.

Potrei fidarmi delle sue scelte, ad occhi chiusi, e di certo cercherebbe in tutti i modi di farmi sopravvivere, lì, nell'Arena.

Mi defilo. Bill è già salito in camera.

Lo ritrovo sdraiato a pancia in su con gli occhi sbarrati nel buio più assoluto.

- Ehi. -

Gli dico.

- Ehi. -

Risponde lui, atono.

Chiudo la porte e mi sdraio accanto a lui.

Dalla finestra filtra la luce della luna piena, e delle stelle.

- Ho una brutta sensazione. -

Sussurra lui.

Stringe le braccia al petto, come a volersi proteggere.

- Dici così tutti gli anni. -

Provo a buttarla lì, tanto per sdrammatizzare.

Ma anch'io ho una brutta sensazione. Ho un peso sullo stomaco, e non è colpa del pollo arrosto.

Bill socchiude gli occhi e respira profondamente. È pallido come un cencio. O sarà solo la luce bianca della luna?

- In ogni caso, domani sarà finita, no? - un sorriso timido gli si apre sulle labbra - Perché dobbiamo essere catastrofici per forza? -

- Sì, hai ragione. -

No che non ce l'ha, ma non posso dirglielo.

Lui annuisce, come se si stesse convincendo di quelle parole.

- Mi viene da vomitare, da morire. - continua lui - Ma voglio tenere nello stomaco tutte le cose buone che ha preparato la mamma. - respira profondamente, con la bocca.

Da come fa, sembra che si stia sforzando davvero.

- Sarebbe meglio, vorrei provare a dormire questa notte. -

- Sì. - fa lui - Sì. Domani è l'inizio della nostra vita. -

- Certo. -

- Certo. -

Il silenzio dice il resto. E stranamente, senza neanche accorgermene, mi addormento.

 

La mattina dopo, mi rendo conto di aver dormito di filato tutta la notte, senza incubi, senza svegliarmi neanche una volta.

E mi sento...riposato, tranquillo.

È assurdo.

Apro bene gli occhi.

Sono crollato nel letto di Bill. Lui si è già alzato, ma c'è ancora la forma del suo corpo sulle lenzuola.

Mi metto seduto e sbadiglio. Non ho mai dormito meglio nella mia vita.

- Ben svegliato. -

Mi sorride Bill. È vestito di tutto punto, in bianco, come ci obbligano a vestire i Pacificatori, con la sua criniera ben stirata: niente di eccessivamente eccentrico il giorno della Mietitura.

- Che mi sono perso? -

Gli chiedo, con la bocca ancora impastata. Vorrei tanto tornare a dormire, ma man mano che mi sveglio, che realizzo, la tensione monta di servizio, e allontana il sonno, riempiendomi di adrenalina.

- Niente, mamma non ha ancora finito di preparare la colazione, hai tutto il tempo di vestirti. -

Gli annuisco, senza pensarci troppo, e mi alzo, per andare nella mia stanza, dove neanche quest'anno, in questa precisa notte, ho dormito.

Ho l'obbligo di vestirmi anch'io in bianco, ed è la cosa più odiosa che possa esserci.

Ma tanto, è l'ultima volta che metterò questi vestiti.

Quando scendo in cucina per la colazione, sono tutti già lì. La tv è accesa e mostra brevi spezzoni dei Distretti che si preparano alle Mietiture, un giornalista, con la sua voce fuoricampo, annuncia di essere profondamente emozionato, non vede l'ora di assistere ai giochi di quest'anno seduto comodamente in salotto.

In un certo senso, anch'io, perché vorrebbe dire che è davvero finita.

Mi siedo al mio solito posto, e mia madre mi versa del succo d'arancia in un bicchiere e mi porge dei pancake caldi.

- Grazie. -

Lei fa un cenno con il capo, senza guardarmi.

Deve essere molto difficile per lei oggi.

Mangio senza guardare altro che lo schermo della televisione.

Inquadrano il Distretto 6, che ha già cominciato la Mietitura.

Un nodo mi stringe lo stomaco quando il primo nome viene estratto dall'urna.

- Franciska Schäfer! -

Urla la donna che sta eseguendo l'estrazione.

La telecamera si punta dritta sulla ragazza estratta.

Non ho il tempo di metterla a fuoco e di memorizzare la sua faccia, che si sente urlare:

- Mi offro come Tributo! -

L'inquadratura si sposta su un ragazzo cicciotto, tarchiato, biondo anche lui, con gli occhiali, che si lancia in avanti, sbracciandosi per farsi vedere.

Per un po' cala il silenzio. La telecamera saetta dalla ragazza al ragazzo.

- E tu sei? -

Chiede la donna, quella che sta facendo l'estrazione, al ragazzo.

- Gustav Schäfer. -

Risponde lui, con un moto d'orgoglio.

- Ti offri come Tributo al posto di tua sorella, quindi? -

- Sì, signora. -

- Sei un ometto coraggioso! Ecco il nostro primo Tributo! Un bell'applauso! -

Ma nessuno applaude, né ha intenzione di farlo.

Realizzo che lui e la ragazza sono fratelli solo perché lei comincia a singhiozzare e si accascia a terra, chiamando il suo nome. Qualcuno la trattiene da dietro, mentre lui sale sul palco, a testa alta, anche se le lacrime gli scivolano sul viso incontrollabili.

Poi procedono con l'estrarre un altro nome dall'urna delle ragazze.

Non sapevo che ci si potesse offrire al posto di un Tributo del sesso opposto, ma evidentemente possibile.

Morirà il secondo giorno.” riesco solo a pensare, mentre mi riempio la bocca di pancake.

- Avanti ragazzi, sennò farete tardi. -

Dice mio padre, anche se non sembra molto felice di farci fretta.

Mi cade la forchetta di mano. Faccio finta di niente, ingollo un quantitativo industriale di latte freddo e mi alzo.

- Andiamo stecchino, non manchiamo alla festa. -

Faccio a Bill, che ha rimestato nella ciotola di latte piena di cereali fino a quel momento, senza metterne in bocca neanche uno.

Lui mi guarda, spaesato, e poi annuisce e si alza.

 

In piazza, si è riunito tutto il Distretto.

Il Municipio, davanti al quale si svolge la Mietitura, è stato tirato a lucido, come se fosse davvero una festa quella a cui stiamo per partecipare, e non uno spettacolo della morte.

Io e Bill arriviamo trafelati. I Pacificatori ci spingono in avanti, rivolgendoci i loro soliti sguardi amichevoli.

Mi verrebbe voglia di strangolarli.

L'unica cosa positiva, è che Bill può rimanermi vicino fino all'ultimo, dato che abbiamo la stessa età e lo stesso sesso, e possiamo rimanere nel settore dedicato ai diciottenni maschi, insieme.

L'urna con i nomi dei ragazzi e dal nostro lato. Non riesco a seguire il discorso d'apertura, vedo solo il solito addetto che si avvicina e infila la mano nell'urna.

Ho paura di sentire pronunciare il mio nome, perché so che Bill si porterebbe avanti per offrirsi al mio posto, e non saprei cosa fare se succedesse.

L'accetterebbero se mi offrissi al suo posto dopo che lui si fosse offerto al mio?

L'addetto, di cui dovrei ricordare il nome ma che mi è, sinceramente, indifferente, rovista ancora e ancora, facendo rigirare all'infinito tutti quei foglietti.

- Aumentiamo un po' la suspense, no? -

Scherza lui. I Pacificatori ridono. I genitori che stanno fuori ad aspettare che il nome del figlio venga estratto, un po' meno.

Finalmente, si decide a prendere un foglietto.

Lo stringe in un pugno e lo porta al petto come se fosse una specie di tesoro.

- Vediamo chi è il nostro fortunato giovanotto. -

Come se fosse una fortuna.

Mi guardo intorno. Ci sono tanti bambini, troppi. Tutti dodicenni che non sanno neanche tenersi in piedi, negli enormi vestiti che gli hanno messo addosso.

Sono così egoista da riuscire a dirmi “mors tua vita mea”?

Non lo so, il cuore mi scoppia.

L'addetto apre il foglietto e lo legge, tutto corrucciato.

Bill si morde a sangue le labbra.

- E il nostro primo Tributo è... - comincia l'uomo. “Se deve essere uno di noi, fa' che sia Bill. Fa' che sia lui, così posso offrirmi al suo posto, e sarà salvo.” prego, nel mio intimo. Il tizio continua a tirarle per le lunghe. Sento che potrei impazzire. Il cuore mi batte tanto forte in petto che non riesco a sentire altro che il suo rombo. - ...Kaulitz... - dice l'uomo. Improvvisamente, tutti gli occhi sono su di noi, come se si aspettassero qualcosa. Capisco il perché: non ha detto il nome, e aspetta di vedere chi dei due sbroccherà prima. - Kaulitz Tom! - urla, finalmente.

C'è un attimo di silenzio. Quell'attimo che ci vuole perché riesca a capire che cosa sta succedendo.

Vedo mio fratello fare un passo avanti. Gli afferro il braccio con tale forza che gli strappo un gemito di dolore.

- Non ci provare nemmeno. -

Gli dico con tranquillità, guardandolo dritto negli occhi, e poi lo lascio.

Subito, Bill si aggrappa a me. Lo fulmino con uno sguardo e lui sgrana gli occhi. Lo costringo a lasciarmi con la forza, aprendogli ad una ad una le dita delle mani, che sembrano diventati dei pezzetti di marmo.

Le sue labbra si muovono, sillabano la frase che avrebbe voluto dire. Ma la voce gli manca, gli manca proprio adesso. E allora piange.

È straziante vederlo piangere mentre salgo sul palco, e mi metto a fianco dell'addetto che ha estratto il mio nome e che mi sorride come un ebete.

- Un applaudo al nostro Tom! - mi da una pacca sulla spalla - Sono sette anni che si nega agli Hunger Games! Non è ironico? Sei stato sorteggiato il primo anno, e l'ultimo! Magari è un segno del Destino! Porterai alta la nostra bandiera vero? Bravo, bravo. -

Già, il primo anno, e l'ultimo.

Non ci avevo pensato.

C'è davvero della sottile ironia in tutto questo.

Solo che, questa volta, nessuno morirà al mio posto.

Poi mi lascia per avvicinarsi all'urna delle ragazze, e comincia a frugarci dentro cercando la mia compagna.

Io sono qui, sul palco, mentre davanti a me ci sono tutti quei ragazzini che mi fissano. Da qualche parte c'è anche Bill, ma non riesco a metterlo a fuoco. Anche se percorro con gli occhi la fila dei diciottenni, mi sembra che tutti abbiano la stessa faccia. La sua, con gli occhi che gli straripano di lacrime.

- Ria Sommerfeld! -

Chiama. Una ragazza, anche lei diciottenne, si stacca dal gruppo e si avvicina al palco. Neanche la guardo.

Quando l'addetto all'estrazione mi poggia le mani sulle spalle, augura a gran voce buona fortuna per i giochi, e i Pacificatori mi portano via, capisco: sono il Tributo maschio del Distretto 10, e parteciperò ai 73esimi Hunger Games.


The Corner

Ciao a tutti,
fanciulline e giovanotti.
siamo arrivati ad un altro giovedì
ed io mi chiedo: ma come cavolo passa il tempo?
anche se gli esami sono schifosamente vicini,
non riesco a smettere di scrivere.
la notte si dorme dalle 3 in poi,
prima si scrive.
quindi, dato che questa malattia non mi passa,
come minimo dovete ricompensarmi con le recensioni u.u
dunque ci vediamo giovedì prossimo, come sempre!
grazie a tutti quelli che mi sono stati vicini durante la "crisi" :)
Chii

 

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Capitolo 3
*** Capitol City ***


2: Capitol City

 

Nei dieci minuti seguenti, succedono un migliaio di cose intorno a me.

Vedo le telecamere che mi corrono dietro, mentre i Pacificatori mi spingono dentro il Municipio; vedo sparire dietro una porta tutte le facce degli abitanti del Distretto.

Mi hanno sbattuto in una stanza, da solo, e non capisco perché.

Poi, una vocina dentro la mia testa, pacatamente, mi fa notare che questi sono gli ultimi istanti che passerò al Distretto 10, e che stanno per arrivare le persone che sono intenzionate a salutarmi. Perché sono un Tributo, e non tornerò mai più indietro.

Strizzo gli occhi per la sorpresa e all'improvviso il mondo torna cosciente a se stesso.

Sento in lontananza il suono del treno ad alta velocità che mi porterà a Capitol City, i freni stridono e si sente un fischio.

Vedo la luce intensa del giorno che filtra dall'unica finestra della stanza, posizionata abbastanza in alto perché non possa raggiungerla e usarla come via di fuga.

Sento il mio corpo, vivo, con il sangue che scorre nelle vene, l'elettricità che percorre i nervi, e il cuore che pulsa morbosamente, quasi attaccato ad ogni battito, sapendo che potrebbe essere l'ultimo. Mi sento respirare e inspirare.

E sento dei passi, che lentamente si avvicinano alla porta.

Un Pacificatore la spalanca e grida un “muoviti!” poco cortese.

Vorrei avere la forza per distogliere lo sguardo da mio fratello in lacrime che viene praticamente gettato dentro la stanza, e che mi raggiunge strascicando i piedi.

- Che cosa ci fai qui? -

Lo aggredisco. La mia voce non mi sembra neanche più mia, ha qualcosa di burbero e profondo, come se avesse acquisito una ventina d'anni in più nel giro di un istante.

Bill apre la bocca per parlare, ma non esce alcun suono.

Se ne rende conto, e comincia a piangere come una fontana.

L'unica cosa che posso fare è avvicinarmi a lui e abbracciarlo.

Sarebbe il momento di dirgli qualcosa di confortante. Non posso lasciarlo in queste condizioni, non posso permettergli di sprofondare in un baratro dal quale nessuno lo tirerà fuori.

Gli prendo il volto tra le mani e faccio in modo che lui mi stia a guardare, e a sentire soprattutto.

- È quello che volevo, hai capito? Non è colpa tua. Non ti avrei permesso in nessun modo di essere un Tributo. Per nessuna ragione al mondo. Non è neanche una sorpresa, mi avevano già scelto, ti ricordi, no? - lo vedo mordersi le labbra mentre un'altra ondata di lacrime gli cade dagli occhi castani - Georg non avrebbe dovuto offrirsi al mio posto, come non avresti dovuto tu. Se è andata così, deve esserci una ragione, no? Magari è vero quello che ha detto quel citrullo, e questo è una specie di segno del Destino. - faccio una pausa - Magari vinco pure. - ho azzardato troppo.

Ma sembra che sia quello che Bill voglia sentirsi dire, perché il suo sguardo si addolcisce, anche se i singhiozzi cominciano a scuoterlo.

Si libera dalla mia stretta e mi abbraccia di nuovo, con tale forza che non so se i Pacificatori riusciranno a strapparlo dalle mie braccia.

È in questo momento che capisco che, qualsiasi cosa succeda, io devo tornare. Non tanto per me, quanto per lui.

Non ho nessun diritto di lasciarlo solo.

Sarebbe troppo facile decidere di morire senza neanche provare a lottare.

Ecco, il fatto è che non posso permettermi il lusso di morire.

- Tempo scaduto, fuori. -

Alziamo la testa nello stesso momento, quando il Pacificatore irrompe nella stanza.

Non mi piace il fucile che porta in spalla.

Allontano Bill con delicatezza.

Gli asciugo una lacrima e gli sorrido.

Torna”, sillaba con le labbra, “torna, torna.” e mi afferra il mignolo con il suo, come simbolo di promessa.

Il Pacificatore lo prende per un braccio e lo trascina fuori, tranciando di netto il contatto.

Prima che la porta sia chiusa, gli mostro il mignolo.

Tornerò.” cerco di pronunciarlo bene, muovendo con calma le labbra così che lui possa leggerle senza sbagliare.

Vedo che si accascia tra le braccia del Pacificatore, e si fa portare via di peso come una bambola di pezza priva d'anima.

Rimango di nuovo solo, in quella stanza enorme con la finestra irraggiungibile.

Uno potrebbe anche impazzire in un posto del genere.

Mi guardo intorno con circospezione, e mi rendo conto che hanno eliminato ogni oggetto contundente o tagliente, non ci sono prese di corrente, non ci sono fili scoperti. Una stanza a prova di suicidio.

La porta si apre per l'ennesima volta, e vedo mia madre.

Mi viene quasi spontaneo sbuffare. Quando finirà la sfilata delle persone che non voglio assolutamente vedere?

Lei non mi abbraccia, non dice niente, non si avvicina neanche.

Rimane lontana, a fissarmi, come se volesse imprimersi ogni particolare di me, prima che io sia freddo e senza vita sdraiato in una bara.

L'unica cosa che fa, è sfilarsi dal collo una catenella d'oro, a cui è appeso un ciondolo di due o tre centimetri di grandezza, di forma rettangolare, piatto, in cui è incastonata una lastra di pietra nera.

Me lo porge con reticenza, quasi avesse paura.

Lo prendo e lo guardo.

Sento un colpo allo stomaco.

Su quella che mi sembrava una pietra, è incisa l'immagine di un'ecografia. Si vedono distintamente due bambini, uno di fronte all'altro, rannicchiati in posizione fetale.

- È l'immagine della vostra ultima ecografia, pochi giorni prima della nascita. È stato vostro padre a farla fare. - visto che non riesco più a controllare gli spasmi delle mani, lei riprende la catenella, e la fa passare intorno al mio collo. Sento un click. Il ciondolo pende al mio collo, arrivando quasi a metà petto. Lei ci poggia una mano sopra e sospira. È un sospiro che sa di lacrime. - Tuo padre ti starà accanto, farà tutto il possibile per farti sopravvivere. - alza gli occhi e mi guarda - Sei un ragazzo forte. -

Mi da un bacio sulla guancia e si allontana.

Non riesco ad impedire al mio corpo di prenderle la mano e fermarla.

Vorrei dirle qualcosa, ma non ci riesco.

Ho la testa piena di pensieri, di frasi, di immagini. Mi sembra di stare dentro un caleidoscopio.

Lei mi rivolge un sorriso triste, e mi lascia, uscendo da quella porta, e dalla mia vita, per sempre.

Pochi istanti dopo, i Pacificatori mi annunciano, con un certo tono sadico, che il treno è in stazione, e che devo affrettarmi.

Automaticamente infilo il ciondolo dentro la maglietta, e li seguo.

 

Solo sul treno ho la possibilità di incontrare la ragazza che sarà la mia compagna di sventura.

Non ricordo il suo nome. Per fortuna, lo sento pronunciare da qualcuno mentre salgo in carrozza, e cerco di memorizzarlo.

Lei è una specie di vamp, dai capelli rosso fuoco (niente a confronto con il rosso intenso e naturale di mia madre), le labbra a canotto, e il seno prosperoso.

È il genere di ragazza che mi farebbe venire un certo prurito, se non sapessi che, alla fine, dovrò ammazzarla, o sarà lei a farlo.

Sarà alta un metro e settanta, e si muove come se fosse pronta a saltarmi addosso da un momento all'altro.

La porta del vagone si chiude alle mie spalle, e solo in quel momento mi accorgo di essere rimasto a fissare la ragazza per tutto il tempo mentre salivo sul treno.

Agli occhi di Capitol City, che non ha fatto altro che guardarci attraverso le telecamere, deve essere sembrato uno sguardo da maniaco.

Vorrei avere il tempo di imbarazzarmi, ma lei mi porge una mano.

- Ciao, io sono Ria. -

Si presenta.

Ha una voce starnazzante, mi ricorda i versi di certe galline che si sentono uscire da alcuni laboratori in periferia.

- Ciao. -

Le rispondo, ignorando la sua mano tesa verso di me.

La supero senza darle molto conto, e con la coda dell'occhio vedo che si imbroncia e mi fa una smorfia.

Poco male, tanto ho altri 22 nemici, uno più, uno in meno, non mi cambia la vita.

Percorro il corridoio nella speranza di arrivare al vagone ristorante, dove credo che troverò mio padre.

Ho un serio bisogno di vedere un volto familiare.

So che non potrò sbilanciarmi molto, né con lui, né davanti alle telecamere, altrimenti sembrerà che io sia favorito dal mio Mentore, e potrebbe giocare a mio sfavore.

Chissà che piano ha già in mente per...

- Tom. -

Mi volto di scatto.

- Papà! -

Non l'ho sentito arrivare.

Lui mi fa cenno di abbassare la voce, e indica lo scompartimento alla mia sinistra.

Io annuisco e apro la porta, lui si infila dentro con me.

Rispetto a me e Bill, nostro padre ha dei lineamenti duri, da uomo vissuto. Benché sia alto, le spalle muscolose e il torso ampio lo fanno sembrare più tarchiato di quanto non sia.

Mi ha sempre ispirato forza e rispetto quella sua figura enigmatica, capace di dispensare amore quanto odio.

Quando gli guardo le mani, quelle mani enormi dalle dita lunghe, immagino la violenza che ha dovuto essere capace di dimostrare, per poter tornare a casa vivo e vegeto.

Mi viene un brivido al solo pensiero di dover fare lo stesso.

- Prima di tutto. - comincia lui - Mi dispiace, figliolo. - il suo sguardo s'incupisce - Se avessi potuto, avrei preso io il tuo posto. E questo sarebbe valso anche per tuo fratello. - stringe i pugni con una rabbia tale che vedo affiorare le vene sul dorso delle mani - Da qui in poi, però, non puoi più considerarmi tuo padre, e io non posso più considerarti mio figlio. Sarebbe troppo rischioso. - Come sospettavo. Non c'è da stupirsene. Annuisco e lui sembra sollevato. Doveva essere una pietra sul cuore per lui. - Davanti alle telecamere, e in generale davanti agli altri, cercheremo di mantenere un rapporto distaccato. Io sono il tuo Mentore, e niente di più. -

La domanda che mi preme fargli, è se giocherà tutte le sue carte per farmi sopravvivere.

In mezzo c'è anche la vita di quella ragazza (Ria? Si chiamava così? Come faccio a dimenticarmelo in continuazione?). Si prenderà la responsabilità della sua eventuale morte?

- Va bene. C'è altro? -

Gli dico invece. Sarebbe troppo perverso chiederglielo.

È tanto il mio desiderio di vivere?

Comincio a pensare che dovrà essere mille volte più grande, per permettermi di uccidere gli altri Tributi.

- No. - mi squadra dalla testa ai piedi - Per il momento no. -

Non aggiunge altro, ed esce dallo scompartimento.

 

Non so quanto durerà il viaggio, e non intendo scoprirlo.

Questa deve essere lo scompartimento a me assegnato. Sembra la stanza da letto di un principe.

C'è un armadio. Apro un'anta e scopro un tesoro di capi firmati, roba che, nonostante i soldi di mio padre, non ho mai potuto permettermi.

Incredibile come abbiano voglia di prendersi cura di me, adesso che sono più un cadavere vivente che una persona.

C'è anche un bagno con una vasca, che mi sembra una piscina, e una doccia.

L'istinto è troppo forte, e mi sento troppo sporco.

Mi svesto nel bel mezzo della stanza e mi fiondo sotto l'acqua della doccia.

Non credo di avere diritto di lamentarmi, la mia vita è stata abbastanza tranquilla, e piena di confort.

Ma con tutto che mio padre è un Vincitore, a casa nostra abbiamo l'acqua calda un solo giorno la settimana.

E se da noi funziona così, da noi che possiamo permettercelo, allora come se la passano i meno abbienti, giù nel Distretto?

A volte penso che, se solo fossi riuscito a superare il muro di ostilità che mi circonda, avrei potuto aiutare qualcuno, avrei potuto offrire denaro, cibo, ospitalità.

Quante volte ho desiderato poter dare metà della mia pagnotta a un bambino sporco e abbandonato in mezzo alla strada, e quante volte mi sono sentito additare e chiamare “mostro”.

Se non ho il diritto di lamentarmi, non ho neanche quello di sentirmi in colpa.

L'acqua calda lava via tutti i pensieri negativi. Chiudo gli occhi e per un attimo riesco a sentire la voce di Bill che urla fuori dal bagno.

La finirai tutta, esci di lì! Voglio fare la doccia anch'io!”

Mi viene quasi da rispondergli.

Altri cinque minuti, non morirai mica!”

Poi il treno ha un leggero scossone, che si riverbera su per le piante dei piedi e mi scuote leggermente la schiena; capisco dove sono e sbarro gli occhi per l'improvvisa ondata di panico che mi ha preso il petto.

In lontananza si sente il rumore sordo del mondo che sfila intorno a me, e del mio Distretto, della mia casa, di mio fratello che si allontano inevitabilmente.

Scuoto la testa ed esco.

Mi asciugo i capelli alla bell'e meglio.

Dovrei trovare un modo per tenerli acconciati, sono diventati troppo lunghi, ed io troppo pigro per prendermene cura.

Li lego in un codino basso che poi attorciglio.

Dall'armadio prendo una maglietta e un pantalone qualsiasi, sospiro e mi getto sul letto, incredibilmente comodo.

Se non stessi andando incontro alla mia fine, potrei passare le notti migliori, dormendo qui.

 

Mi sveglio di soprassalto, mentre qualcuno mi scuote con una mano.

Mi tiro su e mi metto in posizione di difesa.

Mi ritrovo davanti agli occhi Ria, con lo sguardo innocente di chi non ha fatto niente.

Devo essermi addormentato senza rendermene conto. Come diamine ho fatto ad addormentarmi in un momento del genere?

La prima cosa che noto, è che lei indossa una canottiera tanto risicata da lasciarle buona parte del seno scoperto, e un paio di pantaloncini cortissimi.

- Oh, scusa, non volevo spaventarti. -

Fa lei, con una vocetta irritante al mio udito appena sveglio.

Sta ben attenta a farmi notare le sue bocce, strizzate in quella canottiera nera.

Strizzo gli occhi, senza riuscire a ignorare gli impulsi di piacere del mio inguine.

- Che vuoi? -

Non mi riesce di risponderle in modo più cordiale.

Lei non si lascia abbattere dal mio tono di voce; mi fa un sorriso che dovrebbe essere dolce, ma sembra solo famelico.

- Il pranzo è pronto, ho preferito venire io piuttosto che far venire un inserviente. -

Verrebbe spontaneo chiederle il perché, ma evito: non voglio saperlo.

- Va bene. - sbuffando mi alzo, e cerco di non passarle troppo vicino, anche se lei trova comunque il modo di strusciarsi contro di me - Ma quel'è il tuo problema? - mi sembra inebetita e si tira un po' indietro.

Scuoto la testa, forse non è il caso di mettersi a fare inutili questioni.

Esco dallo scompartimento con lei al seguito, come un cagnolino.

Benché mi sforzi, non riesco a ricordarmi di questa ragazza.

E credo che mi sarei accorto prima di lei, se mi avesse sbattuto il suo davanzale davanti agli occhi più spesso.

Invece, del suo corpo snello e provocante, dei suoi capelli rosso fuoco e del suo viso scialbo, non ricordo niente.

E dalle risatine senza senso che lancia ogni tanto, sono sicuro che non sia un peccato.

Ria mi precede, per indicarmi la strada perso il vagone ristorante.

Camminando nel corridoio, non si ha l'impressione di trovarsi su di un treno lanciato in corsa.

Sembra di essere in un albergo a cinque stelle.

Il vagone ristorante è un tributo allo sfarzo. Ci sono broccati di velluto e bicchieri di cristallo in ogni angolo.

La tavola che è stata apparecchiata per noi è qualcosa di sconvolgente.

C'è talmente tanto cibo che lo stomaco per ribellione si chiude.

Lancio un'occhiata a mio padre, che ricambia velocemente per poi distogliere lo sguardo.

Seduto accanto a lui c'è l'addetto alle estrazione dei nomi alla Mietitura.

- Ah, Gordon! Questo è uno dei tuoi figlioli, vero? - comincia l'uomo. Mio padre risponde bofonchiando qualcosa che suscita il riso incontrollabile nell'uomo - Ricordo quando eri piccolo così! - continua quel mentecatto, indicando, più o meno, con le mani la grandezza di una ventina di centimetri - Ne hai suscitato di scalpore a Capitol City, eh? E ancora non sapevi neanche di essere nato! -

E giù a ridere.

Che storia divertente, sul serio.

Mi siedo di fronte a mio padre, senza dire niente.

Un cameriere mi mette davanti una zuppa di legumi che ha un profumo ottimo, ma che non ho assolutamente voglia di mangiare.

Ringrazio il cameriere, che sembra sorpreso, tanto che arrossisce e si nasconde, dandomi le spalle per prendere gli altri piatti.

Ria mi si è seduta accanto, un po' troppo vicino per i miei gusti.

Il tizio, che finché non mi avrà ricordato il suo nome (ammesso che io l'abbia mai saputo) chiamerò solo Tizio, ci guarda e sorride.

- Se non doveste partecipare insieme agli Hunger Games, formereste una bellissima coppia. -

Ria si mette a ridere, e questo amplifica in me la sensazione che sia una gallina dei laboratori genetici del Distretto - Quel'è la tattica di quest'anno, Gordon? - continua Tizio.

Mio padre evita di guardarmi, e si fissa su Ria.

- Innanzi tutto, punteremo sull'aspetto fisico. Hanno tutti e due l'età giusta e il viso giusto per poter essere nel mirino di ammiratori e ammiratrici. E Capitol City è piena di ragazzini. - è la prima volta che mi sento dire da mio padre di avere un bel faccino. Di certo, non sono brutto, ho abbastanza autostima da capire almeno questo. Ma da qua a parlare di fascino...bhè, per come mi si è gettata addosso Ria, potrebbe anche darsi - Parlerò personalmente con gli Stilisti, devono farli brillare. - mi lancia una velocissima occhiata, poi torna su di lei - Ria, tu sei fidanzata? Innamorata? -

- No, niente del genere. -

Quasi me l'aspettavo, non sembra una persona che potrebbe innamorarsi. Bhè, non sul serio almeno.

Hai preso davvero in simpatia la tua compagna di giochi, molto bene.” mi ritrovo a pensare.

- Ottimo. -

Dice solo mio padre. Vedo quasi il suo cervello pensare. Che cosa avrà in mente?

Tizio ridacchia.

- Non credo che sarà un problema farli brillare, abbiamo già due pietre preziose su cui lavorare. - anche Ria, colto il complimento, comincia a ridacchiare. Tizio schiocca le dita, e ordina ad un cameriere di portare dello champagne. Quando si ritrova tra le mani un calice pieno di liquido frizzante, lo solleva in alto - Brindiamo a questi due giovani, e speriamo che gli Hunger Games possano avere di nuovo un vincitore del Distretto 10! -

Sono obbligato ad alzare a mia volta il bicchiere e a farlo tintinnare contro quello di mio padre.

Ho come l'impressione che Tizio si stesse riferendo a Ria, quando ha parlato del vincitore del Distretto 10.

 

Il resto del pranzo è di una noia mortale, oltre che di una pena mortale.

Il televisore trasmette a tutta forza le immagini della Mietitura dei vari Distretti.

È penoso vedere tutti quei ragazzini terrorizzati che vanno incontro a morte certa.

Del Distretto 12 ci sono due Tributi dodicenni, sembra quasi fatto apposta.

M'irrigidisco quando mandano la registrazione della nostra Mietitura.

È terribile vedersi in televisione.

Non appena viene fatto il mio nome, tutti si ammutoliscono; la telecamera gira l'inquadratura su me e Bill.

Vedo perfettamente le mie labbra pronunciare “non ci provare nemmeno” e le lacrime di Bill. Poi c'è un taglio, che mostra Ria che mi si affianca sul palco.

Subito dopo, la voce fuori campo di un giornalista comincia a parlare.

- Non lo so, Steve. Quel Kaulitz mi sembra uno pericoloso, lo sapevi che, ancora neonato, è stato spedito a Capitol City? Pare ci siano diversi punti interrogativi sulla nascita sua e di suo fratello. -

- Allora lo scopriremo durante l'intervista, John! - risponde una seconda voce, mentre sullo schermo si ripetono all'infinito le immagini di me e Bill che ci guardiamo, prima che io salga sul palco - Caesar farà meglio a fargli le domande giuste, perché il pubblico vuole sapere! -

Mio padre spegne la tv, prima che possa essere detta qualche altra cavolata.

- Bene, direi che per oggi è abbastanza. Potresti lasciarmi qualche minuto da solo con i ragazzi? -

Dice, cupo, rivolto a Tizio.

Lui ridacchia, quasi pensasse che deve dirci dei segreti di stato.

E in fondo non è così?

Tizio è come un infiltrato speciale direttamente da Capitol City, è meglio che non sappia come ci muoveremo. Anzi, meno persone lo sanno, meglio è.

- Certamente. Buon lavoro. -

Ci rivolge un sorriso sporco. Si alza e se ne va.

Solo quando si è chiuso la porta alle spalle, mio padre sembra sciogliersi. Gli occhi gli diventano più limpidi, ma è ancora sul chi va là.

- Ho pensato a qualcosa, ma dovrete essere bravi. -

Comincia.

- Cosa, signor Kaulitz? -

Trilla Ria. Tutta questa allegria mi sembra fuori luogo. Vorrei urlarle nelle orecchie qualcosa come “lo sai che non stiamo andando ad una sfilata di moda ma ad un raduno di assassini?”.

In che razza di famiglia deve essere cresciuta per avere la testa così sulle nuvole?

- Come vi dicevo, dobbiamo puntare sul vostro aspetto fisico, crearvi un'immagine, qualcosa che faccia colpo. Ria, tu sei una bella ragazza, se condissi il tuo aspetto provocante con un tocco di purezza e ingenuità, sarebbe la perfezione. I ragazzi devono guardarti, ma sapere che c'è qualcosa di casto dentro di te. - sgrano gli occhi. No davvero, se questo è il modo di mio padre per farci sopravvivere, allora mi butto giù dal treno che facciamo prima. - Devi stuzzicare la loro fantasia, senza dargli troppi elementi. Comportati come...una principessa delle favole. Aspetta il cavaliere sul cavallo azzurro. Sei libera, single, languida e aspetti il vero amore. Pensi di poterlo fare? -

Lei ci pensa qualche secondo. Anche se non so se sia in grado di pensare. È inquietante il modo in cui mi infastidisce.

- Sì, credo di sì. -

E fa un sorriso.

Mio padre annuisce, e si rivolge a me.

Mi squadra per un attimo, e so che dirà delle cose estremamente imbarazzanti, cose che non avrebbe mai tirato fuori, se non fosse stato per le circostanze.

- Tu, sei in grado di sostenere la parte dello spaccone? - corruccio le sopracciglia, lui mi indirizza un sorriso imbarazzato - Insomma, riusciresti ad essere molto spontaneo e menefreghista, sul genere battuta pronta e malizia? Divertente, arguto, spigliato. - non sembra la mia descrizione, e lui deve saperlo - Anche per te vale la tesi della ricerca del vero amore. Single, finché l'amore serio non viene a bussare alla porta... -

- Il duro dal cuore tenero? -

Provo a suggerirgli, dato che non sembra in grado di andare avanti. Sta cominciando a diventare color porpora.

- Sì, in sintesi. -

Annuisco.

È un'ottima occasione per difendermi, per difendere il vero me stesso.

Non lo offrirò in pasto alle telecamere.

Con questa facciata, posso virtualmente dire e fare tutto ciò che voglio.

Non mi sembra neanche un ruolo così difficile da sostenere.

- Perfetto. Per il momento è tutto. Quando arriveremo a Capitol City, verrete consegnati agli Stilisti. Se dovete osare, osate. In linea di massima, vi consiglio di decidere con loro cosa fare, senza però opporvi. - si alza, lo sento sospirare. Deve essere stata una prova veramente dura per lui. E pensare che lo fa ogni anno. Ogni anno porta al macello due ragazzi del Distretto, ragazzi con cui ha vissuto ogni giorno della sua vita, che ha visto camminare e giocare per le strade, che ha visto crescere. Adesso, con me in gioco, deve essere terribile. - Ci vediamo a cena. Andate a riposare. -

Si dilegua in fretta, e ci lascia soli.

Ria si stiracchia, in maniera poco languida e, dopo avermi calorosamente salutato, se ne va.

Rimango un'altra manciata di minuti a pensare a tutto quello che, in poche ore, mi è successo.

Mi sembra passato solo un secondo da quando ero ancora nel mio letto, al Distretto, e di Mietitura non si parlava, perché era lontana diversi mesi.

E invece adesso...sono un Tributo.

Mi vengono i brividi solo a pensarlo.

È una parola pesante, sa di morte.

Se Caesar Flickerman ha intenzione di puntare l'intera intervista su me e mio fratello, non saprò che cosa dirgli.

Il pensiero mi viene così, dal nulla, e ammazza tutti gli altri.

Mi stringo nelle spalle e mi alzo.

Raggiunto il mio scompartimento, chiudo a chiave e mi butto sul letto.

Ho bisogno di indossare la maschera più elaborata della mia vita, nessuno deve sapere niente di me, niente più del necessario.

Mi sfilo le scarpe e mi accuccio su un fianco.

Con gli occhi chiusi provo a immaginare cosa stia facendo Bill, in quel momento.

Spero che non stia guardando la tv.

Ma ormai è l'unico mezzo che ci consente di rimanere in qualche maniera in contatto.

Durante i giochi cercherò di fargli avere qualche messaggio, lui di certo capirà.

Mi costringo ad addormentarmi, e faccio in modo che il mio orologio biologico non mi disturbi fino a domani mattina.

 

Mi sarebbe piaciuto riuscire a dormire fino a domani, ma uno stupido incubo mi ha costretto a sbarrare gli occhi nel buio.

È notte fonda, e non si sente un rumore, se non il ronzio leggero del treno in corsa, e del paesaggio che gli sibila intorno.

Mi stropiccio gli occhi e cerco di capire che cosa diavolo mi abbia svegliato, ma non riesco a ricordarmi niente, se non un senso di oppressione al petto.

Mi tiro su e mi stiracchio.

Avrei voglia di qualcosa da mangiare, rimpiango di essere stato tanto schizzinoso a pranzo.

Esco sul corridoio; non c'è nessuno. Almeno non rischio di fare brutti incontri.

Mi dirigo al vagone ristorante a piedi scalzi.

Qualche luce di servizio illumina il pavimento, per evitare il pericolo di inciampare in giro.

Come speravo, c'è ancora il buffet apparecchiato sul tavolo.

Non so se sia per la colazione di domattina, o se sia normale che ci sia del cibo a tutte le ore del giorno e della notte.

Afferro qualche pezzo di pane e del rosbif freddo e lo divoro in un boccone.

Mi sembra la cosa più buona del mondo.

Forse assaggerò anche la torta al cioccolato.

- Ciao. -

Oddio, ma non è possibile. Questa qui deve avere una specie di sensore che le dice in ogni momento dove mi trovo.

Ria si avvicina al tavolo.

Si versa un bicchiere di vino bianco che fa girare a lungo nel calice.

Vorrei non dire che la sua presenza mi stuzzica, soprattutto adesso.

Indossa solo l'intimo, e una vestaglia, trasparente, che se non avesse avuto, sarebbe stato uguale.

Ha proprio un bel corpo.

- Cosa ti porta qui a quest'ora della notte? Non riuscivi a dormire? -

- No, ho saltato la cena, avevo voglia di mangiare qualcosa. -

Non so come ho fatto a rispondere, con il groppo alla gola che mi soffoca.

- Capisco. - fa lei, sorniona - Io mi sentivo così sola nel mio scompartimento... -

- Mi dispiace. -

Ride.

- Mi piaci quando fai finta di non capire. - si avvicina, mi poggia una mano sul petto - Sei così carino. -

Mi faccio un po' indietro. La testa mi gira come una trottola.

Non che io faccia finta di non capire, è che non posso proprio capire.

Che diavolo vuole da me? Spera di farmi cadere tra le sue braccia, così sarà più facile farmi fuori?

Posso immaginarla tranquillamente mentre seduce quelli del Distretto 1 e 2 e li obbliga a uccidersi a vicenda per lei.

È questo il personaggio che lei porterà in scena di fronte alle telecamere? La vedova nera?

Eppure mi era sembrato di sentir dire altro, a mio padre, sulla sua linea di comportamento.

Mi getta le braccia al collo e si stringe a me. Sento il suo seno schiacciarsi al mio petto, mentre il cuore abbandona la sua sede, per trasferirsi nelle zone basse.

- Mi fa impazzire che non mi guardi. - sussurra. Si fa sempre più vicina, sento il suo profumo, e il suo respiro sul mio viso - Non l'hai mai fatto. Io, invece, ti guardo da sempre. -

L'afferro per le spalle e l'allontano. Non la voglio vicina al mio corpo neanche per sbaglio.

- A che gioco stai giocando? -

I suoi occhioni languidi non mi dicono niente, e comincio a sentirmi confuso.

- Nessun gioco. - mi sorride - Mi piaci un casino. -

E che dovrei fare? E che dovrei dire?

Non sarebbe neanche la prima volta; anche se Bill non lo sa, e mi crede ancora bianco e puro come il completo che indossiamo alla Mietitura e...

Ma che cosa sto pensando.

Ho tra le braccia una ragazza che dovrò uccidere con le mie mani se voglio tornare a casa vivo e vegeto, e sto pensando a mio fratello e alla sua verginità e alla mia che non c'è più e a lei che non so che cosa voglia da me, o meglio, so che cosa vuole da me ma...

Non sapevo che i baci funzionassero anche per zittire i pensieri; ora lo so, perché le labbra di Ria che si poggiano sulle mie hanno la forza di togliere la voce a qualsiasi cosa io stessi pensando prima.

Oddio, dovrei allontanarla, dovrei...ma proprio non ci riesco.

Le mie mani scivolano senza pensarci sui suoi fianchi. La biancheria che ha addosso è troppa, troppa, dovrebbe togliersela, subito!

Mi spinge sul tavolo, sento tutti i piatti che si fracassano a terra, e qualcosa di appiccicoso e poco piacevole che mi si spalma sulla schiena. Che fosse la famosa torta al cioccolato?

Ria si mette cavalcioni su di me e mi bacia ancora, e il pensiero della torta al cioccolato spiaccicata sulla mia schiena sbava nella mia mente e scivola via.

Si slaccia il reggiseno e rimane nuda.

Ok, tanto lei deve morire, che male c'è a farsi una scopata e via?

Posso pensare a come ucciderla più tardi, quando saremo nell'Arena. Ora come ora, va bene così.

 

Qualche ora dopo, vengo svegliato dalle urla poco gentili di una cameriera.

Non riesco bene a capire perché, ma quando metto a fuoco il mio corpo nudo sul tavolo, contornato di intrugli vari, tra cui anche la torta al cioccolato (sì, ce l'ho tutta sulla schiena).

Cercando di coprirmi, mi agito troppo e finisco col cadere giù dal tavolo, e picchiare forte il fondoschiena a terra.

Mi sfugge un'imprecazione di dolore mentre la cameriera fugge, in preda all'isteria.

Sotto il tavolo trovo i miei pantaloni e la maglietta, che uso per coprirmi almeno le parti intime.

Non c'è traccia di Ria, da nessuna parte.

Certo, avrà aspettato che l'orgasmo mi facesse crollare per svignarsela e lasciarmi qui come un deficiente.

Dato che non arriva nessuno, mi alzo di corsa e torno nel mio scompartimento, chiudendo a chiave la porta.

Ho bisogno di una doccia, una lunga, lunghissima doccia.

 

Diverse volte vengono a bussare alla mia porta, ma non apro a nessuno.

Quando è mio padre a farlo, mi sale il panico e corro a girare la chiave nella toppa per dare un'altra mandata, ma come uno stupido sbaglio, e invece di chiudere, apro.

Mio padre entra come una furia dentro lo scompartimento, mi afferra per la collottola e mi sbatte contro il muro.

- Ma che diavolo ti è saltato in mente! -

Urla, non l'ho mai visto tanto arrabbiato prima d'ora.

- Niente, è stato un incidente! -

Lo schiaffo mi arriva inaspettato, e mi brucia l'orgoglio ancor prima che la pelle.

- Sei uno stupido avventato. - sembra privo di forze. Si passa una mano sul viso. - Se devi...se devi fare certe cose...almeno falle nella tua stanza! Hai messo in subbuglio tutto il treno. - comincia a fare avanti e indietro; lo osservo da un angolo, temo che abbia voglia di uccidermi con le sue mani - I camerieri parleranno di certo. - fissa gli occhi nei miei - Se dovesse uscire qualcosa su questa storia, proveremo a girarla a nostro favore. -

Insomma, per una scopata, quante storie. Vorrei dirglielo, ma penso di avere rovinato tutto il suo piano.

Forse sperava che il mio visetto d'angelo facesse impietosire qualcuno che pagasse perché tornassi vivo a casa. Che l'idea del mio cuore dolce ammorbidisse gli sponsor. Ma questo, sarebbe successo solo se fossi stato single e disponibile, libero come l'aria, abbordabile idealmente da ogni ragazza, donna, vecchia con il portafogli stracarico di soldi.

Ma se fossero venute a sapere quello che era successo sul treno, le cose cambiavano. Non ci sarebbe stato più niente di angelico, nel mio viso, in quel caso.

- Va bene, lasciamo perdere. Non parlarne, mai. E speriamo che Ria non se lo lasci sfuggire. - lo dice come se sapesse già che fosse una cosa impossibile - Siamo quasi arrivati a Capitol City. -

Riesco solo ad annuire, mentre lui esce e mi lascia solo con il mio errore.

Il treno intanto comincia a rallentare, si sente il rumore dei freni che cominciano ad azionarsi.

Fuori dal finestrino, il mondo viene ingurgitato del buio, fagocitato dalla lunga galleria scavata nella montagna che porta alla città.

Rimango incollato con il naso al vetro, contro ogni mio desiderio.

Ma voglio vederla in faccia Capitol City, voglio che mi parli, voglio vedere i suoi occhi.

Il treno cammina ormai a passo d'uomo; esce dalla galleria e mi ritrovo davanti l'abbagliante sfarzo di una città di cristallo, in cui camminano pittoreschi personaggi usciti dai libri.

Rimango a bocca aperta.

Poi il treno entra in stazione, e nasconde la città.

Su un grosso cartello luminoso si legge la scritta “Capitol City”.

Capitol City, bello” comincia la mia vocina interiore “ultima fermata.”

Raggiungo mio padre, Ria e Tizio.

Fuori dal treno, sulla banchina, si è radunata tanta folla che sembra l'accoglienza per una super star.

Ci sono fotografi, e telecamere ovunque.

Riconosco anche il giornalista del telegiornale della sera in mezzo a tutte le altre facce.

Non so se sentirmi onorato o schifato da quest'accoglienza.

Come fanno tutte queste persone ad idolatrarmi così quando sanno che mi vedranno morire, in modo violento probabilmente?

È l'idea delle mie budella sparpagliate in giro che li esalta così tanto?

Probabilmente, le persone comuni che abitano a Capitol City non hanno ben capito cosa sono gli Hunger Games.

Provo un po' di pena per loro, anche se sono io che sto andando a morire per colpa loro.

Mio padre mi poggia una mano sulla spalla.

- Sorridi, sorridi sempre, più che puoi. Anche quando non ti sembra che ti stiano riprendendo. E saluta, mostrati entusiasta. -

Gli lancio un'occhiata da che-ti-sei-bevuto; poi ricordo che per colpa mia potrebbe saltare l'unico piano che avevamo, e mi sento terribilmente in colpa.

Il treno si infila in un tunnel sotterraneo, e la città, con tutti i suoi abitanti e tutti i suoi fotografi, sparisce.


The Corner

Ciao bellissimi,
scusate il ritardo!
ma succede sempre che il giovedì ho qualche impegno che mi impedisce di postare .-.
ieri la colpa va a mio cugino che si sposa e che è venuto a casa a cena per portare la partecipazione!
è stata una giornata di pulizie generali in casa ahahahah
comunque sia, buona lettura, e a giovedì prossimo!
Chii

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Capitolo 4
*** Sorridi ***


3: Sorridi

 

Mi dondolo sulla sedia, fischiettando.

Non è venuto ancora nessuno, e sono nel Centro Immagine da una ventina buona di minuti.

Mi guardo un po' intorno.

Mi sento perseguitato dalla mia immagine. Ci sono specchi ovunque, in cui mi rifletto in continuazione.

Non riesco neanche a capire come mi sento. Se annoiato perché il mio Stilista e i suoi aiutanti mi hanno praticamente piantato qui, o se spaventato a morte per la Sfilata d'apertura dei giochi che si terrà da qualche ora.

I Tributi del Distretto 10 non spiccano mai particolarmente, e non credo che quest'anno le cose saranno diverse.

Di solito, ci vestono da mucche, dato che i Tributi devono indossare qualcosa che sia anche solo vagamente associabile al nostro Distretto. E il nostro Distretto si occupa di allevamento, normalmente.

Al solo pensarci, mi viene da ridere. Sarà per l'isterismo, sarà per il paradosso della situazione.

- Oh Dio, scusa il ritardo! -

Vorrei essere sfrontato davvero per prendermela con la Stilista, che entra in questo momento come una furia, con le mani e le braccia ingombre di buste e borse.

- Non fa niente. -

Rispondo, stringendomi nelle spalle.

La donna mi sorride, cordiale. E allora mi soffermo su di lei.

I capelli sono tutti aggrovigliati su loro stessi, e lei li tiene legati in una coda alta. Anche così, le arrivano fino al sedere. Sono di un color turchese acceso, che quasi brilla.

Non si riesce a capire che cosa indossi. Porta una lunga gonna colorata, che sembrava ricavata da vari pezzi di stoffa trovati qua e là e una canotta bianca schizzata di macchie di pittura fosforescente, quasi del tutto sommersa da una cascata di collanine e catenelle di ogni genere, d'oro, di legno, di plastica: qualsiasi materiale.

Ha i lobi delle orecchie dilatati, abbastanza da poterci infilare dentro un dito.

Ha un bel viso, ovale; labbra carnose; un naso dritto che finisce all'insù; occhi grandi e verdi.

- Wow. - mi sfugge. Lei arrossisce di colpo, come una bambina; mi viene spontaneo sorriderle, è proprio carina. - Come hai fatto quelli? -

Le dico, riferito ai capelli.

Lei alza gli occhi verso l'alto, come se stesse cercando di guardarseli.

- Ti piacciono davvero? -

Sembra sorpresa, parecchio anche.

- Ehm...sì, molto. -

Il sorriso che mi fa è talmente spiazzante che riesce a farmela simpatica all'improvviso.

- Sei il primo! -

Penso che avrebbe voglia di abbracciarmi, ma si trattiene.

- Non vanno di moda? -

Scuote la testa.

- Sono un paio d'anni che li porto acconciati così. Li ho inventati io, si chiamano dreadlocks. Non hanno riscosso molto successo...e dire che sono di facile manutenzione, non c'è bisogno di pettinarli, stanno su da soli, e non si devono lavare spesso... -

Un'idea mi solletica, ed è un solletico piacevole.

- Fammeli. Acconcia i miei capelli così. -

Sgrana gli occhi così tanto che sembrano due piatti da portata.

- Com...cos...ma sei sicuro? -

- Sì, sono sicuro. Mi piacciono. -

I suoi occhioni verdi si riempiono di lacrime. Vorrei darle il permesso di abbracciarmi, perché ora come non mai sembra averne bisogno.

Molla per terra le buste e le borse, e mi si avvicina. Mi scioglie i capelli e ci passa le mani dentro, con delicatezza, sciogliendo i nodi. Ha una faccia seria da far spavento.

- Posso farlo, hai i capelli adatti. - dice, dopo un lungo silenzio - Ma ne devi essere veramente sicuro. -

- Com'è che ti chiami? -

- Oh, ma che scema! Arrivo in ritardo, e neanche mi presento! Mi chiamo Amarilli. -

Un nome tipico dell'assurdità di Capitol City, eppure ha anche un che di originale.

Abbozzo un sorriso.

- Io sono Tom. - mi presento velocemente - Amarilli, ne sono veramente sicuro. Fallo. -

Un risolino di divertimento sincero le esce dalla gola.

- Devo avvertire lo staff di preparatori. Avrò bisogno di qualche ora. Normalmente mi occupo solo degli outfits, ma per te faccio volentieri un'eccezione. -

Mi da una pacca affettuosa sulla spalla e svolazza fuori dalla stanza correndo.

Non so ancora se mi piaccia, ma se tutte le persone di Capitol City fossero come lei, credo che sarebbe più sopportabile.

 

Qualche minuto dopo, insieme ad Amarilli, arrivano due uomini. Sono entrambi così tirati in volto che penso che gli cadrà la pelle da un momento all'altro. Vorrebbero nascondere i loro evidenti quarant'anni, senza riuscirci.

Scopro, da una spiegazione veloce di Amarilli, che sono due fratelli, che si scambiano due anni di differenza, che si chiamano Din e Dan, e che si occuperanno di rendere il mio corpo perfetto.

Non mi piace neanche per un istante come ha pronunciato quella parola, soprattutto visto come si sono illuminati i volti di quei due.

Deglutisco a vuoto quando mi invitano a spogliarmi, così, in mezzo alla stanza, perché devono cominciare col rendere la mia pelle liscia come quella di un bambino.

Vorrei ribattere, ma i loro volti severi (anche se è difficile capire che genere di espressione stanno cercando di metter su) mi fanno cambiare idea.

E sospirando ubbidisco.

Almeno, Amarilli ha la cortesia di voltarsi quando sfilo i boxer.

 

Dopo due ore, e dopo una serie di peeling esfolianti dall'odore orribile che mi hanno fatto diventare una specie di bambolotto di silicone tutto lucido e morbido al tatto, Din e Dan se ne vanno e mi lasciano in pace.

Mi sento la faccia tanto irritata da non poter neanche sorridere. Non ho tutto questo bisogno di radermi, tanto non mi cresce barba quasi per niente. Ma no, vallo a dire a quei due. Con la pinzetta dovevano andare a togliere anche il più piccolo pelo.

Sembro un moccioso di cinque anni.

Per di più, per tutto il tempo ho avuto il quasi irresistibile bisogno di dire a Din e Dan “ma dove avete lasciato Don?”; ma sono sicuro che avrei urtato la loro sensibilissima emotività, per cui ho evitato.

Amarilli mi prepara per l'acconciatura, tutta seria e concentrata.

Ha tirato fuori tutti gli attrezzi del caso, tra cui una serie di uncinetti.

Ho visto una volta mia nonna usare l'uncinetto, quando ero molto piccolo. Ma ricordo solo che ci faceva quell'insopportabili centrini da mettere sotto i soprammobili. Ne faceva uno per ogni ricorrenza, e mia madre non aveva più posto dove metterli.

Ho cominciato a sentire la mancanza di mia nonna quando non c'erano più centrini, sotto portacenere dello studio di mio padre: non avrebbe potuto continuare a farli dalla tomba.

Distolto da quel pensiero, non mi sono neanche reso conto che Amarilli ha cominciato il suo lavoro.

Divide i capelli in piccole ciocche, le inumidisce con dell'olio speciale, e poi comincia a spettinarli verso l'alto con l'uncinetto. Il risultato è che la ciocca si attorciglia e s'increspa, formando a poco a poco quell'ammasso arrotolato di capelli che sono i dreadlocks.

- Mi piacerebbe dirti che non dovrai preoccuparti di come appari, nell'Arena, perché con quest'acconciatura è difficile apparire spettinato. - sospira e si ferma per lanciarmi un'occhiata dallo specchio - Però so che ti dovrai preoccupare di ben altro. Quindi scusami se ho avuto un pensiero così frivolo. -

È davvero strano sentire parlare così una persona che vive gli Hunger Games ogni anno come se fosse il programma televisivo più divertente di sempre, e non una carneficina.

Mi aspettavo...qualcosa di diverso. Mi aspettavo che fosse eccitata per la mia partecipazione ai giochi, e che non parlasse di altro.

Invece, da quando ci siamo incontrati, questa è la prima volta che ne accenna.

Da come si muove, da come mi tratta, da come mi parla, sembra che non ci sia traccia dell'eccitazione comune che striscia a Capitol City, sembra che ci sia solo della rassegnazione.

Come se sapesse che domani si sveglierà, e dovrà piangermi.

Non ho mai pensato a come reagisce la gente di Capitol City alla morte di un Tributo. Forse dipende dalla sua bravura nel conquistare degli Sponsor, e il pubblico in primis.

Ma chi, come Amarilli, lavora a stretto contatto con i Tributi?

Certo, da Din e Dan non potrei aspettarmi altro che una scrollata di spalle e un “peccato che è morto”, senza molto trasporto.

Ma lei...ho come l'impressione che porti addosso tutto il dolore di quello che ha visto, e sopportato, e sentito.

Forse è per questo che cerca di farmi parlare il meno possibile. Forse non vuole conoscermi, non vuole affezionarsi a me.

Lo vedo dal modo gentile e distaccato in cui mi pettina, cercando di non farmi male, e non farne a se stessa.

O è solo una mia impressione?

 

- Ho finito. -

Mi risveglio, quasi, dopo altre due ore.

Batto forte gli occhi, perché la persona allo specchio non sembro io.

Al posto dei miei normalissimi e lisci, troppo lisci, capelli biondo scuro, c'è una massa lunga e attorcigliata di dreadlocks.

Mi ricadono lunghi sulle spalle, e sul viso, come una cascata, e profumano dell'olio che Amarilli ha utilizzato per intrecciarli.

- Bellissimi. -

Mi riesce solo di dire. Mi metto di profilo, scuoto un po' la testa. Proprio un bell'effetto. Mi viene da sorridere.

Amarilli si scioglie la coda, e i suoi dreadlocks turchesi ricadono lunghissimi come una tenda.

Facendo attenzione a non farmi male, né a toccarmi troppo, mi lega i capelli con il suo codino, tirandoli bene sulla testa.

Rimane un attimo a guardami, con le labbra spinte in fuori in un'espressione esilarante.

- Penso che staresti bene con un cappellino a tesa piatta e una fascia. -

- Sei tu la stilista. -

Le dico, quasi ridendo.

Lei ricambia.

- Andiamo a mangiare qualcosa, e poi parleremo di come vestirti. -

Le annuisco.

Mi precede per farmi strada.

Entriamo in un bel salotto, con qualche divano e un tavolino al centro.

Una grande vetrata da sulla città, tutta scintillante nella luce del primo pomeriggio.

Mi accorgo solo in quel momento di avere una fame da lupi; lo stomaco gorgoglia che è una meraviglia. E d'altronde non sono riuscito a mangiare niente, né stamattina a colazione, né ieri sera. E voglio cancellare la ragione che mi ha impedito di farlo.

Amarilli si siede sul divano, e schiaccia un pulsante che sta sul lato del tavolino. Il piano di divide a metà, e da sotto sale un vassoio stracolmo di cibo.

L'odore della carne leggermente soffritta di maiale mi prende subito alla gola, e vorrei gettarmi come un animale su quel pasto.

Mi conviene mangiare il più possibile, prima di sottostare a un digiuno forzato, nell'Arena.

Ci sono anche patate tagliate sottili e fritte, che al mio Distretto non esistono.

Sfacciatamente, mi riempio il piatto.

D'altronde dovrebbe far parte del mio personaggio: sfacciataggine e sfrontatezza.

Amarilli cerca di non incrociare mai il mio sguardo, né quando parla, né quando sono io a parlare, né quando il silenzio scende su di noi.

La sensazione che non voglia avere a che fare con me più del dovuto, si fa sempre più pressante.

- Posso farti una domanda? È strettamente legata alla sfilata di stasera. -

Mi dice, con una curiosità che gli è dovuta per lavoro, e non perché realmente interessata.

- Sì, dimmi. -

- È vero quello che si dice? Che tu e tuo fratello siete un esperimento genetico? -

Le lancio un'occhiata, ma lei sta guardando altrove.

- No, non è vero. Una gravidanza gemellare è perfettamente normale. Rara, ma normale. Il fatto che sia capitato nel Distretto che si occupa di genetica, è solo una coincidenza. -

Ho dato questa spiegazione così tante volte, che ormai mi sembra automatica, e non ci credo neanche più.

Ma tanto, non devo essere io a crederci.

Sono sicuro che dovrò ripetere queste identiche parole la sera dell'intervista.

- Capisco. - dice lei annuendo; ma da come l'ha detto, sembra che non capisce, o non vuole capire, o non le interessa capirlo - Ora, ho quest'idea, se non ti va giù, posso pensare a qualcos'altro. -

- Sentiamo. -

Di certo non mi andrà giù. Ma ad ascoltarla, non ci perdo niente.

- Din e Dan saranno gli Stilisti della tua compagna, e hanno intenzione di vestirla come una mucca. - mi viene da ridere. Ria, una vacca. - Io, sinceramente, non sono molto d'accordo. Quindi pensavo, dato che bisogna che i Tributi rispettino il clima del Distretto, se per caso tu non volessi vestirti...bhè, da te stesso. -

- Da...me stesso? -

- Sì, cioè, ovviamente qualcosa di nuovo che penseremo insieme...però senza troppi fronzoli o costumi strani. Tu, come rappresentante della genetica, visto che ne fanno molto parlare. -

Rimango qualche secondo in silenzio.

- Penso che sia una grande idea. -

Per la seconda volta, vedo Amarilli che sgrana gli occhi e li fa diventare enormi, davvero enormi.

- Ok...ok... - prende un profondo respiro - ...non ti da fastidio? -

- No. - scuoto la testa e rido - Sarà divertente vedere se il pubblico riesce a capirlo. -

- Oh, credo di sì. - mi sorride - Tu forse non hai sentito tutto quello che si dice di te in tv, vero? -

Ammetto che non ho avuto molto tempo per guardare la tv, e che se anche l'avessi avuto non l'avrei comunque guardata.

Non mi va di sapere quali sono le puntate su di me.

Ma più di tutto, ho paura di rivedere Bill, e il suo pianto di disperazione.

Non voglio più vedere quell'immagine.

- Non ne ho ancora avuto modo. Che si dice di me? -

Rispondo, con una smorfia che Amarilli deve fraintendere del tutto, perché le viene da sorridere.

- Bhè, poi vedrai. Passiamo al tuo nuovo look. A questo punto, ho già qualcosa pronto per te... -

 

Rivedo Ria solo quando ci scortano entrambi al piano terra del Centro Immagine, dove ci aspettano i carri che ci porteranno in giro per la città per venti, interminabili minuti, fino all'Anfiteatro cittadino, dove ci presenteranno, suoneranno lo stupido inno di Capitol City, e ci chiuderanno a doppia mandata nel Centro Addestramento, fino all'inizio degli Hunger Games.

