Frossen

di Samita
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Vaniglia e Pepe Bianco ***
Capitolo 2: *** Arancia e cioccolato. E vaniglia. E pepe bianco. ***
Capitolo 3: *** E poi mai più ***
Capitolo 4: *** Il suono del silenzio ***
Capitolo 5: *** Schiena a schiena ***
Capitolo 6: *** E lì fuori, la gente; e dentro noi. ***
Capitolo 7: *** Arendelle ***



Capitolo 1
*** Vaniglia e Pepe Bianco ***


07 febbraio 2014 Untitled


1: Vaniglia e Pepe Bianco



Dicono che la notte in cui nacque avesse nevicato oltre ogni dire: il freddo aveva chiuso in casa la popolazione di Arendelle, che si stringeva, davanti ai camini, in coperte pesanti.

Questo è quello che dice la gente, ché alla gente piace dire molte cose. Dice che fosse l’inverno più freddo degli ultimi cent’anni, e che il manto innevato avesse bloccato le porte delle case, e le finestre: tanta era la neve che la stessa levatrice non aveva avuto modo di giungere in tempo al castello.

Questo è quello che dice la gente.

Chè la gente lascia che le parole fluiscano come nulla fosse, e crea le leggende.

Sono quelle, ciò che restano.

Ciò che dice la gente.


Ma quel giorno, perché non di notte ma di giorno era nata la primogenita della famiglia reale, era un giorno d’estate. Il sole del nord rimaneva pigramente levato per ore ed ore, e scaldava la terra con una forza che sembrava fuori luogo. L’aria era calda, secca, e dal mare si levava leggera una brezza salata.

Questo era il giorno in cui gli occhi azzurri di quella neonata si erano schiusi, e quell’aria di mare, di fiordo, era stata la prima aria che aveva respirato.


Elsa era piccola e forte. Cresceva lentamente ma con ostinazione, lasciando la regina in continua apprensione per quel suo corpicino che sembrava sempre essere troppo esile e troppo fragile per l’inverno che andava avvicinandosi. Pregava ogni giorno di riuscire a farla mangiare qualcosa di più, insisteva nel portarsela al seno sperando che mettesse su un adeguato straterello di grasso per difendersi dal freddo.

L’inverno venne, e la Regina stringeva Elsa a sé ogni qual volta fosse possibile farlo: e più la stringeva a sé, e più aveva la sensazione che quella bambina, la sua bambina, fosse fredda.

Troppo fredda.

E a tanto volerla scaldare, cedendole così tanto calore, la Regina si ammalò.


Elsa stette alle cure della levatrice per qualche tempo, mentre la madre combatteva una polmonite – fortunatamente lieve – nell’immenso letto della sua camera, vuota, lontana dalla sua bambina così fragile e piccole e fredda.

Il Re, saputo quanto stava accadendo, decise di rientrare al castello: aveva avuto il tempo giusto di vedere la figlia nascere, che già era ripartito con le sue delegazioni per stringere patti commerciali e militari con i regni circostanti – questo era l’unico modo in cui un posticino sperduto e selvatico come Arendelle poteva sopravvivere ai tumulti che interessavano i grandi paesi del sud.


La levatrice aveva provato ad avvertirlo prima che irrompesse nella stanza della piccola Elsa.

Non fateci troppo caso, Sire. La bambina sta bene, glielo giuro su ciò che di ho più caro al mondo, mio Re. La bambina è sana, felice. Presto potrà tornare dalla madre.

La bambina è forte.

Troppo forte.


Il Re aprì la porta della stanza della piccola Elsa, e con immenso stupore vide

che cadeva la neve.



***


Il GranPabbie puzzava di selvatico: stretto nel suo mantello di muschio, lo guardava con gli occhi incavati nascosti dai capelli unti e affatto curati.

Lo stregone restava gobbo sul suo intruglio ribollente, annusandone gli olezzi con il naso fremente d’un coniglio. Il Re si manteneva a qualche metro da lui, stretto nelle spalle e soprattutto stretto fra le sue due guardi di scorta, armadi pronti a mettere a ferro e fuoco la catapecchia del GranPabbie alla minima mossa falsa.

"Datemeli, datemeli." lo stregone aveva una voce roca e profonda che mal si addiceva alla sua corporatura rachitica: porse la mano, ossuta, verso il Re, in attesa.

Questo pose – o meglio, lasciò cadere – sul palmo della sua mano una peluria bianchiccia. Il GranPabbie chiuse il pugno, portandolo prima al naso, e solo dopo qualche profondo respiro lo lasciò cadere nel pentolino di rame.

"Buon odore, buon odore."

Il Re arricciò il naso, investito dal fiato marcio dell’uomo.

"Buon odore, buon odore." quello prese il pentolino e glielo porse, ficcandoglielo sotto il naso: il Re si ritrasse, quasi istintivamente. "Annusa. Annusa. Senti l’odore."

Fu un grande sforzo per il Re lasciar entrare aria nelle narici.

"Odora bene."

Quando finalmente riuscì ad inspirare, il Re volse uno sguardo sconcertato verso lo stregone.

"Cosa odora, padre?"

Le due guardie si scrutavano di sottecchi, senza sapere se essere perplessi o cosa.

"Sa di vaniglia." Ammise il re, allibito, con un filo di voce.

"Annusa, annusa."

Il Re si concentrò: non aveva altra scelta. Solo quell’uomo poteva aiutarlo, per quanto assurde fossero le cose che faceva. "Pepe?"

"No, no. Vaniglia e Pepe Bianco. Fa differenza. E poi c’è questo. Attento."

Con un gesto leggero, sconsideratamente aggraziato, il GranPabbie impose la mandritta sul pentolino: il contenuto si alzò, leggiadro, avvolgendogli mollemente le dita. Rimase così qualche istante, finché l’uomo non proruppe con un colpo secco, facendolo schizzare verso il tetto impagliato della casupola: l’intruglio si vaporizzò, dissolvendosi in leggeri fiocchi di neve.

Il Re, lo sguardo levato verso il prodigio, rimaneva basito in silenzio.

"Grande magia, Re. Non è magia di padre né di madre, è solo grande magia. Magia è così, va dove vuole lei, andata da Elsa, ama Elsa, Elsa sa di Vaniglia e Pepe bianco."

Il Re riportò gli occhi verso lo stregone, sconcertato. "Cosa significa...?" mormorò.

"Che magia può essere di Elsa o Elsa può essere di magia. Questo significa. Vaniglia e Pepe bianco aiuteranno, ma non basteranno." fece una pausa. "Magia non dà problemi, se trattata giusta – è come animale. Buon viaggio, Sire."







___________________________


Ehbon, spero vi piaccia, ah. xD

tolgo qualche elemento disneyano e inserisco qualcosa di più cupo. Voglio focalizzare tantissimo sul rapporto fra le sorelle, diciamo che l’idea nasce dal voler prendere qualche altro missin moments. Ah, l’OOC principale è Hans. Gli altri voglio che siano molto simili, ma Hans l’ho immaginato sempre in un altro ruolo.


Enjoy, if u like!


Samita

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Capitolo 2
*** Arancia e cioccolato. E vaniglia. E pepe bianco. ***


2


2: Arancia e cioccolato. E vaniglia. E pepe bianco.



La Regina rimaneva fissa allo stipite della porta, osservando il prodigio della sua bambina: fiocco dopo fiocco, il pavimento ormai s’era imbiancato. Faceva freddo, in quella stanza, e il Re teneva stretta a sé la moglie, bardata di scialli d’ogni genere.

"Vedrai che andrà tutto bene." disse all’uomo, senza mai staccare gli occhi dalla culla della sua piccola. "Lasciami andare da lei, ti prego."

"E’ così fredda..." fece il Re, fra sé e sé. "Non vedi cosa ti ha fatto?"

La Regina aggrottò le sopracciglia, abbassando lo sguardo. "Non ha importanza."

"Come sarebbe a dire non ha importanza?!" sbottò quello, lasciandola andare dalla sua presa. "E’ pericolosa! E’ ricolma di magia!"

"E anche se fosse?" la donna si avvicinò a grandi passi alla culla, sfuggendo al marito. Quello, impaurito ed ancora stranito dall’incontro con lo stregone, rimase immobile, la mano levata verso l’altra. "Non sperare che lasci sola tua figlia solo perché è un po’ fredda." Fece la Regina, salda, i pugni stretti lungo i fianchi: piantò gli occhi, decisi, in quelli del marito, con tanta insistenza che lo costrinse ad abbassare lo sguardo.

Allora la donna si curvò sulla culla della bambina, che non appena vide la figura abbassarsi su di lei voltò lo sguardo, azzurro, verso la madre.

Per un istante, uno solo, la Regina titubò.

Ma poi quella minuscola e fragile ed impaurita creatura sorrise, lanciando un paio di gridolini diretti palesemente a lei. La prese in braccio, mentre il Re osservava le due fisso sulla porta: l’uomo era talmente preoccupato al vedere la scena che ci mise lunghi, lunghissimi secondi per rendersi conto che la neve, nel frattempo, era completamente sparita.



Il Re aveva molta più paura di Elsa di quanta non ne avesse la Regina, e passava ogni giorno a dirsi che era così perché, in fondo, la Regina non aveva mai parlato con il GranPabbie, non aveva mai sentito le sue parole, non aveva mai visto il potere racchiuso nella piccola esplodere letteralmente dalle mani dello stregone.

Ma sembrava non esserci verso di staccare la moglie da quella bambina, tanto che la levatrice stessa era stata dimessa e la figlia dormiva assieme alla madre.

Col tempo, Elsa aumentò la propria temperatura corporea: a poco più di un anno era diventata indistinguibile da una bimba qualsiasi. Eccezion fatta per qualche episodio, raro: un po’ di ghiaccio sparso per casa, una volata di vento improvvisa, e la neve che ogni tanto riempiva la culla.

