Rakhoon - Il Respiro Del Drago

di lucabovo78
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cacciatori ***
Capitolo 2: *** La taverna ***
Capitolo 3: *** Risveglio ***
Capitolo 4: *** Ricordi ***
Capitolo 5: *** Profumi ***
Capitolo 6: *** Lind ***
Capitolo 7: *** Il Golem ***
Capitolo 8: *** Simbiosi ***
Capitolo 9: *** Rivelazioni ***
Capitolo 10: *** Confidenze ***
Capitolo 11: *** Folletti e cinghiali ***
Capitolo 12: *** Il sogno ***
Capitolo 13: *** La partenza ***
Capitolo 14: *** Compagni di viaggio ***
Capitolo 15: *** Imboscata ***
Capitolo 16: *** Tatzel ***
Capitolo 17: *** Il Dubbio ***
Capitolo 18: *** Il Cavaliere decaduto ***
Capitolo 19: *** Strade che si dividono ***
Capitolo 20: *** Tempismi ***
Capitolo 21: *** Complicazioni ***
Capitolo 22: *** Tentazioni ***
Capitolo 23: *** Paura ***
Capitolo 24: *** Celestia ***
Capitolo 25: *** Southill ***
Capitolo 26: *** Antichi veleni ***
Capitolo 27: *** La città morta ***
Capitolo 28: *** Ali nere ***
Capitolo 29: *** L'umiliazione ***
Capitolo 30: *** Un nuovo compagno ***
Capitolo 31: *** Deliah ***
Capitolo 32: *** Mantenere il controllo ***
Capitolo 33: *** L'anima del Cavaliere ***
Capitolo 34: *** Redenzione ***
Capitolo 35: *** Risvegli e incubi ***
Capitolo 36: *** Ombre ***
Capitolo 37: *** Il sangue degli Avi ***
Capitolo 38: *** Anime gemelle ***
Capitolo 39: *** Misteri ***
Capitolo 40: *** La terribile realtà ***
Capitolo 41: *** La Falce ***
Capitolo 42: *** Genesi ***
Capitolo 43: *** Shayra ***
Capitolo 44: *** Ealonor ***
Capitolo 45: *** Chiarimenti ***



Capitolo 1
*** Cacciatori ***


1. Cacciatori

 

Il giovane socchiuse gli occhi fissando il manichino di legno. Aggrottò le sopracciglia. Lentamente alzò il braccio destro e rivolse il palmo aperto verso il bersaglio. Il resto del corpo era immobile. A quel punto chiuse completamente gli occhi, abbassò la testa e inspirò lentamente, per poi trattenere il respiro. Dopo qualche istante la mano aperta cominciò a brillare leggermente di una luce rossastra e contemporaneamente dalle pieghe del manichino cominciarono a uscire degli sbuffi di fumo, dapprima molto sottili, poi a poco a poco più densi. Dopo qualche secondo le fiamme divamparono e il giovane, sentendo il crepitio, aprì gli occhi e sorrise di soddisfazione abbassando il braccio.

   « Mmmh...discreto, ma solo perché era la prima volta. Devi fare sicuramente di meglio, con tutto il tempo che ci hai messo, saresti finito con la testa fracassata dalla mazza di un orco prima ancora di aver alzato la mano, quei bestioni verdi non sono pazienti come quel pezzo di legno! »

   L'uomo che era seduto in disparte si alzò dal tronco secco che usava come sedia e si avvicinò al giovane, il quale sembrava non aver udito e continuava a sorridere guardando le fiamme che consumavano il fantoccio.

   « Fatti più in là! »

Diede una spintarella affettuosa al ragazzo, che a quel punto sembrò come ridestarsi dalla trance.

   « HEY! »

   « Guarda, così si fa! »

Ripeté gli stessi movimenti, ma in una frazione di secondo e con il braccio sinistro. Il povero manichino esplose in mille scintille accecanti, facendo un rumore sordo. Lo spostamento d'aria della deflagrazione fece perdere l'equilibrio al giovane che cadde sul sedere imprecando. L'altro rimase immobile, come nulla fosse, a turbarsi fu solo il suo mantello logoro che sventolò per qualche istante.

   « Capito? »

Disse girandosi per ritornare al suo tronco.

   « No che non ho capito! »

Il ragazzo si rialzò pulendosi i pantaloni con le mani.

   « Mi spieghi come faccio a imparare se ogni volta ci metti un secondo? E poi… »

   « GIU'! »

L'urlo stranamente non lo colpì di sorpresa ma, istintivamente senza neanche alzare lo sguardo, si rigettò a terra. Imprecando.

Un dardo sfiorò il suo mantello per andare poi a conficcarsi nel tronco dell'albero a pochi metri da lui, in un’esplosione di schegge.

   « Cacciatori... »

Un ghigno si disegnò sul suo viso sporco di fango.

Alzandosi di scatto estrasse la spada dal fodero, nascosto dal mantello sulla schiena, e si preparò alla battaglia.

   « Bene, ora fammi vedere se riesci a fare arrosto uno di questi prima che ti facciano un buco nella fronte »

L'uomo allargò leggermente le braccia, inspirò dal naso a pieni polmoni e immediatamente dal suo corpo si sprigionò un vento caldo e impetuoso, mentre le sue mani incominciarono a emanare vaporose fiamme rosse.

   Dall'altra parte del prato, a un centinaio di metri, cinque o sei orchi cacciatori, a cavallo di enormi lupi neri, avanzavano velocemente brandendo archi ricurvi e spade dalla lama nera.

   Il giovane lanciò un'occhiata di sfida al compagno, piantò i piedi per terra e alzò il braccio destro verso il primo degli orchi, inspirò e mantenne bene aperti gli occhi. L'urlo roco del bersaglio si spense in un singulto, lasciò cadere la spada e portò le mani al petto, subito dopo si accese come una torcia dal busto in su. La cavalcatura non se ne rese conto e continuò la galoppata verso i due umani. Il giovane, a quel punto, impugnò la spada a due mani e piantò i piedi a terra. Il lupo si avventò su di lui, ma un istante prima di essere azzannato svanì. L’animale percorse ancora qualche passo incerto e poi si accasciò di lato, mostrando una profonda ferita lungo tutto il fianco destro. Il ragazzo, nel frattempo, era ricomparso nell'esatta posizione di prima, con l'unica differenza che ora la lama della sua spada grondava sangue scuro. Alla vista del loro compagno in fiamme gli altri cacciatori avevano tirato le redini delle cavalcature, che immediatamente avevano arrestato la loro corsa. Le urla di battaglia si erano spente.

   « STREGONI! »

Ulularono all'unisono con voce roca nel momento in cui il corpo del lupo cadeva a terra.

   « Già, avreste dovuto essere un po' più cauti prima di attaccarci, ma purtroppo per voi, oggi non siamo in vena di azioni misericordiose »

   Lo stregone unì improvvisamente le braccia tenendo aperti i palmi rivolti verso gli orchi. Inutilmente i cacciatori tentarono di fuggire, ma istantaneamente la porzione di prato sulla quale si trovavano avvampò con fiamme alte più di tre metri. Dopo qualche secondo rimase solo una macchia di cenere in mezzo al verde. Il giovane alzò il braccio sinistro di scatto in un gesto di stizza.

   « Ecco qua...come al solito hai esagerato ed è già tutto finito...»

   « Ti ho lasciato il capobranco. Di cosa ti lamenti? »

L'uomo s’infilò i guanti che teneva appesi alla cintura.

   « E adesso andiamo da Corgh, mi è venuta voglia di una bella grigliata di carne fresca e di una pinta di birra gelata »

   Lanciò un'occhiata al ragazzo che stava cercando di ripulirsi dal fango borbottando qualcosa, probabilmente qualche insulto nei suoi confronti, e abbozzò un sorriso. Dopo di che si mise in marcia verso la locanda, che si trovava dall'altra parte del bosco, senza curarsi del fatto che il suo compagno lo seguisse.

 

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Capitolo 2
*** La taverna ***


2. La taverna

 

Corgh era il tipico personaggio che uno si aspetta di vedere dietro al bancone di una locanda malmessa qual era "L'unghia nera": grasso, di una grassezza quasi esagerata, con gli occhi piccoli e ravvicinati, il naso a patata, la bocca sottile cerchiata da un pizzetto rossiccio dello stesso colore dei pochi capelli unti. Era vestito perennemente con un camicione logoro, dal colore indecifrabile, con le maniche arrotolate sugli avambracci, un grembiule costellato da macchie di vino di un'annata ormai remota e un paio di calzoni di lino sdrucito. Ai piedi gli immancabili ed enormi stivali di cuoio pesante che usava come deterrente per chi cercava guai nel suo locale. 

   « Provaci ancora e li vedi questi stivali? Dritti sul tuo sedere! » 

Era il cavallo di battaglia di Corgh, da usare nei più svariati casi, ma il più frequente era quando uno dei suoi avventori alzava il gomito e faceva qualche avance di troppo alla cameriera, sua figlia. Il pensiero di ricevere quella mezza tonnellata di carne e cuoio nelle terga faceva sempre il suo effetto e la cosa finiva li, con il poveretto che chiedeva scusa sbiascicando le parole. Sephyr, la figlia di Corgh, invece, era di una bellezza quasi innaturale, lunghi capelli corvini lisci come seta, i lineamenti dolci uniti a due occhi grandi di un blu profondo e a una bocca carnosa, la pelle liscia e colorita facevano sorgere in tutti gli avventori dell'Unghia lo stesso dilemma: 

   « Com'è possibile che sia la figlia di quello lì? »

Riferendosi all'oste, naturalmente. I maligni, o i ben informati non si sa, raccontavano che era sì sua figlia, ma che la bellezza derivava tutta dalla madre e che questa altri non era che una femmina di elfo nero, conosciuta da Corgh nel suo passato da militare. La storia era questa: Corgh in gioventù era un soldato di basso rango e durante una delle tante pattuglie nel territorio di confine si ritrovò solo ai margini della foresta nera. Qui la incontrò mentre fuggiva dalla sua gente. Corgh se ne innamorò subito. Lei lo corrispose solo per essere libera, almeno a quanto si dice, poiché in quel tempo le leggi sulle unioni interrazziali erano molto più libere di ora quindi, se un elfo sposava un uomo, riceveva la cittadinanza e i diritti di quest'ultimo. La cosa era molto frequente, soprattutto tra le donne degli elfi neri, poiché, come si sa, i maschi di quella razza sono tanto belli quanto crudeli, anche con le loro mogli. Dalla loro unione nacque quindi Sephyr. La madre però dopo poco scomparve misteriosamente, alcuni dicono che sia ritornata tra la sua gente per una sorta di nostalgia, altri, più malignamente, dicono che sia fuggita con un elfo silvano, sicuramente molto più attraente del povero Corgh. 

   « Buonasera! »

L’oste si girò verso la porta e vide i due stregoni. 

   « Oh, guarda guarda, già finito per oggi? » 

   « Abbiamo avuto un'inaspettata esercitazione che ci ha messo appetito prima del tempo. »

L'oste capì al volo e si scurì in volto. 

   « Orchi? »

   « Bhà...quattro cacciatori piuttosto scarsi, niente di che... » 

Rispose l'uomo sedendosi a un tavolo seguito dal giovane. 

   « Mmmh...non mi piace, ce ne sono sempre di più da queste parti, cosa diavolo cercheranno in questo buco di villaggio? » 

   « Non pensarci Corgh, ho sentito che nel loro territorio c'è un po' di carestia, avranno solo fame » 

   « Basta che si limitino a cacciare nella foresta e non vengano a fare danni qui »

   Disse l'oste sbattendo sul tavolo due bicchieri di legno e una caraffa di latta colma di acqua fresca. 

   « Tranquillo, finché noi siamo qui non si azzarderanno ad avvicinarsi. »

Disse il ragazzo togliendosi i guanti e slacciando la fibbia del fodero della spada sul petto. 

   « Speriamo. Hai la faccia sporca ragazzino »

Il giovane si passò il dorso della mano destra sulla guancia e disse: 

   « Ok? »

   « No, non lì »

Disse l'uomo. 

Allora si passò il dorso della mano sinistra sull'altra guancia. 

   « Ok? »

   « No, non lì » 

L'uomo e l'oste si guardarono sorridendo, mentre il giovane cominciava a innervosirsi. 

   « Ma insomma! La smettete di prendermi sempre in giro? » 

A quel punto Sephyr gli passò lo straccio che aveva in mano sulla fronte e la ripulì dal fango ormai secco. 

   « Ecco qui! »

Preso di sorpresa, si girò verso la ragazza che lo guardava sorridendo con lo straccio in mano. 

   « Grazie... »

Disse distogliendo subito lo sguardo dagli occhi della ragazza e arrossendo leggermente. 

   « Di niente. E voi smettetela di prendervi gioco di lui, grandi e grossi come siete! » 

Lanciò uno sguardo severo sui due che stavano ancora sghignazzando e tornò al suo lavoro. Il giovane si fece sorprendere dall'oste nell'osservarla allontanarsi dal tavolo. 

   « Sta in campana figliolo, lo vedo come guardi mia figlia, e non mi piace »

Sbottò con fare severo. Il ragazzo si limitò a distogliere lo sguardo.

   « Allora, cosa vi por... »

Il fragore di un’esplosione gli strozzò le parole in gola.

Una luce intensa.

Poi il buio.

Il giovane aprì gli occhi e capì di essere disteso a terra, ma non si ricordava come ci era finito. Provò a muoversi. Tutto sembrava funzionare a dovere, a parte la testa che gli faceva un male cane. Tutto intorno c'era fumo, una coltre di fumo denso dall'odore pungente.

   Cercò di alzarsi. Le gambe gli tremavano, la prima volta finì in ginocchio, poi finalmente riuscì a mettersi in piedi. 

Si portò una mano alla testa e sentì umido. Sangue. Doveva aver sbattuto da qualche parte, ma non sembrava niente di grave. 

Cercò di guardarsi intorno, ma il fumo era troppo denso. 

Allora cercò di parlare per chiamare il suo maestro, ma dalla sua bocca non usciva nessun suono e si accorse che le sue orecchie non sentivano, il fragore dell'esplosione lo aveva assordato.  

Avanzò tentoni verso la luce che doveva essere la porta del locale. Inciampò in qualcosa di morbido e cadde faccia in giù. Fortunatamente, nel frattempo, i riflessi gli si erano abbastanza risvegliati e riuscì a frenare la caduta con le braccia.  

Non capì su cosa era inciampato e per il momento non gli interessava, si rialzò e continuò a camminare verso la luce. 

Finalmente uscì all'aperto. Prese una boccata d'aria pulita mentre cominciò a sentire le urla ovattate della gente che stava accorrendo nella sua direzione.  

   « Meno male... »

Pensò. 

   « Allora ci sento ancora... » 

Al che, cadde nuovamente svenuto. 

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Capitolo 3
*** Risveglio ***


3. Risveglio

 

« Il ragazzo si è svegliato? » 

   La voce era vagamente familiare, però non riusciva a ricordare di chi fosse. Capì di essere disteso su un letto. Non sentiva dolore, ma era in uno stato di torpore molto intenso, talmente intenso da non riuscire a muovere un muscolo. Cercò di girare almeno la testa verso la voce, ma non ci riuscì.  

   « No, è messo male, ma è forte e se la caverà » 

Anche questa voce gli era familiare, ma niente.  

Non sapeva se queste parole fossero di sollievo o meno, ma il dubbio durò poco, poiché ricadde quasi subito nell'oblio. Quando riprese i sensi, la mente era notevolmente più sgombra. Ricordava tutto fino al momento dell'esplosione. Tentò di muovere il braccio destro e ci riuscì, anche se i muscoli gli facevano male, chissà da quanto tempo era immobile. Provò a fare un respiro profondo, ma sembrava che anche i suoi polmoni fossero intorpiditi e fece molta fatica. Una volta riuscito a riempirli sufficientemente cercò di concentrarsi. Dopo qualche istante il suo corpo cominciò a emanare una leggera nebbia azzurra e luminescente che svaniva a pochi centimetri di altezza. Dopo un paio di minuti il fenomeno cessò e lentamente il giovane si mise a sedere sul letto sbuffando, non provava più alcun dolore, ma la testa gli girava. 

   « Sei bravo, non ho mai visto nessuno nelle tue condizioni effettuare un incantesimo d'acqua così efficace »

   Sephyr era seduta su una sedia poco distante dal letto, non indossava il grembiule da cameriera con il quale era abituato vederla, ma un abito di lino dello stesso blu dei suoi occhi che cadeva leggero sulle sue forme e che le lasciava scoperte le braccia, una delle quali fasciata dalla spalla al gomito. Un’appariscente ecchimosi sopra l'occhio destro, che però sembrava già in via di guarigione, non danneggiava minimamente la bellezza del suo viso incorniciato dai capelli sciolti sulle spalle.   Aveva un’espressione tra il sollevato e l'esausto.  Il giovane sgranò gli occhi sorpreso di vederla. Tentò di dire qualcosa, ma gli mancò il fiato. La ragazza sorrise dolcemente: 

   « Sono contenta che ti sia ripreso, cerca di non affaticarti subito, l'incantesimo ha guarito le tue ferite, ma le forze devono ancora tornarti » 

   Il giovane rimase zitto a guardarla per qualche istante. Non l'aveva mai trovata così bella come in quel momento. Poi si accorse di arrossire e distolse lo sguardo.

   « Da quanto tempo sono su questo letto? »

   « Una settimana... »

Il ragazzo trattenne un moto di sorpresa, non voleva mostrare altre debolezze. 

   « Cos'è successo? Ricordo solo che eravamo nella locanda di tuo padre e a un certo punto un fortissimo fragore... » 

   « Un incantesimo di fuoco » 

   « Cosa?! E chi... »

Corgh irruppe nella stanza spalancando la porta di colpo. Un’ appariscente benda gli copriva l'occhio sinistro, il braccio destro era a sua volta fasciato e appeso al collo con una cinghia di cuoio. Per il resto era vestito come sempre, a parte il grembiule che ora non indossava. 

   « Ragazzo! Finalmente! Stavamo perdendo le speranze! » 

   « Corgh! Cosa diavolo è successo? »

Disse concitato il ragazzo alzandosi dal letto di scatto. 

   « Dov'è il Maestro? »

   « A tempo debito. Intanto vedi di coprirti davanti a mia figlia » 

A quel punto si accorse di essere nudo. Sephyr aveva distolto lo sguardo arrossendo. Si coprì all'istante con un lembo di lenzuolo. 

   « CHE FINE HANNO FATTO I MIEI VESTITI!? »

   « Abbiamo dovuto spogliarti » Continuò Corgh tetro. 

   « I tuoi abiti erano mezzi bruciati, anche se tu non avevi nemmeno la pelle arrossata...questa è una delle cose che mi devi spiegare » 

   « Il fuoco non ha mai avuto un gran effetto sulla mia pelle, il Maestro non ha mai voluto spiegarmi il perché, ma sono sicuro che lui ne sappia la ragione... » 

A quel punto un pensiero improvviso lo interruppe. 

   « LA MIA SPADA..!? »

   « E' qui »

Disse la ragazza senza voltarsi e indicando verso la testa del letto. La spada era appoggiata a terra, nel suo fodero che appariva un po' annerito. Il ragazzo si affrettò ad afferrarla, la sguainò per essere sicuro che la lama fosse integra, anche se lo sapeva benissimo. Riflesso nella lama, che brillava lucida e liscia come sempre, vide il suo volto. Era pulito, non aveva segni di fuliggine, oltre a spogliarlo evidentemente lo avevano anche ripulito. Vide la benda che aveva in testa. Candida. Probabilmente la fasciatura era stata cambiata da poco. I capelli, neri e ribelli, erano puliti e emanavano i soliti strani riflessi rossicci. Sotto le sottili sopraciglia, i suoi occhi verdi esprimevano il sollievo di non aver perduto la spada. Provò un senso di sicurezza impugnandola e come faceva spesso, cominciò ad ammirarla. L'elsa nera, di un materiale che poteva sembrare legno di ebano ma ancora più duro e resistente, raffigurava un drago con le ali aperte, che fungevano da paramano. La testa del drago era il pomolo, mentre la coda si allungava quasi a fondersi con la lama. Le creste sulla schiena del drago formavano una perfetta impugnatura ergonomica. La lama era di uno strano materiale, acciaio avrebbe detto un profano, ma la sua lucentezza non era quella di un metallo semplicemente temprato da un abile armaiolo, lucida quasi a specchio e affilata come un rasoio su entrambi i lati. Era dotata, inoltre, di una caratteristica alquanto unica: non era fredda, anche in inverno manteneva un certo calore "proprio", come se fosse dotata di una qualche fonte di energia interna e inesauribile.  

O fosse viva. 

   « Datti una mossa a vestirti e vieni di sotto, ragazzo! Non abbiamo molto tempo, mentre tu eri qui a fare il bell'addormentato noi ci stavamo facendo il culo per sistemare il casino che hanno combinato qui quegli stregoni! » 

   Detto questo uscì dalla stanza sbattendo la porta. 

« Stregoni? Ma che cosa sta dicendo? Sono stati degli stregoni ad attaccarci?! Non è possibile! »

La porta si riaprì di scatto e Corgh si affacciò nuovamente nella stanza. 

   « E un'altra cosa, vedi di ringraziare mia figlia come si deve, noi non avevamo tempo di controllare che non tirassi le cuoia per cui se ne è occupata lei nonostante fosse sfinita dopo aver aiutato tutti gli altri.» 

   Detto questo, richiuse la porta senza aspettare risposte. 

Sephyr si era già alzata e aveva appoggiato al letto un fagotto di abiti.  

   « Grazie. Ti sono debitore. »

   « Non c'è bisogno che mi ringrazi. Era il minimo che potessi fare. Il tuo maestro ci ha aiutato moltissimo in passato, non potevo lasciare in quelle condizioni il suo discepolo, sarebbe stata una mancanza di rispetto nei suoi confronti. » 

   Senza aggiungere altro si diresse verso la porta senza guardarlo. Appena aprì la porta, si decise a farle la domanda di cui temeva la risposta. 

   « Dov'è lui? »

La ragazza si fermò sulla soglia. 

   « Non lo so. Nessuno lo sa. Faresti meglio a scendere appena puoi. »

   Chiuse la porta e scese le scale.

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Capitolo 4
*** Ricordi ***


4.   Ricordi

 

Un gruppo di Stregoni aveva attaccato il villaggio ferendo gente innocente e distruggendo la taverna, aveva passato una settimana immobile a letto e il suo Maestro era scomparso.

   « Non male… »

Pensò ironicamente.

   « Speriamo non ci sia altro, perché per il momento può bastare »

Si vestì con calma riflettendo sulla situazione. Trattenne un improvviso senso di panico che gli saliva dallo stomaco, cercò di mantenere la calma e la mente lucida per decidere sul da farsi. Pensò che, ovviamente, il primo passo era sentire cosa avesse da dire Corgh, ma sicuramente non avrebbe perso tempo in chiacchiere e sarebbe immediatamente partito alla ricerca del Maestro.

   Era solo.

Per la prima volta, da molto tempo, era solo. Nei suoi ricordi il Maestro c’era sempre. Lui e la moglie, Shayra, l’avevano accolto in casa quando era molto piccolo. Era l’unico sopravvissuto dell’incendio che aveva distrutto improvvisamente, in una notte di inverno di quasi vent’anni prima, l’orfanotrofio dove viveva. Era stato ritrovato nell'angolo di una stanza semicrollata, dopo che le fiamme avevano smesso di ardere. Dormiva tranquillamente abbracciato alla spada, come se questa fosse un orsacchiotto. Anche allora il fatto che, oltre a essere l’unico sopravvissuto, non avesse nessun segno di ustione sul corpo, aveva destato più di qualche sospetto nella gente. Per non parlare del fatto che non ne voleva sapere di staccarsi da quella strana arma, se non scoppiando in urla disperate. Il Maestro fu l’unico a non trovare la cosa troppo misteriosa e inoltre, visto che lui e la moglie non avevano figli, decise di prendersi cura di quel bambino scampato misteriosamente alla morte.

   Almeno questa era la versione dei fatti che lui conosceva.

Voleva molto bene a entrambi, sia al Maestro che a sua moglie Shayra, ma fin da subito, nonostante fosse molto piccolo, aveva capito che non erano i suoi veri genitori e non era mai riuscito a considerarli come tali. La cosa strana, ma che in realtà gli evitava di sentirsi in colpa, era che loro sembravano accettare serenamente la cosa e non avevano mai preteso di sentirsi amati come da un figlio, da parte sua. Il loro rapporto era comunque molto stretto. Era particolarmente legato a Shayra: se con il Maestro riusciva a mantenere il suo carattere ribelle e irrequieto, nonostante le severe punizioni che gli rifilava quando esagerava nelle intemperanze, con lei invece non ci riusciva, era più forte di lui. La tranquillità serafica, impossibile da scalfire, unita alla dolcezza dei modi, aveva il potere di tenerlo a bada sempre e comunque, oltre che a fugarne qualsiasi tipo di preoccupazione, o timore. Un viso dai lineamenti estremamente dolci, lunghi capelli castani e grandi occhi dello stesso colore, labbra sottili e naso piccolo. L’aveva sempre considerata la donna più bella del mondo.

   Fino al momento in cui entrò all’Unghia Nera e vide Sephyr per la prima volta.

   Cullò per un momento il ricordo. Erano appena giunti al villaggio, era notte ed erano sfiniti dal viaggio. Il Maestro, senza dire nulla, si diresse direttamente alla taverna. Non ricordava di essere mai stato così stanco in vita sua e lo seguì senza fiatare. Appena entrati, cominciò subito a sentirsi meglio, finalmente potevano riposarsi in un luogo caldo e asciutto. Il viaggio era durato tre giorni e il tempo non era stato dalla loro parte. Una neve incessante li aveva accompagnati fin dalla valle e avevano rischiato due volte di  morire assiderati prima di riuscire a trovare un riparo per la notte. Aveva dato libero sfogo, in quei tre giorni, alla fantasia su come insultare una singola persona. Ovviamente la persona alla quale erano indirizzati tali insulti era il Maestro che lo aveva trascinato in quell’odissea. L’interno della taverna profumava di vino misto a fumo di carne grigliata e tabacco. Insomma, sapeva di taverna. Appena seduti a un tavolo, l’oste sbucò da dietro il bancone. La stanchezza, la vista non ancora abituata alla luce della taverna dopo il buio della notte e la mole dell’uomo con il viso coperto di fuliggine gli fecero credere di trovarsi improvvisamente di fronte a un orco dei boschi. Non gli passò minimamente per la testa il fatto che, in una taverna dove almeno venti persone stavano tranquillamente mangiando, la comparsa improvvisa di un orco da dietro il bancone fosse alquanto singolare. Scattò in piedi sguainando la spada, rovesciando la sedia e urlando:

   « Attenzione Maestro! »

   « Vedi di dire al fringuello qui di mettere via quella spada entro un secondo, caro il mio Maestro, o i miei scarponi assaggeranno ossa giovani stasera! »

   L’“orco” non si era minimamente scomposto per la reazione del ragazzo. Prese uno straccio e si pulì la faccia. Intanto il Maestro era scoppiato a ridere e il resto degli avventori si era girato verso di loro con espressioni stupite e spaventate.

   « Ti conviene ascoltarlo, nelle condizioni in cui sei un calcio di Corgh ti ridurrebbe piuttosto male, fidati! »

Finalmente si rese conto dell’errore. Abbassò immediatamente la lama sbiascicando qualche parola per cercare di giustificarsi e si sedette. Solo che non si era accorto di aver fatto cadere la sedia, quindi crollò a terra sbattendo il sedere. Imprecando. A quel punto l’oste, e buona parte degli avventori, scoppiò a ridere, mentre il Maestro ormai era quasi alle lacrime. Si alzò di scatto, o ameno ci provò, la stanchezza non gli conferiva una grande agilità, e dovette aiutarsi puntellando la spada come fosse un bastone. Sentiva il viso ardere dalla rabbia e dalla vergogna per la figuraccia. Appena fu in piedi, si girò per raccogliere la sedia, ma vide che qualcuno l’aveva già sistemata.

   « Ecco qui, meglio che ti siedi e fai finta di niente. Comunque ti capisco, se non sapessi che è mio padre qualche vota lo scambierei anch’io per un brutto orco antipatico. »

   La cameriera gli sorrideva, non capiva se stesse anche lei ridendo di lui, ma nell’incrociare il suo sguardo profondo sentì di arrossire ancora di più.

   « CHI SAREBBE IL BRUTTO ORCO?! »

Corgh aveva smesso di ridere e le lanciò uno sguardo di traverso.

   « Va bene, va bene. Adesso però smettetela di fare confusione. Buonasera Maestro, ben tornato! » 

   « Ciao Sephyr, sei sempre più bella ragazza mia. L' imbranato che hai appena aiutato è il mio allievo, purtroppo… »

   « Imbranato a chi? Vecchio rompiscatole!! »

La ragazza fece finta di nulla e pulì il loro tavolo con uno straccio.

   « Cosa vi porto? »

   « Ovviamente la specialità della casa! Bistecche alla griglia e patate. Sentirai figliolo, nonostante l’aspetto poco rassicurante, Corgh è un ottimo cuoco. Quasi quanto mia moglie.  »

   Aveva pronunciato l'ultima frase guardando Corgh sorridendo, il quale stava già dirigendosi verso la cucina borbottando. Aveva ragione. Non sapeva se fosse perché aveva talmente fame che, forse, gli sarebbe andata bene qualsiasi cosa, o se fosse perché erano serviti da quella cameriera, ma quella cena non gli fece rimpiangere per nulla i piatti che mangiava a casa. Shayra, oltre che essere una cuoca eccezionale, era altrettanto abile nella magia d’acqua che, avendo la caratteristica di essere prevalentemente curativa, era, in effetti, adatta alla sua indole. L’autoguarigione che aveva utilizzato gli era stata insegnata proprio da lei qualche anno prima. Ed era stato anche il suo primo incantesimo. Giocando con un cane era inciampato e aveva sbattuto per terra il ginocchio ferendosi in maniera piuttosto profonda. Shayra lo aveva aiutato a rialzarsi e lo aveva fatto sedere su una sedia.

   « Mi fa male! »

Protestava lui quasi in lacrime. Dopo un momento, nel quale era sembrata dubbiosa, si inginocchiò davanti a lui e disse dolcemente:

   « Lo so che fa male, però adesso prova a tranquillizzarti e a respirare piano. Fai come me.»

   Come sempre si fidò di lei e a fatica ricacciò indietro le lacrime. Poi incominciò a respirare in maniera regolare, imitandola.

   « Bravissimo! Ora fai un bel respiro e trattieni il fiato. »

Riempì i polmoni e si fermò, guardandola. Nei suoi occhi vide una strana luce, che non era ancora riuscito di decifrare.

   « Perfetto. Ora concentrati sul dolore che senti, prova a immaginare che se ne vada. Come se fosse una nuvola di vapore. Senza mai espirare però, mi raccomando! »

   Lui ci provò. Chiuse gli occhi e immaginò. All’inizio era impercettibile, ma quasi subito si accorse che il dolore effettivamente diminuiva. La cosa che lo sorprese maggiormente, però, era che contemporaneamente i suoi polmoni si stavano svuotando, senza che lui aprisse la bocca o il naso. Aprì gli occhi e vide il suo ginocchio avvolto dalla leggera nebbia azzurra luminescente, tipica degli incantesimi d’acqua, e in pochi istanti la ferita e il dolore erano spariti. I suoi polmoni erano vuoti. Aveva visto molte volte Shayra utilizzare questa tecnica per curare le persone, ma mai si sarebbe aspettato di esserne capace anche lui.

    « Evviva! Allora anch’io posso!»

Esultò felice. Shayra sorrise dolcemente, ma i suoi occhi trasparivano una strana tristezza..

   « La magia è dentro di noi, fa parte della nostra natura. Dobbiamo solo trovare il modo giusto per usarla. »

   « Cioè? »

   « Il corpo umano è in grado di generare energia. Il calore della pelle, il movimento, sono solo degli esempi. Alcune persone, inoltre, sono in grado di “guidare” questa energia secondo la loro volontà »

La parola “alcune” le usci involontariamente marcata. Si alzò senza distogliere lo sguardo dal suo.

   « L’energia viene generata attraverso i complessi meccanismi del metabolismo. Con la respirazione si attivano i principali processi biologici che servono a creare delle particolari molecole dette ATP. Queste molecole sono cariche di energia e servono per “alimentare” molte delle funzioni del nostro corpo. Concentrandoti, ora, sei riuscito a convogliare l’energia delle ATP nel tuo ginocchio e accelerarne così il meccanismo di guarigione. Quel vapore luminescente è dovuto alla concentrazione di quell’energia. La definizione “incantesimo d’acqua” richiama il colore che assume l’energia in questa forma.  »

   Lui lo guardava affascinato, con gli occhi sgranati.

« Non ho capito una parola, ma mi sembra una figata pazzesca! »

Improvvisamente sentì un colpo alla testa. Un pugno dall’alto in basso. Non particolarmente forte, ma sufficiente a fargli sbattere i denti.

   « Il solito ignorante! Cosa ti mandiamo a scuola a fare? »

Il Maestro sbucò alle sue spalle.

   « Ahi! Perché mi hai picchiato? A scuola non insegnano a fare gli incantesimi! »

   « Mi riferivo alla spiegazione sul metabolismo. Non hai la più pallida idea di cosa sia, vero? »

   « Mah…forse qualcosa, ma la prof di biologia non mi sta molto simpatica…  »

   « Se vorrai diventare davvero uno Stregone e usare la magia come si deve dovrai prima di tutto studiarne le basi, capito brutto lavativo? »

   « Aspetta…uno Stregone? Fino a due minuti fa non sapevo neanche di poter usare gli incantesimi e adesso mi stai dicendo che potrei diventare uno Stregone? »

   L’espressione del Maestro tentava di essere severa, ma mostrava la stessa punta di tristezza che aveva Shayra, con in più un pizzico di preoccupazione. Sul momento non ci fece caso, ma gli capitò spesso, in futuro, di ripensare alle loro espressioni.

   « Mah, vedremo. A volte anche le cause perse possono presentare delle sorprese. Ora fila a dormire, le lezioni inizieranno domani mattina!  »

   Aveva fatto molta fatica ad addormentarsi quella sera. Possibile che avesse le capacità per diventare uno Stregone? Guardò la spada appesa al muro vicino al letto.

   « Non è che tu ne sai qualcosa?  »

Poco prima di addormentarsi gli sembrò di vedere una luce rossastra avvolgere l'elsa. Così aveva iniziato il suo apprendistato da Stregone che era continuato per i successivi quindici anni. Fino al momento in cui, una mattina di un mese prima, erano partiti per quelle montagne per l’addestramento finale. Un mese e una settimana, per essere precisi.

   « Solo che l’ultima settimana me la sono persa. »

Ormai era vestito. Allacciò la fibbia della tracolla del fodero sul petto, legò il mantello al collo e aprì la porta della camera. Dal fondo delle scale, che portavano al piano inferiore, arrivava un vociare concitato.

Scese le scale. Il senso di panico non voleva andarsene.

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Capitolo 5
*** Profumi ***


5. Profumi

 

«Intanto smettiamola di dire stupidaggini! Solo perché non sono dei nostri... »

   «Finiscila Corgh! Lo sappiamo entrambi molto bene quei due non ci porteranno altro che guai! »

L'uomo che stava discutendo con l'oste era visibilmente alterato. Portava una specie di tunica grigia con cappuccio, che ora era ripiegato sulla schiena. Ai piedi calzava delle bizzarre scarpe di un colore non ben definito, forse marrone, che sembravano ricoperte da una sorta di peluria. La tunica era aperta sul davanti e sotto di essa portava una camicia variopinta dalle tinte tendenti al blu o viola e un paio di pantaloni di stoffa grossa verde pisello. Come età era abbastanza indefinibile, i capelli corti erano completamente bianchi, ma il viso e il portamento non erano da persona anziana, probabilmente aveva la stessa età del Maestro.

   “Stanno sicuramente parlando di noi.”

Pensò continuando a scendere le scale.

   «Fai attenzione a quello scalino, è un po' rovinato e si rischia di scivola... »

   Corgh non fece a tempo a terminare la frase. Il ragazzo sentì il piede d'appoggio scivolare in avanti e, per non perdere l'equilibrio e finire i restanti scalini rotolando, si aggrappò con entrambe le mani al corrimano di legno che scricchiolò in maniera inquietante. Fortunatamente resse e l'unica conseguenza, oltre all'ennesima figuraccia, fu che si ritrovò semidisteso a faccia in giù sulle scale. Si rialzò facendo leva con il ginocchio destro su uno scalino.

   «Ma non potevi dirmelo prima?!»

L'oste non rispose e rimase impassibile. L'uomo con la tunica si era girato verso di lui e lo stava guardando con espressione stupita.

   «Tutto bene giovanotto?»

   «Sì, sì. Tutto a posto. Grazie.»

Sistemò il mantello, nella semi-caduta gli si era arrotolato attorno al braccio destro, e finì di scendere le scale poggiando i piedi su ogni scalino con estrema cautela. Si trovavano in una stanza piuttosto grande con il pavimento ricoperto da mattonelle di terracotta, un camino era acceso e, sul fuoco, era appesa una pentola dentro nella quale bolliva qualcosa. Il profumo che aleggiava faceva pensare a una qualche zuppa. Il che gli fece prendere atto del fatto che era affamato, dopotutto era una settimana che non mangiava. Il suo stomacò lanciò segnagli inequivocabili. Dalla finestra, nella parete opposta al camino, filtrava la luce rossastra del tramonto. Il resto della stanza era arredato da un grande tavolo di legno, attorno al quale erano sistemate una decina di sedie, da una grossa credenza sovrastata da uno specchio rettangolare e annerito, probabilmente antico, con cornice intarsiata e da una vecchia poltrona sistemata in un angolo vicino al camino. Alle pareti erano appese delle lanterne, che erano già state accese, e dei quadri raffiguranti perlopiù paesaggi montani, piuttosto ordinari. Uno però, appeso sopra la poltrona, attirò la sua attenzione. Raffigurava una figura femminile dai lunghi capelli neri, il viso aveva dei lineamenti che gli erano familiari, molto probabilmente era il ritratto della madre di Sephyr.

   «E adesso, se mi spiegate in fretta quello che sapete su questa storia, me ne andrò senza disturbarvi oltre. »

Corgh lo guardò con espressione offesa e disse:

   «Ma bene! Ti sei alzato da due minuti e vuoi già andartene? Non ti reggi neanche in piedi! Il Maestro doveva essere ubriaco il giorno che ha deciso di addestrarti. Siediti a quel tavolo e stai buono, vedi di non farmi arrabbiare più di come lo sono in questo momento, altrimenti ti rispedisco su quel letto a calci! Appena avrò finito con il nostro sindaco, faremo quattro chiacchiere. »

   «Ho capito che qui non sono desiderato, per cui ti ringrazio, ma... »

   «SILENZIO! »

L'espressione di Corgh sembrava quella dell'Orco capobranco all'assalto che aveva sistemato una settimana prima, ma in questo caso ebbe la netta sensazione che il suo basilare incantesimo di fuoco sarebbe servito a poco.

   «SEDUTO! ZITTO!»

Fu colto alla sprovvista dalla reazione dell’oste. Non poté fare altro che sedersi su una sedia senza fiatare.

   «Mi sa che il ragazzo ha interpretato male i nostri discorsi, Corgh.»

L'uomo con la tunica stava sorridendo.

   «Non ci stavamo riferendo a voi, ma a quei due incapaci che il qui presente oste ha assoldato per sistemare la locanda. E' quasi una settimana che ci lavorano, ma sono riusciti solo a fare danni. Se avesse affidato l'incarico ai nostri muratori, in due giorni sarebbe stata come nuova!»

   Alla fine della frase non sorrideva più, aveva ritrovato il malumore e la foga con la quale stava discutendo un momento prima, in un rapido crescendo. Il giovane rimase affascinato dalla velocità con la quale variava l'umore di quel curioso soggetto.

   «Questo lo dici tu!»

   «Ma mi stai prendendo in giro?! A parte il fatto che è più il tempo in cui sono ubriachi che sobri ma sei andato a vedere le condizioni in cui sono i "lavori"?»