Ricordo tutti i particolari dei giorni di preparazione ai giochi.

Riesco a tirare fuori dalla mia memoria il ricordo di ben quindici edizioni, il che vuol dire che il mio primo ricordo di questo reality show di morte risale a quando avevo tre anni.

Non ho bisogno che nessuno mi dica niente, per sapere quello che devo fare.

Quindi mi dirigo speditamente verso il carro del Distretto 10, dove mi aspetta Ria.

Si volta a salutarmi e quasi le scoppio a ridere in faccia.

Le hanno messo un campanaccio al collo, di quelli che portano le mucche. Attaccata alla base degli shorts bianchi a macchie marroni che indossa, c'è una lunga, lunghissima, coda sintetica, che penzola qua e là. E come se non bastasse, le hanno anche fatto mettere un cerchietto con tanto di corna. I capelli rosso fuoco sono intrecciati in una stretta crocchia, e le lasciano scoperto il viso pesantemente truccato.

Con il reggiseno risicato, abbinato agli shorts, che le copre i seni, si direbbe davvero una mucca pronta per la mungitura.

- Ma tu? Che cosa hai combinato? -

Mi dice, mentre la affianco.

Forse non si è ben vista allo specchio, altrimenti non avrebbe il coraggio di dirmi una cosa del genere.

- Io niente. Tu piuttosto. -

La indico poco garbatamente.

Lei finge di sentirsi imbarazzata e si copre il petto.

Mi sembra un po' tardi, ormai so com'è fatta.

- Hai dei capelli assurdi. -

- Dreadlocks, non sono una figata? -

Lei fa una faccia da “sarà!”, e monta sul carro.

La affianco, ridendo sotto i baffi.

Sono contenta che Amarilli mi abbia permesso di essere...me stesso. O almeno, la versione di me che porterò sulle scene.

Alla fine, ho messo la fascia e il cappello, bianco con ricamato sopra, a ghirigori dorati, la forma stilizzata di una spirale di DNA e il numero 10, a tesa piatta di cui parlava Amarilli, abbinati ad una maglia lunga bianca, un jeans largo, e un paio di comodissime scarpe da ginnastica.

Amarilli l'ha definito uno stile “hip hop”.

Nel complesso, sono molto soddisfatto del risultato.

Ora aspetto che sia il pubblico a dirmi se Amarilli è riuscita a trasmettere la sua idea.

Essere il rappresentante della “stranezza” che ha reso la mia vita piacevole e spiacevole al tempo stesso, mi mette addosso una strana sensazione.

Vorrei che ci fosse mio fratello sul carro al mio fianco, così l'impatto visivo sarebbe ancora maggiore, soprattutto perché lui non si sognerebbe mai di potersi vestire in questo modo.

Però, sono contento di avere accanto una ragazza mucca, e non lui.

L'unica cosa è che vorrei vedere la sua faccia quando mi vedrà.

Mi viene automatico sorridere ancora.

Il carro del Distretto 1 è il primo, per ovvie ragioni, a partire.

Un boato accompagna la sua uscita.

Nell'aria, comincia a diffondersi una musica fortissima, fatta di trombe e rullanti, che rimbalza ovunque, percorrendo come un'onda tutta la città.

Uno dopo l'altro tutti i carri cominciano la loro sfilata.

Il cuore comincia a battermi sfalsato nel petto quando il carro del Distretto 9 ci lascia la strada libera e i nostri cavalli cominciano a muoversi.

Per un attimo mi sembra di cadere nel vuoto. Raggiunto un fragile equilibro, deglutisco, e metto su un mega sorrisone a trentadue denti. Devo sembrare davvero entusiasta.

A questo punto, non mi resta che fare quello che mi ha detto mio padre.

Per cui comincio a salutare, gioiosamente.

Quando una telecamera mi si punta in faccia, faccio un occhiolino e sventolo una mano.

Penso che a casa il cuore di Bill stia per mandarlo in ospedale.

Spero che non gli venga in mente di fare qualche stupidaggine, se dovesse succedermi qualcosa.

In concomitanza con il mio caloroso saluto, si sente un aumento esponenziale delle urla, soprattutto quello di ragazzine isteriche che non avranno più della mia età.

Sento il mio nome urlato a squarciagola, tanto da sovrastare anche la musica.

Vedo di sfuggita, tra gli spalti, una ragazza che sviene e che viene immediatamente soccorsa dalle persone che ha intorno.

Quest'inizio mi da una carica di adrenalina, e mi fa sorgere automatico un sorriso sornione.

Mi sbraccio, rischiando di cadere dal carro, per salutare.

Qualche ragazza si sporge in avanti quasi per toccarmi, e sono certo che se ci riuscissero mi lascerebbero in mutande...o forse no.

I carri occupano l'anello esterno dell'Anfiteatro cittadino.

Non ci sono occhi, in questo momento, che non stanno guardando noi, che non hanno il televisore acceso e si stanno godendo lo spettacolo.

Comprese tutte le famiglie che vedranno combattere i loro figli.

Penso a mia madre, a come le si spezzerà il cuore vedendomi così, felice come una pasqua, a salutare le ragazzine isteriche.

I carri si fermano sotto il balcone del presidente Snow.

Con la sua calma affettata dispensa qualche saluto, finché la musica non tace, e lui può finalmente prendere la parola.

Ci da il benvenuto ufficiale a Capitol City, e ci augura buona fortuna per questi 73esimi giochi.

Su di uno schermo gigante vedo i volti di tutti i Tributi che vengono inquadrati uno dopo l'altro.

Riconosco i bambini del Distretto 12, e il ragazzo del 6 che si è offerto al posto di sua sorella.

Poi l'inquadratura si ferma qualche istante di troppo su di me.

Parte l'inno nazionale, e i carri ricominciano a muoversi.

Sfilano un'ultima volta intorno all'anello, e poi s'infilano nel Centro di Addestramento.

La faccia mi fa male a furia di sorridere. Non appena le porte si chiudono alle mie spalle, e sono sicuro che nessuno può più vedermi, sospiro.

Questa non è neanche la parte più difficile.

Non ci si avvicina neanche.

 


The Corner

Ciao a tutti e ben trovati!
vi annuncio che ho avuto qualche problemino tecnico con il capitolo di Humanoid Universe XD
purtroppo, è ancora su carta, mentre dovrebbe essere in digitale! XD
spero di ricopiarlo entro stasera e di pubblicarlo,
in ogni caso,
al massimo domani l'avrete XD
giovedì prossimo non so se posso garantire la pubblicazione,
ma dato che non ne sono sicura
controllate comunque! ^^
detto ciò, buona lettura,
e buone recensioni!

Chii

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Capitolo 5
*** Gli Invitati alla Festa ***


4: Gli invitati alla festa

 

Dalla terrazza della torre del Centro di Addestramento, la vista sulla città è bella da mozzare il fiato.

È la città stessa, al buio, a brillare come un piccolo gioiello.

Con la luna nuova, e le stelle opache, Capitol City fa invidia al cielo stellato.

Benché sia passata la mezzanotte, non sembra decisa a spegnersi, e a trovare il conforto nel sonno.

Riesco a capirla, perché neanch'io come quest'impossibile città, riesco a prendere sonno.

Il vento soffia forte, ho già perso sensibilità alle mani, e in buona parte della faccia.

Però, non riesco a decidermi a tornare dentro.

Qui in alto, tutto sembra immobile e perenne a se stesso.

Non esiste il tempo, e non esiste lo spazio.

Posso guardare il mondo come lo guarderebbe un uccello, senza scompormi troppo.

È un balsamo per l'angoscia.

Mi arrampico sul muretto e mi ci sdraio sopra, dando le spalle alla città, e al baratro alto tredici piani che potrebbe uccidermi. Ma non lo farà, nell'aria si sente il frizzare del campo elettromagnetico che, se dovessi perdere l'equilibrio e cadere, mi rispedirebbe dritto sulla terrazza.

Una polizza assicurativa per scongiurare i suicidi dell'ultimo minuto.

Come se non avessi potenzialmente altre armi con cui farla finita.

In linea generale, se non sapessi cosa mi aspetta, potrei dire che questa giornata è stata interessante.

Dopo la Sfilata, ho avuto gli occhi di quasi tutti i Tributi puntati addosso, il che mi prepara a difendermi bene, perché sarò nel mirino di più di un cecchino.

Sembra che la mia apparizione abbia suscitato davvero clamore.

Accoppiato con la mucca Ria (se ci penso mi viene da sganasciarmi dal ridere), era quasi palese che cosa interpretassi: ero la rappresentazione tangibile degli esperimenti genetici.

Se n'è fatto un gran parlare per tutta la serata.

Credevo che da un momento all'altro il televisore scoppiasse, per quante volte gli ho sentito pronunciare il mio nome.

Il giorno dell'intervista, Flickerman avrà molto da farmi dire.

Fortuna che si tratta solo di tre minuti.

Il look pensato da Amarilli ha riscosso subito successo. Adesso che a sfoggiarlo è un Tributo così particolare, sembra che tutta Capitol City voglia imitarlo.

Solo che Amarilli è impegnata con me, almeno finché non cominceranno i giochi, quindi non usciranno altri dreadlocks dal suo salone.

Mio padre è rimasto sul vago per tutto il tempo.

Quello che meno sopporto è doverlo trattare come un estraneo, quando avrei bisogno di qualcuno fidato a cui aggrapparmi.

Capisco le sue ragioni, ma è frustrante averlo qui, e non poter ricevere da lui neanche un'occhiata di conforto.

È come se si stesse allontanando.

È la stessa fugace sensazione che ho avuto sul treno, vedendo il mio mondo sfuggirmi alle spalle.

Anche lui, come Amarilli, vuole tenermi lontano per evitare di soffrire più del dovuto?

Mi sembra di essere una qualche sorta di bomba ad orologeria, programmata per esplodere in un momento ben preciso, che nessuno sa quale sia.

Potrebbe essere oggi, domani, tra quattro giorni, quando sarò l'ultimo Tributo sotto la Cornucopia e potrò tornare a casa, o quando sarò il primo ad essere infilato in una bara.

È tutto un po' gettato a caso, alla rinfusa, nessuno sa bene quando sarà il momento.

Io, intanto, il ticchettare del tempo che passa lo sento nelle orecchie.

Mi stiracchio.

Che ore saranno?

Forse è il caso di andare a dormire.

Domani cominciano i tre, e dico tre, intensivi giorni di addestramento.

Come se un ragazzo che non ha mai combattuto o provato a farlo possa imparare qualcosa in tre giorni.

Sembra una presa in giro.

Non possiamo mica dire che non ci hanno dato il tempo per provarci.

Lasciamo perdere, che mi sale il nervoso.

Mi alzo e me ne torno verso l'ascensore, sbadigliando sonoramente.

Schiaccio il pulsante e aspetto con calma che l'ascensore risalga.

Chissà se hanno lasciato qualcosa da mangiare, mi sta venendo un certo languore. “Non è che è voglia d'altro, come la scorsa notte, vero?” mi dico tra me e me. Mi viene fuori una risata.

Non riuscirò più a guardare Ria con gli stessi occhi, dopo la Sfilata. Il sesso non potrebbe aiutarmi.

Le porte dell'ascensore si aprono e faccio per entrare, ma mi blocco sul posto quando mi ritrovo davanti una ragazzina.

Il mio cervello fruga disperato alla ricerca del suo volto nella memoria, senza trovarla.

Non so chi sia.

- Scusa. -

Mi dice, imbarazzatissima. Si fa da parte e mi lascia entrare.

- Niente. - le rispondo, cercando di essere cordiale. Non sembra particolarmente pericolosa. Ma è di quelle così che ci si deve spaventare. - Salivi a prendere un po' d'aria? -

- In realtà, sono rimasta chiusa fuori. - è arrossita, in maniera così delicata che mi fa odiare ancora di più gli Hunger Games - Il pulsante del 9 non funziona. -

- Non funziona? Ma non può essere! - provo a sincerarmene, schiacciandolo. In effetti, non si illumina. Non da proprio segni di vita. - Cavolo. E adesso? - si stringe nelle piccole spalle, come se non le importasse - Non so se sia contro il regolamento o cosa, ma puoi venire al mio piano, finché non si risolve il problema. Di certo anche il tuo Mentore e l'altro Tributo avranno problemi, prima o poi qualcuno se ne accorgerà. -

- Grazie, preferisco rimanere qui. -

Ha gli occhi del terrore mentre lo dice.

Il che è un peccato, perché ha degli occhi davvero stupendi. Sono di una sfumatura di grigio che si avvicina più all'argento, di forma sottile e allungata, come quelli di un gatto.

Dunque, è sicuramente del Distretto 9, dato che ad ogni piano della torre corrisponde un Distretto, e lei dovrebbe andare al nono.

Non riesco proprio a ricordarmi la sua Mietitura, ma di certo l'avrò vista.

È piccola, magrolina, con forme ben delineate, quasi disegnate. I capelli sono una cascata d'ebano, con riflessi bluastri. Il viso è quasi del tutto coperto da una frangetta spessa, che si interrompe proprio su quei meravigliosi occhi, mettendoglieli in risalto in maniera deliziosa.

Sembra una cosina tutta fragile e delicata. Non posso credere che la getteranno nell'Arena.

- Come ti chiami? -

Le dico, a bruciapelo.

Lei mi lancia un'occhiata in tralice. Mi aspetto di sentirle dire qualcosa tipo “ma come fai a non saperlo, io so come ti chiami tu!”.

- Astrid. -

- È un bel nome. -

- Mio padre dice che vuol dire “bella dea”. - fa un rapido sorriso, e quelle labbra disegnate con una matita rossa si illuminano per un attimo - Lo prendo sempre in giro per questo. Perché in realtà dovrebbe significare “protetta dagli dei”, almeno, secondo mia madre. - mi rivolge un'occhiata argentea e mi sento rabbrividire - Se mi proteggessero davvero, non mi troverei qui però, non trovi? -

Non sembra che voglia che io risponda, ha già trovato da sola la sua risposta.

In tutto questo tempo, le porte dell'ascensore si sono chiuse, e nessuno dei due ha schiacciato un pulsante, all'infuori di quello non funzionante.

Astrid schiaccia il 10, senza neanche chiedere. Evidentemente lei sa bene chi io sia.

L'ascensore si muove silenzioso verso il basso.

Le porte si riaprono con delicatezza, scorrendo sui loro cardini, al decimo piano. Si sente un soffuso ding.

Scendo e mi volto per rinnovarle l'invito a passare la notte qui, piuttosto che in ascensore.

Prima che possa dire qualsiasi altra cosa, è lei a parlare.

- Ti auguro una buonanotte, Tom. -

E mi sorride.

Le porte si richiudono in un lampo, e lei scompare alla mia vista.

Non ho avuto il tempo di dirle niente.

Provo a far riaprire le porte, pigiando più volte il pulsante di chiamata.

Quando finalmente ci riesco, e le porte si aprono, la cabina è vuota. Di Astrid nessuna traccia.

Mentre torno, mestamente, alla mia camera, mi chiedo se per caso non ho avuto un'allucinazione, e se Astrid non sia uno dei fantasmi dei tanti ragazzi morti durante gli Hunger Games, tornato per una qualche strana ragione a infestare l'ascensore.

 

La mattina dopo mi sveglio all'alba, per colpa di una sveglia, che non sapevo di avere puntato, che mi suona dritta nelle orecchie.

Per un attimo fatico a capire dove mi trovo.

Mi sbraccio per cercare la fonte dell'allarme sul comodino, ma non trovandola mi sporgo oltre il letto e precipito giù.

A questo punto, sono del tutto sveglio, e dolorante anche.

Impreco a bassa voce e mi tiro in piedi.

La sveglia si diffonde da un altoparlante montato in un angolo della stanza. Non avrei potuto spegnerlo neanche volendo.

- Va bene, basta, sono sveglio! -

Sbraito, e l'allarme, quasi per prendermi in giro, tace.

Fantastico, un bell'inizio.

Mi vesto in fretta e furia, dopo aver constatato allo specchio che i miei dreadlocks sono perfetti come quando Amarilli li ha intrecciati.

Mio padre, Tizio e Ria sono amichevolmente seduti al tavolo della colazione.

La televisione è accesa. Come se non me lo aspettassi, stanno trasmettendo a tutta manetta i video della Sfilata.

Però, faccio un figurone con il mio nuovo look.

- Chi è quello splendore? - dico, mentre mi avvicino al tavolo - Ah, giusto, sono io. -

Ria ride sguaiatamente della mia battuta, così come Tizio, mentre mio padre si limita a lanciarmi un'occhiata di compiacimento, come se mi fossi comportato esattamente come si aspettava che facessi.

- Sei stato perfetto! - comincia Tizio - Quei capelli, quei vestiti....perfetto! Di chi è stata l'idea? -

- Fifty fifty con la mia Stilista. Amarilli, un bel tipetto. -

Rispondo, senza guardarlo, con nonchalance, mentre mi riempio il piatto di uova strapazzate, toast e pancetta.

- Mi raccomando per oggi. Prendetevi tutto il tempo che potete per guardarvi intorno, e provate anche a procurarvi degli alleati. -

Prende mio padre. Sembra serio da morire.

Gli indirizzo un'occhiata per fargli capire che ho afferrato il concetto, mentre sembra che Ria stia facendo di tutto per non farsi entrare in testa quei quattro precetti.

- E nel frattempo cercate di imparare qualcosa! -

Ride Tizio, come se stessimo andando ad una specie di corso di aggiornamento.

Di certo, imparerò come non morire.

Ho una mezza intenzione di guardare molto da vicino i favoriti. Non tanto da entrare nel loro gruppetto, ma abbastanza da capire come hanno intenzione di agire nell'Arena.

Imburro due fette di toast, ci metto dentro pancette e uova e cerco di far entrare il tutto dentro lo stomaco con un paio di bocconi, innaffiando con del succo d'arancia.

Mi piacerebbe prenderne ancora, ma so che se lo facessi rischierei di vomitare l'anima, e ho bisogno che tutto quello che entri nel mio stomaco, ci rimanga.

 

Incredibile quanta confusione possano fare ventidue ragazzi, in uno spazio tanto limitato. È anche incredibile cosa questi ragazzi possono fare, con le armi giuste tra le mani.

Gli Strateghi se ne stanno a guardarci dall'alto, mangiando in continuazione e parlando tra di loro, mentre i Tributi fanno di tutto per non far capire che stanno cercando di mettersi in mostra.

Mi viene quasi naturale identificare quelli del Distretto 1, 2 e 4, perché hanno già formato gruppo, e si stanno allenando tra di loro.

In generale, sembrano un gruppo di super guerrieri, che hanno trovato il tempo di trovare un lavoro come modelli: sono tutti mortalmente belli.

Soprattutto le tre ragazze, che si sono separate dai ragazzi per allenarsi un po' per conto loro.

Una di loro, che ha inquietanti capelli bianco latte, ha preso una strana arma con tre affilatissime lame, che si infila sulla mano come un guanto.

La ragazza la prova su un sacco da box, e lo trancia di netto a metà; non contenta del risultato, si accanisce su quel che è rimasto del sacco, facendo volare ovunque brandelli di stoffa e imbottitura.

Spero che qualcuno la trovi e la uccida prima che lei trovi e uccida me: non vorrei mai incontrarla nell'Arena.

Questi ragazzi si preparano per tutta la vita per quest'evento, per quando brilleranno come Tributi dentro l'Arena.

Quasi tutti si ammazzano tra di loro per offrirsi volontari alla Mietitura, e chi non ci riesce, l'anno dopo è ancora più motivato a farlo.

È come se crescessero come macchine da guerra, e fossero contenti di esserlo.

Ria mi afferra una mano, distraendomi.

- Che dici, andiamo a provare le trappole? -

In fondo, vicino allo stand con il Corso sulla mimetizzazione, intravedo quella che mi sembra essere Astrid.

- Vai tu, dopo ti raggiungo. -

Me la scrollo di dosso e la supero.

Quando arrivo allo stand, Astrid sta provando una mistura di pittura mimetica sul braccio di un ragazzo (che immagino essere il suo compagno).

Alza gli occhi quasi subito, quando mi avvicino.

- Ciao, sei riuscita a tornare al piano ieri notte? -

Le dico, con un sorriso.

Il ragazzo mi guarda stranito, i suoi occhi bluastri passano da lei a me ad una velocità da record.

- Ciao a te. Sì, ci sono riuscita, grazie. - poggia il pennello e si asciuga le mani - Provi con la pittura? -

- In realtà, non so bene da cosa cominciare. Di certo voglio tenermi alla larga da quelli. -

Gli occhi grigi di Astrid superano la mia spalla, e si posano esattamente dove volevo: sul gruppo dei Favoriti che sta allenandosi a suon di spada e urla disumane.

- Lo stesso vale per noi. - comincia il ragazzo - Io sono Anthya, tu sei l'Esperimento? -

Do in una risata.

Questa mattina ho scoperto che per il pubblico io sono l'“Esperimento”, un appellativo benevolo affibbiatomi dalle fans urlanti.

Purché se ne parli...” mi dico, alzando gli occhi al cielo.

- Sì, bhè, sono io. - e rivolgo un occhiolino ad Astrid, che avvampa, quasi a comando - Allora, come funziona questa cosa? -

Afferro una ciotola di pittura marrone e provo a rigirarla con un pennello.

Il maestro dello stand si mette a parlare, entusiasta che qualcuno si sia interessato finalmente alla sua disciplina.

 

A mezzogiorno, sono conquistato da Astrid, abbastanza da non mollarla per un attimo.

Non capisco cosa ci sia in lei che mi attrae così.

Sarà il modo in cui ride, timidamente, o il suo essere così piccola e bisognosa di protezione.

Ha sedici anni, ed è la prima volta che viene estratta dall'urna della Mietitura.

Nessuno si è offerta per lei, ma ne è estremamente contenta, perché l'unica che avrebbe potuto farlo, sarebbe stata sua sorella minore, e lei ha fatto il modo che non ci pensasse neanche.

Quest'evento in comune con me e Bill, me la fa sentire ancora più vicina.

Anche Anthya non è male, pur essendo un po' reticente e caustico a volte.

Nel loro Distretto, si occupavano della raccolta del frumento, per cui conoscono quasi tutte le piante commestibili esistenti, il che potrebbe essere un punto a mio favore, nell'Arena, e mi fa pensare che non devo assolutamente lasciarmeli scappare.

D'altronde, mio padre non aveva detto che dovevo farmi degli alleati?

Ria sembra aver fatto amicizia con i due Tributi del Distretto 5, che sono fatti apposta per lei: sono frivoli e vuoti, ridono per un nonnulla. Fanno cortile, più che addestramento.

Però, per forza di cose, lei ce li ha appioppati.

Così, al tavolo del pranzo, ci ritroviamo seduti insieme, a sentir parlare quei tre di cose talmente assurde che non riesco neanche a concepirle.

Discutono su quale acconciatura sia più alla moda a Capitol City, e mi costringono a scucire informazioni su Amarilli e sui dreadlocks; su quale colore di abito sia più adatto indossare durante l'Intervista, e altre futilità del genere, che sono completamente fuori luogo per quello che stiamo per affrontare.

Almeno, ci sono Astrid ed Anthya a rendere meno penoso il tutto...soprattutto Astrid.

Alla fine, mentre Ria ciancia con quei due, io mi ritrovo a creare una strategia di sopravvivenza con loro.

Ci ritroviamo tutti d'accordo sul trovare innanzi tutto un riparo, per salvarci dal Bagno di Sangue iniziale, dopo di che dovremmo trovare un modo per rincontrarci, e lanciarci alla ricerca di cibo e acqua.

Sembra sensato, ed è comunque tutto quello che ho tra le mani, quindi accetto di gran lunga.

 

Il resto del pomeriggio lo passo allo stand dei nodi e delle trappole, cercando di capire come poter catturare un animale selvatico.

Lo trovo di certo più interessante che menare fendenti a destra e a sinistra con una spada.

Comincio a pensare di avere più chance di sopravvivenza prendendo i Favoriti per fame, che gettandomi in uno scontro corpo a corpo, dato che non sono né molto abile, né molto veloce, e neanche molto forte.

Mi riservo per domani di imparare, comunque, a maneggiare qualche arma.

- Spostati sgorbio. -

Mi arriva uno spintone e quasi perdo l'equilibrio.

Quando alzo lo sguardo mi ritrovo davanti un bellimbusto, con le spalle e il petto largo il doppio del mio. Ha una sgangherata massa di capelli castani, con riflessi rossicci.

- Potresti chiedere per favore. -

Gli dico, mordendomi subito la lingua dopo averlo fatto.

Vedo il petto del ragazzo gonfiarsi di muscoli.

- Vuoi morire prima del tempo, esperimento? -

Mi si avvicina minaccioso, ringhiando.

Alle sue spalle, vedo ridacchiare la sua compagna.

- Lo sai che, più grossi sono, più rumore fanno quando cadono? - lui sembra non capire, e mi rivolge un'espressione ebete - Ti do una dimostrazione. -

Gli colpisco di taglio le ginocchia, con un calcio ben assestato. Lui, preso alla sprovvista, non ha il tempo di difendersi, né di capire cosa stia succedendo, e cade a terra, picchiando il sedere con un tonfo sonoro.

Mentre ancora sta cadendo, urla qualcosa come “sei morto!”.

Balza in piedi nel giro di un nano secondo, e mi è sopra, con quelle mani giganti che si avvolgono intorno alla mia gola.

Si sente un fischio e all'improvviso una scossa elettrica mi paralizza il corpo, e cado come una bambola di pezza, così come il ragazzone, che mi raggiunge sul pavimento.

Un gruppo di Pacificatori, con tanto di fucili, si fanno largo dentro la palestra, spostando di peso chiunque cerchi di intralciarli, e ci raggiungono.

- È vietata qualunque forma di contatto tra i Tributi. Questo era un avvertimento. -

Dice uno di loro.

Non riesco a voltare gli occhi per vederlo.

È tutto paralizzato dall'elettricità che mi ha reso il corpo insensibile e rigido come marmo.

Due Pacificatori prendono il ragazzone, che scopro chiamarsi Mizar (dalle urla isteriche della sua compagna), e lo portano lontano da me.

Dopo di che, disattivano qualsiasi congegno abbiano usato per paralizzarci, e ritorno in grado di usare e sentire il mio corpo.

Tutti i nervi sono doloranti, come se fossero stati pizzicati e tirati allo stremo.

- Tutto bene? -

Anthya mi porge una mano per aiutarmi a tirarmi su.

- Sì, tutto bene. -

Anche se mi battono i denti e non riesco bene ad articolare le parole.

- Sei più pericoloso di quanto sembri, dove hai imparato quella mossa? -

Mi chiede Astrid, con quegli occhioni sgranati.

Provo a rivolgerle il solito sorriso, ma mi riesce solo di tirare fuori una smorfia.

- Io e mio fratello abbiamo dovuto proteggerci diverse volte da persone più grosse di noi. Questo è il massimo che so fare. Di solito, dopo averli abbattuti, me la davo a gambe. -

- Buon diversivo, comunque. -

Ridacchia Astrid, e mi da una pacca sulla spalla.

- Per oggi basta, torniamo su, dai. -

Anthya e Astrid si allontanano, salutandomi con una mano. Ricambio, titubante.

Mentre mi spolvero via la polvere dai vestiti, la compagna di Mizar mi passa accanto, facendo bene attenzione che mi specchi nei suoi crudeli occhi castani. Accanto a lei, c'è la ragazza dai capelli bianchi che ha fatto a pezzi il sacco da box.

- Sei il primo che verremo a cercare, nell'Arena. -

Mi sussurra.

Un brivido mi sale su per la schiena, mentre lei e l'altra ragazza si allontanano ancheggiando.



The Corner

Ciao bellissimi lettori!
ho trovato un buchino
tra un esame e l'altro
e siccome siete davvero stati bravi ad aspettarmi,
ho deciso di premiarvi con due nuovi capitoli!
quello di Call e quello di Hunger TH :3
purtroppo questo è il massimo che posso fare per ora...
e non credo che giovedì possa ripetersi il miracolo...
ma non disperate,
prima o poi la sessione estiva finirà,
e allora tornerò tutte le settimane a pubblicare!
nel frattempo,
rimanete collegati!
a prestissimo,

Chii

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Capitolo 6
*** Prepararsi alla Lotta ***


5: Prepararsi alla lotta

 

Non pensavo che maneggiare un'arma potesse essere così soddisfacente.

Si ha quasi l'impressione di poter toccare con mano la vita e la morte, di poter tranciare di netto il filo che lega l'una all'altra.

È questo che, mio malgrado, penso, mentre faccio roteare qua e là una spada.

Il braccio destro mi fa un male cane, ma non riesco e fermarmi.

Per la fatica e il sudore, ho dovuto togliere la maglietta, e sento più di un paio d'occhi puntati addosso.

Oltre a quello del gruppo di killer che verrà a cercarmi per primo nell'Arena, ovviamente.

Su quello che è successo in palestra ieri, mio padre non ha fatto un'eccessiva tragedia; a parte la lavata di capo sul fatto di attirarmi le ire dei Favoriti e bla bla bla, penso che sia contento del fatto che mi sono fatto notare.

Io non ho avuto modo di guardare, ma Ria ha annunciato quasi eccitata che gli Strateghi, dall'alto della loro posizione, hanno guardato per tutto il tempo, e non si sono persi neanche un istante dell'incontro-scontro con Mizar, Tributo volontario del Distretto 1.

Oggi mi gira a largo, anche se sto monopolizzando lo stand delle armi da un po'.

Mi arriva un affondo di piatto sul ventre. L'aria mi sfugge via dai polmoni in un attimo.

Si sente qualcosa uscirmi dalle labbra, tipo “ooof!”, e poi crollo a terra.

- Non eri attento. -

Mi riprende il maestro.

Dal dolore allo stomaco, no, direi che non ero per niente attento.

- Mi dispiace. -

L'uomo, un enorme ammasso di muscoli ricoperti di pelle scura, mi si avvicina e mi porge una mano per aiutarmi.

- Dispiaciti se sarai distratto nell'Arena. - con la punta della spada indica i Favoriti, che si stanno allenando con dei pesi - Loro non ci andranno piano. E colpiranno di taglio. -

- Ho capito maestro. -

Gli dico annuendo.

Lui mi ha colpito con il piatto della spada; a parte una piccola contusione, riporto solo l'orgoglio ferito. Se dovessi ritrovarmi ad un tu per tu con la spada contro uno dei Favoriti, di certo me la infileranno di punta nello stomaco, trapassandomi da parte a parte.

E addio Tom Kaulitz del Distretto 10.

Un brivido mi prende la schiena, e scuoto la testa.

- Sei molto portato, comunque. - continua il maestro - Non ho mai visto nessuno maneggiare così una spada dopo solo mezza giornata di lavoro. -

- Grazie. -

Non so se sia un complimento o una condanna a morte.

- Come sei messo con la sinistra? Dovresti prendere in considerazione la possibilità di non poter usare la mano destra. -

Mi rigiro l'elsa della spada nella mano, e la faccio passare nell'altra. La faccio roteare un po'. Lo spostamento dell'aria causato dalla lama mi sibila nelle orecchie.

Mi metto in guardia. Il maestro fa tintinnare la punta della sua spada contro la mia, e ricominciamo ad allenarci.

Con la mano sinistra, mi sento deficitario di qualcosa, e ora che ho smesso di usarlo, il braccio destro mi fa ancora più male.

Però, funziona, per essere la prima volta.

Il maestro mi prende di nuovo alla sprovvista e mi disarma. La spada rotola lontano, oltre le sue spalle, tintinnando. Invece di fermare lo scontro, lui si accanisce contro di me, e per un attimo ho l'impressione che voglia uccidermi.

Schivo un fendente, che avrebbe potuto farmi parecchio male, e mi getto in scivolata tra le sue gambe. Rotolando su un fianco mi avvicino alla spada abbandonata e l'afferro di slancio, giusto in tempo per usarla come scudo contro un affondo. Le due lame si incrociano, e sprizzano scintille.

Il maestro rinfodera l'arma e scuote la testa, ridendo.

- Sei davvero pieno di risorse. Per oggi basta, o con quella spalla non andrai da nessuna parte. -

Indica con il mento la mia spalla destra, che urla di dolore da un po'.

- Come ha fatto a... -

- A capirlo? So quando un avversario si trova in difficoltà, e so anche come sfruttarlo a mio favore. Mi ci sono voluti molti anni per riuscirci. Ma tu...vai ad istinto. Mi piace. Ma stai attento ai tuoi limiti. Non superarli mai, soprattutto in un duello in cui uno dei due deve morire. -

Afferra la spada che stavo usando, e se ne torna al suo stand, dove nel frattempo si sono avvicinati altri Tributi.

Sospiro, e mi massaggio la spalla.

Una mano fresca mi si appoggia sulla pelle accaldata. Voltandomi mi ritrovo davanti Astrid.

- Tutto ok? -

- Sì, ho solo esagerato un po', credo di essermi stirato qualche muscolo. -

Le rispondo, con tutta la calma di questo mondo, anche se il suo arrivo ha messo in moto qualcosa dentro di me.

- Ho imparato a preparare un impacco curativo e antinfiammatorio allo stand di Primo Soccorso, vuoi provarlo? -

Nell'altra mano regge una ciotolina piena di una sostanza verde gelatinosa, simile ad una pomata molto densa.

- Cos'è, sono la tua cavia? -

- Certo che credevi! - ridacchia e prende con due dita un po' di impacco - Se dovesse andare male e rivelarsi pericolosa, potrei sempre usarla come arma nell'Arena. -

- Ahah, che carina che sei. -

Non avrei potuto capire quanto male mi faceva la spalla, se prima qualcuno non l'avesse toccata.

È un dolore che parte dal punto preciso in cui l'osso si incastra nel busto, e si diffonde per tutto il braccio, atrofizzando la punta delle dita.

Finché c'era l'adrenalina a dare supporto, il dolore era stato buono. Adesso, esaurito il carburante, può aggredirmi con tutta le sue forze.

Stringo i denti mentre Astrid spalma la pomata, prima con due dita, poi con tutta la mano aperta.

L'impacco emana un forte odore di menta, e della menta porta la freschezza, che mi fa sentire meno dolorante.

- Ecco qua. Vedrai che ti sentirai megli... -

- Aspetta. - lei fa una faccia interrogativa. Alzo gli occhi e le mostro un dito, intimandola a stare in silenzio per qualche istante. Passati una decina di secondi, quando la sua espressione è diventata indecifrabile, le rivolgo un sorriso. - Oh wow, non sono morto. Com'è che l'hai fatta questa roba? -

- Ah, così mi ringrazi? - mi fa la linguaccia - Non te lo dico. Veditela da solo. -

Sbuffa e fa retrofront, senza degnarmi di uno sguardo.

È carina, oggi.

Ha legato i capelli in una coda altissima, lasciando solo due ciuffi che le scendono lungo il viso.

Con un pantalone aderente sul fisico asciutto e una canotta blu scuro, è tutta da guardare.

Ha quel qualcosa di speciale che hanno le donne che sanno essere belle senza esseri volgari. Quelle stesse donne che, di solito, non hanno neanche coscienza di essere belle fuori, come lo sono dentro.

- Non mi piace come ti guarda. - Ria mi compare al fianco e neanche me ne accorgo. Dovrei fare più attenzione al mondo intorno a me, o finirò ammazzato nel giro di un'ora. - E non mi piace come la guardi. -

- E da quando sono affari tuoi? -

Le dico, tagliente.

Lei getta all'infuori le labbra a canotto. Somiglia in modo impressionante ad una papera.

- Pensavo ci tenessi a me. -

Vorrei dirle “ti ho mai dato modo di credere che ci tenessi?”; ma da come mi guarda so che se lo dicessi le spezzerei il cuore, e non mi va di piangermela per tutto il tempo, soprattutto considerando che potrebbe andare a dire a tutti quanti quello che è successo sul treno.

Mi ritrovo a sospirare.

- Potrebbe esserci utile nell'Arena, conosce le piante, è brava con le tecniche mimetiche e quelle curative. Fin ora, lei ed Anthya sono i migliori alleati che potremmo farci. -

Le mie parole hanno un doppio intento: il primo, è quello di convincerla che il mio interessamento per Astrid sia solo per ottenere da lei ciò che voglio, il secondo è per farle capire che lei non è stata in grado di trovare nessun alleato con un talento rilevante (i due del Distretto 5 con cui si è messa, sono attualmente allo stand di Tecniche Mimetiche, e stanno truccandosi a vicenda come se si stessero preparando per il carnevale, ridendo come dei pazzi).

Ma Ria deve essere troppo scema per capire che cosa intendevo dire, perché mi dice solo:

- Hai ragione. -

E non posso credere che l'abbia fatto.

 

La parte più brutta della giornata, è quando ci ritroviamo tutti insieme alla mensa per il pranzo.

Si respira più aria di Hunger Games qui, che in qualsiasi altro luogo del Centro di Addestramento.

Finché sono in palestra, i Tributi cercano (con qualche eccezione) di evitarsi il più possibile, e concentrare le proprie energie nell'apprendimento di qualcosa che possa tornare utile alla sopravvivenza.

Soprattutto sapendo che gli Strateghi stanno guardando, tutto.

Ma in mensa, con pochi Pacificatori a controllare la situazione, è tutta un'altra storia.

C'è una sinfonia di occhiatacce che si alza da ogni tavolo in svariate direzioni.

Sembra che tutti stiano in qualche modo calcolando la prossima mossa dell'avversario.

Come se infilzare la forchetta in una braciola di maiale possa essere una dichiarazione di guerra.

In più, guardando i tavoli, è possibile capire chi è nel mirino di chi, e chi fa gruppo con chi.

La sala è talmente grande che potremmo stare seduti ai tavoli anche da soli, e comunque rimarrebbe spazio.

In fondo, completamente abbandonati a loro stessi, ci sono i due ragazzini del Distretto 12.

Più li guardo, più vorrei aiutarli. Ma il mio naturale istinto di sopravvivenza mi dice che sarebbe la scelta sbagliata, e non posso permettermi di fare una scelta sbagliata.

Non potrei comunque salvarli.

Al centro, come se non gliele importasse niente, ci sono i Tributi del Distretto 1, 2 e 4, che ormai fanno gruppo a se stante, e si comportano come se fossero migliori amici da sempre. Finché morte non li separi, ovviamente.

Mizar è bravo a non far cadere lo sguardo sul nostro tavolo, su di me; ma dalla posizione minacciosa del suo corpaccio muscoloso, si capiscono perfettamente le sue intenzioni.

Anthya ha una memoria fenomenale, ricorda tutti i nomi e i relativi Distretti dei Tributi, quel poco che sono riuscito ad apprendere, è stato grazie a lui.

Per cui so che all'estrema sinistra, appartati, ci sono quelli del Distretto 8, una coppia dalle facce lugubri che mi mettono addosso una strana sensazione. Devo starci attento a quei due.

Quelli del Distretto 7 e 11 stanno seduti insieme, ma non sembrano molto affiatati, né bene assortiti.

Senza bisogno di dirlo, quelli che hanno più chance sono i Favoriti.

Hanno il fisico adatto per affrontare i giochi, oltre che la giusta preparazione psicologica ed emotiva.

Giocano e scherzano tra di loro come se fosse la cosa più naturale del mondo, come se non sapessero che tra qualche giorno tenteranno di uccidersi a vicenda.

Quelli del 6 non sono ancora arrivati a pranzo; il ragazzo, quello che si è offerto per sua sorella, non fa altro che sollevare pesi in palestra, cercando di asciugare il fisico grassoccio.

Anthya mi da una pacca sulla spalla, per attirare la mia attenzione.

- Quelli del 3. - mi dice, lanciandogli un'occhiata - Credo che siano una coppia, in tutti i sensi. -

- Terribile. -

Mi ritrovo a commentare.

Non riesco a pensare a come possa essere sapere di dover combattere per la sopravvivenza contro la persona amata.

Lui annuisce, con fare cospiratorio.

- Lei è malata di cuore, e nessuno al suo Distretto ha voluto prendere il suo posto. Lui ha sostituito il Tributo maschio che avevano scelto, per poterle stare accanto. -

Lo guardo, inarcando un sopracciglio.

- Ma come fai a sapere tutte queste cose? -

Ride, scuotendo la testa.

- Sono un ottimo ascoltatore. - “In poche parole, una spia.” mi dice la mia coscienza. Comincio a pensare di dover stare attento anche a lui, nell'Arena. - Pensi che la tua amica lì ha serie intenzioni di approfondire la conoscenza con i due del 5? - sussurra ancora.

Automaticamente lancio un'occhiata sui tre al mio fianco, che se ne stanno a ciarlare della qualità del riposo nelle rispettive stanze.

- Penso di sì. - concludo, sconsolato - Ma io non ne voglio sapere niente. -

Gli occhi blu scuro di Anthya saettano per un istante lontano da me, verso Astrid, come se stesse cercando una velocissima conferma da lei.

Lo sento sospirare.

- Senti - abbassa ancora di più la voce, tanto che devo avvicinarmi a lui per sentirlo - io e Astrid avremmo deciso di formare un'alleanza. -

- Sì, questo lo so. -

Gli dico, con una certa sorpresa nella voce.

Non eravamo già decisi a muoverci in questo modo?

- No. - continua lui scuotendo piano la testa - Intendo, un'alleanza con te. - mi viene un brivido, e lancio senza volerlo un'occhiata a Ria. Per fortuna si sono alzati con la ragazza del 5 (Spiegel, una vera tortura ricordarmi i nomi) per andare a prendere un altro pezzo di arrosto dal tavolo del buffet, e il ragazzo non è attento alla nostra discussione. - A parte i Favoriti, sei l'unico qui dentro con un po' di talento. Se vogliamo avere una speranza di sopravvivere nei primi giorni, dobbiamo stare insieme. Ovviamente... - abbassa lo sguardo - ...ad un certo punto saremo costretti a rompere l'alleanza... -

Non c'è bisogno che aggiunga altro.

Non lo biasimo.

- E Ria? E Spiegel e... - com'è che si chiamava? Ah, sì! - ...Aizin? -

- Non prendertela, ma non penso che sopravviveranno a lungo. Se proprio vuoi, possiamo occuparci di Ria, ma i due del 5...non possiamo garantirgli niente. -

Il mio senso di colpa si fa sentire, quando Ria torna al tavolo ridendo e scherzando con Spiegel, e si siede accanto a me rivolgendomi un sorriso gentile.

Per quanto possa essermi antipatica, è pur sempre del mio Distretto.

Mi sento dannatamente obbligato a darle protezione.

Intanto, Anthya mi guarda, in attesa di una risposta.

Se non dovesse sentire quello che vuole, finirei per perdere due validi alleati, oltre che guadagnare due temibili nemici.

- Va bene. - gli dico in un sussurro - Ma Ria è con noi. -

Lui annuisce.

- Non dirle niente, altrimenti finirà che avremo quei due come una palla al piede. Quando cominceremo i giochi, dovrai occuparti tu di lei. Se sfuggiremo al Bagno di Sangue iniziale, saremo noi a trovarvi. -

- Come? -

Capisco dal suo sguardo che non posso ottenere una risposta, perché in fondo io sono ancora un possibile nemico, oltre che una possibile vittima.

- Vi troveremo. -

Dice soltanto, ed io mi ritrovo ad annuire.

 

La spalla va decisamente meglio, a sera, quando torniamo al nostro piano.

In ascensore c'è un clima pesante. Sembra che da un momento all'altro qualcuno debba saltarmi al collo per uccidermi.

Quando i Favoriti scendono al loro piano, le cose vanno un po' meglio; quindi vuol dal quinto piano in poi.

Finalmente ho rivisto i ragazzi del Distretto 6.

Il ragazzo è ancora piuttosto paffuto, e d'altronde non poteva aspettarsi che in due giorni avrebbe potuto fare miracoli; però il suo sguardo è determinato da far paura.

Arrivati al nono piano, Astrid ed Anthya salutano, e ci ritroviamo soli con i ragazzi dell'11 e del 12.

La ragazzina del 12 è davvero piccola e magrolina, con due occhi enormi e sempre lucidi.

Distolgo lo sguardo prima che possa farmi male, e quando si aprono le porte al nostro piano praticamente mi getto fuori con foga.

La televisione è, come al solito, accesa.

Si parla ancora di me, e della mia nuova acconciatura; ma anche del ragazzo del 6 che si è sostituito a sua sorella. Pare che si sia avvalso di un cavillo politico che permette ai consanguinei, anche di sesso opposto, di prendere il reciproco posto come Tributi.

Poi, orribilmente, fanno vedere stralci di interviste fatte alle famiglie dei vari Tributi.

Mi trema lo stomaco quando riprendono Bill e mia madre.

- Ehi Tom! Ci sono i tuoi! -

Tizio è seduto sul divano con il telecomando in mano.

Questa è la sua calorosa accoglienza.

Alza il volume del televisore al massimo.

L'unica cosa che riesco a fare è avvicinarmi a lui e lasciarmi cadere sul divano.

Parla solo mia madre.

Bill ha lo sguardo puntato a terra.

Sembra dimagrito, e ha un colorito terreo da far paura. Veste di nero più del solito.

A quanto mi dice Tizio, le interviste sono in diretta.

Fanno una domanda stupida dietro l'altra a mia madre, che riesce solo a rispondere a monosillabi.

Ha gli occhi lucidi, ma la sua voce non trema. Non lascia trapelare una briciola del suo dolore.

Il microfono si punta su Bill. Non ho afferrato la domanda che gli hanno fatto, e sembra neanche lui, perché alza gli occhi, smarrito.

Il volto è ancora più sottile di quanto ricordassi. Gli occhi color nocciola sono infossati in due occhiaie violacee, profonde.

Il giornalista ripete la domanda, ossia se è contento del mio cambio di look, come gli sono sembrato, se pensa che Capitol City mi piaccia, che cosa ne pensa del nomignolo che mi hanno affibbiato.

Il cuore mi batte così forte che potrebbe esplodere, e so che è la stessa sensazione che sta provando lui, a sentirsi porre quelle domande così inutili.

Mia madre gli avvolge le spalle con un braccio.

- Mi dispiace, mio figlio è molto malato in questo periodo, ha preso una brutta bronchite, e ancora

fatica a parlare. Magari un altro giorno, eh. -

E sorride. Così facendo, il giornalista si convince che sia tutto nella norma, e restituisce la linea al telegiornale.

Mi accascio sul divano con un groppo che mi stringe la gola tanto che non riesco a respirare.

- Tuo fratello è proprio un amore, è così timido. Però dovrebbe mangiare un po' di più. - mi dice Tizio, con il tono di voce che potrebbe avere uno zio molto affettuoso nei confronti del nipotino. Poi c'è un altro collegamento in diretta dal Distretto 10, e inquadrano la famiglia di Ria. - Ria ce n'è anche per te! -

- Oh che bello! -

Ria si siede con noi, battendo le mani, tutta eccitata.

Non riesco a sopportare oltre.

Mi alzo e corro verso la mia stanza, con le lacrime di rabbia che mi pungono gli occhi.

Prima di aprire la porta, sbatto contro il petto ampio di un uomo. Mi dimeno, scalcio e tiro pugni.

Finché non sento le braccia bloccate da una presa ferrea.

Un urlo di nasce dalla gola.

- Tom, Tom, sono io, è tutto ok! -

La voce calda di mio padre mi raggiunge le orecchie.

Mi abbandono tra le sue braccia e mi lascio andare ad un pianto rabbioso e isterico.

Nella mente non fanno che passarmi le immagini di mia madre, e di Bill. Vorrei scacciarle, vorrei chiudere gli occhi e vederle sparire.

L'abbraccio familiare e confortevole riesce a calmarmi.

Lentamente sento i battiti del cuore scemare e una strana calma invadermi, strisciante come nebbia.

Mio padre mi prende il volto tra le mani e mi osserva, attento.

- Non dovresti piangere. Sei o non sei un uomo? -

- Papà, come hai fatto. - gli sussurro - Come hai fatto a sopportare tutto questo? -

- Non l'ho fatto. - risponde lui, con un sorriso amaro sulle labbra - Me ne sono lasciato sopraffare. Molto più di quanto tu stia facendo. Vieni, sediamoci, parliamone con calma. - apre la porta della mia stanza ed entriamo dentro.

Solo quando rimaniamo soli, capisco quanto sono patetico.

Mi asciugo con rabbia le lacrime dagli occhi e mi maledico per essere così codardo.

Dovrei essere felice, tutto quello che desideravo si è realizzato. Mio fratello è salvo, nessuno potrà mai costringerlo a partecipare agli Hunger Games, può vivere la sua vita finalmente. Ed io riscatterò la vita di Georg. Se alla fine di tutto questo dovessi morire, potrò anche rincontrarlo e ringraziarlo per quello che ha fatto.

Mio padre si siede sul letto.

- Io ero molto più piccolo di te, quando ho partecipato agli Hunger Games. - comincia - Avevo solo tredici anni, e nessuna speranza di sopravvivere. Il mio Mentore non è stato in grado di costruire per me un personaggio che funzionasse, ed io non l'ho di certo aiutato. Gli Strateghi mi hanno dato un 2, il che vuol dire che sarei dovuto morire alla Cornucopia, senza neanche aver tolto un piede dalla mia piattaforma. - scuote la testa - Nessuno sponsor avrebbe mai puntato su di me. Neanch'io punterei su un ragazzo così, oggi come oggi. Mi sono ritrovato da solo, nell'Arena, veramente solo. - stringe i pugni e alza lo sguardo, puntandolo nel mio - Non ti mentirò, Tom. Quando scenderà la notte, proverai un terrore senza eguali, sentirai e vedrai la morte in qualsiasi cosa. L'Arena ti spinge oltre i tuoi limiti, sull'orlo della follia. Ma c'è sempre qualcosa per cui combattere, sempre. Per me, è stata l'unica persona che ha voluto investire sulla mia sopravvivenza. Quella persona mi mandò una borraccia piena d'acqua. Solo quello, dell'acqua, che per me era la differenza tra la vita e la morte. E allora capii: avrei dovuto combattere. Tutti i Tributi erano già morti, compresa la mia compagna. Rimanevano solo i Favoriti del Distretto 1, e del 4, ed io. - ora si volta, guarda fuori dalla finestra; nei suoi occhi rivede quei momenti, rivedo la sua paura, la sua solitudine - Li sorpresi di notte. Erano così sicuri di loro stessi, che non si presero la briga di fare turni di guardia, o proteggersi in qualche modo. Con un sasso, un grosso sasso che trovai sul letto di un fiume. - riesco quasi a vederlo - Mi prese una furia omicida disperata. Non diedi a nessuno di loro il tempo di accorgersi che stavano morendo. Non ricordo nulla da momento in cui calai il sasso sul primo di loro, so solo che dopo, intorno a me c'era solo sangue, e i resti di quelli che prima erano degli Esseri Umani. Non fu una vittoria, fu un massacro. Ma venni festeggiato e accolto come un eroe. Ero un Vincitore. - torna con lo sguardo su di me - Tu sei migliore, sei più forte, sei più maturo. Puoi sopravvivere all'Arena. - si alza e mi poggia una mano sulla spalla - Tutto il resto adesso non conta. So che stai soffrendo, ma non conta. Non tornerai mai a casa se il tuo pensiero non è dove dovrebbe essere. Non renderti vulnerabile, cancella le emozioni. Ci sarai solo tu là dentro, non la tua famiglia, i tuoi ricordi o i tuoi amici. Solo tu. - mi abbraccia di slancio, paterno, come non ha mai fatto in diciotto anni - Tu tornerai. Lo so. -

Tutto questo dovrebbe spaventarmi.

Il modo morboso che ha di raccontare quegli eventi, la paura che sento nella sua voce, la determinazione con cui crede che io ucciderò senza pensarci, la sicurezza che mi annullerò, e che niente di me esisterà più, se non la brama di sangue: dovrebbe essere tutto questo a spaventarmi.

Eppure, qualcosa dentro di me è appena scattato.

Condivido con mio padre qualcosa di sottile e lezioso: la consapevolezza di essere morto.

Solo così, solo gettandosi nella battaglia ignorando il battito del cuore, posso sopravvivere.

Se sono già morto, nessuno può uccidermi.

Questo vuol dire essere pronti a combattere.

The Corner

Ciao a tutti piccioncini miei! x)
sto postando quasi di nascosto,
se mia madre se che ho aggiornato le storie invece di studiare...
mi fa a fette!
non so cosa succederà nei prossimi giorni,
ma questi capitoli di "Hunger TH", "Humanoid Universe" e "Call my name and save me from the dark" ve li voglio dedicare.
ormai manca poco alla fine della sessioe d'esami,
all'incirca venti giorni,
quindi dopo sarò tutta vostra!
non ci saranno più scuse u.u
spero di sentirci presto!

Chii

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Capitolo 7
*** Perché? ***


6: Perché?

 

Inutile dire che non riesco a prendere sonno.

Tutto nella stanza acquisisce un aspetto grottesco e spaventoso al buio, ma appena accendo la luce gli oggetti tornano alla loro solita, indifesa forma.

Faccio scattare l'interruttore, e osservo quel piccolo mondo quadrato.

Ho ancora due notti da trascorrere qui, dopo di che tutto si trasforma in un immenso punto interrogativo.

Sarò ancora vivo, tra tre notti?

Questo è l'interrogativo più grosso.

Mi sembra che lambiccarmi il cervello non faccia che ingigantirlo maggiormente.

Quindi mi alzo, infilo le scarpe ed esco.

Il piano sarebbe silenzioso, se non fosse per il frizzare del televisore che qualcuno ha lasciato acceso.

Attraverso in fretta il salotto, verso l'ascensore.

Quando schiaccio il pulsante, lo trovo già al nostro piano.

Lo devo prendere come un invito?

Mi infilo dentro e schiaccio il pulsante per la terrazza.

Quando le porte si aprono, il vento è il primo ad accogliermi. L'aria fresca spazza i miei pensieri, sparpagliandoli tutto intorno e lasciandomi piacevolmente intontito.

Mi sembra di aver passato tutta la mia vita su questa terrazza, con Capitol City che mi guarda dal basso e le stelle che brillano in alto.

I miei occhi cadono automaticamente sulla piccola figura di Astrid seduta con le gambe in fuori sul baratro.

Sono stranamente contento di vederla, o forse, non è tanto strano.

Mi siedo al suo fianco senza dire una parola.

Lei mi rivolge un'occhiata fugace; vedo i suoi occhi che si sgranano all'improvviso. Si affretta ad asciugarsi il viso dalle lacrime che stava versando in solitudine e borbotta un “scusa!” che mi fa stringere il cuore.

- È per le interviste? - le chiedo sottovoce. Non c'è neanche bisogno che annuisca. Sospiro. - Ho avuto la stessa reazione, sai? -

Mi guarda, corrucciando le sopracciglia.

- Non ti sarai messo a piangere come una femminuccia. -

Mi scappa un sorriso.

- In realtà, è proprio quello che ho fatto. -

Per un attimo, mi guarda. Poi lentamente le labbra le si sollevano e comincia a ridere di cuore. Mi unisco, più per sentirmi parte di lei, che per altro.

Alla fine, mi ritrovo a tenermi lo stomaco, così come lei.

- Sei davvero un tipo strano. - dice, dopo aver tirato un lungo respiro per calmare le risate. Poi torna seria. Il suo sguardo si perde sulla città. È così lontano che non riesco a seguirlo. Chissà cosa starà vedendo, chissà se ha raggiunto i luoghi in cui è rimasto il suo cuore. - Mi sarebbe piaciuto incontrarti prima. - mentre lo dice, ho come l'impressione che non parli di me - Ti pare possibile che stia succedendo davvero? - sorride amaramente - Ci hanno tolto anche il diritto di morire in pace. - volge piano la testa e mi guarda. Il cuore mi fa una capriola in petto. Vorrei essere in grado di respingere il desiderio di stringerla tra le mie braccia. - Non lasciare che sia uno di quegli orribili Favoriti ad uccidermi. Quando sarà il momento, uccidimi tu. - le forze mi mancano. Vorrei aver capito male, ma so che non è così.

La reazione istintiva del mio corpo è quella di farmi battere piano gli occhi, confusamente.

- Perché dovrei ucciderti. Potresti essere tu la vincitrice. -

Ecco di nuovo quel sorriso amaro sulle sue labbra.

Mi si avvicina, e mi da una pacca gentile sulla gamba.

- Sappiamo entrambi che non ci credi. -

Dal modo in cui quei suoi occhi grigi mi guardano, potrei dire che è così, che è riuscita a trovare in me quella parte che ha ideato quella menzogna.

Non posso permettere che lei sia la vincitrice, altrimenti non potrò tornare da Bill.

Astrid mi sta offrendo su un piatto d'argento la possibilità di avere un nemico in meno.

Perché non dovrei coglierla? Perché non dico a me stesso che è questo il momento di eliminare ogni emozione e pensare solo alla sopravvivenza?

I giochi sono già iniziati, non me ne sono reso conto?

Astrid appoggia la testa alla mia spalla.

Non riesco a capire.

Mi ha appena chiesto di essere il suo assassino, perché si comporta così?

- Sei mai stato innamorato? -

- No. -

Riesco solo a tirare fuori dal tumulto che sento dentro.

Lei sospira.

- Neanch'io. Una volta mi è parso di esserci andata vicino. Ma l'amore, quello vero, no, mai. Mi sarebbe piaciuto poter crescere e conoscere un uomo con cui passare il resto della mia vita. -

Di colpo intreccia le dita alle mie. La sua mano è piccola e fredda, sprofonda nella mia.

Rimane così, per un istante che mi sembra infinito, finché non mi lascia e si allontana.

Mi viene a mancare il calore del suo corpo, ed è come se mi avessero tolto la terra da sotto i piedi.

L'afferro di slancio, per avvicinarla di nuovo a me.

Non voglio altro che lei, in modo che non potrei spiegare.

Avvicino il suo volto al mio, e prima che uno dei due possa rendersene conto, le nostre labbra si sfiorano.

Vorrei che questo bacio non finisse mai.

Il suo sapore è delicato come il suo aspetto.

Astrid mi allontana con gentilezza spingendomi via con una mano aperta sul petto, tutto il lei è gentile e pacato. No, non gentile, buono.

- Mi sono già arresa, perché vuoi comunque ingannarmi? -

Sussurra.

- Non voglio ingannarti. -

- E allora perché? -

I suoi occhi mi sondano con intensità, cercando la risposta con tutte le loro forze.

Ma non la troveranno, perché semplicemente non c'è.

Mi mordo le labbra, che hanno ancora il suo sapore, mentre lei continua a guardarmi.

Mi rivolge un sorriso stanco e si alza.

Per un attimo esita, so che vorrebbe toccarmi, sprofondare nel conforto di un corpo caldo, solo per pochi istanti di sollievo, ma si ritrae con un sospiro.

Quando se ne va, non riesco a raggiungerla, né riesco a dire nulla che possa fermarla.

Mi ritrovo immobile sull'orlo del baratro, e la vedo sparire, con le porte dell'ascensore che si chiudono dietro le sue piccole spalle.

 

Il giorno non è mai stato così penoso da affrontare (anche se la scorsa notte ha avuto i suoi grandi picchi di pena).

Mentre in alto il Sole brilla, e il cielo è terso, dentro di me c'è aria di tempesta.

Non riesco a sopportare tutta questa luce, mi da tanto fastidio che mi bruciano gli occhi e un mal di testa incalzante sta cominciando a mangiarmi il cervello.

Non posso neanche concentrarmi, mentre il maestro di tiro con l'arco prova ad insegnarmi come si incocca una freccia.

Non riesco a trovarlo interessante.

Sul serio, potrebbe salvarmi la vita, ma non lo trovo interessante.

Con gli occhi non faccio che cercare Astrid.

Mi sembra che stia facendo tutto il possibile per starmi alla larga.

Quando mi passa accanto, fa in modo di allontanarsi il più in fretta possibile. A malapena mi rivolge la parola.

Da quando è successo quel che è successo lassù, in terrazza, ho perso un po' la bussola.

Perché l'ho fatto? Perché l'ho baciata?

Questo non farà che incasinare le cose. Oltre al fatto che potrebbe essere usato contro di me, esattamente come quello che è successo sul treno.

Perché diavolo non riesco a mettermi un freno?

In ogni caso, non ho detto niente a nessuno.

Non avrei il coraggio di sentire mio padre urlare e sbraitarmi contro. Sarebbe troppo, in questo momento.

Gli occhi di Astrid mi perseguitano.

Sono flash argentei che compaiono ai margini della mia coscienza appena provo a distrarmi.

E il suo perché...quello mi rimbomba in continuazione nella testa.

Non lo so perché, non lo so!

E il fatto che io stia continuamente qui a cercare di risolverlo, non mi rende le cose più facili.

- No, no, così non ci siamo! - scuoto la testa nel notare che il maestro ce l'ha con me. Ho scoccato l'ennesima freccia nel vuoto, mancando di almeno due metri il bersaglio. Riesco a tornare presente a me stesso. Sono in piedi, con un arco tra le mani, e le braccia ancora tese, una nel reggere l'arco, l'altra nel tendere la corda per scoccare la freccia. Peccato che la freccia si sia infilata nel muro dietro il bersaglio da un po', ed io sia ancora qui come uno stupido. Il maestro mi si fa vicino e mi strappa via l'arco con rabbia. - Se non sei in grado e non vuoi imparare, vai a far perdere tempo a qualcun altro! -

Non arrivo neanche a scusarmi, che il maestro mi volta le spalle.

Sta sicuramente imprecando contro di me, mentre se ne va a recuperare le frecce che ho piantato ovunque, tranne che nel bersaglio.

Sospiro.

Pazienza per l'arco. Non credo che nell'Arena sarà disponibile. E anche se fosse, dovrei arrivare alla bocca della Cornucopia, dove ci sono le armi e le attrezzature migliori, e per questo rischierei di farmi parecchio male. Non ci proverei comunque.

Sto per andarmene a sollevare qualche peso, quando incrocio lo sguardo infuocato di Mizar.

Tiene in mano, pericolosamente, uno spadone largo quanto il mio busto.

Mi rivolge un ghigno terrificante e mena un fendente su un manichino, tranciandogli di netto il torso.

Il legno del manichino che si infrange a terra ha un che di solenne, così come l'indice di Mizar che prima si poggia su di me, e poi su quel che rimane del manichino, per farmi capire (se non fosse abbastanza chiaro) che quella è la fine che vuole farmi fare.

