This love of mine, my Valentine

di Patta97
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** The Valentine's ripper - Greg ***
Capitolo 2: *** Conceal, don't feel - Mycroft ***
Capitolo 3: *** Happy Valentine's Day - Sherlock ***
Capitolo 4: *** A perfect match - John ***
Capitolo 5: *** All that I can give you - Mary ***



Capitolo 1
*** The Valentine's ripper - Greg ***


E nonostante le continue delusioni che ricevo... rieccomi qua!
Non mi sto rispecchiando molto nei pensieri del fandom, ultimamente, ma ehi!, siete gli unici folli che possono comprendermi nei miei deliri, quindi sono tornata con questa raccolta di one-shot che dovrei finire entro febbraio (sì, certo...). 
I contenuti sono per lo più tristi, perché praticamente tutti gli "amori" che descriverò tramite episodi/ricordi (o casi, come in questo per il mio caro Gregory) sono non corrisposti. In pratica, tenterò di descrivere un po' di sana e ti-prendo-a-pesci-in-faccia vita reale.
Grazie a chi leggerà e, se potete, lasciate un commento: mi farete davvero felice, ma proprio tanto.
Chiara

PS C'è la descrizione di un omicidio un po' cruento in questo capitolo. Vi avviso, ma tanto so che non siete così impressionabili...






 
The Valentine's ripper - Greg




Gregory Lestrade si rigirò nello stretto divano di pelle nera del suo ufficio a Scotland Yard, sistemandosi addosso la giacca del completo a mo’ di coperta.
Si piegò un braccio sul viso per riparare gli occhi stanchi dalle fastidiose luci al neon e si impose di dormire per un’ora. Solo un’oretta…
Bussarono alla porta. Greg lanciò un’occhiata all’orologio a muro e si rese conto che erano passati dieci minuti – “solo dieci fottuti minuti!” - da quando si era chiuso nell’ufficio per prendersi una pausa da quel caso sfiancante. Si lasciò scappare un imprecazione fra i denti e si alzò dal divano con ogni centimetro del proprio corpo che urlava in protesta.
Sulla soglia c’era Donovan.
 
- Sally, dannazione, vi avevo pregato di non disturbarmi finché…
 
- Tutti avremmo bisogno di riposo, signore – rispose lei, acida, e Greg notò che il sergente esibiva delle occhiaie evidenti quanto le sue. – Ma ce n’è stato un altro, a Whitechapel.
 
- Chi?
 
- Due ragazzini, li ha trovati un senzatetto in una casa abbandonata. Cercava un posto asciutto dove dormire, a quanto pare.
 
Greg si chiese se fosse stato uno degli amici di Sherlock: non aveva ancora mostrato alcun interesse per quello che si faceva chiamare il Valentine’s Ripper.
- Stessa dinamica dei precedenti? – domandò invece.
 
- Sembrerebbe di sì. La scientifica si sta già recando sul posto.
 
L’ispettore recuperò la giacca dal divano e il cappotto dall’appendiabiti e le fece cenno di andare.
 
*
 
I due giovani corpi erano adagiati in posizioni plastiche su un letto di rose rosse, in netto contrasto con le assi scollate e fradice del pavimento. Entrambi avevano scuoiata la pelle sopra le scapole, portata poi verso l’alto, a formare delle piccole e macabre ali(1). I petti erano stati aperti e poi ricuciti senza fretta e l’una teneva in mano il cuore grondante dell’altro.
La ragazzina aveva i capelli rossi, il ragazzo neri. Due paia di occhi verdi erano velati e vacui, a fissare il nulla.
A Greg venne da vomitare e dovette distogliere lo sguardo.
Uscì dalla stanza, lasciando fare ai ragazzi della scientifica a fare il proprio lavoro.
Parlò con Jones - il sostituto di Anderson - e scoprì l’età della ragazza dai capelli rossi: tredici anni.
Dio, l’età di Rupert… scosse la testa per allontanare il volto sorridente di suo figlio dalla propria mente, lontano dall’immagine dei due corpi senza vita sul letto di rose intrise di sangue.
Tornato a Scotland Yard, si risistemò nel suo ufficio, più determinato che mai, la stanchezza un lontano ricordo mentre rianalizzava con accuratezza prove, fatti, dati, indizi.
Doveva risolvere quel caso. E lo avrebbe fatto senza l’aiuto di nessuno.
 
*
 
Ed eccolo, una settimana dopo, il quattordici febbraio, al tavolo di una piccola sala conferenze, spalleggiato da Sally.
Davanti a lui, una folla urlante di giornalisti e fotografi, ansiosi di porre domande migliori prima dei
propri colleghi.
 
- Detective ispettore Lestrade! – una donna quasi saltò per farsi notare fra la folla. - Può dirci qualcosa di più sul Valentine’s Ripper?
 