   «No, stavo giusto pensando di andare a controllare, ma qualcuno me lo sta impedendo con le sue chiacchiere.»

   «Va bene! Allora andiamoci insieme. Poi vedremo se oserai parlare ancora!»

   «Perfetto!»

«Se ho ragione, mi dovrai offrire da bere per almeno un mese.»

   «Ci sto, in caso contrario mi taglierai le tasse del cinquanta per cento per un anno.»

   «Aspetta... non mi sembra equa come scommessa...»

La porta si richiuse alle loro spalle. La stanza piombò istantaneamente nel silenzio più totale. Si percepivano distintamente il crepitio del fuoco nel camino e il bollire della pentola. Il giovane aveva seguito con lo sguardo i due uomini mentre si dirigevano fuori dalla stanza senza aprire bocca. Ora stava osservando la porta chiusa.

   «Tranquillo, io aspetto qui. Prego, fai con comodo! Mi sembrava avessi fretta di parlarmi, ma evidentemente...»

   «Parli da solo? La ferita alla testa non sembrava così grave.»

La voce, arrivata dal nulla, lo fece sobbalzare sulla sedia.

   «Sephyr! Una volta o l'altra tu o tuo padre mi farete morire d'infarto...»

   «Mi dispiace. Hai fame?»

Stava sorridendo. Evidentemente lo scherzo era intenzionale. Il ragazzo rimase sorpreso da un gesto così confidenziale.

   «A dire la verità sto morendo di fame...non sono abituato a digiunare per una settimana. »

La ragazza teneva in mano due bicchieri e una caraffa d'acqua che appoggiò sul tavolo.

   «Mi dispiace, stavi preparando la cena? Mi levo subito di torno, troverò qualcosa da mangiare in paese e più tardi tornerò a parlare con tuo padre. Sempre che se ne ricordi... »

   L'idea di andarsene, in quel momento, non lo allettava molto e le parole gli uscirono poco convincenti.

   «Ma vai sempre di fretta tu? Non preoccuparti, mio padre tornerà abbastanza presto, anche se, conoscendolo, non avrà un umore molto conciliante. Quindi non sarei così ansiosa di parlarci.»

   Si diresse verso la pentola e tolse il coperchio. Prese un mestolo, che era appeso al camino, e ne assaggiò il contenuto dopo aver soffiato per raffreddarlo.

   «Perfetto, è pronta. Sicuro di non volerne un piatto? Non sono brava come mio padre, ma me la cavo anch'io in cucina. E poi dubito che riuscirai a trovare qualcosa da mangiare in paese a quest'ora, lo sai che la taverna è chiusa. »

   Tolse la pentola dal fuoco, appoggiandola sul ripiano del camino, e si diresse verso la credenza, aprì le ante e prese due piatti.

   «Inoltre, facendomi compagnia, ti sdebiteresti del fatto che sono stata la tua infermiera per una settimana. »

   «Se la metti così, non posso rifiutare. »

Si alzò dalla sedia e si avvicinò alla ragazza, prendendole di mano i piatti. L'idea di poter rimanere gli aveva improvvisamente ridato un po' di forza.

   «Lascia almeno che ti aiuti.»

Era più alto di lei di una spanna. Non se ne era mai accorto anche perché, quando la incontrava, era sempre seduto al tavolo e lei serviva. Pensò che avesse un buon odore, come quello di un qualche fiore, di cui ora non ricordava il nome.

   «Volentieri, tu apparecchia, io penso al resto. Trovi tutto nella credenza.»

   Detto questo, tornò da dove era sbucata all'improvviso, in altre parole dalla porta che si trovava sotto la scala dalla quale lui era sceso. Ecco perché non l'aveva vista arrivare. Mentre sistemava piatti e posate, si sentì per un momento a disagio. Era la prima volta che cenava da solo con una ragazza della sua età. Gli ultimi quindici anni erano trascorsi in addestramenti con il Maestro e la sua vita era stata quindi scandita dagli allenamenti e dallo studio. Ogni tanto aveva invidiato gli altri ragazzi che giocavano, facevano gite sulle colline, andavano al mare in estate quando la scuola era chiusa, esploravano per gioco le rovine fuori dal paese e camminavano mano nella mano durante le fiere di primavera. Insomma, che vivevano normalmente la loro gioventù. In realtà era un'invidia passeggera, dovuta il più delle volte, alla stanchezza degli esercizi che il Maestro gli imponeva. In fin dei conti non andava d'accordo con nessuno, sembrava che, a parte i suoi genitori adottivi, il resto della gente facesse fatica a stargli vicino. A scuola non aveva mai legato con nessuno, un po' a causa del suo caratteraccio e un po' perché, appunto, sembrava che gli altri avessero quasi paura di lui. Spesso aveva sentito le donne del paese, che erano ovviamente anche le madri dei suoi compagni, parlare tra loro a bassa voce quando gli passavano vicino dicendo le cose più strane e cattive sul suo conto:

   «Ho sentito che raccoglie la brace dal camino con le mani, secondo me è figlio di un demone. »

Oppure:

   «L'hanno visto salire sul tetto della casa di notte e parlare in una strana lingua con i pipistrelli mentre ballava. Per me è un vampiro.»

Quella storia era quasi vera. Era effettivamente uscito sul tetto di casa in una notte d'estate, ma solo perché era la notte in cui doveva passare una famosa cometa e aveva deciso di dormire all'aperto per osservarla con calma. In un primo momento aveva pensato di mettersi in giardino, ma poi, verificando l'angolazione con la quale sarebbe dovuta comparire la cometa, si era accorto che gli alberi che circondavano la casa ne avrebbero impedito la vista. Gli venne quindi la bella idea di sistemare una coperta fuori dalla finestra della sua camera, che dava sul tetto, e stendersi sopra. Da quell’altezza gli alberi non sarebbero stati un problema. Non aveva fatto i conti, però, con la pietra con la quale era rivestito il tetto, alquanto soggetta a bitorzoli appuntiti. Non appena saltò giù dalla finestra a piè pari (e nudi) una miriade di schegge gli si conficcò nella carne. Cominciò a saltellare urlando a bassa voce, per non svegliare il Maestro e Shayra, una serie d'improperi dovuti al dolore. Non ricordava i pipistrelli, però essendo estate è probabile che ci fossero, ma era d'accordo sul fatto che se qualcuno lo avesse visto da lontano avrebbe potuto porsi qualche strana domanda.

   «Hai finito? »

Sephyr era tornata con un vassoio di affettati e formaggi e un cestino con delle pagnotte fumanti, probabilmente appena tolte dal forno. Il profumo che si espanse nella stanza era quasi inebriante. I suoi pensieri si dissolsero in un istante.

   «Che meraviglia! A me bastava anche un piatto di zuppa. Forse anche due per essere sinceri. Non serviva che ti disturbassi tanto. »

   «Nessun disturbo, è parte delle provviste della taverna, siccome non possiamo servirle tanto vale mangiarle, no? »

   Si sedettero a tavola uno di fronte all'altra. Si era completamente dimenticato della situazione in cui si trovava: il Maestro e i misteriosi stregoni che, molto probabilmente, lo avevano rapito lasciandolo solo. In quel momento, però, non si sentiva solo. Per la prima volta sembrava aver trovato qualcun altro con cui poter condividere qualcosa senza sentirsi indesiderato. Per qualche motivo, però, sentiva crescere di nuovo il senso di panico che lo aveva appena abbandonato. Anzi, non era panico, era più una sorta d’inquietudine, la paura di qualcosa di brutto che doveva ancora accadere, ma che, in cuor suo, era certo che sarebbe accaduto. 

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Capitolo 6
*** Lind ***


  6. Lind

 

   «Certo che non sei uno di molte parole.»

Lui alzò lo sguardo dal piatto e, quando incontrò quello della ragazza, si rese conto di avere una faccia eccessivamente scura, dovuta ai suoi pensieri. Subito rilassò i muscoli del viso e abbozzò un sorriso.

   «Scusami, non ti sto facendo molta compagnia, vero?»

   «Non preoccuparti. Ci sono abituata, mio padre è altrettanto loquace a tavola.»

   Detto questo, si alzò e incominciò a raccogliere i piatti. "Inventati qualcosa da dire" pensava lui, si sentiva in colpa per non aver aperto bocca per tutta la cena e, sopratutto, lei sembrava delusa dal suo atteggiamento.

   «Il Maestro non è una persona qualunque. Dovresti saperlo, no?»

Disse la ragazza improvvisamente. Gli poggiò una mano sulla spalla e avvicinò il viso al suo. Con espressione decisa continuò, guardandolo negli occhi.

   «Siamo tutti in pensiero, ma devi avere fiducia in lui, capito?»

Lui sentì il suo fiato sul viso. Sostenne in qualche modo lo sguardo e annuì.

   «Ok...»

Da dove arrivava tutta questa fiducia per il Maestro? Non solo lei, ma Corgh e anche quel bizzarro personaggio del sindaco sembravano non essere minimamente sorpresi della situazione. Eppure l'oste gli aveva dato, inizialmente, un’impressione diversa quando era venuto a vedere se si era svegliato. Incominciava a essere più confuso di quanto non lo fosse già. Possibile che per loro fosse normale che dei misteriosi stregoni facessero esplodere la locanda? Doveva approfondire la cosa. Inoltre sembrava che conoscessero tutti il Maestro meglio di lui. Anche questo era abbastanza strano. Sephyr aveva detto che, in passato, li aveva aiutati molto, ma quando? Che visitasse spesso quel villaggio lo sapeva bene, ma non gli aveva mai parlato di qualche fatto particolare.  Anche questa cosa andava chiarita. Nel frattempo Sephyr era tornata nell'altra stanza e, a giudicare dal rumore di acqua corrente, aveva incominciato a lavare le stoviglie. La finestra era ormai un rettangolo nero. Era notte e Corgh non accennava a tornare. Si alzò da tavola e si avvicinò al ritratto femminile che aveva notato prima. Il quadro non era firmato, ma portava l'anno di realizzazione che risaliva a vent’anni prima. Era realizzato su tavola e i colori erano molto vivi, lo stile era realistico e particolareggiato. La figura era raffigurata seduta, proprio sulla poltrona sopra la quale il ritratto era appeso, vestita con un abito blu simile a quello che portava Sephyr. Al collo portava una collana con un pendaglio raffigurante un qualche simbolo, forse una runa. I lineamenti del viso erano inequivocabilmente elfici. Grandi e luminosi occhi blu sormontati da sottili sopracciglia, bocca carnosa, mento affusolato e naso proporzionato, le orecchie erano coperte dai lunghi capelli neri che ricadevano sulle spalle, quella destra, però, spuntava leggermente dalla capigliatura e presentava la caratteristica forma leggermente appuntita. La carnagione scura era caratteristica del popolo che abitava le foreste secolari del sud, i cui appartenenti erano appunto indicati come "Elfi Neri" a causa del colore della pelle e dei capelli. La figura sorrideva dolcemente, ma gli occhi trasmettevano una punta di malinconia.

   «E’ mia madre.»

Sephyr era ritornata nella stanza. Si avvicinò a lui e rivolse lo sguardo al dipinto, incrociando le braccia dietro la schiena.

   «E’ bellissima, vero?»

   «Sì. E a dire la verità, secondo me, siete due gocce d’acqua.»

Lei si girò verso di lui piegandosi in avanti per incontrare il suo sguardo,che era ancora rivolto al quadro, e gli lanciò un’occhiata maliziosa.

   «E questa cos’era? Ci stai provando? Guarda che se mio padre ti sente sono guai!»

   Lui le sorrise imbarazzato senza dire nulla. Quella provocazione lo aveva notevolmente spiazzato. Poi tornò a guardare il quadro per cercare di mantenere la calma e disse la prima cosa che gli venne in mente, decidendo di essere sincero.

   «Forse ne varrebbe la pena.»

Non fece a tempo a vedere la reazione della ragazza a quelle parole. Delle urla provenienti da fuori lo misero in allerta.

   «Che diavolo succede? »

Si precipitò alla finestra. La casa era situata a circa metà della strada principale del paese, che lo attraversava da nord a sud. Appena si affacciò al vetro vide quello che stava accadendo. Dall’accesso a sud stavano arrivando al galoppo delle grosse figure a quattro zampe, cavalcate da altrettanto imponenti cavalieri. La gente per strada stava fuggendo verso le abitazioni urlando. La campana d’allarme sulla cima del municipio, situato verso nord, cominciò a suonare all’impazzata.

   «Ci mancavano solo questi bestioni! »

Sguainò la spada e si diresse verso la porta.

   «La cosa positiva è che un po’ di movimento, dopo aver passato a letto una settimana, non può che farmi bene. Sephyr, una volta che sarò uscito, barrica la porta con quello che trovi e…»

Stava parlano nel vuoto, la ragazza era sparita.

   «Ma dove….?»

Ricomparve scendendo le scale. Si stava legando i capelli con un nastro. Alle mani aveva dei lunghi guanti di pelle con fasce in cuoio che proteggevano gli avambracci. Al fianco sinistro portava una faretra, piena di frecce dalle piume verdi, legata alla vita con una cintura e assicurata alla coscia con un laccio di pelle. Al fianco destro, infilato nella cintura, aveva un lungo e sottile coltello. A tracolla portava un arco di legno scuro. “Come cavolo ha fatto a indossare tutta quella roba in un secondo?” Pensò lui rimanendo a bocca aperta.

   «Qual è il tuo nome? »

Chiese lei, con tono deciso, avvicinandosi.

   «Cosa? »

Aveva capito la domanda, ma doveva riprendersi dalla sorpresa, per cui prese tempo. In effetti, non le aveva mai detto il suo nome, ma questa cosa, per il momento, era quella che lo sorprendeva di meno.

   «Come ti chiami? Se devo avvertirti di un pericolo, lì fuori, è più comodo se ti chiamo per nome. »

   “Questa ragazza è pericolosa” pensò, abbozzando un sorriso.

 

«Lind.»

 

   «Ok Lind, io mi piazzo sui tetti, tu cerca di fermarli dalla strada. »

Detto questo, aprì la porta e con un salto si aggrappò alla grondaia della piccola veranda su cui dava l’ingresso. Facendo perno con le braccia saltò sulla tettoia, con un perfetto stile da acrobata.

   «Niente male!»

Disse il ragazzo, volutamente a voce alta, dopodiché si lanciò fuori a sua volta e si piazzò in mezzo alla strada brandendo la spada con la mano sinistra, aveva intenzione di arrostirne qualcuno prima di passare all’arma bianca.

   «Stai attento, mi raccomando.»

Sentì la voce, sussurrata, ma non vedeva la ragazza. Evidentemente i geni della madre le avevano donato la capacità di mimetizzarsi quasi perfettamente nell’ombra, caratteristica per la quale gli elfi neri erano particolarmente temuti dalle altre razze. 

   «Stai tranquilla, non saranno certo questi quattro bifolchi a crearmi problemi. »

   Disse con tono eccessivamente spavaldo. Inspirò profondamente. Un grosso orco, a cavallo di un mostruoso lupo dal pelo rossiccio, stava arrivando di gran carriera nella sua direzione, brandendo un’enorme spada nera. L’avambraccio destro del ragazzo incominciò a brillare, dopodiché, dalla mano, iniziarono a sprigionarsi leggere fiamme. Alzò il braccio aprendo il palmo della mano nella direzione del nemico. Il movimento disegnò un arco di luce rossastra. Ormai il lupo e il suo cavaliere erano a pochi metri. Poteva ormai distinguere il colore giallo degli occhi dell’orco e quelli rosso scuro del lupo.

Improvvisamente le fiamme furono risucchiate nel centro del palmo e, subito dopo, con un rumore sordo si espansero formando un cerchio perpendicolare al suolo. Il lupo e l’orco diventarono immediatamente un'unica palla incandescente che, per un istante, sembrò fermarsi a mezz’aria, per poi esplodere fragorosamente illuminando a giorno la strada. L’onda d’urto dell’esplosione investì in pieno il ragazzo, facendolo volare all’indietro e cadere rovinosamente a terra a qualche metro di distanza.

   «Però! Questa non me l’aspettavo…non credevo di essere già così bravo!»

   Disse, ridendo, rialzandosi e massaggiandosi il fianco sul quale era caduto.

   «Mi sa che devo usarlo un po’ più da lontano la prossima volta. Che male…»

   La strada era cosparsa da brandelli di carne anneriti e un denso fumo aleggiava nell’aria come una fitta nebbia. Non fece a tempo a rimettersi in piedi che dalla coltre spuntarono altri due lupi con relativi cavalieri urlanti. Uno brandiva una mazza grossa come un’anguria, l’altro roteava una catena alla quale era appesa una palla di ferro. Impugnò la spada a due mani e decise che avrebbe sistemato prima quello con la mazza, anche perché era quello più vicino, sperando che nel frattempo l’altro non gli fracassasse la testa. Cominciò a correre incontro all’avversario, poco prima di essere travolto scartò di lato abbassandosi. Il fendente della spada troncò di netto la zampa anteriore destra del lupo, che crollò a terra guaendo e trascinandosi dietro il cavaliere. Restando in ginocchio il ragazzo alzò di scatto il braccio sinistro nella direzione in cui, secondo lui, doveva trovarsi in quel momento l’altro orco. Questa volta avrebbe usato meno energia e l’avrebbe concentrata nella testa del lupo, invece che sull’intero bersaglio, non aveva voglia di fare un altro volo. Aveva sbagliato i calcoli. Era più vicino di quanto pensasse e non avrebbe fatto in tempo a lanciare l’incantesimo, quindi imprecò e si apprestò a schivare l’attacco per poi usare la spada. Sentì qualcosa passargli sopra la testa e una freccia si conficcò nella fronte dell’orco. Un’altra lo sfiorò da sopra la spalla e trapassò da parte a parte la testa del lupo, che fece altri due passi e crollò a terra a meno di un metro da lui. Stava per girarsi e urlare a Sephyr di evitare di radergli il viso con le frecce, quando si accorse che l’orco che cavalcava il lupo azzoppato si era rialzato e stava per colpirlo con la sua mazzanguria. Fece partire un fendente laterale mentre, contemporaneamente, si alzava in piedi ed evitava l’attacco, ruotando su se stesso. La testa dell’orco cadde di lato, troncata di netto. Il corpo rimase un momento immobile per poi crollare a terra.

   «Quindi non sei così imbranato. »

Il tono della ragazza sembrava divertito. Continuava a non vederla, ma cominciava a percepirne la presenza sul tetto della casa alla sua destra, si era spostata per avere una visuale migliore, probabilmente.

   «Simpatica…grazie dell’aiuto comunque, ma potresti evitare di farmi sibilare le frecce nelle orecchie? A momenti prendevo un colpo. »

   «Mi dispiace, ma erano le traiettorie migliori dalla posizione in cui ero. I tuoi fuochi d’artificio stavano per farmi cadere e non ho fatto a tempo a spostarmi. Adesso smettila di lamentarti, abbiamo ancora da fare.»

   «Lo so, ce ne sono altri, ma se sono come questi, finiremo alla svelta. »

   Improvvisamente, sentì un brivido lungo la schiena. C’era qualcos’altro, oltre agli orchi. Il fumo dell’esplosione si era ormai diradato. Due cacciatori erano fermi davanti a lui, a un centinaio di metri, ma non sembravano intenzionati ad attaccare. La terra sotto i piedi del ragazzo cominciò a tremare al ritmo di colpi sordi. Gli orchi tirarono le redini dei lupi e fuggirono da dove erano arrivati. Una figura colossale stava invece avanzando verso di lui. Ad ogni passo l’intensità del tremore aumentava.

   «Lind! Cos’è questa cosa? »

La voce di Sephyr era spaventata.

   «Non ne ho idea, ma direi che è il caso di non farla avvicinare troppo. »

   Infilò la spada nel fodero e prese aria a pieni polmoni.

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Capitolo 7
*** Il Golem ***


7. Il Golem

 

L’enorme figura si avvicinava lentamente. Man mano che avanzava era sempre più facile coglierne le fattezze. Era alta quanto gli edifici che costeggiavano la strada, quindi sui quattro o cinque metri. Le gambe, del diametro di un grosso albero, ad ogni passo alzavano nuvole di polvere dalla strada. Le braccia, che penzolavano dalle spalle senza seguire il movimento degli arti inferiori, erano altrettanto imponenti mentre la testa, dalla quale s’intravvedeva il luccichio di due inquietanti occhi triangolari, sembrava piccola, in proporzione. L’intera figura, testa compresa, era ricoperta da una corazza di grigio metallo grezzo, mezza arrugginita, che non lasciava scoperte parti del corpo. Con la mano destra trascinava una scure proporzionata alle dimensioni del suo possessore. Dalle giunture dell’armatura sembrava che filtrasse un tenue bagliore azzurro, rendendo la figura notevolmente spettrale.

  «Lind! Fa qualcosa! Si sta avvicinando troppo! »

Contemporaneamente Sephyr scagliò una freccia che rimbalzò sull’elmo della cosa, senza che questa si scomponesse minimamente.

  Il ragazzo era immobile e osservava l’avanzata del gigante apparentemente senza fare nulla. Improvvisamente sbottò:

   «Il bastardo è ricoperto di metallo, non posso usare l’incantesimo di fuoco se non vedo parti organiche su cui mi posso concentrare! »

Stava disperatamente osservando il corpo del nemico per cercare di individuare anche la minima apertura nella corazza per incanalare l’energia. Non aveva più molto tempo, però.

   «Lascia perdere, ragazzo, non è un avversario per te!»

Corgh comparve improvvisamente da una strada laterale. Impugnava un enorme martello da guerra, con il quale si scagliò contro il mostro. Con una velocità impressionante, vista la stazza e l’età dell’oste, colpì con la sua arma il ginocchio destro del gigante, che cadde a terra alzando una nuvola di polvere e facendo tremare la terra.

   «Papà!»

Sephyr era saltata giù dai tetti e stava per correre incontro al genitore.

   «Ferma! Ragazzo, porta via da qui mia figlia e vedi di proteggerla come si vede, o il mio martello farà un’altra vittima oggi!»

Lind era allibito ma, vedendo che il gigante si stava già per rialzare, afferrò la ragazza per un braccio e la bloccò.

   «Corgh! Cosa diavolo sta succedendo? Cos’è quella cosa? »

   «Questo è un golem. E adesso smettetela di perdere tempo, andate via! »

   «Un cosa? »

   «Via! »

Il golem si era rialzato e aveva rivolto lo sguardo sull’oste, che nel frattempo si era messo in posizione di difesa. Il gigante sferrò un fendente improvviso, dall’alto in basso, con la scure. Incredibilmente Corgh riuscì a pararlo con il manico del martello. La violenza del colpo lo fece comunque cadere in ginocchio. Nella fasciatura che aveva sulla spalla, incominciò ad allargarsi una macchia di sangue.

   «Lasciami! »

Urlava Sephyr graffiando la mano del ragazzo nel tentativo di liberarsi dalla stretta che la stava tenendo ferma. L’oste, con una smorfia di dolore, si rialzò di scatto nel momento in cui il gigante stava per colpirlo di nuovo. Ruotando su se stesso, impugnando l’arma a due mani, sferrò un colpo nella parte posteriore della gamba sinistra del golem, facendolo cadere sulla schiena. Appena fu a terra, lo colpì con tutta la forza che aveva in corpo, sul viso. Il martello penetrò la corazza all’altezza dell’occhio destro e s’infilò all’interno della testa del mostro fino all’attaccatura con il manico. Le braccia del gigante ebbero un sussulto e poi rimasero inermi. 

   «Tuo padre sa il fatto suo, a quanto pare.»

La ragazza, vedendo che il golem era a terra inerme, si calmò. Lind le lasciò il braccio e incominciò ad avvicinarsi all’oste che stava osservando il corpo del gigante tenendosi la spalla sanguinante. Ansimava notevolmente e l’espressione non sembrava quella di chi avesse appena vinto una lotta impari, anzi.  

   «Ci sono molte cose che mi devi spiegare, vecchio.»

Corgh si girò verso di loro e, con espressione stupita, urlò:

   «Che cosa fate ancora qui? Stupidi! Andate via! »

Il braccio destro del mostro scattò improvvisamente e lo colpì in pieno. Il corpo dell’oste fu scagliato con violenza attraverso la finestra della casa vicina, mandando in frantumi il vetro e gli infissi di legno. Il gigante si stava rialzando, nonostante avesse ancora il martello piantato nel cranio. Il ragazzo si fermò di colpo, istintivamente estrasse la spada dal fodero, anche se si rese subito conto dell’inutilità del gesto. Sephyr scattò in avanti verso la finestra che aveva risucchiato il padre, incurante del fatto che il golem fosse ormai in piedi.

   «Fermati! »

Lind non fece in tempo, la sua mano sfiorò quella della ragazza senza riuscire ad afferrarla. Il gigante estrasse il martello che aveva infilato nell’occhio, con uno strattone. Dalla cavità, lasciata dall’arma, usciva la luce fredda e spettrale che filtrava dal resto dell’armatura. Nessun segno di sangue. Sephyr era ormai a pochi passi dalla finestra e ad altrettanti dal mostro. Il braccio del gigante si alzò brandendo il martello, era chiaro che il colpo sarebbe stato rivolto alla ragazza.

   «No! »

Il cuore del ragazzo ebbe un sussulto.

Il golem affondò.

   «Sephyr! »

Un istante prima di essere colpita in pieno, la ragazza fece una capriola all’indietro, mandando a vuoto il martello che si conficcò nella terra sollevando una nuvola di polvere e sassi. La ragazza ricadde in ginocchio e, con una velocità quasi innaturale, riuscì a scoccare una freccia direttamente nel buco sul volto del gigante. Il dardo penetrò perfettamente al centro dell’apertura e trapassò il cranio del mostro, uscendo dalla corazza nella nuca per qualche centimetro. Il bagliore nella cavità cominciò ad affievolirsi, fino a spegnersi. Il golem rimase immobile, con ancora la mano attorno al manico del martello.

   «Da dentro non era così resistente la tua corazza, bastardo! »

La ragazza si rimise in piedi e corse verso la finestra.

   «Papà! »

Si affacciò dentro la casa, Corgh era riverso in una pozza di sangue, immobile. Il braccio destro aveva una piega innaturale, evidentemente era spezzato. Lind, nel frattempo, l’aveva raggiunta.

   «Entriamo e portiamolo fuori di li velocemente. Non so perché, ma ho la netta sensazione che non sia ancora finita. »

Infatti, non appena Sephyr entrò nella stanza, un rumore alle loro spalle confermò il timore del ragazzo. Il gigante si era rialzato e il bagliore che proveniva dal suo interno era diventato di un rosso intenso.

   «Ma sei immortale? Tu rimani qui e pensa a tuo padre, io cerco di prendere tempo. »

Si girò di scatto e si mise a correre per allontanarsi dalla finestra.

   “E adesso cosa faccio?” Pensò mentre si allontanava.

Appena fu a una distanza che riteneva ragionevole, si voltò verso il golem per cercare di attirarne l’attenzione. Non ce ne fu bisogno.

Il gigante si era già mosso nella sua direzione e impugnava di nuovo la scure, i suoi movimenti sembravano ora più agili.

   «Cos’è? Ti sei offeso? »

Si mise in posizione di guardia, anche se sapeva bene che non sarebbe mai riuscito a parare un colpo di quella potenza.

   “Pensa in fretta o qui ci lasciamo le penne.”

Si guardò intorno per cercare qualche soluzione e il suo sguardo si fermò su delle casse che erano a una decina di metri, alle spalle del gigante. L’insegna del negozio, davanti al quale erano sistemate, diceva: “Thoma - Liquori e Tabacchi”. Da quella distanza non riusciva a leggere le scritte sulle casse, ma sperò vivamente che non si trattasse della fornitura mensile di sigari.

   “Ok, può essere un’idea, il problema, ora, è arrivarci.”

Non gli venne in mente nient’altro che lanciarsi a testa bassa verso il mostro, che aveva già alzato la scure per assestare un colpo.

   «Che idea del…»

Si lanciò, scivolando per terra con i piedi in avanti, nel tentativo di passare tra le gambe del gigante. Incredibilmente ci riuscì, ma i pantaloni non lo protessero granché dai sassi, per cui si ritrovò con la gamba sinistra graffiata e dolorante. Comunque ora aveva la strada libera. Si rialzò maledicendo il creato e corse verso il negozio. Arrivò con troppa foga e sbatté un ginocchio contro il legno.

   «Se va avanti così risparmierò a quel coso il disturbo di farmi fuori, perché ci penserò da solo…»

   Le casse, almeno, contenevano quello che sperava,solo che erano sigillate con chiodi grossi quanto ferri da calza.

   «Chiaro. Sperare che fossero anche aperte era troppo. »

Infilò la spada nel legno e incominciò a fare leva, fortunatamente non trovò troppa resistenza. Il golem, intanto, lo stava raggiungendo. Il coperchio della cassa cedette di schianto, il ragazzo mise una mano all’interno ed estrasse una bottiglia di vetro contenente un liquido trasparente.

   «Perfetto! »

Percepì il pugno e si spostò di lato. La cassa esplose in mille pezzi assieme al suo contenuto liquido, che si cosparse sul braccio e su buona parte del corpo del mostro. Nell’aria si diffuse subito un odore pungente. Lind era riuscito a portarsi alle spalle del gigante e quindi non fu investito dall’ondata di acquavite. Scagliò la bottiglia che aveva in mano contro la schiena del golem e fece un balzo all’indietro.

    «Adesso vediamo se la tua corazza è resistente anche al fuoco! »

Inspirò velocemente e diresse il palmo contro il bersaglio.

   “Forse sono troppo vicino…”

La vampata che lo investì fu talmente violenta da lasciarlo senza fiato. Un momento prima di perdere conoscenza, si rese conto che  stava volando all’indietro e che i suoi vestiti erano in fiamme.

   “Eh sì….troppo vicino.”

Sephyr era inginocchiata a fianco del padre e stava cercando di capire se fosse ancora vivo. Premette due dita all’altezza della giugulare e trattenne il respiro. Percepì un debole battito.

   «Meno male… »

Il lampo di luce fu talmente intenso da rischiarare a giorno l’interno della stanza. Subito dopo un violento spostamento d’aria, accompagnato da un cupo rumore di deflagrazione, la fece cadere a terra. La ragazza rimase immobile per un momento, si sentiva stordita, poi si rialzò e barcollò verso la finestra, dalla quale proveniva un bagliore rosso. Guardò fuori. L’aria era pesante e calda. La scena era impressionante, il golem era di nuovo immobile e avvolto da altissime fiamme, la corazza era incandescente e in alcuni punti sembrava che stesse colando metallo fuso. La facciata del negozio del vecchio Thoma era sparita e l’interno, lasciato scoperto, stava andando a fuoco. Ogni tanto si sentiva esplodere una bottiglia di whiskey, o di rum, sugli scaffali che erano ancora appesi al muro, a causa del calore. A qualche decina di metri Lind era a terra, aveva i vestiti bruciati e fumanti. Non accennava a muoversi. Nella mano destra stringeva ancora la spada.

   «No… »

Sentì gli occhi riempirsi di lacrime. Stava per arrampicarsi fuori dalla finestra quando, nonostante il caldo, il sangue si gelò nelle vene.

   Ancora una volta, il mostro aveva ripreso a muoversi.

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Capitolo 8
*** Simbiosi ***


8. Simbiosi

 

Aprì gli occhi e vide le stelle. Aveva il petto indolenzito, gli facevano male la schiena, la testa, la gamba sinistra e il ginocchio destro.  

   «Che botta…Speriamo che almeno abbia funzionato, perché per oggi ne ho abbastanza.»

Ripensò  alle parole del Maestro:

   «Ascolta bene! L’efficacia di un incantesimo di fuoco dipende, prima di tutto, dalla tua capacità di concentrare le ATP, ma un grosso contributo è dato, anche, dal livello di contenuto bio-energetico del bersaglio. Più questo è grande e maggiore sarà l’effetto finale.»

   Ecco quindi come gli era venuta l’idea dell’acquavite: avendo un altissimo contenuto calorico di origine vegetale, probabilmente era ottima come “bersaglio”. Purtroppo, non aveva fatto i conti con il fatto che, ultimamente, la sua capacità di concentrare l’energia era stranamente aumentata, e che quindi la reazione finale sarebbe stata superiore ai suoi calcoli. Provò a mettersi seduto, fece molta fatica e cominciò a tossire a causa del fumo. Fumo che gli usciva dai vestiti.

   “Ecco…altri abiti da buttare, sta diventando noiosa questa cosa.” Si guardò intorno per cercare di capire qual era la situazione, aveva gli occhi intorpiditi e gli girava la testa, faceva fatica a mettere a fuoco. Sephyr era affacciata alla finestra, dove l’aveva lasciata, e stava guardando qualcosa alla sua destra con un’espressione che non prometteva niente di buono. Seguì il suo sguardo. Il gigante, con l’armatura incandescente e fumante, stava camminando nella sua direzione. In qualche punto il metallo si era fuso, probabilmente dove era a contatto con l’acquavite, e il bagliore interno fuoriusciva attraverso i buchi che si erano formati.

   «Questo coso comincia veramente a farmi innervosire. »

Si alzò a fatica in piedi, cercando di ragionare in fretta. Cominciò a sentire un formicolio alla mano che stringeva la spada. La lama aveva iniziato a emettere una sorta di vapore luminoso e l’elsa sembrava che si stesse come divincolando leggermente nella stretta.

   « E adesso cosa succede? »

Improvvisamente sentì un dolore lancinante al palmo della mano. Qualcosa, uscito dall’impugnatura, gli si era conficcato nella carne. Cercò di aprire la mano, ma le ali che formavano il paramano si erano strette attorno al pugno e gli impedivano il movimento.

   « Ma che…  »

Gli occhi del drago brillavano di una luce rossa, la stessa luce che sembrava di aver visto quella notte di qualche anno prima.

Si sentì improvvisamente rilassato. Il dolore delle ferite e delle contusioni cominciava a diminuire. Dalla gamba, che si era scorticato poco prima, fuoriusciva un vapore azzurro. Chi lo stava curando? Possibile fosse la spada? Alla fine scomparve anche il dolore alla mano, sostituito da una sensazione strana. Era come se la lama fosse diventata parte di lui, come un’estensione del braccio.

Sephyr era a un passo dal panico completo. Il golem era ancora in piedi. Lind era a terra, sperava che stesse bene, voleva correre ad accertarsene, ma il suo corpo era come paralizzato. Suo padre era ancora vivo, ma non sapeva per quanto avrebbe resistito in quelle condizioni, doveva portarlo al più presto al sicuro e curarlo.

   « Cosa posso fare? »

Le lacrime le scendevano sulle guance, offuscandole la vista. Il gigante stava camminando verso Lind. Raccolse le forze che le erano rimaste e si girò verso il ragazzo. Avrebbe almeno cercato di avvisarlo. Non appena voltò lo sguardo vide quello che stava succedendo e il fiato, che aveva raccolto a fatica, le mancò. Lui era in piedi, avvolto dalla nebbia azzurra di un incantesimo d’acqua che scaturiva dalla gamba sinistra. Dalla lama della spada usciva un’altra nebbia, bianca e luminescente. La cosa che la colpì di più fu, però, il suo viso. La pelle era diventata scura e lucida, come se si fosse ricoperta di squame. Gli occhi luccicavano e le pupille sembravano essersi allungate e ristrette. Si asciugò le lacrime con una mano e rimase immobile. Il golem si bloccò di colpo, la luce azzurra che scaturiva dall’interno dell’armatura si fece più intensa, mentre il bagliore del metallo incandescente, che ormai si stava raffreddando, era più debole. Sembrava osservare quello che stava accadendo al ragazzo e ne fosse, in qualche modo, preoccupato. Improvvisamente scattò in avanti alzando il braccio destro per attaccare. Lind scartò a sinistra schivando il colpo e contemporaneamente fece ruotare la spada sopra la testa per poi assestare un fendente dal basso verso l’alto. La lama lasciava nell'aria una scia di luce bianca. Quando affondò nel metallo della corazza del gigante, fece esplodere una fontana di scintille. Il braccio fu troncato all’altezza del gomito. Il golem cercò di affondare con l’altro pugno. Questa volta il ragazzo rimase fermo. Fendente frontale, longitudinale, dall’alto in basso. Altra esplosione di scintille e la metà superiore sinistra del mostro, dalla testa al fianco sinistro, scivolò a terra. La luce azzurra, finalmente, si spense definitivamente e la corazza cadde a terra, frantumandosi in pezzi.


La stanza era vuota e immersa nella penombra, sulla sedia a fianco al letto Sephyr non c’era. Di questo fu deluso. Non provava dolore, era solo stanco e intorpidito. Ricordava tutto perfettamente fino al momento in cui la spada gli si era “saldata” alla mano, poi il vuoto. Si osservò il palmo, non aveva nessuna ferita o segno che testimoniasse l’accaduto. La spada era appoggiata alla testiera del letto. Questa volta non ebbe bisogno di cercarla, sapeva benissimo che era li. Si mise seduto, era nudo, ma questo se l’era aspettato, visto lo stato in cui erano i suoi vestiti. Impugnò l’arma, era sempre la stessa. Si alzò dal letto e si avvicinò alla finestra, era ancora (o di nuovo) notte. La luce della luna filtrava dalle tende, le accostò per farla entrare meglio. Alzò l’elsa della spada, ruotando con il polso la lama all’ingiù, per guardare il drago negli occhi.

   «Non so cos’hai fatto, ma sento che ti devo ringraziare.»

Nessuna reazione. Si girò per cercare qualcosa da mettersi addosso e andare fuori a vedere com’era la situazione. Era ansioso di sapere se Corgh stava bene. In quel momento la porta si aprì e Sephyr comparve sulla soglia con degli abiti piegati in mano. Alla vista del letto vuoto rimase sorpresa.

   «Ehm…»

Lind si era coprì le parti intime con la spada e cercò di arrivare al letto, con finta naturalezza, per coprirsi con le lenzuola.

   «Ma allora lo fai apposta!»

Gli lanciò contro i vestiti e si girò di spalle. Non indossava più l’abito blu, ma una casacca dello stesso colore, con una cintura di pelle in vita, e un paio di pantaloni aderenti grigi.

   «Scusa…»

Prese al volo gli abiti e cominciò a vestirsi.

   «Mi dispiace, gli ultimi hanno fatto velocemente una brutta fine.»

   «Non c’è problema, il gestore dell’emporio ce li ha dati gratis, come ringraziamento nei tuoi confronti. »

Finì di vestirsi e infilò la spada nel fodero.

   «Cos’è successo? Che fine ha fatto quel…golem? Tuo padre come sta?»

La ragazza si girò e lo guardò negli occhi.

   «Non ricordi? Sei stato tu a farlo fuori. Devo ammettere che mi hai fatto paura.»

   «Ricordo solo che quel bestione stava per attaccarmi di nuovo, poi il vuoto.»

Decise di sorvolare, per il momento, sul comportamento della spada.

   «Non sembravi più tu, anche il viso, gli occhi, sembrava che ti stessi trasformando in qualcosa di simile a un…rettile.»

Dicendo questo gli appoggiò una mano sulla guancia, per assicurarsi che fosse tutto normale. Il tocco caldo e morbido lo turbò. Sentì il cuore accelerare i battiti. La ragazza gli sorrise dolcemente.

   «Devi raderti, pungi.»

«Quanto sono rimasto a letto questa volta?»

   «Due giorni. »

«Sto migliorando. »

   Il suo profumo era sempre lo stesso, continuava a non ricordare qual era il fiore che avesse la stessa fragranza, ma la penombra della stanza gli suggerì un fiore notturno. Alla luce della luna il viso della ragazza era, se possibile, ancora più bello. L’atmosfera si era improvvisamente riscaldata e i pensieri del ragazzo incominciavano a prendere direzioni non proprio cavalleresche. Prese la mano di lei nella sua e si avvicinò. Corgh irruppe nella stanza. Aveva il braccio destro completamente fasciato e bloccato da delle stecche di legno, in testa aveva un’appariscente benda e zoppicava sorreggendosi con una stampella. L’irruenza non sembrava essere stata mitigata dalle condizioni fisiche.

   «Che cosa sta succedendo qui? Volete che prenda a calci entrambi?»

   Sephyr ritrasse la mano e si girò verso il padre.