Gli rivolgo un sorrisetto di scherno, che sorge spontaneo al posto del terrore dilagante, e passo oltre, facendo imbestialire maggiormente il bestione.

Se non ci fosse la sua compagna (che ad una prima occhiata sembrerebbe la sua gemella per quanto gli somiglia, come stazza e come colori dell'incarnato, degli occhi e dei capelli) a fermarlo poggiandogli una mano sulla spalla, forse mi aggredirebbe con il suo spadone, e mi farebbe a fette sottili, dimensioni prosciutto da panino.

Deglutisco a vuoto all'idea.

Dovrei cominciare a pensare a come ucciderlo, o a come proteggermi da lui?

Forse, sarà l'Arena a farlo fuori per me, se sono così fortunato da sopravvivergli anch'io.

 

Allo stand dei pesi, c'è il ragazzo cicciotto del Distretto 6.

Per non essere perfettamente in forma, riesce a sollevare parecchi chili.

Ha il viso paonazzo per lo sforzo, ed è ricoperto di sudore, ma non sembra volersi arrendere.

La sua compagna gli sta accanto, e gli regge gli occhiali neri.

Quando sembra che non ce la faccia più, lo incita con frasi tipo “altri cinque!” che paiono funzionare alla grande, dato che lui continua imperterrito.

- Basta, scoppio! -

Urla lui ad un tratto, e lei non si arrischia a dirgli di continuare, visto com'è rosso.

Lancia il peso in avanti, che cade con un tonf che solleva una nuvoletta di polvere. Dopo di che, si accartoccia su se stesso e respira affannosamente.

La ragazza gli porge una bottiglietta d'acqua, che lui si versa addosso senza farsi problemi.

- Quanti chili hai sollevato? -

Esordisco, giusto per rompere il ghiaccio.

In un secondo, mi ritrovo due paia d'occhi che mi fissano, come se fossi spuntato con una pistola in mano e avessi gridato qualcosa come “o la borsa o la vita!”.

La ragazza non sembra una con cui si può scherzare. Ha un fisico abbastanza asciutto e muscoloso, ma anche così sembra piuttosto piccola. Però, appunto, da l'impressione di una con cui non si può scherzare.

Lui raddrizza la schiena (sembra quasi intenzionato a colpirmi con un pugno nello stomaco per poi scappare).

Forse ho fatto una domanda inopportuna chiedendogli quanti chili ha sollevato? Se me lo dicesse, si metterebbe a rischio nell'Arena?

Non lo so, i Tributi si fanno un sacco di seghe mentali, come Astrid e il suo intenso desiderio di essere ammazzata da me.

- Trentadue. -

Risponde il ragazzo, candido, mentre la ragazza gli lancia un'occhiataccia.

- Fischio, che record. - gli rispondo, ridacchiando, e nella mia mente aggiungo la nota “attento al ragazzo ciccione” - E hai raggiunto questo risultato in due giorni? -

- E tu sei diventato un maestro di spada in due giorni? -

Insinua la ragazza.

La guardo con un sopracciglio alzato.

Di certo vuol farmi capire che mi ha osservato per tutto il tempo, e che non le è sfuggito quanto io sia pratico della spada, e in quanto poco tempo lo sia diventato.

Sta trattando la conversazione come si tratterebbe il rilascio di un ostaggio in un rapimento: tu sai qualcosa, ma noi sappiamo molto di più.

- È sempre così acida, oppure lo è diventata ultimamente? -

Sussurro diretto al ragazzo, sperando di smorzare la tensione. Ma non sembra che abbia ottenuto l'effetto sperato.

Il ragazzo abbozza un sorriso. Afferra un'asciugamano per togliersi di dosso il sudore, poi mi porge una mano che io mi affretto a stringere.

- Io sono Gustav, a te come ti devo chiamare? -

- Tom va benissimo. -

Gli rispondo ridacchiando.

 

Scambiamo qualche altra parola, mentre lui mi indica con quali pesi sia meglio cominciare.

Non provo neanche ad andare oltre gli 8 chili, perché rischierei di non riuscire a muovermi stasera per colpa dell'acido lattico, e non è proprio il caso, visto che ci sarà l'esame finale di fronte agli Strateghi.

Alla fine, quando suona la campana che ci informa che il pranzo è servito, sono così sudato che sembro appena uscito dalla doccia.

- Sei resistente, per essere così stecchino. -

Mi dice Gustav, con un bel sorriso.

È un ragazzo timido, terribilmente chiuso; potrebbe sembrare un po' ottuso, guardandolo da fuori, ma sono sicuro che nasconda una brillante intelligenza.

- Grazie, ma dovresti vedere mio fratello. -

- L'ho visto. - risponde mesto. Una stilettata di dolore mi prende il cuore, ma sia io che lui facciamo finta di niente. - E dovrebbe seriamente metter su qualche chilo. Non gli piace mangiare, o si tiene bello per qualche ragazza? -

- Chi, Bill? Macché, mangia come un animale, e di un animale ha il metabolismo. Prendesse un chilo! -

- Lo stesso Franciska, mia sorella. Abbiamo sempre mangiato lo stesso cibo, ma guarda qua! -

E si afferra la pancia con entrambe le mani.

Stranamente, mi ritrovo a ridere con lui, anche se sento dentro un dolore che potrebbe uccidermi.

Non è facile comportarsi come se niente fosse, né lo è parlare di qualcuno che probabilmente non rivedremo più.

Da qualche parte, dietro di noi, arriva lo sgrunt arrabbiato di Ayra, la compagna di Gustav.

Non credo che abbia visto di buon occhio la nostra amicizia (ammesso che si possa chiamare così).

Sembra più intenzionata a dare qualche possibilità di sopravvivenza a Gustav, allenandolo, anche se non me ne spiego il motivo.

- Se avete finito, Gustav dovremmo andare avanti con il nostro programma. -

Sbotta lei, con il suo solito tono acido.

- Scusate allora. Buon divertimento. -

Dico, e faccio l'occhiolino a Gustav, che non sembra particolarmente felice di essere sottoposto all'appena citato programma di Ayra.

Li saluto entrambi con una mano, e mi avvio alla mensa.

 

Non c'è niente di diverso dal solito, nonostante gli avvenimenti.

Anthya e Astrid sono al tavolo con Ria e i due del 5.

Forse non ho costretto Astrid a voltarci le spalle, con il mio gesto insensato.

Afferro un vassoio e lo riempio con tutto ciò di umanamente ingurgitabile e corro a sedermi nell'unico posto vuoto disponibile: tra Ria e Astrid.

Perfetto, sono sudato da far schifo, impresentabile, e costretto a sedermi tra i due fuochi: quello della passione fisica, e quello del candido stupore.

Nello stesso istante in cui le mie chiappe si poggiano sulla sedia, Astrid e Ria credono che sia il momento giusto per parlarmi.

- Come puzzi! -

Dice Ria.

- Devi essere distrutto. -

Dice Astrid.

Non so bene a quale delle due dare retta.

- Ho lavorato parecchio. -

Spero che vada bene come risposta. Dovrebbe essere abbastanza valida per entrambe.

Almeno, Ria volge la testa schifata e si concentra su Spiegel, perdendo completamente interesse in me.

- Che hai fatto? Non ti ho visto per tutto il giorno. -

Continua invece Astrid.

Ho proprio paura di continuare quella conversazione. Ho paura che entri in ambiti che non posso gestire. Ho paura che tiri fuori quello che è successo stanotte.

E poi, a conti fatti, è stata lei ad ignorarmi tutto il giorno, quindi perché se ne esce in questo modo?

- Niente di che, ho tirato qualche freccia, ho sollevato dei pesi... -

- ...fatto amicizia con i Tributi del Distretto 6... -

- ...non ti sfugge niente. -

- Mi piace osservare. - e prendo per sicuro che intendesse “mi piace osservarti” - Sai già cosa farai stasera per gli Strateghi? -

Continua.

Io scuoto la testa. Non ci avevo quasi pensato.

- No, non ne ho la più pallida idea. E tu? -

- Neanche. -

Anche se dalla sua voce sembra tutt'altro.

 

La giornata scivola via in fretta. Forse perché sono così agitato da perdere in continuazione la cognizione del tempo.

Appena alzo gli occhi al cielo, mi sembra troppo scuro rispetto all'ultima volta che l'ho fatto.

Com'è che è già arrivata la sera?

Prima di rendermene conto, sono in fila con gli altri Tributi per aspettare il momento dell'esame con gli Strateghi.

Questo, è un evento decisivo.

Se riesco a brillare qui, potrei attirare qualche sponsor che potrebbe essere il mio salvatore.

Come per mio padre quello che gli aveva mandato dell'acqua.

Sono qui così intento a cercare di capire che cosa potrei fare, che neanche mi accorgo quando chiamano il mio nome.

Sollevo la testa all'improvviso.

No, possibile? Tocca già a me?

In effetti, siamo rimasti solo io, Ria, i due ragazzini del Distretto 12 e quelli dell'11.

Quindi sì, tocca a me.

- Buona fortuna. -

Ciarla Ria. Non penso che me lo stia augurando davvero.

Le borbotto un grazie e mi infilo in palestra.

A quest'ora, di certo gli Strateghi non saranno molto riposati, né molto attenti.

Mancano solo tre Distretti da esaminare, e passare dopo i Tributi Favoriti vuol dire partire sconfitti.

Gli Strateghi parlano tra di loro, aggirandosi attorno ad un tavolo su cui è allestito il più grande banchetto di sempre.

L'odore di cibo mi fa venire il vomito. Devo aver esagerato a pranzo, o forse è solo la mia paranoica paura.

Che cosa dovrei fare?

- Buonasera, sono Tom Kaulitz del Distretto 10. -

Urlo, per sovrastare le voci degli Strateghi che chiacchierano.

Ad un tratto, ho tutta la loro attenzione su di me.

Non so se sia un bene.

Qualcuno si sporge per guardarmi, una donna. Le indirizzo un sorriso largo e faccio un breve inchino. È divertente vederla arrossire e diventare come un pomodoro maturo.

Qualcun altro alza gli occhi al cielo, e sbuffa per l'impazienza.

L'unica cosa che ho imparato a fare in questi tre giorni, è tirare un po' di spada, quindi, l'unica cosa che posso fare adesso, è prendere una spada e tirare qualche affondo.

So per certo che non stupirà nessuno, e che non sarà come l'esorbitante manifestazione di forza che avrà fatto Mizar.

Mi dirigo a passo sicuro verso la rastrelliera su cui brillano le spade.

Ho imparato ad usare solo quelle ad una mano. Sarebbe impensabile provare a prendere lo spadone a due mani che maneggiava quel mostro di ragazzo.

Prendo una prima spada, leggera, per la mano destra, e poi mi arrischio a prenderne una seconda, per la sinistra.

Non ho idea di come gestirle entrambe, la spalla destra mi fa ancora male, e con la mano sinistra non sono molto pratico. Ma non ho molto altro su cui puntare in questo momento. Me lo devo fare piacere, e lo stesso vale per gli Strateghi. Magari non si accorgeranno che sono tutto fumo e niente arrosto.

Faccio roteare un po' le spade, per saggiarne il peso. Sembra che siano state fatte proprio per le mie mani.

Sono comode, e non troppo pesanti. Perfette.

Comincio a tirare qualche affondo, tirando fuori dalla memoria tutto quello che mi ha insegnato il maestro.

Salto, mi piego, schivo, come se stessi lottando contro di lui.

Riuscirei quasi a sentire la sua voce, se mi mettessi d'impegno.

Trovo un manichino contro cui accanirmi. Gli taglio le braccia con un unico fendente, e poi gli spicco via la testa con il taglio delle due spade.

L'attrito è più di quanto la mia spalla destra possa sopportare, e perdo la presa sulla spada. Non so come, ma riesco a far credere che sia tutto organizzato, come se era proprio così che sarebbe dovuta andare.

Afferro la spada con la sinistra come se fosse una lancia, la porto sopra la spalla, più indietro che posso, e miro al bersaglio più lontano.

Tutte le frecce che ho scoccato oggi, sono finite nel vuoto, e il bersaglio era molto più vicino di così.

L'unica cosa che posso fare, è pregare che vada bene.

Scaglio la spada verso il bersaglio. Per un attimo oscilla (è una spada, non una lancia), la forza che ho usato per scagliarla è troppa. Traballa e minaccia di cambiare la traiettoria all'ultimo momento.

Ma straordinariamente la punta si conficca proprio al centro del bersaglio, oscillando paurosamente, ma rimanendovi incastrata per cinque dita almeno.

Coperto di sudore, non mi sono neanche reso conto di aver mantenuto fino a quel momento la posizione che avevo assunto per scagliare la spada.

Sento tutti i muscoli intorpiditi per lo sforzo.

Mi raddrizzo e guardo su, verso gli Strateghi.

Ho visto più di una bocca aperta, e più di una faccia soddisfatta.

- Grazie per l'attenzione. -

Dico. Faccio un breve inchino, e corro verso l'uscita della palestra.

Per tutto il tempo, il cuore non ha fatto che battermi furiosamente nelle tempie.




The Corner

Ciao a tutti e ben trovati!
ammettete che stavate aspettando questo giorno...
perché io lo stavo aspettando eccome!
finalmente si torna a pubblicare!
sono state settimane difficili, e lunghe,
con tanta ispirazione,
ma zero tempo!
adesso che l'estate (la mia) è ufficialmente cominciata,
non dovrete più preoccuparvi :3
dunque, detto ciò,
passiamo ad un piccolo sondaggio!
la domanda è:
chi avrebbe voglia di leggere una storia originale (NON una ff)?
se dovessi ricevere risposte positive...
è probabile che, quando una tra le storie attualmente in pubblicazione sarà terminata,
tirerò fuori un'original tutta mia.
ma vorrei sapere che ne pensate!
fatevi sentire :3
ci vediamo giovedì 11 Luglio!

Chii

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Capitolo 8
*** 24, Leone Morto ***


7: 24, Leone Morto

 

Solo domani i punteggi dell'esame saranno resi noti, per cui per il momento dovremo passare il tempo rigirandoci i pollici.

Io lo passo steso sul divano, con il televisore acceso, anche se non trasmettono più programmi e si vedono solo scariche di elettricità statica.

Ho davvero, davvero voglia di dormire. Ma la voglia di vedere Astrid è ancora più forte.

Ma tra le due cose (stare qui col dubbio, o salire in terrazza e dissipare ogni dubbio), preferisco stare qui.

Non voglio salire e ritrovarmi solo come un deficiente.

Anche se ho bisogno di capire.

Astrid ha continuato a comportarsi come se nulla fosse, pur ignorandomi del tutto.

Non ha alcun senso, no?

Ho bisogno di chiarire le cose, prima di essere catapultato nell'Arena.

Ho bisogno di dirle: “che cosa vuoi dalla mia vita?” Prima di essere davvero costretto ad ucciderla.

Forse dovrei prima capire che cosa voglio io dalla mia vita.

Nel giro di tre giorni, due persone ben diverse tra loro mi sono arrivate addosso con la potenza dell'acqua che cade giù da una cascata.

Io che non avevo mai stimato il rapporto umano, e che anzi l'avevo schivato per paura di essere giudicato, percosso e tradito, adesso mi ritrovo ad essere invischiato in qualcosa da cui non sarà facile uscire.

Forse, Bill saprebbe gestire questa situazione meglio di me.

Lui che è tanto più emotivo saprebbe cosa dirmi, saprebbe cosa sarebbe meglio che io dicessi all'una e all'altra, e nel frattempo forse riuscirebbe anche a farmi arrivare agli Hunger Games tranquillo.

Già, gli Hunger Games.

Riesco a crederci? Sono passati in secondo piano.

Forse perché preferisco allontanare il più possibile il pensiero del combattimento e della morte.

Forse voglio solo rimanere inchiodato al presente, questi attimi che potrebbero essere gli ultimi su questa terra.

O forse mi sto rincitrullendo, e non dovrei partorire nessuno di questi pensieri.

Basta!

Ho deciso.

Che ci sia o no, salirò in terrazza.

Mi alzo di slancio e corro all'ascensore.

Mi disturba sentire che la cabina è in movimento, ma non capisco perché.

Quando le porte si aprono al mio piano, la sensazione che Astrid sia solo un fantasma ritorna forte a farsi sentire, perché è lì, avvolta in un pigiama bianco latte, con i capelli nero ebano che le scendono sulla schiena, e lo sguardo d'argento piantato nel mio.

Non riesco a sentirmi imbarazzato quando le dico qualcosa tipo “il pulsante del nono piano ha smesso di funzionare di nuovo?”.

La vedo solo scuotere la testa, e in quel lento movimento scorgo tutto quello che non vuole dirmi.

- Non farà troppo freddo per salire solo in pigiama? -

E nel dirlo, le porgo la giacca che indosso.

Lei non fa neanche finta di rifiutarla. Se l'appoggia sulle spalle e l'avvolge, quasi scompare.

Mi viene da sorridere.

- Un'altra notte insonne? -

Mi chiede.

Le porte dell'ascensore si chiudono e lentamente cominciamo a salire.

Mi stringo nelle spalle.

- Una più, una meno... -

- Continuo a pensare che tu sia un tipo strano. -

Dice lei, ridacchiando.

- Alla fine, cos'hai fatto davanti agli Strateghi? - riesco solo a dire io. Non so quale parte del mio cervello ha voluto così fortemente cambiare argomento. Capisco dalla sua rapida occhiata che vorrebbe davvero rispondermi, ma che non può per motivi che ne vanno della nostra reciproca sopravvivenza. Così decido di smascherarmi io per primo, senza una ben motivata ragione. - Io ho agitato qua e là un paio di spade. E poi ne ho lanciata una contro un bersaglio del tiro con l'arco. Sai che ho fatto centro? Non ho mai avuto una botta di fortuna così, prima d'ora. -

Le mie parole sembrano scioglierla. Si apre in un sorriso timido.

- E la spalla? Come va? -

Mi poggia per istinto una mano sulla spalla. Accorgendosi subito di aver azzardato troppo, si ritira con uno sguardo di scuse tatuato negli occhi.

Faccio finta di niente, perché altrimenti dovrei dirle che il suo tocco mi ha suscitato uno strano piacere, e mi ha mandato in tilt il cuore.

- Bene! È solo un po' dolorante... -

- Peccato, avrei potuto prepararti un altro impacco... - se solo oggi ci fossimo azzardati a venirci vicino più del necessario - Io ho solo preparato qualche intruglio curativo, e qualche veleno. Niente di che. Non penso che gli Strateghi mi daranno un punteggio molto alto. -

Mi fa piacere che abbia deciso di aprirsi con me. Così, più volontariamente di quanto vorrei, le sorrido di rimando.

- Saper preparare un veleno dovrebbe darti un punteggio alto invece, non penso che siano in molti a saperlo fare. -

Non sembra compiaciuta del mio quasi complimento.

Si limita a fare una smorfia e ad accanirsi sul pulsante dell'ascensore premendo la “T”, che non sta per “Terra” ma per “Terrazza”.

Le porte sono chiuse, ma il trabiccolo non si muove.

Comincio a pensare, anzi no, a temere che ci sia qualcosa che non va.

La cabina ha un sussulto, poi la corrente salta e rimaniamo al buio.

Sento Astrid trattenere il respiro, nient'altro.

Si accende una luce verdastra.

- La segnalazione del guasto è stata inviata a chi di dovere, la preghiamo di mantenere la calma. Il problema verrà risolto al più presto. -

È la voce affettata di una donna. Subito dopo aver parlato, nella cabina si diffonde una musichetta da sala d'attesa, che dovrebbe forse farci mantenere la calma. A me fa solo perdere la pazienza.

- Oh ma è assurdo! Capitol City ha tutti i soldi necessari per costruire ogni anno un'Arena diversa per farci morire, e non riesce a mantenere funzionante uno stupido ascensore? -

Sbotto, con una certa acidità.

Forse non riesco ad accettare di stare cominciando a soffrire la claustrofobia.

Quest'ambiente così ristretto mi fa tornare alla mente ricordi che vorrei tenere lontani.

- Hai paura. -

Ridacchia Astrid.

Mi sento avvampare.

- No che non ho paura! -

Quasi urlo.

Mi mordo la lingua a sangue per averlo fatto.

Ma quanto sono stupido.

Questo sì, è il più patetico ritratto di Tributo che potrei immaginare.

Dov'è che sarò la prossima notte? Ah, già, all'addiaccio in un'Arena con almeno 20 persone pronte ad uccidermi, e dovrebbe andarmi bene, perché potrebbero esserci creature carnivore, nebbie assassine e alberi semoventi. Ma, dai, quello è una passeggiata.

È uno stupidissimo ascensore senza corrente a spaventarmi davvero.

Mi lascio scivolare a terra, e sbuffo.

Non voglio fare la figura del codardo di fronte a lei.

Illuminata con quella strana luce verde, sembra una creatura proveniente da un altro universo. E forse lo è davvero.

Lei si siede accanto a me.

- Sarebbe bello rimanere sempre qui. - per un attimo mi guarda. I suoi occhi grigi sono diventati stranamente verdi sotto quella luce. Mette le mani con i palmi aperti in avanti. Sembra quasi che stia spingendo qualcosa lontano da sé. - Noi potremmo rimanere qui dentro, e lì fuori il mondo avrebbe il suo corso, e nessuno si accorgerebbe di noi. Sarebbe come essere morti, ma da qualche parte in realtà noi esisteremmo comunque. Forse vuol dire questo morire. -

- E sarei io quello strano. -

Le dico, dopo un lungo silenzio.

Perché non posso accettare che le sue parole mi abbiano turbato.

Un sorriso le affiora alle labbra.

Si volta a guardarmi.

- Mi dispiace per quello che ti ho detto l'altra sera. Non volevo vincolarti in nessun modo. -

Mi dice. Il che suona strano, perché sembra esattamente quello che io dovrei dire a lei.

Però, almeno una cosa mi è chiara.

- E a me dispiace per quello che ho fatto. Non volevo ingannarti. -

Lei sembra stordita dalla mia risposta, ma incassa dignitosamente.

Torna con lo sguardo lontano dal mio, come se volesse sfuggirmi.

- Come mai non ti piacciono i posti stretti? -

Mi sento sbuffare alla sola idea di dover rispondere.

Ma la sua presenza è stranamente confortante, e comunque tra qualche giorno potrei essere morto. E quello è solo un ricordo

- Ah, è solo una vecchia storia. - in realtà, vorrei solo che mi spronasse a raccontargliela. Però non batte ciglio, quindi mi limito a continuare. - Io e Bill non siamo mai stati dei bambini molto socievoli. - la guardo come per dire “riesci a crederci?” con tutto il sarcasmo che sono in grado di metterci - I nostri genitori ci hanno tenuti chiusi in casa, finché hanno potuto. C'era sempre qualche curioso a sbirciare dalle nostre finestre, e questo ha mandato nostra madre più volte in paranoia. Aveva il terrore che qualche Pacificatore arrivasse un giorno e ci portasse via. - mi stringo nelle spalle - Per questo cercava di tenerci al sicuro. Però, eravamo bambini, e c'era un mondo enorme fuori che non potevamo vedere. Avevamo nove anni, credo. Siamo sgattaiolati via una mattina, mentre loro erano impegnati a curarsi di un tubo che l'inverno aveva fatto scoppiare, e aveva inondato quasi tutta la cucina e il soggiorno. Ricordo che faceva freddo, ma che eravamo così eccitati dall'idea di poter uscire fuori a giocare con la neve che non ci abbiamo fatto caso. Abbiamo corso a perdifiato sulla neve, era bellissimo. Appena fuori dal Villaggio dei Vincitori c'è una piazza, lì scorrazzano liberamente tutti i bambini del Distretto, e quel giorno non faceva eccezione. C'era un gruppo di dodicenni, che reggeva i giochi. Quando ci hanno visto arrivare, hanno fatto subito in modo di metterci bene in mostra. “Sono i due mostri dei Kaulitz” ha detto il più grosso di loro. Bill ha capito subito che sarebbe finita male, sai lui...lui ha un sesto senso tutto suo, che alle volte è migliore di un campanello d'allarme. Ha provato a tirarmi via, a convincermi ad andarcene, ma io ho stupidamente colto la provocazione. Non so come sia successo, non riesco a ricordare, so che ad un certo punto ci erano addosso. - non so perché, ma cerco lo sguardo di Astrid. Cerco di capire se la sto annoiando. Incontro i suoi occhi grigi, fissi su di me. Rabbrividisco e volto la testa, prima di essere incapace di continuare a parlare. - È stato il primo di tanti pestaggi. Quegli stupidi... -

Una risata strana mi sgorga dalle labbra.

Mi si serrano le labbra.

Il calore del corpicino di Astrid si fa più intenso ora che mi è così vicina.

- In mezzo ai campi, c'era un vecchio pozzo scoperto. Dopo averci picchiati, mi hanno preso e gettato lì. Mentre hanno lasciato che Bill se ne tornasse a casa, più morto che vivo. Non doveva essere molto profondo, il pozzo dico. Almeno, è quello che hanno raccontato i ragazzini, parecchio tempo dopo. Ma lo era, era profondo, e il gelo dell'inverno aveva ghiacciato quel poco d'acqua che c'era. Mi sono rotto una gamba, cadendo. - lo racconto come se fosse successo a qualcun altro, ad un parente alla lontana, ad un conoscente forse - Sono rimasto una settimana, sul fondo di quel pozzo. L'ipotermia aveva addormentato il dolore alla gamba. -

La butto lì, come fosse una cosa da niente, mentre i ricordi mi tornano alla mente con una violenza inaudita.

Ricordo la caduta libera di dieci metri. Ricordo lo schiocco netto della gamba che mi si spezza, e il mio urlo soffocato dalle pareti cilindriche del pozzo.

Ricordo anche la concitata discussione dei ragazzini, lassù in cima.

Oh cazzo, l'abbiamo ucciso!”

Scappiamo!”

Ricordo di non aver avuto la forza di piangere e implorargli di non lasciarmi lì da solo.

Proprio quando comincio a sentire nelle ossa un freddo gelido che mi mozza il fiato, la mano calda di Astrid che si poggia sul mio ginocchio mi riporta alla realtà.

Ha uno sguardo preoccupato, ma non pietoso, sembra che non mi biasimi.

Un po' mi fa stare meglio.

- Che cosa è successo dopo? -

Incalza lei.

Non riesco a trattenermi dal stringere la mia mano intorno alla sua. Il suo calore si diffonde su per il braccio, come un'onda di miele dolcissimo.

- Come ho detto prima, sono rimasto in quel pozzo sette giorni, prima che mio padre riuscisse a tirarmi fuori. Con la gamba rotta non potevo aiutarlo, e il freddo mi aveva praticamente ucciso. Il che è quasi una fortuna, visto che per colpa delle botte avevo un'emorragia interna. Mi hanno spappolato la milza, a suon di calci. Ma il gelo ha rallentato la fuoriuscita di sangue, e in parte ha contribuito a salvarmi la vita. Sono rimasto in ospedale per tre mesi, prima che potessi tornare di nuovo a casa. -

Sospiro, finendo di parlare.

Ho mai raccontato a qualcuno questa storia?

Probabilmente no.

Non ho mai avuto qualcuno cui raccontarla.

Mi rendo conto di aver aggirato la domanda iniziale di Astrid, in modo da non risponderle direttamente.

Sì, le ho parlato di un pozzo, ma non del perché questo possa aver influito nella mia insofferenza nei luoghi stretti.

Forse perché non riuscirei a descriverle quello che ho provato, e come abbia lasciato i segni sul mio animo.

- E a quei ragazzini? Che hanno fatto? -

Lo dice come se si aspettasse che li avessero tipo puniti.

Ancora una volta sento una risata sfuggirmi tra le labbra.

- Niente, nessuno mi ha creduto, né ha creduto a mio fratello. Le nostre ferite, e la mia caduta nel pozzo, sono state attribuite ad un litigio tra noi, e alla disattenzione dei nostri genitori. -

- È terribile... -

Sussurra Astrid, in un soffio.

Mi ritrovo a stringermi nelle spalle, di nuovo.

- Ormai, è andata. Non è la cosa peggiore che mi capiterà nella vita. -

E la guardo in modo eloquente.

La cosa peggiore che potrebbe capitarmi nella vita, sarebbe ucciderla agli Hunger Games, per salvaguardare la mia esistenza.

Ma lei non sembra capirlo, pensa sicuramente che mi riferisca ai giochi in generale.

Prima che Astrid possa aggiungere qualcosa, qualcosa che probabilmente sarebbe imbarazzante per entrambi, la cabina dell'ascensore ha uno scossone.

Il cuore mi salta in gola.

Le luci si accendono ammiccando, si sente un cigolio, e poi la cabina riparte. Scende verso il basso.

Ci tiriamo in piedi, scambiando uno sguardo.

L'ascensore arriva al piano terra, e le porte si aprono.

Ci troviamo di fronte due Pacificatori allarmati. Probabilmente li hanno tirati violentemente giù dai loro letti per venirci a soccorrere. Non sembrano neanche troppo sconvolti nel trovarci insieme nella cabina.

Certo, se fossi stato in compagnia di Mizar, uno dei due (io) sarebbe morto, e allora sì che sarebbero stati sconvolti.

- Vi riaccompagniamo al vostro piano. -

Esordisce uno dei due, che ha la faccia di chi si trova ancora a letto nel mondo dei sogni.

S'infilano entrambi nell'ascensore, senza darci nessuna spiegazione e senza scusarsi per l'inconveniente.

Saliamo al nono piano, e praticamente costringono Astrid a scendere. Lei mi rivolge un'occhiata.

- Buonanotte. -

Le dico, facendo un gesto con la mano.

Lei non ha il tempo di rispondere, perché le porte le si chiudono davanti.

Arrivati al mio piano, i Pacificatori mi riservano lo stesso trattamento.

Di certo non li ringrazierò per avermi tirato fuori.

Sbuffo, uscendo, e le porte si chiudono senza un cigolio.

 

Sono nell'Arena, che è un'infinita distesa di nero. Finché l'occhio può guardare, c'è solo oscurità. Se alzo lo sguardo, in alto, si nota la luna, che nel cielo nerissimo come la pece risalta per il suo brillare. Però, è un cielo strano, e anche la luna lo è. Cammino nel buio, sentendo un gelo che mi prende le ossa. Ad un tratto, sbatto con il naso contro una parete che, per colpa dell'oscurità, non avevo visto. La tasto, è umida e appiccicosa. Allora capisco. Mi trovo sul fondo di un pozzo, e quella che mi era sembrata la luna, non è altro che l'imboccatura dal quale filtra la luce. La gamba mi fa male, ma il freddo mi impedisce di muovermi.

- È morto, ormai è morto. -

Dice una voce, in cima.

- Seppelliamolo. -

Una cascata d'acqua si riversa nella bocca del pozzo. Per un attimo, penso che questo mi salverà, mi basterà rimanere a galla finché l'acqua non avrà riempito tutto il pozzo, e potrò uscirne.

Poi mi rendo conto che la gamba che mi fa male è schiacciata sotto un ammasso di nero denso, della pesantezza di un grosso sasso.

Comincio a scalciare e dimenarmi, mentre l'acqua comincia a salire, e salire.

Quando mi arriva al naso, capisco che morirò annegato.

Non riesco neanche a disperarmi, perché l'acqua mi arriva sopra la testa, mi sommerge, dissolve tutto il mondo.

 

È qui che mi sveglio, la mattina dopo, sul pavimento gelido della mia stanza, una gamba schiacciata sotto il comodino, che devo aver rovesciato nella caduta. Il lenzuolo è tutto attorcigliato intorno al mio collo.

Impreco sottovoce mentre mi tiro su e sistemo alla bell'e meglio tutto quel casino.

Brandelli dell'incubo tentano di impossessarsi della mia mente, ma vengono spazzati da un servitore che entra nella stanza dicendomi che la colazione è servita e che mi stanno aspettando.

 

Non ho fame, ma obbligo il mio corpo ad accettare quello che metto in bocca.

I sapori dolci di Capitol City mandano in fibrillazione le papille gustative, ma è proprio lo stomaco a non sopportarli.

Sono tutti un po' tesi, stamattina.

Forse perché saranno rese note le votazioni degli Strateghi.

Finalmente ho scoperto come si chiama Tizio, solo perché mio padre l'ha nominato. Si chiama Jorge, ma per mio piacere personale continuerò a chiamarlo Tizio.

Ria finge di mangiare come un uccellino, ma i tre giorni di dieta intensiva di Capitol City l'hanno fatta gonfiare orrendamente. Non avrà certo problemi per i primi giorni dei giochi a fare qualche rinuncia alimentare.

 

Le programmazioni televisiva di Capitol City per ora vertono tutte sui giochi. Fanno interviste alla gente, agli sponsor, a qualche Stratega che non si sbottona troppo sul genere di Arena che ci sarà quest'anno, benché gli venga sempre richiesto qualche particolare.

Che sia mortale, il più possibile, è a quello che mirano di solito.

Chissà che simpatici modi hanno studiato per farci soffrire, sono quasi curioso.

Poi finalmente comincia il programma che stavamo tanto aspettando: quello in cui verrano rivelati i punteggi degli Strateghi.

Caesar Flickerman quest'anno ha i capelli rosa shocking, abbinate al colore delle labbra e a quello del completo giacca e cravatta che indossa.

È tutto eccitato mentre annuncia che questi sembrano Hunger Games molto promettenti. Dietro di lui passano le immagini della sfilata che inquadrano me e poi Mizar, e poi un frammento di ripresa che vede me e lui litigare in Palestra.

Mio padre m'indirizza uno sguardo a metà strada tra l'arrabbiato e il soddisfatto, ed io mi stringo solo nelle spalle.

- Ma passiamo ai punteggi! So che state fremendo! -

Detto questo, la schermata si fa nera, e compare la prima foto, che è quella di Mizar. Se uno sguardo potesse uccidere, quello colto dalla macchina fotografica in quel momento deve avere per forza ammazzato il fotografo.

Accanto alla sua foto, lampeggiano ad intermittenza dei numeri.

Da questo numero, potrebbe derivare la nostra sopravvivenza.

Gli sponsor decideranno in base alle nostre votazioni su quale Tributo puntare.

Un Tributo con un voto basso, è un Tributo con troppe poche possibilità di sopravvivere ai Giochi, e quindi gli sponsor non spenderanno un centesimo per aiutarlo.

Anche se a volte, ottenere un voto basso è un modo che i mentori usano per dare una chance in più ai Tributi che non hanno particolari doti come forza bruta e un fisico mastodontico. Di solito i Favoriti tendono ad andare alla ricerca dei Tributi che hanno avuto un voto alto, perché sono quelli potenzialmente più pericolosi, e di rado si prendono la briga di cercare gli altri.

Com'è successo per mio padre, un voto basso non è garanzia di morte.

Il numero accanto alla foto di Mizar brilla di oro acceso: 11 su 12, quasi il massimo.

Non mi viene difficile immaginare cosa debba aver fatto per meritarlo.

Mi viene un brivido quando la foto della sua compagna lo sostituisce. Mi torna in mente la sua voce sussurrante.

Il suo voto è un tondo 10.

Anche per quelli del 2 ci muoviamo su voti vicini al massimo: 9 per la ragazza e 10 per il ragazzo.

Quelli del Distretto 3 ricevono un 5 a testa.

Il Distretto 4 ha una coppia di 11.

Per l'orrore di Ria, i suoi adorati amici del Distretto 5 ricevono due patetici 3.

Gustav riceve un 8 che mi sorprende, anche se la sorpresa più grande arriva con il 10 di Ayra.

Che cosa avrà fatto?” mi viene spontaneo chiedermi. E scopro di non volerla assolutamente come nemica.

I Distretti 7 e 8 si mantengono entrambi su un 6.

Quando compare la foto di Anthya, mi sento prendere un profondo respiro.

Mi sudano le mani quando vedo un 11.

La fotografia di Astrid riempie lo schermo. Anche se in quella foto avrebbe dovuto sembrare aggressiva e pronta a combattere, la sua espressione è solo triste e dimessa, gli occhi argentei sono rassegnati.

Il suo 12 è seguito da un'esclamazione generale che si diffonde tra di noi.

12 vuol dire: devi essere la prima a morire, tanto quanto un 2 o un 1.

12.

Perché vogliono che Astrid muoia?

Perché vogliono che appena suonerà il gong, tutti i Favoriti si riversino su di lei per ucciderla?

Che minaccia può mai essere?

Io ho solo preparato qualche intruglio curativo, e qualche veleno. Niente di che.” mi risuona nella mente.

Non ho il tempo di capire che cosa volessero davvero dire le sue parole, che la mia foto sostituisce la sua.

Mio padre si volta di nuovo a guardarmi, ma stavolta sembra indirizzarmi una tacita parola di conforto.

Non so che genere di emozioni dovrei provare, mentre vedo i numeri accanto alla mia foto scorrere uno dietro l'altro, sostituendosi a vicenda.

A volte sembra che debba essere un 6 il numero definitivo, altre sale a 11, altre ancora scende ad 1. Non pare volersi fermare.

Mi accorgo di stare stringendo tanto le mani che le unghie mi si sono conficcate nei palmi.

Fermati!” mi ritrovo a pensare, mentre i numeri continuano a scorrere.

12.

Lampeggia per un attimo, minacciando di cambiare all'ultimo momento, ma non lo fa.

12.

Tutti si voltano a guardarmi, come se si aspettassero che quel numero mi conferisse un qualche potere.

Anche sulla mia testa, pende una condanna a morte.

A Ria viene assegnato un 4.

Al Distretto 11 un 8 e un 6.

Ai ragazzini del 12 una coppia di 2.

il programma finisce, Caesar Flickerman è rimasto senza parole. Ci invita a non perderci le interviste di quella sera, e saluta il pubblico.

Tizio spegne la televisione.

Nessuno parla.

Mio padre mi guarda in modo strano.

Capisco che cosa vuole dirmi.

Come faccio a farti sopravvivere, adesso?”



The Corner

Buongiorno e ben trovati!
com'è stata la vostra settimana?
la mia un po' movimentata,
oggi per la prima volta suonerò al teatro greco di Taormina,
sono emozionata e felice \(*W*)/
siete andati tutti al mare?
io no, forse ci andrò sabato,
forse...
preferisco stare a casa a scrivere ahahahahah
bhè, l'appuntamento è per giovedì 18!
see you soon :3

Chii

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Capitolo 9
*** Ultimatum ***


8: Ultimatum

 

Cammino avanti e indietro.

Prima o poi consumerò le scarpe. O il pavimento.

Non riesco a stare fermo.

Per mio padre non è lo stesso.

Lui ha sviluppato un modo caldo e pacato per dimostrare la sua agitazione.

Devono essere stati i lunghi anni passati a fare il mentore ad averlo forgiato così.

Sta seduto con le mani intrecciate tra di loro, i gomiti piantati sulle cosce, lo sguardo fisso in un punto non ben precisato, senza dire o fare niente.

Se riuscissi a fermarmi, e a concentrarmi a sufficienza, potrei vedere i suoi pensieri che si attorcigliano nell'aria intorno a lui, che giocano a rincorrersi o che sfuggono via, leggeri.

L'unico particolare che tradisce la sua ansia, è il modo in cui batte la punta di un piede sul pavimento.

Dopo la sconvolgente rivelazione dei voti, mi ha praticamente costretto a ritirarmi nella mia stanza.

Mi ha fatto aspettare un'ora buona (che avrà passato con Ria, per studiare forse una strategia di cui non vogliono mettermi a parte, ora che mi hanno dipinto un bersaglio dietro la nuca) per poi entrare spalancando la porta in malo modo, solo per andarsi a sedere sulla sponda del letto, e rimanere in silenzio in quella posizione riflessiva.

- Ripetimi che cosa hai fatto davanti agli Strateghi. -

Sospiro.

Devo averglielo raccontato almeno una decina di volte.

Ricomincio dall'inizio, dalle due spade, da come le ho fatte roteare nel vuoto per po', e del mio lancio fortunato che ha centrato un bersaglio del tiro con l'arco.

- È tutto? -

Me lo chiede come se gli stessi nascondendo qualcosa, qualcosa di veramente importante.

Vorrei rispondergli, ma lo farei alzando la voce, dando sfogo a tutta la rabbia che sento.

Dentro di me, una voce urla e urla.

Non fa altro da quando ha visto quel 12 sullo schermo.

Sa che cosa significa, sa che è la firma per la condanna a morte, sa che qualsiasi cosa io farò, non sarà comunque sufficiente per salvarmi la vita.

Sa che adesso è veramente finita.

Per questo urla. E quelle urla potrebbero uscire dalle mie labbra, involontariamente.

- È tutto. -

Riesco a dire, in modo meccanico.

Mio padre torna nel suo buio pensatoio, estraniandosi. Si capisce, perché i suoi occhi scuri si velano appena.

È andato.

Forse è tornato nell'Arena.

Forse pensa a tutti i tributi che lui ha portato nell'Arena.

Dovrei pensarci.

Non c'è nessun altro vincitore, a parte lui.

Forse quello che ha fatto per far sopravvivere i Tributi del nostro Distretto non è stato abbastanza.

Forse ha volontariamente dato la morte a quei ragazzi, pensando che fosse meglio che morissero lì, soli, lontani dalla loro famiglia, abbandonati e spaventati, nell'Arena, piuttosto che vederli vivere con il dolore di essere un assassino, e con il ricordo degli orrori patiti.

Sembra quasi che abbia intercettato i miei pensieri, perché i suoi occhi si alzano su di me.

Riesco a vedere un ricordo doloroso che fluttua nella pupilla, prima che lui riesca a mettermi a fuoco.

- Io ho sempre fatto il possibile. - sembra quasi che si stia giustificando - E lo farò anche stavolta. Non smetterò di combattere con te, e per te. -

- Lascerai che Ria muoia, quindi? - la butto lì, quasi senza pensarci - Che muoiano quei due ragazzini del Distretto 12? Astrid, Anthya, tutti quanti, perché solo io possa tornare? - le mie parole hanno l'effetto di una coltellata su di lui. Vedo come il dolore lo annienta da dentro, come lo fa rimpicciolire di colpo, come se fosse tornato quel bambino spaventato che ha dovuto smettere di farsi certe domande, e ha ucciso a sangue freddo, con il solo scopo di rimanere vivo. - Hai chiesto a me di annullare le mie emozioni, ma le tue? - stringe i pugni, e non risponde - Quando sarai costretto a scegliere tra me e qualcun altro, chiunque altro, sarai così egoista da preferire me? Se non sei tu, un altro padre piangerà. - non so neanche per quale motivo sto affrontando questo discorso. Mi sento sospirare. - Morirò nel Bagno di Sangue iniziale. I Favoriti mi saranno addosso in un secondo. Era già chiaro che sarebbe successo prima di scoprire quale fosse il mio voto, ma adesso è più che chiaro. Concentrati su Ria. Lei forse una possibilità di tornare ce l'ha. -

Anche se l'idea di saperla vincitrice mi da uno strana sensazione di nausea.

Senza sforzarmi, tra le dita sento il ricordo del tocco di Astrid.

Vorrei che fosse lei a tornare a casa.

Non so perché questo pensiero improvviso mi fa formicolare la nuca.

So che cosa farò quando scadranno i dieci secondi prima che i Giochi inizino sul serio.

So che correrò da Astrid, e le darò il tempo necessario per scappare e salvarsi. Questo è tutto quello che possa garantirle: un fuoco di copertura, chiamiamolo così, un diversivo, per permetterle di correre il più lontano possibile dalla Cornucopia.

Sono sicuro che Mizar avrà comunque voglia di farmi a pezzetti sin da subito; perché non dargli modo di farlo se questo può servire a lei di salvarsi?

Certo, visto che morirò così, spero che almeno Astrid vinca i Giochi.

Ci rimarrei male, dall'Inferno, sapendo che non sono riuscito a salvarla.

Mentre in una mano sento il tocco gentile di Astrid, nell'altra sento il calore duro dell'osso di mio fratello, quando l'ho stretto per impedirgli di fare qualche sciocchezza, il giorno della Mietitura.

Che cosa penserà Bill?

Lui sa che sono comunque spacciato. Da questo momento in poi, sa anche che non potrò fare altro che garantire a qualcun altro la sopravvivenza, quella che a me è stata appena tolta.

Perché proprio Astrid?

Non lo so, e forse neanche lui lo saprà mai, ma lo accetterà, perché capirà che per me è importante.

Eppure, adesso che tra le mie due mani riesco a sentire le loro così diverse presenze, non riesco ad essere sicuro di quello che voglio fare.

Qualsiasi cosa io prova per Astrid, è effimero, e leggero. Non può essere messo a paragone, neanche lontanamente, con il mio amore fraterno per Bill.

Però...però...

Bill è lontano, ed io sono un condannato a morte che non ha nient'altro per cui combattere che un'emozione effimera.

Voler vivere non è una frivolezza? Non lo è anche morire?

Tutti i ragazzi che parteciperanno a questi giochi non hanno lo stesso diritto di tornare a casa e riabbracciare i loro familiari?

Chi sono io e chi sono gli Strateghi e Capitol City e il Presidente Snow per decidere delle nostre e delle altrui vite?

Ma questi sono gli Hunger Games. Non sono giusti. Non sono etici.

23 muoiono, 1 sopravvive.

Riscopro mio padre a fissarmi; l'ha fatto per tutto questo tempo.

Ha uno strano sorriso sulle labbra.

Il sorriso di chi ha fatto molte volte gli stessi pensieri. Il sorriso di chi ha provato più volte a ignorarli. Il sorriso di chi se n'è fatto sopraffare da tempo.

Torna subito serio, quando capisce che l'ho scoperto a guardarmi così.

- Qualunque cosa tu voglia fare, non smettere di combattere prima che sia finita. E non lo farò neanch'io. - si alza, volgendomi le spalle - Un padre piangerà, ma non sarò io. -

E detto questo, esce, lasciandomi intontito.

 

I preparativi per l'Intervista hanno consentito a mio padre di abbandonarmi a me stesso, ai miei pensieri, e a tutto ciò che ne consegue.

In più, la presenza di Amarilli (e di Din e Dan) non mi è di alcun conforto.

Il loro cianciare di nulla mi ricorda il chiacchiericcio di Ria, e di quegli altri due, e acuisce un mal di testa che ha cominciato a darmi il tormento da qualche ora.

Torno presente a me stesso quando Din (o forse Dan, non riesco a riconoscerli) mi tira un dread, facendomi sobbalzare.

- Sono così stopposi! Non ci si può lavorare! -

- Infatti non devi lavorarci tu! - inveisce Amarilli. Oggi, i suoi dreadlocks non sono più solo azzurri: sulle punte hanno una sfumatura viola scuro che degrada lentamente in azzurro. - È lavoro mio! Andate a preparare Ria! -

E lo allontana con un gesto pigro della mano, come si farebbe con un insetto.

Din sembra alquanto piccato da quel trattamento, e si esibisce in quella che dovrebbe essere una smorfia di indignazione. Ma la sua fronte è così tirata che non riesce ad esprimere nessuna emozione. Sembra una bambola di plastica che gioca a imitare un umano.

Lancia uno sguardo al fratello e se ne vanno come se Amarilli se li avesse orribilmente offesi.

Non appena i due si chiudono la porta alle spalle, vedo Amarilli che getta gli occhi al cielo e sospira.

- Sono così suscettibili. - si avvicina a me, scuotendo la testa. Per un po' mi tasta i dreadlocks, constatandone la compattezza. - Sai, da quando sono uscite le votazioni, sono impazienti di metterti le mani addosso. -

- Se per questo, non sono i soli. -

Dico, senza riuscire a trattenermi.

Amarilli ridacchia.

Spreme da una bottiglia una sostanza oleosa e prende a passarla sui miei capelli.

- Vorrebbero essere i brillanti stilisti che hanno creato il look di Tom Kaulitz, l'Esperimento dal 12 tondo. - lo dice come se fosse una specie di privilegio; non tanto essere i miei stilisti, quanto essere me - Quindi, gli brucia un po' non avere il merito di aver ideato i dread e tutto il resto. -

- Ah, capisco. -

In realtà, no, non capisco.

Non riesco neanche a tentare di capire.

È tutto questo che pensano? Che sia un affronto non avermi acconciato i capelli? Se ne faranno una malattia per tutta la vita mentre io domani verrò sbattuto nell'Arena?

Per quanto mi sforzi, ogni connessione logica tra le due cose mi sfugge. Forse dovrei essere nato e cresciuto a Capitol City per poterlo capire. Ma in quel caso, domani sarei davanti al televisore con Bill, a guardare i Tributi ammazzarsi, facendo scommesse su chi sarà il primo a morire.

Un brivido mi percorre la schiena.

Per una qualche, strana, ragione preferisco essere un Tributo, che uno schifoso abitante di Capitol City.

Amarilli si chiude in uno strano silenzio.

Sembra essere tutta impegnata nel sistemarmi i capelli.

Non so dove abbia la testa, in realtà. E sono felice che lei non sappia dov'è la mia.

- Hai qualcosa del tuo Distretto? -

La sua voce irrompe all'improvviso in quello spazio così ristretto e così silenzioso, che mi ritrovo a sobbalzare.

- Come? -

Lei mi sorride. Un sorriso stranamente carico di significato.

- Lo sai che ogni Tributo può portare nell'Arena qualcosa in rappresentanza del suo Distretto, basta che non sia un'arma. Tu ce l'hai? -

D'istinto, mi porto una mano al petto, e sotto la maglietta senso la consistenza ferrosa e fredda del ciondolo di mia madre.

- Sì. - rispondo, titubante. Amarilli mi guarda come per invitarmi a fargli vedere l'oggetto in questione. Le mie mani indugiano per un attimo sul ciondolo, appena sotto la maglia, poi, con dita veloci, lo tiro fuori e glielo mostro. Lei lo guarda con attenzione, stretto nel palmo della mia mano. Non osa toccarlo, né si sporge per farlo. Riesco a leggere nei suoi occhi la domanda che vorrebbe farmi. - È un'incisione dell'ultima ecografia mia e di mio fratello, mia madre la portava al collo dal giorno della nostra nascita. -

- Bhè, allora sarà meglio che veda che tu la porti indosso, non trovi? - dice lei, dopo un lungo minuto di silenzio - Ti farò indossare qualcosa che possa metterla in mostra. -

Per un attimo, un impeto di rabbia si contende il controllo del mio corpo con la ragione.

Perché gli spregevoli esseri di Capitol City dovrebbero profanare il regalo di mia madre?

Poi, capisco il senso delle parole di Amarilli.

Sarà meglio che veda che tu la porti indosso.”

Mia madre avrà il televisore acceso, da questa sera in poi, per seguire ogni mio passo.

Tutto quello che posso fare è mostrarle che non ho dimenticato quello che mi ha detto, e che combatterò fino alla fine per tornare.

Le annuisco soltanto, e stringo più che posso il ciondolo tra le dita. La sensazione del metallo che mi taglia la carne mi fa tornare presente a me stesso.

Quella sensazione così viva, dura e reale mi strappa da ogni pensiero, annulla ogni macchinosa elucubrazione mentale.

Allento la presa. Il palmo si è arrossato, sono rimasti i segni seghettati del ciondolo.

Sento il cuore spingere il sangue nella mano, dandomi l'impressione di averlo tra le dita.

Sono vivo.” constato.

Due lettere, un'infinità di problemi.

Amarilli torna a mettermi le mani addosso.

Mi sistema i capelli in modo che sembrino disordinati, ma con un certo ordine.

- Andiamo a vestirci. -

Mi chiede.

C'è qualcosa di strano nella sua voce, una nota di disperazione.

Cerco il suo sguardo, senza trovarlo.

Sta davvero cercando di trattenersi...ma dal fare cosa?

La seguo nell'enorme cabina armadio, senza dire una parola.

Mi indica la pedana rotonda al centro, ed io ci salgo sopra, mentre lei si mette a frugare negli armadi.

Tira fuori una serie di jeans, e una serie di canotte, che cominciano ad ammucchiarsi ai suoi piedi mentre le scarta.

Quando ne avrà accumulate un centinaio, sbuffa. E finalmente mi guarda.

- Non so bene che cosa farti indossare. - sembra che sia un problema che le dia molta noia, a giudicare dalla rabbia che le fa tremare le mani - Vuoi sentire il mio ragionamento? -

- Ahm...sì. -

Le dico, visto che dovrebbe essere la cosa che vuole sentirsi dire.

Lei annuisce, più a se stessa che a me.

- All'inizio, pensavo di farti sembrare un duro. - non mi piace quel “farti sembrare” - Volevo metterti addosso qualche borchia, catenelle e roba del genere. - nei vari specchi che arredano la stanza vedo il mio volto contrarsi in una smorfia - Ma penso che tu debba apparire...angelico. -

- Come? -

Forse non ho ben capito.

- Angelico. - ripete Amarilli. Non scherza, perché non sta sorridendo. - Ormai è chiaro che tu sia in “competizione” contro Mizar. E quali sono le differenze tra te e lui? - bhè, è grande e grosso, ha una preparazione fisica non indifferente, è pronto ad uccidermi... - Le emozioni. - continua lei. Scuoto la testa. Da come inarco le sopracciglia, Amarilli deve aver capito che non la seguo più. Mi rivolge un sorriso gentile. - Sei diverso in questo. Hai dimostrato di avere grande cuore e grande coraggio, offrendoti come Tributo al posto di tuo fratello, mentre lui ha voluto partecipare per il principio di farlo; tu sorridi sempre alle telecamere, e sei gioviale con chiunque incontri, lui è cupo e aggressivo, e non è facile avvicinarlo. Sono quasi certa che i suoi stilisti metteranno in risalto la sua fisicità, e lo vestiranno di nero, il colore del suo cuore. Io ti vestirò di bianco, così sarai visivamente il suo opposto. Il tuo naturale modo di porti sarà sufficiente per enfatizzare la mia idea...non ho in mente niente di vistoso, perché sarai tu a far parlare quello che indossi, non viceversa, come penso invece sarà per Mizar e i suoi muscoli... - rimane qualche istante in silenzio, fissandomi - ...che te ne pare? -

- L'Angelo e il Diavolo, eh? -

- Hai capito. - sorride ancora - Il pubblico potrà scegliere tra il bene e male, tra te e lui. Sono convinta che così otterrai almeno un 50% di Capitol City. -

- L'altro 50 va a lui. -

- Vero, ma se riesci a giocartela bene, gli Strateghi faranno di tutto per farvi arrivare entrambi ad un uno contro uno finale. Il pubblico non aspetterà altro. -

Non sembra una così cattiva idea, anzi, messa così potrebbe funzionare.

Lancio uno sguardo ad Amarilli.

Mi chiedo come mai queste idee semplici ma efficaci non l'abbiano fatta diventare famosa.

Forse è colpa dei Tributi del Distretto 10, che continuano a morire come mosche.

- Sì, mi piace. -

Dico soltanto.

Lei esulta, gettando per un attimo i pugni verso l'alto, poi torna a tuffarsi dentro la marea di vestiti, cercando quello più adatto.

 

La confusione regna sovrana.

Mi chiedo cosa succederebbe se sgattaiolassi via, in questo momento.

Riuscirebbero a trovarmi?

Forse no.

Non sembra esserci nessuno intenzionato a darmi retta, ora come ora.

Seduto dietro le quinte, aspetto che venga il mio turno per l'intervista.

Non faccio che muovere le gambe e tamburellare nervosamente le dita su ogni superficie.

Credo di aver già sentito un paio di persone chiedermi di smetterla, ma non l'ho fatto.

C'è sempre qualcuno che ci domanda se vogliamo qualcosa da mangiare.

Arrivano qui, con le loro cuffie di traverso sulla testa, i loro taccuini pieni di appunti, e chiedono “vi serve qualcosa? Da mangiare, da bere?”.

Mi sento come se fossi una qualche specie di celebrità, venuta in città per la prima volta, e trattata con tutti gli onori del caso.

Si rendono conto che sono un pezzo di carne appeso ad un gancio dentro la macelleria?

Dovrebbero chiedermi piuttosto che taglio preferisco; petto o coscia?

In ogni caso, rifiuto qualsiasi cosa possa anche solo somigliare a del cibo.

Ho lo stomaco così dannatamente chiuso che non ci entrerebbe neanche una briciola di pane.

Dopo essere stato vestito, e in parte truccato (a detta di Din e Dan il mio viso aveva bisogno di un po' di luce, anche se non riesco a giustificare lo strato di fondotinta che mi hanno spalmato in faccia), un paio di Pacificatori mi hanno preso in custodia.

Infilato a forza in una macchina, insieme a mio padre, a Tizio e a Ria, ho dovuto sopportare il lunghissimo quarto d'ora di strada che mi separava dall'Anfiteatro cittadino.

Le strade erano piene di persone.

Chiunque non è riuscito a trovare un posto all'Anfiteatro, si è riversato in strada, dove le interviste saranno trasmesse attraverso enormi schermi, piazzati qua e là.

L'ultimo atto, prima delle interviste, è stato quello di scaricarci dietro le quinte, ed è qui che sono da allora, mentre aspetto che tutto cominci.

C'è un via vai di lustrini e paillette, che brillano non appena sono colpite dalla luce.

Con gli occhi cerco i miei alleati.

Ria ha già trovato i suoi, vestiti come se stessero andando ad un galà d'alta moda.

C'è da dire che anche lei è veramente carina. Din e Dan hanno fatto un miracolo con la sua faccia.

Per il suo corpo...bhè, non che ci fosse molto da fare. Anche se ha preso qualche chilo, ha tutte le forme al punto giusto, e il vestito di seta verde e rosso che indossa le mette tutte splendidamente in risalto.

Ma non è lei che i miei occhi cercano con ossessione.

L'oggetto dei miei pensieri si presenta qualche istante dopo.

Trafelata, in bilico su tacchi troppo alti per lei, il corpo minuto avvolto in un tubino luccicante di brillanti blu notte; i capelli lasciati alti le scoprono il viso, per caderle in dolci volute di ebano sulle spalle minute. Il rossetto rosa candido rende le labbra un po' più carnose, e le da l'impressione di averlo appena messo, dopo un lungo bacio.

I suoi occhi grigi mi trovano, e sul suo volto si apre un sorriso timido.

Astrid mi si avvicina, un po' traballante sui tacchi, ma anche stranamente sinuosa.

- Posso sedermi? -

Indica la sedia vuota al mio fianco.

- Certo. -

Ancora un sorriso, e si appoggia accanto a me, sospirando.

- Sei nervoso? Io un... -

Arrossisce di botto, e stringe le braccia al petto.

Capisco perché solo quando mi rendo conto che da circa un'eternità le sto guardando la scollatura.

Vedo un soffio di rabbia incendiarle gli occhi.

Butto le mani avanti, per difendermi.

- Guardavo il ciondolo! -

Astrid abbassa lo sguardo sul suo petto, quasi a volersi accertare che c'è davvero un ciondolo da guardare, e che io non le abbia spudoratamente mentito.

I suoi occhi cadono dov'erano caduti i miei: un ciondolo a forma di cuore, di quelli che si aprono per metterci dentro le fotografie.

Le lo stringe tra le mani e sospira; poi si volta verso di me, e mi indirizza uno sguardo arrabbiatissimo.

- E cerca di guardare solo quello. - sbotta - Alza gli occhi. -

Adesso sono io ad arrossire.

Annuisco e costringo il mio volto a tirarmi su.

Non stavo guardando il ciondolo.

 

Le interviste cominciano quando tutti i Tributi sono ormai stanchi di aspettare.

Sarà per il caldo soffocante che si sente dietro le quinte, o per l'altrettanto soffocante tensione dello stare qui senza fare niente.

C'è uno schermo, montato in un angolo. Trasmette le immagini di quello che sta succedendo sul palco.

Quell'enorme pacco di muscoli che è Mizar è il primo a salire.

Ammetto che Amarilli ci ha azzeccato in piedi: i suoi stilisti hanno fatto un ottimo lavoro, vestendolo con capi di due o tre taglie più piccole della sua, giusto per dare l'impressione che i suoi muscoli stiano per esplodere. Ed è rigorosamente in nero, proprio come aveva detto lei: neri sono i pantaloni lucidi, neri sono i grossi anfibi, nera è la maglia di stoffa sottile che scolpisce i pettorali. La macchia di capelli castani sono lucenti, e pettinati in modo che sembrino indomabili, ingestibili, esattamente come dovrebbe essere lui.

L'hanno vestito in modo che sembri minaccioso, grosso e cattivo ed è proprio quello che sembra.

Nella mia mente, ringrazio Amarilli per l'idea che ha avuto.

Mizar cammina come se fosse un robot, e come un robot si lascia cadere sulla poltrona accanto a Caesar.

Si vede lontano un miglio che se la sta facendo sotto dalla paura anche lui.

Ah, Caesar, come pensi che dovrei sentirmi io?

- Dunque. Mizar. - comincia Caesar, sembra essere in difficoltà. E Caesar non è mai in difficoltà. La sua sola presenza lo mette a disagio. È così forte l'impatto che ha sul pubblico? - Ci sarebbero molte cose che vorrei chiederti... - sento lo stomaco stringersi in una morsa, che vuole essere un campanello d'allarme; so già dove vuole andare a parare - ...ma il pubblico vuole saperne una in particolare. - gli occhi di Mizar smettono di saettare in giro, e si fissano su Caesar, improvvisamente interessati. - Tom. - pronuncia l'adesso tanto odiato presentatore.

Mi si mozza il fiato in gola.

Un silenzio gelido blocca le lingue di tutti i presenti.

Sento più di un paio d'occhi che mi si fissano addosso, oltre alle bocche fameliche delle telecamere, che vorranno essere presenti quando avrò una qualche reazione.

È divertente sapere che la faida tra me e Mizar è quella che maggiormente sta incendiando gli animi di Capitol City.

Il bestione non sembra particolarmente sorpreso, anzi.

La sua espressione si trasforma in qualcosa di grottesco, simile a quella di un animale feroce, e di un animale feroce mostra il ghigno.

- Non posso dirti i particolari Caesar... - comincia, i suoi occhi adesso cercano la telecamera, in modo da trovare i miei, che stanno fissando il monitor dov'è trasmessa l'intervista - ...perché siamo in televisione, in diretta nazionale per di più, e non vorrei che il cuore della povera madre di Tom si fermasse. - ride sommessamente, deve aver trovato le sue parole estremamente divertenti. Peccato che nessuno si unisca a quella risata malata: il pubblico è immobile, silente, come anche Caesar che sembra aver perso la sua verve. - Ma una cosa posso dirtela: lui morirà, e sarò io ad ucciderlo. -

Un sudore gelido mi ricopre la schiena, facendomi tremare.