- Il suo nome è Hugh Graham e preferirei ci si riferisca a lui così, d’ora in poi – precisò Greg, freddo. - Graham, quarant’anni, era un artista d’arte moderna, incriminato un paio di volte per uso di droghe e guida in stato d’ebbrezza. C’è bastato interrogare l’ex-moglie e il coinquilino per scoprire come da un paio di mesi si comportasse in modo strano, parlando sempre della sua nuova ‘collezione d’arte’.
 
- Quali sono state le sue ultime parole prima di andare in cella?
 
Lestrade prese un respiro e si dipinse in viso un sorriso cinico prima di rispondere. – Che era tutto in nome dell’arte e degli innamorati.
 
Nuove mani si alzarono e molti flash scattarono dopo quell’ultima frase e lo sguardo esasperato e sfinito dell’ispettore colse un’alta figura in completo gessato che usciva dalla stanza, facendo roteare mollemente un ombrello.
- Il sergente Donovan sarà più che capace di rispondere alle vostre domande – annunciò, alzandosi.
 
La poliziotta lo trattenne per il gomito. – Capo… - implorò.
 
- Non mi commuoverai chiamandomi così, Sally – sorrise brevemente Greg. – Torno presto.
 
*
 
- Non crederai di lasciarmi così! – esclamò Greg, cercando di calmare il respiro affannato per dissimulare la corsa appena fatta per sgusciare via dall’edificio.
Il parcheggio era illuminato dalla luce aranciata del tramonto e il cielo di Londra era trafitto da un intreccio di scie candide d’aerei.
 
Mycroft si girò lentamente, con un sorriso impenetrabile.
Oh, odio quando fa così. pensò Lestrade, combattendo l’impulso di annullare a grandi passi la distanza che li separava e lavargli via quella faccia a forza di pugni - o baci.
 
- Detective ispettore Lestrade, che piacere. Congratulazioni per il caso risolto.
 
Greg cercò di non dare a vedere il proprio compiacimento all’udire il complimento, nonostante fosse velato di una leggera ironia.
- Ti ringrazio.
Calò un silenzio imbarazzante, con Mycroft che lo fissava e lui che osservava attento la punta delle proprie scarpe.
Dì qualcosa, idiota! – Cercavi Sherlock? Non mi ha aiutato stavolta, è un po’ che non lo sento.
 
- Mio fratello sta attraversando una… fase problematica. Sono a conoscenza che non è stato grazie al suo aiuto che ha raggiunto la soluzione dell’enigma.
La risposta del Signor Governo fu quella, ma il suo sguardo divertito sembrava dire “davvero non riesci a trovare qualcosa di meno ovvio da dire per fare conversazione?”.
 
- Okay, dannazione – mormorò fra i denti prima d decidersi. – Sei impegnato, stasera?
 
- Temo di sì – la risposta arrivò dopo un tempo calcolato, né troppo presto da essere interpretata come una bugia né troppo tardi come se fosse un ponderato rifiuto. – Affari da sbrigare con… vecchie conoscenze.
 
- Ma certo – rispose Greg, scordandosi di ridurre al minimo il proprio tono amareggiato. – Dopo tutto quello che è successo, mi lasci da solo proprio questa sera.
Cercò di mettere da parte le scomode immagini di loro due insieme, un letto enorme, luce soffusa, corpi caldi, sudati, perfezione…
 
- Ero… compromesso emotivamente. A causa di mio fratello – replicò Mycroft, soppesando le parole come il politico dannatamente capace che era. - Non dirò che quella notte è stata uno sbaglio, ma è stata un’eccezione. Il lavoro e l’esercizio mentale sono ciò che contano per me, mi rincresce, Gregory.
 
Lestrade si morse l’interno della guancia per non lasciarsi sfuggire un piccolo lamento incredulo.
Il mio dannato nome sulla sua dannatissima bocca…
Ricordò le loro membra allacciate e le lenzuola sudate, mentre Mycroft gli poggiava un bacio leggero sui capelli e gli sussurrava che lo avrebbe sempre e solo chiamato così, ‘Gregory’, perché “è il nome che ti è stato dato, ed è così bello che vale la pena di pronunciarlo fino alla fine”.
A Greg era sembrato giusto, perché la sua ex-moglie lo aveva sempre chiamato solo Greg - o ‘fallito’, dipendeva dal contesto -, senza preoccuparsi di pronunciarlo del tutto. Così come non aveva raggiunto il suo cuore, del tutto.
Non come Mycroft Holmes.
Non si era accorto che un’elegante auto nera si era fermata alle spalle del suo interlocutore, in attesa, almeno non fino a quando Mycroft si schiarì la gola per attirare la sua attenzione.
 
- Buonasera, detective ispettore – salutò, formale, quando il suo autista gli aprì la portiera. – E buon San Valentino.
 
- Buoni affari – augurò Greg, incolore, cercando di inghiottire il nodo doloroso che aveva stretto in gola. – E buona festa degli innamorati.
 
Con un ultimo cenno, la figura di Mycroft sparì dietro a vetro oscurato e alla portiera. La macchina partì quasi subito, veloce e silenziosa com’era arrivata.
Incapace di zittire il proprio cuore, Greg lo lasciò lì, sull’asfalto sporca del parcheggio, simile a una delle raccapriccianti ‘opere’ di Hugh Graham.
Sospirando, rientrò dentro la sala conferenze, pronto per farsi sbranare un altro po’ dai pesce cani travestiti da media. 






