Un padre, oltre che un re. Un figlio, oltre che un principe.

di ElenCelebrindal
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Conoscenze ***
Capitolo 2: *** La nascita di Legolas ***
Capitolo 3: *** Il primo anno ***
Capitolo 4: *** Visita al Boscoverde ***
Capitolo 5: *** Il tempo trascorre veloce ***
Capitolo 6: *** L'inizio di una nuova vita ***
Capitolo 7: *** Imladris ***
Capitolo 8: *** Incomprensioni e novità ***
Capitolo 9: *** Avvenimenti ***
Capitolo 10: *** Nani al Reame Boscoso ***
Capitolo 11: *** Le prime battaglie ***
Capitolo 12: *** Divergenze appianate ***
Capitolo 13: *** La Battaglia dei Cinque Eserciti ***
Capitolo 14: *** La vita va avanti ***
Capitolo 15: *** Incontri e racconti ***



Capitolo 1
*** Conoscenze ***


Mae govannen, mellonea nîn

Allora, prima di tutto vorrei premettere un paio di cosette: Legolas, secondo fonti attendibili, dovrebbe essere nato nell'anno 87 della Terza Era. Ma io, da brava sconvolgitrice di storie, ho deciso che Legolas sarebbe nato nell'anno 3384 della Seconda Era, 50 anni prima della Dagor Dagorlad, la battaglia dell'Ultima Alleanza. Ho deciso così per far si che Legolas conoscesse anche suo nonno Oropher, morto durante la Dagorlad. Quindi, vi anticipo che, dopo aver fatto una marea di calcoli a mezzanotte passata, Legolas partirà per Valinor all'età di 3198 anni, invece che 2931 o di più. Inoltre, non sapendo quando Celebrìan e Elrond si sono sposati, ho deciso che in questa storia erano marito e moglie da un po' di tempo. Bene, ora vi lascio al nuovo capitolo, non voglio prendervi troppo tempo :)

Erano passati due mesi dalla morte di Vendë e dalla nascita di Legolas, e il piccolo stava già crescendo a vista d’occhio. I fili biondi dei suoi capelli erano già piuttosto lunghi e il suo peso aumentava in modo regolare.
 Thranduil aveva lasciato a una delle ancelle che erano state di sua moglie il compito di allattare il figlio, ma il resto del tempo lo passava al suo fianco. La compagnia di Legolas lo aiutava a superare il trauma della morte della moglie, e il piccolino era sempre allegro, il che aiutava non poco suo padre. Oropher amava moltissimo il suo nipotino, e spesso e volentieri chiedeva a Thranduil se poteva tenerlo per un po’. In quei momenti non sembrava un re, piuttosto un normalissimo Elfo appena diventato nonno. Un nonno dall’aspetto anche piuttosto giovane, direbbero i mortali.
In quel momento, Oropher stava facendo svolazzare di fronte al naso del nipotino una farfalla di stoffa appesa a un filo, e il piccolo si sforzava di seguirne i movimenti oscillanti. Tanto che li occhi andavano a destra e sinistra quasi da soli., “Ora basta, ada, lo farai impazzire se continui a far dondolare quella cosa”, protestò Thranduil, afferrando al volo il giocattolo e rimettendolo al suo posto.
Oropher sembrò deluso, e così anche Legolas, ma il principe disse: “Ti faccio presente, adar, che hai dei doveri di re a cui adempiere. Non puoi stare tutto il giorno con Legolas, lo sai. E poi anche suo padre ha diritto a giocare con suo figlio”. Mentre diceva questo prese Legolas dalle braccia del padre e se lo mise in grembo, toccandogli la punta del naso. Oropher si alzò: “Si, credo che tu abbia ragione, Thranduil. Vi lascio in pace”. Il re uscì dalla stanza e si richiuse la porta alle spalle.
“Ora che il nonno se n’è andato, abbiamo finalmente un po’ di tempo per noi, piccolo mio”, disse Thranduil, accarezzando i capelli di Legolas e prendendogli una manina. Ma era sveglio, il piccolo. Svelto, afferrò l’indice del padre in una morsa e non lo lasciò andare. “Ma che bravo, se davvero veloce”, si complimentò il principe, facendo finta di non riuscire a liberarsi.
Legolas aveva gli stessi occhi azzurri di sua madre, così profondi da far pensare a un mare limpido e placido. Ogni tanto, guardandoli, Thranduil ricadeva nel passato e un velo di tristezza gli scendeva sugli occhi, ma poi la malinconia passava quando Legolas rideva o, semplicemente, sorrideva. Certo, ancora non metteva i primi dentini, ma sapeva già sorridere in modo da incantare tutti quelli che lo guardavano.
Il principe venne riscosso da questi pensieri quando si sentì tirare la testa a destra. Legolas gli aveva afferrato una ciocca di capelli e ora glieli stava tirando, incuriosito da tutti quei fili dorati che suo padre aveva sulla testa. “Legolas, lascia i miei capelli in pace, su”, disse Thranduil, aprendo piano le dita del bambino per fargli mollare la presa. Liberò anche il suo indice e abbracciò suo figlio, posando la testa su quella più piccola del bambino. Restarono fermi in quella posizione per almeno cinque minuti, poi Legolas, stanco di quel gioco noioso, cominciò a muoversi, impaziente.
Thranduil capì al volo e sciolse l’abbraccio, recuperando un piccolo gattino di stoffa. Lo porse a Legolas, che l’afferrò ridendo, e cominciò a giocarci, tirandogli le orecchie e i baffi. Thranduil ridacchiò di fronte alla scena, e non poté fare a meno di pensare che Legolas era il gioiello più brillante della Terra di Mezzo, la sua ancora di salvataggio in un mondo di ingiustizia e crudeltà. Il principe sapeva che non tutto era triste e buio, ma era ancora troppo presto per poter ritornare a pensare al mondo come un luogo di luce e amore. Ora esistevano solo lui e Legolas, e nessuno sarebbe mai riuscito a separarli. Questo Thranduil l’aveva promesso sia al suo bambino che a sé stesso, e aveva intenzione di mantenere per sempre quella promessa, anche a costo della vita.
Quando Legolas cominciò a piangere, il principe capì che per il bambino era arrivata l’ora di mangiare, perciò chiamò una delle levatrici: “Elrioviel, vieni qui, per favore!”. Elrioviel arrivò appena chiamata. Aveva ricevuto ordine di essere sempre nei paraggi, quindi sentì subito la chiamata di Thranduil. “Legolas ha fame, mio signore?”, domandò lei, osservando il piccolo.
Non diede il tempo di rispondere a Thranduil. Capì all'’istante e prese in braccio Legolas, cacciando senza tanti complimenti il principe dalla stanza. Lui non replicò, sapeva bene di doversene andare quando Legolas doveva mangiare, ma ogni volta non poteva fare a meno di rimanere spiazzato di fronte alle maniere delle levatrici. Avevano cacciato anche Oropher, più di una volta, anche se lui era il re. Thranduil scosse la testa e, sapendo che ci sarebbe voluto un po’ di tempo, decise di andare da suo padre.
Era tempo che non tornava nella sala del trono, aveva passato tutto il tempo con il figlio, l’ultimo mese. Quando arrivò, la situazione non era delle migliori. Oropher stava avendo a che fare con due Elfi che continuavano a litigare; ognuno affermava di aver subito un torto dall’altro, ma non si capiva chi dei due stesse dicendo la verità. Thranduil, nel vedere quella scena, si ricordò di quante volte suo padre gli aveva ripetuto, da giovane, di stare attento a ciò che succedeva, perché un giorno la stessa situazione potrebbe capitare quando diventerà re. E ne aveva viste molte, ma tutte si erano concluse per il meglio.
 I due litiganti stavolta, però, non sembravano voler ragionare in alcun modo, e ognuno continuava a sostenere che ciò che diceva era la verità. Thranduil non capì quale fosse il motivo della discussione, ma aspettò e non chiese nulla, mettendosi alla destra del trono di suo padre. Era raro che gli Elfi litigassero per qualcosa, e quando accadeva era sempre difficile rimettere a posto le cose.
Oropher alla fine perse la pazienza: “No dinen!”, esclamò, alzandosi dal trono. (Fate silenzio). Tutti si zittirono, intimoriti dalla collera del re. “Se ho ben capito, ognuno di voi sostiene che l’altro ha colpito per primo. Ma, dato che non c’erano testimoni a confermare la versione di uno dei due, dichiaro che entrambi veniate rinchiusi per due giorni per offesa fisica e morale causata all'’alto. Spero che in questo modo vi passi anche la voglia di litigare”.
Alzò una mano, e quattro guardie afferrarono i due Elfi per le braccia e li portarono nelle segrete del Reame. Oropher tornò a sedersi sul suo trono e posò la testa su una mano, sospirando. “Cosa c’è che non va, adar? Questa sentenza era equa”, disse Thranduil, cercando di consolarlo. “Uno di loro due è comunque innocente. Se avessi potuto avere almeno una testimonianza, anche piccola, avrei evitato tutto questo”, rispose Oropher, scuotendo la testa, prima di sollevarla e guardare suo figlio negli occhi: “Quando diventerai re, stai molto attento alle parole che userai durante casi del genere. Rischieresti di inimicarti sia l’Elfo colpevole che quello innocente, se la sentenza è troppo severa o troppo gentile”.
Thranduil aveva sentito molte volte quel discorso, ma sapeva che suo padre aveva ragione: “Se mai lo diventerò, adar. Non essere troppo severo con te stesso, adesso. La tua sentenza è stata giusta per entrambi, nessuno ti si rivolterà contro”, disse, mentre si allontanava dal trono. “Ora ti lascio solo, so che hai molto da fare. E poi, credo che Legolas abbia ormai finito di mangiare”.
 Oropher annuì, ricordando tutto il lavoro che aveva ancora da fare: “Ci vediamo stasera a cena, Thranduil”, disse, prima che il principe andasse via. Thranduil percorse in fretta i corridoi che lo separavano da suo figlio, ma bussò prima di entrare. Non poteva irrompere nella stanza mentre c’era la levatrice, non sarebbe stato educato. “Può entrare, mio signore”, rispose una voce dall’interno. Elrioviel lo riconosceva sempre, ormai si era abituata a Thranduil.
Il principe entrò, aprendo piano la porta, perché di solito Legolas si addormentava sempre dopo aver mangiato. E infatti, il suo bambino era nel lettino costruito apposta per lui, coperto da delle leggere lenzuola di seta tessute dalle ancelle di corte. “Puoi andare, Elrioviel. Grazie”. La levatrice chinò la testa al cospetto del principe, quindi alzò l’orlo della gonna da terra e uscì in fretta, chiudendosi la porta alle spalle. Thranduil si affacciò sul lettino e sorrise: Legolas stava dormendo beatamente, succhiandosi il pollice.
Nessun pensiero oscuro turbava la sua mente, e Thranduil lo invidiava per questo. Ma sapeva che, quando si sarebbe sentito male, Legolas ci sarebbe sempre stato per lui. In secoli e secoli di vita, Thranduil non era mai riuscito a svuotare la mente dai pensieri che lo opprimevano, nemmeno quando Vendë era ancora viva, ma Legolas, Legolas riusciva a essere felice sempre. E Thranduil sperava che non cambiasse mai.
Osservò suo figlio dormire ancora per qualche minuto, reprimendo l’impulso di toccarlo per non svegliarlo, ma poi dovette allontanarsi da quel lettino. Era quasi ora di cena, e lui doveva indossare qualcosa che più si conveniva ad una cena con il re e la sua corte. Aveva indosso una veste troppo semplice, perciò ne recuperò una più sofisticata e la indossò in fretta, cercando di non sgualcirla. Quindi indossò un paio di stivali alti fino al ginocchio e si sistemò i capelli, indossando un fine cerchietto d’argento. Era sempre un principe, dopotutto.
A Thranduil dispiaceva dover lasciare Legolas di nuovo, ma doveva farlo. Aveva dei doveri da rispettare, perciò fece come al solito. Chiamò un’altra ancella di corte e le disse: “Desidero che tu stia assieme a Legolas. Ti farò portare qualcosa per cena qui in camera”. “Ti ringrazio, mio signore, ma non c’è bisogno. Posso mangiare più tardi, non è un problema”. Thranduil la interruppe: “Non contestarmi, non mangerai più tardi a causa mia. L’unica cosa di cui ti devi preoccupare ora è mio figlio”. L’ancella chinò la testa: “Hannon le, hir nîn” (Grazie, mio signore).
Thranduil lanciò un ultimo sguardo al lettino di Legolas, poi girò i tacchi e uscì, curandosi di chiudere bene la porta alle sue spalle. Si diresse alla sala dei banchetti, dove si sarebbe svolta la cena quella sera, e percorse i numerosi corridoi sospesi senza fretta, salutando ogni Elfo che incontrava. Quando arrivò, suo padre gli fece un cenno: “Vieni a sederti qui, Thranduil”, disse Oropher. “Non sapevamo che avessimo ospiti, questa sera”, osservò Thranduil, notando seduti al tavolo Elrond e Celebrìan. “Salve Elrond. Celebrìan”, disse poi, rivolgendosi ai diretti interessati. “Thranduil”, lo salutò Elrond. Celebrìan si limitò a sorridere. “Te l’avrei detto, ma non volevo disturbarti mentre eri con Legolas. E poi, me ne sono ricordato tardi, perché avevo molti pensieri per la testa”, si giustificò Oropher, mentre Thranduil si accomodava al suo fianco.
Il re indossava ancora la sua corona, d’oro e foglie del bosco. “E comunque, per rispondere alla tua domanda, Thranduil”, disse Elrond: “Siamo venuti qui per avvertirvi. Non siamo del tutto al sicuro, delle creature del male sono state viste aggirarsi in molti luoghi dalle nostre sentinelle, e gli Uomini ci hanno avvertito che le forze di Mordor aumentano. Credo che una battaglia non è troppo lontana, prima o poi ci toccherà scendere in guerra”.
Thranduil sollevò lo sguardo sul Signore di Gran Burrone; le sue parole l’avevano turbato. Scendere in guerra? Il principe sperò che sarebbe stato il più tardi possibile, poiché non poteva lasciare Legolas troppo presto per scendere sul campo. Oropher intervenne: “Se anche scenderemo in guerra, sarà fra molto tempo. Sauron non è ancora pronto per scatenare una guerra, ci vorranno anni prima che riesca a radunare abbastanza forze per attaccare la Terra di Mezzo. L’ombra non è ancora scesa. Non turbiamoci ora con questi argomenti, non serve a niente”.
Celebrìan mise una mano sul braccio di suo marito: “Oropher ha ragione, Elrond caro”. Poi guardò Thranduil: “E poi, già che siamo qui, avrei voglia di conoscere tuo figlio, Thranduil. Ha due mesi, se non sbaglio”. Thranduil inghiottì il suo boccone: “Si, ha due mesi”, rispose. Prese il suo calice e se lo portò alla bocca, sorseggiando il vino. La moglie di Elrond sorrise: “Allora, se ce lo permetti, vorrei davvero conoscerlo”. Thranduil finì il contenuto del calice, poi disse: “Ma certo. Temo, però, che dovrete aspettare fino a domattina. Non vorrei rischiare di svegliarlo, adesso”. Stavolta fu Elrond a parlare: “Allora lo vedremo domattina. Ripartiremo domani pomeriggio comunque”.
Oropher lanciò uno sguardo di sottecchi a Thranduil e sorrise sotto i baffi: era davvero un grande padre, era fiero di lui.
La cena venne consumata tra sorrisi e discorsi allegri, così che nessuno si sentisse più turbato da argomenti cupi, anche se tutti sapevano che presto si sarebbe dovuto ricominciare a parlare di guerre e battaglie. Oropher chiamò un paio di Elfi e li incaricò di mostrare a Elrond e Celebrìan la loro stanza, poi si ritirò nelle proprie, augurando la buona notte a Thranduil. Quest’ultimo osservò suo padre allontanarsi, poi si diresse alle sue stanze. Entrò silenzioso, e congedò gentilmente l’ancella che sorvegliava Legolas con sguardo vigile. Lei si inchinò e uscì, il più silenziosamente possibile. Thranduil, prima di coricarsi, diede un’ultima occhiata a suo figlio, e scoprì che l’ancella gli aveva messo nel lettino anche una piccola alce di stoffa, che il bambino ora teneva abbracciata.
Il principe sorrise, sapendo che i suoi sogni, quella notte, non sarebbero stati turbati, poi indossò una veste più leggera e si infilò sotto le lenzuola. Il giorno dopo, di buon mattino, Legolas era già sveglio e Thranduil gli stava mettendo una veste più consona all'’incontro con Elrond e Celebrìan. Anche se era solo un bambino, doveva pur fare bella figura.
E poi, quel giorno sarebbe uscito per la prima volta dalle stanze del principe. Legolas era irrequieto, e non stava fermo un attimo, tanto che Thranduil, mentre si  vestiva, dovette rimetterlo nel suo lettino per non rischiare che si facesse del male. Quando furono presentabili entrambi, Thranduil prese in braccio il figlio e uscì, dirigendosi in una delle tante sale dedicate alla famiglia reale.
Lì, seduti intorno a un tavolo, c’erano già il re assieme ai due ospiti. “Quel re, Thranduil. E anche a te, piccolo Legolas”, disse Oropher (Buon giorno, Thranduil). Legolas, dalle braccia di suo padre, voltava la testa a destra e sinistra, confuso da tutti quei nuovi rumori.
Quando Thranduil si avvicinò a Elrond, Legolas nascose la testa nei capelli del padre, intimorito dalla presenza di persone che non conosceva. “Su, Legolas. Lui è Elrond, vuole solo conoscerti. Dai, fatti vedere”, lo esortò Thranduil, mentre si sedeva su un alto scranno. Niente da fare, nemmeno con le lusinghe riuscirono a smuovere il piccolo Elfo, che se ne stava fermo in quella posizione. Alla fine intervenne Celebrìan, che si avvicinò: “Legolas, non vuoi conoscere qualcuno che ti vuole bene? Non ti faccio nulla, vorrei solo vedere il tuo viso”.
A quelle parole, sussurrate con una voce dolce come il miele, Legolas reagì. Piano piano, emerse dai capelli di Thranduil e voltò la testolina, facendosi vedere. “Sei davvero bellissimo, sai? Coraggio, non essere timido”. Celebrìan era davvero brava con i bambini, tanto che Legolas, dopo qualche altra parola, arrivò perfino a cercare di voltarsi completamente.
Thranduil lo accontentò, e finalmente quel bellissimo Elfo fu visibile. La moglie di Elrond rivolse un grande sorriso a Legolas, e avvicinò una mano. Il piccolo subito afferrò il mignolo dell’Elfa, chiudendolo in una manina e rifiutandosi di lasciarlo andare. Elson ridacchiò: “Hai davvero un figlio stupendo, Thranduil, complimenti. Ed è anche molto intelligente. Capisce già quello che gli dici”. “Capisce molto, si, anche se non tutto”, rispose Thranduil, accarezzando la testa di Legolas. “Se sapessi quanto tengo a lui, più della mia stessa vita”.
Elrond e Celebrìan giocarono con Legolas fino a quando fu lui stesso a respingerli. Erano troppe attenzioni, quelle che gli stavano riservando, e il piccolo si era stancato. Affondò di nuovo il viso nei capelli di Thranduil e afferrò una ciocca dorata della sua chioma, segno che ora voleva stare con il padre. I due ospiti afferrarono il senso di quel gesto e lo lasciarono in pace. “Spero che ci rivedremo presto, ma ora dobbiamo andare. So che avevamo intenzione di partire questo pomeriggio, ma credo sia meglio anticipare la partenza e andare via subito. Ho ancora delle faccende da sbrigare per conto di Gil-Galad e non ho intenzione di deluderlo”, disse Elrond, mezz’ora più tardi.
Marito e moglie si alzarono e furono salutati sia da Oropher che da Thranduil. Legolas, invece, si era addormentato in braccio al padre. “Allora, che ci rivediamo in tempi luminosi, amici miei. Meneg suilad”, rispose Oropher. Elrond e Celebrìan, allora, andarono via, lasciando soli re, principe e principino. “Non credevo che Legolas avrebbe reagito tanto positivamente a due estranei”, disse Thranduil. “Se si è fidato, il merito va anche a Celebrìan, che è riuscita a convincerlo. Sarà davvero un magnifico Elfo, da adulto, verde come una foglia”, replicò Oropher, sorridendo.
 Poi disse: “Faresti meglio a riportarlo nelle tue stanze. Sono certo che è ancora confuso, per tutti gli ambienti nuovi che ha visto, e sarà meglio che si risvegli nel suo lettino”. “Hai ragione, ada. E poi, fra poco dovrà anche mangiare”, disse Thranduil, avviandosi.
Quel giorno il principe aveva capito quanto una presenza femminile fosse importante, per un bambino piccolo come Legolas, e stava rischiando di ripiombare nella tristezza che la morte di Vendë aveva portato. Ma poi ricordò la promessa che aveva fatto a sé stesso e ritrovò la forza per non disperarsi, doveva essere forte per suo figlio. In quella, entrò nelle sue stanze.
Era arrivato senza neanche rendersene conto e ora guardava spaesato le pareti della camera. Poi si riprese, e depositò Legolas nel suo lettino, attento a non svegliarlo. L’alce di stoffa era ancora al suo posto. Guardando quel giocattolo, a Thranduil affiorò il sorriso sulle labbra.
 Lo ricordava bene, quel piccolo alce di stoffa. Era stato un regalo di Oropher a Thranduil quando questi era ancora molto piccolo. Un giorno, Oropher aveva mostrato al figlio una mandria di alci selvatiche, quando vivevano ancora nel Doriath, e a Thranduil erano piaciute talmente tanto che aveva chiesto a sua madre di cucirne una di stoffa tutta per lui. E ora, quel giocattolo Thranduil l’aveva regalato a suo figlio, che sembrava aver apprezzato.
 Quando arrivò l’ora per Legolas di mangiare, Thranduil evitò di farsi cacciare di nuovo a calci e uscì prima che la levatrice potesse entrare. Fece così anche per i pasti successivi e, quando finalmente arrivò la sera, passò un bel po’ di tempo da solo assieme a Legolas, ordinando alle guardie di non far entrare nessuno, nemmeno il re. Quella notte, e altre che seguirono, furono rese luminose dalla presenza di Legolas, e Thranduil non passava giorno senza giocare con lui. 

Bene, nelle note finali non scriverò molto, mi limiterò a ringraziare con tutto il cuore Elenwen, che ha recensito la mia storia e l'ha messa anche tra le preferite e le seguite, e anche LokiLove, che sempre ha aggiunto questa storia alle preferite. E inoltre ringrazio ewan91 per aver aggiunto la storia alle seguite. Non ho altro da aggiungere, se non la richiesta gentilissima di lasciare qualche recensione, se vi va.

Hannon le

ElenCelebrindal
 

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Capitolo 2
*** La nascita di Legolas ***


Mae govannen, mellonea nîn

Thranduil, figlio di Oropher, grande re di Boscoverde, era un Elfo austero, cresciuto nella corte di re Thingol nel Doriath. Ora viveva assieme a suo padre nelle grandi sale del Reame Boscoso di Boscoverde il Grande e conduceva la solita vita di corte, cercando di imparare tutto il possibile per diventare re, un giorno. Tuttavia, non mancavano nella sua vita i modi per divertirsi, e lui non se ne faceva scappare nemmeno uno. Fu durante una delle numerose feste organizzate da suo padre che la incontrò. Thranduil era seduto accanto a Oropher, e sorseggiava lentamente il vino da un calice riccamente decorato. Non aveva voglia, quella sera, di partecipare molto attivamente alla festa, ma non lo diceva per non deludere il padre. Quindi continuò a bere dal suo calice. Quando lo posò sul tavolo, alzò gli occhi e incrociò lo sguardo limpido e chiaro di una bellissima Elfa, che spesso aveva visto passeggiare per i corridoi del Reame Boscoso. A volte si era sorpreso ad osservarla con uno sguardo adorante che non gli si addiceva, seguendola con gli occhi fino a che non spariva dalla sua vista. Thranduil sapeva che suo padre avrebbe voluto che il figlio si sposasse presto, per far si che quando fosse diventato re, il regno avrebbe avuto anche una regina, così si decise a fare il primo passo. Riprese il calice, lo vuotò in un sorso e, prendendo un bel respiro, si alzò e andò da lei. Oropher lo guardò con approvazione, felice che suo figlio si fosse finalmente deciso, ma non commentò. Si limitò a osservare da lontano. Thranduil, intanto, era arrivato vicinissimo all'’Elfa, ma stava prendendo in considerazione l’idea di tornare indietro. Quando, però, lei sorrise, lui ne fu totalmente conquistato. Perciò di fece coraggio e si avvicinò. Lei lo guardò, poi sorrise di nuovo, facendo un leggero inchino: “Quale onore, il principe Thranduil in persona”. Thranduil, imbarazzato, rispose: “Non c’è bisogno che t’inchini. Conosci il mio nome, ma io non ho ancora avuto il piacere di conoscere il tuo. Come ti chiami?”. L’Elfa, piuttosto sorpresa, disse: “Il mio nome è Vendë, mio signore”. “Hai un nome che ti si addice, Vendë. Sei davvero una fanciulla graziosa e delicata. Desideri passare con me questa serata?”. Vendë arrossì: “Ma certo, mio signore”. Non disse altro, ma Thranduil capì che aveva apprezzato i complimenti. Vendë prese la mano che Thranduil le offriva e assieme danzarono tutta la serata, condendo il tutto con la giusta dose di sorrisi e risate. All'’Elfa piaceva Thranduil, ma non era sicura di poter dire qualcosa, poiché lui era un principe. Continuarono a vedersi quasi ogni giorno e, tre anni dopo, alla Mereth-en-Gilith, la Festa della Luce delle Stelle, Thranduil la invitò a uscire dalle Sale per stare assieme sotto le stelle. Vendë accettò l’offerta, e così si ritrovarono entrambi in una radura, circondata da alberi con le fronde folte. L’erba era coperta da delicati fiori che sbocciavano solo durante quella notte. Thranduil prese le mani di Vendë e le disse, con il tono di voce più dolce che poté trovare: “Im melin le, Vendë, ar im melithon le an i uir”. (Ti amo, Vendë, e ti amerò per l’eternità). L’Elfa, con le lacrime agli occhi, rispose: “Tan i meleth ertha, pen drava”. (Ciò che l’amore unisce, nessuno separi). Thranduil guardò di nuovo quei limpidi occhi azzurri, poi chinò leggermente la testa e baciò le labbra perfette di Vendë, che ricambiò con tutto l’amore possibile. Oropher, che in quel momento era tra gli alberi a controllare come se la cavava suo figlio, sorrise. Thranduil aveva finalmente trovato qualcuno con cui trascorrere la sua vita. Tornò silenziosamente alle Sale, lasciando soli i due innamorati. Sapeva che sarebbe passato poco tempo, prima che Thranduil chiedesse alla sua compagna di sposarlo. E così fu. Due mesi dopo, Thranduil fece la proposta a Vendë, che accettò senza pensarci due volte. Le preparazioni per il matrimonio furono decisamente rapide, grazie al re che aveva previsto che si sarebbero sposati in fretta, e furono invitati tutti i sudditi del Boscoverde. Dopotutto, era sempre il matrimonio del principe Thranduil. La famiglia di Vendë venne accolta con tutti gli onori, e l’Elfa stessa non aspettava altro che di ascoltare il fatidico sì dalle labbra di Thranduil. La cerimonia fu officiata da Oropher in persona. Thranduil, per l’occasione, indossò una splendida veste del colore dell’oro appena fuso, mentre Vendë un abito che scintillava come stelle quando si muoveva. La cerimonia nuziale sembrò scivolare via e, quando si arrivò al momento fatidico, Vendë mormorò un “Sì” appena accennato, sopraffatta dall’emozione. Thranduil, invece, felice come non mai, pronunciò il “Sì” con voce chiara e ferma. “Con la mia autorità di re a conferirmi il potere di unire in matrimonio due persone, io dichiaro voi marito e moglie, e possa nulla corrompere la vostra gioia. Baciatevi ora, e siate felici per tutta l’eternità”. Vendë mise le braccia al collo di Thranduil e lui posò le labbra sulle sue, prolungando il bacio abbastanza a lungo da scatenare un applauso. Poi, dopo il banchetto nuziale, i numerosi musicisti e cantanti si misero all'’opera, con le loro voci e i loro strumenti. L’aria si riempì della dolce musica elfica, e i due novelli sposi danzarono a lungo, ignorando il clamore generale. Quando la festa finì, Oropher si avvicinò alla coppia e disse: “Ti dispiace se Thranduil parla con me? Farò in fretta”, domandò alla sposa. Lei annuì: “Ma certo, re Oropher. Aspetterò”. Padre e figlio cercarono un luogo più isolato e, quando fu certo che non c’era nessuno a origliare, Oropher disse: “Sono davvero contento per te, figlio mio. È una donna meravigliosa. Fa in modo che sia sempre felice, e soprattutto, sii tu sempre felice assieme a lei. Hai la possibilità di avere la fortuna che io non ho potuto avere”. Oropher, infatti, aveva perso la moglie due anni dopo che ebbe dato alla luce Thranduil, a causa delle malvagie creature di Morgoth, ora rinchiuso nel Vuoto oltre Arda. Thranduil capì i pensieri che offuscavano la mente del padre, e gli prese una mano: “Ti ringrazio molto per le tue parole, adar nîn, e farò in modo che Vendë trascorra la vita più bella. Finché sarà al mio fianco, nessuno offuscherà la nostra felicità”. Oropher sorrise, poi passò una mano sul viso del figlio e disse: “Vai, ti starà aspettando. Non farla attendere per colpa di tuo padre”. Thranduil strinse la mano di Oropher, poi tornò da sua moglie, che l’accolse a braccia aperte. Il principe la prese in braccio, tra le acclamazioni generali, le diede un veloce bacio e poi la portò nella loro nuova stanza, felice come non era mai stato prima. Il matrimonio continuò in quel modo per molti anni, senza novità, almeno fino a quando non arrivarono al centedodicesimo anniversario di matrimonio. Quel giorno Vendë andò a parlare con suo marito e disse: “Thranduil, meleth nîn, ho una notizia che ti renderà ancora più felice”. Thranduil, che stava leggendo un libro, alzò gli occhi e domandò: “Una notizia che mi renderà ancor più felice? Non tenermi sulle spine, meleth, cosa devi dirmi?”. Lei si sedette in braccio a suo marito e lo abbracciò: “Aspetto un bambino”, disse, con la voce che le tremava dalla felicità. Thranduil ci mise qualche secondo ad assimilare la notizia. Quando capì, sorrise a trentadue denti, alzandosi e sollevando Vendë. “Non ci posso credere, diventerò padre!”, esclamò, ridendo, mentre faceva volteggiare in aria sua moglie. Quando la rimise a terra, lei gli circondò il collo con le braccia e disse: “E sono certa che sarai il miglior padre di sempre”. Thranduil le sollevò il mento con due dita e, dopo essersi guardati quasi nell’anima, si scambiarono un bacio che conteneva tutta la felicità che erano incapaci di esprimere a parole. “Coraggio, vai a dare la notizia a tuo padre. Non può rimanere all'’oscuro, non credi?”, consigliò Vendë a suo marito, mentre occupava la poltrona su cui era seduto poco prima. Lui le accarezzò il viso e annuì, prima di uscire a cercare suo padre. Ma aveva la testa talmente altrove, che non pensò di cercarlo subito nel posto dove era più probabile che fosse, ossia la sala del trono. Quello fu l’ultimo posto in cui guardò, rimproverandosi per la sua distrazione. Quando lo individuò, che passeggiava avanti e indietro ai piedi del suo trono, esclamò: “Adar, adar!”. Dovette usare tutto il suo autocontrollo per non corrergli incontro. “Thranduil, cosa c’è? Come mai sei così allegro oggi?”. Oropher, con un cenno, congedò le guardie, che andarono via velocemente, e si avvicinò al figlio, che aveva un sorriso talmente grande da farlo preoccupare. “Sono così allegro perché ho avuto una notizia stupenda solo pochi minuti fa”. “Allora rendimi partecipe di questa splendida notizia, non farmi aspettare”. “Sto per diventare padre”, disse Thranduil, osservando come avrebbe reagito Oropher. “Aspetta, tu cosa?”. “Ho detto che sto per diventare padre, adar”, ripeté Thranduil a uno scioccato Oropher. Quest’ultimo assimilò la notizia in quattro secondi. Poi di slancio abbracciò suo figlio: “Ma è meraviglioso! Mio figlio sta per diventare padre. Questo significa che fra poco io sarò nonno!”. “Sono felice che tu sia così contendo, ada, ma potresti evitare di strangolarmi?”, disse Thranduil, che rischiava di soffocare a causa dell’abbraccio del re. “Oh, perdonami”, disse quello, allentando la presa e mettendo le mani sulle spalle di Thranduil: “Sono davvero felice per te, Thranduil, non potevo sperare di meglio per il mio unico figlio”. Poi lo abbracciò di nuovo, più piano però, quindi lo lasciò andare. “Torna da tua moglie ora, però. Non puoi condividere tutta questa felicità solo con tuo padre, no?”. Thranduil sorrise e fece ritorno alle sue stanze, raggiungendo sua moglie. “Allora? Come l’ha presa tuo padre?”, domandò Vendë all'’ingresso del marito. “Ho dovuto evitare che mi strangolasse, perché mi aveva abbracciato stringendo troppo. Quindi l’ha presa benissimo, direi”, rispose Thranduil. Vendë ridacchiò e fece cenno al marito di sedersi accanto a lei sul letto. Quella notte, e molte altre successive, passarono con la calma di un mare senza onde. Ma un mese dopo i giorni si susseguirono a una velocità incredibile, quasi impossibile. Così i nove mesi della gravidanza di Vendë sembrarono quasi non essere trascorsi, ma a confermarlo c’era il fatto che, un giorno, Vendë disse: “Thranduil, mi si sono rotte le acque”. Il principe chiamò immediatamente le ancelle di corte, e Vendë passò in travaglio le ventiquattro ore successive. Thranduil non aveva il permesso di avvicinarsi a lei. Ogni volta che ci provava, le ancelle lo buttavano fuori, infischiandosene che fosse il figlio di Oropher. Anzi, cacciarono perfino il re, quando Thranduil chiese il suo aiuto. Nessuno dei due se la prese, però, ed entrambi restarono ad ascoltare, senza poter fare nulla se non aspettare, le urla di dolore della povera Vendë. Capirono che il peggio era passato quando sentirono il pianto di un bambino provenire dall’interno della stanza. A quel punto Thranduil scattò in piedi e aprì la porta, incurante delle ancelle. E quello che vide lo lasciò senza fiato. Vendë era distesa nel letto, coperta da un lenzuolo di seta, con gli occhi chiusi, e sembrava aver sofferto davvero molto. Ma il loro figlio, perché ormai era appurato che si trattasse di un maschio, piangeva a pieni polmoni e sembrava perfettamente in salute. Una delle ancelle di corte vide Thranduil e lo raggiunse, con un’espressione che non lasciava presagire nulla di buono. “Cos’è successo, come sta Vendë?”, domandò Thranduil, prima che lei potesse aprire bocca. L’ancella, a occhi bassi, rispose: “Il parto è stato difficile, mio signore. Temo che vostra moglie non arriverà a questa sera. Ha perso troppo sangue. Mi dispiace”. Quello fu un duro colpo per il principe, che corse a raggiungere sua moglie. Le prese una mano, e notò che era troppo fredda. L’ancella aveva ragione, Vendë sarebbe morta in poco tempo. A quel punto, anche Oropher entrò nella stanza, e raggiunse suo figlio al fianco di Vendë. Quando capì, si alzò e prese in braccio il suo nuovo nipotino, porgendolo poi al figlio: “Thranduil, cerca di farle aprire gli occhi. Deve vedere suo figlio, almeno una volta”. Thranduil prese in braccio il suo bambino e, riavvicinandosi alla moglie, disse: “Vendë, meleth nîn, edro chin le, eglerio”. (Vendë, amore mio, apri gli occhi, ti prego). L’Elfa, molto lentamente, riuscì a sollevare le palpebre. E quello che vide la fece sorridere, seppur debolmente. “Legolas”, sussurrò, mentre Thranduil le posava il bambino sul petto. Alzò un braccio tremante e accarezzò la testa del figlio, poi disse, alzando gli occhi: “Il nostro bambino è bellissimo, Thranduil. Grazie”. Oropher e le ancelle uscirono, per poter permettere agli sposi di trascorrere gli ultimi istanti assieme. Thranduil prese Vendë tra le braccia, mentre Legolas, loro figlio, dormiva beatamente. Era davvero piccolo, ma di una bellezza già incredibile. Poi, quando scese la sera, Vendë guardò suo marito negli occhi, e Thranduil seppe che quella sarebbe stata l’ultima volta, l’ultima volta che avrebbe scrutato quegli abissi profondi come il mare. L’Elfa chiuse gli occhi e non li riaprì più. Era morta tra le braccia dell’uomo che aveva amato più di ogni altra cosa al mondo, lo stesso uomo che ora gemeva per il dolore e piangeva tutte le sue lacrime. Aveva perso l’unica persona che l’aveva fatto sentire l’Elfo più felice di tutta la Terra di Mezzo, e non era riuscito a mantenere la promessa che aveva fatto a suo padre più di un secolo prima. Strinse i denti per non urlare, ma non riuscì a trattenersi e, tra i denti serrati, gridò tutta la sua disperazione. Oropher, a quel punto, tornò nella stanza e abbracciò il suo unico figlio, capendo il suo dolore perché anche lui ci era passato. “Shh, Thranduil ci sono io con te. Non sei solo. E c’è anche tuo figlio. Lei non se n’è andata per sempre, vive ancora. In tuo figlio”. Thranduil spostò lo sguardo su suo padre e, con gli occhi ancora grondanti di lacrime, lo abbracciò. Poi prese in braccio suo figlio, che si era svegliato, e se lo strinse al petto, ancorandosi a lui per non ricadere nella disperazione. Si, Oropher aveva ragione. Vendë, o almeno una parte di lei, viveva ancora. Viveva in suo figlio Legolas, e il suo ricordo sarebbe rimasto per sempre, vivo come il primo giorno, nella mente del principe. 

Se siete arrivati fin qui, vuol dire che avete letto tutto il capitolo, e già per questo vi sono immensamente grata. Non so se questa storia è e sarà di vostro gradimento, ma spero che la seguirete. Lasciate una recensione, se vi va, oppure restate lettori silenziosi.

Hannon le

ElenCelebrindal
 

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Capitolo 3
*** Il primo anno ***


Mae govannen, mellonea nîn

Thranduil cominciava a non poterne più, era da mezz’ora che Legolas piangeva ininterrottamente, e al principe cominciavano a far male le orecchie. Legolas aveva sette mese e mezzo, e ormai stava cominciando a mettere i primi dentini, la causa dei lunghi pianti che tenevano sveglio Thranduil per molte notti di fila. Gli Elfi erano resistenti, ma erano quasi due settimane che l’Elfo non riusciva a fare un notte completa di sonno, ma non riusciva ad arrabbiarsi. Forse si spazientiva un po’, ma era felice che Legolas stesse mettendo i denti. Era il segno che stava crescendo, dopotutto. Prese in braccio il figlio e, dopo essersi seduto su di una poltrona a schienale alto, disse: “Su, coraggio. Devi essere forte, piccolo mio, stai crescendo”. Mentre parlava, accarezzava continuamente il viso di Legolas, cercando di farlo smettere di piangere. Le sue calde lacrime gli bagnarono la mano, ma il principe non ci fece caso. Legolas, pian piano, smise di piangere, anche se era ancora scosso da qualche singhiozzo. “Ecco, bravo. Prova a resistere, è l’ultimo dentino che devi mettere, poi non soffrirai più”, provò a consolarlo, abbracciandolo stretto e posando il viso sui capelli biondi del piccolo, diventati più lunghi. “Pomeso?”, gli domandò Legolas, con la mente, poiché ancora non sapeva parlare. “Promesso, Legolas”, rispose Thranduil, posandogli un leggero bacio sulla fronte. “Aloa va bene”, disse il bambino, anche se una lacrima scese comunque lungo la guancia. Thranduil la asciugò con un bacio, poi disse: “Ada deve andare, adesso, ma tornerò prima possibile, d’accordo? Tu fai il bravo, però”. Portò Legolas nel suo lettino e lo posò sulle morbide coperte di lana finissima, scompigliandogli i capelli. Legolas guardò il padre con uno sguardo che faceva tenerezza, ma Thranduil doveva andare. Oropher l’aveva convocato per discutere di alcune cose di particolare importanza, e non poteva mancare. “Tornerò presto, piccolo”, disse di nuovo, prima di convocare l’ancella che solitamente si occupava di Legolas quando lui non c’era. Poi prese al volo la sua corona e si diresse alla sala del trono mentre la indossava, cercando di sistemarsi i capelli. Suo padre era seduto sull’imponente trono decorato con palchi di alce, e sul capo aveva una corona di mithril e gemme bianche, come a ricordare che in quel periodo era inverno. Thranduil adorava quelle gemme bianche, gli ricordavano la luce delle stelle, e spesso si era ritrovato a rimirarle nel tesoro di suo padre. Il principe allontanò quei pensieri e andò a sedersi accanto a Oropher, che aveva fatto preparare uno scranno anche per lui. Erano presenti molte autorità della Terra di Mezzo, compresi gli Uomini. Thranduil ricordava vagamente Elendil e i suoi figli, ma li riconobbe subito quando li individuò. Prese posto sul suo scranno, e rimase ad ascoltare un interminabile discorso di guerra e strategia dopo l’altro, interrompendo solo di tanto in tanto per fare qualche domanda oppure per precisare qualcosa. Il resto del tempo lo passava in ascolto. A quanto pare, si prospettava una violenta battaglia, ma le cose ancora non promettevano eventi insidiosi, quindi ad un certo punto Thranduil, ansioso di tornare da suo figlio, cominciò a spazientirsi. Sapeva che era importante discutere di certe cose, ma serviva proprio discuterne quando le cose ancora non accennavano a smuoversi? Perciò, quando il consiglio venne sciolto, il principe tirò un sospiro di sollievo, ma solamente quando la sala del trono fu occupata di nuovo solo da padre e figlio poté abbandonarsi sullo scranno. Suo padre non stava meglio di lui: Oropher, a quanto pare, si trovava in una situazione scomoda. Essere re voleva dire avere delle responsabilità davvero grandi verso il popolo che si comandava. E quel potere pesava sulle spalle di Oropher, adesso. “Adar, ti senti bene? Dovresti concederti un po’ di riposo in più”, disse Thranduil, notando quanto il re fosse stanco. Oropher replicò, scuotendo una mano: “Non ti preoccupare per me. Piuttosto, mi sembri tu quello stravolto, qui. Quanto hai dormito nelle ultime due settimane, Thranduil?”. Il principe esitò prima di rispondere: “Relativamente poco. Legolas ha quasi ifnito di mettere i suoi primi dentini, e piange spesso, anche la notte. Devo ammettere che mi ha dato qualche problema, ma non mi lamento. Sta crescendo bene e in fretta. Sai che ha cominciato anche a parlarmi con la mente?”. Oropher sorrise: “Sono contento dei progressi di tuo figlio, ma non puoi passare tutto il tuo tempo con lui. Devi per prima cosa riposare di più, ma anche adempiere ai doveri di principe. Mi dispiace dirti questo, ma è la verità”. Thranduil era rimasto addolorato dalle parole del padre, ma sapeva che aveva perfettamente ragione. Per cui disse: “Be iest lîn, adar”, con un tono di voce basso e non troppo allegro (Come desideri, padre). Oropher se ne accorse e cercò di riparare: “Questo non vuol dire che non puoi passare del tempo con tuo figlio. Basta che lo organizzi bene. Del resto, anche io riesco a giocare con il mio nipotino no? Ora però torna da lui, ha bisogno ancora della tua presenza. Ma desidero che quando compirà un anno, tu dovrai cercare di fare più attenzione a ciò che devi imparare e a tutto il resto, va bene?”, disse poi il re, posando una mano sulla spalla del principe, che intanto si era alzato ed era di fronte al padre. “Va bene”, rispose Thranduil, seppur con una malcelata nota di rimpianto nella voce. Oropher fece finta di non accorgersene e lo rispedì nelle sue stanze, dove sapeva che il figlio voleva tornare. Thranduil non se lo fece ripetere e, dopo ore e ore di discussioni, finalmente fece ritorno dal suo Legolas. Però, bussò alla porta, perché non sapeva se l’ancella aveva avuto bisogno di chiamare la levatrice. Non ricevette risposte negative, per cui entrò. E la scena che vide lo fece sorridere. Sia Legolas che l’ancella che gli faceva compagnia stavano dormendo, l’uno nel suo lettino, l’altra seduta su una sedia. A quanto pare, nemmeno lei doveva aver dormito molto a causa dei pianti interminabili del piccolo Elfo. Al principe quasi dispiaceva svegliarla, ma dovette farlo, perciò la scosse con delicatezza per una spalla. L’Elfa si svegliò di soprassalto e cercò di mettere insieme un paio di frasi di scuse,ma Thranduil la fermò con un gesto della mano: “Stai tranquilla. So che la tua stanza è vicina alle mie, per cui non devi aver dormito molto, come me. Non preoccuparti”. L’ancella, visibilmente stupita, si inchinò ringraziando il principe e si dileguò oltre la porta, arrossendo d’imbarazzo. Legolas, intanto, aveva cominciato a svegliarsi e, percependo la presenza del padre, disse: “Ada, sei tonato finamente. Giochi con me?”. Thranduil non seppe resistere: “Ma certo, figlio mio”, acconsentì, avvicinandosi e prendendo Legolas tra le braccia. Quando furono tutti e due seduti sul pavimento, il piccolo allungò una mano verso la corona d’argento di suo padre: “Che bela, ada.Poso vedela?”. “Ma certo, Legolas, però stai attento”, rispose Thranduil, sfilandosi il cerchietto d’argento dalla testa e porgendolo al figlio. Legolas, non appena lo ebbe tra le mani, lo osservò, incuriosito dalla natura di quell’oggetto, ma non provò a indossarlo. Anzi, si avvicinò a Thranduil e allungò le sue braccine il più possibile, nel tentativo di rimetterla sulla testa del padre. Quest’ultimo capì le sue intenzioni e abbassò la testa, permettendo così a figlio di posargli il cerchietto d’argento sui capelli. Anche se storto, infatti un lato andò a finire sull’occhio destro di Thranduil. Il che, a parere di Legolas, era molto divertente. “Come sei bufo, ada”, disse Legolas, prima di scoppiare nella risata cristallina che Thranduil tanto amava e odiava al tempo stesso. Quel modo di ridere, infatti, era uguale alla risata di Vendë, che non avrebbe mai abbandonato il cuore del principe. Thranduil rischiò di annegare nei ricordi della moglie, e Legolas, accorgendosi che il padre era diventato triste, cercò di consolarlo. Salì sulle sue ginocchia e passò una manina sul bel volto di Thranduil, che in risposta riuscì a sorridere. “Ti volio tato bene, ada, im melin le”. Il principe, con le lacrime agli occhi, non sapeva se di tristezza o felicità, abbracciò suo figlio, portando il volto del piccolo accanto al suo. “Anche io, piccolo mio. Anche io”. Il tempo passò, e Legolas faceva un progresso dopo l’altro, tanto che a nove mesi riusciva già a dire le prime parole ad alta voce. Ormai mancava davvero pochissimo al primo compleanno del principino, e Thranduil cominciava a preoccuparsi: Oropher gli aveva detto che, non appena Legolas avrebbe compiuto un anno, avrebbe dovuto adempiere più attivamente al suo ruolo di principe, e ciò significava non poter stare il tempo che avrebbe voluto con suo figlio. Quest’ultimo si rese conto del cambiamento che Thranduil stava subendo, diventando sempre più malinconico, e provò a chiedere spiegazioni. Un giorno, una settimana prima del suo compleanno, salì sulle ginocchia del padre e provò a chiedergli: “Ada, cosa sucede? Pechè sei tanto tiste?”. Quelle poche parole gli erano costate un sforzo straordinario, ma era fiero di essere riuscito a mettere una frase tutta insieme. Il padre, scrutando gli abissi azzurri degli occhi del figlio, rispose: “Sono triste perché, non appena compirai un anno, non potremo stare così tanto tempo assieme”. Legolas protestò: “Non ci chedo, non è posibile che non stiamo più isieme”. La sua voce echeggiò nella mente di Thranduil, che provò a rassicurarlo: “Non devi preoccuparti, un po’ di tempo l’avremo comunque”. Ma Legolas non voleva sentire ragioni; cominciò a piangere, stringendosi forte a suo padre, e non volle staccarsi da lui nemmeno quando entrò Oropher, che aveva sentito tutto da fuori la porta. Il re si mise di fronte a Legolas e, guardando la sua chioma bionda, disse: “Legolas, devi capire che tuo padre ha dei doveri. È un principe, e non può passare tutto il suo tempo con te. Anche io vorrei sempre restare con il mio nipotino, ma non posso. Sei piccolo, ma molto intelligente. Eglerio, Legolas, galad nîn” (Ti prego, Legolas, luce mia). Il piccolo scosse la testa, visibilmente contrariato: “È tuta colpa tua, nonno. Tu vuoi tenemmi lontano da ada, lui non vuole lasciami solo!”, esclamò con rabbia, riempiendo con la sua limpida voce la mente del sovrano. Afferrò una ciocca di capelli del padre e la strinse con forza, quasi per far vedere che non si sarebbe mai allontanato da suo padre. Oropher sospirò, ma lo sguardo che dedicò a Thranduil non ammetteva repliche. Poi gli disse, con tono autoritario: “Fra una settimana, voglio vederti nella sala del trono, seduto accanto a me. Non accetto discussioni, Thranduil”. Detto questo, lanciò un’ultima occhiata a Legolas e se ne andò, mentre Thranduil abbassava la testa e accarezzava piano la schiena di suo figlio. Come poteva Oropher essere così crudele? Come poteva tenerli lontani per la maggior parte del tempo? Questo né Thranduil né Legolas riuscivano a spiegarselo. “Edavedn, iôn nîn. Avo ninna, eglerio”(Perdonami, figlio mio. Non piangere, ti prego). Lentamente, il pianto di Legolas si trasformò in singhiozzi, per poi scemare del tutto. Il principino tirò su con il naso, strofinandosi gli occhi rossi con le manine. Thranduil recuperò un fazzoletto e gli pulì il naso, quindi disse, abbassandosi al livello dei suoi occhi: “Tu sei un bambino forte, Legolas, e mi dispiace doverti dire questo. Ma so che riuscirai a sopportare la distanza che si formerà tra noi, quando dovrò ubbidire all'’ordine di mio padre. Anche io soffro molto per questo, e proprio per questo motivo ti chiedo di non buttarti giù, di avere un po’ di forza anche per me. Puoi farlo, per ada?”. Legolas tirò su col naso ancora un paio di volte, ma poi rispose: “Se me lo chedi tu, aloa ci poveò”, poi sorrise, mettendo in mostra i suoi dentini nuovi. “Oh, Legolas”, mormorò Thranduil, abbracciandolo stretto. Quella settimana passò veloce come l’acqua che scorre, e il primo compleanno di Legolas arrivò troppo presto. Quella mattina, Thranduil ebbe il suo bel daffare per convincere Legolas ad assumere un’aria meno immusonita: il piccolo, infatti, non voleva festeggiare. Ma quando Thranduil si ritrovò in qualche modo con il filo di un giocattolo di Legolas avvolto intorno alla testa, il principino abbandonò il broncio e scoppiò in una sonora risata,mentre suo padre ancora si chiedeva come aveva fatto a combinare quel disastro. Sospirando, Thranduil districò i suoi capelli dal filo e aiutò Legolas a vestirsi, facendogli indossare una veste chiara. Poi, con un pettine d’argento, gli sistemò i capelli. Dopodiché riuscì a convincerlo a uscire dalla stanza per partecipare alla festa. Lo prese in braccio e lo portò nella grande sala dei banchetti, addobbata a festa in onore del principino. Anche Oropher era presente, e aveva recuperato un’espressione gioviale, che aveva perso a causa dei molti litigi con il figlio. Thranduil, come voleva l’etichetta, lo salutò, ma poi non gli rivolse più la parola, ancora adirato. Legolas, invece, volle stare in braccio al nonno per un po’, e Oropher gli chiese: “Allora mi perdoni?”. “Non lo so. Ma ogi è festa, e non si litiga”, rispose lui, cercando di toccare la corona del nonno. Restarono insieme qualche minuto, ma poi Thranduil tornò a reclamare il figlio, e dovettero separarsi. La festa fu bellissima, degna del Reame Boscoso. Perfino Legolas sembrava apprezzare tutte le attenzioni che gli venivano dedicate, e distribuiva sorrisi a tutti. Ma Thranduil sapeva che il giorno dopo Legolas avrebbe rimpianto il suo compleanno. Tuttavia, non fece nulla per ricordarglielo, così che solo la mente del principe venisse occupata da quei pensieri. La festa finì molto tardi, tanto che Legolas si addormentò accoccolato sulle gambe del padre, succhiandosi il pollice. Thranduil scostò alcuni fili biondi dal viso del figlio, osservando l’espressione tranquilla sul suo volto, poi lo prese delicatamente in braccio e, dopo aver dato la buonanotte, si diresse subito alle sue stanze, avendo buona cura di evitare Oropher. Il suo proposito di non vedere il re, però, fu reso vano. Dopo che ebbe messo Legolas a letto, un messaggero bussò alla sua porta. Thranduil uscì, per non rischiare di svegliare il figlio, e ascoltò ciò che il messaggero aveva da dire: “Hir nîn Thranduil. Domani dovrete recarvi di buon mattino nella sala del trono. Na ganed en-Aran Oropher” (Mio signore, Thranduil. […] Per ordine di re Oropher). “Hannon le an eram tatya” (Grazie per aver riferito), rispose Thranduil. Il messaggero si inchinò, mentre il principe concludeva: “Riferisci a mio padre che sarò presente”. Il messaggero annuì e andò via, lasciando Thranduil con l’amaro in bocca. A quanto pare, Oropher non aveva intenzione di cambiare idea. A malincuore, il principe bussò alla porta di Voronwen, una delle ancelle che stavano più simpatiche a Legolas, e quando lei aprì, le chiese: “Voronwen, vorresti fare compagnia a Legolas mentre sono assieme al re?”. Se l’Elfa rimase spiazzata, non lo diede a vedere. Si limitò ad inchinarsi e a rispondere: “Amin naa tualle, cund Thranduil” (Sono ai tuoi servigi, principe Thranduil). Il principe sorrise e disse: “Allora spero che non ti dispiacerà cominciare da domattina. Quel du, Voronwen”. “Quel du, hir nîn”, rispose lei, chinando la testa, poi richiuse la porta mentre Thranduil si voltava. “Hannon le”, mormorò lui, a voce bassissima. Quindi fece ritorno alle sue stanze e si infilò sotto le coperte, pensando con tristezza al giorno seguente. La notte passò troppo in fretta, e in men che non si dica l’alba era giunta. Thranduil si destò, ma si preparò con molta attenzione per non rischiare di svegliare Legolas, che dormiva beatamente. Quando fu pronto, aprì silenziosamente la porta e andò a bussare alla stanza di Voronwen, che aprì subito, già pronta per il suo compito. Thranduil non riuscì a dire nulla, si limitò a fare un cenno in direzione delle sue stanze. L’Elfa capì all'’istante a, dopo essersi inchinata, era già sparita oltre la soglia. Poi Thranduil si recò alla sala del trono, pronto per una giornata che si prospettava non molto piacevole. legolas, intanto, si era svegliato, aprendo i suoi occhi azzurri. Voronwen se ne accorse e si avvicinò, sperando che il piccolo non si mettesse a piangere. Legolas sapeva che suo padre non ci sarebbe stato tutto il tempo, da quel giorno in poi, ma qualche lacrima scese comunque. Poi, notando la presenza della sua amica Voronwen, si passò una manina sulla guancia per asciugarsi e tese le braccia. Voronwen capì al volo e prese il bambino in braccio: “Quel re, Legolas. Mi dispiace che tuo padre non è qui, è andato via prima che tu ti svegliassi”, disse lei, in risposta allo sguardo interrogativo del piccolo. Legolas abbassò gli occhi, triste. L’Elfa si sedette su una delle sedie presenti nella stanza, evitando lo scranno del principe, e recuperò uno dei tanti giocattoli di Legolas, cercando di fargli tornare il sorriso. Ci volle del tempo, ma alla fine una risata risuonò nella stanza, mentre il principino cercava di acchiappare una piccola aquila d’argento che Voronwen stava muovendo a destra e sinistra. Erano talmente immersi nel gioco, che nessuno dei due si accorse che era ora di pranzo. Se ne resero conto solo quando Legolas disse: “Ho fame”. Allora i due si recarono in una delle sale da pranzo presenti nelle sale del Reame e, appena finito, fecero ritorno alle stanze del principe. Thranduil non aveva detto nulla, ma Voronwen sapeva che non aveva il permesso di allontanarsi da lì se non per mangiare. Anche la sera fecero così, e si separarono solo quando il principe fece ritorno, qualche ora più tardi. “Hannon le, Voronwen”, disse. Lei capì di essere stata congedata e andò via, mentre Thranduil si sedeva accanto al figlio sul letto. “Mi sei mancato, ada”, disse Legolas ad alta voce, abbracciando suo padre. “Anche tu, piccolo mio. Sei stato bene con Voronwen?”, domandò il principe, passando una mano fra i capelli di Legolas, che rispose: “Si, è bava con me”. “Ne sono felice”, disse Thranduil, ma in cuor suo sapeva di non esserlo, non quando erano lontani. “Su, è ora di dormire adesso”, disse poi. Legolas provò a protestare, ma ogni suo tentativo fu soffocato da un enorme sbadiglio, che lo fece capitolare. Thranduil lo depose delicatamente nel suo lettino e gli rimboccò le coperte, sussurrando: “Quel du, Legolas. Losto mae” (Buonanotte, Legolas. Dormi bene). I giorni si susseguirono in quel modo per molto tempo: solamente la sera padre e figlio riuscivano a stare assieme, ma non troppo a lungo perché Legolas cadeva inevitabilmente nel sonno. Questo a Thranduil pesava molto e, quando Oropher se ne accorse, quasi dopo un anno, prese in disparte Thranduil: “Sto cominciando a capire quello che provi, figlio mio. E ho deciso di lasciarti del tempo per stare assieme a Legolas. Non posso tenerti lontano da lui, il mio comportamento è stato egoistico. A breve tuo figlio compirà due anni, e vorrei che quel giorno lo passaste tutto assieme. Ma non sarà l’unico che trascorrerai con lui. Ci ho riflettuto, e ho concluso che avere qualche ora libera al giorno non potrà certo nuocere alla tua educazione e a tutto il resto”. Thranduil non gli diede neanche il tempo di finire il discorso. Gli mise le braccia al collo e lo abbracciò, infondendo in quell’abbraccio tutto l’affetto che provava per Oropher. Non trovò le parole per ringraziarlo, ma per il re lo sguardo felice di suo figlio bastava. Poi lo incitò a dare la notizia anche a Legolas. Il principino, quando venne a sapere tutto, rise, felice come non mai, e continuò a sorridere per molti, molti giorni. 