Deglutisco a vuoto, e sento l'intera platea fare lo stesso.

- Uh. -

Soffia Caesar, visibilmente sconvolto. Chiunque avesse solo ascoltato quelle parole, si sarebbe sentito percorrere da un filo invisibile di ansia; ma chi le avesse ascoltate vedendo insieme quegli occhi pieni di cattiveria, avrebbe sentito il vero terrore scorrergli sulla colonna vertebrale. Un ding annuncia che i tre minuti di Mizar sono finiti.

Lui si alza e se ne va, non saluta il pubblico, non saluta Caesar, lascia dietro le sue spalle un muro di tensione e sconvolgimento, che sarà difficile abbattere.

Tornando dietro le quinte, Mizar fa in modo di passarmi vicino. Ha ancora sulle labbra quel ghigno spaventoso.

Il mio corpo si muove da solo; il mignolo e l'anulare della mano destra si chiudono, l'indice e il medio si stendono nella sua direzione, e il pollice assume la funzione di un grilletto immaginario.

Fingendo di sparare un colpo di pistola dritto al cuore di Mizar (con tanto di rinculo della mia arma invisibile) scoppio a ridere, ben sapendo che le telecamere ci stanno inquadrando, e che tutto Panem ha gli occhi puntati su di noi.


The Corner

Buongiorno lettori/lettrici cari,
e ben ritrovati!
aspetto sempre con ansia il nostro appuntamento settimanale!
avvertenze: visto che stamattina non sono a casa, non ho il tempo di postare anche i capitoli di Humanoid Universe 2 e Tierfreunde.
Ma, stasera arriveranno, puntuali come sempre, promesso u.u
ci vediamo giovedì 25, dattebayo!

Chii

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Capitolo 10
*** L'Intervista ***


9: L'intervista

 

Dal momento stesso in cui Mizar è sceso dal palco, celandosi agli occhi famelici del pubblico, l'attenzione si focalizza su di me, mentre l'attesa che io faccia il mio ingresso trionfale lievita come pane nel forno.

Per quanto mi riguarda, so di essere nei guai fino al collo.

Il fatto di essermici ficcato dentro da solo, un po' mi fa rabbia: non posso prendermela con nessuno, e dovermi contenere mi fa arrabbiare ancora di più.

Mio padre mi si avvicina, e mi si siede accanto con uno sbuffo.

- Tu. Continui a stupirmi. - dice, sembra esausto. Mi viene da fare una smorfia dispiaciuta. Lui mi poggia una mano sulla testa, con fare paterno. Si allontana subito, come pentito di quel gesto di inaspettato affetto. - Non dovrò lavorare molto, faranno tutto gli sponsor. -

- Pensi che ho una possibilità? -

Indica Mizar, che chiacchiera tranquillamente con il suo gruppo di Favoriti.

- Se riesci a sfuggire da quello, potresti farcela, sì. -

Evito di dirgli che quello, se riuscirò a sfuggirgli come dice lui, farà di tutto per sopravvivere per poter mantenere la promessa fatta questa sera.

- E come faccio a sfuggirgli? -

Dico invece.

Mio padre si fa scuro in volto.

Ecco che la sua mente se n'è andata di nuovo, tornata nell'Arena per un fugace attimo.

- I Tributi del 9, hai detto che sono bravi con le erbe. -

- Sì, e allora? -

- E allora, non cercare di prendere niente dalla Cornucopia, dattela subito a gambe, nasconditi. E dopo cerca loro, vi aiuterete a vicenda per sopravvivere. -

Sto per dare fiato alla bocca, ma so che direi qualcosa di spiacevole, e non voglio dare altro dolore a mio padre.

Quindi gli annuisco, e fingo di avere uno sguardo risoluto.

Compiaciuto della mia reazione, mio padre fa un sorriso, e si alza, per andare chissà dove, a parlare con chissà chi, della mia imminente dipartita.

Rischio di scivolare in sgradevoli pensieri, ma per fortuna il richiamo amichevole della voce di Astrid mi riporta alla realtà.

Tocca a me”, mi dice solo muovendo le labbra, da lontano.

Un uomo munito di cuffia e microfono le da una leggera spinta sulle spalle, per invitarla ad uscire dalle quinte.

Mi sono perso l'intervista di Anthya?

Cerco in giro la sua figura, per poi ritrovarmela seduta accanto, con le braccia incrociate e un'espressione divertita sul volto.

- Sai che dovresti stare più attento a ciò che ti circonda? -

Mi dice, con fare canzonatorio.

Sento il viso diventarmi rosso, mentre lui da in una risatina.

Astrid, intanto, va ad affrontare Caesar, e il pubblico.

La sua bellezza femminile, eterea, troppo giovane e pura per poter essere provocante, avvolta in quel vestito stretto, la fa sembrare una bambina che gioca a indossare gli abiti della mamma.

Vorrei poterla definire “sexy”, e forse è quello che avrebbero voluto anche i suoi stilisti; ma il suo sguardo dolce, il suo viso delicato, e l'atteggiamento casto non me lo permettono.

Mi sentirei come se l'avessi insultata.

È bella, di quella bellezza che non è facile eguagliare con comportamenti provocanti.

L'effetto che ha sul pubblico è quello che avrebbe una doccia gelida: rimangono tutti senza fiato, con gli occhi sgranati, anche le donne.

Non so perché, ma vorrei che fosse lontana dalle telecamere, e che quegli occhi affamati non percorressero in quel modo il suo corpicino.

Caesar le fa subito i complimento per la sua eleganza, e per la sua fresca bellezza.

Lei sorride, e diventa tutta rossa, ma ringrazia educatamente.

- Dimmi, Astrid. - comincia l'odioso presentatore - Che cosa pensi che voglia dire il tuo 12? -

Vedo Anthya al mio fianco irrigidirsi, e il gelo che lo percorre si diffonde anche in me.

Astrid rimane qualche istante in silenzio. I suoi occhi grigi, plumbei come un cielo che promette tempesta, si fissano su Caesar, ignorando tutto il mondo circostante.

- Vuol dire che sono pericolosa. -

Dice, con leggerezza, come fosse niente.

Le telecamere riprendono, quasi ossessive, le reazioni sconvolte del pubblico.

Ci sono una serie di volti con gli occhi sgranati, e la bocca spalancata.

Caesar sbatte le lunghe ciglia, lentamente.

- E cosa hai fatto per essere pericolosa? -

Astrid fa un mezzo sorriso, per nulla confortante.

Per un attimo ho come l'impressione di vedere un'altra persona.

Non c'è più la piccola, fragile, pura Astrid. No, quella Astrid non c'è più, al suo posto c'è una ragazza forte e sicura di sé, troppo per poter abitare quel corpo così piccolo.

Una ragazza davvero pericolosa.

- Dovresti venire con me nell'Arena, domani, per scoprirlo. -

Caesar sembra essersi appena inghiottito la lingua.

Poi si riprende, e si apre in un luminoso sorriso.

- Una bellissima, e pericolosa ragazza. Mi piaci. - Astrid annuisce appena, soddisfatta - Adesso cambiamo completamente argomento. - Caesar affila lo sguardo, e rende la voce più soffice, quasi stesse sussurrandole un segreto all'orecchio, all'orecchio dell'intera Panem - È una domanda che riservo a tutte le ragazze. - si avvicina ancora di più a lei - C'è qualche giovanotto che fa battere il tuo cuore? -

Ecco, quella ragazza davvero pericolosa sparisce, e Astrid prende di nuovo il suo posto.

Il suo volto si arrossa appena, facendo sembrare la sua pelle ancora più delicata.

Senza accorgermene, stringo i pugni, tanto forte che sento le unghie piantarmisi nei palmi.

E adesso è il mio di cuore che batte forte, fortissimo, troppo.

Anthya mi lancia un'occhiata. Che abbia sentito anche lui quel rombo sordo?

Astrid sembra farsi piccola piccola, e Caesar capisce di aver appena trasformato la ragazza pericolosa in una gattina abbandonata.

- C'è qualcuno, non è vero? - incalza, provocando un leggero fremito negli occhi di Astrid - Lo conosciamo? Parlaci di lui! -

Astrid fa correre lo sguardo sul pubblico, su Caesar e poi sulle telecamere.

Com'è successo con Mizar, sento i suoi occhi fissarsi nei miei.

È me che sta guardando.

- Lui...lui... - balbetta per un attimo Astrid - ...mi ha dato il mio primo bacio. Tutto qui. -

E dicendolo, si porta due dita alle labbra, come se avesse voluto evitare di pronunciare quelle parole, e nello stesso tempo come se stesse ricordando quel bacio.

Per istinto, copio il suo gesto, e cerco tra le pieghe delle mie labbra qualcosa di lei, qualche traccia che mi dica che è ancora lì.

- Oh, è una cosa molto dolce. - sussurra Caesar - E pensi che lui... -

- No. - lo interrompe subito - Mi ha fatto una promessa, e so che la manterrà quando sarà il momento. Non ci può essere niente tra noi. -

Il presentatore sembra deluso, e anche rattristato da quelle parole.

Forse avrebbe voluto sapere qualcosa di più, forse tutta Panem avrebbe voluto sapere qualcosa di più.

Ma Astrid ha sigillato le labbra, intenzionata a non dire altro.

I suoi tre minuti finiscono.

Si alza solo quando è Caesar a dirglielo.

Saluta con dolcezza il pubblico e le telecamere, e si dirige dietro le quinte, dal lato opposto rispetto a dove ci troviamo noi.

Non la vedrò fino a domani. Nell'Arena. E non ci saranno più Tom e Astrid, ma solo due Tributi che combattono tra loro, fingendo di cooperare.

- Tom Kaulitz, tocca a te. -

Mi dice una voce.

Riesco a mettere a fuoco il volto della persona che ha proferito quelle parole qualche istante dopo, e solo perché Anthya mi ha poggiato una mano sulla spalla, per tirarmi fuori dall'abisso pensieroso in cui mi sono nascosto.

Mi alzo, senza farmelo ripetere.

Mentre mi avvicino al palco, non riesco a capire come dovrei sentirmi.

Confuso, agitato, sicuro di me, impaurito, come?

Come, se non riesco a fare altro che pensare ad Astrid e alle sue parole?

Quello era...il suo primo bacio.”

L'assistente cameraman mi spinge in avanti, ed io obbligo i miei piedi a muoversi, seguendo il percorso obbligato che mi porterà sul palco.

Le luci mi accecano, e non appena si poggiano sulla mia pelle sento lo sfrigolio del loro calore.

Il pubblico praticamente non si vede, ma si sente.

Sento le urla delle ragazzine. Gridano il mio nome. Scivola da una bocca all'altra, come un furioso e deciso passaparola.

Un'ovazione che mi accompagna finché non mi siedo nella poltrona di fronte a Caesar.

Lo vedo fissarmi con una certa ammirazione.

Negli schermi giganti montati ovunque nel perimetro dell'Anfiteatro, vedo la mia immagine.

Amarilli aveva ragione, ci ha azzeccato anche questa volta.

Chiunque mi guarderà domani, dopo che le interviste saranno passate per la sala montaggio, vedrà il netto contrasto tra me e Mizar.

Al contrario di lui, io indosso un semplice jeans chiaro e una canottiera bianco latte ben stretta sul petto su cui pende in bella mostra il ciondolo di mia madre.

Amarilli ha voluto che avessi il capo scoperto; non voleva rischiare che a causa delle luci si formassero ombre che potessero coprire il mio volto.

I dreadlocks sono legati in una coda alta, e sono più biondi che mai sotto la luce forte del palcoscenico.

- Tom Kaulitz. - dice, leggero, Caesar. Tutto quel fucsia fa male agli occhi, molto più delle luci che ci hanno puntato addosso. Le sue labbra e i suoi capelli rifulgono di quel colore acceso, completamente inumano. Mentre lo smoking, come tutti gli anni, è blu notte, cosparso di lucine scintillanti che lo fanno sembrare un cielo stellato. - L'Esperimento del Distretto 10. - subito, scende il silenzio.

L'interno Anfiteatro di ammutolisce.

Mi viene voglia di guardarmi intorno per accertarmi che ci sia ancora qualcuno seduto dagli spalti.

Dall'improvviso silenzio, si direbbe che qualcosa o qualcuno ha vaporizzato completamente ognuna di quelle persone sedute ad osservaci, lasciando in ricordo del suo passaggio solo mucchi di vestiti.

Mi viene da sorridere, più per quella macabra visione, che per l'elogio che Caesar sta tessendo per me.

Lo lascio parlare per un po' (mi piace che faccia un monologo) annuendo ogni tanto o infilando mezzi sorrisi tra una frase e l'altra.

- Oh, Tom! Ci sono così tante cose che vorrei chiederti! E abbiamo solo tre minuti di tempo! -

Sbotta Caesar afflitto.

Per quel che sembra, è davvero scontento del poco tempo a nostra disposizione.

Non c'è da biasimarlo, è solo una pedina nella scacchiera di Capitol City.

Man mano che parla riesco a concepire un unico pensiero: “non sa quello che sta facendo”.

E non lo sa davvero.

Non se ne rende conto.

Non capisce che domani a quest'ora io potrei essere morto.

- Perché non mi parli, brevemente, di tuo fratello. -

Quelle parole richiamano la mia attenzione, e hanno il potere di far correre i miei occhi nei suoi, piccoli e scuri.

- Mio fratello. -

Ripeto.

Forse non ho capito bene.

Il silenzio intorno a noi si fa ancora più pressante, me ne sento schiacciare.

Non si ode neanche un respiro.

- Sì. -

Soffia lui, delicato.

Ancora una volta mi da l'impressione di stare parlando con qualcuno di fidato, a cui non sarebbe un male depositare un segreto opprimente.

Ispira la fiducia di un confidente.

Se non fosse che la sua faccia, e la mia, e tutto quello che ci stiamo dicendo (per quanto io possa parlare sottovoce) finirà sbattuto su tutte le televisioni della nazione, potrei anche cedere e raccontargli tutto, perché la sua sola presenza mi porterebbe a farlo.

Socchiudo gli occhi.

Come potrei parlargli di mio fratello?

Lui, il Presidente Snow, Capitol City, non si meritano di conoscere i miei sentimenti, non si meritano di vedere il mio amore per mio fratello.

Sto quasi per decidere di non rispondere, quando una voce si insinua nella mia mente.

Questa è la mia ultima e unica occasione per dire qualcosa a Bill.

Sceso da questo palco, varrò più da morto che da vivo.

Ma adesso, da qualche parte, lontano, nel Distretto 10, accucciato sul divano con gli occhi colmi di lacrime, lui mi sta guardando.

E allora punto gli occhi sulle telecamere, e non su Caesar, che mi sta mangiando con lo sguardo.

- Bill è tutto quello che sono io, è il sangue che scorre nelle mie vene. -

Mi sento percorrere da un fremito, la pelle mi si accappona.

In qualche strano modo, so che lui ha visto e sentito tutto, e che quei brividi sono suoi, non miei.

- Gli vuoi davvero molto bene. -

Incalza Caesar, cercando di strapparmi altri informazioni.

- Sì, è così. -

- Per lui vinceresti gli Hunger Games? -

Adesso lascio la telecamere, per tornare al volto di Caesar, così serio da sembrare realmente interessato a quello che sto per dirgli.

- Caesar, la tua frase esprime troppa ipoteticità. -

Mi viene fuori, chissà da dove, uno strano sorriso.

- Che vuoi dire? -

Mi accomodo bene sulla poltrona, prima di rispondere.

Comincio a rigirarmi il ciondolo di mia madre tra le mani, non per nervosismo, ma solo per permettere alle telecamere di riprendere la mia tranquillità.

È solo un gioco per me”, questo voglio dire. Voglio che questo messaggio arrivi chiaro e tondo al bestione dietro le quinte, voglio che possa sentire una minaccia nelle mie parole, voglio costruirmi un'arma di difesa con gli sponsor.

Certo, Mizar sarà forte, ma Tom non è da meno.

- Vedi, qualcuno ha fatto i conti senza l'oste. - alzo lo sguardo dal ciondolo; non ho fatto altro che fissarlo per tutto il tempo. C'è, da qualche parte dentro di me, la consapevolezza di stare parlando troppo, sbilanciarmi così tanto potrebbe autodistruggermi. Però, è più forte di me, davanti alle telecamere non riesco a trattenermi. Devo costruire un muro tra il vero me, e quello che domani sarà gettato nell'Arena, devo farlo, se non voglio perdermi. - Io non posso certo spaventarmi di qualche parola gettata al vento. - lo dico fissando dritto in camera. Mizar, mi senti? - Quel qualcuno dovrà stare attento a non dormire troppo profondamente, nell'Arena. -

Mi rendo conto di stare facendo tutto il contrario di quanto avevamo pianificato con mio padre.

Ma la cosa non mi dispiace.

Questo sono io, che mi reinvento, e ammetto che giocare con me stesso in questo modo mi da una certa soddisfazione.

Nessuno saprà chi sono realmente, neanche quanto di me rimarrà alla fine di tutto.

Riesco già a sentire i rimproveri di mio padre, e mi sfugge un altro sorriso.

Vedo Caesar impallidire di colpo.

Seguendo il filo dei miei pensieri, ho lasciato che il corpo li rivelasse.

Con lo sguardo corro sullo schermo più vicino, e vedo un Tom Kaulitz circondato da un'aura minacciosa, l'aura di un Angelo guerriero.

- Credo di sapere di chi tu stia parlando. - stavolta, il tono del presentatore si fa complice. Lo guardo con scetticismo. Chiunque, a Panem, ha capito di chi sto parlando. La mia faccia da “non mi dire!” viene trasmessa in diretta nazionale, e suscita subito uno scatto di ilarità nel pubblico, e anche nello stesso Caesar, che arrossisce appena sotto i molteplici strati di trucco che ha sulla faccia. - Vuoi dirgli qualcosa? -

Stavolta, tocca a me fare un ultimatum.

Mi viene quasi da ridere.

- Certo! - dico, con troppo divertimento - Voglio dirgli che quando si chiederà chi o cosa l'ha colpito, la risposta sarà: Tom Kaulitz. -

Dal pubblico si solleva uno scroscio di applausi, che mi sommerge come un fiume che rompe gli argini.

Rivolgo un cenno del capo alla platea, di cui non vedo niente a causa delle luci, e poi torno a guardare Caesar.

- Sei davvero combattivo. -

- Ho qualcosa per cui combattere. -

E dicendolo, mi curo bene di stringere il ciondolo di mia madre.

Emozioni.

Sentimenti.

Sta tutto lì.

Mio padre mi ha detto di azzerarli.

Amarilli mi ha consigliato di enfatizzarli.

Io ho capito che posso giocarci.

Capitol City, hai visto? Anche io posso fare un gioco.

 


Ther Corner

giovedì! è giovedì!
ciaoooo a tutti e ben trovati!
questa settimana è stata lunga e difficile per me...
perché volevo pubblicare al più presto ahahahahah!
ma ora ci siamo! :3
il prossimo appuntamento è per l'1 Agosto!
ma ci credete che è già Agosto?
io no! per niente!
bye bye :3

Chii

 

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Capitolo 11
*** L'Arena ***


10: L'Arena

 

Non appena i tre minuti a mia disposizione finiscono, e Caesar mi saluta augurandomi buona fortuna e stringendomi le mani, vedo il mio corpo alzarsi e scendere dal palco, essere accolto dagli assistenti ed essere diretto verso l'esterno.

Un forte ronzio mi riempie la testa.

È il cianciare di tutte le persone che ho intorno, che non fanno che complimentarsi con me per l'intervista.

Ma non riesco a cogliere più di qualche parola, prima di essere sbattuto nella macchina che mi riporterà al Centro Addestramento.

Ria deve essersene già andata, perché di lei non c'è traccia; e non trovo neanche la mia stilista.

Quando mi siedo sul sedile, sono solo.

Sbattuta la portiera, il mondo rimane fuori, con i suoi flash, i suoi colori, i suoi rumori.

Sento tutta l'aria che ho nei polmoni schizzarmi via dalle labbra, mentre mi accascio come una bambola rotta.

Finalmente, riesco a sentire il battito esagitato del mio cuore, così forte da far male al petto.

Ripercorro i momenti dell'intervista con fredda lucidità. Mi rendo conto con soddisfatto terrore delle cose che ho detto in diretta nazionale, e delle conseguenze che scateneranno.

Ma non riesco a pentirmene.

È stato il Tom che domani andrà nell'Arena, a dire quelle cose, non io, io non ne sono colpevole.

Lui ha costruito definitivamente il personaggio che gli sponsor ameranno, e pagheranno per tenere in vita.

Quel Tom è davvero contento di ciò che ha detto, e di come si è comportato, mentre io stavo in disparte in un angolino.

Adesso, dovrei come minimo stringergli la mano e complimentarmi con lui.

Se ho una piccola chance di sopravvivere, la devo tutta a quello che ha detto questa sera.

La testa continua a ronzarmi per tutto il viaggio dall'Anfiteatro al Centro Addestramento (che dura meno di venti minuti, ma che mi sembrano delle ore).

Qualcuno si prende la briga di aprire lo sportello, e ad accogliermi trovo una coppia di Pacificatori, e uno stormo di telecamere e macchine fotografiche impazzite, che non fanno che accecarmi con i loro flash.

Automaticamente, perché so dov'è che Amarilli li ha messi, sfilo dalla tasca del jeans un paio di occhiali dalla montatura e le lenti scure.

Li inforco per nascondere gli occhi alle telecamere, fingendomi una star del rock.

In realtà, proteggo il mio sguardo da chiunque volesse violarlo.

Con quel gesto, sembra che io abbia scatenato il vespaio di giornalisti, che, letteralmente impazziti, continuano a cercare di superare la barriera di carne formata dai due Pacificatori per raggiungermi e porgermi le loro domande.

- Signori, vi prego. - dico, sorridendo - Potremo parlare durante il Tour della Vittoria. -

Non l'avessi mai detto, non avessi mai neanche pensato di dirlo.

I giornalisti cominciano ad urlare, e sporgersi oltre il petto dei Pacificatori cercando di far arrivare i loro microfoni vicino alla mie labbra, per strapparmi un'altra parola, un'altra ancora.

Ma a parte un sorriso canzonatorio, da queste labbra non riceveranno niente.

I Pacificatori riescono a proteggermi, e farmi entrare dalle porte del Centro Addestramento senza problemi.

Alle spalle, mi lascio un'orda inferocita di giornalisti, e fameliche macchine fotografiche.

Prima che le porte si chiudano, mi volto giusto un attimo, per salutare ancora, e sorridere in faccia alla morte.

Poi, i battenti diventano un muro, che mi separano per sempre da Capitol City.

Non tornerò mai più in città, a meno che non riesca a sopravvivere.

Mi dirigo all'ascensore, fischiettando.

Una strana, patetica calma mi avvolge il petto. Il cuore non batte più, sembra essersi addormentato.

Devo poggiare una mano sullo sterno, per capire se è ancora lì, e se sta ancora svolgendo il suo compito.

Ma considerando che mi reggo in piedi e che non sono crollato riverso sul pavimento, direi di sì.

Solo che sta lavorando così silenziosamente da non essere udibile.

M'infilo nell'ascensore e pigio il numero 11 per sbaglio.

Mi viene da sorridere quando vedo il lampeggiare del pulsante. Correggo il tiro e schiaccio il numero 10.

La cabina si ferma al piano, le porte si aprono, e lo spettacolo che mi accoglie è quello di mio padre, con lo sguardo truce, le mani ai fianchi, e un ringhio sulle labbra.

Alle sue spalle, Tizio, evidentemente ubriaco, canta con una bottiglia di vino in mano, cambiando le parole di una vecchia canzone del nostro Distretto.

Quello che viene fuori, è una specie di inno alla promozione e all'aumento che avrà grazie alla mia prossima vittoria.

Ria non si vede da nessuna parte.

Deve essere ancora sotto il torchio di Caesar; in ogni caso dovrà arrivare a momenti.

- Che cosa ti è saltato in mente? -

Mi dice mio padre, strappandomi ai miei pensieri.

Gli rivolgo un sorrisetto, lo stesso che rivolgerei alle telecamere.

Tom, dove sei?

- Mi sono procurato qualche sponsor. -

- Hai fatto tutto il contrario di quello che avevamo deciso insieme! -

Sbotta, arrabbiato.

- Papà, calmati. - eccolo Tom, forse si è reso conto di quello che ha fatto, e ha deciso di venire fuori - È tutto apposto, sono andato alla grande, no? -

Lui tace per un attimo, mordendosi le labbra.

Non credo che voglia ammettere che ho ottenuto un risultato brillante, pur improvvisando tutto sul momento.

Vedo il volto di mio padre farsi di colpo serio, pieno di rughe di preoccupazione e paura che non gli avevo mai visto.

- Hai esagerato, adesso ti prenderanno tutti di mira, lo sai? -

- Vuoi prendermi in giro? Mi stavano già prendendo tutti di mira, ho solo dato loro una valida ragione per continuare a farlo! - stavolta, ad urlare sono io. Non riesco a pentirmi del tono che la mia voce ha assunto. - Avrei dovuto fare il sottomesso, dopo quello che ha detto Mizar? Non potevo apparire debole, avrei perso in partenza e... -

Lo schiaffo in pieno volto mi arriva senza preavviso, così come l'abbraccio che lo segue subito dopo.

Mio padre mi stringe tra le braccia, sento il suo vecchio e stanco cuore mandare un doloroso battito.

- Se per colpa di quello che hai detto stasera verrai ucciso, giuro che troverò un modo per fartela pagare. -

Dice, tra i denti, come se gli costasse tutte le sue forze.

Poi mi allontana, con rabbia.

Ai suoi occhi vedo brillare le lacrime.

Prima che possa dirgli qualcosa, le porte dell'ascensore si aprono, e Ria fa capolino, sorridendo come un'ebete.

Mio padre, abile trasformista, si toglie dal volto l'espressione tetra e afflitta che aveva indosso tre secondi prima, e la sostituisce con un raggiante sorriso.

Lei comincia a raccontare i dettagli delle sue sensazioni sul palco, roba che non interesserebbe neanche al suo cervello, se ne avesse uno, e mio padre l'asseconda, giusto per non dovermi dare retta.

Scocciato, mi ritiro nella mia stanza.

Ho abbastanza stanchezza addosso per poter dormire per giorni interi.

Chiudendomi la porta alle spalle, sfilo le scarpe e scalcio per tirarmi fuori dai pantaloni.

Mi butto a letto, sotto le coperte, e mi obbligo a chiudere gli occhi.

Di là, si sente ancora Tizio cantare, ma mio padre sta cercando di farlo smettere. Forse ci riuscirà, ma non ne sono sicuro.

Anche Ria s'è unita ai festeggiamenti, urlando e schiamazzando come fosse l'ultima notte della sua vita.

Per una volta, non sbaglia.

Gli Hunger Games cominceranno ufficialmente in tarda mattinata, verso le dieci o le undici, perché gli abitanti di Capitol City non sono proprio dei mattinieri, e l'evento più importante dell'anno va seguito sin dal primo minuto, non sono ammessi sbadigli e disattenzione da sonno.

Per quanto riguarda noi, verrano a prenderci all'alba, per portarci all'Arena e per consentire agli stilisti di prepararci per l'ultima volta.

Non riesco a pensare a come potrebbe essere l'Arena quest'anno.

Se c'è una cosa positiva negli Strateghi, è la loro immensa fantasia.

Come fanno a escogitare così tanti e diversi modi per uccidere in un solo anno?

È ammirevole, da un certo punto di vista.

Da un altro, è solo terrificante.

Strizzo gli occhi, costringendoli a rimanere chiusi, e non sbarrati nell'oscurità.

Ripeto mentalmente i nomi di tutti i Tributi e i loro voti, cercando di capire da chi dovrei difendermi prima.

Quando arrivo a Mizar, un pensiero accompagna l'immagine del suo volto: farà terra bruciata intorno a sé, per arrivare a me, dovesse anche essere costretto ad uccidere tutti e 22 i Tributi a mano nude.

Mi chiedo da dove arrivi tutto questo odio nei miei confronti.

Non può essere derivato solo dalla piccola umiliazione che gli ho fatto subire in palestra, no?

È forse solo smania di sangue?

Desiderio di uccidere?

O era nel suo piano trovarsi qualcuno con cui fare il galletto borioso, per poter mostrare agli sponsor la sua superiorità fisica?

Se fare il bullo aspirante omicida è la tattica che gli ha imposto il suo Mentore, non ci sarebbe da stupirsi.

Ma questo insinuerebbe in me l'idea che dentro di lui c'è una persona sana di mente, spaventata tanto quanto me, che non vuole veramente fare del male a qualcuno per puro divertimento.

Ed è troppo da accettare.

Arrivo alla conclusione che stiamo parlando di un Tributo del Distretto 1, nato, cresciuto e preparato per affrontare gli Hunger Games, a dispetto della legge che vieta ai possibili di Tributi di allenarsi prima del tempo.

Non può esserci niente di buono in lui.

C'è in me, che sto partorendo questi assurdi pensieri la vigilia del mio debutto all'Arena.

Come a volerlo sottolineare, il volto di Astrid fa capolino nella mia coscienza.

Il rossore sulle sue guance, i suoi occhi che sfarfallano in giro, alla ricerca della persone che vogliono davvero guardare, le sue labbra, il modo in cui ha protetto il nostro contatto.

Tutto di lei si fa vivido e confuso insieme, in rapidi flash che me la mostrano da ogni angolatura, fotografie di una vita passata ad osservare.

Mi ha fatto una promessa, e so che la manterrà quando sarà il momento. Non ci può essere niente tra noi.”

Non lasciare che sia uno di quegli orribili Favoriti ad uccidermi. Quando sarà il momento, uccidimi tu.”

Le sue parole mi pungolano, mi solleticano, mi distruggono e corrono a ricostruirmi.

Lei che è la contraddizione di se stessa, mi sta mettendo in discussione.

Mi mordo la lingua, cercando di reprimere un verso di stizza.

Affondo la testa sul cuscino, mentre un altro pensiero mi attanaglia il cuore.

È l'angoscia di non aver salutato come si deve l'uomo (e il padre) che cercherà di tenermi in vita quanto più possibile da domani in poi.

Che cosa voleva dirmi con quello schiaffo?

Ancora fa male, sulla pelle accaldata.

Da figlio, vorrei da lui qualcosa di più.

Da uomo, l'orgoglio mi inchioda al mio posto.

Da Tributo, so che è il massimo che possa aspettarmi.

Nonostante questo, io so chi sono.

Comincio ad addormentarmi, lentamente.

I sensi vengono aggrediti dal sonno, e si spengono ad uno ad uno, lasciandomi lo stomaco stretto in una morsa di paura, prima che la mente si disperda, liberando la coscienza in uno spazio vuoto, pieno di un niente che si modella su se stesso.

Se solo fosse così facile morire.

 

Alle sei del mattino, spalanco gli occhi.

Ho la sensazione che dovrei provare qualcosa, che la mia testa dovrebbe essere piena di pensieri, che il mio cuore dovrebbe battere forte.

Invece, ciò che provo è niente, la testa è vuota, e il cuore è silente.

Il sonno senza sogni in cui sono scivolato qualche ora prima si è portato via tutto quello che era rimasto di me, sostituendolo con una persona nuova, diversa, senza scrupoli.

Pronto a uccidere?

Forse.

Pronto a morire?

Forse.

In ogni caso, pronto a combattere.

Accolgo con piacere il freddo del pavimento, quando i miei piedi toccano il pavimento.

Durante la notte, in qualche modo, devo aver sfilato la canottiera che indossavo per l'intervista, e mi ritrovo solo con i boxer color panna che avevo sotto il jeans.

Il ciondolo di mia madre pende ancora al mio petto.

Lo stringo per un attimo, sentendo nel freddo del metallo qualcosa di nuovo, qualcosa che non riesco a spiegare.

Un leggero bussare interrompe i miei pensieri.

Scatto in piedi, in posizione di difesa, prima di sentire i muscoli irrigidirsi per l'improvvisa ondata di adrenalina.

Non sei ancora nell'Arena.” mi dico, ma non serve a confortarmi.

- Avanti. -

Dico, senza pensarci due volte.

È Amarilli, che entra con un sorriso, senza soffermarsi sul fatto che indosso solo l'intimo.

Ha una capacità di distacco invidiabile. Riesce a vedere il particolare e l'insieme nello stesso momento, senza dar peso all'uno e all'altro.

Sembra che non la imbarazzi niente, a parte il lasciarsi andare alle emozioni umane.

- Buongiorno, sei già in piedi? -

Vorrebbe essere cortese, ma è solo una farsa.

- Buongiorno a te. - le dico in risposta. È un buongiorno, per andare a morire. - Mi sono svegliato poco prima che bussassi. -

Mi indirizza una strana occhiata.

Forse ho parlato un automa, meccanicamente.

Deve essere colpa di tutto il sistema muscolare, che reagisce a scatti agli impulsi del cervello.

- Ti ho portato qualcosa di semplice da indossare, per il viaggio. -

Annuisco, mentre lei mi porge un pantalone bianco e una maglietta kaki.

- Grazie. Faccio una doccia e arrivo. -

Non faccio neanche finta di sentirmi imbarazzato nel togliermi l'ultimo indumento che ho addosso davanti a lei, mentre mi infilo in bagno.

Ormai questo corpo appartiene a Capitol City.

Non sento neanche il calore dell'acqua.

Aumento ancora la temperatura, alzando una nuvola di vapore spessa come nebbia, finché non vedo le braccia e il petto lievemente arrossati.

Passo la spugna insaponata, la pelle tira, come dopo una giornata di sole estivo.

Quando esco, con i capelli grondati acqua bollente, mi vesto senza fretta e torno da Amarilli.

Lei mi lancia uno sguardo preoccupato, ma non troppo. Lo stesso sguardo che si lancerebbe ad un maiale prima di mandarlo al macello.

La sua carne sarà buona?

Le rilancio un'occhiataccia, che la costringe ad abbassare il capo, intimidita.

- Ho visto l'intervista, sei stato bravo. -

Dice, giusto per attutire il silenzio tra di noi.

Mi stringo nelle spalle in risposta. Per poi chiederle subito dopo:

- Possiamo andare? -

Sembra che l'abbia presa alla sprovvista, forse si aspettava qualcosa di diverso da me.

Come mi dispiace deluderla.

- Sì, certo. -

Mi conduce fuori.

Il salotto è completamente deserto. Chissà perché mi aspettavo di vedere mio padre. Ma lui sarà sicuramente già al Quartier Generale degli Strateghi per cominciare a raccogliere gli sponsor, e decidere come, quando, dove e a chi dispensare i loro doni.

Seguo Amarilli nell'ascensore.

Prima che le porte si chiudano, lanciò un'ultima occhiata al salotto.

È davvero possibile che lui non ci sia?

- Un hovercraft ci porterà alle catacombe, lì ti darò l'ultima sistemata prima di entrare nell'Arena. -

Mi spiega, come a volermi confortare.

Le porte fanno clack e la cabina comincia a salire.

- Lo so già. -

La bollo con tre parole, che la lasciano alquanto sconvolta.

Schiaccio ripetutamente il pulsante T, sperando che quell'aggeggio si spicci a portarmi sulla terrazza.

Voglio andarmene da qui.

Ho voglia di giocare.

Tutti i Tributi verranno portati via dal Centro Addestramento in orari diversi, così che nessuno di loro si possa incontrare.

Quando rivedrò le loro facce, sarà dentro l'Arena, per un minuto, prima di morire o scappare via.

Finalmente arriviamo sulla terrazza.

M'infastidisce che sia questo l'ultimo posto che vedrò di Capitol City.

Qui ci sono tutti i ricordi delle notti passate con Astrid. Non vorrei per niente al mondo che venissero contaminati da questo momento.

L'hovercraft arriva dall'alto, sollevando aria calda che sferza sul volto.

Una scaletta cala giù dal portellone.

Non appena ci poggio la mano su, una corrente elettrica mi attraversa a capo a piedi, e vi rimango attaccato, con il corpo completamente paralizzato.

Cos'è, vogliono evitare che all'ultimo momento io decida di lasciare la presa e gettarmi di sotto?

O vogliono solo prevenire un'accidentale caduta?

Che persone premurose e gentili.

Avranno altrettanta tanta cura del mio cadavere, e di quelli degli altri Tributi?

Issano la scala all'interno dell'hovercraft.

Mi aspetterei che togliessero la corrente, per permettermi di nuovo di muovermi.

Ma non è quello che fanno.

Un uomo con una siringa tra le mani mi si avvicina.

- È solo il tuo localizzatore. -
Mi dice, stanco.

Non sembra molto contento del suo lavoro.

Sento l'ago che s'infila nel braccio, mentre l'uomo preme lo stantuffo e inietta il microchip di localizzazione direttamente sotto pelle.

Capitol City non può permettersi che qualche Tributo venga smarrito chissà dove dentro l'Arena.

Ha bisogno di sapere dove siamo, sempre, per poterci uccidere se ne ha voglia o se il pubblico si sta annoiando.

Solo dopo aver passato un batuffolo di cotone con del disinfettante sulla puntura della siringa, tolgono la corrente, e finalmente posso staccare le mani dai pioli della scala.

Mi ritrovo a massaggiarmi i polsi indolenziti, mentre la pelle d'oca non vuole saperne di abbandonarmi.

Prelevano anche Amarilli, e quando ci raggiunge, una senza-voce ci conduce in una saletta dell'hovercraft, dov'è stata preparata la colazione.

Non posso credere alla varietà e alla quantità di cibo presente sulla tavola.

Il mio stomaco, gran simpaticone, si contorce e manda un gorgoglio, abbastanza forte da far voltare sia Amarilli che la senza-voce.

Mi limito a guardare entrambe con un'espressione da “qualche problema?” e mi avvento sul mio ultimo banchetto.

Mando giù una dozzina di fette di pancetta, due fette di crostata alla marmellata di rose, tre croissant al cioccolato fondente, un paio di uova sode e dei french toast, innaffiando il tutto con mezza deliziosa bottiglia di succo di mirtilli.

Mi lecco i baffi, e vorrei avere più spazio nello stomaco anche per le salsicce con patate e la torta al cioccolato.

Non so se sia per ansia, disperazione, ingordigia o semplice fame, ma riesco a farmi entrare una coppia di patate e salsiccia in bocca, seguite subito dopo da altra pancetta e pesche sciroppate.

Mangio con tanta foga, buttando tutto giù in un sol boccone, che mi vengono le lacrime agli occhi, e quasi rischio di soffocare.

Che morte stupida sarebbe, strozzato da un boccone di cibo sull'hovercraft che porta all'Arena.

Però, ne parlerebbero per un bel po' di tempo.

Scende tutto giù, e sospiro.

Amarilli mi guarda con gli occhi sgranati.

- Bhè? Non ho cenato ieri sera. -

Le dice, come se bastasse per giustificarmi.

Lei da in una risatina forzata e nervosa, ed io mi do alla varietà di dolci che abitano la parte destra della tavola.

Non so se potrò ancora mangiarne, non voglio perdere l'occasione.

 

Ci vogliono quaranta minuti prima di arrivare nei pressi dell'Arena.

Me ne rendo conto perché i vetri dell'hovercraft si oscurano.

Sono curioso di sapere come sarà quest'Arena, costruita solo e soltanto per noi, come le altre settantadue sono state costruite per i Tributi di quelle edizioni.

È strano, ma avvolge tutto di un'aura d'importanza.

L'anno prossimo, gli abitanti di Capitol City verranno in questo posto e lo visiteranno come fosse un museo, un luogo di villeggiatura; i bambini conosceranno la storia di Tom Kaulitz, com'è morto, o come ha vinto, come ha vissuto, come avrebbe voluto vivere.

Tutto quello che le telecamere hanno catturato di me fino ad oggi, rimarrà qui per sempre, fino alla fine dell'eternità.

È quasi una garanzia di immortalità.

Da qualche parte, qualcosa di me rimarrà anche dopo gli Hunger Games.

L'hovercraft atterra con un lieve sussulto.

Amarilli mi si affianca mentre la scaletta viene calata giù, attraverso un tubo che porta alle catacombe sotto l'Arena.

Non appena mettiamo piede a terra, degli uomini armati e visibilmente minacciosi ci danno istruzioni su dove andare.

Li seguiamo senza opporre resistenza.

Ho avuto tanti buoni momenti per farla finita prima di questo, ormai non ne vale neanche più la pena.

Ci ritroviamo nella Camera di Lancio, quella che sarà mia e solo mia, che affermerà la mia presenza eterna nel museo degli orrori di Capitol City.

L'odore di pulito e di nuovo prende alla gola.

Lo aspiro fino in fondo, beandomene.

La mia camera ardente.

Amarilli mi guarda con la coda degli occhi, aspettandosi una qualche reazione da parte mia, immagino.

Cosa vorrebbe, che dessi di matto e cominci a urlare e strapparmi i capelli?

Non darò questa soddisfazione a nessuno, neanche a me stesso.

Anche se c'è una piccola parte di me che vorrebbe disperarsi e urlare e impazzire e mettere tutto a soqquadro, la parte più grande di me riesce a tenersi a freno, e ad assumere un'aria menefreghista.

Arriva il pacco con i vestiti.

Sono tutti uguali per ogni Tributo, Amarilli non ha idea di cosa ci sia dentro.

Lo apre con le mani che le tremano; io lancio appena un'occhiata.

Un paio di pantaloni scuri dal tessuto simile al cuoio, ma ben lavorato e morbido; una casacca marrone; una giacca dello stesso tessuto del pantalone, ben imbottita. Le scarpe sono stivali grossi, dalla suola alta, adatti per le scalate.

Devo avere un'espressione strana sul volto, perché Amarilli mi sorride.

- Non preoccuparti. Questi tessuti sono buoni per ogni tipo di clima. Traspirano d'estate e trattengono il calore d'inverno, è probabile che ci sarà un clima misto nell'Arena, non troppo estremo. Potrebbe essere un buon segno! - rispondo solo con un “mmm” scettico, mentre lei mi aiuta a vestirmi - Stai comodo? -

Provo un po' a muovermi.

La pelle di cui è fatta questa divisa è così comoda che mi sembra di non indossare niente.

- Abbastanza. -

- E sai qual'è la buona notizia? - fa lei, tutta trillante - Puoi portare il tuo ciondolo con te come portafortuna! -

- Perché, c'erano dubbi? -

Chiedo io, con le sopracciglia aggrottate.

Lei ridacchia.

- Bhè, a volte il portafortuna del Tributo potrebbe passare per un'arma, e non è consentito portarlo, ma hanno visto che lo tieni sempre addosso, e che non è una potenziale minaccia. Non hanno neanche chiesto di supervisionarlo. -

- Non glielo avrei dato. -

La mia risposta acida sgonfia il brio di Amarilli, che sbianca.

- Fatti sistemare questi capelli. - dice, scura in volto. Mi accomodo su una sedia, mentre lei smanetta con i dreadlocks, per togliermeli dal volto e legarli più alti possibile, in modo che non mi diano fastidio. - Vedrai che non li sentirai neanche. - mi da una pacca sulle spalle, amichevolmente, sento le sue mani gelide anche attraverso la stoffa della giacca. Sembra che voglia dirmi qualcosa alla Capitol City, ma finisce per inghiottirla e dire invece: - Sei forte, molto più di quanto credi. -

Gli occhi verdi le si riempiono di lacrime brillanti come diamanti, e per la prima volta so che si tratta di un sentimento reale, non dettato dalla società in cui è stata costretta a crescere e vivere.

Nelle sue parole non c'è nessun riferimento agli omicidi che dovrò compiere, né a ciò che dovrò fare per sopravvivere.

Non vuole che torni, ma non vuole neanche che muoia.

Sentimenti che un abitante di Capitol City non potrebbe mai provare.

Mi basta per sentirla, per la prima volta, vicina al mio cuore.

Si asciuga gli occhi, cercando di nascondersi a me.

Mi rendo conto di averla trattata davvero male, quando lei non ha colpa di tutto quello che sta succedendo.

L'abbraccio di slancio.

- Grazie, per tutto. -

Le dico, per poi allontanarla.

Una voce gracchiante annuncia che è ora di andare.

Senza guardarmi indietro mi avvicino al tubo di lancio, che mi porterà su, nell'Arena.

Mi posiziono sulla piastra metallica.

Incrocio le braccia al petto e tiro su il mento.

- Spero che diventi una grande stilista, Amarilli. - le dico, con un sorriso - Hai tanto talento. Se avessi potuto, ti avrei presentato a mio fratello. Anche a lui piace disegnare vestiti, sai? E anche a lui piace usarmi come manichino. - stavolta tocca a lei sorridere.

Porto due dita alla fronte, in segno di saluto, prima che il cilindro mi spinga verso l'alto.

Socchiudo gli occhi, prendo un profondo respiro.

Ci siamo.” mi dico, e qualcosa di simile al nulla mi prende l'anima.

Alzo lo sguardo; sin intravede un tondo di luce arancione là in alto.

La piattaforma sale ad una velocità vertiginosa. Sento lo stomaco sprofondarmi nel ventre.

Con un rumore di risucchio mi ritrovo all'aperto.

Gli occhi trovano subito il modo di abituarsi al tenue bagliore del tramonto e in un attimo mi torna la vista.

Il cielo è arancione, un arancione forte e fasullo; il disco del sole è appoggiato all'orizzonte, così vicino da poterlo toccare.

Un intenso odore di brucato mi prende alla gola.

Intorno a me, le macerie di una città.

Enormi grattacieli, palazzi diroccati, strade squarciate in due, lampioni accartocciati dalla mano di un gigante come stuzzicadenti, macchine riverse su di un fianco, vetri rotti, cassonetti dell'immondizia ancora fumanti.

Siamo in una grande piazza. La Cornucopia è proprio al centro, enorme, dorata, dalla bocca straripante dei doni più preziosi. Armi, munizioni, cibo, medicinali: sono tutti lì ammucchiati che aspettano di essere presi.

Le cose migliori sono concentrate nella bocca della Cornucopia; disseminati a ventaglio, tutto intorno, vi sono gli oggetti di minore importanza e dall'utilità dubbia.

Ai miei piedi, per esempio, c'è un taccuino con una penna. Armi pericolosissime.

Prima ancora di riuscire a guardarmi intorno, dall'alto, disincarnata, arriva la voce del leggendario annunciatore, Claudius Templesmith, che urla:

- Che i settantatreesimi Hunger Games abbiano inizio! -

Il mio sguardo corre alla pedana al mio fianco, e incontra Ria; poi si sposta un po' più in là, alla furiosa ricerca di Astrid, per trovarla subito dopo.

Solo adesso che l'ho vista, il cuore comincia a battermi forte in petto.

Combatterò per la mia vita, o per la sua?



The Corner

Ciaaaaaaaaaaaao a tutti! *imita Bill*
Come state, che fate, che pensate, che dite?!
come procede la vostra estate? :3
io mi sono accorta ADESSO di avere solo 31 giorni per preparare 4 materie all'Università ahahahahah
quindi dovrò mettermi schifosamente sotto .-.
quest'estate sta volando via!
avvisi per la prossima settimana... *spulcia l'agenda*
nessuno!
ci vediamo, puntuale come sempre, giovedì 8 Agosto :3
a meno che non mi cadano le mani e non riesca più a scrivere ahahahahah
bye bye!

Chii

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Capitolo 12
*** La Città Dell'Eterno Tramonto ***


11: La Città dell'Eterno Tramonto

 

Sessanta secondi.

Mancano solo sessanta secondi.

Sento una scarica elettrica percorrermi il corpo, e inchiodarmi sulla pedana rotonda che ho sotto i piedi.

So che se muovessi anche un solo passo, salterei in aria come un petardo a capodanno.

Come può un minuto durare così tanto?

Sembra un'eternità, una terribile lunghissima eternità.

Cerco di intravedere qualcosa ai piedi della Cornucopia che potrebbe essermi d'aiuto.

Ci sono uno o due zaini colmi di vivande e medicine che sono parecchio allettanti. Ma non credo di avere la forza di spingermi così vicino al cono dorato per afferrarli, e poi tornare indietro vivo.

Se morissi adesso, ci farei davvero la figura dello scemo.

E tutta la sicurezza che ho ostentato durante l'intervista?

Mi viene da sorridere. Da quando penso a come mi vedranno gli occhi di Capitol City?

La risposta, è: da quando ho smesso di essere me stesso.

Ricordo di preciso il momento in cui è successo, però mi viene comunque naturale stupirmene.

Bravo Tom, davvero un buon lavoro.

Se potessi, mi darai la mano per congratularmi con me stesso.

Siamo certi che i sessanta secondi non siano diventati sessanta minuti?

Perché mi sembra così strano riuscire a pensare tutte queste cose, e solo nello spazio di un minuto.

Riesco anche a stupirmi di aver pensato di essere stupito per aver pensato tutte queste cose.

Oddio, sta per esplodermi un'emicrania.

Torniamo concentrati su quello che sta succedendo qui, eh?

Te lo ricordi, piccolo Tom, che stai per combattere all'ultimo sangue con un branco di ragazzi assatanati?

No, perché ho come l'impressione che tu te lo stia dimenticando.

Scuoto la testa.

Basta divagare! E basta fare stupide discussioni con me stesso!

Ci sono anche delle armi lì in mezzo, no?

Devo accaparrarmene qualcuna, oppure non riuscirò a...

Gong.

Finito, il minuto è finito.

Mi ritrovo come un idiota a stare immobile sulla pedana a guardare quello che mi succede intorno.

Tutti i Tributi corrono qua e là come degli ossessi, senza sapere bene dove andare.

I piccoli del Distretto 12 si rannicchiano tra di loro e cercano di guadagnare una posizione nascosta, ritirandosi verso le macerie della città.

Gli unici che sembrano sapere esattamente cosa fare, sono ovviamente i Favoriti.

Sono tranquilli come lo sarebbero ad una cena di gala, con i modi e i comportamenti che avrebbero dei nobili principi.

Non fanno neanche finta di trovarsi nel bel mezzo di una guerra all'ultimo sangue.

Camminano tranquilli verso il centro della Cornucopia, sapendo perfettamente che nessuno cercherà di fermarli.

Vedo Mizar che si abbassa con pacatezza verso una sciabola, dalla lama delle dimensioni del mio torso.

La solleva come fosse un coltellino da burro, ne saggia la robustezza, fa pratica prima con una mano e poi con l'altra.

Subito dopo, allegramente, si volge a guardarmi.

Un brivido mi percorre la schiena mentre Mizar mi punta la sciabola contro.

Qualcosa di simile a “mi ucciderà” prende forma nella mia mente, e si concretizza solo quando mi rendo conto di essere scoperto nel mezzo della piazza.

Quella bestia della compagnia di Mizar salta su e giù, rincorrendo i Tributi più giovani.

Mi viene un colpo al cuore quando sento il primo cannone sparare.

Qualcuno è appena morto.

Mi guardo intorno con foga, cercando convulsamente Astrid.

Non c'è, non c'è da nessuna parte.

Che sia già corsa a nascondersi?

Non riesco neanche a provare a darmi una risposta, che uno dei Tributi mi si getta addosso.

Non capisco chi sia, non ho il tempo di capirlo.

Cerca di colpirmi allo stomaco, lo evito e rotolo all'indietro, così ho modo di capire di chi si tratta.

È il ragazzo del Distretto 3.

Vorrei dirgli che non ho niente contro di lui, e che non ha motivo di attaccarmi, ma poi capisco che sarebbe inutile: i suoi occhi verde intenso sono privi di espressione, e pazzi di dolore e paura.

Vuole proteggere la sua compagnia, in piedi dietro di lui, ed è così evidente da fare male al cuore.

Tra le mani, e solo ora lo metto a fuoco, tiene un piccolo coltello dalla lama ricurva.

Mi guardo lo stomaco, solo per notare un taglio sottile sulla casacca.

Per fortuna, sono riuscito a tirarmi via prima che mi colpisse.

A tentoni, per terra, cerco un'arma con la quale difendermi.

Riesco a trovare un bastone, e lo stringo come fosse un'ancora di salvezza.

Lo porto davanti al volto un attimo prima che il ragazzo mi si getti addosso per infilarmi quel suo bel coltellino nel cuore.

Non arriva mai neanche ad avvicinarsi, perché una freccia gli si pianta in mezzo agli occhi.

Mentre lo vedo ricadere al suolo senza vita, un altro colpo di cannone rimbomba nell'Arena, e il mio cuore ha un sussulto.

La sua compagna urla e si getta sul suo cadavere, piangendo disperata.

Vorrei poterla aiutare, ma il mio istinto agisce prima di me.

Mi spingo per prende il coltello dalle mani ancora tiepide del ragazzo del Distretto 3.

Mi volto, alla ricerca della persone che ha scoccato la freccia.

La scorgo a pochi metri di distanza, e la riconosco come la ragazza del 2, quella dai bianchi capelli e una predisposizione allo sbudellamento che supererà sicuramente ogni rosea aspettativa degli Strateghi.

La vedo mentre ghigna, e incocca un'altra freccia.

Devo darmela a gambe, subito, ma non posso voltarle le spalle.

Quante frecce avrà nella faretra?

Non so perché, ma sono certo che sarebbe in grado anche di scagliare coltelli, se le frecce dovessero finire, e non solo.

Prima che possa scoccarla, qualcuno le viene addosso, forse il ragazzo dell'11, distraendola, e facendole scagliare la freccia lontano.

Ne seguo la traiettoria finché i miei occhi possono, e finché una voce non mi sveglia e mi urla di approfittarne per scappare.

Di certo, non me lo faccio ripetere.

Corro, lontano dalla piazza, sperando che nessuno mi venga dietro.

Solo ora mi accorgo che il mio cuore batte furioso come non mai.

Con il bastone stretto in un pugno e il coltello nell'altro, tutto ciò che voglio è sfuggire via dalla piazza, dalle urla, dal Bagno di Sangue.

Non passa molto che nell'aria riecheggino altri due colpi di cannone.

Quei rombi messaggeri di morte mi rimbombano nelle orecchie e nel petto. Mi sembra come se quei colpi di cannone siano stati sparati direttamente da dentro di me.

Mi sento respirare affannosamente, mentre la corsa mi riempie di acido lattico tutti i muscoli.

Non so neanche dove sto andando.

Le strade della città sembrano tutte uguali, tutte grandi, desolate e piene di macerie.

Ovunque, qua e là, brillano i fuochi dell'incendio che deve aver distrutto la maggior parte degli edifici.

Mi volto a guardare indietro quel tanto che basta per vedere se qualcuno mi sta seguendo.

Non c'è nessuno, a parte le carcasse vuote delle automobili, lasciate a marcire sulle strade.

Rimanere in giro è troppo pericoloso, almeno finché sono solo. Quindi deciso di infilarmi in uno degli edifici, uno di quelli che possono ancora considerarsi tali almeno.

Quasi mi getto nella bocca scura del primo palazzo ancora in piedi che trovo.

È un grosso palazzo di svariati piani, quasi un grattacielo, con le finestre vuote come le orbite di un teschio.

Per terra, polvere, cocci, e resti bruciati di oggetti ormai inutilizzabili.

Nella mente degli Strateghi sarebbe dovuto essere una specie di albergo, credo.

Sembra un palazzo uscito direttamente da un film dell'orrore.

Non mi stupirei se da un momento all'altro arrivasse Mizar munito di motosega pronto a farmi a pezzi.

Non ho intenzione di rimanere al piano terra; è decisamente troppo esposto.

Ma neanche salire ai piani superiori sembra una buona idea. Non vorrei ridurmi ad un topo in trappola.

Però cos'altro posso fare?

Decido di salire al primo piano.

Salgo le scale con cautela, guardandomi sempre indietro, e nel contempo dando un'occhiata avanti.

Non vorrei imbattermi in qualche Tributo, anche se ho l'impressione che non ci sia assolutamente nessuno.

Il corridoio del primo piano è lungo, deserto, e costellato di porte.

Ne provo qualcuna, e mi stupisco di trovarle chiuse a chiave.

Che bisogno c'era di farlo?

Ho una terribile sensazione. Qualcosa mi dice che da queste porte uscirà qualcosa o qualcuno che non molto amichevole.

Sono quasi intenzionato a tornare indietro, quando passi e vociare al piano di sotto mi inchiodano al mio posto.

Possibile che mi abbiano seguito fin qui?

Dannazione!

Con ansia sempre crescente, cerco una porta aperta per potermici infilare dentro.

Finalmente, qualcosa come dieci tentativi dopo, riesco a trovare una camera aperta. Quasi mi ci butto dentro.

Cerco di chiudere la porta con delicatezza, per non far arrivare nessun rumore a chiunque sia entrato nell'edificio.

I passi stanno salando le scale.

- Sei sicura che è entrato qua? -

- Sì, l'ho visto. -

Sono sicuro io di una cosa: le due voci appartengono a Mizar e alla sua compagna.

Mi sento tremare.

Sarebbe carino poter rimanere in questo posto, fermarsi e riposare, perché la stanza in cui sono finito è un'elegante suite, con tanto di letto a baldacchino, tende di velluto, e tappeti folti ricamati.

In mezzo alla devastazione dell'albergo, e dell'intera città, tutto questo è senza senso.

Ma d'altronde sono nell'Arena, perché impegnarmi per trovare un senso a quello che vedo?

Tutto quello che so, è che devo trovare un modo per bloccare la porta. Se la troveranno chiusa come tutte le altre, abbandoneranno l'idea che io sia nei dintorni.

Una sedia! Ecco!

Corro a prenderla da sotto la scrivania che decora la stanza. Appoggio la spalliera contro la maniglia.

Spero che basti. Spero che non abbiano voglia di buttare giù tutte le porte del piano. Spero che se ne vadano presto. Spero un bel po' di cose.

Li sento percorrere il corridoio, e provare un paio di porte, le stesse che poco fa ho provato anch'io.

Ovviamente, le trovano chiuse, e passano oltre.

Sento che si avvicinano alla stanza dove mi trovo.

Deglutisco a vuoto. Forse avrei dovuto pensare ad un piano B, se questo non avesse funzionato.

Ormai però è tardi per correre a nascondersi: uno di loro sta già provando a forzare la porta.

L'unica cosa che posso fare, è poggiarvi la schiena contro, e sperare che il mio peso, e la sedia, la tengano chiusa.

La maniglia si alza e si abbassa diverse volte, sempre più insistentemente.

- Che succede Arlén? -

Dice la voce di Mizar.

Sgrano gli occhi per la paura.

- Non si apre. -

Conclude la ragazza, la sua compagna.

- Bhè? Ce ne sono un sacco che non si aprono. -

Giusto, bravo Mizar. Passa oltre, su, passa oltre.

Stringo i denti e mi mordo le labbra, sperando che non mi sfugga neanche un gemito.

Mi tremano le gambe, mentre i miei occhi vagano nella stanza alla ricerca di qualcosa che possa aiutarmi in un'eventuale lotta corpo a corpo.

Mi viene voglia di piangere, quando mi rendo conto di non avere nulla con cui combattere.

- No, è diverso, questa qui è aperta, c'è qualcosa di là che la blocca. -

Continua Arlén, cocciuta.

Dannata ragazzina.

Non scherzava quando diceva che sarei stata la prima persona che sarebbe venuta a cercare.

Smetterà mai di darmi la caccia, o sarà contenta solo quando mi vedrà morto?

Potrei avere fortuna, lei e Mizar potrebbero lottare tra loro per decidere chi dei due deve avere il piacere di uccidermi, e magari finiranno con l'ammazzarsi a vicenda.

Scuoto la testa.

Ti piace sognare ad occhi aperti, eh?

- Qualcosa che la blocca? -

Mizar sembra incuriosito.

Si avvicina alla porta, e la ragazza lo lascia provare.

Smuove un paio di volte la maniglia, dopo di che da una spallata alla porta.

La sedia ha un sussulto, e minaccia di cadere. Mi affretto a sistemarla nuovamente, poco prima che arrivi un'altra spallata alla porta.

- Possiamo andare? È una stupida porta chiusa, magari è stata bloccata dagli Strateghi come tutti gli altri. E se ci fosse una trappola pronta a scattare se la butti giù? -

Questo deve essere il ragazzo del Distretto 2. Non sono sicuro di ricordarmi il suo volto, ma sono contento uguale.

Mizar smette di picchiare la porta.

- Sì, forse hai ragione. Lasciamo stare. -

Ommioddio non ci posso credere.” penso, in un impeto di gioia.

I loro passi si fanno più lontani, mentre continuano a battere il corridoio alla ricerca di qualche porta aperta.

Non trovandone, salgono al piano successivo.

Non mi arrischio a muovermi finché non sento i loro passi sulla mia testa.

È il momento giusto per scappare.

Tolgo la sedia e schizzo fuori, senza dimenticarmi di chiudere la porta per come l'ho trovata.

Percorro il corridoio a ritroso, correndo a perdifiato per guadagnare l'uscita.

Le scale per scendere al piano terra sono al lato opposto del corridoio rispetto a dove dovrebbero essere i Favoriti.

I miei piedi sembrano fare un rumore infernale mentre scappo via.

Scendo i gradini a due a due, a tre a tre, finché non rischio di cadere e rotolare e forse rompermi l'osso del collo.

Però arrivo alla base delle scale senza farmi nulla, e non mi fermo di certo ad esultare.

Esco dall'albergo veloce come un fulmine, veloce per quanto me lo consentono le gambe.

Cerco di lasciarmi alle spalle l'edificio, prima correre il rischio di fermarmi.

Ma non ce la faccio davvero più.

Mi nascondo all'ombra di un vicolo stretto tra due palazzi. Appoggiando la schiena al muro gelido, mi lascio scivolare a terra.

Per tutto il tempo, non ho fatto che stringere forte il bastone e il coltello.

Entrambi sono inutili, ma entrambi sono gli unici oggetti di offesa di cui dispongo.

Infilo il coltello nello stivale, forte del fatto che il materiale di cui sono fatti ne proteggerà la lama, e che il calzino penserà a preservare me.

Il bastone è un po' ingombrante. Ora che posso stare un attimo tranquillo a guardarlo, mi accorgo che è bel lavorato, costruito con un legno spesso e scuro. Al centro ha una placca di avorio di un paio di centimetri di lunghezza, che dovrebbe essere il punto cui si tiene.

Sembra più un'arma da esposizione, che da combattimento.

Però, è abbastanza pesante, e non dubito che un bel colpo in testa possa stordire chiunque, se non farlo rompergli il cranio. Dipende tutto dalla forza che si impiega.

