Sangue del Nord

di Water_wolf
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** ALEX • Nuovi Arrivati al Campo Nord e un po’ di Divine Urla ***
Capitolo 2: *** ASTRID • Scopro che anche i martelli hanno il GPS ***
Capitolo 3: *** ALEX • Parlo con i miei e demolisco un aereoporto ***
Capitolo 4: *** ASTRID • Volo diretto destinazione grossi problemi ***
Capitolo 5: *** ALEX • Scopriamo che ci sono altri semidei ***
Capitolo 6: *** ANNABETH • I nostri colleghi del Nord ci fanno visita ***
Capitolo 7: *** PERCY • Vengo morso da un ragno extralarge ***
Capitolo 8: *** ASTRID • Un corvo, un dio e una coppia di cibo per cani ambulanti ***
Capitolo 9: *** ALEX • La mia viverna fa una cena a base di orchi ***
Capitolo 10: *** ASTRID/ANNABETH • Di suicidi e tentati omicidi ***
Capitolo 11: *** PERCY • Partiamo, destinazione: un mare di guai ***
Capitolo 12: *** ASTRID • Tre pirati ci accolgono sul vomito di un unicorno ***
Capitolo 13: *** ALEX • Una gita nell'Hellheim ***
Capitolo 14: *** ASTRID/ANNABETH • Rischiamo di morire tutti, di nuovo ***
Capitolo 15: *** PERCY • Incredibilmente siamo ancora tutti vivi ***
Capitolo 16: *** ASTRID • E, alla fine, ci divertiamo tutti - più o meno ***



Capitolo 1
*** ALEX • Nuovi Arrivati al Campo Nord e un po’ di Divine Urla ***


Achtung: Water_wolf è una ragazza, sesso femminile, periodo rosso ogni mese. AxXx  ( http://www.efpfanfic.net/viewuser.php?uid=218778 ) invece è un ragazzo, sesso maschile. Grazie per l'attensione :)

Sangue del Nord

 
 

Nuovi Arrivati al Campo Nord e un po’ di Divine Urla

•Alex•
 
 
Non so bene quando mi svegliai, quella mattina: so solo che quel giorno iniziò normale e finì nel casino.
Ok, forse dovrei esserci abituato, visto che cinque divinità su dodici del nostro Pantheon sono consacrate alla guerra e non vedono l’ora di ricordarci quanto siano fighi e forti, ma ogni tanto anche un figlio di Odino vuole riposare. Il suono della sveglia fu subito interrotto dalla mia mano che si schiantava su di essa.
Ok, è il mio settimo anno al Campo Nord e già devo cambiare la mia venticinquesima sveglia. Dovrei ricordarmi di non essere troppo rude. Mi alzai e mi lavai la faccia, le mani e i denti; dovevo fare buona impressione. Dopodiché, entrai nell’atrio principale del dormitorio dell’Orda del Drago, la mia Orda di semidei vichinghi assetati di sangue.
Molti dicevano che essere figli del Re degli Dèi era una raccomandazione. Mai furono dette parole più false. Divenni capo dell’Orda in modo assolutamente imprevisto, quando battei Geram in un allenamento con la spada. Lui si infuriò per la sconfitta e mi sfidò affermando che avevo disonorato l’Orda e mise in palio il proprio titolo di capo. Ora, devo precisare che nessuno si fece male sul serio, ma dovetti comunque fasciarmi un braccio e fui fortunato che nessun altro mi sfidò dopo. Secondo le regole, infatti, il capo di un'Orda non viene eletto, ma ognuno può diventarlo battendo in uno scontro a mani nude il capo precedente. Inoltre, non ci sono periodi specifici in cui farlo, un guerriero può diventare capo di un’orda in qualsiasi momento e il comandante deve accettare qualsiasi sfida, anche se ne ha già affrontate decine in precedenza.
Ecco perché dico che fui fortunato: pur avendo un braccio messo malissimo, nessuno mi sfidò. E posso confermare che un arto in meno, in combattimento, è un grande svantaggio. Comunque sia, ebbi la fortuna di batterlo quel giorno e per tutto ciò finii a capeggiare l’Orda.
Ok, ora mi direte: «Ma sei capo! Che figata!»,  è vero, è bello se conti che hai un alloggio personale, il servizio tavola migliore, ti becchi carne ogni giorno, bevi quello che ti pare e sei rispettato da tutti. Ma voi non avete idea di cosa significhi mantenere l’ordine in un’Orda di pazzi scalmanati sempre pronti a fare a botte. Calmare litigi che finiscono sempre in rissa… ti va via la voce, dopo un po’.
Poi devi scegliere i tuoi secondi, chi guiderà le truppe primarie in battaglia… e anche qui c’è da ridere. Non puoi passare un, e dico un secondo tranquillo perché subito lo vogliono diventare tutti.
Ogni volta che devo prendere una decisione provoco una rissa che devo calmare. Alla lunga è stancante.
Mi infilai la mia divisa da comandante in capo MADE IN ASGARD e raggiunsi gli alloggi degli altri: trenta ragazzi, tutti semidei, figli di varie divinità Norrene. Una buona parte -forse il venti per cento- erano figli di Freyja, dea dell’amore e della guerra; tutti gli altri appartenevano ad altre divinità.
Io ero uno dei due figli di Odino del Campo, ed unico dei due ad essere capo. Mia sorella era uno dei secondi dell’Orda del Sangue. Abbondavano i figli di Thor e Eir, dea della medicina, nonché comandante delle Valchirie.
Gli alloggi erano abbastanza comodi, tutti suddivisi in stanze coabitate dove si dormiva in quattro. Ognuna di queste camere era provvista di bagno comune, scrivania e un baule personale; si affacciavano su un corridoio che dava sulla Sala Comune, un enorme stanzone con grandi tavoli dove si mangiava. Da lì,  si usciva all’esterno, ma non direttamente sul Campo. Infatti ogni Orda abitava in una sorta di fortino e l’edificio principale era affiancato da un’armeria, una stalla e un campo di allenamento personale. Il tutto circondato da mura di legno con tanto di guardiole. All’esterno delle palizzate si trovavano un’arena, vari campi sportivi, altri terreni di allenamento e tredici templi, ognuno appartenente ad una divinità Norrena. Inoltre, poco lontano, vi era un sesto forte dove dimorava il nostro Comandante Supremo: Hermdor, figlio di Odino, considerato quasi una divinità, benché  fosse solo un semidio.
Egli ricevette l’immortalità dopo che salvò Baldr, dio del Sole, dalle grinfie di Hell e divenne il capitano di un gruppo di semidei anziani e elfi guerrieri, tutti addestrati a comandare e a amministrare le Orde. Essi intervenivano solo in caso di litigi gravi che coinvolgevano intere Orde e avevano il compito di evitarli.
Comunque le cose andavano bene, ultimamente. L’estate era iniziata da poco e il Campo era tranquillo. Protetto dalle sue impenetrabili difese magiche che tenevano lontani mostri e mortali, i vari semidei potevano sbizzarrirsi, divertendosi come piaceva a loro. Mentre io dovetti subito difendermi dalla parvenza di un attacco mortale, quando mi vidi volare contro una lattina di Coca-cola.
«Come mi hai chiamato!?»
«Mi hai sentito! Ti ho chiamato idiota senza cervello!»
«Non chiamarlo così, guarda che te le suono!»
«Stanne fuori, biondo, non è affar tuo!»
E giù di botte.
Eric, figlio di Baldr, doveva avere di nuovo detto che uno dei figli di Thor era un idiota tutto muscoli e niente cervello. E la discussione era degenerata in rissa con i figli dell’uno e dell’altro dio che se le davano. E indovinate chi dovette calmare lo scontro?
«Basta! Cosa succede, adesso!?» chiesi, alzando la voce più che potei per farmi sentire sopra il clamore della rissa.
Nonostante il casino riuscii a farmi sentire. Alleluia, un passo avanti.
«Eric mi ha detto che sono un idiota! Deve imparare un po’ di rispetto!» sbottò Egil, il biondo figlio di Thor, che si rialzò con un occhio nero. Anche se non era muscoloso come altri suoi fratelli era una vera furia.
«Ho solo detto la verità, sei uno idiota! Chi ti ha dato il permesso di rompere il mio specchio!?» domandò stizzito Eric, squadrandolo adirato. Anche lui biondo, ma dai lineamenti molto più dolci e angelici rispetto all’altro.
«Ora basta! Ve le siete cantate e siete pari! Abbiamo altro a cui pensare, conservate la vostra furia per il campo di battaglia!» replicai io, costringendoli a stare lontani.
I due si squadrarono rabbiosi, come se valutassero quanto valeva disubbidire al loro capo per poi finire nelle prigioni del Castello del Comando per insubordinazione. Scelsero che non ne valeva la pena e si divisero.
Ufff… per fortuna è andata bene…, pensai sollevato, mentre mi dirigevo al tavolo degli ufficiali. Lato positivo del mio grado: cibo di qualità e carne squisita sempre e comunque, oltre che una poltrona come sedia al tavolo. Mi persi un attimo nei discorsi di alcuni comandanti, finché non mi accorsi che mancava una persona.
«Dov’è Astrid?» chiesi rivolto a Marcus, uno dei comandanti dell’Orda, figlio di Foreseti.
«Quella? Non ne ho idea. Forse è rimasta nella sua stanza» ipotizzò lui grattandosi il mento, pensieroso.
«Ho capito… vado a cercarla. Mi raccomando aspettateci per l’allenamento» gli raccomandai, avviandomi di nuovo verso i dormitori.
Ero uno dei pochi a notare la sua assenza. Non che fosse antipatica, anzi, era molto aperta. Il problema era la madre: Hell. Unica figlia della dea degli Abissi, la sua vita era stata difficile anche al Campo. Due anni fa era anche stata accusata di tradimento da uno dei figli di Loki -fatto che si era rivelata falso. Così si era ritrovata con, sì e no, due amici in croce. Avrei voluto anche farla mia seconda in comando, ma, ovviamente, l’Orda non avrebbe acconsentito e lei stessa mi aveva consigliato di non farlo se non volevo ritrovarmi la sua testa su un piatto d’argento a colazione.
Raggiunsi la sua porta e bussai.
«Avanti» fu la laconica risposta.
Quando entrai mi ritrovai davanti una ragazza di circa sedici anni, i suoi occhi erano pozzi neri senza fine, i capelli lunghi capelli neri le ricadevano sul petto incorniciando il viso pallido e dai lineamenti dolci. Era alta quasi quanto me e indossava una maglietta nera che raffigurava un gruppo rock a me sconosciuto.
«Allora? Come mai non sei in Sala Comune con tutti gli altri?» chiesi, chiudendomi la porta alle spalle e appoggiandomi al muro.
«Perché… be’, uffa, a me piace fare colazione come voglio io» sbottò arrabbiata,  indicando la sua scrivania dove c’era una tazza di latte e una confezione di Cereali Mußli.
Scoppiai a ridere. Oggi c’erano i biscotti, ma lei non poteva fare a meno dei suoi cereali preferiti.
«Non ridere! È una cosa seria!» continuò lei, sbracciandosi inviperita.
«Calma, calma! Ho capito, ma ti ricordo che oggi bisogna prendere i nuovi arrivati, quindi preparati» le intimai, fingendomi un comandante arrabbiato. Finzione inutile dato che scoppiammo entrambi a ridere.
«Sissignore» rispose lei, calmando le risate.
«Bravo, soldato» feci io, tornando nella mia stanza indossando la mia armatura di cuoio borchiato. Bisognava dare la giusta impressione ai nuovi semidei.
Non era difficile indossarla, bastava infilarsela come una normale maglia e stringere le cordicelle che dei fianchi ed era fatta. Niente elmo, non mi piaceva, mi copriva la visuale. Poi, presi la mia spada: un’arma che adoravo e che si trasformava in qualsiasi tipo di spada nella storia. Poteva passare dal coltellino svizzero allo spadone, ma anche a tutte le altre spade -la daga, la spada corta, la spada lunga, la spada bastarda- a seconda del luogo e dell’avversario che stavo affrontando.
Dopodiché, tornai nella Sala comune dove si stavano radunando tutti gli appartenenti all’Orda del Drago. Tutti indossavano armature sopra i vestiti personali e avevano l’aria feroce di chi stesse per combattere. Perfetto!
«COMPAGNIA DEL DRAGO!» esclamai, come per motivarli, alzando la mia spada.
Tutti mi risposero battendo gli scudi, urlando, mentre altri levavano cinque bandiere nere con sopra dipinto un drago rosso rampante che sputava fuoco; il simbolo dell’Orda.
Mi misi in testa al gruppo, che uscì a passo di marcia verso il cortile principale, ai piedi dei cinque fortini, dove c’erano i tredici templi disposti a cerchio. Poco lontano vidi anche le altre Orde avanzare, quella del Sangue, guidata da Rebekka, figlia di Frejya; quella della Spada, guidata dal biondo Oscar, figlio del dio del Sole Baldr. Quella dello Scudo, preceduta da Grete, figlia di Eir, la dea al Comando delle Valchirie. Infine, quella del Fuoco, guidata da Havard, un possente figlio di Thor che brandiva un martello proprio come il padre.
Al centro della piazza ci attendeva Hermdor, il nostro comandante in capo, vestito in tenuta militare con tanto di elmetto, AK-47 e spadone dietro le spalle. Era un uomo slanciato, dalla carnagione chiara, i capelli neri, gli occhi grigi e di aspetto robusto. Alto due metri e passa era un vero colosso che incuteva timore anche ai più anziani tra noi. Era scortato da un drappello di elfi armati di arco, che scortavano una quindicina di ragazzi tra gli undici e i dodici anni. Il più piccolo, forse, ne aveva addirittura dieci.
Le orde si disposero ai lati della piazza, lasciando al centro i cinque capi, che si disposero alle spalle del loro direttore.
«Bene, nuovi arrivati! I vostri accompagnatori elfi dovrebbero avervi ragguagliato abbondantemente sul Campo Nord. Qui vi addestreremo in modo che nella vostra vita possiate affrontare i mostri che vi vogliono morti e a servire gli Dèi quando giungerà il Ragnarock! Ora, prima di essere smistati, vi dirò tre regole principali del nostro campo!» esclamò Hermdor ai quindici ragazzini che si guardavano intorno spaesati e impauriti, con una voce da Sergente Maggiore Hartman.
Non potei fare a meno di sorridere quando li vidi sobbalzare. Io ero arrivato da solo, al Campo, cosa abbastanza rara, ma non fui di certo risparmiato dalla ramanzina di “inizio corso”.
«Regola Numero Uno! Mai, e dico mai, avvicinarsi al Forte Principale senza permesso!» strepitò, indicando l’edificio in pietra che ospitava la sua residenza e quella degli elfi guardiani.
Quindici teste annuirono all’unisono.
«Regola Numero Due! Mai disubbidire ai vostri capi, altrimenti mi occuperò io personalmente di cavarvi gli occhi dalle orbite!»
Quindici corpi rabbrividirono di paura, mentre facevano “sì” con la testa.
«Regola Numero Tre! Mai e dico mai avvicinarsi ai confini del Campo se non volete essere bersaglio delle mine e delle torrette automatiche!»
Quindici “sì” non avrebbero potuto essere più convincenti e timorosi.
«Molto bene, lattanti! Ora, vi smisterò nelle cinque Orde! Siate l’onore dei comandanti a cui sarete assegnati! Sarete sotto la loro responsabilità, ma non aspettatevi favoritismi o salvezza, perché non verranno a salvarvi la pellaccia!»
A poco a poco, tutti furono divisi in modo parzialmente casuale. Le Orde, infatti, dovevano avere un numero più o meno pari di membri, di solito sui venticinque o trenta. A me furono assegnati: Anne, una vivace ragazzetta dai capelli biondi con le trecce; Mike, un ragazzotto un po’ robusto che ricordava un giocatore di rugby in miniatura e Serah, una bella ragazzina dai capelli lunghi ramati dallo sguardo vivace.
Provai a indovinare le divinità di cui erano figli, ma solo di Serah ipotizzai lo zampino di Frejya. Di solito il riconoscimento avveniva dopo un anno di età, quando una divinità lasciava il proprio marchio sulla tua pelle, oppure si intuiva dal carattere. Io, per esempio, avevo il simbolo della lancia e circondata da fuoco sul braccio sinistro.
Il problema era che tutti, più o meno, avevamo degli attributi simili: oltre ad essere iperattivi e con un deficit dell’attenzione piuttosto alto, eravamo tutti molto aggressivi e strutturati per la guerra. Questo perché quasi tutte le divinità Norrene erano votate al conflitto. I più facili da intuire erano i figli della dea Frejya -che di solito ce ne buttava sempre almeno tre all’anno, nel campo-, i figli di Loki -impossibile non notare i loro capelli neri come la notte senza stelle e gli sguardi astuti- e quelli di Forseti -unici ad avere un minimo senso del pacifismo e del dialogo. Tutti gli altri erano, più o meno, allo stesso livello.
Appena il direttore ebbe concluso, si congedò salutandoci con un sorriso un po’ sinistro, seguito dagli elfi. Con un cenno, feci capire ai comandanti di rompere le fila e l’Orda si disperse e i ragazzi andarono a divertirsi. La mattina, di solito, era molto attiva. Si partiva dal riscaldamento, ma poi si spaziava in ogni attività. C’erano tutti di tutti gli sport disponibili: basket, rugby, calcio. Niente tennis o golf, gli Dèi li consideravano sport da pappamolle. Così ne approfittai per conoscere i tre nuovi arrivati.
«Allora, ragazzi, come state?» domandai, battendo le mani, cercando di assumere un sorriso rassicurante... e dalle loro reazioni dedussi che non era andata benissimo.
«Io… sto bene, signore» rispose il ragazzo, facendosi un po’ di coraggio. Forse avrei dovuto fare a meno dell’armatura.
«Va bene… sentite, io non voglio mangiarvi, ok? Ma ho il compito di guidarvi in battaglia, quindi evitatemi problemi, state lontani dai guai più grossi e seguite le tre regole, d’accordo?» dissi, abbandonano l’idea del sorriso. Forse la sincerità era l’arma migliore in quei casi -Padre Divino, aiutami tu.
I tre annuirono con un po’ meno timore. Forse avevano capito che non ero così  “comandante di ferro” come Hermdor. Li condussi a fare un giro del Campo, mostrando loro tutti i corsi e le discipline disponibili. Equitazione, arrampicata, sopravvivenza, scherma medievale, combattimento corpo a copro, tiro con l’arco, basket, calcio, medicina, artigianato e fabbricazione di armi. Man mano che mostravo loro il Campo, loro si facevano sempre meno spaventati e mi sommergevano di domande a cui io ero felice di rispondere. Mi sentivo stranamente a mio agio in quel ruolo di guida, mi faceva sentire molto più tranquillo, anche perché non dovevo sedare risse e, forse proprio per quello, non avevo mai imposto pugni di ferro o regimi dittatoriali nella mia Orda. Preferivo che la gente mi chiedesse consiglio più che condottiero.
«Questo è lo spirito di un vero capo» aveva detto papà un giorno, quando ero andato ad Asgard. «Un capo mai ordina agli altri per fare al posto suo, ma percorre la strada insieme ai suoi uomini, indicando il percorso meno impervio.»
Non ci avevo capito molto, ma compresi il succo e non mi lamentai. Ero fortunato che avesse avuto un po’ di tempo per me.
Lasciai per ultima la mia “attrazione” preferita. Entrammo in un immenso padiglione, posto vicino alla fortezza principale. All’interno vi erano delle grandi aperture dai quali si sentivano ruggiti bassi e profondi.
«Ehi, Vesa!» esclamai con entusiasmo.
Da una delle aperture emerse una testa allungata, serpentina e squamosa. Due occhi gialli mi squadravano stanchi. Le dimensioni davano l’idea che fosse una creatura grossa quanto un furgone. Infatti era una Viverna. La mia Viverna.
A quella vista i tre sobbalzarono, affrettandosi a nascondersi dietro gli angoli, intuendo che anche le altre aperture nascondevano creature simili. Invece io corsi ad abbracciare il muso, mentre venivo accolto da un grugnito nostalgico. Le Viverne erano creature di Asgard selvagge e simili ai draghi, anche se più piccole e non sputavano fuoco. Addestrarne una era difficilissimo e pochi le avevano. Per possederla dovevi catturarla personalmente, andando sui monti di Asgard, dove dimoravano queste creature, e sottometterla. Solo così si lasciavano addestrare. Vesa l’avevo presa un anno e mezzo prima, a costo di cinque costole rotte, due fratture, tre contusioni, dodici punti alla gamba e un occhio nero. Non era stata una mossa saggia, ma la mia testardaggine dovette averla colpita, dato che, alla fine, sembrò quasi arrendersi. Ora eravamo amici inseparabili e andavo sempre alla Stalla delle Viverne a salutarla. Dopo questa piccola avventura, decisi che era ora di tornare agli alloggi dell’orda per far fare a Serah, Mike e Anne i primi corsi di combattimento. Ma qualcosa attirò la mia attenzione.
Un urlo dal tempio di Thor.
Era successo qualcosa di grave.
 
koala's space.
Benvenuti al Nord, qui è il koala Moriarty che parla. Questa fanfiction è scritta a quattro mani da AxXx ( http://www.efpfanfic.net/viewuser.php?uid=218778 ) e Water_wolf, e il primo scriverà in rosso e la seconda in verde-occhi-di-percyche non c'è su efp
Salve, gente!
*sventola la manina* Here I am!^^
Come è venuta fuori questa loro folle idea di unire gli Dèi Norreni ai nostri amati Greci?
Mi sono fatto una canna.
Io ho procurato la roba *fischietta*
-.- Come vedete, un koala ha il QI più alto di un aspirante scrittore e di una correttrice di bozze che sclera su troppi fandom. Scriveranno i capitoli a POV alternati, AxXx Alex e Percy, e Water Astrid e Annabeth. Cercheranno di aggiornare almeno una volta alla settimana, ma in realtà non sanno bene cosa faranno.
Fumiamo canne dopotutto hahah No, non è vero, ma non prendeteci troppo sul serio.
Piccoli appunti di oggi:
Ho usato lo stesso nome del drago di Ido per la mia viverna perché non hai fantasia come me, che scelgo i nomi dal puro cuore della Norvegia, è tutto programmato, non c'è plagio. Se avete qualcosa da chiedere riguardo gli dèi, che comunque verranno introdotti man mano, chiedete a me LUI!
Per le recensioni, o risponderanno duettando come magnifici uccellacci del malaugurio ossia i corvi di Odino e idilliaci fringuelli. Inseriranno, per gioia di Water, delle imprecazioni in norvegese, perché il Campo è ubicato appunto in Norvegia.
Ci sono ragazze che amano il trucco e quelle che hanno una cotta su Oslo.
Dritt Mea culpa ^^"
Ora, non spaventatevi per l'introduzione e la battuta su Miley Cyrus (sorry smilers), la storia ne vale la pena. E visto che il rosso toscano vivo e la verde milanese (da quando Milano è verde? hahah) sono dei poveretti che hanno bisogno di cure urgenti, donate l'8% del vostro tempo per una recensione: salverete due ragazzi e probabilmente anche il mondo dalla distruzione finale.
Buona notte!
O giorno, visto che è mezzanotte e uno.
Pignola -.- Ciao!
Bao!

 
Soon on "Sangue del Nord": point of view di Astrid, la scoperta delle grida e i compagni di un'impresa.
 

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Capitolo 2
*** ASTRID • Scopro che anche i martelli hanno il GPS ***


Achtung: Water_wolf è una ragazza, sesso femminile, periodo rosso ogni mese. AxXx  ( http://www.efpfanfic.net/viewuser.php?uid=218778 ) invece è un ragazzo, sesso maschile. Grazie per l'attensione :)

Scopro che anche i martelli hanno il GPS

♦Astrid♦

Ci sono solo due motivi per cui dei figli di Thor dovrebbero strillare come galline sgozzate: il primo, è successo qualcosa di grave; secondo, è successo qualcosa di molto, molto grave. E, visto che l’estate era iniziata da poco e che non era accaduto niente fuori dalla routine, avrei scommesso l’elmo che l’ultima ipotesi era quella corretta.
Un pensiero corse a quei poveri, piccoli e indifesi semidei appena arrivati al Campo che già si trovavano ad affrontare chissà quale problema –come se rischiare di distruggere scuole, essere attaccata da un mostro o scoprire accidentalmente che lo stoccafisso che ti ritrovavi come genitore aveva attirato l’interesse di un dio, non lo fossero.
Be’, non che fosse difficile attirare le attenzioni di una dea femminista e leggermente incline all’amore. Nel caso di Thor, avrebbero fatto furore ragazze che lavoravano in un officina come assistenti meccanico o qualcuna disposta a farsi chiamare “donna”, con uno spiccato prolungamento dell’ultima vocale. Mi persi a riflettere su come si presentasse Odino ai mortali, senza un occhio e accompagnato da due corvacci che avrebbero speso volentieri le loro ferie in gita in Inghilterra, decisi a sedurre qualche cornacchia di uno sconosciuto castello britannico. Un altro grido interruppe il filo del mio pensiero, riportandomi al presente.
Mi riportai indietro i capelli, mi fermai ad allacciare gli anfibi bordeaux e mi diressi verso il tempio dedicato a Thor. Se le figlie di Eir erano delle maghe nell’utilizzo delle erbe medicinali, quelle Freyja a essere dannatamente perfette in ogni momento, quelle di Hell, oltre a possedere una lista personale di nemici più lunga di quella di Adolf Hitler, avevano degli assi nella manica piuttosto versatili. Perché limitarsi a sembrare un’ombra quando lo si può essere veramente, viaggiando attraverso le tenebre? Oltrepassai le palizzate, notando che nessuno era ancora uscito dal tempio.
Era un edificio di pietra sbozzato, niente a che vedere con le cupole a volta dorata dei cristiani, ma che dava ugualmente l’idea di quanto fossero forti e superiori gli Dèi. Due grossi massi, tagliati a formare alte e massicce colonne, riportavano incisioni e pitture che raffiguravano Thor in varie imprese, accompagnato dall’imponente martello, la sua inseparabile arma. Camminai svelta verso di esso, mi appiattii contro un pietrone e tesi l’orecchio. Non capivo tutte le parole, ma non era certo molto difficile intendere che metà di esse fossero imprecazioni e maledizioni.
Mi sistemai all’ombra del tempio, in modo che neanche un raggio di Sole colpisse la mia pelle, ed evocai i miei poteri. In teoria, era proibito entrare nel luogo sacro di un dio che non fosse tuo padre o tua madre, ma da brava semidea mi interessava solo la pratica. Mi ritrovai all’interno della costruzione, nascosta dietro una statua di un gigante supplicante ai piedi di un Thor furente ma soddisfatto. Tutti i suoi figli, compreso Egil, che si era beccato una strigliata da Alex questa mattina, erano prostrati a terra con timore più che reverenziale, qualcosa che si avvicinava molto al terrore.
E poi la notai. La più sontuosa e meravigliosa statua del dio, scolpita nei minimi dettagli tanto che si vedeva ogni singola maglia della cotta da battaglia che indossava, i lunghi capelli biondi scossi dal vento e il cipiglio severo e truce. Ma non era tanto la scultura in sé che mi aveva colpita, tanto il fatto che era viva e si muoveva, sbraitando contro i suoi sottoposti.
«… voi non avete idea dell’oltraggio che mi è stato arrecato, i vostri crani ripieni di poltiglia grigia non possono nemmeno partorire un’idea tanto subdola e manipolatrice e knulle!* Avete capito, no?»
Se Thor-statua si aspettava un coro di “sissignore!”, o un impavido “ovvio che non possiamo concepire l’immagine, visto che un cervello non partorisce ma pensa”, ottenne un gemito complessivo. Il dio incrociò le braccia con un frullio di baffi e barba, volendo continuare il discorso, quando il suo sguardo incrociò la scultura dietro la quale mi trovavo.

Ti prego, supplicai, fa che non si accorga di me e non mi riduca in cibo per cani. Ma Thor non era minimamente interessato a me, anzi, i suoi occhi di pietra erano persi in chissà quali ricordi nostalgici. Gli fremette il labbro inferiore quando mormorò: «Il mio martello… »
Allungò una mano verso di esso, come a reclamarlo, e la sua voce assunse una nota malinconica.
«Il mio piccolo, adorato, bravo ragazzo…»
Lo attirò a sé, rischiando di far crollare la statua, e se lo strinse al petto, coccolandolo come si farebbe con un gattino. Stavo per scoppiare a ridere, quando il martello scomparse all’improvviso nel nulla, lasciando Thor con la sorpresa ancora stampata sul viso di pietra. Oh cavolo, pensai, prima che il dio singhiozzasse: «I-i-il m-mio ragazzo… » e concludesse con un acuto che avrebbe fatto invidia al migliore soprano dell’Opera. Qualcosa che suonò come “AAAARRRGH!”  e che mi distrusse i timpani.
Una minuscola pietruzza mi cadde sulla nuca con uno sbuffo di polvere. Subito dopo, gli ingranaggi della mia mente iniziarono a girare freneticamente. Thor arrabbiato, i figli terrorizzati, il martello che scompariva al tocco… No. Non poteva essere quella la ragione. Ma i semidei hanno la percentuale di sfortuna che alza la media della sfiga ogni anno più insù, perché dai ragazzi si alzò Johannes, un tipo robusto dai capelli biondo cenere, che dichiarò: «Divino Padre, comprendiamo la tua rabbia perché la condividiamo. E giuriamo sulle nostre vite e su Asgard che non permetteremo al colpevole di farla franca: troveremo chi ha rubato il tuo martello e gli faremo desiderare di morire.»
Mi sfuggì un gemito, che attirò l’attenzione di un altro figlio di Thor. Si girò nella mia direzione, cercando nell’ombra con gli occhi finché non mi trovò. Mi misi l’indice contro le labbra, in un’ultima supplica disperata, scongiurandolo di non fare la spia. Ma sarebbe stato strano quanto una mucca volante che qualcuno non mi volesse morta, infatti, il ragazzo puntò il dito contro di me e si alzò di scatto, gridando: «La figlia di Hell è qui!»
Balzai in piedi, evitano il braccio di pietra del gigante di un soffio, e sfruttai le tenebre per uscire il più in fretta possibile da lì. Corsi come una dannata verso la palizzata, cercando asilo, sicura che se i figli di Thor mi avessero presa nessuno sarebbe riuscito a farmi ritornare indietro viva. Un’esclamazione unanime di battaglia si levò alle mie spalle, spronandomi a un passo se possibile ancora più veloce.
L’erba scorreva così rapidamente sotto i miei che non riuscivo a vederne il verde brillante. Sentivo il fiato di quei mastini sul mio collo, anche se non mi sarebbero stati addosso prima di un’altra ventina di metri, e ringraziai un milionesimo di volte la mia forma fisica e la mia naturale inclinazione alla rapidità, più che alla forza. Mi concentrai solo sul respiro che bruciava i miei polmoni come fuoco, eliminando tutto ciò che mi stava attorno. E probabilmente non avrei dovuto farlo, perché qualche secondo dopo mi scontrai contro qualcosa di duro e freddo.
Caddi a terra, che aveva stranamente assunto la consistenza dell’acciaio, e ruggii: «Levati!»
E, dopo un nano secondo, mi resi conto che avevo atterrato il capo della mia Orda e gli avevo appena intimato di togliersi dai piedi con la grazia di uno scaricatore di porto. Sbiancai.
«Ehi, Alex» pigolai, lasciandolo libero di alzarsi.
«Astrid.»
«Credo di aver combinato un casino» continuai, remissiva.
«Lo credo anch’io» brontolò. «Sembra sempre che i problemi mi vedano come una calamita.»
Mi si dipinse un sorrisetto sulle labbra. «Perché non sai ancora che cos’è successo là dentro.»
Alex mi scoccò un’occhiata interrogativa. Mi arricciai con calma ostentata una ciocca di capelli sul dito, come se nulla fosse successo, e commentai: «Sai com’è, il martello di Thor è scompars-»
«Cosa!?» mi interruppe, un miscuglio di emozioni che gli coloravano la faccia, la sorpresa prima tra tutti.
«Mh mh» confermai, annuendo. Il ragazzo avrebbe probabilmente voluto dire altro, ma i figli di Thor arrivarono disordinati e rumorosi come bufali. Johannes ansimò pesantemente, prima di prendere un grosso respiro e decretare, furente: «Da Hermdor. Subito.»

 

Quando si andava dal Comandante Supremo, era sicuramente accaduto qualcosa di grave e, ancora peggio, sarebbe successo dopo. Probabilmente, il giorno in cui arrivai al Campo Nord e lo vidi per la prima volta, avrei perso l’uso della parola o mi sarei trasformata in un ameboide di qualche genere, se non fossi stata così infreddolita, arrabbiata e elettrizzata contemporaneamente. Non era certo colpa mia se un gigante dei ghiacci aveva deciso di pattinare con me su una pista aperta anche d’estate che, per la gioia dei turisti, riproduceva in tutto e per tutto un vero lago, sorgente gelida compresa. Vorrei anche precisare che i giganti dei ghiacci non hanno mai visto una di quelle pubblicità in cui esiste un’acqua che elimina l’acqua e una barretta di cereali ha la vita snella.
E avevo dodici anni, già abbastanza grande per aggirare il “controllo parenti” della televisione e guardare programmi adatti a un solo pubblico adulto, figuriamoci come si doveva essere sentito Alex di fronte a quel colosso a solo nove anni. Colosso che ora poteva decidere del mio destino in tutta tranquillità, visto che avevo disobbedito a una delle regole del Campo e non ero esattamente in una buona posizione.
Mi dondolai sulla sedia, sfilando dalla tasca dei jeans un accendino d’argento e giocando con il suo cappuccio. Studiai chi era stato convocato, tra cui Johannes, rappresentante dei figli di Thor; Alex, in quanto mio superiore e uno dei semidei più esperti, oltre che comandante; infine, io e Einar, un figlio di Loki che si era sempre distinto per i discorsi acuti, la logica di ferro e osservazioni vincenti. Spaghetti mori gli ricadevano in un morbido ciuffo sugli occhi, nocciola e guizzanti, così come tutto il suo fisico suggeriva che sarebbe stato pronto a scattare in ogni momento. Mi notò con la coda dell’occhio, accennò un sorriso ambiguo e ammiccò all’accendino.
Alzai il labbro come un cane che mostra le zanne, a mo’ di “non rompere o ti spacco la faccia, perché sono certa che non ti piacerebbe essere al mio posto”.
Mi rispose con un bacio che diceva “bisogna essere gentili anche quando si ha il ciclo”.
Fermai il cappuccio, smisi di dondolarmi e puntai i gomiti sul tavolo che mi trovavo davanti. Feci per far scattare la fiamma e bruciargli la punta del ciuffo, ma Alex si intromise e ci divise prima che lo scontro avesse inizio. Mi lasciai ricadere sullo schienale della sedia, riprendendo a giocherellare con l’accendino, osservando il figlio di Odino di soppiatto. A differenza di suo padre, aveva entrambi gli occhi, di un colore indefinito che mi ricordavano una tempesta nel pieno della sua potenza; i lineamenti non particolarmente dolci, dalle curve grezze, ma che non davano fastidio allo sguardo, anche perché ammorbiditi da una cascata di ricci neri non troppo lunghi. Mi piaceva, Alex, il suo essere una persona aperta nonostante avesse segreti che condivideva solo con gli alberi della foresta del Campo. Era quello che molti ragazzi non erano: interessante.
La porta della stanza si spalancò all’improvviso, rivelando il profilo di Hermdor. Se era impressionato dal fatto che fossimo ancora vivi e vegeti e che non c’erano stati tentati omicidi, non lo diede a vedere. Aggirò il tavolo di legno massello su cui eravamo riuniti, ignorò la sua comoda poltrona e si mise a capo tavola, le braccia incrociate. Ci fissò tutti intensamente, ricordandomi per l’ennesima volta il mio professore di lettere delle medie, che sembrava considerarci libri da leggere tra una pausa e l’altra della spiegazione.
«Abbiamo un grande problema e uno più piccolo» esordì. «Sapete già il motivo per cui siete qui, quindi, tenete chiuso il becco e parlate solo se ve lo dico io, chiaro?»
«Chiarissimo, signore» rispondemmo all’unisono.
Il Comandante Supremo concesse la parola a Johannes, che raccontò con dovizia di particolari il crimine commesso nei confronti di Thor. «E poi» sottolineò, «uno dei miei fratelli ha beccato lei nel nostro tempio, a origliare come una subdola spia.»
Smisi di torturare l’accendino, facendomi più attenta. Hermdor alzò un sopracciglio al mio indirizzo, incalzandomi a dire la mia.
«Non stavo origliando, bensì riferivo ciò che succedeva alla mia Orda, cosa che delle grida da donnicciole spaventate non facevano» lo corressi, con finta noncuranza.
«Stai mentendo, lo sappiamo» ribatté subito Johannes, assottigliando gli occhi azzurri a fessura. «Ci aspettiamo questo e altro da una traditrice
Mi sentii punta sul vivo. Corrugai la fronte, presi un bel respiro e replicai, piccata: «Veramente, l’unica cosa che tradisce, qui, è la tua stupidità con l’intelligenza.»
Impiegò qualche secondo per assimilare la battuta e l’insulto implicito e, quando lo fece, assunse lo stesso colore delle mie scarpe. Si portò la mano alla cintura, dove teneva appesa una daga, e l’avrebbe usata per decapitarmi se il Comandante Supremo non fosse intervenuto, privandolo dell’arma con una mossa così veloce che quasi non la vidi.
«Non fiatate» intimò, fece roteare la daga e se la infilò nella cinta come una pistola che ha appena sparato. Einar e Alex erano seduti sul bordo della sedia.
«Il grande problema è questo: il martello di Thor è scomparso. Supponiamo sia stato rubato, ma non ne abbiamo la certezza, anche se dubito che un’arma come quella si possa perdere» esordì, risoluto.
Il figlio di Loki tossicchiò, facendosi dare la parola da Hermdor. «Sapete tutti che cos’è un GPS divino, vero?»
Quel “vero” suonò come “se non lo sapete sareste intelligenti quanto un montone impagliato”; e, visto che rientravo in quella categoria, mi sentii piuttosto offesa. Alex rifletté un momento, poi annuì e spiegò: «Un segnalatore che indica la posizione in cui si trova l’arma preferita di un dio, utile nei casi come questo.»
Guardò di traverso Einar, giungendo alla sua stessa conclusione. «Thor vi avrà detto dov’era stato registrato l’ultimo segnale, giusto, Johannes?»
Il biondo impallidì, improvvisamente nervoso. «Ecco… io…»
«Non ti ho insegnato a balbettare frasi senza senso, ragazzo, ma a combattere e a scrivere rapporti» lo rimbrottò Hermdor, incrociando le braccia.
Johannes deglutì, prese il coraggio a due mani e disse: «Mi ero dimenticato di dirglielo, signore.» Prima che il Comandante potesse inserirsi, continuò precipitosamente: «Il GPS segnalava la sua posizione negli Stati Uniti, precisamente a New York, Long Island, prima che si spegnesse.»
Ovvero che qualcuno lo disattivasse, pensai, riconoscendo che la questione si infittiva sempre più.
«Così» il tono di voce di Hermodr mi ricordò il ringhio di un orso, «tu e i tuoi fratelli sareste partiti alla ricerca del martello di Thor dimenticandovi da dove cominciare le ricerche e girando, magari, per tutta l’Europa invano. » Bloccò l’obiezione con un gesto della mano. «Se volessimo dirlo dolcemente, i figli di Thor sono troppo coinvolti per ragionare normalmente e compiere quest’impresa.»
L’ultima parola rimbombò per la stanza, zittendo tutti. Un’impresa. Un’avventura il più delle volte mortale, piena di pericoli, inganni, intrighi, trappole che ti potrebbero costare la vita e… assolutamente fantastica. Siamo semidei, ragazzi che rischiano da quando sono nati, con l’iperattività alle stelle e un deficit per l’attenzione, tutto ciò che comprende un’impresa è così elettrizzante ed eccitante che non si può volerne restare fuori. Nessuno, poi, riceveva l’onore di parteciparvici da anni, magari secoli, mentre invece la nostra generazione poteva compierne una.
La mia reazione e quella di Alex furono contemporanee: scattammo in piedi, lui rovesciando persino la sedia, ed esclamammo: «Mi offro volontario per l’impresa!» Hermdor sbuffò, cercando la pace interiore dentro di sé.
«Tanto per cominciare» disse, «tu, Astrid Jensen, hai ignorato una delle regole del Campo; secondariamente, un’impresa va affidata, i volontari sono quelli delle imprese delle pulizie.»
Mi rimisi a sedere, fissandolo truce.
«Non possiamo partecipare alla ricerca del martello di Thor!» intervenne Johannes, furioso. «Signore, è nostro padre, è come se avessero offeso anche il nostro orgogl-»
«Buono» ringhiò il Hermdor. «Ho deciso che non vi prenderete parte e così sarà. Nessun “ma”, “se” o “però”. Se la cosa non ti va giù, esci da questa stanza.»
«Credo che lo farò» replicò Johannes e, impettito, varcò la soglia.
Einar fece un sorriso sghembo, probabilmente pensando “il biondo senza cervello se ne è andato, finalmente”. Mi ritrovai a condividere quell’opinione, accompagnata da un “meno uno”. Il Comandante Supremo camminò avanti e indietro per la stanza, come il pendolo di un orologio a cucù, facendomi andare insieme lo sguardo.
Quando si fermò, esordì: «E’ da molto tempo che nessuno riceve l’onore di un’impresa. Per portarla a termine, serve un eroe, un semidio capace di gestire la situazione, di convincere i compagni e, ovviamente, di sopravvivere e far sopravvivere loro. Per queste ragioni, e perché credo di conoscerlo da abbastanza anni per considerarlo uno dei migliori, che affido l’impresa alla ricerca del martello di Thor al qui presente Alex Dahl.»
Il corpo del ragazzo fu attraversato da un tremito e temetti sarebbe caduto a terra, reazione che avrei probabilmente io al suo posto. Sapevo che Hermdor non avrebbe mai affidato quei compiti a me, né Einar sembrava sorpreso di non essere stato menzionato, ma questo non fece altro che farmi pensare a quale sarebbe stata la mia punizione o se Alex avesse deciso di portarmi con lui. Era circondato da buoni candidati, anche migliori di me, e poteva scegliere solo due compagni di avventura. Quante erano le possibilità che fossi stata considerata nella sua decisione?
«Grazie, signore» disse, quando si fu ripreso dal leggero shock, che aveva lasciato spazio all’elettrizzazione e alla gioia. Hermdor fece un cenno col capo. «Sai come funziona la cosa, nomina due compagni e domani lascerai il Campo Nord con loro.»
Alex si nascose dietro la fitta coltre di nubi che erano i suoi occhi, senza permetterci di capire su chi sarebbe ricaduta la sua scelta. Passò un minuto intero in silenzio, spostò il peso da un gamba all’altra e dichiarò: «Scelgo di portare con me il mio braccio destro, Sarah Nilsen, figlia di Eir.» Fece una pausa, mentre un brivido freddo mi colava lungo la schiena. «Infine, verrà anche Astrid Jensen, figlia di Hell.»
E BAM, sganciò la bomba. C’era una parte della mia mente che si rifiutava di accettare quelle parole, trovandole troppo sbagliate associate al mio nome, mentre l’altra stava accumulando energia per lo scoppio. Alla fine, la seconda mandò a quel paese la prima e mi fece sfuggire un gridolino di gioia. Alex mi rivolse un sorriso che ero troppo esaltata per ricambiare.
«Bene» intervenne Hermdor. «Jensen, discuteremo della tua punizione dopo l’impresa, se sarai ancora viva per poterla sopportare.» Suonò un tantino come una minaccia o un sincero augurio di non ritorno, ma non me ne curai più di tanto, mi avevano appena incluso in un’impresa!
Alex si sedette, mentre il Comandante Supremo spiegava come ci saremmo organizzati, l’orario della partenza e tutte quel genere di questioni che fanno abbassare le palpebre finché non cadi addormentato. Non so con che energia le affrontò Einar, che non era nemmeno stato scelto. Quando l’agenzia aerea ci confermò la prenotazione dei tre biglietti online per New York, nonostante il prezzo e altre complicazioni che avevano un nome troppo lungo per essere ricordato, era quasi sera. L’ora di cena se n’era già andata da un bel po’, ma ricevemmo il permesso di poterci rifocillare nelle nostre stanze.
Einar ci superò, allontanandosi dall’abitazione del Comandante Supremo da solo, lasciando me e Alex a camminare fianco a fianco, persi ognuno nei propri pensieri. Raggiunta la Sala Comune, il ragazzo prese una direzione diversa dalla mia, diretto alla propria stanza. Dopo qualche istante, mi resi conto che non lo avevo nemmeno ringraziato per la sua scelta.
«Ehi, Alex, aspetta!» esclamai. Lui si girò, facendo tintinnare la cotta di maglia. Sentii che stavo arrossendo leggermente, ma continuai comunque: «Volevo solo… solo dirti grazie per avermi voluta con te nell’impresa. Davvero.»
Mi sorrise. «Non c’è di che, Astrid. A domani.»
«A domani» salutai, osservandone il profilo mentre si allontanava.
Mi voltai, percorrendo la breve strada che mi separava dalla mia camera, dove già le mie compagne erano entrate. Schiusi piano la porta, controllando la situazione e constatando che tutt’e tre se ne stavano per i fatti loro. Mi infilai dentro, beccandomi solo un’occhiata incuriosita di Mathilde. Mi slacciai gli stivali militari, donando un po’ di sollievo ai miei piedi, raccolsi il mio iPod e mi arrampicai sul piano superiore del letto a castello.
Mi infilai le cuffiette nelle orecchie, scorsi la playlist e scelsi un brano a casaccio tra i primi che mi si presentarono davanti agli occhi. I Paramore iniziarono a far gioire i miei timpani. Incrociai i piedi, muovendo la testa a ritmo di musica. Lo stomaco era ancora troppo attorcigliato per poter reclamare cibo, dopotutto, domani avrei lasciato il Campo Nord per andare in America, uno dei Paesi più famosi e sognati al mondo. Altro che la Norvegia, di cui si ricordavano solo i bambini perché patria di Babbo Natale. E poi, come potevo rilassarmi se ero stata inclusa in un’impresa?

 


*knulle = ca**o/ fanc**o in norvegese
koala's corner.
Buonasera a tutti! Come avrete inteso, AxXx e Water_wolf sono degli animali notturni che pubblicano a orari poco normali.
Visto le buone visualizzazioni e l'aumento delle recensioni, abbiamo deciso di pubblicare prima^^
Questo è il capitolo scritto da me, con uno stile un po' diverso dal suo, spero possa piacervi ugualmente e che non vi abbia fatto venire voglia di vomitare/ andare in bagno / buttarsi giù dalla finestra...
Abbiamo capito.
^^"
Come avrete inteso, Astrid è una tipa piuttosto particolare: gioca con un accendino quando è nervosa, ha una fissa per i cereali e la musica rock. Scoprirete in seguito quali altri gruppi ascolta.
Ringraziamo chi ci ha recensito: Fenice14, Anna Love, DracoDormiens e nemy1990. Un abbraccio anche a chi ha inserito Sangue del Nord tra le preferite, seguite e ricordate.
Saluti a tutti, alla prossima!

Soon on Sangue del Nord: Alex incontra i suoi genitori, fa fuori un po' di manichini e ci avviciniamo all'Half-Blood Camp.