Gattonando di qua e di là, Elsa lasciava impronte gelate al suo passaggio.

Ma anche questo passò, con il tempo.

Il Re stava per decidersi a ripartire per i suoi impegni nei paesi stranieri, quando venne a sapere che il suo secondogenito era in arrivo.


"Richiamerò la levatrice."

La moglie non sembrava volerne sapere.

"Ti prego, una donna incita, un neonato – sono fragili, non potete stare vicino a Elsa!"

"Elsa ha bisogno di me. Lasciami fare, so come gestire la nostra bambina."

Nello sguardo del Re nemmeno una velatura di fiducia: solo preoccupazione, delle più profonde.

"Non partirò." fece l’uomo, infine, socchiudendo gli occhi.

"Ma devi –"

"No, non devo. Delegherò. Quel che devo fare è assicurare la nostra discendenza."

Per un istante il tono fermo dell’uomo impaurì la donna. Elsa, intenta poco più in là a maneggiare dei cubi di legno, parve immobilizzarsi.

"Starò con voi. Mi prenderò cura di Elsa."

"Ma..."

"Se non vuoi la levatrice, lascia almeno che me ne occupi io. Che ce ne occupiamo insieme."

Elsa pose per terra il cubo che aveva in mano, riprendendo a giocare.

La Regina sorrise.



Entro brevissimo tempo il Re scoprì che nell’avere a che fare con i bambini l’ultimo dei problemi era la magia.

La magia andava e veniva, principalmente andando. Sempre meno, sempre meno spesso, mentre la pancia della Regina si gonfiava di nuova vita. Elsa raggiunse i tre anni, dandosi felicemente alla formulazione di frasi di senso compiuto.

"Padre!"

Appoggiava la mano sul pavimento, e il Re vedeva comparire un pugnetto di neve. La bambina glielo porgeva, facendogliene dono: Elsa era in grado di controllarlo. Questo era il messaggio.

Elsa, che rimaneva esile, stava prendendo lentamente coscienza di sé stessa e del suo potere.

"Stai attenta, Elsa." non sapeva come altro ammonirla: dirle di non farlo sembrava impossibile. "Stai attenta, di prego."

"Certo, padre!" e iniziava a disegnare piccoli vortici in aria.

"Elsa!"

La piccola si prendeva le mani, stropicciandosi le dita e abbassando lo sguardo. "Scusate."

Lui le si riavvicinava, carezzandole i capelli color platino. "Agli altri il freddo fa male."

Gli occhioni sgranati, la bambina osservava il padre incredula. "Fa male?"

"Troppo freddo fa male."

Forse era uno degli ultimi, ma la magia rimaneva un problema.

Specie con il parto della Regina prossimo più che mai.



***


Anna inquietava Elsa. E quindi inquietava il Re. Il che inquietava ulteriormente Elsa. E la cosa continuava, con il risultato che la primogenita vide sua sorella giusto un istante, per poi ritrovarsi nuovamente nella sua camera.

"Anche io ero così?" pigolava.

"Sì, Elsa."

"Ma è davvero una bambina?"

"Sì, Elsa."

"Ma è piccola."

"Sì, Elsa. Crescerà. Ma adesso ascoltami: a lei il freddo fa male. Fa tanto male."

Elsa si raggomitolava sul tappeto, le braccia stratte alle ginocchia in cui tuffava la testolina.

"Hai capito?"

Elsa annuì.

"Non fare il freddo vicino ad Anna."

Elsa annuì un po’ di meno.

"Mi hai capito?"

Elsa annuì con più convinzione.

La bambina non sembrava accennare a volersi muovere. In ansia, il Re si chiedeva se potesse lasciarla da sola un istante per andare dalla moglie.

"Elsa..."

La bambina guardò il padre, ancora arrotolata su sé stessa.

"Adesso sei una sorella maggiore, sai?"

"Sì."

"Devi proteggere Anna. Come io e la tua mamma proteggiamo voi. Va bene?"

"Sì."



"Portamela qui, ti prego. Vedrai che andrà tutto bene."

Il Re sospirò, scuotendo il capo. Non poteva fare altrimenti, d’altronde: o così, o niente.

"Elsa..."

La bambina fece capolino dalla porta, con le mani strette dietro la schiena.

"Vieni pure, bambina mia."

Ma quella rimaneva sulla porta.

"Madre, non farò il freddo, lo prometto."

"Brava bimba. Vieni qui, vedrai che Anna non attende altro che vederti."

"Ma Anna è piccola."

"Forza."

Con passo incerto, affiancata dal padre, Elsa si avvicinò al letto dove la Regina stringeva in braccio sua sorella, neonata.

"Ciao, Anna."

Elsa rimaneva con le mani sigillate tra loro, immobili dietro la schiena.

"Dalle un bacio, su."

Elsa scosse il capo, appiattendosi contro la gambe del Re.

"No, se no le faccio freddo!"

"No che non le farai freddo, Elsa. Forza, avvicinati."

"Non le voglio fare freddo."

"Elsa... vuoi bene ad Anna?"

Quella annuì.

"E allora non le farai freddo. Te lo prometto." lo sguardo della Regina scivolò sul marito, teso come una corda di violino. Mentre i due si guardavano, Elsa scivolò in avanti e posò le labbra sulla fronte della sorellina, per poi ritrarsi immediatamente.

Nulla accadde.

"Madre...!"

La Regina sorrise alla bambina. "Cosa?"

"Sa di arancia e cioccolato!"



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Capitolo 3
*** E poi mai più ***


3


3: E poi mai pù.



Il GranPabbie sghignazzava chino sul pentolino di rame.

"Questo fa vedere che ha magia, sì!"

"Non penso servisse questo per capirlo..."

"Oh –" si immobilizzò quello, portando lo sguardo sul Re. " – Oh, sì, questo importa, sì. Sente magia dentro, la padroneggia, se già sente gli odori magici. Buona cosa. E ha ragione – annusa, annusa. Annusa."

Nonostante ci fosse già passato, il Re ci mise comunque un po’ per inspirare l’odore della poltiglia ribollente.

Come previsto, arancia e cioccolato. Intensi, dolci: l’aroma dell’agrume sembra quasi potersi dire frizzante, e gli fece scappare un abbozzo di sorriso.

"Magia non c’è, in Anna. Puoi stare sereno, Sire. Elsa cresce bene. Ma bisogna stare attenti ad equilibrio. Compreso?"

"Grazie, GranPabbie."

Il re si congedò.



Elsa satellitava attorno alla Regina e ad Anna, avvicinandosi ogni giorno un po’ di più, ogni giorno un po’ più spesso, finché non ebbe il coraggio darle una carezza.

Nulla accadde.

La Regina sorrideva, serena, guardando le due figlie avvicinarsi e, lentamente, crescere.

Anche il Re iniziava a distendersi, a lasciare Elsa camminare da sola, a non tenerla più sotto costante osservazione.

"Padre, la vuole vedere una magia?"

Cinguettava la bambina, avvicinandosi a lui: portava le mani al volto, le richiudeva l’una sull’altra, e poi lentamente le schiudeva, mostrando piccole forme di neve compatta, piccole sagome abbozzate.

Chiedeva: "Posso farlo vedere ad Anna?"

"Non ancora, Elsa. Ma fra un po’ sì."

Il volto della bambina si illuminava, e trottava verso l’angolo della stanza, vicino alla finestra, sedendosi per terra e immaginando mondi di neve e ghiaccio in cui divertirsi e giocare senza fine.


"Posso farlo vedere ad Anna?"

"Oh."

La Regina si stupiva: ogni volta le piccole sculture di neve diventavano più precise.

Ma la risposta non cambiava: "Non ancora, Elsa." mormorava dolcemente la madre. "Ma tu continua, vedrai come sarà contenta quando finalmente glielo mostrerai."

Fiduciosa, Elsa richiudeva le mani, facendo scomparire la neve. Si allungava verso Anna e le dava un bacio in fronte, tornandosene poi a giocare nel suo angolino di freddo, vicino alla finestra di camera sua.


***


Elsa non si ricordava del giorno in cui, finalmente, aveva potuto mostrare la magia ad Anna: era stata una cosa lenta, graduale; e Anna, per quel che la riguardava, dava ormai per scontato che Elsa potesse creare la neve e farla esplodere in qualunque sala del castello.

Il Re schiudeva la porta della camera delle due bambine, osservando da un minuscolo spiraglio la piccola Anna battere follemente le mani alla vista dei ricami di ghiaccio che volteggiavano nell’aria sopra alla sorella.

Appena la più piccola si alzava per avvicinarsi, Elsa indietreggiava un po’.

"Sei ancora troppo piccola per venire così vicino, Anna." diceva la maggiore, con la dolce apprensione ereditata dalla madre.

"Nooo!" squittiva Anna, placcando letteralmente Elsa: questa si chiudeva a fagotto, ridendo, e portando le manine al petto faceva scomparire ogni traccia di magia. Poi la prendeva, abbracciandola, per togliersela delicatamente di dosso, e ricominciavano a fare i giochi normali dei bambini della loro età.

Non sembrava potesse andare meglio di così.

Non sembrava vero.


E il tempo passava, sin troppo veloce: Elsa prendeva sempre più confidenza, lasciando Anna avvicinarsi sempre più. Al Re sembrava di impazzire ogni volta che le vedeva fare qualcosa di nuovo, di imprevedibile. La moglie gli posava una mano sulla spalla, ed ormai gli ripeteva sempre la stessa cosa:

"Di cosa ti preoccupi, amore? Va tutto bene. Pensa se fossero stati due maschi, che disastro –" e si metteva a ridacchiare a labbra strette.



***


"Elsa..."

"Mhhh."

"Elsa!"

Anna la scuoteva nel sonno.