«Smettila papà! Cosa ci fai in piedi? Torna alla tua poltrona, il dottore ti ha ordinato di non muoverti! »

   Nonostante il pessimo tempismo, era felice di vederlo sano e salvo. Quando l’aveva visto disteso a terra, aveva temuto il peggio. Doveva essere parecchio robusto per non aver subito grossi danni dal colpo che aveva ricevuto.

   «Sono contento di vederti in piedi, pensavo che fossi spacciato.»

L’oste gli lanciò un’occhiataccia torva.

   «Ti sarebbe piaciuto! Prima di avere il permesso di stare con lei dovrai passare sul mio cadavere, e come hai capito, dovrai fare meglio di quel maledetto demonio! »

   «Papà! Finiscila! Adesso vieni giù, dopodiché t’incateno a quella poltrona.»

   Lo trascinò fuori dalla porta senza voltarsi. Lind sospirò e li seguì giù per le scale.

 

   «Non avrei mai immaginato che avesse fin da subito una forza del genere. Non sarà rischioso? Potrebbe raggiungere presto il suo livello. »

   Il vecchio era vestito con una tunica nera e si sorreggeva con un bastone dello stesso colore. L’oggetto era avvolto dalle spire di un serpente con la bocca spalancata. Aveva lunghi capelli bianchi che ricadevano sulle spalle. Gli occhi, molto vivi, erano gialli e il viso era solcato da profonde rughe.

   «Non diciamo stupidaggini. Non hai visto che era in balia del suo simbiote? Era la spada che comandava, non lui. Per il momento non mi preoccupa, ma ora sappiamo che potrà esserci utile. » 

   L’uomo, decisamente più giovane, era di corporatura imponente. Indossava una leggera armatura grigia che ricopriva buona parte del corpo. Aveva i capelli corti a spazzola, di un rosso intenso, gli occhi verdi erano sormontati da due grosse sopracciglia dello stesso colore, mentre la barba a punta era nera. Impugnava una lunga lancia argentata, anch’essa avvolta nelle spire di un serpente. Dalla bocca di questo usciva la lama dell’arma. Le due figure si tenevano al riparo ai margini della foresta che ricopriva l’altura che dominava il villaggio. Più in basso, Lind aveva appena sconfitto il golem e si era accasciato al suolo privo di sensi. Sephyr stava correndo verso di lui e gli abitanti del villaggio stavano uscendo dalle case nelle quali si erano rifugiati.

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Capitolo 9
*** Rivelazioni ***


9. Rivelazioni

 

   “Mi sto dimenticando com'è la luce del sole...” pensò Lind scendeno le scale.

Corgh si stava sedendo, a fatica e sbuffando, sulla poltrona sotto il dipinto. Sephyr ravvivava il fuoco nel camino con un attizzatoio. Nessun personaggio bizzarro all’orizzonte.

   “Forse questa volta riuscirò a farmi spiegare qualcosa.”

Dopo aver evitato accuratamente lo scalino traballante, si diresse verso l’oste.

   «Siediti, ragazzo. Dobbiamo fare quattro chiacchiere. »

La baldanza di poco prima era svanita nel momento in cui si era seduto, il tono di voce era sommesso, evidentemente le ferite lo provavano. Prese una delle sedie accostate al tavolo e la mise di fronte alla poltrona. Si sedette e appoggiò i gomiti sulle ginocchia, incurvandosi in avanti e incrociando le dita delle mani, per far intendere che aveva tutta la sua attenzione. Sephyr aveva posato l’attizzatoio e stava appendendo la pentola sul fuoco.

   «Avete venti minuti per le vostre chiacchiere. »

Il giovane la guardò andare in cucina, sembrava non interessarle minimamente quello che il padre aveva da dirgli, e la cosa lo sorprese. Probabilmente conosceva già il contenuto della discussione. Riportò lo sguardo sull'oste. Per evitare l'ennesima sfuriata, sul fatto che non deve guardare sua figlia in quel modo, iniziò a parlare, anticipandolo.

   «Allora, riassumiamo: prima, degli stregoni fanno saltare in aria la taverna, il Maestro scompare e sembra che a nessuno importi più di tanto, poi un’orda di orchi mette a ferro e fuoco il villaggio, accompagnata tra l'altro da quel coso che tu hai chiamato golem. Tralasciando che tu e tua figlia sembrate abbastanza avvezzi a far fuori orchi e mostri in genere, direi che la situazione sia, a mio avviso, abbastanza preoccupante, anche perché, dettaglio non trascurabile, ho rischiato di rimanerci secco due volte!»

Aveva terminato il discorso, pronunciato tutto in un fiato, in un crescendo d'impeto. Corgh era rimasto in silenzio ad ascoltarlo con espressione neutra.

   «Hai finito?»

Il ragazzo lo guardò serio, riprendendo la calma.

   «Ho finito.»

L'oste rimase in silenzio per qualche secondo, come soppesando i propri pensieri. Cercò di sistemarsi meglio sulla poltrona, ma i movimenti gli erano difficoltosi, una smorfia di dolore gli si disegnò sul viso.

   «Sei messo peggio di come volevi farmi credere. A dire la verità mi ero stupito di vederti già in piedi, dopo quello che ti è capitato.»

Sephyr uscì dalla cucina e incominciò a preparare il tavolo per la cena.

   «Dovrebbe stare in assoluto riposo, ha un braccio e 4 costole rotte.»

Poi si rivolse direttamente al padre.

   «Non sei più un ragazzino, per cui vedi di stare tranquillo, altrimenti ti lego sul serio a quella poltrona.»

Corgh ringhiò qualcosa a voce bassa, sapeva che la figlia aveva ragione, ma non lo avrebbe mai ammesso.

   «Ti curerei volentieri, ma purtroppo non sono mai stato capace di usare un incantesimo d’acqua su qualcun altro.»

   «Lascia perdere, sto benissimo.»

Le smorfie di dolore sul suo viso confermavano il contrario.

   «Prima di tutto vediamo di chiarire una cosa: a noi tutti importa eccome del fatto che il Maestro sia scomparso, solo che sappiamo di cosa è capace e, di conseguenza, non c'è di cui preoccuparsi. Probabilmente, se non si è ancora fatto vivo, avrà le sue buone ragioni.»

   «Ma perché avete tutta questa fiducia in lui? Lo so bene che non è una persona qualsiasi, ma non era mai scomparso senza lasciare tracce. Sephyr mi ha detto che in passato vi ha aiutato, ma non so ancora in che modo. A me non ha  mai detto nulla.»

   «Non mi sorprende. Non è stata una bella esperienza, per nessuno. Ma è giusto che anche tu conosca questa storia, adesso.»

Appoggiò la testa allo schienale della poltrona, chiuse gli occhi, prese un lungo respiro e incominciò a raccontare.

   Era inverno quando arrivarono. La neve cadeva più abbondante che mai e il freddo congelava le ossa. Le cose nel villaggio, nonostante il clima, erano tranquille. Mia figlia aveva appena compiuto cinque anni e quel giorno stava tornando a casa. Era felice perché era la prima commissione che le affidavo da sola. Ricordo il suo sorriso quando le dissi di andare a prendere il pane nel negozio qui di fronte. Io ero un po' in ansia, ma era eccezionalmente coscienziosa, per la sua età, e dopotutto saranno stati si e no cinquanta metri. Io potevo vederla dalla finestra per tutto il tragitto, per cui mi decisi. Corse saltellando in mezzo alla neve fino al negozio, entrò e dopo poco ne uscì con il suo cestino di pane. Gli occhi le brillavano dalla gioia per quella, seppur piccola, responsabilità che suo padre le aveva dato. Strinse in braccio il cestino, non voleva far cadere neanche una pagnotta, e si avviò sulla strada del ritorno. Io la osservai da dietro le tende, non volevo che credesse che non mi fidavo di lei. Era a metà della via quando, dal nulla, comparvero. Erano tanti, a cavallo, la neve aveva attutito i loro passi e, quindi, non li avevamo sentiti. Banditi, tagliagole, mercenari. Un intero plotone della più bieca feccia proveniente dal confine. Io ero troppo concentrato a guardare la bambina e, quando li vidi, erano già dannatamente vicini e non feci a tempo a urlarle di mettersi a scappare. Uno dei banditi le tagliò la strada per fermarla e scese da cavallo, io uscii fuori di corsa, disarmato, mi interessava solo portarla in salvo. Il bandito s’inginocchiò davanti a lei, aveva una profonda cicatrice lungo tutto il viso e gli mancava un occhio, con voce roca e, sorridendo con denti neri, le chiese se poteva prendere uno dei suoi panini. Sephyr, nonostante la paura, disse che erano per la taverna e se lo voleva poteva venire a mangiare li. Al che il bandito estrasse un coltello e glielo puntò alla gola. La bambina era paralizzata dalla paura, non dimenticherò mai il terrore nei suoi occhi. Io, intanto, ero a pochi passi da loro e stavo urlando di lasciarla in pace. Uno dei banditi mi si parò davanti con il cavallo e mi colpì con una mazza alla testa. Ero stato troppo avventato, e quella fu la conseguenza. Caddi a terra, il colpo fu tanto forte quanto improvviso. Maledicendomi per la mia ingenuità stavo per rialzarmi, ma altri due banditi mi erano già addosso e m’immobilizzarono faccia a terra. Ero disperato, il sangue mi offuscava la vista. Improvvisamente il bastardo che stava minacciando la bambina si mise a urlare, la mano che impugnava il coltello stava diventando un pezzo di ghiaccio. In pochi secondi si trasformò in una statua. Riconobbi gli effetti di un incantesimo di ghiaccio, erano anni che non ne vedevo uno. Una figura incappucciata era comparsa a pochi metri da noi. Non poteva che trattarsi di uno stregone. Ma cosa ci faceva uno stregone lì?

   “Lasciate in pace questa gente e andatevene” disse.

I banditi che mi stavano tenendo fermo si scagliarono contro di lui. Fecero la stessa fine del loro compagno, prima ancora di estrarre le spade. Al che gli altri incominciarono a indietreggiare, spaventati. Si fece avanti colui che doveva essere il capo. Cavalcava un cavallo nero. Dal portamento era evidente che non era stato sempre un bandito, non era rozzo e ingobbito sulla cavalcatura, ma eretto e fiero. Probabilmente era stato un militare, forse un ufficiale addirittura. Indossava un mantello color porpora, una cotta di maglia e degli stivali lunghi fino alle ginocchia. I lunghi capelli neri erano curati, gli occhi scuri e penetranti. Scese da cavallo e tolse dal fodero sulla sella una corta balestra già armata, tolse la sicura e puntò l’arma sullo stregone.

   “Vediamo, cosa sarà più veloce, il mio dardo o le tue ATP?” Evidentemente sapeva con chi aveva a che fare e che, quindi, un attacco all’arma bianca contro un maestro d’incantesimi era un suicidio puro. La figura incappucciata restò impassibile. Le nuvole di vapore che uscivano da sotto il cappuccio cessarono. Aveva preso fiato. Un bagliore simile al riflesso del sole su una lastra di ghiaccio filtrava da sotto il mantello. La balestra si spostò improvvisamente, ora puntava Sephyr. Il maledetto era intelligente, sapeva che il suo avversario avrebbe potuto evitare la freccia e poi congelarlo, così invece lo prese di sorpresa. Il dardo partì. Lo stregone mosse un passo nella direzione della bambina, ma era troppo lontano. Con tutte le forze che avevo in corpo, mi lanciai in avanti e, fortunatamente, la freccia mi colpì il braccio trapassandomelo, ma così riuscii a salvare mia figlia. Intanto, vedendo che si era distratto e aveva interrotto la preparazione, il bandito estrasse a sorpresa una seconda balestra da dietro la schiena e scoccò il dardo. Lo aveva sottovalutato. Lo stregone schivò all’ultimo momento la freccia, che gli aprì uno squarcio sul cappuccio e, contemporaneamente, sferrò l’attacco. La mano del bandito incominciò a congelarsi. Con una freddezza che mai avevo visto in una persona, l’uomo estrasse la spada e si amputò il braccio all’altezza del gomito, per evitare che l’incantesimo si propagasse a tutto il corpo. La neve si tinse di sangue e l’uomo urlò dal dolore. Coprii gli occhi di mia figlia, ma era troppo tardi, aveva già visto tutto. Uno dei banditi si precipitò a fasciargli il moncherino per evitare che morisse dissanguato. Con la fronte imperlata di sudore si rivolse all’avversario:

  “Hai vinto tu, per il momento. Sei abile. Ma sappi che non finisce qui.”

  Risalì a fatica a cavallo e, prima di andarsene, si girò e disse con tono solenne:

   “Il mio nome è Nicodhem, signore di Caputargilis, qual è il tuo, stregone?”

  L’uomo si tolse il cappuccio.

“Mi chiamo Balham da Patmos.”

   Il bandito fece un cenno con la testa, in segno di saluto, e partì al galoppo, seguito da tutti i suoi uomini.

 

Lind aveva ascoltato in silenzio il racconto, ne era rimasto affascinato. Stava cercando di ricordare il periodo in cui si erano svolti quei fatti. A occhio e croce doveva essere stato poco prima dell’inizio del suo addestramento, effettivamente gli sembrava di ricordare che, il giorno in cui Shayra gli insegnò il suo primo incantesimo, il Maestro era appena tornato da un viaggio.

   «Da quella volta tornò spesso qui, ufficialmente ci diceva che veniva a trovarci, ma sotto sotto credo che lo facesse per controllare che quel tipo non tornasse a vendicarsi su di noi. Ma, in quindici anni, non si è mai fatto vivo.»

   «Pensi ci sia lui dietro a questa storia? »

Corgh assunse un’espressione pensierosa, abbassò la testa e si accarezzò le guance con la mano sinistra.

   «Non lo so. Qui stiamo parlando di stregoni e orchi, quello era un bandito, anche se dava l’impressione di essere qualcosa di più di un semplice tagliagole. »

   Il ragazzo si alzò dalla sedia e si avvicinò alla finestra. In strada erano ancora presenti le tracce della battaglia. L’armatura del golem era in mezzo alla strada, mentre l’emporio, distrutto dall’esplosione, presentava già segni di ricostruzione. Erano state sistemate delle impalcature di legno.

   «Ora spiegami cos’era quel mostro. »

«Non sono un esperto, ma la persona che conosce i dettagli non è qui, per cui ti dirò tutto quello che so. Era, come ti ho detto, un golem, un pupazzo fatto di metallo nel quale è stata trasferita l’anima di un essere vivente con un incantesimo. Solo alcuni stregoni particolarmente potenti sono in grado di farlo. »

   Lind si girò e lo guardò stupito.

«Che cosa? E chi potrebbe fare una cosa del genere? Rinchiudere una coscienza dentro un oggetto di metallo…è mostruoso. »

   «Hai ragione, ma perché questo avvenga, l’anima stessa deve esserne consapevole e acconsentire al trasferimento, per cui, se vogliamo, è una mostruosità volontaria. »

   «Perché qualcuno dovrebbe trasformarsi, intenzionalmente, in un pezzo di ferro? »

   «Potere. Hai visto anche tu quanto sia difficile far fuori quelle cose, in genere gli orchi sono i soggetti migliori. Anche quello che abbiamo affrontato, a giudicare dal comportamento, probabilmente una volta era un orco in carne e ossa. »

   Sephyr tolse la pentola dal fuoco e incominciò a versarne il contenuto nei piatti.

   «E’ pronto, ora basta con le chiacchiere. A tavola. »  

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Capitolo 10
*** Confidenze ***


 10. Confidenze

 

La cena scivolò via in silenzio. Lind stava rimuginando sui racconti di Corgh. Non aveva dubbi sul fatto che, prima di tutto, sarebbe andato a fare due chiacchiere con questo Nicodhem, ma non aveva idea di dove trovarlo. Non sapeva dove fosse questa Caputargilis, non ne aveva neanche mai sentito parlare, ma da qualche parte avrebbe trovato una mappa o qualcuno che lo sapeva. La cosa era alquanto rischiosa, probabilmente non era una buona idea andare a fare domande in un covo di banditi, ma non avendo altre piste da seguire era l’unica che gli venisse in mente. Sarebbe partito la mattina seguente, aveva però bisogno di recuperare le sue cose. Si domandò, solo in quel momento, se fossero ancora nella stanza della taverna che divideva con il Maestro.

   «Il vostro bagaglio è ancora nella camera, puoi andarlo a recuperare quando vuoi. » 

    Corgh sembrava avergli letto nel pensiero.

«Benissimo, grazie. Mi stavo giusto chiedendo se fosse ancora tutto li. »

   Sephyr incominciò a raccogliere le stoviglie, anche lei era rimasta in silenzio per tutta la cena, immersa nei suoi pensieri. Non ricordava volentieri quegli episodi, nonostante fossero passati molti anni. Per questo motivo aveva cercato di non ascoltare, senza successo, il racconto di suo padre.

   «Finisco qui e ti accompagno alla taverna. Ho bisogno di fare due passi e prendere una boccata d’aria.»

   Detto questo, sparì in cucina. L’oste lanciò un’occhiata assassina al ragazzo, che vide nuovamente l’espressione dell’orco capobranco. Poi, senza togliergli occhi di dosso, si rivolse alla figlia ad alta voce:

   «Mi sembra perfettamente in grado di arrangiarsi, non serve che tu lo accompagni. Poi lo sai che non mi va che esci quando è buio.»

La ragazza tornò nella stanza sciogliendo i capelli che erano legati con un nastro.

   «Non rompere papà, ti ho detto che ho bisogno di fare due passi, ne approfitto per controllare a che punto sono quei due con i lavori. E poi, cosa vuoi che mi succeda? Sono accompagnata da un potente stregone, no? »

   Fece l’occhiolino, sorridendo, a Lind. Il ragazzo sentì crescere la furia omicida dell’oste.

   «Sopravvivere a un golem e perire per mano di tuo padre non sarebbe molto onorevole, per cui, per favore, non esagerare. Senza offesa, Corgh. »

   La ragazza rise, dopodiché si avvicinò al padre e lo baciò sulla fronte.

   «Stai tranquillo, torno subito. Tu riposati.»

Prese sottobraccio Lind e lo condusse alla porta. Dietro di loro il ruggito sembrava quello di un leone in gabbia che osserva una preda da dietro le sbarre. Appena usciti in strada, Sephyr lo lasciò e incrociò le braccia dietro la schiena. Con espressione complice, si girò verso di lui camminando all’indietro.

   «Scusa, avevo voglia di fargli un dispetto! »

   «Figurati, non c’è problema. Mi sarebbe solo dispiaciuto dover sguainare la spada per difendermi. »

   «Stupido…»

Si mise al suo fianco e si avviarono verso la taverna. La notte era mite, la primavera era cominciata da poco, ma la temperatura era già piacevole, nonostante l’altitudine. La strada era deserta e le finestre delle case buie, evidentemente era molto tardi. Camminavano senza parlare. A un certo punto, come succede spesso dopo un silenzio prolungato, aprirono bocca entrambi nello stesso istante.

   «Sei brava con…» «Da quanto tempo…»

Sorrisero.

   «Prima tu. Precedenza alle signore.»

Disse Lind con tono forzatamente impostato.

   «La ringrazio, mio signore!»

Sephyr fece il gesto di piegarsi sulle ginocchia, tenendo con le mani un’immaginaria gonna larga, facendo il verso delle dame.

   «Da quanto tempo ti alleni per essere uno stregone?»

   «Quindici anni. Ne avevo sette quando Shayra, la moglie del Maestro, mi insegnò come eseguire un incantesimo. Da allora mi sono allenato ogni giorno. »

   «Deve essere stato faticoso.»

   «Abbastanza, ma almeno così mi sono tenuto occupato. Non avendo amici con cui passare il tempo, mi sarei annoiato a morte se non avessi avuto niente da fare.»

   «Davvero non hai amici? »

«Nel mio villaggio non sono mai stato ben visto, per cui…»

   «Perché sei uno stregone?»

«No, sono abituati ad averne intorno, il Maestro è sempre vissuto li, e lui è rispettato da tutti. Un po’ è per la mia strana caratteristica di essere quasi immune al fuoco e un po’ per il mio caratteraccio.»

   «Non mi sembra che tu abbia un carattere così terribile.»

Lind si fermò un secondo a testa bassa per riflettere. Effettivamente con lei e con suo padre si comportava in modo diverso rispetto al normale. Con Corgh, probabilmente, era perché lo terrorizzava e lo attirava allo stesso tempo. Vedeva in lui uno di quei personaggi burberi e paurosi delle fiabe che, alla fine, si scoprono essere buoni come il pane e dalla parte del protagonista. Con Sephyr, invece, era chiaro che ne era attratto, ma c’era qualcos’altro. Standole accanto provava sensazioni simili a quelle che aveva con Shayra. Lo faceva sentire bene, rilassato, senza quell’inquietudine perenne che saliva dalla pancia quando era in mezzo alle altre persone.

   «Che cosa c’è? Tutto bene?»

Lo stava guardando con espressione interrogativa.

   «Direi di si…»

Ripresero a camminare.

   «Ora tocca a te, cosa mi stavi dicendo?»

   «Giusto. Ti stavo facendo i complimenti per come usi l’arco, anche tu devi esserti allenata molto, vero?»

   «Dal giorno in cui quei banditi ci attaccarono. Ho giurato a me stessa che non avrei mai più avuto così paura. Ero terrorizzata e mi sentivo inerme, di fronte a quel coltello.»

   «Eri solo una bambina, cosa avresti potuto fare?»

   «Lo so, ma da allora ho deciso che sarei riuscita a difendermi da sola. Mio padre non avrebbe più dovuto rischiare la vita per me.»

   «I genitori esistono per questo, no? Per difendere i propri figli. »

Disse questa frase con una punta di tristezza, involontaria, nella voce. La ragazza se ne accorse.

   «Non hai mai conosciuto i tuoi?»

   «No. Non so neanche se siano vivi o morti. Fino a due anni ho vissuto in orfanotrofio, ma non ho ricordi di quel periodo, né dell’incendio che lo distrusse e di cui fui l’unico sopravvissuto. »

   «Mi dispiace. »

«Non c’è motivo, il Maestro e sua moglie sono stati degli ottimi genitori adottivi. Devo dire che non mi hanno mai fatto sentire la mancanza di un vero padre o di una vera madre. Soprattutto Shayra.»

   «Devi voler loro molto bene. Adesso capisco perché sei così in ansia per lui. »

   «Già. »

Era davvero così preoccupato? L’idea di abbandonare il villaggio, e soprattutto chi ci abitava, per andare in cerca del Maestro non gli metteva molta fretta. Anzi. Sarebbe potuto partire la sera stessa, ma non voleva. Se fosse stato il suo vero padre, sarebbe stato diverso? Scacciò per un momento quei pensieri.

   «Anche tuo padre non se la cava male in combattimento. Mi sembra di aver sentito dire che era un militare da giovane, giusto?»

   «Probabilmente l’hai sentito con il resto del discorso, vero?»

Il ragazzo si sentì in imbarazzo, era evidente che quelle voci poco lusinghiere le davano fastidio. La capiva, come darle torto?

   «Scusa, immagino che non tu sia molto contenta di quello che si dice. »

   La ragazza incrociò le braccia sul petto e assunse una deliziosa aria imbronciata.

   «Sono solo voci di gente ignorante e invidiosa. Mia madre amava mio padre, però è vero che stava fuggendo dal suo popolo. Essendo figlia di una sacerdotessa della luce avrebbe dovuto sposare uno dei nobili della città, ma non ne aveva nessuna intenzione. Mio padre era una guardia di Southill, che si trova ai confini della Foresta Nera. S’incontrarono una notte in cui pioveva molto forte, mia madre era scappata di casa e non sapeva dove andare, lui le offrì riparo nella sua guardiola. Io fui concepita quella notte stessa, si sposarono poco dopo. In seguito, a causa di questo matrimonio, ci furono dei problemi con i membri della famiglia di mia madre e con gli elfi in generale, per cui preferirono trasferirsi qui, lontano da tutti. Da quanto ne so erano molto felici. Mia madre se ne andò quando ero molto piccola, io ne ho un ricordo molto vago. Per fortuna conosco il suo aspetto grazie a quel quadro. Mio padre mi disse che, se avesse potuto, non se ne sarebbe mai andata, ma purtroppo non dipendeva da lei. Io gli credo. »

   Erano ormai arrivati alla locanda. Le porte erano chiuse, ma dalle finestre filtrava la luce traballante di una lanterna.

   «Quei due pasticcioni devono essersi addormentati con la luce accesa. »

   Aprì la porta. L’interno della taverna era immerso nella penombra, appoggiata su di un tavolo, accanto a una delle finestre, c’era la lanterna che emanava una debole luce. Il pavimento era ricoperto dalla polvere, probabilmente dovuta ai lavori di restauro. Il resto dei tavoli erano accatastati a ridosso di una parete, insieme alle sedie e alle panche. In mezzo alla sala c’erano dei bidoni, probabilmente di vernice o malta, sui quali erano appoggiate delle bottiglie vuote. Accanto ai bidoni due fagotti, dai quali proveniva un russare sordo. Non c’erano segni di danni nel resto della stanza, probabilmente avevano finito il lavoro prima di addormentarsi, ubriachi, a giudicare dalle bottiglie e dal forte odore di alcool che aleggiava nell’aria. La ragazza si rivolse a Lind sussurrando:

   «Prendi la lanterna e sali di sopra, io ti aspetto qui. Fai piano, è meglio non disturbarli, non sono molto simpatici quando vengono svegliati.»

Il ragazzo prese il lume e si avviò verso le scale che salivano alle camere. Passando affianco ai due fagotti sbirciò per cogliere l’aspetto delle misteriose figure. La luce della candela era debole, ma riuscì a distinguere le lunghe orecchie a punta e i nasi pronunciati.

   “Folletti! Ci credo che il sindaco era contrario a farli lavorare, se esiste una razza assolutamente poco affidabile su qualsiasi cosa è esattamente quella dei folleti dei boschi. Chissà perché Corgh ha deciso di utilizzarli. Certo, sono economici, a loro il denaro non interessa, basta fornire acquavite e cibo e fanno qualsiasi cosa. Il problema è come la fanno. Mah.”

   Facendo più in silenzio possibile, attraversò la sala e salì le scale al piano di sopra. Le stanze della locanda erano solo quattro, lui e il maestro occupavano quella in fondo al corridoio, che dava sul retro. La porta della camera era chiusa, sperava che in realtà fosse solo accostata, perché non aveva idea della fine che avesse fatto la sua chiave e aveva ancora meno voglia di tornare di sotto per chiederla a Sephyr. Fortunatamente era aperta. Entrò e si accorse subito che c’era qualcosa di strano. Sul suo letto c’era lo zaino, chiuso, come si ricordava di averlo lasciato. Ricordava, però, che quello del Maestro era appoggiato alla parete della stanza, accanto alla porta, quando erano usciti. Ora era sparito. Si guardò intorno per vedere se si ricordava male, ma niente. Qualcuno lo aveva portato via, ma chi? Poi si accorse che la finestra era aperta e il vetro rotto. Quel qualcuno era passato da lì. Guardò fuori. Erano solo pochi metri dal suolo, e un albero era proprio li davanti, un gioco da ragazzi per chiunque introdursi nella camera. Inoltre la locanda confinava con la foresta. Altrettanto gioco da ragazzi sparire nella macchia. Ma perché portare via solo uno degli zaini? A che scopo? A meno che non fosse stato il legittimo proprietario a farlo.

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Capitolo 11
*** Folletti e cinghiali ***


11. Folletti e cinghiali

 

Mise a tracolla lo zaino, uscì dalla stanza e scese le scale. Gli venne voglia di svegliare i due manovali per chiedergli se avessero visto o sentito qualcosa di strano mentre erano li. Poi rifletté sulla cosa e concluse che sarebbe stato inutile, per cui decise di evitare la scocciatura di sorbirsi le intemperanze di quelle creature. Sephyr lo aveva avvisato, ma sapeva bene che un folletto infastidito era quanto di più irritante ci potesse essere. Era stato scottato, in tal senso, quella volta che il Maestro ne aveva ingaggiato uno come giardiniere. L’avesse mai fatto. L’aveva incontrato tornando da scuola, in un pomeriggio d’estate di qualche anno prima. Arrivato al vialetto di casa, si accorse che una figura piccola e ricurva stava armeggiando con i cespugli che si trovavano sul lato est del giardino. Incuriosito, si avvicinò e si accorse che la figura in questione era un folletto, armato di forbicioni, e stava potando i fiori.

   «Buongiorno! »

Forse aveva esagerato con il volume della voce ma tant’è che la reazione del giardiniere fu quanto mai inaspettata. Si girò di scatto con le forbici in mano e gli occhi fuori dalle orbite.

   «E tu chi è? Cerca guai? Ghrob da a te guai! Indietro! Vuoi che buca pancia con forbice? »

Aveva fatto un balzo indietro, sorpreso e spaventato.

   «Calma…Ghrob, giusto? Ti stavo solo salutando, mi chiamo Lind e abito qui. »

   Il folletto lo guardò storto.

«Non interessa me se tu abita qui, tu non deve dare fastidio a me, capito? »

   «Va bene, mi dispiace, me ne vado subito. »

Girò sui tacchi e si diresse verso la porta di casa, bofonchiando su quanto fosse maleducato.

   «Io sentire te! Sta attento a quello che dice, altrimenti Ghrob si arrabbia davvero, capito? Non venire più a disturbare Ghrob! »

   «Va bene, va bene, ho capito! »

   «Ghrob è qui per lavorare, non ha tempo per stupidi ragazzini. Ghrob deve tagliare piante e sistemare giardino. Ghrob vuole essere lasciato in pace. Se stupido ragazzino da fastidio a Ghrob, Ghrob non finisce il lavoro! »

   «Ti ho detto che ho capito! Adesso entro in casa e ti lascio in pace.»

   «Ecco! Stupido ragazzino fannullone va in casa e Ghrob lavora, trova te qualcosa da fare invece di dare fastidio a Ghrob!»

   «Veramente sarei appena tornato da scuola…»

   «Allora ragazzino va a studiare e non infastidisce Ghrob. Ghrob non è andato a scuola. Ghrob sempre lavorato come mulo. Stupido ragazzino non ha rispetto per chi lavora!»

   «Ma se ti ho solo salutato?»

«Tu hai spaventato Ghrob, fatto apposta, io so! Stupidi ragazzini tutti uguali! Sempre fare scherzi a…»

   Sbatté la porta alle sue spalle entrando in casa. Decise di lasciar correre e si diresse verso la cucina per farsi un panino. Il Maestro e Shayra non c’erano. Si sedette a tavola, davanti alla finestra. Sistemò pane, salame e una caraffa di acqua fresca. Si versò un bicchiere e incominciò a bere.

   Il folletto si affacciò dalla finestra.

   «Ecco! Il ragazzino mangia mentre Ghrob lavora! Prima disturba Ghrob e poi si riempie pancia alla faccia sua! Ragazzino crudele! »

L’acqua gli andò di traverso, tossì e sputò a fontana su pane e salame. 

   « Il ragazzino non è capace di bere e spreca acqua, mentre Ghrob muore di sete e fame lavorando. »

   Senza girarsi e aprire bocca appoggiò il bicchiere, si alzò e si diresse verso il bagno. Si spogliò e s’infilò nella vasca. Appoggiò la testa sul bordo, incrociò le gambe fuori dall’acqua e sospirò. Cominciava a rilassarsi. La sagoma del molesto essere comparì alla finestra, attraverso le tende.

   « Adesso fa bagno! Mentre Ghrob sta sudando e faticando per lui! Ragazzino è insensibile! »

   Scivolò dentro l’acqua con la testa, rischiò di affogare non riuscendo a riemergere poiché le mani scivolavano. Alla fine ce la fece e tossì per un paio di minuti. Cominciava ad averne abbastanza. Si asciugò in fretta, s’infilò i vestiti e salì in camera sua. Almeno lì non sarebbe potuto arrivare. La stanza era rovente, il sole fuori era ancora alto e la finestra era chiusa. La spalancò per far passare un po’ di aria e si distese sul letto. Dopo qualche minuto, cullato dal canto delle cicale e dal frusciare delle foglie sugli alberi, stava per appisolarsi, quando, dalla finestra, giunsero le urla.

   « Ragazzino cattivo si riposa! Ghrob si rompe schiena e lui dorme su comodo letto! Ghrob sfortunato a incontrare persone così! »

Spalancò gli occhi e digrignò i denti.

   «Adesso basta… »

Scattò in piedi e tolse la spada dal suo fodero, appeso al muro, e si precipitò giù dalle scale. Uscì in giardino come una furia brandendo l’arma e si diresse verso il folletto, che aveva ricominciato a potare sempre borbottando qualcosa, con sguardo omicida. Un secondo prima di affondargli la lama nella schiena, fu investito da un’onda d’urto e scaraventato a terra. Il Maestro era arrivato appena in tempo. Non sa se si sarebbe pentito di quello che stava per fare. Fortunatamente, dopo quell’incidente, fu deciso che, per il bene di tutti, sarebbe stato meglio se Ghrob si fosse tenuto a distanza dal giardino e da lui. Si accorse che, ripensando a quei fatti, aveva messo la mano sull’elsa della spada e stava osservando il collo di uno dei due addormentati, quello che sembrava più somigliante al molesto giardiniere.

   “Non ne vale la pena…”

Tolse la mano dall’impugnatura dell’arma e si diresse verso la porta della locanda. Poco prima di uscire uno dei due folletti grugnì e si agitò nel sonno. Per un secondo ebbe il terrore che si fosse svegliato e si bloccò. Fortunatamente era un falso allarme, uscì in strada. Fuori, Sephyr lo stava aspettando seduta sui gradini della veranda. Quando lo sentì aprire la porta si alzò.

   «Tutto a posto? »

   «Non proprio, c’è qualcosa di strano, come se non bastasse quello che è successo finora. »

Al che gli venne un’idea.

   «Riusciamo ad arrivare sul retro della locanda, dove si affaccia la finestra della nostra camera? »

La ragazza lo guardò sorpresa.

   «Certo, bisogna arrivare alla fine della strada e poi tornare indietro costeggiando la foresta, perché? »

   «Devo provare a scoprire chi ha portato via lo zaino del Maestro.»

«Cosa? E perché qualcuno avrebbe dovuto rubarlo?»

   «Non lo so, ma ormai evito di stupirmi di qualsiasi cosa. Andiamo, accompagnami. »

   S’incamminarono verso il municipio, situato vicino all’entrata nord del paese. Gli edifici erano costruiti, lungo entrambi i lati della strada, attaccati uno all’altro, per cui l’unico modo di accedere al retro era girare intorno all’ultimo, passando per la piazza del palazzo comunale. Nel centro della piazza capeggiava una grossa statua di bronzo, posta sopra un basamento di pietra bianca. Raffigurava un uomo in atteggiamento fiero, come sono in genere rappresentati i famosi condottieri, ma vestito come il sindaco: tunica con cappuccio, camicia e scarpe pelose. Lind si fermò a osservarla. Anche il viso era somigliante a quello del sindaco. Sephyr lo anticipò.

   «Si, è lui. Usanza alquanto discutibile del paese. Viene eretta una statua ad ogni nuovo primo cittadino, utilizzando il metallo di quella precedente. La tradizione vuole che la cosa sia nata poiché non c’è nessun nome sulla targa fissata al basamento, infatti, quella è la stessa da secoli. La scritta recita solo “Eminente sindaco di Pineswood”. L’ego umano ha fatto il resto. »

   «Questa mi mancava… »

Ripresero il cammino, costeggiarono la piazza e presero il viottolo sterrato che passava tra le case e la foresta. Quasi nessuna delle abitazioni aveva una porta da quella parte, d’altro canto non ce ne era granché bisogno, il terreno era quasi immediatamente ripido e gli alberi erano molto fitti, per cui, anche volendo, non si sarebbe potuto ricavare un minimo di giardino. Tutte, invece, avevano finestre che davano sulla foresta.

   «Qui dobbiamo fare piano. Questo lato è il più riparato sia d’inverno che d’estate, quindi le stanze da letto sono tutte da questa parte.»

   La ragazza parlava sottovoce e camminava senza fare rumore. “Ecco un’altra caratteristica che ha ereditato dalla madre” pensò Lind che, invece, ad ogni passo schiacciava un ramoscello o faceva rotolare dei sassi.

   «Ok, ma se non vedo dove metto i piedi è difficile… »

Infatti, la luce della luna era coperta dai tetti delle case, per cui il buio era quasi totale. Dopo qualche metro il ragazzo inciampò in qualcosa, che poteva essere una radice o una roccia che spuntava dal terreno, e, senza rendersene conto, urlò un improperio cadendo a terra. Immediatamente si accese la luce della camera sotto alla quale si trovavano, si spalancò la finestra e una secchiata d’acqua lo investì in pieno mentre si stava rialzando. Sephyr riuscì a scansarsi in tempo e non le arrivò addosso neanche una goccia.

   «Oh, Sephyr, sei tu tesoro?»

La vecchia alla finestra indossava un camicione da notte bianco, quasi della stessa tonalità dei capelli, imprigionati da dei bigodini.

   «Sì, signora Vinn. Mi dispiace se l’abbiamo svegliata.»

La signora Vinn guardò nella direzione in cui aveva lanciato l’acqua e vide Lind che, fradicio, stava strizzando la camicia. Dopodiché si rivolse nuovamente alla ragazza.

   «Pensavo fosse il solito cinghiale che viene tutte le notti a cercare cibo da queste parti. Mi tiene sveglia con i suoi grugniti e facendo baccano raspando nella terra. Mi dispiace, giovanotto.»

Ecco, scambiato per uno stupido cinghiale. Se trovo quell’ungulato, me lo faccio alla griglia.” 

   «Non c’è problema signora, per fortuna non fa freddo, tra poco sarò asciutto. E poi è stata colpa mia che sono inciampato e ho fatto rumore. »

   «Comunque, ragazza mia, ci sono posti più comodi dove portare un uomo. Qui dietro è pieno d’insetti e animaletti selvatici, la prossima volta trovatevi una stanza, va bene tesoro? Ah, e stai tranquilla, io non ho visto nulla. »

Detto questo, chiuse la finestra e spense la luce. Sephyr non fece a tempo a ribattere.

   «Ma, veramente… »

Lind era rimasto di sasso.

   «Ok, spero che sia una persona di cui fidarsi, perché, se arrivano strane voci a Corgh, io sono sul serio un uomo morto, questa volta.»

   «Mi sa di si… »

Non era riuscito a capire se scherzasse o no, ma a giudicare dal tono, temeva che la seconda possibilità fosse quella esatta.

   «Vedi di stare attento adesso, evitiamo altri guai, va bene?»

La ragazza riprese a camminare verso il retro della locanda, senza fare il minimo rumore, lui la seguì camminando rasente ai muri, tenendo una mano in avanti e tastando il terreno, ad ogni passo, con la punta dei piedi. Finalmente, dopo un tempo indefinito, arrivarono sotto le finestre della locanda. Lind si tolse lo zaino e lo appoggiò al muro.

   «E adesso cosa vuoi fare? Con questo buio è impossibile vedere delle tracce, forse avremmo dovuto aspettare la luce del sole. »

Il ragazzo controllò di essere esattamente sotto la finestra della loro camera, si girò verso il bosco e s’inginocchiò posando una mano a terra.

   «Se mi riesce questa cosa, le tracce le vedremo ancora meglio, con il buio. »

   Chiuse gli occhi e inspirò profondamente. Dopo qualche secondo, la mano che era appoggiata a terra incominciò a brillare di una luce calda e color dell’oro, sembrava si fosse ricoperta di sabbia illuminata dal sole. Il bagliore incominciò a estendersi sull’erba e sulla terra. Man mano che si espandeva, questa specie di sabbia cominciava a modellarsi in figure luminose che prendevano vita. Una grossa mosca volò da un ciuffo d’erba, uno scoiattolo si arrampicava sull’albero, un uccello becchettava nella terra alla ricerca di semi. Muovendosi lasciavano scie di luce e tutto intorno il bagliore illuminava la notte. Queste forme restavano visibili fintantoché erano all’interno dell’area creata dalla mano del ragazzo, appena ne uscivano scomparivano, dissolvendosi. Sephyr era incantata dallo spettacolo. Aveva gli occhi sbarrati e sorrideva avvicinandosi a quelle creature. L’uccello prese il volo nella sua direzione, cercò di toccarlo con una mano, ma si dissolse in una fontana di scintille. Lind, senza togliere la mano da terra, incominciò a spiegare.