(1) Scena ispirata al caso della puntata di Hannibal "Coquilles"

 

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Capitolo 2
*** Conceal, don't feel - Mycroft ***


Buonsalve!
L'ispirazione al momento mi è stranamente amica, quindi ho scritto quest'altro capitolo, stavolta dal punto di vista di Mycroft. Chiarisco che non ci saranno sventolii di bacchette o inutili incantesimi in questo cor... oh, scusate, fandom sbagliato... dicevo, non ci saranno scene romantico-zuccherose, siete avvertiti. 
Ah, inoltre la dinamica dei capitoli si sviluppa attorno a una specie di catena di rapporti: Greg-Mycroft, Mycroft-Sherlock, Sherlock-John, John-Mary, Mary-piccola Watson. 
Dico inoltre che queste one-shot si svolgono praticamente tutte il 14 febbraio dopo His Last Vow e ci sono qua e là citazioni sparse dalla terza stagione, per questo ho aggiunto "Spoiler" negli avvertimenti, non si sa mai...
Vi lascio alla lettura, se vi va. Grazie mille per le recensioni che ho ricevuto, spero continuerete a commentare :)
Chiara





 
Conceal, don't feel - Mycroft
 



Mycroft Holmes si lasciò cadere sulla poltrona accanto al camino, accavallando le gambe e scuotendo appena il bicchiere di cristallo stretto nella mano destra, per far mulinare il liquore ambrato all’interno.
Aveva indosso un pigiama di seta e una vestaglia di tweed. Si sentiva grasso, con quella stoffa spessa ad aggiungere volume alla pelle morbida del suo stomaco, ma quella vestaglia era comunque la sua preferita. L’aveva indosso quella sera in cui l’ispettore Lestrade, senza alcun preavviso, aveva suonato alla sua porta per parlare delle dipendenze di Sherlock. Erano ormai passati quasi nove anni, ma ricordava ancora il sorriso imbarazzato che si era dipinto sul viso allora più giovane del poliziotto nel vederlo vestito in maniera così informale. Da quel momento Mycroft aveva sempre lasciato la rassicurante armatura che erano i suoi completi solo prima di mettersi a letto, anche se il suo campanello non aveva più suonato dopo una certa ora.
Se si escludeva quella sera di quasi sei mesi prima, quella sera di agosto.
Mycroft aveva trovato Gregory lì, sulla soglia di casa sua, evidentemente ubriaco - birra - e in stato di depressione - appena tornato dal matrimonio di John e Mary, gli ha ricordato il suo.
Si era semplicemente fatto da parte per lasciarlo passare e lui era crollato sul pavimento e Mycroft non aveva saputo fare altro che sedersi compostamente accanto a lui, sul costoso parquet di casa sua, ad osservarlo. Era stato Gregory ad avventarsi su di lui per un bacio, e sapeva di birra e lacrime salate e cibo e saliva e buono - così buono - ed era così tanto - troppo - tempo che Mycroft non si concedeva una distrazione… ed aveva ceduto.
Quando stava albeggiando, l’ispettore aveva poggiato una guancia sul suo petto, iniziando a ridere incontrollabilmente. Non appena Mycroft gli aveva domandato il perché con un’eloquente alzata di sopracciglia, Gregory aveva risposto che “nulla, è che mi diverte scoprire che non vai a letto in giacca e cravatta”.
Se si esclude quell’incontro di cinque minuti nel suo ufficio al Diogene, quando l’ispettore era andando a chiedergli, con rancore nello sguardo, se sapesse qualcosa di possibili nascondigli di Sherlock, non si erano più visti da allora. Aveva resistito così bene, perché le relazioni, le persone, non facevano per lui, così monotone e stupide e prevedibili… fino a quella sera. Quella stessa sera, era andato ad ascoltare le spiegazioni di un orgoglioso Gregory che aveva risolto un caso - mediocre, a parere suo - totalmente da solo. Aveva temuto seriamente, in quel parcheggio, che avrebbe dovuto combattere contro un cuore in tumulto, ma quello era rimasto silente, chiuso ella sua prigione di ghiaccio, pompando il minimo indispensabile. Lo aveva lasciato solo la sera di San Valentino - apparentemente una mossa alquanto azzardata - ed aveva potuto leggere negli occhi neri dell’ispettore che il suo, di cuore, era stato appena fatto a pezzi. Si ritrovò indifferente.
Ed eccolo lì, in compagnia di se stesso e del suo liquore costoso.
Un guizzo insubordinato delle rossastre fiamme del fuoco nel camino illuminò il vetro di una delle fotografie appese alla parete. Sherlock.
Fu lì che il suo cuore ebbe un tremolio e si ricordò di averne uno.
Perderti mi spezzerebbe il cuore, Sherlock.
Perché persino il suo lavoro - il suo adorato lavoro che aveva raggiunto con le sue forze, un lavoro alto, importante, plateale nella sua discrezione - era nulla paragonato a suo fratello. Dal momento stesso in cui il pugnetto di Sherlock si era stretto attorno al suo indice, Mycroft aveva capito che, sopra tutto il resto, proteggere ed avere cura di quella peste sarebbe stata la sua missione.
Lo amava così tanto da fare male, un amore profondo, legato dentro nel sangue, nelle sue stesse cellule, nel suo DNA, nell’anima.
Oh, la mezz’età. Che pensieri umani, Mycroft. Sei come tutti gli altri pesci rossi, alla fine: nuoti lento e muto ed impotente nel vasto mare…
Il suo proteggere, tuttavia, aveva solo portato a suo fratello che lo considerava il proprio arci nemico. Aveva solo cercato di prepararlo, di fargli costruire un’armatura e una sicurezza come le sue, per proteggersi da gente stupida ed incapace di comprendere.
 