Forse è meglio che me lo porti dietro, almeno finché non trovo qualcosa di meglio.

Ora urge trovare cibo e acqua, visto che non ho né l'uno né l'altro.

È probabile che i Favoriti, quando avranno appurato la mia assenza nell'albergo, tornino alla Cornucopia.

Anzi, potrebbero anche essersi divisi, e aver lasciato qualcuno a guardia degli oggetti preziosi rigurgitati dalla Cornucopia, giusto per andare sul sicuro.

Ci sono stati quattro colpi cannone.

Un numero irrisorio. Ci sono state edizioni in cui al Bagno di Sangue iniziale sono morti quasi tutti i Tributi.

In ogni caso, adesso siamo in 20.
Mi rifiuto di pensare ai Tributi morti. Ho paura che tra di loro possa esserci un volto familiare.

Astrid, Ria, Anthya, Ayra, Gustav. Ho paura di vedere uno di loro.

Stringo i pugni.

Non devo pensarci adesso.

L'unica mia priorità deve essere il cibo, e l'acqua.

Dunque, questa è una città, per quanto devastata e ridotta in macerie. Dov'è che si trova l'acqua in città normalmente?

Dubito che ci sia acqua corrente negli edifici ancora in piedi, quindi è da escludere che possa trovarsi così facilmente.

Però, da qualche parte l'acqua deve pur arrivare in città, no?

E se ci fosse un acquedotto?

Il problema, è che ci sarà sicuramente, ma ci si potrà fidare dell'acqua che vi scorre dentro?

Io, ho qualche dubbio. Potrebbe essere una trappola.

Sono sicuro che ormai tutti i Tributi che sono sfuggiti al Bagno di Sangue si saranno posti la stessa domanda: dove trovare dell'acqua in una città?

E la risposta, diventa anche ovvia: andiamo tutti all'acquedotto!

Quindi, no, non credo che ci cascherò.

E se invece è una trappola nella trappola e l'acqua non ha assolutamente niente di male e lo scopo è quello di farci impazzire nell'intento di capirci qualcosa?

Ecco che mi si frigge il cervello.

No, così non va. Prendi una decisione Tom!

Acquedotto sì, o acquedotto no?

La mia gola secca e la prospettiva di andare incontro alla disidratazione non mi allettano.

Quindi?

Acquedotto sì, concludo, sospirando.

Però, aspetterò che tramonti il sole, non sembra volerci molto.

 

Perdo ben presto il senso del tempo, visto che, contro ogni pronostico, il sole non tramonta. E non tramonta né dopo un'ora, né dopo due, né dopo che ho perso il conto.

Non tramonta mai.

Il disco solare rimane perennemente appoggiato all'orizzonte.

Ho passato anche troppo tempo nascosto in questo vicolo.

Di certo non sono stato una fonte di divertimento per Capitol City, e questo non gioca a mio favore.

Devo tenerli incollati allo schermo, o gli Strateghi potrebbero decidere che non sono utile. Loro hanno creato questo posto, e loro lo manipolano a piacimento: potrebbero uccidermi in un istante se solo volessero.

Per cui, tanto vale che io faccia qualcosa.

Esco fuori dal vicolo, cercando di rimanere comunque all'ombra dei palazzi per farmi vedere.

Non c'è nessuno in giro, a parte le carcasse abbandonate delle auto, e di qualche pullman.

La testa comincia a girarmi; non riuscire a calcolare lo scorrere del tempo mi mette confusione.

In più, la temperatura è stranamente aumentata rispetto a quando siamo arrivati.

Comincio a grondare sudore dentro la divisa.

Quello che ho capito è che la città è costruita in modo concentrico intorno alla piazza con la Cornucopia.

Più mi spingo verso gli anelli esterni, più mi sembra di avanzare in un forno.

Anche se il sole non è alto, brucia con un'intensità insolita.

Che dipenda dal luogo verso il quale mi sto dirigendo?

Forse è un modo per scoraggiarci dal continuare a camminare.

Non potrei metterlo in dubbio, ma ora più che mai ho bisogno d'acqua. E dato che non ho ancora trovato l'ombra di qualcosa che potrebbe essere simile ad un acquedotto, continuo la mia avanzata.

È strano che non ci sia nessuno.

Immagino che siano tutti nascosti da qualche parte ad aspettare la notte.

L'avranno capito che non arriverà mai?

Odio questo eterno crepuscolo.

Il colore aranciato del cielo è così pesantemente finto, che non potrei neanche immaginare di poter essere nel mondo reale. Se anche perdessi la memoria e non sapessi più dove mi trovo, capirei comunque che questo mondo è fittizio.

Il caldo si sta facendo torrido. Ho la lingua impastata, e le labbra cominciano a screpolarsi.

I miei piedi ad un tratto incontrano un terreno diverso dall'asfalto che hanno calpestato fin ora.

Inarco le sopracciglia per la sorpresa quando mi rendo conto di camminare sulla sabbia.

Ma da dove è spuntata?

Prima di arrivare ad una qualsiasi conclusione, il terreno comincia a tremarmi sotto i piedi.

Un terremoto?!”

Non riesco a pensare più di questo.

Cado a terra, ginocchioni.

Sento qualcosa come un “ouf!” uscirmi dalle labbra mentre mi accascio sulla sabbia.

Il terreno vibra e si scuote, si spacca. Cambia.

Quando il tremore è finito, rimango qualche secondo ancora sdraiato a terra. Respiro a fondo l'aria calda che mi entra nel naso e mi fa bruciare la gola.

Il sole non è più basso all'orizzonte, anzi, uno dei due soli sì; ora ve n'è un altro alto nel cielo, più piccolo, più giallo, più intenso, più caldo di quello che riposa sull'orizzonte.

Mi tiro a forza, e non voglio credere a quello che vedo.

Non c'è più nessuna città, ma solo sabbia, sabbia dappertutto, dune morbide e bianche, battute dal sole a picco.

La speranza di trovare dell'acqua è appena precipitata sotto lo zero.



The Corner

ciao a tutti! come va?
visto che sono di poche parole oggi,
passiamo subito alle comunicazioni di servizio:
per problemi tecnici, i nuovi capitoli di "Humanoid Universe 2" e di "Tierfreunde" verranno pubblicati tra domani e sabato,
dopo di che la vostra scrittrice se ne va in vacanza;
ho davvero bisogno di un periodo di riposo!
ma dato che non so quanto durerà, il mio consiglio è di dare un'occhiatina ogni giovedì.
probabile ritorno? giovedì 22 agosto, o giovedì 29 agosto.
ciao a tutti, fatevi tanti bagni, pace e bene!

Chii

 

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Capitolo 13
*** La Sabbia Bianca e la Bestia Nera ***


12: La sabbia bianca e la bestia nera

 

Porto una mano sul volto, contro la luce del piccolo sole giallo. Il riverbero dei suoi raggi sulla sabbia bianca fa male agli occhi tanto da farli lacrimare.

Non passano neanche due minuti prima di rendermi conto di essere completamente fradicio di sudore.

Mi tolgo la giacca e la metto sulla testa, il colletto fungerà da parasole.

Con il cappello improvvisato il caldo non diminuisce, ma la rifrazione della luce nei miei occhi sì, e posso finalmente guardarmi intorno.

Anche se, a dirla tutta, non c'è molto da guardare.

Finché riesco a vedere, c'è solo sabbia. Sabbia, sabbia e ancora sabbia. Una sabbia finissima e bianca.

Mi abbasso per prenderne una manciata. I granelli sono così sottili che sembrano siano stati macinati uno ad uno personalmente dagli Strateghi: non riesco a spiegarne in altro modo la consistenza. Mi sembra di toccare della seta granulosa.

Alzo di nuovo lo sguardo al cielo.

Il sole arancione e grande, quello che manteneva la città in quell'eterno crepuscolo, è ancora lì, non s'è smosso di un millimetro. Ma quello giallo sembra appena appena più in là. Forse è l'unico astro di questo mondo alieno che sia intenzionato a muoversi.

Prevedo una notte arancione e calda, ma quando tramonterà quel dannato sole giallo sarò comunque contento.

Quello che non mi riesco a spiegare è perché. Perché il deserto? Perché adesso? Perché sostituire la città ad un altro ambiente così presto?

Sperano forse di decimarci in partenza?

Di sicuro, solo i Favoriti sono riusciti a trovare cibo e acqua prima che il deserto prendesse il posto della città.

E allora?

Cos'è?

Una specie di corsa alla sopravvivenza?

Ho uno strano brutto presentimento.

La città. Il deserto. Chissà qualche altro habitat hanno preparato, e quand'è che arriverà, e come soprattutto.

Guardo la sabbia che ho sotto i piedi. Tra qualche ora potrebbe essere rigurgitata dal terreno e venire sostituita da una distesa di fiori.

Il problema non è neanche cosa verrà dopo il deserto, ma come farò io a non essere risucchiato nel cambio d'immagine dell'Arena.

Con il terremoto mi è andata bene solo perché ero lontano dalla città. Se fossi stato ancora dentro uno degli edifici...magari sarei sparito con loro.

Se non fosse per il fatto che non si sente nessun colpo di cannone all'orizzonte, ho l'impressione che nessuno sia morto durante la trasformazione dell'Arena.

Forse non è intenzione degli Strateghi ucciderci durante le manovre di rimodernamento degli ambienti?

Se continuo a pensarci, mi scoppierà la testa. E il caldo non fa che acuire il pulsare che sento dietro gli occhi.

Ho bisogno di un po' d'ombra...e un po' d'acqua. Ma probabilmente non troverò nessuna delle due nell'immediato.

Che cosa so del deserto? Che fa caldo, sempre. Che c'è un sacco di sabbia. Che non ci sono né piante né animali a parte qualche insetto e qualche serpente. Che ci si può perdere a furia di camminare sulle dune sabbiose. Che a volte soffiano forti venti che scatenano delle vere e proprie tempeste di sabbia.

La prossima domanda mi sorge spontanea: come faranno gli Strateghi a rendere questo posto morto e per nulla interessante il suo esatto contrario?

Se l'hanno scelto e costruito, un motivo ci deve essere. Non ci lasceranno di certo vagare nel nulla come dei disperati aspettando che moriamo di inedia.

Ci deve essere qualcosa qui, qualcosa di spaventoso che si nasconde appena fuori dal mio campo visivo.

Qualunque cosa succeda.” mi dico “Non devo addormentarmi.”

Non so perché il pensiero mi turba. Ma ho quest'immagine in mente: io sprofondato nel sonno che vengo aggredito da qualcosa che spunta da sotto la sabbia.

No, se proprio devo morire, voglio esserci. Non voglio che succeda all'improvviso. Voglio rendermene conto. E voglio fare tutto il necessario per impedirlo.

Visto che non ho molti posti dove andare, ma neanche un motivo per rimanere, tanto vale cominciare a fare strada.

Verso dove? Bho, dove mi portano i piedi.

Quanto a lungo dovrò camminare? Fin quando non ne avrò abbastanza suppongo.

Cos'è che mi aspetto di trovare? E chi lo sa, forse una meravigliosa pozza d'acqua avvelenata che mi farà morire tra atroci sofferenze.

Un altro pensiero mi attraversa la mente: “Non berrò niente, neanche dovessi trovare una fonte d'acqua cristallina con tanto di cascata.”

Senza ulteriori esitazioni, con il bastone in spalla, comincio a camminare.

 

Per darmi un aria da duro, visto che so che tutta Panem mi sta osservando (chissà dove sono messe le telecamere. Sotto i miei piedi? Sono piccole come granelli di sabbia e sono ovunque? È il sole stesso un'enorme telecamera?) mentre cammino fischietto allegramente. Per lo più, è un messaggio per Bill, visto che il mio fischiettare non fa altro che ripetere le melodie che lui canta così abilmente.

Ma dopo quelle che, ad occhio e croce, mi sembrano tre ore di cammino, ho le labbra così secche che non mi riesce di fischiare neanche forzandomi.

Anche passandoci sopra la lingua, le labbra non si inumidiscono. Sfido io, non ho più saliva.

Il calore che sale dal terreno mi ha asciugato la bocca, la gola, anche i polmoni. Mi sembra di non avere altro che aria rovente nella cassa toracica. È come se bruciassi da dentro.

Quel che è peggio, è che so che non è altro che l'inizio.

Non so cosa succede al corpo quando non si beve per lungo tempo, non so quali sono i sintomi patologici della disidratazione, so solo che quando succederà sarà un continuo avvicinarsi alla morte.

Deglutisco a vuoto, non c'è niente da mandare giù.

Ho la vescica piena. Dovrei farla da qualche parte. Però non mi va di sprecare liquidi preziosi, né di farmi vedere mentre mi tiro fuori il pisello per pisciare in diretta nazionale. So che succederà comunque, ma sapere di essere in una sterminata distesa di nulla non mi aiuta a concentrarmi.

E poi, male che vada, potrei sempre...berla, no? Per questo non posso sprecarla adesso.

Com'è che si dice? A mali estremi, estremi rimedi.

Quindi stringo le gambe e continuo a camminare.

Su questa sabbia è difficile avanzare per più di qualche metro senza sprofondare fino alla caviglia.

È così morbida e sottile che scivola intorno al corpo, come a volerlo ingurgitare. Non è detto che se io non mi fermi succeda davvero. Questa sabbia sembra viva.

Non tira un filo di vento, e le dune sono tutte uguali: rotonde, bianche, baciate dal sole, sabbiose.

Se guardo indietro riesco a vedere la pista lasciata dalle mie impronte. Potrei tornare indietro al punto di partenza seguendo i miei stessi passi.

L'aria è così calda che tremola al livello del terreno. È strano vederla vibrare. È una danza ammaliante e mi sento ondeggiare anch'io con essa.

Cerco di respirare con il naso, anche se la fatica mi porterebbe a spalancare la bocca e aspirare più aria possibile. Ma so che entrerebbe solo aria calda, aria rovente, aria da fornace, e tutto quello che non voglio è ritrovarmi i polmoni ancora più carichi di calore.

La maglia che indosso mi è ormai appiccicata dappertutto. Anche se il tessuto è traspirante e non irrita a contatto con la pelle, è inevitabile sentirsene infastiditi. È talmente bagnata da essere diventata trasparente.

 

Le vertigini cominciano dopo circa sei ore di marcia.

Sono stato attento alla posizione del sole, quindi sono abbastanza sicuro del tempo che scorre. Quella dannata lampadina gialla si muove a scatti. Precipita verso l'orizzonte di una tacca allo scadere di un'ora.

Da quando sono partito ha percorso sei scatti nel cielo. Quindi devono essere passate sei ore.

Sei ore in cui non è successo assolutamente nulla.

Sembra strano che gli Hunger Games siano così tranquilli.

Non ci saranno spettatori annoiati davanti al televisore?

L'unica scusa che mi viene in mente è che ci sia qualcosa di interessante che sta accadendo da qualche altra parte dell'Arena.

Oppure, a Panem è notte, e nessuno sta guardando la televisione.

Tengono i tempi morti per farci soffrire un po' così che quando comincia l'azione siamo ormai inselvatichiti dalla stanchezza, dalla fame e dalla sete.

Mi viene naturale fare un sorrisetto. Potrei averci azzeccato.

Quindi perché darsi la briga di continuare a camminare? Potrebbe essere un buon momento per riposarsi. Soprattutto adesso che il mondo mi gira intorno e mi sembra di non riuscire più a camminare dritto.

Mi stropiccio gli occhi, nel tentativo di capire se è colpa del caldo o se comincio ad avere anche le visioni. Perché il mondo ondeggia troppo, la distorsione sembra quella di un televisore che non prende bene il segnale.

Da qualche parte nella mia testa sento il canto di una cicala.

Questo caldo mi ricorda l'estate nel mio Distretto, le giornate passate a dormire in giardino alla ricerca dell'ombra, delle tazze di tè alla menta ghiacciato che mia madre preparava e lasciava sul tavolo della cucina, con la condensa che si formava sul vetro della brocca e finiva sul tavolo, raccogliendosi in piccole pozze d'acqua fresca...

Quando riapro gli occhi, mi ritrovo supino sdraiato sulla sabbia.

Non so come ci sono arrivato, ma credo che alla fine il caldo mi abbia fatto sconfitto.

Il bastone è a qualche metro da me. Provo a tendere un braccio per prenderlo. Se avessi un braccio di gomma potrebbe allungarsi e riempire quella distanza, così da permettermi di afferrarlo senza muovermi.

Scuoto la testa e un barlume di coscienza si fa strada nella nebbia della mia mente.

Non posso rimanere sdraiato qui.

Mi tiro faticosamente su a sedere e sbuffo.

Ho sabbia dappertutto. Nelle scarpe, nei vestiti, tra i capelli, in bocca. Il bisogno di bere è direttamente proporzionale a quello di andare in bagno.

Le braccia e le gambe mi fanno male, sembrano pesare una tonnellata.

Sento che non riuscirò ad alzarmi quando ci provo, e invece eccomi di nuovo in piedi, eccomi che mi avvicino al bastone e lo raccolgo, eccomi che ricomincio a camminare.

Mi sembra di vedermi da fuori, come se questo corpo non mi appartenesse.

Mi volto verso il sole e constato con una punta di terrore che è sceso di altre tre tacche. Sono rimasto svenuto sulla sabbia per tre ore? Non me ne sono neanche accorto.

Il bastone più che un'arma ora come ora mi sembra un sostegno, e come tale lo uso per aiutarmi a camminare.

- Fermati un po' Tom. -

Dice una voce alle mie spalle.

Mi volto di scatto, con il cuore che solo adesso sento battere furioso nel petto e nelle tempie.

Non c'è nessuno. Solo la sabbia, il sole, e il calore.

Devo essermi sbagliato.

Riprendo a camminare.

Sento qualcosa che mi sfiora le spalle e per poco non mi metto a tirare fendenti con il bastone a destra e a manca.

Quando mi volto, con impazzito di paura, continuo a non vedere niente.

Ma che diavolo succede.

Mi stropiccio ancora gli occhi e mi do due schiaffetti sul volto. Calma.

Per qualche strana ragione comincio a camminare all'indietro come un gambero, con gli occhi ben fissi sulla scia di impronte che si perdono nel deserto.

- Tom, Tom. -

La voce si è spostata di nuovo alle mie spalle.

Comincio a credere che non si sia mossa affatto, e che venga sostanzialmente solo dalla mia testa.

Vorrei poterla spremere fuori, ma credo che sia impossibile.

Il calore che sale dalla sabbia mi da la nausea. Mi entra nel naso e mi fa girare la testa come vapore velenoso.

Do un colpo con la punta del bastone sul terreno. Con mi sommo stupore, invece di incontrare il morbido della sabbia il bastone cozza contro qualcosa di duro, tanto che il rumore che ne scaturisce è un tonk.

Inarco un sopracciglio. Mi abbasso per vedere cosa ci sia nascosto sotto la sabbia.

La spazzolo via con il palmo della mano.

Sembra un elmo, un elmo nero, o un pezzo di un'armatura.

Ci busso sopra con le nocche, sollevando un rumore sordo, una lunga serie di tonk tonk tonk.

Tolgo via altra sabbia. C'è un altro pezzo nero, lucidi e concavo proprio come il primo.

Che razza di posto per nascondere un'armatura.

Non si riesce a capire che pezzi siano, perché bisognerebbe riesumarli dalla tomba di sabbia in cui sono finiti, e ci vorrebbe un'intera giornata di scavo.

Però è comunque strano che siano qui.

Mentre ancora mi sto domandando come mai gli Strateghi hanno nascosto un'armatura in mezzo al deserto, sento uno scorrere di sabbia alle mie spalle, come di qualcosa che si solleva scaricando una cascata sabbiosa sul terreno.

Deve essere l'istinto ad aiutarmi, perché riesco a difendermi con il bastone prima che un enorme pungiglione nero mi si conficchi nel torace.

Con mio sommo orrore, mentre faccio forza per impedire al pungiglione di spezzare il bastone e trafiggermi, realizzo di avere davanti una lunga serie di placche nere, arcuate sopra la mia testa, che terminano proprio quel pungiglione. Placche nere e lucide, dello stesso colore e consistenza dei pezzi di armatura che ho intravisto nella sabbia.

La coda di uno scorpione.”

Che stupido!

Il terreno sotto i miei piedi vibra, mentre il gigantesco animale si libera dalla presa della sabbia.

Perdo l'equilibrio e scivolo in avanti.

Il corpo dello scorpione si solleva dalla sabbia, mostrando il carapace nero carbone, così in contrasto con la sabbia bianca da fare male.

Scivolo sul suo dorso senza trovare un appiglio, finché non vengo scaraventato a terra.

Non ho il tempo di lamentarmi del dolore alla schiena, perché le enormi chele dello scorpione schioccano a poca distanza dalla mia testa.

Scarto in un lato, e sento la morsa delle chele chiudersi intorno ad un rasta, che cade nella sabbia.

- Gioca con noi, Tom. -

Squittisce lo scorpione. La voce che ho sentito per tutto questo tempo, era la sua.

Un brivido gelido di terrore mi corre su per la schiena.

Vorrei urlare, ma ho la gola tanto secca da non riuscire neanche a respirare.

Lo scorpione è qualcosa di gigantesco, le chele sono grandi quanto tutto il mio torso, la testa almeno il doppio, il pungiglione da solo potrebbe essere alto quanto me.

Le quattro paia di zampe spostano il mastodontico corpo verso di me.

- Gioca con noi, gioca con noi. -

Non so da dove venga quella voce, ma mette i brividi, come unghie che graffiano una lavagna.

Gli occhi dello scorpione grandi quanto la mia testa, e sono neri, neri come la notte, neri come la paura più oscura.

Sembrano coscienti, tremendamente coscienti. Lui sa chi io sono, lui è progettato per uccidermi, lui è qui per farmi a pezzettini con quelle chele gigantesche e poi divorarmi lentamente mentre sono ancora vivo.

Stringo con forza il bastone con entrambe le mani. Non si direbbe, ma ho ancora sudore da versare, perché sento la presa che scivola, per come sono bagnati i palmi.

In alto, al termine della lunghissima coda inarcata in avanti, il pungiglione a forma di bulbo gronda veleno. Se dovesse ferirmi anche solo di striscio sarebbe come firmare la mia condanna a morte.

- Non sei un po' troppo cresciuto per giocare? -

Mi viene da dire con un mezzo sorriso.

È il Tom animale da palcoscenico che prende il sopravvento sulla paura.

Anche se la voce è rauca, asciugata dal caldo, riesce comunque ad essere chiara e ferma.

Lo scorpione rimane un attimo a fissarmi, come se stesse pensando alla migliore risposta da dare alla mia domanda.

- Gioca. -

Sibila, e prima che possa aggiungere altro si lancia all'attacco.

Se non fossi così stanco e spossato dalla lunga camminata nel deserto, forse sarei più abile a deviare i suoi attacchi. Anche se lui è grosso e lento, io sono appesantito dalla stanchezza.

Il pungiglione scatta in avanti, nel tentativo di infilarmi ben bene come un olivo in un cocktail. Mi butto a destra, rotolando sulla sabbia.

Con una mano tiro fuori dallo stivale il coltello.

Mi ritrovo con bastone e un coltello a combattere contro un mostro da duecento tonnellate.

So di per certo che il carapace dell'insetto non ha alcun punto debole, perché è come una corazza che lo protegge completamente.

L'unico punto in cui potrei infilare la lama del coltello, è quello spazio tra una placca e l'altra della sua armatura, tra i tendini e i legamenti molli. Ma per arrivarci devo sfidare due chele e un pungiglione carico di veleno.

Lo scorpione mena un fendente di piatto con una chela. Non riesco ad evitarlo e mi prende in pieno.

Vengo scaraventato lontano e rotolo sulla sabbia.

Il fiato mi si mozza in gola. Credo che quel colpo mi abbia rotto una costola, o due, perché riesco appena a respirare.

Mi tiro su con le gambe tremanti, reggendomi il petto.

Lo scorpione schiocca le chele verso l'alto, in segno di vittoria.

- Non hai mica vinto, brutto bestione. -

Ringhio.

Cerco di riempirmi i polmoni d'aria e parto all'attacco.

L'animale si stupisce di tanta intraprendenza e rimane immobile per un attimo, dandomi la possibilità di saltargli sul dorso.

Si accorge un secondo troppo tardi che gli sono addosso, ma non gli impedisce di cominciare a sgroppare violentemente come un cavallo imbizzarrito.

Prima di essere catapultato via, faccio l'unica cosa che mi sembra sensata: con tutta la forza che ho, infilo il coltello tra una placca e l'altra della corazza nera.

La lama si conficca fino all'elsa, e ben presto mi ritrovo schizzato di sangue nero. A contatto sulla pelle sfrigola come olio bollente.

Urlo di dolore ma stringo la prese e i denti, mentre lo scorpione si agita di più.

Il coltello ben conficcato nella sua carne è un punto fisso a cui aggrapparsi.

Lui prova a colpirmi con il pungiglione, ma per quanto la coda possa inarcarsi, non può raggiungermi in quella posizione.

Estraggo il pugnale con un colpo, solo per conficcarlo di nuovo nella carne dello scorpione.

Un stridulo verso di sofferenza si alza dall'animale che impazzito riesce a farmi volare via.

Per la terza volta mi ritrovo a rotolare sulla sabbia, che mi entra dappertutto, in bocca, nel naso, forse ne inghiotto un po'.

Tossisco e provo a rialzarmi.

Lo scorpione è pazzo di rabbia. Carica come un toro ed io sono disarmato. Nel tentativo di colpirlo con il pugnale ho perso il bastone.

Riesco quasi a sentire il dolore dell'impatto quando mi sarà addosso con tutto il suo peso.

Un'ondata di adrenalina mi riempie le gambe, e mi permette di schivare il colpo mortale, ma non il colpo e basta.

Una delle sue chele si conficca nel mio addome. Il sangue schizza via dalla ferita. Un ricordo leggero e fugace mi riempie la visuale: io e Bill che riempiamo palloncini con della vernice, e ci divertiamo a lanciarceli addosso. Nello stesso momento in cui un palloncino pieno di vernice rossa mi esplode addosso, mia madre esce in giardino e lancia un grido. Corre al mio fianco, tremante e pallida, ma io sto ancora ridendo. Lo schiaffo mi arriva in pieno volto, insieme alle lacrime di mia madre. Credeva che la vernice rossa fosse sangue. Non l'abbiamo più usata per riempire i palloncini.

Cado sulla sabbia, sbattendo la schiena.

Il dolore è forte, troppo forte, ma invece di farmi perdere i sensi rende tutto più intenso. La luce del sole è più bianca e più calda, la sabbia sotto la pelle ipersensibile sembra quasi cartavetrata, l'odore del sangue mi brucia le narici mentre il suo gusto ferroso mi riempie la bocca, l'urlo vittorioso dello scorpione mi perfora i timpani.

Lo vedo avanzare verso di me, gongolante, con il pugnale ancora conficcato sulla schiena.

Non gli ho fatto neanche il solletico, ed ora sarò il suo pasto.

Non riesco a chiudere gli occhi di fronte a quella morte fatta insetto che si avvicina facendo schioccare le chele.

C'è ancora il mio sangue, e parte dei miei vestiti, su una di esse.

Non riesco a tirarmi indietro. Tutta la parte destra del mio corpo è come paralizzata. Forse anche le chele sono avvelenate.

Ma quando si ha dalla propria un corpo tanto gigantesco, a che cosa serve il veleno?

C'è qualcosa di ancora più grande da cui questo bestione deve difendersi?

Capisco che dovrei pensare alla mia imminente dipartita, ma per qualche ragione riesco a pensare solo alla cosa ancora più grande e più pericolosa dello scorpione che si nasconde sotto la sabbia rovente di questo deserto.

Mi guardo intorno spaesato, come se fossi pronto a vederla affiorare da un momento all'altro, come un enorme squalo di terra.

Lo scorpione si avvicina. Nei suoi occhi leggo il chiaro desiderio di cibarsi della mia carne. Sembra quasi che sorridano, quegli occhi, brillanti e cattivi.

- Spero di andarti di traverso. -

Gli dico, ridendo. Una boccata di sangue mi arriva alla bocca, facendomi tossire.

Le mie ultime parole sono rivolte ad uno stupido insetto.

È comunque una morte di tutto rispetto, mi sono difeso, ho combattuto nonostante fossi allo stremo, non ho niente da rimpiangere.

O meglio, ho tutto da rimpiangere, ma non posso andarmene pensando a tutto quello che non ho fatto, altrimenti rimarrei inutilmente aggrappato ad un filamento di vita.

Lo scorpione si avvicina, fa dondolare avanti e indietro il pungiglione. Sento nascere il lui il desiderio di infilarmi, e mostrarmi come un trofeo davanti ai suoi amichetti scorpioni.

Carica indietro la coda, come una fionda, e si prepara a colpire.

Allora chiudo gli occhi e penso a Bill, a mia madre, a mio padre...e ad Astrid.

Zack.

Zack?” penso, confuso.

Aspetto con gli occhi serrati un colpo che non arriva mai.

Quello che mi arriva è un tonfo, il tonfo di qualcosa di rotondo, grosso e pesante che cade sulla sabbia.

L'urlo dello scorpione mi esplode nelle orecchie, tanto forte che devo portarci le mani sopra per proteggerle.

Allora mi azzardo ad aprire un occhio e rimango a bocca aperta.

Il pungiglione è riverso sulla sabbia, ad un metro da me, tranciato di netto dalla coda, che ora si agita nel vuoto grondando sangue nero.

Prima che riesca a capire da dove è partito il colpo, e chi l'ha sferrato, lo scorpione mi rifila una zampata allo stomaco, nel tentativo di voltarsi verso il nuovo assalitore.

Il colpo di sbalza lontano.

La ferita all'addome manda in corto circuito il cervello, che si traduce con due parole: black out.

Un sipario nero mi cala sugli occhi, e perdo i sensi.

 

The Corner

Salve a tutti e a tutti ben trovati!
sono tornata! evviva!
quanto siete contenti da uno a un milione?! XD
l'unica storia che non sono riuscita ad aggiornare stavolta è "Humanoi Universe 2",
ma prima della fine della settimana arriverà il capitolo nuovo anche di quella!
ora però, ho bisogno del vostro parere!
c'è una storia che preferireste portassi a termine nell'immediato?
la scelta è tra:
Call my name ad save me from the dark
Hunger TH
Humanoid Universe 2
Tierfreunde.
gestirle tutte non è proprio la cosa più semplice del mondo...
quindi tocca a voi!
raccoglierò le vostre opinioni e la storia che avrà ricevuto più "voti" sarà la prescelta!
in ogni caso, ci si sente giovedì 12 Settembre con gli aggiornamenti!
bye bye
Chii

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Capitolo 14
*** Confuso Risveglio ***


13: Confuso Risveglio

 

- Ascolta, c'è l'Inno. -

Dice una voce maschile nel buio.

Sento della musica arrivarmi soffusa alle orecchie.

- Cavolo...quanti morti... -

Risponde una femminile.

- Che fai, scherzi? Sono solo sette su ventiquattro. Per essere il primo giorno non è stato molto movimentato. -

- Mmm...forse hai ragione. -

Assisto allo scambio di convenevoli senza poter partecipare.

Non riesco ad aprire gli occhi. In generale, non riesco a muovere neanche un muscolo. Mi sembra di avere il corpo pesante come una roccia.

L'aria è più limpida e meno calda, ma anche da dietro le palpebre chiuse riesco a vedere la presenza del sole arancione: è come se mi inondasse le orbite con la sua luce forzatamente artificiale.

Il piccolo sole giallo deve essere tramontato.

Presumo, dopo aver sentito l'inno di Capitol City, che sia calata la notte nell'Arena. Non so se l'evento è collegato con lo scorrere del tempo di Panem ma...ehy, sono sopravvissuto al primo giorno, e al Bagno di Sangue. È più di quanto mi aspettassi.

Anche se devo essere ridotto male, per come mi sento.

La parte destra del mio corpo ha ripreso sensibilità, e me lo dimostra nel modo peggiore che esista: pulsa, brucia, urla di dolore.

Da qualche parte sul viso e sulle braccia, la pelle mi tira, ustionata per colpa del sangue nero dello scorpione.

Quelle due costole rotte che avevo ipotizzato di avere devono essersi moltiplicate perché non mi riesce neanche di prendere un respiro appena più profondo che il dolore mi paralizza.

È un piccolo prezzo da pagare per essere ancora vivi.” mi dice la coscienza e, cavolo, mi sa che ha ragione.

- Pensi che ce la farà? -

Dice la voce femminile.

C'è un attimo di silenzio in cui mi sento stranamente osservato, come se l'interlocutore mi stesse studiando per accertarsi di persona della risposta che dovrà dare.

- Non lo so. -

Risponde la voce maschile.

Quello che so io è che stanno parlando di me come se fossi spacciato.

Sono ridotto così male?

Comunque sia, non riconosco le loro voci. È quasi sicuro che siano una coppia di Tributi dello stesso Distretto, altrimenti non sarebbero stati così collaborativi e tranquilli tra di loro. O almeno credo.

Quello che mi chiedo è come mai non mi abbiano lasciato morire. Sarebbe stato più facile senza avermi tra i piedi.

Forse alla fine si sono mossi a pietà e mi hanno soccorso.

Fingendo di salvarmi, si toglieranno dalla coscienza il peso di una morte ingiusta. Potranno sempre dire “noi ci abbiamo provato”.

Che sia un modo per far tacere i sensi di colpa o un semplice slancio di genuino altruismo, devo a questi due la mia vita.

Questo renderà molto più difficile ucciderli, poi.

Riesco a tirare su le palpebre, con enorme sforzo, neanche stessi sollevando un elefante.

Sopra di me, invece del cielo arancione e del sole altrettanto arancione, vedo il telo di una tenda, piccola, striminzita, sufficiente a malapena per una persona. Infatti il mio corpo steso occupa tutto lo spazio disponibile.

Tendendo le orecchie sento lo scoppiettare di un fuocherello e un vuoto mi prende lo stomaco.

Dove avranno trovato la legna per accenderlo?

Ma soprattutto: vogliono farsi ammazzare o cosa?

Mi verrebbe voglia di alzarmi e spegnere quel fuoco a mani nude, se non fossi completamente impossibilitato dall'utilizzare il mio corpo.

Con quel fuoco mettono in bella mostra la nostra posizione.

È come disegnarsi un fatidico bersaglio sulla schiena.

Sono dei pazzi!

Non sono più sicuro di essere felice di essere stato salvato da loro.

Ma chi diavolo sono questi due idioti che hanno avuto la brillante idea di accendere un fuoco nel bel mezzo del nulla solo per farsi vedere da tutti gli altri Tributi?

- Vado a controllarlo. -

Dice la ragazza. La intravedo mentre si alza e viene verso la tenda.

Per istinto serro gli occhi.

Sento che lei entra e si avvicina strisciando. Cerca di evitare ogni spostamento brusco, come anche evita di toccarmi più del dovuto.

Appoggia una mano fresca sulla fronte gelida. Solo ora mi rendo conto di quanto caldo sia il mio corpo.

Avrei dato la colpa al deserto e alle sue temperature impossibili, ma credo che questo venga tutto da dentro di me. Devo avere la febbre, e anche molto alta.

Sento che la ragazza sospira.

- È caldissimo. -

Sussurra, rivolta al suo compagno di sventura.

Lui, invece di rispondere, si avvicina alla tenda.

Riesco a guardare da sotto le ciglia la sua ombra nera che rimane fuori dall'ingresso, per evitare che l'ambiente diventi troppo affollato. Già basto io a riempirlo.

- È la reazione al suo corpo per la ferita. Dobbiamo solo sperare che le medicine funzionino. -

- Già. - risponde solo lei, parecchio laconica. Una medicina? Hanno più di una medicina? E dove l'hanno trovata? - Chissà chi gliela manda... -

Continua la ragazza, con fare trasognante.

- Qualche sponsor, chi altro. -

Ah, la medicina è arrivata direttamente dal cielo come una manna. Della serie “qualcuno lassù mi vuole bene”. Grazie papà.

- Di certo gliene manderanno molte altre. È dannatamente popolare. -

Lei non sembra invidiosa, sembra solo rassegnata. Come se tutto quello che io sono e rappresento fosse per lei fonte di dolore, come se già con la mia sola esistenza le dessi dei problemi. Però, non sento in lei nessuna minaccia. Non le interessa uccidermi, è solo dispiaciuta che non sia toccato a lei quello che invece è toccato a me.

- Per questo è meglio se ce lo teniamo amico. Se lo trattiamo bene, potrebbe condividere con noi i doni che gli mandano gli sponsor. -

Oh sì, questo è un buon piano. Mi piaci, ragazzo. Forse anch'io mi sarei comportato così se mi fossi trovato nella stessa situazione.

Questo è un armistizio da cui quei due possono guadagnare qualcosa, visto che loro mi hanno salvato la vita ed io gli devo il favore.

- Sì, ma poi...? -

Insinua la ragazza. Parla un po' troppo per i miei gusti.

Lei non lo sa, ma tutta Panem deve aver visto che ho riaperto gli occhi e che sono cosciente. Tutta Panem sa che qualsiasi cosa loro dicano, io la sentirò.

- Poi vedremo. -

Sbotta il ragazzo, un po' arrabbiato. Non è detto che non le abbia lanciato un'occhiataccia. Forse ha capito che non bisogna parlare di certi argomenti, neanche in presenza di una persona prima di conoscenza.

Lei risponde solo con un timido “va bene”.

Il ragazzo si ritira, va a ravvivare un po' il fuoco, mentre lei rimane ancora nella tenda. Sento il suo sguardo apprensivo percorrermi tutto il corpo, alla ricerca di qualcosa, che cosa sia questo qualcosa lo sa solo lei.

Mi tasta il fianco destro con la punta delle dita, cercando di essere delicata, ma la parte è così sensibile che sento un fremito inarcarmi appena la schiena.

Chiunque fosse stato abbastanza sveglio da capire, si sarebbe accorto che quello era il primo sintomo di una ripresa di coscienza. Avendo reagito allo stimolo fisico, seppur senza volerlo, mi sono fregato da solo.

Però lei non sembra farci caso, anche se non potendola vedere negli occhi non potrei dirlo.

La sento sospirare e poi esce dalla tenda.

Anch'io posso lasciarmi andare ad un sospiro.

 

Devo essermi addormentato, perché quando riapro gli occhi la luce del sole giallo irrompe prepotente nella tenda.

Si prospetta un'altra caldissima giornata nel deserto. O almeno, si prospetterebbe se non sentissi nell'aria il cinguettare di contentissimi uccelli. Il canto allegro che si rivolgono mi lascia perplesso: da dove sono spuntati fuori degli uccelli?

- Ah, sei sveglio! -

Non ho fatto in tempo a chiudere gli occhi, perché non mi sono neanche accorto che qualcuno stava entrando nella tenda.

La ragazza mi si avvicina con grande fretta e posso finalmente dare un volto alla sua voce.

È la ragazza del Distretto 8.

Come tutti i Tributi donna di quest'edizione (a parte l'eccezione delle favorite) è una cosina piccola piccola, per niente alta, non adatta a tutto ciò che si trova dentro l'Arena.

Ha lunghissimi capelli color mogano che le ricadono dolcemente sulle spalle. Dello stesso colore e intensità ha gli occhi.

Nel complesso, il suo viso è abbastanza comune, non stravolgente in bellezza, ma c'è qualcosa nel modo in cui arriccia le labbra in un sorriso che la fa sembrare speciale.

- Pensavo che non ti saresti svegliato più. -

Dice, quasi con le lacrime agli occhi.

- Pensavo di rimandare l'ora del sonno eterno almeno di qualche giorno, veramente. -

Le riesco a dire.

La mia voce non mi sembra neanche più la mia. È così raschiata e rauca da darmi l'impressione di aver gridato per ore e ore, ininterrottamente.

Provo a schiarirmi la gola, con il solo risultato di sentire il sangue inondarmi la gola.

- Aspetta, ti porto dell'acqua. -

Mi acciglio.

Oltre ad una tenda e alle medicine...hanno anche dell'acqua?

Potrei perdonargli lo smacco del fuoco da campo.

La ragazza esce, tutta trafelata. Ha un modo frettoloso di fare le cose che si addice a chi è abituato a non tenere mai ferme le mani, ai lavoratori precisi ed efficienti delle grandi industrie.

Ritorna in un lampo con una borraccia che gronda acqua. Solo alla prospettiva di potermi bagnare le labbra mi viene il batticuore.

- Ce la fai da solo o ti aiuto? -

Provo a tirarmi su a sedere, ignorando il corpo che urla qualcosa come “noooo, smettila! Basta! Torna giù!”.

Rinuncio quando uno stiletto di ghiaccio partito dal petto mi mozza il fiato in gola.

- Se potessi aiutarmi tu te ne sarei molto grado. -

Le dico, quasi sputandolo tra i denti. È faticoso anche parlare.

Lei mi sorride, di nuovo quel modo piacevole che ha di arricciare le labbra mi solletica.

Mi si avvicina e mi solleva il capo, con delicatezza, poi mi poggia la borraccia tra le labbra. Quando la prima goccia d'acqua le bagna mi sembra di essere appena arrivato il paradiso.

Se sono morto nel deserto e questa è una specie di ricompensa per la mia terribile dipartita, allora sono ben felice.

Anche se vorrei bere tutta la borraccia in un sorso solo, lei mi spinge tra le labbra la quantità giusta per non soffocare, o per evitare al mio stomaco desolatamente vuoto di rigettare il prezioso fluido.

Oh, a proposito: non devo più fare pipì. Spero di non essermela fatta addosso mentre ero svenuto.

- Hai fame? Abbiamo catturato qualche pesce. -

La mia espressione deve parlare da sola perché mi volto a guardarla come se fosse impazzita.

- Pesce? -

Le chiedo soltanto, sperando di aver capito male. Al massimo può aver detto “scorpione” dato che il nostro essere vivi deve corrispondere alla morte di quel dannato insetto.

Lei ridacchia.

- Sì, pesce. - visto che continuo ad essere confuso e la mia faccia continua a non essere delle migliori, lei mi sorride - L'Arena è cambiata di nuovo. -

- Oh. -

Riesco a dire soltanto.

In effetti, così ha tutto più senso.

All'improvviso mi mette tra le mani una scatolina nera a cui è appeso un piccolo paracadute argentato.

- L'hanno mandato per te. Te la saresti vista molto brutta senza. - apro la scatola e vi trovo un paio di flaconi di un liquido denso dai riflessi dorati e una siringa con un ago poco confortante: deve essere lungo almeno dieci centimetri - Non sappiamo che medicina sia, però da quando te l'abbiamo iniettata hai cominciato a migliorare a vista d'occhio. -

- Deve essere costata un sacco. -

Mi viene da commentare. Sembra una specie di lamento dal tono di voce in cui l'ho detto.

Da qualche parte a Panem deve esserci qualcuno che sta facendo i salti di gioia: il suo pupillo è ancora vivo.

Mio padre ha fatto davvero un buon lavoro. Vorrei poterglielo dire. Chissà, magari al mio ritorno, quando i Giochi saranno finiti...

- Sì, molto. - concorda lei, che non immagina neanche a quante e quali cose io stia pensando in questo momento - Però sarebbe servito a poco se non ti avessimo ricucito. -

- Ricucito? -

Mi invita con un gesto a guardare le condizioni del mio fianco.

Mi viene da sgranare gli occhi.

Dal pettorale fino fino all'attaccatura della gamba corre una cicatrice gonfia e rossa, spessa almeno quattro dita. La pelle è ricucita insieme da punti di sutura improvvisati che sembrano le cuciture di un vestito.

- Sono all'incirca mille e quattrocento punti. -

Dice lei, a cuore leggero, come se stesse parlando di una cosa normalissima.

Ehy, ti ho appena riattaccato una parte che ti eri perso per strada e con solo mille e quattrocento punti!

- Accidenti. Una bella toppa. -

Sudo freddo, ma non riesco a perdere il sorriso. Quello mi serve per le telecamere.

La ragazza annuisce, seria.

- C'era molta sabbia nella ferita e temevamo che le chele dello scorpione fossero piene di batteri. Se l'Arena non fosse cambiata di nuovo probabilmente saresti morto. Invece il cambio è avvenuto proprio al momento giusto. Ci siamo ritrovati in questa radura, vicino ad un corso d'acqua pulita, e abbiamo potuto provare a rimetterti insieme. C'era sangue ovunque, non è stato facile. -

- Immagino. -

No, in realtà non mi viene proprio da immaginare.

Stringo i pugni così forte che vedo le nocche sbiancarmi.

Se sono vivo è davvero per miracolo. Prima quei due che mi salvano dallo scorpione, poi il cambio azzeccato di look dell'Arena, poi l'acqua, poi le medicine. E ho ripreso coscienza solo nel giro di una notte.

Quante cose potevano andare storte che in realtà erano andate benissimo?

Qualcuno vuole veramente che io sopravviva.

- Quelli non sono punti di sutura medici. - mi avverte lei, io la guardo senza rivolgerle la domanda implicita - Abbiamo usato del normalissimo ago e filo, quindi ci è voluto un po'. - rimane un attimo in silenzio, come a calcolare tutto quello che ci potrebbe essere di non detto nelle sue parole e che potrebbe sconvolgermi meno - Però nel nostro Distretto ci insegnano a cucire ancora prima di cominciare a camminare. - si affretta ad aggiungere - Josei mi ha dato della stupida quando alla Cornucopia ho raccolto un set da cucito. E invece... -

Gliene do atto, visto che sono ancora vivo.

La ferita è bella grossa, come lo sarà anche la cicatrice che ne verrà fuori.

Però il filo sembra reggere, e a parte un dolore diffuso e per niente piacevole (e la febbre) mi sento anche abbastanza bene.

Insomma, sarei potuto essere morto e non sentire proprio niente. Sono contento di provare ancora qualcosa, anche se quel qualcosa è dolore.

- Non ti muovere ancora, eh. Anche se la medicina sta facendo miracoli, è meglio se rimani sdraiato a riposo il più possibile. - mi avverte. Come se non lo capissi da solo. Ora come ora non credo che sarei in grado di andarmene da nessuna parte, medicina o meno. - Ti porto qualcosa da mangiare. -

Conclude, e fa per alzarsi.

- Aspetta. - le dico, lei si blocca all'improvviso. Cerco di rivolgere un sorriso alla ragazza che mi ha ricucito con mille e quattrocento punti con del semplice ago e filo. - Potresti dirmi il tuo nome? -

Non vorrei dover fare il discorso: “anche se mi hai salvato la vita, non mi ricordo assolutamente come ti chiami. Sicuro ho visto la tua faccia e sentito il tuo nome mille volte quando eravamo a Capitol City, ma non l'ho registrato proprio perché non eri interessante.”

Lei però capisce. Mi risponde con un sorriso cordiale.

- Mi chiamo Lewe. -

- Lewe, ok. Io sono Tom. -

Anche se nei suoi occhi vedo scritta la frase “lo so”, lei evita gentilmente di dirmela.

Esce fuori dalla tenda per andare a prendere da mangiare.

L'altro Tributo non deve essere al campo.

Cerco di mettere in ordine i pensieri, ma c'è talmente tanta confusione che quasi mi frigge il cervello.

Non ho chiesto a Lewe che fine ha fatto lo scorpione.

Deve essere stato il suo compagno (Josei, credo) ad ucciderlo. Con una spada, suppongo, visto che gli ha tranciato di netto il pungiglione.

Mentre lei si fermava a raccogliere set da cucito, lui aveva affrontato i Favoriti per prendere una spada.

Erano stati abbastanza fortunati. Io ho preso solo un bastone, e rubato un coltello ad un morto.

loro invece sono stati scaltri e veloci nel prendere dell'attrezzatura da campo, utile o meno che fosse.

Mi sento uno stupido. Chiunque sarebbe riuscito ad acchiappare qualcosa di meglio, non quello schifo che ho preso io. Che tra l'altro non so più dov'è finito.

Forse nel cambio di look dell'Arena è semplicemente svanito nella sabbia.

Addio alle mie uniche armi.

Automaticamente mi porto una mano al petto. La collana di mia madre è ancora lì. Tiro un sospiro di sollievo al solo toccarla. Mi fa sentire le persone che amo un po' più vicine.

È la stessa strana sensazione che mi da la scatola contenente la medicina. È frutto dell'impegno e del sacrificio di qualcuno che, nel bene o nel male, vuole che io viva.

Che sia uno sponsor desideroso di fama o che sia qualcuno che tiene veramente alla mia sopravvivenza, quella persona ha ritenuto necessario farmi il dono della vita, tanto quanto Lewe e Josei.

Nessuno di loro aveva il diritto di salvarmi, nessuno di loro era in obbligo dal fermare l'inevitabile corso degli eventi, e riportarmi indietro.

Anche se adesso non hanno chiesto niente in cambio, un giorno dovrò ripagarli per questo.

Forse, con la stessa vita che loro hanno salvato.

Lewe torna alla tenda, portando con sé un bastoncino su cui è infilato un piccolo pesce.

Lo stomaco si contorce dalla felicità sapendo che quell'affare finirà al suo interno.

Lei fa per avvicinarsi in modo da aiutarmi. Le scosto gentilmente la mano e mi tiro su da solo.

Tutto il busto mi manda un segnale assai forte e assai intenso di dolore. Lo ignoro inghiottendo un urlo e rivolgo un sorriso a Lewe mentre prendo dalle sue mani il bastoncino con il pesce.

Cerco di non sembrare più disperato di quanto io non sia, avventandomi su quella poca carne come fosse la cosa migliore al mondo.

- Spero che questo habitat duri di più. È piacevole. -

Mi dice, con un sospiro.

- Com'è? -

Ancora non ho messo il naso fuori.

- Il sole arancione continua ad esserci sulla linea dell'orizzonte, insieme ad uno blu molto molto piccolo e non particolarmente caldo. Sembra un bosco di querce o qualcosa del genere. Ci sono parecchi animali e acqua. -

Ci rifletto su mentre mangio.

Non può essere una trappola, altrimenti avremmo trovato qualcosa di commestibile e bevibile anche negli altri habitat.

- Forse questo è l'unico posto dove troveremo acqua e cibo. -

Concludo, e credo di avere ragione.

Lewe annuisce.

- Anche Josei ha detto lo stesso. Per questo stiamo cercando di fare scorta il più possibile. Potrebbero anche decidere di non far tornare questo posto per un po'. -

Mi viene fuori un ghigno. Tipo scaltro questo Josei, ha pensato a tutto nei minimi particolari. Vuole fortemente sopravvivere.

Finisco di mangiare in silenzio, pensando a quanto il dolore fisico non sia nulla in confronto a quello mentale che dovrò patire quando dovrò ucciderlo.




Ther Corner

Ciao a tutti e ben trovati!
a quanto sembra, le storie che hanno ricevuto più "like" sono
"Call my name and save me from the dark" e "Hunger TH"!
quindi per ora rilascerò i capitoli solo di queste storie...
ma una volta ogni due settimane aggiornerò anche "Humanoid Universe 2" e "Tierfreunde".
Domani (è l'una di notte al momento D:) ho un brutto esame cattivo all'università,
al pomeriggio posterò il capitolo di "Humanoid Universe 2"!
A giovedì 19 Settembre :)
Chii

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Capitolo 15
*** La Notte Arancione ***


14: La notte arancione

 

Lewe mi guarda mangiare, e la cosa un po' mi insospettisce.

Non è che ha avvelenato il pesce...vero?

No, impossibile. Che senso avrebbe avuto altrimenti il salvarmi dallo scorpione per poi avvelenarmi con il cibo?

Oltre che impossibile è anche improbabile. E sarebbe anche sadico, terribilmente sadico.

Quando del pesce non sono rimaste altro che le spine, raccolte educatamente su di una foglia usata a mo' di piatto, Lewe mi sorride e mi chiede se per caso non desidero dell'altro.

Mi sembra di essere in uno stranissimo e perverso ristorante, dove nel servizio è incluso l'essere ricuciti con ago e filo.

Le sorrido, un po' perplesso, e rifiuto la sua proposta anche se il mio stomaco dopo aver assaggiato quel poco di cibo ne vorrebbe ancora e ancora e ancora.

- Ti lascio riposare, ok? Quando arriverà, Josei ti somministrerà un'altra dose sella medicina. -

- Oh, sì, va bene. -

Un altro sorriso, e lei esce fuori dalla tenda.

Non appena rimango solo, le mie mani corrono sulla ferita.

È calda al tatto, gonfia e pulsa come se il cuore avesse deciso di cambiare abitazione e stabilirsi lungo la linea sfaldata della cicatrice.

Ovunque la tocchi, fa un male cane. Comunque mi muova, fa un male cane. Qualsiasi cosa fa un male cane.

Come faccio a tirarmi in piedi e continuare i giochi?

Vorrei poter rimanere sdraiato per sempre, fino alla fine di questo assurdo gioco. Ho bisogno di un medico, e un'infermiera, una carina, che venga da me e mi dica che devo rimanere a letto fin quando ne ho voglia, e che mi sprimacci il cuscino e mi porti qualcosa di caldo e morbido con cui coprirmi...

Quando mi rendo conto di sembrare più disperato di quanto sembro, mi riscuoto.

No, non ho costruito un personaggio perfettamente in grado di sopportare tutto questo solo per farmelo rovinare dal mio vero io. No, non se ne parla.

Il Tom dentro l'Arena sa benissimo ingoiare il rospo, stringere i denti, e fare finta che il dolore non esista.

Muovi il culo se vuoi sopravvivere!”

Prendo un paio di boccate d'aria.

Nessuno in tutta Panem vuole vedere un degente. Vogliono un guerriero.”

Mi tiro su con enorme sforzo.

Sento un urlo nascermi in gola. Mi mordo a sangue la lingua per impedirgli di superare la barriera delle labbra serrate.

Quando mi metto in piedi, il mondo precipita nel buio e per un attimo temo che crollerò svenuto come uno stupido.

Strizzo forte gli occhi e mi costringo a rimanere cosciente finché la vista non torna e la sensazione di essere su di una giostra impazzita non scema e scompare.

Inspiegabilmente riesco a tenermi dritto. Bhè, non proprio dritto. Se provo a tirare su la schiena mi sento strappare via tutta la pelle, il che potrebbe non essere solo una sensazione.

Così rimango un po' gobbo mentre esco dalla tenda, muovendo piccoli passi uno dietro l'altro per assicurarmi che il terreno non mi manchi all'improvviso sotto i piedi.

Una luce bluastra e tiepida mi bacia subito il viso. Strizzo gli occhi per abituarli al cambio di intensità, e automaticamente tirò su il volto per guardare tra gli alberi la sagoma sfumata del sole. È blu, è davvero blu. Piccolo e lontano come una punta di spillo.

Da qualche parte, sull'orizzonte, brilla anche il gigantesco sole arancione, che mitiga un po' la luce blu del sole più piccolo.

Ci sono uccelli che cantano tra i rami più alti. Gli alberi crescono fitti gli uni accanto agli altri, così stretti da non lasciare passare che poca luce. Sembrano querce, anche se non avendo una così grande conoscenza della botanica non potrei dirlo. In ogni caso, sono alberi maestosi, tanto alti da fari girare la testa.

Quasi tutti i rami bassi sono sottili, e i tronchi hanno una corteccia liscia su cui deve essere difficile arrampicarsi.

Questo accende in me un campanello d'allarme. Se gli alberi sono stati pensati per non darci rifugio con l'altezza...allora deve esserci qualcosa di brutto nascosto a terra.

Gli occhi mi scivolano tra i cespugli immobili e il pensiero torna all'enorme scorpione che mi ha quasi ammazzato.

Quante cose enormi ci saranno disseminate qua e là per l'Arena?

Mi viene un brivido.

- Ma che fai! Non dovresti alzarti! -

Mi rimprovera la piccola voce di Lewe.

Scollo gli occhi dal cielo e cerco il suo volto.

Solo ora mi accorgo veramente di dove ci troviamo.

È una radura ritagliata tra gli alberi in maniera così perfetta da sembrare artificiale (e non lo è d'altronde?). C'è una pozza d'acqua, un laghetto appena accennato, da cui si dirama un fiumiciattolo che si perde nel verde. Tendendo l'orecchio è possibile sentire il corso dell'acqua che si allarga e si fa tumultuoso, diventando forse una cascata chissà dove e quanto lontano nel bosco.

Ci sono pesci che sguazzano nell'acqua. Quasi saltano tra le braccia di chi sia abbastanza pronto da afferrarli.

Prima che io possa partorire il pensiero “questa è tutta una trappola”, Lewe mi viene incontro. Mi poggia le mani piccole e calde sulle spalle e mi spinge un po' indietro.

- Torna dentro, rischierai che la ferita si riapra, non sta bene che tu stia alzato! -

Sono ancora troppo scioccato dalla vista del fiorente bosco e di tutta quell'acqua (Dio, mi ci voglio tuffare nudo e rimanerci a mollo una settimana), tanto che non riesco a modificare la mia espressione facciale in un sorriso da rivolgere a Lewe per tranquillizzarla mentre le rispondo:

- No, ce la faccio, mi sento bene. -

Devo averlo detto con una tale faccia inespressiva, che nessuna delle mie parole deve aver sortito l'effetto sperato.

Infatti Lewe mi guarda corrucciando le sopracciglia, forse chiedendosi se credo in minima parte a quello che mi è uscito dalle labbra.

- Certo che è proprio un gran bel posto. - butto lì. Finalmente mi si sono sbloccati i muscoli facciali e riesco a tirar su un'espressione convincente. - Mi ci costruirei una casetta e ci verrei a vivere. -

Lei ridacchia, seriamente divertita da quella battutaccia senza ironia che ho appena fatto.

- Oh, quasi dimenticavo. - fa lei. Si affretta a porgermi una maglia. - Ho ricucito anche la tua divisa. Pensavo che saresti stato contento di avere qualcosa con cui coprirti. -

Prendo la maglia sorridendo. Come se riaverla indietro potesse rendermi contento. Sono contento solo che lei sia stata così gentile con me in maniera disinteressata. O almeno credo.

- Grazie. - mi infilo la maglia stando ben attento a non tendere le braccia troppo in alto. La sensazione di potermi strappare rallenta e rende i miei movimenti più pacati e sicuri. - Non vorrei andarmene in giro con quella cosa in bella vista. -

E con “quella cosa” intendo la ferita aperta, proprio brutta, che mi taglia in due il busto.

Lewe però continua a ridacchiare. Da davvero faccio così ridere?

- Che è successo allo scorpione? L'avete ucciso? -

Lei sta quasi per rispondere, è già lì con le labbra socchiuse, quando una voce maschile lo fa al posto suo.

- L'ho ucciso io. -

Sia io che Lewe ci voltiamo verso quella voce.

Gli occhi di lei incrociano quelli di un amico, un compagno, quelli della colonna portante che l'ha fatta sopravvivere fino a quel momento.

I miei, invece, incrociano quelli di un potenziale nemico, della persona che mi ha tenuto in vita solo per approfittarsi di me e di tutto quello che mi sta intorno.

Squadro il nuovo arrivato con un sopracciglio inarcato.

Non è un ragazzo particolarmente muscoloso, e di conseguenza non sembra neanche molto forte. Per questo il mio scetticismo deve leggersi nei miei occhi, visto il modo in cui il ragazzo mi guarda.

È alto tanto quanto me, dalla carnagione pallida; i capelli sono castano scuro, con qualche riflesso dorato. Gli occhi sono taglienti fessure a mandorla, di un profondo nocciola striato di verde.

Il ragazzo si avvicina a Lewe, come a volerla proteggere da qualcosa...da qualsiasi cosa.

Ma guardiamoci in faccia: ridotto in questo stato che cosa mai potrei farle? È molto probabile che sia lei a farmi del male, piuttosto.

Ora come ora non riesco neanche ad alzare le braccia e respirare normalmente.

- Complimenti cavaliere, hai domato quel bestione e ne sei uscito illeso. -

Gli dico, con un sorriso che vorrebbe essere di scherno ma credo che non lo sia.

Ora che guardo con attenzione vedo che in una mano stringe una spada, una gran bella spada. Deve essere con quella che ha fatto a fettine lo scorpione.

Dannazione, anch'io avrei voluto prendere una spada alla Cornucopia.

Ma quanto vicino deve essere andato per riuscire ad accaparrarsela?

Stai attento, questo qui è molto più di un 6.” mi dice una voce nella testa, e so che è esattamente così.

Forse la piccola Lewe può stare bene con il punteggio che ha ricevuto dagli Strateghi, ma lui...

Dovrò guardarmi le spalle anche quando dormo.

- Tutta fortuna. Quella che tu non hai avuto. -

Fa lui, con una strisciante ironia.

Sento un groppo stringermi la gola. Questo tizio comincia a starmi sulle scatole.

- No bhè, però sono stato fortunato ad essere stato rimesso insieme come un puzzle. -

- Speriamo di non aver dimenticato nessun pezzo. -

Oddio, come mi sta sulle scatole.

Mi costringo a fargli un sorriso, e un po' a ridacchiare, scuotendo la testa.

Non mi piace che mi stai di fronte in posizione di difesa con quella spada stretta in pugno.

- Mah, io mi sento abbastanza bene. Se avete dimenticato un pezzo, non doveva essere troppo importante. -

Vorrei inghiottirmi la lingua per la stupidaggine che ho appena detto, visto che potrebbe dare adito a molte altre battutine. Ma il ragazzo, a parte dare in una breve risata, non risponde.

- Io sono Josei, comunque. -

Si presenta lui, dopo un tempo che mi pare infinito. Conficca la spada nel terreno e si avvicina per porgermi la mano. Non so che cosa voglia dire (se è un modo amichevole per presentarsi o cos'altro) ma gliela stringo.

- Io sono Tom. Ma penso che tu già lo sappia. -

Mi posso concedere uno slancio di modestia.

Lui non ne sembra particolarmente contento, infatti fa una strana smorfia.

- Bhè, comunque, che cosa ci fai in piedi? Sei ancora convalescente. -

- Nah, sto benissimo. -

Vorrei poterlo dimostrare facendo doppio salto carpiato all'indietro, ma se respiro un po' più profondamente una stilettata di dolore mi taglia in due il petto.

- Non credo, è una brutta ferita. E i punti che ti abbiamo dato potrebbero non reggere. È solo cotone. -

Insomma, mi sta dicendo che non è ancora venuto il momento di tirare le cuoia. Altrimenti come potrebbero approfittare di me?