   «Tutti gli esseri viventi, quando si muovono, rilasciano energia nello spazio che li circonda. Questa energia rimane immagazzinata nella terra per qualche tempo. Utilizzando questo particolare incantesimo sono in grado di renderla visibile. Se non sono passati troppi giorni, dovremmo riuscire a vedere anche chi è uscito dalla camera con lo zaino del Maestro.»

«Incredibile. Questa è una delle cose più belle che abbia mai visto. » 

   «Effettivamente l’effetto scenico è notevole. Con il buio, poi, è anche meglio, te l’avevo detto no? »

   Una grossa figura stava prendendo forma.

«Ci siamo! »

   Un cinghiale che raspava la terra e si guardava intorno.

«Ah no, questo è l’amico della signora Vinn.»

Improvvisamente, l’animale luminoso guardò verso l’alto e fuggì. Un’altra figura si materializzò, questa volta più grande. Un uomo che portava uno zaino sulle spalle. Era vestito con una tuta aderente, aveva delle protezioni sugli avambracci e sugli stinchi. Sulla testa portava un cappuccio che lasciava scoperti solo gli occhi. Con movimenti leggeri e furtivi, si diresse verso l’interno della foresta, svanendo. L’aspetto minaccioso dell’apparizione aveva spezzato la magia del momento. La sabbia rifluì verso la mano del ragazzo e tutto tornò nelle tenebre.

   «E quello chi era? »

Lo stregone si alzò in piedi con espressione seria e preoccupata.

   «Non ne ho idea, ma di sicuro non era il Maestro. »

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Capitolo 12
*** Il sogno ***


12. Il sogno

 

Avevano percorso la strada del ritorno in silenzio. La vista di quella misteriosa figura aveva turbato entrambi. Chi era? Cos’aveva a che fare con il Maestro? Era stato lui a farlo sparire? Se era stato lui, non doveva essere un semplice ladro, riuscire a sopraffare uno stregone esperto non era cosa da poco. L’inquietudine ricominciò a salirgli dalla pancia.

  “Non va bene” pensò.

“Non va bene per niente. Non devo perdere altro tempo. E’ ora che vada in cerca di quello stupido.”

   Sarebbe partito immediatamente, senza nessun indugio. La notte stava diventando meno buia, il cielo dietro le montagne cominciava a brillare di una calda luce rossa. “Finalmente la luce del sole.” Pensò. Arrivarono davanti al portico della casa senza scambiarsi una parola. Era il momento di congedarsi. Il ragazzo appoggiò lo zaino vicino alla porta e disse, con voce neutra:

   «Abbiamo fatto molto tardi, dovresti andare a riposarti. »

«Effettivamente sono un po’ stanca, ma è stata una passeggiata piacevole, nonostante il finale inquietante. Grazie. »

   Rispose lei sorridendogli. La brezza mattutina le scompigliava i capelli e la luce dell’alba illuminava il suo viso, facendole brillare gli occhi. La sicurezza e la determinazione di qualche secondo prima svanirono all’istante, accompagnate dall’inquietudine.

   “Posso aspettare ancora un po’.” Pensò lui vergognandosi della sua debolezza, ed entrarono in casa.

Corgh era ancora sulla sua poltrona, la testa reclinata di lato e le gambe appoggiate su una sedia. Russava della grossa. Lind, a quel punto, avrebbe voluto chiedergli subito se aveva idea di chi potesse essere quel misterioso ladro, ma vedendolo così pacifico cambiò idea e decise di lasciarlo riposare. Sephyr prese una coperta da un cesto affianco alla credenza e lo coprì. L’oste borbottò qualcosa nel sonno e girò la testa dall’altra parte. Il fuoco nel camino si era spento e la stanza era illuminata solo da una delle lanterne appese al muro e dal debole bagliore che filtrava dalla finestra.

   «Ora credo che seguirò il tuo consiglio e andrò a riposarmi. Tu puoi usare la solita stanza al piano di sopra, se vuoi. » Disse la ragazza sussurrando.

   «Grazie, ne approfitto volentieri. Volevo chiedere ancora un paio di cose a tuo padre, ma posso aspettare. Non credo che riuscirò a dormire, però, mi sono appena svegliato dopotutto. Anche se, devo dire, non mi sento ancora molto in forze. »

   Mentì, ma così aveva la scusa buona per ritardare il momento della partenza.

Salirono le scale in silenzio, la camera della ragazza era di fronte a quella in cui si era risvegliato due volte.

   «Buon riposo. » Le disse aprendo la porta. Sephyr, senza girarsi, lo fermò.

   «Lind. »

«Dimmi. »

   «Non provare ad andartene senza salutarmi, chiaro? »

Detto questo, entrò nella stanza. Lui rimase qualche secondo a fissare la porta chiusa. La immaginò mentre si spogliava per infilarsi a letto. La perfezione di quel corpo nudo, svelato lentamente nella penombra della stanza. Per un istante vide, nella sua mente, la scena in cui sfondava la porta con una spallata e le saltava addosso. Mezzo sorriso si dipinse sul suo volto. Poi la fantasia continuava con Corgh che, svegliatosi di soprassalto con il rumore, piombava nella camera e vedeva quello che stava facendo. A quel punto si tramutava in un orco dalla pelle verde, si scagliava su di lui con il martello e gli spappolava il cranio, spalmandone il contenuto sul muro. Il sorriso svanì.

   “Meglio che mi dia una calmata…”

Entrò in camera e chiuse la porta. Si sedette sul letto. Un’improvvisa stanchezza lo investì, lasciandolo sorpreso. Strano, fino a un secondo prima si sentiva bene. Forse era vero che non aveva ancora recuperato le forze, o forse, aveva esagerato con quell’incantesimo. Non gli era mai riuscito così bene, ora che ci pensava. Slacciò il mantello e la fibbia del fodero. Si stese, e non appena appoggiò la testa sul cuscino, piombò in un sonno profondo.

   Era solo. Era disteso sulla schiena. Il calore che avvertiva era piacevole, si sentiva tranquillo. Intorno a lui era buio, ma non aveva paura. Improvvisamente l’oscurità era lacerata da un bagliore. Che cosa stava succedendo? Qualcuno, o qualcosa, lo sollevava. Il calore si affievoliva e si trasformava in gelo. Incominciava ad agitarsi. Stringeva più forte quello che aveva in mano. Era duro e ruvido, ma il suo contatto lo aiutava a calmarsi. Si stavano muovendo velocemente, percepiva l’aria sul viso e sulla pelle. Sentiva dei rumori dietro di loro, voci? Il freddo era sempre più pungente. Poi, un intenso calore e odore di fiamme. Un’enorme zampa squamata con possenti artigli neri lo stava per afferrare. Si svegliò di soprassalto, sudato. Stava stringendo il fodero della spada. Il bagliore rosso negli occhi del drago stava affievolendosi, fino a sparire del tutto.

   «E questo, che significa? »

Disse, con voce affannosa, rivolto all’arma. La stanza era immersa nella luce che proveniva dalla finestra. Quanto aveva dormito? Doveva essere giorno inoltrato, oramai. Si mise seduto e aspettò che il cuore smettesse di battergli all’impazzata nel petto. Si sentiva a pezzi. Aveva bisogno di respirare, si alzò e si diresse verso la finestra. La spalancò e l’aria frizzante lo investì, dandogli immediatamente una sensazione di sollievo. Non doveva essere così tardi, dopotutto, il sole non era molto alto. Guardò in strada. L’attività del paese, di giorno, era notevolmente più fervida, rispetto la sera. I negozi erano tutti aperti e, davanti a essi, gruppetti di signore si accalcavano per assicurarsi la frutta o la verdura migliore o per il taglio più magro di carne che il macellaio stava affettando. Nel cantiere del negozio di liquori, un paio di uomini in tuta da lavoro stava sistemando i nuovi mattoni della facciata. Forse sarebbe dovuto andare a scusarsi con il padrone, aveva paura, però, di prendersi una sfuriata. Avrebbe chiesto consiglio a Corgh. Gruppetti di bambini, con i loro zaini in spalla, saltellavano verso la scuola, rincorrendosi e ridendo. Una quantità di altre figure camminava e conversava tranquilla, sembrava impossibile il fatto che, qualche ora prima, quella stessa strada aveva visto la battaglia tra uno stregone e degli orchi, oltre alla furia distruttiva di un golem. A proposito: non vedeva i resti del gigante. Li avevano già rimossi. Avrebbe dovuto controllarli la sera prima. Sperava che non avessero già fatto una brutta fine in una fonderia, anche se dubitava che qualche fabbro avesse usato volentieri il metallo di quella cosa, era più probabile che li avessero semplicemente spostati. Un gruppetto di ragazzi, presumibilmente della sua età, stava conversando proprio sotto la finestra. Tra di loro riconobbe Sephyr. Un biondino, dal fisico atletico e piuttosto belloccio, vestito con abiti che avrebbero potuto essere da caccia, le stava parlando con fare sicuramente confidenziale. Sembrava stesse facendo qualche battuta, alla quale la ragazza rideva di gusto. Un vago senso di gelosia lo assalì. Scese gli scalini due a due, sbagliando i calcoli, in quanto il maledetto scalino scivoloso era proprio a un multiplo pari, per cui finì la discesa sul sedere e sbattendo la spalla contro il muro. In qualche modo si rialzò e si diresse, massaggiandosi la contusione e invocando qualche maledizione verso se stesso per la sua sbadataggine, verso la porta. Corgh era ancora sulla sua poltrona e aveva assistito in silenzio alla scena, ruotando gli occhi verso il cielo. Gli passò davanti senza neanche vederlo.

   «Andiamo di fretta già di primo mattino? »

   «Arrivo subito, vecchio. »

Il viso dell’oste divenne istantaneamente paonazzo dalla rabbia.

   «VECCHIO A CHI? Brutto insolente che non sei altro! Se non fossi bloccato su questa poltrona, t’insegnerei le buone maniere a suon di schiaffoni! »

   Ignorando le pur serie minacce, spalancò la porta e uscì. I ragazzi si girarono nella sua direzione, ammutolendo, con espressioni sorprese e preoccupate. Lui si bloccò all'istante.

   “Ma cosa diavolo sto facendo? Mi prenderanno per un povero pazzo!”

   Gli effetti del sogno e della caduta, uniti alla barba di ormai una settimana, avevano contribuito a rendere il suo aspetto alquanto trasandato e spiritato. Sephyr gli si avvicinò preoccupata.

   «Tutto bene Lind? Cosa ti succede? »

Cercò di ricomporsi e si schiarì la voce per darsi un contegno.

   «Si grazie, tutto ok. Ho solo dormito male. »

Si sentiva terribilmente in imbarazzo e gli sguardi degli altri su di lui cominciavano a infastidirlo.

   «Ecco qui il potente stregone! Bel lavoro con l'emporio del vecchio Thoma, a momenti faceva saltare in aria tutto il paese! »

   La voce era quella del biondo cacciatore. “Di bene i meglio. E' anche un bulleto sarcastico. Me lo sentivo. Adesso incomincerà a provocarmi sul fatto che è tutta colpa mia, che gli orchi cercavano solo me, magari insinuerà che il golem è stato una mia trovata per qualche assurdo motivo e via dicendo. Matematicamente finirà per cercare la rissa, contando sul fatto che è più grosso.”

Sephyr lanciò un’occhiataccia all’amico.

   «Non incominciare Alden! »

Alden non rispose e si limitò a fissarlo con occhi di sfida. Guardandolo bene aveva qualcosa in comune, nell’aspetto, con il sindaco. Niente di più facile che ne fosse il figlio. In quel momento preferì non indagare.

   «Volevo giusto andare a scusarmi con il padrone del negozio, solo che devo prima rendermi presentabile. Posso usare il bagno? »

La ragazza capì al volo le sue intenzioni e sorrise senza farsi vedere dagli altri. Lui se ne accorse. “Uno a zero per me.”

   «Certo! La porta in fondo al corridoio, di sopra. »

   «Grazie. » Poi, rivolgendosi agli altri: «Mi scuserete se non mi presento, ma penso che mi conosciate già. Buona giornata.  »

   Detto questo, prese lo zaino che aveva dimenticato fuori la sera prima, e rientrò in casa senza attendere risposte. Appena chiuse la porta sentì la voce del biondino che si rivolgeva a Sephyr con tono severo.

   «Cosa ci fa quello ancora in casa tua? Ci porterà solo altri guai, fallo andare via! »

   La frase era seguita da esclamazioni di assenso da parte degli altri ragazzi. Questa volta le parole erano chiare, nessun dubbio rispetto a quanto era successo con il suo, probabile, padre. Le possibilità di farsi qualche amico in quel posto erano scese a zero. “Pazienza.” si disse. “Tanto non avevo mai avuto questa speranza.”

   «Lasciali perdere figliolo. La gente di montagna è molto chiusa con chi non fa parte della loro comunità, con quello che è successo poi, gli animi si sono riscaldati. Questi qui fuori sono anche giovani, dovresti sapere bene cosa significa. »

L’oste, evidentemente, aveva sentito tutto. Sembrava aver già dimenticato la sua maleducazione di poco prima e il suo viso aveva riacquistato il colorito normale.

   «Non preoccuparti per me, ci sono abituato. Comunque, se fossi in te, terrei d’occhio quell’Alden, ho idea che abbia qualche mira su tua figlia. Ora, se non ti dispiace, andrei a sistemarmi, mi sento come una scarpa vecchia e puzzolente. »

Incominciò a salire stancamente le scale con lo zaino in spalla.

   «Ragazzo!  »

   «Che c’è? »

Sei stato in gamba, lì fuori. Non è da tutti riuscire a resistere alle provocazioni come hai fatto tu. »

   «Lo chiamo “spirito di sopravvivenza”. Senza, sarei già finito male molte volte. E poi dovresti saperlo, è pericoloso per uno stregone litigare con le altre persone, il rischio di cadere in tentazione è alto. Ho già troppi problemi senza dover anche rischiare il linciaggio da parte di un paese per aver fatto arrosto una testa calda. Scusa il gioco di parole. »

   «Già, ma questo non toglie che ci voglia carattere. »

Era un sorriso, quello sul viso di Corgh?

   “Burbero e terrificante. Ma buono come il pane.”

Aprì la porta del bagno e tirò fuori dallo zaino rasoio e sapone. Si guardò allo specchio e gli scappò un’esclamazione di stupore. A momenti non si riconosceva da quanto era messo male. 

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Capitolo 13
*** La partenza ***


13. La partenza

 

   "Mamma mia, che macello..."

Il tizio dall'altra parte dello specchio aveva un aspetto penoso. I capelli, che già normalmente erano restii a mantenere una qualche pettinatura ordinata, avevano una piega assurda: un ciuffo verticale sulla parte sinistra e una specie di fioritura sulla parte destra, sulla fronte, invece, erano piatti e appiccicati alla pelle. Gli occhi, cerchiati e pieni di vene rosse, avevano delle borse mai viste. Il resto del viso era ricoperto da barba incolta a mezza lunghezza.

   "E puzzi anche, ma non ti vergogni?"

Si spogliò e riempì la vasca. Commise l'errore di non controllare la temperatura dell'acqua che usciva dal rubinetto e s'immerse senza pensarci. Rimase senza fiato, era probabilmente vicina allo zero, almeno secondo la sua sensazione.

   "Ma sono pazzi?"

Cercò di concentrarsi per abituarsi, ma rinunciò quasi subito. Sarebbe voluto restare un po' in ammollo, ma un minuto e quindici secondi dopo, era lavato e fuori dall'acqua. E tremava come una foglia. La cosa positiva era che il freddo aveva avuto effetti corroboranti sul suo aspetto. Adesso era un po' blu, ma erano sparite le borse sotto gli occhi. Non appena smise di tremare, si fece la barba e si pettinò i capelli. Nonostante l'esperienza traumatica, era soddisfatto del risultato. Non era mai stato particolarmente fissato con l'aspetto fisico, ma si era sempre reputato da non buttare. Gli allenamenti del Maestro avevano modellato il suo fisico, muscoli ben definiti e spalle larghe su una figura ben proporzionata. Aveva sempre avuto l'impressione che le ragazze del suo paese, dopotutto, dimostrassero un certo interesse verso di lui, grazie anche ai suoi occhi di quel verde molto particolare e vivo che, grazie anche al contrasto con capelli e sopracciglia nere e dagli strani riflessi rossicci, contribuivano a conferirgli un'aura intrigante e misteriosa. Purtroppo, alla fine, prendevano il sopravvento le dicerie sul suo conto, per cui si tenevano sempre a distanza di sicurezza, per evitare di finire, a loro volta, emarginate. Le sue esperienze con l'altro sesso, quindi, erano molto limitate. Probabilmente era il motivo per cui la vicinanza di Sephyr gli creava, ultimamente, qualche scombussolamento a livello ormonale, al quale attribuì, tra l'altro, il suo comportamento di poco prima. Ritornando ai pensieri della sera precedente, rifletté sul fatto che, oltre alle sensazioni di calore e tranquillità che la ragazza gli trasmetteva, sentiva che c'era qualcos'altro che la accumunava a Shayra, ma non capiva bene cosa fosse. A proposito, si avvicinava la data in cui sarebbero dovuti tornare a casa da lei. Doveva darsi una mossa e incominciare le ricerche. Poi, una volta ritrovato lo scomparso, sarebbe tornato lì e avrebbe cercato di approfondire la cosa. Si rivestì e scese al piano di sotto. Corgh era seduto a tavola e parlava con il sindaco, che occupava la sedia di fronte alla sua.

   « Buongiorno Lind. »

Il tono del primo cittadino non era esattamente cordiale.

   « Stai partendo? »

La domanda era posta in modo da far intendere che la risposta dovesse essere positiva. Evidentemente la sua opinione nei suoi confronti si era allineata con quella di Alden e, probabilmente, del resto della popolazione di Pineswood.

   « Buongiorno signor sindaco. Sì, non si preoccupi, questa volta me ne andrò davvero. »

Cercò di mantenere un tono posato. Corgh aveva un'espressione di disappunto. Probabilmente avevano appena discusso la questione e forse l'oste non era allineato al pensiero della cittadinanza. Gli fu grato per questo.

   « Ragazzo... »

   « Non preoccuparti Corgh, avrei dovuto andarmene già da un po', ho solo qualche domanda da farti, appena sarai disponibile. »

Il sindaco si alzò dalla sedia e si diresse verso la porta.

   « Lo libero subito, me ne stavo andando. Mi dispiace, ma non saresti a tuo agio qui con noi, lo dico per te. Io non t'incolpo di nulla, ma per il bene della comunità, forse, è la cosa migliore da fare. »

Dopodiché, accennò un saluto e se ne andò. L'oste si alzò a fatica e si risedette sulla poltrona.

   « Come vanno le tue ferite? »

   « Poche moine giovanotto, chiedimi quello che vuoi sapere e vattene. »

   Il tono scontroso non era molto convincente. Lind sorrise per un secondo, senza farsi vedere.

   « Prima di tutto, che fine hanno fatto i pezzi del Golem? Avrei voluto darci un'occhiata. »

   « Sono già stati distrutti nella fornace, non avresti trovato nulla comunque, una volta che l'essenza vitale se ne è andata non rimane che un guscio di metallo comune. »

   « Ah, pazienza. »

La risposta non lo convinceva, ma preferì non andare oltre.

   « Non mi hai ancora raccontato cosa sai della sera dell'incidente alla locanda. Hai parlato di stregoni, ma hai visto qualcosa? »

   « Non ho visto un accidente, ero girato di spalle quando è successo, ma so riconoscere gli effetti di un incantesimo di fuoco. Chi altro ne sarebbe in grado, se non uno stregone? »

   « Ti do ragione. Ma possibile che nessuno abbia visto nulla? Era pieno di gente, quella sera. »

   « Chiunque fosse, non è entrato nella locanda, altrimenti, come dici tu, qualcuno lo avrebbe visto. Probabilmente ha lanciato l'incantesimo da fuori, attraverso la finestra aperta. Era già molto buio, per cui, con le luci accese qui dentro, bastava mantenersi a qualche metro di distanza per essere invisibile. »

   « Molto furbo, in effetti. »

Si sedette su una sedia e si passò una mano sui capelli, aveva sperato di avere qualche informazione più utile, ma così era punto e a capo. Non restava che seguire la pista del bandito. Poi gli tornò in mente l'apparizione sotto la finestra della camera della locanda.

    « Cosa ne sai di un tizio vestito con una tuta aderente e un cappuccio che lascia scoperti solo gli occhi? »

   « Solo che, se è uno di quelli che credo io, è da pregare di non averci mai nulla a che fare. Perché mi fai questa domanda? »

Il ragazzo raccontò i fatti della sera prima, ovviamente tralasciando l'episodio della signora Vinn. L'oste assunse un'espressione cupa e preoccupata.

   « Quello era, con tutta probabilità, uno dei Dieber. E questo non va bene. »

   « Un cosa? »

   « Dieber. Sono ladri, mercenari, sicari. Non si sa neanche se siano umani o di qualche altra razza, si sa solo che sono molto forti. Gira voce che sono anche in grado di usare qualcosa di simile agli incantesimi, nonostante non siano stregoni. Sono assoldati per i compiti più sporchi da gente senza scrupoli che è in grado di pagarli. Pare non siano proprio economici. »

   « Allora di sicuro non sono folletti... »

« Cosa? »

   « Niente. Era una battuta. »

« Non sarei così tranquillo, se fossi in te. Se sono implicati in questa faccenda, c'è poco da scherzare. »

   « Hai ragione, ma era per sdrammatizzare un po'. Hai idea di come si possa fare due chiacchiere con questi tizi? »

   « No. L'unico modo che mi viene in mente è di fare un giro a Caputargilis, lì di sicuro qualcuno ti potrebbe mettere nella strada giusta. Ma è rischioso solo entrarci, in quel posto. »

   « Perfetto, tanto avevo già deciso di andarci. Tu sai dov'è? »

« Da qualche parte verso est, dopo il Lago di Helmer. »

   « Benissimo, allora è meglio che mi metta in cammino. »

Si alzò e si mise in spalla lo zaino.

   « Non ho intenzione di fermarti, se sei deciso vai, ti capisco, ma cerca di essere prudente, va bene? »

   « Sono un potente stregone, cosa credi? »

Corgh non cambiò espressione. Aspettò che arrivasse sulla soglia e poi disse:

   « Fermati all'emporio di Jofiah, lui la pensa come me, è un buon amico, ti fornirà tutto quello che ti serve per il viaggio. »

   « Grazie. Un'ultima cosa, vecchio. Puoi salutare tu Sephyr, da parte mia? »

   « Se mi chiami un'altra volta vecchio, i problemi che hai ora ti sembreranno delle passeggiate. »

Lind lo salutò con un gesto e uscì senza dire nient'altro. Quando ebbe chiuso la porta, l'oste sussurrò tra sé e sé:

   « Non farti ammazzare. »

Il gruppetto di Sephyr e Alden non c'era più. Lo aveva sperato. Se avesse incontrato la ragazza, sapeva che sarebbe stato più difficile partire. Gli aveva chiesto di non andarsene senza salutarla, ma era meglio così. Sperava solo che non si arrabbiasse troppo con lui. Cercò con lo sguardo quale potesse essere l'emporio e lo individuò verso l'uscita sud della città, dalla quale sarebbe poi partito. Era strano, pensò, dopotutto era da un mese in quel posto, ma non aveva visto nulla. Quando si allenava con il Maestro, partiva la mattina presto per la foresta e tornava la sera, per cui, oltre la locanda, non aveva avuto il tempo di visitare il resto di Pineswood. Assorto nei suoi pensieri, si diresse verso il negozio. Le persone si scostavano al suo passaggio, sussurrando tra di loro. "Ecco qua, altro luogo, stessa gente." Fece finta di non accorgersene. Passò davanti al cantiere del negozio di liquori. "Ah, giusto. Facciamo questa cosa." Chiese cortesemente a uno degli operai che stavano lavorando se ci fosse il proprietario. L'uomo gli rispose in malo modo (strano) dicendogli che il vecchio Thoma era fuori paese, era andato a recuperare un'altra fornitura di acquavite, visto la brutta fine che aveva fatto l'ultima. Leggera punta di sarcasmo nella voce. Ringraziò e proseguì oltre, sarebbe stato per la prossima volta. Entrò nell'emporio. C'erano due donne impegnate a scegliere delle stoffe, ma, appena lo videro, decisero che ci avrebbero pensato e sarebbero ripassate più tardi. Uscirono dalla porta in tutta fretta, senza guardarlo. L'uomo dietro il bancone le guardò con disapprovazione. Sarà stato sulla quarantina, piccolo di statura e notevolmente gracile. Inforcava un paio di occhiali tondi con la montatura di metallo, dietro ai quali brillavano due vivaci occhi marroni. I capelli erano corti e biondi, pettinati all'indietro.

   « Tu devi essere Lind, giusto? »

Il tono era amichevole, Corgh aveva ragione, era diverso dagli altri.

   « Vedo che i miei vestiti ti stanno a pennello, l'ho sempre detto che ho occhio per le taglie! »

Giusto, Sephyr l'aveva informato del fatto che gli erano stati regalati da lui.

   « Lei deve essere Jofiah, la ringrazio molto, ma non doveva disturbarsi. Anzi, se mi dice quanto le devo, mi sdebiterò subito. »

   « Corgh me lo aveva detto che sei un bravo ragazzo. Lascia perdere, siamo noi che siamo in debito con te, quei mostri dell'altra notte avrebbero potuto combinare un vero disastro. »

   "Corgh gli ha detto cosa?"

   « Il resto della gente del paese, sindaco compreso, mi pare sia di parere diverso, ma non voglio fare polemiche. Grazie, comunque. Sono qui perché mi servono provviste e attrezzatura da viaggio, ma oggi pagherò tutto senza discutere, va bene? »

   « Va bene giovanotto, dimmi tutto. »

Dopo una ventina di minuti aveva tutto quello che gli serviva. Era bello incontrare persone del genere, ogni tanto, e ultimamente gli capitava spesso. La cosa lo mise di buon umore. Mentre sistemava gli acquisti nello zaino, Jofiah gli chiese:

   « Parti subito? Sephyr lo sa? »

Venne preso alla sprovvista da quella domanda, il pezzo di carne salata che aveva in mano gli sfuggì, ma riuscì a riprenderlo al volo e a sistemarlo insieme agli altri.

   « Perché questa domanda? »

   « Quindi non lo sa. Ci rimarrà molto male, se non la saluti. Non l'ho mai vista così preoccupata per qualcuno che non fosse suo padre. E la conosco da quando è nata, per cui puoi credermi. »

   Il ragazzo smise di sistemare le provviste.

« Se la salutassi di persona, non riuscirei a partire. Ci ho già provato e sono ancora qui.»

   « Capisco. »

« Comunque ho intenzione di tornare presto.»

Chiuse lo zaino e se lo mise in spalla.

   « Le dica che mi dispiace. »

   « Certamente. Buona fortuna, figliolo. Cerca di stare attento, qualsiasi cosa tu stia per fare. »

Salutò e uscì dal negozio, era davvero giunto il momento di partire. S'incamminò verso l'uscita del paese, quando vide qualcuno, fermo in mezzo alla strada, che lo stava osservando con le braccia incrociate e lo sguardo accigliato. Alden.

   « Sei venuto a controllare che me ne stia andando sul serio? Di a tuo padre, il sindaco, che non si deve preoccupare, sto alzando le tende. »

   Gli urlò da distante.

« Non è mio padre, ma mio zio. Comunque hai ragione, volevo vedere se te ne andavi sul serio senza combinare altri guai. »

   « Addio Alden, non posso dire che sia stato un piacere. »

Oramai erano faccia a faccia, Lind continuò a camminare e gli passò di fianco, senza guardarlo. L'altro, non appena gli fu passato davanti, allungò una mano per fermarlo. Inavvertitamente sfiorò l'elsa della spada. Ritrasse di scatto la mano emettendo un gemito, un segno rosso, simile a una bruciatura, gli comparve sulla pelle.

   « Ma che diavoleria è questa? »

Il ragazzo, senza fermarsi, spiegò:

   « Solo io sono in grado di impugnarla, ti sei fatto male? Mi dispiace. »

   « Vedi di non farti più vedere da queste parti, mi hai capito? »

A quelle parole si fermò e si girò verso l'altro, che si stava massaggiando la mano.

   « Questo non te lo posso promettere. »

Riprese il cammino senza più girarsi.

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Capitolo 14
*** Compagni di viaggio ***


14. Compagni di viaggio

 

La strada che portava fuori dal paese proseguiva pressoché pianeggiante per qualche chilometro, attraversando la foresta. Gli alberi erano stati tagliati secoli prima per fare spazio alla via, che doveva poter essere percorsa da carri, per cui era ben battuta e senza grosse irregolarità. Dopo un po' sarebbero iniziati i tornanti che portavano a valle. Durante il viaggio di andata, per risparmiare tempo, avevano scelto di non utilizzarla, in quanto a piedi era molto lunga e soprattutto, a detta del Maestro, troppo comoda, per cui avevano optato per scalare la montagna attraversando la foresta, utilizzando delle antiche mulattiere strette, ripide e alquanto sdrucciolevoli. Aveva rischiato più di qualche volta di finire in una scarpata o di rompersi una gamba scivolando sulle pietre. Questa volta decise che non era il caso di rischiare, da solo, per risparmiare un giorno di cammino. Si sistemò lo zaino sulla schiena e si avviò, dando un ultimo sguardo alle case alle sue spalle. Gli piaceva camminare, lo trovava rilassante. Certo, un viaggio molto lungo alla fine stancava anche lui, ma aveva un ottima resistenza. Era in grado tranquillamente di percorrere venti o trenta chilometri prima di sentire la necessità di fermarsi. Dopotutto gli allenamenti, ai quali era stato sottoposto in quegli anni, erano stati mirati soprattutto a temprare il fisico e a controllare la respirazione. Era in grado di nuotare per centinaia di metri senza dover prendere fiato e poteva correre per ore senza versare una goccia di sudore, semplicemente sincronizzando la respirazione all'andatura. Senza un ottimo controllo del fiato, uno stregone non riusciva a esprimere il suo pieno potenziale, per questo, prima di imparare a concentrare le ATP nei vari incantesimi, bisognava imparare a respirare senza sprecare neanche una molecola di ossigeno. Ogni tanto si era lamentato del fatto che, alla fine, il Maestro non gli aveva insegnato praticamente nessuna tecnica, ma lui rispondeva che un vero stregone impara dall'esperienza e dal proprio istinto. Quanto lo odiava in quei momenti. Shayra, a volte, gli insegnava qualcosa per farlo stare buono. Soprattutto incantesimi pacifici come quello di guarigione o quello che aveva usato per scoprire chi era il ladro di zaini, ma a lui bastava. Il primo incantesimo d’attacco che si era deciso a insegnarli era stato, per il momento, anche l’ultimo. Lo aveva visto varie volte esercitarsi, con manichini di paglia,  nelle tecniche più varie, ma non si era mai degnato di spiegargli come effettuarle, nonostante le sue suppliche. Continuò così, immerso nei suoi pensieri, per qualche tempo. Il paese era, oramai, lontano alle sue spalle. Il sole era alto nel cielo terso e l’aria era fresca. Il silenzio era rotto solo dal cinguettio degli uccelli e dal tonfo di qualche pigna che cadeva dai rami sul sottobosco. Improvvisamente sentì una sensazione di pericolo. Un sibilo alle sue spalle, proveniente dagli alberi. La freccia gli passò a qualche centimetro dal braccio destro. In qualche modo sapeva che non lo avrebbe colpito, per cui era rimasto fermo. Sguainò la spada, per difendersi da eventuali attacchi ravvicinati, si girò nella direzione da cui era stata scoccata e, contemporaneamente, si preparò con la mano sinistra a fare arrosto l’arciere non appena l’avesse individuato. Nessuno. Evidentemente era nascosto nel fitto della foresta.

   «Sei migliorato, ma se avessi voluto, a quest'ora avresti una freccia nella schiena.»

   La voce sembrava provenire da molto vicino, ma non riusciva ancora a vedere nessuno. La ragazza comparì, come dal nulla, da sopra un albero alla sua destra. Indossava la stessa bardatura della sera del golem su dei vestiti tremendamente attillati di un colore verde marrone, che era difficile da distinguere nel folto della foresta, in più aveva sulle spalle un piccolo zaino. Lind rimase senza fiato appena la vide.

   «Sephyr! Cosa ci fai qui?»

Mise l'arco a tracolla e si avvicinò con espressione seria e minacciosa. Quando gli fu davanti lo schiaffeggiò con forza.

   «Ahia! E questo perché?»

Aveva, in realtà, una mezza idea del motivo.

   «Ti avevo chiesto di non andartene senza salutarmi! E' così che mantieni le promesse?»

Il ragazzo abbassò lo sguardo, imbarazzato, massaggiandosi la guancia.

   «Hai ragione, scusami. Non avevo intenzione di farti arrabbiare, è solo che...»

   «Basta così, dovrai farti perdonare, devo ancora decidere come ma mi verrà in mente. Adesso però sbrighiamoci, ci conviene arrivare al rifugio prima del tramonto.»

   Al che si mise in cammino senza aspettare. Lind era rimasto a bocca aperta e la stava osservando senza muoversi, o meglio, la stava osservando muoversi. I vestiti della ragazza mettevano in risalto il suo fisico sinuoso e la camminata, quasi felina, era ipnotica. Dopo qualche passo si girò verso di lui e lo sorprese ancora immobile.

   «Quando avrai finito di guardarmi il sedere, potresti darti una mossa? Non abbiamo tutto il giorno!»

   Il ragazzo si ricompose e le corse incontro. 

«Ma cos'è questa storia? Lo sai, dove sto andando?»

   «A Caputargilis. Lo so, ho sentito mentre parlavi con mio padre.»

«Allora saprai anche che non è un posto carino per fare una gita, salvo che tu non sia un tagliagole, un ladro o un  mercenario.»

   «Lo so benissimo, ma è anche il posto dove vive Nicodhem, e sono quindici anni che voglio incontrarlo di nuovo. Perciò non rompere e andiamo. Non provare a farmi cambiare idea, sarebbe inutile.»

   Era felice di questa sua decisione, ma ne era anche preoccupato. L'aveva già vista in azione, quindi sapeva che era in grado di difendersi, ma questo non cambiava la situazione. Stavano andando in un luogo che poteva essere molto pericoloso, e c'erano di mezzo altri stregoni, probabilmente malvagi, contro i quali le frecce non servono a molto. Sarebbe stato in grado di difenderla in caso di pericolo? Non lo sapeva, ma era sicuro che avrebbe fatto di tutto per evitare quella necessità. Poi gli venne in mente Corgh.

   «Tuo padre mi ucciderà. Dubito che lui sappia che sei partita, giusto? Ma quando lo scoprirà, saranno guai molto seri, soprattutto per me.»

   «Non preoccuparti, ci metterà un po' a scoprirlo. Gli ho lasciato un biglietto, capirà. Ma hai ragione, probabilmente s’infurierà più con te che con me. Ma se mi riporterai a casa sana e salva, alla fine di tutto, probabilmente ti lascerà vivere.»

   Sorrideva e aveva un atteggiamento civettuolo nel dire questo, ma al ragazzo la cosa preoccupava sul serio. Forse più del viaggio che li aspettava. Nel frattempo Corgh aveva trovato il biglietto.

   "Papà, non preoccuparti, sono partita con Lind. Oramai ho l'età giusta per fare una cosa a cui tengo molto, e con lui sono sicura che non correrò rischi. Tornerò presto. Ti voglio bene. Sephyr."

   Inutile dire che le parole sarebbero potuto essere fraintese. E l'oste le fraintese. L'urlo, o meglio il ruggito, fu sentito in buona parte del paese. Il vecchio in tunica nera non sembrò scomporsi minimamente e continuò nel suo incedere. Le persone intorno a lui lo guardavano sospettose e si scansavano al suo passaggio. Il suo aspetto non era dei più rassicuranti e il bastone al quale si appoggiava per camminare era inquietante. Gli occhi del serpente che lo avvinghiava sembravano emanare una debole luce rossa. 

   «Hey tu! Dove pensi di andare? Ci siamo appena tolti dalle scatole uno di voi! Qui gli stregoni non fanno che portare guai e non sono bene accetti, per cui vedi di andartene in fretta.»

   Alden si stava ancora massaggiando la mano che si era ustionato toccando la spada di Lind, ma la sua arroganza era sempre viva. Il vecchio si fermò e, senza girarsi, replicò alla provocazione.

   «Da queste parti sembra che il rispetto per gli anziani sia un valore di poco conto. Non si deve preoccupare, mio giovane signore, sono solo di passaggio. Appena avrò conferito con una persona me ne andrò.»

   «Preferirei che te ne andassi subito. Stai spaventando questa gente, non lo vedi?»

   «Me ne dispiaccio, ma il mio compito non può essere rimandato. Non arrecherò disturbo a nessuno. Buona giornata, giovane signore.»

   Il vecchio riprese a camminare. Alden, il cui umore era ancora pessimo a causa dallo smacco che aveva subito da Lind, scattò verso il vecchio, deciso a bloccarlo e a farlo girare sui tacchi. Quando si trovò a pochi passi, una tremenda folata di vento lo sollevò da terra e lo scagliò qualche metro indietro, facendolo cadere sulla schiena. La gente che stava osservando la scena ammutolì. La figura in nero non si fermò. 

   «E' pericoloso abusare della pazienza di un maestro d’incantesimi, mio giovane signore. Ora, se non vi dispiace, vorrei portare a termine il mio compito, sono molto stanco e vorrei riposarmi.»

Corgh stava stringendo la lettera di Sephyr. Dopo aver esternato la sua rabbia, si rese conto del vero significato delle parole della figlia. Sarebbe stato meglio quello che aveva capito all'inizio, pensò. Si maledisse per non essere in grado di correrle dietro e farle cambiare idea. Stava pensando a una qualche soluzione, quando sentì il trambusto in strada. Capì che c'era di mezzo il nipote del sindaco. Quel ragazzo non gli era mai stato simpatico, anzi, e il suo evidente interesse per Sephyr lo infastidiva, ma lei sembrava tenerlo a bada senza problemi, per cui non interferiva. Si alzò a fatica dalla poltrona e si diresse alla finestra per controllare cosa stava succedendo. Sentì bussare alla porta. 

   «Arrivo. Se sei tu, Alden, sappi che non sono dell'umore giusto per sentire le tue spacconate.»

Quando aprì la porta e vide il vecchio dai capelli bianchi, per poco non svenne.

   «Che cosa ci fai qui?»

«Salve, mio caro Corghyan. Ho un messaggio da parte di un nostro amico comune, non ti ruberò molto tempo.»

   I due ragazzi erano oramai arrivati ai tornanti, il sole era nella sua curva discendente, tra poco sarebbe stato buio. Avevano percorso meno strada del previsto e il primo rifugio era ancora lontano. Fortunatamente il clima era dalle loro parti e una notte all'addiaccio non sarebbe dovuta essere un grosso problema. Lind notò che la compagna cominciava a mostrare segni di stanchezza.

   «Stiamo camminando da ore, ci riposiamo? Possiamo accamparci dietro quelle rocce, li dovremmo essere abbastanza al riparo.»

Aveva individuato una formazione rocciosa a pochi metri dalla strada, all'interno della foresta. Uno dei grandi massi avrebbe oscurato la luce del fuoco a chi fosse passato dalla strada, non credeva che qualcuno li stesse seguendo, ma la prudenza non era  mai troppa.  

   «Sono esausta, non so come fai ad avere così tante energie. Dovrei essere io quella abituata a camminare in montagna.»

Si sistemarono dietro alle rocce. Formavano una specie di semicerchio rivolto verso la strada, all'interno del quale cresceva un folto e soffice muschio. Lo spazio era sufficiente per due persone che non volevano farsi vedere. Sephyr si sedette e appoggiò la schiena a una delle rocce, era veramente stanca. Lind, invece, aveva ancora energie e incominciò a raccogliere la legna per il fuoco. Poco dopo stava preparando qualcosa in un pentolino. La ragazza lo osservava incuriosita. Quando sentì il profumo di quello che stava cucinando, si decise ad avvicinarsi.

   «Dall'odore deve essere ottimo! Uno stregone deve sapere anche cucinare?»