“Quanto sei stupido, Sherlock. Non si fa così”.
“Non sono stupido!”
“Allora dimostralo”.
 
“Redbeard deve essere abbattuto”.
“Non puoi! Lui è mio amico!”
“Se davvero è tuo amico, riconosci che se morirà fra sofferenze sarà solo colpa tua e del tuo egoismo. Come immaginavo… È la soluzione migliore, fratello caro”.
 
“Oh, Sherlock, cosa hai combinato?”
“È… stato un incidente”.
“Gli incidenti non esistono. Sei stato cattivo e il vento dell’est sta arrivando… sta arrivando per prenderti”.
 
“Quindi è in questa topaia che hai deciso di trascorrere la tua vita da drogato. Sono orgoglioso di te, fratellino”.
“Tieni per te il tuo orgoglio, Mycroft!”
“E com’è che ti comprerai le dosi? Ruberai? Di certo io non ti darò altro denaro. Mamma e papà sono così delusi. Il loro dispiacere è sempre colpa tua, alla fine…”
 
“Ed è a lui che vuoi attaccarti? Un essere umano? Notevole”.
“John è speciale”.
“Ne sono certo… D’altro canto, non sarà mai tuo. Aspira a cose che non potrai mai dargli. Vedi di non affezionarti troppo al tuo nuovo cucciolo”.
 
Forse hai sbagliato… Mycroft zittì quella voce e sorbì un lungo sorso del proprio brandy.
Un pensiero più coerente prese posto nella sua testa, dominando il resto: “celare il cuore, non mostrarlo. Soffrire non è un vantaggio”.

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Capitolo 3
*** Happy Valentine's Day - Sherlock ***


Era ovvio che non avrei completato entro il 14, vero? Beh, per me lo era.
Non ho nulla da aggiungere per il capitolo, solo che c'è tanto amore per John ed anche per Mary che vi piaccia o no. Il punto di vista è quello di Sherlock.
Grazie mille per quelli che leggono (e quelli che commentano sono sempre dei tesori che mi riscaldano il cuore). Spero recensirete numerosi.
A presto,
Chiara





 


Happy Valentine's Day. - Sherlock




Sherlock Holmes affondò il viso nel morbido pelo rosso di Redbeard.
Le sensazioni di quell’abbraccio stavano svanendo.
Devi cancellare delle nozioni inutili… Tipi di pistola? Tenere. Gestazione dell’essere umano? Tenere. Numero degli stati mondiali? Cestina.
Il familiare odore del suo cane - terra, croccantini, erba, campanule… - gli riempì le narici, mentre Redbeard gli leccava la faccia e i capelli con la sua lingua ruvida, festoso.
Pace. Tranquillità. Casa.
 
“Per quanto durerà, Redbeard?”
 
Il vecchio cane non rispose, ma gli premette il naso umido sul collo.
Sherlock chiuse gli occhi e quando li riaprì nuove scritte erano comparse attorno a lui.
 
“Quanto sei noioso, dolcezza…” la voce di Moriarty riempì la stanza scura e Sherlock si rese conto che anche Redbeard era sparito.
Era solo e quella voce era così vicina…
 
“Non hai ancora capito dove mi nascondo? Conta fino a dieci e vieni a cercare…” quasi cantò Jim.
 
E Sherlock contò fino a dieci e si alzò da terra, barcollando.
Attorno a lui, sulle pareti luride, appena visibili nell’ombra, scritte canzonatorie, minacce, insulti.
“Non ti trovo”.
 
“Corri” ordinò l’altro.
 
Sherlock corse e corse, perché la stanza era un corridoio e poi scale e il suo Palazzo gli sembrava estraneo, ostile, infinito.
Inciampò su qualcosa e finì a terra.
Era una catena. Una catena lunga, attaccata a un muro imbottito di cuscini. Il prigioniero non era più lì, era fuggito?
“Dove sei?” chiese, terrorizzato.
 
“Sono qui. Cerca” la risata cristallina quasi un sussurro. “Cerca ancora…
 
- …Sherlock?
 