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Capitolo 3
*** ALEX • Parlo con i miei e demolisco un aereoporto ***


Achtung: Water_wolf è una ragazza, sesso femminile, periodo rosso ogni mese. AxXx  ( http://www.efpfanfic.net/viewuser.php?uid=218778 ) invece è un ragazzo, sesso maschile. Grazie per l'attensione :)

Parlo con i miei e demolisco un aeroporto

 
•Alex•

Figlio di Odino, sei un vero idiota, continuavo a ripetermi, certo che, prima o poi, mi sarebbe scoppiata la testa per i troppi pensieri.
Perché cavolo l’avevo scelta!? Non eravamo fidanzati, non amici stretti e, se fossimo tornati da quel viaggio, Hermdor ci avrebbe scuoiati vivi… se fosse stato di buon umore.
Ok, ammetto che ero un po’ protettivo verso di lei, ma era nulla più che amicizia. La vedevo semplicemente come una persona che aveva bisogno di aiuto, quando tutti  gli altri, invece, ti odiano. Ma alla fine, sapevo che non era solo quello: io e lei eravamo amici da quando avevamo compiuto dodici anni; avevamo passato le estati ad allenarci insieme, ogni agosto davamo insieme la caccia ai giganti nelle pianure di Asgard.
Quando la vidi per la prima volta, nemmeno sapevo chi fosse la madre o il padre, mi ispirò subito simpatia. Io rimanevano la maggior parte dell’anno al Campo e avevamo passato un paio di estati insieme, ma Astrid non aveva stretto particolari legami. Stava per avere degli amici quando le apparve il marchio di Hell. E allora le cose andarono sempre peggio.
In poco tempo venne isolata e bollata come la Figlia di Hell, che ormai sembrava quasi un insulto. Adesso, avevo messo l’onore, mio, suo e quello di tutta l’Orda del Drago sul piatto della sorte. Non potevo prevedere cosa sarebbe accaduto. Se non ce l’avessimo fatta la colpa sarebbe stata in ogni caso di Astrid, anche se non mi sarei fidato di nessun altro per coprirmi le spalle. Il suo nome sarebbe stato maledetto e io con lei, dato che avevo scelto io di portarla con me.
Ecco perché stavo mietendo decine di manichini.
La mia spada roteava in aria come una vespa impazzita ed emetteva un sibilo ogni volta che facevo saltare un bracco o una gamba di legno –ero diventato il Flagello dei Manichini. Non ebbi pietà, dovevo scaricare la tensione, ma non ci riuscivo. Continuai a massacrarne ancora con una ferocia incredibile, incurante che, probabilmente, mi avrebbero dato del pazzo se mi avessero visto.
Dopo un ora circa, però, nulla era cambiato dalla situazione iniziale –a parte i manichini a cui avevo cambiato i connotati-, così decisi di smettere prima di dover risarcire l’intera riserva di bersagli del campo. Cos’altro avrei potuto fare?
Controllai l’orologio. Le dieci e un quarto di notte. A quell’ora solo i Capi dell’Orda e le sentinelle elfiche potevano stare alzate, quindi non avrei avuto risse da sedare. Possibile che quando ne avevo bisogno non ce n’erano?
D’altro canto non potevo stare lì a girarmi i pollici, circondato dagli inquietanti resti di quei poveri manichini. Inoltre, ero troppo nervoso per poter chiudere occhio, così decisi di fare l’unica cosa che di solito non facevo: andare al tempio di mio padre.
Il Tempio di Odino era frontale rispetto al Forte Principale e il più grande di tutti. Una costruzione all’apparenza semplice, ma che emanava il suo potere al di sopra degli altri. Costruito in legno e pietra, simile ad un enorme baita, ma con il tetto più alto formato da scudi rotondi; l’ingresso era sormontato da due alte colonne incise di rune, ognuna simbolo di difesa, protezione, fuoco e guerra.
L’interno era molto più bello e particolareggiato: i muri erano affrescati e raffiguravano le grandi imprese di Odino con i suoi fidi compagni, tra i quali Hugin e Mugin, i due corvi che lo informavano di tutto ciò che accadeva nel mondo. Statue di mio padre erano poste ai piedi delle colonne, in pose sempre diverse, spesso aggressive, ma altre in posizione di riflessione, come se stesse cercando la soluzione ad un rompicapo. Infine, alla fine della navata, dietro il fuoco sacrificale, la statua principale.
Odino era raffigurato con le sembianze di un vecchio e potentissimo guerriero vichingo che indossava la tradizionale armatura e un elmo alato, tutto scolpito nell’oro. L’unico occhio scrutava con attenzione davanti a se, quasi a voler trapassare coloro che si inginocchiavano davanti a lui. Nella mano destra teneva ben salda la sua lancia Gungnir, simbolo del suo immenso potere guerriero.
Rimasi un attimo a contemplare quella statua con un certo interesse. Difficile pensare che fosse mio padre. D’altro canto, mia madre lo conobbe sotto vesti ben diverse. Lei era una biologa marina, esperta di animali delle acque fredde. Non se la passava male, ma non era una specialista rinomata, per questo io continuavo a chiedermi come mai Odino si fosse preso la briga di apparire un ragazzo di venticinque anni per far colpo su di lei.
Mia madre, però, si prese una bella cotta e papà si inventò la storia che aveva perso un occhio in un incidente d’auto –dèi, papà, devo regalarti un libro di “scuse semplici e veloci per cambiare discorso”, perché questa era banale. Tutto andò bene finché non nacqui io.
Odino sparì per cinque anni, nemmeno fossi Fenrir in persona, e ogni mostro nel raggio di due mondi e mezzo non vide l’ora di prendermi per farmi fare la fine della cena. Mia madre perse il lavoro e iniziò a essere aggredita quasi ogni giorno. Alla fine, però, papà dovette aver avuto un po’ di coscienza, quando apparve davanti a noi spiegando la situazione.
Dotò la mamma di una difesa magica che avrebbe impedito al grosso dei mostri di attaccarla, mentre io… diciamo che non ero facile da nascondere, ma ci provò. Tuttavia capii presto che ero la causa di tutto, così, un giorno dopo il mio nono compleanno, presi zaino e mi misi in marcia accompagnato da un elfo, verso il Campo Nord. Odino aveva tentato di portarmi lì anni prima, ma la mamma non voleva separarsi da me, così dovetti aspettare di avere la mappa tra le mani per partire.
Senza di me, le cose le andarono meglio: trovò un nuovo lavoro e riuscì a pagare l’affitto completo. Ogni tanto tornavo a trovarla, ma mai troppo a lungo. Per lo più passavo qui tutto l’anno ad allenarmi. Finalmente, però, avevo la possibilità di cimentarmi in un viaggio vero, fuori da questo Campo che ormai iniziavo a sentire sempre più piccolo. Volevo uscire, vedere nuovi posti –che sicuramente avrei distrutto-, conoscere gente nuova e molto altro.
«Ciao, papi» salutai allegramente, scuotendo la mano davanti alla statua.
Probabilmente, se fosse stato vivo, un gesto del genere l’avrebbe pietrificato –il che non faceva molta differenza, visto che salutavo una statua.
«Come va ad Asgard? Immagino che il mio fratellone si stia lamentando parecchio» continuai, facendo finta che davanti a me non ci fosse solo una montagna d’oro scolpita.
«Digli che riprenderemo il suo martello e glielo riporteremo senza un graffio. Dato che andiamo a Long Island, potrei fermarmi un attimo a New York per prendere qualche souvenir… cosa preferisci? Io, personalmente, adorerei una miniatura della Statua della Libertà.»
«Portami una maglietta I LOVE NY, ancora mi manca.»
Preso alla sprovvista, reagii senza pensare: estrassi il coltellino svizzero, che assunse le sembianze di una spada lunga e mi voltai imprecando un «Dritt!*» per colpire il misterioso intruso. Avrei potuto tagliargli la testa se la sua lancia non mi avesse fermato.
«Oh… ciao, papi» salutai, mentre rinfoderavo la spada.
Benissimo, avevo appena rischiato di decapitare il mio padre divino. Non che ciò l’avrebbe realmente ucciso, ma dubito fortemente che ad un dio faccia piacere doversi andare a cercare la testa per tutto il tempio.
«Be’, figliolo, sei proprio teso» disse il dio con calma quasi noncurante, mentre si sedeva su uno dei tanti sgabelli che punteggiavano la navata centrale.
Al contrario da come era raffigurato nella statua, a me apparve come un uomo sui quarant’anni, con una barba abbastanza lunga, l’occhio era bendato con cura e l’altro scrutava ogni angolo come se dovesse individuarne ogni più piccolo particolare.
Indossava un’uniforme militare da generale, con al petto un gran numero di medaglie al valore e riconoscimenti, ma era stata personalizzata con una scritta a caratteri rosso sangue un po’ inquietante sulla schiena: «Una buona strategia è una grande vittoria» Il suo motto, in pratica.
«Allor, andrai proprio negli States, eh? Be’, stai attento, quella non è zona nostra. Abbiamo avuto dei problemi, in passato, là» annunciò subito il Re degli Dèi, stringendo i denti, come se qualcosa lo stesse rendendo nervoso.
«A quanto pare sì, lì è stato segnalato il martello l’ultima volta, direi che non c’è altro luogo dove andare» risposi, scrollando le spalle. Non capivo il motivo di tanta preoccupazione. A parte, certo, i mostri, il furto di un oggetto così potente e le poche possibilità di ritorno.
«Lo so, ma stai attento e non ti sorprendere troppo se avrai delle sorprese. Non saltare subito alle conclusioni e guardati dal ladro» mi raccomandò, osservandomi intensamente con l’unico occhio che aveva.
«Lo so. Di certo non sarà un problema. Riporteremo indietro Mijolnir.»
«Sta’ attento, stai guardando l’obbiettivo senza visualizzare gli ostacoli. Cosa sai delle nostre armi divine?»
Io scrollai le spalle, sorpreso da quella domanda. Non capivo cosa dovevo sapere: erano armi. Certo, potentissime, impregnate dal potere degli Dèi, ma erano pur sempre normalissime armi. Mjiolnir era la più famosa perché era nominata nel fumetto di Thor, ma a parte quello, non avevo idea di cosa le rendesse diverse dalle altre.
«Non ci arrivi, eh?» chiese mio padre, come a leggermi nel pensiero.
Con una mossa veloce lanciò Gungnir a un paio di metri di distanza, come se fosse un normale bastone e mi guardò.
«Raccoglila.»
Non capii il motivo di quella richiesta, ma ubbidii, provando a prenderla. Ma subito capii che non ci sarei riuscito. La lancia si era fatta pesantissima, come se un magnete la stesse tenendo incollata a terra. Tirai di nuovo, fino a farmi dolere la schiena, ma Gungnir rimase attaccata a terra.
«Hai visto?» domandò Odino seriamente, richiamando a sé la lancia come se pesasse quanto una piuma. «Il ladro dev’essere qualcuno di molto potente. Le nostre armi fanno parte di noi, non sono solo ferraglia. Sono parte della nostra anima e del nostro potere.»
Le implicazioni mi preoccuparono non poco, ma ancora non capivo cosa mi volesse dire. Se mio padre si era fatto vedere la situazione era grave e anche il furto di Mijolnir non era roba da poco, c’era ben altro dietro.
«Quindi… a cosa porterebbe un furto del genere?» chiesi, cercando di avere risposte meno vaghe.
«D’accordo, te lo dirò chiaramente. Una scomparsa del genere potrebbe portare all’annullamento dei poteri di Thor. È come se gli avessero tolto parte dell’anima e presto il potere del nostro più potente difensore svaniranno. E se ciò accadesse, non dovremmo aspettare il Ragnarock per vedere Asgard distrutta.»
Ecco, avete presente quei momenti in cui i genitori ti mettono davanti ad un problema talmente grosso che ti sembra impossibile da superare? Moltiplicate per mille la sensazione che provate ed ecco come mi sentii io in quel momento. Certo che mio padre sapeva come motivare una persona.
Soprattutto quando si trattava di salvare Asgard.
«Perciò, dobbiamo fare in fretta. Qualche suggerimento?»
«Sì» disse lanciandomi un cellulare: uno smartphone di ultima generazione. «Chiama tua madre.»
Prima che io potessi controbattere era già sparito.
Odio dal profondo del cuore quando i genitori spariscono in momenti cruciali. Speravo in un consiglio, non in un problema. Non avevo proprio voglia di spiegare a mia madre che sarei partito per una missione pericolosissima e, probabilmente, senza ritorno. Non che avessimo un brutto rapporto, anzi, si era presa cura di me anche quando tutti i mostri nel raggio di un chilometro ci saltavano addosso. Direi che potrebbe essere classificata come “mamma modello”. Ci vedevamo per pochi giorni all’anno, forse solo un paio di settimane, quando andava bene, ma non mi trattenevo troppo per paura che arrivassero altri mostri. Nonostante tutto, però, non me la sentii di lasciarla all’oscuro di tutto.
Digitai il numero e sullo schermo apparve la foto di una donna sui trentacinque anni, forse di più. Il viso dolce, con qualche imperfezione dovuta all’età. I capelli erano lunghi, castani e tenuti in una coda che le ricadeva sulla spalla. Gli occhi azzurri luminosi tradivano un sorriso che celava dietro un’espressione seriosa.
«Pronto?»
Attesi un attimo.
«Mamma? Sono io, Alex…»
«Alex! Tesoro, come stai?»
Dal tono della voce intuii che era felice di sentirmi, ma anche preoccupata, dato che raramente la chiamavo.
«Io sto bene, il Campo è normale, ma… diciamo che mi allontanerò per un po’.»
Era la verità, ma mi sentii in colpa per non aver avuto il coraggio di riverarle nulla. Dopotutto mi ero ripromesso di parlarle, ma non volevo farla preoccupare. Solamente che si inquietò lo stesso.
«Ti… allontanerai? Hai combinato qualcosa? Ti hanno buttato fuori.»
«No, no! Solo che… diciamo che io e alcuni amici andiamo di America, a New York, per la precisione. Abbiamo programmato tutto, quindi non preoccuparti» mi affrettai a rassicurarla. La conoscevo e quando si trattava della mia sicurezza era un po’ pressante.
«Meno male. Portami qualche souvenir e vienimi a trovare appena torni» mi raccomandò, evidentemente più tranquilla.
«Certo, mamma, buonanotte.»
«Buonanotte, tesoro.»
Appena riattaccai, il telefono mi sparì tra le mani creando un piccolo arcobaleno luccicante. Probabilmente Odino l’aveva riportato a casa usando un Bifrost in miniatura. In ogni caso, ero stato un idiota: avrei dovuto informarla di tutto, ma voi avreste il coraggio di dire ai vostri genitori che state andando a morire? No, direi di no.
Ma forse fu proprio per il rimorso che il giorno dopo sembrai uno zombie, prima di partire. Mi vestii stancamente e raccolsi i miei pochi averi per la partenza. Nello zaino avevo messo un sacco a pelo, due merendine, una bottiglietta d’acqua, tre pozioni lenitive, un assortimento di rune magiche sempre utili e, ovviamente, la mia spada in Mithirl che era regredita a coltellino svizzero. Avevo anche una bussola, una cartina e un pad speciale che mi permetteva di individuare il segnale del martello, in caso questi si fosse attivato.
Davanti al Forte Principale, Astrid mi aspettava insieme a Hermdor. Lei aveva legato i capelli e si era preparata al meglio, vestendo abiti semplici e resistenti, non troppo pesanti e riempiendo lo zaino con altrettante cose utili. Sorrideva ed aveva l’aria di una che stava per decollare dall’entusiasmo, trattenuta però dall’impassibile severità del nostro direttore che, a quanto pareva, stava già pensando a qualche terribile punizione da darle nel caso fosse tornata.
Solo Sarah mancava; il che era strano, dato l’entusiasmo con cui aveva accolto la notizia ieri sera. Le imprese erano un evento raro e la maggior parte di noi attendevamo pazientemente per poterne vedere una. Grande era la cerimonia del ritorno, se si ritornava e lei si era subito messa all’opera per fare i bagagli.
«Si sarà dimenticata qualcosa?» domandò, perplessa, Astrid, notando quanto ancora fosse tranquillo il Campo. In effetti erano le sei e mezzo del mattino e si sarebbe dovuta notare subito, dato che la maggior parte dei semidei era ancora nel regno dei sogni.
«Vai a chiamarla» ordinò Hermdor, perentorio. In effetti anche io volli farlo, dato che il suo ritardo era abbastanza sospetto.
Tornai all’alloggio dell’Orda del Drago e raggiunsi le stanze degli ufficiali. Al contrario di quelle degli altri soldati erano singole e spaziose.
Bussai alla porta.
Sentii uno strano rumore, come se qualcuno stesse chiudendo velocemente una porta, dopodiché Sarah aprì. Era vestita con jeans e felpa, cosa che, già di per sé, trovai strana, dato che di solito le figlie di Eir si vestivano in pelle come centaure incallite, ma non ci badai.
«Scusa il ritardo, mi sono dimenticata una cosa» disse un po’ trafelata, mentre si metteva in spalla lo zaino.
Non ero molto convinto, ma non notai nient’altro di strano. Nulla era stato distrutto, spostato o toccato, quindi non ebbi di che ridire.
«Sbrigati, non vorrai rimanere qui!» la spronai, ancora un po’ indeciso. Una parte di me mi stava avvertendo che qualcosa non andava, ma la ignorai.
Quando fummo tutti riuniti un gruppo Hermdor, prese dalla tasca una specie di palmare e, premendo lo schermo touch-screen, disattivò a distanzia le difese automatiche.
«Un elfo vi porterà in macchina fino all’aeroporto, ma da lì in poi sarete soli. Cercate di non morire troppo presto e siate l’orgoglio di Asgard!» ci incitò, dandoci, per buona misura, delle vigorose pacche sulla spalla.
Mentre scendevamo dalla collina, continuò a ricordarci quanto fosse pericolosa un impresa del genere, quanti pericoli mortali ci avrebbero aspettati e un sacco di altre cose rassicuranti riguardanti gli squartamenti e il taglio di netto degli arti. Certi tizi sanno come far leva sul morale.
Una volta attraversato il campo minato, il filo spinato e la barriera arrivammo sulla strada dove ci aspettava un grosso fuoristrada in mimetica che sembrava pronto a trasportare un battaglione. Alla guida un alto elfo, longilineo, dai capelli neri lunghi e gli occhi profondi.
«Andiamo, svelti!» ci incalzò lui, mentre ci sistemavamo nei sedili posteriori chiudendo la portiera blindata.
Ora, fuori dalle difese del Campo, eravamo vulnerabili. Ogni mostro nel raggio di miglia ci avrebbe fiutato.
Oslo distava pochi chilometri dal Campo Nord, quindi raggiungere l’aeroporto non fu complicato; questione di minuti. Continuavamo a guardare attentamente dai finestrini per assicurarci che non ci fossero nemici già pronti a prenderci, ma arrivammo all’aeroporto ancora interi. Forse ero stato troppo pessimista.
«Che Odino vi protegga» ci augurò l’elfo, mentre ripartiva.
Noi, con i nostri zaini in spalla, ci inoltrammo all’interno dell’aeroporto guardinghi. Orchi, goblin e ogre potevano benissimo passare per umani, coperti dalla Nebbia, quindi dovevamo tenere gli occhi aperti per non essere presi in trappola.
Sarah si mise in coda allo sportello per convalidare i biglietti, mentre io e Astrid ci sedemmo accanto, tenendola d’occhio e cercando di non farci distrarre dalla Nebbia, ma nessuno sembrava interessato a noi, se non un paio di passanti che ci chiesero informazioni riguardo al volo 34 che partiva per Roma -turisti, senza dubbio.
Mi sembrava troppo facile. Come mai non ci avevano ancora attaccati?, mi chiesi, insospettito. Di solito ero un bersaglio dei mostri, solo io, dopo due metri fuori dal Campo. Possibile che tre semidei di discreta forza non li attirassero?
Datemi pure del pessimista, ma a me non piaceva tanta calma.
Sarah tornò dopo dieci minuti, sventolando entusiasta i tre biglietti convalidati: viaggio di ventiquattr’ore diretto da Oslo a New York.
Mancava solo un quarto d’ora alla partenza, così ci mettemmo subito in fila.
Stavamo per imbarcarci quando un urlo squarciò l’aria.
Ci voltammo tutti e tre verso l’entrata dell’aeroporto dove la gente si disperdeva in preda al panico. Le porte di vetro erano state abbattute come se qualcosa di grosso ci fosse saltato dentro.  I mortali fuggivano in ogni direzione, cercando di evitare la pioggia di detriti che ci impediva di vedere cosa stava succedendo, ma poi lo vidi.
 Un essere lungo almeno dieci metri e largo quattro, protetto da resistenti squame come quelle di un drago. Le dimensioni erano quelle di un autobus. Dalla bocca saettava la lingua biforcuta e gli occhi gialli osservavano la gente alla ricerca di qualcosa: noi.
Lo sapevo… troppo facile.
Tipico della sfortuna semidivina: non puoi entrare in un edificio pubblico senza portarti dietro un mostro. Almeno non mi avevano mai fatto pagare i danni.
Impugnai la mia fida spada che prese la forma di una spada lunga.
Davanti a noi c’era un Wyrm** che stava demolendo l’intero aeroporto per trovarci.

 
*Dritt: merda in norvegese
**Wyrm: parola che, genericamente, indica i draghi e le creature affini nella mitologia Norrena, qui, però, ho rimaneggiato la parola per indicare delle viverne a quattro zampe.
koala's space.
Buonasera a tutti! Incredibile a dirsi, ma questi due autori sono riusciti a pubblicare in un momento che non sia a cavallo tra la notte e il giorno. Lascio la parola a AxXx^^
Salve gente :D Per rendere la storia più abbordabile e meno complicata, abbiamo deciso di semplificare certi aspetti della mitologia Norrena (forse questa nota stava meglio all’inizio).
I norreni avevano una ventina di divinità, più quelle minori e i giganti. Problema è che, però, le informazioni su di essi sono molto poche, frammentarie e, spesso, contraddittorie. Per questo abbiamo ridotto il numero a tredici(in realtà sarebbero dodici, in quanto Hell è considerata una divinità malvagia assestante). Quindi ho fatto in modo che alcune divinità "assorbissero" le caratteristiche di altre simili in modo da non creare contraddizioni(il sole, per esempio, veniva associato a Baldr e altre due divinità minori).
Infine ho voluto omettere la divisione tra dei Vanir e Aesir, in quanto molte informazioni sui primi sono mancanti e, in pratica, ho deciso di farli riunire.

Vanir e Aesir sono due le due famiglie degli dèi nordici, anche se sulla prima abbiamo trovato poco e nulla. Ho trovato però, una persona che non sapeva scrivere touch-screen *angelica*
-.-

Speriamo vogliate ancora dirci cosa ne pensate, accettiamo tutti i tipi di recensioni, scleri ed eucalipto. E biglietti di Catching Fire gratis, perché quel film vale la pena di essere visto almeno dieci volte.
Un saluto!^^
 
Soon on "Sangue del Nord": pov di Astrid, l'eliminazione di un lucertolone, una rivelazione un tantino sconcertante e l'incontro con T.....
 

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Capitolo 4
*** ASTRID • Volo diretto destinazione grossi problemi ***


Achtung: Water_wolf è una ragazza, sesso femminile, periodo rosso ogni mese. AxXx  ( http://www.efpfanfic.net/viewuser.php?uid=218778 ) invece è un ragazzo, sesso maschile. Grazie per l'attensione :)

Volo diretto destinazione grossi problemi
 

♦Astrid♦

Se non l’avessi già messo in evidenza in precedenza, lo ripeto: i semidei sono delle esche per la sfortuna, una sorta di bistecca per un mastino affamato.
Se decidessimo di fare un gita al parco aquatico, per esempio, sarebbe quasi una probabilità scientifica che avrebbe iniziato a piovere – se non nevicare-, giusto per puntualizzare che è sempre qualcosa dall’alto e irraggiungibile a dare rogne. Perché, ovviamente, non si può prendere a pugni la sfiga.
Alex fece roteare la spada, scattando in posizione, e scrutando da lontano il wyrm. Sarah si irrigidì di fianco a me. Avrei pagato per sapere per quale assurdo caso il primo mostro che fronteggiavamo doveva essere proprio una lucertola che aveva l’intera cucina di Gordon Ramsay in bocca, oltre che il caratteraccio.
Sbuffai, irritata, sfilandomi gli orecchini a cerchio dalle orecchie.
Nessuno penserebbe mai che dietro a degli articoli di bigiotteria si nascondano due mezzelune, le armi che avevo deciso di portare a New York e che erano la mia specialità. Nella mia mente, le figuravo come la versione femminile e più aggraziata di una rozza accetta da boscaiolo.
Sarah ripose con cura i biglietti e si liberò dello zaino, dopodiché trasformò una sigaretta elettrica in una spada.
Al cenno del capo di Alex, attirammo l’attenzione del bestione su di noi.  Il wyrm voltò la testa, ci focalizzò e pattinò sul marmo lucido nella nostra direzione. Ci demmo la carica con un urlo di battaglia, prima di scagliarci contro il lucertolone.
Per una frazione di secondo, sentii unicamente il battito frenetico del mio cuore che premeva contro la cassa toracica e l’adrenalina pompare il sangue, ma un battito di ciglia dopo, il contraccolpo causato dall’impatto contro le scaglie del mostro mi sbalzò indietro. Mantenni la posizione, stringendo i denti, la sua zampa anteriore senza alcun graffio. Erano l’ostacolo maggiore, lo sapevo, ma non per questo non avvertii una scarica di rabbia.
Alex si stava dilettando con le fauci del wyrm, mentre Sarah era una furia bionda dall’altro fianco. Mi domandai cosa stessero vedendo i mortali attraverso la Foschia, forse un pulmino della scuola da cui erano scesi rapinatori mascherati da dragone cinese, come una brutta copia delle prime scene del film Batman Begins. O era Il cavaliere oscuro?
La parte razionale del mio cervello si rese conto che quelle riflessioni erano al limite della sufficienza mentale, soprattutto in una situazione del genere.
Puntai nuovamente alla zampa, allineando le mezzelune cercando di passare sotto le squame e trovare la carne morbida. Dovetti scansarmi per evitare di essere calpestata, quando il wyrm compì un brusco giro su se stesso. Il mostro sibilò di dolore, infrangendo qualche vetrina con il suo strillo, e affondò i denti in una fila di poltroncine d’aspetto.
Mi sporsi verso Sarah, sbraitando: «La prossima volta che fai una mossa del genere, gradirei essere avvisata! Potevo diventare gomma da masticare sotto le zampe di questo qui!» ammiccai con la testa al wyrm.
«Su, non lamentarti» rispose, si abbassò e schivò un colpo di coda che le avrebbe staccato la testa, «se non lo colpisco a sorpresa, faremo in tempo a morire di tutti!»
La mandai all’Hellheim. Alex riuscì a far indietreggiare la lucertola gigante, ferendola tra il costato, anche se non molto profondamente. Io, la figlia di Hell che doveva farsi valere, non aveva ancora fatto niente, visto che rischiare la vita non contava.
Passai sotto la pancia del wyrm in scivolata, tenendo alte le mezzelune e gli squarciai la pancia per qualche centimetro, prima di rimettermi in piedi sullo stesso lato di Sarah.
Mi rivolse un’occhiata ambigua, un gesto che mi ricordò molto un figlio di Loki. Scossi la testa, autoconvincendomi che stessi delirando.
Attaccammo in contemporanea, e lei trovò una via per conficcare la spada nel corpo del wyrm poco sopra il muscolo di una zampa. Se fossi stata sua amica, o anche una conoscente, le avrei dato il cinque, ma visto che non ero nessuna delle due, mi limitai a un muto complimento. Sarah mi fissò, sorridendo compiaciuta, scostandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio, prima che si immobilizzasse vedendomi.
«Che c’è? Sono diventata di colpo così brutta?» domandai.
Mi resi conto solo dopo che non stava guardando me, bensì qualcosa dietro di me. Avvertii una stretta squamosa e fredda attorno alla mia caviglia, che si stava avvolgendo lungo l’intero polpaccio, bloccandomi i movimenti. Hermdor mi aveva detto più volte di stare attenta al “rinculo”, ovvero l’immediata offensiva di un mostro dopo l’essere stato attaccato con successo, e le sue lezioni mi rimbombarono nella mente quando compresi appieno la situazione.
Dritt, imprecai, prima di venire sollevata in aria.
Lo stomaco mi si attorcigliò come il gomitolo di un gatto, l’intestino si ingarbugliò con diversi organi interni e mi montò la nausea. Non avevo paura di volare, avevo paura di quello che accadeva se smettevo di farlo. Vertigini? Forse, ma meglio rimanere coi piedi per terra, c’erano già abbastanza mostri lì.
Pregai gli Dèi che mi rimettesse giù al più presto. Il wyrm sembrò esaudire la mia richiesta, perché mi scagliò come un frisbee, facendomi compiere in volo l’intero aeroporto. Immaginai quella scena da un’altra visuale che non fosse la mia – nella quale l’unico pensiero era “aaaaaaah!”-, e vidi un conduttore pubblicitario avvisare: «Mi raccomando, bambini, non fatelo a casa.»
Il dolore che mi percorse la schiena subito dopo mi tolse il respiro. Temetti di morire per asfissia, mentre annaspavo in cerca di un po’ d’aria. Tanti puntini colorati mi impedivano di vedere normalmente, esplodendo all’improvviso davanti alla mia visuale, come facevano le fitte che mi attraversavano il dorso.
Riuscii, non so nemmeno come, a mettermi a gattoni; iniziai a respirare regolarmente, riprendendomi lentamente. Attesi che le lucette smettessero di vorticarmi attorno agli occhi per guardarmi attorno: ero atterrata su un vecchio borsone di pelle usato a mo’ di valigia, che era rotolato giù dalla catena automatica del ritiro bagagli insieme a me. Dentro, però, doveva esserci un cumulo di pietre spigolose per essere così dura.
Mi rialzai, le gambe che ancora tremavano, e mi appoggiai alla base del nastro trasportatore. Un marito stava trascinando via di peso sua moglie, la quale scalciava e gridava: «Non posso abbandonarlo! Non il mio borsone di Luis Vuitton!»  
Lanciai uno sguardo alla valigia su cui ero caduta, accorgendomi che era proprio quella di cui stava parlando la donna. Be’, che dire, il mio era stato proprio un atterraggio di classe.
Recuperai gli orecchini-mezzelune, ma mi dovetti limitare a percorrere l’aeroporto a passo spedito, visto che correre mi provocava dolorose fitte alla schiena. Arrivai in prossimità del wyrm giusto in tempo per vederlo ferire Sarah con le zanne. La ragazza si sottrasse all’attacco, rifugiandosi dietro una stazione di imballaggio bagagli a pagamento, stringendosi la spalla sinistra.
«Ehi!» gridai, facendo voltare il grosso muso squamato al drago.
Alex fu rapido a cogliere l’occasione al volo e sfruttare una delle zampe anteriori per salirgli in groppa, risalire di corsa la spina dorsale e piantargli lo spadone nel collo, in un punto dove avrebbero dovuto unirsi due vertebre. Assomigliò a un gladiatore romano che poneva fine alla vita del suo avversario, dopo il famoso pollice verso dell’imperatore.
Il wyrm spalancò le fauci, mostrando una gola color rosso sangue rappreso senza fondo, ed emise un prolungato verso lugubre, che mi costrinse a tapparmi le orecchie con le mani. Sgroppò violentemente, rischiando di disarcionare Alex come un destriero riottoso; il moro si aggrappò con tutte le sue forze all’elsa dalla spada, stando però attento a ferirsi sbattendoci contro la fronte.
Il lucertolone arrotolò la coda, accasciandosi come gelato sciolto al suolo, e si disintegrò in una miriade di fiocchi di neve finissimi. Era così che finivano i mostri quando li uccidevi, in una nuvola di neve artificiale, e sarebbero ritornati sulla Terra tra qualche tempo, dopo essersi riformati.
Mi accorsi di aver trattenuto il fiato, così inspirai grata l’ossigeno. Alex si riavviò i capelli, riportando l’arma a un innocuo coltellino svizzero.
«Tutto okay, Astrid?» domandò, quando lo raggiunsi.
Avrei voluto rispondergli che sì, stavo bene, ma non ero sicura che fosse esattamente così. Feci una smorfia, evitando di rispondere.
«Non sono io quella a cui devi fare questa domanda» replicai, infilandomi un orecchino.
Lui annuì. Non riuscii a decifrare le sue emozioni guardandolo, gli occhi erano più nuvolosi del solito.
Un gemito ci spronò ad andare a verificare le condizioni di Sarah. Era appoggiata con la schiena a una macchina di imballaggio, aveva il viso cosparso di goccioline di sudore e i capelli scarmigliati. Non sembrava tanto preoccupata per il taglio, non profondo, infertole dal wyrm, tanto più pareva che stesse bruciando dall’interno.
Scoccai un’occhiata ad Alex, altrettanto perplesso, la fronte corrugata che formava un lieve solco tra le sopracciglia.
I capelli di Sarah cambiarono improvvisamente colore, diventando più scuri, di un color piume di corvo. Si accorciarono.
Mi sfuggì un’esclamazione di sorpresa. Non avevo idea del perché le stesse accadendo tutto ciò, il morso di un wyrm non provocava effetti del genere.
Quando le spalle di Sarah si allargarono e le morbide curve da giovane donna scomparvero, lasciandola piatta e incredibilmente più maschile, temetti avrebbe mutato forma fino a diventare un bebé e poi scomparire nel nulla, come accadeva in alcuni film di fantascienza.
Alex, invece, la prese per la maglia e sputò: «Non sei Sarah. Questa è magia delle rune.»
Sì, questa spiegazione aveva decisamente più senso, dopotutto, Odino è il dio della sapienza, i figli dovrebbero ereditarne almeno un po’. Non sapevo né come riconoscere né come esercitare la magia, quasi nessuno dio conosceva l’arte delle rune. Ma anche così, non ci voleva una laurea in ingegneria nucleare per capire che un semidio del Campo l’avesse utilizzata per prendere le sembianze di Sarah e far parte dell’impresa.
Alex sollevò il ragazzo per i vestiti, che man mano ritornava al suo aspetto originario, attenuando le smorfie che gli attraversavano il volto. Quando il processo si completò, fui in grado di riconoscerlo. Lisci capelli neri che formavano un ciuffo davanti agli occhi, color nocciola, che avevano un guizzo astuto.
«…Einar…» mormorai, incredula.
Il figlio di Loki, presente alla progettazione dell’impresa, alzò il capo e fissò Alex, che lo teneva ancora stretto.
«Dov’è Sarah?» ringhiò quest’ultimo.
Era un particolare a cui non avevo pensato. Una figlia di Eir del suo calibro non era un’avversaria da nulla, Einar doveva averla raggirata in qualche maniera contorta e abbandonata in un posto protetto chissà dove, in modo che nessuno potesse trovarla e sospettare alcunché.
«Al sicuro nel bagno della sua stanza, tranquillo. Legata e imbavagliata, certo, ma pur sempre al sicuro» rispose, pacato, come se la questione non lo sfiorasse minimamente. Oppure era un artista nel non mostrare la paura.
Alex incombeva su di lui cupo, con l’aria di un boia pronto a porre fine alla vita del condannato. Era comprensibile, dopotutto, un membro della sua Orda di cui era responsabile, che doveva far parte dell’impresa, non era lì ed Einar era riuscito a farla sotto il naso a tutti quanti. Come potevamo pretendere di ritrovare il martello di Thor e il ladro, se nemmeno ci accorgevamo di essere stati ingannati?
Gli lasciò andare la maglietta, si allontanò di mezzo passo, come riflettendo, e immediatamente dopo gli tirò un pugno dritto al volto.
Einar cadde a terra, lasciandosi sfuggire un unico lamento per via della spalla ferita. Io emisi un singulto di sorpresa.
«Non mi piace il tuo senso dell’umorismo, figlio di Loki» disse Alex, lugubre.
Einar si portò una mano al labbro spaccato, che perdeva sangue, e replicò: «A me il tuo.»
Si ritrovò una lama puntata alla gola.
«Hai attaccato, legato e imbavagliato il terzo componente di quest’impresa, ostacolandoci e mettendoci a rischio tutti quanti. Perché non provi a darmi tre buone ragioni per non ucciderti qui, adesso?»
Gli premette la punta della spada sul collo, rendendogli impossibile deglutire senza tagliarsi. Qualcosa scattò in me. Mi feci avanti, con l’intenzione di frappormi tra i due. Se avesse provato a colpirlo, sarei riuscita ad allontanare la lama con un calcio prima che fosse troppo tardi.
«Spostati» intimò Alex, scandendo ogni sillaba.
«Non puoi ammazzarlo» esordii, lasciando che le parole mi entrassero da un orecchio e mi uscissero dall’altro.
«È un ordine» rincarò, e gli occhi mostravano così tanta furia che mi sembrò di rivedere un uragano abbattersi contro una casa. Ma non avevo intenzione di essere risucchiata, così puntai i piedi, opponendomi alla sua autorità.
«Sai quello che ha fatto!» scattò. «Non puoi tollerarlo né appoggiarlo!»
«Senti» iniziai, «tutto sommato, ci ha aiutato a uccidere il wyrm. Poi, ci sarà un motivo se le imprese vanno compiute in tre, giusto? Non abbiamo tempo di tornare al Campo, trovare Sarah eccetera eccetera, perché questo aeroporto è nel panico e da qui non partirà un solo aereo, dopo tutto questo casino.»
Mi interruppi, feci un respiro profondo, dato che avevo fatto quel discorso con foga, e voltai un attimo lo sguardo verso destra. Vidi cinque divise blu scuro con scarponi neri militari e un’inconfondibile scritta a grossi caratteri sul davanti della giacca.
«E la polizia mortale è ancora capace di scambiare una spada con un fucile, quindi, dovremmo muoverci a trovare un aereo che parta immediatamente!» esortai, ammiccando agli uomini vestiti di scuro.
Alex guardò in quella direzione, imprecò tra i denti e spese un lungo, interminabile minuto a considerare cosa fare. Alla fine, fece ritornare l’arma in un coltellino svizzero e grugnì: «Sistemeremo la questione quando saremo in volo.»
Einar si alzò e disse: «Recuperate gli zaini, so come trovare un volo.»
Non diede tempo a nessuno di metabolizzare le sue parole e di contrastarle, scomparendo nella massa di gente che non sapeva più che fare. Alex mi scoccò un’occhiata che avrebbe congelato un vulcano attivo, prima di dirigersi a passo veloce verso i nostri bagagli.
Sospirai di sollievo, mettendo su uno spallaccio. Dritt, imprecai, quando la schiena protestò con una fitta di dolore.
Poco dopo ci scontrammo con Einar, che ci fece cenno di seguirlo. Ci condusse attraverso la folla, sorpassammo un gate ed entrammo dentro una porticina piuttosto nascosta grazie al pass di una hostess. Oltrepassato un corridoio illuminato da lampade che emettevano una strana luce verdognola, uscimmo da una seconda porta, questa volta più spessa, e fummo fuori, dove gli aerei sostavano per i rifornimenti. Einar non badò ai grandi colossi del cielo, camminando invece verso uno più piccolo, aereodinamico e senza le insegne di alcuna compagnia. Un uomo vestito elegantemente ci notò, scese una scaletta in metallo collegata all’aereo e ci venne incontro.
Fece per dire qualcosa, ma Einar lo fermò, lo fissò intensamente negli occhi per qualche secondo e scandì: «Cambio di programma. Siamo noi gli impresari che devono volare a New York. Avvisa i piloti.»
L’uomo annuì, le pupille dilatate, e si avviò con passo scoordinato su per la scala. Salimmo anche noi, e finalmente capii il perché di quella scelta: era un aeroplano privato, perfetto per un volo diretto e tranquillo. Einar parlò con tutto il personale di bordo, composto da hostess in completi più provocanti di quello che dovrebbero essere e due addetti uomini. Era un figlio di Loki, il dio degli inganni, dei raggiri, non c’era da stupirsi se il moro potesse piegare la volontà della gente almeno in parte.
Alex stava riponendo gli zaini negli appositi spazi sopra la  testa, borbottando parole incomprensibili, così gli passai il mio. Avrei voluto rincuorarlo, dirgli che sarebbe andato tutto a finire bene e che non ci sarebbe stato bisogno di sporcarsi le mani, ma non credo sarebbe servito a qualcosa. “Ehi, Alex, non ti preoccupare: Sarah è nel bagno della sua stanza, prima o poi qualcuno la troverà.
Poi, né Einar né lei sono miei amici, per cui non mi cambia assolutamente niente, l’importante è che ci schiodiamo da qui” non sembravano le parole adatte.
Una hostess bionda con le trecce venne da noi e annunciò, spezzando la catena dei miei pensieri: «La partenza è prevista tra pochissimi minuti, i signori passeggeri sono pregati di accomodarsi e allacciare le cinture di sicurezza.»
Girò i tacchi e se ne andò. Puntai un sedile lontano dal finestrino, sprofondando nella poltroncina di pelle beige. Davanti a me ce n’erano altre due, mentre una era affianco e dava sul finestrino, e innanzi avevo un tavolino di legno che si poteva ripiegare su se stesso fino a diventare una divisione di venti centimetri. In totale, di postazioni del genere, se ne si potevano contare sei. Alex mi si sedette davanti.
L’aereo si mosse. Il mio stomaco si attorcigliò, formando un nodo stretto e doloroso. Armeggiai con la cintura, tentando invano di agganciarla nella giusta maniera. Pensai al momento in cui ci saremmo staccati dal suolo, quando saremmo stati sospesi nelle nuvole, in completa balia degli elementi, e sentii montare la nausea. Alex mi prese le mani e fece combaciare i due pezzi che componevano la cintura.
Ora ero legata a quel sedile e, se per caso ci fossimo schiantati nell’Oceano Atlantico, non sarei mai riuscita a sganciarmi e liberarmi e sarei affondata per il suo peso. Avvertii sulla pelle tante piccole bocche, pesci che si nutrivano della pelle fredda del mio cadavere. Sempre che uno squalo bianco non mi avesse ingoiata intera, o fossi stata investita da un branco di barracuda, oppure inghiottita da un’orca assassina o anche…
«Stai tremando.»
Sobbalzai, riemergendo dal gorgo spaventoso dei miei pensieri.
«No, non è vero» protestai.
Alex alzò un sopracciglio, non spese nemmeno una parola per indicare le miei mani che, nonostante fossero strette ai braccioli, erano scosse dai brividi. Le ritrassi, nascondendole sotto le ascelle, incrociando le braccia.
Non volevo che qualcuno vedesse quanto fosse forte la mia paura di volare o le mie vertigini, nessuno doveva avere fatti che potessero indicarmi come debole o insulsa. Nessuno doveva pensare a me come un cucciolo di beagle sotto la pioggia, provare dispiacere o pena per me. Alex aprì la bocca per dire qualcosa, ma un improvviso strappo lo zittì.
Avvertii nel profondo delle ossa quella sensazione, che mi strinse le budella. Le farfalle che avevo nello stomaco battevano le ali così forte che avrebbero potuto squarciarlo e invadere l’interno. L’aereo continuò a salire, finché la gravità che mi schiacciava le spalle contro il sedile si stabilizzò, e il mezzo fu ben bilanciato. Comparve la stessa hostess bionda, che ci avvisò che potevamo slacciarci le cinture, se volevamo.
Sentii l’impellente bisogno di vomitare. Mi liberai da quella costrizione, spinsi via la donna e corsi verso la lucina verde, posta dopo tutti i sedili, che indicava il bagno libero.
Mi chiusi dentro, soffocai un conato, e feci giusto in tempo a chinarmi per rigettare nel water la colazione. Quando il mio stomaco fu completamente vuoto, mi sciacquai la bocca con l’acqua, che scendeva in un piccolo getto da un lavandino in miniatura, e mi lasciai ricadere per terra, stremata. Le gambe non avrebbero retto il mio peso, né avevo voglia di barcollare fino al mio posto e rischiare di fare avanti-indietro per tutto il viaggio.
Più di sei, lunghissime, intere, ore di sessanta minuti in viaggio. Mi sporsi verso il wc e vomitai ancora. No, sarei rimasta in bagno finché quell’incubo non sarebbe finito.
Che si uccidessero pure l’un l’altro, Alex e Einar, l’unica cosa che avrei potuto fare sarebbe rigettare bile sulla maglietta di entrambi. Appoggiai la testa al muro, chiusi gli occhi e pregai gli dèi che l’aero non precipitasse.
 
 
I semidei sognano, come tutte le persone senza genitori divini, con l’unica eccezione che i loro sogni assomigliano di più a degli incubi. La maggior parte, rivive attacchi da orde intere di mostri; alcuni incontrano i loro genitori; una minoranza, riesce a mettersi in contatto con persone in altri luoghi del pianeta.
Così, quando aprii gli occhi su una grotta scura, dopo essermi addormentata inconsciamente nel bagno a misura d’uomo di un aereo, quella fu la prima spiegazione che mi saltò alla mente.
La mia schiena era appoggiata a una stalagmite resa viscida dall’umidità. Mi misi in piedi, stando attenta a non sbattere la testa contro il soffitto, e tossii per via della polvere. Mi strofinai le mani sui jeans per riscaldarle, sentendo i peli delle braccia rizzarsi per la temperatura bassa. Non vedevo a un palmo dal mio naso, l’unico suono presente era l’irritante ticchettio dell’acqua che gocciolava dalle stalattiti.
Controllando il terreno davanti a me, mettendo un piede davanti all’altro, mi allontanai dal luogo in cui avevo aperto gli occhi. Avevo una vaga idea di dove fossi e speravo di non avere ragione, perciò rinchiusi l’ipotesi in un angolino della mente. Le gocce d’acqua mi ricordavano il ticchettio delle lancette di un orologio, un costante rimandare al detto “ricordati che devi morire”.
Più camminavo, più sentivo una parte di me riconoscere quella grotta. All’improvviso, udii il sibilo di una lama sfilata dal suo fodero. Mi immobilizzai, cercando di capire da che direzione provenisse. Rumore di passi alla mia destra. Tastai il terreno, aggirai una stalagmite e colsi il luccichio dell’arma. Trattenendo il respiro, mi accucciai e mi sfilai gli orecchini, trasformandoli nelle mezzelune.
Aspettai di sentire ancora un suono che mi indicasse dov’era ora l’altra persona. Mi alzai, scivolando nell’ombra e la raggiunsi di soppiatto. In quel momento, essere la figlia di una dea che viveva nell’oscurità mi stava tornando utile. Arrivai così vicino allo sconosciuto che potei sentirlo respirare. Mi alzai in punta di piedi, visto che ero più bassa, e gli incrociai le mezzelune lì dove c’era la gola. Lo sentii irrigidirsi.
«Non muoverti» intimai. «Posa la spada a terra, lentamente
«Astrid, sono Alex. Sei nel mio sogno, quindi non so se mi puoi ascoltare» mormorò.
Ritirai le mezzelune, gli toccai la schiena e lo feci voltare verso di me. Vedevo a stento i lineamenti del suo viso.
«No, tu sei nel mio sogno» obiettai, sottovoce.
Sentii della roccia sbriciolarsi alla mia sinistra, mi girai di scatto e lanciai una mezzaluna in quella direzione. Si udì un tonfo sordo quando colpì una roccia. Dritt.
«Non avete pensato che siamo tutti nel sogno dell’altro?» domandò un’altra voce.
Roteai gli occhi.
«La prossima volta che compari in questo modo ti trafiggo, Einar.»
«Non sei abbastanza brava per centrarmi, dolcezza» rise, avvicinandosi.
Fui tentata di scagliargli contro anche l’altra mezzaluna.
«Rimpiango che il wyrm non ti abbia ucciso» brontolai.
«Anche io» borbottò Alex.
«Bene» disse, a solo qualche centimetro di distanza, «posso confermare con certezza che questo è un sogno condiviso, siamo nei nostri corpi e ragioniamo come sempre, non c’è pericolo che qualcuno si trasformi in un mostro senza preavviso. Avete idea di dove siamo? Non sono mai stato qui in uno dei miei incubi.»
«No, ma non mi piace per niente» rispose Alex.
Deglutii, ma fu come mandare giù una manciata di sabbia.
«Io sì» intervenni, la voce ridotta a un sussurro. «Non è la prima volta che raggiungo l’Hellheim in sogno.»
I due ragazzi incassarono la risposta. L’Hellheim, sotto il controllo di Hell, mia madre, è il regno più basso e infero di tutti gli altri: se non si capita in una delle molte cavità sotterranee, fuori è una landa gelata sferzata dai venti e battuta delle piogge, dove si aggirano i morti, soprattutto quelli che si sono macchiati di colpe particolarmente gravi in vita.
«Okay, puoi farci da guida?» mi chiese Alex, spezzando il silenzio.
«A differenza di Hell, io non vivo qui né conosco il suo regno come le mie tasche» replicai immediatamente, velenosa.
«Ma è pur sempre tua madre e tu sei comunque sua figlia» continuò.
Mi morsi l’interno della guancia.
«Già, è quello che dovrebbero capire tutti: sono stata solo generata da lei, ma non sono lei» ribattei.
Bloccai l’obiezione con un gesto perentorio della mano, e dissi in fretta: «Posso provarci.»
Non avendo nessuna meta – l’Hellheim  non è rinomato per le sue spettacolari attrazioni turistiche-, mi affidai all’istinto, o al caso, come nei miei sogni. Mi misi una mano in tasca e mi punsi le dita con l’estremità dell’orecchino.
Ogni volta che perdevo l’arma, dopo poco tempo me la ritrovavo nella giacca nella sua forma cammuffata. Per permettere ad Alex ed Einar di seguirmi e non perdersi – anche se è impossibile perdersi se non si ha la più pallida idea di dove andare-, mi misi a canticchiare Welcome to the jungle, dei Guns ‘n Roses.
Sarà stato per la canzone che adoravo o per il silenzio del gruppo, ma fu come dimenticarmi di me stessa e seguire un percorso che avevo impresso nella carne, e alla fine la luce di alcune fiaccole illuminarono una grande conca, una grotta nella grotta. Si vedevano due figure, avvolte in mantelli scuri, che confabulavano.
Smisi di cantare. Feci segno ad Alex di riporre la spada e di chinarsi. Mi passò davanti, prendendo la testa del gruppo, e lo seguimmo dietro una scultura di stalagmiti. Eravamo troppo lontani perché potessimo sentire il loro discorso.
Con le schiene appoggiate alla roccia, protetti dall’oscurità, Einar sussurrò con un filo di voce: «Adesso ci farebbe comodo il tuo trucchetto con le ombre che hai usato per entrare nel tempio di Thor, dolcezza.»
«Non chiamarmi “dolcezza”» sibilai.
Alex sbuffò, tirò una gomitata nello stomaco a Einar e mormorò, perentorio: «Fallo.»
Strisciai in mezzo ai due ragazzi, li presi per mano e controllai che la luce non li colpisse. Chiusi gli occhi, inspirai ed espirai, e un attimo dopo eravamo nascosti dietro un pilastro di roccia, abbastanza vicini per udire le parole delle due figure.
«…sono stati piuttosto bravi a ucciderlo» commentò una, più bassa dell’altra di un paio di spanne.
«Pfff, era un innocuo cucciolo di wyrm, non sarebbe stato divertente vederli schiacciati così presto» disse l’altra.
Cucciolo?, pensai tra me e me.
«Certamente. Ci sarà tempo per vederli affrontare qualcosa di più grosso» convenne la prima figura.
«Già. Quel figlio di Loki ha messo zizzania,  basterà poco che inizino a litigare tra di loro.»
«Intanto ad Asgard-» sghignazzò la più bassa, ma si interruppe all’improvviso.
Fece cenno alla più alta di guardare qualcosa, anzi, qualcuno. Noi. Com’era possibile? Era impossibile che potessero vederci. Prima che potessero fare alcunché, la visione divenne più sfocata, e il sogno si disgregò.
 