   «Non necessariamente, ma tra un allenamento e l'altro ho osservato Shayra ai fornelli, e non avendo altro da fare mi sono esercitato.»

   «Questa dote potrebbe essere molto apprezzata da una donna, lo sai?»

   Dicendo questo gli diede una spintarella affettuosa, sorridendo. 

«Mah, aspetta a dirlo, in realtà è la prima volta che cucino all'aperto, per cui non garantisco sul sapore. »

   Mangiarono di gusto, la zuppa era ottima. Si era fatto buio e il cielo si era ricoperto di una moltitudine di stelle, la luna era luminosa e il bosco era immerso in una leggera foschia. Lind puliva e sistemava l'attrezzatura da cucina nello zaino. Sephyr era seduta davanti al fuoco con il mento appoggiato alle ginocchia e le braccia attorno alle gambe. Ogni tanto la guardava di sfuggita. Sembrava pensierosa, si stava domandando se incominciava a pentirsi della scelta che aveva fatto. Ed era incredibilmente bella alla luce del fuoco.

   «Dicevi sul serio? »

Gli chiese improvvisamente.

   «Quando? »

«Prima della battaglia con gli orchi e il golem, hai detto che varrebbe la pena subire le ire di mio padre. Per stare con me.»

   «E' vero, l'ho detto. E confermo il mio pensiero, non sarebbe un prezzo troppo alto da pagare.»

Lei si girò verso di lui con il sorriso più dolce che avesse mai visto. Il suo cuore ebbe un sussulto.

   «Grazie.»

Dopodiché, senza aggiungere altro, si distese e si avvolse nella coperta. Lind rimase qualche minuto a osservarla, le curve del suo corpo erano un richiamo fortissimo, ma per qualche ragione capì che non sarebbe stato un gesto apprezzato. Non per quella sera almeno. Spense il fuoco con un pugno di terra e si distese sul soffice muschio, con gli occhi rivolti al cielo.

   «Buonanotte Sephyr.»

«Buonanotte Lind.»

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Capitolo 15
*** Imboscata ***


15. Imboscata

 

Si svegliò di soprassalto. Ancora quell’incubo. Sentiva che centrava qualcosa con il suo passato, ma non riusciva a mettere a fuoco i dettagli, svanivano non appena apriva gli occhi, lasciandogli un senso d’inquietudine. Si mise a sedere e guardò la spada, questa volta nessuna reazione da parte dell’elsa. Nonostante il brusco risveglio, si sentiva riposato. Il soffice tappeto di muschio era molto comodo, erano stati fortunati a trovare quel posto. Stava albeggiando, la foresta era avvolta dalla leggera nebbia della notte e la luce era ancora poca. Sephyr stava dormendo. Represse il desiderio di svegliarla e decise di aspettare che lo facesse da sola, era molto stanca e doveva recuperare le forze per il viaggio. Ripensò per un momento alla sera precedente e gli tornò in mente il suo sorriso, quell’immagine spazzò via l’inquietudine del sogno. Si alzò, prestando attenzione a non fare rumore, e si allontanò di qualche metro. Inspirò a fondo l’aria frizzante e incominciò a compiere dei movimenti lenti e ampi con le braccia, dapprima da fermo, poi piegando le gambe e muovendo i piedi in circolo, a volte strisciandoli a terra, altre alzandoli. Teneva gli occhi chiusi e regolava il respiro in base al movimento. Aumentò gradualmente la velocità. Dopo qualche minuto si fermò abbassando le braccia, raddrizzando le gambe e espirando lentamente. Riaprì gli occhi. La ragazza si era svegliata e lo stava guardando da seduta, con la coperta ancora sulle gambe. I capelli sciolti erano un po’ arruffati e il viso mostrava ancora i segni del sonno. Lind le sorrise.

    «Buongiorno, ti ho svegliato? »

 «Non preoccuparti, ho fatto una bella dormita, questo muschietto è proprio comodo. Piuttosto, cos’erano quei movimenti? Sono molto belli! »

    «Non so come si chiamino, me li ha insegnati Shayra. Sono efficaci al mattino come ginnastica, per risvegliare la muscolatura e per sincronizzare la respirazione. Se vuoi, te li insegno, non è difficile. »

   «Mmmh…forse dopo colazione, se non la faccio, m’innervosisco. »

«Ai vostri ordini, mia signora! »

   Le fece un plateale inchino e si diresse verso lo zaino. Tirò fuori pane e un vasetto di marmellata, sistemandoli su una tovaglia. Accese il fuoco e riempì un pentolino di acqua, dopodiché, appena bollì, ci versò dentro una polvere nera che era contenuta in un sacchetto di pelle. Immediatamente l’aria si riempì di un profumo intenso e dolce. Tolse il pentolino dal fuoco e versò il contenuto in due tazze, filtrandolo con un pezzo di stoffa, e le sistemò sulla tovaglia insieme al cibo. Sephyr lo osservava incuriosita.

   «Prego!»

«Che meraviglia! Rischio di abituarmi a essere servita in questo modo. Forse potrei anche perdonarti di essertene andato senza salutarmi, se continuerai così.»

   Prese la tazza con le due mani e la avvicinò al naso per assaporare quel profumo al lei nuovo.

   «Assaggia e dimmi cosa ne pensi, si chiama caffè, arriva dalle calde terre del sud. Il Maestro non riesce più a farne a meno, da quando un suo amico mercante ce ne ha portato un po’, e devo dire che anche a me non dispiace, soprattutto a colazione. »

La ragazza ne bevve un sorso. Il suo volto si contrasse in una smorfia.

   «E' amaro! »

«Già, però lo senti il gusto che lascia in bocca? »

   «E' buono in effetti, ma per me è troppo amaro! »

«Va bene, allora prova a mettere un po’ di questo. »

Le porse un altro sacchetto di pelle, pieno di zucchero. La ragazza ne versò un po’ nella tazza e mescolò con un cucchiaio. Ne bevve un altro sorso.

   «Così è sicuramente meglio! E' buonissimo questo paffè! Forse potremmo servirlo anche all'Unghia Nera. »

   «Caffè. Potrebbe essere un’idea. »

Finirono di fare colazione e ripartirono di buon umore. La giornata era ideale, il sole splendeva e l’aria era tiepida. Stavano andando in un luogo molto pericoloso, ma per il momento sembravano non pensarci. Godevano della compagnia reciproca, scherzando e camminando senza particolare fretta. Si fermarono a pranzare nel rifugio che intendevano usare la sera prima, e sul finire della giornata erano quasi arrivati a valle. La luce del tramonto era di un rosso intenso, il cielo a est era ancora terso, mentre a ovest nuvole nere e minacciose stavano arrivando, sospinte da un vento che durante il giorno era stato una era una leggera e piacevole brezza, mentre ora soffiava freddo e carico di odore di pioggia. Si sentivano già i tuoni in lontananza, e con il passare del tempo si facevano sempre più vicini. Avevano aumentato il passo per riuscire a raggiungere il primo paese per cercare rifugio prima di finire sotto il diluvio imminente. Da qualche minuto Lind aveva un brutto presentimento, simile a quello che aveva avuto prima dell'attacco del Golem e la cosa non gli piaceva. Sephyr si accorse del cambiamento di umore di Lind, ma lo interpretò con la preoccupazione di non riuscire a raggiungere un riparo in tempo. Avevano oramai raggiunto la fine dei tornanti e la via davanti a loro attraversava un’ampia vallata priva di alberi, alle loro spalle la foresta era spazzata dal vento che si faceva via via più impetuoso. Il suono di un corno li fece sobbalzare, si girarono nella direzione dalla quale proveniva. Un orco a cavallo di un lupo era in mezzo alla strada sul limitare degli alberi e impugnava uno stendardo nero con impresso il simbolo della tribù dei cacciatori: un artiglio bianco con le unghie rosse. Portò alle labbra il corno che teneva nell’altra mano e suonò di nuovo. A quel segnale decine di lupi uscirono dagli alberi e si fermarono in formazione appena fuori dalla linea della foresta. Tra di essi, si portò in prima fila un lupo più grande rispetto agli altri. Il suo cavaliere era un grosso orco che indossava una pesante armatura scura e impugnava un’enorme spada dalla lama nera. I due ragazzi erano impietriti. Lind si guardò intorno, non avevano nessuna possibilità di nascondersi o ripararsi, potevano solo continuare lungo la via, ma a piedi sarebbero stati raggiunti in un momento. Il paese era ancora troppo lontano. Non avevano scampo. Non per nulla erano i migliori cacciatori che ci fossero, erano in grado di trovare sempre il momento e il luogo migliore per attaccare le loro prede, senza lasciar loro nessuna possibilità di salvezza. Estrasse la spada e fece un passo verso i nemici, tenendo la ragazza dietro di se. Inspirò a fondo e il bagliore rosso incominciò ad avvolgere la mano sinistra. Senza voltarsi si rivolse a Sephyr.

   «Comincia a correre, cercherò di tenerli occupati per il più a lungo possibile. »

   «Non ci penso nemmeno. »

La ragazza aveva imbracciato l’arco e una freccia era già pronta a scoccare nella direzione della testa dell’orco corazzato. Lind voleva farle cambiare idea, quando un fulmine si abbatté alle spalle dell’orda e il comandate alzò la spada lanciando un urlo di battaglia. I lupi scattarono tutti contemporaneamente nella loro direzione.

   «Maledizione! Stammi vicina e cerca di colpirne il più possibile. »

Prima che finisse la frase, una freccia aveva trapassato la testa di uno degli orchi in prima fila. Il corpo cadde sotto le zampe del lupo alla sua destra facendolo cadere, trascinandosi dietro il cavaliere e altri due lupi alle sue spalle.

   «Non c’è problema. »

Lind alzò la mano sinistra e istantaneamente un altro dei lupi avvampò con fiamme talmente intense da essere quasi bianche. Tutti quelli che erano intorno ad esso presero fuoco a causa del calore. La ragazza continuava a lanciare frecce, ma i nemici erano troppi, e in qualche secondo i superstiti erano già a breve distanza. Il ragazzo si lanciò di corsa verso il primo, impugnando la spada a due mani. Il lupo, inaspettatamente, compì un balzo e si avventò su di lui dall’alto, a fauci spalancate. Lind non si scompose, frenò la corsa ed eseguì un fendente circolare dal basso in alto, compiendo contemporaneamente un movimento laterale.  La zampa destra dell’animale si staccò dal corpo, spandendo in aria sangue scuro. Non appena toccò terra, la bestia si rovesciò su di un fianco, guaendo e schiacciando a terra il suo cavaliere, che fu finito da un affondo alla gola. Nel frattempo il cielo si era fatto nero ed era incominciato a piovere intensamente, il boato dei fulmini che cadevano vicini era assordante.

   «Lasciami!»

Sephyr era stata disarmata e immobilizzata. Erano accerchiati, ma non sembravano volerli attaccare tutti assieme, per il momento. Lind si scagliò contro l’orco che teneva la ragazza.

   «Fermo, giovane stregone!»

Il comandante si era fatto largo tra le fila nemiche ed era sceso dalla cavalcatura. Si avvicinò al ragazzo e piantò la spada a terra.

   «Tu hai ucciso molti dei miei cacciatori, questo non lo posso perdonare. Inoltre hai distrutto l’arma che ci era stata donata. Questo ti costerà la vita.»

   «L’arma? Intendi il golem? Chi è stato a crearlo?»

«Questi non sono più affari tuoi.»

   Si voltò e tornò al suo lupo.

«Uccidete prima l’elfo femmina, voglio che la veda morire.»

   A quelle parole, l’orco che teneva ferma Sephyr alzò la spada e  la trafisse a livello dell’addome. La lama le uscì dalla schiena. La ragazza rimase senza fiato e si accasciò sulle ginocchia. Lind non aveva neanche fatto a tempo a voltarsi verso di lei.

   «No! »

L’orco estrasse la spada con uno strattone e un getto di sangue uscì dalla ferita. A quel punto la ragazza urlò di dolore, dopodiché cadde a terra e rimase immobile. Il sangue si mescolava alla pioggia. Gli orchi urlarono tutti assieme e si prepararono a fare a pezzi il ragazzo. Lind, dopo aver assistito alla scena, era come pietrificato. Le braccia gli penzolavano dalle spalle e la testa era leggermente inclinata in avanti. I capelli fradici gli cadevano sugli occhi. La lama della spada incominciò emettere la nebbia bianca e luminosa, le ali del drago si avvinghiarono alla mano, ma il ragazzo non fece una piega. La nebbia bianca si espanse alla mano, poi al braccio e, infine, al resto del corpo. Gli orchi si fermarono, spaventati da quel fenomeno. Il comandante ringhiò di non fermarsi e di attaccarlo prima che combinasse qualcosa. Non fecero a tempo. Il ragazzo alzò di scatto il viso. La pelle si era ricoperta di squame scure e gli occhi sembravano quelli di un felino. Sorrideva e nel farlo mostrava delle zanne affilate. Alzò la mano sinistra, era avvolta da un vapore azzurro che cadeva verso il basso, come se fosse più pesante dell’aria. Dal punto nel terreno, ormai saturo di pioggia, perpendicolare alla mano partirono delle lingue d’acqua, simili a serpenti trasparenti, che velocemente si posizionarono sotto a ciascun lupo. A quel punto il ragazzo alzò il braccio di scatto, contemporaneamente dei sottili getti d’acqua trapassarono lupi e cavalieri. I getti d’acqua mista a sangue scuro, che sgorgavano dalle teste o dalle schiene degli orchi, si mischiarono alla pioggia, ricadendo a terra e creando uno spettacolo da incubo. L’unico sopravvissuto era il comandante, per lui il trattamento doveva essere diverso. Si girò lentamente. I capelli e i vestiti grondavano sangue e pioggia. Continuava a sorridere. Puntò la spada nella sua direzione in segno di sfida. Nessun incantesimo per lui. L’orco stava guardando i cadaveri dei suoi cacciatori, annientati in un secondo. Era furioso. Vide il gesto dello stregone e ringhiò, lanciandosi nella sua direzione alzando la spada sopra la testa. Il ragazzo alzò la sua. La nebbia bianca rifluì nella lama. Fendente frontale dall’alto in basso. Nell’aria si disegnò una mezzaluna luminosa. La metà destra del corpo del comandante cadde in avanti, quella sinistra rimase per un momento in equilibrio sulla gamba, poi cadde di lato. Rimase qualche istante a guardare le interiora fumanti che si riversavano sul terreno, con lo stesso sorriso tetro. I fulmini continuavano a squarciare il cielo. Se qualcuno avesse visto la scena, avrebbe pensato a un demone che aveva appena sfogato la sua furia e sarebbe fuggito in preda al terrore. La nebbia smise di illuminare la lama, le ali del drago tornarono a essere solo il paramano e il viso riprese l’aspetto originale. Cadde in ginocchio. Guardò per un istante l’arma che stava impugnando.

   «Grazie…»

Si alzò a fatica e si diresse verso il corpo di Sephyr. S’inginocchiò al suo fianco. Le sue lacrime si confondevano con la pioggia. Poi vide un movimento, un po’ di vapore usciva dalla bocca della ragazza. Era ancora viva. 

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Capitolo 16
*** Tatzel ***


16. Tatzel

 

«Sta migliorando molto velocemente.»

   «Non agitarti, Boid. Non può ancora essere al nostro livello. Per il momento riesce a utilizzare il simbiote solo in condizioni di stress, e non sono molto convinto che riesca già a controllarsi, durante la simbiosi.»

   «Può essere, ma non manca molto. Anch’io ero dubbioso l’ultima volta, ma adesso devo ricredermi. Forse è arrivato il momento di fare qualcosa, prima che sia troppo tardi. Il Maestro Anilion è tornato?»

I due uomini stavano osservando la scena del combattimento tra Lind e gli orchi. Uno, Boid, era l’uomo con l’armatura grigia che impugnava la lancia del serpente, l’altro era un giovane dai capelli neri, portati lunghi sulle spalle. Gli occhi erano viola, con degli strani riflessi blu. Anche lui indossava una leggera armatura ma nera e un mantello dello stesso colore. Sulla schiena portava un fodero, nel quale era infilata una spada con l’elsa a forma di drago, simile a quella di Lind, con la differenza che non aveva le ali a formare il paramano.

   «Sono qui, miei giovani amici.»

Il vecchio con il bastone arrivò alle loro spalle camminando tranquillamente. Il giovane si girò verso di lui.

   «Hai parlato con Corghyan?»

«Ovviamente. Non ci saranno problemi. Mi ha anche raccontato delle cose interessanti sulla figlia. A volte il destino crea trame imprevedibili, non avrei mai pensato che potesse essere colei che cerchiamo. E’ di vitale importanza che non le succeda niente.»

Boid, a quelle parole, si girò di scatto verso il vecchio.

   «Cosa? Maledizione, questo non ci voleva!»

Il vecchio lo guardò stupito.

   «Cosa ti cruccia?»

«La ragazza è rimasta gravemente ferita nello scontro. Potrebbe non sopravvivere.»

   Il vecchio abbassò la testa, pensieroso. Il giovane sembrava non essere turbato dalla notizia e si rivolse ai compagni con tono annoiato.

   «Pazienza. Sapete come la penso, per me è solo un problema in meno».

   Il vecchio rialzò la testa e guardò il compagno negli occhi, con espressione severa.

   «Giovane Tatzel, non è bene sottovalutare le trame del destino, potrebbe rivoltarsi contro di noi».

   «Il destino si è già preso gioco di me una volta, non ci riuscirà di nuovo».


   Lind aveva fasciato la ferita di Sephyr con il suo mantello e l’aveva presa in braccio il più delicatamente possibile. Era pallida, aveva perso moltissimo sangue, e il respiro era appena percettibile. Doveva trovare immediatamente un posto al riparo per poterla medicare. Era sfinito, ma non intendeva fermarsi a riposare. Non si vedeva ancora nessun paese. Finalmente, dopo quasi un’ora di cammino sotto una pioggia incessante, vide una vecchia fattoria. Dall’aspetto sembrava abbandonata da tempo, ma almeno sarebbero stati al riparo. Fortunatamente sembrava che il tetto fosse ancora integro, quindi era probabile che dentro potessero stare all’asciutto. Tentò di aprire la porta, ma era chiusa. Assestò un calcio all’altezza della toppa della chiave. Il legno cedette immediatamente e riuscirono così a entrare. Il buio era totale e l’aria pesante. Distese la ragazza sul pavimento, per evitare di farla cadere inciampando, e tolse dallo zaino l’acciarino e la piccola lampada a olio. Le mani gli tremavano per la fatica e il freddo e accendere la fiammella non gli fu facile. La debole luce non riusciva a illuminare tutta la stanza, ma almeno ora poteva muoversi senza rischiare di rompersi una gamba. La casa era stata abbandonata con cura, tutti i mobili erano stati coperti con dei teli per evitare che si rovinassero con la polvere. Molto probabilmente i proprietari avevano intenzione di tornare, prima o poi. Chissà quanto tempo era passato però, i teli erano ingialliti. La stanza era ampia, riconobbe la sagoma di un divano e tolse il lenzuolo che lo copriva. Una nuvola di polvere lo fece tossire. Distese Sephyr sui cuscini. Era fradicia e tremendamente pallida. Le mise due dita sul collo e controllò il battito, era debole ma ancora presente. Tolse piano la fasciatura e controllò la ferita. Era pulita, ma perdeva ancora sangue. Fortunatamente gli orchi cacciatori non usavano lame avvelenate, in genere le prede erano mangiate. Nonostante questo, si rese conto che non avrebbe resistito ancora a lungo. Se almeno fosse stato in grado di usare su di lei l’incantesimo di guarigione, avrebbe forse potuto salvarla. Anni prima aveva cercato di guarire il suo cane: la bestiola era stata aggredita da un cinghiale che si era spinto fino al loro giardino, avendo la peggio. Voleva molto bene a quell’animale e cercò di utilizzare l’incantesimo per guarirlo, senza riuscirci. Shayra lo trovò in lacrime accanto al corpo del cane. Lui le chiese perché non era in grado di guarire gli altri, mentre lei ci riusciva benissimo. La donna gli rispose che uno Stregone, per sua natura, non può utilizzare gli incantesimi sugli altri in modo benefico, a meno di non essere in piena sintonia con l’oggetto al quale vuole trasferire la sua energia. Non aveva capito, ma allora perché lei ci riusciva? A quella domanda lei gli sorrise e lo abbracciò dolcemente, sussurandogli come se gli stesse rivelando un segreto: «Perché io non sono uno Stregone».

In quel momento non aveva dato gran peso a quelle parole ora però cominciò a chiedersi cosa significassero. Un improvviso sussulto di Sephyr lo distolse dai suoi pensieri, il battito del cuore della ragazza era improvvisamente accelerato per poi rallentare di colpo. Capì che il tempo stringeva drammaticamente. Era disperato, per cui decise di provare il tutto e per tutto. Mise entrambe le mani sulla ferita e cercò di concentrarsi. Con suo grande stupore riuscì quasi subito a emanare una grande energia nel corpo della ragazza. Era una sensazione strana, sembrava quasi che fosse il corpo della ragazza a richiamarla. Il bagliore dell’incantesimo era accecante e dovette chiudere gli occhi. Dopo qualche secondo il fenomeno cessò e poté togliere le mani. Aveva funzionato, la ferita si era richiusa e al suo posto c’era una sottile cicatrice rossa. Quasi subito il volto di Sephyr riprese un po’ di colore. Aveva la sensazione di essere stato svuotato di tutta la forza che aveva in corpo, ma era felice.


   «Eccone la prova. E’ veramente lei».

«Speriamo sia effettivamente un bene e non un ostacolo».

   «Incominci a dubitare anche tu, come Tatzel?»

«No. Ma non vorrei che avere il Sigillo a disposizione limitasse la sua crescita». 

   «Non devi preoccuparti, mio giovane Boid. Non è mai successo».   

Gli stregoni osservavano da lontano la casa in cui si erano rifugiati i due ragazzi. Tatzel si stava già allontanando, non curandosi dei suoi compagni. La pioggia aveva smesso di cadere e il cielo si era aperto, mostrando la luna piena. La luce dell’astro illuminava la valle. Un’enorme ombra alata attraversò silenziosamente i prati. Il ragazzo alzò lo sguardo.

   «Hai incominciato a muoverti, alla fine. Non vedevo l’ora». 


La ragazza aprì gli occhi. Si sentiva la testa pesante e aveva la vista annebbiata. Non capiva dove fosse, ricordava tutto fino al momento in cui l’orco che la teneva ferma alzava la spada, dopodiché solo immagini confuse. Un caminetto acceso riscaldava l’aria e illuminava la stanza. Capì di trovarsi su un divano in una casa a lei sconosciuta. Accanto al divano, disteso per terra e coperto con un vecchio lenzuolo ingiallito, dormiva Lind. Cos’era successo? Erano riusciti a fuggire? Da quanto ricordava, la situazione era molto complicata. Li avevano lasciati andare? Non le sembrava verosimile come soluzione, ma allora come avevano fatto a salvarsi? A meno che, non fosse successo di nuovo. Cercò di alzarsi, la testa le girava e si sentiva molto debole. Riuscì a mettersi seduta. Il lenzuolo che la copriva scivolò a terra e si accorse di essere nuda. Lo prese al volo e si mise a urlare. Lind si svegliò di colpo e si alzò in piedi di scatto impugnando la spada. Era nudo anche lui.

   «Brutto maniaco! Cosa mi hai fatto!? »

Contemporaneamente gli sferrò un calcio sulle costole. Il ragazzo si accasciò a terra dolorante. A quel punto la ragazza notò i loro abiti appesi a delle sedie davanti al fuoco. Ricordò che durante la battaglia aveva cominciato a piovere..

   «Voglio subito una spiegazione! E copriti, insomma!»

Lind stava tossendo, a causa del colpo ricevuto, e si stava tenendo il fianco. Si coprì con il lenzuolo e rimase a terra, seduto.

   «Eravamo bagnati dalla testa ai piedi, avresti preso una polmonite se non ti avessi tolto i vestiti. Non preoccuparti, ero talmente stanco che ricordo a malapena di averlo fatto».

   In realtà ricordava molto bene le forme della ragazza che si scoprivano sotto le sue mani ma, sul momento, la stanchezza e il sollievo di saperla in via di guarigione avevano tolto alla cosa ogni carica sessuale. Ora però le immagini gli ritornavano alla mente e sentì il viso avvampare. Sephyr se ne accorse e arrossì a sua volta.

   «Bella scusa! Se scopro che mi hai fatto qualcosa di strano sei un uomo morto.»

   «Ti credo, comunque hai la mia parola.»

Dopodiché si alzò a fatica, cingendosi la vita con il lenzuolo, e controllò gli abiti appesi. Era felice di vederla già così in forma, ma avrebbe preferito risposare ancora per un po’, si sentiva ancora svuotato di energia. Lo sguardo della ragazza fu attratto dalla schiena ampia e muscolosa del giovane Stregone.

   «Sono asciutti, ma avrebbero bisogno di una lavata».

Si girò per porgerle i vestiti e si accorse che lo stava fissando. Abbozzò un sorriso e si preparò a prenderla in giro, ma quando vide che lei abbassava lo sguardo, arrossendo di nuovo, cambiò idea.

   «Grazie».

Sephyr vide la macchia di sangue sulla sua camicia e il buco lasciato dalla spada dell’orco. Ora ricordava, il dolore della lama che le entrava nella pancia e il senso di panico che avevo provato. Passò la mano nel punto in cui era stata colpita, ma trovò solo il ruvido della cicatrice. Non provava nessun dolore. Com’era possibile? Era stato lui a curarla? Aveva detto che non ne era in grado. Si rese conto, comunque, che le aveva salvato la vita. Lo guardò mentre si stava rivestendo.

   «Lind…»

«Dimmi.»

   «Hai ancora un po’ di caffè? Ne avrei proprio bisogno».

«Subito».

 

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Capitolo 17
*** Il Dubbio ***


17. Il Dubbio   


   Lind stava preparando il caffè, fuori il sole era sorto da poco e la luce dell’alba filtrava tra le assi degli scuri. Sephyr si annodò il lenzuolo sopra il seno e si alzò per andare ad aprire le finestre, l’aria all'interno della casa era pesante e sentiva il bisogno di respirarne di fresca. Si sentiva debole, la testa le girava e le gambe erano pesanti. L’aria mattutina, frizzante e ancora carica di odore di pioggia, la fece sentire subito un po’ meglio. Il panorama era mozzafiato: l'ampia vallata era coperta da campi coltivati e lo sguardo si perdeva all’orizzonte dove s’intravvedevano, in lontananza, i contorni delle colline che costeggiavano il lago di Helmer, dietro alle quali stava sorgendo il sole. Rimase qualche istante a contemplare quella vista, respirando piano per assaporare l'aria. Qualcosa, sotto la finestra, attirò improvvisamente la sua attenzione. La spada del ragazzo era appoggiata al muro, proprio affianco a lei. Ebbe la sensazione che una luce rossastra si stava spegnendo negli occhi del drago, sull'elsa. Era stata una sua impressione? Un leggero capogiro la colse e sentì il bisogno di sedersi. Nel voltarsi per tornare verso il divano urtò il fodero e la spada cominciò a scivolare verso terra, se ne accorse e riuscì a prenderla al volo. L'elsa era calda e impugnarla  faceva uno strano effetto: nonostante avesse la consistenza di una comune impugnatura era come stringere qualcosa di vivo, ma non era una brutta sensazione, anzi, era “rassicurante”. Alzò il braccio per guardarla meglio, si accorse che era leggerissima, troppo leggera perché fosse fatta d’acciaio, doveva essere di un qualche altro strano metallo. La riappoggiò al muro. Lind la stava guardando con gli occhi spalancati. In mano aveva due tazze fumanti, piene di caffè.

   «Cosa c’è? Stava cadendo e l’ho rimessa a posto, non preoccuparti, non volevo usarla contro di te. Quello è per me? Grazie! »

   Gli prese una tazza di mano e si sedette sul divano. Il ragazzo guardò prima lei e poi la spada. Era la prima persona, oltre a lui, che riusciva a impugnarla senza subire ustioni. 

   «Tutto a posto?» Gli chiese lei, notando la sua espressione.

"Oltre che essere la prima su cui sono riuscito a eseguire una guarigione" pensò lui prima di risponderle.

«Si, tutto a posto. Tu piuttosto, come ti senti?»

   «Insomma, mi sento debole».

«E' normale, hai perso moltissimo sangue. Credevo di averti persa. Non è stata una bella esperienza».

   «Mi dispiace. Mi sono fatta prendere di sorpresa, non succederà più, te lo prometto».

Il ragazzo rimase in silenzio, era affascinato dalla forza d’animo della ragazza. Nonostante quello che aveva passato era assolutamente tranquilla.

«Sei stato tu a curarmi? Avevi detto che non eri in grado di farlo».

   «Infatti, ma ci ho provato lo stesso ed ha funzionato. In realtà è stato strano, non sono neanche sicuro di essere stato io».

   «Che cosa intendi dire?»

«Era come se, in realtà, fossi tu a curarti, ma utilizzando la mia energia. E’ difficile da spiegare. »

   «Non capisco».

«Fosse solo questo che non riesco a capire…»

   «Cosa?»

«Niente. Com’è il caffè?»

   «Buonissimo, hai già messo lo zucchero, grazie!» gli rispose sorridendo. Dopo qualche sorso appoggiò la tazza sulle ginocchia. 

  «Ora mi racconti come abbiamo fatto a salvarci da quegli orchi? Perchè ce l'avevano con noi? Ricordo che il loro comandante ti ha parlato, ma non sono riuscita a capire, ero troppo lontana».

   Lind si sedette su una sedia e sorseggiò lentamente dalla tazza.

«Erano i compagni dei cacciatori che hanno attaccato il villaggio, volevano vendicarsi. Sono tutti morti».

   «Sei stato tu?»

Lui esitò qualche istante, poi rispose.

«Sono stato io, anche se non ho capito...in che modo».

   «Come contro il golem?»

«Sì, ma questa volta è stato diverso».

   «Quindi non sei tu a decidere di fare quella cosa?»

Il ragazzo si alzò dalla sedia e guardò fuori dalla finestra. Il sole era salito sopra le cime delle colline. Ripensò a quello che era successo. Questa volta ricordava tutto. Nel momento in cui aveva sentito Sephyr gridare, la sua mente si era annebbiata, dopodiché aveva sentito una grande energia fluire dalla spada. Insieme all’energia, aveva sentito qualcos’altro insinuarsi dentro di lui, una sorta di entità che prendeva il controllo del suo corpo. Si era sentito tranquillo ma, allo stesso tempo, provava un forte desiderio di sangue, voleva veder morire tutti quelli che aveva intorno. Al momento la cosa gli era sembrata normale ma ora lo spaventava. Se ci fosse stato qualcun altro oltre agli orchi, magari degli innocenti passanti, sentiva che avrebbero fatto la stessa fine. La furia era cieca. Ricordava di aver scelto, però, come finire il comandante, aveva ordinato di uccidere Sephyr e quindi doveva essere l’ultimo. L’ ”altro” era d’accordo e così era stato fatto. Sarebbe riuscito a vincere su quella furia, se avesse voluto? Non ne era del tutto sicuro. Si rivolse alla ragazza senza girarsi.

   «Forse dovresti tornare a casa, da tuo padre».

La ragazza appoggiò a terra la tazza e si alzò dal divano. Si avvicinò al ragazzo, gli cinse la vita con le braccia e gli appoggiò la guancia sulla schiena. Lind ebbe un sussulto, non si aspettava questa reazione. Sentì la morbida pressione dei seni sulla schiena e il calore del suo corpo. Di nuovo il suo profumo.

   «Grazie. Mi hai salvato la vita. Penso che possa essere sufficiente come risarcimento, per essertene andato senza di me dal villaggio».

Lo strinse più forte per qualche secondo.

   «Ma…»

Il tono in cui lo disse fece istantaneamente cadere tutte le fantasie che si erano insinuate nella testa del ragazzo. Sephyr si staccò bruscamente da lui e fece due passi indietro.

   «…se provi a ripetere un’altra volta le parole “torna a casa”, ti pentirai di averlo fatto».

Dopodicè, gli assestò un pugno sulle reni, abbastanza forte da farlo piegare in due, gemendo dal dolore.

   «Ora datti una mossa, ho bisogno di vestiti nuovi. Andiamo a cercare un paese. Anzi no, prima mangiamo qualcosa, devo fare colazione».


Mentre Lind e Sephyr si svegliavano tranquillamernte sulla strada verso valle, ignari che di li a poco avrebbero dovuto affrontare un orda di orchi, Corgh era ancora sulla sua poltrona, semiaddormentato. Aveva passato la notte a rimuginare sulla visita del maestro Anilion, per poi addormentarsi alle prime luci del mattino. Si svegliò di colpo, ma inizialmente non capì perché. Poi sentì i colpi. Si alzò a fatica e si diresse sbuffando alla porta.

   «Buongiorno Corgh, Sephyr è in casa?»

“Oddio…ci mancava anche questo rompiscatole…”

Alden sembrava non portare i segni della doppia umiliazione patita dai due stregoni, ma la sua espressione denotava una certa antipatia verso l’oste, reo di essere amico di entrambi. Indossava degli abiti da viaggio e notò uno zaino ai suoi piedi.

   «Buongiorno a te Alden. No, mi dispiace, non c’è. Se ora mi permetti, tornerei ai miei affari».

Corgh fece per chiudere la porta, ma il ragazzo lo fermò.

   «Se n’è andata con quel maledetto stregone, vero?»

L’oste capì che era inutile mentire, evidentemente lo sapeva già ed era venuto per averne la conferma.

   «La cosa mi fa molto meno felice di quello che pensi».

Alden spalancò la porta con un calcio, in un gesto di rabbia.

   «L’hai lasciata andare! Nonostante tu sappia benissimo che rischia la vita, stando con uno come quello! Dove sono diretti?»

   «Ragazzo, dovresti sapere che nessuno sarebbe riuscito a impedirglielo, e non so dove stiano andando, non me lo hanno detto».

Mentì di proposito, aveva un brutto presentimento. Il ragazzo si girò e s’incamminò di gran carriera verso l’uscita del paese dalla quale Lind era partito. Corgh uscì e lo fermò.

   «Dove pensi di andare?»

«A riportarla indietro».

   «Non farlo, ci sono cose che non sai, rischi di cacciarti in guai troppo grandi per te. Lascia perdere!»

Il giovane si fermò e si girò verso Corgh.

   «Centra quel vecchio in tutto questo? Non m’interessa, sono pur sempre semplici esseri umani, non mi fanno paura».

Detto questo, riprese il cammino senza fermarsi.

Corgh sbuffò e si massaggiò la spalla, quei movimenti bruschi gli avevano risvegliato i dolori delle ferite.

   “Esseri umani forse sì, ma semplici direi di no ragazzo. Spero per te che i miei brutti presentimenti siano errati. Non mi stai per niente simpatico, ma vuoi molto bene a Sephyr, questo te lo devo concedere,e ti capisco.”

   «Che succede, Corghyan? Ieri ho visto uno strano personaggio andarsene da casa tua, e dove se ne sta andando il nipote del nostro sindaco?» 

Jofiah aveva assistito alla scena e si era avvicinato all’oste, sembrava preoccupato.

   «Guai in vista, amico mio. E quel testone di Alden ci sta andando a sbattere da solo. Ma vieni dentro, non ho voglia di spiegarti tutto qui fuori».

I due uomini entrarono in casa. Corgh si risedette sulla sua poltrona, mentre Jofiah si accomodò su una sedia. Lo sguardo del negoziante cadde sul ritratto alle spalle dell’oste.

   «Quanti anni sono passati? Venti?»

«Già. Deliah aveva ragione, il tempo passa molto in fretta».

   

Una figura incappucciata stava osservando il paese dalla collina che lo sovrastava, nel punto esatto in cui Anilion e Boid avevano osservato a loro volta la battaglia tra Lind e il golem. Impugnava una grande falce dalla lama nera. Dopo qualche istante si girò e scomparve tra gli alberi. Poco dopo, una nera figura alata prese il volo dal fitto della foresta, mentre le nubi cariche di pioggia cominciavano a scendere verso valle.

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Capitolo 18
*** Il Cavaliere decaduto ***


18. Il cavaliere decaduto

 

Nicodhem era seduto sulla sua sedia, finemente intarsiata e dipinta d’oro, simbolo del suo potere sulla popolazione di briganti e assassini che viveva a Caputargilis. Si massaggiava il moncherinom generalmente non gli dava fastidio, se non nelle giornate molto umide, ma ora aveva la sensazione di sentire prurito alla mano che non c’era più da vent’anni. Aveva superato la fase dell’arto fantasma da molto tempo, ma i fatti dell’ultima giornata avevano acceso i ricordi legati al momento in cui era stato costretto a menomarsi per non morire. Il silenzio era quasi assoluto nel grande salone del castello, gli unici rumori provenivano da fuori, ed erano di fiamme che divoravano case e alberi. L’uomo si guardò intorno, ammirando ancora una volta la magnificenza della sala. Le pareti affrescate con scene di battaglia, nelle quali grandi condottieri sgominavano eserciti, le volte a botte del soffitto, con le travi ornate da statue di animali fantastici, l’imponente tavolo di legno nero, lungo quasi dieci metrie  intorno al quale erano state decise guerre e celebrati banchetti di vittoria ai tempi dei re, azioni di saccheggio e  festini sfrenati nei tempi recenti. La luce rossa, che filtrava dalla grande vetrata, illuminava debolmente la sala, creando ombre tremolanti. Il suo pensiero tornò ai tempi in cui era il valoroso capitano delle milizie del regno, amato e rispettato dai suoi soldati. Ricordò il momento in cui l’ultimo re morì senza un erede, lasciando la popolazione in balia dei nobili, troppo avidi o troppo stupidi per capire che una lotta per il potere avrebbe portato solo verso una guerra civile e alla conseguente rovina. Ricordò i momenti in cui la città era nel caos, con saccheggi e omicidi continui che costrinsero i più deboli ad andarsene, mentre quei piccoli uomini, al sicuro nel loro rifugio dorato, discutevano su chi avrebbe dovuto prendere le redini del comando. Ricordò i momenti in cui decise che non avrebbe tollerato oltre tale scempio e aveva fatto irruzione in quella stessa sala con i suoi ufficiali, facendo strage di quelle nullità. Ricordò gli anni che seguirono, in cui la popolazione si era trasformata: da popolo di contadini e commercianti in accozzaglia di ladri e briganti. Arrivarono da ogni luogo alla sua corte, dove potevano vivere al sicuro a patto di servirlo e di non commettere reati all’interno delle mura della città. Non era fiero di essere diventato il signore di un popolo di malviventi, ma almeno la sua città era ancora viva. Ora però, aveva commesso un errore molto grave e stava per pagarne le conseguenze. Sapeva che, prima o poi, il destino lo avrebbe punito per la sua scelta, ma ora che quel momento era arrivato, non si sentiva pronto e allo stesso tempo si malediva per essere così debole. 

   L’ombra comparve alla finestra, ingrandendosi sempre di più. Poco prima che la vetrata esplodesse in una pioggia di schegge si alzò, impugnò la spada e recitò il giuramento dei cavalieri:

   «Crederò a tutto quello che il mio Signore insegna ed osserverò i suoi ordini. Proteggerò il regno. Difenderò i deboli. Amerò il paese dove sono nato. Non mi ritirerò mai davanti al nemico. Adempierò i miei doveri. Non mentirò mai e sarò felice della parola data. Sarò generoso con tutti».

   L’ombra nera era oramai sopra di lui e gli artigli, neri come la notte, puntavano il suo petto. 

Nicodhem alzò la lama davanti al viso e urlò con tutto il fiato che aveva in gola.

   «Io sarò il campione del diritto e del bene, contro l’ingiustizia e il male!»


Lind si stava ancora massaggiando il fianco e nel frattempo si infilava gli stivali. Sephyr aveva indossato una camicia di riserva del ragazzo, che ovviamente le era enorme, e quindi si stava arrotolando le maniche sui polsi.

   «Scusa, ma non avevo calcolato la possibilità di essere trapassata da parte a parte da un orco, quando ho preparato lo zaino. »

   «Va vene, ma almeno un cambio è d’obbligo quando si viaggia, non credi? »

   «E’ colpa tua, mi sono preparata in fretta per seguirti, quindi non rompere! Come sto?»