Elsa sapeva benissimo cosa voleva.

"Dai! Dai!"

Era una notte d’aurora come le altre: Elsa, strattonata giù per le scale del castello da quel terremoto che era Anna, sentiva già fluire la magia in tutto il suo corpo, ansiosa d’uscire.

"Fai la magia! Fai la magia!"

Il ghiaccio e la neve: fuori da lei, in tutta la stanza. Lì, al suo bisogno, al suo comando, per servirla. Scendeva la neve sul pavimento ed Anna si animava sempre più, saltellandovi sopra con gli scarponcini che Elsa non mancava mai di controllare che avesse. Non doveva fare troppo freddo, ma oramai non era più in problema: era come se riuscisse a concentrarlo tutto nella neve, senza che uscisse.

"Mi chiamo Olaf, e amo i caldi abbracci!"

Anna era spericolata, molto più di quanto non fosse Elsa. La sorella maggiore non si preoccupava delle follie della più piccola, perché ormai sapeva che qualunque cosa fosse successa lei sarebbe stata lì, pronta ad inondare il pavimento di legno d’un soffice strato di neve fresca, o a catturarla con una scivolosa scultura di ghiaccio che l’avrebbe riportata dolcemente a terra. Nulla, ormai che erano grandi, poteva andare storto.

Ne era certa.


Fino a quell’istante.


"Anna, rallent..."


Elsa non avrebbe mai pensato che sarebbe stato il ghiaccio stesso a tradirla – quel ghiaccio che era suo, e suo soltanto, con cui viveva da sempre, che sotto la sua sola volontà si modellava a suo piacimento.

Il ghiaccio la tradì: meschino, la fece scivolare quando la cosa non era dovuta; ad Elsa mancò il terreno sotto ai piedi.

Più che il suo corpo, fu il suo cuore che sentì cadere, sprofondare, scomparire muto dal suo piccolo petto: "Anna!"

La magia non le obbedì: schizzò fuori, indomita, dove non doveva andare, mentre lei cadeva, e con lei ogni sua ultima certezza.

Perché non solo il ghiaccio l’aveva gabbata, e non solo la magia s’era divincolata al suo comando; non solo non aveva avuto il modo di proteggere la sua sorellina dalla caduta, no: quella stessa, maledetta magia ribelle, nell’istante d’un tonfo, s’era scagliata sulla fronte di Anna.

Il mondo di Elsa crollò in un istante.

"NO!"

Il panico le morse il petto, quando vide Anna rotolare giù da una montagnola di neve, incosciente.

"Anna! Anna!"

Tradita, ferita, si lanciò sulla sorellina ad abbracciarla.


Cosa hai fatto?


"Madre! Padre!"


E un singhiozzo dopo l’altro.

Elsa, cosa hai fatto?


China su di Anna, abbracciandola disperata, Elsa sentì le porte della stanza aprirsi.

Fra le lacrime, sentì il gemito di sua madre. Il Re, spalancata la porta, si guardò attorno sconcertato: il ghiaccio lentamente lambiva le pareti, s’alzava leccandole come fumo ed impregnandole.

"Mio Dio."

Elsa si voltò verso il padre, ma l’unica cosa che riuscì a vedere furono i suoi occhi, e poi le cinque dita della sua grande e forte mano.

Lo schiaffo le tolse definitivamente il respiro.

"Cosa hai fatto? Non lo controlli più!"

Immobilizzata, tremante, Elsa si portò la mano al volto mentre sua madre raccoglieva Anna dal suo grembo.

E tale era la paura che nemmeno la Regina, questa volta, osò dare contro al Re.

"E’ fredda come il ghiaccio..." fu l’unica cosa che riuscì a dire la donna.


Elsa, che cosa hai fatto?






______________________________________


Grazie a tutti che seguite, eccomi qua!

Come vedete iniziamo a fare qualche variazione un po’ più cupa (non certo una cosa alla Disney xD)

Spero di aver reso abbastanza bene quel momento, ed anche il padre.

Ciao!

E Grazie ancora!

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Capitolo 4
*** Il suono del silenzio ***


4


4: Il suono del silenzio



Il Re stringeva Elsa al petto, saldo sul cavallo che correva rapido verso la catapecchia del GranPabbie: a fianco le guardie e la moglie, con Anna in braccio.

Poteva sentire la figlia scuotersi nei singhiozzi, aggrappata alla sua veste, che sembravano non avere mai fine.

"E’ stato un incidente!" ripeteva, urlando disperata con la voce ora forte e ora strozzata dalle lacrime.

Il Re era muto, non aveva più detto una parola: lo sguardo era rivolto in avanti, verso il sentiero, alla ricerca dello stregone.

E lì, fra le sue braccia, quella sua figlia magica, strana, quella creatura che sempre aveva temuto stava aggrappata a lui – lui, che l’aveva schiaffeggiata, lui che terrorizzato sempre l’aveva guardata con sospetto.

Quella bambina che aveva messo a rischio la vita della Regina ora aveva messo in gravissimo pericolo la vita della sorella.

La discendenza.

"Non volevo! Non l’ho fatto apposta!"

Che discendenza avrebbe mai potuto sperare di avere da una creatura del genere?

E se Anna fosse morta?

Che ne sarebbe stato della loro famiglia, del loro Regno?

"Padre! Perdonatemi!"

Elsa non vedeva, non sentiva, aveva solo il terrore dentro di sé, la paura nera, lo sgomento. Una bestia d’ombra molle le masticava il cuore, impazzito, le orecchie che le fischiavano, il galoppo furente del cavallo che la faceva sobbalzare. Elsa non pensava, non ragionava, voleva solo urlare e piangere, e così faceva mentre il fiato le si faceva sempre più pesante, mentre ogni respiro sembrava diventare più difficile.

La corsa disperata si fermò, e lei quasi non se ne rese conto: sentì solo che qualcosa la portava giù, il terreno sotto i piedi, e poi un odore pungente, come di stalla.

"GranPabbie! Aiutaci, te ne prego!"

Lo stregone aprì la porta della catapecchia, portandosi sulla soglia con un passo lento e lo sguardo sottile. C’era una nuova, anomala autorevolezza in lui.

Il Re temeva già per il peggio.

"Pizzica." fu la prima cosa che disse, guardando, dall’alto, Elsa.

La bambina, ancora intenta a piangere, sentì letteralmente addosso lo sguardo indagatore dell’uomo: a fatica levò lo sguardo su di lui.

Il Re non sentì più un singolo singhiozzo da parte della figlia: solo un fortissimo tremore, quasi una convulsione.

"Entrate."


Elsa rimaneva appiattita contro le gambe del padre, tremante, gli occhi sgranati sul GrandPabbie che passava le mani ossute sulla testa della sorellina. Sul capo di Anna era comparsa una ciocca di capelli bianchi, che catturava ora sia l’attenzione della bambina che quella dello stregone.

La Regina tratteneva le lacrime, anch’essa con lo sguardo immobile su Anna se non, ogni tanto, per qualche occhiata lanciata ad Elsa e poi al Re.

Ogni volta che incrociava gli occhi della madre, per Elsa era come ricevere una stilettata al cuore.

Una volta.

Due volte.

Il silenzio nella capanna, se non per i mormorii sommessi ed incomprensibili del GrandPabbie.

Tre volte.

E ancora, e ancora.

Elsa voleva morire.

Inspirava ed espirava, con foga, in quei momenti infiniti in cui attendeva di sapere cosa sarebbe successo.

Il danno.

Il danno.

Mio dio, Elsa. Che cosa hai fatto?

"Colpo in testa." sentenziò di colpo l’uomo.

Elsa smise di respirare.

"Grande fortuna."

"La mia bambina..."

"Nessuna preoccupazione. Basta un poco di sacrificio, basta un poco di magia, per testa. Testa funziona, logica. Chi ha logica? Padre o madre?" Guardò i due, che non accennarono a schiudere le labbra. Con uno scatto l’uomo riabbassò il capo, tornando su Anna: "Non importa, faccio io. Piccolo sacrificio, logica è cosa facile." Lo videro mordersi il pollice con un colpo secco, con inaudita semplicità per quella che era una pratica altamente dolorosa. Levò puoi la mano sulla fronte della bambina, lasciandovi cadere sopra il suo sangue.

"Con testa basta logica, io ne ho, posso guarire. Ma meglio se togliamo magia, magia è illogica. Così guarisce."

"Vivrà?" chiese la Regina, incredula.

"Certo, vivrà bene. Via tutta magia, anche ricordo di magia. Tutto bene. Ecco fatto."

Il respiro di Anna si era improvvisamente regolarizzato.

I due sovrani distesero contemporaneamente il volto, invasi dalla felicità di vedere la bambina guarita, salva.

Solo Elsa rimaneva tesa, immobile, inspirando ed espirando, inspirando ed espirando, panico dai polmoni, l’orrore negli occhi.

"Bimba vaniglia e pepe bianco."

Elsa non si mosse. Il Re le posò la mano sulla spalla, spingendola avanti: "Sta dicendo a te, Elsa."

"Vaniglia e Pepe Bianco?" mormorò quella avvicinandosi con un paio di titubanti passi allo stregone.

"Tu pizzichi, bimba. Tu ascolta: non va bene."

"Non va bene?"

Il GranPabbie scosse leggermente la testa: "Tu hai paura, dentro il sangue. Paura esplosa, attenta. Ascolta, bimba pepe bianco: tu ha grande magia. Magia bella. Magia brutta. Dipende da te."

"Io non voglio la magia brutta..." Elsa prese a piangere nuovamente, il petto che si scuoteva sotto il suo respiro affannato. "No!"

Lo stregone abbassò lo sguardo: sul pavimento, dalla bambina, si dipartivano e lentamente crescevano piccoli cristalli di ghiaccio.