Il detective aprì gli occhi rossi e stanchi e li puntò sulla signora Hudson, in piedi sulla soglia dell’appartamento.
Cena galante. Nuovo compagno. Poco più giovane. Non tornerà a casa.
 
- Sì, signora Hudson. Buona serata.
 
- Non mi stavi ascoltando, giovanotto. Ti ho chiesto da quant’è che non dormi.
 
- Che giorno è?
 
- Venerdì.
 
- Venerdì cosa?
 
- Quattordici febbraio, caro.
 
- Da quattro giorni.
 
La padrona di casa emise un verso di disapprovazione.
- E da quanto non parli con John?
 
- Ventotto giorni.
 
- E con Mary?
 
- Sette. Ha finito con l’interrogatorio? Vada a godersi la serata col suo compagno, immagino che l’età di lui la lusinghi più della mia compagnia.
 
- Non credo tornerò a casa, vedi di non cacciarti nei guai.
 
La risposta di Sherlock fu quella di rigirarsi sul divano per darle le spalle.
La signora sospirò e chiuse la porta. La ascoltò scendere le scale e chiudere il portone.
Era solo.
 
Che novità…
 
Il suo sguardo volò inevitabilmente alla poltrona vuota davanti al camino spento.
Una poltrona classica, comoda, ampia, un po’ sgangherata ma resistente. Una di quelle che durano per sempre. Di sicuro il suo proprietario non aveva seguito l’esempio.
 
“Da quanto non parli con John?”
 
Aveva detto la verità alla signora Hudson: erano ventotto giorni che non parlava con John.
Dopo essere sceso da quell’aereo che pensava lo avrebbe portato verso la morte, non avrebbe voluto fare altro se non stare con John e Mary - la sua famiglia.
Ma Moriarty era stato un’ottima scusa per non cedere al suo cuore imbizzarrito ed insensato.
Sfortunatamente, era da quel giorno che il Napoleone del crimine non dava segni, dopo la sua alquanto plateale e paralizzante ricomparsa. Se si escludevano due piccoli furti con scasso e il troppo-facile-anche-per-Lestrade Valentine’s Ripper, anche la criminalità londinese sembrava ferma, in attesa. Di cosa, restava un mistero.
E quella sorta di sospensione, di quiete, non facevano altro che aumentare a livelli insopportabili il silenzio che regnava al 221B.
Nessun ticchettare di polpastrelli sulla tastiera, nessun apri e chiudi del frigo, nessun sibilare di gas sotto al bollitore, nessun tintinnio di tazze, nessuna risata, nessuna voce…
L’assenza di John Watson era pesante. Pesante come poteva esserlo il carico del Cielo sulle spalle di una formica.
E l’amore profondo che Sherlock provava nei confronti di quell’uomo - così comune eppure così coraggioso e dipendente dal pericolo -, quell’uomo che gli aveva salvato la vita così tante volte e in così tanti modi… era inquantificabile.
Lui, William Sherlock Scott Holmes, era innamorato.
Era come se l’era aspettato: faceva male.
Si sentiva indifeso, schiacciato, annichilito di fronte a tutto questo, di fronte al proprio cuore - appena nato e già in pericolo di vita fra le mani incaute del suo dottore -, di fronte a quello che non potrà mai avere. Di fronte a ciò che aveva perso.
Perché non importava quello che aveva detto John: tutto era cambiato e niente era più come prima. Non poteva più esserlo.
 
“E con Mary?”
 
Sette giorni. Era già passata un settimana? Chissà come stava la bambina. Solo altri dodici giorni e Mary avrebbe concluso i nove mesi di gestazione.
Sherlock avrebbe tanto voluto poter monitorare i cambiamenti del suo ventre, del suo viso, del suo corpo, del suo comportamento e delle sue voglie… ogni giorno e di presenza. Ma si accontentava dei messaggi, una volta ogni tanto.
Perché, contrariamente a ciò che si sarebbe aspettato, non odiava Mary Morstan. Non l’aveva odiata quando l’aveva vista seduta a quel tavolo di fronte a John e non l’aveva fatto quando lei gli aveva sparato un calcolato quanto sorprendente proiettile contro. Anzi, provava una sorta di affetto e calore nei suoi confronti. Leggerezza quando la osservava ridere, ammirazione quando la ascoltava demolire un qualche suo finto racconto pretenzioso.
E quelle sensazioni le aveva provate con ben poche persone che avevano incrociato la sua strada.
Forse, solo una.
Era stato sincero quando aveva pronunciato il suo primo ed ultimo voto, al matrimonio: ci sarebbe stato - sempre - e li avrebbe protetti - sempre -, tutti e due, tutti e tre.
Anche se dovesse farlo da lontano, perché da vicino farebbe troppo male guardare.
Allungò un braccio per afferrare il cellulare dal tavolino accanto a sé e compose il messaggio.
 
Ha scalciato, oggi? SH
 
Proprio adesso. Credo riconosca il vibrare perentorio del cellulare quando sei tu a mandare un messaggio.
Nell’ultima ecografia abbiamo visto che sembra messa già nella giusta posizione per uscire e il cuore batte normalmente. Si succhiava il pollice ed aveva un’aria alquanto corrucciata. Avrà preso da te?
 