Per quanto io ritenga sia inutile aggrapparsi a cosa come quelle. Chi me lo farebbe fare a condividere con loro i doni degli sponsor? Anche se mi hanno salvato la vita, prima o poi, o io o loro, qualcuno deve morire.

Perché fanno finta di non rendersene conto?

Sono l'unico qua dentro che abbia capito qual'è lo spirito degli Hunger Games?

- Cercherò di non strapazzarmi troppo. Ma di rimanere là dentro a poltrire non ne ho proprio voglia. -

Questa risposta sembra soddisfarlo. Che abbia capito le intenzioni celate dietro le mie parole?

Non c'è spettacolo in un Tributo ferito che cerca di guarire. E se non c'è spettacolo, gli Strateghi provvedono a crearlo. E il Tributo ferito rischia di essere un Tributo morto prima ancora di rendersene conto.

- Permettimi di farti tornare “là dentro” almeno per somministrarti un'altra dose della medicina. -

- Si può fare. -

Fa un movimento con il braccio per invitarmi a tornare nella tenda.

Vi rientro un po' traballante e mi lascio cadere sul giaciglio.

Essere rimasto in piedi fino ad ora è stata un'agonia.

Solo adesso mi rendo conto di essere coperto da uno spesso strato di sudore gelido, e di avere un leggero batticuore.

La maglia sul petto è un po' umida. Forse la ferita si è riaperta.

Dannazione.

Josei entra nella tenda, sbuffando.

- Dai, prima facciamo meglio è. -

Esordisce.

Non sapendo che altro fare, gli porgo il braccio per la puntura, mentre lui prende il cofanetto con la medicina ed estrae la siringa dal suo alloggio.

Lui fa roteare gli occhi verso l'alto, e diventa leggermente rosso.

- Non lì. -

Dice soltanto.

Ci impiego un paio di secondi prima di capire che cosa intenda. Dopo di che le mie labbra prendono la forma di una “o” di stupore.

- Non intendi... -

- Lo intendo. -

Sgrano gli occhi.

- Non mi infilerai quella cosa nel culo! -

La parola “culo” lo fa arrossire tremendamente.

- Senti, io non sono un medico, ma mia madre mi diceva sempre che i medicinali fanno più effetto se iniettati direttamente nel muscolo. -

- E con tutti i muscoli disponibili, vuoi scegliere proprio quello? -

- Quello è il più indicato. La medicina avrà una diffusione più rapida. - ormai è rosso peperone. La cosa peggiore è che sono sicuro di esserlo anch'io. - E poi non ti sei lamentato le altre volte. -

- Le altre volte ero incosciente. -

- Senti, non piace neanche a me l'idea. -

- Almeno fallo fare alla ragazza. Non avrei nessun problema a farmi vedere da lei. -

E come per sottolinearlo, mi lecco le labbra.

Lui deve prenderla come una questione personale.

Anche se non è credibile con quella faccia tutta rossa, il suo sguardo si fa un po' più duro.

- Tira giù i pantaloni e non rompere. -

- Farai meglio a non essere gay. -

Borbotto mentre mi sdraio, e mentre mi abbasso i pantaloni in modo da lasciare scoperto il sedere.

Non so se mi disturba più l'idea che tutta Panem sta vedendo il mio culo in diretta, o l'idea che Josei l'abbia già visto mentre ero incosciente.

Lui ha una faccia funerea mentre mi si avvicina.

Riempie la siringa prendendo il penultimo flaconcino di medicina. La scuote un po' per togliere tutta l'aria e poi sospira.

- Stai rilassato. -

- Sono rilassatissimo. -

In realtà preferirei che ci fosse un altro scorpione contro cui combattere, piuttosto che farmi fare una puntura nel fondoschiena da uno sconosciuto qualsiasi che tutto sembra tranne che uno in grado di fare una cosa del genere.

Lui ha anche contribuito a ricucirti.” mi dice una vocina.

Questo non vuol dire che sia autorizzato a infilzarmi con un ago.” ribatto io.

Ma l'ha già fatto!”

È diverso!”

- Ahi! -

Mi sfugge dalle labbra quando lui infilza l'ago nella pelle.

- Ti lamentavi di meno quando eri in fin di vita. -

Che razza di sbruffone.

Sopporto con i pugni stretti mentre lui preme lo stantuffo della siringa. Il liquido a contatto con la carne brucia come il fuoco. Sfrigola come olio bollente mentre scende giù e si infila nei tessuti del muscolo. È denso, e il suo fluire e è lento, cosa che acuisce la sensazione di bruciore.

- Ho quasi finito. -

- Fa' con calma. -

Sputo tra i denti, mentre la vista mi si annebbia di nuovo, sovrastata da un alone rosso fuoco che mi stordisce.

Anche quando tira fuori la siringa e tampona il punto d'entrata con un pezzetto di stoffa, il bruciore non è passato. Anzi, sembra essersi diffuso in tutto il corpo come un'onda che si propaga.

Qualsiasi cosa mi abbia iniettato, da l'impressione di fare più male che bene.

Come un acido corrosivo il medicinale risale per i tessuti, mandando a fuoco tutto quel che incontra.

- Adesso stai buono e lascia che faccia effetto. -

La voce di Josei mi arriva distorta. La sua sagoma sfocata ondeggia nel calore che si propaga in tutto il mio corpo.

- Ma cos'è quella roba? -

Brucia, brucia da impazzire.

- Non ne ho idea. -

- E tu sei certo che andasse iniettata, vero? -

Mi rendo conto di come mi trema la voce, e di come sia sottile, solo perché Josei mi guarda preoccupato.

- C'era una siringa dentro la scatola, non penso che era da bere, no? -

- No, certo. -

Provo a muovermi, a tirarmi in piedi, ma l'unico ordine a cui il mio corpo ubbidisce è “l'altolà!” dei sensi.

Riesco a voltarmi sulla schiena, ed è già qualcosa.

- Riposati, prova a dormire. -

Tenta lui. Se ne avessi la forza lo fulminerei con lo sguardo.

Come posso dormire quando tutto il mio corpo brucia dall'interno?

- Sì, ci proverò. -

Deve bastargli come garanzia, perché si alza e mi lascia solo.

Solo, come se si possa essere soli nell'Arena.

Stringo i denti per non lasciarmi sfuggire un gemito.

Un'onda di calore si arrampica sul petto, studiando la ferita e immergendola nel suo bruciante fuoco.

Un formicolio diffuso addormenta i nervi, mentre il medicinale si occupa di ricostruire quello che è andato distrutto.

Dovrei alzarmi, dovrei alzarmi e fare qualcosa, qualsiasi cosa. Non posso rimanere sdraiato qui a far niente.

Ma appena provo a muovermi, il dolore mi mozza il fiato e mi costringe a rimanere immobile come una statua.

Il cuore batte tanto forte da sollevare la sottile stoffa di cui è fatta la maglia che indosso. Un osservatore attento se ne accorgerebbe.

Chiudo gli occhi.

Dormi, dormi, dormi.” nel sonno il dolore sarà sopportabile.

I miei sensi resistono il tempo necessario per avvertirmi che sta per farsi tutto buio.

 

Mi sveglio di soprassalto, bagnato fradicio per via del sudore, quando un colpo di cannone riecheggia nella radura.

Il mio cervello riesce a pensare a cinque persone contemporaneamente, prima di tornare lucido e concludere che deve esserne morta solo una.

Metto a fuoco l'ambiente che mi circonda come se lo stessi vedendo per la prima volta.

Mi sento tutto intorpidito, non c'è una sola parte del mio corpo che risponda correttamente ai miei ordini.

Provo a sollevare un braccio, e quello si muove qualche secondo in ritardo.

Avrei bisogno di un po' d'acqua...di molta acqua.

Riesco a tirarmi su a sedere solo con molta forza di volontà.

Mi fischiano le orecchie e il gusto metallico che sento in bocca non mi dice niente di confortante.

Sollevo la maglia per vedere lo stato della ferita.

Sgrano gli occhi quando vedo che è rimpicciolita. La pelle si è sgonfiata e sta diventando più rosea. Anche se quella brutta linea continua a percorre, indisturbata, tutto il petto fino alla gamba, non sembra più qualcosa di mortale.

Addirittura nella parte più alta sembra completamente cicatrizzata.

Quel medicinale fa davvero miracoli.

Josei ha lasciato la scatola nella tenda. La apro e vedo che è rimasto solo un flacone. Vuol dire un'ultima iniezione, e poi dovrò cavarmela da solo.

Ma visto l'aspetto della ferita, credo che potrei anche considerarmi guarito.

Per precauzione infilo la scatolina in una tasca della giacca.

Dovrei prendere in considerazione l'idea di dovermi somministrare il farmaco da solo, se dovesse succedere qualcosa a Lewe e Josei.

Me in ogni caso, odio la sensazione di essergli dipendente.

Alzarsi in piedi è meno difficile della prima volta. Il mondo non mi gira tutto intorno, e riesco anche a tenermi dritto senza problemi.

La pelle mi tira, e ancora ho la sensazione che potrebbe strapparsi tutto, ma fa meno male e sembra più resistente.

Esco dalla tenda.

Mi sorprende vedere la radura avvolta da una calda luce arancione.

Il sole blu deve essere tramontato. Quindi questa deve essere l'unica notte che ci è concessa. Niente buio, solo questa luce arancione da eterno crepuscolo.

- Sei in piedi. -

Mi volto verso Josei.

Ha acceso un piccolo fuoco da campo e ci sta facendo arrostire dei pesci. Il profumo che comincia a diffondersi farebbe venire l'acquolina a chiunque, anche alle creature nascoste nel bosco.

Un gran desiderio di spegnere il fuoco a mani nude e di sotterrare il pesce cotto mi prende alla gola, e si manifesta con un sorriso.

- Così pare. -

- Come ti senti? -

Lewe è tutta preoccupata, con gli occhioni castani sgranati.

- Una meraviglia. -

Mi siede accanto a loro. C'è una strana sensazione che aleggia tutto intorno a noi. È la sensazione che un'altra persona è morta, da qualche parte nell'Arena, mentre noi siamo qua a fare finta di essere amici, a condividere il cibo, e a scambiarci convenevoli sul mio stato di salute. C'è qualcosa di sbagliato in tutto questo. Due di noi dovrebbero essere morti in questo momento. Perché respiriamo ancora?

All'improvviso, le note dell'Inno di Capitol City azzittiscono ogni pensiero.

Automaticamente alzo gli al cielo.

C'è un solo morto, oggi. È il ragazzino del Distretto 11.

il suo viso pallido, ripreso nel momento della morte, mi fa venire i brividi.

Il gelo deve aver raggiunto anche Josei e Lewe, perché li vedo tremare.

Quanti anni avrà avuto quel ragazzino? Dodici? Tredici? Ne avesse anche avuti diciotto, sarebbero stati troppo pochi per andare incontro alla morte.

- Credo...credo che dovremmo dire una preghiera. -

Dice Lewe. Io e Josei piantiamo gli occhi su lei all'unisono, screditando senza parlare la sua idea malsana.

L'unica preghiera che dovremmo fare, è quella di svegliarci vivi domani mattina.

- Lewe, se quel ragazzino ne avesse avuto la possibilità, stai tranquilla che ti avrebbe uccisa, e non si sarebbe fermato a dire una preghiera. -

Le dice Josei, con la voce calda e fraterna.

Lei sospira, ha gli occhi pieni di lacrime. Se li asciuga con il dorso della mano, in tutta fretta.

- Lo so...scusa...però... -

Però è triste. È triste perché nessuno di noi verrà rispettato nella morte. È triste perché i nostri cadaveri arriveranno alle nostre famiglie molto dopo la fine degli Hunger Games, in una bara. È triste perché nessuno potrà piangerci finché Capitol City non deciderà che è il momento. È triste perché le persone che amiamo non saranno accanto a noi quando esaleremo l'ultimo respiro.

- Allora, diciamola una preghiera. - stavolta è Josei a guardare me come se fossi pazzo. E credo di esserlo, perché non posso neanche pensare di aver detto una cosa del genere. - Si può fare, no? -

Lewe annuisce forte e poi congiunge le mani al petto, socchiudendo gli occhi.

Josei mi guarda; i suoi occhi chiedono “perché?”. La risposta è che non riuscirei a morire sapendo che nessuno pregherà per me.

È tanto pressante questa memoria ancestrale, che mi riempie il petto d'angoscia.

Rivolgo un sorriso a Josei, che sembra ancora più confuso di prima, e poi congiungo anch'io le mani al petto.

Siamo così, immersi ognuno nei propri pensieri, che le preghiere diventano tre, una per ognuno di noi.

Penso ai familiari del ragazzino, che adesso staranno soffrendo e urlando e disperandosi, mentre noi siamo ancora qui.

Perché lui e non io?

Non riesco a rispondermi.

Un urlo agghiacciante si alza da qualche parte nel bosco.

Apro di scatto gli occhi e mi alzo in piedi, le orecchie puntate nella sua direzione.

Ho sentito quello che ho sentito, o ho solo voluto credere di averlo sentito?

L'urlo si ripete, più angosciante di prima.

È una trappola!”

Grida forte la coscienza, mentre già il mio corpo è lanciato tra gli alberi.

È tutto una trappola. La mia vita lo è, la mia morte lo sarà.

Ma non posso ignorare la voce che in questa notte arancione ha urlato il mio nome.

 

The corner

Ciao a tutti e ben trovati!
buon giovedì yeaaah!
Le storie sono state aggiornate,
per la vostra gioia!
e l'appuntamento è come sempre alla prossima settimana!
Chii

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Capitolo 16
*** Svegliami più tardi con un bacio ***


15: Svegliami più tardi con un bacio

 

So, per qualche ragione, che non dovrei correre così a perdifiato con la ferita ancora fresca che mi taglia in due il petto.

Forse non è neanche così strana questa ragione, visto che il dolore che sento sarebbe sufficiente a fornirmi una spiegazione.

Però dovrei convincere anche il mio corpo che quella ragione è veramente valida e che dovrei fermarmi, subito, prima che la ferita mi si riapra e mi ritrovi a versare il contenuto del mio addome in giro per il bosco.

Mi reggo il fianco con una mano, ed è la massima concessione che faccio al mio fisico.

L'urlo si ripete, più familiare che mai, più doloroso che mai.

C'è una minuscola parte della mia mente che mi obbligherebbe a tornare indietro, se solo avessi la forza di farlo.

Ma non ci riesco.

Lo so, lo so, dannazione lo so! È tutta un piano degli Strateghi che vogliono cogliermi in fallo. Sono loro che stanno giocando con la mia mente al solo scopo di farmi morire. Perché è lì che sto andando: dritto dritto tra le braccia della Morte.

Ma non posso, non posso fermarmi. Qualcuno grida il mio nome, e chiunque sia...chiunque sia io devo accorrere in suo aiuto.

Con il braccio che non è impegnato a reggere il fianco ferito scosto un ramo pieno di foglie che mi occupa la visuale.

I miei piedi quasi inciampano in una radice sollevata dal terreno, ma riesco miracolosamente a fare un salto e superarla.

Mi faccio strada tra le fronde, abbassandomi per evitare di dare terribili capocciate ai rami più bassi.

L'urlo si ripete, terrorizzato, pieno di qualcosa che non saprei definire. È vicino, abbastanza da farmi voler gridare “sono qui, sto arrivando, sono qui!”.

Chi è che vorrei trovare? Non lo so.

Sarò in grado di salvarlo? Non so neanche questo.

So solo che devo almeno provarci.

All'improvviso, l'urlo che è stato la mia luce guida, si spegne.

Scende il silenzio nel bosco, un silenzio cupo e pregno di paura.

Mi guardo intorno e mi rendo conto di essere in un punto di non ritorno.

Ho perso completamente il senso dell'orientamento. Anche volendo non saprei come tornare da Lewe e Josei. Una vocina dentro la mia testa mi tranquillizza dicendomi che almeno ho con me la medicina mandata dagli sponsor. Ma serve a poco a tirarmi su il morale.

Non so cosa troverò andando avanti.

Il bosco sembra più una fitta giungla di erbacce troppo cresciute. L'aria si è fatta più pesante. Forse per colpa della corsa, forse per colpa della ferita, forse per l'ansia, forse per una serie di cose, sento un'oppressione stringermi il petto in una morsa.

Dove sei, dove sei.” mi viene spontaneo pensare. A rispondermi c'è solo il richiamarsi continuo di strani insetti nascosti tra le foglie, e il canto di uccelli che volteggiano nel cielo artificiale dell'Arena.

A parte i piccoli suoni della natura, non si riesce a cogliere nient'altro.

Le orecchie mi frizzano per la tensione.

Poi sento qualcosa. È impercettibile, ed è stato solo per una frazione di secondo.

Come si potrebbe definire un rumore del genere?

“Un piede che schiaccia una foglia secca e la fa crocchiare.” riesco a concluderlo solo dopo averlo sentito.

C'è qualcuno che mi osserva, appostato tra gli arbusti, pronto a saltarmi addosso.

Cerco di non far capire al mio futuro aggressore che ho percepito la sua presenza.

Volgo lo sguardo da tutt'altra parte. Vorrei avere gli occhi dietro la testa per vedere quello che sta succedendo alle mie spalle.

È così sbagliato ignorare il pericolo.

Il cuore aumenta i battiti, sento il sangue fluire alle tempie e farmele pulsare. Il petto mi fa un male cane, ma quanto meno sembra che la ferita non si sia riaperta.

Crick. Di nuovo, eccolo.

Chiunque sia si muove molto silenziosamente, non abbastanza da non tradirsi, ma sufficientemente per prendere allo sprovvista qualcuno di meno attento.

Chi potrebbe essere?

Se si trattasse di Mizar sono quasi sicuro che sarebbe già saltato fuori per farmi a pezzi. Non sarebbe rimasto così tanto in attesa una volta dopo avermi trovato.

E per quanto riguarda i suoi compagni Favoriti...sono sicuro che abbiano avuto l'ordine di riportarmi da lui vivo. Non potrebbero mai togliergli la soddisfazione di uccidermi senza pagarne le conseguenze, e fino alla fine avere il Tributo del Distretto 1 come alleato è un punto a favore.

Quindi potrebbe essere una missione di cattura.

Non riesco ad immaginare chi dei Tributi con cui ho legato abbiano torturato per costringermi a correre da loro.

Ma soprattutto, come sapevano che avrebbe funzionato? Come sapevano che ero abbastanza vicino da sentire le urla disperate dell'ostaggio?

Josei e Lewe hanno acceso un fuoco da campo, tutti avranno visto dove si trovava l'accampamento.” è così che mi risponde la mia coscienza, intimorita di aggiungere una parola di più.

Non fa una piega. Ci stavano spiando. Sapevano che ero ferito e convalescente, e sapevano che al solo sentire uno dei miei compagni urlare il mio nome mi sarei gettato nel bosco ad occhi chiusi, senza prendere con me nessuna arma, e senza badare alle mie condizioni di salute.

Mi hanno volutamente separato da Lewe e Josei. Forse lei non sarà una gran minaccia, ma lui, e la sua spada, forse sì. Volevano prendermi da solo.

Mi viene da sorridere. In ogni caso, anche se sto per morire, è un piano piuttosto arguto. Mi chiedo chi tra i Favoriti ha avuto un'idea così sopraffina.

Di certo non Mizar.

Prima di essere ucciso da lui, dovrei dirglielo, così, giusto per farlo arrabbiare ancora un po'.

Sento un altro fruscio, più vicino dell'ultimo.

Riesco quasi a sentire sul collo il fiato della persona nascosta nel folto.

Trattengo il respiro una frazione di secondo prima di scartare violentemente a destra.

Il bolide umano rotola in un cespuglio urlando di frustrazione.

Un sorriso mi nasce spontaneo, ma quando una stilettata di dolore mi prende il petto, quel sorriso mi muore sulle labbra.

Non ho il tempo di dare un volto al mio aggressore che qualcun altro mi spunta alle spalle, gridando come un ossesso.

Sgrano gli occhi mentre vengo atterrato e costretto a mangiare l'erba per colpa della botta che me l'ha spinta in bocca.

- Preso! -

Si esalta la donna (visto il tono della sua voce) che mi sta sulla schiena.

- Io non ne sarei tanto sicura. -

Rotolo su un fianco e la ragazza, presa alla sprovvista, perde l'equilibrio e cade.

Riesco a tirarmi in piedi con una certa velocità (da qualche parte il mio cervello si sta complimentando con il mio corpo per aver reagito così agilmente), ma non riesco a fare neanche due passi che la ragazza mi afferra la caviglia e mi fa rovinare a terra.

Cadendo mi mordo la lingua, e riesco al contempo a tirare fuori un'imprecazione.

- Non vai da nessuna parte! -

- Ma che modi bambolina, se vuoi fare un giro con me basta chiedere! - con uno strattone riesco a liberare la caviglia e i miei occhi, finalmente, riescono a mettere a fuoco il volto della ragazza. Devo avere una faccia allucinata, visto il modo in cui mi sorride lei. - Spiegel?! -

Esclamo, più sorpreso di quanto vorrei.

- Buonanotte Esperimento. -

Ho il tempo di voltare la testa verso la voce, quella che realizzo essere di Aizin, prima che qualcosa di duro, rigido e nodoso (probabilmente un ramo, uno bello grosso) mi colpisca con violenza la testa.

Guarda tu che sfiga.” penso, prima di cadere nell'incoscienza.

 

- Tom. - sembra la voce di mia madre, anche se ha sfumature leggermente diverse. È un po' più rauca, come se avesse gridato a lungo e dolorosamente. - Tom. -

Scuoto appena la testa, da un lato e dall'altro.

Non vorrei essere svegliato, anche perché un dolore fortissimo alla base della nuca non fa che implorarmi di tornare a dormire.

Però obbligo i miei occhi a spalancarsi e mi ritrovo a specchiarmi in due pozzi grigio argento che mi fissano.

- A-Astrid? - mi ritrovo a balbettare. Lei mi sorride, e in quel sorriso riesco a vedere tutto il suo viso. C'è qualcosa di diverso in lei, qualcosa che mi salterebbe subito all'occhio se non fossi tanto confuso e dolorante. Poi capisco. - I capelli...che hai fatto? -

Lei si tocca nervosamente una ciocca scura. Sono tagliati in maniera disordinata e le arrivano appena sul collo.

- Uhm...un cambio di immagine. -

- Hai scelto un momento strano per un cambio di immagine. - cerco di sorriderle anch'io, ma la faccio arrossire di vergogna - Però mi piaci. -

Concluso in fretta, lei un po' si riprende.

- Grazie. - le torna il sorriso, che poi le muore subito sulle labbra - Come ti senti? -

- Come se avessi preso un colpo in testa. -

Borbotto. Lei ridacchia.

- Almeno non hai perso il senso dell'umorismo. -

- Di quello ne ho in sovrabbondanza. -

- Che hai fatto lì? -

Non capisco che intende fin quando non abbasso lo sguardo e non vedo di essere stato lasciato a petto nudo.

Chiunque mi abbia messo le mani addosso ha fatto in modo di togliermi tutto quello che avevo addosso, lasciando il minimo indispensabile (ossia i calzoni e le scarpe).

Questo mi lascia pensare che abbiano trovato la scatola con l'ultima dose della mia medicina.

- Un incontro ravvicinato con un insetto. -

Commento, con un tono che mi sa di “sono sopravvissuto ad uno scorpione gigante”.

- Doveva essere un insetto bello grande. -

- Grande abbastanza. -

Passa un dito sulla ferita e mi accorgo che ha i polsi legati l'uno all'altro. Cosa che, se avesse avuto il tempo di pensare al resto delle condizioni del mio corpo, è stata fatta anche a me.

Ci troviamo ai piedi di un grosso albero in una radura.

Non sembra esserci nessuno in giro, a parte noi due.

Dovrebbe essere un qualche accampamento, visto che sparse qua e là ci sono vettovaglie di vario genere. Un paio di zaini, degli attrezzi da campeggio, delle tende.

Tutta roba uscita dalla bocca della Cornucopia. Tutta roba dei Favoriti, senza dubbio.

Non riesco a formulare la domanda che Astrid risponde.

- Non preoccuparti, non c'è Mizar. Si sono divisi in due gruppi per battere meglio l'Arena. -

Corruccio le sopracciglia.

- Mi spieghi come ci sei arrivata tu qui? -

Astrid sospira.

- Mettiti comodo, è una lunga storia. -

Ho come l'impressione che le sue parole siano rivolte al pubblico a casa che in questo momento ci sta guardando con attenzione ossessiva.

Riesco quasi a vederli tutti gli abitanti di Capitol City seduti sul bordo del divano con gli occhi puntati sullo schermo. Dobbiamo essere un gran bello spettacolo.

Almeno per un po' gli Strateghi ci lasceranno in pace.

- Dopo il bagno di sangue iniziale io e Anthya siamo scappati via. Non siamo riusciti a prendere granché, solo un paio di coltelli e un piccolo kit del pronto soccorso. Ma ci occorreva solo toglierci di lì. - annuisco mentre lo stomaco mi si attorciglia. Sono davvero l'unico stupido Tributo degli Hunger Games che non è riuscito a prendere niente di utile alla Cornucopia? - Poi è venuto fuori il deserto...è stato strano, eravamo nel centro della città e ad un certo punto...è scomparso tutto, risucchiato dal terreno. - fa un sospiro - Ho perso di vista Anthya...sono rimasta sola... - mi rivolge un specie di sorriso - Però sono tranquilla, sai? Non l'ho visto tra i Tributi morti...quindi è da qualche parte e sta bene. - annuisco, credendo che stia dicendo un qualcosa che si contraddice. Come può essere tranquilla per una persona che, anche se sopravvivrà fino all'ultimo, poi dovrà comunque morire? Capisce o no che in questo gioco della morte lei non può permettersi di essere in pena per nessuno, meno che per se stessa? - Ho vagato per il deserto per un po'. Non è successo niente di interessante però... - i suoi occhi cadono sulla mia ferita - ...immagino che gli Strateghi fossero troppo impegnati a giocare con te. -

- Sì, lo credo anch'io. -

Sbotto. Avrei fatto volentieri a meno di essere il giocattolo degli Strateghi.

- Mentre avanzavo a fatica sulla sabbia e credevo che sarei morta di sete, ho incontrato una piccola oasi, e sai chi ho trovato? -

- Fammi indovinare. - le dico con un mezzo sorriso - Spiegel e Aizin. -

Lei mi annuisce, un po' stupita.

Ma d'altronde, ormai riesco quasi a collegare tutti i fili senza che lei finisca il suo racconto.

- Proprio loro. Pensavo che sarei stata al sicuro, almeno finché non avessi trovato Anthya ma... -

- Ma ti sbagliavi. -

Concludo per lei. Di nuovo, lei non fa che annuire, ancora più stupita.

Perché mai? Io sono intelligente, a certe conclusioni posso arrivarci anch'io.

- Già, a quanto sembra quei due si devono essere messi d'accordo con i Favoriti in cambio della vita. Sapevano che giravano con te, e hanno deciso che li avrebbero sfruttati per conoscere i tuoi spostamenti. -

- Ah, deve tenerci molto quel bestione a farmi fuori. -

- Ci tiene davvero tanto. -

Conclude lei, funerea.

Io invece rido, anche se dentro le vene il sangue mi si sta gelando.

- Non sono così facile da ammazzare. -

Mi infila un dito nella ferita, non troppo a fondo per farmi veramente male, ma abbastanza da farmi sobbalzare.

- Me ne sono accorta. Hai la pellaccia dura tu, eh? -

- Ahia, smettila. - le scosto via la mano - Guarda che fa male! -

- Comunque. - Astrid sta volutamente cambiando argomento, visto che ha voltato lo sguardo da tutt'altra parte. Forse è un po' arrossita. - Quando meno me lo aspettavo, quei due mi hanno aggredita. Poi il bosco ha preso il posto del deserto e ci siamo riuniti a questo gruppo di Favoriti. -

- Eri tu che gridavi? - lei fa finta di non capire - Eri tu, vero? Gridavi il mio nome. Ti ho sentita. -

Arrossisce ancora. Prima ci sarebbero stati i suoi lunghi capelli neri a coprirle il volto dall'imbarazzo, ma adesso non ha nulla. Nuda sotto il mio sguardo la trovo così fragile e bella che vorrei stringerla a me.

I muscoli delle braccia di tendono nel nervoso tentativo di spezzare i legacci che mi tengono insieme i polsi.

- Mi dispiace, non volevo. - comincia, gli occhi già pieni di lacrime - Non avrei dovuto. Sapevano che torturandomi ovunque tu fossi saresti corso in mio aiuto. -

- Ma non potevano sapere se ero abbastanza vicino da sentirti, no? - scuote la testa - E allora! Ti avrebbero torturata comunque. Che fossi venuto o meno. -

- Forse hai ragione. - le lacrime raggiungono le sue guance - Ma se non avessi gridato il tuo nome non ti avrei fatto cadere nella trappola. -

Con un dito provo ad asciugarle le lacrime, anche se con le mani legate non è così semplice.

- Smettila, non è colpa tua. Anzi, sono contento che ti abbiano obbligata a chiamarmi, così ho potuto ritrovarti. - si morde le labbra quasi a sangue. C'è qualcosa che vorrebbe dire ma che tiene per sé. Non insisterò per tirarla fuori con la forza. Non adesso almeno. - Adesso pensiamo ad un modo per scappare, eh? -

- Mi sembra difficile. - commenta lei - Ora che sei qui non ti staccheranno gli occhi di dosso neanche per un attimo finché non raggiungeremo Mizar e il suo gruppo. -

- Chi c'è qui? -

Astrid fa mente locale, alzando gli occhi al cielo.

- Spiegel, Aizin, il ragazzo del Distretto 4 e quello del Distretto 2. -

Cerco di ricordarmi la faccia dei due ragazzi, e scopro di non avere idea di come sia.

Dovevo stare più attento. Scommetto che se ci fosse Anthya mi avrebbe fatto una descrizione dettagliata sul loro aspetto fisico, fin nei minimi dettagli.

- Notizie dei nostri? - Astrid scuote la testa, desolata - Bhè, come hai detto tu, sappiamo che non sono morti...è più di quanto potremmo sperare di sapere a questo punto. - di certo non è una cosa da dire a cuor leggero, ma la dico come se lo fosse, e lei deve essermene grata perché riesce a sorridermi in qualche modo - Adesso vediamo che intenzioni hanno, escogiteremo qualcosa. Sanno già dove si trovano gli altri? -

- No, con l'Arena che cambia è praticamente impossibile definire le posizioni dei vari Tributi. -

- Meglio così allora, abbiamo del tempo extra. - le rivolgo un occhiolino - Già hanno fatto un passo falso, sai? -

- Davvero, quale? -

I suoi occhi passano dalle lacrime alla speranza.

Le sorrido.

- Ci hanno dato la possibilità di scambiarci informazioni. Ora noi sappiamo più di quanto sanno loro. Per cui... - torno a sdraiarmi e chiudo le palpebre - ...io faccio l'incosciente ancora per un po'. Non devono sapere che mi sono svegliato. - apro un occhio giusto per accertarmi che Astrid sia tranquilla e che io possa lasciarla virtualmente sola - Credi di farcela? -

- Certo. -

Fa lei, seria come non mai.

- Bene. - sorrido e poi prendo a fingere di dormire - Svegliami più tardi con un bacio. -

Anche se non posso vederla, so che Astrid è arrossita di nuovo.

Vorrebbe rispondermi per le rime, ma gli altri Tributi tornano alla radura.

Mi mordo la lingue e obbligo le pupille a rimanere immobili, mentre Astrid trattiene il fiato e si prepara ad andare in scena.


The Corner

Con un po' di fortuna ce l'abbiamo fatta: ecco il nuovo capitolo!
è stato diffiicle buttarlo giù,
ma mi (concedetemi il "ma mi") state dando tanto supporto che non potevo proprio rischiare di deludervi.
grazie a tutti, avete reso questa storia molto più importante di quanto pensassi,
non credevo di ottenere tanti consensi!
quindi, veramente, grazie a tutti!
sia i recensori che i lettori!
come sempre l'appuntamento è per il prossimo giovedì (3 Ottobre).
vi aspetto numerosi!
Chii

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Capitolo 17
*** A sangue freddo ***


16: A sangue freddo

 

C'è tutto un frusciare nel bosco mentre i Tributi tornano nella radura.

Non credo che gli interessi fare attenzione a come si muovono e alla confusione che stanno facendo. D'altronde tra di loro ci sono i Favoriti.

La loro boria di immortalità, per ironia della sorte, li porterà alla morte.

Si sente un vociare di voci maschili, ed una piccola femminile che associo subito a Spiegel.

Mi sale il sangue alla testa al solo pensare che possa aver confabulato per tradire prima Astrid...e poi me.

L'idea di aver avuto una serpe in seno per tutto il tempo mi fa venire voglia di torcergli il collo con le mani nude.

Invece mi trattengo e rimango fintamente svenuto, accanto ad Astrid che sento tremare come una bambina.

Che cosa le hanno fatto che non ha voluto dirmi?

- Ehi bambolina, il tuo amico non ha ancora ripreso i sensi? -

Non è la voce di Aizin, e non riesco ad associarla a nessuna di quelle che conosco. Deve essere uno dei due Favoriti. Astrid trattiene il fiato, ma so che non si tradirà.

- Forse dovremmo svegliarlo noi a suon di calcioni, che dite? -

S'intromette una seconda voce maschile (l'altro Favorito).

Il sangue ribolle sempre più, come acqua in una pentola portata a cento gradi.

I due si avvicinano. Trascinano Astrid lontano da me. La sento scalciare e agitarsi nel tentativo di colpirli con calci e pugni, invano.

Poi qualcuno mi afferra per i capelli e mi tira su dolorosamente. Inghiotto un urlo insieme al dolore e cerco di mantenermi inerme il più possibile, benché sia davvero difficile con il cuoio capelluto che manda scariche elettriche di atrocità in tutto il corpo.

- Bell'addormentato nel bosco, svegliati un po'. -

Mi apostrofa il Favorito.

Non riesco più a resistere.

- Mi aspettavo un bacio per svegliarmi, ma tutto sommato è meglio così, da te non vorrei niente. -

E prima ancora di finire di dire quelle parole, piego il collo all'indietro e tiro una testata dritto sul naso del Favorito.

Quello urla di dolore e perde la presa.

Cadiamo tutti e due, io sulla mia ferita, lui su se stesso.

Per un attimo la testa mi gira e vedo solo stelline colorate davanti agli occhi.

Rintontito sia dalla testata che ho appena dato, sia dalla caduta sulla ferita ancora fresca, l'unica cosa che riesco a fare è rotolare su un fianco e cercare di tirarmi in piedi.

- Brutto bastardo! -

Questo è l'altro Favorito, che non deve aver molto apprezzato quello che ho fatto al suo amico.

Mi viene fuori un ghigno mentre riesco a mettere a fuoco una lancia dalla punta bella affilata che si dirige verso di me.

Scarto da un lato e mi tiro in piedi con un colpo di reni.

Uno strap, un fiotto di sangue caldo e un dolore lancinante mi avvertono che la ferita deve essersi riaperta. D'altronde me la sono cercata.

- Sei in una posizione sfavorevole, Tom. -

Trattengo il fiato quando sento la lama gelida di un coltello appoggiarsi sul mio collo.

Faccio roteare indietro gli occhi e incontro quelli nocciola di Aizin.

Gli sorrido.

- Sei un pezzo di merda, sai? -

La mano di Aizin non ha un fremito, ma so di aver toccato un tasto dolente.

- Faccio il necessario per sopravvivere. -

Dice lui tra i denti, facendo un po' di pressione con il coltello sulla pelle. Sento una goccia di sangue scivolare lungo il collo.

- Dopo di me, sarai il secondo che Mizar farà fuori. -

- Sta' zitto! -

Mi colpisce alla nuca con il manico del coltello e mi spinge in avanti.

Rintontito dalla botta non riesco ad attutire la caduta. Arrivo lungo disteso sul prato, con la faccia schiacciata sull'erba.

- Bel lavoro. - lo apostrofa il Favorito, quello che ho colpito al naso - Tu! Curalo. Non vogliamo che muoia prima del previsto. - indica Astrid come fosse un cane. Lei si avvicina a me, lentamente, tenendo gli occhi grigi sempre sui nostri aguzzini. Mi aiuta a voltarmi sulla schiena, e allora sento tutto il dolore della ferita riaperta.

- Ho bisogno del kit di pronto soccorso. -

Dice, con la voce sottile.

Le viene lanciato addosso una grossa scatola rettangolare e bianca, con una croce rossa sul davanti. Un kit di pronto soccorso direttamente dalla bocca della Cornucopia.

Lei lo apre con mani tremanti e ne esce disinfettante, garze e cerotto.

Mi tasta il petto con mani leggere, ma nonostante sia delicata e attenta, il dolore bruciante mi mozza il fiato.

- Hai le mani fatate. -

Le dico con un mezzo sorriso, cercando di nascondere le smorfie di dolore.

Lei scuote la testa. Agli angoli degli occhi brillano delle lacrime.

- Che idiota che sei. -

Srotola una garza con un po' di fatica (visto che ha i polsi legati tra loro) e comincia a fasciarmi il busto.

- Meno chiacchiere, non è una dannata sala da tè. -

- Scusa ciccio, come hai detto che ti chiami? -

Gli dico con un sopracciglio alzato. Sono sicuro che lui sia quello del Distretto 2, ma davvero non riesco a ricordarmelo. Se mai dovessi tornare a casa, devo prendere in considerazione l'idea di fare una cura per stimolare la memoria. I nomi proprio non mi entrano in testa.

Lui stringe i pugni. Non deve essere molto contento del fatto che io non abbia idea di come si chiama. Ma che posso farci, la sua faccia non è per niente interessante. Occhi grigi, corti capelli biondo sporco, labbra sottili, un naso corto. Poi, dopo la testa che gli ho dato, la radice del naso comincia a diventargli violacea. E no, non riesco a ricordarmelo completamente.

La mia espressione non deve piacergli, perché si avvicina con l'intento di colpirmi con un calcio.

Ma l'altro Favorito lo prende per un braccio e lo ferma.

- Che vuoi fare, lo sai quali sono gli ordini. -

Gli dice, intimidatorio.

Il ragazzo si divincola, liberandosi dalla stretta.

- Ne ho le scatole piene degli ordini. - ringhia - Non devo rispettare nessun ordine. Perché non lo ammazziamo adesso? Ce l'abbiamo a portata di mano. È debole, ferito. Morto lui, tutti gli altri cadranno come foglie. -

Sono davvero così pericoloso? Potrei sentirmi onorato. Davvero non ne avevo idea.

- Uh, problemi in Paradiso. -

Dico, ridacchiando.

Se tra loro comincia a strisciare il malcontento, sarà più facile per me portare via Astrid da qui.

- Sta' zitto ho detto! -

Ringhia di nuovo lui, con gli occhi allucinati dalla rabbia.

- Noah! -

L'altro Favorito lo prende ancora per un braccio, cercando di impedirgli di venirmi addosso.

Non posso fare a meno di cogliere la palla al balzo.

- Ah, Noah! Adesso so come ti chiami! -

Il ringhio che esce dalle labbra di Noah è simile a quello di un animale.

Si butta su di me con un'aggressività degna di una tigre. Anche Aizin, dall'alto del suo fisico longilineo, prova a placcarlo per contrastare la sua furia.

Da qualche parte sento Spiegel gridare.

- Astrid, scappa! -

Riesco solo a dire, spingendola via mentre con somma disperazione mi alzo in piedi.

- No, non posso! -

- Muoviti bambolina, non sono in grado di tenergli testa per più di due minuti. - le rivolgo un velocissimo occhiolino - Ti raggiungo. -

Mi guarda con gli occhi colmi di orrore, ma non se lo lascia ripetere. Chiude a scatto la scatola del kit di pronto soccorso, la stringe al petto e comincia a correre, leggera e veloce.

Riesco a guardarla sparire tra gli alberi prima che Noah mi arrivi addosso come un lottatore di sumo e mi faccia cadere riverso sulla schiena.

Mentre il dolore mi riempie i sensi, penso che non è carino continuare a finire a terra in questo modo. Soprattutto considerando che la garza che Astrid mi ha appena applicato si è già riempita di sangue.

- Prendila, segui la ragazza! -

Sento urlare all'altro Favorito (ma perché diavolo non mi ricordo come si chiama?). Aizin scatta in avanti nel bosco e riesco solo a pensare che Astrid deve correre, deve correre davvero veloce.

Rotolo sull'erba, avvinghiato a quell'animale rabbioso che è diventato Noah.

Ha un fisico possente, grosso tanto quanto quello di Mizar.

Non posso difendermi con i polsi legati.

Mi arriva un pugno in pieno volto, e so già che mi verrà un occhio nero terribile che non sarà tanto bello da riprendere con la telecamera.

Mi sfugge un gemito mentre lui ghigna di soddisfazione.

- Smettila Noah, smettila! -

L'altro ragazzo si getta su di lui, cercando di fermarlo, ma non riesce a bloccare il secondo pugno che mi arriva dritto sul muso. Un'ondata di sangue mi riempie la bocca.

- È il massimo che sai fare? Picchiarmi mentre sono legato? - lo canzono, perché sfruttare la sua rabbia cieca è l'unica arma che posso avere. Sputo una boccata di sangue da un lato, mentre vedo i suoi muscoli gonfiarsi sotto l'influsso dell'ira. L'occhio comincia a gonfiarsi e ad impedirmi di vedere. Forse mi ha scheggiato un dente, o più di uno, visto che la bocca mi fa un male cane. Sarà dura rimettere insieme i pezzi. - Avanti bello, liberami e dammi la possibilità di difendermi, così ti posso fare il culo. -

- Me ne fotte un cazzo di Mizar, sarò io ad ucciderti. -

Schiuma di rabbia, sempre più lontano dall'aspetto di un essere umano.

- Mio Dio, ma che vi danno da mangiare al Distretto 2! -

Rido. Ma lui mi avvolge le mani intorno al collo, e la risata mi muore letteralmente in gola.

- Noah! -

L'altro ragazzo lo placca, spingendolo via come un toro che carica.

Lui rotola a terra per qualche metro, mentre io posso riprendere fiato e il mondo ritorna chiaro.

Respiro a fondo e mi tiro in piedi, traballando.

Mi gira dannatamente la testa. Probabilmente deve essere per i colpi che ho incassato negli ultimi minuti.

Devo smetterla di fare tanto lo sbruffone. Credo che sarà questo ad uccidermi.

Però sono sicuro che a Panem piace così tanto...

Quando sento un “argh!” e vedo una testa bionda e uno sguardo grigio allucinato che mi puntano, intenzionati a farmi a pezzettini, qualcosa dentro di me urla “viiiiiiiiiiaaaaaaaaa!”.

Quei due lottano a chi riesce a trattenere l'altro.

Noah sembra leggermente in vantaggio, ma l'altro Favorito gli tiene testa egregiamente. Lo scontro è pari, ed io sono solo, in piedi nel bel mezzo della radura, con l'unico impedimento delle mani legate e una strada libera verso la libertà proprio davanti a me.

- Bye bye babies. -

Lo saluto, mandandogli un bacio.

Realizzano entrambi che sto scappando solo quando ormai ho cominciato a correre.

Ad ogni falcata non faccio che pensare “assurdo, ci sono riuscito”. Perché è davvero assurdo.

Mi viene da ridere, e riderei se il petto non mi facesse stra-male e non mi mancasse il respiro e non dovessi correre verso la mia salvezza più veloce che posso.

Evito anche di volgermi indietro.

Però è assurdo. Assurdo!

Che stupidi. Litigare tra loro e permettermi di scappare.

Questa me la devo segnare per rinfacciarla a Mizar. Ah, sarà divertente dirgli che i suoi sottoposti sono degli imbecilli senza spina dorsale.

Giro un attimo lo sguardo per assicurarmi che non ci sia nessuno. Sembra che non mi stiano inseguendo, oppure lo stanno facendo ma ci sono persi nel sottobosco.

Quindi, dato che tutto il busto mi fa male come se un dannato scorpione gigante mi avesse aperto a metà con un colpo di chela, mi fermo poggiando la schiena contro un albero.

Prendo piccoli e rapidi respiri, visto che non posso permettermi di respirare più profondamente.

Abbasso lo sguardo sul mio petto solo per vedere che ormai la garza è zuppa di sangue.

Ci vorrebbe un altro giro di ago e filo.” mi viene da pensare.

In ogni caso, non sono al sicuro qui.

L'imperativo è cercare Astrid. Le ho detto che l'avrei raggiunta, ma ora come ora con tutti questi alberi, arbusti, foglie e fogliame mi sembra improbabile trovarla.

E sono dannatamente stanco.

Mi sembra di non dormire decentemente da un secolo.

Mi tolgo il sudore dagli occhi con il dorso di una mano. Non posso fare a meno di notare che la fronte scotta. Devo avere la febbre alta a causa della ferita.

L'idea di aver perso l'ultima dose della mia medicina mi fa salire la rabbia.

Dubito che gli sponsor me ne mandino ancora. Anche se, ci scommetterei una mano, mio padre sta facendo tutto il necessario per aiutarmi.

Sento un frusciar nel sottobosco e mi irrigidisco.

Potrebbe essere un animale, potrebbe essere un Tributo...potrebbe essere qualsiasi cosa.

Di scappare o arrampicarsi sull'albero non se ne parla nemmeno: non ho la forza per fare nessuna delle due cose.

Quindi trattengo il fiato e schiaccio la schiena contro il tronco, aspettando di vedere cosa o chi spunterà fuori tra le fronde.

Sono passi leggeri quelli che, alle spalle dell'albero a cui sono poggiato, si fanno strada nel bosco.

Sembrano passi attenti, ma soprattutto sono umani.

Non ho grandi capacità di deduzione, per cui mi sporgo appena per vedere di chi si stratta.

Quando i miei occhi incontrano Spiegel, non so se tirare un sospiro di sollievo o meno, dato che lei tiene tra le mani tremanti un grosso coltello.

Hanno mandato anche lei a cercarmi?

Sembra così sbagliata la sua presenza.

O forse è solo la mia mente che non riesce a carburare la presenza di tante donne e tanto vulnerabili tutte in una volta.

Sarò un po' maschilista.

- Ormai sarà lontano. -

Si lamenta la ragazza.

- L'hai perso. -

Mi acciglio. Questa è la voce dell'altro Tributo, quello che aveva cercato di fermare Noah. Non l'ho sentito arrivare insieme a lei.

- Ero sicura che fosse venuto da questa parte. -

Dice lei, cercando quasi di giustificarsi, con la voce piccola di chi sta morendo di paura.

Non so perché, ma un brivido freddo mi attraversa la schiena.

Deglutisco a vuoto e tremo, stringendo i pugni.

- Bhè, la tua sicurezza non era sufficiente. -

Sgrano gli occhi. Il ragazzo si avvicina troppo a lei, troppissimo, una distanza che solo un amante o un assassino possono colmare.

- Aizin...lui... -

Balbetta lei, terrorizzata.

- Lui non è qui adesso. -

Capisco un secondo troppo tardi quello che il ragazzo vuole fare. Quando vedo il baluginio di una lama che si conficca nel petto di lei.

Un fiore rosso le si apre sulla maglia. I suoi occhi azzurri si sgranano impercettibilmente, mentre un fiotto di sangue le cola dalla bocca sul mento.

Si accascia a terra senza emettere un suono.

Lo sguardo imperscrutabile e freddo del ragazzo è quello della morte.

Estrae il coltello dal suo petto, un terribile suono di risucchio ne accompagna l'uscita.

Si abbassa per recuperare anche quello che lei teneva tra le mani.

Asciuga il sangue sulla lama con i vestiti di Spiegel.

Lo fa con un gelo e una calma degni di un macellaio.

Lo stomaco mi si rivolta, mentre la testa gira come una trottola.

L'ha uccisa così, a sangue freddo, senza pensarci due volte, solo perché non era utile allo scopo. E anche se lo fosse stata? Probabilmente avrebbe comunque fatto quella fine. Era solo questione di tempo.

Lui se ne va senza neanche scomporsi, con la stessa espressione che aveva quando è arrivato.

Non appena sparisce tra le fronde, l'istinto mi spinge a raggiungere Spiegel.

Con il cuore mi esplode in petto mi inginocchio accanto a lei.

La ferita provocata dal coltello è solo un taglio, non più lungo di tre dita. Non sembra neanche una cosa di cui si potrebbe morire. Sembra così superficiale che basterebbe metterci un cerotto sopra.

Ma lei sta soffocando nel suo stesso sangue. Trema, pallida come un cencio, gli occhi che vanno da un posto all'alto, frenetici. Terrorizzati.

Non appena mi vede, mi afferra con forza un braccio.

Non riesco a leggere un'accusa in quelle iridi azzurre. C'è solo paura e un vuoto nero che rischia di inghiottirla da un momento all'altro.

- Mi dispiace, è tutta colpa mia. -

Mi ritrovo a dire, scuotendo la testa. Non sento neanche le lacrime che mi bruciano agli angoli degli occhi.

Se non fosse stato per me, non sarebbe stata colpita. Se non l'avessero costretta a seguirmi, se non l'avessero costretta a fare un patto con i Favoriti per consegnarmi a loro, tutto questo non sarebbe successo.

- Non...non...non... - balbetta, sputando sangue. Non sembra che mi abbia capito, non sembra neanche che mi abbia riconosciuto. Non è me che sta guardando in questo momento. - Non voglio morire...non...non voglio. -

Riesce a dire.

Una fitta di gelo mi prende l'anima.

Le prendo una mano e gliela stringo.

- Non morirai, ok? In...qualche modo ti salverai, tornerai a casa. -

Perché le sto mentendo, perché le sto dicendo qualcosa che non ha senso né per me né per lei?

Però mi sorride. La bocca è ormai piena di sangue, e anche quel sorriso ne è immerso.

Muore così, con gli occhi spalancati e quel sorriso sulle labbra.

Un colpo di cannone sottolinea che ormai non c'è più niente da fare.

Perdo la voce.

Il suo petto smette di alzarsi ed abbassarsi davanti ai miei occhi.

Ho le mani sporche del suo sangue.

Mi alzo, tremando, incespicando nei miei stessi piedi.

Il suo corpo è ancora così caldo, così vivo.

Sembra che potrebbe svegliarsi da un momento all'altro.

Svegliati, svegliati!” dice la mia parte più infantile, quella che non può accettare una cosa così grande e orribile come la morte.

Controlla se ha qualche arma, qualcosa che può esserti utile. E poi alzati, va' via da qui. Altrimenti non potranno portare via il corpo.” dice invece la parte senziente e fredda, quella che vuole sopravvivere, quella che non vuole fare la stessa fine di quella ragazza.

- Non voglio prenderle niente. -

Dico a me stesso, come se fosse una cosa ovvia.

Non voglio prenderle niente, niente. Voglio toglierle la dignità frugando addosso al suo cadavere.

Devi liberarti i polsi, non puoi andare lontano con le mani legate.” la voce dentro la mia testa è così leggera, come fosse una cosa ovvia.

Con le lacrime agli occhi so che ha ragione. So che devo liberarmi i polsi, so che non posso veramente andare da nessuna parte così. So che l'unica cosa da fare è frugare i vestiti di Spiegel, perché non voglio pensare a lei come un “cadavere”.

- Scusami Spiegel, scusami. -

Le dico, come se potesse sentirmi, mentre con le mani tremanti controllo le tasche della giacca. Il sangue è ancora fresco, caldo e appiccicoso. Un brivido mi strappa un singhiozzo di orrore.

Le mie dita si avvolgono intorno a quello che capisco essere un coltellino svizzero.

Lo tiro fuori dalla tasca interna della giacca di Spiegel e faccio subito scattare la lama.

Con un po' di fatica riesco a tagliare i legacci che mi tengono insieme i polsi. Quando sono libero riesco ad esultare nel mio intimo.

Mi sembra un furto e una profanazione portare via quel coltello. È di Spiegel.

Richiudo la lama e lo ripongo dove l'ho trovato.

Evito di guardarla in volto mentre mi alzo e scappo via, codardo fino alla fine di fronte alla morte.

Non appena mi sono allontanato, dall'alto un hovercraft scende per raccogliere il suo corpo senza vita. Mi riscopro a pregare che non succeda a me.


The Corner

Ciao a tutti, e ben trovati!
questo capitolo è stato difficile per me da scrivere,
ma come sempre non volevo deludervi,
quindi ce l'ho messa davvero tutta nel cercare di darvi tutta me stessa!
spero che vi piaccia, nonostante i tetri avvenimenti.
Tom e la Morte, faccia a faccia.
Il primo istinto è quello di scappare...
ma riuscirà ad affrontarla?
chissà...
prossimo aggiornamento tra una settimana esatta,
giovedì 10 Ottobre
Chii

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Capitolo 18
*** Il mare di pioggia ***


17: Il mare di pioggia

 

Arrancando come un animale ferito per il bosco sento il peso del mio respiro che mi comprime il petto. Sento il sangue che romba nelle orecchie. Sento l'adrenalina che frizza nelle vene.

Sento di essere vivo.

Ma per quanto?

L'immagine di Spiegel continua a perseguitarmi come l'ombra di un fantasma. Mi riempie gli occhi di orrore e lacrime.

Astrid, devo trovare Astrid.

Non voglio vederla morire come Spiegel. Non voglio.

Devo trovarla.

È l'imperativo che mi spinge ad andare avanti, a scostare le fronte degli alberi, a superare le radici sollevate dal terreno che minacciano di farmi inciampare e cadere.

Dov'è?

Qui, qui, deve essere qui.

Sento l'urlo che mi blocca la gola e mi stringe le corde vocali. Il nome di lei preme le mie labbra per uscire, ma il cervello non permette che accada.

È troppo pericoloso mi dice ti troverebbero, devi scappare, devi allontanarti!

Ma come faccio a trovare Astrid se non posso chiamare il suo nome e far rimbombare il bosco con la mia voce, per farla volare lontano sul soffio del vento in modo che possa raggiungere lei.

Ho paura.

Mi fermo all'improvviso per lo scoppio di un tuono in lontananza, tanto forte che lo sento vibrare dentro la cassa toracica.

Mi porto la mano sul petto, come se il tuono potesse dilaniarlo e farlo esplodere.

La ferita brucia da morire, mi sento venire meno ad ogni passo. Ritiro la mano, fradicia di sangue.

I punti devono essere saltati quasi del tutto. Sento la pelle ribollire e le tempie pulsare.

Un altro tuono mi scuote dalla testa ai piedi e la vista torna a farsi chiara.

Che stai facendo lì imbambolato?! Sembra la voce di Bill. Mi guardo intorno per cercarlo, preso dal panico. Ma non è qui, per fortuna non è qui. Tiro un sospiro di sollievo e riprendo a camminare.

Avrei davvero bisogno della mia medicina. Mi sembra di stare cuocendo dentro la mia stessa pelle.

Mi asciugo il sudore dagli occhi con il dorso della mano.

Vagando a vuoto senza meta non devo essere il massimo dell'intrattenimento.

Sto ancora chiedendomi che cosa posso fare per migliorare l'audience quando una goccia d'acqua gelida e grande come una moneta mi arriva sulla fronte, scivola sul mio viso e si insinua nel solco del collo.

Alzo gli occhi al cielo. Un'altra goccia mi arriva sullo zigomo, seguita da un'altra e un'altra ancora.

Prima che io possa concepire il pensiero, sta già piovendo.

Anche se le gocce d'acqua sono grosse e pesanti, la tenda di pioggia che scende dal cielo è leggera come seta, e gelida sulla pelle.

Sono già zuppo fin dentro le scarpe.

La pioggerella si trasforma in un acquazzone dopo neanche dieci passi.

Avanzare diventa difficile e la vista si appanna sempre di più. Per la stanchezza, per l'acqua, per la febbre che probabilmente sta divorando il mio corpo, per la paura.

Mi infilo sotto l'ombrello naturale creato dalla chioma rotonda di un albero.

L'odore di terra bagnata e di piante che stiracchiano le foglie per godere dell'acqua è così forte da impregnare le narici.

È un odore così naturale, così vero. Quante volte l'ho inalato durante le lunghe giornate di pioggia al mio Distretto? Quante volte sono stato sulla veranda con il naso puntato in alto come un segugio solo per coglierlo nell'aria?

Ma questo non è reale, questo è stato solo programmato per essere quello che è.

Mi lascio scivolare contro il tronco dell'albero.

La pioggia martella contro le foglie, in alto, sgocciolando tra i buchi della barriera imperfetta che compongono.

Che faccio adesso?” mi chiedo, mentre gli occhi vagano nel mondo bagnato che ho intorno.

Dubito che con questa pioggia continueranno a cercarmi.

Sono al sicuro per adesso.

Mi rilasso contro il tronco, lasciando che le forze mi abbandonino del tutto.

Al sicuro, davvero? Qui? Dentro l'Arena?

Una punta di panico mi stringe lo stomaco, ma non ho la forza di alzarmi e continuare a camminare.

D'altronde dove dovrei andare?

Se continuassi a camminare fino alla fine dell'Arena incontrerei solo quello: la fine dell'Arena, appunto.

E poi dovrei tornare indietro, e ci sarebbe l'altra estremità dell'Arena.

Non potrei vagare all'infinito.

Anche se mi tenessi lontano dagli altri Tributi, prima o poi gli Strateghi verrebbero a cercarmi per giocare con me.

Una risatina mi solletica la gola.

È una condanna a morte senza nessuno scampo. Il punto è scoprire quando sarà applicata la sentenza.

Tanto vale rimanere qui dove sono e renderla più facile agli Strateghi.

Non riesco a respirare a fondo senza essere scosso da un brivido di dolore.

Chissà anch'io da morto avrò gli stessi occhi vacui e opachi di Spiegel.

Strizzo gli occhi, inghiottendo il pensiero e l'immagine che si è impressa nella mia retina.

Non voglio morire.” mi dice la voce della ragazza. Mi guardo le mani, sporche di terra e sangue, rigate da rivoli d'acqua gelata. “Non voglio morire.”

Il cielo viene illuminato da un lampo, e un altro tuono scuote la terra sotto di me, usando il mio corpo come cassa di risonanza.

La pioggia si è raccolta sotto l'albero. Solo adesso mi rendo conto di essere seduto in due o tre dita d'acqua.

Mi alzo a malincuore. Il gelo mi attraversa la pelle per poi condensarsi e filtrare verso l'interno, depositandosi nelle ossa, nello spazio tra i tessuti. Scosso da brividi, sento gli aghi freddi della pioggia su di me.

Ora l'acqua mi arriva quasi alla caviglia. Mi chiedo come sia possibile.

Superando il riparo improvvisato, mi ritrovo sommerso dal diluvio.

La pioggia continua a cadere implacabile dal cielo, così densa e scivolosa da sembrare olio.

Sibila lentamente depositandosi al suolo, tintinna come cristallo, pungendomi i sensi con la sua falsità.

Da dove viene quella pioggia, chi l'ha creata, come?

Potrebbe essere ciò che è rimasto dei Tributi morti.

Un altro brivido, un altro lampo, un altro tuono.

L'acqua mi arriva a metà dello stinco. Ma è possibile?

Sembra di stare immersi in una palude.

Sfocati, tra la pioggia, gli alberi galleggiano nell'acqua che continua a salire.

Vogliono annegarci tutti?” riesco a pensare con una strana tranquillità.

Non so nuotare.

Arranco nell'acqua, incespicando nel fondo fangoso. Le piante sommerse mi afferrano le caviglie e sembrano serpenti marini che vogliono trascinarmi giù, negli abissi riempiti d'acqua.

Piove, e la pioggia rumoreggia dentro e fuori di me.

Il corpo se ne inzuppa fino ad averne troppo.

Stride così dolorosamente rispetto al deserto a cui sono sfuggito.

Dovrei raccoglierla, dovrei riempirmi la pancia, dovrei essere pronto a sopportare la disidratazione.

Tutta quest'acqua potrebbe annegarmi solo piovendomi addosso.

Sento le cellule risucchiarla come delle spugne. S'impregnano e mi fanno sentire pesante.

Forse mi sto solo facendo condizionare.

Sento il mio respiro rantolante mentre, con le mani gettate avanti, arranco nel buio oscuro della cappa d'acqua, che ora mi arriva al bacino.

Quel che è rimasto del bosco è una distesa di verde slavato che prova a sfuggire all'annegamento tanto quanto me.

Se il livello dell'acqua dovesse salire ancora, morirò prima di rendermene conto.

Non riesco più a contare le volte in cui ho rischiato di morire.

Perché la Morte gioca così con me?

Perché si comporta come fosse una degli Strateghi?

Perché la immagino mentre con divertimento elenca una serie di torture da farmi patire prima di venirmi a prendere?

Sarebbe troppo facile uccidermi e basta, eh?

Metto un piede in fallo nel fango invisibile depositato sul fondo e cado, immerso fino al collo nell'acqua gelida piovuta giù dal cielo che si è trasformata in un oceano.

Annaspando a vuoto cerco con i piedi qualcosa che possa farmi da appoggio e permettermi di recuperare la posizione eretta.

L'acqua mi entra nel naso, e brucia la gola e i polmoni.

Con la punta del piede riesco a toccare qualcosa sul fondo, sufficiente per far riemergere la testa.

Sputacchio acqua e riempio la cassa toracica d'aria.

Mi rendo conto di essere sul ramo di un albero piuttosto alto e imponente.

Il cielo è completamente nero, coperto da nuvoloni carichi di quella pioggia che non sembra voler smettere di cadere a secchiate, neanche voglia sommergere il mondo intero.

Da come appare il bosco...pare ci stia riuscendo.

Mi arrampico ansimando sul ramo più alto che riesco a raggiungere e poi mi guardo intorno, scioccato.

Un'enorme distesa d'acqua, bucherellata dalla pioggia che cade insistente, si estende a perdita d'occhio davanti, dietro, ai lati: dappertutto finché si riesce a vedere.

Hanno allagato davvero l'Arena.” mi viene da pensare, con le sopracciglia inarcate e la mente confusa.

Pochi alberi superstiti, quelli più alti che sono riusciti a scampare al nubifragio, emergono dall'acqua come torri di foglie. Alcuni sono tanto sommersi da mostrare solo qualche ciuffo verde.

Il mio cuore non può che mandarmi un doloroso segnale di sofferenza.

Astrid saprà nuotare?

Mi vedo costretto ad arrampicarmi un po' più su sull'albero quando la pioggia fa salire di un'altra tacca il livello dell'acqua.

Di questo passo annegherò.” penso, con tanta leggerezza da non riuscire a capirmi.