Carissimi amici della Terra di Mezzo, sono tornata con il terzo capitolo :) So che questo è più corto dei precedenti, ma ho avuto alcuni imprevisti e non sono riuscita ad "allungare il brodo", come dicono alcuni. Spero che vi sia piaciuto (anche perché, se state leggendo questo, siete arrivati fino in fondo) e rinnovo il mio invito a recensire. Inoltre, ringrazio con tutto il cuore i lettori silenziosi e coloro che hanno recensito, ovvero ElenwenLokiLove ewan91E ringrazio anche fredfredina che ha aggiunto la mia storia alle preferite. In più, un altro ringaziamento va anche a  Chiaretta_6 per aver aggiunto questa storia alle seguite. Continuate a leggere, mi raccomando, perché non è mai un male

Hannon le

ElenCelebrindal
 

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Capitolo 4
*** Visita al Boscoverde ***


Mae govannen, mellonea nîn

Erano passati quattro mesi, ormai, da quando Legolas aveva compiuto due anni, e il morale di Thranduil era decisamente alto.
 Da quando Oropher gli aveva concesso di poter state con suo figlio un paio di ore ogni giorno, tutto andava per il meglio. Un giorno, non appena Thranduil raggiunse il figlio, quest’ultimo (che sempre più spesso parlava ad alta voce) disse: “Ada, guada cosa so fae”. Appoggiandosi alla struttura in legno del letto, si tirò in piedi e riuscì a camminare fino ad arrivare dal padre, aiutandosi appoggiandosi al legno.
 Thranduil sorrise, a trentadue denti, mentre sollevava Legolas e lo lanciava in aria, per poi riprenderlo al volo: “Sei davvero bravissimo, stai imparando a camminare!”, esclamò, dandogli un bacio ogni volta che lo riprendeva.
 A Legolas piaceva moltissimo quel gioco, e i complimenti del padre lo avevano fatto ridere, tanto era felice. Quando Thranduil lo rimise a terra, sui cuscini, approntò un’espressione contrariata, ma anche se si arrabbiava manteneva sempre una dolcezza incredibile.
 Il principe ridacchiò, ma poi fece una faccia seria: “Entro domani voglio vederti camminare senza appoggiarti, chiaro?”, disse in tono perentorio.
Dapprima Legolas rimase spiazzato, ma poi vide il leggero sorriso che increspava le labbra del padre, e scoppiò di nuovo a ridere, seguito a ruota da Thranduil, che si sedette all'’improvviso accanto al piccolo. Legolas appoggiò la testa al braccio del padre, e disse: “Ada, quando iusciò a camminae bene, mi potti a fae un gìo?”. “Ma certo che ti porterò a fare un giro, iôn nîn. Ma dovrai saper anche parlare senza mangiarti le doppie e la lettera r. altrimenti, come farai a fare la conoscenza di qualcuno degli Elfi del Bosco?”.
Legolas aggrottò le sopracciglia, cercando di parlare già da subito bene come voleva il padre, ma alla fine rinunciò e disse: “Va bene, mi impegneò tantisimo, e ala fine palleò meglio di te, vedai”. Una frase del genere era troppo per Thranduil, che impiegò due secondi per decifrarla.
 Poi replicò, scompigliando i capelli del piccolo: “Vedremo se riuscirai a parlare meglio di me. Facciamo che è una sfida: se ci riuscirai prima di compiere cinque anni, ti porterò a fare un giro tra gli alberi del Boscoverde, cosa ne dici?”. Thranduil sapeva che Legolas avrebbe vinto.
 Gli Elfi imparano molto più in fretta dei mortali, e Legolas sembrava anche più precoce di altri. Il piccolo raccolse la sfida: “Va bene. Ma tu non cambiae idea, ada. Voglio vedee il bosco!”. Il principe prese la manina del figlio e la strinse: “Affare fatto!”, disse, sorridendo. Poi, a malincuore, si accorse che le due ore erano ormai quasi scadute.
Doveva tornare da Oropher, o il re si sarebbe adirato. Diede un veloce bacio a Legolas sulla fronte: “Ada deve andare. Non addormentarti prima che io ritorni, devo darti la buonanotte”. Legolas lo abbracciò, prima di staccarsi e tornare a giocare con un paio di animaletti di stoffa. Thranduil lo guardò per qualche secondo, prima di richiamare Voronwen e fare ritorno alla sala del trono.
 E così, giorno dopo giorno, Legolas cercava sempre di imparare più cose che poteva, e molto più spesso chiedeva sia a Voronwen che a suo padre di raccontargli qualche storia. A tre anni riusciva già  parlare utilizzando più parole e continuava a impararne sempre di nuove. A quattro, già sapeva camminare nel modo aggraziato degli Elfi e non inciampava più. In quel periodo, Thranduil dovette ridurre il tempo che poteva trascorrere con Legolas, a causa di alcuni episodi accaduti di recente, ma una volta appurato che non c’era nessun pericolo in agguato, tutto tornò come prima.
 Il principe cominciava già a pensare dove avrebbe portato Legolas. Non poteva negare i progressi che stava facendo, quindi avrebbe dovuto mantenere la promessa che gli aveva fatto. Né il principino mancava di ricordargliela, ogni tanto.
 Alla fine, arrivò il giorno del quinto compleanno di Legolas, e Thranduil decise che l’avrebbe fatto uscire proprio quel giorno. Oropher non contestò la decisione di Thranduil di stare assieme al figlio, per cui il principe parlò con il bambino non appena si fu svegliato. “Legolas?”, lo chiamò, per accertarsi che fosse davvero sveglio. La sua voce gli arrivò con un paio di secondi di ritardo: “Cosa c’è, ada?”, disse, con voce assonnata.
 Thranduil sorrise e, avvicinatosi al letto del figlio, afferrò le coperte e le tirò via: “Alzati, pigrone. Oggi ti porto a vedere Boscoverde il Grande”, disse, quando Legolas provò a protestare. A quel punto, il bambino si mise a sedere di scatto, e tutto il sonno sembrava letteralmente sparito. “Davvero?”, domandò, pensando che fosse uno scherzo. “Non sto scherzando. È il tuo regalo di compleanno, perciò, in piedi”, rispose Thranduil, facendo il solletico a Legolas.
Il piccolo Elfo si alzò subito e, con l’aiuto del padre, indossò degli abiti adatti a camminare tra gli alberi. Legolas era impaziente di uscire, ma Thranduil, quando furono davanti alle porte del Reame Boscoso, si mise davanti a lui e, inginocchiandosi alla sua altezza, gli disse: “Ascoltami bene, iôn nîn. Io ti ho promesso che ti avrei fatto vedere la foresta, ma ora sei tu che devi promettermi una cosa. Non allontanarti mai troppo da me. Boscoverde è sicuro, ma non si può mai sapere. Sei ancora troppo piccolo per avventurarti tra gli alberi senza una guida, e potresti perderti. E dovrai ascoltarmi, ogni cosa che ti dirò. Promesso?”. “Promesso”, rispose Legolas, ansioso di uscire.
 Thranduil annuì, poi si rivolse alle guardie delle porte: “Edro in ennyn” (Aprite i cancelli). Quelle spalancarono le porte di pietra del Reame e attesero che padre e figlio fossero usciti, prima di richiuderle. Quando sentì il rumore secco dei portali, Legolas si voltò, spaventato. “Non preoccuparti, li riapriranno quando torneremo”, lo rassicurò Thranduil.
 Legolas annuì e si voltò, osservando per la prima volta il magnifico scenario che gli si parava davanti agli occhi. Un ponte attraversava un impetuoso fiume e dappertutto c’erano dei maestosi alberi, di molte specie differenti.
A poca distanza dal ponte, si intravedevano le case degli Elfi che non vivevano all'’interno delle Sale, e molti di loro passeggiavano e cantavano, suonando anche degli strumenti che Legolas aveva visto spesso. Il principino rimase a bocca aperta nel vedere quello spettacolo e Thranduil, osservandolo, non poté impedirsi di ridacchiare. “Ti piace?”, gli domandò, pur conoscendo già la risposta. “Si, mi piace moltissimo”, rispose lui.
Poi indicò il fiume, ma pareva non trovare le parole per dire qualcosa. Allora Thranduil gli chiese: “Mankoi le irma sint?” (Cosa desideri sapere?). qualche secondo dopo, Legolas trovò le parole, e disse: “Mani naa essa en dîn? (Qual è il suo nome?). “Vuoi sapere il nome del fiume? Bene, quello è il Fiume Selva o Fiume della Foresta, ovvero Taurduin. Non molto lontano da qui il suo corso si unisce a quello del Fiume Incantato. Sono gli unici due fiumi di Eryn Galen”.
 Legolas prestava davvero molta attenzione, e memorizzò tutto quello che il padre aveva detto. “Voglio imparare tutto quello che posso.
 Da grande anche io andrò in giro da solo per Eryn Galen!”, esclamò, ma non si allontanò, anche se voleva. Thranduil lo prese per mano e disse: “Allora non restiamo fermi in un solo posto. Andiamo a vedere la città al di fuori delle sale dove sei cresciuto”. Legolas non se lo fece ripetere  due volte e, mano nella mano con il padre, scoprì dove vivevano tutti gli altri sudditi di Oropher. Le abitazioni degli Elfi Silvani erano semplici, ma comunque molto belle agli occhi del principino.
 Alcune erano a terra, altre costruite sui rami degli alberi, ma tutte, o almeno la maggior parte, erano fatte di legno. “Ricordi la promessa che mi hai fatto?”, domandò Thranduil a Legolas.
 Quando il bambino annuì, continuò: “Diciamo che, almeno qui dove ci sono più Elfi, potrai scorrazzare un po’ da solo, basta che io possa continuare a vederti senza problemi”. “Davvero? Hannon le, ada!”, esclamò Legolas, felice di quella piccola concessione. Il piccolo Elfo si allontanò dal fianco di suo padre, e cercò di vedere il più possibile, cercando sempre di restare con lo sguardo del padre incollato addosso. Molti Elfi che lo vedevano si inchinavano, salutandolo e sorridendo, e Legolas rispondeva sempre, rispettando le regole della cortesia che Voronwen, suo padre e suo nonno gli avevano insegnato.
 Più di una volta, quegli stessi Elfi andarono a salutare anche Thranduil, e si complimentarono anche del comportamento di Legolas. Il principe era felice che il figlio si stesse comportando bene, ma non lo diede troppo a vedere. Legolas, dal canto suo, aveva voglia di dare un’occhiata anche dall’alto, così si arrampicò sopra ad un albero non troppo alto.
Ne scelse uno con molti rami in fondo, in modo da poterci poggiare i piedi. Quando fu ad una buona altezza, si guardò intorno, scrutando in mezzo alle foglie e guardando il sole che filtrava attraverso le fronde degli alberi.
 Thranduil lo lasciò fare, in fondo era stato bravo ad arrampicarsi e non rischiava di cadere, ma dopo un quarto d’ora circa decise che era ora di farlo scendere. Perciò si avvicinò all'’albero e tese le braccia: “Legolas, scendi dall’albero, su”. Ma il principino stava bene, seduto su un ramo alto a piuttosto spesso: “Ma sto cos’ bene quassù. Ti prego, fammi restare ancora qualche minuto”. E, per sottolineare il concetto, abbracciò una parte del tronco dell’albero. Thranduil strinse gli occhi: “Legolas, mi avevi promesso che mi avresti ascoltato. Scendi dall’albero”.
 L’ultima frase sembrava molto un ordine e Legolas, più intimorito che altro, provò a scendere. Ma poi arrossì e, guardando il padre, disse: “Ada, non so scendere”. Thranduil, a sentire quelle parole, per poco non scoppiò a ridere.
Scosse la testa, con un sorriso sulle labbra, e salì sui primi rami bassi della pianta, quel tanto che bastava per recuperare Legolas dal ramo si cui era seduto. Il bambino gli saltò in braccio e assieme tornarono con i piedi per terra. Quando Thranduil mise giù il figlio, gli disse: “Direi che è ora di lasciare la città, si sta facendo tardi e abbiamo passato quasi tutta la mattina qui. Vieni con me, ti faccio vedere un posto speciale”.
Dopodiché si avviò, a passo lento per permettere al figlio di stargli dietro. Aveva intenzione di portarlo in una radura, ma non in una radura qualsiasi. Quando finalmente giunsero a destinazione, Legolas spalancò gli occhi, come a volerli empire dello spettacolo che vedeva.
Due alberi davvero alti piegavano i loro rami come a formare un arco naturale, e le foglie sembravano quasi delle verdi tende sottili. La radura era perfettamente circolare, e delicati fiori spuntavano tra l’erba soffice. “Questo posto è completamente naturale, nessun Elfo ci ha mai messo mano. Si è formato da solo, con il passare del tempo. Tu stai vedendo questa radura com’è ora, ma quando sarai più grande ti porterò qui durante la notte della Mereth-en-Gilith. Durante la Festa della Luce delle Stelle, infatti, i fiori colorati sono tutti chiusi, mentre sbocciano solamente dei piccoli fiorellini del colore delle stelle, e l’erba è un tappeto d’argento. È proprio qui, al centro della radura, dove noi ora ci troviamo, che rivelai a tua madre tutto l’amore che provavo per lei. Questo posto mi ispira malinconia e tristezza, perché mi fa tornare alla mente la mia bellissima Vendë, ma allo stesso tempo anche allegria e tranquillità, perché è qui che ognuno ha aperto il suo cuore all'’altro. È questo il motivo per cui ho voluto mostrarti la Land en Gilith”.
 Legolas aveva ascoltato tutto il discorso, bevendosi ogni singola parola: “La Radura delle Stelle”, mormorò, esplorando quel luogo incantato e pieno di pace. Gli vennero le lacrime agli occhi, non sapeva se di felicità per aver visto la radura, o di tristezza, per aver scoperto che anche lì c’era stata sua madre.
Si fermò proprio al centro, sollevando lo sguardo sull’ampia parte di cielo azzurro che le fronde permettevano di vedere. A Legolas piaceva quel colore, il colore che simboleggiava l’infinito del cielo. Mentre osservava attento, Thranduil si avvicinò e lo abbracciò, percependo i pensieri che vagavano per la giovanissima mente del figlio. “Se non vuoi tornarci più, dimmelo”, disse all'’improvviso il bambino, continuando a guardare in alto. Thranduil restò in silenzio. “Ho capito che la Land en Gilith ti ricorda la mamma, e per questo sei diventato triste. Non ci rimarrò male. Non devo tornare qui assieme a me, se ti senti così”.
 Il principe rimase sorpreso da quelle parole: suo figlio aveva capito molto di più di quello che Thranduil aveva lasciato intendere e, sebbene avesse affermato che quel luogo gli infondeva anche allegria e tranquillità, la realtà era che la vista della Radura delle Stelle era sempre un dolore per il principe.
Tuttavia, per garantire al figlio di vederla almeno durante la Mereth-en-Gilith, rispose: “Non devi preoccuparti. Non mi dispiace rivedere la Land en Gilith, e ti ci porterò di nuovo, in futuro”. Legolas abbassò la testa e sorrise al padre: “Va bene, ma ora andiamo via. Ho voglia di vedere qualcosa di più”. Thranduil acconsentì e, prendendo di nuovo per mano Legolas, lo condusse attraverso le fronde di numerosi alberi, mostrando al figlio i sentieri, sia visibili che invisibili, utilizzati dagli Elfi.
Legolas cercava di memorizzarne pi che poté, ma quando ripresero la via per le Sale ne ricordava solamente un piccolo numero. “Sei stato bravo, oggi”, disse all'’improvviso Thranduil. “Forse, qualche giorno, potrai uscire anche in compagnia di qualche guardia del palazzo”. “Dici davvero?”, disse Legolas, felice. “Si, ma solo se ti comporterai bene. E se non ti arrampicherai sugli alberi finché non impari a scendere”. Il bambino ridacchiò, annuendo.
 Thranduil gli regalò un ultimo sorriso, poi assieme attesero che i portali venissero aperti e rientrarono nel Reame Boscoso, con l’aria di aver passato una giornata splendida e rilassante. 

Vi prego di non inviare i Cavalieri Neri a catturarmi per portarmi a Mordor se il capitolo è così cortino. Qui ho voluto descrivere la prima uscita nel bosco di Legolas e, sebbene ci sia poco spazio per le sue riflessioni e sentimenti, tutto vi sarò spiegato nel prossimo capitolo. Prima di ringraziare, vorrei mettere in chiaro alcune cose: "Eryn Galen" è il nome Sindarin di Boscoverde il Grande e "Taurduin" è il nome Sindarin del Fiume della Foresta, entrambi nomi creati da Tolkien. "Land en Gilith", invece, è un nome da me creato apposta per la storia utilizzando il Sindarin. Bene, ora posso ringraziare:

1) tutti i lettori silenziosi
2) LokiLove, Chiaretta_6, ewan91 ed Elenwen per le recensioni
3) Elenwen, fredfredina, letizia2002, LokiLove e nadivolraissa per aver aggiunto la storia alle preferite
4) Chiaretta_6, Elenwen, ewan91, Medea_96 e nadivolraissa per aver aggiunto la storia alle seguite
5) Elenwen, nadivolraissa e Satana1 per aver aggiunto la storia alle ricordate
6) tutti quanti quelli che sono finiti qui per sbaglio e sono arrivati fino in fondo ;)

Bene, non c'èpiù altro da dire. Alla prossima


Hannon le

ElenCelebrindal
 

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Capitolo 5
*** Il tempo trascorre veloce ***


Mae govannen, mellonea nîn

Legolas raccontò molte volte la gita che aveva fatto nel bosco a Voronwen, non tralasciando nessun particolare, descrivendo tutte le sensazioni che aveva provato. “Mi sono sentito bene, all'’aria aperta. Più libero e felice. Sentivo di meno il peso di dover stare sempre chiuso in queste sale. La città ha scatenato in me emozioni contrastanti, ma tutte positive, mentre la Land en Gilith mi ha fatto sentire davvero strano, come se accanto all'’allegria si accostava una grande tristezza”. L’ancella ascoltava sempre quello che il principino aveva da dire, e spesso commentava anche le cose che aveva già sentito molte volte. Sapeva che era un modo per permettere a Legolas di imparare a parlare ancor meglio di quanto già sapeva, ed era un allenamento divertente. Da quella gita nel bosco, però, Legolas non era più uscito dalle sale del Reame. Thranduil si era ritrovato ancor più impegnato di prima, per aiutare Oropher e allo stesso tempo essere aiutato, e l’Elfo era ancora troppo piccolo perché suo padre gli desse il permesso di uscire assieme a una delle guardie.
Giorni, settimane, mesi. Il tempo scorreva rapido, a Eryn Galen, e Legolas cresceva a vista d’occhio. A sei anni era già alto il doppio e la sua forza era aumentata. I capelli ora scendevano in una leggera cascata bionda sulle spalle. A sette anni Legolas, sotto ordine di Oropher, dovette cominciare a studiare, per apprendere tutti gli eventi di Arda, da quelli positivi a quelli negativi. Ogni giorno doveva studiare sei ore assieme ad un maestro, che ogni giorno sceglieva argomenti differenti e mano a mano più difficili. Ma Legolas aveva buona memoria, e imparare gli piaceva, tanto che spesso si recava nella biblioteca del palazzo e si chiudeva lì dentro a leggere, rifiutando di vedere chiunque che non fosse suo padre o suo nonno. Thranduil era fiero del figlio e, anche se non poteva passare molto tempo in sua compagnia, spesso gli lasciava, a sua insaputa, dei piccoli doni (un dolce, oppure un libro o cose simili). Erano doni irrisori, ma Legolas li apprezzava comunque, immaginando chi li metteva nei posti dove era solito recarsi.
Altri tre anni trascorsero in quel modo e, tre mesi dopo il decimo compleanno del figlio, Thranduil decise che era ora di fargli il dono che aveva tanto atteso. Un giorno, Legolas si svegliò nella sua nuova stanza e, in un angolo, poggiati al muro, c’erano un arco di piccole dimensioni e una faretra piena di frecce dall’impennaggio verde. Il bambino osservò strabiliato quelle splendide armi, indeciso se prenderle oppure no. Ma alla fine la curiosità ebbe la meglio e Legolas, alzatosi dal letto, si avvicinò. Toccò con indecisione il legno scuro dell’arco, poi si convinse e lo afferrò, osservandolo più da vicino. La corda era molto sottile ma, quando provò a tirarla, quella si tese pochissimo prima di tornare al suo posto. Era difficile da tendere per Legolas, che ancora non aveva la forza adatta. Il bambino posò l’arco e spostò la sua attenzione sulle frecce, prendendone una in mano. L’asta era di legno scuro, mentre verso la punta il legno sembrava quasi fondersi con il metallo, che formava una punta acuminata. L’impennaggio era verde, simile alle foglie degli alberi. Legolas aveva rivisitato il bosco solamente altre tre volte, in compagnia di Galion, una delle guardie reali, ma aveva già imparato a conoscerlo. Con un sospiro, rimise la freccia nella faretra e, dopo essersi fatto un bagno, indossò degli abiti comodi. Mentre indossava la tunica, qualcuno bussò alla porta. Legolas riconobbe subito chi si trovava dall’altro lato. “Sai che non hai bisogno di bussare, ada”, disse, mentre suo padre apriva la porta e se la richiudeva alle spalle. “Pensavo che tu fossi con nonno Oropher”, osservò l’attento Legolas. Thranduil sorrise: “Sono scappato per qualche minuto”. Spostò lo sguardo verso l’angolo della stanza, dove c’erano arco e faretra: “Bene, constato con piacere che hai visto l’arco che ti ho lasciato stamattina”, disse. “Avevo immaginato che fosse stata opera tua. Ma…”. Thranduil non lasciò finire la frase al figlio: “Ma ancora non riesci a usarlo. Lo so, anche io ho dovuto aspettare di crescere ancora per tendere un arco per la prima volta. Tu non sei nemmeno un ragazzino, e non lo sarai prima di aver compiuto cinquant’anni. Ma ti ho donato subito quelle armi perché desidero che tu non studi solamente sui libri, chiuso qui dentro. Desidero che tu cominci ad allenarti sul serio. Non proprio alla battaglia. Sei ancora un bambino, e so che hai voglia di giocare. Non mentire a te stesso rinchiudendoti in biblioteca e stando chino sui libri. Esci da qui, e torna a giocare. Nessun bambino della tua età dovrebbe fare certe cose. Lascia stare il nonno e ascolta me. Trovati una guardia, esci dalle sale e fai un giro per la foresta. Impara ad arrampicarti sugli alberi e a scendere. Ho già parlato con il tuo maestro, ed è d’accordo con me. Esci da qui. È un ordine”. Legolas era rimasto stupito dalle parole del padre, perché sapeva che erano vere. Il piccolo Elfo aveva una gran voglia di correre e giocare, ma temeva che non glielo avrebbero permesso a causa del suo rango. Ora, però, capiva che non poteva davvero restare rinchiuso come se fosse già un adulto. “Hai ragione, ada. Vado a cercare Galion, magari ha voglia di uscire!”, esclamò Legolas, correndo fuori dalla porta dopo aver dato un bacio a suo padre. Thranduil sorrise, ma poi pensò che, quella sera, si sarebbe dovuto sorbire una bella ramanzina da Oropher e, ricordando  che doveva già trovarsi nella sala del trono, corse via. Legolas, intanto, era arrivato nelle cantine, dove sapeva che avrebbe trovato Galion. L’Elfo, infatti, era lì, e lo salutò: “Suilad, Legolas. Mankoi naa le sinome?” (Salve, Legolas. Perché sei qui?). Legolas si avvicinò e, facendo gli occhioni dolci, disse: “Ti andrebbe di accompagnarmi nel bosco? Mio padre mi ha letteralmente ordinato di uscire e io ho bisogno di qualcuno che mi accompagni”. Galion, pur pensando di rifiutare, di fronte all'’espressione di Legolas non seppe dire di no: “E va bene. quanto vorresti restare fuori?”, cedette. “Kinta sin”, rispose Legolas. Quattro ore gli sembravano sufficienti, e così Oropher non si sarebbe adirato troppo con Thranduil. Galion annuì: “Allora non perdiamo tempo e usciamo”. Legolas lo afferrò per la tunica: “Galion, ti prego, usciamo per una porta secondaria”. La guardia lo fissò, meditando sulle parole appena sentite, poi alzò le spalle e disse: “Va bene, ma se poi ci mettiamo nei guai io non ne voglio sapere niente. So che parlare così al figlio del principe non è consigliabile, ma dovevo dirtelo”. “Non preoccuparti, nessuno ti incolperà di niente. Ti ho chiesto io di evitare i portali principali, no?”, ribatté Legolas, cominciando a trascinare Galion su per le scale. Quando furono all'’aperto, Legolas inspirò a pieni polmoni. Era troppo tempo che restava chiuso dentro, e adesso cominciava a capire quanto gli fosse mancato camminare tra gli alberi. Quando arrivò in una piccola radura, con Galion sempre a controllarlo, gli venne un’idea. Raccolse un buon numero di fiori, tutti di colori splendidi, e utilizzando anche dei lunghi fili d’erba, cominciò a intrecciare una corona. Ogni tanto sbagliava e doveva rifare un pezzo, ma la sua abilità era migliorata non poco e, dopo un’ora buona di lavoro, aveva creato una corona fatta di tantissimi fiori, grandi e piccoli, intrecciata. Il verde dell’erba si intravedeva attraverso la fitta rete di colori e i ramoscelli che aveva usato come guida erano invisibili. Legolas decise che la sera stessa l’avrebbe data a suo padre, per ringraziarlo di quella piccola uscita. La affidò a Galion e poi cominciò ad allenarsi a salire sugli alberi e a scendere. I primi tentativi furono più o meno un disastro. Sapeva arrampicarsi, ma solo fino a un certo punto, e poi non riusciva più a scendere. Tanto che Galion dovette salire a recuperarlo più di una volta. Dopo due ore, però, Legolas già riusciva ad arrivare più in alto ed era capace di scendere, se l’albero aveva molti rami da usare come appoggio. Un paio di volte rischiò anche di cadere, e Galion era dovuto correre sotto gli alberi dove si trovava per impedirgli di farsi male. “Ah Valar, Legolas, stai più attento, eglerio” (Oh Valar […] ti prego), disse quando il bambino cadde sul serio. Galion era riuscito ad afferrarlo al volo, fortunatamente, e Legolas si scusò: “Si, scusa. Ora basta arrampicarsi, ci è rimasto poco tempo e io ho voglia di divertirmi. Perché non provi a prendermi?”, disse, quando Galion lo rimise a terra. L’Elfo lo guardò per qualche secondo, poi esclamò: “Allora è meglio se cominci a correre, perché non sono lento nella corsa”. Legolas scappò, zigzagando tra gli alberi, ma seguendo solamente i sentieri tracciati che ricordava. Galion gli era alle calcagna, ma decise di dargli un po’ di vantaggio, prima di raggiungerlo. Aveva capito che quel gioco serviva anche per allenare il principino, e non aveva certo intenzione di ostacolarlo. A dire il vero, non aveva intenzione di sorbirsi un rimprovero di Thranduil, ma non l’avrebbe mai detto ad alta voce. Dopo un po’, però, Galion dovette prenderlo per forza. Lo raggiunse e lo agguantò per l’orlo della tunica: “Hai perso!”, esclamò. “Però per un tratto sono riuscito a correre più veloce di te”, replicò Legolas, scostandosi i capelli dalla faccia. Galion lo accontentò: “Si, sei stato davvero veloce. Ma ora dobbiamo tornare alle sale del Reame, le quattro ore sono scadute, ormai”, disse poi, tornando serio. Legolas mise il broncio, ma era stato lui a dire a Galion di restare fuori solo quattro ore, quindi non ribatté nulla. I due rientrarono dalla stessa porta da dove erano usciti e Legolas corse a rifugiarsi in camera sua, dopo essersi fatto restituire la corona di fiori che aveva fabbricato. L’ora del pranzo era vicina, ma Legolas non aveva molta voglia di uscire da quella stanza. Temeva che qualcuno si sarebbe adirato con lui per essere uscito, invece di studiare. Non aveva paura del suo maestro, che sapeva tutto, ma di Oropher. Suo nonno non sarebbe stato d’accordo, e Legolas era certo che si sarebbe arrabbiato con Thranduil. Ma alla fine la fame vinse su tutto e si diresse, cautamente, alla sala da pranzo riservata alle persone importanti di Boscoverde. Si fermò, prima di scendere le scale che portavano lì, perché udì delle voci familiari. Suo padre e suo nonno stavano decisamente litigando. “Legolas è solo un bambino, non puoi pensare che stia tutti i giorni a studiare! So bene che un giorno diventerà principe, e magari anche re, ma adesso devi lasciarlo giocare, devi lasciarlo libero!”. Thranduil stava per perdere tutta la sua dignità di principe, cercando di trattenere la rabbia. Anche Oropher era nelle stesse condizioni: “Non dire a me cosa devo fare, Thranduil! È abbastanza grande per imparare tutto quel che può su Arda, non ha senso rimandare la sua istruzione!”. A quel punto Thranduil perse davvero la pazienza, e si mise a urlare: “Adar, è solamente un bambino! Prima di cominciare a istruirlo in quel modo, attendi almeno che raggiunga i cinquant’anni, fallo diventare più grande! Ha diritto anche lui di vivere un’infanzia degna di essere chiamata tale! È per questo che oggi l’ho fatto uscire, non puoi tenerlo sempre rinchiuso qui dentro! Non mi ha mai detto nulla, ma capisco che non si sente a suo agio, senza poter uscire, senza poter correre spensierato tra gli alberi come tutti i bambini che vivono qui. Devi capirlo, questo. E sai benissimo che anche il gioco è un allenamento, può imparare molte cose anche giocando, da solo o in compagnia!”. Oropher non parlò per qualche minuto, e Legolas pensò che forse era rimasto davvero impressionato dal discorso di suo padre, ma quando la sua voce tornò a udirsi, sembrava a stento controllata: “E va bene, Legolas sarà lasciato in pace, per adesso. Ma tu hai mancato di rispetto non solo a tuo padre, ma anche al tuo re, disubbidendo ai miei ordini”. Legolas si avvicinò per avere una visuale di ciò che stava accadendo. Vide solo Oropher che faceva un cenno, e due guardie che afferravano suo padre per le braccia. “Per questo motivo, passerai tutto il giorno a tutta la notte rinchiuso in una delle prigioni del palazzo. Portatelo via!”, concluse, sedendosi su di uno scranno. Le guardie trascinarono via Thranduil, che urlava contro il padre: “Come puoi fare una cosa del genere a tuo figlio? Amin delotha le, aran Oropher!” (Ti odio, re Oropher!). Legolas, a quel punto, uscì dal suo nascondiglio: “Mankoi le uma tanya? Ada voleva solo che io fossi più felice! Non ha fatto del male a nessuno! Le faeg!” (Perché lo hai fatto? […] Sei cattivo!). Oropher non seppe rispondere, e rimase in silenzio. Legolas, piangendo sia di rabbia che di tristezza, lasciò quella sala, facendosi portare qualcosa nella sua stanza. Quella sera stessa, quando fu sicuro che Oropher si fosse già ritirato nelle sue stanze, Legolas uscì e si diresse alle segrete del Reame Boscoso, intenzionato a vedere il padre. Non poteva sopportare che il nonno l’avesse rinchiuso solo perché aveva cercato di fare qualcosa di buono per suo figlio. Capì che era giunto alla cella dove era chiuso Thranduil quando notò un paio di guardie che si appoggiavano alle loro lance, annoiate. Una delle due notò Legolas e disse: “Fermo dove sei. Nessuno ha il permesso di vedere il principe, e tantomeno tu. Gwao hi” (Vai ora). Ma Legolas non si mosse: “Non m’importa niente degli ordini che il re vi ha dato, non andrò via di qui fino a che non mi lascerete vedere mio padre”. “Aspetterai domattina, neth cund” (giovane principe), replicò l’altra, sollevando la lancia. Ma il bambino ignorò di nuovo quelle parole: “Non ho alcuna intenzione di aspettare fino a domattina. Resterò qui tutta la notte, se necessario”. Quando udì quelle parole, fu Thranduil a parlare: “Non fare lo sciocco, Legolas. Ascolta le guardie e vai via, non metterti nei guai, iôn nîn. Ci vedremo domani”. “Chi mi assicura che ci vedremo sul serio? Nonno potrebbe anche vietarti di stare con me, lui è cattivo!”, esclamò a quel punto Legolas, sentendo le prime lacrime cominciare a salire agli occhi. Thranduil non rispose, sapeva bene che quella non era un’eventualità da scartare. Oropher sapeva essere molto severo, se la sua rabbia veniva fuori. Le guardie assistettero a quello scambio di battute in silenzio ma, quando la testa di Legolas cominciava a ciondolare dal sonno, una di loro disse: “E va bene. Ma solo qualche minuto, chiaro?”. Il bambino sollevò la testa: “Qualche minuto mi basta”, disse, e corse verso la cella del padre. Le sbarre che li separavano erano quasi un dolore fisico per il piccolo, che cominciò a piangere sommessamente. Faceva male vedere Thranduil imprigionato, non gli sembrava naturale. Questi, capendo i pensieri del figlio, tese una mano e afferrò quella del bambino, parlandogli con la mente: “Lasto beth nîn  pith , mîr nîn. Non temere che Oropher possa separarci. Anche se mi ordinerà di starti lontano, io cercherò sempre di ritrovarti, non ti lascerò mai solo. Ho fatto una promessa, tempo fa, e intendo mantenerla” (Ascolta le mie parole, gioiello mio). Legolas smise di piangere: “Davvero?”. “Davvero”, rispose Thranduil. “Gwao hi, eglerio” (Vai ora, ti prego), disse poi, lasciandogli la mano e ritirandosi in fondo alla cella. Legolas si passò la manica della tunica sulle guance, per asciugarle, e senza degnare di un solo sguardo le guardie fece ritorno nella sua stanza.
Durante le settimane che seguirono, i timori sia di Legolas che di Thranduil si avverarono. Oropher ordinò a Thranduil di restare sempre assieme a lui e Legolas veniva sempre più spesso spedito fuori, oppure, se restava dentro, aveva il divieto di disturbare re e principe, per qualsivoglia motivo. Thranduil divenne malinconico, e Legolas raramente sorrideva. Non gli capitava nemmeno quando giocava in compagnia degli altri bambini elfici della città fuori delle Sale, che sempre più spesso si chiedevano perché il principino fosse sempre triste.
Quella situazione persistette per due anni, al punto che Legolas e Thranduil avevano quasi dimenticato come si faceva a piegare le labbra in un sorriso non forzato. Alla fine Thranduil, stanco della situazione, disertò gli ordini del re e, una mattina, piombò nella stanza di Legolas come un uragano, svegliandolo e gettandogli dei vestiti da indossare: “Vestiti in fretta, oggi usciamo insieme. Non mi importa degli ordini di Oropher, può anche gettarmi per sempre nelle sue prigioni”. Il bambino non se lo fece ripetere e, non appena fu pronto, Thranduil gli afferrò la mano e quasi lo trascinò fino all'’entrata principale, ordinando di aprire i portali. Solo quando furono a distanza di sicurezza, Legolas venne lasciato andare. Per la prima volta dopo tanto tempo, la risata di padre e figlio tornò a risuonare tra gli alberi, svelando tutto l’affetto che provavano.
Thranduil abbracciò suo figlio, quasi piangendo di gioia, e Legolas ricambiò. Poi disse: “Nonno Oropher si arrabbierà, quando scoprirà cos’è successo”. “Lo so”, rispose il padre, “Ma non importa, te l’ho detto. Non può separarmi da te, non ci riuscirà mai”. “Se proverà a rinchiuderti di nuovo, allora dovrà imprigionarmi insieme a te, perché neanche io mi separerò mai da te, ada nîn”, disse Legolas, zittendo ogni possibile protesta del padre. Quel giorno fu uno dei più felici mai vissuti da Legolas ma, quando scese la sera, padre e figlio non avevano altra scelta che fare ritorno alle Sale, e temevano l’ira di Oropher. Dopo qualche esitazione, si fecero coraggio a vicenda e rientrarono. Quando arrivarono nelle vicinanze della sala del trono, però, non fecero molta strada che sentirono la voce di Oropher: “Legolas, gwao hi. Thranduil, tolo si” (Vieni qui). Sembrava calmo, ma non si poteva mai sapere, con il re degli Elfi. Oropher era seduto sul trono, e osservava Thranduil dall’alto in basso, con un’espressione indecifrabile negli occhi. Legolas era rimasto nascosto, in modo da non farsi vedere ma, allo stesso tempo, da avere una visuale pressoché perfetta di cosa succedeva.
Re e principe rimasero a fissarsi in silenzio per qualche minuto, poi Oropher, lentamente, si alzò e scese dal trono, avvicinandosi al figlio. Thranduil lo vide solo alzare una mano, prima di sentire il dolore. Lo schiaffo fu talmente forte che il principe barcollò all'’indietro, e dovette appoggiarsi per non cadere. Legolas guardò preoccupato e spaventato suo padre, che si stava passando una mano sul volto, là dove si era arrossato per il colpo ricevuto. Oropher guardò il figlio con sguardo duro, prima di addolcire l’espressione e dire: “So perché l’hai fatto. Ci ho pensato, oggi, e ho capito che non avrei dovuto impedire a te e tuo figlio di vedervi. Ma ciò non toglie che il tuo gesto è stato offensivo nei miei confronti. Dovrei rinchiuderti di nuovo nelle segrete, e lasciarti lì per almeno qualche anno”. “Han iston” (Lo so), disse sottovoce Thranduil. “Tuttavia non lo farò”. Il principe alzò la testa, con la sorpresa negli occhi. Oropher continuò: “Mi rendo conto di aver esagerato, tempo fa, e mi dispiace molto. Avevi ragione, un padre non può fare una cosa del genere a suo figlio. Gerich faer vara, mellen iôn nîn. Hai avuto il coraggio di sfidarmi nuovamente, per amore di tuo figlio. Ma Legolas è anche mio nipote, e anche per lui, ho capito, è stato un duro colpo ciò che avevo ordinato. Perciò, da questo momento in poi, dimentica ciò che ho detto e passa con Legolas più tempo che puoi. E possiate entrambi perdonarmi” (Il tuo spirito è fiero, amato figlio mio). Thranduil, cercando di celare il dolore, rispose: “Ú-moe edaved, adar” (Non c’è nulla da perdonare, padre). Perché l’aveva già perdonato. Oropher, però, tornò serio: “Ciò non toglie che sarai punito, per aver infranto per la seconda volta i miei ordini. Mi dispiace, ma non posso passarci sopra”.
Al che, Legolas uscì dal suo nascondiglio e, mettendosi davanti al padre con fare difensivo, esclamò, cercando di essere risoluto: “Allora dovrai punire anche me, perché anche io ho disubbidito al tuo ordine di non vedere ada”. La sua voce tremava, ma nel suo sguardo c’era talmente tanta convinzione che Oropher ne rimase colpito. Thranduil cercò di metterlo da parte, ma non ci riuscì, tanto il figlio era ostinato. Il re lo osservò e decise. Legolas aveva un po’ paura del buio, meno di quanta ne aveva prima, ma sufficiente a spaventarlo se si ritrovava solo in luoghi senza luce. Perciò Oropher disse: “Legolas, aphado nîn. Thranduil, idh si” (Legolas, seguimi. Thranduil, aspetta qui). Legolas seguì suo nonno per corridoi che non ricordava molto bene e, dopo rampe di scale che sembravano infinite, finalmente Oropher si fermò, di fronte a una porta chiusa. “Sei ancora risoluto a scontare tu stesso una punizione?”, domandò il re al nipote, che osservava quella porta con apprensione. “Na!” (Si!), rispose il bambino. “Allora affronta la tua paura. Devi entrare qui e restarci, fino a domani a quest’ora. Potrai uscire solo in casi di emergenza”.
Oropher aprì la porta e Legolas fu quasi tentato di scappare e rimangiarsi la parola data. L’interno della stanza era più buio della notte stessa, perché era una delle camere più sotterranee e le lampade erano spente e fredde. Legolas ricordò i terribili incubi che aveva avuto, dove veniva inghiottito dalle tenebre per non uscirne più. Affronta la paura, aveva detto Oropher. “Lo farò. Ada non può subire tutte le conseguenze”, si disse il bambino, anche se tremava. Mosse un primo passo, poi un altro. Dopo otto passi era sulla soglia. Sentì una spinta dietro la schiena e piombò nel buio, mentre la porta alle sue spalle si richiudeva e la serratura scattava. Il piccolo Elfo non vedeva praticamente nulla. Si rannicchiò dov’era e chiuse gli occhi, cercando di immaginare di trovarsi in un luogo soleggiato e all'’aperto. Sperava che quella paura insulsa sarebbe sparita, più avanti, ma in quel momento non pensava ad altro che a non pensare di trovarsi in quel posto. Se apriva gli occhi, vedeva ovunque cose spaventose, personaggi che volevano fargli del male e animali che stavano per assalirlo. Thranduil non se la passava meglio. Oropher l’aveva praticamente rinchiuso in biblioteca e gli aveva ordinato di rimettere a posto ogni singolo libro in ordine alfabetico. E, considerando che i libri presenti erano più di mille, era un compito arduo e stancante, che avrebbe messo a dura prova la resistenza di Thranduil. Non era molto paziente, il principe di Eryn Galen. “Entro domani a quest’ora li voglio tutti in ordine perfetto. Potrai uscire solo per emergenze”. Dopodiché il re si recò alle sue stanze.
Forse, a chiunque quelle punizioni sarebbero sembrate gentili, ma Oropher conosceva bene figlio e nipote, e sapeva che certe cose non le sopportavano. Ma d’altronde, avevano avuto ragione entrambi. Che diritto aveva lui di separarli? Per quel motivo, per gli anni che seguirono, smise di imporre ordini che potessero minare il legame che li univa e, con questo nuovo andamento della sua vita, Legolas crebbe, divenendo più forte e agile di quanto già non fosse.
Aveva quarantacinque anni, quando Thranduil ritenne che era giunta l’ora di insegnare il tiro con l’arco al figlio. Un giorno d’estate, dopo pranzo, Legolas venne fermato da suo padre, che gli disse: “Fra dieci minuti vieni alla radura dove si tengono gli allenamenti di tiro con l’arco. Ti aspetto lì”. Quindi il principe sparì, camminando rapido. Legolas, capendo quello che il padre aveva in serbo per lui, corse alla propria stanza e, indossati in fretta e furia degli abiti adatti, recuperò arco e faretra, rimasti inutilizzati per tanto tempo, eppur senza un filo di polvere a ricoprirli, e si recò alla zona stabilita in poco tempo, percorrendo di corsa i vari corridoi delle Sale e arrivando puntualissimo. Non c’era nessuno ad allenarsi, e il luogo era deserto. Legolas immaginò che si trattasse di una richiesta del padre, quell’assenza strana di Elfi, ma non espose la sua teoria ad alta voce, perché Thranduil si stava avvicinando. Anche lui aveva un arco in mano, sebbene più lungo di quello di Legolas, e una faretra colma di frecce in spalla. Raramente il principino l’aveva visto impugnare un arco, ma sapeva che era un tiratore eccezionale, oltre che un’abile combattente con la spada. “Ada, sono felice che tu voglia insegnarmi a tirare con l’arco. Pensavo che l’avresti chiesto a qualcuno dei maestri”, disse Legolas, mentre si avvicinava. Thranduil sorrise: “Forse più in là, ma i primi tiri che farai li voglio vedere io. Non posso lasciare questo compito a qualcun altro”, replicò, abbassando gli occhi per inchiodarli a quelli del figlio. Quest’ultimo diede un’occhiata al luogo in cui si trovavano. Sebbene conoscesse la sua ubicazione, non ci era mai stato prima d’ora, perché gli Elfi che stavano assieme a lui quando lo ritenevano un posto pericoloso per un bambino. Ma ora Legolas era un ragazzino e secondo gli standard elfici era già pronto per impugnare un arco.
Naturalmente, non sarebbe sceso in battaglia fino a dopo l’adolescenza, ma tra gli Elfi prima si imparava, meglio era. Era un luogo abbastanza tranquillo, se non c’era nessuno. L’area adibita per gli allenamenti era circondata da un recinto di legno intagliato, messo a distanza di sicurezza, ovvero dove le frecce non sarebbero mai arrivate. Ciò significava che la zona era molto estesa. Tuttavia, non era completamente una radura e molti alberi crescevano qua e là, alternati a grossi cespugli e piante rampicanti. Ottimi nascondigli, pensò Legolas. I bersagli erano numerosi, alcuni appesi agli alberi, altri a terra, ed erano di dimensioni differenti. Dai più grandi, grossi più di uno scudo, a quelli più piccoli, minuti come una mela. “Legolas?”, lo chiamò Thranduil. Il ragazzino smise di scrutare in giro e si avvicinò al padre, che si trovava a poca distanza da uno dei bersagli più grandi. “Comincerai con questo. Quando sarai in grado di colpire il centro da questa distanza, potrai allontanarti, e mano a mano procedere con dei bersagli più piccoli. Ma prima, fammi vedere come tendi l’arco”, disse il principe. Legolas prese l’arco, incoccò una freccia e provò a tendere la corda. Questa era molto dura, e ci volle qualche sforzo per tenderla bene.
Thranduil afferrò le  mani del figlio e, delicatamente, sistemò la sinistra, che impugnava l’arco, più in alto sul legno e la destra la spostò, fino a portarla fino alla guancia del piccolo Elfo, a cui tremavano le braccia per lo sforzo di tenere tesa l’arma. “Stai attento alla posizione di braccia e mani, e sistema anche i piedi”, lo istruiva il principe. Poi, quando fu soddisfatto e Legolas stava per mollare la presa, disse: “Bene, ora prendi la mira e scocca”. Legolas cercò di posizionare la freccia in modo che colpisse il centro del bersaglio, ma era difficile e così, quando scoccò, la freccia andò a conficcarsi nel cerchio più esterno. Il ragazzino mise il broncio, deluso da quel risultato: “Uffa”, sbuffò, guardando storto la freccia come se fosse colpa sua. “Coraggio, neanche io ci sono riuscito la prima volta. È impossibile riuscirci al primo colpo”, lo consolò Thranduil, che però cercava di non ridere di fronte all'’espressione del figlio. “Henion” (Ho capito), rispose Legolas. Incoccò un’altra freccia e guardò il padre, chiedendo con gli occhi se andava bene. “Hado i philen, iôn nîn” (Rilascia la freccia, figlio mio), disse Thranduil. E Legolas scoccò. O meglio, ci provò, perché quella volta la freccia non partì.
La corda tornò al suo posto con uno schiocco, ma il dardo cadde semplicemente a terra. Legolas fece saltare lo sguardo un paio di volte dall’arco alla freccia, come se non riuscisse a credere di aver fatto un errore del genere. Era talmente divertente, che stavolta Thranduil non si trattenne e ridacchiò: “Aspetta, ti faccio vedere. Non è difficile tirare con l’arco, devi solo allenarti”. Legolas guardò con attenzione i movimenti del padre, mentre incoccava la freccia  e tendeva la corda.
Quando rilasciò la freccia, quella andò a conficcarsi sibilando esattamente al centro del bersaglio, attraversandolo. “Oh, non avevo considerato che da questa distanza non è consigliabile scoccare frecce del genere”, osservò, mentre Legolas cominciava a ridere. “Ora che hai visto come si, fa, saresti in grado di imitarmi?”, gli domandò Thranduil, quando ebbe recuperato la freccia sue e quella di Legolas. Il principino annuì e ritentò, più e più volte, fino a che i muscoli cominciarono a dolergli in modo insopportabile. Nonostante tutto, però, volle fare un ultimo tentativo e, per fortuna o per abilità, la freccia si conficcò quasi al centro, vibrando. Legolas la guardò per un attimo, sbalordito, poi esclamò: “Almien! Almien! Ci sono riuscito! Hai visto cosa ho fatto, ada? Ho quasi colpito il centro!” (Evviva! Evviva!). “Si, ho visto Legolas. Sei stato bravo”, aggiunse, scompigliando i capelli del figlio e mandandogli la treccia che aveva davanti agli occhi, ridendo. Ancora si allenò, Legolas, e per quattro anni non rinunciò mai, nemmeno per un giorno, a recarsi alla zona d’allenamento, da solo, con il padre oppure con qualche arciere di sentinella. Fu quando Legolas aveva compiuto da pochi mesi cinquant’anni, che accadde l’inevitabile. Era l’anno 3434 della Seconda Era, quando Oropher, venuto a sapere che un grande esercito formato da Elfi e Uomini si stava recando al Cancello Nero di Mordor.
L’Ultima Alleanza era stata formata per sconfiggere una volta per tutte Sauron e riportare la pace su quella terra. Sebbene Oropher non volesse immischiarsi nelle faccende che riguardavano solamente loro, poiché se n’era stato tranquillo nel suo regno a lungo, capì che non ci sarebbe stata la pace, quella vera, fino a che Sauron non fosse stato annientato. Convocò un consiglio e decise che un contingente dell’esercito si sarebbe unito agli Elfi di Lórien. Egli stesso, tuttavia sotto un altro nome, c’era Malgalad, affermò che li avrebbe condotti in battaglia. Anche Thranduil espresse il suo desiderio di unirsi alla battaglia e, quando ricevette il consenso del padre, si affrettò a riferire a Legolas le ultima notizie, mentre l’esercito si preparava. “Non puoi andare in battaglia, ada! E se ti accadesse qualcosa, chi resterà con me? Ti prego, non andare!”.
Legolas disse le ultime parole abbracciando il padre, rifiutandosi di separarsi da lui. L’armatura di Thranduil, però, gli impediva di stargli vicino come avrebbe voluto e il principe se lo scrollò facilmente di dosso. Gli mise le mani sulle spalle e lo fissò dritto negli occhi: “U-osto, iôn nîn. Otheritham sain, avo’ osto” (Non aver paura, figlio mio. Noi li sconfiggeremo, non preoccuparti). Lo tirò a se e lo circondò con le braccia, infondendo in quel contatto tutto l’amore possibile: “Io ritornerò, te lo giuro”, disse, sentendo le calde lacrime del figlio bagnargli la manica della tunica che indossava sotto l’armatura. Quando si separarono, Legolas disse: “Non so quanto durerà questa battaglia, ma io non smetterò mai di aspettarti, non smetterò mai di pensare a te, ada. Né smetterò di pensare al nonno.  Ti dago pan, in Yrch” (Uccideteli tutti, gli Orchi). “Hir nîn, Thranduil”. Un membro dell’esercito era appena entrato nella stanza di Legolas, la cui porta era rimasta aperta. Il principe si voltò, tenendo ancora le mani del figlio. “Tollen i lû, men boe bedin” (È giunto il momento, dobbiamo andare adesso). Thranduil sospirò, ma sapeva di non potersi tirare indietro. D’altronde, aveva insistito lui stesso per seguire l’esercito. Il principe diede un ultimo bacio a Legolas, sulla fronte, poi seguì l’Elfo, mentre il figlio lo guardava, incapace di staccare gli occhi dalla sua schiena fino a che non sparì alla vista.
Solo a quel punto Legolas poté lasciar scendere le lacrime che aveva trattenuto in presenza del padre, per non mostrarsi debole. Ben presto, il viso del ragazzino fu completamente rigato di lacrime, che scendevano silenziose. Il principino non si mosse, restando fermo dove si trovava a fissare il punto dove suo padre era scomparso. Era andato via, in guerra, e Legolas non sapeva se l’avrebbe mai più rivisto vivo. 