Sherlock chiuse piano gli occhi e si impose di non sorridere allo schermo di un cellulare.
 
Sei con John? SH
 
Deve ancora tornare da lavoro.
In questo periodo mi sento te.
 
Il tuo QI è aumentato ulteriormente? SH
 
Non che io sappia. Era già notevole di suo, comunque.
Intendevo che mi annoio.
A volte vorrei tanto poter sparare al muro.
 
Prova solo a non bruciare il pane. SH
 
La risposta tardò ad arrivare e Sherlock sorrise soddisfatto di se stesso e della sua piccola deduzione, nonostante tutto. Era quello che gli restava, alla fine, no?
 
Pane perfettamente cotto, grazie.
È tornato John.
 
No. Non voglio che me lo saluti. SH
 
Come preferisci.
Sta bene, comunque.
Sì, so che non me lo avevi chiesto, ma so che volevi saperlo. E gli manchi, lo capisco.
D’accordo, non rispondere pure, Sua Altezza.
Buon San Valentino, Sherlock.
 
Il telefono smise di vibrare e Sherlock lo lasciò cadere sul pavimento, tremante.
Ritornò nel suo Palazzo ad abbracciare Redbeard, cercando di calmarsi, sperando che Moriarty non venisse di nuovo a tormentarlo.
Oh, John. Fai piano con quel cuore…

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Capitolo 4
*** A perfect match - John ***


Hello!
Nuovo capitolo. Praticamente solo dialogo stavolta. Ed Harriet Watson, la quale non mi sta particolarmente a genio (ERA IL MATRIMONIO DEL SUO DANNATO FRATELLO, AVREBBE POTUTO PRESENTARSI), ma nel contesto ci stava. Avvertimenti ulteriori? Altro amore per Mary. Oh, e punto di vista di John, ovviamente.
Besos e grazie per le meravigliose recensioni,
Chiara




 


A perfect match - John





John Hamish Watson non era mai stato un uomo propenso a parlare di certi argomenti.
O alle effusioni futili, in pubblico o meno.
Diciamo ai sentimenti in generale.
Infatti fu con restio calore che ricambiò debolmente l’abbraccio di sua sorella Harry.
Si sedette sulla poltrona accanto al letto e cercò di trovare un posto dove posare lo sguardo.
 
- Oh, andiamo, John. Sei un dannato dottore, avrai visto degli alcolizzati attaccati a delle flebo.
 
John le riservò un’occhiata carica di disapprovazione, una di quelle che esercitava da quando aveva tre anni, grazie a lei.
- È diverso quando attaccata a delle flebo c’è tua sorella.
 
- Sarà – lo liquidò lei con un gesto della mano e John notò i polsi estremamente sottili. – È da un po’ che non ci si vede.
 
- Tre anni.
 
- Sì, beh… Ho avuto da fare.
 
John non rimarcò che il “da fare” di Harry equivaleva a sbronzarsi così tanto da farsi andare in tilt il cervello e svenire in mezzo a una strada. Con lei, d’altronde, non importava disturbarsi o meno con certi chiarimenti. Lo aveva imparato fin da piccolo.
 
- Non mi racconti nulla? Come sta tua moglie?
 
- Mary sta bene. È incinta, trentottesima settimana.
 
Harry fece un veloce conto con le dita. Da ragazza era un genio della matematica.
John si sforzò di non sospirare.
 
- La pagnotta è quasi pronta, allora!    
 
- Sì – il sorriso di John fu impossibile da trattenere. Quel piccolo essere umano ancora incapace persino di respirare da solo, era già stato capace di rubargli il cuore.
 
- Verrò a conoscerla, sai. Quando… starò meglio.
 
- Intendi la bambina o Mary?
 
- Entrambe, credo.
Ci fu una pausa mentre Harry cercava di mettersi seduta il più possibile sui cuscini, cercando una posizione confortevole per le proprie giunture indolenzite.
- Verrò a conoscere anche lui.
 
- Hmm?
 
- Sherlock Non-morto Holmes, ovviamente.
 
- Lo vedo a malapena io, ormai – commentò John, amareggiato.
 
- Oh? Non gli piacciono le cose a tre?
 
- Bada a come parli – scattò John, stringendo le mani a pugno e fissandola truce, la bocca una linea sottile. – Si tratta di mia moglie e del mio migliore amico.
 
Harry non parve per nulla impressionata.
- Migliori amici? È così che li chiamano, oggi?
 
- Basta, Harriet.
 
- Subito, fratellino. Mi chiedevo davvero come sta Sherlock, però. Sai, i notiziari ne dicono di tutti i colori…
 
- Oh, guardi pure la televisione, tra una sbronza e l’altra?
 
- …E mi chiedo come tu possa averlo lasciato in questo stato – terminò lei, come se John non le avesse parlato sopra.
 
L’ex-militare fece una faccia tra il sorpreso e il divertito. – In che senso, scusa?
 