 
Mi sveglia nel bagno di soprassalto. Mi passai una mano tra i capelli, calmando i battiti del cuore, sciolsi la coda alta che avevo portato fino a quel momento e mi massaggiai la cute. Sperai di aver dormito abbastanza a lungo da essere arrivata a New York, ma dubitavo. Mi misi in piedi, presi un bel respiro e uscii dal bagno. Non potevo rimanere lì rinchiusa come una suora in clausura, dovevo farmi forza e accettare il fatto che stessi volando.
Dopotutto, l’aereo sembrava quasi fermo, non doveva essere così dura stare seduta su un sedile e non sentirsi male per qualche ora. Percorsi i vari gruppi di poltroncine fino a trovare quella su cui mi ero precedentemente seduta.
Mi ritrovai gli occhi di Alex puntati addosso, mentre Einar stava ancora dormendo, stravaccato su due sedili. Feci finta di nulla, aprendo il cofano dove avevamo riposto gli zaini e prendendo il mio iPod, prima di sedermi. Mi infilai le cuffie nelle orecchie, ma Alex tossicchiò, portando l’attenzione su di lui.
«Hai fatto anche tu il sogno condiviso.»
Non era una domanda, però annuii ugualmente. «Sì.»
«Gli o le incappucciati parlavano di noi, hanno sottolineato la presenza di Einar.»
«Lo so.»
«Ci stanno spiando in qualche modo.»
«Lo so.»
«Potrebbero essere loro ad aver rubato Mjiolnir.»
«Lo so.»
«Forse è Hell ad aver organizzato tutto.»
«Lo so.»
«E smettila di dire “lo so”!» sbottò, battendo un pugno sul tavolino. «È snervante!»
Stavo per dire “lo so”, ma mi trattenni. Sospirai.
«Non so se c’è mia madre dietro tutto questo, non so se le due figure erano al suo servizio. Potrebbe essere stato Loki, e non dirmi che non ne sarebbe capace. Far ricadere la colpa su Hell, eliminare Thor e farla franca in un sol colpo? Oppure ritrovare magicamente il martello per ottenere qualche riconoscimento da parte di Odino? Se pensiamo più in grande, si potrebbero contare centinaia di mostri abbastanza intelligenti per progettare un furto del genere. Se ti preoccupa il fatto che, al momento di togliere di mezzo la minaccia, e questa minaccia si trattasse di mia madre, sappi che non avrò alcun ripensamento. Non c’è niente tra di noi se non corrispondenze nel DNA.»
Alex si lasciò sprofondare nella poltrona di pelle. «Indagheremo a fondo quando saremo arrivati. Ho ucciso un wyrm, adesso mi piacerebbe riposare.»
Annuii. Accessi l’iPod e feci partire la riproduzione casuale dei brani, sperando che la musica mi avrebbe distratto per la restante durata del viaggio.
Tre ore dopo, la hostess bionda ci avvisò che tra poco saremmo atterrati e ci chiese di allacciare le cinture.
Se tutto andava bene, non ci saremo schiantati al suolo. Quando le ruote del carrello toccarono terra, fui presa così di sorpresa che avrei strillato, se fossi stata sola.
Seguendo le indicazioni degli addetti, recuperammo i bagagli e entrammo nell’enorme struttura del JFK Airport. Poliziotti controllarono i nostri biglietti, documenti, carta d’imbarco, zaini ed Einar tolse loro ogni dubbio su una mancata partenza del nostro aereo originario. Quando portammo a termine tutte quelle estenuanti procedure di sicurezza, potemmo finalmente respirare l’aria.
Ossigeno americano marcato New York, distretto di Brooklyn.
Ci allontanammo a piedi, verso la navetta che ci avrebbe portato all’hotel in cui avremmo alloggiato, e fu allora che un grosso scossone fece tremare il terreno. Voltai la testa, seguita a ruota da Alex ed Einar.
Un imponente gigante di ghiaccio era caduto a terra, creando un buco nell’asfalto, ed era circondato da un gruppetto di ragazze armate di archi e pugnali.
Fissai gli occhi su quella che sembrava il capo: indossava vestiti argentati, reggeva uno scudo tondo che raffigurava una raccapricciante testa di donna circondata da serpi, e sembrava parecchio agguerrita. Scansò una manata del gigante e si fermò per riprendere fiato.
Portava i capelli corti, neri come l’ossidiana, e gli occhi blu elettrico erano talmente magnetici che erano impossibile da non notare. Tutto ciò aveva un’unica spiegazione: semidee.

 
koala's space.
Con un po' di ritardo rispetto alla tabella di marcia, ecco qui il quarto capitolo de "Sangue del Nord".
Colpa mia, che sono stata uccisa dalla scuola +-+ Odio le verifiche di fine quadrimestre .-.
Si iniziano a scoprire un po' cose interessanti ed è arrivato l'atteso incontro tra i due campi. Più o meno. Il vero e proprio incontro spetta ad AxXx, nel prossimo capitolo.
Già :)

Per quanto riguarda il mio personaggio, Astrid, scopriamo sostanzialmente tre cose su di lei: 1) che soffre di vertigini e ha paura di volare, perché le persone non sono perfette e ognuno ha la sua fobia 2) che a Natale regalerebbe una bomba a sua madre e che non vuole essere come lei 3) che le piacciono i Guns 'n Roses. E se non avete mai ascoltato Welcome to the jungle, fatelo subito, adesso, immediatamente!
Speriamo che vi sia piaciuto, se voleste dircelo con una recensione ci renderesti felici.
Vi regalo un muffin al cioccolaot blu di Sally Jackson se lo fate hahah
Oppure eucalipto *si lecca i baffi* Comunque, alla prossima!

 

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Capitolo 5
*** ALEX • Scopriamo che ci sono altri semidei ***


Scopriamo che ci sono altri semidei
 

•Alex•


Quest’impresa si stava rivelando alquanto seccante. Non potevo riposare nemmeno un minuto che già veniva fuori un altro mostro?
E non un mostro qualunque, ma un gigante del ghiaccio. Avevo già affrontato diversi di quei bestioni a Midgard, ma non pensavo di vederne uno girare tranquillamente - certo, come no- proprio davanti all’aeroporto in cui eravamo atterrati.
Che fosse questo quello di cui mi aveva parlato mio padre? C’erano i giganti dietro? E quelle ragazze chi erano? Non ricordavo di spedizioni o altre imprese dal Campo, eppure, se stavano combattendo il gigante dovevano vederlo e le loro armi e armature dovevano essere state fatte apposta.
L’unica spiegazione era che fossero semidee come noi. Forse erano delle Valchirie, le serve di mio padre. Di solito raccoglievano i più eroici caduti, ma erano pur sempre spiriti guerrieri e non disdegnavano un po’ di azione, soprattutto se ciò implicava decapitare un gigante.
Il problema era che stavano avendo la peggio. Alcune si stavano ritirando con vistose ferite, probabilmente dovute alla caduta di mattoni vari a causa del gigante e solo una mezza dozzina manteneva la posizione, guidate dal loro capo.
I suoi occhi elettrici squadravano con odio il gigante, mentre incitava le sue compagne ad attaccare, anche se l’imponente avversario non sembrava risentire delle ferite che le frecce gli infliggevano.
Una piccola premessa: forse voi non avete idea di cosa significhi veramente “Gigante”. Non è poi così alto o grosso, non un grattacelo, ma è l’aspetto che li rende orripilanti: bestie che vanno dai cinque ai dieci metri e spessi come sequoie, braccia robuste e piedi così ingombranti da poter schiacciare un autobus come un foglietto di carta. I loro volti, poi, sono terrificanti: sembrano grottesche sculture raffiguranti un volto umano distorto, come se fossero stati scolpiti da una persona che aveva solo una vaga idea di come fosse fatto il viso  più o meno gradevole di un uomo.
Premessa finita e tornando a noi, stavamo affrontando una specie di palazzina ambulante che stava cercando di schiacciare delle ragazze armate di archi e frecce, mentre maree di mortali correvano in tutte le direzioni.
E noi eravamo appena sfuggiti ad un Wyrm, avevamo rubato un aereo e fatto un sogno condiviso. Possibile che non potessimo fermarci un secondo? Domanda stupida, dato che eravamo mezzosangue.
«Dobbiamo aiutarle!» sbottai, prendendo la mia spada, iniziando subito ad analizzare le circostanze. Bisognava tenere d’occhio la situazione, d’altro canto ogni nemico aveva un punto debole e dovevo trovare qualsiasi cosa potesse darmi un vantaggio.
«Spero che tu abbia un piano, capo. Questo non è un mostriciattolo» borbottò Einar prendendo la sua sigaretta elettronica, che divenne una lama.
Anche Astrid si era preparata, mettendo mano alle sue mezzelune, squadrando il gigante con decisione. Sapevo che non si sarebbe arresa.
«Seguitemi, dobbiamo dar loro una mano!» ordinai, correndo in avanti, saltando addosso alla ragazza dagli occhi azzurri per scansarla appena in tempo dal piede del nemico.
Lei non sembrò molto contenta delle mia vicinanza, ma non protestò - anche perché l’avevo salvata- e io non mi persi in chiacchiere. Il gigante era stato colto di sorpresa dal nostro arrivo, ma si stava riprendendo presto, tentando di schiacciare i nuovi nemici. Anche le guerriere dovevano essere rimaste scioccate dal nostro arrivo, dato che, per un attimo, il clamore dello scontro si acquietò.
Ma, secondo voi, quanto sarebbe durata una pausa del genere con la presenza di tanti mezzosangue in un posto solo?
Nemmeno un secondo, perché il gigante del ghiaccio ricominciò a pestare i piedi e tirare pugni a tutto ciò che si muoveva.
«Astrid, dobbiamo distrarlo e portarlo lontano dai feriti!» urlai per farmi sentire sopra i ruggiti del gigante, mentre evitavo una mano enorme che aveva schiacciato il suolo a pochi centimetri da me.
Lei sembrò aver capito le mie parole, perché subito si mosse lontano dalle guerriere in ritirata, portandole verso una delle lunghe strade che uscivano dall’aeroporto. Io, ugualmente, mi mossi da quella parte, colpendolo alle caviglie, per fare in modo che si concentrasse su di me.
Anche le semidee sopravvissute avevano iniziato a seguirci guidate da quella con lo scudo, tenendosi a distanza di sicurezza. Il problema era che quel gigante non sembrava avere punti deboli e le frecce gli davano solo fastidio, così come le armi mie e dei miei compagni. In pratica, non riuscivamo a colpire i suoi organi vitali.
«Cacciatrici! Mirate alla testa mentre lo teniamo occupato!» ordinò la guerriera armata di lancia, lanciandosi in avanti con furia, continuando a colpirlo al polpaccio.
Il gigante, però, non sembrò gradire che qualcuno gli punzecchiasse le gambe e, di nuovo, tentò di schiacciarla. Ma, questa volta, la ragazza non fu colta di sorpresa ed evitò appena in tempo l’attacco, per poi rimettersi in piedi con agilità. Un nugolo di frecce volò verso la testa del mostro che si protesse con il braccio.
«È più veloce di quel che sembra! Dobbiamo trovare una soluzione!» sbottai, saltando oltre una macchina per non essere travolto da un piede enorme intento a dare un calcio ad un autobus, come se fosse un pallone da calcio.
Per farlo fuori avremmo dovuto colpirlo alla testa, ma dalla posizione in cui ci trovavamo era impossibile. Avevo bisogno di un tiratore bravissimo e di farlo inciampare. Mi guardai velocemente intorno e vidi un posto che faceva al caso mio: un grosso spiazzo erboso che fiancheggiava l’autostrada e si estendeva per parecchio sia in lunghezza che in larghezza. In poco tempo elaborai una strategia che avrebbe potuto funzionare - cosa non facile quando hai un bestione di otto metri che ti vede benissimo spiaccicato sull’asfalto tipo frittella.
«Einar, hai l’occasione di renderti utile! Come sei messo, nel tiro con l’arco?» chiesi speranzoso, ad alta voce, mentre continuavo ad indietreggiare, seguito dalla ragazza dai capelli neri e da Astrid.
«Ehi, capo! Stai parlando con uno che ha gli occhi messi bene… mi chiedi se posso farcela?» mi rispose di rimando, con un sorrisetto divertito.
Per tutto lo scontro si era tirato fuori dal combattimento, come se non volesse aiutarci e facendo il minimo indispensabile per colpire il gigante - tipico dei figli di Loki.
«Allora spera di esserlo davvero, perché ti voglio lassù!» sbottai minaccioso per fargli capire che gli avrei staccato la testa, se provava a farci qualche scherzo.
Lui seguì la direzione che avevo indicato: un alto albero dai rami robusti circondato da tavolini da pic-nic e panchine. Il posto perfetto per qualsiasi tiratore.
«Attenta!»
L’urlo della nostra nuova compagna mi raggiunse all’improvviso e la vidi appena in tempo, mentre salvava Astrid dal gigante.
Le due si lanciarono un veloce sguardo di intesa e iniziarono ad attaccare insieme, coordinandosi in modo da non essere un bersaglio facile. Erano perfettamente in sincronia e sembravano riuscire a capirsi all’istante.
«Portiamolo verso il parco! Einar ha bisogno di uno spazio aperto per tirare!» ordinai, richiamando la loro attenzione.
Le ragazze che stavano combattendo sembrarono dubbiose sul fatto di seguirmi o meno, cosa che mi sembrava parecchio strana, ma fu Astrid a convincerle.
«Andiamo! Se lo dice c’è una ragione, dobbiamo seguirlo!» garantì, iniziando ad attirare il gigante.
Le altre sembrarono rassicurate, come se si fidassero più di una donna che di me.
Nonostante i miei dubbi, decisi di rimandare al prossimo momento di calma la discussione, anche perché dovevo evitare di fare la fine delle gomme da masticare sotto una scarpa. Astrid continuava a colpirlo alle caviglie per poi correre via, mentre la guerriera con lancia e scudo la copriva, tenendo il gigante su di sé. Le altre ragazze continuavano a mirare alla testa, inseguendolo e riparandosi dietro muretti e macchine per evitare di essere viste.
Einar, intanto si era impadronito dell’arco e delle frecce di una guerriera caduta e attendeva il momento giusto per tirare. I figli di Loki potevano sembrare solo degli ottimi ingannatori, ma la verità era che molti di loro potevano competere con i figli di Skadi, in quanto a capacità di tiro. Non per niente Robin Hood era uno di loro.  
L’inseguimento durò diversi minuti, dato che spesso il gigante si fermava, iniziando a lanciare macchine e panchine scambiandoci per birilli e noi dovevano cortesemente ricordargli a colpi di spada di muoversi. Una volta riuscì ad afferrare Astrid per una gamba, ma la sua nuova amica la trasse subito in salvo, trafiggendo il polso del bestione, costringendolo a indietreggiare. Alla fine, però, ci ritrovammo lontano dalla strada,  dove le automobili sfrecciavano via.
«Fatelo voltare verso di me!» ci richiamò Einar, che era appostato in cima alla sua postazione, pronto a tirare, l’arco già teso.
«Ok, ci penso io!» risposi di rimando, prendendo una Runa Trappola dallo zaino e un’altra della Caduta Controllata. Le rune erano varie e se si era bravi - o figli del Dio delle Rune, come me- potevi farci di tutto.
«Ehi, grassone! Sono qui! Vieni a prendermi!» urlai a gran voce, per farmi sentire.
Gli occhi di tutti, guerriere comprese si voltarono su di me. Dovevano avermi preso per pazzo, ma avevo un piano. Il problema era che, per metterlo in pratica, dovevo farmi attaccare. E il mostro ci cascò come uno scemo - non che i giganti brillassero di intelligenza. Ruggendo come un leone furioso, alzò il pugno e lo abbatté al suolo nel punto in cui ci sarei stato io, se non mi fossi spostato pochi secondi prima.
Per pochi attimi il gigante rimase bloccato in quella posizione e io ne approfittai per saltargli sul braccio, aggrappandomi al bracciale che teneva al polso. Il mostro furibondo iniziò a scuotere l’arto, cercando di disarcionarmi, ma vi assicuro che se cavalcate una viverna farete delle evoluzioni che vi insegneranno a rimanere saldi e mantenere l’equilibrio in qualsiasi situazione e contro qualsiasi nemico. Continuai ad arrampicarmi, quasi incurante dei tentativi del gigante di buttarmi giù. Ci misi poco ad arrivare all’altezza del collo e, con un unico colpo, gli piantai la spada all’altezza della carotide.
Il gigante rantolò dolorante, voltandosi come cercando di ritirarsi.
«Einar! Colpisci, ora!» gridai, mentre stringevo la Runa Trappola, che evocò una lunga catena di metallo che inchiodò il gigante nella sua posizione, rendendo al mio compagno facile colpirlo.
Infatti, vidi subito lo scintillio della freccia argentea che veniva scagliata dall’albero vicino. Il proiettile sibilò, tagliando l’aria come una vespa impazzita e si conficcò nell’occhio destro del gigante.
Per un attimo rimase paralizzato con un’espressione di sorpresa e dolore sul viso, poi iniziò a disgregarsi in una nube di cenere e polvere. Già questo mi sembrò strano, dato che di solito diventavano neve. Ma non avevo tempo per pensarci: ero in cima a sette metri di roba che si stava sfaldando e rischiavo di precipitare al suolo. Fortuna avevo con me la Runa della Caduta Controllata. Fu come se un geyser si fosse acceso sotto di me, rendendo la mia discesa più lenta. Il mostro si era già disgregato, quando arrivai a terra e le guerriere si stavano radunando poco lontano.
«Anche questa è fatta» mi dissi, lasciandomi cadere su un ginocchio.
Prima il Wyrm, poi il sogno e infine il gigante, la giornata si stava facendo davvero pesante. Mi chiesi se avrei potuto sostenere un altro scontro. Mi facevano male le braccia e avevo sicuramente un paio di contusioni a causa delle botte prese dai vari mostri.
«Ehi, che tiro, gente!» esultò Einar, correndo verso di noi.
Prima che potesse raggiungerci, però, una delle ragazze che avevamo soccorso gli fece lo sgambetto facendolo cadere lungo e disteso a terra, dopodiché ricevette un bel ceffone in faccia - cosa che stavo cominciando a desiderare fare anche io.
«La prossima volta prenditi il tuo, di arco, ladro!» scattò quella, furibonda, guardando Einar come se volesse incenerirlo sul posto.
A quanto pareva, però, non aveva molta esperienza con Loki e i suoi figli, dato che, iniziavo a pensare, e tutt’ora penso, che essi provino un piacere perverso a prendere in giro gli altri per poi farsi maltrattare.
«D’accordo, bellezza… non toccherò mai più il tuo arco, anche se avrei preferito un buon ristorante con vista sul mare al posto di uno schiaffo. Che ne dici di ‘sta sera? Non ho nulla da fare.»
L’impatto della suola dello stivale della ragazza contro il naso del figlio di Loki - e il crack che ne seguì-, furono risposte abbondantemente eloquenti alla proposta.
Intanto il gruppo di guerriere si era riunito. Alcune erano ferite, ma nessuna sembrava grave. Il loro capo - la ragazza con lo scudo scolpito in maniera improponibile- si fece avanti con sguardo deciso e mi si piantò davanti con aria di sfida.
«Ce la cavavamo benissimo da sole, ma dato che ci hai dato una mano, credo che i ringraziamenti siano d’obbligo» biascicò, quasi le venissero fuori a fatica quelle parole.
In effetti, avevo notato un bel po’ di sguardi diffidenti e riottosi verso me ed Einar. Sguardi che, però, escludevano Astrid che, al contrario, qualcuna squadrava con ammirazione. Intuii che il rapporto con i maschi non doveva essere dei migliori, per loro; cosa che mi dette da pensare. Le Valchirie erano guerriere, certo, ma trattavano gli uomini alla pari, senza allontanarli o respingerli. Certo, provavi a toccarne una e lei ti tagliava la mano, ma non ti faceva a pezzi con lo sguardo. Invece, quelle ragazze mi stavano dicendo con gli occhi: «Vai via, pervertito maschilista!»
«Di nulla. Ci si aiuta, tra semidei. Cosa ci faceva quel gigante del ghiaccio, qui?» chiesi, stringendole cordialmente la mano.
«Gigante Iperboreo, vorrai dire. Credo che ci stesse inseguendo. Io, comunque, sono Talia» rispose lei, semplicemente.
Poi si rivolse ad Astrid. «Ciao! Non ti ho mai vista al Campo. Siete nuovi?»
Che razza di domanda era? Come faceva a non averci mai visto, se ci stavamo sempre. Era lei che non si era mai vista.
«Io ci sono sempre stata, al Campo. Sei tu che non ho mai visto. Chi sei? Una valchiria?»
«Non ho idea di chi tu sia… e sono una  CACCIATRICE. Non ho idea di cosa sia una valchiria.»
«Be’, allora svegliati! Io ho combattuto molto a lungo! Faccio parte del Campo Nord da molto tempo! Non ti ho mai vista in vita mia!» sbottai, irritato.
 Non la sopportavo proprio, sembrava stessimo parlando di due cose completamente diverse.
I nostri sguardi si incrociarono e la sua mano andò subito alla lancia. A quanto pareva, la gratitudine per la salvezza non la esulava dal sospetto.
«Non ho idea di cosa tu stia parlando. Non ti ho mai visto al Campo Mezzosangue. Chi mi assicura che tu non sia una spia di Crono? Non c’è da fidarsi con degli sconosciuti, soprattutto se maschi, senza contare che siamo in guerra» replicò lei, minacciosa, puntandomi contro la lancia.
Fortunatamente, ero stato abbastanza previdente da mettere anche io mano alla spada.
«Nemmeno io so di che tu stia parlando, ma non sono il tipo da fare la spia, anche se mi porto dietro un figlio di Loki. Quindi modera i termini. Sono qui per una missione importante e non mi farò fermare da voi!»
Le nostre armi erano incrociate e le sue compagne ci tenevano sotto tiro. Astrid e Einar non sembravano particolarmente felici di ricominciare a combattere, d’altro canto avevamo appena finito di affrontare due mostri davvero grossi e la stanchezza iniziava a farsi sentire. Il problema era che quelle non sembravano intenzionate a lasciarci andare.
«Ora basta!» intervenne Astrid, cogliendo tutti di sorpresa. «Siamo tutti esausti, qui. Possiamo assicurarvi che non siamo spie. Se lo fossimo, poi, perché mandare dei ragazzi in una compagnia di sole donne? Stiamo solo cercando un oggetto importante.»
Ragionamento che non faceva una piega. Anche Talia doveva averci pensato, perché abbassò la lancia, anche se non la ripose. Evidentemente stava riflettendo. La sua indecisione e il suo sospetto era davvero forte e aveva, probabilmente, una gran voglia di attaccarci, ma non era così impulsiva.
«Di te potrei anche fidarmi… ma loro sono dei maschi… non mi piacciono» disse, rivolgendosi alla figlia di Hell.
«Siamo partiti insieme. Se vi fidate di me, potete fidarvi anche di loro… be’, forse di Einar no, ma Alex è il mio comandante e posso garantire per lui» rispose Astrid decisa. Era una tipa tosta e nonostante la fatica, stava tenendo testa a quella pseudo-valchiria con la lancia.
«D’accordo» concesse con un sospiro. «Mi sembri una brava ragazza, porteremo i tuoi amici al Campo Mezzosangue dove sarà Chirone a chiarire la situazione. Ma state attenti, voi due: provate a fare un passo falso e le mie Cacciatrici vi trasformeranno in puntaspilli!» aggiunse minacciosa, rivolta a me ed Einar. A quanto pare non le piacevano i ragazzi.
Le Cacciatrici si calmarono un po’ e riposero le armi, anche se continuavano a tenerci d’occhio. In particolare Einar, che continuava a lanciare sguardi provocanti e bacetti alla cacciatrice che aveva gli aveva rotto il naso. Cacciatrice che non apprezzava le presunte “attenzioni” del figlio di Loki, dato che continuava a rispondere con occhiate di fuoco e insulti in una lingua un po’ strana che non conoscevo.
Talia dette ordine alle sue guerriere di mettersi in marcia e noi le seguimmo. Procedevano a passo spedito, ma riuscivamo a mantenere il passo. Astrid era stata accolta quasi come un’amica da quel gruppo che sembrava, invece, ignorare completamente la mia presenza e di Einar. Parlavano con lei in modo naturale e entusiasta.
La figlia di Hell, però, così poco abituata ad una conversazione da “amici” si ritrovò subito in difficoltà. Se da una parte la vedevo felice di avere persone che la trattavano come amica, dall’altra era un po’ in imbarazzo per tutte quelle attenzioni.
Solo Talia le rivolgeva poco la parola, ma comunque in maniera amichevole e sincera, chiedendole come aveva viaggiato, quale musica le piaceva, i suoi gusti in generale.
In effetti, sembravano molto affiatate e non mi sorpresi quando mi resi conto che tra loro due stava già nascendo una buona amicizia.
Rimanemmo in silenzio per quasi tutta la camminata, che durò quasi tutto il giorno, dato che arrivammo a piedi nel centro di New York, ma qualcosa, dalle loro parole, intuii. Talia era a sua detta una figlia di Zeus e anche alcune delle sue compagne avevano genitori “divini”. Mi ci volle un po’ per arrivarci, anche perché ero esperto solo di mitologia norrena, nonostante quei nomi mi riportassero alla mente una mitologia diversa dalla nostra: quella greca.
Il mio cervello iniziò velocemente a elaborare quanto era stato assorbito. Se c’erano altre divinità, allora c’erano altri semidei. Possibile che avessimo parlato erroneamente di due campi diversi? Probabile.
Quindi c’è un altro campo, oltre a quello Nord? Dovetti dedurre che fosse così, a meno che alle Cacciatrici non piacesse prenderci in giro.
Aveva parlato di spie di un certo Crono. Ma chi era? Il nome mi suonava familiare, ma capitemi, non ero esperto in mitologia greca. Inoltre, dovevo dedurre che stavo per rischiare un incidente politico non da poco.
Ero un figlio di un Re degli Dèi che stava per prendere a calci la figlia di un altro Re degli Dèi… non volevo pensare a cosa sarebbe potuto succedere.
Poi mi vennero a mente le parole di mio padre. Aveva accennato a qualcosa di inaspettato. Lo sapeva? E se sì, perché tenerlo nascosto? Ed Hermdor? Lui lo sapeva? Perché non ci avevano informati quando eravamo partiti?
Un sacco mi domande mi frullavano in testa e feci poca attenzione all’itinerario preso, che, una volta usciti dalla città, si districava in piccoli sentieri di campagna. A quanto pare le Cacciatrici non apprezzavano le automobili, ma quando arrivai in cima ad una collina, mi resi conto che ci trovavamo in un campo estivo, simile al nostro.
Una serie di edifici abbastanza grandi disposti ad U capovolta al centro di una vallata molto grande con nel mezzo un focolare. Ogni edificio era simile in dimensioni, ma era arredato in modo diverso, cosa che ricordava molto i templi del nostro campo. Il problema era che non vedevo i dormitori per le Orde. Dove abitavano, i semidei greci?
«Seguitemi» ci intimò Talia, conducendoci ad un enorme edificio in legno a due piani, dove ci attendeva una strana creatura: un uomo anziano, di bell’aspetto dalla vita in su, ma dalla forma di cavallo bianco nella parte sottostante.
«Buongiorno, Talia» salutò sorridendo, per poi avvicinarsi a noi aggiungendo: «Ci hai portato nuovi semidei? Ultimamente non ne accogliamo molti, così grandi poi, avrebbero già dovuto attirare parecchi mostri.»
La figlia di Zeus stava per intervenire, ma io la precedetti.
«Io sono Alex Dahl, figlio di Odino. Siamo qui per cercare un oggetto di grande valore.»
Alla parola “figlio di Odino”, il centauro - sì, perché di un centauro si trattava- emise un respiro sorpreso e la sua parte animale si agitò. Qualcosa lo aveva spaventato.
E non poco.

 
koala's corner.
Buone feste a tutti! Questo capitolo è stato scritto da AxXx, per chi non se lo ricordasse.
Per la questione delle rune, non preoccupatevi se per il momento non capite molto, ci sarà un capitolo in cui Alex spiegherà a Percy la loro funzione. La storia è invece ambientata tra il quarto e il quinto libro della prima serie.
In 'molti' ci hanno chiesto della Alrid, la coppi Alex/Astrid, e abbiamo deciso che potremmo inserirla. Quindi non disperate oh fanboys e fangirls! ^^
Speriamo che il capitolo vi sia piaciuto, che vogliate dircelo con una recensione e buon Natale!

 
Soon on Sangue del Nord: POV di Annabeth, scopriamo una "lievissima" rivalità tra dei nordici e greci....
 

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Capitolo 6
*** ANNABETH • I nostri colleghi del Nord ci fanno visita ***


I nostri colleghi del Nord ci fanno visita
 

Annabeth

Ero china a decifrare un progetto di Dedalo, quando uno dei miei fratelli entrò nella Cabina 6 e annunciò che erano arrivate le Cacciatrici, insieme ad altri semidei. Raddrizzai la schiena di scatto, pensando subito a Talia.
Cosa ci faceva qui? Sapevo che Artemide e le sue discepole avevano un gran daffare, non credevo sarebbero venute tutte qui al Campo Mezzosangue. Senza contare che, quando ci facevano visita, si scoprivano sempre nuovi problemi. Abbandonai il lavoro e seguii mio fratello oltre la porta, camminando veloci verso la Casa Grande, dove già altri si erano recati per assistere alla novità.
Mi si avvicinò Percy, sudato per essere appena stato nell’arena di scherma, e mi scoccò un’occhiata interrogativa, la fronte aggrottata in una tenera espressione confusa. Scossi la testa, non potendo fornirgli altre spiegazioni. Il ragazzo si infilò una mano in tasca, lì dove c’era Vortice sotto forma di penna. La maglietta arancione gli si era incollata alla schiena per via del sudore, la pelle luccicava leggermente per alcune goccioline, mentre gli occhi verde oceano erano persi nelle sue considerazioni. Era comprensibile, l’ultima volta che le Cacciatrici erano state qui, Bianca si era sacrificata per il bene del gruppo e Nico, il figlio di Ade, era fuggito. Era probabile che sperasse in circostanze d’incontro migliori.
Chirone ci lanciò una breve occhiata, prima di dirigersi al passo da Talia, salutandola. Con una zampa posteriore, scavava un lieve solco nel terreno, gesto che tradiva l’ansia. Un ragazzo sui diciassette anni, capelli ricci e scuri, e dagli occhi grigi, si fece avanti e si presentò.
«Io sono Alex Dahl, figlio di Odino. Siamo qui per cercare un oggetto di grande valore.»
Chirone ebbe un fremito quasi impercettibile, poi sospirò, aggiungendo una decina d’anni a quelli che già portava.
Percy, accanto a me, si sporse verso il mio orecchio e sussurrò: «È qualche divinità minore, per caso?»
«No» risposi, subito, certa che quel nome non facesse parte della cultura greca. «Odino… Odino è un dio norreno.»
Nel momento in cui lo dissi, realizzai che era impossibile. Il Campo Mezzosangue era l’unico in tutto il mondo che accoglieva semidei, perché gli Dèi Greci si erano trasferiti in America per via della sua influenza sulla cultura, Stati tra i più importanti, come lo era stata la Grecia. Quel ragazzo doveva essersi preso un colpo in testa.
«Annabeth, non credo sia il momento adatto per prenderti gioco di me» riprese Percy, ma non ci feci caso, perché Chirone parlò: «Credo che dovremmo discutere di questo in un luogo più consono. Che ne dite di entrare e-»
«Perché?» lo interruppe una ragazza del gruppo di Alex, precedendo lei stessa il giovane.
Si guardò intorno, la sua espressione si incupì, notando come tutti se ne stavano zitti e intimoriti. Si lasciò sfuggire un “oh” sussurrato.
Chirone fece strada al terzetto e, mentre faceva scomparire la sua parte equina nella sedia a rotelle, si rivolse a noi.
«Capigruppo, venite anche voi; abbiamo un bel po’ di cui parlare. Voi altri, ritornate alle vostre attività. Non c’è niente di cui preoccuparsi.»
Certo, come no. Conoscevo da troppo tempo il centauro per non accorgermi che mentiva, o che non diceva tutta la verità. Presi Percy per un braccio e lo trascinai dentro la Casa Grande, ansiosa di ricevere chiarimenti.
Perché non potevano esserci altri semidei, figli di altri dèi e dee. Non potevano non discendere dal pantheon greco. Sarebbe stato innaturale. Inoltre, se così fosse stato, si sarebbe venuto a sapere, visto che non è molto facile tenere segreti i disastri che combinano ragazzi con deficit dell’attenzione e dislessia con l’inclinazione a distruggere tutto ciò che toccano. Non si poteva certo nascondere un intero Campo.
Eppure, qualcosa mi diceva che stava accadendo proprio il contrario.
Ci accomodammo tutti nella sala che usavamo per la riunione dei capogruppo. Silena Beauregard aveva la mano intrecciata con quella di Beckendorf, come se il figlio di Efesto potesse darle la sicurezza di cui aveva bisogno. Talia mi passò una mano sulla spalla, prima di sedersi alla mia destra sul divanetto. Non era cambiata di una virgola dall’ultima volta che l’avevo vista, l’aura di immortalità la lasciava immune dai cambiamenti del tempo.
«Bene» iniziò Chirone, dopo aver contato le presenze. «Alex, potresti presentarci i tuoi compagni?»
Il ragazzo guardò il centauro, cercando di capire se stava temporeggiando o meno, e indicò un giovane ragazzo moro che aveva il naso livido, probabilmente rotto da qualcuno.
«Karen, una mia Cacciatrice» mi spiegò Talia, all’orecchio.
«Lui è Einar Larsen, figlio di Loki.»
Memorizzai l’informazione. Einar, tipo che ci provava con le ragazze, anche se erano Cacciatrici, non molto pericoloso, per il momento.
«E lei è Astrid Jensen, figlia di…» si interruppe, quasi temesse di dire qualcosa di sbagliato.
La ragazza fece una smorfia, mentre completava: «figlia di Hell. Ora, possiamo sapere perché ci guardate come se fossimo dei marziani?»
Astrid era diversa. Dal timore con cui pronunciavano il nome della madre, o del padre, si intuiva che non era la persona che cercavi se avevi bisogno di conforto o di un abbraccio.
Chirone fece un sorriso tirato.
«Venite dall’Europa, giusto?» domandò.
Alex annuì, senza smettere di scrutare il centauro. «Oslo.»
Norvegesi. La capitale del Paese, famosa soprattutto per L’Urlo, il quadro di Munch, per i fiordi e il fatto che fosse la patria di Babbo Natale. Ma io la conoscevo per un edifico, il quale si estendeva per diversi piani sottoterra, che però era ugualmente efficiente. C’erano persino degli uffici.
Chirone si passò una mano sul viso, pensoso.
«Non avevamo notizie di voi e del vostro Campo da molto tempo.»
Fu come se avesse sganciato una bomba. Venne sommerso da una marea di “cosa?!” e “come!?” e “non è possibile!” da tutte le parti. Talia era sbiancata. Percy era sconvolto, il viso dal colorito leggermente verdognolo, e guardava il centauro con aria stralunata. Invece, io trovai solo conferma ai miei timori.
Chirone spese parecchi minuti a recuperare l’ordine, nonostante fossimo tutti tesi come corde di violino. Persino ai gemelli Stoll era passata la voglia di fare scherzi. Anche ai compagni di Alex erano comparse espressioni stupite sul volto, mentre il ragazzo sembrava semplicemente preoccupato che le sue ipotesi fossero corrette. Altra persona da tenere sotto controllo; era troppo furbo e troppo intelligente per essere sottovalutato, sicuramente non era lui l’anello debole del gruppo.
«Quindi il vostro Campo Mezzosangue è un altro punto di raccolta per semidei» esordì, in fatti. «Solo che non siete norreni, ma greci, giusto?»
Aveva una pronuncia diversa, molto inusuale. Sicuramente l’inglese non era la sua prima lingua, anche se lo parlava piuttosto bene.
«Ehi, amico, voi siete gli altri che vengono da un altro Campo. Sai da quanto tempo è in piedi la civiltà greca?» lo aggredì Michael Yew, il capogruppo della Casa di Apollo.
Lessi nell’espressione di Alex una brutta risposta che, però, si costrinse a ingoiare per rivolgersi a Chirone, ignorando completamente il ragazzo.
«Potrebbe spiegarci questa storia, signore?»
«Ci farebbe molto comodo» borbottò Talia, vicino a me.
Il centauro prese un grosso sospiro e iniziò a spiegare. Parlò di come la Grecia viveva fulgida, delle divinità che furono inglobate dalla cultura romana, di come sopravvissero in quelle forme sotto l’Impero di Roma. Elencò le divinità principali a favore degli ospiti, accennando poi ai semidei più famosi e a noi capogruppo, che organizzavamo le attività delle Cabine dedicate ai figli di ogni dio o dea.
Poi, raccontò le incursioni barbariche che contribuirono in buona parte alla distruzione dell’Impero Romano e di tutte le sue provincie. Citò, allora, le divinità norrene, che erano in conflitto con quelle greco-romane e che, dopo sanguinose battaglie e numerosi caduti da entrambe le parti, decisero di isolarsi completamente una dall’altra, covando un rancore segreto per gli altri. Per questo non eravamo mai venuti a conoscenza del Campo Nord, né loro di quello Mezzosangue. Non si era nemmeno sicuri che esistesse ancora.
Ma ciò che trasparì di più dalla spiegazione, fu il profondo odio tra le due cerchie di Dèi. Sperai vivamente che Zeus non decidesse di scagliare la sua folgore sulla Casa Grande perché il figlio di un altro sovrano degli Dèi si trovava qui.
Il discorso di Chirone aveva lasciato spazio a un silenzio di riflessione. Ognuno meditava su quelle informazioni acquisite, scoccando occhiate di soppiatto ai nuovi arrivati.
«Ma voi non siete venuti qui per muoverci guerra» esordii, rompendo il silenzio e attirando diversi paia di occhi su di me. «State cercando un oggetto, e per farlo vi serve la nostra collaborazione.»
«Esatto» confermò Alex.
«Oppure, sapete della guerra contro Crono e volete rallentarci, cosicché ci trovi impreparati» replicò Miranda, della Casa di Demetra.
«Già, potreste essere qui per metterci i bastoni tra le ruote o accusarci di qualcosa che non abbiamo fatto» rincarò Clarisse.
Astrid si sporse verso di lei, poggiando i gomiti sulle ginocchia e il viso tra i pugni.
«Finora, mi sembra che stia accadendo il contrario» ribatté, ostentando calma. «Non sapete niente e giudicate a prescindere, dando per scontato che siamo dei bugiardi o peggio. Ci terrei a precisare che, per me, fino a cinque minuti fa, Crono poteva essere una nuova marca di spaghetti cinesi e non un titano.»
«Ascoltiamoli, almeno» intervenne Percy, in tono conciliante. «Se possiamo aiutarli, lo faremo e sarà finito in poco tempo.»
E bravo Testa d’Alghe, pensai, notando l’effetto che le sue parole avevano avuto sugli altri. Feci del mio meglio per nascondere un sorriso compiaciuto, sapendo quanto sarebbe sembrato stonato in quel frangente.
«Ebbene, a cosa dobbiamo la vostra visita?» domandò esplicitamente Chirone.
Alex si schiarì la voce. «Anche gli Dèi Greci hanno una loro arma prediletta, se non sbaglio, vero?»
«Come la Folgore per Zeus» disse Talia.
«Ok. Mjiolnir, il martello di Thor, è introvabile, perciò sospettiamo che sia stato rubato. Ha un GPS che ne indica la posizione che, però, ha smesso di funzionare quando segnalava la sua presenza a New York.»
«Non è mica colpa nostra se un vostro dio sbadato ha perso la sua arma» si intromise la figlia di Ares.
«Clarisse, sta’ zitta» sbottai, accorgendomi che anche Percy aveva parlato nello stesso momento per dire le stesse parole.
Desiderai scomparire, mentre un velo di rosso mi colorava le guance. Silena mi fissò per qualche istante, prima di tornare a dedicare la sua attenzione a Beckendorf.
«Grazie» riprese Alex, scoccando un’occhiataccia a Clarisse, che ricambiò. «Be’, abbiamo salvato le Cacciatrici da un gigante di ghiacc-»
«… coff aiutatocoff…» tossicchiò Talia, abbastanza forte perché tutti la sentissero.
Alex era sul punto di alzare gli occhi al cielo e mormorare una preghiera. «Va bene, aiutato a sconfiggere quel gigante e loro ci hanno portato qui, pensando che fossimo semidei greci.»
Chirone annuì più volte, senza parlare.
«È la nostra impresa, e ci terremmo a portarla a termine nel minor tempo possibile» aggiunse, ma il modo in cui pronunciò l’ultima frase non mi convinse. Non era solo per l’impresa che dovevano fare in fretta. «Una mano ci servirebbe» concluse.
«Poiché non siete venuti con intenzioni bellicose e avete aiutato le Cacciatrici, credo di potervi accordare la nostra collaborazione. Comunque, ne discuteremo questa sera al falò.» si rivolse a noi capigruppo. «Spargete la voce tra i vostri fratelli, mi raccomando. »
Uscii dalla Casa Grande dopo che Chirone invitò le Cacciatrici a ritirarsi nella casa di Artemide, le quali, a loro volta, si offrirono per tenere con loro Astrid, mentre Alex ed Einar finivano tra i figli di Ermes.
Mi diressi verso la Cabina 6, rimuginando sui miei pensieri, così da esporli meglio ai miei fratelli e sorelle. Quella sera, ero sicura che non sarebbe stata una passeggiata.

 

 

 

«Ci hanno chiesto una mano, e noi abbiamo deciso di offrirgliela…»
Una mano metallica, fatta in fretta e con alcuni bulloni sporgenti, atterrò ai piedi del figlio di Loki.
«Eccola!» gridò un figlio di Efesto, prima che Beckendorf si alzasse in piedi e ruggisse un rimprovero.
Einar la raccolse, ci giocherellò un po’ e provò a infilarsela come un guanto. Alzò le spalle, la lanciò dritta verso la casa di Ares e commentò, noncurante: «Non mi serve, tenetela pure.»
La mano sorvolò parecchi semidei, la sua traiettoria si abbassò sempre più, finché non cadde sulla testa di Clarisse con un lieve tonfo.
«Avete sentito?» esclamò qualcuno. «È lo stesso rumore che fa una scatola vuota!»
«Vieni qui se ne hai il coraggio!» sfidò la figlia di Ares, scattando in piedi, ma la botta la fece barcollare un po’. Mi affiorò un sorrisetto divertito.
Chirone batté lo zoccolo per terra tre volte, prima che lo ascoltassero. Gli occhi di Clarisse mandavano scintille più della sua lancia elettrica.
«Ci sono opinioni contrastanti, è vero, ma non possiamo negar loro aiuto. Sono convinto che sia la soluzione migliore» tentò il centauro.
«Perché non possiamo semplicemente rispedirli da dove sono venuti?» protestò un semidio dalla Casa di Apollo.
Percy si alzò in piedi e fece qualche passo in avanti. «Sono quello che, qui, di imprese ne sa di più. E posso parlare anche a nome di Annabeth, che mi ha accompagnato. Quindi, ascoltatemi.»
Prese un respiro profondo, si riavviò il cespuglio nero di capelli.
«Nessuno compie un’impresa senza un briciolo d’aiuto, che venga dagli Dèi o dai mortali. Senza Rachel, per esempio, non sarei mai uscito vivo dal Labirinto di Dedalo. C’è chi si è sacrificato per la mia salvezza o quella di un mio amico, anche senza che glielo chiedessi. Ed ehi, cavoli, quanto costerà dare una mano a questi tre? Siamo così egoisti, rancorosi e inetti come…» si morse la lingua. «Sapete a chi mi riferisco. Be’, io non lo sono. Se li aiutiamo, quando saremo noi i bisognosi, loro faranno lo stesso. Se li rifiutiamo, perdiamo. E, di questi tempi, non ci serve un’altra sconfitta.»
Il suo petto viaggiava su e giù molto velocemente, il discorso l’aveva talmente coinvolto che gli era venuto un leggero fiatone. Deglutì e si andò a sedere. Silenzio.
Mi alzai a mia volta in piedi.
«Percy ha ragione» dichiarai, decisa. «Non dobbiamo avere paura di persone e Dèi che non conosciamo, non dobbiamo essere dei codardi, non dobbiamo basarci sui pregiudizi, non dobbiamo fidarci completamente dei nostri genitori, ma crearci nuovi ricordi su cui basarci. È così difficile aiutare l’impresa di questi ragazzi? Siamo semidei, oppure no? Dov’è finito il nostro coraggio? Avanti, chi è d’accordo si alzi in piedi!»
Scrutai ansiosa i miei compagni, ma non ci fu bisogno di ulteriori discorsi per far si che molti seguissero il mio invito, trascinando i loro fratelli, finché tutti o quasi, fummo alzati. Chirone sembrava compiaciuto, mentre Alex, Astrid ed Einar avevano espressioni che andavano dallo stupore alla gratitudine.
«Così sia» concluse il centauro.
Non avevo molta voglia di rimanere ancora al falò, così mi avviai da sola verso la mia Casa. Dopo poco, sentii dei passi dietro di me. Mi voltai, mentre Percy mi faceva cenno di aspettarlo con un mano. Le sue iridi avevano una strana sfumatura al buio, come se una nuvola fosse passata sopra la superficie del mare, oscurandolo.
«Volevo solo dirti che sei stata grande, prima, Annabeth» disse, grattandosi distrattamente il collo.
«Grazie» replicai.
Passò un interminabile momento di silenzio, durante il quale nessuno dei due sembrava sul punto di parlare ancora, né voleva andarsene.
«Credo che andrò a dormire» riuscii a farmi uscire dalla bocca.
Voltai subito la schiena, dirigendomi verso la sesta Cabina. Contai i passi – uno, due, tre, quattro…-, al decimo mi girai di nuovo e chiamai: «Percy!»
«Sì?»
La sua voce era più lontana, distinguevo appena la sua figura.
«Anche tu sei stato grande.»
Nonostante le ombre e la distanza, mi parve di vederlo sorridere, mentre salutava: «Grazie. Buonanotte, Annabeth.»
«Buonanotte, Testa d’Alghe» replicai, più fievolmente.
Quando mi coricai, quella sera, per la prima volta da parecchio tempo non pensai a Luke prima di addormentarmi.

 

BUON ANNO A TUTTI!
Water è bevuta completamente, ha usato la sua poca sanità mentale per pubblicare questo capitolo ed è già molto.
Confermo! Il brindisi ha solo contribuito alla mia demenza naturale, percui, scusatemi se ci sarà qualche errore.
Qualche recensione per il 2014? Io piango se non ne ricevo :C
Peace, love and Percabeth occulta!