Ed eccomi di ritorno dalla Terra di Mezzo, finalmente! Devo dire che Lothlòrien è molto bella di questi tempi... Ma basta divagare! Sono qui per un motivo preciso, che è quello di presentarvi il nuovo capitolo. Vi dirò la verità, da buona Elfa che sono: ho scritto questa miseria di capitolo in non so quanti giorni e, considerando che è davvero corto... beh, fate un po' voi ^^'
Cooomunque, mettendo da parte i miei deliri incomprensibili, direi che non ho nullada aggiungere, se non i soliti ringraziamenti:


1) tutti i lettori silenziosi
2) Elenwen per le recensioni (ringrazio anche eventuali recensori che ancora non si sono fatti avanti, per non incorrere nelle ire di un Nazgul inferocito)
3) Elenwen, fredfredina, letizia2002, LokiLove e nadivolraissa per aver aggiunto la storia alle preferite
4) Chiaretta_6, Elenwen, ewan91, Medea_96 e nadivolraissa per aver aggiunto la storia alle seguite
5) Elenwen, nadivolraissa e Satana1 per aver aggiunto la storia alle ricordate
6) E naturalmente, ringrazio mio cugino per aver letto qui ^_^ (non ammazzarmi perché ti ho citato, ti prego)

Perfetto, direi che per ora ho finito qui. Al prossimo incontro


Hannon le

ElenCelebrindal
 

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Capitolo 6
*** L'inizio di una nuova vita ***


Mae govannen, mellonea nîn

Legolas rimase immobile nella posizione in cui il padre l’aveva lasciato fino a notte fonda, quando Voronwen, preoccupata per il ragazzino, andò a controllare come si sentiva.
Si allarmò vedendo il principino seduto a terra e immobile, con lo sguardo fisso su un punto che probabilmente neanche vedeva, e corse da lui: “Legolas, cos’hai?”, gli domandò inginocchiandosi davanti a lui. Il ragazzino, sentendo quella voce, scosse la testa e il velo che appannava i suoi occhi si dipanò, e finalmente riuscì a vedere Voronwe dinanzi a lui.
Senza dire una parola, Legolas tese le braccia e la abbracciò.
Solo quando Voronwen lo sollevò o lo fece sedere sul suo letto, parlò: “Ada è andato via, è andato in guerra. E io non so se lo rivedrò più. Ho paura”.
Le lacrime ricominciarono a scorrere sul suo viso ancora umido.
Voronwen gli prese una mano: “Tuo padre è forte, sono certa che tornerà. Non avere paura per lui”, cercò di consolarlo, ma Legolas non voleva ascoltarla.
Voltò la testa dall’altra parte e replicò: “Non puoi esserne sicura. Anche i più grandi guerrieri posso morire. Non smetterò di avere paura per lui fino a che non lo rivedrò qui, ad abbracciarmi e parlarmi. Ora va via, per favore”, disse poi, con un tono che non ammetteva repliche.
Voronwen, sentendo una nota autoritaria nella voce di Legolas, si stupì non poco, ma fece come aveva detto e uscì, lasciando il principino da solo. Legolas, quando l’Elfa scomparve oltre la porta, si avvicinò alla piccola scrivania che si trovava nella stanza e aprì il solo cassetto presente.
Scostò le varie pergamene che ingombravano quel poco spazio e recuperò la corona di fiori che aveva fabbricato per Thranduil anni prima.
Il ragazzino l’aveva quasi dimenticata, ed era rimasta conservata lì dentro per molto tempo.
I fiori che la componevano, però, non erano appassiti, perché raccolti sui prati del Boscoverde.
Legolas la fissò per molto tempo, seduto alla scrivania, e decise che, che il padre fosse tornato vivo o no, quella corona sarebbe stata riservata solamente a lui, così come aveva pensato quando era più piccolo.
La rimise al suo posto e la ricoprì con le pergamene, celandola a occhi indiscreti.
Poi, avvertendo la stanchezza per la prima volta quella sera, andò a coricarsi, cercando di non pensare a nulla.
I giorni, solo nel grande palazzo, trascorrevano lenti, e Legolas sorrideva molto di rado, isolandosi sempre di più. Il pensiero di Thranduil in guerra non lo abbandonava mai, e le sue notti erano costantemente turbate da incubi.
Tuttavia, il ragazzino non interruppe i suoi allenamenti, anzi. Impiegò anima e corpo per diventare già da subito un bravo tiratore con l’arco e salì anche a cavallo, anche se la prima volta cadde quando l’animale scartò di lato troppo velocemente.
Ben presto, Legolas poté passare a bersagli più piccoli e lontani, e la sua forza andò sempre aumentando, fino a che non riuscì a tenere l’arco teso per più di pochi minuti.
Inoltre, vagò sempre più spesso, esplorando molte zone della grande foresta e imparando a conoscerla più a fondo.
Ma mai il suo pensiero dimenticava di rivolgersi alla guerra che si stava svolgendo, e l’ansia di Legolas continuava a crescere giorno per giorno e, quando erano ormai trascorsi sette anni dalla partenza dell’esercito, e Legolas era divenuto più saggio, finalmente le sentinelle di guardia annunciarono che gli Elfi stavano facendo ritorno. Il principino non ebbe occasione di rispondere o di ascoltare altro perché, in quel mentre, si udì la voce di Thranduil: “Kela!” (Vattene), esclamò, con una voce che non sembrava la sua.
L’Elfo si inchinò e uscì, senza voltarsi indietro e chiudendosi la porta alle spalle.
Ma non prima che Legolas ebbe avuto l’occasione di vedere coloro che avevano fatto ritorno, ed erano davvero pochissimi in confronto a quanti erano partiti, sette anni prima.
Ma una cosa notò il ragazzino: “Ada, dov’è il nonno?”, domandò, con voce tremante al padre.
Egli non rispose, ma si avvicinò e, con l’armatura ancora indosso, si inginocchiò davanti al figlio e lo abbracciò, mentre i primi singhiozzi cominciavano a scuoterlo e le lacrime scendevano calde dai suoi occhi, cadendo nei biondi capelli di Legolas.
Il pianto di Thranduil era disperato, più di quanto lo era stato quando era morta sua moglie, più di ogni altro.
Il suo corpo era scosso da tremiti incontrollabili e il principe sembrava fuori di se, cercando di trattenere le urla di dolore che avrebbe voluto lanciare al cielo.
E a quel punto, vedendo Thranduil in quello stato, abbracciato a lui come se fosse la sua ultima speranza di salvezza, Legolas capì.
Oropher era morto.
 
[flashback]
 
Gli eserciti di Uomini ed Elfi si trovavano ora di fronte alle truppe innumerevoli sguinzagliate da Sauron; le fila degli Orchi sembravano non avere fine, e ovunque era oscurità. Gil-galad stava fermo, fiero con la sua lancia, Aiglos, stretta in pungo, e attendeva il momento migliore per dare l’ordine di attaccare, ma Oropher, testardo e orgoglioso com’era, non volle ascoltare gli ordini del re e diede ordine ai suoi guerrieri di assalire subito l’esercito nemico. Nessuno si tirò indietro e, nonostante le proteste di Gil-galad, gli Elfi di Boscoverde partirono all'’assalto, guidati da Oropher, che teneva alta la spada. Lo scontro fu frontale, e gli Orchi subirono molte perdite, ma il vantaggio iniziale fu subito perso. Le fila degli Orchi furono subito ingrossate e molti Elfi caddero sotto i loro colpi. Oropher e Thranduil, padre e figlio, combattevano lontani l’uno dall’altro ma, quando un Orco colpì Oropher, ferendolo a morte, Thranduil lo sentì, quasi come se fosse stato ferito lui al suo posto. Prima che l’Orco potesse dargli il colpo di grazia, Thranduil piombò su di lui e lo trafisse alla gola con la sua spada, e uccise tutti quelli che si trovavano lì attorno. Poi mollò di colpo la sua arma e corse accanto al padre, inginocchiandosi e sollevandolo da terra, in modo da riuscire a guardarsi negli occhi. Thranduil percepiva che la vita stava abbandonando il re, lo vedeva nei suoi occhi che si stavano lentamente spegnendo, ma Oropher trovò la forza di dire ancora poche parole: “Thranduil, iôn nîn, non lasciarti sopraffare dal dolore. Prendi tu il comando, e dì a Legolas che gli ho voluto sempre bene, così come ne ho sempre voluto a te, a te, che sei sempre stato colui che mi ha compreso, che non mi ha mai abbandonato. Prendi il comando, la corona passa a te. Merin sa haryale alasse, aran Thranduil. Im melin le, mellen iôn nîn, galad en chîn nin. Namárië” (Spero che tu possa avere felicità, re Thranduil. Ti voglio bene, amato figlio mio, luce dei miei occhi). Guardò un’ultima volta i chiari occhi di ghiaccio del figlio, poi il buio l’avvolse. Thranduil, piangendo, mormorò: “Ias bedich? Ias bennich? Avo awartha nîn” (Dove stai andando? Dove sei andato? Non abbandonarmi). Poi, incapace di trattenersi ancora, urlò verso il cielo tutto il suo dolore e, presa in pugno la spada di suo padre, si abbattè come una furia contro gli Orchi che stavano mettendo in difficoltà gli ormai suoi guerrieri, cercando in ogni modo di vendicare la morte di suo padre. Oropher, che tanto amava, nonostante il suo carattere, che tanto gli era stato accanto e l’aveva aiutato. Oropher, che prima era e ora non era più.
 
[fine flashback]
 
Il principe, anzi, il re ormai, pianse fino a tarda sera, rifiutandosi di lasciar andare il figlio come se ne andasse della sua stessa vita, e Legolas cercò di fare del suo meglio per consolarlo, per far cessare le lacrime che gli avevano bagnato la tunica e inumidito i capelli.
Il dolore di Thranduil era così profondo che all'’Elfo sembrava di essere stato ferito nel fisico, oltre che nello spirito.
Non poteva, non voleva smettere di piangere, non voleva arginare quella marea di emozioni che sentiva dentro ma Legolas, con le sue carezze leggere e le sue parole di conforto, lentamente riuscì a farlo calmare e, piano piano, i singhiozzi si calmarono e il tremito involontario che lo scuoteva cessò, ma gli occhi non avevano intenzione di asciugarsi, ed erano divenuti rossi e gonfi di pianto.
Quando Thranduil allentò l’abbraccio, Legolas si scostò un poco, per riuscire a vedere gli occhi del padre, e gli passò una mano sulla guancia, asciugando un’altra lacrima che stava scendendo.
Non servivano parole, e non ne esistevano di adatte alla situazione, perciò Legolas, ora principe, si limitò a piantare i suoi occhi in quelli del padre, guardandolo con tutto l’affetto e la comprensione possibili.
Thranduil lo abbracciò nuovamente, stavolta più piano e accarezzandogli teneramente la testa, poi si alzò e, quasi come in trance, si diresse alle sue stanze.
Slacciò le cinghie dell’armatura e la gettò a terra, incurante del fracasso che aveva causato.
Quindi sganciò il fermaglio della cintura e prese in mano la spada che era appartenuta a Oropher, un unico pezzo di metallo lavorato, senza metalli preziosi ad ornarla.
Quasi fosse un oggetto sacro, Thranduil la posò sulla sua scrivania, osservando con sguardo addolorato quell’arma, quasi sentendosi in colpa per averla presa e adoperata, per averne rivendicato il possesso.
Ma quell’oggetto era prezioso, e sarebbe rimasto con il re fino alla fine dei giorni.
Pochi giorni dopo, quando le acque si furono calmate, non c’era più Oropher sul grande trono di Eryn Galen, ma Thranduil, che portava una corona di rami e foglie, senza alcun metallo prezioso e senza gemme decorative.
Legolas dovette abituarsi in fretta al nuovo stile di vita, poiché ora suo padre, essendo re, era spesso impegnato tutto il giorno e la sera, a volte, si ritrovava ad avere centinaia di cose da fare e programmare.
Così il principe passava la maggior parte del tempo ad allenarsi e a studiare, oppure si chiudeva in sé stesso e, in solitudine, rifletteva o lasciava la mente vagare libera, sognando il giorno in cui avrebbe fatto dei viaggi che gli avrebbero permesso di visitare la Terra di Mezzo.
La pace riconquistata non servì per far desistere Legolas dall’intenzione di divenire un bravo guerriero e Thranduil, quando poteva, cercava di aiutarlo, insegnandogli molte cose, che il principe poi approfondì sui libri o sul campo.
Ma Thranduil non era più quello di prima. Spesso perdeva la pazienza molto in fretta, e raramente ascoltava i consigli che gli venivano dati, facendo di testa propria.
Tuttavia, anche così facendo, Thranduil era un buon re, e tutti lo rispettavano.
Legolas crebbe in quell’atmosfera, e raggiunse l’adolescenza.
In poco meno di sessant’anni la sua altezza era raddoppiata, e forza e saggezza erano di gran lunga aumentate.
Ormai il giovane aveva esplorato l’intera foresta e passava gran parte del suo tempo assieme alle guardie, a cui presto si sarebbe unito anche lui.
Gli anni sembravano scivolare via, come l’acqua di un fiume, e quasi senza accorgersene Legolas si ritrovò ad avere più di trecento anni, ed era ormai entrato nell’età adulta.
Un giorno, in primavera, Thranduil si recò alla biblioteca, dove si trovava Legolas e, interrompendo la sua lettura, disse: “Legolas, credo che sia giunto il momento per te di uscire da questa foresta. Dopodomani io e te partiremo, ti farò visitare Imladris”.
Il principe, un po’ interdetto, disse: “Ma, adar, non hai i tuoi doveri di re, qui?”.
“Lo so bene, ma tu non ti sei mai allontanato troppo dai confini, ed essendo la prima volta desidero esserci io con te. Partiremo all'’alba, ma desidero che domani tu stia ancora una volta con le guardie. Quando torneremo, potrei nominarti Capitano. Sei un eccellente combattente, Legolas, e un arciere formidabile. Ora è meglio che vada”, disse poi, congedandosi.
Legolas chiuse di scatto il libro che aveva tra le mani e, dopo averlo posato sul tavolo che aveva dinanzi, recuperò una mappa della Terra di Mezzo.
Non era la prima volta che ne leggeva una, ma voleva essere sicuro si sapere dove si sarebbero diretti.
La studiò a lungo, cercando di calcolare al meglio le distanze e il tempo che avrebbero impiegato e, quando fu abbastanza sicuro, rimise mappa e libro al loro posto e, non sapendo cosa fare, decise di andare alla sala del trono, per stare accanto al padre.
Quel giorno sembrava particolarmente noioso, e Thranduil se ne stava seduto sul suo trono con un espressione infastidita sul viso. Il suo scettro di quercia era poggiato ai piedi del trono, e il re sembrava non volerlo riprendere.
Legolas si avvicinò e raccolse il lungo scettro da terra, porgendolo poi a suo padre: “Giornata noiosa oggi, adar?”, domandò.
Forse la noia era scomparsa solo quando era andato a parlagli in biblioteca.
Thranduil riprese il suo scettro: “Non me lo chiedere. Tutto il giorno seduto qui a non fare nulla, e non posso assentarmi, tuttavia, poiché sto attendendo i rapporti di alcune sentinelle che ho spedito ai confini. Questa pace è stata conquistata a fatica, ma è ancora vigilata. E io ho il dovere di controllare che nessuna forza oscura arrivi entro i nostri confini. O almeno, di proteggere la popolazione”.
Legolas si sedette ai piedi di suo padre: “Perché non fai qualcosa, allora? Ci sono tante cose che si possono fare, anche fermi in un posto”, disse, voltando la testa per guardarlo.
Thranduil ci pensò su: “Sai, forse hai ragione, dovrei inventare qualcosa che mi aiuti a passare il tempo quando non posso muovermi”, rispose.
Legolas sorrise, pensando che forse era arrivato il momento di fargli il dono che tanto aveva sognato: “Forse, per oggi un’idea ce l’avrei io”, disse, alzandosi e correndo alla volta della sua stanza.
Aprì il cassetto della scrivania e, scostato tutto il suo contenuto, tirò fuori al corona di fiori che aveva fatto con le sue stesse mani.
I fiori erano ancora integri e freschi, ma Legolas non ne rimase sorpreso.
La guardò per qualche istante, quindi rimise a posto e tornò nella sala del trono, nascondendo le mani dietro la schiena.
Thranduil lo notò subito e, stringendo gli occhi, disse: “Legolas, cosa nascondi?”.
“Qualcosa per farti passare il tempo, te l’ho detto prima”, rispose lui, evasivo.
Si avvicinò nuovamente al padre e, quando ebbe salito tutti gli scalini del trono, Legolas mise le mani avanti, mostrando a suo padre la delicata corona: “Questa l’avevo fatta molto tempo fa, apposta per te. Purtroppo non ho più avuto occasioni per donartela, quindi spero che l’accetterai ora. La feci quando mi ordinasti categoricamente di uscire per la prima volta”, disse, mentre Thranduil la prendeva, osservandola.
Legolas lo guardò esaminare quella corona per circa mezz’ora, stava scandagliando ogni millimetro, dal fiore più minuto al più grande.
Alla fine disse: “È davvero un bel lavoro, Legolas, per essere stato fatto da così giovane. È intrecciata con maestria e precisione. Accetto il tuo dono, galad nîn, e penso che questa corona troverà il suo posto, forse in qualche festa”.
Legolas era felice che il padre avesse apprezzato, poiché di recente gli era sembrato cupo e sempre adirato.
C’era proprio bisogno di qualcosa che gli facesse risollevare il morale.
Il resto della giornata la trascorse assieme a Thranduil, che sembrò essere felice di quella compagnia. Legolas, però, sapeva che suo padre, anche quando sorrideva o cercava di essere perfettamente normale, si nascondeva dietro una maschera.
Pochi mesi prima, infatti, stava passando di fronte alle sue stanze e la porta non era perfettamente chiusa così Legolas poté vedere cosa stava succedendo.
Thranduil sembrava avere abbandonato l’aria spavalda che aveva di solito, e aveva le spalle curve, come sopraffatto da un gran peso.
Il principe si era avvicinato per osservare meglio, e vide che il padre, tra le mani, stringeva la corona di Oropher, quella che portava durante la Battaglia di Dagorlad.
Poche lacrime segnavano il viso del re, ma Legolas capì che quel trauma non l’aveva ancora superato.
Anche per quel motivo, nei giorni che seguirono, si era impegnato più che poteva per vederlo sorridere spontaneamente, seppur con scarsi risultati. Solo a tarda sera le sentinelle si fecero vedere, fortunatamente con delle buone notizie.
Nessun pericolo si agitava, oltre i confini e nella foresta.
Dopo aver sentito le ultime parole, Legolas si congedò.
Due giorni dopo, il principe e il re erano già pronti a partire di primo mattino. “Staremo lontani un paio di settimane, non è molta la distanza da percorrere e non saremo a piedi, perciò arriveremo in fretta”, disse Thranduil, mentre uscivano dalle Sale.
La luce del sole filtrava attraverso le foglie, e Legolas si schermò gli occhi guardando in alto.
Non molto lontano, attendevano le loro cavalcature.
Legolas aveva un cavallo, dal manto bianco come neve, mentre Thranduil montava un’imponente alce con una folta pelliccia.
I palchi delle sue corna erano enormi.
Il principe guardò affascinato quello splendido animale, e per un attimo desiderò anche lui una cavalcatura simile, ma non espose i suoi pensieri a voce alta.
Anche Oropher si spostava a cavallo di un alce, ma a differenza di quella del padre, che era bruna, quella aveva il manto bianco.
Probabilmente Thranduil aveva scelto un animale simile perché gli ricordava il padre.
Legolas scosse la testa e volse i suoi pensieri a Imladris, immaginando il suo aspetto.
“Ti ricordi Elrond e Celebrìan, Legolas?”, domandò Thranduil al figlio, mentre montavano in groppa alle loro cavalcature.
“Certo che li ricordo, adar”, rispose Legolas, accarezzando il collo del suo cavallo e incitandolo a muoversi.
“Allora ti farà piacere sapere che hanno tre figli, ancora piuttosto giovani. Due di loro, i primogeniti, si chiamano Elladan ed Elrohir, hanno centosettant’anni e sono gemelli. E poi c’è Arwen, più giovane, che ha solo cinquantanove anni. Questo è un altro motivo per cui ho scelto di recarmi proprio a Imladris, per conoscerli così come Elrond e la moglie hanno voluto conoscere te”, disse il re, dopo un silenzio che durò fin quando non avvistarono il sentiero che li avrebbe condotti alla porta degli Elfi.
“Non ne sapevo nulla. Penso proprio che mi farà piacere conoscerli. E poi, non ho quasi mai visto Elfi differenti da noi, e sono curioso di saperne di più. Ti va di dirmi qualcosa, adar? Non sono riuscito a imparare granchè, solo sui libri”, disse Legolas, schermandosi gli occhi dalla luce improvvisa del sole, non più filtrata dalle fronde.
Thranduil sorrise e annuì, e il tempo trascorse rapido, grazie alle magnifiche cose che il principe apprendeva dal padre.
Imparò la differenza che c’era tra gli Elfi della Terra di Mezzo, e ascoltò molte storie che narravano di loro.
Il re smise di parlare solo quando la sera era calata, e i due dovettero fermarsi: “Fermiamoci qui, stanotte. Non ho intenzione di continuare a muovermi al buio e poi, non abbiamo alcuna fretta”, disse Thranduil, scendendo dalla groppa dell’alce e sedendosi sulla morbida erba.
“Allora guaderemo domani il fiume?”, gli domandò il figlio, che si sedette accanto a lui.
Il cavallo e l’alce si misero a brucare l’erba, tranquilli.
“Na” (Si), rispose il re. “Ma prima di arrivare alle montagne ci fermeremo ancora e le valicheremo il giorno seguente, dopodiché saremo liberi di proseguire per Imladris senza altri ostacoli. Non ci vorrà molto per superare l’Hithaeglir, le nostre cavalcature sanno muoversi su terreni di montagna. Probabilmente le avremo superate prima del calar della notte. Ma ora lasciamo perdere. Piuttosto, pensiamo a riposarci. Io non ne ho avuto il tempo, in queste settimane, e non credo che tu stia meglio di me. Quindi sgombra la mente e rilassati”, disse, prima di distendersi e fermare lo sguardo sulla volta stellata, perdendosi nel riposo degli Elfi.
Legolas guardò per qualche istante il padre, poi si distese anche lui e riposò la mente, ma con i pensieri ancora proiettati ai giorni che sarebbero seguiti. Si, quella nuova vita non sembrava iniziata in modo troppo spiacevole.


E finalmente sono tornata! Credevate che mi fossi smarrita nelle Terre Selvagge, eh? Vi chiedo perdono per l'esageratissimo ritardo nel pubblicare, ma tra scuola e tutto il resto il tempo era poco. Ma bando alle ciance, ora sono di nuovo qui, e spero di riuscire ad aggiornare più in fretta, prima che qualcuno di voi abbia la brillante idea di mandarmi dei Nazgul alle calcagna per farmi sbrigar... oh, oh, forse non dovevo dirlo... ma va bene, ormai la frittata è fatta, quindi vediamo di passare immediatamente ai ringraziamenti:

1) tutti i lettori silenziosi
2) Elenwen per le recensioni (ringrazio anche eventuali recensori che ancora non si sono fatti avanti, per non incorrere nelle ire di un qualche orchetto inferocito)
3) Ayumi_m, Elenwen, fredfredina, letizia2002, LokiLove e nadivolraissa per aver aggiunto la storia alle preferite
4) Chiaretta_6, Elenwen, ewan91, Medea_96, nadivolraissa e ReginadelleStelle per aver aggiunto la storia alle seguite
5) Elenwen, nadivolraissa e Satana1 per aver aggiunto la storia alle ricordate
6) Elenwen per avermi aggiunto agli autori preferiti

Concludo precisando che l'Hithaeglir sono le Montagne Nebbiose. Ora non c'è più nulla da dire, se non invitarvi a recensire la storia, se vi è piaciuta. Ma anche se non recensite, ricordate che vi voglio bene comunque <3

Al prossimo incontro


Hannon le

ElenCelebrindal

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Capitolo 7
*** Imladris ***


Mae govannen, mellonea nîn

Legolas e Thranduil impiegarono relativamente poco tempo per guadare il fiume, dal punto in cui si trovavano, ed erano ripartiti subito con un’andatura rapida e regolare, tanto che giunsero in vista delle montagne prima del calar della notte.
 Ivi si fermarono, per poi valicare i monti il giorno seguente.
Il resto del viaggio fu tranquillo, e Legolas non si stancava mai di guardarsi intorno, determinato a fermare nella mente tutto ciò che vedeva e sentiva.
Faceva molte domande al padre, che rispondeva sempre volentieri e spesso raccontava storie e cantava di antiche vicende, sia allegre che tristi.
In quel modo, impiegarono due giorni per giungere a Imladris, e rallentarono l’andatura quando la valle entrò nel loro campo visivo.
“E così siamo arrivati a Imladris. Non me lo aspettavo così”, disse Legolas, mentre raggiungevano l’ingresso.
Thranduil sorrise: “E come te lo aspettavi?”, domandò al figlio, che osservava tutto ad occhi sgranati.
“Mi aspettavo di vedere anche qui molti più alberi, invece questo luogo rispecchia molto i posti che mi hai descritto nelle tue storie, i regni del passato. Ma mi piace, è pieno di calma e tranquillità”, rispose Legolas, tornando a guardare il padre.
L’ingresso di Imladris era molto bello: un ponte, sospeso su di un limpido fiume, era il passaggio che conduceva all'’entrata vera e propria.
Un elfo dalla capigliatura bruna arrivò incontro al re a al principe, scendendo alcune scale. “Aran Thranduil ar cund Legolas, mae govannen”  (Re Thranduil e principe Legolas, benvenuti), disse.
Thranduil scese dall’alce: “Suilad, Lindir”, rispose, quando l’elfo si fu avvicinato abbastanza.
Poi il re si voltò verso Legolas, che era appena smontato da cavallo: “Legolas, lui è Lindir, uno dei consiglieri di Elrond”.
Poi si rivolse direttamente a lui: “A proposito di Elrond, sai dirmi dove sono lui e sua moglie?”, gli chiese, mentre Legolas lo raggiungeva.
“Certamente. Se volete seguirmi, vi condurrò da loro”,rispose Lindir, voltandosi e salendo le scale che poco prima aveva sceso.
Re e principe lo seguirono, passando in mezzo a due elfi di guardia, immobili e silenziosi.
Legolas osservò le loro armature, molto più semplici e leggere di quelle di Boscoverde, poi si affrettò a tenere il passo con gli altri due, che intanto erano andati avanti.
Lindir li condusse fino ad un grazioso giardino, ornato da un gran numero di statue e pieno di piante di ogni tipo.
Alcuni alberi crescevano addirittura intorno a delle colonne intagliate, quasi fondendosi con esse e creando degli effetti meravigliosi.
Una fontana zampillava più in là, e il sole creava un arcobaleno nell’acqua.
Legolas respirò quell’aria così densa di tanti profumi diversi, che non aveva mai sentito neanche ai confini più estremi della foresta, e si sentì subito invadere da una tranquillità inaspettata e piacevole.
Anche Thranduil sembrava aver dimenticato le preoccupazioni, quando individuò Elrond e Celebrìan, seduti su una delle tante panchine di marmo presenti: “Vedui’ il’er” (Salve a tutti), disse avvicinandosi.
Legolas non disse nulla, si limitò a sorridere quando lo sguardo di Celebrìan si posò su di lui.
“Thranduil, che piacere vederti. E Legolas, come sei cresciuto, le maa quel” (sembri in ottima forma)”, disse l’elfa, abbracciando il principe.
Elrond strinse la mano di Thranduil, prima di salutare anch’egli il principe, poi disse: “Non restiamo qui in piedi, venite a sedervi accanto a noi”.
Quando si furono accomodati tutti e quattro, Thranduil chiese: “Ma dove sono i vostri figli? Finora ho solo sentito parlare di loro, e sarei felice di poterli conoscere. Saremmo venuti prima, ma i miei doveri mi hanno tenuto molto impegnato, e anche Legolas ha i suoi compiti da svolgere”.
Celebra si guardò intorno: “Dovrebbero essere qui, probabilmente a giocare. Anzi, probabilmente è Arwen che gioca; Elladan ed Elrohir si staranno allenando a combattere. Hanno sempre amato il combattimento, loro due, fin da piccoli”, disse.
Poi li chiamò a gran voce, poiché non si facevano vedere.
Arrivarono in pochissimo tempo, non appena udirono il richiamo della madre, probabilmente.
Legolas li osservò: avevano tutti e tre i capelli scuri, ereditati dal padre.
I due gemelli erano alti, per la loro età, e oltre ai capelli avevano ereditato gli occhi grigi di Elrond ed erano talmente simili che era praticamente impossibile distinguerli, anche perché indossavano abiti identici.
Entrambi indossavano una leggera maglia d’acciaio, probabilmente perché si stavano davvero allenando con le spade, come testimoniavano le finissime lame che avevano al fianco.
Arwen, come i suoi fratelli, aveva anch’essa gli occhi grigi, ma di una sfumatura differente, più simile a quella degli occhi della madre, e indossava un abito bianco che metteva in risalto il nero corvino dei suoi capelli.
Legolas aveva visto di rado degli Elfi con i capelli scuri, poiché a Eryn Galen la maggior parte della popolazione elfica è bionda, ma Thranduil gli aveva narrato la storia delle stirpi elfiche, quindi non si sorprese più di tanto.
Elladan ed Elrohir salutarono subito i nuovi arrivati, iniziando subito una conversazione con Legolas e osservando le armi del principe con occhi scintillanti.
Arwen, invece, si nascose dietro Celebrìan, intimidita da quei nuovi individui così diversi da lei.
Poi, però, incoraggiata dai genitori, si avvicinò prima a Legolas, perché c’erano i suoi fratelli, poi a Thranduil.
Il re sorrise: “Sono davvero splendidi. Sono felice per voi, amici miei”, disse.
Poi si rivolse ad Arwen: “Vuoi conoscere un re degli Elfi?”, disse, sorridendo.
La bambina annuì, ancora vergognandosi troppo per parlare.
Legolas osservò suo padre prendere in braccio Arwen e accarezzarle i lunghi capelli, mentre lei toccava incuriosita quelli biondi di Thranduil.
“Perché sei biondo? Mi ricordi tanto Glorfindel e nana” (nana = mamma), gli domandò lei, trovando finalmente il coraggio per parlare.
“Perché sono un elfo di stirpe Sindar, e solitamente noi abbiamo i capelli chiari. Glorfindel e tua mamma, però, sonomolto diversi da me, anche se sono biondi anche loro”, rispose Thranduil, indicando anche Legolas per chiarire il concetto.
Arwen sorrise: “Mi piacciono i capelli biondi”, decise, scendendo dalle ginocchia del re per raggiungere la madre, salendo poi in braccio a lei e giocando con i suoi, di capelli.
Celebrìan sorrise: “Però anche i tuoi sono meravigliosi”, disse, dando un bacio alla figlia.
I gemelli, dopo aver chiacchierato ancora qualche minuto con Legolas, lo lasciarono in pace e andarono a sedersi accanto al padre, che intanto stava chiedendo al principe: “Legolas, so che sei diventato un abile guerriero. Hai intenzione di divenire una guardia del Boscoverde?”.
“Si, inizialmente avevo pensato di diventare una semplice guardia, anche perché essendo un principe ho anche altri compiti da svolgere. Ma pochi giorni fa mio padre mi ha offerto il posto di Capitano della guardia. Credo che accetterò, non appena faremo ritorno al Reame Boscoso”, rispose, lanciando un’occhiata anche a Thranduil, che sorrise in modo quasi impercettibile.
“Non si può certo dire che Thranduil non sia saggio per queste cose”, disse Elrond, sorridendo al re. “Sarai un ottimo Capitano, Legolas”, continuò rivolto al principe.
In quella, di udirono delle campane suonare: “Oh, è già arrivato mezzodì. Venite, è ora di pranzo, unitevi a noi”, disse Celebrìan, alzandosi e prendendo per mano Arwen.
Padre e figlio seguirono gli altri fino ad una sala da pranzo e si sedettero l’uno di fronte all'’altro a un lungo tavolo, posto al centro della stanza.
Elrond si sedette a capotavola, e Celebrìan e i loro figli accanto a lui, mentre i consiglieri del Signore di Imladris prendevano posto sulle sedie vicino agli Elfi di Eryn Galen.
I presenti intavolarono presto una conversazione, anche se alcuni si sentivano in soggezione al confronto con Thranduil, essendo un re degli Elfi e non un semplice Signore come Elrond.
Il pranzo non si protrasse a lungo e i commensali si alzarono presto da tavola, come al solito dopotutto, per andare ad ascoltare le splendide musiche e canzoni che gli Elfi amavano.
Il re e il principe, invece, assieme ai Signori di Imladris e ai loro figli, si rifugiarono nella tranquillità di un altro dei tanti giardini di Gran Burrone, e osservarono Elladan ed Elrohir confrontarsi in combattimento con Legolas, che aveva accettato di buon grado la sfida che gli era stata lanciata dai gemelli.
Quando si fermarono, Legolas disse: “Siete molto bravi, devo ammetterlo. Non vedevo da tempo due giovani combattere così bene”.
I due sorrisero, accettando il complimento, poi continuarono a combattere l’uno contro l’altro, mentre Legolas faceva conoscenza con Arwen, che prima non aveva avuto modo di conoscere.
Thranduil passò tutto il giorno, ma anche quelli che seguirono, assieme a Elrond e Celebrìan, parlando sia di cose allegre che di cose più serie, ma restando sempre sul vago e senza risvegliare alcun timore nei cuori di quella gente così spensierata.
Una settimana dopo Thranduil e Legolas annunciarono che sarebbero dovuti ripartire, e a nulla valsero le richieste di Celebrìan di restare ancora qualche giorno.
“Mi dispiace, ma il Reame Boscoso ha bisogno del suo re, e noi non possiamo restare ancora. Forse riusciremo a tornare, un giorno”, disse Thranduil, mentre lui e Legolas attendevano l’arrivo di un elfo con le loro cavalcature.
Anche Legolas era dispiaciuto: “Io tornerò sicuramente, ma anche per me sarà difficile dato che non appena torneremo sarò nominato Capitano. Ma comunque, sempre più facile per un re”, disse, mentre salutava Arwen.
“Aran Thranduil”, si sentì chiamare il re, che si voltò.
Ciryatan era appena arrivato, conducendo l’alce di Thranduil e seguito dal cavallo di Legolas.
“Hannon le”, lo ringraziò il re, per poi voltarsi e salutare: “Meneg suilad, mellonea nîn”, imitato da Legolas.
Poi montarono in groppa ad alce a cavallo e ripartirono, lasciandosi alle spalle la valle nascosta e prendendo la via più diretta per le Montagne Nebbiose.
Mentre cavalcavano, Legolas chiese: “Adar, ma ci sarà una cerimonia ufficiale per la nomina a Capitano  della Guardia? Ancora non so nulla su questo argomento”.
“Si, ma non è una cerimonia lunga o complicata. Non si sono nemmeno discorsi degni di nota. Di solito, sono presenti tutti i membri della guardia e il tutto si svolge in poco tempo. Ma, essendo tu un principe, forse anche alcuni dei cittadini vorranno partecipare. D’altronde, ne avrebbero anche il diritto, perché anche tutto il resto della popolazione del Reame è composta da Elfi che sono in grado di combattere. Ma se desideri farò in modo che sia presente solo chi deve essere presente”, rispose Thranduil, voltando il viso verso il figlio.
Legolas ci pensò su qualche istante: “Si, fai in modo che nessun altro, oltre a coloro che sono sempre stati autorizzati, sia presente. Non voglio che, solo perché sono un principe, tutti assistano. Altrimenti potrei sembrare altezzoso o chissà cos’altro e farmi una cattiva nomea”, decise, approvato dal padre che annuì: “Allora sbrighiamoci, o non torneremo in tempo”, disse, mentre aumentavano l’andatura e tornavano a Boscoverde il Grande.

Stavolta non mi dilungo troppo, mi limito a dire che questo capitolo, per forze di cose, è solo di transizione. Non ho avuto tempo di scrivere di più perché ho davvero molto da fare. E poi, come ogni volta, passo ai ringraziamenti:

1) I miei carissimi lettori silenziosi
2) Ayumi_m, Elenwen, fredfredina, letizia2002, nadivolraissa, sara2001, Stana1 e solenne per aver aggiunto la storia alle preferite (o mantenuto tra le preferite, a seconda dei casi)
3) Anna Tentori, Chiaretta_6, Clar52a, Elenwen, ewan91, Medea_96, nadivolraissa e ReginadelleStelle per aver aggiunto la storia alle seguite (o, anche qui, per averla mantenuta)
4) Elenwen, nadivolraissa e Satana1 per averla mantenuta tra le ricordate

Finisco qui ringraziando anche altri che potrebbero venire dopo e vi invito a recensire qualora il capitolo vi sia piaciuto.

Al prossimo incontro e tanti saluti dalla vostra Elfa


Hannon le

ElenCelebrindal

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Capitolo 8
*** Incomprensioni e novità ***


Mae govannen, mellonea nîn

Mancavano solo due giorni alla nomina a capitano di Legolas, e il principe aveva passato la maggior parte del suo tempo libero studiando libri su libri per documentarsi in modo appropriato, mentre il resto della giornata lo trascorreva fuori, assieme alle guardie.
Era passata una settimana dal loro ritorno da Imladris, per volere di Legolas che non se la sentiva di ricevere la nomina così subito, senza un’adeguata istruzione e preparazione.
“Sei ancora a studiare? Forse dovresti fermarti, almeno fino a dopodomani”.
Thranduil l’aveva appena raggiunto nella sua stanza, approfittando di uno dei pochi momenti liberi che poteva concedersi, e stava cercando di convincere il figlio a riposarsi un po’.
Legolas chiuse il libro: “Non posso, adar. Mi hai detto tu che devo sapere tutto il possibile, quindi devo continuare”, disse, strofinandosi gli occhi con una mano.
Thranduil prese il libro dalle mani del figlio e lo posò sulla scrivania: “Allora adesso ti ordino di uscire da qui e fare una passeggiata nella foresta, senza pensare a nulla se non al tuo riposo. Ti preoccuperai dopodomani di tutto. Adesso volgi la mente altrove, iôn nîn”, replicò, mettendo poi una mano sulla spalla del figlio.
Legolas si alzò e sorrise: “Va bene. tornerò per l’ora di cena”, disse mentre usciva.
 
Legolas diede un’occhiata agli Elfi presenti: erano parecchi, più di quanti si aspettava.
Ma d’altronde le guardie erano davvero molte.
Il principe si sistemò meglio la sottile corona di mithril, raddrizzandola e impedendo ai suoi capelli di impigliarsi nel metallo, poi prese un profondo respiro e cercò di allentare la tensione.
Stava per essere nominato Capitano della Guardia, un titolo molto ambito dalla maggior parte degli Elfi del Boscoverde, e uno tra i compiti più impegnativi che esistevano.
Lisciò la veste argentea che indossava e diede uno sguardo alla sala dove si sarebbe svolta la cerimonia, poi distolse l’attenzione e ripassò a mente le parole che avrebbe dovuto rivolgere a suo padre.
Quando la voce del re risuonò, Legolas si preparò ad uscire, ripassando ancora una volta ciò che doveva dire, poi, quando Thranduil disse: “Legolas Thranduilion, fai il tuo ingresso e presentati al popolo di Eryn Galen”, il principe avanzò con passi misurati in mezzo a due ali di Elfi, sia donne che uomini, fino a trovarsi di fronte a suo padre.
Lì si inginocchiò, mentre Thranduil parlava nuovamente: “Un grande guerriero merita grandi titoli. Quali saranno le tue intenzioni, se verrai nominato Capitano?”.
“Le mie intenzioni saranno tra le più nobili osservate da questo popolo”, rispose Legolas, con voce ferma.
“Sulla tua vita e sulla terra in cui viviamo, giuri di portare sempre obbedienza al tuo sovrano?”.
“Amin gwesta sen” (Lo giuro).
“Giuri di mettere il tuo arco e la tua spada al servizio della giustizia?”
“Amin gwesta sen”.
“Giuri di dedicare la tua vita alla protezione di questo regno e, se necessario, della Terra di Mezzo?”
“Amin gwesta sen”.
“Allora alzati, Legolas Verdefoglia”.
Legolas si alzò, senza mai interrompere il contatto visivo con Thranduil.
“Io ti nomino Capitano della Guardia. Ora voltati, e accogli i tuoi guerrieri”.
Il principe si voltò, e tutte le guardie sollevarono le loro armi, suggellando la fine della cerimonia e dimostrando la loro lealtà al nuovo Capitano.
Quando la sala fu finalmente vuota, Thranduil poté tirare a sé il figlio, stringendolo in un abbraccio: “Sono fiero di te, ión nîn”, mormorò, sorridendo”.
“Hannon le, adar. Pensi davvero che sarò all'’altezza del compito che mi hai assegnato?”, disse Legolas, sciogliendo l’abbraccio ma continuando a tenere la mani su quelle di Thranduil.
Thranduil, senza smettere di sorridere, rispose: “Non pensare nemmeno per un momento di non poter essere all'’altezza di questo, Legolas. Le naa belegothar, galad nîn, ar naa curucuar” (Sei un possente guerriero, luce mia, e un abile arciere).
Legolas strinse di nuovo il padre, ma poi si congedò e fece ritorno alle sue stanze, mentre pensava al suo nuovo compito.
Avrebbe dovuto conciliare i suoi studi da principe con il fatto che era un Capitano, ma non se ne preoccupava molto, perché voleva impegnarsi al massimo per rendere fiero Thranduil, per essere il figlio che il re desiderava.
A questo era rivolta la sua mente mentre si cambiava d’abito, sostituendo gli abiti da cerimonia con quelli più pratici da guardiano, che indossava spesso.
Lanciò uno sguardo alla leggera armatura dorata, in un angolo della stanza, ma decise di non indossarla fino al giorno seguente, benché fosse forgiata con talmente tanta maestria che il peso era quasi impercettibile.
Indossò i suoi vambraci e, dopo essersi messo in spalla arco e pugnali, uscì dalle sale del Reame, determinato a non vedere nessuno oltre agli animali di Eryn Galen.
Vagò in mezzo agli alberi fino a quando la luce non fu svanita completamente, lasciandolo al buio tra le fronde.
Il principe non se ne preoccupò, poiché bastava la fievole luce della luna che filtrava attraverso le foglie perché riuscisse a vederci, e così non ebbe problemi a far ritorno alle Sale, benché procedette più lentamente, restio ad abbandonare la calma di quegli spazi aperti.
La notte trascorse come il vento, e il giorno dopo Legolas si svegliò con la consapevolezza che il suo compito iniziava in quel momento, e non avrebbe avuto scuse per non adempiere ai suoi doveri.
Indossò i soliti abiti, con l’aggiunta dell’armatura che gli era stata donata poco prima, e si stupì del fatto che fosse davvero incredibilmente leggera come pensava.
Mentre si allacciava gli stivali, qualcuno bussò alla porta.
“Avanti”, fece il principe, quando ebbe raddrizzato la schiena.
Era una delle guardie: “Capitano, tuo padre il re desidera parlarti. Dovresti  recarti da lui il prima possibile”, disse.
Legolas annuì: “Grazie per aver riferito. Vado subito”, rispose, mentre l’elfo andava via.
Recuperò l’arco e uscì dalla sua camera, dirigendosi alla sala del trono velocemente, ma senza correre.
Quando arrivò dinanzi al trono di suo padre, il re congedò le guardie presenti e disse: “Hai risposto in fretta alla mia chiamata. Mi piace, è una buona qualità per un capitano”.
Era seduto sul suo trono, e non si mosse da lì, facendo capire a Legolas che ogni volta che gli avrebbe parlato in veste di capitano avrebbe dovuto ricordare che si trovava davanti ad un re, non solo a suo padre.
Il principe chinò leggermente la testa: “Perché mi hai fatto chiamare, adar?”, domandò.
“Volevo parlarti, prima che tu esca. Sono certo che hai riflettuto su cosa significhi essere Capitano e principe allo stesso tempo, ma vorrei dirti lo stesso due parole. So bene che dovrai stare spesso fino a tarda sera fuori di qui, ma questo non deve dissuaderti dai compiti di principe che hai. Devi riuscire a trovare anche il tempo per lo studio e dovrai riuscire anche a trovarti al mio fianco quando avrò delle cose importanti da insegnarti. Non è facile, lo capisco bene, poiché ci sono passato anche io, ma è ciò che ti chiedo. E ricorda, ogni qualvolta ordino a te di fare qualcosa in veste di Capitano, esigo che tu esegua sempre gli ordini. Altrimenti penseranno che non sei degno di essere chiamato tale e ti si rivolteranno contro. Non devi pensare di trovarti di fronte a tuo padre, ma solo di fronte al re degli Elfi. Hai capito?”.
“Si, ho capito, aran nîn”, rispose Legolas, chiamandolo per la prima volta re.
Thranduil annuì: “Molto bene. Vai ora”, ordinò, e il principe, dopo averli rivolto un leggero inchino, voltò le spalle al re e uscì: l’attendeva una giornata dura, ma si sarebbe dimostrato un buon Capitano.