- Perché, dopo che è tornato, hai rinunciato a Sherlock Holmes per Mary? – Harry era seria.
 
- Non… non risponderò a questa domanda.
 
- Hai paura di non saper rispondere?
 
Era sempre stato così, fin da piccoli. Se John non voleva fare qualcosa, Harry lanciava una sfida e lui, ogni volta, ci cascava, inconsapevole o meno.
- Tu non sai com’è Sherlock. “Il detective col cappello”, “il genio”, “lo psicopatico”… lui non è nulla di tutto questo. Niente di alieno, nessun circuito al posto del cuore. Sherlock è l’imprevedibile. È corsa nel cuore della notte, è l’aria che ti entra a stento nei polmoni, è adrenalina. È un incredibile stronzo, anche… della peggior specie – prese un bel respiro prima di continuare, lasciandosi scappare un sorriso prima di uno sbuffo frustrato. - Sai che non sono bravo con… Ma non mentirò dicendo di non amarlo. Lui è stato la mia ancora, il mio salvagente, la mia evasione. Ed è ovvio che io lo ami profondamente. Ma Mary Morstan è…
John si prese un’altra lunga pausa, cercando di fermare il tremore alla mano.
 
- Oh, stavi andando così bene. Hai esaurito le metafore? – Harry si tenne ben stampato in volto il sorrisetto di chi la sa lunga.
 
- No, Harry, è che… Mary Morstan è molte cose, tante delle quali non ti posso parlare e di parecchie… non ne sono a conoscenza nemmeno io, né credo lo vorrò mai. Ma sicuramente lei non è fatta di metafore o romanticismi. Lei è tutto ciò di concreto che avrei mai potuto sperare di trovare. Riesce sempre a farmi sentire a mio agio e a farmi capire dove sbaglio. È così in gamba… Se con quella domanda stavi insinuando che lei non sia paragonabile a Sherlock… Hai totalmente ragione: Mary e Sherlock potrebbero stare benissimo accanto e lei sarebbe comunque la più furba nella stanza. Sono stato così fortunato… I suoi difetti, il suo passato… pensandoci, l’hanno solo resa più perfetta per me.
 
Sua sorella rimase a guardarlo attentamente. Era scivolata sui cuscini ed ora era quasi totalmente sdraiata.
Poi scoppiò a ridere.
 
- Cosa? – chiese John, confuso.
 
- Niente – riuscì a dire Harry fra una risata tossita e l’altra. – È che ricordo quando ancora l’unico requisito per la ragazza perfetta per te doveva essere l’amare gli oreo.
 
- Ma…
 
- “Così li possiamo mangiare insieme su una panchina!”. Oh, adorabile.
 
- Avevo sei anni!
 
- Otto, prego! – precisò Harry, scherzosa, tenendosi fra le mani la testa dolorante per i medicinali e il poco sonno e le troppe improvvise risa.
 
Si guardarono per un po’, due identiche paia di occhi blu con frasi diverse impresse sopra.
 
John fu il primo a rompere il silenzio.
- Io devo andare… Mi ero preso solo un paio d’ore di permesso allo studio. Una ragazza appena laureata ha preso il posto di Mary ora che lei è in maternità e… devo andare – ripeté.
 
- Vai, pure, John. Ti sto forse trattenendo?
 
- Io… no – realizzò l’altro, alzandosi dalla poltrona stretta e facendo ciondolare le braccia lungo ai fianchi. – Tornerò domani, spero. Se vuoi.
 
- Solo se prometti – sorrise Harry.
 
John aveva sempre mantenuto le promesse e lei si divertiva un mondo quando poi lui era costretto a fare cose che altrimenti non avrebbe mai fatto.
Era la battuta di Harry, così John rispose con la propria. – Lo prometto.
Con un altro breve sorriso e un cenno del capo, John si dileguò.
 
Il freddo fuori dell’ospedale gli colpì il viso e lui si alzò il bavero del cappotto, ricordandosi un certo detective.
Dovrai cercarlo, prima o poi…
Per il momento, guardò il cielo nuvoloso e continuò a camminare.

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Capitolo 5
*** All that I can give you - Mary ***


Ebbene sì, sono tornata dopo meno di 24 ore. 
Forse questo capitolo e quello di Sherlock sono stati i veri motivi per cui ho scritto questa raccolta, quindi spero di essere riuscita a rendere ciò che volevo. Avvertimenti? Altro amore per Mary - sì, è infinito, e comunque è inevitabile dato che il punto di vista è suo - e per la mini Morstan-Watson, con frasi ispirate liberamente alla canzone "Avrai" di Claudio Baglioni.
Vi lascio e grazie grazie grazie per i meravigliosi commenti,
Chiara


PS Il capitolo sembra - e un po' lo è - più corto dei precedenti, ma in realtà è solamente piccolo e compatto v.v


 


All that I can give you - Mary




Mary Morstan-Watson osservò il cielo da una delle finestre del soggiorno.
Il sole pomeridiano era solo un disco pallido coperto da nuvole grigie.
Una di quelle giornate in cui potevi sostenere lo sguardo della stella senza farti male.
La luce di un simile splendido gigante ridotta a quella di una mera lampadina… Rendeva tristi.
Decisamente non era una delle migliori giornate che Londra aveva da offrire - o comunque era una delle peggiori nel suo già brutto repertorio.
 