Finì di allacciare le fibbie sulle caviglie e si girò verso la ragazza. La camicia non aveva colletto e si chiudeva sul petto con dei lacci. A lui arrivava poco sotto il mento quando la indossava, ma addosso a Sephyr l’apertura slacciata formava una scollatura generosa. Il ragazzo non riuscì a rispondere guardandola negli occhi.

   «Che dire, ti dona, ma forse è meglio se ti troviamo qualcosa di più pratico, non vorrei che ti beccassi un raffreddore. »

La ragazza, seguendo il suo sguardo, si coprì con le mani arrossendo.

   «Ogni tanto vorrei che mi guardassi in faccia, lo sai?»

Lind le sorrise, imbarazzato, e non rispose, distogliendo lo sguardo. S’infilò i guanti e allacciò il fodero della spada sul petto. “Meglio che mi faccia due passi al fresco pensando ad altro...”

    «Mi sembra di aver visto un ruscello qui vicino, vado a controllare, siamo senza acqua. Tu riposati, io torno subito. Mi raccomando, non aprire a nessuno.»

   «Va bene, ma non metterci tanto. Non credo di essere in condizione di resistere a un male intenzionato, in questo momento. »

Lind la guardò con sguardo malizioso.

   «Ah si? Allora forse dovrei verificarlo, per sicurezza…»

«La finisci?! Guarda che la forza per un altro pugno la trovo! Ma questa volta miro più in basso!  »

Il ragazzo sscappò fuori, fingendo di essere terrorizzato. Sephyr, non appena fu uscito dalla porta, sorrise e sussurrò piano.

   «Non so quanto riuscirò a resistere».

Fortunatamente lui non sentì, era già abbastanza su di giri. Appena uscito, tentò di calmarsi e respirò a fondo. Quando i polmoni furono pieni, successe qualcosa di strano. Ebbe la sensazione che il suo corpo si ingrandisse a dismisura e contemporaneamente riuscì a vedere e percepire tutto quello che aveva intorno con una precisione incredibile. Sentiva distintamente il battito del cuore di Sephyr, il movimento delle ali degli uccelli su un albero a centinaia di metri di distanza, il respiro di un cinghiale sui margini del bosco a sud, e poi qualcosa che lo fece sobbalzare: il movimento furtivo di un essere umano, a pochi passi dal cinghiale all’interno del bosco. Si stava avvicinando. Le sensazioni cessarono di colpo.       

   “Questa è nuova, devo capire come ci sono riuscito perché potrebbe essere utile.” 

Tornò di corsa dentro la casa. La ragazza si spaventò per quell’irruenza.

   «Cambio di programma, dobbiamo andarcene subito. Ce la fai?»


   Alden era riuscito ad arrivare al rifugio prima che scoppiasse la tempesta. Non voleva perdere tempo, ma non sarebbe riuscito a proseguire sotto quel diluvio, quindi non aveva avuto scelta. La cosa che lo infastidiva di più, era che la pioggia avrebbe cancellato le tracce. Per il momento sembrava che i due avessero seguito la strada principale, per cui, almeno fino a valle, non ne avrebbe avuto bisogno, ma una volta in pianura sarebbe potuto essere un problema. Il sangue gli ribolliva nelle vene al pensiero di Sephyr insieme a quello stregone. Si conoscevano da quando erano piccoli e lui era sempre stato sicuro che, alla fine, sarebbe riuscito a farla sua nonostante lei lo avesse rifiutato più volte con la scusa di sentirlo più come un amico fraterno. Non aveva rivali in paese, anche perché nessuno si sarebbe sognato di mettersi in competizione con lui, e lei non sembrava interessarsi a qualcun altro. Le cose erano cambiate all’arrivo del Maestro e del suo discepolo. Fin da subito, aveva notato un cambiamento in lei: sembrava più allegra e la sorprese più volte mentre guardava quel ragazzo con occhi che non conosceva, ma che capiva cosa potessero significare. Aveva deciso che doveva andarsene, in un modo o nell’altro.    Seguiva gli stregoni ogni mattina nei boschi, quando si rese conto che i due sceglievano sempre lo stesso posto per allenarsi, aveva fatto la sua mossa. Si spinse fino ai confini con il territorio degli orchi e attirò una pattuglia fino al luogo degli allenamenti. Aveva rischiato molto, ma la sua conoscenza della foresta lo aveva aiutato a nascondersi nel momento giusto. Sapeva che quei tre cacciatori avrebbero potuto fare poco contro il Maestro, ma sperava che il ragazzo si spaventasse e decidesse di lasciare il paese. Lo aveva sottovalutato. Aveva sottovalutato anche la reazione degli orchi, non avrenbbe mai pensato che attaccassero il villaggio, con quella mostruosità di metallo poi. Si era sentito in colpa per aver messo in pericolo la sua gente, ma per fortuna non si era fatto male nessuno. La misteriosa scomparsa del maestro aveva peggiorato le cose, quel maledetto era riuscito a sconfiggere da solo gli orchi e quella “cosa” senza il suo aiuto. Inoltre aveva messo in pericolo Sephyr e suo padre. Nonostante gli fosse grato di aver salvato il paese, non aveva potuto fare a meno di odiarlo ancora di più, quando vide la preoccupazione sincera della ragazza che lo soccorreva dopo la battaglia. Adesso che finalmente se ne era andato, lei lo aveva seguito. Questo non poteva sopportarlo. 

   La tempesta, nel frattempo, era passata. Riprese il cammino, nonostante fosse oramai buio. Arrivò a valle alle prime luci dell'alba. Si ritrovò davanti alla scena della battaglia, i corpi degli orchi erano sparsi a terra e uno stormo di corvi stava banchettando con i loro resti. 

   "Cosa diavolo è successo qui?"

Cercò qualche segno di eventuali superstiti. Vide le impronte di quattro persone che si allontanavano da li e si dirigevano a est, alcune erano più fresche e appartenevano a tre uomini, altre più vecchie si dirigevano nella stessa direzione ed erano più profonde, come se chi le aveva lasciate portasse qualcosa di pesante. Riprese il cammino seguendo le tracce, ora aveva ancora più fretta.

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Capitolo 19
*** Strade che si dividono ***


19. Strade che si dividono

 

«Sei sicuro che questo trabiccolo riuscirà a portarci fino alla Foresta Nera?»

   Corgh stava osservando, con sguardo preoccupato, lo scricchiolante e malmesso carro, mentre Jofiah lo legava a Moshi, un vecchio e imponente cavallo da lavoro. Le assi di legno sembravano una colonia di tarli, mentre le ruote avevano qualcosa di strano. Osservandole meglio, notò che erano una diversa dall'altra, probabilmente la cosa era dovuta a ricambi in tempi diversi. Una in particolare attrasse la sua attenzione, era stata chiaramente passata alla pialla per ridurne il diametro e renderlo così uguale a quello delle altre. Il risultato era che ora lo spessore del legno del cerchio era la metà, in confronto alle altre. 

   «Non preoccuparti, ne ha già passate tante senza alcun problema, non ci tradirà.»

   «Che ne abbia passate tante lo vedo, spero solo che non decida di averne avuto abbastanza mentre c'è il mio deretano sopra».

Jofiah sbuffò e ignorò le parole dell'oste. Moshi nitrì e raspò la terra con una delle zampe anteriori, già impaziente di partire. I due uomini caricarono i bagagli e si sistemarono sulla panca. Il tempo era buono e il sole aveva già asciugato le strade dalla pioggia. Stavano per partire, quando il sindaco chiamò a gran voce.

   «Corgh! Dove te ne stai andando? I lavori all’Unghia Nera sono finiti, è ora di riaprire!»

Jofiah guardò il compagno con sguardo interrogativo, il quale alzò la mano nel gesto di “non preoccuparti, adesso mi arrangio”.

   «Buongiorno sindaco! Lo so bene, ma mi sono accorto di essere a corto di provviste, per cui il nostro concittadino Jofiah ha acconsentito ad accompagnarmi al mercato di Linegard con il suo carro, saremo di ritorno entro domani».

   «Questo significa altri due giorni di chiusura! Nel frattempo può aprire Sephyr, no? Vedo che non viene con voi».

Corgh rimase spiazzato, ma mantenne lo sguardo impassibile.

   «Sarebbe stata un’ottima soluzione, ma purtroppo mia figlia non è in paese. Ha deciso di andare a trovare dei conoscenti giù a valle, dovrebbe tornare anche lei tra qualche giorno».

Il sindaco era sorpreso.

   «L’hai lasciata partire da sola? Un evento incredibile! Cosa ti è successo? A meno che… »

L’oste ebbe un sussulto, se il sindaco avesse avuto il sospetto che se ne fosse andata con Lind, sarebbe stata dura giustificarlo, e adesso aveva fretta.

   «A meno che cosa?»

«Ecco dov’è Alden, giusto? Mi stavo domandando che fine avesse fatto. Non preoccuparti, mio nipote è in gamba e molto serio, tua figlia non corre nessun pericolo con lui. Lo sapevo che, prima o poi, quei due si sarebbero messi insieme!»

Corgh trattenne un sorriso sarcastico ed assunse la sua solita faccia cupa da circostanza, mentre il sindaco sembrava orgoglioso della cosa. “Non è proprio così, ma per il momento può andare, almeno possiamo toglierci di torno.”

   «Lo spero, signor sindaco. Sa quanto tengo a mia figlia».

«Posso darti la mia parola! Mi fido ciecamente di quel giovanotto».

   L’oste diede un colpo alle gambe di Jofiah, che capì al volo e spronò Moshi. Il vecchio cavallo non aspettava altro, partì con passo fiero trascinandosi dietro il carro, in un concerto di dondolii e scricchiolii, dirigendosi verso l’uscita del paese.


I due stregoni osservavano da lontano, in silenzio, la colonna di fumo che saliva dalla città. Il Maestro Anilion sembrava concentrato su qualcosa, aveva la testa china e gli occhi chiusi. Finalmente riaprì gli occhi e alzò lo sguardo.

    «Non è più qui. Si è diretto verso sud. Probabilmente è l’ora di Celestia».

Tatzel grugnì di disapprovazione. Boid si avvicinò al vecchio.

   «Lachert è con lui?»

«Non riesco a percepirlo, probabilmente ha già esaurito il suo compito. Ha lasciato qui qualcosa, comunque».

   Il ragazzo si voltò e cominciò a incamminarsi nella direzione indicata da Anilion.

    «Peccato, avrei voluto farlo fuori con le mie mani. Andiamo, non abbiamo niente da fare qui, e lui si sposta molto velocemente, a quanto pare. I pesci piccoli non m’interessano».

   Boid sembrava pensieroso, il maestro se ne accorse e gli appoggiò una mano sulla spalla.

   «Mio caro Boid, penso di capire cosa ti passa per la mente. Credo che tu abbia ragione, forse gli eventi devono essere accelerati. Ho fiducia in te e sono convinto che saprai sorreggere il peso che stai per caricarti sulle spalle. Dopotutto solo tu ne saresti in grado, sicuramente non Tatzel.  Io, oramai, non ne ho più la forza».

   «La ringrazio, spero di non deluderla. Parto immediatamente».

«Non ce ne è bisogno, puoi pure aspettarli qui, non tarderanno. Addio, amico mio, buona fortuna».

   Tatzel si voltò per un secondo, non condivideva la scelta del compagno, ma accennò un saluto e riprese a camminare. Vedendo allontanarsi i due stregoni, Boid provò tristezza. Non sapeva se e quando li avrebbe rivisti, stavano andando incontro a un pericolo dalle dimensioni ancora ignote, ma sicuramente da non sottovalutare. Si voltò a contemplare nuovamente la città in fiamme. Strinse più forte la sua lancia, fino a farsi diventare le nocche bianche.


   La figura incappucciata stava controllando la casa, sembrava sorpresa e indispettita per averla trovata vuota. Non avevano lasciato nulla, ma chiaramente se ne erano andati da poco, le braci nel camino erano ancora rosse. Il divano era macchiato di sangue, forse uno dei due era ferito, questo li avrebbe rallentati. Non perse altro tempo e si precipitò fuori.

   

«Mi vuoi dire cosa sta succedendo? Perché siamo dovuti scappare in questo modo?»

   Lind guardò la ragazza, era pallida ed affaticata, aveva la fronte imperlata di sudore e respirava a fatica. Con tutto il sangue che aveva perso e il poco tempo che aveva avuto per riprendersi, a quell’andatura rischiava di collassare. Non potevano fermarsi però, la figura che aveva percepito non prometteva nulla di buono e non aveva nessuna intenzione di affrontarla, per il momento. Il paese era oramai a portata di sguardo, si vedevano già le prime fattorie. Una volta arrivati, sarebbe stato più facile nascondersi. Si tolse dalle spalle lo zaino e lo infilò al rovescio sul petto. 

    «Te lo spiego quando saremo al sicuro in paese, intanto sali».

Si chinò davanti a lei, mostrandole le spalle.

   «Cosa? Neanche per sogno, non sono una bambina!»

«Poche storie, stai per svenire e non possiamo fermarci».

   Effettivamente non si sentiva molto bene, aveva le gambe pesanti e la testa le girava. Valutò per un momento quanta strada dovevano ancora percorrere e alla fine considerò la proposta di Lind in modo favorevole.

   «Ok, ma solo perché sono stanca, sappilo».

«Certo…»

   Era più leggera di quello che ricordava o, semplicemente, non era sfinito come dopo la battaglia. Non gli dispiaceva sentirsela addosso, era una bella sensazione. Ripresero il cammino con la stessa andatura di prima. In lontananza cominciavano a delinearsi le case del paese. Tentò invano di ricordarne il nome, ma inutilmente. Le fattorie che incontravano erano tutte dotate di mulini a vento di mattoni rossi, le cui pale giravano lentamente nella brezza mattutina. I contadini li guardavano incuriositi. A Sephyr venne in mente l’ultima volta che suo padre l’aveva portata sulle spalle. Durante una gita in uno dei rifugi in altura, quando aveva circa dieci anni. Si era slogata una caviglia correndo e, quindi, non era in grado di scendere per i sentieri da sola. Corgh se l’era caricata in spalla ed era sceso come niente fosse. Ricordava che si sentiva bene e al sicuro sulle spalle di suo padre, tanto che si era subito addormentata. Ora provava una sensazione simile, forse diversa, ma ugualmente “familiare”.

   «Lind…»

« Dimmi».

   «Cosa farai quando avrai trovato il Maestro?»

«Pensavo di tornare a casa da Shayra».

   «Ah…»

«Ma solo per lasciarlo li con lei».

   «Ah si? E poi, cosa farai?»

«Vuoi la verità? Volevo tornare per un po’ a Pineswood. L’idea di servire caffè all’Unghia Nera non è male, forse potremmo metterci in società, io recupero la materia prima e voi la servite. Ho anche qualche idea su come prepararlo in modo migliore. Che ne dici?»

   «Mi sembra una buona idea».

Si addormentò appoggiando la testa sulla spalla del ragazzo, sorridendo.

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Capitolo 20
*** Tempismi ***


20. Tempismi

 

Alden arrivò alla fattoria, dove si erano rifugiati i ragazzi, poco dopo che la figura incappucciata l’aveva lasciata. Le tracce più profonde portavano fino alla porta, mentre le più recenti restavano a distanza, per poi allontanarsi. Trovò delle impronte molto fresche che si avvicinavano alla fattoria da un’altra direzione, per poi allontanarsi lungo la strada, seguendone delle altre, altrettanto fresche, che appartenevano a due persone. 

  “La compagnia sta aumentando…” pensò, mentre notava che la porta era stata forzata. Entrò e si mise a controllare la stanza. Le braci del camino erano spente, ma ancora calde. Vide le macchie di sangue sul divano e le tracce di un giaciglio a terra. Sul divano notò dei capelli neri e lunghi. 

   ”E’ ferita! La pagherai molto cara per questo, Lind!” 

Uscì di corsa e si mise a seguire le nuove tracce, dovevano essere vicini.


«Sephyr! Siamo arrivati».

   La ragazza si svegliò e si accorse di essere ancora sulle spalle di Lind. Si era addormentata con la bocca leggermente aperta e, alzando la testa, lasciò un filo di saliva sulla camicia del ragazzo, che non se ne accorse, ma l’uomo dall’altra parte del bancone sì. Sorridendo affettuosamente chiese quanto avevano intenzione di fermarsi.

   «Solo stanotte, ripartiamo domani».

«Puoi mettermi giù adesso…»

   La fece scendere, era ancora un po’ intontita e si aggrappò al suo braccio. Il padrone della locanda posò le chiavi della stanza sul bancone, sempre sorridendo.

   «Ecco qui. Le scale per salire sono qui dietro. Potete mangiare nella taverna qui a fianco, se avete fame».

Alla parola “mangiare” Sephyr sembrò rianimarsi improvvisamente.

   «Ecco un’ottima idea!»

Strinse più forte il braccio del ragazzo e lo trascinò fuori dalla locanda.

   «Un momento! Portiamo almeno gli zaini in camera!»

Il locandiere li stava già sollevando da terra.

   «Faccio io, non preoccupatevi!»

«Grazie mille, ci scusi!»

   La ragazza lo trascinò, quasi di peso, all'interno della taverna. Il locale era pieno, dopotutto era ora di pranzo. Una cameriera li salutò cordialmente e li portò a un tavolo per due in un angolo, sembrava essere l'ultimo rimasto libero. Un paio di ragazze gli lanciarono delle occhiate incuriosite, per poi parlottare tra di loro ridendo. Sephyr se ne accorse.

    «Hai fatto colpo! Stai attento, perché si dice che da queste parti le donne siano molto focose».

«Sul serio? Interessante...»

   La ragazza lo fulminò con lo sguardo, dopodiché si sedette e iniziò a leggere il menu, imbronciata. Lind sorrise tra se e se. Si sedette a sua volta e cominciò a osservare il resto della gente. Gli avventori erano perlopiù gente del posto, contadini o artigiani. Riconobbe qualche commerciante, identificabile dall'immancabile borsa da campionario, nessuno di particolarmente sospetto. C'era anche un gruppo di folletti che stava bevendo birra da enormi boccali, per il momento sembravano ancora abbastanza sobri.

   «Prima di andare a divertirti con qualche contadinella, devi offrirmi il pranzo, mi sembra il minimo!»

«Che c'è? Saresti gelosa?»

   «Assolutamente no».

La cameriera arrivò a prendere le ordinazioni e a portare un cestino di pane fresco, insieme a una brocca d'acqua. Presero il menu del giorno, che consisteva in una zuppa di cereali e da un piatto di carne di maiale cotto nella birra con contorno di patate. Lind rimase sbalordito dalla velocità con cui la ragazza spazzolò i piatti. Sembrava che non mangiasse da giorni. Gli sembrava impossibile che, poche ore prima, fosse gravemente ferita. Non appena finì l'ultima briciola dal piatto, si appoggiò allo schienale della sedia con aria soddisfatta.

   «Ora mi sento molto meglio!»

«Pensavo ti saresti mangiata anche i piatti...»

   «Spiritoso...Ora mi vuoi dire cosa ti è successo, prima? Perché siamo dovuti scappare come dei ladri?»

Lind abbassò la voce e la guardò con aria seria.

   «Credo che qualcuno ci stia seguendo».

La ragazza appoggiò i gomiti sul tavolo per avvicinarsi.

   «Come fai a saperlo? L'hai visto?»

«No...ma l'ho, come dire, percepito».

   Lo guardò dubbiosa.

«Non avevi mai detto di essere in grado di fare queste cose».

   «Infatti, non l’avevo mai fatto. Comincio a credere alle parole del Maestro, quando dice che uno stregone diventa più forte con l’esperienza. Solo che non aveva mai specificato che avrei acquisito tecniche in modo casuale».

   «Mi pare che, ultimamente, siano molte le cose che ti sfuggono di mano. Devo preoccuparmi?»

Il ragazzo ritornò con la mente ai pensieri che aveva avuto sull’imprevedibilità dei suoi comportamenti durante la strana trasformazione con la spada. Voleva ribadirle il fatto che, secondo lui, sarebbe stato più sicuro se fosse ritornata a casa, ma non aveva voglia di essere picchiato nuovamente, per cui glissò, con l’intenzione di ritornare al più presto sull’argomento. In realtà, c’era dell’altro. Non voleva che lei se ne andasse. Non solo perché avrebbe sentito la sua mancanza, ma “doveva” stare con lei, la sua vicinanza aveva uno scopo ben preciso, anche se per il momento non riusciva a comprenderlo.

«Credo di no…»

   «Mmmh. Cos’hai intenzione di fare adesso?»

«Per oggi restiamo qui, hai bisogno di recuperare le forze. Terrò gli occhi aperti».

   «Bene, mi fido di te. Adesso devo comprare dei vestiti nuovi, ho visto un negozio giusto qui davanti, andiamo».

Si alzò da tavola senza dargli il tempo di obbiettare. Non era una grande idea girare per negozi, con un possibile nemico sulle loro tracce. Qualcosa gli disse, però, che non avrebbe avuto scelta. La scarsa autorità che suscitava sulla ragazza cominciava a farsi sentire. “Prima o poi riuscirà a mettermi seriamente nei guai, me lo sento.” Con aria afflitta e rassegnata la seguì, dopo aver pagato la cameriera, che lo salutò con un sorriso di circostanza. Sephyr, come se niente fosse, era già nel negozio che si trovava proprio davanti alla taverna e stava passando in rassegna i vestiti che erano esposti. Nell’esatto istante in cui anche Lind entrò, Alden arrivava in paese. Come prima cosa decise di controllare nella locanda, casomai avessero affittato una stanza.

   «Buongiorno, posso chiedervi un informazione? Avete visto una coppia di giovani nelle ultime ore? Un ragazzo alto come me, con i capelli neri e una giovane donna molto bella, forse ferita?»

   L’anziana signora dall’altra parte del bancone lo guardò con sguardo neutro. Ci pensò su un momento e rispose con voce roca.

   «E tu chi sei?»

«Giusto, mi scusi. Mi chiamo Alden, sono il nipote del sindaco di Pineswood. Ora mi può dire se li ha visti?»

   La vecchina, sempre senza cambiare espressione, prese un libro da sotto il bancone e incominciò a leggere. Dopo qualche minuto, il ragazzo si spazientì.

   «Mi scusi, signora. Allora?»

La vecchina alzò lo sguardo.

   «Cosa vuoi? Non vedi che sto leggendo?»

Alden non sapeva come reagire. Cercò di mantenere la calma. Dopo qualche altro minuto, la vecchina chiuse il libro.

   «No, nelle ultime due settimane non abbiamo avuto ospiti».

Il ragazzo cercò un senso nei dieci minuti che aveva impiegato per dargli una risposta del genere. Ringraziò e uscì, discretamente alterato. Appena si chiuse la porta alle spalle, il locandiere scese dalle scale che portavano alle camere. Salutò la vecchina, che era la madre, e segnò nel registro i due ragazzi. Alden pensò di passare alla taverna, forse lì avrebbe avuto più fortuna. Non appena mise piede all’interno del locale, rimase a bocca aperta. Il gruppo di folletti aveva raggiunto il limite alcolico di guardia. La scena era questa: uno dei folletti era saltato addosso alla cameriera e stava cercando di toglierle la camicetta, mentre due uomini lo prendevano a pugni cercando di fermarlo. Altri due folletti stavano bevendo direttamente dalle spine della birra mentre, quello che sembrava essere l’oste, stava duellando con un altro di quei molesti esserini a suon di fendenti di forchettone. Il resto degli avventori faceva il tifo per questo o per quello, in un tripudio di urla e incitamenti. “Ma dove diavolo sono finito?” Un secondo dopo fini a terra, tramortito da un boccale di birra vagante. 

All’interno del negozio, Sephyr aveva provato una quantità incredibile di abiti, mentre Lind aspettava pazientemente, controllando in continuazione la porta per scorgere eventuali persone sospette. Finalmente la ragazza si decise: oltre a una camicia quasi identica a quella che aveva all’inizio del viaggio, prese altri abiti di riserva. Uscendo, sentirono la confusione provenire dalla taverna, ma decisero di non andare a curiosare e si diressero verso la locanda.

   «Saranno i folleti, ci scommetto» commentò Lind. 

Il locandiere li salutò e li informò che i loro bagagli erano nella loro stanza. Ringraziarono e salirono al piano di sopra. Lind notò che il locandiere gli aveva fatto l’occhiolino con fare complice, capì il perché una volta aperta la porta della camera.

   «Va bene, hai un minuto di tempo per spiegarmi questa cosa» disse Sephyr con voce furibonda.

«Evidentemente ha equivocato…io non c’entro, te lo giuro» tentò di difendersi Lind.

   La stanza era addobbata con candele e fiori profumati, il letto matrimoniale a baldacchino aveva i cuscini sistemati a formare un cuore. Sul tavolino era sistemato un secchiello del ghiaccio con una bottiglia di vino e due calici.  Alla finestra era appesa una pesante tenda per mantenere la luce soffusa.

  

   Sul tetto della locanda, la figura incappucciata osservava in silenzio.

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Capitolo 21
*** Complicazioni ***


21. Complicazioni

 

La notte era arrivata in fretta, le giornate non erano ancora molto lunghe: la primavera era solo all'inizio. 

   Lind osservava la strada, oramai deserta, dalla finestra della camera. Sephyr, distesa sul letto su di un fianco con la testa appoggiata al cuscino e le gambe leggermente piegate, lo guardava in silenzio. Si era appena svegliata. Dopo essere entrati in camera, trovandola addobbata come un’alcova, si era divertita nel fargli credere di essere arrabbiata a morte con lui per aver tentato di sedurla con quell’espediente. Sapeva benissimo che non centrava niente, ma l’aveva fatto per combattere l’imbarazzo. Ora si sentiva un po’ in colpa, l’aveva costretto a star seduto per ore su una scomoda sedia di legno, intimandogli di non provare a salire sul letto. In realtà la sua idea era di “perdonarlo” poco dopo: immaginava che fosse stanco per averla portata sulle spalle fino a li, quindi gli avrebbe, magnanimamente, concesso di stendersi. Purtroppo non aveva fatto i conti con il fatto che era ancora debole e, soprattutto, che aveva appena mangiato: si era addormentata pesantemente un minuto dopo essersi distesa. 

   La camera era immersa nella penombra: la lampada a olio, che era appoggiata sopra a un comodino, era spenta come le candele. Dal letto, la ragazza vedeva la luna piena attraverso la finestra, bianca e luminosa come si vede solo nelle notti limpide e fresche di primavera. Lind non si era ancora accorto che si era svegliata, per cui ne approfittò per osservarlo indisturbata. Sembrava pensieroso, aveva un’espressione leggermente accigliata, come se fosse preoccupato per qualcosa.

   Ripensò alla prima volta che l’aveva visto: era entrato all’Unghia Nera con il Maestro in uno stato pietoso, sembrava veramente provato dal viaggio. Aveva scambiato suo padre per un orco ed era caduto a terra, mancando la sedia. Sorrise a quel ricordo, lo aveva trovato subito simpatico, nella sua goffaggine. Nei giorni successivi non avevano scambiato molte parole, ma per qualche motivo si sentiva strana e nervosa, almeno fino a quando non lo vedeva entrare alla taverna, esausto per gli allenamenti. Allora si rilassava. La sera dell’esplosione, e della scomparsa del Maestro, stava sistemando i piatti sui ripiani del bancone, lo aveva appena difeso da uno scherzo di suo padre, quando si ritrovò a terra, in mezzo al fumo e con una spalla dolorante. Si era rialzata a fatica, il fumo era molto denso, e suo padre l'aveva trascinava fuori dal locale. Una volta fuori, si era ripresa quasi subito, aveva solo dei graffi a un braccio e una piccola botta sulla fronte, poi lo aveva visto uscire con gli abiti mezzi bruciati e una profonda ferita alla testa. Lo aveva chiamato, ma sembrava non sentirla, dopodichè si era accasciato a terra, privo di sensi. Suo padre aveva deciso di portarlo a casa loro: il Maestro era sparito e le stanze dell’Unghia non erano utilizzabili. L’avevano sistemato nella stanza degli ospiti dopo averlo bendato e spogliato. O meglio, suo padre l’aveva spogliato. Lei si era limitata a bendarlo e a controllare che continuasse a respirare. Era rimasto incosciente per una settimana, durante la quale, appena poteva, restava al suo capezzale sperando che si svegliasse. Stranamente, suo padre non aveva nulla da obbiettare, probabilmente era per via dei problemi che aveva nel sistemare la locanda, chissà. Mentre dormiva, aveva un’aria così indifesa da fare tenerezza. Alla fine si era svegliato. 

   Ripensò poi alla sera in cui avevano cenato da soli, a quello che le aveva detto poco prima dell’attacco degli orchi e del golem.

   “E questa cos’era? Ci stai provando? Guarda che se mio padre ti sente sono guai!”

   “Forse ne varrebbe la pena.”

Il suo cuore aveva accelerato, per un momento. Poi la battaglia, al termine della quale si era accasciato nuovamente al suolo, dopo essersi trasformato in una specie di uomo-lucertola. In quel momento si era veramente preoccupata, l’idea di non potergli più parlare, o di vederlo trasformato in una specie di mostro, la faceva stare male. Fortunatamente era solo svenuto ed era tornato subito normale. Si era sentita in colpa verso suo padre, anche lui era ferito, ma i suoi pensieri erano focalizzati su Lind. Poi le confidenze tra loro, scoprire un po’ del suo passato, aprirsi con lui su sua madre, cosa che non aveva mai fatto con nessuno, scoprire di poter essere se stessa con qualcuno senza preoccuparsi delle conseguenze. Quando aveva sentito che stava per andarsene, non aveva esitato un secondo a seguirlo. La scusa che la destinazione fosse Caputargilis era ottima. In verità, voleva veramente trovarsi a faccia a faccia con quel Nicodhem, per fargli capire che non avrebbe mai più potuto spaventarla come allora. Si era veramente arrabbiata del fatto che se ne era andato senza salutarla, ma poteva capirlo, neanche lei ne sarebbe stata capace. 

   Alla fine le aveva salvato la vita. 

Nel momento in cui la spada dell’orco l’aveva trapassata, era spaventata. Ovviamente aveva paura di morire, ma era anche triste al pensiero di abbandonarlo e di non poter continuare il viaggio appena iniziato, insieme. Quando si era svegliata e l’aveva visto lì, accanto a lei, aveva ringraziato il destino, il cielo o chiunque avesse deciso che non era ancora l’ora di separarli.


Lind si girò verso il letto e si accorse che era sveglia e lo stava fissando.

   «Ciao, ben svegliata. Cominciavo a credere che avresti dormito fino a domani. Come ti senti?»

«Ciao…direi bene. Tu piuttosto, sei sempre rimasto lì a fare la guardia?»

  Si mise a sedere e appoggiò il mento sulle ginocchia, abbracciando le gambe.

    «Più o meno…»

«Mi dispiace, devi essere stanco…»

    Gli stava chiedendo scusa? La guardò con espressione dubbiosa.

«Che succede? Sei sicura di stare bene?»

    «Volevo solo essere gentile, ma se questa è la reazione, ritiro tutto. E tu continua a startene in piedi».

    «Ok, già meglio. Grazie, comunque» rispose sorridendo.

Tornò con lo sguardo alla finestra, la strada continuava a essere deserta. Ogni tanto passava qualcuno diretto alla taverna, ma erano perlopiù contadini. Del misterioso inseguitore, per il momento, nessuna traccia. Dubitava che lo avessero già seminato, forse stava aspettando da qualche parte che si muovessero. La sensazione che aveva avuto quando lo aveva "sentito" non gli era piaciuta, per cui non era per niente tranquillo. Chi diavolo poteva essere? Aveva a che fare con la scomparsa del Maestro? Forse era uno di quei sicari di cui gli aveva parlato Corgh, un Dieber. La cosa di cui era certo, era che non erano al sicuro. Ed era colpa sua, lei non centrava con quella storia, aveva rischiato di morire, non poteva permettere che succedesse ancora. Doveva mettere da parte i suoi sentimenti e convincerla a tornare a casa, lì sarebbe stata al sicuro.

    «Cosa ti prende?» 

Aveva assunto di nuovo l'espressione preoccupata e accigliata di poco prima. Le rispose senza voltarsi, guardandola sarebbe stato più difficile.

   «C'erano dei mercanti nella taverna, probabilmente qualcuno di loro è diretto a Pineswood. Non avranno problemi ad accompagnarti».

    «Ti ho già detto che non voglio più sentire questi discorsi...»

«Hai già rischiato una volta la vita seguendomi e, come hai visto, non sono stato in grado di difenderti. Potrebbe capitare di nuovo» 

   Cercò di usare un tono che fosse il più autoritario possibile. Sephyr si alzò dal letto e si avvicinò senza parlare. Lui si preparò mentalmente a ricevere un altro pugno nelle reni, ma questa volta non avrebbe ceduto e l’avrebbe convinta.

    «Quando ti ho vista a terra ferita pensavo di averti perso. Non voglio rivivere un momento del genere, per cui ti prego…»

Si girò verso di lei. 

   Erano a un palmo di distanza. 

Incontrò il suo sguardo. 

   La sicurezza che aveva avuto fino a un secondo prima fu spazzata via dal blu, intenso e profondo, dei suoi occhi. Ancora una volta, avevano avuto il potere di rendere tutto il resto superficiale e indegno di preoccupazioni. 

   Con un filo di voce, tentò di finire la frase.

     «…torna a casa, da tu padre».

La ragazza gli mise le braccia intorno al collo e, senza dire nulla, lo baciò. Rimase per un momento sorpreso, poi la strinse con forza, ricambiando il bacio. Le mani di lei si insinuarono sotto la sua camicia e, lentamente, gliela sfilò.

    «Sephyr...»

«Silenzio».

   Lo prese per mano, lo condusse verso il letto camminando all'indietro senza togliere gli occhi dai suoi e, contemporaneamente, sbottonandosi la camicia con la mano libera. 

   «Questo complica le cose» 

La sua testa era oramai tra le nuvole, le parole gli uscivano dall bocca prive di forza.

    «Vorrà dire che dovrai impegnarti di più, per proteggermi. Perché non ho nessuna intenzione di lasciarti solo».

Lo guidò sul letto, dolcemente, sopra di se.


   Gli occhi del drago sulla spada, appoggiata al muro, incominciarono brillare di luce rossa, mentre quella della luna fu oscurata per un secondo da una grande ombra, ma i due non se ne accorsero.

 

   Alden si risvegliò con un forte mal di testa, era disteso su di un letto, ma non ricordava come ci era arrivato. Si passò una mano sulla fronte, sentì il bernoccolo e i capelli umidi, si guardò il palmo: non era sangue, ma acqua.

   «Ti sei svegliato, come ti senti?»

Girò il viso nella direzione della voce e riconobbe la cameriera che stava cercando di divincolarsi dal folletto, nella taverna. Era seduta su una sedia accanto al letto e gli sorrideva. Aveva un viso grazioso, con delle lentiggini sotto gli occhi verdi e lunghi capelli rossi, raccolti in una treccia. Alden immaginò avesse sui diciannove, venti anni al massimo.

   «Cos’è successo? Ricordo di essere entrato in una taverna e aver visto dei folletti che facevano una gran confusione, poi il nulla. Adesso la testa mi fa un male cane…»

La cameriera abbassò gli occhi e arrossì.

   «Mi dispiace, è colpa mia. Uno di quegli odiosi esseri mi è saltato addosso, io per difendermi gli ho lanciato contro la prima cosa che mi è capitata sottomano, ma l’ho mancato…»

   «…ma non hai mancato me, giusto?»

«…giusto».

   Il ragazzo si mise a sedere, massaggiandosi il collo.

«Accidenti, ma con cosa mi hai colpito? Mi sembra di essere stato incornato da un alce…»

   La ragazza arrossì sempre di più e strinse lo straccio che teneva in mano, bagnandosi la gonna. Alden si rese conto che lo aveva curato fino a quel momento, tenendogli la benda bagnata sulla fronte. A giudicare dal colore delle sue mani, doveva aver passato un bel po’ di tempo su quella sedia, accanto a lui. Addolcì il tono di voce.

   «Non fa niente, non è stata colpa tua. Il mio nome è Alden e vengo da Pineswood, invece tu sei…?»

   «Mari».

«Bene Mari, da quanto tempo sono svenuto?»

   «Qualche ora, non saprei».

"Qualche ora…potrebbero essere già lontani..."

   «Per caso hai visto due stranieri nelle ultime ore? Un ragazzo alto come me, con una strana spada, e una ragazza dai capelli neri?»

Mari ci pensò su qualche secondo, poi si illuminò.

   «Certo! Una bellissima coppia, entrambi molto affascinati! Sono venuti a mangiare alla taverna e se ne sono andati poco prima che scoppiasse il finimondo. Il ragazzo ha fatto colpo su un paio di mie amiche che erano lì…»

   “Quindi li ho mancati di pochissimo, maledizione!”

«…li hanno poi visti entrare nella locanda, dopo essere usciti dall’emporio…»

   “La locanda? Allora forse sono ancora lì.”

«Grazie, Mari. Ora devo andare».

   Si alzò dal letto e si diresse verso la porta. La testa gli girava, ma non doveva perdere tempo. Uscì in strada, si trovava a pochi metri dalla taverna ed era notte. Si diresse a passi rapidi verso la locanda.

   «Ciao, Alden...»

Quando arrivò davanti alla locanda, vide Lind a una finestra, di spalle.

   “Trovati!”

Prima che potesse fare un altro passo, una figura nera gli sbarrò la strada, comparendo come dal nulla. Sentì un colpo alla base della nuca, dopodiché perse nuovamente i sensi.

   La figura incappucciata tornò sul tetto della locanda, giusto in tempo per vedere l’ombra nera che passava davanti alla luna. Fissò quella misteriosa figura che si allontanava, silenziosa, nel cielo della notte. 

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Capitolo 22
*** Tentazioni ***


22. Tentazioni

 

«Ho fame, portami a fare colazione!»

Sephyr gli tirò un calcio da sotto le lenzuola per svegliarlo, non si era accorta, però, che era a filo del bordo del materasso e quindi lo fece cadere a terra pesantemente.

   «Ops...»

«Ma che diavolo...?!»

    Lind scattò in piedi di colpo, guardandosi intorno, con gli occhi ancora semichiusi, per capire cos'era successo. Poi vide la ragazza che lo guardava con aria colpevole.

   «Scusa…»

Si accasciò sul letto a faccia in giù, con le braccia lungo il corpo e le ginocchia sul pavimento.

   «wnw vwltw w l’wltrw mw fwrww mwlw swl swrww…»

«Cosa…?»

   Il ragazzo alzò la testa, appoggiando il mento al materasso, e la guardò con espressione finto-severa.

   «Una volta o l’altra mi farai male sul serio…»

Sephyr si accovacciò sulle ginocchia, avvicinando il viso al suo, con espressione da gattina maliziosa.

   «Bhè, nel caso, so come farmi perdonare. Giusto?»

Dopodiché, lo baciò dolcemente sulle labbra.

   «Effettivamente, non mi posso lamentare…»

«Bene! Allora, adesso pretendo un caffè e qualcosa da mangiare!»

   «Ai suoi ordini!»

Sephyr si alzò di scatto, coprendosi con il lenzuolo. Lui, guardandola, cullò per qualche istante l’idea di strapparglielo di dosso e continuare il discorso della sera prima.

   «E’ inutile che mi guardi così, adesso ho fame, per cui muoviti! Ti ricordo che mi hai fatto saltare la cena».

Lui assunse un’espressione esageratamente delusa.

   «Ho capito, ho capito…comunque non mi pare che la decisione sia stata solo mia…»

   Dei colpi alla porta lo fecero sobbalzare. Si alzò in piedi e impugnò la spada. Dirigendosi alla porta fece segno alla ragazza di nascondersi. Lei lo guardò un po’ stupita, dubitava che chi li stesse seguendo si presentasse semplicemente bussando alla loro camera, ma forse era meglio non rischiare, per cui si nascose dietro al letto. Lind si avvicinò alla porta non appena la vide "al sicuro".  Aprì di scatto senza chiedere chi fosse, pronto a rispondere a un eventuale attacco. Il padrone della locanda lo guardò spaventato. Aveva in mano un vassoio con del pane dolce, un vasetto di miele e delle tazze di latte, oltre a un piccolo vaso con dei fiori freschi. Il ragazzo nascose la spada dietro la schiena, cercando di fare finta di niente.