"Tu impara a controllare magia, e magia non è brutta. Ma tu ricorda: paura. Paura non va bene."

Il Re si avvicinò alla figlia, prendendola per le spalle: "Faremo in modo che lo controlli. D’ora in poi staremo attenti. Molto più attenti –" sottolineò, portando lo sguardo sulla moglie. " – e faremo tutto ciò che è possibile fare per aiutare Elsa."

Elsa, con la presa salda del padre sulle spalle, abbassò lentamente il capo, fissando il pavimento.

"Grazie, padre" sussurrò.



***


Il Re aveva deciso: avrebbe preso lui in mano la situazione.

Elsa non diceva nulla, e così la Regina, se non qualche vago sospiro rassegnato.

"Ho sbagliato tutto..." si limitava a sussurrare.

"No, amore. Vedrai che adesso sistemeremo questa storia. Vedrai che andrà tutto bene"

Nel castello entrò lentamente il silenzio: piano piano i servitori venivano congedati, i saloni chiusi.

Anna si risvegliò dopo qualche giorno, stropicciandosi gli occhi, sorridendo. Abbracciò la madre, che le aveva detto che era scivolata per terra, e poi trotterellò verso la sorella.

Elsa teneva le braccia incrociate, strette contro al petto, e con la testa incassata la schivò, indietreggiando.

"Anna, lascia in pace tua sorella..."

Quella sera scoprì che sua sorella era troppo grande per dormire ancora assieme a lei.


Il castello era deserto.

In mezzo all’immensa stanza ch’era diventata la sua cameretta, Elsa guardava il padre inginocchiarsi affianco a lei: lo sguardo duro dell’uomo le indagò il volto, fissandosi sugli occhi, nel tentativo di riuscire a vedere dentro di lei – come se volesse catturare la magia che le si nascondeva dentro.

"Sarà sempre così?" chiese la bambina, a voce bassa.

Poco prima aveva congelato con un sol tocco tutta la finestra.

Non voleva farlo.

Il Re guardava i frattali ghiacciati che si dipanavano sugli infissi, geometricamente perfetti.

"Io non..."

"Elsa."

Quella levò a fatica gli occhi dal pavimento, incrociando lo sguardo del padre.

L’uomo ci mise un po’, per poi sfiatare: "Mi dispiace. Ho sbagliato a colpirti."

"Padre..."

"Adesso sono qua per te. Vedrai, andrà tutto bene."

La discendenza.


Elsa era la sua discendenza.

Magia o non magia.

Quanti anni ci aveva impiegato per capirlo?


"Tieni. I guanti aiuteranno."

"Grazie, padre."


***


Quella che pensava essere la sua casa, ormai, agli occhi di Anna sembrava irriconoscibile: non un movimento, non un’anima.

Il cancello del castello era stato chiuso. C’erano solo due servitori. Le stanze vuote, senza luce.

Niente.

"Elsa?"

Elsa non sembrava nemmeno esserci più.

C’erano sua madre e suo padre, sì.

E basta.

"Elsa?"

Ogni giorno ci riprovava. Non aveva altro da fare, in fondo.

Ma poi arrivava la Regina, e la prendeva dolcemente in braccio: "Non disturbare tua sorella, Anna. Forza. Vieni con me."


Era il vuoto, in quella camera. Il nulla.

I guanti sulle mani, Elsa se li guardava ora dopo ora. Sedeva e guardava, non faceva altro.

"Elsa." Proruppe suo padre, entrando in camera. "Vieni alla scrivania. Oggi ti insegnerò un po’ di Storia."


"Vieni con me, Anna. E’ ora che tu impari a leggere."


"Elsa?"

Toc. Toc.

Sua sorella era lì. Lo sapeva.

Ma non ne era più tanto certa.

"Elsa, c’è la neve!" cinguettò Anna.

Elsa era lì. Davanti alla porta, lo sguardo sulla maniglia. La maniglia, che non poteva aprire. Socchiuse gli occhi al sentire la parola neve.

Neve.

C’è la neve.

Sì, Anna.

C’è la Neve.

C’è sempre la neve, qui. Qui, in questa stanza. Qui, dove sono io.

"Facciamo un pupazzo insieme?"

"Vattene, Anna!"

Anna attese qualche altro secondo.

"Scusa..."


Per Anna, all’inizio, la solitudine era stata palliata dalla madre. Le insegnava a legger,e a scrivere, a contare.

Poi erano arrivati i libri.

Uno.

Dieci.

Infiniti.

Correva lungo i corridoi, sudava, si stancava: allora crollava, e nella grande stanza dei quadri Anna leggeva.

La solitudine era silenzio. La testa che ronza. I pensieri che vanno.

Parlano le voci, nel silenzio assoluto: lo riempiono con un continuo rimuginare, elaborare, inventare. La stancava.

E poi c’era il buio, le ombre.

"Madre!"

La solitudine, lentamente, era diventata abitudine.

Toc Toc.

"Elsa?"

Il rumore del silenzio ormai lo conosceva bene.

"Buon compleanno, Elsa."


Alla tavola della cena Elsa e Anna erano tenute lontane, separate dal Re e dalla Regina che si frapponevano fra loro.

La sorella maggiore, con i guanti, non schiudeva le labbra se non per chiedere cortesemente il sale o il pepe. Mangiava poco, e appena poteva chiedeva di congedarsi dalla sala: permesso che mai le venne negato.

Lo sguardo del Re la seguiva man mano che si allontanava, e qualche minuto dopo si congedava a sua volta.

"Madre, ho finito il libro." solo allora Anna si sentiva libera di parlare, angosciata dalla presenza della sorella silenziosa e scostante.

La Regina sorrideva, pulendosi delicatamente le labbra con il tovagliolo.

"Allora andremo a prendertene un altro, nella libreria."


Entrando nella stanza di Elsa il Re sentiva sempre, sempre più freddo.

I cristalli di ghiaccio avvolgevano sempre più le pareti, avanzando insistenti come lunghe ragnatele.

"Padre, non sta andando assolutamente bene. Non riesco a trattenerlo, non ce la posso fare." Elsa si lasciava cadere a terra, vinta.

"Elsa, devi avere pazienza e forza. Ricordati..."

"che deve restare un segreto, che è pericoloso. Che la gente non deve sapere. Che Anna non deve vedere. Lo so, padre. Lo so."

"Io so che ce la puoi fare, Elsa."

Lei levò lo sguardo verso il padre, guardandolo con quegli occhi color del ghiaccio, immobili.

"Elsa..." quello fece per avvicinarsi, ma lei rapida si ritrasse. "No – per favore, Padre. Lasciatemi da sola. Non mi toccate. Non sappiamo cosa più succedere."

Eccole lì, Re. Eccole, tutte le tue incertezze e i tuoi dubbi e le tue paure e i tuoi timori, quelli che avevi covato per otto anni, quelli che erano esplosi in quella notte folle in cui la vostra vita è cambiata, stravolta, distrutta. La chiamate vita, questa?

Eccole lì, le tue insicurezze: che mangiano l’animo di tua figlia, che giorno dopo giorno le accoltellano lo spirito fragile e dolorante, senza sosta insistono, senza alcuna pietà continuano e continueranno, per sempre.

La paura è male, aveva detto il GranPabbie.

La paura era lì.

Elsa stessa era diventata paura.


Com’era stato possibile?


"Andate, padre."

Il Re vide la figlia, ormai adolescente, abbozzare un sorriso da quella posizione a fagotto che oramai era la sua ultima culla, ultimo spiraglio di tranquillità nel suo mondo di gelo.

"Qui fa troppo freddo per voi."


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Capitolo 5
*** Schiena a schiena ***


5


5: Schiena a schiena




Oltre quella porta c’era ormai una donna: Anna ci passava spesso davanti, lanciando uno sguardo ai disegni azzurri che la decoravano, e dopo un istante d’esitazione continuava a camminare lungo il corridoio.

Non sapeva cosa c’era, lì dietro. Aveva rinunciato anni prima ad entrarci.

Certo, era una stanza. Avrà avuto un letto, un armadio, un comò. Ma non sapeva nemmeno di che colore fossero le tende.

Se c’erano dei tappeti.

Quanto grande fosse.

C’era solo quella porta, e la certezza che Elsa fosse lì dentro.

Nient’altro.


A tavola, una di fronte all’altra, Anna guardava sempre e costantemente nel piatto. Elsa, composta in modo innaturale, portava la forchetta alla bocca mantenendo lo sguardo basso, apparentemente assorta in pensieri profondi ed imperscrutabili: le rare volte in cui Anna aveva il coraggio di alzare gli occhi su di lei finiva con il voltarsi sempre da un’altra parte, tempo qualche secondo, imbarazzata all’idea che la sorella decidesse di levare a sua volta lo sguardo, incrociandolo con il suo.

Certo, era una bella donna, sua sorella. Era aggraziata, riservata, statuaria nel suo corpo esile e compatto.

Eppure quei movimenti così lenti, ponderati, sembravano essere pesanti.

Cosa potesse fare tutto il giorno, sola, in quella stanza misteriosa, Anna non lo sapeva.

Lei, che era costretta ad una vita analoga, cui i genitori avevano vietato di uscire dalle porte del castello chiuse da tempo immemore, passava il suo tempo leggendo e fantasticando: ogni tanto, quasi per sbaglio e con vergogna, si ritrovava senza ben sapere come ad immagine la vita privata, nascosta, a lei inaccessibile di Elsa.

Cosa faceva del suo tempo? Forse anche lei leggeva. O studiava, per diventare regina. Forse. Un giorno.

O forse anche lei sedeva alla finestra e guardava fuori, in attesa di qualcosa.

Qualunque cosa.

Anna inspirava profondamente, sospirando in uno sbuffo che le vuotava i polmoni: non poteva cambiare questa situazione.

Questa situazione, alla fine, era la sua vita.