Mary si sistemò meglio sulla poltrona, sprimacciando il cuscino che aveva dietro la schiena.
Si poggiò una mano sul ventre rotondo e un piccolo ma deciso calcetto le diede risposta.
Siamo sveglie, eh, principessa? pensò con un sorriso tranquillo, accarezzandosi in modo rassicurante la pancia.
La bimba sembrava essersi acquietata di nuovo, così Mary poggiò la testa sullo schienale della poltrona e chiuse gli occhi, non mettendo fine alle pigre carezze rivolte al proprio grembo.
Ieri John aveva suggerito un nome: Amanda.
Mary aveva sussultato appena all’udirlo, dicendo che quel nome non le era mai piaciuto, fin da bambina.
Da un lato era la verità: aveva imparato ad odiare e poi semplicemente dimenticare il proprio nome di battesimo, come si fa con una vecchia cicatrice o con qualcosa di fastidioso.
Se voleva che sua figlia - la figlia di John - per un qualche scherzo del destino, si chiamasse come lei? No, era fuori discussione.
La sua infanzia in orfanotrofio era stata monotona, con ben pochi amici. La carriera scolastica brillante, la lingua svelta, la bugia pronta. Non c’era voluto molto prima che quelli della CIA la notassero. Aveva diciassette anni.
L’addestramento durante gli studi per medicina, e poi i viaggi, le missioni, gli omicidi, il rimorso… Aveva dovuto sparire dalla faccia della Terra e lo aveva fatto, così bene. Nuovo nome, vita nuova, qualche lavoretto “alla vecchia maniera” aveva continuato a farlo - se ben pagato, certo - ma solo furti o consulenze. Niente assassinii. Mai più, aveva giurato a se stessa.
L’incontro con John, il romantico ma pratico John. Una storia d’amore a lavoro? Cosa c’era di più semplice, banale - perfettamente banale?
E poi Sherlock. E Magnussen…
Adorava quel bambino troppo cresciuto ed eccessivamente intelligente che era Sherlock Holmes. Ma se si fosse dovuta trovare nella stessa situazione, lo avrebbe rifatto. Gli sparerebbe contro ancora ed ancora ed ancora se solo questo le garantisse di tenere John accanto a se, a vivere la loro vita insieme. Se l’era meritata, dopotutto, no?
La risposta fu immediata e tristemente ovvia: no. No che non se la meritava.
Aveva avuto ben poco e si aspettava altrettanto poco.
L’Universo non era stato buono con lei ma lo sarebbe stato per sua figlia.
Lo doveva essere per forza, perché era perfetta.
Adorabile con il suo naso all’insù e il pollice messo in bocca, con i suoi occhioni chiusi innocentemente.
Avrebbe fatto di tutto, lottato come una lupa e ruggito come un leonessa per fare in modo che la sua cucciola avesse tutto ciò che si sarebbe meritata.
 
- Capito, piccola? – chiese, sperando che ognuna delle parole che stava per dire raggiungesse come un eco il piccolo cuore di chi le stava crescendo dentro. – Avrai tanti sorrisi e tante lacrime. Tante foto e libri e giochi e ginocchia sbucciate. Avrai dei litigi e degli abbracci e dei baci. Avrai amici che ti deluderanno, inganneranno, tradiranno… ed amici che torneranno sempre a consolarti. Avrai il raffreddore e sciarpe e cioccolate calde. Avrai qualcuno che ti farà bruciare il cuore e qualcuno che te lo farà sciogliere. Avrai animali da accarezzare e biscotti e pane appena sfornati da mordere. E quando sarà il tuo tempo per andare lontano… Ricorda che a casa avrai sempre un ex-serial killer per mamma, un ex soldato per padre ed un sociopatico a tempo pieno per padrino. E siamo e saremo tutti qui, per te, a proteggere tutta te, tutta la tua preziosa persona. Avrai tutto, cucciolo, e nonostante questo crederò comunque di non averti amato abbastanza.

La sua pancia rimase ferma e silenziosa, ma a Mary bastò questo.
Bastò il pensiero che presto John sarebbe stato a casa per darle un bacio e donarle un sorriso, bastò l’odore del pane che cuoceva nel forno, bastò il rumore del traffico fuori, bastarono le nuvole diradate per rivelare un cielo aranciato dal Sole morente.
Il telefono vibrò accanto a lei e ci fu un tumulto festoso dentro la sua pancia.
Divertita dall’improvviso balletto eseguito dai piedi e dalle mani di sua figlia, afferrò il cellulare e lesse il messaggio sullo schermo illuminato.
 
Ha scalciato, oggi? SH
 
Con uno sbuffo eloquente rivolto al proprio grembo, Mary sorrise e rispose.

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