   «Bu...Buongiorno. Vi ho portato la colazione, ma se preferite posso ripassare...»

   «Assolutamente no!» disse Sephyr uscendo dal suo nascondiglio e precipitandosi a prendere il vassoio dalle mani dell'uomo, ringraziandolo. Naturalmente con ancora solo il lenzuolo addosso. Il locandiere rimase per un secondo sorpreso, poi si rivolse al ragazzo in modo complice.

   «Spero sia di vostro gradimento, come immagino sia stata la camera...»

   «Cosa? Ah, si grazie...Sephyr! Puoi vestirti per favore?»

«Guarda che non sono io quella senza niente addosso in questo momento».

   In effetti, si rese conto di essere nudo. Afferrò al volo la sua camicia che era appoggiata alla sedia e si coprì come poté. Il locandiere fece finta di niente, ma gli scappò un sorriso, dopodiché si congedò. Prima di salutarlo, Lind decise di chiedergli se avesse visto qualcosa di strano o se qualcuno avesse fatto domande su di loro nelle ultime ore.

    «No, non mi risulta. Perché? C'è qualche problema?»

«No no, non si preoccupi grazie mille».

   Sephyr si era già gettata sulla colazione, senza complimenti, seduta al tavolino. Lind si sedette di fronte a lei e la fissò divertito. Si domandava se quello fosse il suo normale appetito, le volte che avevano cenato insieme a casa sua le era sembrata meno “famelica” e, se effettivamente fosse la normalità, come facesse ad avere un fisico tanto perfetto. Probabilmente, era un'altra delle caratteristiche ereditate dalla madre elfo.

   «Cosa c'è?»

«Niente...»

   Incominciò a mangiare, adesso sentiva anche lui l’effetto di aver saltato la cena. Erano crollati entrambi a notte fonda, dopo aver esaurito le energie, ancora avvinghiati l’uno all’altra. Si sentiva estremamente rilassato, ma decisamente debole. Era felice, ma preoccupato allo stesso tempo. Come avrebbe dovuto comportarsi ora? Non era abituato a gestire queste situazioni. Oltretutto erano in una posizione di probabile pericolo. Gli era balenato, per un momento, l’idea di mandare tutto al diavolo e tornare insieme a Pineswood o al suo villaggio, da Shayra. 

  Giusto. Shayra. 

Come sarebbe potuto tornare da lei senza aver ritrovato il Maestro? No. Doveva andare fino in fondo, poi avrebbero trovato un luogo dove stare insieme in pace. Nel frattempo, avrebbe fatto in modo che non le succedesse niente, a costo della vita. A proposito…probabilmente l’avrebbe rischiata, quasi sicuramente in realtà, una volta che Corgh avesse saputo quello che era successo quella notte. A quel pensiero rimase bloccato per un secondo, con espressione preoccupata. Sephyr se ne accorse, aveva finito di mangiare e lo stava osservando, con il mento appoggiato alle mani incrociate e i gomiti sul tavolo.

   «Cos’è quella faccia? Stai già pensando al modo di filartela? Guarda che, dopo stanotte, non ti sarà molto facile liberarti di me».

   «Cosa? In questo momento, se vuoi che sia sincero, non uscirei neanche dalla porta di questa camera, senza di te. Ho solo focalizzato mentalmente la reazione che avrà tuo padre».

   «Ah. Allora fai bene a preoccuparti. Ma non avevi detto che ne sarebbe valsa la pena?»

   «Certo, e lo confermo. Ciò non toglie che la cosa mi preoccupi…»

Scoppiarono entrambi a ridere. Sephyr, poi, si alzò dalla sedia.

   «Va bene, ora diamoci una mossa, abbiamo ancora molta strada da fare ed io ho bisogno di un arco nuovo,  il mio è andato perso. Ho visto un’armeria in paese, ci fermiamo prima di partire».

Fece un passo verso i suoi abiti, ma il lenzuolo rimase impigliato alla gamba della sedia e cadde a terra. Lind ammirò nuovamente le sue forme nude, che alla luce del sole erano ancora più perfette e attraenti.

   «Ehm…siamo sicuri di avere così fretta?» disse con più di una punta di speranza nella voce.

«Mmmh…forse no…» rispose lei, stendendosi nuovamente sulle lenzuola.  

   

   Alden aprì gli occhi a giorno inoltrato. Era seduto a terra, legato a un albero, con le mani dietro la schiena. La testa gli faceva ancora male, in più aveva anche dolore al collo. Si guardò intorno, era in una zona boscosa vicino al paese, attraverso gli alberi vedeva le case in lontananza. Cercò di liberarsi, ma era legato troppo stretto. Aveva fame e sete, non mangiava ne beveva dal giorno prima. Cercò di capire cosa fosse successo, ma a parte l’immagine di Lind alla finestra della locanda, non ricordava nulla. Aveva il corpo intorpidito per la posizione scomoda e per l’umido della notte passata all’addiaccio. Chi lo aveva legato lì, aveva scelto bene. Probabilmente sarebbero passate ancora delle ore prima che qualcuno fosse a portata di voce, per chiedere aiuto. Incominciò a provare un po’ di panico, quando sentì un fruscio alle sue spalle. Qualcuno si avvicinava.

   «C’è qualcuno? Per favore, aiutatemi!»

La persona si fermò alle sue spalle, dietro l’albero.

   «E’ inutile che li segui, la donna è destinata a lui e, anche volendo, non saresti mai in grado di portargliela via con la forza, sei troppo debole.»

   Aveva una voce profonda e suadente, era chiaramente un uomo, ma il tono aveva qualcosa di strano, c’era una specie di sibilo di fondo.

   «Cosa diavolo stai dicendo? Chi sei? Sei stato tu a legarmi qui? Liberami subito!»

   «Non sono stato io, ma qualcuno che li sta proteggendo e non vuole interferenze. Se vuoi, posso donarti la forza che ti serve, ma dovrai fare un sacrificio molto grande per ottenerla. Pensaci. »

   «Non ho bisogno dell’aiuto di nessuno per prendere a calci in culo quello stupido stregone da due soldi, hai capito? Ora smettila di dire stronzate e liberami!»

Un’altra voce, questa volta femminile, arrivò dalla sua sinistra.

   «C’è qualcuno li? Alden, sei tu?»

Mari comparve dal folto degli alberi con un cesto in mano. Non appena lo riconobbe, lo lasciò cadere e gli corse incontro.

   «Alden! Ma cosa è successo? Chi è stato a legarti?»

«Fai attenzione! Ho idea che questo tizio sia pericoloso.»

La ragazza lo guardò stupita.

   «Quale tizio? Qui non c’è nessuno…»


Nel frattempo, Corgh e Jofiah stavano viaggiando lentamente verso la Foresta Nera. Moshi, dopo un primo momento di ardore da giovin cavallo, aveva rallentato l’andatura su un ritmo da passeggiata e non c’era verso di farlo accelerare.

   «Dannazione, Jofiah! Di questo passo arriveremo tra un mese!»

«Esagerato…si sta solo riposando, vedrai che tra un po’ scatterà come un purosangue!»

   «Altro che purosangue, in questo momento sto facendo fatica a capire se sia sveglio o se, in realtà, stia camminando da addormentato…»

   «Umpf…non ascoltarlo Moshi, io ho fiducia in te.»

Improvvisamente, il cavallo alzò il muso verso il cielo. Sembrava nervoso, emise un lungo nitrito e raspò con le zampe, dopo essersi fermato di colpo.

   «E adesso che ti prende?»

I due uomini alzarono lo sguardo, sulla collina che dominava la strada di fronte a loro, era comparsa una figura incappucciata che impugnava una grande falce e che sembrava guardare verso di loro. Dopo qualche istante, la figura si girò e scomparve dietro la collina. Corgh mise una mano sul braccio del compagno.

   «Amico mio, è meglio che se ci sbrighiamo. »

«Sono d’accordo.»

   Anche Moshi sembrò essere della stessa opinione, perché ripartì con la medesima foga iniziale.

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Capitolo 23
*** Paura ***


23. Paura

 

Riuscirono a emergere dalle lenzuola, a fatica, verso ora di pranzo. Dopo aver fatto una doccia calda, per la gioia di Lind, nell’accogliente bagno della stanza, si trascinarono fuori dalla locanda. Ad accompagnarli, ci furono i sorrisetti complici del locandiere e dallo sguardo stranito della madre di questo, che chiese loro chi fossero e cosa stessero facendo lì. Come deciso, passarono nell’armeria del paese, dove Sephyr acquistò un nuovo arco con faretra e frecce, dopodiché si rifornirono di provviste e, finalmente, riuscirono a mettersi in cammino verso il lago di Helmer. Lind, nel frattempo, cercò di “sentire” nuovamente la presenza del misterioso inseguitore, ma non ci riuscì. La cosa lo preoccupò, nonostante la via alle loro spalle fosse perennemente sgombra. Decisero di seguire la strada principale: piuttosto che usare strade alternative, magari protette alla vista ma sicuramente più pericolose, trovarono decisamente più saggio percorrere una via battuta da mercanti e viaggiatori e che attraversava ampie pianure incontrando villaggi e fattorie, per ridurre le possbilità di essere colti alla sprovvista. Il viaggio proseguì piacevolmente, senza problemi. Chiacchierando e scherzando, senza pensare ai pericoli che li stavano aspettando, dopo un po’ si dimenticarono, o quasi, anche della misteriosa figura che li seguiva. Al tramonto erano già alle pendici delle colline che circondavano il lago, decisero quindi di trovare un luogo riparato dove passare la notte. Le alture, di chiara origine vulcanica data la forma arrotondata, erano completamente ricoperte di vegetazione. Alte poche centinaia di metri, non avrebbero rappresentato un grosso ostacolo da superare. Si avviarono lungo un sentiero che risaliva un pendio. Dopo pochi minuti, s’imbatterono in un casolare di legno, probabilmente utilizzato da pastori o cacciatori come ricovero temporaneo, e costruito ai margini del rado bosco di querce. Appurato che fosse deserta, si sistemarono all’interno della costruzione.

   «Direi che ci va di lusso, stavo già pensando di dover bivaccare all’aperto, stanotte» disse Lind controllando l’interno del casolare. 

   La costruzione era costituita da un unico stanzone nel quale era presente un grosso tavolo di legno, ricavato da un tronco d’albero tagliato a metà, e due panche, altrettanto grezze. Un angolo della stanza era adibito a dormitorio, con quattro brande accostate, mentre dalla parte opposta vi era una vecchia stufa a legna, dotata di un ripiano per cucinare. L’ambiente era abbastanza pulito, evidentemente era stato usato di recente.

   «Mi sarebbe andato bene anche un metro quadro di erba sotto un albero. Sono distrutta. Ora so che una maratona di sesso non è il massimo, prima di un viaggio a piedi» rispose Sephyr crollando su una delle panche. 

   Sembrava effettivamente esausta. Lind le sorrise, accarezzandole una spalla.

«Solo perché non sei allenata a dovere.»

   La ragazza lo fulminò con lo sguardo, lui si pietrificò, vedendo l’espressione minacciosa che aveva assunto.

«Cosa?! Mi vuoi dire che tu sei abituato a fare maratone di sesso? Questa non me l’avevi raccontata, e con chi se posso? Qualche contadinella delle tue parti, come quelle della taverna, forse!?»

   Il ragazzo rimase per un momento confuso, cercando di capire la reazione, poi comprese l’equivoco e cercò di giustificarsi.

«Ma no! Intendevo allenata in senso…atletico, se avessi subito anche tu le lezioni massacranti del Maestro, non avresti di questi problemi.»

   La ragazza continuava a guardarlo in cagnesco, poco convinta della spiegazione.

   «Si, certo. Comunque, per stasera, stammi lontano.»

Lind era perplesso. Evidentemente avrebbe dovuto pesare un po’ di più le parole, d’ora in poi. Sospirò affranto e decise di dedicarsi alla cena. Forse, dopo aver mangiato, sarebbe stata meno suscettibile. Accese il fuoco nella stufa e si dedicò alla sua zuppa, controllando ogni tanto, attraverso la porta aperta, eventuali movimenti sospetti.

   

   La scelta dei ragazzi di utilizzare la via principale gli aveva creato non pochi problemi: aveva dovuto seguirli da molto lontano e un paio di volte aveva rischiato di perderli. Ora era quasi notte ed era rimasto molto indietro. Sapeva che si erano diretti attraverso le colline, ma non aveva visto quale sentiero avevano imboccato. Doveva trovare le tracce il prima poissibile: con il buio sarebbe stato molto difficile. 

   Finalmente trovò quello che cercava, seguì il sentiero e vide il casolare con la porta aperta e una luce al suo interno. Ora avrebbe dovuto trovare un posto dove osservare la situazione senza dare nell’occhio. Fortunatamente, la boscaglia gli sarebbe stata d’aiuto. Trovò una zona abbastanza fitta di alberi da poter fungere da riparo, a una cinquantina di metri dalla costruzione. Si era appena sistemato dietro un grosso tronco di quercia, quando provò improvvisamente una sensazione di pericolo alle spalle. Non fece a tempo a girarsi. Il suo corpo venne attraversato da una scossa, a partire dalla schiena. Sentì i muscoli indurirsi, poi cadde a terra perdendo conoscenza.


   La zuppa era sul fuoco, il profumo che proveniva dal pentolino cominciava a espandersi in tutta la stanza. Ne assaggiò un goccio dal mestolo e sorrise compiaciuto. Stava migliorando, non era ancora ai livelli di Shayra, ma con quell’attrezzatura di fortuna e senza ingredienti freschi era assolutamente soddisfatto. A Sephyr sarebbe piaciuta di sicuro, avrebbe potuto anche perdonargli la gaffe di poco prima. Si girò verso la ragazza brandendo il mestolo come fosse uno scettro.

   «Tra cinque minuti si mangia, e ho superato me stesso!»

Era riversa sul tavolo, nello stesso punto di prima, con la testa appoggiata alle braccia incrociate. 

Doveva essere veramente distrutta” pensò, avvicinandosi lentamente. Le scostò delicatamente i capelli dal viso e si sedette al suo fianco. Decise di lasciarla riposare ancora un po’, aveva un’espressione veramente beata. Rimase per qualche minuto ad ammirare il suo viso, poi la baciò delicatamente sulla guancia e si alzò. Lei sorrise leggermente, continuando a dormire. Tornò verso il pentolino, per controllare la zuppa.

   Fu investito da una strana sensazione: qualcuno, o qualcosa, lo stava avvertendo di un pericolo.

Si voltò lentamente.

   Girandosi, il suo sguardo incrociò la porta spalancata. A una decina di metri dal casolare, una figura avvolta da un lungo mantello e con un cappuccio calato sul viso che ne copriva i lineamenti, era immobile e rivolta verso di lui. Dalla schiena, spuntavano di traverso il manico e la lunga lama arcuata di una falce. La fioca luce della fine del tramonto e una leggera nebbia che si stava depositando sul terreno rendevano ancora più inquietante quell’apparizione. 

   Un brivido gli corse lungo la schiena. 

Si girò verso la ragazza, che non dava segni di risveglio. Quando riportò lo sguardo fuori dalla porta, la figura era scomparsa. La testa aveva incominciato a girargli, i sensi erano come intorpiditi e aveva il respiro affannato. Barcollò verso la spada appoggiata al tavolo. Anche la vista incominciava ad annebbiarsi, faceva fatica a mettere a fuoco e vedeva doppio. Era sul punto di svenire. Con le ultime forze riuscì ad allungare il braccio sinistro e, incredibilmente, non appena impugnò l’elsa si senti subito meglio. Il tepore che sprigionava ebbe un effetto rinvigorente: riprese istantaneamente le forze e il respiro si fece regolare. Guardò prima per un secondo l'arma, con espressione stupita, e poi di nuovo fuori dalla porta. Niente. Qualcosa gli diceva, però, che era ancora li vicino.

   «Sephyr, svegliati!» le sussurrò, scuotendola, cercando di svegliarla, ma sembrava in un sonno tremendamente fondo. Per un secondo temette fosse morta, ma il battito sul collo era regolare e si tranquillizzò. Decise di lasciarla li, per il momento, e si diresse a passi lenti verso la porta. Il cuore gli batteva all’impazzata, ma il respiro era regolare e controllato, sarebbe stato in grado di scagliare un incantesimo efficace. Inspirò profondamente e passò la spada nella mano destra. La mano sinistra cominciò a brillare emettendo il vapore rosso. Uscì, guardandosi intorno, ma non vide ne sentì nulla. Il silenzio era eccessivo e l’aria immobile. Fece qualche passo nella direzione in cui aveva visto la figura prima che svanisse. Sentiva i battiti del cuore pulsargli nel collo e i muscoli rigidi dalla tensione, fortunatamente riusciva ancora a controllare il respiro. L’aria era fredda e umida, ma aveva la fronte imperlata di sudore. 

  Una goccia gli finì in un occhio. Gli bruciava. Se lo sfregò velocemente con il dorso della mano che teneva la spada.

«E’ veramente molto bella.»

   Trattenne un urlo di spavento. Si voltò di scatto: la figura con la falce era tra lui e la porta e gli stava dando le spalle. Com’era possibile? Erano a pochi passi di distanza, distingueva chiaramente la figura del drago avvinghiato al manico dell’arma e il luccichio della lama nera. Gli fu subito chiaro che quella falce avesse qualcosa in comune con la sua spada. Era impietrito, non riuscì più a mantenere la preparazione dell’incantesimo e la mano sinistra si spense. Ora anche il fiato cominciava a essere alterato dalla paura.

    «Sei molto fortunato, un Sigillo del genere non è capitato a molti. Dovresti prendertene cura».

La voce era quasi un sussurro. Profonda e, in qualche modo, rassicurante. Una specie di sibilo di fondo, simile al verso di un rettile, la rendeva però inquietante. Nonostante questo, vi trovava qualcosa di familiare. Provò ad aprire bocca, ma il fiato non gli usciva.

   «Stai tranquillo, in questo momento non ho intenzione di farvi del male, volevo solo vedere lei da vicino».

   Non si voltava. Prese fiato con tutta la forza che gli era rimasta.

   «Chi diavolo sei? Che cosa vuoi da noi? Eri tu quello che ci stava seguendo? Che cosa hai fatto a Sephyr?»

   «Troppe domande, amico mio. A tempo debito. La tua donna sta bene: è solo sotto l’influsso della mia…come dire… “aura”, come lo eri tu quando non impugnavi il tuo simbiote. Grosso errore lasciarlo, ti consiglio di non farlo più, se avessi voluto, avrei potuto ucciderti senza neanche farmi vedere.»

   «Di cosa stai parlando? Della mia spada? Cosa diavolo è un simbiote?»

La figura girò leggermente la testa nella sua direzione. Il cappuccio, però, impediva di vedere il profilo del viso.

   «Giusto, non sei ancora stato istruito. Qualcuno lo farà, non temere».

Un tonfo alle sue spalle: si voltò di colpo. A qualche metro di distanza qualcosa era caduto a terra sull’erba. Sembrava un uccello, forse una civetta, stava cercando di rialzarsi sulle zampe, ma sembrava intontita. Risentiva anche lei dell’aura? 

   Una folata di vento lo investì.

Si voltò nuovamente verso la figura misteriosa, ma era svanita. Cadde in ginocchio, a testa bassa, cercando di riprendere il controllo dei nervi. Dopo qualche istante, la civetta alle sue spalle sembrò riprendersi e si alzò in volo, scomparendo dietro le cime degli alberi. I rumori del bosco ricominciarono a farsi sentire e l’aria si fece più leggera.

   «Lind…Cos’è successo?»

Sephyr era alla porta, appoggiata allo stipite. Sembrava stare bene, aveva l’aria confusa e si teneva la testa con una mano.

   Era felice di vederla in piedi.

«Mi sembra di aver dormito per una settimana, cosa fai lì fuori per terra? Ti senti bene?»

   Si rialzò a fatica e si diresse verso di lei, camminava barcollando, la testa gli girava e il cuore non aveva ancora smesso di correre.

   «Sto bene, ma forse i veri problemi devono ancora iniziare».

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Capitolo 24
*** Celestia ***


24. Celestia

 

«Secondo te, è uno stregone?»

   Sephyr aveva ascoltato il racconto in silenzio, seduta sulla panca con gambe e braccia incrociate. Aveva un’espressione seria, ma non sembrava particolarmente allarmata. Lind, invece, tentava di riprendere il controllo passeggiando nervosamente per la stanza. L’apparente tranquillità della ragazza da un lato lo confortava, dall’altra lo sorprendeva. Aveva un carattere veramente forte, probabilmente più del suo, ma come faceva a non turbarsi per un racconto del genere? A dire la verità, era rimasto anche un po’ deluso da quella reazione composta, infatti, non gli sarebbe dispiaciuto “doverla” abbracciare per tranquillizzarla. A quanto pare, invece, era lui che avrebbe avuto bisogno di un abbraccio, in quel momento.

   «Penso di sì, ma, tranne me e il Maestro, non ne ho mai incontrati altri, per cui non ho un grande metro di giudizio. Comunque, oltre a farmela quasi addosso…»

La ragazza lo guardò con un sorrisetto ironico.

   «Alla faccia dell’eroe senza macchia e senza paura! »

Lui si fermò e assunse un’espressione offesa.

   «Mai detto di esserlo. Comunque…ho avuto una strana sensazione, come se lo avessi già incontrato, però è strano, sicuramente me ne ricorderei. Poi quella falce, aveva qualcosa di simile alla mia spada, oltre al drago intarsiato sul manico. La lama era nera, ma sembrava proprio lo stesso strano materiale».

   «Ha parlato di “simbiote”, evidentemente si riferiva alla spada. Tu ne sai niente?

   «No, e non ho la minima idea di cosa possa essere un simbiote».

«A giudicare da come ne ha parlato, sembra quasi che sia in qualche modo in grado di interagire con te per...proteggerti».

   Detto questo, si alzò e accarezzò la lama della spada, che era appoggiata sul tavolo, con espressione pensierosa. 

   «Che ci sia qualcosa di strano in quest'arma è chiaro: quando l’ho tenuta in mano, ho avuto una strana sensazione, mi sembrava quasi di stringere un...animale».

   Lind rifletté su quelle parole. Aveva sempre trovato strane alcune caratteristiche della sua arma, ma non si era mai posto molte domande in merito. Forse perché, conoscendola da sempre, era diventato per lui tutto familiare. Ragionando da un punto di vista esterno, però, quelle cose prendevano una luce diversa. Il fatto che avesse una sorta di “calore latente”, lo strano materiale di cui era fatta, che non ne ricordava nessun altro di conosciuto, e gli strani comportamenti degli ultimi giorni, incominciavano a turbarlo. Che fosse, in qualche modo, “viva”? Non aveva ancora una teoria su questi fenomeni, ma questa poteva essere una. Per quanto incredibile. Per qualche motivo però, nonostante i ragionamenti, non ne era spaventato. 

   Le parole del misterioso stregone gli tornarono in mente.

   «…Grosso errore lasciarlo, ti consiglio di non farlo più, se avessi voluto, avrei potuto ucciderti senza neanche farmi vedere.»

   Il condizionale, e le sue stesse parole, facevano intendere che non fosse sua intenzione fare del male, ma i brividi che aveva provato non lo facevano stare tranquillo. Quali erano le sue intenzioni? E perché si stava interessando a loro? A entrambi, soprattutto. A questo punto, il fatto che Sephyr non fosse tornata a casa era stato, forse, la cosa migliore. Infine, quella che definiva la sua “aura” non sembrava per niente una cosa innocua, la sensazione di oppressione che aveva provato era molto forte. Sephyr tolse la mano dalla lama e si girò verso di lui.

   «Va bene, per stasera abbiamo capito che non si farà più vedere. Non siamo neanche sicuri che ci sia nemico, per cui è inutile preoccuparsi, se si rifarà vivo gli faremo qualche altra domanda. Tra l’alto sarei curiosa di sapere cos’è questa storia del “Sigillo”…»

Lind aveva tralasciato, nel suo racconto, i complimenti sulla sua bellezza e sul fatto che avrebbe dovuto prendersi cura di lei. Non sapeva bene per quale motivo, ma aveva preferito omettere quei dettagli. La ragazza si diresse verso la stufa, dove la pentola continuava a sbuffare. Assaggiò la zuppa e ne decantò il sapore. Si girò verso di lui con sguardo malizioso.

   «Ti ho già detto che le doti culinarie sono ben apprezzate da noi ragazze?»

   Senza pensarci, si avvicinò a lei. Le cinse la vita con le mani e la baciò.

   «Mi pare di sì...potremmo, a questo punto, negoziare il modo in cui puoi dimostrare quest’apprezzamento…»

Lo spinse via, delicatamente, ma in modo deciso. Con mezzo sorriso, lo guardò severa.

   «Guarda che sono ancora offesa con te, per cui non approfittartene solo perché ti ho fatto un complimento».

   «Ma…io, comunque, mi dichiaro innocente…»

Con aria sconsolata, si dedicò a preparare i piatti per la cena.


   Tatzel e Anilion erano quasi arrivati alle porte di Celestia, la città che si trovava a sud di Caputargilis, nel mezzo della piana di Erath. Potevano già vedere le possenti mura della cittadella con le torri merlate di difesa. Il grande ponte levatoio di accesso era abbassato e una truppa di soldati a cavallo controllava il viavai di mercanti e gente comune. All’interno, il palazzo reale si ergeva imponente e tetro, a dispetto del nome rassicurante della città. Costruito in stile gotico con la pietra scura di origine vulcanica estratta dal monte Erath, che attribuiva il nome alla regione e si stagliava all’orizzonte dietro la città, aveva più l’aria di una fortezza che di una residenza di reggenti. Le poche finestre erano piccole e protette da grate di ferro, eccezion fatta per una grande vetrata rotonda, ornata con il simbolo della città: un angelo con spada e scudo che sconfigge un drago, posta a una decina di metri da terra, sopra la scalinata principale di accesso. Agli angoli del palazzo, enormi gargoyle di pietra sembravano sorreggere l’intera struttura, mentre altri, più piccoli, guardavano minacciosi dal tetto la città sottostante, insieme a chimère e altri mostri fantastici pietrificati.

   «Cos’abbia di “celestiale” questo posto, non saprei proprio».

Tatzel si era fermato a osservare la città, il suo sguardo si soffermò sulla vetrata, già ben visibile da quella distanza.

   «Giusto un emissario divino potrebbe proteggervi da quanto vi sta per accadere…»

   «Non è ancora giunto. Forse siamo ancora in tempo. »

Il maestro Anilion piantò il bastone a terra e chiuse gli occhi. Per qualche istante rimase in silenzio, profondamente concentrato, poi aprì gli occhi di colpo e assunse un’espressione preoccupata. Contemporaneamente, il giovane estrasse la spada dal fodero, dopo essersi accorto di quello che stava succedendo.

   «E’ qui! Ma non è solo, si è portato qualche rinforzo. A cosa gli servono quei mostri? Non vuole sporcarsi le mani?»

   «No. Quelli servono a tenere impegnati noi. E’ furbo, si è accorto della nostra presenza da molto tempo e, a quanto pare, ci stava aspettando.»

   «Meglio così, ci sarà da divertirsi.»

La lama della spada del ragazzo e il bastone del vecchio incominciarono a emanare nebbia bianca. Nel frattempo, un’orda di golem era uscita dalla foresta a est della città e si stava dirigendo al ponte levatoio. Erano una decina, giganti di metallo dagli occhi luminescenti che facevano tremare la terra ad ogni passo. Una figura nera volava sopra di essi, accompagnandoli verso l’imminente battaglia. Il suono di un corno risuonò nella piana, unendosi alle urla della gente che si era accorta del pericolo incombente e che stava riversandosi all’interno delle mura.

 

Si svegliò quando era buio inoltrato. I muscoli gli facevano un male cane. Si alzò a fatica da terra e guardò in direzione del casolare, fortunatamente vide una luce, che si spense dopo poco. Probabilmente erano ancora li, ma doveva verificarlo. Qualcuno lo aveva messo fuori gioco e aveva anche idea di chi potesse essere stato. Si ritenne fortunato, a essere ancora vivo. Doveva stare più attento, d’ora in poi, non poteva permettersi che capitasse di nuovo. Attese qualche minuto per testare i suoi movimenti. Quando si sentì sicuro, si avvicinò a una finestra e verificò che i due ragazzi fossero ancora li.

   

   «Vai a cercarla? Non puoi aspettare che si faccia giorno?»

Mari, da sotto le coperte, guardava Alden che si rivestiva. Sapeva che non sarebbe mai rimasto con lei, ma avrebbe voluto ritardare il momento dell’addio il più a lungo possibile. Il ragazzo le rispose senza voltarsi.

   «Ho aspettato anche troppo, devo sbrigarmi».

La ragazza sentì gli occhi inumidirsi.

   «Deve essere una donna veramente speciale. La invidio».

Alden non rispose. Quando fu pronto, si diresse verso la porta. Prima di andarsene, sempre senza voltarsi, si rivolse alla ragazza, che sentiva singhiozzare.

   «Dimenticami, è meglio».

Al che uscì. Mari scoppiò in lacrime, tenendosi il volto con le mani.

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Capitolo 25
*** Southill ***


25. Southill

 

Corgh e Jofiah arrivarono a Southill alle prime luci dell’alba: avevano viaggiato ininterrottamente per un giorno e una notte. Il vecchio Moshi, dopo poche centinaia di metri percorsi al trotto sostenuto dopo la misteriosa apparizione, se l’era presa nuovamente con calma. Nonostante questo, era visibilmente stanco e bisognava farlo riposare, anche se a Corgh non allettava molto l’idea di doversi fermare in città.

   Southill era una grande città di frontiera, tappa necessaria a chiunque avesse voluto raggiungere la Foresta Nera per recarsi nei territori degli elfi. Era situata nella stretta valle tra i monti Echor1, chiamati così dagli elfi per i loro pendii eccezionalmente ripidi e quasi impossibili da scalare. Per questa ragione, era anche chiamata Irin-Fen2. Per molti secoli era stata la prima roccaforte a difesa del territorio degli uomini contro gli elfi neri. In passato, infatti, gli Ungwe Vinya3 erano stati in guerra con i popoli umani a causa di una qualche ragione che, oramai, nessuno più ricordava. Da molti anni, fortunatamente, era stata siglata la pace, ma la simpatia tra le due razze non era mai sbocciata. La milizia della città era stata convertita a una sorta di polizia con compiti di controllo doganale e di semplice ordine pubblico. Nonostante i compiti civili, i membri di questi corpi erano ancora addestrati ed equipaggiati per il combattimento, a segno del fatto che la diffidenza era ancora presente e radicata. Tra i due popoli, dopo la fine delle ostilità, erano fioriti rapporti commerciali, ma niente di più. Solo da poco tempo, inoltre, era permesso il matrimonio tra due persone di razze diverse, anche se, per quei pochi casi che erano capitati negli anni, le coppie miste avevano sempre preferito abbandonare la città, non essendo ben viste dalla maggior parte degli abitanti.

   «Insomma, Corgh! Sono passati vent’anni, chi vuoi si ricordi ancora di te? Tra l’altro, lasciatelo dire, sei piuttosto cambiato da allora, per cui smettila di preoccuparti».

   L’oste si limitò a grugnire qualcosa, senza smettere di guardarsi intorno. Si era abbassato il cappuccio del mantello fino al naso e evitava di guardare in faccia le persone che incrociavano. Jofiah provò a spiegargli che, in quel modo, avrebbe attirato ancora di più l’attenzione, senza però avere successo. Infatti, dopo qualche minuto in cui stavano attraversando la strada principale della città, gli sguardi dei passanti si erano fatti via via più insistenti e preoccupati. Fortunatamente, riuscirono ad arrivare a una locanda di posta senza essere fermati da qualche pattuglia. Il vecchio Moshi fu ben felice di tuffare il muso nella mangiatoia e di dissetarsi con l’acqua della vasca nella stalla adiacente alla locanda. I due compagni occuparono un tavolo nel ristorante, Corgh scelse il più nascosto in un angolo male illuminato della sala, e si sedette dando le spalle al resto dei tavoli. Nonostante questo, continuava a essere nervoso.

   «Mangiamo in fretta e diamoci una mossa».

   «Stai calmo, vecchio brontolone! Moshi ha bisogno di riposarsi, e anche noi. Siamo a un passo dalla Foresta, per cui possiamo anche prendercela con comoda. Inoltre, come ti ho già detto, chi vuoi che ti riconosc…»

   «Bene bene, guarda chi abbiamo qui! Avevo ragione, quindi. Il Tenente Corghyan! Quanti anni sono passati? Più di venti, se non erro…»

   L’oste spalancò gli occhi, come se fosse stato trafitto da un pugnale nel mezzo alla schiena. Non c’erano dubbi, non aveva neanche bisogno di voltarsi, aveva riconosciuto la voce. Era quella che non avrebbe mai più voluto sentire.

   «Sono ancora troppo pochi per me, Capitano Sheryan».

Si tolse il cappuccio dalla testa: non ce ne era più bisogno. Si alzò e guardò negli occhi il suo vecchio superiore. Il tempo non era stato clemente con lui, il viso era solcato da una fitta rete di rughe, i capelli radi e bianchi, la schiena incurvata, sorretta da un bastone tenuto da una mano con evidenti segni di artrosi. La figura, autoritaria e imponente di comandate dal pugno di ferro, era svanita. L’unica cosa che non faceva nascere dubbi sul fatto di trovarsi di fronte al famoso e rispettato Capitano Sheryan, erano gli occhi: quelli erano sempre gli stessi, di un azzurro chiarissimo, grandi, glaciali e privi di qualsiasi espressività. Ricordava molto bene quello sguardo, lo stesso con cui aveva guardato lui e Deliah quella sera di vent’anni prima.

   «La trovo male, capitano».

Il tono non era assolutamente di dispiacere.

   «Grazie. Anche tu non ti sei mantenuto particolarmente in forma, vedo».

   La voce era graffiata, evidentemente anche le corde vocali erano provate dalla vecchiaia. Jofiah guardava preoccupato i due contendenti, conosceva la persona che aveva davanti dai racconti di Corgh, e quindi sapeva bene che era il peggior incontro che potessero fare.

 

Lind era disteso su una delle brande a faccia in su, con le mani intrecciate dietro la nuca. Sephyr si era sistemata su quella più lontana.

   “Tu dormi lì, io qui. E non provare ad avvicinarti, per stanotte sei in castigo!”

   Si stava domandando se anche Shayra si comportasse così con il Maestro, ma a pensarci bene non gli sembrava possibile. Da questo punto di vista Sephyr assomigliava più a Corgh che a lei. Dopotutto, qualcosa avrebbe dovuto pur ereditare dal padre.

   Nonostante la stanchezza non riusciva ad addormentarsi, aveva ancora negli occhi quello strano individuo e non era riuscito a tranquillizzarsi del tutto. A un certo punto aveva avvertito un movimento fuori da una delle finestre, ma era cessato immediatamente “Qualche animale di passaggio.” aveva pensato, e non si era neanche alzato dalla branda per controllare. Stava abituandosi all’idea di passare la notte in bianco, quando sentì la ragazza alzarsi. Si avvicinò alla sua branda e si distese affianco a lui, appoggiandogli la testa su una spalla e un braccio sul petto.

   «Ma non ero in castigo?»

«Sì, ma non riesco a dormire. Comunque, mani a posto e fai silenzio».

   «Ok…»

Forse non sarebbe stato un grosso sforzo, abituarsi al suo carattere. La baciò sulla testa e le mise il braccio attorno alle spalle, stringendola a se.

   Ancora una volta il suo profumo gli riempì il naso. Improvvisamente, si ricordò qual era il fiore che aveva la stessa fragranza. Il Maestro l’aveva portato a casa dal viaggio nelle terre del sud insieme al caffè. A prima vista era abbastanza strano, un lungo e sottile arbusto tutto spine e senza foglie. Shayra l’aveva guardato un po’ diffidente, salvo poi ricredersi. Gli elfi, che ne sono i maggiori coltivatori ed estimatori, lo chiamano Schka Loo4 per la sua caratteristica: i fiori, grandi e bellissimi, sbocciano solo di notte riempiendo l’aria con il loro profumo, per poi appassire alle prime luci dell’alba. Per questo motivo é difficile vederli nel loro splendore, se non passando la notte svegli. Non era mai stato un nottambulo, quindi era riuscito a vederli solo un paio di volte. Una di queste era stata la volta in cui lui e il Maestro erano ritornati, a notte fonda, da una sessione di allenamento durante la quale erano rimasti bloccati per ore in una grotta, a causa di un improvviso e violento temporale estivo. Quando, finalmente, erano riusciti ad arrivare a casa, erano stati accolti da un profumo intenso e dolce. Tre fiori bianchissimi erano sbocciati dagli arbusti. Rimasero incantati a osservarli per qualche minuto, nonostante fossero esausti. C’era qualcosa di rilassante in quel profumo e in quel candore. Il mattino successivo rimasero entrambi molto delusi nel vedere che quelle meraviglie erano già appassite.

   « Schka Loo...» Mormorò Lind.

«Cosa?»

   « Il tuo profumo, mi ricorda i fiori di Schka Loo.»

«Sì, lo faccio io, la ricetta è di mia madre. L’ha lasciata per me a mio padre quando se n’è andata. Ti piace?»

   «Molto».

«Ne sono felice».

   Dopo pochi minuti, dormivano entrambi profondamente.

 

L’ultimo golem fronteggiava i due stregoni impugnando un’enorme scure, gli altri erano ridotti a dei mucchi di metallo fumanti, sparsi sul terreno. La figura alata si era limitata a osservare la battaglia dall’alto, senza mai intervenire. Le truppe della città si mantenevano a distanza, intimorite da quello che stava accadendo.

   «Se mi permette, questo lo sistemo io».

Il volto di Tatzel era ricoperto da squame grigie e lucide, come le mani che stringevano la spada, dalla quale continuava a uscire la bianca nebbia luminosa. Gli occhi, simili a quelli di un felino, emanavano un fioco bagliore rossastro, nell’oscurità della notte. Il sorriso di soddisfazione mostrava una fila di denti acuminati.

   «Fai pure».

Anche il volto del vecchio era ricoperto di squame, ma più piccole e con due colori diversi, come la pelle di un rettile. Gli occhi erano completamente neri e la voce aveva assunto un sibilo. Braccio destro e bastone erano legati assieme dalla coda del serpente, i cui occhi emettevano un bagliore azzurro, mentre la nebbia luminosa si espandeva nell’aria.

   Il golem si lanciò in avanti, brandendo l’enorme arma contro il giovane.

   «Avresti fatto meglio a restartene nel tuo corpo di carne!»

Lo stregone, senza muovere le gambe, compì un fendente circolare frontale da destra a sinistra, disegnano nel buio una mezzaluna bianca. La parte superiore del corpo del mostro cadde all’indietro, mentre la parte inferiore in avanti, la luce azzurra all’interno dell’armatura si spense all’istante. 

   «Troppo facile».

La figura alata cominciò a scendere verso terra, lentamente, con una traiettoria verticale. Appena toccò terra, le grandi ali con cui stava volando si ritrassero dietro la schiena e, contemporaneamente, una grande falce nera si generò dalla sua mano destra, come se la materia di cui erano fatte le ali si fosse tramutata nell’arma.

   «Siete forti, come immaginavo».

«E adesso tocca a te!»

   Il giovane stregone si scagliò di corsa verso il nemico, che rimaneva immobile.

  «Tatzel, no!»

Il maestro Anilion non fece a tempo a fermarlo.

   Un lampo squarciò la notte.

 

 

 

 

1 Echor : Mura che circondano. 

2 Irin-Fen: Città-porta. 

3 Ungwe Vinya: Popolo del buio.

4 Schka Loo: Regina della Notte   

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Capitolo 26
*** Antichi veleni ***


26. Antichi veleni

 

Era solo. Era disteso sulla schiena. Il calore che avvertiva era piacevole, si sentiva tranquillo. Intorno a lui era buio, ma non aveva paura. Improvvisamente l’oscurità era lacerata da un bagliore. Che cosa stava succedendo? Qualcuno, o qualcosa, lo sollevava. Il calore si affievoliva e si trasformava in gelo. Incominciava ad agitarsi. Stringeva più forte quello che aveva in mano. Era duro e ruvido, ma il suo contatto lo aiutava a calmarsi. Si stavano muovendo velocemente, percepiva l’aria sul viso e sulla pelle. Sentiva dei rumori dietro di loro, voci? Il freddo era sempre più pungente. Poi, un intenso calore e odore di fiamme. Un’enorme zampa squamata con possenti artigli neri lo stava per afferrare. La zampa però, prima di afferrarlo, si trasformava in una grande mano, calda e forte. Ora si sentiva nuovamente al sicuro, qualcuno lo stava tenendo in braccio. Chi era? Guardava in alto, il volto era in ombra, coperto da un cappuccio. Da dietro le spalle spuntava qualcosa. 