E doveva tenersela.


***



"Dovete proprio andare?"

Era ora di riprendere in prima persona il lavoro principale di Re di Arendelle, ovvero tessere e moderare relazioni commerciali e di non belligeranza con i paesi confinanti.

Al Sud stava succedendo il finimondo – non che non ci fosse sempre, ma la cosa era da tenere a bada. I grandi paesi del continente Europeo sembrava godessero degli spargimenti di sangue, ricchi di condottieri dalle sfrenate ambizioni, le quali ogni tanto tendevano a salire troppo a nord.

Anche l’est era da tenere d’occhio: Arendelle e gli altri regni minori erano circondati.

Dovevano essere uniti.

Era ora di ricominciare a viaggiare.

"Starai bene, Elsa."

La ragazza era inquietata: non sembrava avere mai preso in considerazione la possibilità di rimanere sola nel castello, con Anna e i due servitori. Era la prima ad allontanare i genitori dalla sua gelida stanza, ma sapere che erano lì, qualche stanza più in là, sembrava una certezza a cui non era facile rinunciare.

Elsa levò gli occhi verso il padre, lasciando trasparire dall’espressione del suo volto perlaceo una sorta di fatale incredulità.

Mi state abbandonando? Sembrava chiedere.

La Regina le sorrise, le mani strette tra di loro davanti alla gonna: si stropicciava le dita. Avrebbe voluto abbracciare quella sua fragilissima figlia, ma sapeva che Elsa non glielo avrebbe permesso.

Non la toccava da anni.

Aveva pregato loro di non farlo, disperata, piangente.

Loro la rispettavano.

Cosa farei io al posto suo? Provava a chiedersi la Regina, nel tentativo di interpretare il tumulto di sentimenti che la figlia zittiva ma mai riusciva a non far risuonare del tutto sul suo volto.

Quella sua fragile bambina, così fredda, ma così piena d’amore com’era stata – non era fragile, si diceva.

Era forte oltre ogni ragionevole speranza. Era una roccia di donna.

Era un prodigio.

"Ti voglio bene, Elsa. Torneremo fra due settimane, vedrai."

"Non ti renderai nemmeno conto della nostra assenza."


La Regina strinse Anna a sé, come scaricando tutto l’amore che non aveva potuto passare alla figlia maggiore.

"Fai la brava. Lascia in pace Elsa, mi raccomando."

"Mi porterai dei libri?" chiese Anna, speranzosa.

L’unica finestra che aveva sul mondo.

Aveva passato giorni a supplicarli di andare con loro – figurarsi, non c’era stato verso.

"Tutti quelli che troverò, dovessi riempire la stiva della nave."

"Fate buon viaggio!"

La ragazza abbracciò i genitori, esuberante, entusiasta all’idea di ampliare la biblioteca.



***


"Principessa Anna?"

Quella, distesa sul divanetto della sala dei dipinti – il suo preferito – levò lo sguardo dal libro che stava (ri)leggendo. "Sì?" domandò al maggiordomo, sorridendogli.

"Vi devo chiedere di venire con me."

"Finisco il paragrafo e arrivo!"

L’uomo, grassoccio e placido, ebbe la pazienza d’aspettarla, in piedi, immobile, per una lunga manciata di minuti.

"Fatto – !" fece la ragazza, chiudendo il libro con un gesto rapido e rumoroso. Si mise a sedere, guardando l’uomo con una certa curiosità. "Dov’è che andiamo?"

"Seguitemi, per cortesia."

Passo dopo passo, lungo i corridoi silenziosi del castello, Anna andava interrogandosi sul motivo di quella strana convocazione, costruendosi impalcature di possibilità, lunghi romanzi mentali, drammi, commedie, in un turbinio di e se... magari...

Il suo furore inventivo, serrato e muto, si interruppe bruscamente quando vide entrare nel suo campo visivo la porta bianca e azzurra della camera di Elsa.

Il maggiordomo bussò.

"Principessa Elsa?" fece, senza cambiare in alcun modo il tono che aveva usato anche con Anna.

Anna prese a guardarsi intorno, iniziando a farsi agitata: non aveva previsto di incontrare la sorella. Oramai l’associava ai pranzi e alle cene – non si incrociavano nemmeno a colazione.

"Ditemi." si sentì, dall’interno della stanza.

"C’è bisogno che io parli con voi e con vostra sorella Anna, Principessa. Siamo qui fuori ad attendervi, tutto il tempo che vi sarà necessario – ma non troppo, vi prego."

Ci fu un lungo silenzio.

Anna sentiva il cuore iniziare ad accelerare: cosa avrebbe fatto Elsa?

L’avrebbe vista?

Davvero?

"Sto ascoltando." fece Elsa.

E non si vide.

"Lo chiedo con grande cortesia, Principessa. Ho bisogno di vedervi in volto."

Anna iniziò a sgranare lentamente gli occhi.

Una delle miriadi di ipotesi che si era fatta, una sola, stava prendendo violentemente il sopravvento sulle altre: si stava insinuando nella sua mente non più come fantasia, teoria, supposizione, ma come possibilità.

Sempre più probabile.

Sempre più vera.

Sempre più assoluta.

Elsa pose la mano sulla maniglia, girandola lentamente: aprì la porta, piano, lasciando solo uno spiraglio che consentisse di sporgere timidamente il volto dalla sua camera.

Osservò prima il maggiordomo, e poi Anna.

Gli sguardi delle due sorelle si incrociarono, dopo anni, senza che fosse un caso: si guardarono a lungo, Elsa come intrappolata da quella maschera d’angoscia ch’era Anna, assorbendo, lentamente, quello stato d’animo.

Il messaggio passò senza che si scambiassero parola o gesto. Si guardarono e basta, finché Elsa non tornò a fissare, con movimenti sempre lenti, il maggiordomo.

"Principesse."

Principesse, sì.

"Se volete seguirmi –" "No..." lo interruppe Elsa, scuotendo allibita il capo.

Anna, smesso di fissare la sorella, intravide il letto della sua stanza. Poco altro.

"Per favore." aggiunge Elsa, abbassando gli occhi.

Non voleva proprio uscire, si disse Anna.

Neanche adesso.

"Va bene, Principessa." espirò il maggiordomo. "In tal caso... mi rincresce dovervi informare che c’è stato un incidente in mare."


Il gelo era sorto dentro di lei.

Come se non ci fosse mai stato, lo aveva forse sentito veramente per la prima volta. Senza dir nulla, tremante, richiuse la porta della sua stanza.

"Elsa!"

Era sola.

Era definitivamente sola.


Anna aveva il cuore che batteva a mille: prese la maniglia con forza, facendo per aprire – ma lì si bloccò. Le lacrime lungo le gote, rosse ed infuocate.

"Elsa!"

Aveva visto una crepa profonda aprire in due sua sorella: l’aveva vista avere paura, e in quel lungo e intenso sguardo le sembrava di aver potuto percepire la sconfinata solitudine, e timore, e incertezza e inadeguatezza che si era portata dietro in tutti quegli anni.

Sua sorella non era una ragazza forte, posata, riservata ed indipendente: sua sorella era fragile, un cristallo ricolmo di crepe che si nascondeva per non farle vedere. Questo aveva visto.

Questo l’aveva fatta scoppiare in lacrime.

Sì, il loro genitori erano morti in mare.

Sì, erano sole.

Ma ora Anna realizzava che erano veramente sole, in due diverse solitudini che forse mai più avrebbero potuto incontrarsi.


***


Elsa non era uscita più dalla sua stanza.

Non per la cena.

Non per il pranzo.

Non per il funerale.

Anna sostava sola in mezzo alle due grandi pietre commemorative recanti i nomi dei loro genitori, il capo chino, mentre il vento le fiordo soffiava su di lei e le spostava le due trecce rossastre.

La preghiera in norvegese antico, e poi rimaneva solo il rumore del mare agitato e l’aria che le sibilava nelle orecchie.


Il corridoio era lungo. Non un’anima.

Non c’era mai stata.

Ma ora era peggio.

Anna muoveva dei passi ponderati, fissando distrattamente il tappeto rossastro.

Arrivata davanti a quella porta, quella porta sempre chiusa, sbarrata. Maledetta.

Dannatissima porta.

Avrebbe voluto buttarla giù. Prenderla a spallate.

Mandare a quel paese la riservatezza di Elsa, il suo bisogno di stare sola – non era vero. Non era sano.

No, Elsa stava male. Era sempre stata male, almeno tanto quanto lo era stata Anna – nessuno vuole stare solo, si convinse quel giorno.

In mezzo a loro, c’era la porta.

"Elsa..."

Posò l’orecchio al legno, appoggiandovisi esausta contro.

"Elsa... ti prego."

Socchiudendo gli occhi per la disperazione e l’attenzione, cercava di capire se almeno poteva sentirne il respiro.

"Elsa, lo so che sei lì dentro. Ti prego."

Ti prego.

"Ti prego." Ripeté, sentendo le lacrime sul volto. Di nuovo.

Piangere era routine, in quei giorni.

Ma quelle lacrime erano così calde, e lei era così disperata. Cosa voleva da Elsa?, si chiese, accasciata contro la porta. Perché era lì?

Cosa sperava di ottenere?

"Si chiedono tutti dove sei, Elsa. Ti prego."

Fatti vedere.

Stai con me, per una volta.

Almeno questa volta.

"Mi dicono di avere coraggio, sai?" chiese, retorica, quasi sorridendo all’assurdità di quella frase. "Io ci provo, Elsa. Davvero. Ci provo."

Ti prego.

"Ti prego."

Elsa.

Anna fece un respiro profondo.

"Sono qui per te."


Dietro quella porta la sua sorellina piangeva. In mezzo a tutto il ghiaccio e alla neve che invadeva la sua stanza, con prepotenza, con insistenza, Elsa si aggrappava alla voce di quella ragazzina di quindici anni, rimasta sola, più sola che mai.