La ferita sul petto, grondante di sangue, è continuamente lavata dai rivoli di pioggia battente. Almeno quell'acqua laverà via ogni traccia di sporco e di terra.

Ma credo che l'emorragia potrebbe uccidermi.

Mi chiedo cosa in questo momento, in questo posto, non possa uccidermi.

Un fulmine saetta nel nero del cielo.

I due soli, ovunque siano, sono ben nascosti dietro la coltre nera delle nuvole.

Il mondo sembra piombato in una notte artificiale, molto più opprimente e scura di qualsiasi notte io abbia mai visto nel corso della mia vita.

Non c'è luce all'infuori di quella dei lampi e dei fulmini che illuminano il cielo.

Lo zigzagare delle saette proietta strani giochi luminosi sui nuvoloni neri.

Non è una bella giornata per morire.

A questo punto avrei preferito esalare l'ultimo respiro dopo la lotta con lo scorpione.

Sarebbe stato figo.

“Ehi ti ricordi di Tom? Quel Tributo ammazzato dallo scorpione gigante? Una figata!”.

Morire annegati non lo è.

Nessuno si ricorderà di me.

Le dita mi vanno al collo, per assicurarsi che la collana di mia madre ci sia ancora.

Il contatto con la catenella d'oro mi rassicura e posso tirare un sospiro di sollievo.

Ti rendi conto che se non muori annegato, ti ucciderà la tua ferita? Oppure, sarà Mizar a farlo.”

- Sì lo so. -

Rispondo a voce alta alla mia coscienza, con il chiaro intento di allontanarla dalla mia mente.

Mille modi per morire, e non posso neanche scegliere.

È troppo snervante arrivare sull'orlo del baratro e non potersi buttare giù.

È troppo snervante sfiorare la Morte e non poterla abbracciare.

Così il sistema bioelettrico del mio cervello andrà in cortocircuito.

Quante volte si può accettare di stare per morire e poi non morire affatto?

Dio mio, sono più propenso a smettere di respirare in questo momento piuttosto che a sopportare interviste e telecamere se dovessi vincere questi stupidi giochi.

Il fragore di un tuono e un fulmine bianco si abbattono nell'Arena.

La saetta abbagliante si schianta sulla punta semi-emersa di un albero, mandandolo in frantumi, e incendiando all'istante quel poco che ne è rimasto.

La pioggia fa il resto: il piccolo fuoco viene spento all'istante, e ne rimane solo qualche fumosa traccia.

Il cuore comincia a martellarmi in petto, causando un aumento della fuoriuscita di sangue dalla ferita.

Da qualche parte il cervello registra che non si dovrebbe perdere così tanto sangue, e che quel buco va richiuso al più presto.

Però un pensiero più importante riempie il mio campo visivo: se non scendo da quest'albero, il prossimo fulmine potrebbe incenerirmi.

Come ad avermi letto nella mente, gli Strateghi lanciano una saetta su di un albero a poca distanza da quello su cui sono abbarbicato, facendo scoppiare schegge ovunque e accendendo per un breve istante una vampa di fuoco da ciò che rimane del tronco.

Guardo l'acqua, il mare letterale di pioggia che mi circonda, e poi guardo la cime carbonizzata dell'albero colpito dal fulmine.

Mi lamentavo di non poter scegliere come morire: dovrei rimangiarmi la parola.

Ora ho davanti due opzioni. La prima è la morte per annegamento. La seconda è la morte per elettroshock.

Oppure le due cose potrebbero conciliarsi.

Potrei essere colpito dal fulmine, sopravvivere, ed essere scaraventato in acqua, dove i senti annebbiati dall'elettricità non mi renderebbero in grado di capire che sto morendo annegato.

Davvero ammirevole.

- Avrei veramente bisogno di un salvagente. -

Commento tra me e me, ma non così tanto. Probabilmente mi sto rivolgendo agli sponsor a casa, e a mio padre, visto che ora come ora solo loro possono tirarmi fuori dai guai.

Guardo il cielo, trasformatosi in una cascata d'acqua, nella vana speranza di vedere un paracadute argenteo scivolare giù dalle nuvole nere.

Ma l'unica cosa che vedo è un altro fulmine che si abbatte su un albero.

Non ci vuole un genio per capire che quei fulmini sono programmati per distruggere ogni appiglio verde rimasto nel mare di pioggia.

Gli Strateghi sanno che quasi nessuno, a Panem, a parte quelli del Distretto 4 che sfocia sul mare, è in grado di nuotare.

Sperano che questa pioggia diventi la tomba di molti Tributi.

Vogliono decimarci ancora, con l'intento di far sopravvivere solo i Favoriti che sono addestrati per i giochi e che quindi probabilmente nuotano da prima di imparare a camminare, e dopo verrà organizzato un Festino.

Sembra un ragionamento logico. Stupido io che non si ho pensato prima.

Quindi, tocca a me morire, adesso, proprio qui.

Devo abbandonare l'albero se non voglio lasciarmi fulminare da qualche saetta vagante. E l'abbraccio dell'acqua mi porterà nel dolce oblio prima che ne accorga.

L'idea di morire annegato non mi piace per niente. Come si può morire per qualcosa come la mancanza di ossigeno? Ce n'è dappertutto ed è completamente gratis. Sembra una contraddizione da battere i piedi a terra come i bambini.

Tra le dita sento lo spessore del legno bagnato dell'albero, il profumo della resina mi prende alla gola.

Deve essere una quercia, o roba simile. Gli aghi mi si infilano nella pelle, pungenti e freddi tanto quando le gocce di pioggia.

- C'è poco da fare, amico mio. - mi dico, con un sospiro - È stato bello conoscerti. Sei un tipo apposto, non è colpa tua. Sono io che ho voglia di cambiare ambiente. Sai, conoscere gente nuova, posti nuovi, fare esperienze diverse... - assumo un'espressione contrita e seria. Forse dovrei rivolgere qualche parola di commiato anche per i miei genitori e mio fratello. Però la paura mi occlude la gola, e il massimo che posso fare è lasciare spazio al Tom Animale da Palcoscenico, che si esibisce in una risata e lascia la presa sul ramo, lasciando cadere me e lui nell'acqua, un attimo prima che un fulmine colpisca la punta dell'albero.

Mi sento trascinare giù dal peso del mio corpo, mentre il mare di pioggia di richiude sopra la mia testa e i rumori del mondo spariscono.

Per un istante interminabile mi sembra anche bello. Essere qui, circondato da pareti d'acqua mi riporta alla mente qualcosa che deve venire da un passato ancestrale, forse quando ancora dovevo nascere e condividevo lo spazio vitale con Bill.

Mi sembra quasi di sentirlo, allungando la mano davanti a me potrei toccarlo.

Però sono solo, in quest'enorme e crudele sacco amniotico, lasciato alla deriva, tenuto insieme solo da me stesso.

Quando l'aria comincia a mancare e la testa a pulsare, il corpo mi costringe ad agitarmi nell'intento di riemergere, di respirare, di tornare a vivere.

Anche se il cervello e l'istinto di sopravvivenza mi spinge a muovermi, il corpo non riesce a organizzare i movimenti. È scoordinato e goffo, ignorante nelle movenze basilari del nuoto.

Muovo le braccia a rana, facendo ampi cerchi, ma sembra che l'acqua sia troppo vischiosa, come gelatina.

Sbatto anche le gambe, disperatamente, sprecando più ossigeno di quanto potrei.

Però funziona.

Riesco a darmi la spinta necessaria per raggiungere la superficie.

Per un attimo vorrei gridare, esultare, quando i polmoni ritrovano l'ossigeno e si riempiono, poi so di non essere in grado di mantenermi a galla e torno giù.

Lotto contro me stesso per riuscire a risalire, ma ogni secondo fuori dall'acqua sono dieci passati sotto.

La mente comincia ad annebbiarsi, a non creare più pensieri sensati.

Anche l'istinto di sopravvivenza senza sopirsi sempre di più.

La vista si annerisce mentre il cuore batte un po' più forte, un po' più dolorosamente. Non vuole arrendersi all'inevitabile.

Non voglio arrendermi neanche io.

Con le ultime forze che mi sono rimaste riemergo ancora, sapendo che non riuscirò più a farlo.

I miei occhi colgono il baluginio di un oggetto argenteo ai lati del mio campo visivo.

La speranza mi invade insieme alla disperazione: un paracadute a cui è legato un galleggiante rettangolare, largo quanto il mio torso, atterra sull'acqua a tre metri da me.

Non posso raggiungerlo, non so come fare, non ne ho la forza.

Vorrei poterlo dire agli sponsor, vorrei poterlo dire a mio padre, così che sappiano che non è colpa loro se non sopravvivrò.

Un'onda, inaspettata, mi sommerge.

Le orecchie rombano come tamburi mentre la pressione dell'acqua spinge per entrare.

Riesce ad infilarsi nel naso, di nuovo, e a raggiungere la gola.

La stoffa imbevuta d'acqua del paracadute galleggia come una medusa a testa in giù proprio sopra di me, mentre il galleggiante viene cullato avanti e indietro dalle onde.

Con uno sforzo titanico allungo le braccia. Le dita si chiudono intorno al tessuto argenteo.

Dentro di me sento qualcuno lamentarsi: possibile che tu non abbia ancora intenzione di morire?

Le braccia mi uccidono di dolore, insieme al petto, mentre mi isso fuori dall'acqua e getto il busto sul galleggiante quadrato e rigido.

Un urlo di dolore mi taglia la gola per la ferita che tira e sanguina.

Con il rombo del cuore nelle orecchie, i polmoni indolenziti per lo sforzo, e il corpo quasi privo di energie, consento a me stesso di chiudere gli occhi.

Agli angoli del mio campo visivo scorgo una figura avvolta in un manto nero, in piedi sulla superficie dell'acqua.

Mi guarda con soddisfazione, quasi l'avessi appena stupita.

- La prossima volta morirai. -

Dice. Sparisce, e con essa la mia coscienza.


The Corner

Ciao a tutti!
Chiedo perdono per il ritardo,
ho avuto dei problemi,
però non dimentico la pubblicazione!
Spero che mi perdonerete >_<
Il capitolo è un po' di passaggio,
e forse non è interessante...
Spero che non vi annoiata!
Prossimo appuntamento, spero puntuale, è per lil 17 Ottobre!
Chii

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Capitolo 19
*** Il bacio di Giuda ***


18: Il bacio di Giuda

 

Vago nel buio. Passeggiando con le mani in tasca accompagnato da un fischiettare sommesso.

È confortante ma anche stranamente inquietante il modo in cui la mia voce rimbomba e torna indietro, come se mi trovassi in un grande, enorme ambiente completamente vuoto, e oscuro.

Per quanto sforzi la vista, qui non c'è niente da vedere.

Qualcuno deve aver spento la luce del mondo.

Non me ne preoccupo, ma non so perché.

Mi limito ad andare avanti, un passo dopo l'altro, senza farmi troppe domande.

Poi sento qualcosa.

Smetto di fischiare all'improvviso, e il silenzio riempie quello spazio vuoto tanto quanto il buio.

Porto una mano al petto. Non sento battere il cuore.

“Strano.” mi viene da pensare, ma non mi suscita il terrore che dovrebbe suscitarmi.

Sento una forte pressione schiacciarmi i polmoni, ritmica.

Uno, due, tre.

Poi un soffio d'aria gelida che mi brucia la gola.

E di nuovo la pressione.

Un, due, tre.

Il buio si fa meno buio.

Aggrotto la sopracciglia.

Lì, in fondo, uno squarcio di luce taglia in due l'oscurità.

S'intravede qualcosa, ma sono troppo lontano per poter capire di che si tratta.

“È lì che devi andare.” mi intima una voce, da un angolo sperduto della mia mente.

- Verso la luce? Okay. -

Mi ritrovo a dire, senza sapere bene con chi o con cosa sto parlando.

Accelerò un po' il passo.

La pressione al petto si sta facendo veramente insopportabile.

La luce si avvicina, ma non sembro in grado di raggiungerla. Per quanto tendo le braccia non arrivo mai a toccarla.

Toccarla? Ma che dico, neanche mi ci avvicino, neanche posso sfiorarla.

- Avanti Esperimento, riapri gli occhi. -

La voce rimbomba un po' ovunque in questo spazio buio.

Sono sicuro di conoscerla, ma non riesco bene ad identificarla. È amplificata dal vuoto e mi fora quasi i timpani.

Mi ritrovo a tenere le mani pigiate sulle orecchie per limitarne i danni.

Ma chi è che urla così forte?

Lo squarcio di luce si ingrandisce sempre di più, così tanto da ingurgitare quel che è rimasto del buio.

Il panico mi prende il petto quando vedo un fascio di luce viva mi afferra per il torso e mi trascina via.

 

Spalanco gli occhi, mentre la bocca mi si riempie d'acqua.

Il corpo, per istinto, mi obbliga a voltarmi in un lato e vomitarla fuori.

Fuori, fuori, fuori, non va bene che rimanga dentro.

Tossisco, mentre il getto d'acqua mischiato all'acido dei succhi gastrici mi risale su per la gola.

Qualcuno mi da una pacca sulla schiena, per cercare di confortarmi.

- Su, su, adesso è tutto apposto. -

Tra un colpo di tosse e un altro realizzo che quella è la stessa voce che ho sentito qualche attimo fa.

Non appena il respiro si regolarizza, mi lascio cadere sulla schiena, ansimante.

Ma dove sono? Che è successo?

Riconosco le sfumature arancioni di un cielo al tramonto.

I miei occhi percorrono lo spazio intorno a me, incontrando palazzi semi-distrutti, carcasse di macchine, i resti di una città distrutta.

Mi ci vogliono cinque lunghissimi minuti per capire che sta succedendo.

È di nuovo la città avvolta nell'eterno crepuscolo.

Il mio sguardo scivola sul ragazzo inginocchiato accanto a me.

Se ne avessi la forza, gli salterei al collo per la gioia.

- Anthya! -

Riscopro di avere una voce che non è la mia, o almeno una voce che non somiglia alla mia. È arrochita, dura, e molto più bassa di quanto ricordassi.

Deve essere il risultato dei colpi di tosse che mi hanno raschiato la gola.

Anthya mi sorride con un sospiro sollevato.

- Per un attimo ho creduto che fossi morto, sai? -

Mi dice, passandosi una mano tra i capelli scuri.

Io strizzo gli occhi, non capendo bene che cosa sta dicendo.

- Morto? A me sembra di essere vivo. -

Provo, ridacchiando, anche se devo ammettere di sentire tutto il corpo scosso da brividi di dolore. Non c'è una sola cellula che non mi faccia male.

- Bhè, sei vivo adesso, ma ti assicuro che quando ti ho trovato non respiravi neanche. - lo stupore mi si deve leggere in faccia, e deve essere anche piuttosto buffo, perché Anthya scoppia a ridere e scuote la testa - Il tuo cuore era fermo, ti ho dovuto rianimare. -

Provo a muovere un'obiezione, ma poi ricordo la sottospecie di sogno dalla quale mi sono risvegliato.

In quel posto nero come la pece il mio cuore non batteva.

- Oh. - mi viene da dire - Quindi ero tipo morto? -

- Abbastanza morto direi. -

Commenta lui facendo una strana smorfia.

Mi viene da massaggiarmi il petto.

La ferita è stata ricucita per l'ennesima volta. Non voglio guardarla perché so che vedrei un patchwork di pelle messa insieme alla bell'e meglio. Sotto le dita sento la cicatrice spessa e gonfia.

- È opera tua? -

Gli dico soltanto. I suoi occhi bluastri seguono il percorso delle mie dita, soffermandosi sul petto.

Annuisce.

- Merito mio e di Astrid. -

- Astrid? -

Quasi mi strozzo dicendo quel nome.

Vorrei balzare in piedi e raggiungerla, ovunque sia, ma il dolore mi blocca a terra e mi mozza il respiro il gola.

- Non ti sforzare. - cos'è un rimprovero? - Sei ancora troppo debole. Purtroppo non abbiamo molto cibo, ci è rimasto solo qualche striscia di carne secca. Te la devi far bastare, puoi? -

- Io...io...credo di sì. -

Mi ritrovo a balbettare.

Ma cosa diamine è successo?

 

Ci vogliono dieci lunghi minuti perché Anthya, e Astrid, riescano a chiarirmi le idee.

Il temporale che ha allagato l'Arena è durato il tempo necessario per cancellare ogni traccia della foresta, e per ammazzare qualche Tributo.

Anche se gli Strateghi forse non si sarebbero aspettati di vedere morire la ragazza del Distretto 1 e i due Tributi del Distretto 8.

Mizar non ne deve essere felice.

Come io non lo sono per la morte di Lewe e Josei.

Non ci sono state altri morti.

A detta di Anthya, e di lui mi fido visto che ha una memoria fotografica da far invidia a chiunque, siamo rimasti in 12.

Praticamente la metà di quanti eravamo all'inizio.

Ma siamo sempre troppi, e abbiamo raggiunto un punto morto.

È probabile che gli Strateghi organizzeranno qualche altra diavoleria per stringere la cerchia dei sopravvissuti.

Non riesco a pensare a Josei e Lewe senza che una stretta mi prenda il cuore.

Sono morti, mentre io sono ancora vivo.

Quale linea sottile ha separato me e loro dalla sopravvivenza piuttosto che la morte?

Gli Sponsor hanno deciso di dare aiuto a me, solo a me, mentre hanno lasciato morire loro.

Se non fosse stato per quel galleggiante, sceso giù dal cielo come una manna, sarei annegato irrimediabilmente.

Quello stesso galleggiante avrebbe potuto salvare Lewe, o Josei, o entrambi.

Il cuore mi fa male per il troppo battere.

È sempre quello il punto.

Cos'ho io più di altri per avere il diritto di sopravvivere?

La testa mi si riempie di immagini.

Mio padre, in lacrime sulla veranda una notte di Agosto; mio padre, in preda ad una crisi isterica, da solo nei campi; mio padre, che urla disperato, spingendo la testa contro il cuscino.

Occasioni in cui ha pensato di essere solo e ha dato libero sfogo al suo dolore.

È questo, è questo il dolore per cui soffre tutti i giorni?

Il dolore di chi è sopravvissuto? Di chi rimane ma ha perso tutto?

Anthya mi ha trovato così, esanime, ancora avvinghiato al galleggiante che mi ha salvato la vita .

Codardo anche in punto di morte, eh Tom?

Avresti potuto lasciarti andare, invece di inseguire per l'ennesima volta una vita che non potrà che finire qui, in questo posto.

Ma la mia più grande domanda è: perché mai Anthya mi ha salvato la vita?

Anzi, sarebbe più corretto dire: perché mai tutti qui dentro cercano di salvarmi la vita?

Prima Josei e Lewe, poi lui.

Senza di loro sarei probabilmente già morto da un pezzo.

I miei occhi scivolano, offuscati da un'ombra di confusione, su Anthya.

Lui così tranquillo, lui così sorridente, lui così estraneo a questo luogo da mettermi i brividi.

Si comporta come se non sapesse dove ci troviamo, si comporta come se prima o poi non dovesse scegliere tra me, se stesso e la sua compagna.

Scuoto la testa.

La città dell'eterno crepuscolo ci circonda con il suo silenzio e con la sua tenue luce arancione.

Anche se il fumo nero si alza continuamente verso il cielo, non c'è nessuno scoppiettare di incendio, o rumore di qualsiasi genere che lascia intendere che qualcosa stia bruciando in questo momento.

Forse è la terra stessa a fumare.

- Tieni. -

Anthya mi porge una borraccia.

Prendo un sorso d'acqua senza neanche pensarci.

Come se potessi credere che Anthya potrebbe avvelenarmi dopo avermi fatto ripartire il cuore.

Stranamente, una risata mi risale su per la gola.

Sia Astrid che Anthya mi guardano stralunati, come se il fatto di aver sfiorato ancora la morte mi avesse fatto andare fuori di testa.

Magari è proprio così.

- Stavo pensando. - comincio, come se non sapessi che tutto il mondo mi sta guardando - Che sono morto e resuscitato un bel po' di volte durante questi giochi. - fisso gli occhi al cielo, e spero che una telecamera mi stia inquadrando in viso - Sarò mica immortale? -

Anthya mi da un pugnetto sul braccio, come a volere scherzare (ma non così tanto).

- No, sei solo orribilmente fortunato. Il più fortunato di tutti. -

- La fortuna non rende immortali? -

Chiedo, facendo tornare gli occhi su di lui.

Sento di avere un ghigno stampato sul volto.

Lui scuote la testa e alza gli occhi al cielo.

Astrid mi si fa vicina, con aria preoccupata.

- Io non tenterei troppo la sorte. Potresti non avere più nessuno colpo di fortuna, e farti davvero male. -

All'improvviso, nel mio campo visivo, entra una figura incappucciata, in nero, che mi sussurra qualcosa alle orecchie.

Mi avverte che la prossima volta...

Strizzo gli occhi e scuoto la testa.

Astrid tiene una mano sul mio braccio. La guardo come a chiederne la ragione.

- Stai bene? -

Mi dice soltanto.

Dalla sua faccia capisco di essere impallidito di colpo.

Cerco di nascondere i brividi di paura e di freddo che mi scuotono la schiena.

- Dove siamo adesso? -

Chiedo, cambiando repentinamente argomento.

Entrambi colgono la mia necessità di parlare d'altro, come se da questo potesse dipendere la mia intera sopravvivenza.

- Non molto lontano dalla Cornucopia. -

Sgrano gli occhi alle parole di Anthya.

- Non ci sono Favoriti nelle vicinanze. - si affretta ad aggiungere Astrid - Con l'Arena che cambia sempre aspetto, è difficile rimanere insieme, e stabilirsi in un unico posto. -

- Questa l'abbiamo trovata così. - Anthya agita davanti agli occhi una cassetta del pronto soccorso, così simile a quella che avevano Lewe e Josei da farmi stringere lo stomaco - Qualcuno deve averla persa, oppure è stata trascinata via dagli eventi, e ha incontrato noi. -

Sembra così contento del ritrovamento, così soddisfatto, mentre io sento il cuore ridursi alla grandezza di uno spillo.

Ne ho abbastanza di tutta questa fortuna, ne ho abbastanza di essere “immortale”.

La prossima volta, sarà tutto diverso.

Indugio un po' con la borraccia tra le mani.

- Come vi siete ritrovati, voi due? -

Mi viene da chiedere, pensando a quanto disperata ed inutile fosse stata la mia ricerca prima che l'Arena si allagasse.

Anthya e Astrid si scambiano un'occhiata.

- Quando lei è stata presa in ostaggio, io le sono andata dietro. Ho avuto qualche brutto incontro nella foresta e non sono potuto venire a darvi manforte. - non c'è bisogno che Anthya aggiunga un “mi dispiace”, che è praticamente implicito - Diciamo che è stata lei a tornare da me. -

Gli rivolgo un sorriso.

- Non sono il solo fortunato qui. - rimaniamo in silenzio, rincorrendo chissà quali pensieri, immaginandoci in chissà quali posti, rivolgendo un saluto a persone che non rivedremo mai più. - Da quanto tempo...l'Arena è asciutta? -

- Saranno quattro ore. -

Commenta vagamente Anthya.

È tutto molto vago.

Come la nostra esistenza.

Il mio stomaco gorgoglia, e così il loro.

Ci guardiamo in faccia e capiamo di doverci alzare, e dover trovare qualcosa da mettere sotto i denti prima che qualcosa metta sotto i denti noi.

Anche se mi sento debole e vorrei solo rimanere sdraiato a terra e lasciarmi morire, mi obbligo ad alzarmi e seguire Astrid ed Anthya.

 

Per un po' camminiamo guardandoci le spalle a vicenda.

Non sappiamo bene che cosa aspettarci dagli altri, ma neanche da noi stessi.

Possiamo fidarci gli uni degli altri finché la situazione ce lo permetterà.

Le mani mi prudono.

Non credo di essere pronto ad uccidere Astrid.

Fin ora l'ho rincorsa con la speranza di salvarla. Come posso anche solo sfiorare il pensiero di poterle fare del male?

12.

Dio, sono morte dodici persone.

Ancora undici devono morirne.

Io, Astrid e Anthya: potremmo non essere più qui tra due ore.

La sensazione pressante di essere osservato mi fa girare la testa verso un punto lontano tra le macerie.

Intravedo qualcosa di rosso.

Mi stropiccio gli occhi, credendo di aver preso un abbaglio.

- Tom? Che succede? -

La voce di Astrid mi arriva come da molto lontano, mentre gli occhi tornano al punto che avevano osservato pochi istanti prima.

- Mi sembrava di aver visto... -

Comincio, ma la frase mi muore in gola.

Ora so che cosa ho visto. Lo so.

Prima di rendermene conto sto già correndo, il petto che mi manda dolorose fitte insieme alle gambe e al cuore.

Una chioma di capelli rosso fuoco.

Chi altri porterebbe una pettinatura così nell'Arena?

- Ria! -

Sento la mia voce urlare, contro ogni buon senso.

Quasi scivolo mentre mi getto sul corpo di Ria, accasciato a terra.

Le prendo il polso, lo stringo, appoggio l'orecchio sul suo petto.

Tutum tutum.

Un battito, un piccolo battito.

È ancora viva.

- Ria? Mi senti? -

La chiamo sottovoce, proprio dopo aver urlato il suo nome come su un palcoscenico.

Le do qualche schiaffetto sulla guancia, ignorando il mio cuore scalpitante in petto.

Lei fa una smorfia, muove la testa leggermente, le palpebre hanno un fremito.

La chiamo ancora una volta.

Lei manda un urlo e, forse per autodifesa, mi da un cazzotto sul naso.

Sorpreso, cado all'indietro, mentre il dolore mi esplode davanti agli occhi.

Sento le urla di lei attutite dai tentativi di Anthya e Astrid, sopraggiunti in quel momento, di calmarla.

Due minuti dopo avermi scassato il setto nasale, Ria entra nel mio campo visivo.

- Mi dispiace, non volevo. -

Piagnucola.

- Fa niente. -

Mi ritrovo a dire. Ma fa, fa malissimo, ecco che fa.

Lei si butta al mio collo, stringendomi.

Poi, a tradimento, mi appoggia un bacio sulle labbra.


The Corner

Ciao a tutti!
Il capitolo è per chi chiedeva che fine avesse fatto Ria...eccola qui!
Adesso che l'hanno trovata chissà cosa succederà!
Io la terrei d'occhio quella ragazza...o forse no...bho!
Prossimo appuntamento giovedì 24 Ottobre :3
Chii
 

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Capitolo 20
*** Una serpe in seno ***


19: Una serpe in seno

 

È un istante lento e denso come melassa.

Vedo me stesso che scioglie l'abbraccio di Ria. Vedo me stesso che l'allontana. Vedo me stesso fare un'espressione a metà strada tra lo scioccato e il compiaciuto.

Il pubblico a casa penderà più per il compiaciuto, lo so perché mi rendo conto di avere abbozzato un mezzo sorriso, anche se gli occhi fissano oltre la spalla di Ria, verso Astrid.

C'è qualcosa di sbagliato in lei che mi guarda con la faccia di chi ha il cuore spezzato. C'è qualcosa di sbagliato nella sofferenza che per un attimo luccica nelle iridi grigie.

La risatina di Ria riporti sia me che Astrid alla realtà.

Ci voltiamo a guardarla come se ci avesse disturbati nel bel mezzo di una conversazione (e d'altronde i nostri occhi non stavano parlando in silenzio?).

- Scusami, sono stata un po' impulsiva! - dice lei, ma non sembra veramente intenzionata a scusarsi. È una cosa così, tanto per dire. - Ma mi sei mancato così tanto...ho temuto in ogni momento per te! Mi sono sentita smarrita! -

Probabilmente le telecamere devono stare riprendendo solo la faccia di Ria, perché le nostre non sono proprio delle migliori. Non di quelle che si devono vedere in televisione almeno.

Le facce di Anthya, di Astrid e la mia hanno in comune le sopracciglia inarcate e una smorfia, una smorfia particolare: quella di chi sa che sta ascoltando una bugia ma che non può ribattere perché non ha le prove sufficienti.

Io mi sento addosso ancora quello stupido sorriso.

Quanto l'immagine che ho costruito di me sta influendo...sul vero me stesso?

- Dov'eri finita? Pensavo che non ti avrei ritrovata più! -

Riesco a dire, e suona falso anche alle mie stesse orecchie, figurarsi a quelli che mi stanno ascoltando.

Ma in qualche modo so che si stanno bevendo ogni singola parola, e che non c'è modo di convincerli del contrario.

Mi immagino una scena da soap opera, ed io sono il protagonista principale.

Ria tira indietro i capelli, in un modo che dovrebbe essere delicatamente civettuolo ma che, a causa del color rosso sangue con cui glieli hanno tinti, sembra solo perverso e con troppi doppi fini.

Porta una mano al mio viso, con forzata delicatezza mi tocca il naso martoriato dal suo cazzotto.

- Mi dispiace di averti fatto male, te l'avevo detto? Non volevo. Ho reagito di istinto. -

Ancora un sorriso stupido.

Smettila Tom, smettila, questo non sei tu. Lei non ti piace neanche!”

Gli occhi corrono per un momento ad Astrid. Si tiene il petto, come se le stesse per scoppiare, mentre gli occhi lucidi di lacrime sono pronti a straripare come un fiume in piena.

Non so neanche perché.

Scosto appena la testa, cercando di sfuggire a quelle mani, troppo fredde, troppo umide, troppo sbagliate, che mi toccano il viso.

- Sì, me l'avevi detto. Ma sto bene, non è stato così terribile. -

La mia voce ha un tono ridacchiante, ma nel frattempo arretro e svicolo via, in modo da potermi alzare e sfuggire dalle sue grinfie.

Non le voglio stare vicino neanche per sbaglio.

Anthya le porge una mano per aiutarla ad alzarsi. Lei fa un po' di scena, come fosse una damigella in pericolo, e quando è in piedi si spolvera i calzoni della divisa con fare melodrammatico, come se soffrisse di atroci dolori.

Mi viene automatico toccarmi il petto, giusto per assicurarmi che io sia stato veramente ferito e che io abbia molte più ragioni di lei a lamentarmi e fare i piagnistei.

- Comunque sia. - riprende lei. Vuole proprio avere l'ultima parola. - Con quest'Arena che cambia in continuazione non si capisce niente! Mi sono completamente persa, e non ho avuto modo di venirvi a cercare. Non sapevo neanche dove cominciare a cercarvi, veramente. -

Un modo come un altro di dire che non ci aveva proprio provato.

È chiaro ad Anthya, che storce il naso.

Qualcosa mi dice che non si fida di lei.

Una punta di ansia mi prende lo stomaco, mentre il cervello comincia a farsi domande del tipo: com'è possibile che Ria sia sopravvissuta fino ad adesso con le sue scarse capacità? È stata aiutata, oppure è semplicemente qualcosa che viene da lei e che ha tenuto nascosto a tutti? A me, a mio padre, agli Strateghi?

Che personaggio ha portato in scena Ria Sommerfeld fino a questo momento?

Scoprire di non fidarmi di lei è anche più strano di scoprire che invece mi fido di Anthya e Astrid.

Che cosa me ne verrebbe a fidarmi più di due sconosciuti piuttosto che della mia compagna di Distretto?

Non riesco a venirne fuori.

Qualcuno mi riprende, chiamando il mio nome. Scopro essere Astrid, che mi guarda con uno strano cipiglio.

Io scuoto la testa e le rivolgo un sorriso. Almeno questo è vero.

- Niente, pensavo. - tiro un sospiro - Hai avuto brutti incontri, Ria? -

In questo momento sento la mia voce trasformarsi in qualcosa di indagante e insinuante, che chiede per ottenere, e non solo per informazione.

Lei butta in aria gli occhi, come a cercare suggerimento tra le nuvole. Viene quasi automatico seguire il suo sguardo, ma mi trattengo e rimango fisso su di lei.

- No, bhè, è stato tutto abbastanza tranquillo. A parte i cambiamenti dell'Arena. -

“Tutto abbastanza tranquillo”, quello che di sicuro non è l'Arena, anzi, è tutto il contrario dell'Arena.

Mi vengono brividi lungo tutto il corpo.

È una spia!” mi urla la mia coscienza.

Una spia, che spia? Di chi? Perché?

L'illuminazione mi arriva dopo pochi secondi: Mizar.

L'unico motivo per cui lei è ancora viva è perché è stata aiutata da qualcuno, esattamente come è successo per me. E se io sono riuscito a cavarmela per una serie di fortunati incontri, perché mai non deve essere stato lo stesso per lei?

Se ha incontrato i Favoriti, di certo non l'hanno uccisa. E se non l'hanno uccisa, l'hanno sfruttata a loro vantaggio.

Com'è successo per i suoi “amici” Spiegel e Aizin.

Se sono riusciti a convincere quei due dalla loro parte, perché devo credere che non hanno fatto lo stesso con Ria?

E poi sono certo che lei invece di cercare noi sia andata a cercare loro, e che insieme siano stati scovati dai Favoriti al solo scopo di tendermi una trappola.

Sento il cuore vibrare di paura sotto il peso schiacciante di quella consapevolezza.

La domanda che mi sorge subito spontanea è: perché?

Ma non faccio neanche in tempo a cercare una risposta che quella viene subito spontanea alle mia mente: sono gli Hunger Games.

Forse le hanno offerto protezione, forse le hanno offerto qualcosa che in quel momento non poteva rifiutare. Forse era l'unica scelta che aveva.

Potrei anche provare pietà per lei, se non la sentissi avvolgersi contro il mio braccio, lasciva.

- E tu? - poggia piano una mano sul petto - Hai avuto dei brutti incontri, immagino. -

- Sì, più di uno a dire il vero. -

Commento, atono, mentre i miei occhi scivolano in quelli di Ria.

Vorrei dirle che ho scoperto il suo gioco, che non può mentirmi, che prima di permetterle di aggredirmi alle spalle sarò io a farlo.

Ma non lo faccio. Addolcisco lo sguardo, rilasso il volto, forse sorrido anche (ormai è diventato ingrediente ufficiale della mia messa in scena).

Lei invece aggrotta le sopracciglia e butta in fuori le labbra come fosse estremamente dispiaciuta per me.

Gronda falsità da ogni poro.

- Ti fa molto male? -

- No, ormai no. - faccio in fretta a rispondere, anche se non è vero. Ma la falsità si ripaga con la falsità. - MI hanno rimesso insieme in qualche modo. -

- Sì, ma non sei ancora del tutto ristabilito, dovresti stare attento a come ti muovi. -

Mi ammonisce Anthya, e so che lui sì che è preoccupato per me.

La differenza tra il suo tono di voce e quello di Ria è palpabile, tanto che mi viene un brivido.

Ridacchio un po' all'indirizzo di Anthya. Non vedo l'ora di potergli dire a che conclusioni sono arrivato, non vedo l'ora di sentirmi dire da lui che ha fatto gli stessi pensieri. Non vedo l'ora di sentirmi dire che ho ragione.

- Forse avrei bisogno di una notte di riposo, o una cosa che somigli ad una notte, va bene uguale. Sono distrutto. -

Astrid lascia scivolare lo sguardo sui palazzi diroccati che ci circondano, e quelli ancora in piedi.

- Potremmo provare a trovare qualche stanza lì. - indica con il mento una serie di edifici residenziali che sembrano ancora in buono stato. Sono abbastanza alti, una decina di piani almeno. Dalla terrazza si potrebbe avere una perfetta visuale dell'Arena. - Questo habitat non dovrebbe cambiare almeno fino a domani sera. - poi fissa gli occhi sull'orizzonte, sull'enorme sole arancione onnipresente in ogni cambio di aspetto - Abbiamo un bel po' di tempo. -

- Sì, concordo. - dice Anthya - Siamo tutti stanchi, e sono sicuro che abbiamo bisogno di riposarci un po'. Possiamo organizzare dei turni di guardia, mentre cerchiamo di capire dove sono gli altri Tributi. -

- Da lassù di certo vedremo qualcosa. -

Indico il tetto del palazzo, dato che non sembra così chiaro ai miei due compagni e alla traditrice.

Anthya annuisce soddisfatto, con un sorriso.

- Direi che è perfetto allora. -

Sorvolo sul fatto che, quando sono entrato in quell'albergo il primo giorno, ho avuto solo brutte sensazioni su questa città.

Adesso siamo in gruppo, tutti contro Ria, e potremo di certo uscire da qualsiasi situazione che gli Strateghi hanno in mente di organizzare.

A passo tranquillo, senza parlare di niente perché di niente c'è bisogno di parlare nell'Arena, ci dirigiamo verso il palazzo.

È più lontano di quanto sembri, e siamo stanchi come poche cose al mondo quando lo raggiungiamo.

I vetri delle finestre dei primi piani sono quasi tutti andati in frantumi.

Camminandoci sopra si sente un rumore macabro. Sembra di calpestare delle ossa.

Senza sforzo ci infiliamo all'interno, superando la finestra senza vetro.

Porgo la mano ad Astrid per aiutarla a superare uno spuntone di vetro, ma a prenderla è Ria, contro ogni mia aspettativa, tanto che sollevo in alto le sopracciglia.

Lei ride della mia espressione, Astrid un po' meno.

C'è un ascensore fermo a metà tra piano terra e primo piano, le porte spalancate, l'interno vuoto.

L'unico modo per salire è usare le scale.

Ci guardiamo in faccia, un po' stravolti: dieci piani a piedi?

Sospiriamo quasi all'unisono davanti alla prospettiva di doverci arrampicare su per il palazzo, visto che siamo già stanchi come mai prima d'ora.

Visto che ancora nessuno se la sente di imboccare le scale, quasi ci aspettassimo che qualcuno dicesse “lasciamo stare”, mi prendo la responsabilità e comincio salire.

Subito dietro di me sento Astrid e Anthya, in coda Ria, ancora reticente.

Mentre salgo mi rendo conto che questo edificio è stato costruito a livelli.

I primi cinque piani sono adibiti ad uffici.

Dopo aver frugato un po' abbiamo trovato una macchinetta piena di dolciumi, prontamente trafugati, anche se nessuno di noi sa bene se sia il caso di mangiarli o no, e un boccione d'acqua potabile (quella la berremmo anche se fosse marcia).

Gli ultimi cinque piani, invece, sono composti da piccoli appartamenti.

Dopo aver percorso quasi tutto il corridoio del decimo piano e aver trovato tutte le porte chiuse, sono sicuro che saremo costretti a scendere al nono, dove qualche porta si apriva.

Invece, proprio vicino alla rampa di scale che porta alla terrazza, giro la maniglia e una porta si apre.

Mi ritrovo in un bellissimo appartamento, arredato di tutto punto come se fosse pronto ad accogliere una famiglia felice.

Anthya deposita il risultato del saccheggio di poco prima sul tavolo della cucina, mentre Ria si accomoda squittendo sul divano.

Sembra di trovarsi in una stanza qualunque di una casa qualunque di Capitol City.

- Troppo lusso per non essere sospetto. -

Esce fuori dalle labbra di Astrid, che ancora non ha oltrepassato la soglia.

La invito ad entrare tendendole una mano, ma lei la ignora e mi supera, come a dire che può fare benissimo da sola. Una fitta mi prende il cuore.

- Ricordati che non durerà molto, solo qualche ora, e dobbiamo approfittarne. -

Le dice Anthya, lanciando a me e a lei una barretta di cioccolato.

- E riguardo queste? -

Agito la barretta. La carta scrocchia.

Per tutta risposta, Anthya apre la sua, e gli da un grosso morso.

Io e Astrid rimaniamo a fissarlo per un istante, come se fosse impazzito.

Lui manda giù il boccone e sorride soddisfatto.

- Alle nocciole, buonissima. -

Forse confortata dal suo gesto, anche Astrid si arrischia a scartare la barretta. Le da un morso piccolissimo, quasi invisibile. I suoi occhi si sgranano di piacere, prima di staccarne un grosso pezzo.

- Buona davvero. -

Commenta con la bocca piena.

- Ne voglio anch'io! -

S'intromette di colpo Ria.

Mi ero quasi dimenticata di lei. Quasi però.

- Anthya che ne dici se facciamo un giro dell'appartamento? -

Dico, con un tono di voce insinuante.

Anthya inarca un sopracciglio, ma capisce che cosa intendo dirgli, e annuisce.

Superando l'ampio salone si arriva ad un corridoio su cui si aprono le porte delle stanze da letto.

Apro la prima porta e trovo il bagno. Mi sembra quasi un miraggio quella tazza del cesso così pulita, scintillante, su cui potrei anche mangiare.

La richiudo quasi con stizza. Dopo come ci hanno trattato, è davvero crudele regalarci tutto questo lusso.

La seconda porta è una stanza da letto matrimoniale, e così anche la terza.

- Direi che dovremmo dormire tutti insieme nel salotto. -

Dice lui, sedendosi sul morbido materasso.

Non so da dove cominciare. Mi mordicchio le labbra, indeciso. Meglio andare subito al punto.

- Penso che Ria ci tradirà. -

Gli dico, senza troppi giri di parole. Lui non sembra sconvolto a sentire quelle parole, anzi. Piega di lato la testa, come se stesse registrando il messaggio, poi annuisce.

- Lo credo anch'io. - mi sento improvvisamente meglio - È piuttosto incredibile il modo in cui è sopravvissuta da sola. Ci vedo lo zampino dei Favoriti. -

Anch'io mi ritrovo ad annuire.

- È esattamente quello che avevo pensato. -

- La terremo d'occhio. Tu ed io dovremo fare un turno di guardia in più, non possiamo abbassare la guardia con lei nei dintorni. -

Mi sento sorridere. Anche se è un sorriso amaro. Tradito dalla mia stessa compagna. E d'altronde che cosa mi dovrei aspettare se non questo? Non è proprio il senso degli Hunger Games farci sentire di non essere al sicuro in nessun luogo, privi di riparo e senza alcun legame?

- Perfetto. -
Commento soltanto.

Anthya annuisce ancora e si alza.

- Torniamo di là, siamo rimasti anche troppo senza controllarla. -

All'improvviso temo che possa essere successo qualcosa ad Astrid e mi do dello stupido.

Mi si stringe lo stomaco in una morsa.

Quasi corro verso il salotto, ma quello che vedo mi fa sospirare di contentezza.

Ria è spaparanzata su un divano, mentre Astrid è accucciata su una poltrona, piccola e concentrata su se stessa.

- Ci siamo preoccupati troppo. -

Dico, scuotendo la testa.

- Già! -

Anthya ridacchia.

Mi avvicino alla finestra.

La città ai piedi del palazzo si dispiega come una lunga striscia di palazzi abbattuti e fumanti. Ci sono pire accese un po' ovunque, anche se non si vede fuoco, solo fumo, fumo nero che si alza verso il cielo ma non lo copre, visto che rimane dello stesso colore aranciato di sempre.

L'eterno crepuscolo.

I miei occhi cadono sulla piazza della Cornucopia.

Da qui si ha una buona visuale.

Non è rimasto niente nella sua bocca, né nei dintorni: tutti gli oggetti e le armi che potevano essere utili, sono stati presi. Anche quelli che di utile non hanno niente, evidentemente.

Dei Favoriti non si vede traccia, ma d'altronde non potevo aspettarmi che stessero in bella mostra accanto alla Cornucopia.

Magari in questo momento stanno osservando la piazza esattamente come sto facendo io da uno dei palazzi vicini...magari invece solo proprio in questo palazzo, qualche piano sotto, o alla porta accanto...

Preso dal panico mi volto verso Anthya.

- Forse non dovremmo rimanere qui. E se ci fossero anche i Favoriti? -

- Ne dubito. Questo è uno dei palazzi più bassi, e anche dei meno lussuosi. Conoscendo quella gentaglia è probabile che abbiano scelto una base molto più appariscente. -

Indicò con il mento il grande grattacielo che taglia in due il panorama dell'Arena.

Non me n'ero accorto fino a quel momento perché ero rimasto a guardare tutto l'insieme, senza soffermarmi sul particolare.

Non commento. Anche se le sue parole sono state confortanti, il panico rimane.

Anthya si sdraia sul tappeto accanto alla poltrona dov'è accucciata Astrid, le braccia dietro le testa e gli occhi già chiusi.

- Se permetti, lascio a te il primo turno di guardia. Chiamami tra due ore, ok? -

Dice, con la voce più assonnata di quanto sembrasse fino a due minuti fa. Si esibisce in uno sbadiglio e poi tace.

Non si aspetta che io risposta. In ogni caso si è già addormentato.

Osservo i miei compagni, tremando quando i miei occhi arrivarono ad appoggiarsi sul volto addormentato di Ria.

Una serpe in seno, ecco cos'è.


The Corner

Ciao a tutti!
ce l'ho fatta ad aggiornare la storia!
spero che il capitolo vi piaccia :3
dato che forse partirò per il week-end di halloween, non so quando verrà pubblicato il capitolo, se mercoledì 30 o giovedì 31 ottobre!
bhè, uno dei due giorni, non vi resta che controllare! XD
Chii

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Capitolo 21
*** Quando si premedita freddamente un delitto, si premeditano freddamente anche i sistemi per celarlo ***


20:

Quando si premedita freddamente un delitto, si premeditano freddamente anche i sistemi per celarlo.

 

Sbadiglio e mi passo una mano sulla faccia.

Non è passata ancora nemmeno un'ora e vedere quei tre addormentati davanti ai miei occhi non fa che farmi venire voglia di raggiungerli nelle braccia di Morfeo.

Sbadiglio ancora, stavolta mi stropiccio gli occhi.

Giusto per cercare di far finta di essere un Tributo degli Hunger Games mi alzo in piedi e mi avvicino alla finestra, come più o meno ho fatto nell'ultima mezz'ora.

Ma è tutto tranquillo, a partire dal cielo, placido e dai colori aranciati, per finire alla città semi distrutta, avvolta nei suoi fumi perenni, scaturiti da chissà quale incendio nascosto.

Non sembra esserci niente di interessante da fare, a parte rimanere qui a poltrire.

Sbuffo, è tutto così tranquillo che se non m'invento qualcosa da fare finirò con l'annoiare il pubblico a casa, e questo vorrà dire la fine di ogni tranquillità.

Mi mordicchio l'interno della guancia. Chissà che cosa succederebbe se mi facessi un giro.

Ma sei impazzito?!” urla la mia coscienza “E lasceresti qui Anthya e Astrid da soli con Ria?!”

Giusto, che egoista.

Sbuffo di nuovo, pensando a quanta noia accumulerò nella prossima ora.

Torno a sedermi sulla poltrona di fronte al divano dove loro tre se la dormono come se niente fosse.

I miei occhi scivolano, volenti o nolenti (probabilmente più volenti) sul corpo addormentato di Astrid.

Il modo in cui i capelli ormai corti che cadono sul viso, le ciglia folte chiuse che quasi toccano le guance...

Piego di lato la testa, quasi mi aspettassi di vederle aprire le palpebre per vedere quelle perle grigio intenso che sono i suoi occhi.

Qualcosa si agita sul fondo del mio stomaco quando penso alla bellezza e alla semplicità del suo sguardo.

Non innamorarti.” mi redarguisco da solo.

Mi sento strano pensando che sia ormai troppo tardi.

- Ciao. - Salto in aria. I miei occhi schizzano via da Astrid e si appoggiano su Anthya che si sta stiracchiando tutto. - Quando ho dormito? -

- Un'ora, forse. -

Sbotto. Forse sto arrossendo.

Quand'è che si è svegliato? Mi ha visto mentre guardavo Astrid? Quando tempo sono stato io a guardare lei e lui a guardare me?

Anthya si mette seduto, butta le braccia al cielo per sgranchirsi e poi si alza.

- Bhè, non riesco a dormire. -

Si giustifica con un'alzata di spalla.

Io dormirei volentieri, forse per tutta l'eternità.

Sono stanco, dolorante, ferito, forse con una serie di infezioni in corso. E per di più sono un Tributo. Perché cavolo ancora non muoio?

- Ti lascio il posto allora. -

Allargo la braccia come a sottolinearlo.

- Sì, grazie. -

Ridacchia lui scuotendo la testa e alzandosi dal divano per raggiungere la postazione di guardia sulla poltrona.

Gli faccio un mezzo inchino mentre si siede e lui ride di più.

- Penso di volermi fare un giro, posso lasciarti da solo? -

Gli dico, giusto per parlare.

Non so se riuscirei a dormire, anche se la stanchezza che ho nelle ossa mi divora centimetro dopo centimetro.

Però ho paura che se dovessi accucciarmi in un cantuccio adesso rischierei di non svegliarmi più. E poi Anthya sembra parecchio più affidabile di quanto potrei essere io.

Lui mi guardo inarcando un sopracciglio, un po' scettico.

- Sei sicuro di volerlo fare? Sei ancora parecchio debole, e là fuori c'è un sacco di gente che vuole farti fuori. -

Mi stringo nelle spalle. Non ha tutti i torti.

Nella mia assurda decisione mi sembra di vederci scritto “suicidio”.

- Faccio solo un giro nel palazzo, vedo se trovo qualche cosa da mangiare che non siano merendine al cioccolato. - gli rivolgo un sorriso - Non penso che starò via molto, ho bisogno di dormire anch'io. È giusto per scaricare la tensione. -

Anthya ci pensa, storcendo le labbra in una smorfia scontenta. Non sembra particolarmente d'accordo.

- Va bene. - conclude alla fine - Ma cerca di non fare qualche stupidaggine, altrimenti non credo di poterti venire a salvare questa volta. -

- Tranquillo, non ho intenzione di allontanarmi, non mi porto neanche un'arma. -
Forse avrei dovuto dare un nome al brillio soffuso negli occhi blu viola di Anthya, invece di ignorarlo del tutto.

- Ok, non ci dovrebbero essere animali in questo habitat, ma ci sono i Favoriti, e questo basta per rendere il tutto mortale. -

Faccio un movimento con la mano, come a dire che non c'è niente di cui preoccuparsi, anche se lui ha una faccia preoccupata da far invidia a mia madre.

- Faccio attenzione e torno subito, mammina. -

Gli dico con un sorrisetto.

Lui scuote la testa e mi rivolge il dito medio, giusto per gradire.

Mentre esco dalla porta dell'appartamento un senso di euforia mi prende alla gola.

Andiamo Tom, stai andando incontro alla tua morte per l'ennesima volta, non ti ricordi che cosa ti ha detto quel carinissimo personaggio nella tua allucinazione?

La prossima volta morirai.

Che io abbia voglia di sfidare la sorte o solo me stesso non ne ho davvero idea, ma essere fuori, lontano dalla sicurezza che potrebbe offrirmi Anthya o l'appartamento stesso, mi mette addosso una strana contentezza.

Mi sembra di camminare verso la mia libertà.

Libero morto, è meglio di libero vivo?

Non lo so ancora mentre comincio a scendere le scale appoggiando bene i piedi per non far scricchiolare i gradini.

Nonostante la devastazione che c'è in città, il palazzo sembra solido. Se non fosse per il fatto che quasi ogni ambiente è stato messo sottosopra da una qualche sorta di tromba d'aria questo sarebbe un buon posto dove vivere.

Attraverso uno dopo l'altro, in discesa, tutti i piani fino ad arrivare al piano terra.

C'è silenzio e pace. Mi sembra di essere immerso in uno scenario post apocalittico.

Se adesso incontrassi dei superstiti forse gli correrei incontro gridando al miracolo.

So di aver promesso ad Anthya di non uscire dal palazzo ma...l'aria fresca che soffia dalle finestre senza vetro mi invita ad uscire a prenderne una boccata.

Mi guardo bene intorno, cercando di individuare la presenza di persone indesiderate (e non superstiti ben intenzionati). Ma non c'è nessuno, sono solo al mondo.

Mi viene da sorridere, visto che qui da qualche parte dovrebbe esserci almeno una persona intenzionata ad uccidermi a sangue freddo e a mani nude.

Chissà dov'è, in giro per quest'Arena gigantesca.

Quanto durerà l'habitat con la città? Molto poco, se penso alla prima volta. E dopo? Verrà di nuovo il deserto?

L'idea di rischiare di nuovo di morire disidratato o peggio di incontrare qualche scorpione gigante mi fa venire i brividi.

Quanto meno con il boccione d'acqua che abbiamo trovato nel palazzo il rischio di disidratazione scende sotto lo zero.

Mi preoccupano di più gli scorpioni giganti a questo punto.

Scuoto la testa. Magari non vivrò abbastanza per vedere l'Arena cambiare, questo non sarebbe male.

Con le mani dietro la schiena, come uno scolaro in gita a cui è stato vietato di toccare quello che vede, procedo nelle macerie diroccate dei palazzi della città.

Non c'è anima viva, e neanche morta.

È così strano che comincio a pensare: gli Hunger Games saranno tutti nella mia testa?

In realtà magari sono ancora nel mio letto e Bill sta per venirmi a svegliare.

Inconsciamente tocco il ciondolo che porto al collo.

Dio se mi manca quello scemo di mio fratello.

Do un colpetto ad un sassolino e lo guardo rotolare via.

Non riesco a immaginarmi come stia in questo momento. Quante volte mi ha visto morire e tornare alla vita?

Sono scampato così tante volte alla morte che ormai non dovrei neanche averne paura.

Anzi, a giudicare dal fatto che me ne sto andando a zonzo per l'Arena, lontano dall'unico rifugio veramente sicuro che ho avuto in questi giorni, quello che cerco è proprio la morte.

Stupido, stupido Tom.

Vuoi spezzare il cuore della tua famiglia senza neanche farti venire i sensi di colpa.

Sono quasi tentato di tornare indietro, quando uno scoppio non tanto lontano fa tremare la terra e mi fa perdere l'equilibrio.

Sembra che sia appena esplosa una carica di dinamite.

L'ennesima colonna di fumo nero si alza verso l'alto.

Un urlo di donna squarcia l'aria e mi rizza tutti i peli del corpo.

Mi guardo intorno, cercando di capire da dove possa provenire, ma non riesco a vedere altro che fumo e desolazione.

Non lo fare, non andare.” mi dice la coscienza, affannata e spaventata come dovrei sentirmi ma non mi sento.

I miei piedi si muovono prima lentamente, poi dando l'input della corsa alle gambe verso la direzione dello scoppio e dell'urlo.

Ben presto il respiro si fa affannoso e una patita di sudore mi ricopre la schiena, mentre il dolore al petto si fa pungente.

Sei troppo debole.”, non mi basta come avvertimento.

Cerco di nascondermi tra le macerie mentre avanzo.

La colonna di fumo si fa più vicina e più intensa, cominciano a bruciarmi gli occhi.

Mi copro la bocca con una mano, cercando di farmi strada tra tutto quel fumo.

Un altro urlo mi trapana gli orecchie e mi fa vibrare il cuore in petto.

È così vicino che potrei toccarlo nell'aria.

Perché, perché devi fare sempre il buon samaritano e andare a soccorrere tutte le persone in pericolo che ci sono nell'Arena? Lo sai che vogliono ucciderti, lo sai che dovresti lasciarle morire, vero?”

Scuoto la testa, quasi per scacciare via quella voce petulante dalla mia testa.

Non m'importa.

Una figuretta sottile mi si para davanti, piegata in ginocchio per terra, coperta di fuliggine, terra e sangue.

La riconosco all'istante.

- Ayra? -

Lei si volge appena, mostrandomi il bel volto sciupato da una cicatrice che le renderà per sempre impossibile usare l'occhio sinistro.

Le sue labbra screpolate si schiudono appena in una “o” di sorpresa, mentre il mio sguardo cade sul corpo esanime ai suoi piedi.

Mi getto al suo fianco e la prima cosa che faccio è poggiare due dita sul collo di Gustav.

Gli occhiali di traverso, che per chissà quale miracolo sono sopravvissuti all'Arena, il viso sbiancato, i capelli resi stopposi dalla sporcizia: non sembra neanche più lui.

- È ancora vivo, sento il battito. Dobbiamo portarlo via di qui. -

Ayra mi annuisce soltanto, come se non avesse più la voce per parlare.

Vorrei chiederle che cosa è successo, ma evito di farle domande: probabilmente è troppo sotto shock per dirmi una cosa qualsiasi.

Guardo la ferita sul suo volto e lo stomaco mi si stringe.

C'è un sacco di sangue, troppissimo, e la ferita è abbastanza profonda da far intravedere lo zigomo sbucare dalla carne.

Chi possa averle questo non deve essere lontano: è recente.

A due braccia di distanza intravedo il punto d'origine dell'esplosione: la carcassa di una macchina ormai carbonizzata. Tutto intorno ci sono brandelli di quello che è stato cibo, garze mediche e ogni genere di medicinale.

Forse i Favoriti le hanno teso una trappola. Forse ci sono capitato in mezzo.

I miei occhi sfrecciano da un punto all'altro, cercando di intravedere tra il fumo la figura che da cui deriverà la nostra morte.

Ma non arriva nessuno. Il calore e lo scoppiettare del fuoco mi brucia la pelle, tanto che ormai sono zuppo di sudore, e mi sento cuocere lentamente.

- Andiamocene di qui, dai. -

Le dico, con un sorriso.

L'unica cosa che Ayra fa è annuirmi ancora. Non credo che mi abbia sentito, non veramente.

Mi passo un braccio di Gustav intorno al collo, mentre lo cingo per sollevarlo.

Non appena provo a caricarmi addosso il suo peso una fitta di dolore mi inchioda al terreno.

Stringo i denti, non posso lasciarlo qui, non me lo perdonerei mai.

Mentre sono impegnato a cercare di tirare su il peso non proprio piuma di Gustav, agli angoli del mio campo visivo una freccia attraversa sibilando l'aria.

Non ho il tempo di dire “attenta!” che la punta della freccia si conficca nel cranio di Ayra.

Non emette nemmeno un gemito mentre si accascia, morta, al suolo.

Un urlo mi nasce in gola mentre il cuore schizza alto verso le stelle.

L'adrenalina mi acuisce l'udito, tanto che riesco a sentire la corda di un arco che si tende, pronta a scagliare un'altra freccia, quella destinata a me.

- Pensavo che non avrei mai avuto l'occasione di ucciderti. -

Dice una voce in mezzo al fumo.

La sua figura s'intravede a stento.

Strizzo gli occhi mentre sento le lacrime scendermi sul volto.

Il sangue di Ayra si spande in un laghetto tutto intorno ai suoi capelli scuri.

Ha ancora le labbra spalancate, come in un urlo silenzioso, l'ultimo.

Sento ancora il suono della corda che vibra, pronta a essere rilasciata per scagliare la freccia.

Il fumo si dirada leggermente. I miei occhi si spalancano nel vuoto.

- Oh su, non fare quella faccia, dovevi aspettartelo alla fin fine. -

Stringo i pugni e i denti, la bile mi riempie la bocca.

- Mi hai spinto ad uscire per potermi prendere da solo. -

- Che dire, ci ho messo un po'. - Anthya ridacchia e scuote la testa - Tom, mi dispiace veramente. Ma io devo proteggere me stesso, sai? E ho ricevuto un'offerta migliore. -

- Sei in combutta con Mizar. -

Sento la mia voce da molto lontano.

Non riesco a guardare Anthya in faccia senza sentirmi male.

Era lui, era lui la serpe in seno, il traditore e l'assassino. E io ci sono cascato con tutte le scarpe, dubitando di Ria.

Magari adesso lei è morta, lei e Astrid.

Il cuore mi si stringe in petto. Percorso da tremiti incontrollabili sento che potrei dare di stomaco da un momento all'altro.

Eppure sento le labbra che si sollevano in un sorrisetto.

- E quindi sei venuto per la mia esecuzione. E che ne è stato di Astrid e Ria? -

- Oh bhè, a loro ci penserà chi di dovere. -

Gli ha detto dove sono!” urla la mia voce interiore.

La voglia di scattare in piedi e tornare verso le ragazze mi prende le viscere, tanto che riesco a stento a resistervi.

- E ora che vuoi fare, trafiggermi con una freccia come hai fatto con lei? -

Indico il corpo ancora caldo di Ayra. Qualcosa dentro di me mi dice che dovrei seppellirla, seppellirla e farla riposare in pace, impedendo agli Strateghi di rubare il suo cadavere. Ma so che sarebbe inutile, perché loro troverebbero comunque un modo per portarla via.

Le lacrime si fanno caustiche sul mio volto.

- Veloce e indolore, non sentirai niente. -

Anthya socchiude un occhio e punta la freccia al centro esatto della mia fronte.

Ancora sorrido.

- Pensi che uccidendomi ti salverai la vita? C'è un solo vincitore Anthya, e non sarai tu. Mizar ucciderà tutti ad uno ad uno. Non c'è speranza di salvezza. -

- Chi ti dice che non sarò io ad ucciderlo. -

Ribatte lui. Sembra che la sua sicurezza vacilli per un attimo, ma poi torna a farsi ferma.

- Me lo dice il fatto che lui avrà già premeditato il suo omicidio, e sarà pronto a farti fuori non appena avrai scagliato quella freccia. - gli rivolgo un'occhiata loquace - Se davvero sei in combutta con loro, sai dove si nascondono, e sai che probabilmente ci stanno guardando in questo momento. Non ti basta per capire che sarai il prossimo a morire? -

La mano gli trema, abbassa leggermente l'arco, abbastanza perché la freccia punti sulla mia giugulare e non più al centro della fronte.

Mi sembra abbastanza per scattare in avanti.

Mi getto su di lui prima che possa capire che cosa sto facendo.

Quando scocca la freccia gli sono già addosso e quella si conficca lontano, da qualche parte nel terreno.

Rotoliamo a terra, mi cade sul petto e sento l'aria schizzarmi via dai polmoni dolorosamente.

Vedo il baluginio di una lama.

Anthya ha tirato fuori un coltello dallo stivale.

Per istinto gli afferro il polso, impedendogli di farmi pugnalare al cuore.

- Muori una buona volta. -

Dice lui tra i denti. Sulla faccia ha dipinta l'espressione del panico, dell'orrore. Non vuole morire.

All'improvviso capisco che è solo un ragazzino, e che come tutti i ragazzini ha paura di morire, di provare dolore, di rimanere freddo gelido e senza vita, di lasciare tutte le persone che ama prima del tempo.

È come me, come tutti. È un Tributo.

Una lacrima gli brilla all'angolo dell'occhio destro.

Lo disarmo allargandogli le dita ad una ad una, e lancio lontano il coltello.

Lui da in un urlo disperato e si getta per recuperarlo.

Lo afferro per una caviglia e lo faccio crollare al suolo, facendogli sbattere il mento sul terreno.