Così passarono molti e molti anni, ma Legolas, quando arrivò all'’età di 2008 anni, cominciò a sentire il peso di essere Capitano e principe allo stesso tempo.
Quando non era assieme alle guardie tra gli alberi, oppure fuori dal Boscoverde per ordine del re, Legolas si ritrovava sempre sui libri, oppure assieme a suo padre, che ormai tutto era tranne che il padre che voleva.
Lo trattava quasi in tutto e per tutto come un semplice Capitano, gli rivolgeva raramente dei complimenti che andavano a toccare anche il suo spirito di figlio e il tempo che trascorrevano assieme come genitore e figlio era pochissimo.
Legolas aveva fatto altri viaggi, esplorando la Terra di Mezzo per quando gli venisse permesso, ma la maggior parte del tempo la passava tra i familiari alberi di Eryn Galen, e la vita era trascorsa così fino all'’anno 2251 della Terza Era, quando un giorno il principe prese la decisione di lasciare la guardia.
Tuttavia, quando lo riferì a suo padre, questo si adirò: “Come puoi chiedermi una cosa simile? Tu sei il miglior Capitano che io abbia mai avuto, non puoi semplicemente venire qui e dire che vuoi lasciare l’incarico. Non ci sono Elfi abbastanza qualificati, ora come ora. Mi dispiace, ma adesso non posso accontentarti”.
Ma non gli dispiaceva per niente, glielo si leggeva negli occhi.
E, per la prima volta in vita sua, Legolas sentì che era stato trattato ingiustamente: come poteva suo padre non capire come si sentiva in quel momento? Lui, che aveva fatto tanto per farlo sentire felice, lui che protestava sempre quando Oropher gli riservava lo stesso trattamento.
“Tu non capisci niente. Se tu comprendessi come mi sento adesso, non diresti che è impossibile sostituirmi solo perché non ci sono Elfi qualificati per questo compito. Tu vuoi che io sia il Capitano, TU lo desideri, quando ciò che voglio io è completamente differente! Pensavo che saresti stato un padre migliore, ma a quanto pare hai dimenticato che davanti a te non c’è solo un principe, o un Capitano, ma il tuo stesso figlio. Hai dimenticato di essere un padre, oltre che un re arrogante e presuntuoso!”.
Glielo urlò in faccia, incurante che potessero sentirlo, incurante delle conseguenze che quel comportamento avrebbe avuto.
Perché era stanco, Legolas, di non essere più trattato come una volta.
Non gli importava se quei pensieri fossero infantili: gli mancavano gli abbracci del padre, i suoi sorrisi e lue parole per confortarlo e farlo sentire bene.
Gli mancava suo padre.
Thranduil cercava di non mettersi ad urlare, e quando parlò, il suo tono di voce era pericolosamente vicino al collasso: “Come ti permetti di parlare a me in questo modo? Come ti permetti?! Non ti autorizzo ad affermare certe cose!”, disse, ma l’ultima frase la gridò anch’egli, perdendo la pazienza e alzandosi dal trono per ritrovarsi di fronte al figlio, che non batté ciglio.
“Non mi serve la tua autorizzazione per dire la verità! Tu sei arrogante e presuntuoso, non sei più il Thranduil che conoscevo e che era mio padre! Io sono tuo figlio, maledizione! TUO FIGLIO!”, replicò Legolas, urlando in faccia al padre tutta la sua rabbia.
Il re assunse un cipiglio pericoloso e disse, tornando a controllare la voce: “Hai oltrepassato ogni limite. Non vuoi essere più Capitano? Bene! Ma ti informò che passerai una settimana intera chiuso nelle segrete, e ringrazia che sono stato clemente!”.
Legolas lo guardò come pietrificato, mentre due guardie lo afferravano e lo portavano via.
Come poteva, Thranduil, fargli questo?
Quando aveva affermato che mai avrebbe fatto come Oropher con lui, che mai avrebbe seguito le orme del padre quando faceva qualcosa che non gli piaceva, come poteva farlo?
Solamente quando le sbarre si chiusero, Legolas ritrovò la capacità di muoversi, tuttavia rimase immobile dove si trovava, in piedi a guardare fuori dalla cella dove era stato rinchiuso.
Fu allora che le lacrime cominciarono a scendere sul suo volto, lente e silenziose, mentre il principe mormorava: “Come hai potuto dimenticarti chi sei, adar nîn?”.
Crollò in ginocchio e pianse tutto il dolore che provava, perché era stato rinchiuso dalla persona che amava di più al mondo, ma non era stato rinchiuso solo fisicamente.
La sua mente si rifiutava di accettare tutto quello, si rifiutava di credere che suo padre l’avesse abbandonato, e si chiuse in sé stessa, lasciando spazio solo alle ultime parole gentili che aveva udito da Thranduil, centinaia di anni prima: melin le.


[flashback]

La Mereth-en-Gilith era cominciata da poco e gli Elfi erano tutti felici di poter partecipare ancora una volta a quella magnifica festa, che commemorava la splendida luce degli astri di Elbereth.
Legolas se ne stava in disparte, fuori dalle sale del Reame Boscoso, sotto le fronde di uno degli alberi più imponenti del Bosco, e guardava pensieroso il cielo, tanto che si accorse della presenza del padre solo quando quello parlò: “Iôn nîn, aphado nîn. Anìron ya le tìrach i Land en Gilith na amin” (Figlio mio, seguimi. Desidero che tu veda la Radura delle Stelle con me).
Legolas ne rimase stupito: ricordava che, quando era un bambino, suo padre gli aveva promesso una cosa del genere, ma non credeva che sarebbe accaduto così presto.
Il principe sapeva che quel luogo ricordava a Thranduil la moglie molto più che ogni altro, e non credeva che sarebbe riuscito a rivederlo dopo quel poco lasso di tempo.
Perciò acconsentì e insieme, per un sentiero dove non c’era nessuno, arrivarono alla Radura delle Stelle.
Era la prima volta che Legolas vedeva il suo aspetto alla Mereth-en-Gilith, ed era un luogo bellissimo: vedendola, capì subito perché il padre avesse scelto quel luogo per dichiarare il suo amore a Vendë.
L’erba sembrava un tappeto d’argento liquido, che si increspava al lieve soffio del vento, ed era decorata da minuscoli fiorellini e punteggiavano l’ambiente, crescendo perfino sugli alberi, i cui tronchi parevano bianchi e le fronde scintillavano come metallo.
Padre e figlio si persero in quella meraviglia, calpestando quel prato soffice con i piedi scalzi.
Restarono fermi nella Radura per molto tempo: Legolas non riusciva a staccare gli occhi dalla meraviglia che li colmava, rifiutava di muoversi.
Senza farsi notare, si voltò verso il padre, che se ne stava in ginocchio al centro della Land en Gilith, con i palmi a terra e la testa china.
Poche lacrime solcavano le guance del re, e Legolas si avvicinò lentamente, abbracciandolo: “Piangi, adar nîn, non lasciare che la tua carica dire ti lasci senza emozioni. Stanotte siamo solo padre e figlio, e io ti sono vicino. Perciò, non trattenere le lacrime”, disse a voce bassa, stringendolo di più.
Thranduil lasciò le lacrime scorrere libere, lasciò che i dolci e amari ricordi lo invadessero, consapevole della presenza confortante del figlio.
Due sole parole arrivarono alle orecchie di Legolas: “Melin le”.
Ti voglio bene.
 
[fine flashback]

 
Per l’intera settimana Thranduil non volle parlare con nessuno, lasciando il trono vuoto ogni giorno e vietando chiunque di disturbarlo, nemmeno per una guerra in corso.
Sapeva di non poter revocare l’ordine di tenere chiuso suo figlio nelle segrete, per non dimostrare favoritismi, ma aveva dato quell’ordine in un momento di rabbia cieca.
Le parole di Legolas gli avevano fatto male, l’avevano ferito, ma forse avevano avuto quel’effetto perché erano vere, maledettamente vere.
E ora si pentiva di aver commesso lo stesso errore di Oropher, si pentiva di aver trattato in quel modo suo figlio, si pentiva di averlo abbandonato e di aver dimenticato di essere un padre.
Perché lui era un padre, oltre che un re, e Legolas era un figlio, oltre che un principe.


Questo agitava i suoi pensieri, mentre Legolas era solo in quella cella, a pensare e ripensare al comportamento di suo padre.
Dalla morte di Oropher era andato sempre peggiorando, fino a divenire il re che era, saggio e giusto, ma pur sempre arrogante e ossessionato da argento e gemme.
Non parlò e non accettò né cibo né acqua o vino per tutta la permanenza nelle segrete, mandando via le guardie ogni volta guardandole in modo gelido.
Aveva saputo che Thranduil non aveva intenzione di scegliere un nuovo Capitano, e così le guardie sierano dovute arrangiare nominando dei comandanti provvisori, ma l’organizzazione era difficile da gestire, soprattutto senza un re seduto sul trono.
“Puoi uscire”, gli disse un elfo dopo una settimana esatta, aprendo la porta della cella e scansandosi quando Legolas lo oltrepassò senza dire una parola, dirigendosi dritto alle stanze del re.
Non rivolse la parola a nessuno, e non si fermò per tutto il tragitto, determinato a parlare di nuovo con il padre.
E se non l’avesse ascoltato, sarebbe andato via direttamente.
Entrò senza bussare nelle stanze reali e sbattendosi la porta alle spalle, senza spostare lo sguardo da suo padre, ch’era di spalle davanti a lui.
“Adar?”, lo chiamò, senza però ricevere risposta.
Si sorprese non poco quando udì dei singhiozzi soffocati, e all'’improvviso si ritrovò stretto tra le braccia del padre, sentendo le sue lacrime bagnarli il volto così vicino al suo.
“Mi dispiace, mi dispiace”, gli sussurrò con la voce che tremava.
“Non meritavi quello che ti ho fatto, sono un padre orribile, non sono degno di essere chiamato tale, non sono degno di avere un figlio come te. Perdonami, se puoi”.
Legolas era incapace di parlare, si limitò a stringersi ancor di più a Thranduil, parlando con le parole della mente: “Ti perdono, adar. Ti voglio bene”.
Quando si separarono, disse: “Adar, adesso però dovresti tornare su tuo trono. Non puoi continuare a restare isolato qui. E…”.
“E dovrei trovare un nuovo Capitano? Questo stavi per dire?”, continuò il re al suo posto.
“Si. Te l’ho già detto, sono stanco, non voglio più quel titolo”.
“Molto bene, ne troverò un altro, allora. Avrei dovuto rispettare sin dal principio la tua scelta. Vai pure, Legolas, fai quel che desideri. Oggi non hai alcun incarico”.
“Hannon le, adar”, ringraziò il principe, prima di andare fuori, tra gli alberi, e ancor più lontano, al limite della foresta.
Impiegò del tempo, camminando a passo moderato, ma quando giunse in vista del confine settentrionale si sedette ai piedi di un grande albero, tra le radici che spuntavano dal terreno, e ivi rimase fino a tarda sera, quando l’unica luce che rischiarava il mondo era quella della luna crescente, quasi piena in tutto il suo splendore.
Solo allora decise che era giunto il momento di fare ritorno e si incamminò sulla via di casa, seguendo il sentiero più rapido che riuscì a trovare.
Giunse in poco tempo alla città nei pressi dell’ingresso delle Sale e, aspettandosi di trovarla deserta, si sorprese nel constatare che una bambina, di non più di dieci anni, scorrazzava tra gli alberi alla luce della luna, guardata a vista da un’elfa non molto lontana.
Legolas accantonò l’idea che potesse essere la madre, perché il suo aspetto era troppo diverso da quello della piccola, non c’era nulla che indicava parentela tra loro.
Era una bambina davvero strana, diversa da molti degli Elfi conosciuti da Legolas, probabilmente perché aveva i capelli rossi, una caratteristica rara tra gli Eldar.
Non restò a guardare molto tempo, poiché doveva tornare al palazzo, ma riuscì a chiederle il suo nome, quando si fermò davanti a lui: “Man eneth lîn?” (Qual è il tuo nome?).
Lei, guardandolo con i suoi occhi chiari, rispose: “Tauriel i eneth nîn, cund Legolas” (Il mio nome è Tauriel, principe Legolas).
Poi gli rivolse un enorme sorriso e tornò ai suoi giochi, mentre il principe faceva ritorno a palazzo, con un nuovo pensiero che gli attraversava la mente.


Thranduil trovò un nuovo capitano, aiutato da Legolas che conosceva molto bene ogni singola guardia, e la vita nel Reame Boscoso trascorse tranquilla, almeno fino all'’anno 2641 della Terza Era, quando anche l’altro capitano annunciò che aveva intenzione di ritirarsi.
La situazione rischiò di precipitare, perché nessuno si fece avanti per ricoprire quella carica, ma Legolas capì come risolvere tutto.
Prese suo padre in disparte e gli disse: “Adar, ci sarebbe qualcuno intenzionato a diventare Capitano della Guardia, ma purtroppo ora si trova ai confini meridionali”.
“E chi sarebbe? Ho mandato molti elfi ai confini meridionali, fammi capire”.
“Ricordi l’elfa che si è unita alla guardia tempo fa?”.
“Certo, Tauriel”.
“Lei. È una brava guerriera e ha la stoffa del Capitano. Potresti mandare qualcuno a chiamarla e vedere se accetta di diventare capitano”.
Thranduil scosse lievemente la testa: “Ha solo quattrocento anni, è molto giovane”, gli fece notare.
“Giovane, si, ma abile come pochi. Fidati di me, sarebbe perfetta”, replicò Legolas.
“Ci penserò e domani vedrò cosa fare. Per oggi, ordina a tutti di non sparpagliarsi per la foresta e occupare solo le postazioni fisse. Non vorrei problemi di scarsa organizzazione, com’è accaduto qualche tempo fa”.
“Be iest lîn, adar”, rispose Legolas, facendo come gli era stato chiesto.
Sperava che suo padre decidesse di nominare Tauriel Capitano della Guardia: era davvero un’ottima guerriera e un’eccellente stratega, anche se un po’ avventata a volte.
E non poteva negare, che era molto carina.

Alloooora, non parlerò troppo, non vi annoierò con le mie inutili chiacchiere. Chiedo solo pietà a chi non piace Tauriel, perché a me come personaggio non dispiace troppo. E non potevo lasciarla fuori, anche peché la parte dello Hobbit è più movieverse che altro, data la presenza esclusiva di Legolas nel film. 
E finisco ancora una volta ringraziando per l'ennesima volta (ma i ringraziamenti non sono mai abbastanza):

1) I miei carissimi lettori silenziosi

2) Ayumi_m, Elenwen, fredfredina, letizia2002, nadivolraissa, sara2001, Stana1 e solenne per aver aggiunto la storia alle preferite (o mantenuto tra le preferite, a seconda dei casi)
3) Anna Tentori, Chiaretta_6, Clar52a, Elenwen, ewan91, Medea_96, nadivolraissa e ReginadelleStelle per aver aggiunto la storia alle seguite (o, anche qui, per averla mantenuta)
4) Elenwen, nadivolraissa e Satana1 per averla mantenuta tra le ricordate

Che altro dire? Lasciate qui una recensione se vi va, anche se è di sole dieci parole ;)

Meneg suilad dalla vostra Elfa, al prossimo incontro *saluta con la manina*


Hannon le

ElenCelebrindal
 

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Capitolo 9
*** Avvenimenti ***


Avvenimenti

Piccola premessa: sono in dovere di informarvi che Tauriel, nella storia originale di Peter Jackson, ha seicento anni, mentre qui ne ha settecento. La maggior parte dei riferimenti alla vita di Tauriel sono gli originali di Jackson, mentre pochi sono inventati da me. 

“Tauriel Moryaniel, fai il tuo ingresso e presentati al popolo di Eryn Galen. Una grande guerriera merita grandi titoli. Quali saranno le tue intenzioni se verrai nominata Capitano?”
“Le mie intenzioni saranno tra le più nobili osservate da questo popolo”.
“Sulla tua vita e sulla terra in cui viviamo, giuri di portare sempre obbedienza al tuo sovrano?”
“Amin gwesta sen”
“Giuri di mettere il tuo arco e la tua spada al servizio della giustizia?”
“Amin gwesta sen”
“Giuri di dedicare la tua vita alla protezione di questo regno e, se necessario, della Terra di Mezzo?”
“Amin gwesta sen”.
“Allora alzati, Tauriel figlia della Foresta. Io ti nomino Capitano della Guardia. Ora voltati, e accogli i tuoi guerrieri”.
Lo sguardo di Tauriel era fiero, quando si voltò, e il suo viso si aprì in un sorriso quando gli Elfi la acclamarono, accettandola come loro nuovo capitano.
Legolas le sorrise, mentre batteva le mani per lei, ricordando il giorno che Thranduil gli aveva detto che l’avrebbe scelta come Capitano.
 
[flashback]
“Adar, hai riflettuto sulla proposta che ti ho fatto ieri?”, domandò Legolas a suo padre, ch’era appena uscito dalle sue stanze e si stava sistemando meglio la corona.
“Certo, e ho deciso. Hai ragione, Tauriel è valorosa come pochi, e non ci sono dubbi che non desidererei trovarmela di fronte in battaglia. Manderò qualcuno a chiamarla non appena sorgerà il sole, e se accetterà diverrà Capitano”, rispose Thranduil, afferrando il suo scettro di quercia.
Poi aggiunse: “Ma un pensiero mi è giunto alla mente. Siamo sicuri che tu vuoi Tauriel come Capitano solo per la sua abilità?”.
Legolas tacque, capendo all'’istante l’allusione del padre: aveva forse capito che Tauriel gli piaceva?
Era comprensibile che non volesse una cosa del genere, dato che Tauriel era una semplice guerriera, che aveva visto molto raramente le aule del palazzo, a differenza di sua madre Vendë, che viveva nelle sale.
Perciò rispose, evasivo: “Adar, non solo per la sua abilità, poiché è un’eccellente stratega e sa obbedire agli ordini”, ma aggiunse mentalmente: «E si, perché mi piace».
Così non mentì.
Thranduil strinse gli occhi, ma non aggiunse nulla e si congedò dal figlio.
 
[fine flashback]
 
Aveva corso un bel rischio quel giorno, ma ora non gli importava, perché aveva una scusa più che giustificabile per essere tanto felice per lei, e cercò di essere il più credibile possibile, per non far insospettire maggiormente suo padre.
Quando la folla si disperse, rimasero solo Tauriel, Legolas e Thranduil, che disse: “Molto bene, Tauriel. Ora che sei Capitano, ricorda sempre il tuo giuramento. Per oggi puoi ritenerti libera, ma da domani ti voglio pronta ad adempiere al tuo ruolo. Niente scuse”.
Tauriel si inchinò: “Ma certo, hír nîn. Se volete scusarmi, io ora andrei”, disse, in tono cortese, prima di salutare chinando la testa anche Legolas e dirigersi fuori, probabilmente per uscire sotto la pioggia che cadeva incessantemente da quella mattina.
Tauriel adorava la pioggia, lo aveva detto al principe quando era ancora una ragazzina: erano stati spesso insieme, perché era una buona amica con cui confidarsi, anche se non aveva una bella storia alle spalle.
All'’età di soli cinque anni aveva perso entrambi i genitori, in un’imboscata degli orchi, aveva raccontato Tauriel a Legolas.
Erano fuori dalla foresta, e alcune di quelle creature vagabonde, reduci della sconfitta di Sauron, erano piombate improvvisamene su di loro, brandendo delle terribili sciabole.
I suoi genitori erano riusciti ad ucciderli tutti, ma le ferite da loro riportare si rivelarono troppo gravi da curare, e morirono in pochi giorni, e Tauriel venne affidata alle cure di una delle amiche della madre, e con lei era rimasta fino alla sua entrata nella guardia elfica.
Legolas aveva cominciato a passare molto tempo con lei sin da quando Tauriel era una bambina, e con il passare del tempo aveva compreso di provare qualcosa per l’Elfa, sebbene non sapesse ancora bene che sentimenti fossero, ma le piaceva, in tutti i sensi.
“Ho un compito per te, Legolas”.
Le parole del padre riscossero il principe dai suoi pensieri: “Si, adar?”.
“Ho bisogno che tu ti diriga a sud del bosco. Sai bene che ormai questa foresta è chiamata Bosco Atro, e che l’influenza maligna è caduta su di noi, ma mi occorrono più informazioni. Desidero che ti avvicini il più possibile a Dol Guldur, ma senza rischiare troppo. Cerca di scoprire cosa si nasconde lì dentro. Ho qualche sospetto, ma mi servono certezze”.
Thranduil era sicuro che ci fosse Sauron dietro tutto quello, ma era restio a rivelarlo al figlio, ma gli servivano ulteriori informazioni e non avrebbe saputo individuare persona migliore per quel compito.
Dall’anno 1100 della Terza Era un potere sconosciuto e oscuro si era abbattuto su Eryn Galen, e proveniva dalla vecchia fortezza di Dol Guldur.
Inizialmente, Thranduil ipotizzò che si trattasse di semplici ombre del passato, ma con il passare del tempo, e la venuta di oscure creature, non ne fu più tanto sicuro.
Legolas non era del tutto all'’oscuro, ma non conosceva tutto ciò che il padre avea scoperto e si limitava a obbedire agli ordini quando ne riceveva, e combatteva i ragni sempre in aumento senza ritirarsi mai, senza indugiare o rinunciare alla caccia.
E ora stava per avvicinarsi a quel posto che gli era stato proibito, tempo prima, perfino di scorgere da lontano.
Indossava abiti troppo elaborati per un’impresa del genere, così si diresse alla svelta nella sua camera e si cambiò, sostituendo la lunga veste da cerimonia con un completo da viaggio, e completò il tutto con la sua leggera armatura, che non aveva mai abbandonato neppure quando aveva abbandonato il posto di Capitano.
Quindi mise in spalla arco e faretra e recuperò i suoi lunghi pugnali; poi uscì a passo svelto, superando ogni elfo che incrociava sui corridoi, oltrepassando solo i decorati portali delle sale.
Suo padre aveva lasciato intendere di non portare alcuno con sé, e Legolas non avrebbe trasgredito.
Sarebbe stato un lungo viaggio a piedi, ma al principe non facevano paura le lunghe distanze, anzi, adorava camminare tra gli alberi del bosco, purtroppo ora chiamato Taur-nu-Fuin in memoria del passato.
Quando ebbe superato di molto la città tra gli alberi, però, si accorse che qualcuno lo stava seguendo, da sopra i rami, e si fermò.
Con un gesto fulmineo impugnò l’arco e incoccò una freccia, puntandola tra le fronde dell’albero che aveva dinanzi e tendendo la corda.
Una voce provenne dall’alto: “Non scoccare, sono io”, e venne seguita prontamente da Tauriel, che saltò giù dall’albero e atterrò a pochi passi da Legolas, che si rilassò e si rimise l’arco in spalla: “Cosa ti è saltato in mente, Tauriel? Non è nemmeno il tuo primo giorno da Capitano e già vorresti infrangere le regole? Non puoi seguirmi”, disse, anticipando le parole dell’elfa.
Tauriel sorrise: “Non sto contravvenendo ad alcuna regola od ordine. Come hai detto, non è ancora il mio primo giorno da Capitano. E poi, io posso seguirti, principe. Fino ad un certo punto, desidero aiutarti”, ribatté.
Il principe scosse la testa: “A volte sei impossibile. Non ho mai conosciuto un elfo tanto testardo in vita mia, a parte forse mio padre. E va bene, vieni pure se desideri, ma prima che cali la notte devi tornare indietro, o il re si adirerà”, capitolò, sebbene in fondo al cuore esultasse per la presenza di Tauriel.
“Allora sbrighiamoci!”, esclamò lei, e con un agile balzò risalì sull’albero da cui era scesa, mentre Legolas la seguiva da terra.
Non incontrarono avversità per tutto il giorno e, come promesso, prima della sera Tauriel si voltò indietro, augurando buona fortuna al principe, che la salutò con un minimo di rimpianto.
Legolas non trovò sicuro fermarsi, quella notte, non in un posto dove rischiava molti pericoli dov’era, quindi proseguì il cammino, orientandosi grazie alle luminose stelle sulla via da prendere.
Raramente era passato per quei sentieri, anche da giovane, poiché suo padre gliel’aveva sempre vietato, ma ora calcava quei sentieri poco battuti e quasi scomparsi, arco in pugno e pronto a estrarre una freccia, senza alcun timore.
La notte arrivò e passò, e così il giorno, che trascorse senza attacchi eventuali di ragni o altre creature.
Quando la luna fu alta nel cielo, però, ed era solo una minuta falce, un piccolo taglio luminoso nel buio cielo notturno, Legolas udì dei rumori che promettevano ben poco di buono.
Non si fermò, ma incoccò una freccia e camminò con l’arco teso, pronto a difendersi o ad attaccare.
D’improvviso, una sagoma enorme oscurò la luce della luna, e Legolas finì per poggiare una mano su una sostanza appiccicosa.
La ritrasse immediatamente: “Naith!” (Ragnatele!), esclamò, puntando l’arco contro quello che era un gigantesco ragno, nero più della notte.
Prima che l’orrenda creatura ebbe il tempo di scagliarsi su di lui, Legolas scoccò, e la freccia colpì con estrema precisione.
Il ragno cadde dai rami e finì a terra, morto, ma altri stavano rapidamente giungendo, e ben presto il principe si ritrovò circondato.
Non batté ciglio, era già capitato in situazioni simili, e restò immobile, attendendo che i ragni facessero la prima mossa.
Quando uno di loro cominciò a muoversi, velocemente Legolas incoccò nuovamente e scagliò una freccia dopo l’altra, uccidendo una a una tutte le bestie che lo minacciavano.
Inaspettatamente, però, finì dritto in una delle loro ragnatele, e un braccio gli rimase bloccato nella tela appiccicosa, rendendo vano ogni tentativo do attaccare a distanza.
Legolas estrasse uno dei suoi lunghi coltelli con la sinistra e uccise i rimanenti ragni, per poi tagliare la ragnatela e recuperare l’arco, caduto a terra.
Si accertò che nessun ragno fosse ancora in vita e, una volta sicuro, si rimise in cammino, più vicino che mai a Dol Guldur.
Dovette rallentare il passò, però, perché altri gruppi di ragni lo assalirono e, cosa preoccupante, si ritrovò a fronteggiare anche alcuni orchi: pochi, ma abbastanza da farlo insospettire e preoccupare della situazione.
Quando riuscì finalmente a scorgere la vecchia fortezza salì sugli alberi e affrettò il passo, muovendosi di ramo in ramo per non attirare troppi nemici.
Cercò di raggiungere Dol Guldur in quel modo, ma presto dovette accantonare l’idea, perché nelle vicinanze di quel luogo gli alberi si facevano più spogli e i rami scricchiolavano inquietantemente.
Era giunto fino all'’entrata, quando un gruppo molto più consistente di orchi lo prese di sorpresa, assalendolo alle spalle e circondandolo, mentre altri giungevano, a cavallo di orribili mannari e armati fino ai denti.
Un’energia maligna trapelava da Dol Guldur, tale che Legolas non aveva mai avvertito, e per la prima volta in vita sua il principe ebbe paura.
Paura di morire, perché non vedeva molte possibilità di entrare fronteggiando tutte quelle creature malvagie.
Così, non ci pensò due volte, prima di voltarsi e uccidere gli orchi alle sue spalle, per poi fuggire dalla direzione cui era venuto, lasciandosi alle spalle la vecchia fortezza e tutti gli orrori che nascondeva, correndo alla massima velocità consentitogli dalle gambe.
Sapeva che stava disubbidendo ad un chiaro ordine di suo padre, ma non sarebbe mai riuscito a scoprire qualcosa in più su Dol Guldur, era troppo ben sorvegliata e non c’era modo di entrarvi.
Imboccò i sentieri più sicuri che riuscì a trovare, ma non abbandonò mai la presa sull’arco, che tendeva ogni volta che udiva un rumore sospetto o notava delle ombre che si muovevano nel buio.
Non smise di correre finché non fu al sicuro nei confini del Reame Boscoso, e solo allora rallentò fino a fermarsi al margine della città del bosco, poggiandosi ad un tronco e sedendosi di schianto a terra.
Restò immobile in quella posizione per molto tempo, riflettendo su cosa dire a suo padre, ma alla fine non riuscì trovare delle motivazioni più convincenti e, sospirando, si rimise in piedi e imboccò la via per il palazzo, rassegnandosi al sicuro ennesimo rimprovero di Thranduil.
Si domandò dove fosse Tauriel in quel momento: probabilmente girovagava per la foresta al comando di un gruppo di guardie, come spesso faceva lui stesso, oppure, come sperava, si trovava a palazzo perché era rientrata prima.
A quello pensava mentre attraversava il ponte sul Taurduin, per ritardare il più possibile ciò che gli avrebbe messo in testa Thranduil.
Ma, quando i portali si chiusero dietro di lui, riportò la sua attenzione su ciò che doveva riferire al padre, che lo accolse con il suo solito fare altezzoso: “Molto bene, Legolas. Sei tornato. Quali notizie mi porti da Dol Guldur?”.
Legolas esitò, guardando una a una le guardie presenti, poi rispose, a testa china: “Adar, io… ecco, non sono riuscito ad avvicinarmi abbastanza alla vecchia fortezza per scoprire qualcosa di relativamente importante. Sono dovuto fuggire, non avevo altra scelta. Gohano nîn” (Perdonami).
Thranduil lo fissò con sguardo gelido: “E cosa ha costretto un valoroso guerriero come te alla fuga?”, gli chiese, dall’alto del suo trono.
“La fortezza era ben sorvegliata, adar. Non solo ho incontrato un numero maggiore di ragni, lungo la via, ma Dol Guldur era invasa da orchi e mannari. Sono stati loro a costringermi alla fuga, ché erano in numero troppo soverchiante, benché sia un valoroso guerriero come affermi”, rispose il principe, con voce leggermente tremante.
Temeva la collera del padre, l’aveva già sperimentata e non voleva rivivere quell’esperienza.
Ma, incredibilmente, Thranduil sorrise, sorprendendo non poco Legolas, che disse: “Adar, perché stai sorridendo?”.
“Sto sorridendo perché non mi hai deluso fuggendo. Anzi, sono felice che tu l’abbia fatto, perché altrimenti avrei rischiato di perdere il mio unico figlio. Anche se sei rimasto al limite della fortezza, mia hai portato abbastanza informazioni”.
Thranduil scese dal trono e si mise di fronte al figlio, mettendogli una mano sulla spalla: “Hai fatto un buon lavoro, ora riposa. Sarai libero da qualsiasi impegno per tutta la settimana, capisco come ti senti ora”, disse.
Legolas sorrise: “Hannon le, adar”, disse, prima di congedarsi e chiudersi nella sua stanza, rinunciando al proposito di vedere Tauriel.
I giorni che seguirono furono relativamente tranquilli, tranne per le guardie che andavano e venivano dal palazzo, recando notizie più o meno confortanti al re, che sempre più spesso se ne stava nelle sue stanze, dietro la sua scrivania, a pensare sulle decisioni da prendere.
Legolas uscì nuovamente alla scadere della settimana, quando suo padre gli ordinò di unirsi alle guardie e di pattugliare il confine del Reame, per evitare alle malvagie creature che infestavano il bosco di invaderli.
Colse l’occasione e si riavvicinò a Tauriel, che stava controllando la punta di una freccia: “Tauriel, posso parlarti un momento?”, le chiese, rigirandosi tra le mani uno dei suoi coltelli.
Lei rimise al suo posto la freccia: “Ma certo, principe”, rispose.
“So di potermi fidare di te. E, volevo domandarti: tu cosa avresti fatto se ti fossi ritrovata a dover fronteggiare un folto gruppo di nemici? Insomma, più di quanti tu ne abbia mai affrontati”.
Si sedette accanto a lei e non smise di fissarla un attimo, mentre rispondeva: “Forse sarei rimasta a combattere, anche a costo della mia vita. Non abbandono tanto facilmente una missione quando la intraprendo e cerco di portarla sino alla fine”.
Legolas abbassò leggermente la testa, turbato da quella risposta.
Tauriel avrebbe avuto il coraggio di restare, ma lui era fuggito senza pensarci due volte, abbandonando l’esito della missione al fallimento.
Un velo gli cadde sugli occhi, e Tauriel lo notò, ché domandò: “Legolas, makoi le pedin sen?” (Legolas, perché dici questo?).
Il principe tornò a immergere i suoi occhi in quelli dell’elfa: “Perché io sono fuggito, Tauriel. Sono fuggito dinanzi ai miei nemici quando il loro numero divenne per me insostenibile. Non sono rimasto a combattere, ho rischiato di compromettere tutto con il mio comportamento”, rispose, con un fil di voce.
Il Capitano sorrise lievemente: “La fuga non è sempre un male, Legolas. Non siamo fatti tutti allo stesso modo. Così come io sarei rimasta a combattere, anche morendo nel tentativo, tu hai scelto la via della fuga, della salvezza. Ognuno ha le sue caratteristiche che lo contraddistinguono, e non perché sei fuggito potrei giudicarti male. Anzi, salvandoti la vita hai forse agito in modo molto più saggio di quanto avrei fatto io. Non struggerti per questo, non serve a nulla”, lo consolò.
Legolas riuscì a ritrovare il sorriso: “Hannon le”.
Tauriel riusciva spesso a tirarlo su di morale, ed era una delle caratteristiche che amava più in lei, anche se non lo avrebbe ammesso.
Non ancora.
“Di niente, principe. Ora, vogliate scusarmi, ma ho dei compiti da svolgere”, concluse Tauriel, rimettendosi in piedi e tornando dalle guardie.
Legolas stette a guardarla per qualche istante, poi pece la medesima cosa con le guardie a lui assegnate per quel giorno.
Gli anni passarono, e mentre la malvagità che si spargeva da Dol Guldur aumentava gli Elfi cominciavano a starsene sempre più sulle loro, uscivano raramente dai confini ben protetti del Reame, fatta eccezione per l guardie, sempre al seguito di Tauriel e Legolas.
Il principe, infatti, aveva deciso di ricoprire il ruolo di vice-capitano, quando il precedente scelse di abbandonare l’incarico, e Thranduil era stato molto fiero della sua scelta.
Non conosceva, però, il motivo per cui era rientrato nell’esercito, e non avrebbe mai dovuto scoprirlo prima del tempo.
Ma Thranduil aveva compreso da molto che Legolas aveva cominciato ad innamorarsi di Tauriel, glielo leggeva negli occhi, e lo tirava fuori dalle loro lunghe conversazioni e i rapporti sulla situazione che il figlio gli portava regolarmente.
Tuttavia, Legolas non venne a sapere nulla e così si arrivò all'’anno 2770 della Terza Era, quando le sentinelle di confine riportarono a palazzo una notizia poco rassicurante.
Legolas era accanto al trono del padre, quando Varnon, di pattuglia al confine nord-orientale, si presentò al cospetto del re: “Aran Thranduil, ho delle notizie che temo non vi piaceranno. Strani avvenimenti ci hanno messo in allarme, e si vocifera che il drago Smaug sia in procinto di riconquistare Erebor”, disse, in ginocchio dinanzi al trono.
“Erio” (Alzati), disse qualche minuto dopo Thranduil con voce ferma, per poi continuare quando Varnon fu in piedi: “Fa’ ritorno al confine e attendi”, ordinò semplicemente.
Varnon si inchinò nuovamente e si congedò, dirigendosi velocemente all'’uscita.
Il principe guardò il padre: “Hai intenzione di andare in loro aiuto?”, domandò.
“Non lo so ancora. So che andrò, per ora. Poi deciderò cosa fare”, rispose il re, prima di alzarsi e scendere dal trono, mentre diceva: “Da’ l’ordine di prepararsi. Partiremo fra meno di due ore”.
“Be iest lîn” (Secondo i tuoi desideri).
Grazie alla loro rapidità e al loro valido addestramento, gli elfi dell’esercito furono pronti a partire appena prima dello scadere del tempo concesso dal re, che si mise in testa all'’esercito in groppa alla sua alce.
Spostò lo sguardo sul figlio: “Tu rimani qui”, disse.
“Lau, im aníron maetho!” (No, io voglio combattere!”), protestò Legolas.
Thranduil lo guardò severamente: “Non mi ripeterò. Gwao hi”, (Vai ora) replicò perentorio.
Legolas, furioso, abbassò lo sguardo e fece ritorno al palazzo, passando tra due ali di guerrieri che si spostavano al suo passaggio e chinavano la testa.
Era un bravo combattente, perché suo padre non lo voleva al suo fianco?
Si chiuse nella sua stanza e rifiutò qualsiasi contatto con chiunque, cercando di far sbollire la rabbia che provava nei confronti di suo padre, che l’aveva ancora una volta escluso dagli avvenimenti della Terra di Mezzo.
Dopo qualche ora sentì bussare alla porta, ma si chiuse in un ostinato silenzio e non aprì.
Il bussare si fece più insistente e una voce gli arrivò da dietro il legno: “Legolas, apri questa porta! Non mi interessa se sei un principe, non costringermi a buttarla giù!”.
Legolas sorrise; solo una persona aveva il coraggio di parlargli in quel modo, e sapeva che diceva sul serio: quella porta non avrebbe resistito ancora per molto, perciò si alzò dal letto e abbassò la maniglia: “Non ci tengo a farmi sfondare la porta, Tauriel. Perciò smetti di bussare o colpirai me e non il legno”, disse, mentre apriva.
L’elfa, a quanto poteva capire il principe, era arrabbiata almeno quanto lui, a giudicare dallo scintillio preoccupante che aveva negli occhi, ma con la differenza che sembrava meno risentita.
“Non sarà stando chiuso qui dentro che farai sbollire la rabbia, principe. Dopotutto, Thranduil ha impedito anche a me di seguire l’esercito, nonostante io sia il Capitano della Guardia. So perché ha fatto questo nei miei confronti, ma credo tu immagini già perché lo ha impedito a te. Tu sei troppo importante per lui, non vuole rischiare di perderti affrontando il drago. Mi hai raccontato cosa è successo contro i serpenti del nord. Forse non vuole che accada di nuovo, non vuole che tu ci vada di mezzo. Cerca di capirlo, Legolas. Ti vuole bene, anche se si comporta in modo altezzoso e ha un atteggiamento di superiorità. Coraggio, cerchiamo di scaricare la tensione. Ti va di allenarti assieme a me?”.
Legolas si sentì confortato da quelle parole: Tauriel riusciva a guardare nei cuori delle persone, e si fidava di ciò che diceva.
Perciò annuì e la seguì ai campi d’addestramento, ma con il pensiero sempre rivolto al padre, in guerra di nuovo senza lui al suo fianco.
Erano arrivati tardi, Thranduil lo sapeva.
Vedeva il fumo che impregnava l’aria, sentiva l’odore della morte.
E, soprattutto, sentiva urla, urla che gli arrivavano acute e gravi alle orecchie: voci di donne, bambini e uomini in preda al panico, che cercavano di mettersi in salvo.
La città di Dale era completamente distrutta, la furia del drago l’aveva rasa al suolo, aveva ucciso i suoi abitanti e compiuto una strage, prima di avventarsi su Erebor per appropriarsi dell’oro che vi si trovava.
Thranduil fermò il suo esercito sul ciglio di una bassa altura, da dove vedeva distintamente molti Nani che uscivano da Erebor, correndo disperati per salvarsi la vita.
E vide anche il giovane Nano Thorin alzare la testa e guardare lui, urlando: “Aiutateci!”, agitando una mano per invocare il loro soccorso, spingendo allo stesso tempo i suoi compagni via dalla Montagna, le cui porte si chiusero con un colpo secco e rimbombante.
Thranduil chinò la testa, mentre i ricordi gli invadevano la mente…
[flashback]
Quattro guardie dietro di lui, e i Nani più nobili di Erebor dinanzi.
Thranduil camminava lento e solenne sulla liscia passerella di pietra che conduceva al trono di Thrór, re sotto la Montagna, e teneva lo sguardo fisso sul Nano, che se ne stava seduto comodamente, senza muoversi o fare altro.
Si fermò a poca distanza dal re, e le guardie lo imitarono, arrestandosi qualche passo dietro di lui.
Thranduil piegò le labbra in un lieve sorriso e piegò leggermente la testa, mentre Thrór sorrideva a sua volta e suo figlio Thráin si avvicinava con uno scrigno tra le mani.
Si fermò lontano dal trono del padre, ma comunque davanti a quest’ultimo.
Thranduil si avvicinò lentamente, osservando quello scrigno e cercando di immaginare cosa vi fosse custodito all'’interno, e la sua curiosità venne presto soddisfatta.
Il Nano aprì lo scrigno, mostrando il suo contenuto: Thranduil spalancò gli occhi di fronte a tale bellezza.
Chiare e cristalline, come illuminate da pura luce lunare, delle gemme bianchissime sfavillavano all'’interno dello scrigno, belle come non ne aveva mai viste in precedenza.
Il re tese una mano, anche solo per toccare quella meraviglia, ma Thráin chiuse di scatto lo scrigno, mancando di poco le dita di Thranduil, che sgranò gli occhi, offeso.
Sollevò lo sguardo sul re e sorrise, un lieve sorriso che lasciava trapelare tutta l’offesa arrecatagli e la promessa di una vendetta.
Poi voltò le spalle ai Nani e uscì, così com’era entrato.
 
[fine flashback]
 
Thorin gli lanciò un’ultima occhiata, piena di supplica, ma Thranduil fece voltare l’alce e ritirò i suoi guerrieri.
Non avrebbe rischiato la vita dei suoi sudditi contro l’ira del drago, solamente perché un Nano, che tempo prima aveva provocato uno screzio enorme, stava chiedendo il loro aiuto.
Silenziosi erano giunti sin lì, e silenziosi andarono via, lasciandosi alle spalle la morte e la desolazione che Smaug aveva creato, lasciando a sé stessi i Nani che avevano tradito il re.
 
 
“Combatti davvero molto bene, hai proprio meritato il titolo di Capitano”, osservò Legolas, mettendo giù i coltelli, imitato subito da Tauriel, che li ripose nelle guaine.
“Ho passato tutta la vita ad addestrarmi per entrare nell’esercito”, disse lei, sedendosi su di una grossa radice che sporgeva dal terreno.
I due avevano combattuto a lungo, tanto che ormai il sole rasentava il profilo dell’orizzonte e il cielo si stava tingendo di rosso, dando alle nuvole una sfumatura aranciata.
Il principe sedette accanto all'’elfa: “Come mai hai scelto di entrare nell’esercito?”, le domandò.
“Come mai questa domanda, principe?”.
“Non lo so. È da qualche tempo che me lo chiedo”.
Tauriel sospirò, piegando le gambe e abbracciandosi le ginocchia: “Credo sia perché ho perso i genitori. Fin da bambina piccola non faccio che pensare  a loro, alla loro morte per mano di quelle maledette creature: ho passato molte notti insonni a causa degli incubi che mi turbavano la mente. Poi, osservando alcuni guerrieri, ho deciso di provare a combattere. Così, per gioco, senza una ragione precisa. E ho scoperto che se combatto, se mi concentro su questo, riesco a non pensare al mio passato. C’è spazio solamente per le armi che ho in pugno, e per il nemico che ho dinanzi. Ho impiegato la forza che mi infonde la rabbia che provo verso tutto ciò che è oscuro, e mi sono imposta di dare sempre il massimo in ogni cosa. Così sono riuscita ad entrare nella guardia elfica e ora sono Capitano”.
Legolas la osservò, cercando di vedere in lei tutto ciò che aveva appena detto: la vedeva, la guerriera, ma non era mai stato in grado di cogliere i sentimenti che la animavano, ciò che provava quando combatteva o semplicemente dava degli ordini.
Sotto quella luce, Tauriel le piaceva anche più di prima.
Quando il sole fu ormai tramontato, e le prima stelle cominciarono ad apparire, il principe disse: “Credo sia il caso di tornare. Le luci di Elbereth si stanno accendendo in cielo, e la luna non tarderà a sorgere”.
Si alzò, ma Tauriel restò ferma dov’era.
“Vai tu. Io resto qui ancora per un po’”, disse alzando solo gli occhi.
Legolas annuì e fece ritorno a palazzo, ma sentiva che c’era qualcosa che lo inquietava, ma che non riusciva a spiegarsi.
Andò a dormire con quella sensazione addosso, e quando chiuse gli occhi vide solo un immenso muro di fuoco, circondato da immagini di morte.
 
Il re, assieme all'’esercito, tornò due giorni dopo, e Legolas si precipitò a controllare, più preoccupato che mai.
Ma si preoccupò ancor di più quando vide che nessuno sembrava aver combattuto: ogni armatura e arma era immacolata, e tutti erano sereni e tranquilli.
Tutti, tranne Thranduil, che sembrava lievemente irritato.
Quando rimase solamente il padre, Legolas si avvicinò: “Adar, cosa è accaduto? Non sembra che abbiate combattuto una battaglia”, disse.
Thranduil lo fissò dritto negli occhi, un gesto che, Legolas sapeva, gli ricordava sempre la moglie: “Infatti non siamo scesi in battaglia. Non contro un drago”, rispose, ma sembrava troppo evasivo.
Il principe strinse gli occhi: “Come sarebbe a dire? Tu non ti saresti tirato indietro, non l’hai fatto contro i serpenti del nord”.
“Forse l’ho fatto proprio in memoria di quello”.
“Io non credo, adar. Chi dovevi aiutare? Non certo Dale, ho sentito che è stata rasa al suolo prima del vostro arrivo”.
“No, non erano gli Uomini di Dale”.
“E allora chi?”.
Suo padre esitò: “I Nani di Erebor”, rispose.
Poi non aggiunse nient’altro; diede le spalle al figlio e si diresse alle sue stanze, senza più rivolgerli la parola o indirizzargli uno sguardo.
Legolas aggrottò le sopracciglia, turbato perché aveva compreso il motivo per cui non era sceso in battaglia.
Ma cercava in tutti i modi di convincersi che non era così, che suo padre non avrebbe mai lasciato a sé stessi tutti quegli individui, seppure Nani, solamente perché si erano rifiutati di concedergli le gemme che gli avevano mostrato.
C’era un altro motivo, doveva essercene un altro.
A questo pensava il principe, mentre si ritirava in biblioteca.


Angolo dell'autrice

Ebbene sì, alla fine ho aggiornato! Chiedo venia per il ritardo, ma la scuola mi ha tenuto molto impegnata e, per di più, fra un giorno esatto cominceranno le simulazioni d'esame, quindi tanto di cappello e riaggiornerò tardi, temo. Ma ora non pensiamoci e riflettiamo sulla storia...
...
...
...
Avete riflettuto abbastanza? Bene, allora spero che abbiate racimolato qualche parola, anche solo undici piccole paroline, da mettere in una recensione ^_^
Molto bene, detto questo vi lascio, ma non prima di aver ringraziato ancora una volta:


1) I miei carissimi lettori silenziosi
2) Ayumi_m, Elenwen, fredfredina, letizia2002, nadivolraissa, sara2001, Stana1 e solenne per aver mantenuto la storia tra le preferite
3) Anna Tentori, Chiaretta_6, Clar52a, Elenwen, ewan91, Medea_96, nadivolraissa e ReginadelleStelle per aver mantenuto la storia alle seguite
4) Elenwen, nadivolraissa e Satana1 per averla mantenuta tra le ricordate

E ringrazio Clar52a, che ha recensito il precedente capitolo :)

Non ho altro da dire, se non: meneg suilad, mellyn nîn, continuate a leggere perché è una passione intramontabile!

Dalla vostra Elfa


Hannon le

ElenCelebrindal

 

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Capitolo 10
*** Nani al Reame Boscoso ***


Nani al Reame Boscoso

Piccola, minuscola premessa: perdonatemiiiiiiiiiii!! So che vi ho fatto attendere per un tempo a dir poco indecente, ma ho dovuto aspettare l'uscita del DVD de "La Desolazione di Smaug" per riuscire a scrivere tutti i dialoghi in maniera decente... E volevo aggiungere che siamo andati naturalmente avanti con i tempi, ovvero siano saltati dalla Conquista di Erebor da parte di Smaug all'arrivo dei Nani nel Reame Boscoso. Vi lascio alla storia, ci vediamo nelle note!

“Legolas, attento!”.
Il grido di Tauriel fece voltare appena in tempo il principe, che si abbassò per evitare le mortali tenaglie di un ragno, colpendolo poi con uno dei suoi coltelli.
La creatura cadde al suolo, morta, e subito dopo l’elfo udì delle urla concitate provenire da un punto non troppo distante da dove si trovavano lui e alcuni elfi di guardia.
Senza pensarci due volte, Legolas salì sui rami di un albero vicino e corse nella direzione di quelle grida, individuando subito un ragno che si calava a terra grazie al filo della sua ragnatela.
Impugnò più saldamente l’arco e saltò, afferrando la ragnatela e gettandosi sopra il ragno, che finì violentemente a terra mentre l’elfo scivolava lungo un leggero pendio, fino a ritrovarsi di fronte ad un gruppo di Nani.
Puntò una freccia al viso del più vicino, che riconobbe come Thorin Scudodiquercia: “Non credere che non ti uccida, Nano. Lo farei con piacere”, disse, mentre tutti gli altri elfi accerchiavano i nani, puntando le frecce contro di loro.
Thorin lo guardò con aria di sfida, ma un altro urlo fece contrarre i suoi lineamenti in preoccupazione, mentre un altro Nano, biondo, gridava: “Kili!”.
Legolas voltò la testa nella direzione da cui provenne l’urlo, e vide la chioma rossa di Tauriel tra le fronde.
Il principe diede un’ultima occhiata, poi ordinò: “Perquisiteli”.
Ogni nano venne perquisito, nessun arma o altro oggetto che poteva servire a quello scopo venne lasciato in mano loro.
Legolas pensò ad uno di essi, che aveva una folta barba rossa, e trovò un medaglione che sembrava d’argento.
Il nano protestò: “Ehi, Rìridammelo, è una cosa privata”.
Il principe aprì il medaglione, dov’erano contenuti due piccoli ritratti, abbastanza brutti: “Chi è questo, tuo fratello?”, domandò.
“Quella è mia moglie”, replicò il nano, piccato.
“E cos’è quest’orrenda creatura? Un orco mutante?”.
“Quello è il mio piccolino, Gimli!”.
Legolas sollevò un sopracciglio, lievemente disgustato, ma poi si accorse che Tauriel era appena arrivata, spintonando un altro nano.
Le si avvicinò: “Gurth in yngyl bain?” (I ragni sono morti tutti?), domandò.
Lei spinse il nano lontano e rispose: “Ennorner gwanod in yngyl na nyryn” (Si ma altri torneranno).
Il principe strinse gli occhi, e lei continuò: “Engain nar” (Si fanno più audaci).
Si allontanò da lei e controllò che tutti fossero stati perquisiti, e allora Elros gli si avvicinò, tra le mani una spada: “Legolas”, disse, mentre gliela consegnava, prima di tornare al proprio posto.
Legolas la prese, osservandola: “Echannen i vegil en vin Gondolin” (È un’antica lama elfica). Lanciò uno sguardo a Thorin, davanti a lui.  “Magannen nan Gelydh” (Forgiata dai Noldor).
Spostò lo sguardo su Thorin, abbassando la spada: “Dove l’hai presa?”, gli domandò.
“Quella mi è stata data”, rispose lui, con un tono che al principe non piacque.
Gli puntò la spada alla gola: “Non solo un ladro, ma anche un bugiardo. Enwenno hain!” (Catturateli!), ordinò poi, e gli elfi condussero, non con troppa grazia, i Nani fino al palazzo.
Attraversarono il ponte e condussero i nani fin dentro le sale, mentre Legolas ordinava: “Holo in ennyn”.
Si fermò per qualche istante, perplesso, poiché sentiva che c’era qualcosa di strano alle sue spalle; si voltò, ma non vedendo nulla, riprese a camminare, e i portali si richiusero immediatamente dietro di lui.
Diede ordine che tutti i Nani venissero rinchiusi nelle segrete del palazzo, e osservò Tauriel che parlava con il nano che aveva salvato, cercando do ignorare gli altri che continuavano a lamentarsi e a rivolgere parole scortesi e villane: “E non vuoi perquisirmi? Potrei avere di tutto nei pantaloni”, disse quello.
Tauriel lo guardò: “O niente”, poi chiuse la porta della cella.
Il nano osservava un po’ troppo l’elfa, così Legolas le chiese: “I Nogoth… amman e tîr gin?” (Perché il nano ti fissa?).
Tauriel rispose: “Ú-dangada? E orchal be Nogoth… pedithig?” (Chi può dirlo? È abbastanza alto per un nano, non trovi?).
Poi si allontanò in fretta, come fuggendo da qualcosa, mentre il principe replicava: “Orchal eb vui… mal uvanui en” (Più alto di alcuni, ma non meno brutto).
Guardò male quel giovane nano, prima di afferrare Thorin per un braccio per portarlo personalmente da suo padre, nonostante i tentativi del nano di liberarsi dalla sua presa.
Una volta davanti al trono, Legolas lasciò andare il nano, affidandolo alla sorveglianza di due guardie, e si portò al fianco del padre, che gli porse lo scettro prima di alzarsi e fermarsi alle spalle del nano.
Sollevò la testa e restò in silenzio qualche istante, prima di prendere la parola, voltando la testa: “Qualcuno immaginerebbe che una nobile impresa sia imminente. Impresa per riavere una terra natia e annientare un drago”.
Si voltò, tenendo le mani dietro la schiena, e si avvicinò a Thorin: “Personalmente, sospetto un motivo molto più prosaico. Tentativo di furto, o qualcosa di quel genere”.
Si chinò di lato, per arrivare a guardare negli occhi il nano, per poi raddrizzarsi e camminare all'’indietro fino a fermarsi accanto al trono: “Hai trovato una via per entrare. Cerchi quello che farebbe convergere sopra di te il diritto a regnare. Il gioiello del re. L’Arkengemma”.
Un sorriso gli increspò le labbra, per poi sparire così com’era apparso: “È preziosa per te oltre ogni cosa. L capisco questo. Ci sono gemme nella Montagna che anch’io desidero. Gemme bianche, di pura luce stellare. Io ti offro il mio aiuto”.
Un sorriso di scherno apparve sulle labbra del nano: “Ti ascolto”.
“Ti lascerò andare, solamente se restituisci quello che è mio”.
“Favore per favore”, disse Thorin, dando le spalle al re e allontanandosi di poco.
“È la mia parola. Da un re a un altro”.
Il nano sembrò riflettere, ma poi scosse lievemente la testa, prima di dire, a voce alta: “Io non mi fiderei che Thranduil, il grande re, onori la sua parola. Dovesse la Fine dei Giorni incombere su di noi!”.
Si voltò, indicando con un gesto rabbioso prima Thranduil e poi sé stesso: “Tu sei privo di ogni onore! Ho visto come tratti i tuoi amici. Siamo venuti da te, una volta, affamati, senza dimora, a cercare il tuo aiuto. Ma tu ci hai voltato le spalle. Tu ti sei allontanato dalla sofferenza del mio popolo e dall’inferno che ci ha distrutti!”.
Sentendo quelle parole, Legolas rivide chiarissimo davanti ai suoi occhi il giorno del primo arrivo dei Nani di Erebor in quella foresta.
 