 

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Capitolo 7
*** PERCY • Vengo morso da un ragno extralarge ***


Vengo morso da un ragno extralarge
♠Percy♠

La mattina ci si sveglia davvero bene, soprattutto se hai appena sognato una bella ragazza dai capelli biondi che a te piace. Nello specifico, per me, queste parole facevano rima con Annabeth. Non potevo certo dimenticare che, il giorno prima, ci eravamo scambiati un complimento e lei sembrava veramente sollevate, nonostante il difficile argomento che si era posto.
Già… Un tema fin troppo scottante.
All’inizio ero cresciuto pensando che mio padre fosse un vecchio pazzo, andato per mare, sparendo completamente dalla faccia della terra, poi ti ritrovi al Campo Mezzosangue, dove scopri che tuo padre è un dio - o dea, se il genitore rimasto è un uomo- greco e fin qui, tutto a posto. Ma certo, non ci si aspettava di ritrovarsi davanti a un semidio che veniva da un altro giro di divinità che, a quel che aveva capito, aveva anche stracciato i tuoi genitori.
Dovevo ammettere che un po’ capivo gli altri. Non capita tutti i giorni di scoprire certe cose e, essendo in guerra, si era subito imposto il sospetto. Crono aveva portato dalla sua parte un sacco di semidei. E se anche loro fossero stati mandati dal Re dei Titani per spiarci?
No, non sembravano affatto agenti del nemico, ci avrei giocato la mano destra. Il problema era che, però, la fiducia mancava. Dopo che Chirone aveva spiegato il motivo della separazione tra i due campi, l’aria si era fatta tesa, e non solo in senso metaforico.
Il cielo sopra il Campo, di solito sempre terso, era, invece, occupato da una coltre di nubi tonanti e, poco lontano, sul mare anch’esso in subbuglio, un altro fronte temporalesco avanzava. Entrambi sembravano sul punto di scontrarsi, ma una sottile striscia di ciel sereno li separava, come un confine.
A quanto pare Zeus e chiunque fosse il Re degli Dèi dall’altra parte stavano mostrando i muscoli.
Pregai mio padre e mio zio di non fare pazzie; eravamo già in guerra contro Luke e i suoi. Non ci serviva un altro fronte aperto.
Uscii dalla Casa numero tre, deciso ad ignorare il cielo e concentrarmi su quello che dovevamo fare quel giorno. In primo luogo, un buon riscaldamento all’arena, poi dovevo trovarmi con Beckendorf alla baia vicina per l’esercitazione. Da tempo stavamo progettando di affondare la Principessa Andromeda e le navi abbandonate da quelle parti facevano proprio al caso nostro.
Appena uscii notai subito due fatti che mi incuriosirono parecchio: i fratelli Stoll che avevano un muso lungo che mal si addiceva al loro carattere allegro e Einar, il nuovo arrivato, che si allontanava con aria soddisfatta dalla casa di Artemide.
«Ehi, ragazzi! Come mai quelle facce?» chiesi allegramente, cercando di elargire un po’ di buon umore.
Mi resi conto di quanto dovessi sembrare stupido: con il cielo che minacciava di bombardarci e le loro espressioni, il mio sorriso era davvero fuori luogo.
La loro risposta, poi, sembrò quasi una ferita all’orgoglio: «Ci ha battuto a poker… ha sicuramente barato, ma nessuno ha capito come.»
«Cosa!?» fu la mia più che sorpresa risposta. «Chi vi ha battuto!?»
Credetemi: i figli di Ermes sono degli ottimi ladri e truffatori, se qualcuno era riuscito a metterli nel sacco, significava che qualcosa non andava.
Per tutta spiegazione mi indicarono il figlio di Loki con un cenno del capo. Il ragazzo era poco lontano dalla casa di Afrodite e aveva bloccato Silena prendendo quello che, dalla mia distanza, sembrava un pendente. Lei sembrava sconvolta e gli occhi le si erano riempiti di paura e di terrore, mentre l’altro non sembrava né preoccupato, né minaccioso. Aveva stampato in faccia un sorriso astuto, come se stesse immaginando cosa farne.
Non capivo come quel ragazzetto riuscisse a mettere in difficoltà semidei ben più esperti di lui. Più lo guardavo, più mi sembrava innocuo e mingherlino. Tuttavia non mi piaceva il modo in cui Silena lo stava guardando e decisi di intervenire, ma, appena mi avvicinai, lei fu scossa da un tremito e lanciò un urlo. Strappò di mano il pendente a Einar e scappò via, come se fossi io il mostro.
«Che le hai fatto!?» chiesi furioso.
Ospite o no, quel tipo aveva fatto del male a un mio compagno e la cosa mi faceva venire i nervi.
«Io non ho fatto nulla… è lei che ha fatto qualcosa. Se fossi in voi mi guarderei da voi stessi, invece che da noi» rispose lui, senza abbandonare quel suo sorriso allusivo.
Non si era minimamente scomposto, le mie parole, che volevano essere aggressive, non l’avevano minimante toccato, mentre le sue mi avevano lasciato spiazzato.
Non capivo se stesse cercando di ingannarmi o di darmi un consiglio spassionato. La sua espressione era così palesemente finta che era impossibile capire cosa intendesse. Era come una maschera: vedevi la sua finzione, ma non capivi cosa ci si nascondesse dietro.
Mi resi conto che forse lo stavo sottovalutando e che quel ragazzo dall’aria astuta nascondeva molte più insidie e pericoli di qualsiasi figlio di Ares.
«Se mi vuoi dire qualcosa, dimmelo subito e diretto. Non mi piacciono i giochi di parole!» sbottai sfoderando vortice, cercando di assumere un’aria più minacciosa. Dovevo capire se quel tipo voleva ingannarmi o no.
Fu allora che lui esibì un sorriso davvero strano. Per pochi istanti, mi parve che la figura di Annabeth, si sovrapponesse alla sua e una voce mi dette un ordine: «Sono un ospite, non è molto ospitale sguainare un’arma. Perché non parliamo civilmente?»
Furono parole che mi suonarono talmente dolci e soavi che non pensai nemmeno di disubbidire. Vortice tornò ad essere una normalissima penna e la riposi in tasca.
«Grazie per la collaborazione!» esclamò Einar, ridendo, mentre una Cacciatrice avanzava a grandi passi verso di lui.
Aveva il viso furioso e in mano, brandiva un mazzo di rose rosse come se fosse una clava. A quanto pare era un regalo poco gradito.
Mentre quello si allontanava di corsa, mi resi conto che era stato il figlio di Loki a darmi quell’ordine e, con una strana magia, era riuscito a convincermi ad ubbidirgli senza fiatare. Presi mentalmente nota di stare attento quando lo incontravo. Poteva rivelarsi più pericoloso di quanto sembrasse.
Lasciando la Cacciatrice a caccia del suo spasimante senza speranza, mi diressi all’arena. Da quando eravamo apertamente in guerra era la zona più affollata del campo. Anche i figli di Afrodite - che di solito snobbavano qualsiasi attività fisica per potersi dedicare a trucchi e vestiti- avevano iniziato ad allenarsi diligentemente per poter rispondere a qualsiasi attacco di mostri. Da quando avevamo ricevuto un assalto dal Labirinto di Dedalo, nessuno voleva più rischiare di trovarsi impreparato.
Quel giorno, però, sembrava che l’azione si fosse incentrata su due contendenti. Clarisse stava continuando a lanciare insulti contro Alex, il capo di quell’impresa di semidei norreni e continuava a sfidarlo, ma quello non sembrava intenzionato a farsi provocare. Continuava a eseguire mosse lente e misurante contro un manichino. Alcune volte stringeva i denti o strizzava gli occhi, ma non perdeva la pazienza. Ammirai il suo autocontrollo, dato che io, probabilmente, avrei già affogato Clarisse nel fiume più vicino.
Intorno a loro tutti gli altri semidei continuavano ad allenarsi, ma era evidente che il loro interesse non era quello di sconfiggere i manichini. Accennavano occhiate veloci ai due contendenti, come se si aspettassero che esplodessero da un momento all’altro.
«Sta giocando con il fuoco» sussurrò una voce preoccupata alle mie spalle.
E solo quel suono bastò a farmi rivoltare lo stomaco dalla felicità.
Annabeth era bella come al solito, i capelli biondi un po’ mossi le incorniciavano il viso, che attraeva il mio sguardo come una calamita. L’aria inquieta mi faceva sentire protettivo nei suoi confronti, tanto che dovetti fare uno sforzo per non dire “non preoccuparti, ci sono io.”  Sapevo che l’avrei fatta solo arrabbiare. Inoltre, sapeva benissimo difendersi da sola.
«In effetti, io non ignorerei Clarisse che mi lancia contro qualche ingiuria» concordai, cercando di sembrare tranquillo.
«Non intendevo quello. Ieri sera, ho fatto una ricerca sugli Dèi Norreni e, a quel che ho capito, sono dei tipi tosti. Odino è il Re degli Dèi ed è uno dèi cinque dei della guerra. Inoltre, è il signore della magia, degli elementi e dei cieli» spiegò lei, osservando pensierosa Alex che continuava ad allenarsi, ignorando Clarisse.
«Accidenti, sembra forte… Quali sono gli altri Dei della guerra?» domandai incuriosito. Cavolo, però. Gli Dèi Norreni dovevano essere proprio un branco parecchio litigioso, se addirittura cinque di loro si divertivano a menar le mani.
«Allora: Odino, dio della guerra, della strategia militare e della saggezza; Thor, dio dei fulmini e della guerra; Eir, comandante delle Valchirie e dea della guerra e della medicina; un certo Vir, mi sembra, che è il dio della guerra e Freyja, dea dell’amore, della passione, della guerra e della magia» elencò Annabeth con aria saputa. Mi chiesi se avesse fatto notte bianca a fare ricerche.
«Oh… accidenti, se tutti loro sovrintendono alla guerra, hanno proprio poco da fare, eh?»
Appena lo dissi un rombo tuonò tra le nubi che sovrastavano l’oceano. Calma, Odino, era un modo di dire, non volevo mica insinuare nulla. Eh.
«E Einar e Astrid? Sono figli di qualche divinità particolare?» feci, cercando di cambiare discorso.
«Allora, Hell è la dea dell’Hellehim… sarebbe una sorta di… Campo delle Pene Norreno e non è proprio il massimo della simpatia. Invece, Loki, be’… è un po’ difficile… sembra una specie di versione corrotta di Odino. È il dio della magia nera, degli inganni, delle trasgressioni e dei raggiri.»
A quella spiegazione mi tornò a mente quello che era successo prima, quando ero uscito, il modo in cui era riuscito a farmi abbassare la spada, come aveva spaventato Silena e come aveva battuto i fratelli Stoll. Forse non era così indifeso come sembrava. Forse era più pericoloso di Alex e Astrid.
Fu, però, quest’ultima a interrompere il filo dei miei pensieri. Le Cacciatrici avevano fatto il loro ingresso e la figlia di Hell si era subito spinta in difesa del suo comandante. Mi chiesi se tra i due non ci fosse qualcosa.
«Senti, piccoletta, voi siete ospiti, qui. E di certo io non intendo aiutarvi. Se i vostri Dèi sono scemi, non è colpa nostra» la rimbeccò Clarisse, acida. Era stata una dei pochi a non essersi alzata, la sera prima, al richiamo di Annabeth e questo non aveva fatto altro che aumentare il senso di antipatia che provavo per lei, anche se, ultimamente, avevamo iniziato a rispettarci.
Le due continuarono a battibeccare con aria di sfida fino a che non fu proprio Alex a porre fine al confronto.
«Ora basta. Non siamo qui per portare guai, ma se proprio non ci vuoi possiamo andarcene. Di certo non siamo venuti a farci insultare. Finitela, una buona volta.»
«Però, Clarisse ha ragione! Perché non provi ad allenarti con uno di noi? Dopotutto non c’è nulla di male a fare una… dimostrazione, no?» protestò Michael Yew, cercando di conciliare un po’ la discussione. Anche se diffidente, aveva accolto in modo abbastanza tranquillo la proposta di pace.
«E con chi?» chiese il figlio di Odino, dubbioso. «Io con lei non mi batto, la sconfiggerei subito. È troppo concentrata sul suo ego, per vedere la spada dell’avversario» aggiunse, indicando Clarisse che, appena sentite quelle parole proruppe in una raffica di imprecazioni e insulti che avrebbe fatto impallidire Zeus in persona.
«Io pensavo al migliore di noi» annunciò il figlio di Apollo prendendo fiato, come se dovesse fare un avviso importante. «Colui che ha compiuto più imprese tra noi e che ha sconfitto anche il dio della guerra» – altra serie di imprecazioni di Clarisse – «Percy, credo che tu sia l’unico in grado di dimostrare il valore degli Dèi Greci.»
Sia io che Annabeth spalancammo gli occhi e aprimmo la bocca come due stoccafissi prima di pronunciare un forte “no!” che alzò una gran quantità di polemiche e lamenti. Ci mancava solo che mi facessi ostile il Re degli Dèi Norreni, avevo già un gran numero di nemici tra gli Dèi Greci. Anche se non capivo perché Annabeth fosse contraria.
I miei compagni iniziarono subito a bombardarmi di inviti e minacce per presentarmi sul campo di battaglia e, non capivo perché, persino il mio avversario sembrava restio a farsi avanti. Nonostante le mie proteste, alla fine, non ebbi altra scelta che accettare. Così come Alex, che si fece avanti con un sospiro.
L’arena fu sgomberata e tutti, Cacciatrici comprese, presero posto sugli spalti, mentre io rimanevo al centro, con Annabeth e Talia a fianco. Anche Astrid si era trattenuta con Alex e gli stava dicendo qualcosa che non sentii. Immaginai gli stesse augurando buona fortuna.
«Stai attento, l’ho visto affrontare un gigante, non sottovalutarlo» mi raccomandò la figlia di Zeus, mentre mi mettevo l’armatura sopra la canottiera e i pantaloncini - avevo messo in un angolo la T-shirt del Campo. Ero un po’ preoccupato: non avevo idea di quanto fosse abile, ma, a quanto pareva, dovevo dar prova della mia abilità.
Sugli spalti notai che molti si scambiavano sacchetti e borselli, sicuramente stavano fioccando le scommesse. Anche Alex si stava preparando: dopo un’amichevole pacca sulle spalle ad Astrid - che si sedette al fianco di Einar-, prese dalla tasca un sasso, grande come una mano. Lo avvicinò al viso pronunciando qualcosa e, tra la sorpresa generale, apparve lì accanto un armatura.
Al contrario di quella greca, che era formata da parti di bronzo celeste che formavano a pezzo unico tutte le componenti dell’armatura, quella del figlio di Odino era in cuoio borchiato, molto più elastica, ma dall’aspetto solido. Era composta da un paio di pantaloni pesanti, protetti lateralmente da borchie metalliche. Il petto era in cuoio anch’esso protetto, gli spallacci erano due pezzi di metallo che difendevano senza intralciare troppo i movimenti.
Anche i i bracciali erano allungati e proteggevano parte della mano e l’elmo era una calotta di metallo con incorporata la montatura per proteggere gli occhi. Ai lati un paio di corna che ricordavano quelle di un toro, solo che erano piegate in avanti e non verso l’alto. Il tutto era abbastanza minaccioso.
Pregai silenziosamente mio padre di darmi un aiutino e Ares di non intralciarmi con la sua maledizione, dato che avrei voluto evitare brutte figure.
Appena ebbe finito di indossarla - provocando un certo numero di sospiri tra le figlie di Afrodite, quando mostrò il corpo ben allenato-, si voltò verso di me e si preparò, estraendo la sua spada. Iniziammo a girare in cerchio, studiandoci come due lupi prima dell’attacco. Poi, fu come se ci fossimo sincronizzati alla perfezione: ci lanciammo l’uno contro l’altro.
La prima cosa che tentai, fu un fendente di lato che Alex parò senza nessuno sforzo e fui subito costretto a difendermi dal suo contrattacco. Quando mi ritrovai a indietreggiare sotto l’impeto dei fendenti del figlio di Odino capii che, forse, non era dall’ira del dio che mi dovevo guardare, ma quella del mio avversario. Era abile, veloce e forte, le sue mosse erano bilanciate e non abbassava mai la guardia. Di mio dovetti rimanere in difesa e attaccai poche volte.
Non volevo mancare di rispetto, ma non volevo nemmeno perdere.
Decisi di cambiare tattica.
Approfittai di un momento di pausa del mio avversario e, senza quasi concentrarmi, evocai il potere dell’acqua sotto di me facendo esplodere l’arena. Fu se un enorme tappo di Champagne fosse saltato; cavalcai le onde, comandando loro di investire il mio avversario.
Per un attimo fui convinto di aver vinto, ma poi percepii qualcosa, come un blocco. Vidi l’acqua piegarsi in due parti, lasciando uno spazio asciutto che aveva come centro Alex. La sua fronte corrugata e l’espressione decisa mi fece capire che era stato lui a bloccare l’acqua, usando, probabilmente, la magia di suo padre. Ordinai mentalmente all’acqua di aumentare la propria intensità, ma era come se fosse bloccata da una diga invisibile.
Eravamo in stallo. I nostri poteri si eguagliavano… o così credevo. Avrei dovuto aspettarmi un asso nella manica, ma lo scontro mi stava spossando e, appena la mia concentrazione vacillò, lui ne approfittò: tese la mano verso le onde d’acqua e esse si gelarono. Il potere dell’acqua mi abbandonò e scivolai a terra, mentre dagli spalti si alzò un “ooh” sommesso: la sua dimostrazione di magia aveva lasciato tutti di stucco.
Non intendevo farmi battere, però. Decisi di prendere in mano la situazione e, vedendolo vacillare per lo sforzo magico compiuto, mi lanciai all’attacco. Eravamo al centro del circolo di ghiaccio che avevamo creato, ma questa volta ero io in vantaggio. Affaticato dalla magia, il figlio di Odino aveva perso l’occasione di porre fine allo scontro e io non potevo lasciarmi sfuggire quest’occasione.
Eravamo ad armi pari. Entrambi stanchi ed entrambi decisi a vincere. Continuammo a scambiarci fendenti per qualche minuto, ma fu una sensazione che provammo tutti e due: stanchezza. Ci eravamo spinti parecchio in là entrambi.
Ci fermammo, ansimando in mezzo a quel cerchio ghiacciato con il fiatone.
«Pareggio?» proposi, mentre cercavo di riprendere fiato.
«Pareggio» concordò il mio avversario, anche lui ansimante, come se avesse corso una maratona.
L’arena esplose in un applauso fragoroso: indipendentemente dal risultato, avevamo dato la dimostrazione che volevano. Qualcuno sembrò rabbuiato e Einar ritirò soddisfatto la sua vincita da Clarisse, che, costretta ad onorare il patto, gli fece un gestaccio.
Stavamo per tenderci la mano, quando la terra iniziò a tremare.
Per un attimo temetti che fosse uno scherzo di Nico di Angelo o di Ade. O forse mio padre mi voleva far notare che non avevo vinto, ma poi mi resi conto che era di peggio.
Il ghiaccio si spaccò, spargendosi ovunque, gli applausi cessarono e qualcuno scappò quando un grosso crepaccio nero si aprì nel suolo dell’arena. Ne emerse un corpo gigantesco, peloso e con otto lunghe zampe che con deliberata lentezza, fecero apparire l’orrendo muso di una bestia con due enormi chele vicino alla bocca.
La creatura mi caricò, ma prima che potesse colpirmi Alex mi gettò a terra e il ragno ci passò sopra.
«Un Ragno dell’Hellheim! Se ti morde sei morto!» mi informò il figlio di Odino, per poi tagliare una delle zampe posteriori con un fendente preciso.
Non credevo potesse esistere un essere così mostruoso. E credetemi, in quattro anni di imprese eroiche te ne trovi davanti, di mostri orrendi. Anche il grosso dei semidei greci se l’era data a gambe e i figli di Atena erano stati i primi - non c’era da sorprendersi visto che Aracne ce l’aveva ancora con loro. Solo un manipolo di combattenti era rimasto in posizione, tra i quali Michael Yew, Beckendorf, Clarisse, Talia e, sorprendentemente, anche Silena, armata di una lancia.
Mi alzai subito, affiancandomi ai miei compagni, a cui si erano aggiunti Einar e Astrid, tutti pronti a combattere.
Il ragno si impennò paurosamente, caricandoci. Non avendo idea di come combatterlo, provammo a indietreggiare, ma la figlia di Hell saltò di lato, come un torero, mentre il suo compagno moro, gli passò in mezzo urlando un: «Piacere mio, Einar!»*
Non capii molto bene cosa volesse dire, ma dovetti subito evitare una grossa zampa.
«Sei maleducato, Percy: ti stava solo tendendo la mano!» mi urlò il figlio di Loki, mentre, ridendo, continuava ad evitare le zampe del mostro.
Non mi fermai ad ascoltarlo e mi lanciai contro il mostro cercando di ferirlo al fianco… se non fosse che il suo fianco era completamente ricoperto dalle sue zampe. Inoltre, stanco per il combattimento precedente, non riuscivo a concentrarmi bene. In poco tempo ci ritrovammo tutti all’angolo.
Silena era stata colpita da una zampa del mostro e Beckendorf aveva abbandonato il campo per trascinarla al sicuro. Una trave crollata aveva investito Clarisse che giaceva svenuta. Michael aveva finito le frecce e senza più proiettili se l’era data a gambe. Talia aveva combattuto bene, ma era stata ferita e solo io e i tre norreni eravamo ancora in campo.
Mentre Astrid e Alex combattevano come due furie, attenti a non farsi mordere, Einar rimaneva indietro, parlando a vanvera. Ebbi la vaga impressione che stesse chiacchierando con il ragno.
«Attento, Testa d’Alghe!»
L’avvertimento mi arrivò appena in tempo e fu grazie ad esso che riuscii a schivare una zampata.
Annabeth era tornata, nonostante la sua paura, ma adesso era paralizzata: nel voltarsi per attaccarmi, il ragno l’aveva vista. Lei sgranò gli occhi terrorizzata e tentò ad indietreggiare, nonostante il panico.
Il mostro si lanciò su di lei e io saltai per proteggerla, cercando di ignorare la paura.
Il dolore lancinante che mi colpì alla gamba fu terribile e sentii come se il mio corpo si stesse sciogliendo.
Una freccia colpì all’occhio il mostro, che si impennò orribilmente, lasciandomi andare. Vidi Chirone galoppare verso di me, mentre Astrid, approfittando della situazione, colpì al ventre la creatura che divenne un mucchietto di neve che si sciolse al sole.
«Tutto a posto, Percy?» mi chiese Annabeth, improvvisamente ripresasi dall’attacco.
Io provai ad alzarmi e a parlare, ma le gambe mi cedettero e sentii come se fossi sul punto di vomitare. Un liquido nero e viscoso colava dalla mia gamba, mischiandosi al sangue e la ferita bruciava terribilmente. Chirone mi si affiancò con aria preoccupata e con lui Alex, che osservò inorridito la ferita.
«Dannazione, veleno dell’Hellheim» sussurrò, preoccupato.
Mi bastò il tono con cui lo disse a farmi capire che doveva essere qualcosa di davvero brutto.

*Loki è il dio creatore dei ragni, Einar, in quanto suo figlio, riesce a parlarvici.

koala's corner
Buon pomeriggio a tutti! Siamo contenti che ci abbiate lasicato tr recensioni, grazie mille :3
Mi è piaciuto molto scrivere il duello e sarei molto felice che tutti coloro che possono e seguono la storia lasciassero una recensione. Inoltre, vorrei ricordare che siamo ancora prima dello scontro finale contro Crono... sentendo i vostri pareri, potremmo decidere se di scrivere Lo Scontro Finale con i Norreni al fianco dei Greci.
Per quanto riguarda il prossimo capitolo, ci saranno parecchie sorprese *risata malvagia di gruppo* Volete tanto bene alla Percabeth, giusto? Be', c'è sempre un momento "coppia-che-scoppia". Mi tappo la bocca, altrimenti spoilero tutto^^
Speriamo che il capitolo sia piaciuto, alla prossima!

Soon on Sangue del Nord: POV Astrid, uno strano modo di salvare la gente e un altro dio fa la sua entrata in scena...
 

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Capitolo 8
*** ASTRID • Un corvo, un dio e una coppia di cibo per cani ambulanti ***


Un corvo, un dio e una coppia di cibo per cani ambulante

♦Astrid♦

Piantai la mezzaluna nella pancia del ragno, che si disintegrò, investendomi di fiocchi di neve. Scossi i capelli, togliendomela dalla testa, visto che non volevo né sembrare un albero di Natale fuori stagione, né avere delle sottospecie di budella di mostro sul mio corpo.
Ancora con le armi in pugno, mi voltai indietro verso Chirone e gli altri semidei. Incrociai lo sguardo di Alex, che mi condusse alla gamba destra di Percy. Dal polpaccio, colava viscoso il veleno del ragno dell’Hellheim, come denso punch nero. Ritrasformai le mezzelune in orecchini, che mi infilai furiosamente nei lobi, maledicendo mia madre, l’Hellheim, la sfortuna e tutto ciò che mi veniva in mente.
«Non conosco questo tipo di veleno» stava dicendo Chirone. «Come si può curare?»
Alex spostò il peso da una gamba all’altra, indeciso. «…ehm…»
«Non si può curare» intervenni io, lapidaria.
Annabeth mi guardò così intensamente che temetti di essere risucchiata in quella spirale grigia.
«Cosa vuol dire, “non si può curare”?» domandò Talia, unendosi al gruppo, stringendosi con una mano il fianco ferito.
«Vuol dire che non c’è, non esiste una cura per questo veleno» specificai, iniettando quella sentenza negativa di tutto l’odio che avevo in corpo. «Hell è molto brava a uccidere e si sente in perfetto agio con la morte, così come lo sono i suoi servitori.»
Sentii gli occhi puntati su di me. Tipico. Hell era mia madre, non ci voleva tanto a fare due più due; se lei era perfetta nei panni di dea dalla morte, lo dovevo essere anch’io, in quanto sua figlia. Mi uscii un basso ringhio dalla gola.
Levai il capo al cielo e gridai: «Grazie mille per il regalo di compleanno, mamma! Veramente, lo aspettavo per il diciassette Novembre dell’anno scorso!» Strinsi i pugni, sentendo la rabbia scavare contro il mio omero per uscire. «Vedo che ci sei sempre, quando si tratta di uccidere i miei amici!» Non soddisfatta, alzai ancora di più la voce e inveii: «Be’, vaffanculo! VAFFANCULO!»
Ero conscia degli sguardi attoniti degli altri su di me, una semidea qualunque, probabilmente pazza, che si metteva a insultare il proprio genitore divino quando c’erano ben altri problemi da affrontare. Ma me ne fregava quanto un centesimo in una fontana, e l’odio che si riversava in parolacce dalla mia bocca, scottandomi la lingua, era un balsamo che non usavo da troppo tempo.
Esplosi.
Sentii delle braccia forti stringersi attorno alle mie spalle, bloccarmi i fianchi, e seppi che era Alex perché le borchie della sua armatura mi graffiavano la pelle. Gridai, dibattendomi da quella stretta, ma senza un piano né mosse precisi. Volevo solo liberarmi di un peso, scrollarmi di dosso tutti gli insulti velati e non che avevo ricevuto, tutte le ingiustizie, tutte quelle cose una sedicenne non dovrebbe aver conosciuto in così poco tempo, tutto l’odio di cui ero capace. Non ero più una ragazza, ma una tempesta con la pelle, un ciclone trattenuto nelle ossa.
Poi, arrivò lo schiaffo. Violento, che mi fece girare la faccia e che interruppe l’eruzione in corso.
«Dannazione!» sbottò Alex. «Pensa, Astrid» aggiunse, più piano, quasi sussurrando. «Pensa.»
Non volevo pensare. Avevo pensato per tutta la mia vita, ero stanca di considerare come poteva essere interpretato ogni mio movimento, ero stufa di stare alzata la notte a ideare mosse e contromosse per prevenire ciò che sarebbe accaduto il giorno dopo. Diedi uno strattone e intravidi la libertà per una frazione di secondo, prima che Alex mi afferrasse i polsi e mi incrociasse le braccia davanti al collo, in modo che se avessi tentato di fuggire mi sarei strozzata da sola.
«Hell può uccidere, così come può decidere di non farlo» sussurrò sibillino.
Il suo fiato caldo e ansimante contro il mio orecchio mi fece tremare. Fui grata di quella posizione, quando realizzai quello che intendeva.
«Okay» mormorai con un filo di voce, arrochita per le grida.
Allentò la presa, si assicurò che non mentissi e mi lasciò andare. In un attimo, mi voltai e puntai gli occhi su Percy, steso a terra semi-svenuto. Avanzai, sapendo che avevo poco tempo, e mi fermai appena qualche istante prima di venire trafitta da un pugnale che fischiava nella mia direzione.
«Dimmi che cosa vuoi fargli» intimò, la voce controllata.
In un altro momento, avrei avuto paura. Se avesse gridato, avrei saputo che quello era il massimo di ciò che era capace. Invece, così, mi dimostrava semplicemente che poteva accadermi di molto peggio. Ma da me dipendeva una vita e non me ne importava niente delle premure della sua ragazza.
Feci una finta, come se volessi oltrepassarla, e quando lei fece sibilare il pugnale, le colpii il polso e me ne impossessai.
Rimase stupita, gli occhi color pietra sgranati, e approfittai dal suo stato di sgomento per arrivare a Percy. Mi misi a cavalcioni su di lui, tenendo il coltello alzato per mantenere Annabeth a distanza. Era bello, da vicino, anche in quelle condizioni. La fronte era imperlata di sudore e gli occhi socchiusi mostravano frammenti di sfumature uniche.
Mi chinai sul suo volto, sentendo le narici invase da un forte odore di sale, e poggiai le mie labbra sulle sue. Sentii Annabeth sussultare, ma la ignorai. Percy non era ancora abbastanza fuori gioco da tenere la lingua ferma, come credevo, perché accarezzò la mia e la strinse debolmente.
Era molto diverso dal mio primo bacio, dato più per dimostrazione che per amore, a un ragazzo tra i più carini della mia scuola. Speravo che, in quel modo, sarei stata accettata da un gruppo qualsiasi o qualcuno si sarebbe ricordato di me, ma tutto ciò che ottenni fu l’invito del preside a non molestare più alcuno studente, se non volevo cambiare un’altra scuola. Era stato breve, forzato e l’intreccio delle lingue rude, durato appena qualche secondo.
Percy aveva un modo tenero di arricciare lievemente le labbra, che faceva crescere pian piano il desiderio di un nuovo bacio, attizzando un focolare all’altezza del petto.
Ma non ero lì per spassarmela con un ragazzo, bensì per liberarlo del veleno del ragno. Entrando così in contatto con lui, potevo frugare il male che pervadeva il suo corpo e attirarlo verso il mio, dove non avrebbe fatto molti danni. Non stavo dando vita – impossibile per una figlia di Hell–, ma potevo togliere la morte. Quando una sensazione strisciante si depositò nella mia gola, mi staccai da Percy, tirandomi su di scatto.
«Ce l’hai fatta?» domandò Alex, teso.
Deglutii più volte, inghiottendo l’essenza del veleno, e risposi: «Sì.»
Mi alzai, dopo aver deposto il pugnale di Annabeth a terra, e barcollai nel scavalcare il corpo di Percy. Alzai il pollice, pronta a dire “sto bene”, quando un capogiro mi contraddisse. Crollai al suolo con l’eleganza che contraddistingue le megattere e gli gnu, atterrando dolcemente quanto un pellicano zoppo. Vidi la faccia di Alex ed Einar sfocate sopra di me.
«Ehi, dolcezza, non credevo che limonare ti stancasse tanto» mi prese in giro il figlio di Loki.
«Va’ all’Hellheim» borbottai.
«Sembri brava, però» continuò, imperterrito. «Quand’è che lo rifacciamo, noi due?»
«Einar» tuonò Alex.
Il figlio di Loki alzò le mani in segno di resa.
«Stai bene?» chiese poi, e riuscii a sentire dalla sua voce quanto i due combattimenti l’avessero stancato.
«Credo di stare per svenire» ammisi, strizzando le palpebre. «Ci pensate voi a spiegare ad Annabeth che non ho baciato il suo ragazzo per divertimento?»
«Non è il mio ragazzo!» protestò la bionda, che aveva udito solo ciò che voleva.
Anche se non potevo vederla, la immaginai stretta a Percy con la faccia rossa come un pomodoro.
«Okay» disse Alex.
«Mh-mh» mormorai, prima che gli occhi mi si chiudessero da soli. Scivolai nel buio.


 
Mi svegliai col presentimento di trovarmi in un luogo diverso da quello in cui ero addormentata. Mi sentivo le ossa molli, sciolte dalla spossatezza. Ispezionai con lo sguardo intorno, riconoscendo la stessa sala di ieri, dove si erano riuniti i capi di ogni Casa. Ero sdraiata su un divano, un cuscino ricamato dietro la testa e una coperta a toppe colorate all’altezza del grembo.
Come ci ero finita lì? Mi alzai a sedere di scatto e la protesta dei muscoli mi ricordò quello che era accaduto: il ragno dell’Hellheim, Percy ferito, io che lo salvavo, la mia serie di imprecazioni contro Hell…
«De udødelige guder*» mormorai, ripensando a quanto ero potuta sembrare ridicola in quelle circostanze. Senza contare che avevo bellamente ignorato la mia posizione nell’impresa, scavalcando e probabilmente mettendo in ridicolo Alex. Bella trovata, Astrid, complimenti, mi schernii da sola.
«Oh dritt» sospirai, lasciandomi ricadere sul divano.
Il mio occhio cadde su un bicchierone, simile al contenitore di un frullatore o di un caffè gigante, riempito fino a metà di uno strano miscuglio, sopra un tavolino all’altro capo del sofà. Mi allungai per prenderlo, e un post-it giallo fosforescente si staccò.
“Bevi quando ti svegli. Attenta a prenderne poco, altrimenti ti incenerisci. C.” lessi l’appunto, scritto con una calligrafia ordinata.
Lo accartocciai, lanciai uno sguardo scettico al bicchiere e mandai giù un sorso. Sapeva di biscotti al cioccolato, frullati con qualcosa di sconosciuto, che, però, mi stava restituendo velocemente energia. Ne bevvi un altro po’, senza esagerare, perché non volevo provare se diventavo realmente un mucchietto di cenere. Riappoggiai il bicchiere sul tavolino, mi liberai della coperta e cercai le mie scarpe. Le trovai ai piedi del divano e me le infilai, senza annodare le stringhe.
Mi affrettai ad uscire, perché più rimanevo in quell’edificio più mi sembrava che un qualche spirito verdognolo mi avrebbe aggredito. Scrutai il Campo, individuando subito il gruppo delle Cacciatrici; Alex, invece, stava osservando una partita di basket svogliatamente. Non avevo voglia di ritornare dalle ragazze, né sarei andata a farmi strigliare dal mio capo, così mi ritrovai a osservare la foresta con un certo interesse.
Ragazze super apprensive, comandante a cui devi delle spiegazioni o bosco pieno di mostri? Preferii la terza opzione.
Fiancheggiai la Casa Grande, sgattaiolando via come una ladra e, non appena fui fuori dalla vista della maggior parte di persone, me la diedi a gambe per la foresta. L’odore penetrante dei pini e il tappeto formato coi loro aghi, mi ricordò il Campo  Nord. Quando mi sembrò di essermi addentrata abbastanza, smisi di correre e cercai un luogo ospitale dove poter raccogliere le idee in pace. Scovai un grosso masso che, per via della sua forma, assomigliava a un sedile naturale. Mi sedetti, le foglie dell’albero mi solleticarono i capelli.
Mi misi in ascolto, nel caso ci fosse qualche mostro nella zona, ma tutto era tranquillo, si udiva persino il cinguettio dei passeri. Un pettirosso atterrò davanti a me, mi guardò con i suoi occhietti neri simili a biglie e, notando che non ero pericolosa, si mise a spulciare il terreno con il piccolo becco. La luce che filtrava tra gli alberi aveva una sfumatura ambrata, come oro vecchio. Osservai il pettirosso, immaginando quanto dovesse essere morbido il suo piumaggio e leggere le sue ossa.
C’era stato un tempo, quando ero ancora piccola e chiamavo ancora mio padre “papà”, in cui lui mi portava nei boschi nelle vicinanze di Oslo e mi insegnava tutto quello che sapeva su flora e fauna. Sapeva imitare perfettamente il verso delle renne e dei gufi, di cui conosceva numerose specie – della palude, comune, allocco–, e mi aveva insegnato il richiamo per la maggior parte degli uccelli di piccole dimensioni. Lo riportai alla mente e provai a riprodurre il motivo. Il pettirosso girò di scatto la testolina, aprì le ali e volò via di gran carriera.
Avrei imprecato, se qualcosa, o qualcuno, non mi si fosse schiantato addosso. Rotolai via dalla pietra, evitando di ferirmi per pura abitudine a rispondere repentinamente agli attacchi. Lui, lei o la cosa si lamentò, imprecando in una lingua che non conoscevo.
Balzai in piedi di scatto, già pronta a difendermi, quando vidi chi mi era caduto sopra. Un ragazzino da una folta zazzera nera, gli occhi dello stesso colore e l’incarnato un po’ pallido, come se non fosse esattamente in forma; indossava dei jeans strappati, a cui era legata una specie di stiletto, e un giaccone da aviatore di alcune taglie più grosso. Abbassai la guardia. Un… ragazzo di neanche quindici anni mi aveva urtato, comparendo dal nulla?
«Come hai fatto?» lo aggredii.
Lui sembrò accorgersi in quel momento che esistevo, si tolse dai capelli una foglia e si alzò in piedi, spazzolandosi i pantaloni.
«Non credo che tu sappia cosa sia, ma tanto vale provare… un viaggio d’ombra, comodo e efficiente, nella maggior parte dei casi» rispose, sottolineando l’ultima frase.
«Ovvio che sono cos’è un viaggio d’ombra, altrimenti non sarei in grado di sfruttarli» ribattei, acida. Poi, mi colpì la consapevolezza che ne ero capace solo perché ero figlia di Hell. «Grandioso, non sapevo di avere un fratello» commentai, sbuffando sonoramente.
Mi fissò, imbambolato, come un bambino che vede un cilindro magico risucchiare un coniglio bianco.
«Mia sorella è morta» disse. «E tu non sei Bianca, né un fantasma simile a lei o a mia madre.»
Mi uscii una risatina isterica. Quel ragazzino doveva essere piuttosto lento di comprendonio.
«Magari nostra madre fosse morta, mi risparmierei molte pene. Purtroppo, però, è immortale.»
«Senti» iniziò, irritato dal mio tono saccente, «non prenderti gioco di me. Chiunque tu sia, sappi che sono il figlio di Ade, che si dà il caso sia uno dei Tre Pezzi Grossi.»
Ade. Il nome mi riportò bruscamente alla realtà, così mi resi conto che, molto probabilmente, lui era il figlio della divinità greca della morte. Nello stesso istante in cui esclamai “greco”, lui realizzò “norrena!”
«Allora, le voci che circolavano tra gli spiriti erano vere…» considerò. «Percy sta bene?» domandò subito dopo, come se fosse ciò che gli premeva di più sapere.
«Sì, è stato fortunato» risposi, vedendo poi la sua espressione preoccupata dissolversi, lasciando spazio al sollievo. Mi morsi un labbro, a disagio. «Ehm… comunque, sono Astrid Jensen…»
«Grazie» mi interruppe di slancio. «So quello che hai fatto.» Mi porse la mano, un timido sorriso a incurvargli le labbra. «Io sono Nico, Nico di Angelo.»
Gliela strinsi, ma non feci in tempo a dire “molto piacere”, perché un grido rauco risuonò per la foresta. Nico guardò in alto, tendendo le orecchie.
«Questo non è God save the Queen?» chiese, frastornato.
«Ah-ah» ammisi, sollevando anch’io lo sguardo.
Dalla pronuncia, il ritornello sembrava cantare “God shaves the Queen”. Mi domandai se la regina avesse della barba, nel caso un dio la radesse. Il grido si intensificò, quando un corvo più grosso del normale sorvolò la zona del bosco dove ci trovavamo. Se gli occhi non mi ingannavano, al collo portava una sciarpa con la bandiera dell’Inghilterra. Sembrava che uno dei miei incubi si realizzasse. Afferrai Nico per il polso e incitai: «Forza, seguiamolo!»
Il ragazzo, preso in contropiede, quasi inciampò, quando me lo tirai dietro.
«Perché?» urlò, ma il fiato non gli bastò per ripetere di nuovo la domanda.
Seguii quella che doveva essere una melodia, correndo per la foresta e per il Campo, intimando di spostarsi ai semidei imbambolati a guardare il corvo. Nico ansimò qualcosa come un “ti prego, finiamola di correre”, ma non gli badai. Raggiunsi il campetto da basket, dove l’uccello si era posato ubbidiente sulla spalla di Alex. Il moro mi lanciò un’occhiata interrogativa, cui risposi indicando il suo amico alato.
«Stavo inseguendo il pennuto» spiegai, a corto di fiato.
Il corvo si girò nella mia direzione e gracchiò qualcosa che mi stordì le orecchie.
«Hugin non è contento che lo si chiami “pennuto”, Astrid» chiarì Alex, accarezzando teneramente un punto dietro il collo dell’animale, nonché uno dei due accompagnatori di suo padre, Odino.
Si mise a conversare col corvo come se fosse del tutto normale, attirando attorno a sé vari gruppi di semidei incuriositi. Più guardavo la sciarpa rossa, bianca e blu di Hugin, più dovevo trattenermi dallo scoppiare a ridere. Sapevo che in Inghilterra ci fossero numerosi castelli presi d’assalto da questi uccelli, ma non sospettavo che anche quelli di Odino fossero degli anglofoni.
«Buone notizie, più o meno» annunciò, quando ebbe finito di chiacchierare col corvo. «Hugin dice che Loki è a New York. Potremmo andare da lui…» L’uccello gracchiò qualcosa nel suo orecchio, arruffando tutte le piume. «Va bene, va bene, Hugin suggerisce che potremmo andare da lui. Non può essere venuto in America in vacanza, visti i trascorsi burrascosi.»
«Il corvo ti ha detto tutto quello?» chiese uno dei fratelli Stoll.
Alex annuì. Il ragazzo fischiò, ammirato. «Sei una forza, pennuto! God shaves the Queen, eh? Sai cantare qualcos’altro?»
Hugin emise uno strano verso, si staccò dalla spalla di Alex e volteggiò sopra la testa di Stoll. Ci mancò poco che la cacca gli cadesse proprio in mezzo al capo, invece che imbrattargli le scarpe. Connor – o Travis– scoppiò a ridere, ma si dovette guardare dall’ira di Hugin, che gli mollò un peto in faccia. I due fratelli scapparono, difendendosi dai suoi artigli con le braccia. Stavo sorridendo talmente tanto che mi facevano male le labbra, nel tentativo di contenere la risata. Non era certo un gran cantante, ma si sapeva far rispettare.
«Vado a cercare Einar, tu occupati informare Percy e Annabeth» bofonchiò Alex, paurosamente sul rischio di scoppiare a ridere e rotolarsi per terra per il divertimento, come un figlio di Ares stava facendo.
Mi diressi alla Casa di Atena, con Nico che mi trotterellava dietro come un cucciolo. Bussai alla porta un paio di volte, poi aspettai che qualcuno aprisse. Comparve la bionda in persona, in mano un pc portatile. Mi squadrò dall’alto in basso.
«Che c’è?» domandò, con aria palesemente scocciata. «Sto lavorando.»
Pensavo che avendo salvato la vita al suo quasi-ragazzo, mi avrebbe ringraziato o mi sarebbe stata debitrice, invece sembrava vogliosa di tornare dentro e prendere un qualche pesticida per eliminarmi come le zanzare.
«Abbiamo una traccia, pensavamo che anche tu e Percy voleste partecipare» spiegai.
Annabeth mi chiuse la porta in faccia. Mi girai verso Nico, che mi alzò le spalle, confuso. La figlia di Atena riaprì poco dopo, il pugnale ben visibile alla cintura e un berretto arancione in mano.
«Vado ad avvisare io Percy» sentenziò, allontanandosi verso la Casa Tre.
«E che cavolo» brontolai. «Neanche un grazie.»
«Credo che la secchi il fatto di non aver avuto lei la soluzione per salvare Percy» osservò Nico. «Non me lo spiegherei, altrimenti.»
«Menomale che sua madre è la dea della ragione» commentai, tornando sui miei passi.
«E della guerra» aggiunse il ragazzo.
«Allegria» esclamai, sarcastica.
Scossi la testa. Erano a malapena trascorsi due giorni e già mi ero fatta una nemica imprevista. Nico propose di andare ad aspettare gli altri alla Casa Grande, cercando di spiegarmi che Annabeth non faceva quasi mai così, che era tutta una questione legata al controllo e alla sua famiglia, e altre scuse per addolcire il fatto che mi detestasse. Alex ed Einar si aggregarono, incontrandoci a metà strada, seguiti anche da Chirone. Il suo manto bianco risplendeva alla luce del Sole, circondando la sua parte equina da un’aura surreale.
«Nico!» esclamò, e batté una pacca sulla spalla al ragazzo. Lo presentò a tutti, felice che si fosse fatto vivo, e procedette con le classiche domande da genitore premuroso. Se Hermdor, al Campo Nord, fosse così morbido, sarebbe tutto di un’altra pasta. Annabeth e Percy arrivarono poco dopo, la bionda che sembrava essersi sciolta un po’ solo in presenza del ragazzo, anche se non mancò di riservarmi uno sguardo gelido.
Se non fossi una figlia di Hell, che domina su una landa desolata, fredda e battuta dalle piogge, probabilmente sarei diventata una scultura di ghiaccio a grandezza naturale da esporre a un matrimonio. Percy mi si avvicinò, sfoggiando un radiante sorriso a trentadue denti, che lo rendeva bello da mozzare il fiato. Il cuore accelerò i battiti, ripensando al bacio che gli avevo dato.
All’improvviso, mi sembrava impossibile che mi fosse capitato di farlo con un figo così maledettamente attraente. Mi imposi di essere naturale, anche se dubitavo di riuscirci. I miei rapporti con i ragazzi erano stati un disastro dopo l’altro, con l’unica eccezione di Alex, e in gran parte per colpa mia.
«Ehi, Astrid» salutò, senza smettere di sorridere. «Grazie per avermi… ehm, salvato la vita. Credo di essere in debito con te.»
«No, ma figurati» ribattei, la voce più acuta di quello che volevo. Dannazione. Prossima fase: farfugliare frasi senza senso. «Lo farei tutti i giorni. Cioè, non il fatto del bacio, il salvarti la vita, si intende. Non che tu non sia abbastanza bello per essere baciato ogni giorno, perché lo sei, anche molto, però io… ah! Sai quello a cui mi riferisco, basta.»
Percy rise, mentre Annabeth sogghignava ed Einar si stava scompisciando al fianco di Alex. Mi sporsi verso di lui e gli tirai un calcio negli stinchi. Sentivo la faccia andare a fuoco e avrei tanto voluto un estintore.
«Non dovevamo andare?» feci io, sbrigativa. Non sopportavo quegli occhi su di me. «Forza!» sbraitai, separandomi dal gruppo a grandi falcate.
Avrei tanto gradito l’aiuto di Freyja in quel momento, però, come sempre, lei era assente in ogni situazione in cui mi serviva quel genere di spinta.
Ignorai gli altri per un bel pezzo, finché non rischiai di perdermi tra la folla, arrivati in città. Con i mezzi pubblici, la strada era molto più breve rispetto all’andata, che avevo fatto a piedi. Hugin non aveva riferito un punto preciso riguardo a dove si trovava Loki, aveva solo indicato l’area attorno alla down town, il quartiere degli affari.
«Be’, visto che siamo qui, perché non ci prendiamo qualcosa?» propose Percy, già progettando ciò che avrebbe messo sotto i denti.
Nessuno si oppose, così seguimmo il ragazzo e Annabeth tra gli isolati, sgusciando tra le ondate di persone che si affrettavano per strada. Percy si improvvisò guida turistica, indicandoci i posti dove andare, quelli da assolutamente non provare e coinvolse la bionda, che probabilmente si era studiata a memoria la pagina di Wikipedia di ogni monumento esistente.
«Oh, eccoci!» esclamò, fermandosi all’improvviso a pochi passi da un caffè.
Si fece da parte, mostrando con una mano, come uno showman, il cartello: Starbucks. Spostai lo sguardo dall’insegna verde all’entrata, e la mia attenzione fu subito attirata da un uomo appoggiato al muro.
Era alto, le gambe slanciate e la vita stretta, le spalle più larghe; la clavicola formava una lieve curva, mostrando la pelle chiarissima, quasi non fosse mai colpita dai raggi della luce. I capelli erano spaghetti neri che gli ricadevano ribelli sul viso, abbastanza lunghi da poterli legare in una piccola coda da cavallo, e sembravano fatti apposta per evidenziare gli occhi, di un colore che passava dal blu più intenso al verde-acqua, senza la possibilità di distinguerne la tonalità precisa. Indossava jeans strappati sulle ginocchia, una maglietta nera piuttosto attillata e stivaletti di pelle dall’aria rock.
Aveva un modo sensuale di succhiare il frullato dalla cannuccia, e le sue labbra sembravano morbide come i petali di un fiore. Si girò verso di noi, attirato dalla stessa forza che aveva attratto me, e si illuminò completamente.
Si mise in mostra, sventolò una mano e chiamò: «Einar! Oh, non pensavo di trovarti qui, figliolo!»
Un momento… quello era Loki?
 
 
«Per Odino, ragazzi, queste magliette arancioni sono così orribili che non le indosserebbe nemmeno un’arancia!»
Nessuno accennò al fatto che le arance non si vestono, tantomeno con delle T-Shirts.
«A me piace» bofonchiò Percy, succhiando il Frappuccino che gli aveva offerto il dio.
Quest’ultimo fece una smorfia, prese un sorso della sua bevanda e si rivolse ad Annabeth.
«Cara, perché non sorridi un po’?» Gliene si dipinse uno sul volto identico a quello di Einar. «Non vuoi assomigliare a una statua di gesso, vero? Altrimenti, potresti chiamare quella tizia dai capelli di serpente della vostra mitologia… Medusa, mi sembra.»
«Sì, Medusa» confermò Annabeth, che non aveva toccato nulla di ciò che le aveva offerto Loki.
«Già, che creatura orribile e attraente al tempo stesso» commentò il dio, gesticolando con le dita mimando le vipere. «E dov’è?»
«Le ho tagliato la testa qualche anno fa» rispose Percy, scrollando le spalle.
Avevo l’impressione che gli piacesse Loki, probabilmente i trascorsi con le divinità greche non erano state delle migliori. «Oh, peccato, ne faremo a meno» fece l’altro, muovendo la mano in un gesto non curante. Spostò la sedia accanto ad Annabeth, catturò la sua attenzione e ordinò: «Sorridi, avanti.»
La ragazza si schiuse in un aperto e radioso sorriso, accontentando Loki, che tirò fuori un IPhone, si accostò a lei e fece una foto. Giocherellò con l’applicazione, gli occhi che gli brillavano e le dita sottili da pianista che toccavano in giro, armeggiando con gli effetti, finché non fu soddisfatto e decretò: «Carina. Va su Instagram
Mi trattenni dal chiedergli perché mai avesse Instagram, se si era iscritto pure Tumblr, Facebook e Twitter, e che cosa se ne facesse. Ipotizzai che la risposta alla prima domanda fosse sì. Mosse il polso e disse, sbadatamente: «Ritorna musona.»
Annabeth sembrò svegliarsi all’improvviso, si guardò intorno, confusa, e si toccò la faccia.
«Ok, ora che ha fatto, potrebbe ascoltar-» provò Alex, calmo, ma Loki lo ignorò.
«Papà…» tentò allora Einar, ma il padre si voltò verso Nico, studiandolo attentamente.
«Tu sì che mi piaci.» Il ragazzino rabbrividì da capo a piedi. «Avanti, spiegami perché mi stavate cercando.»
«Ci chiedevamo se lei sapesse qualcosa sul GPS del martello di Thor» rispose Nico a comando.
Loki fece una smorfia. «Ovvio che so qualcosa del giocattolino di Thor, non fa che rompere.»
Mimò il dio mentre si lamentava, facendo parlare la sua mano destra con un vocione e quella sinistra, che rappresentava lui e le altre divinità, con pigolii vari.
«Altro?» indagò.
Dalla bocca di Nico uscirono le informazioni precise. Loki roteò gli occhi.
«Può aiutarci?» azzardò Alex.
«Sì» rispose.
Spalancai gli occhi. Da quando un dio era così mansueto? C’era qualcosa sotto. Si impose il silenzio.
«Allora?» incalzò Alex, allargando le braccia.
«Uh?» Loki alzò un sopracciglio. «Ho detto che posso, non che voglio, figlio di Odino. È diverso.»
«Vuole aiutarci?» ripose la domanda, sbuffando.
Loki alzò l’indice, ci pensò su e, con un movimento che coinvolse testa e labbra, disse: «No.»
«Però, papà, a noi serve la tua mano…»
Il dio si alzò in piedi di scatto, assumendo un’aria tra l’offesa e l’irata. «Non usare i tuoi poteri illusori su tuo padre, Einar» lo fulminò sia con la voce che con gli occhi. «Se proprio non avete niente da cui partire, avrei un indirizzo.»
«Va bene!» accettammo immediatamente.
Loki scarabocchiò sullo scontrino il numero civico e il nome di un locale, usando una penna che si era sfilato dai pantaloni. Appoggiò il suo frullato sul tavolino attorno al quel ci eravamo riuniti e annunciò: «Io vado.»
Si frugò nei jeans, sfilando una mascherina igienica. «Se fossi in voi, mi munirei di queste.» E si allontanò.
Ci scambiammo uno sguardo confuso, tutti turbati da quell’incontro. Ci alzammo all’unisono, Annabeth agguantò lo scontrino e lesse l’indirizzo, che indicava un qualche bar nel Bronx. Prendemmo la metropolitana, truffando i controllori grazie ad Einar, visto che eravamo senza soldi e biglietti. Ci orientammo usando lo scontrino, camminando in uno dei quartieri di New York meno raccomandabili. Fu Alex a scovare il locale. Un’insegna, in legno, riportava la scritta a grossi caratteri ALL’ORCO NERO. Come premessa, non mi piaceva per nulla. Nonostante questo, entrammo.
La prima cosa che si notò, fu la puzza di stantio, fango e qualcosa che il mio naso non voleva identificare. Mi portai una mano al viso, nel tentativo di non respirare quell’aria fetida. Nico aveva un colorito verdognolo, Annabeth cercava di controllare il bisogno di vomitare. Non c’erano che poche luci soffuse, che illuminavano una pista da ballo e un bancone, riflettendosi su una moltitudine impressionante di alcolici e liquori.
Alex si diresse là, appoggiando le braccia sul legno e batté due volte un pugno. Si udì un fruscio di tende, ed uscì la donna più brutta e puzzolente che avessi mai avuto l’occasione di incontrare. Era così grassa che la ciccia formava un triplo mento, la pelle dallo strano colore grigio-verde muschio era spessa, ruvida e screpolata come quella di un elefante.
Aveva due occhietti neri infossati e una bocca dalle labbra troppo rosso e grosse, come se avesse fatto un intervento chirurgico andato male. Con la sua imponente mole, si piazzò davanti ad Alex, che impallidì. Assomigliava a un leone marino.
«Cosa desideri?» domandò, con un insolito accento russo.
«Niente, solo…» rifiutò il ragazzo, ma la donna-che-forse-non-era-poi-tanto-una-donna decise al posto suo: «Uno stivaletto di birra nera.»
«Veramente…»
«Birra piccola per tutti gli altri, va bene, sì sì.»
Fummo costretti a sederci al bancone. Scambiai un’occhiata inquieta con Alex, che sembrava fin troppo turbato dalla donna.
«Clienti?» grugnì una voce, e presto comparve un uomo con la barba divisa in due trecce, altrettanto brutto. Annusò l’aria, spostando il suo grugno da ognuno su ognuno di noi, inspirando per bene il nostro odore.
«Semidei» intuì. «Il tuo olfatto da schifo» si rivolse alla donna. «Che ci fate qui?»
«Ci manda Loki» disse Percy. «Riguardo al martello di Thor. Sai qualcosa?»
«Birra!» annunciò l’elefantessa, spingendo davanti a ognuno di noi un bicchiere talmente alto che superava la mia testa.
«E se anche fosse? Da quando greci e norreni vanno d’accordo?» chiese l’uomo barbuto.
«Non importa» replicai io, raccogliendo le briciole del mio coraggio.
L’uomo rise. Si chinò su di me, inghiottendomi nel suo grasso, le sue unghie nere tamburellavano sul legno. «Davvero?»
Venni investita dal tanfo che emanava, dandomi l’idea che un enorme blob di cibo per cani in scatola volesse dare qualche contributo di vitamine al resto.
«Non importa che tu sei una figlia di Hell, e che una figlia di Hell ha portato il GPS al Campo Mezzosangue?»