Vedo me stesso che corre verso il coltello.

Anthya mi placca e cado a terra, dalle labbra mi esce un “ouf” di dolore.

Lui sghignazza e si abbassa per prendere l'arma. Gli tiro un calcio dritto sul naso. Uno schizzo di sangue sgorga subito dal punto ferito. Sotto il piede ho sentito il chiaro rumore di un osso rotto.

Cade all'indietro, gemendo come un animale, con le mani sul naso.

Le mani mi corrono verso il manico del coltello.

Anthya ha il viso imbrattato di sangue, tanto che non riesce neanche più a vedere. Vaga lamentandosi, ondeggiando come un'ombra.

Mi rigiro il coltello tra le mani. Il respiro si tranquillizza, il cuore diminuisce i battiti, la mente si svuota, un ghigno mi nasce sul volto.

Alzo il braccio senza pensarci. Non sono io a muoverlo, non più.

Il coltello cala con furia su Anthya, conficcandosi una, due, tre, quattro, cinque volte nel suo petto.

I suoi occhi si sgranano e diventano opachi.

Smette di agitarsi, smette di gemere. Con un tonfo si accascia a terra, mentre il sangue mi ricopre le mani, caldo, viscido.

Il coltello mi cade di mano e si conficca nel terreno, dritto e alto come una lapide.

Mi avvicino a Gustav, respira appena.

Lo sollevo senza sforzo, assurdo quando sia leggero adesso. Me lo carico sulle spalle e mi allontano, ignorando le mie scarpe che affondano in una pozza di sangue.

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The Corner

Ciao a tutti!
Finalmente abbiamo visto che fine ha fatto il nostro Gustav...ma riuscirà a sopravvivere?
E Astrid e Ria?
Il primo omicidio di Tom...chissà come si sente...
Prossimo appuntamento, giovedì 7 Novembre!

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Capitolo 22
*** L'unico amico che mi resta ***


21:

L'unico amico che mi resta

 

Il peso di Gustav sulle mie spalle comincia a diventare insopportabile quando sento due colpi di cannone: uno per Ayra, uno per Anthya.

Il cuore mi sprofonda in petto, pesante, come fosse fatto di piombo.

Gustav respira, sento il suo fiato caldo nell'orecchio.

È l'unica cosa che mi costringe a camminare.

Il dolore del mio corpo non è niente in confronto a quello del cuore, dell'anima.

Ho le mani ancora sporche di sangue. Il suo odore mi impregna le narici, il colore mi acceca la vista.

Non se ne andrà mai più.

Stringo i denti. Con uno scossone mi tiro più sulle spalle Gustav esanime.

Qualsiasi cosa gli abbiano fatto, non so se si riprenderà.

Quello che so è che non voglio assistere alla sua morte.

Però non riesco a non pensare che sono pronto ad ucciderlo con le mie stesse mani, se dovesse essercene la necessità.

Non voglio più essere tradito.

Quando arrivo in vista del condominio mi faccio più sfrontato.

Ci sono stati solo due colpi di cannone, due spari che hanno avvertito i Tributi rimasti che Anthya e Ayra sono morti.

Solo due.

Se fosse successo qualcosa ad Astrid o a Ria, di certo sarebbero stati quattro, o tre almeno.

Invece no.

I Favoriti non devono ancora essere andati a prenderle.

Probabilmente non hanno avuto il tempo di realizzare che il loro piano è fallito e che la situazione si è volta a mio favore.

Non riesco ancora a capire che cosa possa aver attirato Ayra e Gustav in quel tranello neanche tanto ben celato.

Dovevano essere proprio disperati per lanciarsi allo scoperto in quel modo.

Dal respiro leggero e veloce di Gustav, e dalla ferita all'occhio che aveva Ayra, deduco che fossero stanchi e provati: la trappola dei Favoriti deve essergli sembrata l'unica via d'uscita.

In ogni caso Gustav non presenta alcuna ferita, visibile almeno. Non ha fuoriuscita di sangue o tagli o quant'altro. A parte il fatto che è privo di sensi ormai da dieci minuti buoni (che potrebbero essere di più dal momento che non so quando tempo è stato riverso sul terreno prima che arrivassi) non sembra avere niente di male.

È un buon segno, potrebbe riprendersi completamente.

Peccato che lui debba comunque morire.

Per qualche strana ragione la mia mente si rifiuta di pensare a quello che è appena successo.

C'è qualcosa che blocca i pensieri e le immagini che riguardano l'omicidio di Anthya.

Tentativi inutili di proteggermi dal dolore.

Qualunque cosa faccia sento una stretta al petto che potrebbe soffocarmi. Non è una sofferenza fisica, non gli si avvicina neanche.

È una sofferenza interna, profonda, che viene direttamente dall'anima.

Nel momento della disperazione, nel momento del pericolo, mi sono trasformato in una macchina assassina e non ho fatto altro che quello che Capitol City mi ha chiesto di fare: uccidi per sopravvivere.

Non riesco a pensarci senza vedere quell'atto come un qualcosa esterno, che non mi comprende.

Tom? È stato Tom ad uccidere Anthya?

Certo, è stato lui. Ma non io.

Non sono stato io a prendere il coltello, non sono stato io a conficcarlo ripetutamente nel suo petto.

Una volta è legittima difesa, due volte è assicurarsi che non possa più nuocere, tre volte è intento omicida. Ma cinque, cinque è desiderio di sangue, cinque è voglia di vedere la vita lasciare il corpo. Cinque non è qualcosa di umano.

Non è neanche senso di colpa quello che mi avvolge lentamente, ad ogni passo.

È puro e semplice disgusto di me stesso.

Non basterebbe una vita per pagare per il crimine che ho commesso.

E ancor più terribile è pensare che non è finita. Non è ancora finita.

Il peso di Gustav mi schiaccia la schiena ma ho ancora la forza di andare avanti, anche se le gambe mi tremano e il cuore non regge i battiti.

È solo quel peso fisico a farmi crollare o anche quello interiore, quel peso che non si può toccare con mano e non è in alcun modo quantificabile?

Gustav mugugna. Forse cerca di dire qualcosa, forse no.

Alzo lo sguardo il più possibile per cercare di guardarlo in volto.

Lui strizza gli occhi con forza e trattiene per un attimo il respiro, come se stesse valutando cosa non va nel suo corpo, come se stesse controllando ogni parte di sé e impedire all'ossigeno di inquinare il sistema possa essergli d'aiuto in qualche modo.

- Che...Ayra...dove... -

Balbetta, tutto tremante.

Non credo che sia in grado di continuare sulle sue gambe, quindi stringo la presa e faccio in modo che stia il più comodo possibile.

- Ti spiego tutto dopo, adesso andiamo in un posto sicuro. -

Anche se non credo che sia più un posto sicuro. Ma dove altro potrei andare?

Lui borbotta un “va bene” e richiude gli occhi, sprofondando di nuovo nell'incoscienza.

Me lo sistemo ancora meglio sulle spalle e aumento il passo.

Il nostro palazzo (anche se non so se definirlo “nostro” sia così giusto) è ancora in piedi, è ancora in buono stato, ed è ancora vuoto.

Sembra che nessuno abbia violato la sua intimità.

Guardo bene tutto intorno, cercando qualche traccia dei Favoriti, qualcosa che possa dirmi che quel posto non è più sicuro.

Ma non c'è nulla che me lo lasci intendere, così entro nel palazzo come la prima volta, cercando di non pestare i vetri più del dovuto per non fare rumore.

L'idea di dover fare dieci piani di scale con Gustav sulla schiena non mi piace per niente, ma lui non sembra in grado di poterlo fare da solo, e sarei di una cattiveria unica se decidessi di risvegliarlo dal suo stato comatoso solo perché sono troppo stanco per fare qualche rampa di scala.

Davanti al primo gradino prendo un profondo respiro, e comincio quella che mi sembra una scalata.

 

Più o meno al sesto piano sento che le gambe mi andranno a fuoco, o in alternativa mi si staccheranno del busto.

La schiena a pezzi mi formicola dolorosamente e non riesco più a muovere un passo senza farmi venire il fiatone.

È già un miracolo che io sia riuscito ad arrivare fin qui senza collassare.

Il corridoio pieno di porte chiuse è invitante come lo sarebbe un letto caldo e una notte di riposo.

Davanti alla prima porta spero che sia aperta, perché non ho davvero più la forza di andare verso la seconda.

Forzo la maniglia e spingo la porta con la spalla: è aperta!

Me la chiuso subito dietro, dopo essermi guardato intorno (non sia mai che qualcuno mi abbia seguito).

Il divano che mi trovo davanti ha il colore, il suono, l'odore del Paradiso: se un posto come il Paradiso potesse avere delle caratteristiche fisiche, sarebbero quelle di quel divano.

Praticamente scarico Gustav senza tanti complimenti, e lo sento sbuffare. Fa una smorfia di dolore e un po' mi dispiace di non essere stato delicato.

Apre di nuovo gli occhi e mi guarda, un po' spaventato un po' incredulo.

- Tom... -

Sussurra. Ha una voce flebile, quasi l'avesse usata troppo per urlare.

- Gus, ci troviamo in un edificio di dieci piani. Ho lasciato la mia compagna e Astrid al decimo piano, e devo vedere se stanno bene. Non ce la facevo a trasportarti fino in cima e mi sono fermato al sesto piano. Adesso devo andare a vedere se loro stanno bene, ok? Le porto qui, abbiamo acqua e cibo, ti faremo sentire meglio. - spiego velocemente. Lui non mi risponde, forse non ha intenzione di farlo, però prendo il suo silenzio come un assenso. Non ho altro tempo da perdere. - Vado e torno, va bene? -

Continua a non rispondere e io continuo a prendere il suo silenzio come un assenso.

Gli rivolgo un sorriso rassicurante (o almeno quello che penso essere un sorriso rassicurante, ma viste le mie condizioni non credo che lo sia).

Faccio per andarmene, ma lui mi afferra il polso con decisione. Nonostante sia semi-incosciente ha una forza pazzesca.

- Ayra. -

Dice soltanto, con la decisione sufficiente per farmi salire la nausea.

- Lei...senti ne parliamo dopo, adesso devo andare. -

Tom, ma speravi veramente di cavartela così?

Gustav non molla la presa e mi guarda con gli occhi più limpidi e seri che ci siano. Della confusione di prima non è rimasta alcuna traccia.

- Adesso. -

Mi sale un brivido lungo la schiena.

Guardo lontano mentre lo dico.

- È stata uccisa. Il Tributo del Distretto 9 l'ha uccisa. - la sua presa perde efficacia, la luce nel suoi occhi si affievolisce - Io ho ucciso lui. - aggiungo, come se potesse rassicurarlo o farlo sentire meglio in qualche modo.

Ovviamente non è così.

Lacrime gli riempiono gli occhi mentre mi lascia il polso e nasconde il volto tra le mani, disperato.

Mi faccio indietro lentamente, temendo in qualche modo di profanare il suo dolore.

Non dico niente mentre esco dall'appartamento, accompagnato dai suoi singhiozzi sommessi.

Con foga crescente, come per volermi allontanare da lui, salgo gli scalini a due a due, a tre a tre se mi riesce.

Prima di rendermene conto arrivo al decimo piano, e stramazzo al suolo senza fiato.

Grondo sudore da ogni poro, e quasi non riesco a vedere per la stanchezza. La nausea non mi è passata, anzi è più forte di prima.

Mi tocco il petto bollente, infiammato dalla cicatrice che mi taglia in due la pelle.

Fa un male cane il cuore, lanciato in corsa come se fosse inseguito da qualcuno.

Guardo la porta del nostro appartamento come fosse un miraggio.

Non voglio che sia successo qualcosa di male ad Astrid. Che diavolo, non voglio che sia successo qualcosa neanche a Ria. Devo prima scusarmi con lei per aver pensato che fosse una traditrice.

Mi trascino verso la porta, le gambe molli che non reggono più il mio peso.

Un vuoto mi prende lo stomaco quando vedo la porta ammaccata e scheggiata: qualcuno l'ha presa a calci per aprirla.

NO!” urla qualcosa dentro la mia testa, mentre vedo il mio braccio che si solleva e spinge la porta in avanti.

L'appartamento è esattamente come l'ho lasciato. Tutto in ordine, non c'è niente fuori posto.

Sembra così sbagliata l'assenza di Astrid e Ria.

- Astrid! - chiamo ad alta voce. A questo punto non ho più niente da perdere. - Ria! -

Nessuna risposta, da nessuna delle due.

Una bruttissima, viscida sensazione mi percorre l'anima.

Ricordo Astrid addormentata sul divano, e Ria lì accanto.

Ricordo anche Anthya e la sua gentilezza, i suoi modi melliflui di giocare con la mia mente.

Da qualche parte dentro di me penso che abbia fatto bene ad uccidere prima Ayra, perché così mi ha dato il tempo di reagire, disarmarlo e ucciderlo.

Il sacrificio di Ayra è giovato alla mia vendetta. È terribile già solo pensarlo, ma crederci fermamente lo è anche di più.

- Ragazze? -

Chiamo ancora, anche se ormai è chiaro che non ci sia nessuno qui. Forse non voglio accettarlo, forse è davvero troppo doloroso farlo.

Mi avvicino al divano e subito salta all'occhio un piccolo foglietto di carta piegato in quattro appoggiato su uno dei cuscini.

Lo afferro al volo, con la mano che mi trema.

So già che cosa leggerò e i miei occhi non sono intenzionati a leggerlo.

Non voglio, mi rifiuto.

Per un attimo le parole scritte a penna con una scrittura nervosa mi appaiono sfocate e senza senso, come fossero scarabocchi di un bambino che finge di scrivere.

Lo ripiego con cura e me lo stringo al petto.

Prendo un respiro profondo e mi passo una mano sul viso.

È importante che io capisca che cosa c'è scritto su quel foglio, è veramente importante.

Da qualche parte un migliaio di telecamere, minuscole e sparse in giro per l'appartamento, staranno di certo riprendendo l'evento.

Da qualsiasi angolatura mi riprendano, però, nessuna riesce a vedere cosa c'è scritto sul foglio, non finché lo tengo chiuso tra le mie mani.

Immagino distrattamente il popolo di Capitol City, no, che dico, il popolo di tutta Panem in bilico sul divano, sulle sedie, incollati allo schermo del televisore.

Immagino Bill, che stritola la mano della mamma, che cerca di dare forza a lei prima ancora che a se stesso.

Torno a guardare dentro il biglietto.

Adesso le parole sono chiare.

Sono quasi sicuro di sapere chi è stato a scriverle, tanto che quando le leggo, facendo scorrere piano gli occhi su ogni lettera, sento la voce della persona che le ha vergate: la voce di Mizar.

 

Io ho qualcosa che ti appartiene, tu hai qualcosa che appartiene a me. Io ho le due ragazze, tu hai la vita. Pensi di poterci rinunciare per salvare loro?

Ti aspetto alla Cornucopia. Vieni prima che l'Arena cambi, o seppellirò i loro cadaveri nella sabbia del deserto.

 

Rimango un po' a fissare il foglio, leggendo e rileggendo le parole sul foglio, leggendo e rileggendo le parole di Mizar.

Voglio che le telecamere riprendano bene quello che c'è scritto sul biglietto, quindi rimango ancora a fissarlo con l'espressione fintamente concentrata.

Poi, quando penso che Panem si sia goduto abbastanza la scena, appallottolo il foglio e lo lancio lontano.

Mizar mi ha lanciato una sfida, e io sono disposto ad accettare.

Con tutta la calma di questo mondo, come se questo non potesse nuocere alla mia tranquillità, do un'occhiata in giro per l'appartamento, cercando il boccione con l'acqua e le merendine che abbiamo trafugato ai piani inferiori.

È ancora tutto lì dove l'abbiamo lasciato.

Probabilmente i Favoriti hanno abbastanza acqua e cibo preso alla Cornucopia per non avere bisogno di procurarsene dell'altro.

Ma io l'ho promesso a Gustav, e non ho intenzione di infrangere quella promessa.

Mi carico il boccione sulle spalle e infilo quante più merendine posso nelle tasche dei pantaloni, poi lascio l'appartamento, cosciente del fatto che forse non ci tornerò mai più.

Scendo le scale con più calma di prima, un po' perché sono stanco, un po' perché il boccione pesa, un po' perché voglio dare l'impressione di non essere sconvolto come invece sono.

Non so quanto tempo mi rimane per andare a salvare Astrid e Ria, ma so che devo farlo assolutamente.

Non importa se ne uscirò morto, non posso lasciare che per colpa mia loro perdano la loro vita.

Mizar vuole la mia vita, dice che gli appartiene, bene, in ogni caso venderò cara la pelle.

Non mi avrà con così tanta facilità.

Non sono sopravvissuto fino ad adesso per farmi uccidere come una vittima sacrificale.

Arrivato al sesto piano imbocco a passo sicuro la porta dell'appartamento.

Gustav è seduto sul bordo del divano. Alza subito la testa verso di me, sul chi vive, forse troppo stremato per reagire ma non ancora deciso a lasciarsi andare.

- Eccomi. -

Esordisco con un sorriso. Appoggio il boccione vicino ai suoi piedi e gli porgo tutte le barrette che tengo in tasca. Non credo di avere abbastanza fame da poter mangiare, anche se il mio corpo ne avrebbe bisogno.

- Dove sono le due ragazze? -

Una fitta al cuore mi costringe a spegnere il sorriso.

- Mizar le ha rapite. Vuole la mia vita in cambio della loro. -

- Gliela darai? -

Chiese Gustav, così alla leggera da lasciarmi senza fiato. Come se niente fosse scarta una merendina e comincia a mangiarla. È chiaro persino ai suoi occhi che è la pura fame a spingerlo a farlo, perché avrebbe voglia di gettarla e lasciarsi morire d'inedia.

Non ho bisogno di riflettere su quelle domande.

- Ho intenzione di andare a salvarle, ma non di morire. -

- Lui ti ucciderà. -

L'asetticità della voce di Gustav è spaventosa. Del paffuto e gioioso ragazzo che ho conosciuto non è rimasto niente.

- Io ucciderò lui. -

Gli dico a cuor leggero.

Non ci credo.

Forse Panem può crederci, io no.

E so che neanche mio fratello, mia madre e mio padre ci credono. So che sono già pronti a piangermi.

Lo sono da quando il mio nome è strato estratto alla Mietitura.

Gustav mi guarda in modo eloquente.

- Non hai un'arma. -

- Già. - sorriso - Dovrò fare a mani nude. -

- Lui ha tutto l'arsenale della Cornucopia. Sarai morto ancora prima di rendertene conto. Ci sono i Tributi del Distretto 2 con archi e frecce. -

- Non mi colpiranno. - di questo sono sicuro - Mizar vuole uccidermi personalmente, non lascerà che i suoi sottoposti si mettano in mezzo. Certo, giocherà sporco, ma solo se si sentirà in pericolo. Non mi prende sul serio, sarà disattento. -

- Ti rendi conto che questo ragazzo vuole ucciderti solo per togliersi uno sfizio? Solo perché non aveva niente di meglio da fare e voleva avere qualcuno con cui giocare dentro l'Arena? -

- Stiamo tutti giocando, Gustav. -

Gli dico in risposta, funereo.

Lui rabbrividisce, capendo che cosa voglio dirgli.

Sono morte tantissime persone, si sono consumati tradimenti, omicidi, crudeltà di ogni genere.

Ma questi rimarranno sempre dei giochi, dei semplici giochi. E l'anno prossimo altri 23 ragazzi giocheranno per la loro vita, proprio come noi in questo momento.

- In ogni caso. - comincio - Non ho intenzione di veder morire Astrid e Ria solo perché Mizar ha voglia di giocare. Il suo obbiettivo sono io, non loro. -

Negli occhi di Gustav leggo chiaramente la frase “dopo aver ucciso te ucciderà anche loro, è inutile che ti sacrifichi per loro, ci può essere un solo vincitore”. Lo so, perché sono le stesse parole che ho detto ad Anthya.

Tendiamo a dimenticarci che solo uno di noi può sopravvivere. Forse pensiamo che le nostre azioni possano cambiare in qualche modo le cose. Forse crediamo che salvando una vita, togliendone un'altra, qualcosa si muova nei cuori degli Strateghi. Quasi vogliamo sentire una voce dall'alto che grida “basta così, quest'anno vincete tutti, non c'è bisogno di andare avanti”.

Ma non è così. Le nostre azioni cambiano solo noi stessi, mentre il mondo intorno a noi rimane uguale a se stesso.

- Sei coraggioso, ma anche stupido. - dice lui, con gli occhi di nuovo pieni di lacrime. Se li asciuga con foga. - Non puoi andare comunque disarmato! - si alza all'improvviso, getta la merendina mangiata a metà in un angolo - Io so dove possiamo trovare qualcosa di utile. -

- Fammi strada. -

Annuisce.

 

Come dei soldati in un campo minato ci aggiriamo per le strade della città, sotto la luce dell'eterno tramonto.

Gustav sembra voler allontanare la sofferenza per la perdita di Ayra in tutti i modi.

Non parla molto, ma quando parla evita l'argomento come fosse una colata d'acido iniettata direttamente nelle vene.

Decido che è meglio assecondare il suo silenzio.

Lui sa che ho vendicato la morte della sua compagna e non sembra voler sapere di più. E io, d'altronde, non voglio chiederglielo.

Ci allontaniamo un po' dal centro città, dove sappiamo esserci la Cornucopia, e arriviamo in periferia, nei pressi di una stazione dei treni abbandonata.

Questo posto è molto più grande di quanto mi sia sembrato all'inizio. Non avevo visto, né ero mai stato in questa zona. Ma Gustav cammina a passo sicuro, tanto che non mi faccio problemi a seguirlo.

La mia unica paura sia che l'Arena cambi all'improvviso e che io perda la mia unica possibilità di salvare Astrid e Ria.

Lui sembra capirlo, perché procede speditamente.

Una volta raggiunto il plesso della stazione distrutta, lui si infila dentro ed io lo seguo.

Non hai paura che possa tradirti anche lui?” insinua una vocina nella mia testa. Quella voce ha le sfumature della voce del Presidente Snow. Sembra quasi che sia Capitol City a dirmi che non devo fidarmi di nessuno.

Quindi, proprio per questa sensazione, decido di fidarmi ciecamente e ignorare la voce.

La stazione cade a pezzi. La sala d'aspetto con i tabelloni degli arrivi e delle partenze è tutta sottosopra.

Gustav si avvicina alle scale che portano al primo binario.

- Io e Ayra ci siamo venuti dopo il Bagno di Sangue iniziale. - lo dice con una certa sofferenza - Non è durata molto, ma è stato un posto tranquillo dove stare. Spero che i cambi dell'Arena non abbiano fatto sparire le armi che abbiamo nascosto qui. -

- Cosa siete riusciti a prendere? -

- Due spade, un set di coltelli, un arco e una faretra. -

- Wow. -

Riesco a commentare.

Gustav fa un sorriso amaro.

- È stata Ayra. È veloce, e scaltra, ha saputo giocarsela. -

Lui evita di usare il passato riferendosi alle sue qualità, io non lo correggo.

Seguiamo le indicazioni fino al binario 4. Le rotaie sono sommerse dalle sterpaglie, in fondo al binario si scorge un vagone vandalizzato da vernici spray, edera e ruggine.

Gustav raggiunge il vagone e ci sale sopra.

Per un attimo si guarda intorno spaesato, poi a colpo sicuro fruga in una delle cappelliere.

Tira fuori le due spade, ben chiuse al sicuro nei loro foderi.

Me ne lancia una. Io faccio in fretta a prenderla e a legare il fodero intorno ai miei fianchi.

Scende anche un rotolo di pelle di daino in cui sono avvolti i coltelli.

L'arco e la faretra li tira fuori da sotto un sedile.

Divide equamente i coltelli tra me e lui, e io mi ritrovo a nascondermeli ovunque addosso: negli stivali, nella cintura, sotto la maglietta.

L'arco e le frecce li tieni per sé.

- Fuoco di copertura. -

Dice con un sorriso.

Lo guardo stralunato.

- Vuoi venire con me? -

- Sono l'unico amico che ti resta. -

Lo afferma con la stessa leggerezza di prima, quando stava mangiando la merendina. Sembra un bambino che non può fare a meno di dire la verità con sincera schiettezza.

Gli rivolgo un sorriso grato.

- Allora, andiamo. -


The Corner

Ben trovati!
Purtroppo gli impegni universitari mi impediranno di continuare a pubblicare stabilmente,
non posso garantire un capitolo a settimana, ma ci metterò tutto il mio impegno!
a voi non resta che dare un'occhiata ogni tanto...
Spero di poter continuare a scrivere!
Chii

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Capitolo 23
*** La donna non è leggera come l'uomo, che tradisce anche per gioco o per puro piacere; no, la donna trova sempre un valido motivo ai suoi tradimenti. ***


22:

La donna non è leggera come l'uomo, che tradisce anche per gioco o per puro piacere; no, la donna trova sempre un valido motivo ai suoi tradimenti.

 

Il puzzo del sangue, della morte, del sudore, della paura, non è niente in confronto al suono delle risate. Sì, risate, le risate dei Favoriti che riecheggiano nella città come un macabro canto funebre.

Gustav, al mio fianco, rabbrividisce. Nel mio intimo, non posso che fare altrimenti.

Da qualche parte, non molto distante da noi, i Favoriti ridono, semplicemente, come se quello non fosse un gioco di mortale brutalità, come se non fossero tutti nemici, come se sulle loro teste non pendesse una spada di Damocle.

Ridono. Sembrano una combriccola di ragazzini che campeggiano fuori casa, lontano dai genitori, e che siano felici dell'esperienza che stanno vivendo.

Ma, ascoltando bene quelle risate, si capisce quanto siano finte, tese, nervose, crudeli.

Non sono risate sincere, nascondono dietro un sorriso coltelli affilati, e intenti omicidi.

Ormai i giochi stanno per finire, e anche i più forti cominciano a sentire la tensione su di loro.

Faccio il calcolo a mente.

Siamo rimasti in undici, di cui quattro in evidente svantaggio: io, Gustav, Ria e Astrid.

I favoriti sono sei. Considerando che le ragazze non saranno in grado di combattere...due contro sei. C'è una mina vagante di cui ancora non conosco la posizione: Josei.

Stringo l'elsa della spada in una morsa. Sento la mano dolermi.

- Abbiamo un piano? -

Mi chiede Gustav, con gli occhi stralunati, come se io fossi il suo unico punto di riferimento.

E d'altronde non è forse così?

“No, nessun piano”, vorrei dirgli, ma sono certo che se lo facessi, lui avrebbe una crisi isterica, ed è l'ultima cosa che voglio.

- La Cornucopia è al centro di una piazza, giusto? Loro sono in sei, staranno presidiando ogni possibile via d'entrata. Abbiamo bisogno di vedere dove sono le sentinelle, e magari abbatterle. -

Lui freme. Non so se ha già ucciso qualcuno...e non voglio chiederglielo. L'unica cosa che fa è annuire, stringendo l'arco tra le mani paffute.

Povero Gustav. Dovevi essere così felice a casa tua, vero? Con tua sorella, la tua famiglia. Che vita facevi? Che cosa sognavi?

E io?

Scuoto la testa, cercando di uscire da quei pensieri. Rimani concentrato Tom.

- Potremmo...vedere dall'alto com'è la situazione. Saliamo in cima ad un palazzo, e guardiamo giù. -

- E un po' pericoloso. - lo guardo, severo - Potrebbero aspettarselo, e aver piazzato trappole in ogni palazzo intorno alla Cornucopia. -

- E allora? Cosa vorresti fare? Andare lì con le mani in alto e sperare che non ti metteranno ko in tre secondi? -

Non vuole sgridarmi, sembra solo preoccupato per me. Anzi, sembra veramente preoccupato per me.

Perché?

È tuo amico, no?” mi dice una voce nella testa, subito soppressa da un'altra che urla “Traditore!”

- No di certo. - sbuffo, e guardo tutto intorno alla ricerca di un aiuto, un indizio, un...un...- La metropolitana! - esclamo, tanto forte che Gustav salta in aria con gli occhi pieni di panico.

- Che metropolitana? -

- Quella! -

Gli indico un sottopassaggio che porta ai binari della metropolitana.

- E quindi? -

Gustav è sempre più scettico, neanche mi stesse guardando impazzire ogni secondo che passa.

- E quindi, vieni e stai zitto. -

C'è una vaga, remota, minuscola speranza che mi accende il cuore. Ma sono restio a pensarla come possibile fino a quando, scesa la prima rampa di scale, non mi ritrovo in un lungo corridoio buio, che sembra dispiegarsi all'infinito nel cuore sotterraneo della città.

Gustav mostra il suo dissenso con una faccia sconcertata, come se avesse paura del buio; io, intanto, continuo a camminare.

Mi fermo soltanto di fronte alla mappa della metro, con tutte le linee ben disegnate. È una contraddizione, una città così vecchia e che sta cadendo a pezzi e una cartina così nuova, com se fosse stata affissa al muro solo qualche istante prima.

Punto l'indice sul pallino giallo con su scritto “voi siete qui” e poi seguo la linea verde della metro fino alla prossima fermata.

- Piazza della Cornucopia. -

Sussurra Gustav, con gli occhi sgranati.

- Piazza della Cornucopia. - ripeto io, e mi sembra di stare quasi cantando - C'è una fermata della metro proprio nella piazza della Cornucopia! -

- E tu vorresti... - il biondino deglutisce a vuoto, visibilmente impaurito - ...vorresti sorprenderli passando da sotto? Non funzionerà! Come ci siamo arrivati noi, ci saranno arrivati loro! Avranno messo qualcuno a controllare l'ingresso! -

- Certo, qualcuno ci sarà ma...sono sempre in sei. Mizar farà di certo la guardia ad Astrid e Ria, e stai certo anche l'altro ragazzo, quello del 2...Noah. - il ricordo di come gli ero scappato mi riempie la mente per un attimo. Sì, sono abbastanza soddisfatto di come gli sono sfuggito. Che tonto. - Le due ragazze staranno di guardia in alto, con gli archi. E rimane sono Aizin. - C'è della rabbia nelle mie parole. Aizin. E Spiegel...Spiegel che è morta in quel modo, senza neanche potersene rendere conto, che non voleva affatto lasciare questa vita, questo mondo, e che è spirata tra le mie braccia. La vista mi si appanna di lacrime, ma cerco di inghiottire ogni singhiozzo, ogni singulto, qualsiasi traccia di tristezza. L'idea di uccidere Aizin potrebbe anche essere piacevole. - Se è stato messo da solo a guardia dell'ingresso, allora non ci saranno problemi a metterlo fuori gioco. E in tutto questo, c'è ancora un Tributo che non si è schierato dalla loro parte, e che non ho idea di dove sia: il ragazzo dell'8. -

Gustav rimane in paziente ascolto, ad ogni parola, sembra acquisire una certa consapevolezza.

- E quello dell'8...pensi che sia dalla nostra parte? -

- Loro hanno ucciso la sua compagna, di certo combatterà per vendicarsi, possiamo considerarlo uno dei nostri. -

- E chi ti dice che invece non gli interessi? Se vuole solo uccidere tutti e vincere? -

- Lo uccideremo prima noi. - Gustav vorrebbe muovere qualche protesta, ma glielo impedisco - Questo è il piano. Se ti va bene, vieni con me. Altrimenti vattene. -

Glielo dico con una certa freddezza, tanta che mi sento dispiaciuto al suo posto.

- Non ti lascerò solo. -

Dice, con una certa risolutezza.

Vorrei chiedergli “e perché?”, ma non voglio che lui mi risponda “per Ayra”. Non voglio che per aver ucciso una persona lui adesso mi sia debitore. No, non voglio.

- Benissimo, allora andiamo. Armi alla mano. -

Sguaino la spada, e lui sguaina la sua, preferendola all'arco.

Camminiamo per un po' nel buio, terrorizzati all'idea di incontrare qualche strana creatura. Ma per qualche ragione, tutto tace. C'è solo buio, e silenzio: anche le risate dei Favoriti sono attutite dai metri di terra che abbiamo sopra la testa.

Nessuno dei due ha voglia di parlare all'altro di ciò che succederà una volta che avremo raggiunto l'uscita: sappiamo che ci sarà spargimento di sangue, sappiamo che per qualcuno il cannone sparerà un colpo, sappiamo di poter morire da un momento all'altro.

Le gallerie della metro sono appena appena illuminate dai segnali “exit”, illuminati di verde pallido.

Seguiamo i binari fino alla stazione successiva.

Non c'è rumore di treni o di elettricità, né di topi o di insetti: sembra un luogo desolato, che la vita ha abbandonato da tempo.

Mi mette i brividi, la ferita al petto brucia.

Penso a quel maledetto scorpione, e penso a quanti altri se ne nascondono in giro, penso al deserto che tra poco arriverà, e penso che quei cosi abitano nel sottosuolo...esattamente dove adesso ci troviamo.

“Muoviamoci!” vorrei dire a Gustav, ma ho la gola bloccata. La mano non mi trema mentre stringo la spada: anche se la mente vacilla, il corpo è pronto a fare quel che è necessario fare.

Gustav, alla luce di quelle fioche luminarie, sembra smunto e triste. La sua mano si alza ad indicarmi un alone bianco: l'uscita!

Gli faccio cenno di stare in silenzio con un dito, ma lui più zitto di così non potrebbe stare.

Strisciamo con la schiena contro la parete gelida. Quel freddo ha il sentore della morte.

Respiro a fondo e comincio a salire il primo gradino.

Il cuore mi batte troppo forte in petto, troppo, romperà il silenzio di quel luogo e si accorgeranno tutti della mia presenza. Deglutisco a vuoto e mi sembra di crollare ad ogni passo.

Lancio un'occhiata a Gustav, come per accertarmi che sia ancora lì, e poi salgo la prima rampa di scale.

Subito, le voci dei Favoriti si fanno chiare. L'aria torna a farsi più pulita, meno stantia. Un leggero venticello mi soffia sul viso. Respiro a pieni polmoni e do una sbirciata in giro.

Ho sbagliato i miei calcoli: Aizin non è qui, presidia la Cornucopia insieme a Mizar e Noah.

Le due ragazze sono sul tetto di un palazzo basso, perlustrano la zona, con i loro archi a portata di mano, ma non sembrano particolarmente attente a ciò che sta succede tutto intorno.

L'altro ragazzo, invece, gioca a tormentare Astrid e Ria.

Di Aizin nessuna traccia.

Sono legate come salami, appese alla punta della Cornucopia. Lui ride, mentre loro si muovono appena. Sono coperte di sangue, il proprio, e i loro volti sono contratti in espressioni di paura e dolore.

Astrid piange, ma non sembra voler cedere, anche se il ragazzo la pungola con la punta di una lancia e si diverte a farle piccole lacerazioni sulla pelle.

- Maledetto. -

Mi ritrovo a sussurrare tra i denti, mentre Gustava mi afferra per un braccio: stavo forse per uscire fuori allo scoperto gridando come un pazzo isterico senza neanche darmi un piano d'azione?

Sì, da come è teso il mio corpo, da come sono sporto verso l'ultimo gradino, sì.

Mi tiro indietro con uno sbuffo, tornando al coperto.

- Che hai visto? -

- Tre vicino alla Cornucopia, due sul tetto di fronte. Uno non individuabile. -

- Come vuoi agire? -

- Sinceramente? Non ne ho idea. -

Ecco, bravo, finalmente l'hai ammesso! E ti costava tanto? Respiro a fondo e continuo a percorrere la piazza con gli occhi, come se mi aspettassi di vedere la situazione cambiare.

E in effetti qualcosa cambia.

Il cuore mi diventa grande come uno spillo, non so se per il sollievo o per la paura.

Le ragazze, ad un tratto, hanno un fremito e cascano a terra. Capisco che sono morte solo quando sento due cannoni sparare.

- Ma che caz... -

Mi viene da dire...solo che non ho il tempo di concludere la frase: Josei, proprio lui, proprio la mia mina vagante, si getta in corsa verso Mizar con l'espressione folle e la sua spada sguainata.

Sulla schiena ha un balestra: deve aver ucciso le ragazze con quella.

Scambio un'occhiata con Gustav, forse quello è il momento migliore per gettarsi nella mischia.

“Al mio tre”, gli dico solo sillabando le parole, e gli mostro le dita. Uno. Due. Tre.

Saltiamo fuori con la stessa foga di Josei.

Presi alla sprovvista, i Favoriti non possono fare altro che strillare per la furia e l'indisposizione.

Vedo gli occhi di Mizar brillare di rabbia.

Lascia il suo compagno in balia di Josei e si getta su di me. Sembra un toro infuriato. Agita un machete come fosse...non so, una forchetta? Insomma, con la stessa tranquillità e agilità.

Le nostre armi cozzano e creano scintille.

- Hai organizzato tu quest'imboscata? -

Me lo sputa praticamente in faccia, un po' stupito, un po' colpito, parecchio arrabbiato.

- No, era del tutto inaspettata la cosa. -

Tenergli testa è difficile: ha la forza di un animale, e la sua rabbia è decisamente sovrumana.

Ma quanti muscoli ha?

Cominciano a tremarmi le braccia per lo sforzo di tenere la sua lama lontano dalla mia gola.

- Io ti ammazzerò, ragazzino, e in diretta tv ti strapperò il cuore dal petto. La tua mammina morirà dal dolore. -

A quel punto mi esce un ringhio dalle labbra.

Faccio perno con un piede, mentre gli scaglio una ginocchiata dritta nello stomaco. Lui non si scompone più di tanto, fa solo un salto all'indietro che mi da il tempo di rimettermi in guardia.

- Sei un mostro. -

Riesco solo a dirgli, mentre nella mia mente mi auguro di avere la forza di sgozzarlo, di vendicarmi di tutte le vite che ha tolto, di sopravvivere.

Ma c'è sempre qualcosa nella mia anima che mi permette di pensarlo a cuor leggero: è sempre un Essere Umano, anche lui da qualche parte deve avere una famiglia, anche lui deve avere una madre, anche lui deve amare, voglio davvero ucciderlo?

Dilaniato tra i sensi di colpa e l'istinto di sopravvivenza, mi accorgo un secondo troppo tardi che sta caricando un fendente dall'alto verso il basso.

Riesco a scansarmi appena in tempo, ma non posso impedirgli di ferirmi la spalla di striscio.

Rotolo a terra, con uno schizzo di sangue che sprizza dalla nuova ferita, mentre lui mi si getta addosso con foga crescente.

Riesco a guardare oltre la sua spalla: Astrid e Ria sono ancora appese alla Cornucopia e stanno...bene? Nessuno sta badando a loro.

Gustav combatte come un leone, con la riscoperta complicità di Josei, che sembra dargli manforte.

Posso distrarmi da loro per concentrarmi solo su Mizar: staranno bene, per il momento.

Con lo sguardo riesco a rendermi conto che all'appello manca ancora Aizin.

Ho il vago sentore che mi spunterà alle spalle all'improvviso e do appena una sbirciata.

Mizar deve capire cosa penso, perché scoppia in una risata che mi fa venire i brividi.

- Oh, hai ragione ad avere paura. Ne manca ancora uno. Sai, non appena vedrà che cosa sta succedendo, ti attaccherà, e tu non potrai fare niente contro tutti e due. -

- Se ammazzo prima te, non sarà un problema. -

Gli ringhio in risposta, e mi lancio ad attaccare.

La spalla destra, contratta per lo sforzo di tenere alta la guardia e in tensione la spada, comincia a dolermi. Ma non appena i miei occhi raggiungono Astrid, riscopro una sacca di energie che non sapevo di avere.

Non posso arrendermi, lo devo fare per lei. Lei che è innocente, e che per tutto questo tempo non ho fatto altro che cercare di proteggere...senza però riuscirci.

Stringo i denti e schivo un affondo di Mizar che sicuramente mi avrebbe trapassato da parte a parte. Riesco quasi a sentire le mie grida di dolore e vedere il mio sangue schizzare fuori.

L'adrenalina sale alle stelle, quasi non ci vedo più, il cuore batte troppo forte in petto.

- Hai paura, hai paura di me, Esperimento. - canticchia Mizar - E non riesci a fare altro che difenderti. Ammetto che hai una buona resistenza ma...non durerà all'infinito. -

Mi rivolge un ghigno soddisfatto, cattivo, ed io so di avere i minuti contati.

Ha ragione: come posso tenergli testa? Come posso anche solo aver pensato di farlo?

Non ne sono all'altezza.

Però c'è qualcosa in me che non si arrende a quell'idea, perché arrendersi vorrebbe dire morire.

Ed io non voglio morire.

Come sei testardo, Tom” è una voce che da i brividi, e non viene dalla mia testa, viene da qualche parte intorno a me, eterea e leggera come l'aria.

La voce della morte?

Mi getto su Mizar, approfittando del suo tentativo di tondo con il machete. Mi abbasso e con il pomello dell'elsa della spada lo colpisco al mento, facendolo vacillare.

Gli assesto un calcio in mezzo alle costole, dato che ormai la sua difesa è rotta, e lui cade all'indietro.

Non molla il machete neanche per un attimo, ma una volta caduto a terra gli pesto tanto forte la mano che senso crocchiare le dita: forse gliene ho rotto un paio.

Allora urla, e molla l'arma, imprecando e minacciandomi.

- Non mi fai paura. -

Concludo, con aria di sfida. Un sorrisetto soddisfatto mi si accende sulle labbra.

Amo il modo in cui la situazione si è ribaltata, amo vederlo ai miei piedi, con una spada puntata alla gola. Amo la sensazione del predatore che ha appena catturato la preda.

Batto piano gli occhi, tentennando, quando mi rendo conto di quanta crudeltà deve esserci nei miei occhi.

Guardandomi adesso, che cosa penserebbe di me la mia famiglia?

Tom è rimasto nel Distretto 10, il Tom dell'Arena è una persona tutta diversa. Ma non era ciò che avevo deciso di fare sin dall'inizio di quest'incubo?

Capire quanto tutto ciò abbia realmente influito sul mio essere mi rende vulnerabile quei secondi necessari perché Mizar riprenda coscienza di se stesso e mi afferri la caviglia con la mano sana.

Stavolta tocca a lui ghignare.

Da uno strattone tanto forte e rapido che quando realizzo di stare cadendo, la mia schiena ha già toccato terra.

Dalle labbra mi sfugge un sibilo di dolore. Qualcosa dentro al mio petto si rompe. Una costola?

Mizar salta in piedi e mi preme a forza un piede sullo stomaco. Sputo fuori tutta l'aria rimastami nei polmoni, tanto che mi sento morire.

Lui si tiene al petto la mano ferita. A giudicare dall'angolazione del suo pollice e del suo indice, devono proprio essere rotti.

Sento dell'orgoglio nascere da qualche parte dentro di me.

- Non so come sia meglio ucciderti, ma stai certo che non sarà per niente veloce. -

Sento me stesso ringhiare come un animale in gabbia mentre sferro un colpo laterale con la spada, nel disperato tentativo di farlo allontanare.

Ci riesco, e Mizar saltella all'indietro per evitare di ferirsi, anche se un taglio si apre sulla sua coscia.

Ora siamo pari: lui mi ha preso la spalla, io la coscia.

Sono entrambe ferite superficiali, ma per lui quella deve minare fortemente il suo orgoglio. Non solo è stato così stupido da farsi rompere le dita, ma ha anche rischiato di essere ferito dalla mia spada.

Ecco che mi sento nuovamente sorridere.

- Forse mi hai sottovalutato, eh, bestione? -

C'è solo un urlo che nasce dalle labbra di Mizar mentre carica come un toro.

I suoi fendenti sono veloci, pesanti, ma non precisi. Ormai accecato dalla rabbia non sa più neanche che cosa sta facendo, dove colpire, perché: è pura adrenalina e questo gioca a mio favore.

Anche se le braccia mi tremano per lo sforzo di tenergli testa e di parare o schivare i suoi affondi, comincio ad analizzare le sue mosse, i suoi schemi.

Tondo, tondo, affondo, colpo laterale da sinistra. Tondo, tondo, affondo, colpo laterale da destra.

È così prevedibile da fare male al cuore.

Forse neanche se ne rende conto di quanto mi stia facilitando le cose.

Nell'ultimo colpo laterale faccio un salto indietro, lui ha il busto ruotato verso destra, e il fianco sinistro è totalmente scoperto.

Adesso!

Carico la spada con tutta l'energia rimastami e colpisco.

Sento la punta della lama rompere la pelle, i muscoli, le ossa e bloccarsi, non so contro cosa, non so perché. Solo solo che ad un certo punto c'è solo sangue, sangue sulle mie mani, sangue sulla spada, sangue sulla sua divisa sporca, sul terreno.

La sua espressione rimane furibonda, mentre la mia si fa sconvolta.

Non accenna a voler smettere di combattere, anzi, ora che è ferito sembra avere più energie che mai.

Provo a divellere la lama, ma lui, come se niente fosse, mi indirizza un affondo e sono costretto a saltare via per non essere colpito.

Ora sono disarmato, e lui, benché sanguinante (e probabilmente in punto di morte), estrae dal suo busto la spada, ne osserva la fattura e poi la impugna.

Dalla ferita esce abbondante sangue scuro, denso, quasi nero.

- Che razza di cosa sei? -

Riesco a bisbigliare, mentre lo vedo avanzare senza neanche zoppicare, tentennare, senza dare segno della sofferenza della ferita che gli ho appena inferto.

Lui ride. All'improvviso, scuotendo la testa.

- Povero, sei sconvolto, vero? - ma che domande! Certo che sono sconvolto! Dovresti essere morto! Morto e stramorto! O dovresti contorcerti sul terreno in preda ad atroci dolori, non in piedi con la spada che ti ha colpito stretta in pugno e uno sguardo omicida negli occhi! - Questo? È solo un taglietto da niente. - dice, indicandosi il fianco ferito. Ormai il sangue ha ricoperto tutta quella parte, impregnando la maglia e i calzoni, qualche goccia macchia il terreno. - Io non posso sentire dolore. Pare che sia una malattia genetica. - mi guarda in modo eloquente - Non sei il solo Esperimento dell'Arena. -

E poi, con un urlo, mi si scaglia contro.

Ho solo il tempo di sgranare gli occhi prima di guardarmi intorno e trovare un'arma che mi impedisca di essere fatto a fettine come il prosciutto.

Il primo fendente riesco a schivarlo, il secondo affonda nella mia spalla. Il dolore si accende come un fuoco d'artificio. Urlo tanto forte da non sentire più le corde vocali. La testa mi gira per un lunghissimo attimo e penso che stavolta è davvero finita. Non ho più la forza di combattere, e poi sono completamente indifeso.

Digrigno i denti, reggendomi la spalla ferita, ma non crollo. Ho paura di guardarla e di scoprire che mi ha quasi staccato il braccio dal busto. Gli occhi mi lacrimano tanto che non riesco a vedere. Ciò che sento è solo la lama della spada che si punta alla mia gola e mi costringe ad alzare il mento.

Incrocio gli occhi cattivi di Mizar. Anche se cerca di sostenere un certo contegno, si vede benissimo che anche lui è messo male.

Probabilmente le ferite che ci siamo inferti reciprocamente saranno la ragione di entrambe le nostre morti.

È bianco in volto, e credo di esserlo anch'io.

Però il sangue, il mio e il suo, hanno un colore così simile sulla lama della spada, sul terreno anche sulle nostre divise.

In realtà, è proprio identico.

Non so neanche perché mi stia concentrando su questo particolare.

L'unica differenza sta nel fatto che per me il dolore è atroce.

- Facciamo così, adesso vado a prendere le tue amichette e le faccio fuori davanti ai tuoi occhi, dopo di che uccido anche te, così potrete rivedervi all'Inferno. Non è un atto di generosità da parte mia? -

- E poi ci raggiungerai anche tu, eh? - riesco a sorridere, sprezzante - Non vivrai ancora a lungo con quella ferita. -

- Oh ci riuscirò invece. Ucciderò anche tutti gli altri, e poi ci penseranno quelli di Capitol City a curarmi. Vivrò una vita ricchissima, e di tanto in tanto manderò dei fiori ai tuoi familiari. - ride, mentre io stringo i denti - Potranno metterli sulla tua patetica tomba e piangere la tua scomparsa. -

Il suo tono ironico e sprezzante mi fa andare il sangue alla testa.

Ormai non sento più il braccio destro. Il colpo che mi ha inferto deve aver scollegato tutti i nervi. Me lo porto dietro come fosse un pezzo di carne insensibile. Approfittando di quell'insensibilità, mi faccio avanti, conficcando la lama della spada nella carne morte e bloccandola.

Mizar sgrana gli occhi come avesse davanti un mostro, e molla la spada.

Con il braccio sano gli do una gomitata dritta sul naso, facendolo oscillare all'indietro.

Preso alla sprovvista, non si difende mentre lo colpisco con pugni e calci. Ad ogni colpo, il sangue sgorga più copioso dalle sue e dalle mie ferite.

Alla fine crolla a terra, di nuovo, ma stavolta non si rialzerà.

Estraggo la spada alla spalla e la lancio lontano.

Voglio ucciderlo a mani nude.

Mi inginocchio al suo fianco e avvolgo una mano sulla sua gola.

Non ha neanche la forza di ribellarsi mentre stringo, stringo, stringo. La sua faccia si fa paonazza, le orbite di fuori, lo sguardo allucinato.

Non emette un fiato quando muore, ed io divento cosciente solo quando scoppia un colpo di cannone in lontananza.

Mi accascio sul terreno, stanco, stravolto, senza riuscire a capire per quale motivo mi trovo lì, perché, che cosa dovevo fare.

Qualcuno mi si avvicina.

Riconosco la faccia pallida di Astrid.

Le faccio un sorriso.

- Sono contento che tu stia bene. - riesco a dirle. Vorrei accarezzarle il viso, ma le braccia non le sento più, né quella ferita, né quella sana. - Gli altri? Gustav? Ria? - lei ricambia il sorriso, ma le sue labbra sono tese in modo strano. Sembra un ghigno. Non riesco a capire, però c'è...c'è una punta di paura che comincia a stringermi lo stomaco. - Chi ti ha liberata? Quando è successo? -

- Oh Tom. - dice lei, e scuote la testa - Mi dispiace. Ho giocato un po' con te, e non sono stata onesta. - perché ha quell'espressione così tranquilla? Perché i suoi occhi sono asciutti e duri quando poco prima sono certa di averla vista piangere?

- Sono tutti morti. -

Nel mio campo visivo entra Josei, fa roteare la sua balestra tra le mani insanguinate.

Il mio cuore aumenta i battiti mentre la ferita alla spalla rigurgita una colata di sangue caldo.

- Bene! - trilla lei. Dopo di che la vedo estrarre un coltello e piantarlo nel petto di Josei, senza mezzi termini, e senza tentennamenti. Lui sgrana appena gli occhi e poi crolla a terra, morto. Sento un altro colpo di cannone. Possibile che... - Non te ne sei neanche accorto. Non ti sei accorto che i tuoi amici e compagni sono morti, mentre giocavi con Mizar. - sembra davvero deliziata della cosa. Continuo a non capire, continuo a non sapere cosa dire, la lingua mi sembra un impasto molle e inutilizzabile in bocca. Lei allora ride, e come in un orrendo incubo realizzo che quella sua risata...è la stessa dei Favoriti, la stessa che rimbombava nel vuoto della città abbandonata e distrutta, la stessa crudele e senza emozioni. - Ci sei arrivato? - chiede, con una faccia angelica che cozza terribilmente con la verità che comincia a prendere forma in me - È bello poter essere io ad ucciderti. -

- Perché? -

Riesco solo a chiedere, le forze mi abbandonano alla velocità della luce.

- Perché? - ribatte lei, come se fossi uscito pazzo, come se non avesse alcun senso la mia domanda - Sono gli Hunger Games, Tom! Che cosa ti aspettavi? Che ti amassi? Che l'amore avrebbe salvato entrambi? Avresti dovuto capire che era tutta una messa in scena, fin dall'inizio! -

Non riesco a dire una sola parola. Il cuore mi si spezza in petto. Per quel che vale, sono morto in questo istante.

Riesco benissimo ad accettarlo, eppure ancora mi sembra impossibile.

Ho sprecato tanta energie, mentali e fisiche, per lei. E lei invece pensava solo a come ritorcermi contro quel sentimento che stava nascendomi in petto.

Ora il punteggio datole dagli Strateghi sembra avere un senso.

Era pericolosa e neanche me ne sono accorta. Lei...lei e il suo compagno, che non aspettavano altro che pugnalarmi alle spalle.

Il piano di Astrid mi sembra così scontato adesso. Si finge innamorata, si strugge di amore per me, gli sponsor e tutta Capitol City piange e si dispera, l'aiutano a sopravvivere. I Favoriti vengono presi in giro alla stessa maniera, la tengono in vita perché possa attirarli a loro. Aspetta che io faccia il lavoro sporco per lei, rischiando di morire, ossia uccidere i Tributi più pericolosi. E quando il campo è libero viene a raccogliere i frutti del suo lavoro.

Era sicura che io e Mizar ci saremmo uccisi a vicenda, era sicura che io avrei fatto uno sterminio pur di salvarla.

Fare la donzella in pericolo l'ha rese la vincitrice dei giochi.

- Addio Tom, grazie dell'aiuto. -
Mi sfila un pugnale dalla cintura e mi sorride. Il sorriso dolce dell'Astrid che ho conosciuto e...amato.

Poi me lo pianta nel cuore.

Prima di morire ho il tempo di sentire il colpo di cannone sparato per me.



The Corner

Ciao a tutti!
Sono finalmente tornata!
Buon anno e ben trovati :3
Piccola novità per questa storia: il prossimo sarà l'ultimo capitolo!
L'aggiornamento sarà giovedì 30 Gennaio!
Mi siete mancatiiiiii! E' bello rimettersi a lavoro :3

Chii

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Capitolo 24
*** Epilogo ***


Epilogo

 

Mi chiamo Bill Kaulitz. Ho ventuno anni.

Tre anni fa ho visto morire mio fratello in diretta nazionale.

Oggi ho la possibilità di portare a compimento la mia vendetta.

Panem non esiste più, i Distretti non esistono più.

C'è stata la guerra.

I miei genitori sono rimasti uccisi.

Io sono rimasto solo.

Un unico pensiero mi ha impedito di perdere il senno e mi ha permesso di andare avanti, di svegliarmi ogni giorno e trovare un motivo per vivere: uccidere Astrid Uragiri del Distretto 9.

Per un lungo periodo ho pensato che fosse morta nella guerra. E la cosa mi ha distrutto: avrei voluto essere io la causa della sua morte.

Poi ho scoperto che è sopravvissuta, che è emigrata nel Distretto 13 e che lì è rimasta fino alla fine della guerra.

Più sconvolgente dello scoprire che il Distretto 13 non è stato distrutto da Capitol City è l'informazione che quella ragazza era ancora viva.

Ho dovuto aspettare che la guerra finisse, e che le acque si calmassero prima di poter agire.

Tre anni, questo è il tempo massimo che sono riuscito a sopportare.

Adesso che mi dirigo a passo svelto tra i corridoi sotterranei del Distretto 13 mi sembra che sia passato troppo poco tempo.

Mi rigiro tra le mani il pugnale.

È così che voglio ucciderla: come lei ha ucciso mio fratello.

Nessuno sembra fare caso al ragazzo alto e pallido con un pugnale tra le mani che si aggira con sguardo folle per i corridoi.

Sono ancora tutti impegnati a festeggiare la fine della schiavitù, l'inizio di una nuova vita.

Inneggiano alla Ghiandaia Imitatrice, quella stupida ragazza del Distretto 12 che ha dato il via a tutto questo.

Inutile ammasso umano costruito su misura per le masse.

Non mi è mai piaciuta, non ho mai creduto che lei potesse portare la rivolta.

Infatti il suo è stato solo un ruolo di facciata.

L'ho vista bene, Katniss Everdeen, mentre si disperava per il suo amore perduto, per la sua sofferenza, mentre si rannicchiava in un angolo a piangere come una bambina.

E quella ci avrebbe dovuto portare alla vittoria contro Capitol City?

Per fortuna era circondata da persone che, al contrario di lei, sapevano il fatto loro.

È a quelle persone che si deve la nostra libertà.

Ma sinceramente, non mi importa.

Io non ho più nessuno con cui condividere questa nuova vita, questo nuovo mondo.

Sono solo. Ed è merito di Astrid.

L'hanno portata qui perché è una vincitrice.

Ha avuto la fortuna di non essere scelta per l'Edizione della Memoria. Sarebbe toccato a tutti i vincitori delle vecchie edizioni essere estratti per partecipare.

Fino all'ultimo ho sperato che lei non venisse scelta.

Come potevo sopportare che qualcun altro la uccidesse? Qualcun altro che non fossi io?

Ma ho provato un instabile sentimenti di rabbia quando non è successo.

Diviso da troppe sensazioni diverse, ho solo desiderato poter superare i confini del mio Distretto per andare a cercarla, sorprenderla nel sonno, soffocarla con le mie mani.

La guerra ha solo allontanato il momento, dandomi la possibilità di covare ancora più odio.

L'odio e la sofferenza mi hanno nutrito, ed io sono ciò che è rimasto di me stesso.

Non lo fare, sei ancora in tempo per tornare indietro.”

- No, Tom. - rispondo alla voce nella mia testa che mi perseguita e mi conforta da quando mio fratello è morto - Non posso, devo vendicarti. -

Magari io non voglio essere vendicato.” continua la voce e io vorrei spremerla fuori dalla mia testa. Fa sempre così, quello stupido fa sempre così. Cerca di convincermi che sia una cosa sbagliata, cerca di farmi allontanare dai miei propositi, fa tremare la mia mano. “Torna indietro, Bill. Hai ancora qualcosa per cui vivere. Ora sei libero, puoi fare quello che vuoi! Non devi essere portatore di morte.”

- Per cosa dovrei vivere, fratello? - gli occhi mi si riempiono di lacrime e la voce nella mia testa tace per un istante - Non ho più nessuno da cui tornare. Tu non ci sei più, mamma e papà non ci sono più, mi è rimasto solo questo. -

Guardo il pugnale tra le mie mani, brilla e rimanda il mio riflesso.

Per un attimo nello scintillio della lama vedo gli occhi di Tom, poi sbatto le palpebre e vedo solo me stesso, solo, triste, pallido, smunto.

Sono un'ombra, e presto finirò per sparire. C'è solo quest'ultima cosa che devo fare prima.

I miei passi si sentono appena, come rintocchi inevitabili di un orologio.

La sua porta è la prossima.

Dovrei bussare?

La Morte avverte prima di arrivare?

L'immagine di lei che tradisce mio fratello e lo pugnala al cuore irrigidisce tutti i miei muscoli.

Quasi sfondo la porta entrando.

La persona che trovo sdraiata su un materassino steso a terra è del tutto diversa da quella che mi aspettavo di trovare.

Non è l'assassina dei miei incubi, non è il mostro che mi ha tolto mio fratello, non è niente di tutto ciò.

È una figuretta magra tutta rannicchiata su se stessa che alza la testa e mi guarda.

C'è dello stupore nei suoi occhi grigi quando mi mette a fuoco.

- Tom? -

Chiama, e il mio cuore viene stritolato in una morsa di dolore così intensa da farmi venire la nausea.

- Tom è morto. -

Le rispondo.

La patina nebbiosa che ricopre i suoi occhi si solleva per un attimo, facendole riprendere coscienza all'improvviso.

- Bill. -

- Non ti permetto di pronunciare il mio nome. -

Mi avvicino con il pugnale alzato.

Lei non emette un gemito. Non mi prega, non mi supplica, non piange, non fa niente di tutto quello che mi sarei aspettato che facesse.

È abbandonata al suo destino, anzi, quasi mi offre il petto per essere colpita.

Sta aspettando la morte tanto quanto l'aspetto io.

- Su, perché non lo fai? -

La sua voce è sottile, un fruscio doloroso che mi urta l'udito.

Vacillo. All'improvviso tutta la mia sicurezza viene meno.

Non riesco ad ucciderla.

Non posso ucciderla.

Perché?

Alzo il braccio con il pugnale, pronto a colpire.

Fallo, fallo, fallo!

Liberati di questo peso, vendicati!

Dai un senso a questi tre anni di sofferenza!

Fai in modo che Tom possa riposare in pace!

Non farlo, Bill! Io la amo.”

La voce di mio fratello mi impregna la mente, mi blocca la mano, ferma per un istante il mio cuore sofferente.

- Ti ha ucciso. Ti ha ucciso, come puoi amarla. -

Le lacrime mi solcano il viso. Quando ho cominciato a piangere?

Non me ne sono neanche reso conto.

Anche lei piange.

Si alza in piedi, traballando sulle gambe magre.

Mi si fa vicina, mi prende la mano armata e si punta il coltello al petto.

- Io lo amavo davvero. Ma avevo troppa paura di morire. So che non mi crederai, so che non ho alcun diritto al perdono. Io non ho esitato a colpirlo, quindi tu non esitare a colpire me. -

Mi guarda con quegli occhi liquidi e intensi, seri, sinceri, folli.

Non so più cosa è giusto e cosa no.

La voce di mio fratello continua a supplicarmi di non farlo, di non ucciderla, le invece preme il coltello sul suo petto, invitandomi a farlo.

Non riesco a respirare, un peso enorme mi opprime il petto.

Stringo i denti e mi mordo le labbra a sangue per evitare di gemere di sofferenza.

È allora che riesco a sollevare la mano armata e a calarla su di lei.

I suoi occhi sembrano ringraziarmi.

Un solo colpo, uno solo, al cuore. Senza infierire, senza esagerare.

Lo stesso colpo che ha ucciso mio fratello, adesso uccide lei.

Crolla a terra senza vita.

Estraggo il coltello e lo lascio al suo fianco, mentre si dissangua lentamente.

È già morta quando esco.

Il sangue sulle mie mani e sulla mia maglietta gocciola nel corridoio.

È finita.

Non mi sento meglio.

Cammino.

Esco dal Distretto 13.

Lo supero.

E continuo a camminare.

 

 

The End

 

28/01/2014


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The Corner

Ciao a tutti! 
E quindi questa è la fine della storia...
Grazie a tutti per avermi seguito in questa avventura, spero che ne sia valsa la pena rimanere fino alla fine!
AI nostalgici (come me) vorrei dire che la storia è nata il 25 di Aprile 2013...sta quasi per fare compiere un anno di età!
E' stato davvero un cammino lungo e doloroso da affrontare...
Grazie di nuovo, 
alla prossima

Chii

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