Voleva lei.

Voleva aiutare lei.

"Lascia solo che entri, ti prego."

No.

Non posso.

No.

Vattene, Anna.

Ti prego, vattene.

Ma non riusciva a dirlo. No.

Quel giorno non ce la faceva. Aveva bisogno di sapere che era là.

Che oltre quella porta c’era qualcuno. C’era Anna.

Non poteva farla entrare. Non avrebbe mai potuto.

Ma almeno, poteva non mandarla via.

Elsa si appoggiò contro la porta e si lasciò scivolare delicatamente a terra: raccolta a fagotto, come spesso usava fare: nella sua culla. Anna, dall’altra parte.

Non sei sola, Elsa.

In questo freddo, lei è lì. Dall’altra parte.

"Mi sei rimasta solo tu, Elsa."

Piangeva, d’un pianto maturo: ormai anche lei stava per diventare adulta.

Probabilmente lo era diventato quel giorno.

Anna cresceva alle sue spalle, tutto in una volta; come a lei era successo quel maledetto giorno di dieci anni prima.

Dieci anni.

Dieci dannatissimi anni.

"Che faremo, ora?"

Non lo sapeva.

Non ne aveva la più pallida idea.

Niente, Anna. Non faremo niente. Aspetteremo, come abbiamo sempre fatto.

Non so cosa.

Ma aspetteremo.


"Vuoi fare un pupazzo di neve?"





___________________________


Eccomi! Oddio come scrivo veloce in ‘sti giorni. Sarà perché devo studiare?

Grazie per il seguito, siete tantissimi :D

questa parte mi è piaciuta molto da scrivere, anche se non si distacca molto dall’originale; però con il contorno che ci ho messo davanti prima sono riuscita ad esplorare un po’ più le due ragazze...

=)

buona notte e al prossimo aggiornamento! grazie a tutti!






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Capitolo 6
*** E lì fuori, la gente; e dentro noi. ***


6


6: E lì fuori, la gente; e dentro noi.





Ci mise qualche mese per decidersi a farlo, titubante ed incerta, combattuta fra quello che voleva e quello che, presumibilmente, voleva fare.

Elsa, seduta alla finestra da cui guardava quel poco di mondo esterno che le era dato di vedere, sentì i passi di Anna, maldestri, lungo il corridoio. Certo se la sorella non fosse stata così agitata, lei non si sarebbe accorta di nulla – ma Anna inciampò un paio di volte, sul percorso; il che lasciò intendere ad Elsa quel che in fondo si aspettava: aveva deciso di uscire.

Chi mai avrebbe potuto dirle nulla? A far vigere le regole dei genitori erano rimasti solo la cameriera e il maggiordomo - figurarsi se li avrebbe ascoltati.

A lei sì, invece. Lei l’avrebbe ascoltata.

Non sapeva perché, ma aveva questa certezza ormai sedimentata: in fondo, lei era la maggiore.

In fondo, a breve sarebbe stata regina.


Ma ora era solo Elsa, sola, con la sua maledizione, nella sua stanza, in attesa.

Che Anna facesse pure come preferiva. Finché non faceva entrare nessuno nel castello, in fondo, era ben libera di uscire.


***


Anna varcò la porticina di lato al portone con il cuore in gola, tastando mille volte la tasca del cappotto per verificare che la chiave fosse lì - e di lì non si muovesse, o rischiava di restare chiusa fuori.

La strada era semi deserta: si guardò attorno, fece un respiro profondo e, nella neve dell’inverno addentrato, s’incamminò.


Conosceva Arendelle come le sue tasche, ogni singolo anfratto e viuzza: aveva speso ore ed ore, per prepararsi, sulle mappe del catasto.

Certo a vederla dal vivo era un’altra cosa: eccola, la sua città. Il suo regno.

Freddo.

Desolato.

Vuoto.


Dove diamine erano tutti?


Con l’ansia addosso, si aggirò per quasi un’ora lungo le strade principali: più il tempo passava, più la sensazione di aver avuto una pessima idea le si faceva più forte, sempre meno trascurabile.

La domanda, però, vinceva: dov’erano tutti?

Dove diavolo era la gente di Arendelle? La sua gente?

Quella che – quella.

Con cui, a dirla tutta, non aveva un gran legame. Che non conosceva.

Che forse non avrebbe nemmeno saputo riconoscere rispetto a uno straniero.


Ma i camini fumavano: la gente c’era.

Va bene, forse non era un’idea furba starsene in strada con quel freddo, ma era possibile che davvero non ci fosse nessun mercato, o uno strillone, un lustrascarpe, un corriere, un - niente?

In che posto aveva vissuto sino ad allora?


In che posto era?


A furia di pensare e di camminare, avvolta dal freddo dell’inverno, digiuna dall’agitazione Anna iniziò a vederci male, sfocato, luminoso - la testa leggera, tanto che il freddo era solo una sensazione, e non più un fastidio. Strano.

Forse era il caso di tornare indietro.

Ma non ne aveva il coraggio: questa era la verità.

No, non era possibile che in quella città non ci fosse nessuno.

Non lo avrebbe sopportato: strade vuote come i corridoi del castello, porte chiuse come quella di Elsa – quel poco di speranza che le era rimasta, il fuori, il fuori doveva essere diverso. Non era possibile.

Non lo avrebbe mai accettato.

No.

Non era possibile – in che razza di mondo viveva?

Dopo qualche altro passo si trovò di fronte alla porta chiusa di una piccola osteria.

Fuori, nessuno. Il camino, attivo, lasciava intendere che c’era della gente all’interno – e le voci che attenuate arrivavano dal legno della porta consolidavano quell’ipotesi. Doveva essere così.

Anna bussò, domandandosi cosa avrebbe fatto se, come la porta di Elsa, anche questa non si sarebbe mai aperta.

Ma la porta si aprì.


Arendelle era lì dentro.



***


"Principessa Elsa?"

"Ditemi, Kai."

"I libri che mi avevate chiesto."

La ragazza aprì di poco la porta della sua stanza, guardandovi fuori: il maggiordomo portava con sé una manciata di tomi, pesanti. Aprì un po’ di più la porta, di modo che riuscisse a poggiarli sul pavimento della camera.

"Lasciateli pure lì. Grazie." abbozzò un sorriso, timido, mentre pregava fra sé e sé che se ne andasse il prima possibile.

Kai intravide l’espressione della ragazza, cercando di interpretare il suo disagio: d’altronde la principessa era sempre stata così, l’aveva vista crescere dietro quella porta e aveva passato le sere a sentire il Re mormorare fra sé e sé - fino a chiedergli, addirittura, consiglio.

Elsa credeva di essere rimasta completamente sola, ed era facile intuirne il motivo: solo così, era convinta, sarebbe riuscita a gestire quel suo potere. Di cui lui, ovviamente, ben sapeva.

Kai non era certo il tipo di maggiordomo che si intromette. Non avrebbe mai osato. L’avrebbe lasciata in pace, lasciata elaborare, com’era giusto che una futura regina facesse.

Ma non poteva lasciarla troppo sola. Aveva, in fondo, ancora dei doveri nei confronti del Re e della Regina.

Degli immensi doveri.


Elsa richiuse la porta, flettendosi per prendere i libri e portarli alla scrivania: v’erano gli appunti di suo padre, i registri contabili, due delle ultime edizioni degli annali delle terre del nord. Manuali di geografia, navigazione – uno per uno li prese e li portò alla scrivania, affiancandoli a quelli che già aveva accumulato.

Perché, volente o nolente, lei un giorno sarebbe dovuta diventare Regina.

E, volente o nolente, avrebbe dovuto fare tutto da sola.

Doveva essere preparata. Oltre ogni dire.

Uno dopo l’altro, disponeva i libri in fila – finché l’occhio non le cadde sul titolo di un tomo scarlatto, attempato, che sembrava essersi infilato lì quasi per sbaglio. Aggrottando le sopracciglia, lo prese tra le mani, osservandone la copertina.


La grande saga di Óláfr6 Tryggvason


Socchiuse gli occhi, annusandone l’odore antico.

Era un libro di mitologia.

Non era certo il tipo di libro che le interessava.

Kai doveva averlo preso per sbaglio.


Con un gesto lento la principessa aprì il libro: le sfuggì un sorriso, vedendo il nome di Anna scritto in fluenti caratteri calligrafici.


Kai doveva essersi decisamente sbagliato.


Si sedette sul letto, sfogliandone distrattamente le pagine.


***


La taverna era a dir poco caotica.

Nessuno la vide entrare, nessuno prestò a lei attenzione finché, compiuto qualche passo verso il bancone, non si ritrovò in mezzo a due grossi tipi intenti a tracannare birra come se non ci fosse un domani.

"Eilà, bambina!" tuonò il primo, spalmandosi sul bancone e cercando di richiamare l’attenzione dell’oste "Aaron, sei sicuro che questa nanerottola possa entrare qui dentro? Ha ancora le labbra sporche di latte, la piccina!"

Anna non fece in tempo a sentirsi interdetta che quell’altro le batté una vigorosa pacca sulla schiena "Ahahah –" grugnì, pulendosi il naso con la manica "– fai finta che sia un complimento, fai finta che sia un complimento..."

Aaron, l’oste, si avvicinò a loro con tre boccali per mano. "Quanti anni hai?"

Anna rimase in silenzio, mentre il vociare confuso e brillo dei presenti le invadeva la testa: non aveva mai sentito tante persone parlare contemporaneamente. Confusa e prossima ad un poderoso mal di testa, la ragazza strinse le palpebre nel tentativo di concentrarsi: appena riaprì gli occhi, vide l’oste fare spallucce.