 
*Dèi immortali
koala's corner.
Buonasera a tutti! Eravate curiosi di sapere la sorte della Percabeth e, be', c'è stato solo un bacio. 
"Solo un bacio". Ceh, io mi sono troppo divertita a scrivere quella scena è.é Tutte le scene Percy/Astrid le ho immaginate su un tono amichevole, esilarante, lievemente sentimentale perché damn, Percy's so hot, chi non lo noterebbe?
Ti prego -.-"
U.U This is my chapter, baby. Comunque, Annabeth è gelosa! Più o meno, ma mi stuzzica molto la sua immagine in questi canoni. Uuuh e poi c'è Nico! *---* Chi è che non ama il figlio di Ade? Chi, mh?! Ed è preoccupato, molto preoccupato per Percy. Ah-ah, Pernico forevah
Sei spaventosa, i tuoi scleri non attirano lettori!
But who cares? Sicuramente sono più carini dei due orchi, che fanno la rivelazione dell'anno: una figlia di Hell è implicata nel furto del martello. Tan-tan-taaaaaan (?) I'm so goingout today lol Loki è restio a condividere informazioni, che ci sia dentro anche lui? Oppure è troppo impegnato a postare foto con Annabeth? Per quanto riguarda il dio, me lo immagino come un incrocio tra Tremotino di Once Upon a Time e Tom Hiddleston in Thor, che tra l'altro è Loki
*-* Spero che vi sia piaciuto come l'ho interpretato, così come la parte inziale molto Alrid. Ma l'avete voluta voi. Eh.
Io mi sono divertito a leggere questo capitolo, e il prossimo riserverà altra azione (:
Speriamo che volgiate dirci cosa ne pensate, tanti figli di nome Nico alla prossima!


 
 

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Capitolo 9
*** ALEX • La mia viverna fa una cena a base di orchi ***


La mia viverna fa una cena a base di orchi

•Alex•

Ero talmente sorpreso che il boccale che avevo in mano cadde sul pavimento con un tonfo sordo, mentre i miei occhi si riducevano a due fessure e mi si spalancava la bocca. Non potevo credere che ci fosse un semidio dietro ad un furto del genere e che fosse proprio Astrid. La conoscevo bene e non sarebbe mai stata capace di una cosa del genere.
«N-non… non è vero… io non avrei mai fatto una cosa di questo tipo!» urlò lei, indietreggiando.
I suoi occhi erano diventati lucidi e ci guardava smarrita. Potei solo intuire che stesse cercando il nostro appoggio.
«Non è vero! Menti, orco, lo so. Come fai a sapere tutto questo!?» ringhiai, battendo la mano sul bancone.
L’orco sorrise, mostrando tutti i denti neri e rotti, mentre una zaffata di alito putrescente mi arrivava in faccia.
«Perché una figlia di Hell fece sosta qui, qualche giorno fa e, a giudicare dalla sacca che portava con sé, era qualcosa di pesante. Attento a chi ti porti dietro, figlio di Odino, Loki e i suoi discendenti non sono tipi raccomandabili. Sicuro di poterti fidare?» mi chiese con un sorriso crudele.
Io cercai di mantenere la calma. Non potevo lasciare che la paura mi sopraffacesse. Mi guardai intorno, in cerca di altro appoggio, ma non lo trovai. Einar era troppo impegnato a farsi gli affari suoi, come al solito e Annabeth non sembrava essere molto entusiasta di aiutare Astrid – e una parte di me mi fece intuire che, in parte, era a causa del salvataggio di Percy. Solo il figlio di Poseidone sembrava vagamente convinto del contrario, ma, forse per alcuni sospetti ancora sopiti, non si fece avanti.
«Io mi fido di lei!» sentenziai infine, guardando l’orco dritto negli occhi.
«Capisco… Che sia la scelta sbagliata o no a me non importa. Sono felice che tu mi abbia portato i due greci. La ragazza mi aveva chiesto qualche favore, sembra ce l’abbia con il figlio di Poseidone» rispose quello con aria annoiata.
Fu allora che, quasi senza preavviso, dall’ingresso apparvero due orchi armati di scuri, così come dal retro. Fu uno scatto simultaneo e ci alzammo tutti, impugnando le nostre armi, rendendoci conto che ci trovavamo in mezzo ad una trappola. Certo, mi ero preparato, sapendo che ci stavamo ficcando in una tana di orchi, ma rischiavamo parecchio.
«Che vuoi dire? Perché ce l’ha con me!?» chiese Percy, mentre puntava Vortice contro il mostro più vicino.
«Oh, quindi non sai che la tua mammina è in pericolo? La figlia di Hell ci ha detto che dovevamo ucciderla per far ricadere la colpa sui norreni» rise il capo delle creature, tirando fuori, da sotto il balcone, un grosso spadone.
A quelle parole i suoi occhi si spalancarono per la rabbia e la paura e si lanciò all’attacco, senza attenderci.
Si scatenò il finimondo. Gli orchi ci attaccarono tutti insieme, ma, pur essendo inferiori di numero, riuscivamo a farci valere. Nico e Einar si tenevano più in disparte di altri, ma ci guardavano le spalle, evitando gli attacchi a sorpresa. Io e Percy menavamo fendenti in tutte le direzioni, parando ed evitando colpi che, se ci avessero beccato, avrebbero potuto tagliarci in due. Astrid era accanto a me e mi teneva al riparo dagli attacchi laterali, mentre Annabeth faceva fuori gli orchi a coltellate.
Alla fine rimase solo il capo degli orchi, che ringhiava furioso, e due suoi colleghi, armati di asce bipenni e una decina di mucchietti di neve sparpagliati ovunque.
«Uccidete quei semidei, idioti! Non possono essere così forti!» sbraitò l’orco più grosso, sputacchiando dappertutto.
I suoi sottoposti non sembrarono particolarmente entusiasti di farlo, ma eseguirono comunque l’ordine, lanciandosi contro di noi. Nico brandì abilmente la spada trafiggendo il primo con precisione. Percy mi volò a fianco tagliando la testa al secondo. Era rimasto solo il capo che, con una forza disumana, brandì una nuova arma contro di noi.
I miei amici si spostarono e io mi abbassai, rotolando sotto la catena della mazza fino a trovarmi davanti la vita dell’orco. Prima che quello potesse reagire, la mia lama lo aveva già trafitto da parte a parte riducendolo in una nuvoletta di fiocchi di neve che si sparpagliarono per terra. Eravamo tutti esausti, ma non c’era tempo da perdere. Dovevamo evitare una guerra tra il campo Nord e il Campo Mezzosangue.
«Presto, dobbiamo muoverci! Percy, dobbiamo raggiungere tua madre prima che venga coinvolta! Einar, Astrid, voi occupatevi della runa di localizzazione. Se ho capito bene è al Campo da qualche parte» ordinai io, dopo essermi fermato un minuto a prendere fiato.
Dovevamo muoverci insieme e velocemente.
«D’accordo, ma perché attaccare mia madre? È una mortale, non c’entra nulla, in questa guerra!» protestò Percy, evidentemente in apprensione.
Lo capivo bene: anche io avevo dovuto sopportare il fatto di sentirmi responsabile della vita di mia madre e non era bello.
«Credo sia per far ricadere la colpa su di noi» ipotizzai, riferendomi a “noi” nel senso di norreni. «Un modo per dare inizio ad una faida tra me e te, spingendo, poi, gli Dèi delle rispettive parti a vendicare i figli morti.»
«Un piano degno di mio padre, non c’è che dire» fu il sarcastico commento di Einar, che continuava ad essere il primo della lista a cui dare un pugno in faccia.
Tuttavia aveva ragione: Loki era un tipo di cui non fidarsi, ma allora, perché portarci qui, proprio per sventare il suo stesso piano?
«Che importa? Mia mamma è in pericolo! Dobbiamo fare qualcosa!» esclamò Percy, alzandosi in piedi con aria decisa.
Il timore di perdere la madre lo rendeva nervoso e non voleva sprecare tempo.
«Appunto. Sai dove può essere, in questo momento?» chiesi, cercando di non innervosirlo ulteriormente.
«Be’… io… credo sia nella nostra casa al mare» rifletté ad alta voce. «Voleva invitare me e il mio patrigno mortale lì, in modo da poterci far conoscere meglio» aggiunse, arrossendo leggermente. A quanto pareva aveva ancora qualche problema ad abituarsi all’idea del padrino.
«Allora, muoviamoci. Nico, meglio se vieni anche tu, avremo bisogno di tutto l’aiuto possibile» dissi, cercando di elaborare alle svelta un piano.
«Un momento, e noi?» domandò la figlia di Atena, un po’ sorpresa e un po’ arrabbiata. A quanto pareva la batosta sentimentale l’aveva resa ancora più fredda e marmorea di prima.
«Andate al Campo. L’orco ha detto che la Runa GPS si trova lì, meglio recuperarla, prima che il colpevole ci metta di nuovo le mani sopra per farla sparire» fu il consiglio di Einar, che mi sorprese con quella affermazione così collaborativa.
Senza indugio, ci precipitammo fuori e corremmo verso la metropolitana, tendo le nostre armi a portata di mano in caso ci avessero nuovamente attaccati. Arrivati alla stazione, decidemmo di dividerci: io, Percy e Nico saremo andati a caccia di orchi, mentre gli altri avrebbero cercato il GPS prima che potessero farlo sparire.
«Aspettate!»
Mi voltai appena in tempo per poter vedere Astrid che camminava verso di noi. Era molto vicina e sembrava imbarazzata e triste. Osservandola, notai che aveva gli occhi lucidi.
«Io… lo so che, forse, non mi credete. Sono una figlia di Hell e so di non essere la persona di cui vi fidereste, ma io non c’entro in questa storia. Alex, io non avrei mai messo in pericolo Asgard e il campo, devi credermi. Io non ho idea di chi sia stato, ma di sicuro non io. Lo giuro sull’Isola di Foreseti»*
Le sue parole mi colpirono. Le avevo dato davvero l’idea di non fidarmi di lei? Mi tornò subito in mente il giorno in cui ci incontrammo la prima volta. Avevo appena tredici anni e lei era arrivata al Campo che ne aveva dodici.
Era stanca, infreddolita e sorpresa e si teneva vicina a Darain, l’elfo che le era stato guardiano. Era stata assegnata all’Orda del Drago e io mi avvicinai subito a lei, salutandola. Lei aveva risposto con un leggero cenno del capo, ma non mi ero scoraggiato. Fui incaricato di farle da guida, così toccò a me farle fare il giro base del campo. Fu una bella camminata e lei fu attenta. Man mano che avanzavamo, mi sommergeva di domande e io fui felice di risponderle. Alla fine ci sedemmo e io le raccontai la mia storia.
Non fu un problema, per lei, sapere che ero figlio di Odino, così mi affezionai a lei. Non potevo credere che adesso dubitasse di me. Le misi le mani sulle spalle e la scossi dolcemente, in modo che mi guardasse in viso, sembrava in attesa del mio giudizio.
«Lo so che non c’entri. Abbiamo passato tutta la nostra vita al Campo insieme. Non mi fiderei di nessuno se non di te. Scopriremo la verità e faremo in modo che tu sia scagionata. Sono certo che c’è una spiegazione» dissi, cercando di rassicurarla.
Lei mi sorrise, evidentemente sollevata e si asciugò le lacrime, ringraziandomi.
«Ehi! Noi dovremmo andare, piccioncini!» ci richiamò Einar, con un sorrisetto allusivo stampato in faccia. Annotai mentalmente, tra le mie cose da fare, di rompergli – di nuovo- il naso non appena si fosse rimarginato. Arrossii di colpo e mi staccai da lei, le cui guance si erano imporporate notevolmente.
Augurai buona fortuna e mi mossi rapido verso la fermata degli autobus vicina, dove, guidati da Percy, prendemmo un autobus.
«Che facciamo? Gli orchi oseranno davvero attaccare una mortale nel territorio olimpico?» chiese Nico, leggermente preoccupato.
«Se la colpa non ricade su di loro, temo proprio di sì. Sono creature immonde e orribili che adorano portare sofferenza e distruggere tutto. Dobbiamo prepararci: sono molto forti» spiegai, mentre mi rigiravo la spada tra le mani.
Dopo un po’, l’autobus ci lasciò in una spiaggia vicino a Long Island, nemmeno così lontano dal Campo Mezzosangue. La zona era deserta, ma Percy ci guidò sicuro lungo una stradina di mare che sembrava conoscere bene.
Alla fine,  ci ritrovammo sul mare e poco lontano, una piccola casa di legno, leggermente rovinata e incrostata di muschio e alghe.
«Ci siamo!» esclamò il figlio del mare, precipitandosi verso la casetta, insieme a Nico.
Io mi guardai intorno. Non c’era traccia di orchi e la zona sembrava deserta. Ipotizzai che li avessimo preceduti, ma presto sarebbero arrivati. Dallo zaino, presi due rune e le posai per terra, lungo il viale sterrato. Se un orco fosse passato di lì sarebbero esplose, facendo un bell’arrosto. Mi assicurai che fossero ben nascoste sotto la sabbia, dopodiché corsi anche io verso la casa.
Percy bussò rapidamente, ma ad aprire fu una ragazza dai capelli rossi che ci guardò sorpresa, anche se sembrava felice di vedere il signor “faccio stragi di semidee”. Aveva dei pantaloncini in jeans tutti scarabocchiati e tinti di vernice. La maglietta era bianca e leggera, adatta per il mare, ma anche quella era stata abbellita in maniera del tutto personale.
«Ciao, Percy, come mai da queste parti?»
«Rachel? Che ci fai tu qui?» domandò il ragazzo, arrossendo di colpo.
Dal sorrisetto che si stampò sulle labbra di Nico dedussi che lei era un’altra spasimante.
«Sto dando una mano a tua madre. Avevo bisogno di stare un po’ da sola, lei mi ha offerto di aiutarla, per potermene, poi, stare in pace sulla spiaggia» spiegò lei, stringendosi le spalle, mentre Percy entrava di filata.
«Dov’è mia mamma?»
«È uscita un attimo, aveva bisogno di prendere un po’ d’aria» rispose Rachel, preoccupata. «Che succede? Perché mi sembra di non aver mai visto il tuo compagno» aggiunse, osservandomi.
«Di un po’, la tua amica mortale sa dei mezzosangue?» chiesi, sorpreso.
Vero, c’erano dei mortali che sapevano di Asgard, ma erano pochissimi, scelti attentamente ed era tutti genitori di semidei.
«Non c’è tempo, Rachel! Dov’è!? Dov’è andata? È in pericolo!» esclamò il figlio di Poseidone, afferrandola per le spalle.
Si vedeva la preoccupazione nei suoi occhi.
«Io… è andata in spiaggia.»
Non aveva nemmeno finito di parlare che già il ragazzo si era precipitato fuori di corsa, diretto verso la sabbia fresca, chiamando a gran voce la madre.
«Mi spiegate che diavolo sta succedendo?» domandò Rachel, preoccupata.
Era, evidentemente, la prima volta che vedeva il suo amico così agitato.
Stavo per rispondere, quando qualcosa attirò la mia attenzione: un semplice riflesso tra le foglie, come un piccolo vetro, ma chiaro e limpido. Una frazione di secondo fu quanto bastò perché tutto quello che accadde dopo avesse luogo.
La freccia partì, non so bene se mirasse a me o a Rachel, e io mi gettai su di lei spingendola a terra e la freccia mi passò a meno di un capello dal viso, tanto che ebbi la sensazione di essere accarezzato dal freddo metallo della punta.
«Ahi!»
«Scusa... Tutto a posto?» chiesi alla ragazza sotto di me, rimanendo a terra, in caso di un altro attacco.
«Starei meglio se ti levassi.»
Dal tono capii che la stavo schiacciando e mi affrettai ad alzarmi, permettendole di sollevare la testa, ma subito un altro nugolo di frecce colpì la fiancata della casa.
«Perché non attaccano direttamente?» chiese Nico, riparatosi tempestivamente dietro un divano con infilzate due frecce sopra.
«Ci hanno fiutati» spiegai laconicamente, mentre azzardavo un’occhiata all’esterno. «Sanno che siamo tre semidei potenti e addestrati, preferiscono farci fuori a distanza, approfittando degli archi.»
All’improvviso, un rumore secco ci fece sobbalzare; estrassi l’arma e mi voltai, anche se per poco non rischiai di infilzare Percy, che teneva per mano una donna dai lunghi capelli mossi, simili ai suoi, che indossava un leggero abito da spiaggia sopra il costume. Era magra ed emanava ancora un fascino e una bellezza non da tutti, considerata l’età. Certamente sua madre.
«Stai attento!» ringhiò lui, mentre la lama gli si fermava a poca distanza dal naso.
«Scusa, pensavo che un orco ci avesse attaccato alle spalle» mi giustificai, mentre osservavo una ventina di orchi uscire dalla macchia, pronti ad attaccare con le loro armi arrugginite.
I loro grugni animaleschi ringhiavano contro di noi. Erano così brutti che avrei vomitato volentieri - effettivamente, lo feci, quando a dieci anni me ne trovai uno davanti.
«Ma cosa sono quei… cosi?» chiese Rachel, inorridita, mentre il suo viso passava dal rosato al color verde nausea. E non era la sola, anche la signora Jackson sembrava essere sul punto di svenire, anche se era, a mio parere, più per la puzza che i mostri emanavano che per il loro aspetto rivoltante.
«Orchi, e vogliono rifarci i connotati, nella tomba» risposi, con l’entusiasmo che contraddistingue i bradipi appena svegli la mattina.
«Sono vicinissimi: dobbiamo fermarli. Se combattiamo qui rischiamo di ferire Rachel e mia madre» sussurrò Percy, riparandosi dietro il davanzale della finestra.
«Hai ragione.» Osservai i mostri. «Li dobbiamo attaccare cogliendoli di sorpresa, dovremmo avere un buon vantaggio» proposi, scrutando i miei due compagni.
«Io posso evocare dei rinforzi, qualche zombie potrebbe esserci utile» aggiunse Nico, con aria decisa, nonostante il pallore che lo pervadeva.
Continuavo a vederlo come una versione maschile e rimpicciolita di Astrid.
«Ok. Mamma, Rachel, rimanete qui e cercate di non preoccuparvi» disse, infine, Percy, nel tentativo di rassicurare le due che, a giudicare dalla loro espressione, erano tutt’altro che rassicurate.
«Stai attento, tesoro» si raccomandò la madre, toccandogli un braccio, come se volesse accarezzarlo.
Era molto preoccupata per la sorte del figlio, ma sapeva di doverlo lasciar andare. Mi venne a mente che anche mia madre aveva un espressione del genere, quando partivo per il Campo. Mi chiesi come stava e se era in forma.
Era strano, ma pensavo così poco a lei. Davo per scontato il fatto che stesse bene e che fosse in salute. Era per quello che me n’ero andato. Il modo in cui Percy era legato alla sua, mi mise in ansia. Mi chiesi se stavo davvero facendo la cosa giusta, standole lontano così tanto.
«Sempre a fare l’eroe, eh?» fece la mortale dai capelli rossi, con un sorrisetto mesto, interrompendo il flusso dei miei tristi pensieri.
«Non è colpa mia, questa volta! Ah, lasciamo perdere» bofonchiò il figlio di Poseidone, con il viso rosso più che mai. «Andiamo a massacrarli, voi rimanete qui, al sicuro» aggiunse, afferrando la sua penna che si trasformò nella sua magica spada.
Ci lanciammo fuori urlando, forse più per la paura che per darci coraggio, e gli orchi caricarono. Tre di loro esplosero prima di raggiungerci, grazie alle rune che avevo piazzato lungo il vialetto, ma i loro compagni si ricompattarono e ci vennero addosso.
Nico si concentrò, e cinque zombie-guerrieri di varie epoche emersero dal terreno, pronti ad aiutarci. Uno aveva un AK-47 del Vietnam, altri due erano in degna uniforme romana e c’erano anche un pirata e soldato di epoca Napoleonica. I non-morti si affiancarono a noi, pronti a combattere, ma capii subito che sarebbero stati una distrazione e non un vero e proprio ostacolo.
Anche se prima erano guerrieri, adesso erano solo mucchi di ossa e carne putrescente. Sarebbe bastato un solo colpo, per rimandarli nel Regno dei Morti.
Lo scontro ebbe inizio e fu il caos. Innescai il pilota automatico: schiva, attacca, para, attacca, salta, colpisci, mozza la testa… la mia mente era svuotata e c’era solo il nemico davanti a me. Ero vagamente consapevole dei miei compagni, affianco, ma erano sullo sfondo, sfocati e distanti. Il combattimento procedette e a poco a poco, gli orchi arretrarono.
Percy era una furia e, con il mare vicino, sollevava immensi cavalloni che giungevano fino a noi e, ogni volta che lui veniva bagnato, sembrava rinvigorirsi. Nico era abbastanza abile come spadaccino e, pur tenendosi un po’ più indietro, non esitava a combattere. Per quel che mi riguardava, ero praticamente una furia, in battaglia. La spada che avevo in mano sibilava compiendo ampi archi. Paravo e schivavo, ricordando ogni singolo minuto passato ad allenarmi e ora mettevo in pratica.
Mi appuntai di ringraziare Hermdor: pur essendo duro, crudele, senza cuore e disposto a farti fare duecento flessioni se starnutivi mentre parlava, aveva insegnato bene a tutti.
«FERMI O LE DONNE MUOIONO!»
Il grido ci bloccò tutti e tre, mentre un orco più grande degli altri, probabilmente il capo, usciva dalla casa di mare tenendosi davanti come scudo Sally Jackson, mentre Rachel lo tempestava di pugni che avevano lo stesso effetto di un rotolo di carta igienica contro un muro di acciaio.
«Mamma!»
Percy provò a correre verso di lei, ma io lo fermai. Il mostro impugnava un coltellaccio ricurvo premuto contro la gola della donna, mentre con l’altra la teneva stretta a se, tappandole la bocca con una mano. Con gli occhi ci supplicava di fuggire, ma il figlio non l’avrebbe mai lasciata nelle mani delle creature e io non volevo scappare, però, se lui avesse fatto una mossa avrebbe condannato tutti.
Mi detti dell’imbecille, dell’idiota e dello stupido: come avevo fatto a non immaginare che ci avrebbero colti di sorpresa? Ci eravamo lanciati tutti e tre a testa bassa contando sul fatto che avremmo vinto uno scontro diretto. Ma gli orchi erano anche astuti e il loro capo sapeva che non avremmo mai attaccato, se loro tenevano un ostaggio.
«Gettate le armi, semidei» ordinò il mostro, investendoci con il suo alito che puzzava più di una fogna. E credo che la fogna si sentirebbe anche offesa.
Ci guardammo. Tre spade, una di Bronzo Celeste, una di Ferro dello Stige e una di Acciaio Asgardiano caddero a terra con un chiaro tintinnio.
«Ora avete noi, potete lasciarle andare!» ringhiò Percy, stringendo i pugni dalla rabbia.
Era una sensazione che conoscevo: la collera dell’impotenza.
Per tutta risposta l’orco gli rise in faccia: «Credi che sia stupido? “Niente testimoni” ha detto il cliente, e noi i clienti li accontent-»
Non finì la frase che sparì ingoiato da una velocissima ombra, che poi precipitò in mezzo agli altri mostri. Avrei riconosciuto ovunque il muso lungo, forte, simile ad un becco irsuto e pieno di scaglie, gli occhi gialli da rettile, svegli e accesi di rabbia e le squame bronzee, dure come la pietra.
«Vesa!» urlai, felice, mentre lei si apprestava a distruggere gli orchi superstiti.
In poco tempo la mia viverna fece piazza pulita di tutti i nemici, lasciando solo mucchietti di neve che si scioglievano al caldo sole della spiaggia.
«Tesoro, stai bene?» esclamò la madre di Percy, che abbracciava il figlio, paonazzo.
Detto da quella che aveva bisogno di aiuto.
«Mamma… per favore. Io sto bene. Tu, piuttosto? Mi dispiace, ho agito di impulso» balbettò il ragazzo, cercando di scusarsi. Ma lei era semplicemente felice di riavere il figlio tutto per se.
La rossa, però, sembrava molto meno entusiasta.
«Cosa sta succedendo, ora!?»


Spiegare cosa ci facevo lì, non fu facile. Chi ero, da dove venivo e perché ero lì e, soprattutto, spiegare perché un branco di orchi si era presentato alla porta di casa per far fuori una mortale innocente. La notizia delle Divinità Norrene fu l’ennesima dimostrazione di shock della giornata. Ormai stavo cominciando ad abituarmi.
«Grandioso, ci mancavano solo altre dodici divinità da sopportare» commentò sarcastica Rachel, con una mano sulla fronte.
Sembrava più stanca che sorpresa.
«Tredici» la corressi.
All’esterno, Vesa ringhiava, tenendoci d’occhio dalla finestra. Letteralmente, dato che l’occhio era grande quanto la finestra. Sembrava felice di vedermi tutto intero. Aveva dato una grossa leccata a Nico che ora aveva i capelli ritti, anche se la sua faccia affranta lo rendeva stranamente più buffo.
«Quindi, adesso siamo al sicuro?» domandò la signora Jackson, un po’ scossa, ma con tono deciso; era ancora sotto shock, ma si era ripresa molto velocemente.
«Credo di sì. Loki… be’, spero sia una delle volte in cui si comporta bene, altrimenti dirò a mio padre di legarlo di nuovo a testa in giù**» promisi, annuendo.
Ed era vero: a quanto avevo capito, aveva assoldato solo un clan di orchi reietti che vivevano nei bassifondi di New York. Inoltre, adesso sarebbe stato palese che era una messa in scena. Nessuno ci sarebbe cascato, da questo momento.
«Mamma, è meglio se torni in città, appena finisco questa cosa ti verrò a trovare, promesso» la rassicurò il figlio, cercando di darsi un’aria sicura. Se la stava cavando bene.
«D’accordo. Stai attento, tesoro. L’anno scorso…» Le tremò la voce e gli occhi le si riempirono di lacrime. Esitò. «Non voglio che ti cacci in guai così grossi.»
Lui annuì cupo. Non avevo idea di cosa fosse successo “l’anno scorso”, ma dedussi che doveva essere qualcosa di molto brutto, viste le facce di tutti.
«Buona fortuna, eroe» gli augurò Rachel, con un sorriso e un bacio sulla guancia che fece arrossire Percy come mai prima d’ora.
Poco dopo, una macchina con a bordo le due sfrecciò lontano, al sicuro, almeno speravo, in città. C’erano stati preparativi veloci. Sally Jackson si era ripresa in un lampo e aveva offerto a tutti noi dei pasticcini azzurri, che si erano rivelati deliziosi, mentre Rachel e Nico mi intrattennero con il resoconto dell’impresa che, poco tempo prima, avevano intrapreso con il figlio di Poseidone.
Ebbi una bella impressione su di lui: era indubbiamente il più forte di tutto il Campo, viste le situazioni in cui si era ritrovato. E a quel che aveva capito, era riuscito a distruggere un vulcano. Promemoria: non fare arrabbiare Percy Jackson.
Mentre accadeva tutto questo, Vesa rimaneva fuori mugolando giocosa, come se fosse un miagolio. La ragazza sembrò intenerirsi un po’ e le si avvicinò per accarezzarla. Stavo per fermarla, ma la mia viverna non accennò intenzioni ostili. Sembrava molto a suo agio e anche Rachel pareva contenta, finché anche lei non dovette subire una leccata umidiccia, che la attraversò da capo a piedi.
«Che schifo» commentò, freddamente, mentre si toglieva la saliva dai capelli. «Ha l’alito che sa di orco digerito, bleah» aggiunse, fingendo un conato.
«Hai ragione. La dieta a base di orchi non fa per te, vero, bella?» chiesi, ridendo, mentre lei si alzava in un aria soddisfatta, come per ribadire che era stata lei a salvare la situazione.
Una volta rimasti soli, mi voltai verso i miei due nuovi amici.
«Torniamo al Campo?» domandai, ormai stanco morto: un’altra giornata in cui avevo massacrato mostri. Tipico di noi semidei.
«Sì, direi che è la cosa migliore. Magari Annabeth e gli altri hanno trovato il vostro segnalatore GPS» rispose Percy, scrollando le spalle, anche se il suo sguardo indugiò sul viale.
«Non preoccuparti, amico. Le hai salvate anche questa volta» lo rassicurò Nico, poggiandogli una mano sulla spalla, regalandogli un sorriso amichevole.
Mentre i due si allontanavano da soli, lungo la spiaggia in direzione del Campo, io mi fermai ad osservare la grande distesa d’acqua ai miei piedi e riflettei.
Riflettei sulla mia impresa, su mia madre, su Percy, sulla sua famiglia, sulla sua guerra. Mi resi conto che, nonostante le ostilità, quel posto mi piaceva.
Sapere che c’erano altri come noi, diversi, lontano dal Campo… mi faceva sentire sollevato. Percy era un tipo simpatico e anche Nico, nonostante il pallore da zombie che aveva perennemente in faccia. Oggi eravamo stati praticamente invincibili, se non fosse stato per gli ostaggi. Mi ero sentito sicuro, con loro a guardarmi le spalle.
Quando pensai alla guerra che loro stavano affrontando, al modo in cui Crono piegava altri semidei, fui invaso da un moto di rabbia: nemmeno i nostri Dèi erano mai stati gentili con noi. I figli di Loki erano spesso dei reietti, maledetti e allontanati, ma le divinità davano sempre una possibilità di cambiare. Crono stava distruggendo la speranza dei semidei greci e, anche se lo stava facendo lontano da casa mia, non potevo sopportarlo.
«Giuro che non vi abbandonerò, amici miei. Lo giuro sull’Isola di Foreseti» sussurrai, rivolto al mare e, forse, a tutto ciò che c’era lì, dopodiché mi voltai e li raggiunsi.

*Isola di Foreseti: L’isola del Dio Foreseti, Dio degli Accordi, delle assemblee e dei Giuramenti Norreno. Giurare sulla sua dimora (L’Isola) è vincolante, come un giuramento sullo stige.
** Loki fu appeso a testa in giù per aver ucciso il Dio della luce Baldr e averlo fatto precipitare negli Inferi. Loki fu “Liberato” quando Hermdor salvò il Baldr dalle grinfie di Hell, da allora Loki è considerato il peggiore dei traditori.

koala's corner.
A me piace un sacco scrivere dei combattimenti con Alex e Percy. Sembra quasi che io e Water ci stiamo dividendo i capitoli tra le sfide e il romanticismo^^
E non dimentichiamoci di Rachel, che ho salvato da qualche tagliuzzamento da parte tu, non è vero?
Ma sì, era solo un taglietto...
Come no -3-
Sono un imbecille perché mi sono accorto di aver dato un nome da maschio alla viverna, che è femmina, quindi, nel caso se ne trovasse uno migliore, potrebbe cambiarlo.
Speriamo che il capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!

Soon on Sangue del Nord: doppio POV di Annabeth e Astrid, idee diverse e un'unica soluzione - uccidersi a vicenda.

 
 
 
 

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Capitolo 10
*** ASTRID/ANNABETH • Di suicidi e tentati omicidi ***


Di suicidi e tentati omicidi
♣Annabeth♣

Anche dopo la separazione, la rivelazione dell’orco continuava a pesarmi come la Signora O’Leary sul petto. Einar aveva convinto un tassista ad accompagnarci fino alla Collina Mezzosangue, grazie ai suoi poteri di figlio di Loki, perché Astrid sembrava incapace di reggersi a lungo sulle sue gambe, figuriamoci orientarsi a New York.
Lì, in quel taxi che puzzava d’incenso e con i coprisedili leopardati, la statuina di una ragazza hawaiana che ballava la hula sul cruscotto, l’unico suono presente era quello della radio. Mi stavo morsicando l’interno della guancia, incapace di stare ferma. Ero preoccupata per Sally Jackson, certo, ma non avevo dubbi che Percy sarebbe riuscito a tenerla al sicuro.
Ciò di cui non per niente sicura, era la figlia di Hell. Più pensavo a come poteva aver introdotto il GPS al Campo, più immaginavo a quanti momenti avrebbe potuto sfruttare per farlo. Aveva avuto sufficiente tempo, la prima sera, per studiarci e l’intera notte per andare e tornare dagli orchi con un viaggio d’ombra. Aveva persino un movente: la vendetta per conto di sua madre contro le divinità Norrene e, già che c’era, uno scontro con quelle greche.
Eppure, a guardarla, era così debole e fragile. Ma anche Nico era poco più che un ragazzino, però possedeva un enorme potere, in quanto figlio di Ade. Non ci voleva molto a fingersi qualcun’altra, dato la fama che si portava dietro, e con la scenata della “ragazza sola che ha tanto bisogno d’aiuto” stava piazzando trappole sotto il naso di Alex. Di certo, non aveva avuto bisogno di una mano per baciare Percy.
Se stava tradendo – e non mi era difficile crederlo-, lo stava facendo utilizzando tutti i sotterfugi possibili. Luke, che per primo se n’era andato dal Campo per unirsi a Crono, almeno, non si era mai fatto problemi a dichiarare che non andava pazzo per Ermes. La osservai, mentre impersonava alla perfezione la sua parte di “ragazza confusa cui il mondo sta cadendo addosso”.
Per un attimo, mi sembrò di sentire il presentatore, alla radio, annunciare: «E l’Oscar per la miglior recitazione va a… Astrid Jensen! Signori radioascoltatori, un caloroso applauso!»
C’era una parte della mia mente che mi spingeva a eliminarla, radendola al suolo nel momento di maggiore debolezza e smascherandola. Avrei fatto un favore a tutti, rendendomi conto del pericolo che incarnava.
«Sai che c’è, Astrid?» feci, con aria annoiata. «Volevamo informazioni, e ne abbiamo ricevute in abbondanza.»
Mi lanciò un’occhiataccia, sospirò e tornò a guardare fuori dal finestrino. Einar continuava a farsi i fatti suoi, anche se, dalla tensione delle sue spalle, intuii che stava aspettando una risposta.
«Tuo padre è stato sibillino, Einar» continuai. «E, nonostante la puzza, gli orchi si sono rivelati utili. Abbiamo la testa del traditore su un piatto d’argento. Anzi» mi corressi, dando enfasi alla frase che seguiva, «la traditrice
Notai come Astrid si tese a quell’ultima sentenza. Sentii un piacere maligno invadermi il petto.
«Sai che c’è, Einar?» mi fece il verso, rivolgendosi al compagno, che stava in mezzo a noi due. «Non posso più venire a vedere le stelle con te, domani sera. Percy mi ha detto che vuole approfondire l’esperienza di oggi.»
Avvertii un forte calore al collo, ma mi costrinsi a ignorare la provocazione gratuita. Una figlia di Atena non avrebbe mai abboccato a quei trucchi.
«Forse non te l’ho ancora detto, ma era entusiasta di provare quella cosa ancora. Mi ha confidato che non aveva ancora trovato una ragazza che valesse la pena baciare seriamente.» Alzò le spalle. «Dopotutto, basta vedere la compagnia che si porta dietro…» Lasciò la frase in sospeso.
«Uhm, non sembrava di questo parere, quando l’ho baciato» replicai, stancamente, mentre un incendio stava bruciando dentro di me.
«Oh, allora la storia del vulcano esploso dopo che avete limonato è vera» si intromise Einar.
Astrid fece una risata amara e palesemente finta. «Dubitavi?» chiese tra le risa. «Anche io avrei tentato il suicidio, al posto suo!»
«Come no» ribattei, acida. «Stava esplodendo dalla felicità.»
Nella testa, rimbombò la voce di mia madre che mi rimbrottava: «Che stai facendo, Annabeth? È questo che chiami “ragionare”?»
La immaginai scuotere il capo, infinitamente delusa. Per una volta, non badai alla sua opinione, e mi lasciai trascinare dell’istinto che mi sussurrava suadente di alleggerire il collo di Astrid dal peso della sua testa. Adottai la nuova strategia “colpisci e affonda”.
«Se vogliamo parlare di cose che esplodono» riprese la figlia di Hell, «tutte le cazzate che escono dalla tua bocca mi stanno facendo scoppiare il cervello.»
«Una povera perdita» commentai. «Stai certa che sopravvivrai anche senza, riprodursi è uno dei bisogni primari, ti serve solo qualche neurone funzionante.»
Avrebbe ribattuto di sicuro, se il taxi non avesse inchiodato all’improvviso, fermandosi ai piedi della collina. Scendemmo dall’automobile, attendendo che Einar ingannasse il guidatore sul prezzo di quella corsa. Piantai i piedi nel terreno e risalii il lieve pendio a grandi falcate, marciando furiosa. Non avrei dovuto farmi dominare dalla rabbia in quel modo, ma era una sensazione così nuova e profonda che non riuscivo a rifiutare, soprattutto se a provocarla era Astrid.
Vidi Talia corrermi incontro e, quando contò il nostro numero, si preoccupò immediatamente. Le spiegai ciò che avevamo scoperto, senza tralasciare alcun particolare. Alla notizia della figlia di Hell, la mia amica impallidì per un secondo, prima di riprendere il colorito naturale.
«Tu la credi capace di farlo?» le domandai in un sussurro.
I suoi occhi elettrici si adombrarono.
«Sono stata un pino per anni, Annabeth. Tutto è possibile, anche questo.»
«Vai ad avvisare Chirone, intanto io cerco questa Runa GPS.»
«Okay» acconsentì, tagliando per la Casa Grande.
La osservai allontanarsi, poi mi voltai verso i due norreni, soffermandomi su Astrid.
«Se qualcuno ci vuole illuminare, risparmiandoci un po’ di fatica, gliene sarei grata» esordii.
«Se vuoi luce, comprati una lampada» borbottò la ragazza, dando un calcio ad un sasso.
Le rivolsi un sorriso glaciale.
«Partiamo dalle Cabine» decisi, per poi girarmi nuovamente.
I figli di Ermes, per la maggior parte fuori dalla casa, ci accolsero senza troppi problemi. C’erano maree di oggetti sparsi, cuccette sfatte e coperte che cadevano dai letti a castello come ragnatele. Qualcuno si scusò per il disordine, ma non sembrava molto convinto. Mi misi a frugare in giro, e i ricordi mi colpirono a tradimento.
Quando Luke era il capogruppo e manteneva i fratelli in riga, per quanto possibile; le magliette arancioni del Campo sporche abbandonate sul materasso; le foto di quando eravamo piccoli attaccate alla parete. Il mio cuore si strinse in una morsa dolorosa, mentre la sua mancanza mi trafiggeva impietosa. Mi accorsi di stare ferma innanzi a quello che era il suo letto da troppo tempo, così mi riscossi e mi riportai indietro i capelli.
Ce la potevo fare, ce la dovevo fare. Ero abbastanza forte per affrontare i ricordi, ma cercare in quel modo, permettere ad Astrid di entrare nella Cabina di Luke, mi appariva come un tradimento nei suoi confronti. Ispezionai in fretta, impaziente di cambiare aria. Quando uscimmo, potei respirare più tranquillamente. Connor e Travis ci accompagnarono, sostenendo che chi, meglio del dio dei ladri, conosceva i nascondigli perfetti?
Le Case ci aprirono la porta più o meno volentieri, ma non potevano impedirci di entrare, sapendo che Chirone non avrebbe approvato il loro comportamento. Talia e tre delle sue Cacciatrici si unirono a noi, terminata l’ispezione infruttuosa tra i figli di Apollo. All’appello, mancava solo Ares e Poseidone. Evitando accortamente il filo spinato e le varie mine poste a difesa della prima, bussai un paio di volte.
Mi aprì Clarisse in persona, i capelli castani raccolti in una coda. Si appoggiò allo stipite, fermando la porta con un piede, impedendomi di entrare. Cercai di aggirarla, invano.
«Clarisse» la richiamai, il tono controllato ma inflessibile.
«Sì, è il mio nome» si schermì lei, scoccando un’occhiataccia a Talia, quando mi si affiancò.
«C’è un’ispezione in corso, non puoi sbatterci la porta in faccia.»
Alzò un sopracciglio.
«Per quale motivo?» domandò, presa in contropiede.
Le raccontai brevemente quello che stava accadendo, senza giri di parole o frasi circospette. Non era il momento per prendere il suo carattere con le pinze. La ragazza si piazzò davanti a me, staccandosi dallo stipite, formando un muro umano.
«Oh, quindi la piccoletta è una traditrice» constatò.
Fischiò, e due suoi fratelli la spalleggiarono all’istante.
«Sarà una coincidenza, però ne passano spesso sul tuo cammino, Annabeth.»
«Non azzardarti» ringhiai, assottigliando lo sguardo.
I sentimenti che provavo per Luke emersero prepotenti, facendomi raddrizzare le spalle e controllare che il pugnale fosse legato al mio fianco. Talia mi strinse la spalla, non abbastanza forte per farmi male, ma in modo da impedirmi di fare alcunché.
«Fai spazio, Clarisse. Non vogliamo risse» intimò, asciutta.
«Nessuna traditrice violerà il terreno di Ares» replicò lei, supportata dai compagni, che si affacciavano sempre più numerosi alle sue spalle.
«Va bene, lei resta fuori» acconsentii, e Astrid annuì in segno di approvazione, già allontanandosi.
Feci per entrare, ma Clarisse me lo impedì. Le scoccai un’occhiata di traverso. Che cos’aveva in mente?
«Nemmeno chi sta con la figlia di Hell, entra. Siete stati stupidi a fidarvi di loro e non di noi, quindi, per voi, la nostra Cabina è off limits
«Chirone non ne sarà contento» ricordò Talia.
«Chirone non è mio padre, non può impedirmi di fare ciò che voglio» replicò.
Cercai una soluzione diplomatica, che faticai a trovare.
«Basta una persona che supervisioni l’ispezione. Di chi ti fidi? Chi vuoi che entri? » domandai.
La ragazza ci rifletté su, scrutando il gruppo che mi seguiva. Poi, si udì un trambusto improvviso provenire dall’interno e alcune grida di protesta o allarme. Clarisse si scostò quel che bastava per permettere a me e Talia di vedere, mentre un ruggito le usciva dal profondo della gola. Mi venne un infarto, ma il mio cuore riprese presto a pompare sangue, che mi fece pulsare una vena sulla fronte per la rabbia.
Sul viso di Talia si dipinse un sorrisetto divertito, accantonando lo sconcerto o il timore di ciò che quell’azione poteva provocare. Mi domandai quale impulso celebrare avesse fatto venire in mente ad Astrid di infilarsi nella Casa tramite un viaggio d’ombra, proprio quando la diplomazia stava vincendo.
C’erano troppi dèi della guerra tra i norreni e troppi pochi della sapienza.
 
♦Astrid♦
 
Ben presto, si scatenò il caos. Essere l’artefice di un tale casino mi faceva ribollire il sangue nelle vene, mentre sgusciavo dietro ai figli di Ares nella Cabina e li coglievo alle spalle, di sorpresa. Stringevo loro il collo nell’angolo formato dal gomito finché non perdevano i sensi, incapaci di inalare abbastanza aria.
Nessuno aveva tirato fuori le armi, ad eccezione dell’egida di Talia, la quale la usava come scudo antisommossa. Intercettai uno sguardo a mio indirizzo, poi mi fece l’occhiolino. Ricambiai con un sorriso, consapevole che Annabeth non sarebbe mai stata dalla mia parte, dopo quello che avevo fatto. Non credevo molto nelle soluzioni diplomatiche, soprattutto se venivano proposte a un manipolo di figli consacrati alla guerra.
Poi, non c’era niente di meglio di un po’ di azione per distrarmi dai miei pensieri. Sentii un grido battagliero contro di me e, prima che un ragazzo bruno mi colpisse in pieno con un pugno, mi lasciai ricadere con la schiena su un letto.
Rotolai sul materasso, evitando l’attacco successivo, e bloccai a mezz’aria il sinistro successivo. Il figlio di Ares impresse così tanta forza nell’attacco che sentii il muscolo del braccio cedere. Prima che mollassi, mi diedi un colpo di reni, in modo tale da potergli sferrare un calcio alla gola. Il ragazzo si strinse il collo con un rantolo strozzato, crollando a terra.
Mi rimisi in piedi, alzando le braccia a protezione del petto, come un pugile. Solo che l’attacco arrivò lateralmente, troppo veloce perché potessi scansarmi. Dal fianco sinistro si sprigionò un dolore improvviso, che mi fece barcollare.
Anche volendo, non avrei potuto cadere, perché delle braccia robuste mi afferrarono il busto e mi sollevarono di peso, incornandomi come un toro fa col torero. Voltai la testa indietro, osservando con disperazione la soglia della porta farsi sempre più vicina.
Pronta per il volo, Astrid?, mi domandai, sarcastica.
Fui scaraventata fuori e l’aria mi colpì forte la schiena, congelando il sudore e ghiacciandomi la maglietta sulla pelle. Finii tra le braccia di Connor Stoll, il quale barcollò all’indietro e, quando notò che non riusciva a reggermi, mi fece cadere a terra con un tonfo. Il mio coccige protestò, mentre Einar ridacchiava. I figli di
Ares si riorganizzarono, buttarono fuori Talia e Annabeth e Clarisse si mise a protezione della porta. Espirava e inspira velocissima, un livido color porpora sullo zigomo. Così, sembrava il triplo più grossa del normale, come un enorme bue incavolato.
«Non-mettete-piede-in-questa-casa» sillabò, furiosa. «Chiaro?» ringhiò, e alzò il labbro, come un pittbull prima di attaccare.
Non mi sarei stupita se avesse iniziato ad abbaiare e latrare ordini.
Annabeth alzò le mani in segno di resa, voltò le spalle e si allontanò spedita. Mi stavo rialzando, quando lei mi afferrò il braccio e mi trascinò verso la Cabina 3. Stringeva talmente forte che il sangue non poteva circolare, e probabilmente le cellule del mio avambraccio sarebbero morte. Non mi opposi, preparandomi psicologicamente alla ramanzina coi fiocchi che mi avrebbe fatto.
Be’, almeno, ora, aveva un motivo per avercela con me. Talia ci seguì, cercando di stare al passo, e richiuse la porta della Casa di Poseidone. Potei osservare per qualche secondo una montagnetta di calzini sporchi di Percy, prima che Annabeth mi incollasse al muro e mi trapanasse il petto con il suo indice.
«Tu sei completamente fuori» sentenziò, e notai che stava per perdere le staffe. «Grazie alla tua grande idea, ora tutti i figli di Ares ci odiano. E cos’abbiamo concluso? Assolutamente nulla!»
Talia si schiarì la voce, tentando di mitigare la sfuriata della sua amica, che non la considerò minimamente.
«Siete in guerra, no? Considerala un’esercitazione militare live» dissi, rivolgendole un sorriso che sapevo essere odioso.
Annabeth era sul punto di usare il suo pugno come pestacarne sulla mia faccia, facendola diventare un  hamburger. Intanto, il suo dito mi stava incidendo un solco nella pelle. Sbuffò sonoramente, rinunciando ai suoi progetti assassini.
«Va bene, non pretendo che col poco sale in zucca che ti ritrovi tu possa capire. Basta che te ne stai qui, ferma e zitta, mentre noi controlliamo la stanza. Tu capire me?» scimmiottò.
Le rivolsi un insulto in norvegese. Se l’inglese era lingua adatta per comunicare con il mondo, erano in pochi a conoscere la mia. Storse il naso, prendendo le mie parole come un “sì”. Talia alzò le spalle, dispiaciuta per quella situazione e, allo stesso tempo, sollevata che Annabeth non mi avesse affondato il suo pugnale tra gli occhi.
Mi misi a canticchiare American Idiot, facendola sorridere, mentre la bionda si sforzava di non guardarmi in faccia. Con quel sottofondo improvvisato, le due ragazze frugarono tra gli oggetti di Percy. Alla fine, la figlia di Zeus affrontò la montagnetta di calzini puzzolenti, scostandoli con le scarpe. Ne rotolò fuori uno rosa fluo, che tintinnò sul pavimento.
Pensai che si trattasse di parte del guardaroba delle figlie di Afrodite, magari si era impigliata una cavigliera, ma quando Talia lo raccolse – trattandolo come se fosse una barra di uranio-, riconobbi la forma di una runa. La ragazza gettò via il calzino rosa, avvicinandosi a me.
Presi in mano la runa, rigirandomela tra le dita, leggendo una minuscola incisione che riportava l’appartenenza a Thor. Corrucciai la fronte.
«E il martello?»
«Li avranno separati, così che pensassimo che il ladro fosse tra i semidei del Campo» intuì Annabeth, già lavorando a possibili teorie cospiratorie. «È possibile capire dove si trovi, partendo dal GPS?»
«Mmm. Forse Alex potrebbe riuscirci, ma io non sono pratica di rune» risposi.
La bionda mi regalò un’occhiata che voleva dire “già, sei pratica solo di darmi fastidio”. Uscimmo dalla Casa di Poseidone, dirette da Chirone, quando un ruggito potente scosse l’aria tranquilla. Non ci fu bisogno di consulte, perché corremmo tutte e tre in quella direzione. Versi animaleschi, tonfi e vari schiocchi di mascelle animavano la Collina Mezzosangue.
Ne scoprimmo presto il motivo. Vesa – la viverna di Alex- stava giocando con il drago che si trovava a difesa di un pino, cui era appeso un lungo vello dorato. Immaginai si scambiassero saluti affettuosi, che avrebbero trasformato il terreno in una forma di groviera, dato che l’impatto era simile a quello di una meteora.
Mi domandai cosa ci facesse Vesa lì. Era venuta dal Campo Nord solo per stare col suo amato compagno?
Percy, Nico e Alex comparvero poco dopo, stanchi ma sorridenti, così da spiegarci la situazione. Talia guardava con aria inorridita la viverna, come se potesse azzannarla da qualunque momento. Attirato dal rumore, arrivò Chirone al trotto, il manto bianco lucente.
Ci condusse alla Casa Grande, dove discutemmo della questione della runa GPS. Mentre ne parlavo, guardavo i miei piedi, incapace di affrontare gli occhi di chi mi guardava. Sapevo cosa vi avrei letto: diffidenza, odio e rifiuto; il Cocktail D, perfetto quando avevi bisogno di sentirti amata come una zanzara d’estate. Un po’ di depressione era proprio quello che mi serviva.
Consegnai la runa ad Alex, cosicché potesse interpretarne i segni. La sua mano si strinse sulla mia, provocandomi una scossa, ma durò così poco che pensai di essermelo immaginato. Era assurdo come il mio desiderio d’indipendenza premesse per uscire, quando un’accusa mi buttava giù in quel modo.
Non mi consideravo forse forte, determinata e risoluta? Non erano queste le virtù che mi avevano permesso di sopravvivere in quegli anni? Mi resi conto, però, che non c’era nulla di eroico nel sopravvivere, dato che non era abbastanza per considerarsi una vita vera.
Mi serviva una roccia a cui aggrapparmi, ma sapevo che l’unica su cui potevo fare affidamento ero io stessa. Non avrei trascinato nessuno nel mio mondo, mi sarei opposta con tutte il mio essere purché qualcun altro non sperimentasse la mia vita.
Alex emise un brontolio di disappunto, al mio fianco.
«Mjiolnir non è qui» dichiarò.
«E dove, allora? Non può essere tanto lontano, il GPS è qui» osservò Percy.
Avevo un brutto presentimento, decisamente poco carino.
«In Norvegia» lo contraddisse Alex. «Nell’Hellheim.»
Desiderai urlare. Mi alzai, sbuffando.
«Scusate, ho bisogno di una boccata d’aria» mi congedai, racimolando la calma rimasta.
«Così puoi dire a tua madre che il suo piano per metterci in scacco tutti sta funzionando?»
Mi voltai verso Annabeth così in fretta che i miei capelli compirono un arco. La fissai, desiderando ardentemente che dell’acido piovesse dal cielo e la dissolvesse. Le avrei riversato addosso una badilata di insulti, ma non le avrei dato la soddisfazione di avermi battuta. Così, alzai il mento e me ne andai.
Dietro di me, sentii la voce di Alex dire: «Potresti smetterla con queste domande? Astrid non c’entra nulla.»
Sbattei la porta, camminando verso il bosco. L’aria fresca mi aiutò a calmarmi, rilassandomi i muscoli. Trovai una zona appartata poco lontano, dove gli alberi regnavano sovrani. Allora, sfogai la mia rabbia contro un pino: ne scalfii la corteccia a furia di calci e, quando questo non mi bastò più, passai ai pugni.
Le nocche mi facevano un male immenso, ma non mi fermai finché da un taglio non incominciò a sgorgare sangue. Mi lasciai ricadere tra le radici del sempreverde, nascondendo la testa tra le ginocchia, come uno struzzo. Sentii le lacrime salirmi agli occhi.
Non piangere, stupida, mi ordinai, asciugandomi gli occhi furiosamente. Una striscia di sangue si disegnò sul mio volto. Sei una guerriera e le guerriere non piangono.
Tracciai con le dita la parola sul terreno, autoconvincendomi di quel fatto. Nessuno mi aveva detto che sarebbe stato facile, ma nessuno mi aveva detto che sarebbe stato così difficile.
Il martello di Thor era nell’Hellheim, l’orco aveva parlato di una figlia di Hell, che motivi c’erano per fidarsi di me? Perché qualcuno si sarebbe dovuto dimenticare di quelle prove, per credere alla mia parola? In questo, Annabeth aveva ragione.
«Astrid.»
Mi riscossi e levai lievemente il capo. Tutto ciò che mi premeva dire, era: «Non sto piangendo. Non pensarlo nemmeno.»
Alex si accovacciò accanto a me, gli occhi puntati verso il cielo; il giorno stava lasciando lentamente il passo alla notte. Rimanemmo così per un po’, finché non si accorse della scritta “guerriera” sul terreno e di come ero riuscita a ferirmi combattendo con un albero.
«Questo povero pino non ti aveva fatto nulla» esordì, mantenendo un tono allegro.
«Agli orsi non importa, ci si strusciano contro comunque» ribattei, spenta.
Rise. «Tu non sei un orso, sei una guerriera.»
Alzai lo sguardo, sentendomi colpita intimamente.
«Non prendermi in giro» sibilai, stringendomi al petto le ginocchia.
«No, è vero» si difese. «Sei venuta con me, in questa impresa, perché sei una mia guerriera, e io il tuo comandante. E sappi che, qualunque nuova informazione riceveremo, chiunque mi dica che tu sei colpevole, io sarò dalla tua parte.»
Mi si strinse lo stomaco in una morsa dolorosa, annodandosi su se stesso. Deglutii a fatica.
«Sempre?»
«Sempre» confermò Alex.
Guerriera. Sei una guerriera. Non azzardarti a piangere.
Il ragazzo si alzò, spazzolandosi il terriccio dai pantaloni, e mi porse una mano. La osservai, scettica.
«Forza, si parte. Percy, Nico e Annabeth stanno già preparando la loro roba.»
«Nico… Percy e… Annabeth?» ripetei, incredula.
«Esatto» fece lui. «Aggiungeranno un’altra avventura alla loro lista.»
Accettai la mano, e Alex mi tirò su. Recuperai un po’ di compostezza. «Viene anche la musona. Meraviglioso.»
«Dovete per forza odiarvi?» chiese, affiancandosi a me, mentre uscivamo dalla foresta.
«Io non la odio» risposi. «La amo diversamente» lo corressi.
Alex annuì più volte. «Certo, come no. La ami diversamente.»
Mi venne da ridere. La mia affermazione non aveva né capo né coda. Mi lasciai andare, seguita a ruota da Alex. I suoi ricci neri catturarono la luce, dandogli i riflessi dell’ossidiana: verde, argento, violetto.
Mi sarei dovuta sorbire Annabeth, le accuse e tanto altro, ma c’era qualcuno che sarebbe stato con me, e questo mi bastava.
 