[flashback]
 
Erano in pochi, gli ambasciatori della loro razza, e con loro c’era proprio Thorin, che guidava i suoi con determinazione e la giusta dose di gentilezza e compassione.
Thranduil aveva esitato molto, prima di accoglierli, ma alla fine aveva dato ordine di aprire i portali delle sale.
Legolas era seduto accanto al trono del padre, su uno scranno posto lì apposta per lui, e osservava muto la scena, evitando qualsiasi parola e restando immobile, facendo vagare solamente lo sguardo su quelle figure, malandate e stravolte.
Fu Thorin a parlare, con un tono di voce quasi supplice: “Noi non riusciremo a sopravvivere in queste condizioni. Siamo senza una dimora, e il cibo scarseggia fra di noi, che non riusciamo a procurarci il necessario per vivere. Chi non è morto a causa del drago sta morendo ora, di fame e di stenti. Dacci il tuo aiuto, aiutaci a superare la nostra disgrazia. Sono venuto a supplicarti, letteralmente in ginocchio”.
Il giovane principe nano indossava ancora gli abiti che probabilmente aveva durante l’attacco di Smaug , perché erano malridotti e sporchi, e numerose macchie rosse (con tutta probabilità sangue) si notavano sulla scura stoffa blu.
Il padre sembrò valutare l’opzione di farli restare, almeno fino a quando non si fossero ripresi, ma dopo un tempo che parve interminabile pronunciò la sua sentenza, lapidaria: “Sono tentato di darti il mio aiuto, Thorin figlio di Thráin. Ma non ho intenzione di ospitarvi. Dei nani so che sono grandi guerrieri, e molto testardi, quindi non vedo motivo di farvi restare qui. Riuscirete benissimo a sopravvivere con le vostre sole forze. Ora andate via, prima che faccia intervenire le guardie”, ordinò secco, vedendo molti cominciare a protestare.
Legolas, pur non sopportando molto i nani lui stesso, fremeva leggermente.
Suo padre aveva appena rifiutato di ospitare i reduci dell’attacco violento di un drago, dopo averli anche abbandonati sul campo, e questo non gli andava giù facilmente.
Ma osservò lo sguardo costernato e furioso di Thorin al tempo stesso mentre si allontanava senza muoversi, e guardò i nani andare via da lì con sguardo impassibile, nascondendo le proprie emozioni.
 
[fine flashback]
 
Durò pochi attimi, appena la pausa che Thorin fece prima di sputare in faccia a Thranduil le parole nella sua lingua: “Imrid amrad ursul!” (Muori una morte di fiamme!).
Thranduil si arrabbiò, e chinò il busto fino ad arrivare al viso del nano: “Tu non parlarmi del fuoco del drago. Conosco la sua rabbia e la sua rovina”.
E in quel momento accadde una cosa che Legolas avrebbe sperato di non vedere mai più: il volto di suo padre si sfigurò, mostrando l’orribile sfregio sul suo viso, conseguenza della battaglia contro i serpenti.
Thorin arretrò impercettibilmente, mentre Thranduil diceva, con voce leggermente sofferente: “Io ho affrontato i grandi serpenti del nord”.
Poi si allontanò di colpo, e lo sfregiò svanì così com’era apparso.
Il viso del re tornò ad assumere la solita espressione: “Misi in guardia tuo nonno su ciò che la sua avidità avrebbe raccolto, ma lui non mi ascoltò”.
Prese a salire i gradini del suo trono: “Tu sei proprio come lui”.
Un gesto, e due guardie afferrarono Thorin per le braccia, trascinandolo giù per le scale.
Thranduil, in piedi davanti al suo seggio, disse: “Resta qui se vuoi, e marcisci. Cento anni sono un mero battito di palpebre nella vita di un elfo. Io sono paziente. Posso attendere”.
Poi si sedette, mentre Legolas osservava Thorin che veniva portato via, nelle segrete: “Sei sicuro di aver fatto la scelta giusta, adar?”, domandò al padre, porgendogli lo scettro.
Lui lo prese: “Si, assolutamente sicuro. Fra pochi giorni sarà la Mereth-en-Gilith, iôn nîn. Ordina a Tauriel che dovrà essere lei di guardia durante la festa”.
Legolas si alzò: “Sei sicuro di volerlo affidare a lei quel compito? Oggi ha combattuto bene, credo si meriti qualche ora di svago.”
“No, sarà compito suo”.
“Come desideri. Farò presente anche ad Elros di stare molto attento”.
“Legolas, dato che scendi di sotto, dì a Galion che fra non molto dovrà far riportare i barili a Esgaroth. Il vino è quasi finito, ne occorre dell’altro”.
“Provvedo subito, adar”.
Legolas scese fino alle cantine, dove sapeva trovarsi sia Galion che Elros e disse loro: “Galion, entro due giorni tutti quei barili vuoti dovranno già essere stati riportati a Esagaroth e ricondotti qui. Elros, le chiavi delle celle sono affidate a te, non permettere a nessuno di scappare”.
Il principe consegnò all'’elfo un mazzo di chiavi d’oro e si congedò, mentre Galion chiamava in suo aiuto un altro paio di elfi.
 

 
Thranduil attese a lungo l’arrivo del Capitano delle Guardie, rigirandosi tra le mani un calice di vino, ma quando non si fece vedere, anche se sentiva la sua presenza, disse: “So che sei lì, perché indugi nell’ombra?”.
Udì dei passi scendere le scale, e Tauriel finalmente fu dinanzi a lui: “Venivo a fare rapporto a te” disse, fermandosi e chinando la testa.
Thranduil quasi non badò a quel segno di rispetto: “Non avevo ordinato che quel nido venisse distrutto non più di due lune fa?”, disse, con tono di rimprovero.
Tauriel prese a camminare avanti e indietro: “Sgomberata la foresta come ordinato, mio signore. Ma altri ragni vengono su dal sud. Si riproducono delle rovine di Dol Guldur”.
Indicò il sovrano prima di riportare le braccia lungo i fianchi: “E se li uccidessimo alla fonte?”.
“La fortezza si trova oltre i nostri confini, ripulite le nostre terre da quelle laide creature. Fatelo”.
“E una volta messe in fuga? Cosa accadrà? Non si spargeranno in altre terre?”.
Thranduil stava cominciando a stancarsi dell’ostinazione dell’elfa: che diritto aveva lei di contraddire i suoi ordini?
Perciò disse, altezzoso: “Le altre terre non mi riguardano. Le fortune del mondo di solleveranno e cadranno ma qui, in questo regno, sapremo resistere. Ora obbedisci agli ordini”, aggiunse poi.
Tauriel chinò nuovamente la testa e oltrepassò il sovrano per andarsene, ma il re la fermò: “Legolas ha detto che ai combattuto bene, oggi”.
Fece una pausa: “Si è molto affezionato a te”.
Sentì la voce di Tauriel tremare leggermente quando rispose: “Ti assicuro, mio signore. Legolas mi considera solo un capitano della guardia”.
“Forse si, una volta. Adesso, non ne sono così sicuro”, ribatté Thranduil, constatando che Tauriel sembrava non essere sicura, data l’incertezza che aveva mostrato.
Lei disse: “Io non credo che tu concederesti a  tuo figlio di impegnarsi con un umile Elfo Silvano”.
Thranduil andò a versarsi un altro calice di vino: “No, hai ragione. Non lo farei. Tuttavia lui tiene a te. Non dargli speranza laddove non c’è. Ora va, sbrigati”, concluse.
 

 
 
Nei giorni che precedettero la festa Legolas evitò accuratamente le segrete, ma scoprì che suo padre scese diverse volte a parlare con Thorin, cercando di farlo ragionare, ma ottenendo solamente cupi mutismi e insulti a mezza voce.
La Meret-en-Gilith fu di particolare magnificenza, quell’anno, e ogni elfo del Reame Boscoso era stato invitato a prendere parte ai festeggiamenti, tranne ovviamente le guardie di turno e Tauriel, che passeggiava per le segrete controllando i Nani.
Legolas la osservava da lontano, attento a non far percepire la sua presenza all'’elfa, tenendola d’occhio mentre si avvicinava alla cella del Nano che sembrava il più giovane, agli occhi del principe.
Stava giocando con qualcosa, una specie di pietra piatta, ma l’attenzione di Legolas era tutta per Tauriel, che si fermò lì davanti e chiese: “La pietra che hai in mano, che cos’è?”.
Perché Tauriel aveva deciso di parlare proprio con lui?
Il nano, dopo averla fissata per qualche secondo, rispose: “È un talismano. Un potente incantesimo l’avvolge. Se qualcuno oltre ai Nani leggesse queste rune sarebbe eternamente dannato!”, e tese la pietra in direzione di Tauriel, che fece per andarsene.
Legolas stava quasi per farsi salire un sorriso alle labbra, quando il nano aggiunse: “O no?”, e Tauriel tornò indietro, di nuovo di fronte alla cella.
“Dipende se credi in quel tipo di cose. È solo un ricordo, una pietra runica. Me l’ha data mia madre perché ricordassi la mia promessa”.
“Quale promessa?”.
“Che sarei tornato da lei”.
A quelle parole, Legolas sperò che l’elfa non credesse a quelle parole, che non cedesse alla pietà e andasse via, ma quando il Nano continuò a parlare, lei restò: “Si preoccupa, mi ritiene spericolato”.
“E lo sei?”.
“Nah”, fu la semplice risposta del nano, che stava cominciando a spazientire non poco il principe, che si stava perdendo i festeggiamenti a causa di quel’inutile discorso che aveva iniziato.
Lanciò in aria la pietra, ma non riuscì a riprenderla e quella cadde fuori, oltre le sbarre, lontano dalla sua portata, e l’elfa si chinò a riprenderla, osservandola.
“Sembra che stiate facendo una gran festa lassù”, disse il nano, guardando in alto.
Tauriel guardò a sua volta, e il principe fece un paio di passi indietro, celandosi meglio nell’ombra che avvolgeva le segrete, scarsamente illuminate da poche lampade dorate.
“È la Mereth-en-Gilith, la festa della luce stellare. Tutta la luce è sacra agli Eldar, ma gli Elfi Silvani adorano la luce delle stelle”, spiegò.
“Io l’ho sempre trovata una luce fredda, remota e molto lontana”, replicò il nano.
Legolas storse il naso: che cosa ne poteva sapere uno di loro della luce delle stelle, degli astri splendenti che Elbereth stessa aveva posto sulla volta celeste?
Quelle chiacchiere stavano cominciando davvero a infastidirlo, ma Tauriel sembrava non pensarla così, perché si sedette sui gradini accanto a quella cella, per ascoltare.
“Essa è memoria, preziosa e pura”, ribatté.
Poi porse la pietra runica al nano: “Come la tua promessa. Sono andata lì qualche volta, oltre le foreste, sulle montagne, di notte. Ho visto il mondo cadere via e la bianca luce dell’eternità riempire l’aria”.
Anche il nano, però, aveva qualcosa da raccontare: “Io invece ho visto una luna di fuoco una volta. Si era levata al passo vicino a Dunland, enorme. Rossa e dorata era, riempiva il cielo”.
E continuò a parlare, ma Legolas ne aveva ormai abbastanza e indietreggiò ancora, fino ad arrivare alle scale, che salì velocemente, lasciandosi alle spalle la voce del nano.
Quel nano che aveva il coraggio di parlare con Tauriel di cose semplici, mentre lui non faceva altro che parlare di strategia, di battaglie e di formalità con l’elfa, confidandosi con lei ormai solo poche volte, troppo rare rispetto a quando si conoscevano solo come amici e lei non aveva un compito importante come Capitano.
Indossava ancora gli abiti da guardiano, ma siccome non aveva voglia di cambiarsi si tolse solamente l’armatura, gettandola in un angolo della stanza, prima di unirsi ai festeggiamenti.
Il padre lo raggiunse: “Legolas, dove sei stato fino ad ora? Non mi pare di averti visto, prima”.
“Ero solo sceso alle prigioni per un rapido controllo”, rispose.
“Non toccava a te, iôn nîn. Come mai sei andato? Non sarà Tauriel il motivo”.
“E se anche fosse?”, replicò Legolas.
Il padre lo trascinò in un luogo più tranquillo, prima di parlare: “Tu mi hai sempre assicurato che tra te e lei c’è solamente amicizia, ma da come la guardi, da come parli di lei, a me sembra che ci sia qualcos’altro nascosto dietro di questa. Lei non fa per te, Legolas, non farti illusioni.”.
“Come puoi dire a me una cosa simile? Se anche provassi per lei qualcosa che va oltre la semplice amicizia, perché vuoi ostacolarmi, adar?”, gli domandò Legolas, deluso dal comportamento di suo padre.
“Un umile Elfo Silvano, ecco cos’è Tauriel, seppur un grande Capitano. Tu sei il principe di questo reame, non puoi legarti a qualcuno come lei”.
Legolas non credeva alle proprie orecchie: “Non mi pare che tu abbia sposato una principessa”, disse, ma si pentì subito di quelle parole, perché Thranduil lo guardò con un’espressione colma di rabbia ma anche di tristezza: “Non parlare di tua madre in questo modo. Lei aveva sangue nobile nelle vene, era adatta ad un principe com’ero. Lei…”.
Il re si fermò, come incapace di continuare, e Legolas non aggiunse altro, voltandosi, ma udì un sussurro alle sue spalle, mentre si allontanava: “Le non ti ama, Legolas”.
Si diresse alle sue stanze, mentre una lacrima solitaria gli scendeva lungo la guancia.
Ma non erano state solo le parole del padre a ferirlo, no.
Era stato il comprendere, dopo anni, che Tauriel verso di lui non aveva provato altro che semplice amicizia, niente più che un amico era per lei.
Perché sapeva che mai suo padre gli avrebbe mentito.
Ma soprattutto, sapeva di aver sprecato il suo tempo, ad amare una persona che non l’aveva mai ritenuto qualcosa di più.
 

 
Qualche giorno dopo la festa, mentre Legolas era a colloquio con il padre assieme ad altri elfi circa degli altri attacchi avvenuti di recente, una guardia irruppe nella sala del trono: “Lyst in saim!” (Le celle sono vuote!), esclamò.
Il re scattò in piedi, mentre Tauriel si avvicinò: “Dov’è il custode delle chiavi?”, domandò, scendendo le scale.
“Giù nelle cantine”, rispose la guardia, seguendola assieme a cinque altri elfi.
Legolas le tenne dietro, e arrivarono appena in tempo per vedere la parte mobile del pavimento tornare al suo posto.
“Elros”, chiamò Tauriel.
L’elfo era con la testa poggiata sul tavolo, e sembrava completamente ubriaco, come Galion di fronte a lui.
“Elros!”, esclamò allora l’elfa, scuotendolo per una spalla.
Lui si svegliò di colpo, ma sembrò faticare per mettere a fuoco il Capitano, che disse: “Che cosa è successo, come sono scappati?”.
Ma Legolas non rimase ad ascoltare le scuse del custode delle chiavi; ordinò a Eäron di seguirlo e corse su per le scale, dirigendosi ad una delle uscite secondarie delle sale, quella che dava sul Taurduin, e da lì vide i tredici nani che, dentro dei barili, tentavano la fuga.
Ma il cancello del fiume non si sarebbe fatto sfuggire i prigionieri.
“Holo in ennyn”, ordinò, e Eärnor suonò il corno del pericolo, il cui suono si udì anche in lontananza.
Il cancello venne chiuso e Legolas ivi si diresse, mettendo mano alle armi perché aveva notato che sulle sponde del fiume si nascondevano delle creature che sperava di non vedere mai entro i confini sicuri del regno.
Stava ancora correndo in quella direzione, seguito da un piccolo gruppo di elfi, quando una delle guardie del cancello venne colpita alle spalle da una freccia e cadde, e il nano giovane che aveva visto parlare con Tauriel stava cercando di arrivare alla leva che apriva e chiudeva il cancello, ma una freccia lo colpì alla gamba.
Prima di giungere sul posto, notò solamente Tauriel che uccideva un orco che stava per attaccare quel nano, poi incoccò una freccia e sbucò fuori da un cespuglio, colpendo in pieno un orco che si trovava dinanzi a lui.
Molti altri ne uccise, prima di voltarsi e vedere che i Nani stavano scappando, ché il cancello era nuovamente aperto.
Gli orchi li inseguivano e Legolas si mise a correre dietro di loro, raggiungendo Tauriel e saltando giù dalla struttura che sosteneva ponte e cancello, seguiti dagli altri elfi.
Gli orchi erano molti, e si trovavano su entrambe le sponde del fiume, ma Legolas non se ne fece scappare neanche uno e, ad un certo punto, saltò sulle teste di due nani e continuò a combattere, muovendosi in quel modo per arrivare sulla sponda opposta e uccidere il resto degli orchi rimasti lì.
Stava combattendo contro uno di loro e, quando lo uccise, vide che un alto orco alle sue spalle l’avrebbe sicuramente ucciso se non fosse stato che Thorin avesse lanciato contro di lui una delle armi di quelle creature, salvandogli la vita.
Legolas lo guardò, incerto se ringraziarlo o meno, quando una freccia nera gli passò a pochi centimetri dal volto, evidentemente deviata da qualcosa.
Difatti, percepì la presenza di Tauriel alle sue spalle e voltò la testa, vedendo che l’elfa teneva stretto un orco puntandogli uno dei suoi pugnali alla gola: “Dartho”, (aspetta) ordinò.
“Ú-no hono, ho hebo cuin” (questo lo teniamo in vita).
“Portiamolo a palazzo, subito”, disse poi, avviandosi e voltandosi per essere certo di essere stato ascoltato.
Tauriel guardò ancora qualche secondo il fiume, poi seguì Legolas, trascinandosi dietro l’orco, che continuava a dibattersi e cercava di liberarsi, ma alla fine Legolas si spazientì e lo afferrò per la gola: “Ci penso io, vai avanti”, disse a Tauriel, minacciando poi l’orco con un dei suoi coltelli per farlo avanzare.
La strada per arrivare a palazzo non era lunga, ma i due impiegarono molto più tempo del solito a causa dell’orco, ma alla fine entrarono nelle sale e andarono al cospetto del re, che si alzò dal trono e si pose alle spalle del figlio, che costrinse l’orco in ginocchio senza allontanare la lama dalla sua gola, mentre Thranduil diceva: “Tale è la natura del male. Là fuori, nella vasta ignoranza del mondo, si inasprisce e si propaga un’ombra che cresce nel buio. Un insonne malanimo tanto nero quanto l’imminente muro della notte. Così è sempre stato. Così sarà sempre. Col tempo tutte le cose orrende si fanno avanti”.
Legolas si rivolse all'’orco: “Stavate seguendo una compagnia di tredici Nani. perché?”.
L’orrida creatura, però, invece di rispondere disse: “Non tredici, non più”.
Legolas notò Tauriel guardare l’orco con una strana luce negli occhi, che all'’elfo non piacque per niente.
“Quello giovane, l’arciere dai capelli neri, l’abbiamo infilzato con una freccia Morgul. Il veleno ce l’ha nel sangue. Presto soffocherà”.
Il Capitano lo guardò con rabbia: “Rispondi alla domanda, sozzura”, ingiunse.
L’orco le rivolse alcune parole nella sua orrenda lingua, che Legolas tradusse come: “Io non rispondo ai cani, elfo-femmina!”, e Tauriel sguainò un pugnale, minacciando l’orco.
“Io non me la farei nemica”, disse il principe.
“Ti piace uccidere le cose, orco? Ti piace la morte? Allora lascia che te la dia!”.
Tauriel si avventò sull’orco, puntandogli il pugnale al petto, ma Thranduil la fermò: “Farn! Tauriel, ego! Gwao hi!” (Basta! Tauriel, lascia stare! Vai ora!).
L’elfa abbassò l’arma e, dopo essersi inchinata, andò via, mentre il re riprendeva a parlare con l’orco: “Non mi interessa affatto un nano morto. Rispondi alla domanda. Non hai nulla da temere, dicci quello che sai e io ti lascerò libero”.
Poi fu Legolas a parlare: “Avevi l’ordine di ucciderli. Perché? Cos’è Thorin Scudodiquercia per te?”.
“Quel nano mezzatacca non diventerà mai re”.
Il principe strinse gli occhi: “Re? Non c’è un re sotto la Montagna né ci sarà mai. nessuno oserà entrare a Erebor fintanto che il drago vive”.
“Tu non sai niente. Il tuo mondo brucerà”.
Legolas non capiva: cosa significavano quelle parole?
“Ma che cosa stai dicendo? Parla!”, ordinò.
Quando la creatura rispose, però, sembrava rivolgersi non più a Legolas, ma a suo padre.
“Il nostro momento si è ripresentato. Il mio padrone serve l’Unico. Adesso capisci, elfo? La morte è sopra di voi! Le fiamme della guerra sono sopra di voi!”.
La sua risata era sgradevole, ma durò il tempo di pochi attimi perché Thranduil con un solo, fluido gesto sguainò la spada e staccò la testa dell’orco, che rimase in mano a Legolas: “Perché l’hai fatto? Avevi promesso di liberarlo”, disse, lasciandola cadere a terra guardando il padre.
Quello rimase in silenzio per pochi istanti, prima di rimettersi al fianco del figlio: “Ed è così”, disse, mentre metteva un piede sull’orco, ormai morto: “Ho liberato la sua orrenda testa dalle sue miserabili spalle”.
Legolas lo guardò: “C’era altro che l’orco poteva dirci”, disse.
“Nulla di più poteva dire a me”, replicò Thranduil, rinfoderando la spada e cominciando a scendere le scale.
“Che cosa intendeva con le fiamme della guerra?”, gli domandò il principe.
“Che stanno per sguinzagliare un’arma talmente grande da distruggere ogni cosa davanti a sé”, rispose, per poi alzare la voce: “Sia raddoppiata la sorveglianza ai nostri confini, tutte le strade, tutti i fiumi. Nulla si muova che io non sappia. Nessuno entra in questo regno e nessuno lo lascia”, ordinò, prima di andar via.
Un paio di guardie recuperarono il cadavere dell’orco, mentre Legolas si dirigeva ai portali: “Holo in ennyn. Tiro i defnin hain na ganed en-Aran” (Chiudete i cancelli. Teneteli sigillati per ordine del re), disse, per poi voltarsi indietro.
Ma venne fermato dalla voce di Elros: “Man os Tauriel?” (Che dici di Tauriel?)
Legolas si arrestò, voltandosi leggermente indietro, perplesso: “Man os sen?” (Cosa dico di lei?), domandò.
L’elfo rispose, indicando il ponte: “Edevín eb enedhor na gû a megil. En ú-nandollen” (È andata nella foresta armata di arco e lama. Non è ancora tornata).
Legolas tornò indietro, fino ad uscire all'’esterno e guardare nella direzione indicatagli da Elros: perché era uscita?

Angolo dell'autrice

Se siete arrivati fin qui senza provare l'impulso di uccidermi, beh, tiro un sospiro di sollievo. Ma ora, come la volta precedente, facciamo una breve riflessione sulla storia
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Bene, ora che avete riflettuto, posso passare a ringraziare Tina_Legolas e Clar52a per le recensioni e anche ge_gessica per avermi aggiunto tra gli autori preferiti (anche se ti ho già ringraziato di persona :3 )

Vi saluto, mellyn nin, al prossimo incontro!


Hannon le

ElenCelebrindal
 

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Capitolo 11
*** Le prime battaglie ***


LE PRIME BATTAGLIE

Il pensiero del padre attraversò solo per un attimo la mente dl principe, solo per pochi istanti Legolas rifletté sulle ripercussioni che disobbedire nuovamente agli ordini di Thranduil gli avrebbe portato, prima di avviarsi lungo il ponte a passi lunghi, dapprima lenti, poi sempre più veloci.
Sentì la voce di Elros alle sue spalle: “Cund Legolas! Mani naa le umien? Manke naa le autien?” (Principe Legolas! Cosa stai facendo? Dove stai andando?).
Inizialmente pensò di ignorare l’elfo che gridava alle sue spalle, ma infine si fermò, solo per dire: “Holo in ennyn”, prima di riavviarsi e sparire tra gli alberi, seguendo le tracce di Tauriel come gli era stato insegnato molto tempo prima, quando ancora era un giovane elfo.
Scoprì che l’elfa aveva cominciato a camminare tra gli alberi, ma poi aveva deviato una volta a distanza di sicurezza dalla città nella foresta e si era diretta al fiume, seguendone il corso.
Legolas cercò di tenersi il più possibile nascosto, nel caso suo padre avesse scoperto subito la sua fuga, ma riuscì a mantenere un’andatura rapida, che gli permise di raggiungere il punto in cui il fiume diveniva molto più largo in poco tempo, meno di quanto ne impiegava di solito.
In quella zona si trovava un’ampia zona priva di alberi e con poca vegetazione, che dava un punto di osservazione sopraelevato.
Legolas, scorgendo un improvviso movimento, impugnò l’arco, incoccò una freccia e tese la corda, solo per vedere Tauriel che faceva lo stesso contro di lui.
L’elfa abbassò lentamente l’arco: “Ingannen le Orch” (Pensavo fossi un Orco), disse, rimettendo la freccia che aveva estratto nella faretra al fianco.
Anche Legolas depose le armi: “Ci Orchi m, dangen le” (Se fossi stato un Orco, saresti morta), ribatté, avvicinandosi.
“Non puoi dare la caccia a trenta Orchi da sola”, disse a Tauriel, che si era voltata.
L’elfa tornò a guardare lui e accennò un mezzo sorriso: “Ma io non sono da sola”, replicò.
Anche Legolas sorrise: “Sapevi che sarei venuto”.
Ma poi il principe tornò serio e si avvicinò di più a Tauriel, che aveva ripreso a scrutare in lontananza il lago: “Il re è arrabbiato, Tauriel. Per seicento anni mio padre ti ha protetta. Favorita. Hai disobbedito ai suoi ordini, hai tradito la sua fiducia”, disse, pur sapendo che lui aveva fatto lo stesso e che parlava solo immaginando la reazione che suo padre avrebbe avuto nello scoprire che entrambi si trovavano fuori.
Tuttavia, quando Tauriel si voltò, continuò a guardarla negli occhi e disse: “Dandolo na nîn. Le goenatha” (Torna indietro con me. Egli ti perdonerà), sperando che la sua risposta sarebbe stata affermativa.
Ma non fu così: “Ú-‘oenathon. Cí dadwenithon, ú-‘oenathon im” (Io non perdonerò. Se ritornerò indietro, non mi perdonerò).
Distolse lo sguardo dal principe e fece pochi passi avanti, tornando a osservare il lago che si stendeva placido in lontananza: “Il re non ha mai lasciato vagare gli Orchi per le nostre terre, ma questo branco può varcare i nostri confini e uccidere i prigionieri”.
Legolas scosse la testa: “Non è la nostra battaglia”, affermò, deciso.
Tauriel lo guardò di nuovo: “È la nostra battaglia. E non finirà qui. Con ogni vittoria questo male si rafforzerà. Se tuo padre farà a modo suo noi non faremo niente. Ci nasconderemo tra le nostre mura. Vivremo una vita lontana dalla luce, e lasceremo che l’oscurità cali. Non siamo parte di questo mondo?”.
Il principe non sapeva più cosa pensare: Tauriel aveva detto delle cose veritiere, aveva ragione.
Ma non parlò, e così Tauriel gli fece l’ultima domanda: “Dimmi, mellon, quando abbiamo lasciato che il male fosse più forte di noi? Quando abbiamo lasciato che il male ci sopraffacesse?”.
Allora Legolas volse lo sguardo al di là della foresta, riflettendo.
E disse: “Non abbiamo mai lasciato al male la possibilità di vincere. Mai, nemmeno quando la speranza stava per morire. Non accadrà ora, non lascerò che la luce del nostro mondo scompaia solo perché sono stato un codardo, qualcuno che invece di affrontare i veri problemi fugge. Forse mio padre non me lo perdonerà mai, forse non mi vorrà più dopo avergli fatto un torto simile, ma hai ragione. Hai ragione, e io sono con te, Tauriel”.
Sorrise, ma una piccola parte di lui avrebbe voluto rintanarsi sola in qualche luogo buio e solitario, perché Tauriel l’aveva chiamato mellon, amico.
A quel punto, Legolas capì che davvero lei non ricambiava ciò che provava, e che lo vedeva solamente come un amico, probabilmente il migliore, ma sempre un amico.
Anche quando Thranduil gli aveva rivelato la verità, che non era amato da lei, aveva continuato a sperare.
Ma il principe, rammentando un’ultima volta le parole del padre, non poté far altro che mettersi il cuore in pace, mentre cominciava a seguire Tauriel lungo la pista lasciata dagli Orchi.
Quando arrivarono in riva al lago, Legolas mise il piede su qualcosa, e si chinò a controllare cosa fosse: era una pipa, in legno e ferro, intagliata con decori geometrici e spigolosi.
La prese in mano, intuendo subito che si trattava di una pipa appartenente ad uno dei Nani: “Tauriel! Tolo hi”(Vieni qui), esclamò.
L’elfa fu in pochi secondi al suo fianco, e il principe disse: “Sono passati di qua. Ma come abbiano fatto a traversare il lago, non lo so. Hai qualche idea?”, domandò.
Tauriel inizialmente scosse la testa, ma poi la sollevò e fece spaziare lo sguardo sulla superficie del lago: “Forse. Attraversando il lago si arriva a Esgaroth, e qui sono arrivati anche i nostri barili. Se non sono qui, vuol dire che sono stati trasportati alla Città del Lago. Credo che i Nani siano riusciti a convincere il chiattaiolo a portarli fino a Pontelagolungo, non può esserci altra spiegazione. È impossibile attraversare il lago a nuoto, e dubito che abbiano deciso di fare il giro”.
Anche Legolas osservò la distesa di acqua, poi si allontanò da Tauriel: “Qui vicino dovrebbero esserci alcune delle nostre imbarcazioni. Aspettami qui, ne recupero una e ritorno”.
La risposta affermativa di Tauriel gli arrivò alle orecchie solo quando si era già allontanato tra gli alberi, costeggiando il fiume per ritrovare la piccola ansa dove erano state poste tre piccole barche, nel caso qualcuno avesse avuto bisogno di recarsi a Esgaroth o comunque di attraversare il lago in fretta.
La trovò in pochi minuti e salì su di una imbarcazione, sciogliendo la sottile corda che le impediva di andare alla deriva e dirigendosi nuovamente al lago.
Tauriel saltò su, facendo ondeggiare paurosamente la barca, ma quella non diede il minimo segno di volersi ribaltare.
Ognuno dei due elfi afferrò un remo e cominciò a pagaiare, e l’imbarcazione cominciò a scivolare su quella calma distesa di acqua, che si faceva mano a mano più gelida, fin quando sulla sua superficie non cominciarono ad affiorare, come piccole isole, enormi blocchi di ghiaccio, tra i quali Legolas e Tauriel dovettero stare molto attenti, per non rischiare di andare a sbattere: “Siamo quasi arrivati, solo vicino a Pontelagolungo l’aria è così fredda”, disse il principe, a beneficio dell’elfa che non aveva mai visto quei luoghi.
La piccola città lacustre fu presto in vista, e i due elfi furono fermati ai cancelli.
“Fermi, voi! fatevi riconoscere”, esclamò l’uomo che evidentemente era di guardia, avvicinandosi per vederli meglio.
Tauriel lanciò uno sguardo a Legolas, che prese la parola: “Proveniamo dal Reame Boscoso. Lei è Tauriel, Capitano della Guardia elfica del regno, e io sono Legolas”.
L’uomo sgranò gli occhi: “Il principe Legolas? Il figlio di re Thranduil?”, domandò.
“Si, sono io. A gradirei che non pronunciasti il mio nome a voce così alta. Preferirei non farmi riconoscere, se riesco”, replicò il principe.
“Oh, mi scusi”, disse l’uomo, inchinandosi leggermente, prima di dire: “Passate pure. Non sia mai che lasci fuori il principe del regno che commercia con noi”.
Quando la barca oltrepassò il cancello, Legolas disse, a bassa voce: “Avrei preferito non udire l’ultima frase”.
Ormeggiarono l’imbarcazione in un posto pressoché deserto: “Sta calando la sera. Dobbiamo sbrigarci”, disse Tauriel, rimettendo piede a terra e dando un’occhiata in giro.
Legolas la imitò, poi fece scattare lo sguardo sopra uno dei tetti: “Tauriel, vieni”, disse, prima di salire i pioli di una scala e ritrovarsi agilmente sul tetto di una casa, aguzzando la vista per osservare più lontano.
“Cosa hai visto?”.
Tauriel lo aveva affiancato e ora puntava lo sguardo nella stessa direzione del principe, che rispose: “Ci sono orchi, qui. Devono aver seguito i Nani fino in città”.
Passando di tetto in tetto, seguirono le rapide ombre che si dirigevano verso una casa non molto lontana dal punto in cui avevano ormeggiato la barca.
Si fermarono quando li persero di vista, ma un urlo li raggiunse poco dopo: “Quella casa laggiù!”, esclamò Tauriel, prima di correre in quella direzione, lasciando al principe la sola scelta di seguirla, armi alla mano.
La casa che gli Orchi stavano attaccando non era migliore delle altre, e l’ingresso si trovava sopra una rampa di scale, percorsa in quel momento da tre di quelle creature.
Tauriel impugnò l’arco e scoccò una freccia, uccidendo il più vicino alla porta, poi afferrò i due coltelli che portava alla cintura e scese dal tetto, uccidendo con un solo fendente un altro orco, che tentava di uscire.
Il principe non la fermò e, quando il tetto venne sfondato dall’interno e vide cosa stava succedendo dentro casa, incoccò una freccia e saltò giù, atterrando su un tavolo e uccidendo un orco che minacciava una bambina.
Sguainò i lunghi coltelli e abbatté tutti quelli rimasti, sorprendendosi poco quando si accorse della presenza di Nani in quella casa.
Quando i nemici furono tutti morti, Legolas andò alla porta e, notando che molti altri stavano scappando, si voltò verso l’interno: “Tauriel, andiamo”, disse.
Ma lei faceva saettare lo sguardo da lui al giovane Nano con cui l’aveva vista parlare nelle segrete, quello che era stato avvelenato.
Non disse altro, si limitò a lanciarle un’occhiata densa di significato, prima di uscire.
Gli orchi comparivano all'’improvviso, ma il principe non si fece cogliere impreparato e li uccise tutti, uno ad uno finché, in una delle vie secondarie, non ne vide uno molto più grosso e potenzialmente più pericoloso.
La sua mano corse immediatamente alla cintura, dove stava appesa Orcrist, la spada che Thorin portava con sé.
Era una spada elfica, dopotutto, e così Legolas l’aveva presa.
[flashback]
Appena poche ore dopo che il nano Thorin venne rinchiuso nelle segrete, Legolas tornò dal padre, intenzionato a chiedergli una cosa, che riguardava l’antica spada elfica che il mancato Re sotto la Montagna portava con sé.
“Adar? Aníron peded” (Desidero parlarti).
Thranduil si alzò dal trono e scese i pochi scalini, mettendo poi una mano sulla spalla del figlio: “Naa rashwe?” (C’è qualche problema?).
Legolas scosse la testa: “Law, adar”.
Il re aggrottò le sopracciglia: “Mani uma le merna, iôn nîn?” (Cosa vuoi, figlio mio?), domandò.
“Im aníron ista pân am tan crist” (Desidero sapere qualcosa su quella spada).
“Mankoi le irma sint?” (Cosa desideri sapere?), chiese di nuovo Thranduil, leggermente confuso.
Legolas ripeté: “Im aníron ista pân am tan crist”.
Poi, accorgendosi dell’errore fatto, aggiunse: “Orcrist. I crist tîn. Thorin crist” (La sua spada. La spada di Thorin).
“Henion. Havo dad, Legolas” (Ho capito. Siediti, Legolas).
Re e principe, che quasi senza accorgersene si erano messi a camminare ed erano giunti ad una delle piccole stanze dove a volte ci si riuniva per chiacchierare in compagnia, si sedettero entrambi, e Legolas portò subito la sua attenzione sul padre.
Quello sospirò e chiese: “Perché vorresti sapere questo? Come mai questo improvviso interesse? Conosci già da dove proviene e chi l’ha forgiata, mi chiedo il motivo per cui vorresti saperne di più”.
“Sapere solamente da dove proviene e conoscere la stirpe dei fabbri che l’ha forgiata non mi sembra abbastanza. Comprendi molto bene come amo i racconti dei tempi antichi, e così, forse, potrei riavvicinarmi a quegli avvenimenti. Non conosco nemmeno chi fosse il possessore di quella lama, né se si trattasse di un elfo davvero valoroso e famoso”.
Thranduil sorrise: “Il nome del suo precedente possessore non credo suonerà nuovo alle tue orecchie, ché colui che impugnava la Fendi-Orchi in battaglia era nientemeno che Ecthelion della Fonte, colui che comandava il Casato della Fonte della potente Gondolin. Orcrist fu forgiata per lui molto tempo addietro la Caduta di Gondolin,e sempre la portava al fianco, anche se nessuna minaccia era incombente. La spada andò persa dopo la Caduta e se ne persero completamente le tracce, almeno fino ad ora. Ora, che è giunta fino a noi nelle mani di un Nano, un essere indegno di stringere nel pugno un simbolo di quella magnificenza ormai perduta, un artefatto così antico e appartenuto ad un così nobile guerriero. Come molte delle lame forgiate nei tempi antichi, questa si illumina di azzurro all'’approssimarsi di orchi. Ho soddisfatto il tuo desiderio, adesso?”.
Legolas sorrise: “Si, adar”, ma poi aggiunse: “Anzi, forse no. Vorrei chiederti un’ultima cosa”.
Un cenno della mano del re lo spinse a continuare, quando di fermò: “Potresti dirmi dove è conservata, ora? Vorrei dare un’occhiata più da vicino a Orcrist, non mi è stato concesso prima, a causa della fretta”.
Thranduil strinse lievemente gli occhi, ma rispose con calma: “Si trova nella stanza adiacente a quella dove conserviamo alcuni dei nostri tesori più preziosi. Parla con le guardie che controllano quel corridoio, gli unici che non fanno avvicinare sono i non autorizzati dal re o dal principe”.
“Hannon le, adar!”, esclamò allora Legolas, abbracciando di slancio suo padre.
Quando si rese conto dell’impulsivo gesto, fece per allontanarsi per la presenza di altri elfi, ma Thranduil allungò le braccia e lo strinse a sé: “Figurati, galad nîn”, sussurrò.
Il principe non perse tempo a bighellonare per i corridoi del palazzo, ma si diresse immediatamente dove il padre gli aveva detto che avrebbe trovato Orcrist.
La rimirò per molto tempo, osservandone la splendida fattura e la maestria con cui era stata forgiata dagli abili fabbri Noldor, ma non gli venne mai in mente di provare a rubarla.
Fino a quel giorno.
Percependo una sensazione strana, come se sentisse di doverlo fare, Legolas sgattaiolò di nuovo in quella stanza prima di eseguire gli ordini di suo padre di far chiudere tutte le porte, e si richiuse la porta alle spalle.
La spada era ancora lì, posata su di un morbido cuscino scuro, il fodero e la lunga cinta di cuoio azzurro di fianco a essa.
Nella sua mente balenò l’immagine di Ecthelion come l’aveva vista nelle illustrazioni dei libri, con Orcrist al fianco e il portamento fiero, e non indugiò nemmeno un istante prima di posare le mani su quella splendida lama e percorrerla con lo sguardo.
 Si disse che non avrebbe dovuto farlo, che si sarebbe messo nei guai, ma relegò quella voce contraria in un angolo buio e remoto della mente e, legatosi il fodero alla cintola con la lunga cinta blu, inguainò la spada e attese il cambio delle guardie, che sarebbe avvenuto di lì a poco.
Quando fu certo che il corridoio fosse deserto, riaprì la porta e, senza farsi notare, percorse in fretta il lungo corridoio, dimenticando però di richiudere la stanza a chiave.
[fine flashback]
 
La sguainò con un rapido movimento e si mise in posizione d’attacco, avvicinandosi lentamente al nemico.
Quello lo guardava senza batter ciglio, ma l’elfo aveva udito i passi di altre di quelle creature, perciò fu pronto, quando lo attaccarono ai lati, e li uccise senza sforzo.
Poi si avventò sull’orco più grosso, che si rivelò, come previsto, un avversario ben più difficile da battere di semplici orchi.
Ad un certo punto il principe si ritrovò disarmato, e la creatura lo strinse tra le braccia, cercando di mozzargli il respiro, ma Legolas riuscì ad afferrare un suo coltello dalle guaine dietro la schiena e si liberò, ribaltando le posizioni e facendo sbattere la testa dell’orco contro uno dei pali di sostegno, con l’intento di stordirlo.
Quando cercò di attaccarlo di nuovo, però, altri due orchi lo assalirono alle spalle e dovette difendersi.
Quando furono solo due cadaveri a terra, l’orco era già andato via, e Legolas lo vide cavalcare alla volta della Montagna in groppa ad un mannaro.
Appoggiò la schiena ad un muro per riprendere fiato, sentendo qualcosa scorrergli sul viso.
Aggrottò le sopracciglia e portò una mano al volto, tastandosi il naso. Quando ritrasse le dita, quelle erano coperte dal suo sangue.
Nessuno, prima di allora, si era permesso di ferirlo, e questo lo fece quasi infuriare, ma non quanto lo scoprire che Tauriel non solo non l’aveva seguito, ma probabilmente aveva preferito un misero Nano senza dimora a lui, un principe figlio dell’ultimo re elfico della Terra di Mezzo.
Decise di lasciarla indietro, se era quello che voleva; raccolse Orcrist da terra e, notando un cavallo che se ne stava legato ad un palo, si diresse verso l’animale.
Pensò che non doveva farlo, dopotutto il cavallo non era suo, ma lo slegò comunque e, dopo aver dato un’occhiata alla casa, decise che i proprietari non dovevano passarsela troppo male.
Montò in groppa e spronò l’animale a galoppare, mettendosi sulla via dell’orco e dirigendosi alla Montagna.
 

“Perché non lo hai fermato?”.
Thranduil era furioso, camminava avanti e indietro davanti al suo trono, le mani strette convulsamente sullo scettro di quercia cercando di controllare la rabbia.
Elros, di fronte a lui, sembrava trattenersi dal tremare di paura.
Quando rispose, la sua voce era bassa, timorosa: “Io… ti giuro, re Thranduil, ho tentato, ma non ha voluto ascoltarmi. Ho provato a convincerlo a non andarsene”.
“Perché-non-lo-hai-fermato?!”.
L’elfo abbassò la testa all'’improvviso scatto di rabbia del re, e la sua mente corse a non molto prima, quando Legolas era andato via.
 
[flashback]
“Principe, che cosa hai intenzione di fare?”.
Legolas sembrava riflettere sul modo migliore per seguire Tauriel, e rispose: “Credo che tu conosca la risposta. Vado da Tauriel”.
“Cund nîn, metterai a repentaglio la tua vita. Non farlo per un tale motivo. È il Capitano, sa combattere. Non vorrai far adirare tuo padre?”.
Il principe sembrò ignorarlo, perché fece alcuni passi avanti, ritrovandosi sul ponte.
“Vado da lei perché sta seguendo degli Orchi e cerca di rintracciare i prigionieri. Mio padre… capirà. Deve comprendere”.
“Non farlo, dammi ascolto. Legolas!”.
Ma il figlio del re si era già avviato, e ad Elros non rimase altro da fare che chiudere i portali e andare a riferire l’accaduto al re.
[fine flashback]
 
“Non voglio scuse!”, disse Thranduil, perdendo definitivamente la pazienza e alzando la voce.
“Non voglio scuse da te, guardia. Se ora mio figlio si trova in pericolo, la colpa è solamente tua!”.
Elros indietreggiò, intimorito dalla collera del re, ma non osò proferire parola né fare altri movimenti, nemmeno quando Thranduil gettò via il suo scettro e si portò ad un soffio da lui: “Se entro il calar della sera di domani Legolas non sarà qui, osa immaginare le conseguenze che la tua incompetenza e la tua incapacità di eseguire i miei ordini porteranno su di te. Và a cercarlo! E non farti seguire. Nessuno a parte te lascia il mio regno!”.
Lo spinse via con una mano e lo vide allontanarsi di corsa, osservandolo con sguardo duro e inflessibile.
Le guardie cominciarono a mormorare: “Dína!” (silenzio!), ordinò secco il re.
Quando il silenzio fu di nuovo assoluto, Thranduil tornò a sedersi sul suo trono, torcendosi preoccupato le mani e pensando a quanto fosse stato avventato suo figlio, specialmente per seguire un Capitano che osava contravvenire agli ordini diretti del proprio re.
Legolas non era mai stato troppo impulsivo, e Thranduil temeva per la sia vita: un grande guerriero poteva sempre restare ucciso, lo sapeva molto bene.
Decise che, se la sera successiva Legolas non sarebbe ricomparso, sarebbe andato di persona a cercarlo.
A cercarlo e, dopo averlo abbracciato, a punirlo per la sua avventatezza: inoltre, avrebbe fatto capire a Tauriel cosa accadeva se si infrangevano le severe regole del suo regno.
Un improvviso pensiero si fece strada nella sua mente: e se…
Thranduil scattò in piedi e, lasciando basiti gli elfi che costituivano la sua guardia personale, corse via, giù per le scale, percorrendo i pochi corridoi che l’avrebbero condotto alle sale inferiori, le sale dove venivano custoditi i suoi tesori.
Le guardie incaricate di sorvegliare il luogo erano ancora lì, ma il re non badò a loro: sapeva quanto fosse abile Legolas nello scivolare via indisturbato, quando voleva, e ricordava molto bene il suo periodo come Capitano, periodo in cui aveva imparato tutti i cambi dei turni di guardia e ogni orario e momento propizio.
“Aran Thranduil…”, lo salutò chinando la testa una di loro, ma il re quasi ignorò il saluto e infilò il corridoio, dirigendosi alle ultime porte.
Quando si ritrovò davanti alla penultima, allungò una mano e la posò sulla maniglia, sperando che si abbassasse ma che la porta non si aprisse.
Vana speranza: la porta si aprì all'’istante, quasi senza che il re avesse bisogno di spingerla.
Thranduil entrò, immaginando già quale sarebbe stata l’unica cosa mancante all'’interno, e la sua congettura non si rivelò un errore: Orcrist era sparita, e il re sapeva che era stato Legolas a prenderla.
Fece alcuni respiri profondi per tentare di calmare la rabbia che ancora una volta sentiva invaderlo come un fiume in piena, impossibile da arginare se non con delle barriere che sembravano sempre troppo deboli e sempre più facili da distruggere, ma ottenne solamente di irritarsi maggiormente.
Uscì, sbattendosi la porta alle spalle, e cercò di non prendersela con le guardie: dopotutto, non era colpa loro se suo figlio era riuscito a svignarsela con Orcrist al fianco.
Tornò alla sala del trono, impiegando la metà del tempo dell’andata, e si risedette sul suo seggio, ritrovandosi a sperare che Elros ritornasse solo.
Così sarebbe stato lui a cercare quello sconsiderato di suo figlio, che tanto amava infrangere le regole che gli venivano imposte, e sarebbe stato lui a dirgli di non tornare mai più in quel regno, se il suo intento era di continuare a comportarsi in quel modo.
Non l’avrebbe riportato con la forza a casa sua, no.
L’avrebbe lasciato fuori, dove tanto desiderava restare.

Angolo dell'autrice

Vi chiedo scusa in ginocchio per l'enorme, schifosissimo ritardo (eh si, anche gli elfi perdono il controllo a volte), ma la mia cara, bellissima, insopportabile scuola non mi ha lasciato tregua grazie a interrogazioni, compiti e tutto ciò che ne consegue (e ne conseguirà). Però fra poco sarò totalmente, incodizionatamente, elficamente libera!! Yeeeee!!! E non ci sarà di nuovo questo enorme lasso di tempo a separare un nuovo capitolo da questo. Non posso dire altro, a parte invitarvi a recensire (sarei felice di ricevere qualche commento, anche due paroline come "ritardataria cronica" vanno benissimo per me). Bene, ora vi lascio, ma non prima di aver ringraziato con tutto il cuore i carissimi (o le carissime?) che hanno recensito il precedente capitolo. Un bacio enorme!

Meneg suilad, mellon nîn. Al prossimo incontro dalla vostra elfa ritardataria


Hannon le

ElenCelebrindal
 

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Capitolo 12
*** Divergenze appianate ***


DIVERGENZE APPIANATE

Un altro fendente, ancora una parata.
Legolas si era ritrovato a combattere contro un consistente gruppo di orchi che l’avevano sorpreso sulla via della Montagna, mentre inseguiva quello che aveva avuto l’ardire di far scorrere il proprio sangue.
La lama dei lunghi coltelli si era tinta del sangue nero degli orchi, e le frecce erano ormai quasi finite, ma il principe non demorse e continuò a combattere, facendo cadere uno dopo l’altro tutti i nemici che si ritrovava di fronte e non fermandosi mai.
Quando una di quelle creature uccise il suo cavallo, capì che, anche se avesse sconfitto tutti i nemici, non avrebbe mai avuto la possibilità di raggiungere un orco a cavallo di un mannaro.
Quella distrazione per poco non costò caro al principe, che vide solo all'’ultimo momento una lama scendere su di lui e si scansò di lato, sentendo però un acuto dolore al braccio destro.
Lasciò di scatto il pugnale, che si conficcò nel terreno, e utilizzando l’altro uccise l’ultimo orco rimasto, quello che l’aveva ferito.
Quando fu certo di essere rimasto solo, fece cadere anche l’altro pugnale e portò la mano sinistra al braccio, cadendo in ginocchio a causa del dolore lancinante che gli attraversava la ferita: Legolas capì subito che era una ferita grave, un lungo e profondo taglio che partiva dalla spalla per arrivare fino al polso, e che stillava il denso e rosso fluido della vita.
Il sangue scendeva copioso, e gli inzuppò in poco tempo la manica della tunica.
Stringendo i denti, Legolas si rimise in piedi, cercando di ignorare le fitte al braccio, e si sforzò di mettere un piede davanti all'’altro, intenzionato a tornare al Reame Boscoso.
La notte, ormai scesa completamente, stava facendo sentire i suoi freddi artigli, e il principe rabbrividì: in circostanze normali, il freddo non l’avrebbe infastidito, ma l’elfo si stava lentamente indebolendo e anche i suoi passi cominciavano a farsi più deboli e lenti.
Quando la luna era ormai alta nel cielo, Legolas si arrese e di accasciò a terra, pronunciando solo due flebili parole: “Perdonami, ada”.
Poi chiuse gli occhi e tutto fu buio.
 