"Senti, non è che mi interessi, ma gli editti reali sono gli editti reali. Se hai meno di sedici anni non puoi entrare."

Anna sospirò. "Ne ho sedici –" cinguettò, sollevata: il tizio alla sua destra le parlò sopra, con tanto di quel fiato che si chiedeva i polmoni umani potessero davvero contenere tanta aria: "Bene, allora puoi guardarci bere! Niente alcol, sotto i diciotto! Eh! Lo dicono le principesse!"

"Lo disse il Re!" precisò quello a sinistra.

"Fossi stato nelle ragazzine, la prima cosa che avrei fatto sarebbe stata togliere questo divieto – sai, per spassarmela un po’!"

"Ti sembrano forse le persone?"

L’oste si intromise: "Figuratevi se a loro si applicano le leggi, figuratevi. Posso solo immaginare i fiumi di birra che scorreranno nel castello... allora, bambina, a te cosa porto? Latte?"

Quegli altri due presero a ridere sobbalzando sugli sgabelli.

"Oh, amore. Cosa fai qui tutta sola, bellezza?"

Anna si voltò di scatto, trovandosi faccia a faccia con una donna in carne e dalle gote leggermente rosse.

"Hem..." hem... "Non posso andare in giro da sola?"

"Oh, nessuno vieta niente, qui." Fece quella, prendendole la guancia fra le dita e stropicciandogliela per benino: la ragazza lasciò fare, senza nemmeno ben sapere cosa reagire.

Iniziava ad essere solo leggermente inquietata.

In effetti.

A ben pensarci.

Forse non era stata una buona idea.

Insomma.

Aveva sedici anni, non dieci.

Magari quella con cui stava parlando era una prostituta.

Perché non ci aveva pensato prima?

Ommioddio, e se i due omaccioni l’avessero presa di peso e portata via?

C’era un limite al livello di sprovvedutaggine di Anna: quel limite era appena scattato – e quando scattava, iniziavano i libri mentali. Tragedie. Brutte storie. Oh - dio.

Non ne sarebbe uscita viva.

Dov’era Arendelle?

Era quella Arendelle?



***


Elsa leggeva, stesa sul suo letto, il libro di sua sorella. Quasi senza accorgersene, frase dopo frase, riga dopo riga, ne era stata assorbita. Pian piano, era arrivata a metà.

A quel punto, tanto valeva finire.

Era una bella storia - una di quelle tradizionali del nord, una leggendaria.

Elsa andava avanti, la testa leggera, leggera come non l’aveva mai sentita.

Ecco perché Anna lo faceva.

Ecco dove aveva vissuto Anna in quegli anni.








___________________________


Scusate il ritardoH! Esamoni...

suspance per anna!

questo è quello che intendevo quando dicevo "missing moments", uh... :)















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Capitolo 7
*** Arendelle ***


7


7: Arendelle




Fatemiuscirefatemiuscirefatemiuscire – questo era l’unico pensiero che passava per la sua testa, stretta fra il tizio a sinistra (Udof, da quel che aveva capito), quello a destra – che rimaneva senza nome, al momento – e Marie, che la chiudeva da dietro.

"La piantiamo con tutta questa birra? La ragazzina si ubriacherà solamente ad annusarne i fumi!"

"E che t’aspettavi di trovare in una taverna? Miele? Dai, prendi –" Udof continuava a sventolarle un boccale sotto il naso, che veniva sistematicamente sequestrato dall’oste, Aaron, che lo allontanava da Anna e lo riportava ad una distanza minima di qualche metro da lei.

"Non farti buttare fuori, Udof." ripeteva.

L’odore di birra era effettivamente forte – molto forte: la cosa peggiore non era l’odore di birra, era l’odore di gente che sapeva di birra – nauseante. Anna l’aveva già sentito, quell’aroma pungente, ma non riusciva bene a collocare nella sua mente dove o come.

Il naso arricciato, tentava disperatamente di individuare una via di fuga.

"Se l’assaggiassi, ragazzina, non faresti quella faccia schifata."

"Oh, ma piantala, Mateus – la birra è roba da Uomoni."

"UomOni? rise Mateus.

"Bimba, lasciali stare, sono andati."

"Hem...." pigolò Anna, cercando di voltare le spalle al bancone. "Forse è il caso che me ne vada..."

"Ma no – perché? Non è tardi, via!"

"Veramente, il sole..."

"Ma qui il sole va giù subito, principessa!"

Anna ebbe un sussulto.

Principessa?

Oh, merda.

Benvenuta, prima imprecazione della vita di Anna. Era in effetti il momento più adatto per spuntare dalla sua mente.

"Hem..." continuò a pigolare quella. Perché la trattenevano lì?

Perché?

AH, ecco. Certo. Era un rapimento.

Lo sapeva.

No, non lo sapeva.

Ne era convinta.

"Credo proprio di dover andare..."

"Neanche mezza pinta?"

"Mezza pinta?" tuonò Aaron. "Tu fai toccare anche solo mezza goccia di birra alla lingua di quella ragazza e ti giuro che ti sbatto fuori a calci! Ci manca solo che mi pigli una multa, sai? Eh? Udof, ascoltami!"

"Non posso, sono sbronzo." fu la semplicissima risposta di Udof.

Anna, nel panico mentre le trame delle possibili evenienze le intasavano il cervello, iniziava a lasciarsi afflosciare sulle gambe, facendosi via via più piccola.

"Beh? Che ti prende, bimba?" chiese Marie, osservandola sprofondare con la schiena appiattita contro il bancone. "Stai male?"

"Non fatemi del male..." mormorò la ragazza.

Marie aggrottò le sopracciglia, abbassandosi: Anna ebbe un primissimo piano dei suoi poderosi seni.

"Non ti sarai mica fatta spaventare da questi tre?" domandò, retorica.

"Ehi!" protestò l’oste, passando di là mentre continuava a porte birre a destra e a manca.

"Beh? Nemmeno tu ci fai una bella figura! Guarda, povero scricciolo - è tutta impaurita."

"D’altronde..." mormorò Udof, guardandola dall’altro ed alitantole fumi di birra sui capelli. "Da sola..."

"In una taverna..." aggiunse Mateus, voltandosi a sua volta verso il buco che aveva lasciato Anna, ormai acquattata per terra.

"A quest’età..."

"La smettete?"

"Beh, non si può dire che abbia fatto una cosa intelligente." borbottò Aaron, sporgendosi dal bancone. "Ehi, ragazzina. Sei ancora fra noi?"

Anna strizzava gli occhi, le braccia attorno al capo come per proteggersi.

"L’abbiamo persa."

"Non fatemi del male..."

"Sono i fumi dell’alcoo–" "Ma piantala, Mateus. Aiutami a tirarla su."

"Se le state così addosso è la volta buona che la perdiamo – lasciatela respirare. Voi espirate solo birra."

"Non fatemi del male..."

"Principessa, nessuno ad Arendelle ti farà del male."

Anna aprì di scatto gli occhi, voltando lo sguardo verso l’alto: c’erano solo le loro quattro facce – e i seni di Marie.

"Mi rapirete." sentenziò lei, con sicurezza. Una netta affermazione.

"Cosa?"

"Non so quanto posso valere, ma sappiate che c’è un intero esercito pronto a – a... credo."

"Delira."

"Lasciatele spazio!" Marie prese Mateus e Udof per la giacca e li strattonò verso l’alto. "Adesso chiamiamo qualcuno."

"Nononono!" fece lei, alzandosi di scatto dalla posizione accucciata dov’era "Non chiamate nessuno! Sto bene! Ecco! Adesso mi prendo e me ne torno da dove sono venuta, come se nulla di questo fosse mai succ..."

Insomma, è una pessima idea alzarsi di scatto quando si è rimasti a lungo in basso in un posto dove l’ossigeno scarseggia quando invece abbondano i fumi della birra.

Anna svenne.


La ragazza riaprì gli occhi lentamente, la testa dolorante.

Si ritrovò su un letto che non conosceva, in una stanza disadorna, il legno delle travi e delle assi del pavimento, scheggiato in vari punti, a vista.

Dov’era?

"Ben svegliata, principessa."

"Uh... chi... ODDIO."

Flash: le immagini della taverna, i fiati puzzolenti di birra dei due avventori, dell’oste e di.. Marie.

Che la guardava dall’angolo della stanza, seduta su una sottospecie di poltrona sgualcita.

L’avevano fatto.

Lo sapeva.

Che idiota.

"Merda." si lasciò sfuggire la principessa.

"Va meglio?"

"Dove sono?"

"Al piano di sopra."

Anna cercò intensamente di non pensare a cosa poteva succedere nel letto di un piano di sopra di un’osteria.

ODDIO.

"Merda. Sentite, qualunque cosa vogliate..."

"Cerca di darti una calmata, sei sempre così in ansia! Smettila."

Ah-ah. Facile. La ragazza si guardò attorno spaesata, cercando di capire che ora del giorno fosse.

Buio, e una candela.

"Cosa volete?"

Marie aggrottò le sopracciglia dipinte. "Noi? Niente. Che tu stia bene, suppongo."

"Beh, certo - vi servirà sano, un ostaggio..."

"Un ostaggio?" chiese la donna, più con un punto fermo che con un punto interrogativo.

"Sapete, non è una buona idea prendere in ostaggio me. Voglio dire. No, non è una buona idea. Quanto tempo ho dormito?"

"Dieci minuti. Forse." Marie, con un sospiro, si levò dalla sedia. "Si può sapere che turbe hai? Sei svenuta, ti abbiamo portata su. Udof e Mateus possono essere imbarazzanti, in effetti, e ti stavano un po’ troppo addosso... Aaron gli sta facendo la predica - hah!" la donna ridacchiò al suo stesso dire.

"Ah. Oh."

Marie osservava Anna guardare ogni singolo angolo della stanzetta, compiendo movimenti scattosi, irrequieti - ecco, stava per tornare nel panico.