 
«No. No, no, no, no. Non ci salgo.»
«È solo Vesa, è molto meglio dell’aereo» cercò di convincermi Alex. La viverna emise un verso compiaciuto al complimento.
«Non ha neanche la cintura di sicurezza» replicai. «Mi rifiuto di salirle in groppa.»
Vesa soffiò, e io le feci una linguaccia, ma tremai quando mi rispose con un ringhio. Indietreggiai.
«Preferisci i cavalli?» fece Alex.
«Pegasi» lo corresse Percy, dando una manciata di zollette di zucchero al suo stallone, Blackjack.
Lo osservai, trovandolo il mezzo di trasporto bio più spaventoso al mondo. Niente pegasi.
«No» ammisi.
Einar interruppe il dramma della mia scelta, domandando ai due greci: «Ci si monta senza sella?»
«Come no» lo prese in giro Annabeth.
Il figlio di Loki fece una smorfia, provando a salire sul pegaso. «Un ottimo modo per sverginarsi, direi.»
Ero troppo tesa per ridere. Supplicai Alex con lo sguardo.
«Vuoi che ti ci metta su io?» chiese, sospirando.
Desiderai avere affianco qualcuno che comprendesse la mia paura. Alla fine, recuperai la mia dignità e mi avvicinai a Vesa. Le sue squame luccicavano, formando sfumature sensazionali, impossibili da riprodurre con le tempere.
Alex montò su di lei agilmente, sfruttando la zampa anteriore, e mi aiutò a salire. Chiusi gli occhi e regolarizzai il respiro. Non potevo essere talmente spaventata, non ero così in alto!
Il ragazzo assicurò per bene gli zaini a Vesa, in modo che non cadessero, e io mi strinsi nel giaccone da aviatore. Salendo di quota, la temperatura si sarebbe abbassata, ed era quasi l’ora del tramonto. Controllammo che ci fossero tutti, nessuno mancava all’appello.
«Seguite me» ordinò Alex.
Spronò Vesa, che tese i muscoli, pronti a scattare come una molla, e si lanciò in cielo dopo una breve rincorsa. Avvertii nitidamente lo strappo allo stomaco, che si rivoltò, e ogni battito d’ala era una fitta. Mi azzardai a guardare in basso, dove numerosi semidei ci salutavano da terra, fischiando, gridando e alzando le mani.
Mi venne un capogiro, distolsi lo sguardo e mi aggrappai come un micino spaventato ad Alex. Vesa virò all’improvviso, catturando una corrente d’aria, e io gridai. Mi era sembrato di essere sul punto di cadere e, se fosse accaduto, mi sarei spiaccicata a terra sicuramente.
«Come mai tutta questa paura di volare?» mi chiese Alex, alzando la voce per farsi sentire al di sopra del vento.
«A ognuno la propria paura» mi schermii.
«Dovranno pur scrivere qualcosa, sul referto della mia morte, quando mi ucciderai stringendo così forte» incalzò.
Arrossii ci colpo, e fui grata che fosse di spalle.
«Ehm… scusa.» Allentai la presa, sentendomi scivolare all’indietro. «Riesci a respirare?»
«Grazie.»
Il vento occupò il vuoto nella conversazione per qualche minuto, prima che Alex riprendesse: «Davvero, sarebbe utile scoprire il perché delle vertigini, ti aiuterebbe a sconfiggerle.»
«Tutto ciò che mi aiuterebbe a sconfiggerle sarebbe la terra sotto le mie scarpe» brontolai. Sospirai, e il mio fiato si perse tra l’aria.
«Forse» riflettei ad alta volte, «è per colpa dell’attacco del gigante di ghiaccio, prima che arrivassi al Campo. La sensazione di vuoto sotto i piedi, precipitare per qualche secondo, il fiato che si mozza… e l’impatto duro con l’acqua.»
Mi accorsi che, rievocando il ricordo, le mie mani avevano iniziato a tremare leggermente.
«Un buon punto di partenza» considerò Alex. Immaginai un sorriso sulle sue labbra. «Credo di sapere come distruggere questa paura.»
Prima che potessi dire alcunché, Vesa si inclinò pericolosamente in avanti. Avvicinò le ali al corpo, assumendo un assetto aereodinamico, e precipitò verso il basso. Spalancai gli occhi, aggrappandomi ad Alex anche con le unghie.
I miei capelli erano sprazzi corvini nel vento e, quando mi ripresi dallo spavento iniziale e mi resi conto che Alex aveva intenzione di suicidarsi, strillai. Urlai con quanto fiato avevo in corpo, la voce che tremava forse più del mio corpo. L’acqua scura e profonda dell’oceano comparve sotto uno strato di nuvole.
Ti prego, supplicai, non in acqua. Sono troppo giovane per morire.
Ma un mezzosangue non è mai troppo giovane per morire, né troppo stupido per suicidarsi, sfidando il proverbio: “cadere dall’alto in acqua è come cadere sul cemento”.
La superficie liquida si avvicinava sempre più, e il mio cuore aveva trovato una sistemazione più comoda in gola. A neanche un metro di distanza, Vesa spalancò le ali, facendole gonfiare come un paracadute, e cullò la caduta. Passò rasente all’acqua, sprigionando spuma quando le sue squame infrangevano l’oceano.
«Astrid, guarda!» esclamò Alex, indicando il cielo.
Il Sole si stava tuffando in mare, assumendo tinte arancio scuro e viola, sfumate di rosso. Rifletteva la sua immagine sull’acqua, che la riproduceva, estendendola di parecchio. La mia bocca si spalancò per la meraviglia e, all’improvviso, non feci più caso all’oceano sotto di me, al fatto che ero in equilibrio precario su una viverna o che ero appena scampata alla morte.
Vesa si alzò un po’, sfruttando una corrente, e sfrecciò velocemente in avanti. Ma non avevo più paura. Staccai le braccia dal corpo di Alex e le alzai al cielo, godendo di quei raggi del sole. Una risata trovò la via tra le mie labbra. Sorrisi, lanciando un urletto di gioia. La viverna ci riportò su, dove la visuale del tramonto era quasi più spettacolare.
«Che figata!» esclamai, incapace di contenermi.
Sentii Alex ridere contro il mio petto. «Non avevi paura, scusa?» fece lui, conoscendo già la risposta.
«Non più!» esultai. Mi strinsi a lui, sistemandomi meglio su Vesa. Poi, gli tirai un pugno.
«Ahia!» si lamentò lui. «Perché?»
«Perché mi hai fatto prendere un colpo! Pensavo ci volessi uccidere entrambi!»
Scoppiammo a ridere quasi all’unisono. Con un dipinto davanti agli occhi, aria condizionata gratis e piena di gioia, mi feci un appunto mentale: per quanto il giorno potesse essere duro e faticoso, alla fine, ci sarebbe stata una sera capace di renderti felice. Sempre.

 
koala's corner.
Allora, c'è tanto da dire su questo capitolo, quindi meglio cominciare.
Partiamo dalla canzone, "American Idiot", dei Green Day, che dovete ascoltare, okay? Okay. Capirete perché l'ho scelta u.u Annabeth e Astrid si prendono a pesci in faccia, e io mi sono divertita troppo a scrivere quella parte hahah
Io a leggerla, invece hahah
Anyway, c'è mooooolta Alrid. Mi scuso se vi ho fatto venire il diabete >w< C'è anche un po' di Lukabeth perché, essendo la storia ambientata tra il 4° e 5° libro, Annabeth non sa bene cosa prova per Luke. Mi sembrava giusto inserirla, nonostante ami la Percabeth *-*
Speriamo che il capitolo vi sia piaciuto e che vogliate dirci cosa ne pensate, un abbraccio e tanto frumento!

 

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Capitolo 11
*** PERCY • Partiamo, destinazione: un mare di guai ***


Partiamo, destinazione: un mare di guai

•Percy•
 
Era stato il consiglio di guerra più lungo e confuso di tutta la mia vita. E ultimamente ne avevo visti tanti. All’inizio era partito bene, finché Astrid non si era assentata per prendere un po’ d’aria. Io non ci trovai nulla di strano, fino a quando Annabeth non le aveva detto qualcosa riguardo sua madre e del fatto che lei la “informasse”.
Quelle parole, uscite dalla bocca della figlia di Atena, mi ferirono: non l’avevo mai vista così acida e scontrosa – anche se, teoricamente, era sempre stata una musona. Mi sembrò perfino di aver visto un sorriso compiaciuto affiorare appena dalle sue labbra. Annabeth, che stai facendo? Tu non sei così!, mi dissi nella mente, come se volessi convincermi di qualcosa.
«Potresti smetterla con queste domande? Astrid non c’entra nulla.»
Le parole del figlio di Odino mi riportarono bruscamente alla realtà. Aveva battuto un pugno sul tavolo, come per abbatterlo – lasciando un profondo solco bruciato, come se la sua mano fosse stata avvolta dalle fiamme-, e stava scrutando Annabeth con durezza. I suoi occhi grigi parvero avere la consistenza del ghiaccio che trapassavano la figlia di Atena. Per la prima volta, la vidi vacillare.
«Lei… è chiaro che è stata lei! Abbiamo tutte le prove per incolparla!» rispose, ricomponendosi subito.
Adesso la riconoscevo la mia Sapientona: sempre pronta a ribattere e ad aver ragione. Solo che questa vola aveva trovato pane per i suoi denti.
«Molto bene, figlia di Atena… Sei forse gelosa? O tua madre non si è dimenticata di darti il cervello? Svegliati, non c’è nulla di concreto: un orco che dice che è stata “ una figlia di Hell” non è molto. Inoltre, se conoscessi Loki come lo conosco io, è più probabile che sia stato lui a mettere insieme questa storia per portarci su una falsa pista» fu la secca risposta del figlio di Odino.
I suoi occhi scintillavano di rabbia contenuta e io sentii la temperatura della stanza alzarsi pericolosamente, come se stesse per andare a fuoco. Molto mi aveva colpito, in quel discorso: Alex aveva sempre evitato di parlare in modo sprezzante, mantenendo una rispettosa calma e un fiero contegno, anche se qualcuno lo insultava sui suoi parenti di parte divina. Ora, lui aveva pronunciato le parole “figlia di Atena” come se fossero un terribile insulto. Inoltre, aveva messo in dubbio l’intelligenza di Annabeth, cosa mai accaduta qui al Campo.
«Sei troppo coinvolto emotivamente. Non capisci che ti sta manipolando?»
Il tono di lei si era fatto conciliatorio e più calmo. Aveva capito che Alex non era solo un guerriero, ma sapeva essere intelligente e accorto, quando in mano non aveva una spada e stava cercando di mostrare il suo punto di vista.
«Sei tu che sei troppo coinvolta. La guardi con astio da quando ha salvato il tuo ragazzo all’Arena. Sei gelosa, per caso? Lei non ti ha fatto niente e, anzi, dovresti ringraziarla per aver sistemato la situazione! Invece la accusi sulla base di prove inconsistenti. Bella gratitudine, voi greci. Ora capisco perché siamo nemici. Se tua madre è Dea della Saggezza, dimostralo. Aspetta di avere in mano ogni elemento e poi tira le conclusioni, senza farti trascinare da stupidi sentimentalismi.» L’arringa di Alex ebbe il miracoloso effetto di zittire Annabeth che, con riluttanza, abbassò lo sguardo, come se stesse riflettendo. Annotare sul calendario: Sapientona sconfitta per la prima volta in vita sua.
Anche se ciò che più mi premeva era il fatto di esser stato tirato in ballo: davvero ero io l’insita causa di tutto quel putiferio? Dovevo chiarirmi con entrambe, se non volevo che la situazione degenerasse.
Di nuovo i miei pensieri furono interrotti da Clarisse che, in barba al ragionamento che aveva zittito gli altri, si piantò davanti ad Alex in tutta la sua massiccia corporatura.
«Sia quel che sia, voi avete fatto un po’ troppi danni, qui. Quindi, ci faresti un grande favore se ti levassi dai piedi» minacciò, tenendo la mano stretta al pugnale, mentre alcuni degli altri capigruppo annuivano incerti.
«Ora basta, Clarisse!» la redarguì Chirone bruscamente. «Ti ricordo che ci sono regole molto precise: l’ospitalità è sacra, violarla sarebbe un affronto agli Dei, tuo padre compreso.»
«Non c’è da preoccuparsi, la vostra ospitalità è stata eloquente. Per quel che mi riguarda, dovremo andare nell’Hellheim, quindi restare qui è inutile. Partiremo appena saremo pronti. Probabilmente tra meno di un’ora» sentenziò il figlio di Odino gelido, come se volesse evocare di nuovo il ghiaccio per infilzarci tutti.
«Vorrei venire con voi.»
Le mie parole ammutolirono i capigruppo e Annabeth aveva l’aria di una persona a cui avevano tolto il pavimento da sotto i piedi.
«Percy, abbiamo già provato la nostra innocenza. Siamo in guerra e tu sei uno dei nostri migliori guerrieri. Lascia perdere questa storia e rimani» mi consigliò pazientemente Chirone, evidentemente nervoso dalla mia uscita. «Avanti, posso farcela. Se qualcosa sta tramando contro di noi, sarebbe sciocco ignorarlo, anche se di carattere norreno. Mi assenterò solo un paio di giorni, tornerò presto» replicai io fiducioso.
Dopotutto, ero entrato nel Labirinto, avevo passeggiato per gli Inferi, combattuto un titano e attraversato il Mare di Mostri. Quanto poteva essere pericoloso un viaggetto nell’Hellheim? Alla fine ebbi ragione, nonostante le insistenze di Chirone, e fui felice che, essendo un’impresa non proprio greca, non avrei nemmeno dovuto consultare l’Oracolo che, sinceramente, trovavo terribilmente inquietante. Anche Nico si sarebbe unito all’impresa, curioso di vedere la controparte norrena degli Inferi e convinto che i suoi poteri, in quel territorio, sarebbero stati utili.
Chirone acconsentì a malincuore, ma io ero tranquillo. Ne avevo viste di peggio ed ero sicuro di tornare prima che Crono facesse una sola mossa.
Stavo per abbandonare il consiglio di guerra, quando Annabeth si piazzò davanti a me con uno sguardo di fuoco che ardeva come la fucina di Efesto. Ebbi l’impressione che, forse, non era l’Hellheim la cosa più pericolosa che avrei dovuto affrontare.
«Stupido Testa D’alghe! Cosa credi di fare?» strepitò lei furibonda.
«Io… veramente… credevo di… insomma…» balbettai confuso.
Non capivo il motivo di tanta rabbia: volevo solo arrivare in fondo a quella storia, come pensavo volesse lei. E va bene, lo ammetto, volevo anche chiarirmi con Astrid. D’altro canto mi sentivo in colpa per non averla sostenuta. Inoltre era carina, gentile e simpatica. Non era colpa sua se sua madre era una dea poco di buono degli Inferi.
«Molto bene, sottospecie di gambero senza cervello che non sei altro. Verrò anche io, e ti terrò d’occhio» ringhiò rabbiosa.
Non mi piaceva quel  “ti terrò d’occhio”, suonava troppo come “Cercherò di torturarti più che posso, durante il viaggio.” Tutti ci guardarono con imbarazzo, tranne Alex che aveva trovato un grande interesse per la rete al centro al tavolo da ping-pong.
«Bene… ehm… il consiglio è aggiornato. Percy, meglio se vai a prepararti. Io preparerò Blackjack e Timballo al volo. Non sarà una passeggiata, soprattutto in territorio norreno» disse, infine, il centauro, togliendomi dalla situazione imbarazzante.
 Alex si diresse, rapido, verso la foresta, mentre io andai nella mia stanza. Mi assicurai di avere nettare e ambrosia a sufficienza per il viaggio, per potermi curare. Non avevo molti soldi umani e preferii non portarli. Ovviamente presi Vortice, mia fida arma in un sacco di avventure mortali. Avevo pensato di contattare Grover, ma ultimamente il Legame Empatico che mi univa al satiro si era indebolito. Credo fosse colpa dei mostri che distruggevano le foreste: bloccavano il nostro contatto come se stesser abbattendo i ripetitori per cellulari. Alla fine uscii dalla Casa Numero 3 e mi diressi alle stalle, ma, proprio lì, incontrai il figlio di Loki che stava osservando qualcosa in lontananza: una Cacciatrice.
Seguendolo con lo sguardo notai che era la stessa che quella mattina aveva cercato di picchiarlo e alla quale aveva regalato un mazzo di rose –non proprio apprezzato.
«Peccato, eh? È sprecata come Cacciatrice.»
Sussultai. Non pensavo si fosse accorto di me. Stava sorridendo, ma, per la prima volta, non aveva un sorriso spavaldo o ammiccante come al solito. Stavolta mi parve amichevole e sincero. Sospettai fosse un’illusione, ma poi mi resi conto che non lo era. Ne ero quasi certo.
«Sai che non potrai mai stare insieme a lei? Le Cacciatrici sono eternamente vive ed eternamente vergini. Non possono avere nemmeno un appuntamento» spiegai dispiaciuto; possibile che si fosse invaghito proprio di una Cacciatrice?
«È troppo bella per rimanere senza compagno, anche se immagino che a te non interessi, vero? Un figlio di Loki non è un interesse per nessuno» sospirò lui, scuotendo la testa, sorridendo triste. Sembrava molto diverso da come si era presentato la prima volta.
«Ehi… mi dispiace. Comunque, a quel che ho capito, se hai i talenti di tuo padre, non avrai difficoltà a trovarne altre» cercai di rassicurarlo io, tentando di tirarlo su.
«Chi ha detto che ne voglio cercare un’altra?»
Vai, brutta figura in arrivo, il figlio di Poseidone colpisce ancora con il suo tatto pari a quello di un elefante alla carica.
«Comunque, consiglio anche a te di chiarirti, perché la tua ragazza è un po’… ehm… alterata» aggiunse, regalandomi di nuovo uno di quei sorrisetti allusivi.
Adesso che intenzioni aveva?
«Lei non è la mia ragazza» risposi, arrossendo, anche se con la mente tornai a quando Annabeth mi si era piazzata davanti con rabbia avvertendomi che sarebbe venuta anche lei.
«Tu non ci sai fare con le donne, amico! Non lo capisci che è gelosa?» mi canzonò Einar, ridendo.
In questi giorni le mie guance stavano cercando di superare il “record per il più grande arrossamento per imbarazzo”.
Tuttavia, non potei fare a meno di pensare al fatto che lo strano comportamento di Annabeth era iniziato proprio quando Astrid mi aveva salvato la vita dandomi il bacio che, poi, aveva strappato il veleno dal mio corpo. Possibile che questo avesse fatto scoppiare una scintilla tra le due. Certo che, però, non riuscivo a non pensare al modo in cui la figlia di Hell mi aveva salvato. Era tutto molto confuso, ma il momento del contatto era stato nitido: ricordavo la morbidezza delle labbra di lei sulle mie, il modo dolce con cui aveva compiuto quell’azione.
Avevo sentito invitante il sapore dolce che mi pervadeva: un calore accogliente ed invitante. Se in quel momento non fossi stato sul punto di morire, probabilmente avrei voluto approfondire il bacio, magari abbracciandola. Non ci trovavo nulla di male. Dopotutto Annabeth non era la mia ragazza, no? Avevo il diritto di limonare con chi mi pareva, soprattutto se ciò faceva rima con “salvarmi la vita.”
«Dammi retta, Percy, non puoi averne due in un colpo solo. Lo ammetto, Astrid è molto carina e, a mio parere, è troppo buona per essere una traditrice. Il problema è che corri il rischio di trovarti una spada di Odino piantata nella nuca, visti gli interessi di Alex nei suoi confronti» mi spiegò pazientemente il figlio di Loki, strappandomi dai miei pensieri su baci velenosi e ragazze gelose. «Stanno insieme?» chiesi, sorpreso: all’inizio l’avevo pensato.
Ma poi avevo avvertito qualcosa che mi diceva che tra i due non c’era nulla, se non una forte amicizia.
«Diciamo che loro dicono di no. Alex è molto legato al padre, anche se dice di odiarlo. E credo sia vero, dato che è stato abbandonato per molti anni, prima che il signor “Occhio di meno” si facesse vivo per dare una mano. Ma allo stesso tempo ne cerca l’approvazione, quindi è restio ad affermare completamente il fatto che è innamorato  dell’unica figlia di Hell del Campo Nord. Tuttavia si vede lontano un miglio che si piacciono. È solo questione di tempo. Ho scommesso sessantadue monete d’oro con mio fratello Damian che si baceranno entro la fine dell’anno.»
Ok, mi aspettavo tutto, tranne che una scommessa su di loro.
«Cos’ha Hell che non va’? Cioè, è una Dea degli Inferi e allora? Io conosco Ade. È un tipo a posto, per essere un Dio.»
Un tentativo come un altro di cambiare argomento.
Einar sospirò, cercando di mantenere un tono neutro e disse: «La mia cara sorellona divina. Devi sapere che noi abbiamo pochi Oracoli. Al contrario di voi che avete le Parche, noi siamo riusciti a slegarci da un futuro certo e adesso li consultiamo solo raramente e, spesso, sono imprecisi, tuttavia la Dea che legge il futuro, la Muta Frigg, moglie di Odino, tempo fa, lanciò un oracolo certo. Fu l’unica volta che parlò.»
«E cosa diceva l’oracolo?»
Insana la mia dannata curiosità. Avrei fatto meglio a fermarmi lì. Einar mi lanciò uno sguardo penetrante, come se stesse cercando di scavare fino in fondo alla mia anima. Nei suoi occhi vidi, alla fine, ciò che si nascondeva dietro la finta maschera dello spavaldo figlio di Loki: tristezza.
Un passato malinconico, una vita passata a sopportare gli insulti velati che altri gli imputavano pur non avendo fatto nulla di male. Una vita di menzogne, sopportata solo grazie al fatto che aveva dei fratelli: ragazzi che dovevano sopportare come lui, un destino di voci sopite, insulti nascosti e sguardi malevoli.
«I figli di Loki porteranno grandi mali agli Dèi
«Come?»
Ero talmente concentrato su di lui che avevo perso il filo del discorso.
«La profezia. Mi hai chiesto cosa dicesse l’oracolo e ora lo sai. I figli di Loki porteranno grandi mali agli Dèi» pronunciò di nuovo, tornando a nascondersi dietro la maschera finta.
«Un momento… ma tu sei un figlio di Loki» gli feci notare, sorpreso.
Ok, era un po’ strano e bravo a fingere, ma non mi era sembrato cattivo.
«Vero, come anche, in pratica, Hell.  Motivo per cui io e i miei fratelli siamo mal visti» rispose con un sorriso sornione, quasi volessi sfidarmi a dire che era un traditore.
«A me non sembri così male, anche se sei strano» ammisi, cercando di osservarlo meglio.
Quella profezia mi sembrava troppo simile ad un’altra a me ben nota.
«Grazie, è un complimento. Di solito a me ci si rivolge con parole la cui più gentile è “bastardo”. Il punto è questo, però: mentre io ho un bel po’ di fratelli con cui posso confidarmi, Astrid non ha nessuno. Hell ha avuto pochissimi figli mezzosangue nella storia e tutti sono considerati dei traditori» spiegò con calma, osservando il cielo che si era finalmente fatto terso.
Il caro Zeus doveva ave intuito che Alex se ne sarebbe andato presto.
«Quindi, secondo te è colpevole?» chiesi, soppesando attentamente le parole.
«No, è troppo buona per essere una traditrice. Non ci conosciamo bene, ma lei non è tipa da fare queste cose. Odia sua madre più di qualsiasi cosa» rispose Einar, giocherellando con la sua spada che era tornata ad essere una comune sigaretta elettronica.
«Ma l’orco ha parlato di una figlia di Hell» cli ricordai io.
Nonostante tutto, il sospetto non poteva non esserci. «Inoltre tu hai detto che è l’unica.»
Lui mi osservò con il suo solito sorriso criptico. I suoi occhi erano tornati luminosi e finti: «L’unica al Campo Nord» mi corresse, mentre si allontanava verso la Casa Grande.
Io mi diressi alle stalle dei pegasi, riflettendo sulle parole del figlio di Loki. Non capivo come mai mi avesse raccontato tutte quelle cose e con una sincerità che non gli apparteneva. Ma di certo avrei dovuto tenere gli occhi aperti. Pensando ad Hell non potei, però, non provare un leggero sentimento di pietà: lei non aveva fatto ancora nulla contro gli Dèi Norreni, ma quelli l’avevano esiliata nell’Oltretomba.
Una storia che negli Dèi Greci si ripeteva troppe volte e che, più volte, mi aveva spinto a dubitare dei loro buoni propositi. Mi chiesi quanto fossero simili le due cerchie di divinità, pur essendo rivali dai tempi della creazione.
“Ehi, capo! Potresti dire a quella lucertolona di non guardarci come se fossimo la cena?”
Blackjack attirò la mia attenzione. Aveva gli occhi larghi e respirava velocemente: era spaventato da qualcosa ed era probabile che fosse la viverna di Alex.
«Cos’ha che non va?» chiesi perplesso.
Vesa sembrava tranquillissima.
“Cos’ha che non va!? Le viverne sono malvage. Hanno mangiato un sacco di pegasi alla loro epoca, quando i cavalieri del nord combattevano contro i greci.”
«Stai tranquillo. Per oggi, saranno dalla nostra parte» risposi per rassicurarlo.
Talia venne ad augurarci buona fortuna, ma si rifiutò categoricamente di mettere piede su un pegaso, anche solo per un attimo, quindi non sarebbe venuta. Timballo avrebbe trasportato Einar e Nico, mentre io sarei salito con Annabeth su Blackjack. Astrid e Alex avrebbero guidato il resto di noi su Vesa. Timballo continuava a frignare qualcosa sul fatto che non gli piacesse Nico e che puzzava di morte, ma non ci badai. Annabeth arrivò poco dopo con aria combattiva.
Io ero già a bordo, mentre il figlio di Odino sgranchiva le ali della sua viverna, facendo evoluzioni in aria con lei. Astrid li guardava come se fossero pazzi, non gradendo per nulla lo spettacolo. Invitai Annabeth a salire, ma lei mi lanciò uno sguardo di fuoco e smontò senza il mio aiuto. Tremai. Non era una bella cosa farla arrabbiare e se lo era così tanto, voleva dire che dovevo guardarmi da lei e dal suo coltello, mentre eravamo in volo.
Partimmo quando il sole, ormai, era vicino a sparire completamente. Mentre Alex volava alto nel cielo, io e Nico mantenevamo una quota bassa, quasi rasente l’acqua. Zeus era il dominatore dei cieli e non gli piaceva che i figli dei suoi fratelli si facessero passeggiate spensierate nel suo territorio come niente fosse. Meglio per noi, quindi, rimanere vicino all’acqua, dove ero relativamente sicuro di non essere folgorato. Presto il sole sparì del tutto e noi ci ritrovammo a volare alla cieca.
Sentii Annabeth afflosciarsi, appoggiandosi alla mia schiena per addormentarsi, contatto che mi provocò diversi brividi di piacere. Per non essere perso di vista, anche il Figlio di Odino si era avvicinato e notai che anche Astrid si era accoccolata alle sue spalle. Sembrava così tranquilla.
«ATTENTI!»
Alex urlò fortissimo, mentre un’onda innaturale si alzava dall’acqua come se fosse esplosa una mina subacquea. Ci fermammo appena in tempo per non essere travolti e lì, proprio al centro dei flutti agitati, non potei non riconoscere mio padre.
«Fermo, Percy!» mi comandò, puntando contro di noi il suo tridente. «Non posso permetterti di passare. Stai per uscire dal mio territorio. Se lo farai, le acque non ti saranno più così amiche.» «Ciao, papà. Ehm… scusa se ti farò preoccupare. Ma volevo solo dare una mano» risposi, cercando di mantenere la calma, mentre Annabeth e Astrid si svegliavano confuse.
Il tono di mio padre era stato fermo e deciso, ma avevo avvertito anche una nota di preoccupazione.
«Tu non capisci, figlio mio, se entri nel territorio di Njordr, non potrò più sostenerti» spiegò lui, con impazienza, guardandosi alle spalle, come se temesse di essere aggredito.
«Cos’è Jord?»
Non capivo perché gli Dèi Norreni dovessero avere nomi complicati e che provocassero spasmi alla lingua di colui che provava a pronunciarli correttamente.
«Njordr» mi corresse Einar, per poi spiegare più chiaramente:  «È il nostro Dio dei Mari, tenuto in grande considerazione presso di noi.»
«Ed è stato lungamente mio nemico. Mi sono battuto con lui innumerevoli volte, nel Medioevo, e posso dire che è pericoloso. Ti considererà una minaccia, Percy, e potrebbe mandare un mostro ad eliminarti» aggiunse Poseidone, squadrandomi con calma.
Quasi si aspettasse che io voltassi il Blackjack e me ne tornassi indietro.
«Mi spiace, papà, ma sento che la cosa giusta sia andare. Non posso abbandonare i miei amici. E poi sai che novità, credo che sia normale che qualcuno mandi un mostro ad uccidermi» replicai, senza scompormi.
Annabeth mi tirò un pizzicotto, ma cercai di ignorarla. Avevo preso la mia decisione e non me ne sarei andato.
«E sia. Stai attento, figlio mio. Voglio vederti tornare sano e salvo. E tu» aggiunse rivolto al figlio di Odino, «se dovesse accadergli qualcosa, ti consiglio di non avvicinarti più alle mie acque. Altrimenti, farò in modo che mi preghi di ucciderti!»
Detto questo, sparì in un turbinio di acqua e venti che sapevano di salsedine.
«Però… tuo padre ha proprio un bel caratterino» fece notare Astrid che era rimasta a bocca aperta per tutta l’apparizione.
«Lasciamolo perdere e andiamo» risposi, arrossendo, mentre procedevamo senza sosta.
Finì, ovviamente, che ci addormentammo tutti, di nuovo a bordo delle nostre cavalcature e, tipico dei semidei, iniziai a fare un sogno strano. Ma questo fu più strano di tutti: ero sul ponte principessa Andromeda. Crono, intrappolato nel corpo di Luke era in piedi su di esso e osservava il mare ad oriente, come se stesse aspettando qualcosa.
«Mio signore» sussurrò con reverenza Ethan Nakamura, figlio di Nemesi e servo del nemico. «Cosa c’è?» fu la secca risposta del signore dei Titani, evidentemente seccato dell’intrusione. «Ecco…» Deglutì. «Il vostro ospite è arrivato.»
Seguii i passi dei due fino a raggiungere la poppa, dove, con mia grande sorpresa c’era un dio in costume da bagno che avrei riconosciuto tra mille, pur avendolo visto solo una volta.
«Loki, ben arrivato. Vedo che vi siete già messo comodo» salutò Crono, sedendosi anche lui su una sdraio al bordo della piscina.
«In effetti, è proprio una bella sistemazione. Complimenti, Crono, hai tutta la mia stima. Anche se ci vorrebbero più semidee carine.»
E detto questo, fece un cenno ad una ragazza sui quindici anni di avvicinarsi. La riconobbi: era una delle semidee traditrici che aveva combattuto contro di noi nella battaglia del labirinto – una figlia di Ecate. Aveva lunghi capelli neri, con un ciuffo tinto di blu, e in quel momento indossava un imbarazzatissimo completo a due pezzi che copriva praticamente nulla.
Nel guardarla notai che i suoi occhi erano vuoti e vitrei: Loki doveva averla stregata per farle indossare quella roba. La ragazza gli si sedette accanto come un cagnolino addestrato e il dio le mise una mano sui fianchi.
«E ora agli affari. Vuoi il mio aiuto, no?» domandò il norreno sedendosi, mentre la sua schiavetta personale gli massaggiava le spalle.
Era una scena che mi disgustava e spaventava al tempo stesso. Quella ragazza non aveva più volontà ed era costretta a fare tutto ciò che le sarebbe stato detto. Mi resi conto di quanto subdolo potesse essere Loki. Mi chiesi fino a che punto i suoi figli potessero imitarlo.
«Quindi, siamo d’accordo: il tuo incentivo per raggiungere l’Olimpo, in cambio il mio aiuto per liberare Fenrir?» chiese Crono, con un sorriso freddo.
Mi si gelò il sangue quando capii cosa stava succedendo: un patto tra un dio norreno e un Titano per far cadere l’Olimpo.
«E sia. Sarà divertente e il tuo piano mi piace, ti aiuterò. Fornirò mostri e truppe per rafforzare il tuo esercito» accettò Loki, stringendogli la mano.
«Allora è deciso. È stato un piacere non conoscerti» concluse Crono, alzandosi, mentre il dio norreno tornava a concentrarsi sulla ragazza.
«Sveglia, Testa d’Alghe!»
Annabeth mi tirò uno scappellotto sulla nuca, riportandomi alla realtà. Eravamo su una sconosciuta costa che, però, capii subito non essere quella di Long Island.
«Siamo vicini. Il Campo non è lontano, seguitemi» ci incoraggiò il figlio di Odino, mettendosi in marcia seguito subito da noi altri.
Il sole stava sorgendo e ce l’avevamo proprio in faccia. Non lontano vidi una verdeggiante collinetta, che mi ricordava un po’ quelle che circondavano il campo mezzosangue.
«Perché non siamo andati volando? Sarebbe stato più facile» si lamentò Nico, sbadigliando. «Certo, il che implicherebbe di essere bersagliati dall’artiglieria anti-aerea del Campo Nord. Non è proprio il massimo, sai?» fu la divertita risposta di Einar.
Io riflettei velocemente. Eravamo vicini, ma volevo evitare che qualcuno ci sentisse. Dovevo avvertire gli altri del sogno che avevo appena fatto e in fretta.
«Ragazzi… Io dovrei dirvi una cosa.»
Quando ebbi finito, tutti si guardavano dubbiosi. Adesso i sospetti tornavano ad essere incerti: un elemento di troppo si era incastrato in questa storia, un elemento greco di nome Crono. Che c’entrasse lui dietro tutta quella storia? Magari aveva mandato uno dei suoi semidei, o forse era stato Loki in persona che aveva preso le sembianze di Astrid o – e  questo non mi piacque per nulla- era stata lei stessa ad agire spinta dalle intriganti parole del Dio degli Inganni.
«Un’alleanza. Loki ha detto mostri, ma non ha parlato di semidei…» rifletté Annabeth, preoccupata, voltandosi verso Alex.
«Impossibile» fu la secca risposta del ragazzo. «Solo Odino potrebbe impartire ordine a tutte le Orde di muoversi e, anche se fosse, bisognerebbe prima consultare il consiglio di guerra per decidere se è opportuno o no, dare rifornimenti aggiuntivi ed equipaggiamento… no, Loki non userà semidei norreni.»
Magra consolazione, presto avremo dovuto occuparci del doppio dei nemici. Non ne parlammo più, ma tutti pensavamo la stessa cosa: non è una coincidenza se ci siamo incontrati adesso; qualcuno lo voleva. Arrivammo in cima alla collina dove era di guardia un ragazzo dai capelli rossi e gli occhi azzurri. Aveva proprio l’aria di un ragazzo del nord.
«Comandante!» esclamò lui, mettendosi sull’attenti alla vista di Alex. «Ben tornato. Spero che ce l’abbiate fatta. Sono felice che siate vivo.»
«Sono vivo, ma il GPS era una trappola. Devo parlare con Hermdor, il martello è ad Asgard. Disattiva il campo minato. E, Gerard… preferirei che mantenessi la mia presenza qui sotto silenzio.»
Non disse nell’Hellheim, probabilmente anche lì, Astrid non sarebbe stata ben vista. Il ragazzo annuì sbrigativo e prese un telecomando. Appena premette il pulsante, si sentì un secco rumore elettronico: le difese erano state disattivate e noi entrammo di filata. Non ci fermammo nemmeno un secondo.
Ebbi una veloce visione del Campo Nord dall’alto: gli alloggi e i templi con il bosco vicino simile al nostro. I templi erano, però, molto più “spartani” delle nostre case, anche se, a modo loro, erano fieri e altezzosi. Sembrava più un accampamento militare che un vero e proprio Campo.
La loro Casa Grande era più simile ad un castello fortificato e le guardie all’esterno erano elfi in armatura. Ricordavano vagamente quelli del Signore degli Anelli, ma notai come emanassero una certa luminosità personale. Non ci bloccarono e ci lasciarono entrare nel salone principale: un grande stanzone, illuminato da lampadari, costituito da una lunga fila di colonne che formava tre navate.
Dopo una decina di metri, si apriva ulteriormente, creando uno spazio circolare con un grosso tavolo al centro, dove ci attendeva un uomo alto dall’aria dura e minacciosa. Indossava mimetica e aveva armi attaccate in ogni parte del corpo. Sulla sua spalla era appollaiato un corvo che mi sembrò proprio Mugin.
«So perché siete qui. Hugin mi tiene informato» disse appena ci vide, prima che potessimo proferir parola. Silenzio.
 «Ma non era Mugin?» chiesi, stupito, osservando l’uccello che svolazzava via.
«Mio padre ha due corvi gemelli: Hugin e Mugin. Spesso aiutano anche i suoi figli portando informazioni» mi spiegò Alex sottovoce, mentre avanzava verso il suo superiore.
Osservandolo, mi venne a mente quanto Chirone fosse differente: lui ci avrebbe accolti a braccia aperte, stringendoci e chiedendoci come stavamo, magari offrendoci nettare e ambrosia per sanare le nostre ferite.
«Siamo qui per andare nell’Hellheim. Dobbiamo aprire il Bifrost. Il martello di Thor è lì e posso raggiungerlo solo in questo modo» spiegò Alex, guardando negli occhi l’uomo che doveva essere Hermdor.
C’era qualcosa che non mi piaceva nello sguardo di quest’ultimo.
«Mi spiace, Alex, ma non posso. Ordini dall’alto, nostro padre ha convocato la figlia di Hell. Verrà condotta ad Asgard per essere giudicata dal Consiglio degli Dèi. In quanto ai greci, sono nostri nemici e lo sono stati in passato. Potranno andarsene, ma che sappiano che non saranno più accolti qui.»
A quelle parole notai che, dietro le colonne, si era radunato un plotone di circa trenta elfi, tutti con le armi pronte. Metà di loro aveva arco e frecce, gli altri spade e scudi. Astrid ebbe un tremito e indietreggiò, finendo al centro del gruppo. Un istinto protettivo mi animò e mi posizionai per difenderla estraendo la mia spada, così come fecero tutti gli altri, Annabeth compresa.
Eravamo in guai grossi, adesso.

 
koala's corner.
Ed ecco qui il capitolo seguente, che ci riporta al Campo Nord, dove tutto è iniziato.
Einar dimostra di non essere solo un provocatore figlio di Loki, ma ha anche un cuore.
Io l'ho amto molto, in quella scena *-* Thanks to my partner
Percabeth sparsa e Poseidone leggermente scontroso. Poi, c'è la parte in cui Loki e Crono si incontrano e fanno un accordo. Ci sarà lui dietro tutto questo?
Siete stati davvero meravigliosi, ci avete regalato ben 5 recensioni! Speriamo che anche per questo capitolo dimostriate lo stesso capitolo, fatelo per Percy :3 Alla prossima!

Soon on Sangue del Nord: POV Astrid, di cui lasciamo solo il titolo - "Tre pirati ci accolgono sul vomito di un unicorno". Incuriositi? We hope so.
 