Thranduil picchiettava con le unghie sul bracciolo del suo trono, intenzionato a non muoversi da quel seggio fino al ritorno di Elros al palazzo, e aveva già congedato tutte le guardie della sua scorta personale, desiderando stare solo con i suoi pensieri, la sua rabbia e le sue preoccupazioni.
Se avrebbe dovuto aspettare ancora un giorno intero, prima di conoscere le notizie che quel’elfo incompetente gli avrebbe portato, allora avrebbe aspettato.
Ma nulla lo stupì maggiormente del vedere proprio Elros dirigersi a passi veloci verso di lui, nonostante i suoi ordini fossero stati di non tornare prima del calar del sole del giorno seguente: “Cosa ci fai qui? Avevi degli ordini da eseguire”, disse, tentando di mantenere un tono calmo, ma stringendo il braccio del trono fino a farsi sbiancare le nocche.
L’elfo si fermò e, dopo essersi inchinato, disse: “Aran nîn, ho tentato di eseguire, ma sono riuscito ad arrivare a stento a Esgaroth, perché orchi sono presenti in queste terre. Il loro numero era troppo soverchiante per me, e non ho potuto far altro che tornare indietro”.
Ma la guardia si ritrovò a parlare da sola: Thranduil scattò in piedi e scese dal trono quasi saltando gli scalini: “Ne sei sicuro?”, domandò a Elros.
“Na, aran nn, ho tentato di eseguire, ma sono riuscito ad arrivare a stento a Esgaroth, perché orchi sono presenti in queste terre. Il loro numero era troppo soverchiante per me, e non ho potuto far altro che tornare indietro”.
 “Legolas”, mormorò allora Thranduil, togliendosi la lunga veste argentea e restando così in tunica e pantaloni, prima di correre via senza quell’impedimento, prima di correre da suo figlio che, lo sentiva, ora si trovava in pericolo.
La rabbia sbollì all'’istante, facendo spazio alla paura e alla preoccupazione: quanti orchi potevano esserci ancora?
“Portatemi la mia cavalcatura. Subito!”, ordinò secco ad uno degli elfi di guardia all'’esterno, che in pochi minuti condusse al re la sua enorme alce.
Thranduil montò il groppa e ordinò di tenere chiusi i cancelli fino al suo ritorno, prima di spronare l’animale a cavalcare, seguendo la pista che aveva intrapreso Legolas.
Cavalcò a lungo, facendo il giro del lago a velocità forsennata, e quando arrivò a Esgaroth capì subito che suo figlio aveva intrapreso la via della Montagna, e la prese senza rallentare mai.
Si fermò solamente quando, a terra, vide un’ombra più scura delle altre.
Non ebbe bisogno di conferma dalla luce: smontò e, con il cuore che mancava i battiti, si avvicinò al corpo esanime del figlio, cercando di trattenere le lacrime alla vista della ferita che gli attraversava il braccio e del sangue che ancora ne colava copioso.
Lo prese tra le braccia e gli accarezzò il volto: “Legolas, iôn nîn, edro i chîn lîn. Eglerio” (Legolas, figlio io, apri gli occhi. Ti prego).
 

Legolas, nel suo stato di torpore mentale, pensò di sentire la voce del padre che lo chiamava, che gli diceva di aprire gli occhi.
Ma non ci riusciva.
“Lasto beth lammen, tolo dan nan galad. Legolas, tolo dan nan galad, edro i chîn lîn. Eglerio, iôn nîn, eglerio” (Ascolta le mie parole, torna alla luce. Legolas, torna alla luce, apri gli occhi. Ti prego, apri gli occhi, ti prego).
La voce di Thranduil si faceva più disperata ad ogni frase, e allora Legolas riuscì a sollevare le palpebre, sentendole pesanti e ritrovandosi con la vista appannata.
Ma riconobbe all'’istante il viso del padre, i lunghi capelli biondi che lo incorniciavano e le lacrime che spesso gli aveva visto versare per il padre scendere dai suoi occhi per lui: “A… adar”, disse solo, prima di chiudere di nuovo gli occhi e sentirsi sollevare da terra.
 
 
Il principe di Bosco Atro si risvegliò dopo un tempo che non sapeva definire: poche ore? Giorni? Non lo sapeva.
Aprì gli occhi e una luce inaspettata glieli ferì, ma non troppo da sembrare fastidiosa.
Quando la vista gli si snebbiò, riconobbe il soffitto decorato della sua stanza del palazzo, e si accorse di essere nel proprio letto, sotto due strati di coperte di lana fine e morbida e la testa poggiata su di un morbido cuscino.
Si mise a sedere e non riuscì a trattenere un gemito di dolore quando per sbaglio fece forza sul braccio ferito, ora fasciato da delle candide bende: “Mani… mani marte?” (Cosa… cosa è successo?).
“Questo dovrai dirmelo tu, Legolas”.
L’elfo si irrigidì nel sentire la voce del padre, certo che lo avrebbe sgridato o anche peggio, ma si rilassò quando Thranduil si sedette sul letto, accanto a sé, e lo strinse in un abbraccio: “Tu, incosciente che non sei altro, mi hai fatto preoccupare da morire”.
“Mi dispiace, adar. Non avrei dovuto ignorare i tuoi ordini. Non sarei dovuto uscire solo per seguire Tauriel”.
Il padre sciolse l’abbraccio e lo fissò negli occhi: “Tu non sei partito solo per seguire Tauriel. Tu sei partito perché hai compreso meglio di me cosa fare, hai fatto quello che io, chiuso qui dentro, non avrei mai fatto. Tu mi consideri un grande guerriero, Legolas, ma la realtà è che io ho paura. Ho paura da quando ho perso mio padre nella Dagor Dagorlad, ho paura da quando ho affrontato i serpenti del nord. Ho paura, quando vedo te uscire da quei portali. Sono solo un codardo”.
“Ci sono molti tipi di paura, adar. Ma solo poche di queste non sono giustificabili. La tua paura è delle più nobili, perché la guerra fa paura. Le battaglie incutono timore, per quanto tu sia addestrato a combattere. La solitudine e l’inquietudine di non sapere se qualcuno che ami tornerà a casa ti fanno terrorizzare. Non sei un codardo, non lo sei mai stato. Non dire mai più una cosa del genere”.
Thranduil sorrise e scosse la testa: “E pensare che io, nella rabbia, ero intenzionato a non vederti mai più”.
Poi tornò serio: “Kwentra i’narn, Legolas. Mani marte?” (Racconta la storia, Legolas. Cosa è successo?).
Il principe abbassò gli occhi, e narrò tutto quanto a voce bassa, quasi temesse uno scatto di collera del padre, ma quando questo non avvenne, la sua voce acquistò più sicurezza, e arrivò alla fine della storia con solo un lieve tremore: “L’ultima cosa che ricordo è il tuo viso, le tue braccia che mi stringevano. Poi il buio e il risveglio qui. Quanto tempo è passato?”.
“Sei stato svenuto per due giorni. Sta calando la sera”.
Legolas recuperò quasi all'’istante le forze: “E Tauriel? Tauriel dov’è?”, domandò.
Restava pur sempre la sua migliore amica, ora che aveva scoperto di non interessargli.
Thranduil sembrò esitare: “Non è ancora tornata”, rispose poi.
“Legolas, cosa fai?”, esclamò il re, quando il principe cercò di alzarsi dal letto.
“Vado a cercarla. Potrebbe essere in pericolo, là fuori”, rispose Legolas, ma venne sospinto indietro dalle mani del padre: “Tu non vai da nessuna parte. Sei ancora debole e potrebbe essere pericoloso anche per te uscire, specialmente nelle condizioni in cui sei ora”.
Ma non fece in tempo a finire la frase che l’intero palazzo parve tremare, e il principe non ci mise molto a capire cosa era accaduto: “Smaug… è il drago. Il drago è uscito dalla Montagna. Gli abitanti di Esgaroth sono in pericolo!”.
A quel punto, l’elfo si alzò davvero in piedi, ignorando la voce del padre: “Legolas! Fermati, Legolas!”, corse via, raggiungendo velocemente una delle uscite nascoste del palazzo e scrutando all'’orizzonte.
“Legolas, hai perso la ragione? Non puoi uscire ora”, cercò di farlo ragionare Thranduil, che lo aveva seguito, ma il principe si mostrò irremovibile: “Quella povera gente si trova in pericolo, adesso. Non posso restare con le mani in mano, devo aiutarli!”.
“Dobbiamo aiutarli”, lo corresse il padre, avvicinandosi: “Ma non arriveremo mai prima di Smaug, nemmeno partendo in questo istante”.
“E allora cosa facciamo?”.
Thranduil sospirò: “Andiamo alla Montagna. Anche quei Nani saranno morti, ormai; la furia dei draghi non conosce limiti, iôn nîn. E poi non sappiamo se Tauriel sia rimasta a Pontelagolungo o se si sia diretta anch’ella a Erebor al seguito di quei Nani a cui ha prestato aiuto”.
Legolas guardò sconcertato il padre: “Allora non miri solamente alle ricchezze che troverai all'’interno della Montagna. Perché?”, gli chiese.
Il re si voltò a guardarlo: “Forse perché mi ricordi quello che sono e che dovrei fare. Coraggio, dobbiamo andare in armeria. Se non erro, i tuoi coltelli sono ormai smarriti e dobbiamo sostituirli. Orcrist non può sostituire tutto, e potremmo dover combattere”.
“Ho sentito bene? Potrò tenere Orcrist?”.
“Si, iôn nîn, hai sentito bene. Ora sbrighiamoci”.
Il principe non riusciva quasi a credere alle proprie orecchie, ma si riebbe presto dalla sorpresa e seguì il padre di nuovo all'’interno, fino all'’armeria.
Lì, Thranduil disse: “Aspettami qui, Legolas”, ed entrò, lasciando Legolas fuori dalla porta a domandarsi il motivo per cui era stato lasciato lì.
L’attesa non durò a lungo, però, perché Thranduil uscì in fretta dall’armeria, tenendo tra le mani un involto di stoffe: “Avevo pensato di regalartelo più in là, durante la prossima Mereth-en-Gilith, ma le circostanze hanno deciso diversamente, perciò…”.
Lasciò la frase in sospeso, alzando le spalle, e porse l’involto a Legolas, che tese le mani e lo prese: “Cos’è?”, chiese, ma non ricevette risposta se non un cenno a scoprirlo.
Svolse le stoffe che avvolgevano l’oggetto misterioso e rimase a bocca aperta dallo stupore: tra le mani aveva uno splendido pugnale.
Il fodero era d’argento, decorato da incisioni e intarsi di rampicanti, fiori stilizzati e linee intricate, la lunga cinta legata a esso di un cuoio bianco resistente e leggero, chiusa con una fibbia di metallo lucido.
Lentamente, il principe chiuse la mano sull’impugnatura, bianca con minuscoli decori color argento, e sguainò il pugnale: la lama, leggermente ricurva, era talmente chiara da sembrare anch’essa bianca, e sul piatto, su entrambi i lati, c’era inciso un disegno intricato e probabilmente molto complicato da realizzare, in argento e oro bianco a prima occhiata.
Legolas era sempre stato eccellente nel riconoscere i vari tipi di metalli, grazie all'’insegnamento di Oropher, e sentì salire le lacrime agli occhi quando suo padre parlò di nuovo: “Spero che ti piaccia. L’ho forgiato molto tempo fa, ma non ho mai deciso con certezza quando donartelo. Avevo optato per la Festa, ma…”.
Non lo lasciò finire: rinfoderò il pugnale e lo abbracciò: “Non dire nulla, adar. Tutto ciò che proviene dalle tue mani mi piace, perché so che ci infondi l’amore che provi per me. Melin le, ada”.
“Melin le, Legolas”, rincarò il re: “Ma ora dobbiamo avvertire l’esercito”, aggiunse, sciogliendo l’abbraccio.
Legolas sospirò: “Hai intenzione di riunirlo tutto?”.
“No, avevo pensato di portare con me al massimo un migliaio di elfi. Senza il drago a disturbarci, non avremo troppi problemi”, rispose Thranduil, cominciando ad avviarsi.
“Vai a cambiarti, Legolas. I tuoi abiti sono strappati e macchiati di sangue, e desidero controllare la tua ferita prima di uscire da qui”.
Il principe obbedì alla richiesta del padre e tornò alla sua stanza.
Chiuse la porta a chiave e, dopo aver tratto un profondo respiro, osservò di nuovo il dono che suo padre gli aveva fatto, un dono più prezioso di tutte le stelle del cielo a suo parere.
Si diresse all'’armadio e recuperò degli abiti più comodi e adatti alla battaglia: una tunica lunga fin quasi al ginocchio, una camicia leggera e un paio di pantaloni, tutti dei colori della foresta.
Stringendo i denti,si sfilò la tunica che già portava e indossò la camicia e la tunica nuove, gettando la vecchia, ormai inutilizzabile, in un angolo della stanza.
Poi si cambiò i pantaloni e rimise gli stivali di pelle chiara, prima di soppesare con lo sguardo l’armatura leggera che aveva sempre portato nelle missioni della guardia.
Allungò una mano per prenderla, ma cambiò idea all'’ultimo momento e recuperò una delle armature più pesanti e più utili in una battaglia, la stessa utilizzata dai membri più importanti della guardia, e indossò quella.
Stava ancora stringendo le cinghie, quando sentì bussare alla porta: “Legolas? Posso entrare?”.
“Certo, adar, entra pure”.
Thranduil entrò nella stanza e disse: “Come mai la tua scelta è caduta su quell’armatura? Non ricordo di avertela mai vista indosso, credevo non fosse adatta a te”.
“Ho pensato che dopo quello che è successo, una protezione in più non può farmi che bene. dopotutto, come hai detto tu sono ancora ferito, ed è meglio limitare eventuali altri danni”.
Il re si avvicinò: “Vieni, ti aiuto”, disse, tendendo le mani per chiudere le cinghie a cui il principe non arrivava.
Quando l’armatura fu al suo posto aggiunse: “Ma ora fammi controllare il tuo braccio”.
Legolas porse l’arto ferito al padre e strinse i denti quando Thranduil svolse le bende per esaminarlo meglio: il taglio era profondo e slabbrato, ma non dava segni di infezione e non sanguinava più.
“Ti fa ancora male?”, domandò Thranduil, mentre spalmava sul taglio un unguento fresco e profumato, che gli elfi usavano solo per curare le ferite più gravi.
Poi prese le bende pulite che aveva portato con sé per sostituire le altre e cominciò ad avvolgere con quelle il braccio del figlio.
“Solo un po’. Nulla di così terribile da non poter combattere, ma ho la fortuna di saper maneggiare un’arma anche con la mano sinistra”.
Thranduil finì di fare il bendaggio e sfiorò con tocchi leggeri quella stoffa candida che ricopriva la ferita del figlio, un’offesa alla creatura splendida a cui voleva un bene dell’anima, per poi abbassare la manica della tunica e prendere una delle protezioni per le braccia di cui era corredata l’armatura.
Chiuse le cinghie di cuoio lasciandole abbastanza lente per non causare dolore al figlio, ma stringendole quello che bastava perché costituisse una protezione efficace.
“Adar”, lo chiamò Legolas.
Thranduil sollevò la testa, e il principe gli diede un bacio sulla guancia: “Hannon le”.
 
 
L’esercito era già pronto a marciare: un migliaio di elfi, tra i migliori arcieri e guerrieri, erano stati selezionati per quella missione, e Thranduil era in testa, in groppa alla sua possente alce.
Legolas, al suo fianco, scrutava davanti a sé e, quando fu dato l’ordine di avanzare, spronò il suo cavallo a muoversi con dolci parole sussurrate.
Erano in viaggio da nemmeno un giorno, quando un messaggero raggiunse il re.
Questi fece fermare il suo esercito, e disse: “Ebbene?”.
Il messaggero riprese fiato: “Sire Thranduil, sono stato inviato a chiedere soccorso a voi da Bard di Esgaroth, mio signore, l’uccisore del drago!”.
Legolas restò sorpreso: “L’uccisore del drago?”.
“Si, principe. Smaug è morto, ucciso dalla freccia di Bard l’Arciere. Purtroppo, però, anche se questa è stata fonte di gioia per tutti noi, è stata anche una sventura perché il drago si è avventato sulla nostra città e l’ha rasa al suolo. Cerchiamo il tuo aiuto, re Thranduil. Molti di noi stanno morendo per il freddo e la malattia, e il cibo non basterà a lungo. Senza la nostra città, siamo perduti”.
L’uomo aveva un tono di voce così disperato che Legolas non poté fare a meno di provare pietà per quei poveri abitanti, e sperò con tutto il cuore che il padre decidesse di aiutarli: era un buon re, dopotutto, non avrebbe messo davanti alla salvezza delle persone il suo desiderio di giungere alla Montagna.
Anche se significava, probabilmente, dover ritardare i soccorsi a Tauriel.
E a tal proposito, prima che suo padre potesse dire qualcosa, chiese: “Qui c’erano anche dei Nani e un’Elfa. Dove sono ora?”.
Il messaggero sollevò lo sguardo su di lui: “Non so nemmeno se siano ancora vivi, mio principe. Sono andati via, diretti alla Montagna, prima che Smaug facesse crollare la sua ira su di noi”.
Legolas chinò la testa, ma non disse nulla.
Thranduil lo guardò di sottecchi, mentre rispondeva all'’uomo: “Avrete il nostro aiuto. Siete sempre stati un popolo buono e generoso”.
Fece preparare alcune zattere e le caricò dei beni di prima necessità, dando ordine di inviarle sulle rive del Lago Lungo assieme ad un gruppo di elfi.
“Grazie, mio signore, grazie! Ti saremo per sempre riconoscenti”.
L’uomo non finiva più di inchinarsi e ringraziarlo, e Thranduil lo interruppe: “Si, certo, ho compreso. Noi continueremo a piedi, perciò arriveremo fra qualche giorno al vostro accampamento. Attendete il nostro arrivo, non vi abbandoneremo. Puoi salire sulle zattere assieme ai miei elfi”.
Detto questo, spronò di nuovo il suo esercito a marciare, stavolta non alla volta della Montagna ma in direzione delle sponde del Lago.
Legolas si sentì felice, perché suo padre aveva deciso di aiutare quegli Uomini, ma la sua felicità era offuscata dalla preoccupazione per la sorte di Tauriel: era viva oppure il drago l’aveva uccisa?
Solo cinque giorni dalla morte del drago trascorsero per giungere a destinazione, e trovarono gli abitanti rincuorati dell’intervento tempestivo del re degli Elfi.
Vennero accolti con esclamazioni di giubilo e con canti e ringraziamenti, e molti si inchinarono al cospetto del principe e del re del Reame Boscoso.
Gli Uomini e il Governatore sembravano pronti a stringere qualsiasi patto in cambio del soccorso prestato dal re elfico, e così fu fatto: il Governatore rimase assieme alle donne, ai bambini e agli anziani, e alcuni artigiani ingegnosi gli si affiancarono, occupatissimi ad abbattere alberi e riunire il legname inviato dalla foresta, per costruire delle capanne atte a difendersi dal gelo dell’imminente inverno.
Thranduil e Bard riunirono tutti gli Uomini d’arme ancora vigorosi e gli Elfi, preparandosi a marciare alla volta della Montagna.
Legolas rimase sempre accanto a suo padre, ascoltando con orecchio attento le conversazioni che volavano da una bocca all'’altra e i piani messi in atto da Thranduil e Bard: e così il viaggio andò avanti per undici giorni, quando l’avanguardia delle loro schiere giunse nelle Terre Desolate.
Arrivarono alla Montagna Solitaria in breve tempo, da quel punto, risalendo le rive del fiume, e il principe si stupì non poco di vedere un enorme muro fatto di pietre squadrate di recente coprire l’immensa porta principale di Erebor.
L’avanguardia degli elfi andò avanti e Legolas la seguì, scrutando il muro che bloccava l’accesso: questo significava che i Nani erano ancora vivi, ma di Tauriel ancora nessuna traccia.
Mentre restavano fermi ad indicare la porta e a decidere sul da farsi, una voce dall’interno li apostrofò: “Chi siete voi che venite in assetto da guerra alle porte di Thorin, figlio di Thrain, Re sotto la Montagna, e cosa volete?”.
Legolas riconobbe all'’istante la voce di Thorin, anche prima che il Nano esclamasse il suo nome, ma si trattenne dall’impulso di rispondere.
Anzi, nessuno degli elfi si prese la briga di rispondere, in quel momento.
Molti tornarono subito indietro, altri, compreso il principe, li seguirono dopo aver squadrato ancora per un po’ la porta e le sue difese.
L’accampamento venne spostato a est del fiume, in mezzo ai bracci della Montagna, e le rocce echeggiavano delle voci e dei canti che si erano levati, accompagnati dal dolce suono delle arpe elfiche.
Uomini ed Elfi cercavano di rallegrarsi e di tenere alto il morale, ma Legolas rimase per molto tempo a discutere con suo padre e con Bard di ciò che sarebbe accaduto il giorno seguente: “Dobbiamo inviare qualcuno a parlamentare, Adar. È impossibile abbattere quel muro ed entrare con la forza, lo sai”.
Thranduil sembrò riflettere in silenzio su quelle parole, e Bard di intromise: “Legolas ha ragione, sire. Io ho già pronti alcuni soldati, devi solamente dirci se vorrai mandare anche i tuoi elfi a cercare di ottenere un accordo”.
Il re sospirò: “Molto bene. Invierò un gruppo di Elfi assieme ai tuoi Uomini, Bard”.
Poi si rivolse a Legolas: “Ci sarai anche tu, assieme agli elfi. Te la senti, iôn nîn?”.
Legolas alzò la testa, fiero e determinato: “Certo, adar. Mi sento molto meglio, ora, e la ferita si è quasi rimarginata quindi non avrò problemi”, rispose.
Thranduil annuì: “Allora è deciso. Domattina di buon’ora troverai i miei elfi ad attenderti, Bard”.
L’Arciere accennò un inchino, alzandosi: “Ti ringrazio. Con permesso”, disse, uscendo dalla tenda.
“Bard è preoccupato per qualcosa”, osservò Legolas.
Thranduil sollevò lo sguardo sul lembo della tenda che l’Uomo aveva scostato per uscire: “I suoi figli sono rimasti sulle sponde del Lago. Sono certo che sia preoccupato per la loro sorte. Ma ora non parliamo di questo, è tardi e domani sarà una lunga giornata. Dovresti riposare, tutti noi dovremmo”.
Il principe annuì: “Quel du, adar” (Buonanotte, padre), disse, prima di uscire dalla tenda e di dirigersi a quella che gli era stata assegnata.
 
Il mattino seguente, di buon’ora, una compagnia di soldati, sia elfi che Uomini, armati di lance, attraversò il fiume e marciò su per la valle.
Legolas e Bard erano tra questi, e portavano il grande stendardo del Reame Boscoso e quello azzurro del lago.
Avanzarono fino a fermarsi proprio davanti al muro della Porta.
Di nuovo Thorin parlò: “Chi siete voi che venite armati per far guerra alle porte di Thorin, figlio di Thrain, Re sotto la Montagna?”.
Questa volta la risposta arrivò: Bard consegnò lo stendardo del lago ad uno dei suoi uomini e si fece avanti, gridando alla volta del Nano: “Salute a te, Thorin! Perché ti barrichi come un ladro nel suo covo? Ancora non siamo nemici, e ci rallegriamo che siate vivi, al di là di ogni nostra speranza. Siamo venuti credendo di non trovare nessuno qui; tuttavia, ora che ci siamo incontrati, abbiano alcune questioni su cui parlamentare e metterci d’accordo”.
A Legolas sembrò un discorso ben fatto, ma Thorin replicò secco, per nulla impressionato dall’abilità di Bard con le parole: “Chi sei tu, e di che vorresti parlamentare?”.
Bard, senza batter ciglio, rispose: “Io sono Bard, e per mano mia il drago fu ucciso e il vostro tesoro salvato. Non è questa forse una questione che ti riguarda? Inoltre io sono per diritto ereditario il successore di Girion di Dale, e in mezzo al suo tesoro c’è gran parte delle ricchezze della sua città e del suo palazzo, che Smaug rubò in passato. Non è forse una quesione su cui potremo parlare? Inoltre, nella sua ultima battaglia Smaug distrusse le dimore degli uomini di Esgaroth, e io sono ancora al servizio del loro Governatore. Vorrei parlare in vece sua e chiedere se non sei sfiorato dal  pensiero del dolore e della miseria del suo popolo.  Ti soccorsero quando eri in pericolo, e per tutta ricompensa finora ci hai portato solo rovina, anche se indubbiamente non l’hai fatto apposta”.
Erano parole veritiere, constatò il principe, ma era sicuro che Thorin non avrebbe ceduto: i Nani cedevano facilmente al potere che l’oro e le ricchezze esercitavano si di loro, e il loro cuore veniva offuscato dalla brama di possederne sempre di più.
Perciò non si sorprese affatto nell’udire la replica del Nano: “Presenti la parte peggiore della tua causa per ultima, e nella posizione di maggior rilievo. Sul tesoro del mio popolo nessun uomo può vantare dei diritti, per il fatto che Smaug, il quale lo rubò a noi, ha privato anche lui della vita e della casa. Il tesoro non era di Smaug, e le sue azioni malvagie non debbono quindi essere indennizzate con una parte del tesoro stesso. Il prezzo delle merci e dell’assistenza che ricevemmo dagli Uomini del Lago verrà generosamente ripagato, a tempo debito. Ma non daremo niente, neanche il valore di una pagnotta, sotto la minaccia della forza. Fin tanto che una schiera armata sta davanti alle nostre porte, noi vi riguardiamo come ladri e nemici”.
 Forse Thorin aveva ragione, a non volere una schiera armata davanti alle sue porte, ma Legolas sapeva bene che nessuno dei due eserciti si sarebbe mai tirato indietro, così rimase in ascolto.
“Vorrei inoltre chiedere quale parte della loro eredità avreste pagato ai nostri consanguinei, se aveste trovato il tesoro incustodito e noi uccisi”, continuò Thorin.
“Una domanda appropriata”, replicò Bard: “Ma voi non siete morti e noi non siamo banditi. Inoltre, i ricchi possono provare pietà maggiore del loro senso di giustizia, verso i bisognosi che li hanno trattati da amici quando essi erano i miseria. E le mie altre richieste non hanno ancora avuto risposta”.
Il Nano non si scompose: “Non parlamenterò, come ho detto, con uomini armati alla mia porta. E non parlamenterò affatto con il popolo del re elfico, di cui conservo un ricordo poco gentile. In questa discussione loro non c’entrano affatto. Vattene ora, prima che fischino le nostre frecce. E se vorrai parlarmi di nuovo, rimanda la schiera degli elfi nei boschi, dov’è il loro posto, e poi ritorna, ma deponendo le armi prima di avvicinarti alla mia soglia”.
Questo per il principe fu troppo; lanciò una veloce occhiata a Bard, che afferrò il messaggio e fece un passo indietro, e avanzò: “Il re degli Elfi è m padre, e ha soccorso gli Uomini del Lago nel momento del bisogno, sebbene essi non abbiano alcun diritto su di lui, tranne quelli che dà l’amicizia”, disse.
“Ti daremo tempo per pentirti delle tue parole. Fa’ appello al tuo buonsenso prima del nostro ritorno, Thorin Scudodiquercia”.
Prima di voltarsi e seguire i soldati all'’accampamento, aggiunse: “E se la mia amica Tauriel è morta a causa vostra, per aver aiutato tuo nipote a guarire, Thorin, ve la vedrete con me”.
Poi fece ritorno, raggiungendo tutti gli altri.
Prima della fine del giorno, gli ambasciatori, meno Bard, tornarono, e facendosi avanti, uno degli Uomini disse: “In nome di Esgaroth e della foresta, parliamo a Thorin Scudodiquercia figlio di Thrain, che chiama se stesso Re sotto la Montagna, e gli intimiamo di considerare seriamente le richieste che sono state avanzate, sotto pena di essere altrimenti dichiarato nostro nemico. come minimo egli dovrà consegnare un dodicesimo del tesoro a Bard, in quanto uccisore del drago, ed erede di Girion. Con quella porzione Bard stesso contribuirà ad aiutare Esgaroth; ma se Thorin vorrà avere l’amicizia e il rispetto delle terre qui intorno, come l’avevano nel passato i suoi antenati, allora dovrà aggiungere qualcosa di suo per soccorrere gli Uomini del Lago”.
Per tutta risposta, Thorin scoccò una freccia, che andò a piantarsi vibrando nello scudo di colui che aveva parlato.
Egli gridò di rimando: “Poiché questa è la tua risposta dichiaro la Montagna assediata. Non ve ne andrete di qui finché non ci chiederete una tregua e un parlamento. Non prenderemo le armi contro di voi, ma vi lasciamo al vostro oro. Mangiate quello, se volete!”.
Così dicendo, i messaggeri partirono velocemente, ma una voce giunse alle orecchie di Legolas mentre scendeva all’accampamento, una voce giovane: “La tua amica è viva, elfo”.
Legolas si sentì rincuorato, e decise di informare il padre che sarebbe andato a cercarla: l’assedio, secondo le stime del principe, sarebbe durato a lungo, ed aveva tutto il tempo che gli serviva.

Angolo dell'autrice

Fantastico, ennesimo ritardo di Elen. Anche ora che la scuola è finita e che sono in vacanza gli impegni non si sono certo impegnati a lasciarmi in pace, uff. Maaaaaaa ora sono qui, con il nuovo capitolo, e spero sia piaciuto. Vi anticipo da ora che il prossimo parlerà della Battaglia dei Cinque eserciti e vi spiego una cosetta: i dialoghi della prte finale, quelli tra Bard e Thorin, sono presi direttamente dal libro "Lo Hobbit" di Tolkien, quindi il merito va principalmente a lui. Quando è Legolas a parlare a Thorin, in realtà nel libro è sempre Bard (ma l'avrete compreso, dato che Leggy nel libro non compare). Per concludere, ringrazio tutti/e quelli/e che hanno letto, e mando un abbraccio enorme a tutti i miei lettori silenziosi.


Meneg suilad, mellon nîn. Al prossimo incontro dalla vostra elfa come sempre ritardataria

Hannon le

ElenCelebrindal
 

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Capitolo 13
*** La Battaglia dei Cinque Eserciti ***


LA BATTAGLIA DEI CINQUE ESERCITI
 
Thranduil, seppur ancora adirato contro Tauriel, non si era opposto alla volontà del principe di andare a cercare l’elfa, e così Legolas stava ora girovagando nei pressi della Montagna con l’intento di ritrovare l’amica il più in fretta possibile.
Con l’arco teso, si avventurò in una delle zone più desolate, dove non sembrava crescere neppure un sottile filo d’erba, e fece attenzione a non produrre rumori nel calpestare i ciottoli sparsi a terra con i leggeri stivali che indossava.
Dopo qualche minuto di osservazione, quando stava per perdere le speranze e aveva deciso di provare a cercare in un altro luogo, Legolas sentì un lieve rumore, la corda di un arco che si tendeva e il legno che scricchiolava: si voltò in fretta e puntò la freccia incoccata nella direzione da cui aveva sentito provenire il rumore.
Quello che vide lo fece sentire allo stesso tempo incredibilmente sollevato e terribilmente preoccupato.
Perché Tauriel era dinanzi a lui, con l’arco teso, viva.
Ma le braccia che tenevano tesa la corda tremavano vistosamente, e l’elfa sembrava reggersi a stento sulle proprie gambe: la sua tunica verde era macchiata di rosso, sul torace, di qualcosa che sembrava senza ombra di dubbio sangue.
Sangue di elfo, poiché era chiaro e non nero come quello degli orchi.
Tauriel, quando Legolas gli si parò di fronte, abbandonò la presa sulle armi e si lasciò cadere in ginocchio, portandosi una mano nel punto in cui era ferita.
Il principe non ci pensò su due volte: si rimise arco e freccia in spalla e corse dall’amica: “Tauriel! Tauriel, mani marte?” (Tauriel, cosa è successo?).
L’elfa, invece di rispondere, fece un’altra domanda: “Mankoi naa le sinome, Legolas?” (Perché sei qui?).
Legolas non capì subito il motivo per cui gli era stata rivolta quella domanda, ma poi la risposta gli apparve nitida nella mente: lo sguardo che le aveva lanciato, in quella casa a Esgaroth, era di pura delusione: “Pensavi che non ti avrei mai più voluta come amica, Tauriel?”.
Lei annuì, poi disse, alternando le parole a leggeri colpi di tosse: “Io ti ho lasciato da solo, a vedertela con gli Orchi. Non avrei dovuto farlo. Resti sempre il mio principe, Legolas, non solo mio amico”.
L’elfo, preoccupato, disse: “Non importa, quel che è fatto è fatto. Ora hai bisogno di cure, andiamo. Ti aiuterò io”.
Lei fece per allontanarsi: “Law, cund nîn. Ú-aníron” (No, mio principe. Non è ciò che voglio).
Legolas non si mosse: “Un giorno mi hai detto che avresti combattuto fino alla fine, che non ti saresti mai arresa”, disse.
 
[flashback]
 
Il sole splendeva alto nel cielo, talmente luminoso che i suoi raggi, anche se filtrati dal fitto fogliame del bosco, erano intensi.
Era in una di quelle pozze di luce, che Tauriel si era distesa, con la schiena poggiata al tronco di uno degli alberi più imponenti di quella zona di foresta: Legolas la osservava, ridendo di tanto in tanto quando la loro conversazione verteva su argomenti più leggeri e divertenti.
“Sono felice che tu abbia voluto passare uno dei tuoi pochi giorni libero assieme a me. Era molto tempo che non ci concedevamo una lunga chiacchierata come questa. In un certo senso, ti distende i nervi e riesce ad allontanare da te i pensieri che ti opprimono”, disse Legolas, andando a sedersi accanto a lei.
Tauriel non parlò subito: alzò lo sguardo al cielo, con un lieve sorriso sulle labbra.
Poi disse: “Hai ragione. Da molto ormai non riuscivo a trovare una soluzione alla confusione della mia mente, e devo ammettere che una semplice chiacchierata è più utile di qualsivoglia altra cosa”.
Sospirò: “Fra un’ora dovrò ritornare in servizio,forse per me è meglio andare. Non vorrei mai farmi trovare impreparata, e non vorrei essere in ritardo. Mi attendono al campo d’allenamento”.
Si alzò e fece per andare via, ma Legolas la trattenne: “Idh! Voglio farti un’ultima domanda, più seria. Cosa accadrebbe se ti ritrovassi in una situazione da cui uscire è quasi impossibile? Tu cosa faresti?” (Aspetta).
L’elfa aggrottò le sopracciglia: “Come mai questa domanda, principe?”.
“Non conosco il motivo, ma dovevo portela. Cosa faresti?”.
“Non mi arrenderei mai”, rispose, prima di voltarsi e andarsene.
 
[fine flashback]
 
“Mi sbagliavo. Questa volta mi arrendo. Gwao hi, Legolas” (Vai ora, Legolas).
“No, io non vado via senza di te!”, ribatté deciso l’elfo, avvicinandosi di nuovo a lei.
Tauriel, però, si allontanò ancora: “Non fare lo sciocco. In non sono nulla né per te né per tuo padre. Sono solo un’elfa che ha disobbedito agli ordini diretti del suo re”.
“Non dire così, non è vero che non sei nulla. Lascia che ti aiuti”.
“Law! Kela, Legolas, kela!” (No! Vattene, Legolas, vattene!), gridò lei, raccogliendo le ultime forze e andando via da quel luogo, lontano dal principe del Reame Boscoso.
Legolas, troppo scosso per muoversi, la guardò andare via con un senso d’impotenza che cresceva prepotente dentro di lui.
Quando ritrovò la forza di muoversi, Tauriel era svanita, e la sera stava avvolgendo tutto con il suo manto.
Lentamente, si rimise in piedi e fece ritorno all'’accampamento, senza più badare a non fare rumore o a stare accorto lungo la strada.
 
“Legolas? Iôn nîn, come mai quel’espressione cupa?”.
Il principe sollevò gli occhi dal terreno, evitando però di fissarli direttamente in quelli del padre.
Era tornato da poche ore, e la notte era calata rapidamente: Legolas si era rifiutato di parlare con chiunque, rifugiandosi nella propria tenda a pensare, a riflettere su quello che era appena avvenuto; mai avrebbe potuto immaginare che Tauriel, proprio lei, l’elfo più ostinato e caparbio che avesse mai incontrato, si sarebbe arresa all'’inevitabile.
Ed era tutta colpa sua.
L’aveva guardata lui, così, facendole credere di non volerla più al suo fianco come amica e alleata.
E ora, probabilmente era già morta.
Legolas sospirò, ma non disse nulla, così Thranduil andò a sedersi accanto a lui e gli mise una mano sulla spalla: “Non l’hai trovata?”, chiese ancora, visibilmente preoccupato.
Il principe annuì debolmente: “Na, adar. L’ho trovata, ma…” (Si, padre).
Lasciò in sospeso la frase,scuotendo la testa.
“Ma…”, lo incitò il padre.
“Ma non ha voluto seguirmi. Nonostante fosse ferita gravemente, non ha voluto il mio aiuto, ed è andata via. Ora sarà già morta, ed è tutta colpa mia”, continuò, con un tono di voce senza emozioni, apatico e lento.
“Perché dici questo? Non è colpa tua, Legolas!”.
“Invece si! Inconsapevolmente, le ho fatto credere di avermi deluso, di non volerla mai più al mio fianco. Mi ha detto di non essere nulla, né per me né per te, solo qualcuno che ha disobbedito agli ordini. Anche se è la realtà, il fatto che abbia ignorato i tuoi ordini, adar, questo non vuol dire che non conti nulla, almeno per me!”.
Thranduil lo abbracciò, stringendolo a sé: “Vale anche per me, galad nîn. L’avevo perdonata, così come ho perdonato te. Mi dispiace, Legolas, so quanto tenevi a lei, seppur si è dimostrata solamente un’amica”.
“La migliore”, aggiunse il principe, fermo tra le braccia del padre.
Si separarono quando qualcuno li chiamò dall’esterno: “Aran Thranduil? Cund Legolas? C’è qualcosa che richiede la vostra presenza”, disse la voce di un elfo.
“La nostra presenza? Cosa è così importante da richiederla ad una così tarda ora? Mancano poche ore alla mezzanotte”, disse Thranduil, sciogliendo l’abbraccio e spostando lo sguardo all'’ingresso della tenda.
“Riguarda lo Hobbit nei Nani, mio signore, Bilbo Baggins. Le nostre sentinelle lo hanno trovato sulla sponda del fiume”.
“Lo Hobbit? Molto bene, arriviamo”, replicò il re, alzandosi e raggiungendo l’ingresso della tenda: “Legolas?”, chiamò, voltandosi.
Il principe si alzò a sua volta e, assieme al padre, raggiunse un grande fuoco acceso sul davanti di una larga tenda.
Thranduil e Bard, anch’egli ovviamente presente, fissavano con curiosità quello strano individuo: uno Hobbit in armatura elfica, avvolto in una vecchia coperta, era una novità per loro.
Legolas teneva lo sguardo fisso sul piccoletto, senza sbattere nemmeno per palpebre.
“Avanti, allora, parla”, gli ordinò, seppur gentilmente, Bard.
Quello, con tono professionale, disse: “In realtà, come voi ben sapete, la situazione si è fatta insostenibile. Io personalmente sono stufo dell’intera faccenda. Vorrei proprio essere di nuovo a Ovest, a casa mia, dove la gente è più ragionevole. Ma ho un certo interesse in questa faccenda – un quattordicesimo, per essere precisi, secondo una lettera che per fortuna credo di aver conservato.
Portò una mano alla tasca della giacca che indossava sopra la cotta di maglia, e tirò fuori una lettera, tutta stropicciata e spiegazzata.
“Una parte dei profitti, badate bene”, continuò, osservato con crescente curiosità dai presenti: “Ne sono ben consapevole. Personalmente sono fin troppo pronto a considerare attentamente tutte le vostre rivendicazioni e dedurre quello che è giusto dal totale, prima di avanzare le mie richieste. Comunque voi non conoscete Thorin Scudodiquercia bene quanto me. Ve lo assicuro io, è prontissimo a star seduto su un mucchio d’oro per tutto il tempo che voi state seduti qui, a costo di morir di fame”.
“Ebbene, che lo faccia”, intervenne Bard: “Un pazzo del genere non merita altro”.
Bilbo non si lasciò scoraggiare: “Certo, certo. Capisco il tuo punto di vista. D’altra parte, però, l’inverno sta sopravvenendo molto rapidamente. Tra non molto avrete la neve e chissà cos’altro, e i rifornimenti saranno difficili, perfino per gli Elfi, m’immagino”.
Legolas si agitò sul tronco dov’era seduto,  ben sapendo che lo Hobbit era nel giusto.
“Ci saranno molte altre difficoltà. Non avete sentito parlare di Dain e dei Nani dei Colli Ferrosi?”, domandò poi lo Hobbit.
Stavolta intervenne Thranduil: “Si, molto tempo fa; ma cos’ha a che fare con noi?”, chiese, aggrottando impercettibilmente le sopracciglia.
“È quello che pensavo. Vedo che ho delle informazioni che voi non avete avuto. Dain, lasciate che ve lo dica, è ora a meno di due giorni di marcia da qui, e ha con sé almeno cinquecento nani pronti a tutto, e un bel po’ di loro sono veterani della terribile guerra degli orchi e nei nani, di cui avrete senz’altro inteso parlare. Quando arriveranno, ci potranno essere guai seri”, rivelò Bilbo ai presenti.
“Perché che lo dici? Stai tradendo i tuoi amici o stai tradendo noi?”, gli chiese Bard, con l’asprezza nella voce.
Lo Hobbit emise uno strano suono, come uno squittio, e si difese: “Mio caro Bard! Non essere così frettoloso! Non ho mai incontrato gente così sospettosa! Sto semplicemente cercando di evitare guai a tutti gli interessati. Ora vi farò un’offerta”.
“Sentiamola”, disse il re degli Elfi, attento ad ogni parola.
“Potete vederla! Eccola!”, esclamò quello, tirando fuori un involto di stracci.
In una sola mossa lo svolse, e finanche il re degli Elfi, i cui occhi erano abituati alle cose più belle e più mirabili, e la cui mente non era nuova a meraviglie del genere, si levò in piedi stupefatto.
Bard la fissò incantato, in silenzio, e Legolas era completamente rapito dalla bellezza di ciò che avea dinanzi.
Era un globo empito di luce lunare appeso dinanzi ai loro occhi in una rete intessuta dal bagliore delle stelle.
“Questa è l’Arkengemma di Thrain”, disse Bilbo ai presenti: “Il Cuore della Montagna; ed è anche il cuore di Thorin. Egli la valuta più di un fiume d’oro. Io la do a voi. vi sarà d’aiuto nelle vostre trattative”.
Così lo Hobbit, seppur ancora osservando la pietra con intenso desiderio dipinto in volto, la consegnò a Bard, che la prese e la tenne in mano quasi abbagliato.
“Ma come fai ad avere il diritto di darcela?”, intervenne Legolas, dopo aver distolto a fatica lo sguardo dalla meravigliosa pietra.
Lo Hobbit parve imbarazzato: “Oh, beh! Diritti veri e propri non ne ho; ma sono disposto a darla in cambio di tutte le mie richieste, proprio così, sapete. Posso anche essere uno scassinatore – o così dicono loro: personalmente, non mi sono mai considerato tale – ma sono comunque uno scassinatore onesto, spero, più o meno. Comunque adesso torno indietro, e i nani possono farmi quello che vogliono. Spero che la troverete utile”.
Thranduil guardo il piccoletto con nuovo stupore dipinto in viso: “Bilbo Baggins! Sei più degno tu di indossare quel’armatura da principe elfico che molti altri che l’hanno portata con più grazia. Ma mi domando se Thorin Scudodiquercia la penserà così. La mia conoscenza della razza nanesca è forse più vasta della tua. Ti consiglio di rimanere con noi, e qui sarai onorato e tre volte benvenuto”.
Legolas rivolse un’occhiata di ammirazione al proprio padre: poche volte lo aveva visto o udito pronunciare sentenze del genere, e ancor più raramente aveva fatto un’offerta simile ad un individuo poco conosciuto.
Sorrise lievemente, ma Bilbo rifiutò: “Grazie infinite, ne sono sicuro”, disse, inchinandosi: “Ma non mi pare giusto abbandonare in questo modo i miei amici, dopo tutto quello che abbiamo passato insieme. E poi ho promesso di svegliare il vecchio Bombur a mezzanotte! Devo veramente andarmene, e in fretta”.
Tentarono ancora di convincerlo a restare, ma nonostante tutto quello che dissero, non riuscirono a trattenerlo, così gli fu assegnata una scorta che lo accompagnasse fin dove possibile.
Quando andò via, sia Bard che i due reali elfici lo salutarono con rispetto.
Legolas sorrise, quando vide Gandalf alzarsi e congratularsi con lo Hobbit, ma poi rimase sorpreso.
Gandalf?
“Adar?”.
“Na, Legolas?”
“Quando è arrivato Mithrandir? Non mi pareva mi averlo scorto, prima di andare via”.
“Oh, giusto. Avevo dimenticato di dirtelo. Mithrandir è giunto qui mentre eri assente: avrei dovuto dirtelo, ma la tua preoccupazione me lo ha fatto scivolare via dalla mente”.
Il principe annuì, poi si avviò verso la propria tenda: “Quel du, adar”, disse, prima di entrare e chiuderne i lembi.
 