"Quindi adesso che succede?" domandò la ragazza, tornando interrogativa verso la donna.

"Beh. Adesso... quando ti sentirai bene, cercheremo di trovare qualcuno che ti accomp.. "

"No!"

"...agni a casa..."

Anna non ci capiva più niente. Aveva rinunciato da un po’.

Marie però era veramente perplessa dall’atteggiamento imperscrutabile della ragazza.

"Non chiamate mia sorella, vi prego. Vi prego. Per qualsiasi cosa, non chiamate lei."

"Ah." fece la donna. "Ok. Va bene. Non era quella l’idea, ma..."

"Ah." la interruppe Anna, perplessa. "Ah. Qual era l’idea?"

"Pensavamo ai tuoi genitori, in realtà... Anche se in effetti, forse l’hai fatta grossa ad uscire di sera da sola in inverno... posso capire."

"I miei..."

"genitori, principessa. Se ci dici chi sei, magari – Arendelle è relativamente piccola, li troveremo in fretta."

"... oh."

Adesso aveva capito tutto.

Era solo un modo di dire.

Era solo una donna.

Di un’osteria.

Di Arendelle.

Oh.


Oh.


"E se me ne tornassi a casa da sola?" provò a dribblare la ragazza.

"Non se ne parla."

"No?

"No. Non ho nessuna intenzione di lasciarti uscire da qui da sola."

Ah, ecco.

Visto?

"Quindi sono un ostaggio."

Marie sbuffò.

"Va bene. Sei un ostaggio. Contenta, adesso?"

Anna fu lì lì per annuire, ma poi si trattenne, rendendosi conto dell’assurdità della cosa.

"Allora, come ti chiami?"

"Anna." rispose lei.

"Oh, Anna. Che bel nome. E’ lo stesso della principessa secondogenita, sai..?"

"Eh, già."

"Già."

"Già."

"..."

"..."

...

"AARON." Anna tremò al sentire la voce di Marie tuonare in tal modo: "AAAARON." Se la sua intenzione era quella di sovrastare tutte le voci che si levavano dal piano di sotto – diamine, c’era decisamente riuscita. "TU NON MUOVERTI – AAAAROOOOOOOON!"

Merda.

Perché l’aveva fatto?

Aaron e Marie ricomparvero rocambolescamente dalla porta. "Principessa?!"

"No, ci inganna –" questa era la voce di Mateus, dal corridoio. "Quelle due non escono da quando erano bambine, praticamente. E’ impossibile! Lo fa per bere gratis, dico io."

"Stai zitto, tu."

"Che cosa è venuta a fare qui la principessa?" borbottò Aaron, irrequieto.

"Secondo me era per vedere se rispettavi le legg.. le leggi sull’acoo.. alcool per i minori."

"Udof, ti prego."

"Scusate, scusate - ve lo giuro, non tornerò mai più."

"Cosa?" fece Marie, sconcertata "Scherzi? Cioè, scherzate? Siete le benvenute qui!"

"Ci mancherebbe." continuò a borbottare Aaron.

"No, ma io..." Anna aveva ripreso a pigolare.

"E state indietro, voi due ubriaconi! Vi sembra il modo? Udof! Mettiti in piedi, per l’amor del cielo!"

Mateus rideva.

"Ignorateli, principessa." fece Marie.

"Scusate per i modi..." Aaron sembrava non saper far altro che borbottare, ormai. "Non sapevamo."

"Eh - no... non... non era previsto che sapeste, in effetti."

"Cosa fare fuori dal castello?"

"Da sola?"

"Io..."

"Ecco perché aveva tanta paura di sua sorella."

"Cosa?" scattò Anna.

"Oh, beh, in effetti."

"Anche io avrei paura."

"Di che state parlando?"

"Lo avete detto voi - di non dirlo a vostra sorella. La principessa Elsa, immagino."

"Sì, ma - voi che ne sapete?"

I due nella stanza – Udof e Mateus erano ammassati in corridoio, ansimanti per la sbronza – si zittirono.

"Noi... no. Niente."

"Scusateci, principessa. Siamo stati irrispettosi."

Anna fissava i due, seduta sul letto da cui non si era ancora praticamente mossa, con le labbra leggermente schiuse, attonita.

Non ci aveva mai pensato.

No.

Mai.

Che idea aveva Arendelle di loro due?

Il silenzio scorreva, dipingendo sempre di più il disagio sui volti di Aaron e Marie.

Solo allora Anna si rese conto della posizione in cui era.

"Scusate. Non... io, niente. Non fate quelle facce, per favore." cercò di stemperare l’atmosfera. "Ero solo uscita a fare un giro. Tutto qua."

Niente, il silenzio rimaneva.

Ancora il silenzio.

"Sentite, io... dai, sono solo una ragazzina, no? Vi prego. Non guardatemi così."

Marie fu la prima a rilassarsi: lentamente, le si riallargò un sorriso, materno, sul volto.

"Per favore."

"Siete solo uscita a fare un giro, eh?" borbottò l’oste, scuotendo il capo. "In effetti siete in età da marachelle."

"Aaron!"

Il borbottio dell’uomo si fece definitivamente incomprensibile.

"Suppongo che ci sia un motivo per cui ci hanno costrette a non uscire dal castello... per cui lo hanno svuotato... ma questo non centra nulla con noi." fece la ragazza. "Vi prego, non siamo mica aliene."

"E chi lo ha detto?"

"... i vostri sguardi."

I due abbassarono gli occhi, l’uomo portandosi la mano al capo.

"E’ solo che Elsa la vedo poco spesso, ecco."

Che idea si erano fatti?

La domanda le martellava la testa.

Voleva saperlo. Doveva. Assolutamente. Saperlo.

"Cosa si dice di noi in città?" lo chiese tutto d’un fiato, tenendo gli occhi chiusi quasi per paura di dover affrontare a volto aperto la risposta.

"Poco." le rispose Marie, dolcemente.

"Poco?" chiese lei di rimando.

"Vi stiamo aspettando, è questa la verità. Prima o poi vi conosceremo, supponiamo."

Aspettano.

"Certo, quando il Re ha chiuso i cancelli..."

"Oh, quello è stato un momentaccio."

"Dicevano avesse problemi coniugali – un’amante –" la voce di Udof venne stroncata in un ‘oof’, probabilmente il risultato della carica di Mateus, che non s’era fatto venire in mente un’idea migliore per zittirlo.

"Ti sembrano cose da dire alla Principessa, caprone ubriaco che non sei altro?!"

Anna aveva abbassato lo sguardo, meditabonda. "Beh... non saprei. Non mi pare." poi levò gli occhi, verso i due: "Non lo so." Insomma, forse poteva essere vero.

Certo, non le era mai venuto in mente, ma era piccola.

"Anna – posso chiamarti Anna?"

Anna annuì, attendendo il resto del discorso di Marie.

"Non ascoltare le voci. Le voci vanno e vengono. E poi... dobbiamo farti le condoglianze per il tuo lutto, prima di tutto."

"Amante o non amante, è stato un grosso lutto."

"Ti ci metti anche tu, Aaron?"

"Scusa. Scusa. Sono stato inopportuno. Scusate. Scusate." borbottio borbottio borbottio.

"Vostro padre era un grande sovrano." fece Mateus, dal corridoio. "Arendelle se l’è sempre cavata benone sotto di lui."

"Amante o non am..." "TACI, CAPRA!"

Anna si lasciò scappare un sorriso per il teatrino che andavano imbastendo i due nel corridoio.

Non le interessava granché di che cosa avesse o non avesse fatto suo padre. Ok, certo, il fatto che l’avesse segregata nel castello, forse, era qualcosa che non le andava a genio - ma un’amante?

No, no. Impossibile.

Anna non aveva il minimo dubbio sul legame che c’era fra i suoi genitori.

Credeva.

Importava, forse, ora che erano morti?

No, non importava.

Che avrebbero fatto?

Aspettato.

"Un giorno Elsa sarà Regina. Le cose cambieranno, vedrete. Lei è brava. E’ riservata, ma è brava. Anzi. E’ brava e basta. Aspettate e vedrete di cosa sarà capace la regina Elsa. E apriremo le porte. Le dovrà aprire. Sarà una gran cosa. Grandissima. Vedrete."

Marie sorrise. "Vedremo."


In tutto questo Anna non s’era accorta che parte del discorso era stato sviato.



***


Era tardi, quando finalmente sentì i passi di Anna davanti alla sua stanza.

Finito il libro - quel libro – Elsa era rimasta in attesa, seduta con la schiena poggiata sulla porta, mentre osservava fuori dalla sua finestra.

Era un po’ che non vedeva così bene da quei vetri: i cristalli sembravano essersi leggermente riassorbiti.

Poi la notte era scesa, e s’era inoltrata. C’era il buio, fuori.

Iniziava a chiedersi che fine avesse fatto.

Iniziava a preoccuparsi.

Poi li sentì, quei passi leggeri, nella notte, quasi trottati.

Chissà cosa aveva visto, lì fuori.

Chissà che magie c’erano in strada.

L’entusiasmo.

Beata lei che poteva, si disse.

Beata, Anna.

Vai.

Esci.

Anche per me.


Così che io la sera possa sentire ancora questi passi felici.













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Come avevo detto nella risposta ad una recensione, non siamo molto dark, qui. Anzi, mi sono divertita come una ladra a scrivere sto pezzo XD Il dark arriverà. Il motivo del capitolo (a parte il mio divertimento) è motivare la sconsiderata fiducia che ha Anna nel genere umano. E dopotutto Arendelle è un posticino tranquillo, lo è sempre stato.

C’è qualche dettaglio che andrà a rimpinguare la parte oscura (in arrivo, promesso), ma per il resto sì, è molto ciaciarone come capitolo.




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