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Capitolo 12
*** ASTRID • Tre pirati ci accolgono sul vomito di un unicorno ***


Tre pirati ci accolgono sul vomito di un unicorno

♦Astrid♦
Era palese che, se avessimo attaccato, avremmo firmato la nostra condanna a morte. Probabilmente, Annabeth stava invocando mentalmente sua madre, pregandola di far ragionare dei certi energumeni nordici. Alex scelse di parlamentare.
«Hermdor, se hai ricevuto le informazioni dagli dèi, dovresti sapere che sono prove troppo precarie per condannare Astrid.»
Il capo del Campo non lanciò neanche uno sguardo alle armi che gli ricoprivano il corpo. Questo poteva significare solo due cose: o era disposto a parlare, o non ci riteneva abbastanza capaci da poterlo sconfiggere disarmato. Sperai vivamente si trattasse della prima opzione.
«È anche per questo che è stata chiamata ad Asgard, per decidere se è colpevole o meno» replicò.
«Sappiamo bene entrambi che non è così» lo corresse Alex, giocando nervosamente con l’elsa della sua spada. «Serve un capro espiatorio e Astrid è, al momento, la candidata perfetta.»
Hermdor inarcò un sopracciglio. «E con questo? È il volere degli dèi, non ci si può opporre.»
«Ma è sbagliato!» sbottò. «Dovresti conoscerla, non farebbe mai qualcosa del genere!»
«Non so come puoi esserne tanto convinto» sospirò l’altro. «Nessuno la conosce veramente se non lei stessa. E, per quanto mi riguarda, nella vita si fanno tante cazzate, questa potrebbe essere la più grande della sua vita.» Scrutò profondamente Alex, facendolo tentennare sul posto. «Forza, abbassate le armi, non voglio che vi facciate male.»
Mi chiesi se in quel “voi” fossero compresi anche Percy e Annabeth che, di fatto, per Hermdor erano solo un peso inutile e sacrificabile.
«Puoi scordartelo» ringhiò Alex. Come un’orchestra che ha provato per giorni e giorni, gli elfi avanzarono al minimo gesto del loro capo.
Il cerchio si strinse attorno a me, e mi ritrovai pressata tra il corpo di Einar dietro e quello di Alex davanti. Volevano davvero combattere? Farsi uccidere, sventrare, spappolare, tagliuzzare, affettare, trafiggere, impalare, sminuzzare, schiacciare, pestare? Percy si sottrasse a una stoccata, colpendo un elfo e disarmandolo. Be’, per quanto mi riguardava, non avrei permesso che questo accadesse per colpa mia. Era finito il momento di piangersi addosso e nascondersi, era arrivato il tempo di affrontare a testa alta i problemi senza procurare altri danni.
«Fermi!» gridai. «Stop!»
Tutti abbassarono le armi, guardandomi allibiti. Avanzai verso Hermdor, decisa. Con lui valeva la stessa regola che coi cani: se non vuoi farli arrabbiare, non guardarli negli occhi. La ignorai completamente, sfidandolo a sbranarmi, se ne aveva voglia.
A pochi passi da lui, mi fermai e sentenziai: «Sono pronta ad andare ad Asgard di mia spontanea volontà. Loro non c’entrano nulla, né voglio che si facciano ammazzare per me, che non merito le loro vite.»
Alex mi afferrò il braccio da dietro, dandomi uno strattone.
«Non essere stupida» sibilò. «Sarai condannata a morte.»
Gli sorrisi, sforzandomi di rassicurarlo. «Tutti devono morire, prima o poi.»
Gli lessi negli occhi la volontà di legarmi, imbavagliarmi e nascondermi in uno sgabuzzino, lasciandolo a combattere per ciò in cui credeva.
«Fa’ come dice» intimò Hermdor, ruvido.
Mi liberai dalla presa di Alex. Stavo per consegnarmi nelle mani del capo, quando avvertii uno strattone e l’ambiente attorno a me si dissolse. Vorticai in un bianco sfolgorante, come se mi avessero messo in un contenitore di intonaco e l’avessero spedito sulla Luna.
Poi, sbattei contro qualcosa di duro con tutto il corpo. Chiusi gli occhi, cercando di scacciare il capogiro. La mia guancia premeva contro quello che sembrava un mattone.
Sbattei le palpebre, vagando attorno con lo sguardo. La mia faccia era effettivamente schiacciata contro un pavimento color melanzana che, più si spaziava con gli occhi, più assumeva tinte, sfumature e toni differenti. Mi tirai su, mettendomi a gambe incrociate, studiandomi attorno.
Con me, erano atterrati anche tutti i miei compagni di viaggio. Annabeth si alzò, barcollando sulle gambe. Osservando in torno, la sua espressione divenne ancora più crucciata.
«È… è un arcobaleno.»
Non potei non darle ragione. Se guardavi in là, riuscivi a scorgere tutti i setti colori, in milioni di differenti toni, riprodotti su mattoni. Percy si diede una sistemata ai capelli e domandò: «E da dove spunta un arcobaleno su cui si può camminare?»
Scrollai le spalle. «L’avrà vomitato un unicorno.»
«Dolcezza, questo è il Bifrost» mi apostrofò Einar. «Un unicorno non può vomitare Bifrost.»
Arrossii violentemente. Come avevo potuto non riconoscere il ponte arcobaleno che collegava Asgard a tutti gli altri regni? Mi diedi della stupida.
«Esatto!»
La voce sconosciuta ci fece sobbalzare tutti. Un omaccione biondo, con le spalle larghe e un sorriso a trentadue denti, di cui uno dorato, batté le mani e ci sorrise. Indossava un completo da pirata, con tanto di camicia a fronzoli, brache di cuoio e stivali al ginocchio. Gli mancava solo il pappagallo e la benda sull’occhio.
Rimasi impietrita a quella vista, indecisa se ridere perché un pirata era spuntato dal nulla o non dire nulla, dato che avevo riconosciuto quel dio.
«Divino Heimdallr… che piacere» si affrettò a dire Alex, farfugliando.
Heimdallr si diede un’occhiata ai vestiti. «Oh, non preoccuparti per questi, figlio di Odino. Ero a una festa, sai, per via della copertura
Strizzò l’occhio, sottolineando “copertura” come se fosse un gran segreto tra amici di vecchia data.
«Ragazzi!» esclamò una donna, comparendo dal nulla.
Anche lei, portava abiti da piratessa, che le davano un’aria mortalmente sexy. Gli stivali alti e il pantaloni scuri slanciavano la figura, il cinturone puntava l’attenzione sul seno, facendo scomparire dalla mente l’idea che potesse avere anche un solo rotolo di ciccia; i boccoli rosso fuoco le ricadevano sulla schiena e sul petto, intrecciati a conchiglie e perline di vari colori. Portava una bandana scarlatta, cui erano cucite delle paillettes, che le copriva la fronte fin quasi agli occhi, contornati da un ombretto scuro e tanta matita nera.
Al suo fianco, un uomo stava decisamente più scomodo ne sui panni alla Jack Sparrow, e continuava sistemarsi un pappagallo finto sulla spalla, che non la voleva sapere di stare dritto; con la benda sull’occhio destro, era decisamente ridicolo. Aveva un’aria tesa, nevrotica, come se non riuscisse mai a stare fermo.
«Io so Freyja, e lui è Foreseti. Insieme siamo i vostri…»
«Fantagenitori» fece Nico, beccandosi cinque paia di occhiatacce.
Heimdallr rise, tenendosi la pancia, e anche Freyja proruppe in un risolino.
«Vi prego» supplicò Foreseti, il dio degli accordi. I suoi occhi erano febbricitanti. «Non abbiamo tutto il giorno e non possiamo perdere tempo con tali scherzi. La nostra copertura potrebbe saltare.»
Alla parola “copertura”, gli altri due si fecero attenti. Freyja annuì, convintissima.
Heimdallr confermò: «Già, verissimo, chiarissimo. È per questo che dovete il collegamento lampo.» Sorrise. «Oh, la festa in tema Pirati dei Caraibi era perfetta, il nostro magnifico alibi che ci permetterà di aiutarvi a continuare la ricerca di Mjiolnir.»
«Sì, perché non tutti noi siamo d’accordo con Odino e la sua idea di convocare la figlia di Hell ad Asgard» precisò la dea dell’amore.
«Nessuno mi dà mai ascolto» brontolò Foreseti, strappandosi il pappagallo dalla spalla. «Un dio della ragione tra un centinaio di orsi da battaglia. Per fortuna, questa volta c’è qualcun altro dalla mia parte.»
Freyja guardò il peluche del pennuto a terra, accigliata, nonostante rimanesse bellissima anche così. Lo raccolse e gli lisciò le piume di stoffa. Si schiarì la voce.
«Comunque, vi accompagneremo fino alle porte dell’Hellheim. Da lì, non potremo più aiutarvi.»
«…ehm… perché?» domandò Percy. «Ormai siete arrivati qui, ci avete salvato, e poi avete la copertura
Lo disse come se stesse parlando della Scuola di Magia e Stregoneria di Howgarts, facendo sorridere Heimdallr.
«Perché vedi, semidio, più entriamo nelle profondità del regno di Hell, più i nostri poteri si affievoliscono. Non possiamo rischiare» spiegò Freyja, dolcemente.
Percy arrossì, e Annabeth gli tirò un calcio negli stinchi.
«Abbiamo anche qualcos’altro per voi» aggiunse Foreseti. Schioccò le dita, e sul palmo della mano gli comparvero delle fasce d’oro massiccio.
«Questi braccialetti vi permetteranno di sollevare il martello di Thor che, altrimenti, vi schiaccerebbe con il loro peso e morireste. Potete reggerlo per mezza giornata, poi il potere svanirà, e di voi resterà cenere.»
Ebbi l’impressione che volesse sottolineare il fatto che saremmo morti, se non avessi eseguito quelle regole. Heimdallr batté le mani, e le fascette ci comparvero ai polsi. Freyja storse il naso.
«Sono così fuorimoda» commentò, prima di schioccare a sua volta le dita.
Mi ritrovai dei polsini di gomma colorati, che riportavano la scritta: “GUARDA ALLA TUA DESTRA E SORRIDI.” Seguiva a tutto una faccina felice. Normalmente, non avrei seguito le indicazioni di un braccialetto di plastica morbida, ma quello era il braccialetto di plastica morbida di una dea, e non potevo ignorarlo.
Mi voltai e sorrisi, incrociando Alex, che faceva la stessa cosa. Ci scambiammo uno sguardo confuso, prima che arrossissi fino alla punta delle orecchie e abbassassi gli occhi. Stupido polsino.
«Adesso capisco perché la dea dell’amore è d’accordo» borbottò Annabeth.
Freyja liquidò quella faccenda con un movimento aggraziato del polso, facendo tintinnare una fila di bracciali finissimi. Si diede una sistemata agli orecchini a cerchio, così grandi che avrebbero potuto essere usati come anelli da infilare nel naso di un bovino.
«Allora, ci seguite o no?» incalzò Foreseti, guardando in direzione di Asgard con preoccupazione.
«Certo!» rispondemmo all’unisono, riprendendoci da quello strano incontro.
Ci incamminammo dietro di loro, che facevano strada, chiacchierando e rivolgendoci qualche battuta, anche se ogni tentativo di conversazione si spegneva dopo la riposta a monosillabo. Insomma, quella situazione non era normale. Se pensavi agli dèi, ti venivano in mente quei quadri di pittori famosi con scene di morte, guerra o amore. Come la Venere di Botticelli, ad esempio.
Non ti figuravi quella scampagnata in stile Disney, con tre divinità vestite da pirata che cercavano di intavolare conversazione. Mancava solo che si materializzasse le Perla Nera o il tappeto volante di Aladino, un agguanto di Sandoncan o qualcosa di simile, per completare la visione. Senza contare il ponte arcobaleno.
Da sempre, quel particolare mi era sembrato fuori posto: un pantheon enorme dedito alla guerra, che riceveva i propri nemici facendoli camminare su mattoni colorati?
Era di certo più adatto a Dorothy, il suo sentiero dorato e la sua sfilza di amici strambi – il leone pauroso, l’uomo di latta, lo spaventapasseri e il mago di Oz. Almeno, era molto più carino di quello che ci aspettava nell’Hellheim. Dalla festa per bambine delle elementari a una riunione gotica di ragazzi strafatti.
All’improvviso, Annabeth intervenne: «Scusate, avrei una domanda.»
«Quale sarebbe?» la invitò Foreseti, senza smettere di camminare.
«Perché ci state aiutando? Non vorrei mancarvi di rispetto, ma non penso sia solo per unire una dolce coppietta, no?»
«Io non mi devo unire a nessuno» ringhiai.
«Sì, e io amo ballare nuda avvolta in una tenda su un tavolo» replicò lei.
«Perché, non ti piace?» la provocai.
«Non tutti hanno i tuoi stessi gusti» si schermì.
«Già, per te: niente tenda, direttamente nuda» ribattei.
«Tacete!» sbottò Foreseti.
Sentii la mia bocca chiudersi a forza.
Si massaggiò le tempie. «Dèi e semidei… con loro, è impossibile avere un po’ di silenzio.»
«Vediamo di rispondere alla tua domanda, figlia di Atena» riprese la fila del discorso Heimdallr. «Sono il dio dei collegamenti, governo il Bifrost, ma ho anche l’udito più sviluppato di tutti di gli dèi. Posso sentire il frusciare di ciuffi d’erba, il loro crescere il primavera. Se la tua amica avesse fatto un viaggio d’ombra per raggiungere gli orchi, stai certa che l’avrei sentita.»
«Ma non l’ha fatto» intuì Alex, un’espressione raggiante che si stava schiudendo sul suo viso.
Annabeth non sembrava dello stesso parere. In quanto a me, desiderai ardentemente andare abbracciare Heimdallr e scoccargli un bacio sulla guancia. Peccato che fosse un dio.
«Ah-ah» confermò. «La maggior parte, però, non mi ascolta. Gli altri dèi non ascoltano chi ha deciso di fare il bastian contrario, rovinandogli i piani e sconvolgendo le carte in tavola. Preferiscono qualcuno a cui staccare la testa.»
«Normalmente, anch’io non avrei preso sul serio questo fatto» ammise Freyja, improvvisamente seria.
L’aria di festa l’aveva abbandonata, sostituita da un cipiglio serio.
«Ma, quanto una dose di sentimenti spezza la noia, mi interesso alle faccende. La signorina, qui, ha decisamente stabilito di diventare soprano, negli ultimi giorni. Per Asgard, se fossi tua madre ti avrei uccisa!»
Desiderai che il ponte arcobaleno mi risucchiasse nella tavolozza di colori, o che il genio blu della lampada comparisse, esaudendo la mia volontà di diventare invisibile. Probabilmente, se mi fossi accostata a dei mattoni rosso vermiglio, sarei scomparsa come un camaleonte.
Freyja si batté un indice sul mento.
«In verità, se fossi veramente tua madre, prima di ucciderti ti avrei torturata. But who cares?*» Alzò le spalle.
«Ma se Astrid è scagionata, perché gli altri dèi si ostinano a non ascoltarvi? Non potete essere così duri d’orecchi» obiettò Percy. Ero sicura che avesse in mente parole meno gentili, per l’ultima frase.
«Bah, forse ci piace veder affannarsi voi eroi» rispose Foreseti. «Non ne vediamo molti, in questi anni. Una famiglia divina dovrà pure avere qualche tipo di divertimento.»
«Così, fa ridere osservare noi semidei morire» replicò Percy a denti stretti.
«È l’ordine naturale delle cose» tentò di calmarlo Heimdallr, con scarsi risultati.
Quella storia assomigliava parecchio alla trama crudele di un libro. Annabeth trattenne Percy, che stringeva i pugni pur di non dire qualcosa di molto sconveniente. Era già molto se ci avevano tolto dai guai con Hermdor, non era saggio stuzzicare il loro lato lunatico. In un certo senso, ammiravo il figlio di Poseidone. Era altruista, generoso, e si sarebbe buttato nel fuoco per salvare le persone che amava.
Annabeth era estremamente fortunata a ritrovarselo così vicino, e avevo la sensazione che se ne rendesse conto. Ma c’erano semidei che non si potevano permettere di essere altruisti, visto che a fatica potevano aiutare se stessi.
Immaginai di riempire il modulo di qualche test della personalità, che chiedeva con quale aggettivi ti saresti definita; di sicuro, avrei scritto egoista. A Percy toccava la parte di leale e figo stratosferico. Camminammo in silenzio, rotto solo dal tintinnare dei braccialetti di Freyja.
Non so quanto andò avanti, ma, a un certo punto, i tre dèi si fermarono e dichiararono che non potevano scortarci più in là.
«Ci sarà qualcuno ad aspettarvi. Spero che, visto chi vi portate dietro, decida di non sbranarvi. Buona fortuna!» salutò Heimdallr, voltandosi.
Continuammo da soli, mentre si poteva avvertire l’ansia crescente e un alone di morte condurci verso le porte dell’Hellheim. Era il regno di mia madre – il mio regno- che ci chiamava, ci sfidava. Era la prima volta che sentivo di avere davvero paura, un panico più reale. Non era un sogno, non potevo svegliarmi sudata prima che accadesse il peggio. Stavamo entrando nell’incubo da svegli.
I colori dell’arcobaleno, sui mattoni, diventavano sempre più sbiaditi e quelli freddi si incupivano. Capii immediatamente quando arrivammo a destinazione. Le porte dell’Hellheim sembravano essere state scardinate da un semplice armadio, fatte passare tra una serie di unghie e denti affilati, ridipinte di nero e poste lì, affiancate da alberi morti e mucchietti di scheletri.
Erano solo decorative, perché, dietro, un’imponente caverna e la sua entrata erano più grandi di loro. Un vecchio cartello riportava una scritta, che voleva simulare la colata del sangue. Era una citazione di Dante: “PERDETE OGNI SPERANZA OH VOI CHE ENTRATE.”
Al posto di “entrate”, però, qualcuno aveva tracciato una linea con delle bombolette spray e aveva scritto “puzzate.” Così, chi stava per aprire quelle porte, leggeva: “PERDETE OGNI SPERANZA OH VOI CHE PUZZATE.”
«Io non puzzo» si tirò indietro Percy.
«Allora sei salvo, amico» lo prese in giro Einar, annusandosi teatralmente la maglietta.
Un ringhio cupo accompagnò quelle parole. Alla base delle porte, un grosso mastino nero faceva la guardia e aveva alzato le labbra, scoprendo i denti. Aveva il ventre di un color ruggine, come sangue incrostato, e la spina dorsale era composta da scaglie di serpenti, che terminavano in una coda con la testa da vipera.
Era il “qualcuno” cui si riferiva Heimdallr: Garmr, il custode delle porte.
«Buono, bello» mormorai, cercando di essere rassicurante.
Mi avvicinai a lui, che emetteva bassi ringhi, le orecchie a triangolo tirate all’indietro. Che altro sapevo sui cani?
Andai a ripescare le mie conoscenze nel fondo della memoria. Il loro istinto era di difendere il branco, o il luogo dove vivevano, e avevano una piramide sociale che si basava sulla fiducia e sugli stretti legami familiari. Di solito, chi si sottometteva all’alfa, il capo, mostrava il ventre o la gola, oppure si schiacciava a terra.
Mi abbassai, mettendomi a quattro zampe, così da essere più bassa del mastino. Sperai che questo bastasse, perché non morivo dalla voglia di mettere il mio destino tra le sue fauci. Mi avvicinai, strisciando.
Emisi uno sbuffo caldo, come facevano le mamme per calmare i cuccioli iperattivi. Garmr smise di ringhiare, raddrizzò le orecchie, in ascolto. A pochi centimetri dal suo grosso faccione canino, lui mi schiacciò il suo tartufo sulla fronte e inspirò il mio odore.
Dovette riconoscere che ero una figlia di Hell, perché latrò e mi leccò la faccia, sporcandomi con la sua bava. La coda-vipera si muoveva, sibilando gioiosa.
Annabeth stava per fare una battuta di cattivo gusto, ma Percy la bloccò e mi chiese: «Lui sarebbe…?»
Mi rialzai, lanciando un’occhiataccia alla bava che mi ricopriva la maglietta. Che schifo.
«Percy, ecco Garmr, il custode delle porte dell’Hellheim. Garmr, ecco i miei amici.»
Mi rivolse uno sguardo confuso, come a domandarmi: “niente cibo? Ossa da rosicchiare?”
«Gnam? Che nome è Gnam? Non è un invito a mangiarci, vero?» fece Percy, confuso.
«È Garmr, non Gnam» lo corresse Alex.
Percy borbottò qualcosa che suonò come “i nordici hanno solo nomi assurdi, non potevano chiamarlo Fuffi o Pallino?” Nico si fece avanti, porgendo una mano, e Garmr gliela leccò, facendogli il solletico.
«Ehi, bello, lo sai che assomigli a un segugio infernale di mia conoscenza?»
Il mastino lo fissò, attento. “Dov’è?” sembrava chiedere. “Voglio giocare!”
«Sarebbe un ottimo compagno per la Signora O’Leary» considerò Annabeth. «Cerbero sarebbe un tantino troppo grosso.»
I greci si trovarono d’accordo. Be’, Garmr non era certo un bel nome, ma chiamare un segugio infernale “Signora O’Leary” non era neanche il massimo. Almeno, il custode delle porte dell’Hellheim ci avrebbe permesso un passaggio sicuro. Accarezzai la testa del mastino e diedi le spalle all’ingresso, allargai le braccia, come un presentatore della televisione, e mi rivolsi ai miei compagni.
Mento alto, sorriso smagliante.
«Ecco a voi l’Hellheim!» esclamai, gioiosa.
Annabeth inarcò un sopracciglio. Einar mi guardò come se fossi pazza, Percy con lui. Nico era occupato a pulirsi la mano umidiccia di saliva. Alex non capiva i miei piani, dato che quel tono felice non si addice per nulla a quello che dovevamo affrontare.
«Sarà divertente» assicurai, sforzandomi di non risultare sarcastica. «Chi vuole entrare per primo?»

*but who cares? = ma a chi importa?
koala's corner.
Ed ecco il nuovo, atteso (?) capitolo, così come questo angolino-sclero.
Partiamo dalle cose importanti, cioé: Freyja shippa Alrid.
*doppia occhiataccia*
Ceh, ha pure il linguaggio da fangirl, perché solo le può dire "who cares" u.u E' troppo divertente mettere gli dèi in panni assurdi, quindi, perché non pirati? Dire che adoro quando Riordan trasforma le divinità è poco. Poi, scopriamo definitavamente che Astrid è innocente.
Bisogna dimostrarlo, però.
"Il vomito di unicorno" è un'espressione che spero conosciate tutti, perché altrimenti la battuta perde la sua carica. Per chi non la conoscesse, domandate pure^^
Speriamo che il capitolo vi sia piaciuto e che vogliate dircelo con una recensione, un abbraccio a tutti e alla prossima!

 
Soon on Sangue del Nord: POV Alex. Si scende nell'Hellheim, gita preferita da tutti i bambini, e la situazione non migliora di certo.

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Capitolo 13
*** ALEX • Una gita nell'Hellheim ***


 Una gita nell'Hellheim
•Alex•
 
Non ci potevo credere: Astrid era riuscita ad ammansire quel demone dalla forma di cane, che ora leccava sia lei che Nico. Ci invitò ad entrare in tono gioioso, del tutto stonato in quel contesto. Einar mi precedette, varcando le porte e lo strano cartello.
L’Hellheim – dopo essere passati da un breve tunnel- era solo una grande distesa di terra grigia, distrutta e piena di crepe. Il cielo era una distesa di nubi scure, senza nemmeno una stella. Qua e la apparivano montagne e rocce completamente brulle. Non c’era erba e non c’erano alberi, nemmeno quelli morti. Che bel posticino, eh?
Piccola premessa: Hell è una dea infernale, che domina sull’Hellheim, il mondo dei morti peggiori di tutti. Assassini, ladri, traditori, loro finivano lì. Hell, figlia di Loki, era stata esiliata lì dal mio dolce paparino senza un occhio. Da questo regno lei preparava una grande armata di non morti per opporsi ai guerrieri lucenti che mio padre portava nel Valhalla. Non c’era da sorprendersi che volesse vendicarsi per essere stata lasciata in un posto del genere.
La pianura era piena di fantasmi che si aggiravano senza fine in quella landa brulla. Spesso ci venivano addosso per poi passarci attraverso, come se non si fossero nemmeno accorti di noi. «Però… questo posto è fantastico. Io ci farei una festa» ironizzò Einar, guardandosi intorno. Sorvolando sul fatto, poi, che quella era casa di sua sorella maggiore divina e che Astrid, in teoria era sua nipote. Meglio proseguire.
Mi venne in mente che, da un punto di vista divino, io ero il bis-zio di Astrid e zio di Einar. So cosa mi direte: cavolo, sei messo male, quanti parenti! Tra gli Dèi le cose funzionano diversamente. Considerato che le divinità non hanno DNA ci va di lusso.
Innamorarsi di un ragazzo che ha il tuo stesso padre divino? No, grazie. Ma se il genitore divino era diverso? Sì, quello era più che possibile. Strano che mi venissero in mente queste cose mentre attraversavo una landa spoglia con dei fantasmi che mi giravano intorno, parlottando e dicendo cose senza senso. All’improvviso, però, la calma fu rotta da un latrato improvviso.
«Nascondiamoci!» esclamò Astrid, indicando una piccola collinetta rocciosa con un’apertura sul fianco: una grotta, luogo perfetto per nascondersi.
«Ci imbuchiamo ad una festa in una buca?» chiese Einar, come se fosse una battuta di spirito, mentre correva in quella direzione.
Tutti e sei ci rintanammo lassù e attendemmo. Percy e io ci affacciamo oltre l’apertura per vedere meglio. Una muta di cani, dal pelo nero e il muso allungato, simile a quello di un lupo, stava attaccando le anime dei morti. I fantasmi fuggivano in tutte le direzioni, ma, veloci, i mostruosi segugi li azzannarono.
Mi sembrava impossibile, dato che erano di carne ed ossa, che potessero afferrare un fantasma con i denti, ma ci riuscirono. Tre di loro avevano preso un’anima e tra i lamenti la trascinavano verso un punto imprecisato dell’orizzonte: un castello nero.
«Sto cominciando a rimpiangere Ade e il suo regno. Almeno lì c’era l’Elisio» commentò Percy con aria disgustata.
«Credimi, Hell non è sempre stata cattiva. Solo che, diciamo… Odino non è stato gentile con lei» risposi, cercando di non vomitare.
Era uno dei momenti in cui desiderai ardentemente sparire dalla faccia della Terra. Mio padre non era uno stinco di santo e aveva fatto i suoi errori. Alla fin fine, era colpa sua se Hell si era incattivita: era diventata una pazza criminale disposta a torturare i suoi figli. Era stato lui ad esiliarla lì, solo perché figlia di Loki. Aveva mandato molti eroi a morire per lui per poi farli uccidere dai suoi stessi servitori.
Certo, li aveva accolti nel Valhalla, poi, ma non è bello essere pugnalati alle spalle dal proprio stesso padre. Sapevo come ci si sentiva: l’avevo provato sulla mia pelle, pochi minuti prima.
«Dove li staranno portando?» chiese Nico, affacciatosi anche lui.
Sembrava l’unico, oltre ad Astrid, a sentirsi a proprio agio in quel posto. L’influenza degli Inferi Greci? Per tutta risposta, indicai la dimora di Hell.
«Quello è il Palazzo Infernale: Eljudnir, dove abita Hell e i suoi morti.»
Possibile che non potessero inventarsi dei nomi più simpatici? Avrei preferito di gran lunga chiamarlo Disney. Pensare poi ai nomi correlati al palazzo: la gigantessa Modgudr che sorveglia il ponte d’oro che attraversa il fiume Gjöll. Caratteri semplici per noi norreni, ma impronunciabili per tutto il resto delle persone.
Il castello era in pietra nera, con mura così alte che avrebbero fatto invidia all’Empire State Building. Il tetto era un ammasso informe, che si muoveva come se fosse vivo. Mi resi che era così: fatto da serpi vive intrecciate, che si agitavano orribilmente. Chissà che problema con le perdite d’acqua quando pioveva pioggia acida, lì.
Un fiume grigio e gorgogliante tagliava perfettamente in due la piana delle anime morte, che vagavano in giro senza meta. Il suo letto era fatto di spade spezzate e il suo scorrere mi ricordava il lamento di un morente.
Solo quando si avvicinava alla reggia degli Inferi si divideva in due, isolandola dal resto del regno. Ad unirla alla terra ferma vi era un ponte d’oro sorvegliato da una gigantessa.
Sarebbe potuta apparire normale – a parte le abnormi dimensioni-, infatti era vestita in jeans e maglietta – XXXXXXXXL-, ma al fianco aveva un’enorme scure insanguinata che sembrava dire: “Avvicinati e ti sventrerò come un pesce.”
«Che gentile, dimmi che è tua amica» sussurrò Percy alla figlia di Hell, che osservava accigliata il panorama.
Cercai di immaginare come si sentisse a ritrovarsi in casa della madre. Una madre che non l’aveva trattata molto bene. È una cosa piuttosto comune tra i semidei: di solito finivamo abbandonati per strada, i nostri genitori mortali ci consideravano dei pazzi, quelli divini delle mine vaganti e i mostri come spezzatini.
Era ovvio, dato che tutto quello che ci circondava finisse in fiamme o esploso, distrutto, maciullato, schiacciato, massacrato e devastato. Certo che, se, però, avessimo avuto un po’ di aiuto da una delle tre parti sopracitate, forse, avremmo potuto controllarci meglio.
«Comunque sia, non credo che abbiamo altra scelta. Dobbiamo superare quel ponte» replicai, riscuotendomi dai miei pensieri.
Nessuno sembrava felice di andare a prendersi la briga di interpellare la signora delle scuri insanguinate e, se per questo, nemmeno io. Ma dopotutto, dovevamo salvare Astrid, ritrovare il martello, riportarlo ad Asgard e, se ci avanzava tempo, evitare che scoppiasse una guerra tra Zeus e Odino. Be’, potevo portare anche un caffè, già che c’ero.
«Vado io.»
Adoravo Astrid quando mostrava quel cipiglio deciso e combattivo: mi ricordavo di quanto fosse forte. Io avevo avuto una vita molto più fortunata della sua. Avevo imparato a rispettarla, per questo: nonostante le difficoltà, non si era mai arresa. Mai si sarebbe arresa.
«Sicura? Questo non è un gioco, quella tipa non ti lascerà via di scampo» la trattenni io, mentre già si preparava ad andare.
«So quello che faccio, non preoccuparti» fu la secca risposta.
Era tesa, ma voleva dimostrarsi utile. Non avrei potuto bloccarla, così la lasciai andare, mentre Annabeth borbottava qualcosa sul fatto che fossi un “pesce lesso che aveva abboccato.”
Certo che quella figlia di Atena era davvero infernale: non potevi darle torto, e le sue occhiate erano degne di un figlio di Odino.
Erano simili a quelle che mia sorella di parte divina mi lanciava quando ancora ero un nuovo arrivato e mi sgridava perché avevo fatto cadere una fila di lance. Certo che, però, poteva evitare di essere così sospettosa. Il che mi faceva pensare che la parola “tradimento”, avesse per lei un significato doloroso.
«Calmatevi. Ce la farà» sentenziò Einar, stranamente teso – anche lui sembrava poco tranquillo. Nico, invece, stava fissando un mucchietto di ossa poco lontano da lui, come se volesse farle muovere. Effettivamente alcune tremavano e si alzavano formando un piccolo scheletro che, però, ricadde a terra disfacendosi subito.
«Dannazione.»
«Cosa c’è?» chiese Annabeth, poggiando una mano sulla spalla di lui.
«Non riesco a controllare le ossa. Cioè, ce la faccio, ma è come se qui fossero restie ad ubbidirmi» rispose il figlio di Ade, accigliato.
«Forse, anche per te vale la regola di cui ha parlato nostro padre. Se l’acqua non mi sostiene più, qui, magari anche i non-morti non ti ubbidiscono più come in territorio greco» ipotizzò Percy, mentre si guardava intorno, in caso altri bestiacce si avvicinassero.
Astrid, intanto, era arrivata ai piedi del ponte e la gigantessa non aveva ancora fatto nulla per fermarla. Si era già voltata verso di lei, ma non aveva ancora reagito: o i guardiani degli Inferi erano lenti come bradipi o stava pensando al taglio migliore da operare sulla mia amica. Pregai che fosse la prima.
Seguimmo la figlia di Hell fino alla base del ponte. Lei era a metà quando la gigantessa si mosse, ponendosi davanti a lei.
«Come mai volete passare? Non sembrate morti, a parte voi due» chiese, indicando Nico e Astrid. «Inoltre, i segnali di pressione indicano che voi avete la consistenza dei viventi.»
«Siamo qui… siamo qui per vedere mia madre» rispose la figlia di Hell con voce tremante.
Non mi sorpresi di vederla spaventata: vedere una gigantessa che ti brandisce sotto il naso un’ascia, non era proprio la cosa più rassicurante del mondo.
«Hell non riceve nessuno. Sua signoria, grande dominatrice degli Inferi e…»
«Gran figa, ladra, sovrana dei buchi puzzolenti» completò Einar, ridacchiando, beccandosi diverse occhiatacce.
Astrid, indietreggiò di un passo, ma alzò lo sguardo come per sfidare la guardiana.
«Lasciaci passare. Mia madre non sarà contenta!» sbottò, cercando di controllare il tremore che aveva nella voce.
Fu allora, quando ero certo che quella tipa ci avrebbe sventrati tutti, che si fermò, come si fosse ricordata di aver già visto la mia amica.
«Oh. Scusami, Kara, non ti avevo riconosciuta. Non sapevo avessi così tanti amici. Passate pure» si scusò la gigantessa, facendoci passare.
Sorpresa generale. Cosa stava succedendo, per tutti gli Dèi di Asgard e non!? Astrid non era mai stata nell’Hellheim, non in quella parte, almeno. Poi, un pensiero mi invase la mente opprimente: una vocetta negli angoli remoti della mia testa che iniziava a dubitare, urlando alla trappola e al tradimento.
Tutto ormai sembrava indicare Astrid come la colpevole di ogni cosa. In quel momento, poteva portarci benissimo in un’imboscata. Misi subito a tacere quella dannata sensazione.
Non era possibile. Io conoscevo Astrid più di chiunque altro: non ci avrei creduto nemmeno se me lo avesse detto Odino in persona.
Lei ci fece cenno di passare, approfittando del fatto che la guardiana Modgudr non ci avrebbe uccisi, per ora. Aveva l’aria abbattuta e triste ed ebbi la sensazione che avrebbe preferito essere colpita dalla scure, piuttosto che passare così facilmente. Anche se nessuno si lamentò di questo, dato che stavamo procedendo in modo piuttosto semplice.
«Entriamo nel castello, o magari qualcuno sa indicarci la strada migliore?» chiese Annabeth, allusiva.
I suoi occhi erano facili da interpretare: “Ormai è lei la colpevole, è ovvio e logico.” Al diavolo la logica.
«Facciamo un giro. Non credo che Hell si sia portata il martello dentro casa, ma probabilmente è vicino» proposi, cercando di domare l’infinità di voci che mi dicevano di dare ragione alla figlia di Atena.
Lei era innocente. Lo sapevo, avevamo promesso.
«Sei triste?» avevo chiesto, molti anni prima.
Quanti ne avevo? Tredici?
«No. Lasciami in pace.»
Astrid era già molto carina, nonostante avesse da poco superato i dodici anni. In quell’istante stava osservando un tatuaggio che aveva sul braccio: raffigurava uno scheletro avvolto da un aura di fiamme nere; il simbolo di Hell, la signora degli Inferi.
A giudicare dagli occhi aveva pianto. La sera prima era stata riconosciuta. Io avevo solo dieci anni, quando mi comparve il tatuaggio: tutti i miei compagni, anche quelli di sedici o diciotto anni si erano inchinati davanti a me, quando Hermdor aveva alzato il mio braccio mostrando il simbolo di Odino.
Era stato uno dei momenti più imbarazzanti della mia vita, tanto che avevo sperato di sparire all’istante. Sapevo cosa avevano pensato: “rispettiamolo, altrimenti il suo paparino mi fulmina”.
Il riconoscimento di Astrid, invece, era avvenuto tra le risate generali: nessuno aveva fatto lo sforzo di inchinarsi o di mostrare un minimo di rispetto. Le sue poche amiche si erano allontanate, come se fosse una malattia contagiosa e tutti gli altri erano scoppiati a ridere e alcuni avevano iniziato a prenderla in giro.
«È una figlia di Hell!» –  «Stai lontana, che non voglio ammalarmi.» –  «Tornatene dalla mammina, magari, così non ci infetti.» E altre battute ben poco piacevoli.
Mi sorpresi, quando lei non era scappata via. Improvvisamente, era diventata il bersaglio di tutte le angherie del ampo, persino più dei figli di Loki che, per inciso, erano gli unici a lasciarla in pace.
Non che la cosa mi sorprese, potevo immaginarli a pensare come anche loro erano sempre tenuti a distanza.
«Se non sei triste, allora, come mai hai pianto?» avevo domandato, cercando di assumere un tono comprensivo.
Eravamo seduti sotto uno degli alberi secolari della foresta che affiancava il campo, oltre il quale si intravedevano la spiaggia e le Drakar che usavamo per le esercitazioni in mare.
«Io non ho pianto» aveva risposto, cercando di essere convincente.
«Lo so… ma non devi nasconderti. È normale che tu ti sfoghi. La maggior parte di noi non è malvagia, solo che Hell ha una cattiva fama.»
La mia spiegazione ebbe l’effetto di deprimerla ancora di più.
«Quando sono venuta qui… Non lo so, speravo che mia madre fosse una dea a posto. Eir, magari, o Skadi. Ora mi accontenterei di Freyja» fu la secca risposta, mentre continuava a fissare un punto imprecisato per terra.
«A me non importa. Ti devo ancora un favore per avermi aiutato contro i goblin, tre giorni fa.»
Cercai di farla sorridere, ma, vedendo che non funzionava, decisi di essere più diretto.
«Ascolta, Astrid. Non mi interessa chi sia tua madre. Io ti considero un’amica e basta. Sei una brava persona, ne sono certo. Non dubiterei mai di te.»
Era vero, non l’avrei mai fatto. Lei era sincera, diretta e gentile, anche se un po’ irritante. Ma i suoi pregi erano tanti e io sapevo che ci si poteva fidare di lei.
«Davvero? Prometti che non dubiterai mai di me?» mi aveva chiesto, speranzosa.
Non avrei potuto rispondere diversamente da: «Sì, lo prometto.»
Mi riscossi dai miei pensieri, quando sentii qualcosa che mi solleticava la mente. Una sensazione di disagio e, allo stesso tempo, familiare. Presi dalla mia tasca la runa GPS e mi sorpresi che stava iniziando ad emettere una strana luce ad intermittenza.
Poteva significare solo due cose: o avevano acceso molte luci elettriche, oppure che il Martello di Thor era vicino.
«Finalmente!» esclamò Einar, felice di non dover entrare in casa della sorella divina.
«Come fai a controllare così bene le Rune? Io non ci riuscirei» domandò Percy, ammirato.
In effetti, nel mio caso, era una cosa istintiva.
«Mio padre, lui è il signore della magia, rune comprese. Per me è semplice come per te lo è controllare l’acqua. Per gli altri semidei, ci vorrebbero anni di concentrazione per poter manovrare la più semplice. Io sono capace di scolpirle e usarle in modo veloce ed istintivo» spiegai, cercando di nascondere il mio orgoglio.
Una delle poche cose utili che mio padre mi aveva dato. Continuammo a camminare spediti lungo le mura del castello, cercando di non pensare a quanti occhi di zombie ci stessero osservando dalle merlature.
La runa si fece più luminosa quando ci ritrovammo davanti ad una profonda grotta della quale non si vedeva il fondo.
«Ottimo, chi vuole andare per primo?» chiese Einar, facendo un passo indietro.
In effetti, c’erano troppi fatti che non andavano. Era tutto troppo facile. Dov’erano le sentinelle? Possibile che ci lasciassero passare così? Senza tentare di bloccarci? E dov’era Hell? Ci doveva aver percepiti, era il suo regno, dopotutto.
Deglutii.
«Non abbiamo altra scelta.»
Ci infilammo in fila indiana dentro, guardandoci le spalle. Avevamo tutti le armi sguainate, pronti ad attaccare tutto ciò che si muoveva – eccetto noi stessi.
«Dimmi, come funziona questa storia delle Rune?» domandò Annabeth, stringendo convulsamente il coltello, per una volta, ignorando Astrid.
«È complicato. Le rune sono magiche, vengono create secondo una procedura molto difficile. Semplici cerchi di metallo o pietra che vengono bagnati con sostanze vitali, di solito sangue, ma può essere anche latte della Audumla, foglie dell’Isola di Foreseti, acqua delle fonti fatate o altro. Durante il processo va pronunciata una formula magica. A seconda della formula e dell’incisione che vi è scolpita, la runa assume un potere diverso. Questo dipende anche da quanta concentrazione ed energia vitale concentri in essa. Se mi concentro molto potrei creare una runa capace di far saltare in aria un intero quartiere, ma quando agisce essa attingerà dalla mia forza vitale, quindi non è consigliato usarne di estremamente potenti, a meno che tu non sia un dio» spiegai, mentre la caverna si apriva su una scala che portava verso il basso.
Fortuna che avevamo delle torce, con noi, o ce le saremmo fatte tutte con il sedere.
«Ma… Al Campo non hai usato una runa, per bloccare Percy, ne sono certa» mi fece notare la figlia di Atena.
«Non ne avrei avuto il tempo. Ho usato una magia di imposizione. Con essa basta concentrarsi per evocarla. È più istintiva e versatile della magia runica, ma è molto difficile da controllare ed è meno potente.»
Ed era vero. La magia di imposizione era dominio di Freyja e dei suoi discendenti. L’avevo imparata a quattordici anni grazie ai corsi di recupero di Bethany, una sua figlia, che mi aveva dato delle lezioni.
Come per gli altri le Rune, anche io ebbi molti problemi a controllare i sortilegi, ma c’ero riuscito due mesi prima riuscendo ad evocare una fiammata senza svenire e senza dar fuoco ai miei vestiti.
La scala procedette nel buio per altri minuti. Ormai dovevamo essere proprio sotto il palazzo di Hell, quando ci ritrovammo in una gigantesca sala a volta.
Una fila di sei colonne per lato sorreggeva il soffitto e ad esse erano attaccate torce che illuminavano l’ambiente, fatto che ci permise di fare a meno di quelle elettriche. In fondo, su un altare contornato da tanti teschi c’era l’oggetto della nostra ricerca: Mijolnir.
Somigliava ad un comune martello da combattimento, di quelli che se ne vedevano tanti, al Campo, solo che non aveva un lato tagliente, sembrava un unico blocco di metallo, fuso al manico in acciaio ricoperto di fasce di pelle. Irradiava un fioco bagliore ed ogni tanto sprizzava qualche scintilla.
«Finalmente, ci siamo» sussurrai pensieroso.
Mancava poco: non credevo sarei arrivato fino a questo punto. Pensavo seriamente che sarei morto una decina di pericoli mortali prima. Eravamo tutti preoccupati. Ovvio, era troppo facile. Nessun ostacolo, davanti a noi.
Estrassi l’arma e avanzai. Una scelta giustissima. Superai le colonne senza che scattasse nemmeno una trappola. Avanzavo a passo spedito, con il solo pensiero di prendere quell’arma e andarmene. Ma le cose non sono mai così facili per noi mezzosangue. Un soffio d’aria mi solleticò i peli del collo, mi voltai di lato ed ebbi appena il tempo di vedere una lama dirigersi contro la mia faccia per potermi scansare, saltando all’indietro.
«Non avvicinarti, figlio di Odino» mi intimò la figura incappucciata.
Impugnava un’arma davvero strana: un manico con due lame per estremità. Ricordava la spada a due lame che maneggiava il Sith di Star Wars ne “La Minaccia Fantasma”. Nonostante la sorpresa, non mi lasciai intimidire: prima che i miei compagni avessero il tempo di raggiungermi, mulinai un fendente contro la testa del misterioso assalitore.
Con uno scatto si sottrasse all’attacco, ma la mia lama colpì comunque il pesante cappuccio facendoglielo cadere. Rimasi pietrificato.
Al mio fianco c’era Astrid, pronta a combattere con le sue mezzelune. Davanti a me, invece, c’era una ragazza uguale a lei.

koala's corner.
Il nuovo capitolo, che segna il punto di non ritorno: ormai sono nell'Hellhem, o ci usciranno vivi, oppure non se ne andranno affatto. Siamo anche agli sgoccioli della storia!
Siamo vicini alla fine, è vero. Chi sarà la nostra nuova conoscenza? Sono curioso di conoscere le vostre ipotesi :P C'è un po' di Alrid, che spero vi sia piaciuta.
A me sì *fangirla* Anche se nessuno batte i miei scleri sulla coppia, da brava co-inventrice di essa eh
Modesta, dicevano.
Speriamo che il capitolo vi sia piaciuto, restate sintonizzati per il prossimo capitolo! *biscotti e ciambelle a tutti*

Soon on "Sangue del Nord": POV doppio Annabeth e Astrid - Arriviamo a capo del mistero, ma i guai non sono finiti, anzi tutto il contrario.
 

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Capitolo 14
*** ASTRID/ANNABETH • Rischiamo di morire tutti, di nuovo ***


Rischiamo di morire tutti, di nuovo

♣Annabeth♣
 
Di norma, ci si ritrova una copia di se stessi davanti unicamente allo specchio. Solo che eravamo nell’Hellheim, in pieno territorio nemico, e non c’era possibilità di rimirarsi attraverso un vetro. Quindi, l’unica spiegazione possibile per cui una sosia di Astrid le stesse di fronte, era che fosse scattato qualche tipo di incantesimo norreno. Oppure… oppure, Astrid non era l’unica figlia di Hell. Nell’istante  in cui lo realizzai, l’incappucciata parlò.
«Sorpresa!» ci prese in giro. «Vi ricordo qualcuno?»
Era più alta di Astrid di qualche centimetro, ma aveva gli stessi lineamenti, lievemente più affilati, ed emanava una sensazione che metteva in allarme tutti i miei sensi.
«Chi sei?» chiesi, nonostante avessi già i miei sospetti.
La ragazza mi sorrise, maligna. «Spiega la tua teoria, figlia di Atena, so che ne hai una.»
Mi sentii punta intimamente. Aveva l’aria di chi si crede superiore, che pensa di conoscere i segreti di tutti ed essere talmente intelligente da manipolare le persone tramite essi. Strinsi la presa sul pugnale, scrutandola profondamente. Avvertivo gli occhi di Percy puntati su di me.
«Tu sei una figlia di Hell» dissi, la gola secca, «e sei la sorella di Astrid.»
«La gemella, di due minuti più grande» precisò. «Contenta di non essere più sola e unica al mondo, sorellina?» domandò, assumendo una sfumatura odiosa.
Mi sentii una stupida, un’emerita idiota a non aver vagliato prima quella possibilità. Avevo dato per scontato che ci fosse una sola figlia di Hell, come Nico era l’unico di Ade, visto che era estremamente difficile sopravvivere al di fuori del Campo.
Era l’errore più grosso e imbecille che una figlia di Atena, votata alla ragione, potesse fare. Se mi fossi fermata a riflettere seriamente sui fatti, forse avrei potuto evitare quella sorpresa, partire avvantaggiata. Astrid stava tremando, ma la sua risposta fu acida e la sua voce ferma.
«Tu, brutta figlia di puttana, stai mentendo» sputò, facendo per scagliare una mezzaluna contro di lei, mirando a staccare la testa.
L’altra fece un rapido gesto col polso, portando la sua strana spada a qualche millimetro dal petto di Alex, minacciando di trafiggerlo. Scosse il capo, facendo ondeggiare il capelli. Se non fosse stata una subdola nemica, avrei giurato che stesse prendendo corsi di recitazione apposta per perfezionare la sua posa affranta.
«Non farlo, o lui muore» sentenziò. «E gradirei che mi chiamassi col mio nome, Kara, e non insultassi nostra madre.»
«Sono una guerriera, non una ragazzetta che ispira a diventare Miss America con lezioni di bon ton» replicò, secca. «Puoi andartene all’Hellheim, Kara
Kara rise, sguainata, rischiando di aprire uno squarcio sulla pelle di Alex.
«Ci sono già, sorellina, è casa mia.»
«Be’, potevi anche disturbati a pulirla dalle ragnatele, visto che ci vivi» intervenne Percy, interrompendo quella pericolosa rimpatriata.
Ti prego, non farti ammazzare, Testa d’Alghe, invocai silenziosamente, scoccandogli un’occhiata di sfuggita. Leggendo il suo linguaggio del corpo, potevo intuire che fosse spaventato e stupito in buona dose, ma tentava comunque di apparire sicuro di sé.
Kara gli rivolse un sorriso.
«Audace, figlio di Poseidone» si complimentò. «Peccato che, però, abbondino i maggiordomi. Loro sono ansiosi di conoscervi.»
Si concentrò, schioccò le dita e un rumore di ossa contro ossa si levò all’improvviso.
«Non mi piace…» sussurrai, mettendomi in posizione di difesa, i muscoli tesi.
A giudicare dal suono, decine di persone si stavano dirigendo a passo di marcia verso di noi. Immaginare le loro intenzioni non era difficile, dato che tutti volevano uccidere i semidei, alcuni in particolare. Mi affiancai a Percy, che si guardava intorno con ansia.
Gli scheletri ci raggiunsero presto, circondandoci, pronti a trafiggerci al minimo movimento o tentativo di raggiungere Mjiolnir. Erano simili a quelli che poteva evocare Nico, con tute militari di varie epoche – Napoleonica, Fascista, Rivoluzione Francese-, e armati con le armi più disparate. Ci fissavano con le loro cavità vuote, attendendo ordini dal loro comandante.
«Ora, prima che i tuoi amichetti ci facciano fuori, ci racconterai la tua triste storia, vero?» fece Einar.
«Perché dovrei averne una?» domandò Kara, studiando il figlio di Loki, valutandolo da capo a piedi.
Il ragazzo scrollò le spalle.
«Tutte le gemelle malvage hanno una triste storia, ed è nella vostra natura raccontarla a chi volete uccidere, anche se non gli interessa affatto.»
Forse Einar guardava troppi film, nel tempo libero, ma era un ottimo modo per guadagnare tempo. Se dovevamo uscire da lì vivi, ci serviva un piano. Sicuramente, questo implicava fermare gli scheletri prima che fosse troppo tardi e non far arrivare Hell in persona. Nel caso fosse successo, saremmo stati tutti spacciati.
«Se proprio insisti» sospirò, girando attorno ad Alex, tenendolo sempre sotto tiro.
Lo punzecchiò con la lama, sfidandolo a muoversi, così da trafiggerlo sul posto. Astrid la guardava con sguardo di fuoco, stringendo così forte le mezzelune che la circolazione non fluiva nelle sue mani.
Rivolse una breve occhiata ad Alex e, nonostante la sua vita fosse stata sconvolta, il sopra spostato in basso, sembrò dirgli “non preoccuparti per me, pensa solo a sfruttare il momento migliore per uscire dal tiro della sua spada”.
Percy sussurrò al mio orecchio: «Qualche piano geniale, Sapientona? Ci farebbe comodo.»
«Ci sto lavorando» replicai. «Spero che Nico riesca a controllare i non-morti.»
Intanto, Kara stava decidendo da dove iniziare a raccontare la sua triste storia. Quando trovò il punto adatto, i suoi occhi si illuminarono e lei smise di gironzolare.
«La mia nascita – e quella di Astrid, ovvio- è stata inaspettata. Gli Dèi sono sempre stati diffidenti nei confronti di Hell, così come in quelli dei loro figli, e, se possibile, preferiscono che non ce ne siano molti. Però, è difficile venire a sapere di una gravidanza, quando una dea ha un intero regno semi inaccessibile dove nascondersi.»
«Piccoli prodigi» commentò il figlio di Loki, sarcastico.
«Einar» ruggì Astrid, zittendolo all’istante.
Gli scheletri non si muovevano, ancora in attesa. Dietro tutti i loro crani bianchi, la luce che emanava il martello di Thor li rendeva lucidissimi. Con lo sguardo, cercai una possibile via di fuga, mentre Kara riprendeva, per nulla turbata da quell’interruzione.
«Alla fine, Odino scoprì Hell e le ordinò di consegnare la figlia. Sperava che, se portata al Campo Nord, all’età giusta, sarebbe stata fedele agli Dèi. Ma non sapeva che di figlie ce n’erano due. A dire il vero, nessuno lo sa» precisò. «Comunque, ad Astrid toccò di vivere alla luce del Sole, godendosi le amicizie, il gelato e tutto il resto.»
Alla parola “amicizie”, Astrid borbottò qualcosa unito a un insulto.
«Io, invece, venni alleva nell’Hellheim, sotto gli insegnamenti della dea in persona. Conosco segreti che non potete nemmeno immaginare. In questi sedici anni, trascorsi nella solitudine e nel lavoro, ho passato le mie giornate a pregare che arrivasse il momento adatto per mettere in mostra le mie abilità. Non ho dovuto poi attendere molto.»
Individuai una galleria per puro caso. Una colonna di non-morti sembrava provenire da un unico luogo, quasi fosse il corpo di un serpente, e notai la curvatura della galleria grazie alla luce emanata da Mjiolnir. Come avremmo fatto a portare fuori un oggetto così grande e prezioso, quando non eravamo nemmeno sicuri di riuscire a uscire noi?
«L’avevo detto, io: le gemelle malvage hanno sempre una triste storia da raccontare» concluse Einar.
Kara lo liquidò con un gesto della mano. Ritornò a puntare la sua spada sul torace di Alex.
«Abbiamo già perso abbastanza tempo» tirò le fila.
Percy mi gettò un’occhiata speranzosa, cui risposi con un cenno del capo.
«Niente spiegazione illuminante sul perché mi vuoi ammazzare? Di solito, nei film d’orrore, le ragazze strillano sempre “non lui! È troppo bello!”»
«Mmh» rifletté Kara. «Penso tu sia abbastanza bravo per ascoltarmi mentre combatti per la tua vita.»
«Sono dislessico e ho un disturbo dell’attenzione» si lamentò Percy, quasi facendo il broncio.
«Te la cavera-» non finì la frase, perché Alex si gettò a terra e la colpì alle caviglie facendola cadere.
Kara rotolò via, sottraendosi all’affondo del semidio, rialzandosi in piedi più in là.
Ci guardò, furiosa, prima di annunciare: «Non-morti, attaccate!»
 