Il giorno seguente , molto presto si vide un uomo solitario affrettarsi su per il sentiero, fermandosi ad una certa distanza e salutando i Nani: “Salute a voi, Nani di Erebor! Una sola domanda vi verrà posta: darete ascolto ad un’altra ambasceria? Grandi novità incombono, e le cose sono decisamente mutate”.
“Intima loro di venire in pochi e disarmati, e io li ascolterò”, gridò Thorin in risposta al messaggero.
Allora, verso mezzodì vennero avanti, di nuovo, gli stendardi della Foresta e del Lago, una compagnia di una trentina di persone.
All'’inizio del sentiero deposero spade e lance, e avanzarono verso la Porta: tra essi, Bard e il re degli Elfi con suo figlio; dinanzi a questi, Mithrandir, avvolto in mantello e cappuccio, che portava tra le mani un robusto cofanetto in legno e ferro.
Fu Bard a parlare: “Salute, Thorin! Sei ancora dello stesso parere?”.
“Io non cambio parere coll’alba e il tramonto di pochi soli”, rispose Thorin: “Siete venuti a farmi domande oziose? L’esercito degli Elfi non se ne è ancora andato via, come avevo intimato! Fino ad allora inutilmente vieni a trattare con me!”.
“Non c’è nulla per cui cederesti un po’ del tuo oro?”, continuò Bard, imperterrito.
“Nulla che tu o i tuoi amici abbiate da offrire”.
“E se fosse l’Arkengemma di Thrain?”, disse Legolas, e a quella parole Mithrandir aprì il cofanetto, tenendo alta la gemma.
La luce filtrava dalla sua mano, bianca e vivida nel mattino.
Per un lungo momento il silenzio restò immutato, nessuno parlò.
Alla fine Thorin ruppe il silenzio, e con la voce densa di collera disse: “Quella pietra era di mio padre, e appartiene a me. Perché dovrei comprare quello che mi appartiene?”.
Poi la sua voce acquistò una sfumatura sorpresa: “Ma come avete fatto a impadronirvi di questo cimelio della mia famiglia? Ammesso che ci sia bisogno di fare una domanda simile a dei ladri…”.
“Noi non siamo ladri”, fu la risposta pronta di Bard: “Quello che ti spetta ti verrà restituito in cambio di quello che spetta a noi”.
“Come avete fatto a impadronirvene?”, urlò Thorin, incollerito.
A quel punto si udì la vocina di Bilbo, simile ad uno squittio: “Gliel’ho data io!”, disse, facendo capolino da sopra il muro.
Thorin si voltò nella sua direzione, afferrandolo con entrambe le mani: “Tu! Tu! Miserabile Hobbit! Sottosviluppato! Scassinatore!”, gridò, scuotendo il poveretto come un coniglio, ma non aveva ancora finito.
“Per la barba di Durin! Come vorrei che Gandalf fosse qui! Che sia maledetto, lui che ti ha scelto! Che gli caschi la barba! Per quanto riguarda te, ti scaraventerò giù dalle rocce”, gridò ancora, sollevando Bilbo con le braccia.
Allora fu Gandalf a parlare: “Fermo! Il tuo desiderio è esaudito!, esclamò, togliendo cappuccio e mantello, buttandoli da parte.
“Ecco qua Gandalf! E neanche troppo presto, a quel che vedo! Se non ti piace il mio scassinatore, per piacere non danneggiarmelo. Mettilo giù, e ascolta prima cos’ha da dire!”.
Il Nano posò Bilbo in cima al muro: “Siete proprio tutti d’accordo! Non avrò mai più niente e che fare con nessuno stregone né con i suoi amici. Che hai da dire tu, brutto ratto figlio di ratti?”, disse, rivolgendo poi la domanda allo Hobbit.
“Povero me! Povero me! Tutto questo è molto imbarazzante. Forse ti ricorderai di avere detto che avrei potuto scegliere la mia quattordicesima parte? Forse ti ho preso troppo alla lettera: mi è stato detto che talvolta i Nani sono più educati a parole che a fatti. Ciò nonostante c’è stato un tempo in cui pareva che tu ritenessi che io vi ero stato di un certo aiuto. Figli di ratti, ma senti un po’! sono questi i servizi che mi hai promesso a nome della tua famiglia,Thorin? Considera che ho disposto a piacer mio della mia parte e lascia perdere!”, disse il piccoletto.
“Lo farò”, disse Thorin, aspramente.
“E lascerò perdere anche te – e il cielo voglia che non ci rincontriamo mai più!”.
Poi si volse, parlando da sopra il muro: “Sono stato tradito. Era giusto immaginare che non avrei potuto fare a meno di riacquistare l’Arkengemma, il tesoro della mia famiglia. Per essa darò la quattordicesima parte del mio tesoro in oro e argento, lasciando da parte le gemme; ma tutto ciò verrà calcolato come la parte promessa a questo traditore, e con questa ricompensa può andarsene e voi potete dividervela come vi pare. Lui ne avrà ben poco, non lo metto in dubbio. Prendetevelo, se volete che viva; la mia amicizia certo non lo accompagna. Adesso scendi dai tuoi amici! O ti butto giù io”, disse poi a Bilbo, ma egli replicò. “E l’oro e l’argento?”.
“Verranno dopo; come, si vedrà”, rispose il Nano.
“Ora scendi!”.
Bard, che fino a quel momento era stato in assoluto silenzio, intervenne: “Fino ad allora terremo noi la pietra”, gridò, e Gandalf aggiunse: “Non stai facendo una bellissima figura come Re sotto la Montagna. Ma le cose possono ancora cambiare”, disse.
“Proprio così”, rispose Thorin, ma le sue parole sembravano celare altri pensieri, oscuri a coloro che ascoltavano.
Così Bilbo fu calato giù dal muro, partendo con solo la cotta di maglia come dono.
“Addio! Spero che ci rincontreremo da amici”, gridò loro.
Legolas sorrise, nell’udire tali parole, e si rivolse al padre, sottovoce: “Che gran cuore nasconde, lo Hobbit. Se tutti noi fossimo come lui, il mondo sarebbe senz’altro migliore”, disse.
Thranduil voltò la testa verso il figlio: “Parole sagge, iôn nîn. Chi lo sa, forse un giorno tutti riusciremo a capire come si fa, ad essere creature di gran cuore”, replicò.
Thorin, però, non la pensava allo stesso modo: “Sparisci! Hai indosso un’armatura che è stata fatta dalla mia gente e che è troppo buona per te. Non può essere trafitta dalle frecce; ma se non ti sbrighi, ti pungerò quei miserabili piedi. Perciò spicciati!”, urlò.
Bard parlò ancora, calmo e controllato a dispetto della rabbia del Nano: “Senza tanta fretta! Ti diamo tempo fino a domani. A mezzogiorno torneremo a vedere se hai prelevato dal tesoro la porzione che deve essere barattata con la pietra. Se questo sarà fatto senza fallo, allora ce ne andremo, e l’esercito degli Elfi ritornerà nella foresta. Nel frattempo, addio!”.
Detto questo, la delegazione voltò le spalle alla Montagna e fece ritorno all’accampamento, con Bilbo che li seguiva a passettini, con aria sconsolata.
L’accampamento era relativamente tranquillo, anche dopo aver riportato le nuove, e si udivano solo pochi sporadici canti, intonati per tenere alto il morale.
Legolas, tornato alle sue preoccupazioni, ma rassegnato ormai al peggio, vagava senza meta tra Uomini ed Elfi, quasi senza rivolgere alcun cenno di saluto a qualsivoglia individuo; poi, in un angolo, seduto in disparte, notò il piccolo Hobbit, avvolto in una coperta e con l’aria decisamente sconsolata.
“Bilbo Baggins! Come mai tutto solo qui, mio buon Hobbit?”, gli domandò, andando a sedersi accanto a lui.
Quello alzò lo sguardo: “Stavo riflettendo su ciò appena accaduto, principe Legolas. Non posso dire di essere sollevato, di essere sfuggito alla collera di Thorin. Ritenevo ormai i Nani miei amici, e scoprire di essere così poco considerato, ora che hanno ritrovato il loro ambito tesoro, non è decisamente il massimo per tenere alto il morale”, rispose, alzando le spalle.
“Sono certo che tutto si aggiusterà, non temere. Ma una cosa non comprendo… come fai a conoscere il mio nome? Sì, avrai capito ch’io sono un principe vedendomi accanto a mio padre, re Thranduil, e se mi avrai sentito parlare a Thorin, ma non rammento di aver mai pronunciato il mio nome, o di averlo udito dalle labbra di altri, mentre eri presente”.
Lo Hobbit sembrò andare in agitazione, ma dopo qualche istante ritrovò la calma: “Io… l’ho udito mentre facevamo ritorno dalla Montagna. Non sono così distratto come potreste pensare voi tutti”.
“Nessuno ha mai affermato simili cose. Ti lascio solo con i tuoi pensieri; anche io ne ho molti che opprimono la mia mente, e so che il modo migliore per farli andar via è restare soli. A presto, Bilbo Baggins”, disse Legolas, alzandosi, seppur non credendo fino in fondo alle parole dello Hobbit.
Si ritirò nella propria tenda, e così il giorno scivolò via, così come la notte.
Il giorno dopo il vento mutò, cominciando a soffiare da ovest, e l’aria si fece tetra e scura.
Era ancora molto presto, primo mattino, quando un gridò si udì nell’accampamento; alcuni messaggeri, difatti, avevano appena riferito che un esercito di Nani era appena apparso dietro lo sperone orientale della Montagna Solitaria, e stava affrettandosi verso Dale.
A quanto pare, Dain era infine giunto, e prima di quanto non predetto dallo Hobbit.
Lo squillo di trombe e corni chiamò Elfi e Uomini alle armi, e non passò molto che si avvistarono i Nani risalire la valle, rapidamente.
La maggior parte si arrestò tra il fiume e lo sperone orientale della Montagna, ma alcuni continuarono il loro cammino e, una volta attraversato il fiume, posarono le armi e alzarono le mani, segno che venivano in pace.
Bard uscì ad incontrarli, e con lui il sovrano ed il principe del Bosco.
Anche Bilbo il seguì, in silenzio.
Fu Legolas ad interrogarli, e questi risposero: “Siamo inviati da Dain figlio di Nain. Ci affrettiamo a raggiungere i nostri consanguinei nella Montagna, perché siamo stati informati che il regno del passato è risorto. Ma chi siete voi che sedete in questa pianura come nemici di fronte a mura difese?”.
Questo, alle orecchie di Legolas, sembrava semplicemente una maniera educata per dire “toglietevi di mezzo o vi facciamo guerra”, ma non disse nulla in risposta.
Fu Bard ad intervenire: “No. Non avete il permesso di dirigervi alla Montagna, non direttamente”, rifiutò.
Furono pronunciate parole irate, ma i messaggeri si ritirarono imprecando nella barba.
Thranduil li osservò, senza batter ciglio, e disse: “Non credi sia rischioso attendere, mio buon uomo? Attendere l’oro e l’argento promessi, con una così grande compagnia, per di più con una grande riserva di provviste, sarà divenuto inutile. Potrebbero sostenere un assedio per settimane, e nel mentre altri potrebbero giungere, mentre i nostri assediati avranno la possibilità di aprire altri ingressi, tanto da costringerci a circondare l’intera Montagna”.
Ma Bard era risoluto: “Non mi arrenderò ora”, replicò, e si affrettò ad inviare alcuni messaggeri verso la Porta.
Tuttavia essi non trovarono nulla, se non un nugolo di frecce che li costrinse alla ritirata, costernati e delusi.
Nell’accampamento, ormai, regnava la più grande eccitazione, quasi che la battaglia fosse imminente; i Nani avevano, infatti, ripreso ad avanzare lungo la riva orientale.
Bard rideva, incurante di ciò che stava avvenendo: “Pazzi! Venire così sotto le pendici della Montagna! Non capiscono niente di guerre all'’aria aperta, anche se sono esperti di battaglie nelle miniere. Ci molti dei tuoi arcieri, Thranduil, e miei soldati nascosti tra le rocce sul loro fianco destro. Le armature nanesche saranno anche buone, ma tra poco saranno messe a dura prova. Attacchiamoli da entrambi i lati adesso, prima che si siano riposati!”.
Il principe scosse la testa, e il padre disse: “Aspetterò a lungo, prima di incominciare questa guerra per l’oro. I Nani non possono passare di qui, se noi non lo vogliamo o se non accade qualcosa che non siamo in grado di prevedere. Speriamo ancora che qualcosa porti alla riconciliazione. La nostra superiorità numerica sarà sufficiente, se alla fine sarà proprio inevitabile venire alle mani”.
Legolas sorrise, nell’udire quelle parole, e riconobbe finalmente il vero Thranduil, il re saggio che rifletteva prima di adirarsi o di compiere azioni avventate.
Riconobbe il proprio padre, non un elfo ossessionato dalle ricchezze, dal timore di non accumulare un tesoro degno dei grandi re del, passato.
Mentre questi discutevano, improvviso, arrivò l’assalto dei Nani.
Senza alcun segnale di avvertimento le frecce cominciarono a fischiare, ma più improvvisamente ancora, con una velocità spaventosa e innaturale, l’oscurità calò.
Una tempesta invernale, trasportata dal vento, giunse fino alla Montagna, e i fulmini tagliarono il buio, illuminandone la vetta.
E sotto le nubi temporalesche, una macchia ancor più nera che avanzava, ma veniva dal nord, come uccelli nel buio, buio così fitto che nessuna luce poteva filtrare.
Allora Gandalf apparve, isolato, con le braccia sollevate fra i Nani che avanzavano e le schiere che li attendevano: “Fermi! Fermi!”, gridò.
Il suo bastone fiammeggiava, con un bagliore intenso simile a quello del fulmine: “Il terrore è calato su tutti voi! Ahimè! È arrivato più presto di quanto immaginavo. Gli orchi sono su di voi! sta arrivando Bolg dal Nord, o Dain! Ecco! I pipistrelli sono sopra al suo esercito come una marea di cavallette. Ed essi montano i lupi, e i Mannari sono al loro seguito!”.
Tutti, Nani, Elfi e Uomini, caddero in preda allo stupore e alla confusione, e il buio intanto cresceva.
I nani sollevarono lo sguardo al cielo, voci si alzarono nelle schiere degli Elfi, e Gandalf parlò ancora:”Venite! C’è ancora tempo per un consiglio. Che Dain figlio di Nain venga subito da noi!”.
Allora Dain raggiunse coloro che stava per attaccare, e insieme Bard, Gandalf, Thranduil, Legolas e lo stesso nano svilupparono una strategia, una strategia che tutti speravano sarebbe stata vincente.
La sola speranza era quella di attirare gli Orchi tra i contrafforti della Montagna e di poter occupare i grandi speroni a sud e ad est; non vi era tempo per elaborare un piano migliore, oppure per mandare messaggeri in cerca di aiuto.
Bilbo, come s’avvide Legolas, era scomparso, ma ormai nessuno si preoccupava troppo del piccolo Hobbit, preoccupati com’erano tutti dall’imminente scontro.
E così, ebbe inizio una battaglia che nessuno, nemmeno nelle più oscure previsioni, si era mai aspettato.
Da un lato, le oscure creature che popolavano la Terra di Mezzo, Orchi e lupi.
Dall’altro, Elfi, Uomini e Nani, uniti quasi per miracolo in battaglia.
“Non abbiate timore! Combattete senza tirarvi indietro, non fuggite! Siete guerrieri, non abbiate pietà per nessuna di quelle oscure creature, non lasciate vivi e non fate prigionieri!”.
Questo fu il breve discorso che Legolas fece agli Elfi, e queste furono le parole aggiunte dal re: “Abbiate il coraggio di affrontare qualunque nemico, fate brillare le vostre lame, fischiare le vostre frecce e cantare i vostri archi!”.
Questi guerrieri erano disposti sui pendii più bassi dello sperone meridionale della Montagna, e tra le rocce ai suoi piedi molti abili arcieri erano celati.
Quelli più agili, assieme ad alcuni Uomini e allo stesso Bard, si arrampicarono sul dorso orientale per poter vedere cosa accadeva.
Legolas stringeva nervosamente Orcrist, lo sguardo fisso davanti a sé e le orecchie tese per cogliere ogni suono; non aveva mai partecipato ad una vera e propria battaglia, e sentiva quasi sulla pelle la tensione nell’aria, ogni tanto udiva il rumore delle corde degli archi che si tendevano accanto a sé.
Conficcò la punta della spada a terra e portò la mano sinistra alla ferita, ormai quasi guarita, ma che ancora gli doleva, e fece una lieve smorfia.
Thranduil dovette accorgersene, perché si accostò al figlio: “Legolas, le tyava quel?” (ti senti bene?), gli domandò, preoccupato.
Il principe tentò di sorridere: “Uuma dela, adar” (Non preoccuparti), rispose, tornando a stringere le dita sull’elsa della spada, estraendola dal terreno.
Era preoccupato, e sì, anche intimorito: “È solo che… non ho mai combattuto una battaglia vera, come questa, e anche se mi costa ammetterlo, ho paura. Ho paura per me, per te. Per tutti quanti. E non dovrei averne”, disse, abbassando la testa.
Thranduil sorrise, e gli fece rialzare il capo mettendogli due dita sotto il mento: “Oh, Legolas, iôn nîn… sarei preoccupato se tu non ne avessi. Solo gli sconsiderati e gli sciocchi non provano paura. Anche io sono spaventato,e lo sono stato sempre, prima di affrontare una battaglia. Senza paura non si vive, Legolas. Troppa può ucciderti, ma se la controlli, allora può salvarti la vita. Non scendo in battaglia senza timore: ho paura per la tua vita, per quella del mio popolo. Ho timore di perdere la mia. Ma combatterò ugualmente, non mi tirerò indietro e terrò la spada alta fino alla fine”.
Con quelle parole, sfoderò la spada che un tempo era appartenuta a Oropher: “Questo giorno le nostre spade brilleranno assieme, e colpiranno assieme. Te la senti?”.
Allora Legolas sorrise sul serio: “Insieme”, disse solamente, e tornò a volgere lo sguardo verso nord, con una nuova luce risoluta negli occhi.
L’aria cominciò presto a riempirsi degli ululati dei lupi, e le grida degli orchi risuonarono, vibrando nell’aria.
Un manipolo di coraggiosi si era schierato in avanguardia, con il solo compito di fingere di fare resistenza, e molti lì caddero prima che il resto si ritirasse.
Gli elfi caricarono per primi, ché il loro odio contro gli Orchi era freddo e spietato, e le loro armi rillavano nella penombra tale era l’ira delle mani che le reggevano.
Non appena le schiere nemiche si infittirono, Thranduil sollevò la spada: “Hado i philinn!” (Scoccate le frecce!), ordinò, e una nuvola di frecce, guizzanti come fuoco, fischiarono nell’aria e finirono addosso ai nemici, macchiando del loro sangue nero le rocce.
Scoccarono molte volte, e sempre le frecce andarono a segno.
Poi scesero all'’attacco anche i Nani, e le loro grida di battaglia echeggiarono come un ruggito; e dietro di essi gli Uomini, armati di lunghe spade.
Gli Orchi caddero nel panico, e gli elfi approfittarono, caricando con maggior impeto: “Herio!”, esclamò Legolas, e anche coloro armati solo di lancia e spada si lanciarono all'’attacco, e il principe assieme a loro.
La lama di Orcrist di macchiò presto del sangue nero degli Orchi, e Legolas non si fermò, dando coraggio ai suoi amici e abbattendo uno dopo l’altro tutti i nemici che gli si paravano di fronte.
La vittoria ormai sembrava vicina, quando un grido risuonò sulle alture sovrastanti.
Legolas deglutì, prima di voltarsi e sollevare lo sguardo; e allora capì che tutto quello non era altro che l’inizio.
Gli Orchi scendevano a fiotti dalla Montagna, una marea nera inarrestabile che uccideva senza fare distinzione, e molti caddero sotto le loro armi, molti che credevano essere al sicuro, ormai.
Le ore passavano, le spade si levavano e colpivano, le frecce fischiavano, ma a nulla servivano gli sforzi di tutti contro quella moltitudine, a cui si aggiunse un’altra schiera di Mannari, e con essi giunse la guardia del corpo di Blog, grandi orchi dalle scimitarre d’acciaio.
I nobili Elfi resistevano attorno al loro re, che combatteva senza pause, affondando senza esitare la spada e colpendo qualunque nemico senza sbagliare mai.
Ma Thranduil aveva nel cuore l’angoscia per la sorte del figlio, solo tra le schiere nemiche e con un braccio ancora ferito, e non badava a cosa faceva.
Più volte aveva rischiato di essere ferito, e se non lo era lo doveva solo al coraggio e alla fedeltà delle sue guardie, che lo proteggevano quando fronteggiava un nemico e l’altro lo prendeva alle spalle.
In ogni breve pausa che poteva permettersi faceva vagare lo sguardo, alla ricerca del figlio, ma senza alcun risultato.
Lo stesso faceva Legolas, cercando il padre ogni qualvolta poteva permetterselo.
Improvvisamente, si levò un grido, e dalla Porta squillarono le trombe.
Il principe si voltò verso la Montagna; aveva dimenticato Thorin e gli altri Nani!
Una parte del muro che avevano eretto crollò, e il Re sotto la Montagna varcò la soglia, seguito dai suoi compagni; non più cappuccio e mantello a ricoprirli, ma delle lucenti armature, i loro occhi ardenti come fuoco.
Thorin sollevò l’ascia, e cominciò a combattere, gridando: “A me! A me! Elfi e Uomini! A me! O miei consanguinei!”, e la sua voce si udì in tutta la vallata.
Tutti i Nani di Dain si precipitarono in suo aiuto, rompendo lo schieramento, e vennero giù anche Uomini del Lago, e soldati elfici si unirono, capeggiati da Legolas, che fu il primo a raggiungerlo.
Una volta di più gli Orchi furono stretti d’assalto nella valle, e i loro cadaveri resero il luogo ancor più scuro.
I Mannari furono sbaragliati e Thorin puntò alle guardie di Bolg.
Legolas fece per seguirlo, ma un Mannaro era rimasto vivo, e gli piombò addosso all'’improvviso, mancandolo di poco con le fauci irte di denti aguzzi.
Una delle zampe lo colpì proprio al braccio destro, già ferito, e Legolas cadde in ginocchio, sopraffatto dal dolore lancinante che provò quando la ferita di riaprì e uno degli artigli della bestia gli si conficcò nella carne.
Riuscì a liberarsi, ma nell’impatto aveva perso Orcrist, e non poteva impugnare un arco con un braccio solo, né tantomeno poteva affrontare un nemico simile armato solo di un pugnale.
Così, quando al bestia caricò di nuovo, chiuse gli occhi aspettando la morte, rappresentata dalle zanne del Mannaro.
Ma la morte non arrivò, e il principe non tardò a scoprire il perché; riaprì gli occhi, e non poté trattenere un grido soffocato alla vista che aveva dinanzi.
Tauriel era giunta all'’improvviso, ed era lei che il Mannaro aveva azzannato, e l’elfa gli aveva conficcato una spada nella gola.
L’orrendo lupo, morendo, lasciò la presa e Tauriel cadde  malamente a terra, sanguinante, con gli abiti ridotti a brandelli.
“Law!, esclamò Legolas, riacquistando le forze e correndo accanto all'’amica: “Tauriel… law. Mani le uma tanya?” (Cosa hai fatto?), disse, con le lacrime agli occhi.
Ella respirava appena, e nel sentire quelle parole aprì gli occhi: “Le naa cund nîn, Legolas… ar mellon nîn. Ho fatto solo il mio dovere… ti ho protetto” (Tu sei il mio principe, Legolas… e il mio amico), rispose lei, con voce debole.
Un lieve sorriso le si dipinse sulle labbra: “Namárië”, disse in un soffio, prima di respirare per l’ultima volta.
Legolas chinò la testa, senza nascondere il proprio dolore, ma le grida della battaglia lo riportarono presto alla realtà.
Stringendo i denti, riprese la spada e, incurante della ferita, riprese a combattere, avventandosi contro le guardie di Bolg.
In quella, le nuvole furono spazzate via dal vento, e un rosso tramonto divenne visibile all'’occidente.
Un grido altissimo, proveniente da qualcuno di ignoto, e delle parole che rinfocolarono la speranza nei cuori dei combattenti: “Le aquile! Le aquile! Arrivano le aquile!”.
Legolas alzò gli occhi al cielo, e i suoi occhi non poterono ingannarsi; stagliate contro il rosso del tramonto, seguendo la direzione del vento, le maestose aquile stavano arrivando in loro aiuto, in numero enorme.
Molti ripresero quel grido, e molti occhi stupiti si levarono al cielo.
Ma Legolas non udì gira di gioia, ma di dolore; perché Thorin Scudodiquercia era a terra, ferito, e i suoi due nipoti erano morti.
Il principe fece appena in tempo a correre in quella direzione, uccidendo con un colpo netto l’ultimo dei nemici rimasti di fronte al Nano, pronto ad assestare il colpo di grazia a Thorin.
Quello, quando Legolas si voltò, lo guardò con riconoscenza; poi chiuse gli occhi e svenne.
Un rapido sguardo intorno a sé, e il principe capì che la battaglia si era ormai conclusa, e tutti i nemici erano ridotti a ben miseri corpi a terra; ma non era rivolto a quello il proprio pensiero.
Non all'’immenso orso che raggiunse Thorin e lo trasse con sé.
Non a coloro che issarono i suoi nipoti su degli scudi, portandoli lontano da quel luogo.
Non alle grida di vittoria che molti si lasciavano sfuggire.
Legolas cercava una sola persona, e quella stessa persona stava in quel momento facendo guizzare lo sguardo da una parte all'’altra, con il timore, l’angoscia e la preoccupazione che stavano per prendere il sopravvento.
Allora lo sentì: “Adar! Adar, manke naa?”, (Padre, dove sei?”).
La voce non era limpida, e celava una grande sofferenza, ma era lui. “Legolas! Tula sinome, iôn nîn!”(Vieni qui), esclamò in risposta, sollevando la spada per farsi ritrovare.
Non appena lo riconobbe, in lontananza, Thranduil corse dal figlio e lo abbracciò, lasciando cadere a terra la spada per poter circondare con le braccia il proprio figlio, con il cuore che traboccava di gioia nel vederlo ancora vivo.
“Legolas, sei ferito!”, esclamò poi, quando ebbe sciolto l’abbraccio.
“Non è niente, adar, non temere…”, cercò di dire Legolas, ma la vista gli si annebbiò all'’improvviso, e le ginocchia gli cedettero.
Dopodiché tutto fu buio.
 
 
“Legolas? Galad uin hin nîn, edrach in hin lîn” (Luce dei miei occhi, apri gli occhi).
La voce del padre arrivò sussurrata alle orecchie del principe, che lentamente sollevò le palpebre,stringendo gli occhi quando la luce del mattino glieli ferì.
Fece per domandare cosa era accaduto, ma i ricordi gli tornarono in fretta, pesanti come macigni gettati giù da una montagna.
Tentò di mettersi seduto, ma Thranduil gli pose una mano sul petto, tenendolo giù: “Daro” (Fermo), gli ordinò.
“Sei ancora troppo debole, devi stare disteso. Recupera le forze per… per il funerale. Devi recarti alla Montagna con me, più tardi”.
“Quanti sono morti?”, domandò il principe in un soffio.
“Ancora non prendiamo il conto dei morti, ma molti elfi sono caduti sotto i colpi del nemico. Vite eterne strappate alla loro immortalità. Che possano trovare il loro riposo nelle Aule di Mandos. E… vagando per il campo di battaglia ho trovato anche Tauriel”.
Legolas chiuse gli occhi, cercando di non pensare a tutti gli Elfi che erano morti quel giorno, cercando di non pensare a nulla, ma non ci riuscì: “Mi ha salvato la vita… non meritava la morte. Nessuno la meritava”.
“Non possiamo essere noi a scegliere chi vive e chi cessa di vivere, Legolas. Forse nessuno lo meritava, è vero, ma è accaduto”.
Poi aggiunse: “Dovresti davvero recarti con me al funerale di oggi, ma se non te la senti, non sarò certo io ad obbligarti”.
“No io… verrò. Ma, se si tiene nelle sale della Montagna, chi è morto? Ho visto i due nipoti di Thorin, sul campo, ma…”.
“Anche Thorin è morto. Gli eredi più prossimi di Durin hanno abbandonato per sempre queste terre. Ha chiuso gli occhi non molto tempo dopo la fine della battaglia, dopo aver parlato con me e con il piccolo Hobbit”.
Thranduil si alzò dal letto del figlio, dov’era seduto: “Ti lascio riposare, ora”, disse, prima di svanire oltre l’ingresso della tenda.
 
 
Il rumore cupo dei coperchi che venivano posti sulle bare di Fili e Kili rimbombò nelle troppo silenziose sale di pietra di Erebor, un tempo ricche di splendore ma ora rovinate dalla furia del drago, e Bard e Thranduil si avvicinarono a quella ancora aperta di Thorin.
Erano sotto la Montagna, nel luogo più recondito e profondo, dove i morti sarebbero rimasti per l’eternità; il gelo sembrava riempire ogni cosa, sconfiggendo perfino il calore delle torce accese per fare un po’ di luce in quella sala.
Bard, prendendo l’Arkengemma dal cofanetto in cui era stata rinchiusa fino ad allora, la pose sul petto di Thorin, dicendo: “Che rimanga qui finché la Montagna non cada! Possa portare fortuna a tutto il suo popolo, che qui dimorerà in futuro”.
Allora la tomba venne chiusa, e ancora una volta il cupo suono echeggiò sotto le volte.
Venne il turno di Thranduil, allora, di farsi avanti.
Egli stringeva tra le mani la spada Orcrist, che Legolas gli aveva prontamente restituito prima di recarsi a Erebor.
“Saresti stato un grande re, Thorin Scudodiquercia, seppur il tuo cuore bramava troppo le ricchezze. Ingiustamente sei stato trattato da me, ma hai accettato le mie scuse e mi hai perdonato. Ti rendo Orcrist, e ti chiedo di nuovo perdono, se mai il tuo spirito potrà prestarmi ascolto”.
Detto questo, depose Orcrist sulla sua tomba, e lì sarebbe rimasta, e avrebbe brillato al buio, cosi che mai la fortezza dei Nani sarebbe potuta essere presa.
 
 
Prima della partenza degli Elfi, Thranduil ricevette la sua promessa parte del tesoro, le gemme ch’egli prediligeva, e furono accettate con gentilezza, ogni rancore ormai al vento, ch’erano anche le gemme che non gli erano state restituite.
La schiera, poi, si mise in marcia, e dietro di loro cavalcavano Gandalf e Bilbo, decisamente lieto di abbandonare finalmente quel luogo.
Accanto a loro, Beorn il muta pelle rideva e cantava, donando allegria al gruppo.
Così avanzarono fino al margine del Bosco Atro, a nord del punto dove il fiume Selva ne usciva.
E lì si fermarono, poiché lo stregone e lo Hobbit si rifiutarono di entrare nel bosco, seppur il re li invitò a restare per del tempo nel proprio palazzo.
Anche Legolas provò ad insistere, ma la risposta non mutò.
“Addio, o re degli Elfi! E addio, caro principe!”, disse Gandalf: “Lieto sia il bosco fronzuto finché il mondo è ancora giovane. E lieto sia tutto il vostro popolo!”.
Thranduil sorrise: “Addio, Mithrandir. Che tu possa sempre apparire là dove si ha più bisogno di te e meno ci si aspetta di vederti! Più spesso apparirai nel mio palazzo, più sarò contento!”.
Bilbo si intromise, balbettando e stando ritto su una gamba sola: “Ti prego di accettare questo dono!”, disse, tirando fuori una collana d’argento e di perle.
Legolas osservò tutta la scena senza proferire parola e, mentre il padre si avvicinava allo Hobbit, sorrise: “Che cos’ho fatto per meritare un tale dono, mio piccolo Hobbit?”, gli domandò Thranduil.
Bilbo aveva l’aria piuttosto confusa: “Be’, ehm, pensavo, come sai… ehm, la tua, ehm, ospitalità dovrebbe essere ricambiata con qualcosa. Anche uno scassinatore ha il suo orgoglio, non so se mi spiego. E ho bevuto un bel po’ del tuo vino e mangiato molto del tuo pane”, riuscì a dire.
Thranduil tese la mano, e lasciò che Bilbo vi facesse cadere la splendida collana: “Accetterò il tuo regalo, mastro Bilbo, e ti nomino amico degli Elfi e benedetto. Che la tua ombra non dimagrisca mai. Addio!” , disse.
Legolas scosse la testa: “Ora ho capito come conoscevi il mio nome!”, esclamò, sorridendo.
“Ci salutiamo da amici, dunque. Addio!”, aggiunse.
Poi gli Elfi si volsero verso la foresta, e iniziò il loro cammino alla volta di casa.


Piccolo angolino autrice

Vi prego, non linciatemi per questo ritardo inimmaginabile e non chiamate qualche oscura creatura di Morgoth o di Sauron per punirmi. Avrei dovuto aggiornare molto tempo prima, lo so, ma putroppo non ne ho avuto proprio il tempo e, tra sagre di paese, feste, impegni vari e tutto il resto la fic è andata a farsi un bel viaggetto a Mordor. Nemmeno ora sono molto libera, però prometto che cercherò di impegnarmi di più per non farvi attendere un'Era intera per avere il nuoco capitolo.
Detto questo, aggiungo solo una rapida cosetta sulla storia ed evaporo: gran parte dei dialoghi e alcune frasi sono presi direttamente dal libro "Lo Hobbit" di J.R.R. Tolkien, a cui mi sono molto ispirata per poter scrivere la Battaglia, perciò una bella parte del merito va al nostro caro professore. 
Molto bene, questa volta evito di ringraziare specificatamente, e vi do un grazie enorme e un abbraccio. I ringraziamenti completi li metterò alla fine della fanfiction.


Meneg suilad, mellon nîn. Al prossimo incontro dalla vostra elfa ancor più ritardataria del solito

Hannon le

ElenCelebrindal
 

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Capitolo 14
*** La vita va avanti ***


 LA VITA VA AVANTI
 
I giorni che seguirono la Battaglia furono tra i più cupi che Legolas avesse mai visto e vissuto: furono celebrati i funerali di ognuno degli Elfi ch’erano morti sul campo di battaglia, uccisi da Orchi, o da Mannari, e sempre più spesso i sudditi del re cercavano aiuto, anche solo una semplice parola, per superare il dolore che li aveva travolti così all'’improvviso.
Le madri e i padri piangevano i figli, le mogli e i mariti si disperavano per i compagni che avevano perso, e non pochi di loro cedettero al dolore, abbandonando per sempre quelle terre, per riunirsi ai famigliari scomparsi.
In tutto questo, anche Legolas soffriva, seppure continuava ad aiutare il proprio padre in tutte le questioni del regno.
Ma il suo sguardo era spento, le risate sempre più rare, i sorrisi forzati.
Perché il giorno stesso che avevano fatto ritorno si erano celebrati anche i funerali per Tauriel, che era stata una grande amica; certo, un’amica che gli aveva quasi spezzato il cuore, ma pur sempre tale.
La Battaglia aveva lasciato un segno indelebile su molti, anche sullo stesso re, che ormai sedeva sul suo trono con un’evidente stanchezza dipinta sul volto.
All'’incirca un mese dopo, quando la vita sembrava riprendere il suo normale corso nel Reame Boscoso, Legolas volle sapere il motivo di tanta stanchezza perciò, durante un pranzo, cercò di chiarire.
Si schiarì la voce, e disse: “Adar? Darthon mae? Thion prestannen…” (Stai bene? Sembri afflitto), mentre posava una mano sulla sua.
Thranduil scosse la testa: “Mani? A… avo bresto… Im mae” (Cosa? Oh… non preoccuparti… Sto bene), rispose, ma il suo tono di voce non convinse del tutto il principe, che strinse di più la mano del padre e replicò: “No, tu non stai bene, adar. lo percepisco nella tua voce, ne tuo modo di presentarti alla gente. Lo vedo nei tuoi occhi. Non puoi più cercare di tranquillizzarmi così, non sono più un bambino, ormai”.
Il re sospirò, e lo abbracciò: “No, hai ragione. Non sto bene. Non sto bene…”, sussurrò, stringendolo a sé.
Legolas sciolse l’abbraccio e guardò il proprio padre negli occhi, in quei profondi pozzi di ghiaccio: “Cosa ti sta succedendo, adar nîn? Perché sei… così? Così stanco, così triste… così diverso”.
“Perché l’ultima, vera battaglia che ho combattuto è stata una disgrazia per me, questo lo sai bene. E combattere di nuovo in campo aperto, accerchiato da nemici, con la consapevolezza che, forse, non ti avrei mai più rivisto, mi ha quasi distrutto l’anima, Legolas. Ho rivisto, durante quella battaglia, ciò che aveva riempito i miei occhi sulla maledetta Piana di Dagorlad, e ora quelle immagini continuano a tormentare i miei sogni, ch’io dorma profondamente oppure stia solo in dormi-veglia. Continuano a tornare, senza mai accennare a voler scomparire, senza mai darmi tregua. Continuo a rivedere il volto morente di mio padre, a sentire l’odore del suo sangue che mi riempie le narici, a dover sopportare di rivivere sempre, ogni notte, la morte che ci ha afflitti”.
Si prese la testa fra le mani, e di scatto si tolse la corona, gettandola lontano: “Non lo sopporto più, Legolas, non posso più continuare a sopportare tutto questo! Non posso…”.
Le ultime parole si trasformarono in meri sussurri, soffocati dalle mani che Thranduil aveva spostato sul suo volto.
Il principe non riusciva a vedere il padre ridotto in quello stato, non poteva.
Lo abbracciò lui, di slancio, e lo strinse forte a sé, cercando di confortarlo: “Passerà, adar, ne sono sicuro. Come tutto è passato, anche questo svanirà. Ti voglio bene”, disse.
Sciolse l’abbraccio e andò a raccogliere la corona, che era finita lontano dal tavolo dov’erano seduti: “Tu sei forte”, disse, porgendogliela. “Sei il grande re del Reame Boscoso. E sei mio padre”, aggiunse, mentre lo osservava rimettersi il semplice ornamento sul capo.
Perché non servivano oro e argento per far di Thranduil un re.
“Ce la fai a sorridermi?”, domandò poi, sedendosi di nuovo di fronte a lui.
“Ce la faccio solo se ci riesci anche tu”, replicò, piegando le labbra in un sorriso tirato.
Anche Legolas sorrise, e allora la tensione che, fino ad allora, aveva permeato l’aria si dissolse, lasciando spazio solo all'’affetto che ognuno provava per l’altro.
“Legolas?”, domandò all'’improvviso il re.
“Sì?”.
“Vorresti stare con me, stanotte? Come quando eri un bambino? Forse… forse gli incubi svaniranno. Almeno per una notte”.
Legolas gli prese le mani, sorridendo più apertamente e con più calore: “Forse non è un male tornare bambini, a volte”, rispose. “Resterò con te, adar. Tutto ciò che desidero, ora, è di tornare a vedere nei tuoi occhi la luce che ho sempre scorto”.
Anche Thranduil riuscì a sorridere per davvero: “Hannon le”.
 
Le stanze del re erano esattamente identiche a com’erano quando il principe non era altro che un bambino, con la sola differenza che non c’era più il suo lettino ad occupare lo spazio, c’era rimasto vuoto, senza nulla ad occuparlo.
Osservando il letto matrimoniale, Legolas si domandò se non ricordasse al padre la moglie con cui lo aveva diviso, ma allontanò quei pensieri scomodi, per non rischiare di avere lui stesso gli incubi quella notte.
Dormirono abbracciati, avvolti dal morbido calore delle lenzuola, come facevano un tempo, e la mattina dopo Legolas, già sveglio, notò che il padre di destò con il sorriso sulle labbra.
 
“Niente incubi stanotte, adar?”, gli domandò, infilandosi gli stivali.
“Niente incubi”, rispose: “Forse mi serviva semplicemente il contatto con qualcuno che amo, per allontanare le paure che mi affliggevano. E non potrei mai amare nessuno, più di mio figlio”, aggiunse, appuntandosi la spilla di mithril alla veste prima di abbracciare ancora una volta il figlio: “Ti voglio bene, non dimenticarlo mai”.
“Non l’ho mai dimenticato, e mai lo dimenticherò, ada”, rispose Legolas, ricambiando l’abbraccio.
 
Con il passare del tempo, sia Legolas che Thranduil riacquistarono la loro fiducia in se stessi, e tornarono ad essere il re ed il principe che tutti conoscevano,
Ma era giunto il momento di fare un’altra scelta.
La sala del trono era gremita di elfi, tutti guerrieri, soldati della guardia reale,compreso Legolas, che se ne stava però accanto al trono del padre, in perfetto silenzio.
Nessun suono poteva essere udito in quel luogo.
Thranduil si alzò, in un frusciare di vesti, la luce dorata delle lanterne che si rifletteva sulle perle d’argento che ornavano la corona di rami che portava sul capo in onore dell’inverno, e a voce non troppo alta ma con tono autoritario, disse: “Questa scelta è stata rimandata a lungo, forse anche troppo, perciò ora è tempo di decidere. Decidere chi sarà il nuovo capitano delle mie guardie. Chi tra voi pensa di esserne degno, che faccia un passo avanti. Mi fido del vostro giudizio, per ora. Poi starà a me scegliere chi tra voi è la persona adatta. Decidete, adesso”, concluse, e tornò a sedersi sul trono.
Legolas osservò i pochi che si fecero avanti, con un’espressione decisa sul volto, e rifletté.
Infine, quando rimasero solo i cinque elfi volontari, decise; avanzò fino a trovarsi di fronte al re e disse: “Aran Thranduil, adar nîn, so bene che vorresti che anch’io mi facessi avanti. Tuttavia, non lo farò. Lascio l’opportunità a tutti loro – voltò la testa verso gli altri elfi presenti – e mi tiro indietro. Mi tiro indietro anche per motivi che già conosci, e per i quali vorrei tu comprendessi la mia scelta”.
Sapeva di andare contro alle tradizioni, rifiutando per la seconda volta la nomina a Capitano, ma non voleva avere sulle spalle quella responsabilità, non dopo tutto ciò ch’era accaduto.
Il re annuì: “Ti comprendo, Legolas, principe e figlio mio, e accetto la tua decisione. Vai pure, non ti tratterrò oltre se non lo desideri”.
Legoas chinò la testa: “Hannon le, adar. Mi congedo”, rispose, lanciando uno sguardo di incoraggiamento ai volontari prima di lasciare la sala del trono, diretto alla biblioteca.
Desiderava poter stare in tranquillità, e non c’era luogo migliore di quello, con i suoi alti scaffali colmi di libri di ogni dimensione, le sue pareti spesse e le sue torce dorate che scoppiettavano ad ogni angolo; era un luogo silenzioso, dov’erano permessi solamente meri sussurri.
Il principe si chiuse la porta alle spalle, che ruotò sui cardini senza emettere alcun suono, e si diresse in uno degli angoli meno illuminati, trascinandovi una delle sedie.
Ivi si sedette e, con la schiena adagiata contro lo schienale di duro legno, pensò alla propria scelta.
Alla scelta di rinunciare, ancora una volta, alla carica di capitano.
Solitamente, i figli dei re o dei grandi signori accettavano subito una proposta del genere, o si facevano avanti senza esitazioni, ma Legolas non era sicuro di voler tornare a combattere così presto, di affrontare ogni giorno un pericolo differente.
Voleva vedere al sicuro quel meraviglioso regno, ma allo stesso tempo aveva timore di non riuscire a proteggerlo al meglio.
Sospirò, e volse lo sguardo al soffitto, cercando di distinguere nel legno forme e colori, come faceva da bambino quando non aveva voglia di studiare libri su libri.
 
“Legolas? Da quanto tempo sei qui? È calata la notte, ormai, dovresti andare a riposare”.
La voce di Thranduil riscosse il giovane elfo dai suoi pensieri.
Si mise dritto sulla sedia: “Davvero? Non mi ero reso conto del trascorrere del tempo, immerso nei miei pensieri”, disse, alzandosi poi per raggiungere il genitore.
“E quali sono questi pensieri, iôn nîn? Cosa turba la tua mente”, gli domandò questi, un’espressione preoccupata sul volto.
Legolas sorrise, prendendo la mano del padre per tranquillizzarlo: “Non c’è bisogno di preoccupazioni, adar. è solo che continuo a pensare e ripensare alla scelta che ho fatto, null’altro”.
Gli lasciò la mano e si avvicinò ad uno dei tavoli rotondi che ammobiliavano lo spazio, posandovi i palmi: “Continuo a pensare che un principe come me avrebbe dovuto accettare all'’istante la carica che mi è stata offerta, invece di ribellarmi come ho fatto. Che avrei dovuto avere il coraggio di farmi avanti, per riprovare. Ma non ci riesco!”, esclamò, contraendo le dita sul legno.
“Desidero proteggere questo regno, perché lo amo e voglio vederlo al sicuro, ma ho paura! Ho paura di combattere di nuovo, di affrontare un nemico in battaglia, di vedere la morte dinanzi a me. ho paura di questo, e me ne vergogno”, disse poi, scuotendo la testa.
“Vergognarti?”.
Thranduil gli mise una mano sulla spalla, per confortarlo: “Non c’è vergogna in questo, né disonore. La paura fa parte del nostro essere, come tu stesso mi hai insegnato. Una volta sei stato tu a confortare me; credo che ora sia giunto il momento che sia davvero tuo padre, Legolas. Tu credi che la tua decisione sia un gesto codardo, ma non è affatto così. So cosa vuol dire affrontare la morte, i pericoli di una battaglia. So cosa provi in questo momento, perché ci sono passato anche io, più di una volta. Con il tempo, ti abituerai, e tutti i tuoi timori svaniranno, ma non è ora, quel tempo, perciò smettila di considerarti un vile e ritrova il tuo coraggio. Non il coraggio che occorre in battaglia, ma il coraggio di essere te stesso. Vedrai che, quando ci riuscirai, tornerai ad essere il grande guerriero che sei diventato e chissà, magari farai anche tu parte di quelle epiche battaglie che tanto di piaceva ascoltare, da bambino”.
Portò due dita sotto il suo mento e gli fece voltare il viso, in modo d poterlo guardare negli occhi: “Non affrontare più questo argomento, va bene? Fammi un sorriso”.
Il principe, consolato, stirò le labbra in un debole sorriso: “Melin le, ada” (Ti voglio bene).
 
 
“Coraggio, non puoi essere così lento!”.
La risata di Thranduil echeggiò tra gli alberi, mentre in groppa alla sua imponente alce zigzagava tra gli alti tronchi delle piante, senza seguire nessun sentiero o pista apparente.
Anche Legolas si unì al riso: “Non è colpa mia se il cavallo che mi porta in groppa non riesce a raggiungere la tua alce, ada!”, replicò, facendo accelerare l’animale spronandolo a galoppare più in fretta, incurante del rischio di poter sbattere contro il duro tronco di qualche albero.
Continuarono a galoppare per molto tempo, fino ad arrivare al confine della foresta, fino a quando non uscirono allo scoperto, al di fuori della protezione delle fronde degli alberi.
Ivi si fermarono, Thranduil più avanti del figlio.
Il re smontò dalla groppa dell’alce e sorrise, guardando alla volta del principe con una mano sugli occhi per schermarsi dalla luce del sole: “Da quanto tempo non ci concedevamo una giornata insieme, solo per divertirci?”, domandò, avvicinandosi.
Anche Legolas mise i piedi per terra: “Forse da troppo tempo. Quasi non rimembro l’ultima volta”.
Assieme,volsero lo sguardo all'’orizzonte, scrutando la vastità che avevano dinanzi: “Mi mancavano queste giornate, ada. La spensieratezza di poter essere solo padre e figlio, senza titoli nobiliari e tutto ciò che essi comportano. Anche solo la felicità di poter stare assieme, senza preoccupazioni. Mi mancava tutto”, disse il giovane, tornando a guardare il proprio padre, che quel giorno non aveva indossato né corona né portava lo scettro.
Nemmeno i suoi preziosi abiti, abbandonati in favore di un abbigliamento da viaggio più consono alla giornata.
Raramente lo aveva visto così: “Sai, mi piaci vestito in quel modo. Con gli abiti da sovrano, sembri sempre troppo distante da me, anche se non lo sei”, disse, piegando di lato la testa.
Thranduil voltò la testa e fece per rispondere, ma invece delle parole dalle labbra gli fuoriuscì una lieve risata.
“Ada? Perché stai ridendo?”, gli domandò Legolas, perplesso.
Quello scosse la testa: “Nulla, iôn nîn. È solo… è solo che mi ricordi me, con la testa messa in quel modo”, rispose, senza smettere di ridacchiare.
Legolas aggrottò le sopracciglia, sempre più perplesso, prima di rendersi conto che anche il padre, in alcune situazioni, chinava la testa in quel modo; cominciò a ridere anche lui: “Hai ragione, è piuttosto buffo”, ammise, senza pensare minimamente che un discorso del genere sarebbe sembrato banale a chiunque altro.
Si abbracciarono: “Sei più simile a me di quanto non avrei mai potuto credere, Legolas. Ma anche se tu fossi stato completamente diverso, ti avrei voluto bene comunque. Così bene che tutto il resto svanisce al confronto”, disse il re, quando si separarono.
“Coraggio, dobbiamo continuare la nostra uscita oppure no? Pontelagolungo ci aspetta!”.
Risalirono in groppa ai loro destrieri e galopparono via, rapidi in direzione della Città del Lago.
“Non posso ancora credere che tu abbia deciso di offrirmi da bere in una taverna di Uomini, ada. Sei sicuro di non aver bevuto troppo vino, prima di prendere questa decisione?”, chiese il principe, mentre smontavano di nuovo, stavolta di fronte all'’unica locanda di Pontelagolungo.
Il re degli Elfi rise: “No, ti assicuro che ero completamente sobrio. E poi, è ora che tu impari anche le abitudini degli Uomini, Legolas. Scoprirai che c’è molto da scoprire, e molto da imparare nelle città dei mortali”, rispose, dando un’ultima carezza sul muso dell’alce, prima di condurre il figlio alla porta della locanda.
“Aspettati di tutto”, lo avvertì, aprendo deciso la porta.
Subito il principe venne colpito dalla grande varietà di odori che impregnavano l’aria, in quel luogo, anche piuttosto modesto; l’acre odore del fumo delle pipe si mescolava a quello delle candele, tanto che l’aria era quasi offuscata da un sottile velo, tanti odori diversi di persone troneggiavano lì dentro, forti e deboli, acri e dolci, tutto in una mescolanza quasi impossibile.
Ignorando gli sguardi stupiti e adoranti che molti avventori lanciarono loro, padre e figlio si misero alla ricerca di un tavolo libero, trovandone uno in fondo al locale, accanto ad un gruppo di uomini intenti a bere e a fumare mentre discutevano del più e del meno.
Legolas smise di guardarsi intorno quando le occhiate della gente finirono per infastidirlo: “Ma qui non hanno mai visto un elfo? Cos’hanno da guardare?”, domandò, perplesso e infastidito.
Il padre accennò un lieve sorriso: “Gli Uomini sono fatti così. Ci vedono molto di rado, e quando questo accade non sanno fermare la loro curiosità. Anche se, in fatto di curiosità, noi Elfi di certo non scherziamo”, rispose.
Fermò una cameriera che passava in tutta fretta: “Il vostro vino migliore, in fretta per favore”.
Quella lo guardò con occhi adoranti che rasentavano la maleducazione, e si dileguò, tornando poco meno di due minuti dopo con una brocca colma di vino e due calici tra le mani: “Ecco a voi, miei signori. Spero lo gradiate, è davvero il vino migliore che abbiamo”, disse, posando tutto sul ripiano in legno del tavolo, scomparendo di nuovo pochi attimi dopo, rossa in viso.
Thranduil versò il rosso liquido in entrambi i calici, porgendone uno al figlio: “Alla nostra prima serata in una taverna!”, brindò, facendo cozzare il calice contro l’altro.
“Alla nostra prima serata”, concordò Legolas, portandosi il calice alle labbra per berne il contenuto.
Il vino era addolcito con del miele, ed era davvero ottimo, né troppo dolce né troppo aspro.
“Quello che mandano a noi, però, è sempre molto meglio”, constatò.
“Il nostro proviene spesso anche da altri luoghi, ma non posso far altro che concordare con te, iôn nîn. Ma questo è ottimo”, replicò il re, finendo il contenuto del suo calice in poche sorsate.
Poco a poco, l’intera brocca finì, e ne chiesero un’altra.
A metà della terza, qualcuno nel locale intonò un canto; le parole erano belle, ma la voce di colui che cantava era fin troppo stonata per le orecchie di Legolas, abituate alle dolci voci degli Elfi e dei menestrelli che spesso allietavano le serate a corte.
La serata, però, finì, anche se troppo in fretta per i gusti del principe, che si stava divertendo.
Lentamente, tutte le barriere che la differenza di razza aveva creato si stavano dissipando.
“Ora credo di comprendere perché mi hai portato qui”, disse al padre, mentre uscivano dal caldo locale per tuffarsi nella fresca aria della tarda sera.
Aveva bevuto decisamente troppo e, non essendo abituato, si era ritrovato con i sensi lievemente offuscati, una sensazione che mai aveva provato in tutta la sua vita.
“Credo che tu abbia esagerato, Legolas… riesci a cavalcare fino a palazzo?”, gli domandò Thranduil, trattenendo una risata alla vista del figlio in quello stato.
Legolas annuì: “Non sono così ubriaco da non riuscire a cavalcare, ada… e poi, ricordo che alla tua età, mi raccontavi, ti sei ridotto in uno stato ben peggiore di quello in cui sono io ora, e che non riuscivi nemmeno a salire in groppa al tuo cavallo”, replicò, sorridendo mentre montava “in sella”.
Il re lo imitò: “E quando riuscii a salirvi, sbattei la testa contro un ramo basso e caddi di nuovo. Non so come ritornai a palazzo, quella volta”, disse, spronando l’alce a cavalcare, tenendosi al fianco del figlio.
Il resto del viaggio continuò avvolto nel silenzio, tranquillo e senza fretta.
Giunsero in vista delle porte che era ormai scesa la notte, e gli unici rumori udibili erano il cinguettio di qualche uccello notturno e lo sciabordare dell’acqua del fiume.
Una volta al sicuro tra le mura del palazzo, Thranduil si premurò di accompagnare Legolas fino alle proprie stanze, per sicurezza, dato che durante il viaggio aveva rischiato più di una volta di scivolare giù dal dorso del cavallo: “No vaer i dhû. Losto mae, Legolas” (Abbi una buona notte. Dormi bene, Legolas), disse, prima di lasciarlo solo.
Il principe caracollò verso il letto e lì,vestito di tutto punto, stivali compresi, crollò sul materasso di peso e chiuse gli occhi, sprofondando nel riposo degli Elfi con il sorriso sulle labbra.
 
Il giorno seguente, si svegliò con un lieve giramento di testa: “A! devo aver davvero bevuto troppo, ieri sera”, si lamentò, alzandosi e rendendosi conto solo in quel momento di avere indosso gli abiti del giorno precedente.
Si tolse gli stivali, lasciandoli ai piedi del letto, e si chiuse nella piccola stanza adiacente alle proprie camere, dove lo attendeva una vasca colma di acqua calda e profumata.
Ogni mattina, un paio di servitori, anche se a Legolas non piaceva chiamarli in quel modo, la preparavano mentre ancora riposava, entrando nella piccola camera da una porta nascosta dietro un pesante tendaggio.
Rimase nella vasca per molto tempo, fino a sentirsi completamente rilassato, e i sintomi dell’ebbrezza della sera prima non svanirono completamente; ringraziò di essere un elfo, perché se fosse stato un mortale, sarebbe stato molto peggio.
Raggiunse il padre nella sala del trono che era ormai mattino inoltrato, e il palazzo già ferveva di attività: servitori andavano a destra e sinistra, accontentando le richieste del re e svolgendo i loro normali compiti; le guardie pattugliavano i corridoi e si davano il cambio, oppure erano ferme in determinati luoghi, attente e immobili come statue.
Alcuni Elfi della città tra gli alberi erano al cospetto del re, perciò Legolas attese, prima di raggiungerlo, restando in disparte a osservare ed ascoltare.
 
“Mio signore, i nostri figli sono ormai dispersi da una settimana, non abbiamo loro notizie dal giorno della loro sparizione. Ti preghiamo, aiutaci a ritrovarli, siamo disperati”, stava dicendo un’elfa, in ginocchio dinanzi al sovrano, mentre l’elfo alle sue spalle, probabilmente il marito, le teneva una mano sulla spalla, in un tentativo di consolarla.
Thranduil, dall’alto del suo trono, rispose: “Manderò alcuni dei miei elfi a cercarlo, Gladeth, non devi temere per la sorte dei tuoi figli. Nessuno di voi due deve farlo. Li farò riportare indietro vivi”, promise.
L’elfa di nome Gladeth si alzò, con le lacrime agli occhi: “Hannon le, aran nîn. Hannon le!”, disse solo, per poi andare via assieme all'’altro, scortati da una guardia.
 
Legolas si avvicinò: “Cosa è accaduto, adar? Ho sentito di elfi dispersi”, domandò, guardando in alto, verso il padre.
Questi si alzò dal trono e scese accanto al figlio: “Da circa una settimana sono scomparsi i due figli dei due elfi che hai visto. Scomparsi letteralmente nel nulla, senza alcun motivo apparente. A quanto mi hanno riferito i genitori, una settimana fa sono usciti per restare nella foresta, e non sono più tornati. Hanno atteso il tempo che hanno potuto, ma oggi si sono recati qui da me a cercare aiuto, ed io di certo non lo negherò. Sono preoccupato per i due giovani, temo che il male si sia rafforzato”.
Scosse la testa, stringendo di più le dita sul suo scettro intagliato: “Vai a chiamare il Capitano delle Guardie, Legolas. Voglio che scelga tre dei suoi esploratori per mandarli alla ricerca dei due elfi scomparsi”.
“C’è qualche speranza che siano vivi?”, chiese Legolas, preoccupato.
“Non ne ho idea, iôn nîn. Ma ormai la speranza è l’ultima cosa che resta ai loro genitori, e a noi. Non vorrei venir meno alla promessa fatta, riportando indietro i loro figli morti o, peggio ancora, non riportandoli affatto”, rispose il re, con lo stesso tono di voce. “Vai”.
 
Ritrovò il Capitano in uno dei corridoi più grandi, intento ad ascoltare i rapporti che un paio di guardie di confine avevano riportato, perciò attese di vederli andar via, prima di raggiungerlo: “Laerion!”, lo chiamò, fermandosi dinanzi a lui.
Quello si inchinò: “Cund Legolas, dhe suilon” (Principe Legolas, vi saluto). “Cosa desideri?”.
“Il re mio padre mi ha mandato a chiamarti. Desidera che tu scelga tre tra i tuoi esploratori e li mandi alla ricerca di due Elfi scomparsi. Ti aspetta nella sala del trono per darti ulteriori ordini”, disse, estremamente serio.
“Mi reco immediatamente al suo cospetto, dunque”, replicò Laerion, chinando ancora la testa e incamminandosi lungo il corridoio illuminato dalle torce.
Il principe lo seguì con lo sguardo, prima di avviarsi nella direzione opposta, diretto alle segrete del palazzo; non conosceva il motivo che lo spingeva ad andare fin lì, ma non si oppose all'’istinto e si ritrovò nell’ambiente meno illuminato dov’erano le prigioni del regno, uniche celle presenti nei regni elfici della Terra di Mezzo in quell’Era.
Si guardò intorno, mentre i ricordi di coloro che avevano occupato quelle celle tempo prima riempivano la sua mente come insetti attirati dal miele, e si avvicinò a tutte quante, osservandole e riportando alla memoria i volti dei loro “ospiti” indesiderati.
Quando arrivò a quella che aveva accolto uno dei Nani più giovani, Kili forse? si fermò, notando qualcosa di più scuro sul pavimento, che spiccava nell’ombra del luogo ristretto.
Aprì la porta della cella, che ruotò senza alcun cigolio inopportuno, e si avvicinò per guardare meglio quel’oggettino ch’era rimasto lì a terra, abbandonato; lo prese e tornò alla luce delle torce per osservarlo.
Era una semplice pietra, piccola e liscia, di forma ovale, con sopra incise delle rune naniche.
Gli salì un groppo in gola, e la pietra gli scivolò dalle dita, finendo sul pavimento con un rumore secco, ma lieve.
 
[flashback]
“È un talismano. Un potente incantesimo l’avvolge. Se qualcuno oltre ai Nani leggesse queste rune sarebbe eternamente dannato!”. “O no?”. “Dipende se credi in quel tipo di cose. È solo un ricordo, una pietra runica. Me l’ha data mia madre perché ricordassi la mia promessa”.
“Quale promessa?”.
“Che sarei tornato da lei”

[fine flashback]
 
Ricordava perfettamente il discorso tra Tauriel e Kili che, di nascosto, aveva ascoltato.
Non sarebbe mai tornato a casa, né da sua madre, che forse lo aveva atteso, trepidante e preoccupata, che forse aveva atteso il suo ritorno pensando a cosa fare e dire nel rivederlo.
Pensò a quella madre che poteva essere ancora distrutta dal dolore, s’era ancora viva.
Pensò a quel giovane Nano, che aveva sacrificato la sua vita per salvare quella del Re sotto la Montagna, tuttavia inutilmente, ché Thorin era morto anch’egli.
Voltò le spalle a quella cella e, senza rendersene conto, corse su per le scale e lungo i corridoi, fino a fermarsi di fronte alla porta delle proprie stanze.
Ivi appoggiò il capo al legno, cercando di calmarsi, ed entrò, con il desiderio di stare solo.
Forse suo padre non aveva ragione, sui Nani.
Non erano come lui li descriveva: erano diversi dagli Elfi, sì, ma anche incredibilmente simili sotto molti aspetti, e l’aveva compreso solo ora.
Giurò a se stesso che mai, mai avrebbe compiuto di nuovo l’errore di accettare i pregiudizi sugli altri.
E così, scoprendo ogni giorno qualcosa di diverso, sugli altri, su se stesso e sul mondo che lo circondava, la vita continuò e il tempo riprese a scorrere inesorabile, i giorni e le notti scanditi dal continuo alternarsi del sole e della luna, dai momenti di veglia e da quelli di riposo.
Giorni di felicità alternati a giorni di tristezza.
Tristezza che, come una nera nube che avvolge ogni cosa, si abbatté all'’improvviso sulla città tra gli alberi, su una delle tante abitazioni che la costituivano, su due dei tanti elfi che ivi vivevano.
Fu proprio Legolas ad essere incaricato di recarsi all'’abitazione di Gladeth e di suo marito, per chiedere loro di seguirlo a palazzo; ci andò con un’espressione cupa in volto, e il tono di voce con cui parlò loro era velato di tristezza.
Tuttavia, essi lo seguirono senza pronunciare una singola parola, forse intuendo ciò che avrebbero saputo, o forse continuando a sperare in qualcosa di impossibile, a quel punto.
Perché gli esploratori inviati dal re avevano fatto ritorno assieme ai due giovani elfi dispersi, sì, tuttavia dei cinque solamente due erano tornati vivi.
 
[flashback]
“Mio signore, Thranduil! Gli esploratori hanno fatto ritorno”.
Il principe, accanto a suo padre, ascoltò attento quelle poche parole riportate dal Capitano delle Guardie, e osò sperare che tutto fosse andato per il meglio.
Ma forse, osò sperare troppo.
“Dunque?”, Thranduil ordinò di proseguire.
Laerion esitò, prima di rispondere, affranto: “Vorrei che questo rapporto non fosse tetro, che le parole che sto per riferirvi non fossero cupe e terribili come queste. Ma è un volere che non posso avverare, purtroppo. I miei tre esploratori hanno ritrovato i due giovani dispersi, mio re, ma era fin troppo tardi quando giunsero a vederli. Essi giacevano a terra morti, uccisi da qualche ignota creatura del male, feriti in molti punti da quelle che sembravano essere colpi di spada. Pareva non esserci nessuno, in agguato tra gli alberi, hanno riferito, ma si sbagliavano. Un gruppo di orchi, siano quelle creature maledette, sono comparsi dal nulla e hanno attaccato gli elfi a mio comando. Due di loro si sono salvati, uccidendo tutti gli assalitori, ma Naereg non ce l’ha fatta, mio signore. Ferito da una spada alla schiena, non è sopravvissuto che per soli due giorni dopo l’imboscata. I miei esploratori hanno riportato indietro tutti e tre i corpi”.
Legolas sospirò e chinò la testa, mentre Thranduil parlava ancora: “Che i corpi siano trattati con tutti gli onori. Domani procederemo alla cerimonia per la loro sepoltura”, disse, il tono di voce che non tradiva alcuna emozione.
Laerion si inchinò: “Come tu comandi, hîr nîn”, disse, prima di allontanarsi.
“Legolas?”.
Il principe sollevò la testa: “Na, adar?” (Si, padre?).
“Domani, in prima mattinata, desidero che sia tu a condurre qui i genitori dei due giovani elfi”.
“Be iest lîn, adar” (Secondo i tuoi desideri), rispose Legolas, non senza rimpianto.
Cosa avrebbe detto a quei poveri genitori?
[fine flashback]
 
I corpi dei tre elfi morti erano adagiati entro bare di legno finemente decorate e intarsiate, le mani incrociate sul petto a stringere, l’esploratore la sua spada che sempre lo aveva accompagnato in battaglia, i giovani sei rose bianche a testa, con un petalo nero per ciascuna.
Thranduil, con indosso una veste nera come la notte, era dietro la bara dell’elfo più anziano, e attese il completo e assoluto silenzio per poter finalmente parlare.
Gli unici rumori udibili erano il singhiozzare sommesso e le parole di conforto, che nessuno osava mettere a tacere in alcun modo.
Guardandosi intorno, Legolas vide le espressioni sofferenti dipinte sul volto di Laerion e di Amarneth, la sorella dell’esploratore il cui spirito aveva trovato l’ultimo rifugio nelle Aule di Mandos.
Vide la disperazione sul volto della madre dei giovani, Gladeth,e la cupa rassegnazione sul volto del loro padre, di cui ignorava il nome.
‘Che cosa terribile, perdere i membri della propria famiglia’, pensò il principe, sapendo benissimo cosa si provava nel subire una simile perdita.
E Thranduil ne sapeva ancor di più: la moglie gli era stata strappata appena dopo un centinaio di anni di matrimonio, il padre era caduto in guerra sotto i suoi stessi occhi; Legolas non riusciva a capacitarsi si come riuscisse a mantenere quel’espressione imperturbabile, quella maschera di calma e compostezza, quando anch’egli aveva provato un simile dolore.
Ma smise di pensarci quando prese la parola: “And i men i amarth hain barthannen, ned i taur linad ú nîr. Dan… amarthwen anes lilómëa” (Lunga era la strada che il destino aveva riservato loro, nella foresta cantando senza dolore. Ma… il destino è stato pieno di oscurità). “Nínion an gwannad tîn, ar im harthon ne hain hîro hyn hîd ad ‘’wanath” (Piango la loro dipartita, e spero che essi trovino pace dopo la morte).
Fece per aggiungere altro, ma scosse la testa e si limitò a chinare il capo al cospetto di ognuno dei tre morti, spostandosi dinanzi alle tre bare; poi fece un cenno e due guardie accorsero, chiudendole con i coperchi, intarsiati d’argento, e mettendo così fine alla breve cerimonia.
Le bare vennero portate all'’esterno, ma né Legolas né il re uscirono: era diritto di colore che li avevano amati in vita, onorare i morti, non del re e tantomeno del principe.
“Non credevo avrei assistito ancora una volta a questa cerimonia”, sussurrò Legolas, andando a sedersi sullo scranno ch’era stato messo ai piedi del trono del padre da ormai diverso tempo.
Thranduil sospirò: “Nemmeno io. E non vorrei dovervi assistere né presenziarle mai più”, rispose, salendo i gradini del trono per accomodarsi sul seggio, le braccia posate nervosamente sui braccioli.
Nessuno dei due indossava ornamenti quel giorno, nemmeno la più sottile corona ornava il loro capo, nessun anello o altro gioiello ravvivava gli abiti scuri che portavano indosso; perfino lo scettro di quercia del re era rimasto chiuso nelle stanze reali.
“Spero che queste giornate colme di tristezza passino in fretta. Questo regno ha già avuto abbastanza fatti spiacevoli, non vorrei che sprofondasse nella più cupa insicurezza e che i suoi abitanti smettessero di credere nella luce che sempre, anche negli attimi più tenebrosi, riesce a comparire. Tutto questo deve avere una fine”, disse il re, risoluto.

Piccolo angolino autrice

Ok, so che il nuovo capitolo è un po corto, ma è di transizione. Parlerò poco, stavolta, limitandomi a dire che, nel prossimo capitolo, si cominceranno ad avere accenni alla trilogia del Signore degli Anelli. Comparirà il personaggio di Aragorn, vi anticipo, e ci saranno molti più riferimenti ai libri. Detto questo, non ho altro da aggiungere, se non ringraziare tutti coloro che hanno letto, recensito, o aggiunto la storia alle preferite, seguite o altro.


Hannon le

ElenCelebrindal
 

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Capitolo 15
*** Incontri e racconti ***


INCONTRI E RACCONTI

“Sono passati ormai più di quarant’anni, da quel malaugurato giorno. Da quella battaglia, in cui molti del nostro popolo hanno trovato la morte. Eppure ancora non riesco a non trascorrere giorno senza pensare ancora e ancora all'’accaduto. Continuo a tornare con la mente sul campo di battaglia, e non riesco a fermare i ricordi su ciò che è successo in seguito. Finirà mai tutto questo?”.
Thranduil, comprensivo, posò una mano sulla spalla del figlio, dopo aver chiuso il libro che stava consultando: “No, Legolas. Non finirà. Non vorrei dover dire queste parole, ma non posso nasconderti la verità. Tutto questo, i tuoi ricordi, la memoria dell’accaduto, non svanirà mai dalla tua mente. Devi imparare a sopportare, a resistere alle conseguenze che i ricordi porteranno sopra di te. Io l’ho fatto, lo sto ancora facendo. Noi non siamo fatti per dimenticare, iôn nîn. Noi ricordiamo sempre. Ricordiamo il bene, il male. Coloro che sono sopravvissuti, e tutti coloro che sono morti. Non lasciamo mai che ciò che abbiamo visto cada nell’oblio. Ti abituerai a tutto, con il passare del tempo. Lo hai fatto con molte cose, prima di questa, e sono certo che non fallirai. Il tuo spirito è forte, non tentare di dimenticare, e vedrai che i ricordi si nasconderanno da soli, per riaffiorare solamente quando tu sceglierai di riviverli”.
Il principe annuì: “Mi aspettavo una risposta simile ma… dovevo chiedertelo. Era molto che quella domanda mi tormentava senza darmi pace, ed ora che ho la risposta, spero di riuscire, come hai detto tu. Hannon le, adar”.
“O! perdonami per aver interrotto la tua lettura con una domanda così sciocca. Non accadrà di nuovo”, disse, incamminandosi verso la porta della biblioteca.
“Nessuna domanda è sciocca, se a porgerla è mio figlio”, replicò Thranduil, mentre il figlio si richiudeva la porta alle spalle.
“Hîr nîn Legolas!”.
Il principe si fermò, al richiamo di Laerion, e si voltò verso di lui: “Hothron Laerion, prestad?” (Capitano Laerion, ci sono problemi?), domandò, preoccupato.
Di rado il Capitano delle guardie lo fermava per delle semplici questioni, e quella volta non fece eccezione: “Orchi sono stati avvistati non troppo lontano dai confini sud-occidentali del regno, in una delle zone meno praticate della foresta. Le guardie di confine hanno subito dato l’allarme”.
“Sono intervenute?”.
“Ú, cund Legolas. Hain dartach canwa nîn” (No, principe Legolas. Aspettano il mio ordine).
“Ú-cerin. Ú-anna dagor” (Non farlo. Non dare battaglia). “Non sappiamo ancora quanti siano, e non dobbiamo assolutamente agire in modo avventato. Manda qualcuno in esplorazione, scopri quanti sono, questi Orchi che si aggirano nella foresta, e torna a riferire a me o a mio padre il re. Non dare l’ordine di attaccare per nessuna ragione al mondo. Falli difendere, se necessario, con archi e frecce, ma non permettere a nessuno di affrontarli a distanza ravvicinata. Sono i miei ordini, ora vai”.
Laerion si inchinò: “Come tu comandi”, si congedò.
Lo guardò salire le scale di uno dei tanti corridoi sospesi del palazzo, poi si allontanò con un sospiro, diretto alle sue stanze.
Era un ottimo Capitano, uno tra i migliori a quanto affermava Thranduil, ma Legolas non poteva soffocare il senso di colpa ogni volta che lo vedeva; il senso di colpa di non avere avuto il coraggio di offrirsi per ricoprire quella carica, rischiando di mettere il padre in imbarazzo.
Scosse la testa, allontanando quei pensieri: aveva già avuto quel discorso con il padre, anni prima, non poteva permettersi di ripensare di nuovo ad una simile sciocchezza, quando tutto si era già risolto senza conseguenze.
Si chiuse la porta della propria stanza alle spalle, e andò a sedersi sullo scranno dietro la scrivania di pesante legno scuro.
Scostò i numerosi fogli che la ricoprivano, perlopiù rapporti inviati da Laerion, e recuperò da un cassetto un disegno regalatogli da Thranduil solo pochi mesi prima.
Era semplice, i tratti resi alla perfezione da sottilissimi tratti di inchiostro nero, ma era una delle cose più preziose che Legolas possedeva: ritraeva sua madre, Vendë, immortalata dall’inchiostro nei giorni che avevano seguito il matrimonio con Thranduil.
Era stato uno dei più bravi artisti del Reame a farlo, e da allora era sempre rimasto tra gli averi del re, mai mostrato a nessuno, tenuto sempre nascosto, alla stregua di un tesoro.
Legolas lo aveva ricevuto dalle stesse mani del padre, che lo aveva ceduto a lui non senza nascondere una certa tristezza.
Il principe lo aveva ringraziato, abbracciato e baciato su una guancia, ma nessuna dimostrazione d’affetto sarebbe stata abbastanza per ringraziare di un regalo simile; Legolas non aveva mai visto un’immagine della madre, o almeno, un’immagine che l’avesse resa alla perfezione, onorandola al meglio.
Una delle statue che ornavano la porta degli elfi la ritraeva, ma non aveva mai dato l’impressione di essere qualcosa di veritiero, uno specchio di ciò che era stato in realtà.
Ormai Legolas tirava fuori dal cassetto il ritratto ogni giorno, imprimendosi bene nella mente l’aspetto della madre che era morta dandolo alla luce.
Non avrebbe mai potuto vedere con i suoi occhi il colore dei suoi capelli, la luce nei suoi occhi, e mai avrebbe udito la sua voce o la sua risata, ma il semplice disegno fatto su pergamena lo aiutava ad immaginare tutto quello, a crearsi l’immagine mentale del genitore che aveva perso senza avere l’opportunità di conoscerlo.
Non avrebbe mai smesso di ringraziare il padre, per l’opportunità che gli aveva concesso con quel semplice foglio di pergamena.
Tuttavia, provava ancora un senso di amarezza, nei suoi confronti, ogni volta che osservava il volto della madre; Thranduil non ne parlava mai, se non di sfuggita, e allora si rattristava sempre, soffocando ogni tentativo di Legolas di chiedergli qualcosa per saperne di più.
Sorridendo tristemente, rimise il disegno al suo posto, attento a non stropicciarlo o a rovinarlo.
Poi cominciò a rimettere a posto il disordine che regnava su quella scrivania; solamente pochi anni prima non aveva mai avuto quel problema, perché i rapporti li riceveva il padre, leggendoli uno ad uno prima di decidere gli ordini da far eseguire, ma il compito lo aveva poi delegato a Legolas, che si era ritrovato, per la prima volta in vita sua, a dover adempiere appieno ai propri doveri di principe del regno.
Se gli affari da trattare non erano troppo importanti, come ad esempio scorribande di Orchi o cose simili, era compito di Legolas decidere cosa fare, riferendo poi al re cosa stava accadendo nel suo regno.
Una volta sistemati al meglio tutti i fogli che affollavano il piano di legno, Legolas decise di andare a riferire le notizie riportate da Laerion al padre, che ormai doveva essere uscito dalla biblioteca.
Difatti, lo trovò seduto morbidamente sul suo trono, una mano chiusa attorno allo scettro di quercia, l’altra abbandonata al suo fianco, oltre il bracciolo.
“Adar”, lo chiamò. “Im gerin sidiath uil Hothron Laerion” (Ho notizie dal Capitano Laerion).
“Pedo” (Parla).
“Mi è stato riferito che Orchi si aggirano tra gli alberi, non lontano dai confini sud-occidentali del regno. Laerion ha evitato di dare ordine di attaccare, non sapendo il numero effettivo di quelle creature”.
“Molto bene. Confido che tu abbia preso in fretta una decisione, come sempre”.
“L’ho presa. Attenderanno di conoscerne il numero, prima di attaccare”, riferì.
Non era la prima volta che gli domandava quali ordini avesse imposto, e Legolas era felice di rispondere a tali domande, perché così poteva sapere se il lavoro che svolgeva era giusto oppure doveva correggere le decisioni.
Thranduil annuì: “Saggia decisione, Legolas. Agoreg vae” (Hai fatto bene), disse solo, prima di sprofondare nel silenzio.
Il principe si domandò quali fossero i pensieri che affollavano la mente del genitore, ma evitò di evidenziare ad alta voce i propri dubbi e fece per andarsene.
Poi, però, si fermò: “Adar?”.
“Sì?”.
“Io… niente. Perdonami”.
Uscì dal palazzo, cercando il rifugio di un albero abbastanza alto dove potersi arrampicare per non essere disturbato e, una volta al sicuro, seduto su uno dei rami più grossi e con la schiena poggiata al ruvido tronco, si permise di ripensare alla domanda che stava per rivolgere al padre.
Perché non aveva avuto il coraggio di farlo?
Aveva sempre desiderato sapere qualcosa in merito alla madre, e quando aveva avuto l’occasione di domandarglielo, aveva esitato.
Posò la testa al tronco, volgendo lo sguardo in alto, lontano, tra le nuvole che a stento si intravedevano attraverso la cortina di foglie, e continuò a ripetersi quella semplice, dolorosa domanda.
Aveva esitato per non rischiare di ferire il padre?
O non aveva avuto il coraggio di rovinare l’immagine che si era fatto del genitore morto?
Il tempo trascorse, senza che mai quei quesiti trovassero risposta, e Legolas scese dall’albero quando ormai era calata la sera, ancora più confuso di quanto non fosse poche ore prima.
Ma se la confusione era più forte, la decisione lo era anche di più; gli avrebbe fatto quella domanda, e avrebbe avuto una risposta.
Trovò Thranduil seduto a tavola, da solo, e mentre si accomodava al suo fianco pensò alle parole da rivolgergli, in modo da non sembrare troppo impaziente o infantile in merito all'’argomento.
Mangiarono in silenzio, con solo la sporadica apparizione di un elfo che riempiva i loro calici quando si svuotavano, sempre senza una parola.
Alla fine della cena, Legolas prese un lungo sorso di vino dal calice che aveva di fronte, sospirò, e decise che era giunto il momento di affrontare quel’argomento una volta per tutte: “Adar? Tollen i lû. Boe pedi” (Padre? È giunto il tempo. Dobbiamo parlare).
“Man anírach henia?” (Cosa desideri conoscere?).
“Im aníron… aníron… Nan aear adh in elin! Pedo uin naneth nîn. Boe isto” (Io desidero…desidero… Per il mare e le stelle! Parla di mia madre. Ho bisogno di sapere”), esclamò il principe, deciso.
La luce negli occhi di Thranduil sembrò spegnersi, tanto in fretta si rabbuiò, nel ripensare alla moglie scomparsa: “Legolas, io… non posso risponderti. Non ci riesco”, tentò di dire, ma venne interrotto: “No! Non questa volta! Sono stanco di avere solo l’immaginazione, dalla mia parte, per sapere che aspetto aveva in realtà mia madre, coma fosse la sua voce, quale fosse il suo carattere. Io ho bisogno di sapere! Non riesco più a lasciarlo da parte, tutto questo. Possibile che non riesci a comprendere?”.
“Forse sei tu quello che non comprende, Legolas”.
“Non dirmi questo. Io comprendo benissimo. So che parlarne ti rattrista, ma non puoi nasconderti dietro un muro per tutta la vita, adar! Tu stesso mi hai detto che devo imparare a superare quello che accade, mantenendo viva la memoria. Anche tu devi farlo!”.
Thranduil si alzò: “Ora basta! Non dire a me quello che devo fare, so meglio di te come comportarmi!”.
“Un tempo non avresti avuto bisogno di urlare, per farti rispettare. Stai tornando ad essere il lontano re che tanto temevo di avere come padre. Perché non capisci? Perché non riesci a comprendere il vuoto che sento dentro di me, ogni volta che cerco di sapere qualcosa su mia madre, ma tu me lo neghi? Come puoi non avere idea di ciò che provo?”.
Legolas sentì una solitaria lacrima scivolargli lungo la guancia: “Come puoi non sapere quali sono i sentimenti di tuo figlio?”.
“Legolas… mi dispiace. Goheno nîn, eglerio” (Perdonami, ti prego). Tornò a sedersi: “Non avrei dovuto reagire in quel modo. Io… io ti capisco, sei mio figlio, come potrei non sapere come ti senti, quando ti nego qualcosa? È solo che… non ci riesco. Non riesco a parlare di lei, non ne ho la forza. Forse, se avrai la pazienza di aspettare ancora…”.
“Quando ancora dovrò aspettare? Quanto dovrò attendere, prima di avere un’immagine reale di mia madre, e non una semplice fantasia?”.
Si alzò dalla tavola, incamminandosi lungo la stanza per arrivare alle scale che portavano al corridoio sospeso: “Mi dispiace, adar. So che forse penserai ch’io sia esagerando, ma fino a che non troverai il coraggio, non resterò a guardare. Non posso restare qui”.
“Te ne vai, dunque?”
“Sì, vado via”.
“E farai ritorno?”.
“Io non posso tornare. Non finché ti ostinerai a nascondermi tutto questo”.
Thranduil sospirò: “Dove andrai?”.
Il principe, voltandosi, rispose, non senza una certa esitazione nella voce: “Non lo so”.
Avvicinandosi, Thranduil rispose: “Va a nord. Trova i Dúnedain. C’è un giovane ramingo tra loro, dovresti incontrarlo. Suo padre Arathorn era un grand’uomo. Suo figlio potrebbe crescere e diventare un grande”.
“Come si chiama?”.
“Nelle Terre Selvagge lo chiamano Grampasso. Il suo vero nome lo devi scoprire tu stesso”.
Legolas si portò una mano al cuore, nel classico gesto di rispetto degli Elfi, e chinò la testa, imitato dal padre, poi gli voltò le spalle e fece per andarsene.
“Legolas, tua madre ti amava. Più di chiunque altro, più della vita”.
Il principe fermò le lacrime prima che potessero sfuggire, e se ne andò senza rispondere, ma con il cuore reso più leggero nell’apprendere anche quella sola, piccola cosa.
 
 
Pioveva ininterrottamente da due giorni, ormai, e il terreno si era trasformato in un pantano di fango, ma Legolas non demorse, e continuò a camminare, senza fermarsi se non per orientarsi meglio sotto l’acqua che scendeva dal cielo come un torrente in piena.
Aveva dovuto rimandare indietro il cavallo che lo aveva portato in groppa perché il suo mantello bianco era troppo evidente nel paesaggio che stava attraversando, e non aveva alcuna intenzione di attirarsi addosso gruppi di orchi o banditi, perciò ora i suoi stivali calpestavano un terreno dove chiunque non fosse stato un elfo sarebbe affondato.
All'’improvviso, sentì un rumore familiare, alle sue spalle, una corda che si tendeva, e senza pensarci due volte mise mano all'’arco e incoccò una freccia, rapido come lo sbattere delle ali di una farfalla, puntandola verso l’individuo che lo stava minacciando.
“Abbassa l’arco. Tu sei da solo, io ho degli amici dalla mia parte”, gli ingiunse quello, con voce ferma.
Legolas capì che diceva la verità; udì un rumore di passi, e in poco tempo di ritrovò circondato.
Lentamente, abbassò l’arco, lasciando però la freccia in cocca: “Non ho intenzioni maligne. Sono un viaggiatore”, disse, tutti i sensi all'’erta.
“Un viaggiatore bene armato, però”, costatò l’uomo che lo minacciava, senza accennare a voler abbassare le armi.
“Chi non viaggia armato, in questi tempi? Chi non ha timore di essere attaccato, viaggiando solo oppure in compagnia? Intuisco che neppure voi avete cattive intenzioni, siete solamente preoccupati per gli avvenimenti di un periodo nefasto come quello in cui viviamo”.
L’uomo dinanzi a Legolas tentennò: “E tu come capisci tutti questo?”.
Legolas si abbassò il cappuccio del mantello, che teneva sollevato per ripararsi dalla pioggia battente, così facendo da scoprire i lunghi capelli biondi e le orecchie a punta, ben visibili: “Sono un elfo, provengo dal Reame Boscoso di re Thranduil. Non avrei motivo di mentirvi, perché se avessi avuto intenzioni tutt’altro che benevole, non sarei rimasto a parlare, imperturbabile di fronte ad una freccia puntata al mio cuore, ma vi avrei attaccato”.
“Un elfo? Ti chiedo perdono, non avevo riconosciuto la razza elfica in te!”, esclamò l’uomo, abbassando all'’istante arco e freccia. “Riponete le armi. Gli elfi non sono nostri nemici”.
“Man i eneth lîn? Ni Dúnadan, i eneth nîn Ador” (Qual è il tuo nome? Sono un Dúnadan, il mio nome è Ador).
Sorpreso, Legolas rispose: “Pedig edhellen? I eneth nîn Legolas. Legolas Thranduilion. Cund uin Taur-nu-Fuin” (Parli la lingua elfica? Il mio nome è Legolas. Legolas Thranduilion. Principe di Bosco Atro).
Sapeva che esporsi in quel modo poteva essere rischioso, ma se davvero erano i Dúnedain che cercava, sarebbe stato onesto.
“Sei il principe del Reame Boscoso, dunque? Se posso chiedere, perché sei in viaggio in queste terre? Oh, ma perché parliamo sotto la pioggia? Se vuoi seguirci, non lontano da qui c’è una grotta in cui potremo ripararci”, disse Ador dopo un rapido inchino, e camminando continuò: “Non è cosa comune incontrare degli elfi, di questi tempi e in questi luoghi, tantomeno ci aspettavamo il figlio di re Thranduil”.
“Ero alla vostra ricerca. Mi è stato detto di trovare un giovane ramingo, Grampasso lo chiamano nelle Terre Selvagge. È questo il motivo per cui mi avete incontrato”, rispose il principe, chinando la testa per non urtare la pietra entrando nella grotta.
L’interno era spazioso, e asciutto, e dall’esterno non era facile da individuare, perciò tutti gli uomini cinque ne contò Legolas, posarono le armi e si lasciarono cadere a terra.
Alcuni si diedero da fare per accendere un fuoco, e in poco tempo il calore scoppiettante delle fiamme già si spandeva all'’interno dello spazio chiuso, senza quasi produrre fumo.
“Usate spesso questo luogo come rifugio”, constatò Legolas, osservando la piccola riserva di legna accatastata in un angolo.
“Sì. Non è raro che ci ritroviamo a passare da queste parti, nei nostri vagabondaggi a caccia di orchi. Grampasso, hai detto? È il nostro capitano. Il sedicesimo Capitano dei Dúnedain del Nord. Posso domandarti il motivo per cui lo stai cercando? Non capita spesso che qualcuno chieda di Grampasso”.
Legolas si sedette a terra, seguendo l’esempio di Ador che era accomodato a gambe incrociate sul duro pavimento di roccia della grotta: “Mio padre mi ha detto di cercarlo, ma non mi ha rivelato il motivo di questa ricerca, quindi in pratica sto quasi brancolando nel buio. Di una cosa, però, sono certo. Non mi avrebbe mai chiesto di intraprendere una simile ricerca se non per raggiungere uno scopo, o almeno, non me lo avrebbe chiesto se non ci fosse stata una ragione dietro il tutto. Altro, purtroppo, non riesco a dire”, rispose.
“Lui e il resto di noi non sono molto lontani da qui. Domani, al sorgere del sole, ci rimetteremo in cammino per raggiungerli. Spero solo che durante la notte questa pioggia smetterà di cadere. Non ho davvero alcuna voglia di rimettermi in cammino sotto un diluvio simile. Se vuoi darmi il tuo mantello, principe Legolas, lo metto ad asciugare accanto al fuoco”.
“Hannon le, Ador”, lo ringraziò, slacciandosi il mantello zuppo d’acqua per porgerglielo.
Ador lo stese accanto alle fiamme, assieme al suo e a quello di altri due Dúnedain, poi tornò a sedersi al fianco di Legolas: “An lema, cund Legolas?” (È stato un lungo viaggio, principe Legolas?).
“Non lungo abbastanza sta sfiancare un elfo, ma sì. Ero in cammino già da molti giorni, seppur sono partito dal Reame Boscoso in sella ad un destriero del mio popolo. Ho dovuto abbandonare la cavalcatura dopo poco, purtroppo, perché il manto bianco del cavallo era fin troppo evidente perciò ho continuato a piedi fino ad ora. Era molto tempo che non affrontavo qualcosa di simile, ma sono lieto di aver intrapreso questo viaggio”.
Ador annuì: “Capisco. Qui animali così appariscenti non sono molto presenti, infatti. Hai fatto bene a lasciarlo, o avresti rischiato l’attacco da parte di qualche brigante. Gli orchi tentiamo di tenerli a bada noi, ma i briganti… essi crescono di giorno in giorno, e si nascondono molto più abilmente delle creature dell’ombra”.
Si distese, coprendosi con una coperta: “Nessuna preoccupazione, qui dentro, però. Riposa, principe Legolas. Qui non si corrono pericoli”, disse, prima di chiudere gli occhi.
Legolas osservò gli uomini attorno a lui che, uno a uno, cadevano nel dolce oblio del sonno, senza tuttavia provare l’istinto di chiudere gli occhi e abbandonarsi al riposo.
Di lì a poco avrebbe incontrato Grampasso, e doveva riflettere: cosa gli avrebbe detto?
Thranduil non aveva accennato al motivo per cui lo aveva inviato a cercarlo, perciò doveva pensare a qualcosa.
Il figlio di Arathorn… aveva già sentito quel nome, ma non vi aveva mai dato troppa attenzione trattandosi di  notizie che non lo interessavano molto, o che almeno non lo riguardavano direttamente.
 
 
Camminarono per tutto il giorno, e continuarono per gran parte della sera avanzando alla sola luce delle stelle e della luna che, dall’alto della volta stellata, li osservava con sguardo vigile e attento, sfera di luce immersa nel nero colore in cui il cielo stava sfumando.
“Conosci la vera storia della luna?”, domandò ad Ador, che di fianco a lui camminava in silenzio, scambiando solo di tanto in tanto qualche parola con gli altri uomini.
“La vera storia della luna?”, ripeté, incerto.
Legolas annuì: “Sì. Ciò che gli Elfi sanno sulla luna, intendo”.
“Solamente che voi credete che la luna non sia un astro, ma un’isola che vaga attraverso il cielo. Senza offesa, ma mi è sempre sembrata molto assurda, come idea”.
“Non è un’idea, tantomeno una semplice credenza”, replicò Legolas, paziente. “La luna non sempre ha avuto il suo luminoso posto nella volta stellata di Elbereth. Gli Elfi più antichi, che hanno avuto la fortuna di poter assistere all'’innalzamento della luna, raccontano spesso la storia di quello che voi credete un semplice astro d’argento. Dopo l’Ottenebramento di Valinor e la distruzione dei Due Alberi, questi Elfi narrano, l’albero dalla luce bianca, Telperion, fece sbocciare un ultimo Fiore d’Argento. Aulë ed il suo popolo costruirono una nave per portare il Fiore d’Argento in alto, su, tra le stelle, e Tilion si offrì per condurre la nuova Luna attraverso il cielo. Tilion è un timoniere, però, instabile, e a volte non appare, oppure compare assieme al Sole per inseguire Arien. La storia della Luna, e del Sole, può sembrare assurda, come tu pensi, addirittura una semplice leggenda per spiegare cosa sia davvero quella sfera di luce d’argento, a noi Elfi non raccontiamo mai nulla che non corrisponda a verità. L’Isola della Luna guidata da Tilion. . . ho sempre amato questo racconto, sin da quando ho acquisito la capacità di leggere e di saper ascoltare”.
Scosse la testa, sorridendo: “Non so neppure perché sto raccontandoti tutto questo. Probabilmente non mi credi”, aggiunse, mettendo così fine al racconto ch’era nato dal semplice desiderio di fare conversazione.
“Non so se credere oppure no, a tutto questo, ma una cosa per me è certa. Voi Elfi siete davvero delle persone meravigliose”, disse Ador, un lieve sorriso ad increspargli le labbra.
“Vieni, siamo arrivati”, aggiunse poi, indicando al principe un punto non lontano dal luogo in cui si trovavano.
Il campo dei Dúnedain non era nulla di spettacolare, constatò Legolas: era semplice, austero e ben nascosto, con poche torce che spandevano la vivida luce rossa delle fiamme poste in vari punti strategici; tende erano sparse in modo all'’apparenza disordinato, ma c’era una corta di logica nelle loro posizioni, intuì, oltrepassandole al seguito di Ador .
Si fermarono dinanzi ad una più isolata delle altre, ma non meno semplice e non più grande: “Qui ti lascio, principe Legolas. Dopotutto, la missione è tua”, disse Ador, sparendo poi tra le tende.
Trasse un sospiro, per infondersi coraggio, e bussò sul palo di legno che reggeva alta la stoffa verde della tenda.
“Avanti”.
La voce che proveniva dall’interno era ferma, decisa. ‘Una voce da capitano’, pensò.
Scostò i lembi di stoffa ed entrò, abbassando il cappuccio del mantello per scoprire il viso: “Il figlio di Arathorn?”, domandò, ancora una leggera incertezza nella voce.
L’Uomo, di spalle a Legolas, si volse nella direzione dell’interlocutore: “Sì”.
Era alto, più del principe stesso, e i suoi lineamenti avevano qualcosa che li rendeva dissimili da quelli degli altri Raminghi; non c’erano dubbi, era un discendente della stirpe Númenoreana perfino più di tutti quanti gli Uomini che, di fuori, adempievano alle loro mansioni.
“Ti ho trovato. . .”, sussurrò, sentendo un sorriso affiorargli sul volto.
 
 
Superato lo stupore iniziale, Legolas comprese molto di quell’Uomo che aveva appena conosciuto, apprendendo più di quanto non avesse sperato da lui stesso; non si sorprese quando, con espressione perplessa, era stato lui a porgli una domanda: “Perché eri alla mia ricerca, principe Legolas? Cosa ti ho portato fino a me?”.
Il principe si accomodò meglio sulla sedia: “In realtà non ne conosco la ragione. O almeno, non ne ho consapevolezza. È stato mio padre a consigliarmi di cercarti, e così sono qui”, rispose, con la speranza di non minare la pazienza del Ramingo con quella spiegazione pressoché banale ed inutile.
Sentiva di potersi fidare di lui, perciò gli raccontò tutto l’accaduto: il dibattito tra lui e Thranduil accese l’interesse dell’Uomo, ma quest’ultimo non parlò fino a che il discorso di Legolas non fu terminato: “Non sei il solo a non avere una madre qui. . . Io l’ho conosciuta, cosa che a te non è stata purtroppo concessa, ma so che è morta, da tempo ormai. Ti comprendo, Legolas, meglio di quanto tu non creda. Ma non voglio peccare di presunzione, perciò mi limiterò a queste parole e non aggiungerò altro”.
“Vorrei che mio padre mi ascoltasse e che mi rispondesse. Ogni volta che sfioro l’argomento si chiude nel silenzio e non pronuncia parola fino a che non decido di parlare d’altro”.
Legolas, però, sentì il sorriso affiorargli alle labbra: “Credo, però, di aver compreso almeno in parte il motivo per cui sono qui. Mio padre vuole ch’io impari cosa si cela davvero in queste terre, ché io mai le ho attraversate, non da solo almeno, e non seguendo la strada che ho intrapreso per trovarti, e desidera ch’io capisca che non sono l’unico ad avere nel cuore la tristezza di non avere una madre, mentre lui recupera la forza necessaria per parlarmi di lei. Sono stato davvero cieco, per non accorgermi di tutto questo, e per non capire che anche lui ha attraversato la mia stessa situazione. Non avrei dovuto rivolgergli delle parole tanto irate come invece ho fatto”.
Aragorn spostò la sedia, portandola accanto a quella dell’elfo: “A volte rabbia e risentimento ci fanno fare cose che non vorremmo, Legolas. Sono certo che tuo padre lo sa. Io non so dirti se le tue deduzioni siano esatte o meno, ma posso assicurarti che, per tutto il tempo che riterrai necessario, potrai restare qui, quale nostro ospite, e seguirci nelle missioni, come nostro alleato. Sei ben accetto, principe”.
“Resterò per un po’. Ma solo a patto che tu smetta di chiamarmi principe, Aragorn”.
Lui rise: “Come desideri. . . principe”, rispose.
Legolas rise assieme a lui: la loro sarebbe divenuta una splendida amicizia.
 
 
“Uccidilo Legolas, non lasciare che scappi!”.
Il grido di Aragorn arrivò chiaro alle orecchie del principe, che subito incoccò l’ennesima freccia e la puntò alla schiena di un orco in fuga, scoccandola all'’istante; la creatura crollò a terra, ferita a morte, e Legolas si voltò a controllare la situazione degli altri Raminghi, tutti intenti a combattere contro uno o più degli esseri disgustosi ch’avevano affrontato.
Era un mese, ormai, che combatteva, si muoveva, respirava al fianco dei Dúnedain, come fosse uno di loro, e nessuno gli aveva mai fatto pesare il fatto che fosse un elfo, o un principe, anzi, era una persona come tante, lì, tra quegli Uomini temerari.
Una persona che, in quel momento, si ritrovava a dover affrontare un’orda di orchi che sembrava non avere mai fine, ma che non batteva ciglio e li abbatteva senza mai sbagliare, freccia dopo freccia, uccidendo ad ogni colpo.
La battaglia, rapida così come era cominciata, finì, e gli Uomini si concessero un attimo di respiro prima di controllare i corpi dei nemici che avevano abbattuto; Legolas, dal canto suo, recuperò le frecce ancora intatte e aiutò un paio di Dúnedain ad occuparsi di un compagno rimasto ferito, rendendosi molto utile grazie alle conoscenze di medicina elfica che aveva appreso studiando da ragazzo.
Ringraziò silenziosamente Oropher, che lo aveva fatto abituare allo studio fin da giovanissimo, e ricambiò il sorriso che l’uomo gli riservò una volta fasciate le ferite che gli avevano inferto.
 
I giorni si accumularono, divenendo settimane, e velocemente le settimane si tramutarono in mesi, mesi trascorsi al fianco degli Uomini, ad apprendere la loro cultura, le loro tradizioni, le loro credenze e i loro racconti: Legolas era spesso al fianco del Capitano, ed i due avevano instaurato ormai una splendida amicizia, destinata a durare per sempre.
Spesso e volentieri, dopo aver svolto le mansioni quotidiane al campo, oppure dopo una vittoria contro dei nemici, i due sedevano accanto al fuoco e conversavano, raccontandosi a vicenda le loro storie, condividendo le loro vite.
Legolas aveva sempre molto più da raccontare, essendo un elfo, ma Aragorn aveva viaggiato molto più dl principe, e ciò che narrava era sempre interessante e coinvolgente. Raccontò della sua infanzia, vissuta nel rifugio elfico di Imladris, narrò di città e villaggi completamente sconosciuti a Legolas, che ascoltava sempre attento.
Il principe, poi, ribatteva con le leggende del suo popolo, le canzoni che spesso, quegli elfi tanto diversi da coloro che l’Uomo conosceva , cantavano sotto le fronde smeraldine degli alberi. Narrò le battaglie ch’anche lui aveva combattuto, tra cui la Battaglia dei Cinque Eserciti che attirò molto l’attenzione del Ramingo, e non poche volte recitava per lui quelle poesie elfiche che incantavano tutte le persone che vi tendevano orecchio.
A poco a poco, impararono a conoscersi e a comprendersi, e Legolas finalmente apprese chi in realtà fosse il Ramingo che tutti chiamavano Grampasso.
Una sera, sette mesi dopo l’arrivo del principe tra i Dúnedain, Aragorn decise di raccontare a Legolas un segreto che a molti soleva nascondere, restio a rivendicare ciò che gli apparteneva di diritto, ovvero il trono di Gondor nella città di Minas Tirith: “Non sono stato completamente onesto con te, Legolas, amico mio. Tu lo sei sempre stato, ma io ti ho nascosto qualcosa della mia vita che rivelo solamente a pochi. Pure, sentivo fin dal principio di potermi fidare di te come di pochi, ma l’egoismo e qualcosa che non posso definire altrimenti se non come codardia mi ha impedito di rivelarti tutto. Non sei l’unico, qui, ad avere sangue reale nelle vene, Legolas. La mia discendenza è quella degli antichi re di Númenor, ché io sono l’erede di Elendil, ovvero legittimo pretendente al trono di Gondor. Potrei diventare re, se solo accettassi il mio destino. Ma non credo di essere pronto a farlo, o quantomeno, non penso di averne il coraggio. Diventare re è qualcosa da cui raramente si torna indietro, e non vorrei dovermene, poi, pentire. Mi dispiace non averti rivelato nulla, ma temevo la tua reazione”.
Legolas ne restò molto sorpreso, ma fece molta attenzione e celò le sue emozioni, rivolgendo ad Aragorn solo un caldo sorriso: “Non devi assolutamente scusarti. Chiunque avrebbe esitato, nel rivelare un segreto di tale portata. Se pochi ne sono a conoscenza, meglio che pochi rimangano, almeno fino a che tu non ritenga i tempi maturi. Sei giovane, secondo i miei criteri, poco più che un ragazzino, ma già un adulto per gli Uomini, perciò la decisione spetta a te e soltanto a te. Mi rallegra sapere ch’io e te siamo divenuti amici a tal punto da poter condividere cose nascoste agli altri, e di questo sono davvero lieto. Tanto mi basta. Tutti abbiamo dei segreti, che forse non verranno mai alla luce, o che compariranno solamente dopo molto, molto tempo. Tutti abbiamo delle cose che vogliamo tenere nascoste, per mantenere intatta la nostra felicità e la nostra calma interiore”.
E, mentre pronunciava quelle parole, comprese appieno il motivo per cui Thranduil lo avesse inviato a cercare proprio i Dúnedain, Aragorn in particolare.
“Oh. . .”, sospirò, causando una reazione perplessa di Aragorn, perciò di affrettò a spiegare: “È per questo motivo che mio padre ha mandato me a cercarti. . . per farmi comprendere che a volte alcune cose è meglio tenerle nascoste, per non farci del male. Ecco perché non ha mai voluto parlarmi di mia madre, per timore di crollare”.
Si passò una mano tra i capelli, lasciando andare un altro sospiro, ed Aragorn gli mise una mano sulla spalla: “Tuo padre deve essere davvero perspicace, allora, per aver compreso sin dall’inizio che tra noi si sarebbe instaurata un’amicizia solida abbastanza da permettere a me di raccontarti tutto sulla mia vita, per far sì che tu comprendessi”, osservò, lieto che l’amico avesse finalmente quietato i suoi dubbi.
“Resterà solida? Ora che ho compreso ogni cosa, credo sia tempo di fare ritorno a casa mia, nel Reame Boscoso. Seppure ho lasciato senza troppi rimpianti mio padre, ne sento la mancanza, e non desidero altro che tornare al suo fianco. Rimpiangerò, se la nostra amicizia dovesse incrinarsi”.
Si abbracciarono: “Nulla a questo mondo potrebbe incrinare il legame di amicizia che si è formato tra di noi, Legolas. Parti tranquillo, torna a casa. Anche tuo padre, sono certo, sente la tua mancanza”.
 
Legolas partì non appena l’alba rischiarò la Terra di Mezzo con la sua pallida luce rosata, cavalcando in groppa ad un magnifico destriero gentilmente imprestatogli dal capitano dei Raminghi; l’animale avrebbe ritrovato da solo la via del ritorno, perciò il principe aveva accettato, dopo qualche esitazione, e si era messo in viaggio, in direzione della casa e della famiglia che tanto amava, ma che aveva abbandonato per poter comprendere più cose su ciò che accadeva dentro e fuori le mura del palazzo.
Abbandonò la cavalcatura dei Raminghi non appena rientrò nel territorio sotto la giurisdizione degli Elfi, e proseguì a piedi, cercando di affrettarsi il più possibile. Sorrise, e sospirò lieto non appena mise piede nella foresta in cui era cresciuto, quando si ritrovò all'’ombra degli alberi, sotto le lame di luce che filtravano tra le foglie.
Mentre camminava, calpestando i sentieri quasi invisibili creati dagli elfi grazie ai loro numerosi passaggi, scorse tra i tronchi scuri degli alberi la vaga sagoma di un cervo bianco e, giunto ad un piccolo ruscello, si fermò, sedendosi a riposare su di una roccia. Allungò le mani verso l’acqua limpida e ne raccolse un po’, portandosela poi alle labbra per ristorare la gola secca.
“Sono appena tornato, e già mi segui, adar?”, domandò, cercando di sembrare irritato. Ma la gioia e il tono scherzoso non si celarono completamente, e il cervo bianco si avvicinò sempre di più, fermandosi solamente a poca distanza da Legolas, tanto che al principe bastò allungare un braccio per affondare la mano nella folta pelliccia dell’animale.
Lo sguardo del cervo era chiaro e liquido, ed aveva tutte le caratteristiche degli occhi di Thranduil.
“Non usare il cervo per seguirmi, adar. . . non fuggirò”.
L’animale si ritrasse, lentamente, e galoppò via nella foresta, scomparendo alla vista. Neanche un minuto dopo, Thranduil fu al fianco del figlio, avvolto in una lunga veste bianca come neve, stringendo uno scettro di legno chiaro, ben diverso da quello che portava di solito.
Il bianco era un colore indossato raramente da Thranduil, ma spesso, quando fondeva la sua coscienza con quella del cervo, lo si trovava abbigliato con quel colore. “So che non fuggirai. . . Legolas, iôn nîn”.
Lo abbracciò, infondendo tutto l’amore paterno che provava nei suoi confronti in quella stretta forte ma dolce: “Mi sei mancato”, sussurrò, in un soffio talmente leggero che solo Legolas poteva averlo udito.
“Anche tu, adar”, rispose il principe, accettando e ricambiando felice l’abbraccio.
“Mi dispiace di aver insistito tanto. . . non avrei dovuto. Ho capito solo ora che non parlarne ti aiuta a non perdere la calma e a non ricadere nella depressione. Goheno nîn” (Perdonami).
Thranduil sciolse l’abbraccio, tuttavia continuando a tenere le mani sulle spalle del figlio: “Ú-moe edaved, Legolas. Non sei il solo ad aver avuto il tempo di riflettere, e comprendere. Anche io ho ponderato tutto ciò che mi hai detto, e ciò che sempre io ti ho risposto. E. . . non è giusto. Non è affatto giusto nei tuoi confronti continuare a nascondere tua madre dietro una cortina di dolore. Se. . . se mi darai un po’ di tempo, solo un altro po’, ti racconterò tutto di lei. Di come l’ho incontrata, del periodo che abbiamo trascorso assieme prima di sposarci, del tempo in cui siamo stati marito e moglie. Ti descriverò la sua voce, il suo aspetto ed il suo carattere. Devo solo essere sicuro di averne la forza”.
“Non devi, se non vuoi. . . me ne sono fatto una ragione, non preoccuparti. Capirò, ora, se rifiuterai ancora”.
Il re scosse la testa, con un sorriso triste: “Hai il diritto di sapere, iôn nîn. Non è solo mia moglie. È tua madre. E nessun figlio dovrebbe conoscere meno di niente della madre”.
Al che, Legolas annuì: “Va bene. Prenditi tutto il tempo che vuoi. Aspetterò anche millenni, se sarà necessario”, acconsentì, in fondo al cuore felice di avere finalmente la possibilità di scoprire qualcosa su colei che lo aveva messo al mondo, perdendo la vita nel farlo.

Piccolo angolino autrice (autrice che dovrebbe essere bandita causa ritardo impossibile)

Ehm... non ho scusanti. Ho commesso una cosa orribile. Un ritardo pazzesco, di ben quattro lunghi mesi. Mi dispiace moltissimo, ma avevo perso l'ispirazione per continuare, e non sapevo più come proseguire la storia. Poi, inaspettatamente, Peter Jackson è diventato il mio salvatore, grazie al "Lo Hobbit - La Battaglia delle Cinque Armate". Grazie al discorso finale tra Thranduil e il caro piccolo Legolas. Da lì, ho finalmente capito come fare per far incontrare Legolas ed Aragorn (anche se all'inizio dovevano vedersi a Gran Burrone), ed avevo cominciato a scrivere. Avrei postato prima di Capodanno, se i problemi di connessione causa neve, un computer che si è quasi fuso, una penna USB improvvisamente resa impossibile da leggere e un mucchio di progetti scolastici non si fossero messi in mezzo ai piedi -_- 
Mi scuso, davvero, e spero che questo improponibile ritardo non sia stato causa del vostro abbandono di questa storia che, malgrado i continui problemi, voglio continuare e portare a termine.
Il prossimo capitolo sarà incentrato molto sulla storia della madre di Legolas (la ricordate? si chiamava Vendë), e non so se verrà lungo come dovrebbe o corto tanto da essere ridicolo.
Bene, ora non mi resta che salutarvi, sperando nel vostro perdono.
Goheno nîn, eglerio.


Hannon le

ElenCelebrindal
 

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