♦Astrid♦
 
L’idea di avere una sorella non era poi così male. Era quasi rassicurante sapere che non ero sola, che c’era qualcuno come me, che non ero l’unica a cui era toccato un misero destino. Peccato che mia sorella stesse cercando di uccidermi e fosse anche parecchio stronza.
Questo, però, non limitava le sue doti di combattente, dato che riusciva a tenere a bada egregiamente sia me che Alex. Certo, con un esercito di scheletri ai suoi piedi, era fortemente spalleggiata. Percy, Annabeth, Einar e Nico erano occupati con loro, nel tentativo di non essere sommersi dalle loro forze. Mjiolnir era un miraggio nella sala, così vicino eppure irraggiungibile.
L’avevamo trovato, avevamo quasi completato l’impresa, e non mi sarei permessa di fallire quando l’obbiettivo era a portata di mano. Prima, però, era necessario eliminare il problema più grosso: mia sorella. Kara si destreggiava nell’arte della scherma, non limitandosi unicamente a parare, ma sferrava anche offensive temibili. Alex stava sfruttando tutte le sue abilità, la fronte imperlata di sudore, lo sguardo fisso su Kara.
Quando la sua spada e quella di mia sorella si scontravano, nascevano scintille. O forse era lo stesso ragazzo a far scoppiare elettricità; il pensiero di essere stato messo in scacco doveva avergli dato parecchio sui nervi. In quanto a me, non sapevo se stessi combattendo per i miei ideali, la rabbia o la disperazione, oppure tutte le tre cose insieme.
Le mie mezzelune venivano deviate della sua spada biforcuta, raggiungendo poche volte il bersaglio, che si scansava prontamente. Ero riuscita tagliarle la cordicella che le teneva su il mantello, l’avrei quasi ferita, se non si fosse abbassata così prontamente.
Alex era certamente più abile, ma stava avendo comunque delle difficoltà. Coordinando gli attacchi, riuscivamo a colpire e a proteggerci a vicenda dagli scheletri che ci raggiungevano, minacciando di farci fuori alle spalle.
Stavamo combattendo in circolo, spostandoci come danzatori di valzer per l’ambiente, ma Kara ci allontanava con tutte il sue forze da Mjiolnir. Quando aveva tempo di riprendere fiato, spiegava una parte della storia sul furto del martello di Thor. Doveva gridare, tanto era forte il frastuono.
«Mettere in discordia gli Dèi e indebolire Thor!»
Fendente che l’avrebbe decapitata.
«Far pensare a Loki e seminare zizzania!»
Affondo che rischiò di trapassarle la milza.
«Lasciare che gli Dèi si distruggano con le loro stesse mani, godendosi lo spettacolo!»
Una ciocca di capelli recisa.
«Riuscire a rivalersi!»
Spada e mezzelune fermate a metà strada dal suo petto.
Quando ebbe finito, o fu stufa di elencare le varie ragioni, chiuse la bocca e divenne ancora più temibile. Evitai un colpo diretto all’occhio, spostandomi di lato e, mentre Kara si occupava di Alex, mi diede un calcio nelle costole.
Mi schiacciò a terra, dove rischiai di essere calpestata dagli scheletri. Strinsi i denti, ignorando il dolore al petto, evitando di essere trafitta da lance o pallottole un centinaio di volte. Qualcuno mi tirò su, uccidendo poi un non-morto.
«Tutto bene?» domandò Percy, accostandosi alla mia schiena.
Aveva la maglietta incollata alla pelle e i capelli si erano appiattiti per via del sudore. Gli occhi rilucevano di un brillio folle.
«Starò bene quando sarò di nuovo figlia unica!» replicai.
Lo sentii ridere, mentre conficcavo una mezzaluna nel corpo di uno scheletro. Ci saltai sopra, sfruttandolo prima che crollasse a terra, e raggiunsi quello successivo. Camminai sulle teste, le spalle, calpestando nasi e sfruttando le orbite vuote come appigli. Erano scivolosi e non offrivano un ottimo appoggio, ma erano talmente tanti che potevi farti strada sopra quel fiume di teste.
Arrivai ad Alex col fiatone, ma lui era troppo concentrato per arrischiarsi a guardarmi. Doveva pensare alla sua salute, non alla mia. Concentrandomi, ordinai allo scheletro su cui mi reggevo di avvicinarsi, ma quello non mi ascoltò. Sembrava sordo al mio richiamo, come se le mie parole non fossero quelle di una figlia di Hell. Non avevo mai provato a evocare spiriti o non-morti, ma se ci riusciva Kara, dovevo farlo anch’io.
Tuttavia, i miei sforzi furono inutili. Quando un fendente costrinse Alex in una postura proibitiva, diedi un calcio in faccia al mio scheletro-cavalluccio, costringendolo a forza ad avvicinarsi a mia sorella. Stava per attaccare ancora, ma io le saltai addosso.
L’impatto non fu per nulla morbido. Kara sembrava avere ossa di acciaio, altro che pelle liscia e morbida. Perse la spada, schiacciata a terra dal mio peso, però non sembrava intenzionata a rimanere disarmata a lungo.
La sua gamba si attorcigliò alla mia, e mi sbatté al suolo violentemente, rivoltandomi a pancia in su e ponendosi sopra di me. Le sue ginocchia mi bloccavano il respiro, il sangue che le colava da una guancia sporcò l’incavo del mio collo.
«Tentativo inutile, sorellina» sibilò. «Hell sta arrivando e questo esercito non si fermerà finché non ricaccerete nella terra ogni singolo soldato.»
Colsi un’ombra.
«Sai cos’altro sta arrivando?» feci io, sfidandola con gli occhi.
Kara mi squadrò confusa. Seguì il mio sguardo, che era puntato alle sue spalle.
«Un bel sonnellino!» esclamai.
Si girò, e il pomello della spada di Alex la colpì duramente in fronte. Ricadde in fianco a me, un taglio profondo all’altezza delle sopracciglia, da cui era già iniziato a riversarsi sangue.
«Speriamo sia eterno» commentò Alex, tirandomi su con una sola mano.
Un mare bianco fremette alla perdita della loro comandante, ma, invece di fermarsi, si infuriò ancora di più. Indicai Mjiolnir col mento.
«Prendilo, io chiamo gli altri» dissi.
«PERCY!» gridai. «ANNABETH!»
Strillai i nomi di tutti i compagni fino quasi a perdere la voce, ma funzionò. I ragazzi si ritirarono verso di noi, ricostruendo il gruppo. Il martello di Thor brillava nelle mani di Alex, che riusciva a sostenerne il peso solo grazie alle fascette d’oro dei tre dèi. Emanava potere, la sua aura bastava a incutere terrore.
Nico vacillò, e Percy lo afferrò al volo. Il ragazzino rifiutò il contatto, mettendosi in piedi da solo, ma era solo grazie al figlio di Poseidone se riusciva a stare eretto.
«Sto bene» protestò.
Ma non era vero. Uno squarcio si apriva sui suoi jeans, neri di sangue, all’altezza della coscia destra. Percy inorridì.
«Usciamo di qui» ordinò, come se avesse la gola secca.
«Là, c’è una galleria» intervenne Annabeth, indicandola con il pugnale. «Muoviamoci.»
Percy si mise il braccio di Nico al collo, sostenendolo nella fuga e difendendo se stesso e lui con Vortice. Ci facemmo strada a fatica, eliminando scheletri il più velocemente possibile. Ma quelli non erano così stupidi, oppure erano stati ben istruiti, perché si concentrarono subito sulla galleria.
Quando passammo sotto l’arco che ne segnava l’inizio, si erano riorganizzati e stavano convergendo in plotoni verso di noi. Spingemmo Percy con Nico al centro, lasciando Einar e Annabeth di retroguardia, mentre Alex ed io stavamo in punta. In quello stato di tensione, era difficile concentrarsi per localizzare quella via nella mappa sotterranea dell’Hellheim.
Correvamo, ma gli scheletri erano veloci e insensibili alla fatica. Ci raggiungevano da dietro e sbucavano in gruppi da altre gallerie, sbarrandoci la strada. Ogni battaglia mi lasciava col fiato sempre più corto, le gambe più pesanti, i piedi come macigni. Ma non potevamo fermarci, altrimenti saremmo morti.
E l’idea che Hell, mia madre, ci fosse alle calcagna… Rabbrividivo. Lei sì che mi spaventava nel profondo. Non le sarebbe importato nulla della nostra parentela, se le intralciavo i piani.
Qualcosa mi afferrò la caviglia, trascinandomi a terra. Sbattei il mento, e la mia vista si riempì di luci colorate. Sentii qualcuno muoversi sopra di me, e la presa sulla gamba si allentò fino a scomparire. Con un gemito, forzai le braccia e mi tirai su. Sbattei le palpebre, tastando con la lingua un taglio sul labbro.
Il sapore rugginoso del sangue mi invase la bocca. Alla mia sinistra, un tunnel si univa a quello che stavamo percorrendo. Avvertii una sensazione sottocutanea, e fui certa che quella strada ci avrebbe portato fuori.
«Di qua!» incitai.
Una scintilla di speranza si accese nel gruppo. Percy trascinò Nico nella galleria, seguito a ruota dagli altri. Annabeth aveva un’aria stravolta, i capelli ricci che sfuggivano da tutte le parti. Einar era stato ferito a un braccio, ma non sembrava grave. Guidai i miei compagni attraverso il tunnel, sicura che ci avrebbe condotti al Bifrost, nonostante le pareti riproducessero il passo dei soldati scheletro.
Presto, non fu la roccia a rimandarci indietro quel suono inquietante, perché avevamo l’esercito dietro di noi. Svoltammo a destra, e la luce mi investì. Quando fui in grado di vedere di nuovo, un ramo del ponte arcobaleno era davanti a me.
Percy incespicò verso di me, con Nico che ormai faticava a tenere gli occhi aperti. Quanto sangue aveva perso? Non volevo pensarci. Einar era troppo stremato per fare una battuta di qualsiasi genere. Alex emise un brontolio, affianco a me.
«Dritt» imprecò. «Non si fermano.»
Non c’era bisogno di specificare a chi si riferiva, lo sapevamo benissimo. I non-morti erano a una centinaia di metri da noi, il frastuono della loro marcia e delle loro armi era assordanti.
«Indietro» ordinò Alex.
Ritrasformò la spada, riponendosela in tasca. Impugnò con forza Mjiolnir, stringendo le dita attorno all’impugnatura, cui erano legate strisce di cuoio.
«Che vuoi fare?» la mia domanda si sovrappose a quella di Annabeth.
Gli scheletri erano sempre più vicini, e Alex andò loro incontro a testa alta. Aveva assunto quella postura da cavaliere che non sapeva di avere. Bloccò le nostre obiezioni, avanzando ancora di qualche passo. Sollevò il martello.
«Indietro!» intimò, il tono che non ammetteva discussioni.
I “se” e i “ma” mi morirono sulle labbra. Allungai un braccio verso di lui, senza raggiungerlo. I non-morti stavano arrivando al Bifrost. Non mi allontanai. Percy era di qualche passo più avanti di me.
Alex caricò il colpo, ruggendo per lo sforzo, calando l’arma.
Il martello si abbatté sul pavimento, creando enormi crepe e provocando un terremoto. Esplose un fulmine, che mi accecò.
Mi sentii schiacciare a terra, scaraventata al suolo da una forza impossibile da contrastare. Mi dolsero i timpani, le orecchie si riempirono del tipico fischio di quando un oggetto elettronico non funziona. L’aria era talmente calda che sembrava potermi bruciare la pelle. Avrei gridato, se avessi avuto voce.
Mi rannicchiai in posizione fetale, pregando che tutto questo finisse. Quando l’interferenza dell’udito cessò, aprii gli occhi. Mi pareva di essere su un campo su cui erano esplose mine, con buchi di missili e i mattoni del Bifrost crepate.
Riuscivo a vedere i capelli biondi Annabeth ricoperti di terra, il coltello scivolatele via dalle mani. Cercai di mettermi in piedi, ma ricaddi a terra. Mi facevano male tutte le ossa.
Ricordai a me stessa che cosa fosse accaduto e, quando realizzai, spalancai gli occhi.
Gattonai verso l’entrata della galleria, le braccia che tremavano e reggevano stento il mio peso. I capelli mi coprivano in parte la visuale, ed erano coperti di polvere e terriccio. Le mie mani incontrarono un corpo, e i miei polpastrelli lo riconobbero. Sentii le lacrime pungere dietro gli occhi.
No.
Indugiai sulla riccia chioma di Alex, ne percorsi i lineamenti. Aveva gli occhi chiusi. Strisciai accanto a lui, cercando la sua mano. La trovai e la strinsi, portandomela al petto. Il suo corpo era inerme.
No.
Appoggiai l’orecchio al suo torace, cercando il battito del cuore. Niente. Silenzio totale. Mi accorsi di stare piangendo solo quando il sapore salato delle lacrime mi invase la bocca. Lasciai ricadere la sua mano, accasciandomi sul suo corpo esanime. Sentivo le forze scivolare via, alla stessa velocità con cui scendevano le mie lacrime.
Ti prego, Alex, non morire. Non morire.

koala's corner.
Ritornano questi folli aggiornamenti notturni - o dell'alba, visto che mezzanotte è già passata. E tornano anche i cliffhanger, che non ci abbandonano mai.
Mi sento crudele? Sì, molto, e mi piace *evil laugh* Stravedo quando posso scrivere questo genere di bastardate alla zio Rick LoL
Scopriamo l'identità segreta della ragazza del mio scorso capitolo, che è la sorella gemella malvagia di Astrid!
E' un po' un luogo comune, lo dice pure Einar, ma spesso le soluzioni più semplici sono quelle che si adattano meglio^^ Cogliete i suggerimenti Percico, perché Nico doveva appoggiarsi a Percy. Chi altro potrebbe salvarlo? *ammicca*
Era quasi impossibile coglierla, i tuoi scleri trovano sempre la via.
*mumble* Già, vero. Spero che il combatimento sia risultato abbastanza dinamico e che il capitolo vi sia piaciuto, così come che questo "non morire" vi stia mandando in crisi. Forse esagero hahah
Notte a tutti, alla prossima!

Soon on Sangue del Nord: POV Percy, la situazione trova la sua svolta ma niente spoiler! xD

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Capitolo 15
*** PERCY • Incredibilmente siamo ancora tutti vivi ***


♠Percy♠
 
Impossibile dire quanto tempo dopo mi svegliai. Ero convinto che mi sarei risvegliato nei Campi Elisi, maledicendomi per la mia stupidità nel farmi coinvolgere in un’impresa del genere.
Poi sentii una forte fitta al fianco, come se mi stessero premendo qualcosa di molto pesante sulla milza. Le cose cambiarono: iniziai ad aprire gli occhi, come riemergendo da un lungo sonno, e finalmente vidi la luce.
Capii subito che non poteva essere l’Hellheim, dove luce non ce n’era. Ero da qualche altra parte. Forse mi ero sognato tutta quella storia Dèi Norreni. Mi sarei alzato, sarei uscito dalla Cabina 3 e mi sarei preparato ad allenarmi per la guerra contro Crono.
Poi, però, mi resi conto che non mi trovavo al Campo Mezzosangue. Il soffitto era un’ampia superficie di marmo con decorazioni in oro. Era un luogo davvero strano, non l’avevo mai visto.
«Ti sei svegliato, eroe greco.»
Sobbalzai sul letto, quando sentii quella voce. Ormai ero pronto ad affrontare qualsiasi cosa. «Calmati, guerriero, sei al sicuro nelle sale della guarigione del Frohheimr, il palazzo principale di Asgard. Io sono una delle servitrici di Eir, dea della guarigione.»
A parlarmi era stata una giovane che doveva avere poco più di diciassette anni. Aveva lunghi capelli biondi lisci e due occhi azzurro cielo. I lineamenti erano dolci e morbidi, di una bellezza quasi eterea che ricordava un angelo. Era molto pallida, terribilmente simile ad una statua. Indossava una tunica molto lunga che arrivava alla caviglie, ma dalla lancia che portava legata alla schiena e dall’espressione truce, intuii che non era solo una guaritrice.
«Stavo per portarti nel Valhalla. Si siamo accorti dopo che eri ancora vivo. Ti ho medicato con molte erbe miracolose e con la vostra ambrosia» spiegò, senza staccarmi gli occhi di dosso, facendomi arrossire, dato che indossavo solo i boxer.
«Io… ecco… hai detto che ci troviamo… nel… nel Foreim? E cos’è il Valalla?» chiesi, ignorando completamente il significato di quegli impronunciabili nomi norreni.
Lei sembrò molto offesa dal modo in cui avevo parlato e mi rispose con voce dura: «Il Frohheimr! È la casa del Divino Odino, Re degli Dèi. Ed il Valhalla è il luogo dove vanno quelli come te, che muoiono in battaglia. O meglio dove saresti dovuto andare, se fossi morto.»
Detto questo se ne andò impettita. Varcò una porta, che si trovava a diverse decine di metri, e sparì. Ora che mi ero tolto da quell’imbarazzante situazione potevo osservare bene la stanza in cui mi ritrovavo: era ampia, molto alta, con un soffitto a volta che raffigurava schiere di guerrieri che venivano accolti nel loro paradiso – dal nome impronunciabile.
Io ero disteso su un letto che era affiancato da decine di altri letti disposti in due file.
«Percy, finalmente ti sei svegliato! Mi sono preoccupato un sacco, quando ti stavano per portare via» ssclamò Nico che mangiava una specie di yogurt nel lettino davanti al mio.
La gamba era stata fasciata e medicata e sembrava godere di buona salute. Era bello vederlo vivo, dato che il mio ultimo ricordo di lui era il suo corpo che stavo trascinando fuori da una buca infernale.
«Nico! Accidenti, sono felice di vederti tutto intero.»
Ero davvero sollevato.
«Credimi, eri uno straccio. Hai rischiato grosso. Quasi quanto Alex» mi informò lui, mettendosi seduto e appoggiando la schiena ai cuscini, indicando il nostro amico del nord svenuto poco lontano.
Sembrava messo molto male: le braccia erano bendate, ma si vedevano delle bolle e delle bruciature, come se fossero state avvolte dal fuoco. Inoltre era privo di sensi.
«Cavolo…»
Ricaddi sulle lenzuola candide, accorgendomi che anche io ero stato fasciato, al fianco e al braccio destro.
«Che diavolo è successo!?»
La mia domanda, fu, però, interrotta da una raffica di capelli biondi che si precipitò su di me, stritolandomi in un abbraccio soffocante.
«Stupido Testa d’Alghe! Stupido! Ti rendi conto di quanto mi hai spaventata?»
Annabeth aveva la stretta più forte di qualsiasi ragazza, tanto che temetti di morire per soffocamento. Mi resi conto che tratteneva a stento le lacrime e che doveva essere impazzita dalla preoccupazione. Dietro di lei Astrid e Einar si diressero a passo spedito verso Alex che non si era ancora ripreso.
«Io… io stavo solo cercando di difendervi. E volevo anche chiarire tutto questo casino per capire perché ce l’avevano con noi» spiegai, mentre la stringevo teneramente a me, felice di poterla rivedere.
Mentre attendevamo che accadesse qualcosa mi riferirono cos’era successo, mentre i nonmorti ci stavano sopraffacendo. Nico era quello messo peggio di tutti, Einar stava per ingaggiare direttamente l’esercito di zombie insieme ad Astrid, ma Alex li aveva spinti indietro.
Ricordai vagamente che mi ero avvicinato moltissimo a lui, lo stavo quasi per toccare per impedirgli di usare Mijolnir, ma non arrivai in tempo.
Anche nelle mani di un semidio, la forza scatenata da esso era stata così devastante che l’intero esercito di nonmorti era stato respinto ed Hell stessa si era ritirata per non essere ferita gravemente – per quanto gravemente potesse essere ferito un dio.
«… E poi è svenuto, probabilmente a causa dell’energia che aveva usato. Tu eri vicino all’esplosione e per un attimo, abbiamo temuto per la tua vita. Ma poi Eir e le sue valchirie sono arrivate e ti hanno salvato» concluse Einar, che si era avvicinato a noi.
Notai che anche lui era ferito: una semplice fasciatura al braccio.
«L’energia dell’esplosione si è sentita su tutta Asgard.»
«Cavolo, che botta che mi sono preso. Direi che siamo stati fortunati anche questa volta» sussurrai, massaggiandomi la testa. Ero ancora stordito.
«Ehi, Jackson, potrai dire di essere sopravvissuto a due Inferni, dubito che qualcuno potrebbe dirsi altrettanto fortunato» mi fece notare il figlio di Loki sarcasticamente, anche se, ormai ci ero abituato ai suoi modi un po’ strani.
Alex si riprese pochi minuti dopo, con Astrid che gli teneva la mano ancora bruciata, nonostante le ferite stavano guarendo velocemente. Era parecchio confuso e, secondo me, si stava chiedendo come facesse ad essere ancora vivo dopo aver sparato una bomba nucleare a pochi metri da lui.
«Cavolo… Per gli Dèi, siamo vivi!» esultò abbracciando la sua compagna.
Già, lo eravamo, ma io avevo la sensazione che non era ancora completamente finita. Eravamo certamente nella dimora norrena degli Dèi. Infatti, dopo poco tempo, la porta si aprì sbattendo e riconobbi la snella figura del dio degli accordi Foreseti.
«Il Consiglio degli Dèi si raduna, siete tutti invitati» annunciò, ammiccando verso di noi.
Si era liberato della stupida acconciatura da pirata e adesso aveva un bell’abito elegante nero con la cravatta. La barba nera era liscia e curata. Anche se io e Alex eravamo a mala pena in grado di camminare, non si rifiutava un’offerta di un gruppo di divinità, cinque delle quali erano ansiose di dimostrare quanto fosse bella la loro arma riunita al tuo cadavere.
Così, appena fummo in grado di alzarci, ci rivestimmo e ci incamminammo all’esterno. Non avete idea di quanto fosse bella Asgard: era una splendida città completamente dorata, costruita su una grande isola che ospitava tutte le dimore degli Dèi.
Annabeth era estasiata da tanta bellezza; anche le case dei semplici servitori elfi erano opere d’arte e lei amava l’architettura, soprattutto se era così meravigliosa e duratura. L’intera isola era circondata da spessissime mura che sembravano fatte d’oro e marmo, spesse come un’autostrada e così alte che potevano essere scambiate per montagne.
Nella parte più alta dell’isola sorgeva un edificio simile ad una grande baita che, mi dissero, essere la casa della dea Skadi – una sorta di Diana nordica che, però, non ne condivideva la verginità.
Il nostro obbiettivo, però, era un’immensa costruzione completamente dorata che si trovava nel centro esatto della città.
Ricordava una versione aurea del palazzo del consiglio dell’Olimpo. Il tetto era spiovente con due torri altissime a punta, in stile gotico che si elevavano verso il cielo.
«Wow, gli Dèi Norreni non si sprecano» commentai, osservando l’incredibile panorama.
Intanto, Annabeth si era messa ad esaminare le varie strutture, farfugliando: «Devo studiare la forma di questa colonna… come fa a tenere in piedi una struttura del genere? Che sia una disposizione stratificata con colonne sopraelevate…» e via così, snocciolando decine di termini di architettura che a mala pena comprendevo.
Almeno ero felice di vederla di nuovo in forma. Continuò per un bel pezzo, tenendosi, però, ancora al mio braccio, fino a che non giungemmo nella grande sala del Consiglio degli Dèi del Nord.
Eravamo al centro di un semicerchio formato da quindici troni. Davanti a noi, su un grande scranno completamente in marmo con decorazioni in oro e argento, sedeva Sua Signoria, la controparte di Zeus, noto come Odino.
Al contrario delle Divinità Greche, quelle Norrene non sembravano molto felci del cambio d’abiti in stile moderno, tanto che diversi mantenevano ancora le vecchie uniformi da combattimento vichinghe.
Riconobbi subito Freyja, che indossava un attraentissimo abito da sera con una scollatura a V terribilmente magnetica, e ogni parte del suo corpo già di per se magnifico era messo in evidenza dal vestito.
Thor, al contrario, teneva ancora la vecchia cotta di maglia stile guerriero vichingo e accarezzava il suo adorato martello come se fosse un gattino.
Odino era, invece, in veste da gran generale con appuntate al petto della divisa medaglie e riconoscimenti. Ci osservava con l’unico occhio grigio che aveva, come se volesse trapassare le nostre anime e scavarci dentro. Era sicuramente potente quanto Zeus e io temevo potesse esserlo anche di più. Per la prima volta avrei preferito che ci fossero stati gli Dèi dell’Olimpo a giudicarmi.
Alex si inchinò al cospetto delle quindici divinità che ci osservavano con sguardi fieri e freddi, pronti a giudicare il nostro operato, anche se dubitavo ci volessero disintegrare. Avevamo appena ridato loro il martello di Thor. Il problema era che noi eravamo greci.
«Figlio mio, ci hai reso un grande servigio» iniziò il Re degli Dèi, per poi proseguire in una lunga sequela di ringraziamenti e lodi ai semidei che avevano preso parte alla spedizione.
«Quindi, ringraziamo Einar figlio di Loki che è rimasto fedele a questa impresa, pur non facendone parte» disse, infine, indugiando con lo sguardo, sul dio maligno, che indossava lo stesso completo strappato con cui l’avevamo visto a New York.
«Infine, grazie anche a te, figlia di Hell… che… ti sei rivelata innocente, nonostante alcuni di noi… fossero… ehm… in dubbio.»
Sembrava che il Re degli Dèi Norreni stesse ingoiando un topo mentre pronunciava quelle parole. Mi ricordava un altro certo Re degli Dèi di mia conoscenza.
«Io l’avevo detto» si intromise Freyja, chinandosi in avanti, mettendo ancora più in mostra la scollatura.
Subito, un gran numero di occhi divini e non si voltarono lì e non per ascoltare la dea. Ammetto che anche io ci buttai un’occhiata, ma Annabeth si assicurò che io non cadessi più in tentazione, tirandomi un calcio negli stinchi.
«Ehm… certo, Freyja… allora, dicevo… aehm… Astrid Jensen, dato che ti sei dimostrata innocente ed hai aiutato mio figlio in quest’impresa, comunicherò ad Hermdor di non punirti per l’infrazione che hai commesso nel tempio di mio figlio.»
Era riuscito ad ingoiare il roditore, alla fine. Astrid sembrava desiderosa di rispondere a tono, ma era abbastanza furba da capire che era meglio non sprecare la fortuna di non essere stata fulminata, ma anche ringraziata.
Mi ricordai, in modo incredibile, quando, a dodici anni, mi ero ritrovato in una situazione simile nella Sala del Trono dell’Olimpo.
«G-grazie… Divino Odino» rispose, come se avesse qualcosa incastrato tra i denti.
Se il Signore degli Dèi avesse sentito o se, semplicemente, ignorasse quel tono tanto, non lo capii. Avevo altri pensieri per la testa, ultimo ma non ultimo, il fatto che adesso eravamo chiamati in causa noi.
«Perseus Jackson! Annabeth Chase e Nico Di Angelo!» chiamò, con voce imperiosa.
I miei compagni erano palesemente in ansia, ma non volevano darlo a vedere. Io avrei voluto prendere e scappare il più velocemente possibile. Alex, però, mi fece cenno di avanzare e, seppur riluttante, mi feci avanti.
«Siete nostri nemici da tempo immemore. Molto raramente io e Zeus siamo andati d’accordo. Tuttavia, voi avete aiutato molto coraggiosamente mio figlio. Di sicuro non intendo disintegrarvi, nonostante ciò vorrei anche ricompensarvi per il vostro operato» annunciò, per poi voltarsi verso gli altri.
«Si può votare sì e no, contemporaneamente?»
 «No, Loki, non puoi!» llo bloccò subito Odino, mentre altri valutavano l’idea di premiarci o no.
«Io dico di disintegrarli e mandare ciò che rimane di loro all’Olimpo come monito!» urlò un Dio imponente che mi ricordava una mia vecchia conoscenza.
Indossava una tenuta militare mimetica, ma sulle spalle aveva uno spadone e gli mancava una mano.
«Tyr! Sai bene che non è giusto! Noi non siamo ingrati e questi tre semidei ci hanno aiutati!» intervenne Foreseti, perfetto nel suo abito elegante.
«Tyr è il nostro dio della guerra, ce l’ha a morte con Ares» spiegò Einar, in un sussurro, mentre osservavo la mano mancante chiedendomi come facesse il dio della guerra a combattere senza.
«Perché?» chiesi, interessato.
Magari potevo dire che avevo tagliato il polpaccio di Ares e quello si sarebbe calmato.
«Gli ha tagliato lui, la mano?»
«Oh, no, la mano gliel’ha mangiata Fenrir. Il mio altro fratellone disse che si sarebbe lasciato incatenare solo se un dio avesse messo una mano tra le sue fauci. Tyr si offrì volontario» fu la veloce risposta di Alex, mentre suo padre imponeva il silenzio.
«A me piace, il ragazzo» intervenne un dio vestito da pescatore, con pantaloni laceri e camicia sporca.
Aveva una barba nera, corta, poco curata, e gli occhi erano verde acqua. In mano teneva una fiocina, come quella per la caccia alle balene – che, però, era fuorilegge.
«Sapete che dico? Anche se è figlio di quello scorbutico di Posi, voglio dargli io un premio personale.»
Detto ciò, davanti a me una specie di lucido amo in avorio. Un uncino, decorato con dei rilievi in corallo.
«Ehm, grazie divino N-Nj-Ng…»
«Njordr» mi suggerì Annabeth, sottovoce.
«Sì, giusto… grazie, divino Njordr» dissi, intuendo chi fosse il dio che un po’ somigliava a mio padre. Anche se dubito che lui avrebbe accettato il nomignolo di “Posi”.
«Ma a che mi servirebbe? Io non sono molto bravo a pescare.»
«Non serve a pescare, tranquillo» rise il dio, puntandomi contro la sua arma come se mi volesse infilzare.
Sobbalzai.
«Se avrai con te quell’oggetto, il mare e i mostri marini del nord ti ubbidiranno come lo fanno quelli dei mari di Poseidone. Ma ricorda che, comunque, sono io a controllarli. Posso toglierti questo dono, se ti rivelassi pericoloso.»
Non sarei stato così tonto da lasciarmi sfuggire un dono simile.
«Grazie, divino Njordr, farò in modo che la vostra fiducia non sia mal riposta» assicurai, mettendo l’amo in tasca, mentre Nico mi dava una pacca sulla spalla.
«Per gli altri, non avrei idea di cosa dare come dono. Forse potremmo…»
«Padre, io avrei una richiesta!» lo interruppe, all’improvviso, Alex, inchinandosi dinanzi al Re degli Dèi.
Quindici paia di occhi  – meno uno, dato che odino aveva perso il sinistro- si concentrarono su di lui. La loro tensione era tale che temetti di vederlo sprofondare nel pavimento sotto il loro peso. Odino si sedette sul suo trono e lo scrutò a lungo.
«Ti ascolto, figliolo.»
«Padre, loro hanno aiutato molto in questa impresa. Questo l’hanno fatto in un momento assai difficile. Un certo Crono ha deciso di mettersi contro di loro e minaccia il loro territorio, corrompendo semidei e radunando eserciti di mostri. Potreste aiutarli in questa guerra.»
Noi tre ci guardammo sorpresi e, lo ammetto, ero anche un po’ commosso. Alex stava chiedendo molto, ma indubbiamente era proprio quello che ci serviva: se gli Dèi Norreni si fossero uniti ai nostri, Crono sarebbe stato sconfitto con facilità.
Affrontare il doppio di divinità lo avrebbe messo in svantaggio, mentre noi avremmo potuto contare sul loro aiuto per stanare i mostri. Peccato che gli Dèi Norreni non sembravano molto d’accordo.
«Non sono affari nostri, che se ne occupino loro!» – «Zeus, non ha certo chiesto il nostro aiuto, evidentemente è convinto che valiamo zero!» – «Che crollino sotto il peso del loro orgoglio, quegli Olimpici. Noi potremmo schiacciare Crono con un dito!» – «Sono da sempre nostri nemici! Non intendo aiutarli!»
In pratica, nessuno sembrava molto d’accordo sull’idea di venirci in aiuto. Se tutti volevano dire la loro, scavalcando le voci degli altri, il concetto, io l’avevo afferrato: nessun aiuto, i greci se la sarebbero cavati da soli.
«Silenzio!» ordinò Odino, facendo cessare il divino clamore. «Ciò che chiedi è fuori discussione, figlio mio. Gli affari dei greci non sono nostri. Nessuno di noi ha avuto contatti con loro e loro non ci hanno chiesto aiuto. Non abbiamo nessun motivo per aiutarli… o metterci contro Crono.»
«Ma Loki ha fatto un patto con lui, l’ho visto! Sta tramando anche contro di voi!» sbottai, per poi mordermi la lingua quando tutti si concentrarono su di me.
Avrei dovuto tenere la bocca chiusa. Nico e Annabeth mi scoccarono un’occhiataccia.
«Queste sono sciocchezze. Io mi trovavo in America solo per indagare personalmente sulla scomparsa del martello del mio caro fratellone, non avrei mai fatto nulla del genere. Il ragazzo è solo stanco e non ci sta più con la testa» sentenziò il dio sorridendo ingenuamente; potevano dargli l’oscar come miglior attore.
Una faccia del genere avrebbe convinto anche me, se non avessi visto il contrario.
«Figlio di Poseidone! Le tue accuse sono gravi, anche se Loki è sempre stato… ehm… eccentrico, è pur sempre un Dio Asgardiano. Spero tu abbia più delle tue parole, per confermare tutto ciò» sbottò Tyr, stringendo l’elsa della spada.
Ero certo che avrebbe potuto disintegrarmi anche con una mano sola.
«Ecco… io…»
Come facevo a dire che era un sogno? Non mi avrebbero mai creduto. E se anche lo avessero fatto, Loki avrebbe rigirato la frittata, ricordando che ero figlio del nemico eccetera. Non avevo nulla per mettermi contro di lui.
«Questo è un silenzio eloquente» concluse lui, con un sorrisetto.
«Ma, signore…» iniziò Annabeth, senza successo.
Odino era partito in quarta.
«Allora è deciso: potrete tornare a casa vostra. Heimdallr, riconducili al Bifrost e che tornino al Campo Mezzosangue!» concluse il Re degli Dèi Norreni, sparendo in una nuvola di scintille elettriche.
A poco a poco, anche tutte le altre divinità se ne andarono, per ultimo Loki che mi lanciò uno sguardo che avrebbe congelato il mare. Ne rimasero solo tre: uno era Heimdallr, gli altri due non li riconoscevo. C’era un uomo vestito in modo semplice. Aveva i lineamenti spigolosi, con capelli biondi stretti in una corta coda. Indossava jeans blu e una camicia e, al contrario degli altri, non aveva armi.
L’altra rimasta era una dea che mi ricordava Demetra. Indossava una gonna e un maglione di lana. Accanto al suo trono c’era una cesta con dentro delle mele d’oro. Fu proprio quest’ultima a farsi avanti per prima, avvicinandosi a Nico, assumendo dimensioni più umane.
«Figlio di Ade, è un piacere conoscerti. Io sono Idùnn, Dea della Vita. Sono colei che si assicura che gli Dèi mantengano la loro eterna giovinezza» si presentò, fermandosi davanti a noi.
«A me non sembra che Odino sia giovanissimo» feci notare, ricevendo un altro calcio negli stinchi e un’occhiataccia di Astrid ed Einar.
Alex sembrava assorto nei suoi pensieri. Idùnn si limitò a sorridere.
«Vero. Ma sono dettagli, per un dio. Settata o cinquant’anni per noi sono niente, figlio di Poseidone. Comunque, Nico di Angelo, sono qui per consegnarti un dono che mio marito desidera elargirti» annunciò, tornando a concentrarsi sul mio amico.
«D-davvero?» domandò lui, come se fosse sorpreso di ricevere tante attenzioni. «Che dono?»
La dea posò il suo cestino e tese entrambe le mani in avanti. Fu come se l’aria si contraesse intorno ad esse, creando uno strano effetto ottico. Poi, con un bagliore accecante, apparve una spada. Era completamente bianca ed emanava uno strano bagliore argenteo.
«Mio marito è Bragi, il dio della poesia, ma è anche colui che sorveglia il Valhalla e accoglie gli Eroi in esso. Questa spada è fatta di Ferro Latteo, invincibile contro i mostri. Essa ti permetterà di controllare gli spiriti del Valhalla e di farli combattere al tuo fianco, in caso di bisogno.»
Nico sembrava incapace di parlare; era, probabilmente, la prima volta che qualcuno lo prendeva in considerazione in modo positivo. Riuscì comunque ad annuire e ringraziare la dea, che sparì con un sorriso.
Poi fu il turno dell’altro dio, che si avvicinò ad Annabeth.
«Figlia di Atena, felice di incontrarti. Io sono Hoenir, Dio della Sapienza. Al contrario di molti miei colleghi, tra me e Atena ci sono stati assai pochi conflitti e abbiamo sempre cercato soluzioni diplomatiche… Sempre sfumate a causa di certi Dèi.» – e la mia Sapientona sembrava molto d’accordo – «Dato che anche tu hai aiutato, desidero farti un dono.»
Detto questo egli pose nelle sue mani un computer portatile con un libro stilizzato disegnato sopra.
«È la copia della mia enciclopedia personale. Se mai ti trovassi davanti qualcosa che non conosci, che siano mostri, edifici o situazioni, controlla sul mio portatile. Ti darà ogni informazione possibile» spiegò il Dio, svanendo in una colonna di luce dorata.
«Annabeth, tutto a posto?» chiesi, vedendola muta come un pesce.
«Io… io devo… devo assolutamente… devo aggiungere questo… al computer di Dedalo… è-è incredibile, Percy… io…» farfugliò frasi del genere per un bel po’, anche durante la nostra discesa verso il Bifrost – ancora non capivo come mai gli Dèi consacrati alla guerra dovessero colorare il loro ponte come un arcobaleno.
Einar sembrava un po’ atterrato, e Astrid era pensierosa. Alex, però, era il più abbattuto di tutti. Provai a immaginare cosa stesse pensando: probabilmente era deluso e arrabbiato con suo padre per il modo in cui aveva reagito. E non potevo dargli torto.
«Ehi, amico! Non ti abbattere! Vedrai, ce la faremo anche da soli» dissi, cercando di essere ottimista, per tirarlo su.
«Non dirlo nemmeno. Forse i nostri Dèi non ci saranno, ma a costo di venire da solo, io ci sarò. Porterò la mia Orda da voi e tutti coloro che vorranno. Non lascio solo i miei amici solo perché me l’ha detto quel monocolo di mio padre» fu la sua decisa risposta.
Scoppiammo tutti a ridere, mentre camminavamo lungo il grande viale principale di Asgard. Arrivati alla base del Bifrost, Heimdallr ci augurò buona fortuna. Ma a me bastava aver trovato un buon amico.

koala's corner is coming as soon as possibile. Hope you enjoy, hugs&kisses
Il prossimo è l'ultimo capitolo! Felicissimi di essere già così avanti, vi aspetta una festa al falò :D

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Capitolo 16
*** ASTRID • E, alla fine, ci divertiamo tutti - più o meno ***


E, alla fine, ci divertiamo tutti – più o meno

♦Astrid♦
Dopo un’impresa, si narrava ci fosse un grande banchetto in onore dei partecipanti vittoriosi. Mai avrei immaginato che, un giorno, si sarebbe organizzato anche in mio onore. Annabeth, Percy e Nico si erano trattenuti per la notte, godendo di quello spettacolo.
La temperatura non era particolarmente rigida, così, si era organizzata una grande grigliata all’aperto. Su grossi bracieri si cuocevano succulente salsicce, braciole, e anche verdure alla griglia. Nonostante non fosse permessa, i figli di Loki avevano fatto comparire magicamente della birra, che ora scendeva a fiumi. Regnava la confusione, con ragazzi e ragazze che ballavano sui tavoli, incuranti del cibo o degli scivoloni.
Casse sparavano musica a tutto volume, decisamente non il mio genere, ma perlomeno non era solo “rumore”. Il pensiero che, il giorno dopo, avremmo dovuto pulire tutto mi faceva girare la testa. O forse era la birra che avevo accettato. Tutti coloro che avevano preso parte all’impresa sedevano allo stesso tavolo, circondati da altri che si complimentavano, volendo poi sentire le storie di come eravamo scampati a tutti quei pericoli.
Percy rispondeva tra un boccone e un altro. Mi chiesi come facesse quel ragazzo a mangiare così tanto. Einar aveva l’attenzione di tre semidee figlie di Freyja, e se la stava spassando divinamente. Io partecipavo poco alle conversazioni che coinvolgevano Alex, letteralmente preso d’assalto.
Per una volta, le persone mi trattarono come una di loro, senza rivolgermi insulti né troppi complimenti. Ma mi bastava.
A circa metà serata, il tavolo tremò vistosamente. Dei piatti caddero a terra, rovesciando il cibo sull’erba. Tutte le orde trattennero il fiato. Sarah, i capelli biondi sciolti e stampata in volto un’espressione furibonda, calpestò pietanze e rovesciò bicchieri, facendosi strada verso Einar. Le ragazze accanto a lui inorridirono. Sarah sguainò la spada, puntandogliela a qualche centimetro dalla gola. Il figlio di Loki deglutì.
«Buonasera, splendore» salutò, facendo viaggiare il pomo di Adamo su e giù nervosamente.
«Tu» ruggì Sarah. «Hai rubato il mio posto nella mia impresa. Mi hai rinchiuso nel bagno. Mi hai costretta a rimanere al Campo Nord. Hai qualche attenuante, o ammetti di essere uno stronzo bastardo?»
«Ti ho mai detto che ti sta davvero bene, quel taglio di capelli?»
«Hai quindici secondi per scappare. Dopodiché, ti torcerò il collo come una gallina e ti taglierò le palle» minacciò lei.
Einar fece un sorriso forzato.
«Mi dispiace, ragazze, sarà per la prossima volta» si congedò.
Si alzò lentamente, le mani alzate, stando attendo alla lama che non si spostava dalla sua gola. Poi, se la diede a gambe levate. I suoi fratelli scoppiarono a ridere, alcuni lanciarono fischi.
Sarah scese giù dal tavolo con un balzo felino, correndogli dietro come una leonessa decisamente incazzata. Risi al pensiero di quello che sarebbe capitato a Einar, se Sarah l’avesse acchiappato. La festa riprese, come nulla fosse cambiato. Annabeth soffocò un sorriso, bevendo dal suo bicchiere.
Era ancora piuttosto su di giri per il regalo ricevuto, e aveva smesso di guardarmi come se fossi uno scarafaggio e lei uno scarpone da montagna. Rideva alle battute di Percy e intavolava discorsi con noi norreni. I focolari riscaldavano l’ambiente, illuminando il Campo. La Luna brillava fulgida, accompagnata dalle stelle.
A un certo punto, Annabeth si alzò, seguita da Alex. Lo guardai allontanarsi verso la foresta, con la bionda alle spalle. Scomparve nell’oscurità, ma sapevo che quei due si sarebbero parlati. Buttai giù un sorso di birra, che mi risultò ancora più amara.
Improvvisamente, era scomparso il mio appetito. Uno strillo superò il volume della musica, e mi domandai se Sarah avesse messo gli artigli addosso alla sua preda. Mi sembravano passate ere, quando Alex si sedette di nuovo accanto a me. Feci finta di nulla, ignorandolo completamente. Insomma, poteva fare quello che voleva, no? Sbuffai.
«Sono stanca, io vado a dormire» annunciai, alzandomi.
Mi allontanai dalla tavola, stringendomi nel mio giubbotto. La mia camera condivisa era vuota, le mie compagne erano ancora fuori a godersi la festa. La musica giungeva ovattata fin lì. Mi liberai delle scarpe e del cappotto, mi arrampicai sul letto e affondai la faccia nel cuscino.
Inspirai quell’odore, che sapeva di casa e di tutte le notti che avevo passato lì. Ripercorsi con la mente l’impresa, trovando sempre più sorprendente il fatto che fossi ancora viva. Oh, certo, e il ringraziamento di Odino era stato quello di sollevarmi dalla punizione di Hermdor per essere entrata nel Tempio di Thor. Se non avessi rischiato di essere fulminata, probabilmente non avrei accettato senza dire nulla.
Il clamore della festa si spense pian piano e, alla fine, le mie compagne ritornarono in camera. Mi finsi addormentata, ma potevo udire perfettamente le loro risatine e i commenti. Aspettai che si assopissero, prima di scendere cauta dal letto a castello e aprire la porta. I corridoi erano deserti, l’oscurità regnava sovrana. Ma non avevo bisogno della luce per orientarmi, e trovai la stanza di Alex al primo tentativo.
Misi mano alla maniglia, provai ad aprire, e scoprii che l’aveva lasciata aperta. Mi tirai indietro. Okay, stavo solo entrando in camera sua. Non era nulla di speciale. Affatto.
«Dritt» imprecai sottovoce.
Presi il coraggio a due mani, feci un grosso respiro e varcai la soglia. Richiusi subito la porta alle mie spalle. Svegliai Alex di soprassalto, che accese la luce con la spada in mano.
«Tranquillo, non ti voglio stuprare.»
Come rassicurazione, era tutt’altro che confortante.
Quando mi riconobbe, rilassò le spalle. Ritrasformò la spada, ma il suo sguardo era comunque interrogativo. Non dovevo essere imbarazzata, né mostrare la mia insicurezza. Se mi fossi morsa le labbra, o avessi guardato per terra, avrei ammesso entrambi.
«Perché ti sei intrufolata nella mia stanza?» domandò, ancora sorpreso.
«Aehm…»
Mi morsi le labbra.
«Io…»
«Tu…?» mi incoraggiò.
Guardai per terra.
«Volevo sapere perché ti sei allontanato con Annabeth, alla festa» buttai fuori tutto insieme.
Immaginai sorridesse. Scostò le coperte, invitandomi ad accomodarmi sul suo letto. Temetti di inciampare, mentre eseguivo, giocando nervosamente con i miei capelli. Appoggiai la schiena al muro, fuggendo dal suo sguardo.
«Mi ha detto che era dispiaciuta per quello che era successo tra voi due, e che si era sbagliata sul tuo conto» spiegò. «Ma è troppo orgogliosa per ammetterlo, quindi mi ha chiesto di riferirti le sue scuse al posto suo.»
Si verificò un blackout nella mia mente. Annabeth… lei… le sue scuse… Dèi immortali, era impossibile. Eppure, era accaduto. Temetti di svenire sul posto.
«Ehi, Astrid» mi chiamò Alex, leggermente preoccupato.
«S-sto bene» risposi. «Solo… wow
Il figlio di Odino rise. Mi mise un braccio attorno alle spalle, accogliendomi accanto a lui. Il suo petto era un luogo troppo accogliente per non rifugiarvisi. Mi abbandonai sulla sua spalla. Non riuscivo a rilassarmi completamente, e non perché Annabeth mi aveva chiesto scusa. Stare in contatto con la pelle di Alex mi provocava scosse elettrice, riscaldandomi in tutto il corpo e facendo svolazzare furiosamente le farfalle nel mio stomaco.
«Hai sonno?» domandò, piano.
Scossi la testa. Alex percorse la pelle del mio braccio con i suoi polpastrelli, provocando scintille. Si sollevò la manica della mia maglietta, rivelando il marchio delle figlie di Hell. Gli gettai un’occhiata di disprezzo.
«Lo sai che questo non condiziona ciò che sei?» sussurrò.
«Forse» replicai. «Ma, comunque, mi ha reso quello che sono adesso. In ogni caso, mia madre mi ha marchiato, condannandomi alla diffidenza.»
«È solo apparenza» si oppose lui.
«Vero» ammisi. «Pochi avranno l’occasione di scoprirlo. Dici che se ci facessi tatuare accanto delle rose, come il simbolo dei Guns ‘n Roses, modificherebbe qualcosa?»
«Del tipo?»
Riflettei sulle parole. «Tipo la mia volontà di cambiare, di essere diversa perché lo voglio, non perché qualcuno me lo impone. Nascere schiava di una maledizione, e morire portandola a testa alta.»
«Non è il più forte delle specie che sopravvive, né quello più intelligente. È il più adattabile a cambiare*» citò Alex.
«Cosa?» feci io, guardandolo negli occhi.
«Charles Darwin» chiarì.
«Non capisco» dissi.
«Niente» lasciò cadere il discorso. «Sappi solo che, nel caso volessi farti tatuare quelle rose, ti accompagnerò in negozio.»
Alex spense la luce, e calò il silenzio. In quella posizione, potevo sentire il suo cuore battere e pompare sangue nelle vene. La mia testa si alzava lievemente, quando lui respirava.
«Alex?» lo richiamai, sussurrando.
«Mh?» fece lui, in tono assonnato.
Sentii le guance scaldarsi, e fui grata all’oscurità che mi nascondeva. «Posso dormire con te, ‘sta notte?»
Il suo cuore perse un battito. «Okay» mormorò.
Mi stampò un bacio sulla fronte, accomodandosi meglio sul letto, in modo da farmi un po’ di spazio. Mi stesi accanto a lui, godendo del suo calore. Chiusi gli occhi e il sonno mi avvolse nelle sue spire.
 
 
Mi svegliai perché qualcuno bussava insistentemente alla porta. Mi pungolai su un gomito e mi riavviai i capelli, che mi erano finiti davanti agli occhi. Mugugnai qualcosa, passandomi una mano sul volto. Feci per scendere le scale, come ogni mattina, ma il mio piede incontrò una gamba. Spalancai gli occhi.
Ero in un letto, con Alex. Mi tastai il corpo, ma i vestiti erano ancora al loro posto. Sospirai di sollievo. Scavalcai il suo corpo, dandogli un buffetto sulla guancia per farlo svegliare. Mi trascinai verso la porta, mentre Alex ritornava dal mondo dei sogni.
Aprii, assonnata, ritrovandomi davanti Einar. Era ancora tutto intero, quindi Sarah non era riuscita a spennarlo. Strabuzzò gli occhi, sorpreso, ma gli si dipinse subito un sorrisetto strafottente sul viso.
«Buongiorno, colombi» salutò.
«Che vuoi, Einar?» sbottai.
Era troppo presto per i suoi giochetti da figlio di Loki.
Alex mi affiancò.
«Già, che ci fai qui?» riformulò la domanda.
Il ragazzo rischiava di scoppiare, tanto si stava trattenendo dietro quel sorriso.
«Hermdor vuole che tutti diano una mano a ripulire, mi ha mandato a svegliarti, capo» rispose, il tono controllato. «Certo, mi aspettavo che la tua stanza fosse singola.»
«Dammi il tempo di cambiarmi e arrivo» bofonchiò il figlio di Odino, assonnato.
«Ovviamente» replicò l’altro.
Voltò le spalle, allontanandosi di qualche passo. «Ah, per la cronaca, spero vi siate divertiti ieri notte» commentò, buttando lì la frase con noncuranza.
Nello stesso tempo che impiegai per realizzare ciò che intendeva, Alex aveva già impugnato la spada e lo stava rincorrendo in pigiama per i corridoi, gridando: «EINAR! Giuro che se ti prendo, aiuterò Sarah a farti la pelle!»
Mi appoggiai allo stipite della porta, lasciandomi andare in una breve risata. Avevo rischiato molto, in quella settimana, ma non mi ero mai sentita meglio. Si dice che quando si è più vicini alla morte, ci si sente più vivi che in qualsiasi altro momento. Iniziavo a credere che quel detto fosse vero. Avevo completato quell’impresa, l’avevo superata accompagnata da amici fedeli. Sperai vivamente non sarebbe stata l’unica.

THE END
 

*It is not the strongest of the species that survives, nor the most intelligent that survives. It is the one that is the most adaptable to change - Charles Darwin, "L'origine delle specie."
koala's corner.
Come si può dedurre dalla scritta a caratteri cubitali là sopra, Sangue del Nord è giunta al termine! *scoppiano fuochi d'artificio*
Sono - siamo - troppo felice di aver conlcuso la mia prima storia! Speriamo che la storia vi sia piacuta, così come questo finale e siamo orgogliosi di annunciare che scriveremo anche il seguito ambientato durante "Lo Scontro Finale": "I Venti del Nord!"
Un ringraziamento a chi ci ha inserito tra le preferite (Alaxeia ciuci14 DracoDormiens eltanininfire Feelings Fenice14 Fyamma Ilgladiatore999 katniss potter jackson letsfirestars Leyna_s_heart littleconny Maark Music_99 sofy_1394 Talia8 ) chi tra i seguiti ( 8Sherlin8  Ailea Elisewin Alexia Dubhe Black Alyssia98 Anna Love  Arcadia_ Becky_99 big4 Blind Guardian Ciacinski Cup_Cake DreamyDrop EliMe Emmaguendalina ERISd Expecto_Patronus Fantasiiana Fenice1 Fyamma Ginevra Gwen White inlovewithdracomalfoy Iris_Blu Its Ellie letsfirestars LolaBlack love libri Luna95 lune rouge mixer_smile Mneia Morgan_H nagi994 nemy1990 nico_green Nynev  RomeoGiulietta98  _Lilium_ ) e le ricordate ( camijackson01 Emmaguendalina Kikki Dexter mewprincess_percabeth )
Un abbraccio speciale a coloro che hanno recensito, permettendoci di conoscere tutte le vostre opinioni :3 Sarebbe molto carino se, alla fine di tutto, voleste darci un'opininione generale sulla storia.
Non siate timidi! Nel caso voleste mantenere l'anonimato, o voleste chiederci qualcosa, non esitate a contattarci tramite messaggio privato EFP o sul mio profilo di ASk ( http://ask.fm/Apfelsafitaliana ) o Tumblr ( http://justnelement.tumblr.com/) :)
Un abbraccio a tutti, arrivederci!


 

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