Una falce nera.

   Aprì gli occhi. “E questo, cosa vuol dire?”

Sephyr non era accanto a lui. Si mise a sedere e si guardò attorno. Sentiva un profumo inconfondibile. Caffè. La ragazza era ai fornelli, di spalle: stava cucinando qualcosa. C’era un altro profumo nell’aria, era dolce. Si alzò e si avvicinò piano, le mise le mani sui fianchi e la baciò sul collo, scostandole i capelli con il mento. Lei appoggiò la nuca e la schiena al suo petto, piegando il collo di lato per fare spazio al bacio.

   «Buongiorno...»

«Mmmh…Buongiorno».

   «Che cosa stai cucinando? Il profumo è ottimo».

Sbirciò la padella, una specie di pastella bianca stava friggendo.

   «E’ una mia specialità, sentirai! Anch’io sono brava a cucinare! »

«Lo so».

   «Mi sono anche presa la libertà di preparare il caffè, così mi dirai se ho imparato».

   «Che meraviglia!»

Fece scivolare le mani sui fianchi della ragazza e le cinse la vita con le braccia, stringendola a se.

   «Quindi non sono più in castigo?»

«Non lo so…devo ancora decidere… »

   Posò la padella, si girò verso di lui e gli mise le braccia attorno al collo.

   «Dipende da come ti comporti».

Dopodiché lo baciò. Nella testa di entrambi, in quel momento, la colazione poteva aspettare un altro po’.

   Quasi subito, però, sentirono dei passi fuori dalla porta e si girarono preoccupati.

 

   Alden aveva viaggiato per tutta la notte e cominciava a essere sfinito. Da quanto aveva dedotto, avevano percorso la strada principale che conduceva al lago di Helmer. Arrivò alle pendici delle colline a giorno fatto. Trovò quasi subito le tracce giuste una volta lasciata la via principale battuta in continuazione dai viandanti. Si arrampicò per il sentiero che aveva individuato e in pochi minuti arrivò al casolare. La porta era chiusa,  ma sentiva del movimento al suo interno.

   “Questa volta ci sono!”

Si diresse a larghe falcate verso la costruzione e aprì di colpo la porta, senza bussare.

   «Sephyr! »

Si ritrovò di fronte a due enormi individui barbuti vestiti con abiti da caccia che, seduti al tavolo, stavano trangugiando un liquido nero e fumante contenuto in due altrettanto enormi boccali. Alla vista del giovane intruso, appoggiarono i bicchieri e assunsero un’espressione truce. Alden rimase a bocca aperta, all’inizio credette di trovarsi di fronte a due orchi, poi si rese conto che si trattava semplicemente di due uomini dalla stazza notevole. Uno dei due omoni si rivolse all’altro, senza staccare gli occhi di dosso al ragazzo.

   «Hey Nichlas, questo qui cerca la nostra amica, secondo te c’è da fidarsi?»

   «Non saprei, Clauss. Ma dalla faccia non mi sta molto simpatico. E poi deve essere anche maleducato: entra nelle case altrui senza bussare».

   Alden, alle parole “la nostra amica”, si riprese dalla sorpresa.

«La Sephyr che conoscete è una giovane ragazza molto bella, con i capelli neri e gli occhi blu? E’ stata qui?»

   Nichlas e Clauss continuavano a fissarlo.

«Hai proprio ragione Nichlas, questo qui è proprio un maleducato. Ci piomba in casa senza bussare, non si presenta e fa domande. Anche a me non sta molto simpatico».

   «Giusto Clauss, non si presenta e fa domande. I giovani d’oggi sono proprio dei maleducati».

   «Non tutti però, la piccola Sephyr e il suo fidanzato sono molto più educati e gentili».

   “…fidanzato?” «Intendete il ragazzo che la accompagna? Non è il suo fidanzato!»

   Nichlas e Clauss si guardarono con un sorriso obliquo.

«Tu che dici Nichlas? Se quei due non sono fidanzati, io sono un troll».

   «Bhè Clauss, un po’ ci assomigli a un troll, ma comunque anche secondo me è chiaro che quei due sono fidanzati».

   “Ma tutti a me devono capitare i personaggi bizzarri? Lind…appena ti metto le mani addosso sei morto”

   «Va bene, non importa. Se ne sono andati da molto? Sapete dove sono diretti?»

   I due uomini voltarono nuovamente lo sguardo su Alden.

«Lo senti Nichlas? Continua a fare domande senza essersi presentato. Io dico che deve andarsene».

   «Sono d’accordo Clauss. »

I due uomini si alzarono dal tavolo e si diressero verso il ragazzo.

   «Ehi, un momento… »

Un secondo dopo era disteso a terra a qualche metro di distanza dalla porta, con le ossa doloranti.

 

   «Sono stati veramente comprensivi, non è vero?»

Sephyr e Lind, in quel momento, stavano navigando sul lago di Helmer su una barca a remi che avevano appena affittato.

   «Molto. Ma se fossi stato solo, non so quanto lo sarebbero stati».

«Perché?»

   «Bhè, dovresti conoscere l’effetto che fai sugli uomini, no?»

«Questo non centra nulla, hanno capito la situazione e sono stati comprensivi. Non tutti ragionano da maniaci».

   «Fidati, non serve essere maniaci…»

«Stupido. Comunque, il merito è anche del caffè che gli abbiamo offerto. Ne sono rimasti entusiasti».

   «Forse…tra l’altro se ne sono fatti fuori una quantità enorme, siamo quasi a secco.»

   «Questo un po’ mi dispiace…quasi quanto il fatto che ci abbiano interrotto».

   Gli lanciò uno sguardo malizioso. Lui lo ricambiò.

«Bhè, questa barca mi sembra abbastanza robusta e comoda…che dici?»

   «Mi tenti…ma meglio di no, non ho voglia di dare spettacolo in pubblico».

   Effettivamente, il lago era molto frequentato, altre barche come la loro facevano continuamente la spola da un molo all’altro. Una barca ferma e dondolante in mezzo all’acqua avrebbe rapidamente attratto l’attenzione.

   «Forse hai ragione, ne riparliamo più tardi».

In un’ora compirono la traversata. Attraccarono al molo e decisero di chiedere informazioni, sulla strada da seguire, all’uomo che si occupava delle barche a noleggio.

   «Caputargilis? Perché state andando in un posto del genere? Non mi sembrate dei banditi».

   «Stiamo cercando una persona, e c’è la possibilità che si trovi lì».

L’uomo si rabbuiò.

   «Mi dispiace per voi, ma dubito che sia rimasto qualcuno in quella città. Di vivo almeno».

   I due ragazzi lo guardarono sorpresi e preoccupati.

«Che cosa intende dire?»

   «Pare che giorni fa ci sia stato un qualche incidente in città, molti sostengono una rissa tra banditi che è degenerata, ma sta di fatto che ora nessuno più va o viene da li. Devono esserci stati anche degli incendi, a giudicare dal fumo».

   Lind fu preso dallo sconforto: era l’unica pista che avevano e, forse, era letteralmente finita in fumo. Inoltre, c’era la possibilità che al Maestro fosse successo qualcosa di grave, se si fosse veramente trovato lì. Sephyr si accorse del suo stato d’animo e si fece avanti.

   «La ringraziamo, ma dobbiamo in ogni caso andare a controllare. Può indicarci la strada, per favore?»

   L’uomo le fece un grande sorriso, stranamente non l’aveva ancora notata.

   «Ma certo, bella signorina! Basta che seguiate il fumo, vedete? Si distingue ancora bene».

   Indicò verso est, si vedeva una colonna nera in lontananza nel cielo. A giudicare dalla distanza, verso sera avrebbero dovuto raggiungerla senza difficoltà.

   «Perfetto, grazie mille e arrivederci. Andiamo, Lind!»

La ragazza si diresse verso l’uscita del molo, l’uomo la seguì con lo sguardo, inclinando la testa di lato.

   «Ragazzo mio se fossi in te, cercherei di evitare di mettere a rischio tanto ben di dio».

   Anche Lind la stava osservando.

«Ho provato a farle cambiare idea, ma non c’è stato verso. Comunque, le assicuro che sa il fatto suo».

   La ragazza si fermò e si girò verso i due uomini.

«Allora? Ti muovi? »

   Distolsero lo sguardo, facendo finta di niente.   

«Arrivo!»

  

Corgh era seduto su una branda della cella umida nella quale erano stati rinchiusi la sera prima. Jofiah non aveva chiuso occhio.

   «Amico mio, questa volta ti sei superato. Hai dimenticato di riferirmi l’insignificante dettaglio che qui c’è ancora una taglia sulla tua testa?! Mi hai sempre detto che qui c’era qualcuno al quale non stavi simpatico, ma non che ti volesse mettere al patibolo!»

   «Non me ne sono dimenticato, speravo di riuscire a evitare il capitano, o meglio, speravo fosse morto. »

   «Va bene, ma almeno potevi dirmi qualcosa, no?! »

«Lo so, lo so, hai ragione, scusami! Adesso basta, dobbiamo trovare il modo di andarcene da qui il prima possibile, non possiamo perdere tempo».

   Un rumore di passi lungo il corridoio delle celle. L’oste abbassò la voce e si alzò dalla branda.

   «Ora stai tranquillo, vediamo cosa hanno da dirci i nostri amici».

Il capitano Sheryan comparve davanti alle sbarre della cella, accompagnato da una guardia armata. Il sorriso di soddisfazione che sfoggiava irritò l’oste.

   «Hai dormito bene Corghyan? Io molto, come non lo facevo da anni. Tra qualche ora, finalmente, pagherai per i tuoi crimini».

   «Non sarebbe meglio usare le parole giuste, Capitano? Finalmente avrete la vostra vendetta, giusto?»

   Sheryan assunse un’espressione cupa e avvicinò il viso alle sbarre.

    «Puoi dire quello che vuoi, alla fine sarò io a vincere, come sempre».

   Corgh avvicinò il viso al suo, sostenendone lo sguardo gelido.

«Sei patetico, vecchio. Non hai avuto quello che volevi vent’anni fa e non lo avrai di certo oggi».

   «Forse, ma quando Deliah ti vedrà penzolare da una corda, forse si pentirà della sua scelta. A me basta questo».

   Dopodiché proruppe in una risata, si voltò e se ne andò, seguito dalla guardia. Una volta che si furono allontanati, Jofiah si avvicinò e mise una mano sulla spalla dell’amico.

   «Direi che è giunta l’ora che tu mi racconti tutto».

Prima che Corgh potesse rispondere, una voce proveniente dalla finestra della cella li fece sobbalzare. Si girarono e videro l’inconfondibile volto di un elfo che li stava guardando da dietro la grata.

   «Nae saian Luume’, heru Corghyan!*»

L’oste sbarrò gli occhi.

   «Alomas! Mellonanim! Lle maa quel!**»

Jofiah s’intromise, spazientito.

   «Lo conosci? Cosa diavolo sta succedendo?»

L’elfo, Alomas, si scusò con un cenno del capo.

   «Il mio nome è Alomas, amico mio, sono qui per ordine della sacerdotessa Deliah, ora fatevi da parte per favore.»

   Detto questo, scomparve. Corgh intuì le intenzioni dell’elfo e strattonò Jofiah lontano dal muro. Un secondo dopo, le pietre sotto la finestra esplosero.

 

*E’ passato molto tempo, signor Corghyan!

**Alomas! Amico mio! Sembri in ottima forma!

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Capitolo 27
*** La città morta ***


27.  La città morta

 

Boid li vide arrivare quando il sole stava scomparendo all’orizzonte. Il cielo a est era già nero, mentre la luna piena, straordinariamente grande e rossa, si stagliava alle spalle della città, nascondendone i dettagli e trasformandola in un’ombra nera nel mezzo della pianura. Il silenzio era quasi irreale e l’aria completamente immobile. L’unica traccia di vita in tutta la piana era quella silenziosa dei corvi. Centinaia di corvi neri sorvolavano ininterrottamente le case e il palazzo reale, incuranti del fumo che continuava a salire dalle rovine.

   «Vediamo come te la cavi Lind».

Lo stregone osservava i due ragazzi dirigersi verso la città, dall’alto della collina da dove aveva salutato i suoi compagni, con lo stato d’animo combattuto. Non era sicuro che restare in disparte, in quel momento, fosse la scelta migliore, ma se fossero riusciti a cavarsela con le loro sole forze, sarebbe stata la conferma di quello in cui credeva. In caso contrario, sarebbe intervenuto e avrebbe comunque cercato una strada per arrivare allo scopo che si era prefissato. In un modo o nell’altro, quindi, li avrebbe quindi guidati verso il loro destino.   

   «Questo posto fa venire i brividi».

I due giovani erano arrivati all’ingresso della città. Avevano attraversato la porta ad arco che si apriva nella cinta muraria e si erano fermati a osservare la situazione. Quello che si trovavano davanti agli occhi era uno scenario da incubo: l’intera città era deserta e la maggior parte delle case bruciata o ancora in fiamme. La cenere cadeva incessantemente in una calda nevicata e il fumo ristagnava nell’aria pesante come nebbia lattiginosa, nascondendo le cose a pochi passi di distanza. La fioca luce della sera rendeva l’atmosfera ancora più cupa. Non si vedeva anima viva, eccezion fatta per i corvi. Una moltitudine di grossi corvi. La cosa più inquietante era che non emettevano nessun verso: si limitavano a osservare con i loro occhi neri e inespressivi, appollaiati sugli scheletri delle case in rovina o volando silenziosamente. Come se aspettassero qualcosa.

   «Cosa diavolo è successo qui?»

Avanzavano lentamente guardandosi intorno. 

   «Ho paura che quell’uomo avesse ragione, questo posto ha tutta l’aria di essere abbandonato. Anche se ho come l’impressione di essere osservata. E non si tratta dei corvi».

   Lind le fece cenno di fermarsi e contemporaneamente estrasse la spada dal fodero.

   «Vado a dare un’occhiata in giro, tu aspettami qui». 

«Non ci penso nemmeno, vengo con te». 

   «Va bene, ma stammi vicina e fai attenzione, ho un brutto presentimento.» 

   Di nuovo quella sensazione. Come per il golem e per gli orchi. Un senso di oppressione alla base dello stomaco. Stava per succedere qualcosa e, visti i precedenti, non sarebbe stato piacevole. L’istinto gli stava dicendo di andarsene, ma c’era qualcos’altro. Anche lui si sentiva osservato e sapeva che doveva scoprire chi o cosa li stava controllando. E poi doveva assolutamente sapere se il Maestro era o era stato in quel luogo.

   Avanzando tra le case, lo scenario di desolazione non cambiava. Ogni tanto sobbalzavano a causa del rumore delle travi che crollavano all’interno di abitazioni fumanti, unico suono che rompeva il silenzio di morte che aleggiava. Attraverso il fumo, incominciarono a intravvedere le spettrali torri del castello reale. Il maniero era immerso nelle tenebre, eccezion fatta per una fioca luce rossa che brillava in uno dei piani alti. Decisero di seguire quella luce, forse qualcuno era ancora all’interno della costruzione. Dopotutto, sembrava essere l’unica scampata alle fiamme. Dopo qualche tempo, che sembrò un’eternità, nel quale scambiarono pochissime parole quasi sussurrate, intimoriti nel rompere quel silenzio, giunsero al maestoso cancello in nero ferro battuto che delimitava l’ingresso al giardino del castello. Era spalancato, per cui non ebbero problemi a varcarlo. Da quella distanza, nonostante il buio e il fumo, la costruzione si ergeva in tutta la sua maestosità. Due altissime torri dominavano i lati della facciata in pietra grigia. A destra e a sinistra si estendevano due lunghissime costruzioni, dotate di ampie vetrate, che terminavano con delle torri merlate, più basse rispetto a quelle centrali. Un’ampia scalinata, costruita in modo da poter essere scalata dai cavalli, per cui senza scalini, sostituiti da file di pietre semicircolari appoggiate alle piastrelle lisce, portava a una grande terrazza, dalla quale si accedeva al maniero. Sull’imponente portone ligneo erano intarsiate scene di battaglia, nelle quali figure incoronate a cavallo sconfiggevano orchi e nemici all’apparenza umani. Al centro, una figura più grande delle altre raffigurava un guerriero che trafiggeva un mostro alato, forse un drago, con una lancia. Sopra il portone, si apriva la grande vetrata dalla quale proveniva il bagliore rosso che avevano visto da lontano. I vetri colorati, che un tempo la ornavano, erano rotti, ma non ce ne era traccia all’esterno, come se qualcosa li avesse sfondati dall’esterno. Tra il cancello e il castello vi era il grande giardino, attraversato da un viale, ricoperto da ghiaia bianca, che portava alla scalinata. Ai lati del viale si ergevano, a qualche metro di distanza l’una dall’altra, delle statue in pietra che raffiguravano i re del passato, perlopiù raffigurati in abiti militari. Due grandi piscine, ricoperte di ninfee e ornate da fontane, putti ed enormi vasi di pietra, occupavano la maggior parte del giardino. La cosa che attrasse subito l’attenzione dei due ragazzi fu il degrado nel quale versavano le statue, alcune erano distrutte, altre mutilate, nessuna aveva la testa al suo posto. A giudicare dallo stato dei resti, però, lo scempio si era verificato di recente. Subito dopo, si accorsero di qualcos’altro. A causa dell’oscurità e del fumo che ristagnava sul terreno, li videro solo dopo aver percorso qualche passo nel viale. Decine di corpi riversi al suolo. Mutilati, decapitati, alcuni quasi completamente carbonizzati. Riversi sulla scalinata, sul viale, sul giardino. Tutt’intorno, i segni di una furiosa battaglia, dalla quale erano usciti miseramente sconfitti. I due ragazzi si fermarono di colpo, non appena si resero conto di quello che si trovavano davanti.

   «Lind…cosa può essere successo?»  

«Non lo so, ma c’è qualcosa di strano. Sono tutti banditi, tutta gente che viveva qui, in teoria compagni, non vedo altre persone. Possibile che non siano riusciti a sconfiggere nessun nemico?»  

   «Che sia effettivamente avvenuta una battaglia fratricida?»

Il ragazzo si chinò su uno dei cadaveri, per osservarlo meglio.

   «Non credo, hanno tutti delle strane ferite, sembrano fatte con qualcosa di simile a degli artigli. E quelli..» riferendosi ai corpi carbonizzati «…sembrano le conseguenze di un incantesimo di fuoco.»

   La ragazza si avvicinò a lui, per la prima volta ebbe la sensazione che fosse veramente nervosa. Come darle torto.

   «Forse è stato il Maestro, tentando di fuggire.»

Il ragazzo si rialzò e strinse più forte la spada, non era convinto dell’ipotesi.

   «Rimarrebbero da spiegare gli artigli.»

Improvvisamente, la sensazione di essere osservati si fece più intensa, quasi inconsciamente alzarono entrambi lo sguardo verso la vetrata illuminata. Una figura li stava osservando dall’alto, dall’interno della stanza sulla quale dava la vetrata. Era un uomo, dai lunghi capelli che inspiegabilmente, vista l’immobilità dell’aria, sembravano mossi da una leggera brezza. Indossava un lungo mantello e impugnava una sottile spada, tenendo la lama verso il basso, con la punta appoggiata al pavimento. I lineamenti non erano distinguibili, a causa della luce che proveniva alle sue spalle, ma si riusciva a capire chiaramente che gli mancava un braccio, troncato all’altezza del gomito. Era immobile. Sentirono un brivido correre lungo la schiena.

   «E’ lui…»

La voce di Sephyr era un sussurro.

   «Lui chi? Intendi…»

«Nicodhem, ne sono sicura!»

   Prese la mano del ragazzo nella sua e la strinse con forza. Erano quindici anni che aspettava quel momento, pensava di essere pronta. Invece, stava rivivendo lo stesso terrore di quel giorno. Com’era possibile? Era cresciuta, era diventata più forte, allora perché stava tremando come una foglia? Lind strinse la sua mano più forte.

   «Non so se sia Nicodhem, ma so, e non chiedermi perché, che quello ha qualcosa di veramente strano. Non avevo mai provato una sensazione del genere, ma è come se ci trovassimo di fronte a qualcosa che non è né vivo, né morto.»

   «Cosa?»

Un bagliore incominciò a sprigionarsi dalla mano destra del ragazzo. La spada aveva incominciato a emettere la nebbia bianca, le ali del drago, però, erano rimaste al loro posto. Si guardarono preoccupati. Lind provò una sensazione strana, diversa dalle altre volte, sentiva l’energia fluire dall’arma al braccio e poi al resto del corpo, ma senza avvertire la presenza dell’entità che aveva preso il controllo del suo corpo come contro gli orchi. La nebbia luminescente lo avvolse e,  attraverso la mano che stringeva, avvolse anche la ragazza.

   «Cosa sta succedendo, Lind?»

Sephyr provava una sensazione di calore, simile a quella che aveva provato quando aveva impugnato la spada. Era rassicurante, come un abbraccio protettivo.

   «Non lo so…sembra che abbia intenzione di proteggerci da qualcosa.»

   Nicodehm, o chiunque fosse la figura misteriosa, alzò improvvisamente la spada. In quel momento il silenzio fu rotto dai corvi che si alzarono in volo, tutti contemporaneamente, gracchiando spaventati da qualcosa. L’improvviso rumore colse di sorpresa i due ragazzi, spaventandoli. Ma non fu nulla, a paragone del terrore che provarono un istante dopo. I cadaveri che erano sparsi tutt’intorno cominciarono ad alzarsi da terra, lentamente. I mutilati arrancavano, non avendo le braccia o le gambe per reggersi o alzarsi. I carbonizzati, non avendo più abbastanza fibre elastiche per muoversi restavano a terra, come vermi rantolanti. Altri corpi invece, solo feriti o decapitati, si alzarono rapidamente.

Sephyr si mise a urlare. Lind era impallidito e aveva la pelle d’oca.

I cadaveri cominciarono ad avanzare lentamente verso di loro, allungando le braccia. Erano accerchiati. Uno di essi, quello più vicino a loro, cercò di afferrare il braccio di Sephyr, ma appena la sua mano fu attraversata dalla nebbia bianca, prese fuoco con fiamme azzurre e intense. In meno di un secondo, del cadavere redivivo rimase solo un mucchietto di cenere. La ragazza ammutolì alla scena. Il ragazzo guardò la spada, un sorriso si disegnò sul suo volto.

La figura misteriosa grugnì di disapprovazione. 

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Capitolo 28
*** Ali nere ***


28. Ali nere

 

«Non lasciare la mia mano per nessun motivo!»

   Lind aveva capito il meccanismo di difesa che la spada aveva attivato di sua spontanea volontà: come chiunque, che non fossero lui o Sephyr, normalmente era danneggiato dal contatto con l’arma, ora nessuno poteva toccarli senza rischiare di finire in polvere.

   «Va bene, penso di aver capito, è questa cosa bianca che ci protegge, vero?»

   Sephyr era arrivata alla stessa conclusione. 

«Però non ho nessuna intenzione di aspettare che tutti questi mostri ci tocchino per farli fuori, per cui fa qualcosa! Io, con una mano sola, non riesco a usare l’arco!»

   “Bene, si è già ripresa” Pensò il ragazzo. Forse, la consapevolezza di avere delle concrete possibilità di uscire vivi da quella situazione, l’aveva aiutata a non cadere nel panico più completo. Attraverso la mano, comunque, sentiva ancora la sua agitazione. Lui, invece, sentiva una grande energia fluirgli nel sangue attraverso l’elsa della spada. Portato da quel flusso di energia, un grande senso di tranquillità lo stava avvolgendo. Si sentiva rilassato, i suoi sensi si stavano acuendo e il respiro era lento e regolare.

   «Vediamo cosa riesco a fare».

Alzò la spada sopra la testa, tendendo il braccio. Inspirò profondamente con il naso e rimase per un secondo immobile, concentrando l’energia nell’elsa. Compì quei gesti istintivamente, sapeva che doveva fare così. La lama della spada incominciò a brillare di luce bianca. I cadaveri continuavano ad avanzare. Si concentrò sui tre più vicini, che avevano di fronte e stavano avanzando lungo il viale. Uno era senza testa, gli altri due avevano il petto squarciato, con le costole che uscivano dalle ferite, e camminavano facendo dondolare la testa ad ogni passo. Fendente frontale obliquo, dall’alto verso il basso. La lama disegnò una mezzaluna luminosa nell’aria. Quando la spada fu sul punto più basso della traiettoria circolare, la mezzaluna scattò in avanti producendo un potente spostamento d’aria che fece quasi perdere l’equilibrio ai due ragazzi e cadere a terra i cadaveri che si trovavano nelle immediate vicinanze. I tre bersagli, investiti in pieno dall’onda luminosa, avvamparono con fiamme azzurre e si ridussero in cenere in pochi istanti. Sephyr si era istintivamente protetta il viso dallo spostamento d’aria con il braccio libero, chiudendo gli occhi. Li riaprì e guardò quello che era successo.

   «Non mi abituerò mai a queste cose…comunque niente male!»

Poi vide qualcosa vicino al cancello, all’inizio del viale, e sgranò gli occhi.

   «Ma cosa…?»

Lind si stava già concentrando sui prossimi bersagli, quando si accorse anche lui di quello che stava accadendo. Due cadaveri non si dirigevano verso di loro, ma stavano per attaccare un uomo, vicino al cancello. L’uomo sembrava pietrificato dalla paura e tra qualche istante sarebbe stato vittima di quei mostri. Guardandolo bene, pensò per un istante, aveva un’aria familiare. Poi lo riconobbe e anche lui sgranò gli occhi.

   «Cosa diavolo ci fa qui quell’idiota?!»

 

Dopo essersi rialzato a fatica da terra, Alden aveva ripreso la ricerca, nonostante la stanchezza. Le parole dei due strani individui, Clauss e Nichlas, lo preoccupavano e non voleva perdere tempo. Perché erano così convinti che Lind fosse il fidanzato di Sephyr? Era stata lei a dirlo, o lo avevano dedotto da atteggiamenti che potevano essere inequivocabili? L’avrebbe scoperto presto e, in caso, le avrebbe fatto cambiare idea, a costo di dover uccidere quello stregone da strapazzo. Le tracce portavano fino al lago che, con ogni probabilità, dovevano aver attraversato con una barca. Fu facile scoprire dove l’avessero noleggiata. Quando arrivò al molo, intercettò la conversazione tra due ragazzotti che lavoravano al noleggio imbarcazioni e stavano commentando, con molta enfasi e in maniera colorita, ogni singola caratteristica anatomica di una ragazza che aveva preso da poco una delle loro barche. Gli fu subito chiaro che doveva trattarsi di Sephyr. Si avvicinò ai due giovani e chiese informazioni, facendo finta di essere interessato al discorso. Appurato che si trattasse proprio della ragazza, noleggiò una delle barche per attraversare a sua volta il lago dirigendosi a est, nella direzione che aveva preso in compagnia del “ragazzo che ho invidiato di più in tutta la mia vita”, come uno dei due aveva definito Lind. Sorridendo a denti stretti alle battute su “come dovevano divertirsi quei due”, salpò nel momento in cui Sephyr e Lind attraccavano e chiedevano informazioni su Caputargilis. L’attraversata gli fu difficoltosa, era esausto quindi dovette fermarsi più volte per riposare. Impiegò molto più tempo del previsto e questo non fece altro che aumentare la sua fretta. Arrivato al molo saltò giù dalla barca e chiese subito informazioni all’uomo che lo accolse sulla passerella di attracco.

   «Mi scusi, ha visto per caso da che parte sono andati due ragazzi che hanno attraversato il lago poco fa? »

    «Ti riferisci a uno strano tipo con i capelli neri e a un pezzo di figliola dagli occhi blu?»

   «Sono loro, dove sono andati?»

«Hanno detto che volevano andare a Caputargilis, io gliel’ho sconsigliato, ma non mi hanno ascoltato, devi sapere…»

   «Va bene, da che parte?»

«Umpf…segui anche tu la colonna di fumo che vedi laggiù, non puoi sbagliare. »

   «Perfetto. Un’ultima cosa, da quanto sono partiti?»

«Saranno neanche due ore…»

   «La ringrazio.»  

Pronunciò l’ultima frase dando già le spalle all’uomo, camminando a passi rapidi nella direzione che gli aveva indicato. Il barcaiolo lo osservò allontanarsi, guardandolo storto.

   “Se a questo qui succede qualcosa di brutto, se lo merita. Spero che quei due ragazzi siano già troppo lontani per lui.”

   Rendendosi conto che, nonostante tutto, era oramai vicino, decise di stringere i denti e proseguire senza sosta. Al tramonto, allo stremo delle forze, quando stava quasi per cedere e decidere di fermarsi a riposare, li vide entrare nella città dalla porta principale.

   “Finalmente!”

Rinvigorito dalla visione, accelerò il passo. Erano a poche centinaia di metri da lui, non potevano più sfuggirgli. Entrò nella città e si bloccò, come avevano fatto poco prima i due ragazzi, alla vista di quello che si presentava come uno scenario desolante. I corvi osservarono il nuovo arrivato, sempre senza emettere un suono. Dopo qualche secondo si riscosse vedendo in lontananza, tra il fumo, le figure quasi evanescenti dei due ragazzi, e li seguì. Quel posto gli metteva i brividi, ma non si sarebbe fermato proprio adesso. Probabilmente, da quella distanza avrebbe potuto chiamarli, ma preferiva arrivare alle loro spalle di sorpresa, per cui cercò di camminare facendo meno rumore possibile. La cosa avrebbe fatto più effetto. Pregustava già le loro facce sorprese e la cosa lo fece sorridere. Si stavano dirigendo verso quello che doveva essere il castello, li vide varcare il cancello quando erano oramai a pochi metri di distanza.

   “Cosa diavolo ci vanno a fare, in un posto del genere? Non importa, oramai sono miei! ”

Varcò il cancello e rimase di sasso.

 

Li aveva seguiti a distanza attraverso il lago, noleggiando una barca in abiti “civili”, e poi fino alle porte della città. Rimase sconvolto alla vista dello stato in cui si trovava. Quel mostro aveva ucciso tutti? Com’era possibile? Era veramente così terribile? Dopo che ebbe capito che si stavano dirigendo al castello, decise di precederli, anche per sincerarsi se almeno il comandante fosse ancora in vita. Avevano impiegato troppo tempo ad arrivare, avrebbe dovuto trascinarli lì con la forza, si maledisse per la sua scelta. Corse attraverso le strade secondarie e arrivò prima di loro. Il giardino era ricoperto di cadaveri, cercò di ignorare quella vista e si precipitò all’interno del maniero, aveva visto una luce nella sala del trono, una lieve speranza s’insinuò nel suo animo. Entrò nella sala. I vetri colorati del rosone erano sparsi sul tavolo e sul pavimento. La luce rossa proveniva dal trono ligneo, che bruciava con alte fiamme. Di fronte al rogo, di spalle, si trovava Nicodhem, con le braccia lungo il corpo e la testa leggermente reclinata in avanti. Alla sinistra impugnava la sua spada. Era immobile. Si tolse la maschera e il cappuccio e corse verso di lui, inginocchiandosi a pochi passi di distanza.

   «Signore! Lo stregone è qui, ma forse è troppo tardi. Mi dispiace, ho fallito!»

Nicodhem rimase immobile. Attese qualche secondo, poi alzò lo sguardo.

   «Signore…? »

Non ricevendo risposta, decise di alzarsi. Lentamente, gli si portò di fronte. Quello che vide lo fece sbiancare.

   «Cosa…? »

Il volto di Nicodhem era cinereo, gli occhi semichiusi erano senza luce e fissavano il vuoto, la bocca leggermente aperta e un rivolo di sangue rappreso gli solcava il mento. Il petto era squarciato da una profonda ferita, attraverso la quale si potevano vedere lo sterno e alcune costole rotte. Il sangue non sgorgava più, quello che macchiava ciò che rimaneva della camicia e dei pantaloni, era già nero. 

   «Santo cielo...è morto in piedi? »

Gli mise inconsciamente una mano su un braccio. A quel punto, Nicodhem si voltò di scatto e lo infilzò con la spada all'altezza del fegato. Rimase talmente sorpreso che non sentì dolore. La sua mente venne in compenso annebbiata da un terrore mai provato prima. Il volto che lo stava guardando era quello di un cadavere, ma si era appena mosso e gli aveva infilato la spada nelle carni. Dopodichè, perse conoscenza.


   «Alden! Scappa!»

Sephyr urlò all'amico comparso all'improvviso. Era paralizzato dalla paura e non si muoveva. I due cadaveri lo stavano per afferrare. Senza pensarci, lasciò la mano di Lind e corse verso di lui.

   «Sephyr, no!»

Il ragazzo non riuscì a trattenerla, appena si staccò da lui, la barriera protettiva della spada sparì dal suo corpo. Correndo, scoccò una freccia che trapassò la testa di uno dei due cadaveri ambulanti che traballò per l'impatto, ma continuò nell'avanzata. Alden continuava a restare  immobile con gli occhi spalancati e la bocca aperta, era sotto shock. Sephyr riuscì a raggiungerlo appena in tempo, lo trascinò verso il cancello per un braccio, facendolo quasi cadere a terra.

   «Maledizione! Svegliati! »

I due cadaveri continuavano a avvicinarsi. Finalmente, il ragazzo sembrò riscuotersi e posò gli occhi su di lei.

   «Sephyr...cosa sta succedendo? Cosa sono questi mostri? »

«Non lo so, ma ora dobbiamo...»

   Aveva posato lo sguardo su Lind, per vedere come stava. Rimase a bocca aperta. Il volto del ragazzo era irriconoscibile, ricoperto di squame nere. Le pupille sembravano luminose, come quelle di un gatto. Stava sorridendo, i denti erano simili a zanne appuntite. Anche le mani erano ricoperte di squame e le unghie sembravano artigli. La nebbia bianca che lo avvolgeva fu risucchiata dalla lama della spada. Dopodiché, la spada stessa sembrò essere risucchiata dalla mano che la stava impugnando. Da sotto il mantello, si spiegarono due grandi ali nere artigliate.

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Capitolo 29
*** L'umiliazione ***


29.  L’umiliazione

 

Sephyr aveva lasciato la sua mano per andare ad aiutare Alden.

La sua reazione era stata del tutto naturale: un amico d’infanzia stava rischiando la vita e lei si era precipitata ad aiutarlo. Il fatto che con tutta probabilità fosse lì per riportarla a casa non centrava, probabilmente non ci aveva neanche pensato. Allora perché si sentiva così? Nel momento in cui le loro mani si erano staccate e l’aveva vista correre verso di lui, aveva provato una fitta al cuore. Gelosia? Non era abituato a quella sensazione, sapeva che era un sentimento egoista e del tutto immotivato, ma non poteva controllarlo.           

   L’antipatia che aveva quasi dimenticato per Alden si trasformò in odio.

   La tranquillità che provava fino a poco prima si trasformò in inquietudine.

   E poi successe.

Di nuovo.    

   La sentì fluire attraverso l’elsa della spada e prendere il controllo del suo corpo.

   “Ora ci penso io…”.

Poi, il buio.

 

Questa volta era diverso, contro il golem non si era trasformato in quel modo. Il suo aspetto ora metteva i brividi. In più, aveva la brutta sensazione di essere in qualche modo responsabile di quello che stava accadendo. Alden non se ne era accorto, non si era ancora del tutto ripreso dallo shock. Non sapeva cosa fare. La cosa, nella quale si era trasformato Lind, spiccò il volo sbattendo le ali nere, creando un forte spostamento d’aria. A quel punto anche il ragazzo se ne accorse.

   «Cosa diavolo è quello…? »

Lei, con un filo di voce gli rispose.

   «Quello…è Lind…»

«Cosa?!»

 

I cadaveri ambulanti sembravano irrequieti. I due che stavano per aggredire Alden passarono loro affianco senza toccarli, dirigendosi verso il cancello. Stavano scappando? Sembrava la reazione di animali che riconoscono il pericolo di fronte a un pericoloso predatore. L’essere alato volteggiava a mezz’aria restando fermo nello stesso punto, osservandoli. Improvvisamente alzò il braccio destro, puntando il palmo su un gruppo di essi. La mano cominciò a brillare di luce azzurra e immediatamente l’aria attorno ai bersagli sembrò deformarsi. Un istante dopo furono ridotti in cenere da un’accecante vampata che illuminò a giorno, per un istante, l’intero giardino. Il rumore della deflagrazione fu contenuto, come soffocato. Sephyr e Alden si gettarono a terra istintivamente, per proteggersi. L’onda d’urto fece volare pietre tutt’intorno, colpendo e dilaniando alcuni cadaveri, spargendo pezzi di carne sul prato e sul viale. L’essere, sempre sorridendo, rivolse il palmo verso un altro gruppo di bersagli ancora in piedi. Un nuovo lampo. Una nuova esplosione. Poi ancora e ancora. In pochi istanti, l’orda di non morti fu spazzata via. Il fumo, che ricopriva tutto prima della battaglia, si era dissolto a causa del vento provocato dalle esplosioni. L’essere alato scese a terra, ripiegando le ali dietro la schiena e volse lo sguardo alla finestra del castello. Senza cambiare espressione, alzò di scatto il braccio destro e una lama di luce, simile a quella che aveva generato la spada poco prima, fece crollare il muro tutto intorno alla finestra, seppellendo la figura misteriosa, che era rimasta immobile per tutto il tempo. I due ragazzi si alzarono da terra. L’essere era immobile e dava loro le spalle. Alden afferrò per un braccio la ragazza e cercò di trascinarla verso il cancello.

   «Presto, scappiamo prima che uccida anche noi!»  

Sephyr si divincolò dalla presa in modo brusco.

   «Ci ha appena salvato la vita! Non capisci?»

Lentamente, cominciò ad avvicinarsi a quello che fino a qualche minuto prima era Lind, il ragazzo con il quale era arrivata fin lì, il ragazzo che le aveva salvato la vita. Il ragazzo che amava. Tremava come una foglia, gli occhi stavano riempiendosi di lacrime e una pietra le premeva sullo stomaco.

   “Ora tornerai normale. Come quella sera al villaggio e come quando mi hai salvata dagli orchi, vero? Ti prego…”

   «Lind…»

“…torna da me, non potrei sopportarlo.”

   «…mi senti?»

«Sephyr! Vieni via! Quello è un mostro, ti ucciderà!»

   Il “mostro”, a quelle parole si voltò. Scattò in avanti con una velocità impressionante, passando affianco alla ragazza che trattenne il fiato dalla sorpresa, mentre i suoi capelli si scompigliavano per lo spostamento d’aria. Afferrò Alden per il collo con la mano sinistra, alzandolo da terra come fosse una bambola di pezza. Il ragazzo non fece a tempo a muovere un muscolo, si ritrovò con il fiato spezzato da quella morsa, con gli artigli che gli bucavano la pelle. Afferrò d’istinto il polso dell’aggressore, ma non aveva già più la forza per ribellarsi, nel momento in cui lo aveva toccato, era rimasto come svuotato da ogni energia, come se gli fosse stata risucchiata dal corpo. Il mostro lo guardava negli occhi con lo stesso sorriso con il quale aveva distrutto i non morti, anzi, ora sembrava ancora più compiaciuto. 

   “Mi ucciderà…”

Pensò Alden in quel momento, sentendo un liquido caldo colargli dai pantaloni. Il mostro alzò la mano destra, che immediatamente cominciò a brillare di luce azzurra, e gli parlò con la voce di Lind, ma con un sibilo di sottofondo.

   «Io non sono un mostro, e tu non avresti dovuto intrometterti. Non sono cose che riguardano voi deboli uomini».

   Sephyr si rese conto di quanto stava accadendo e cercò di correre per andare a fermarlo, ma non riusciva a muoversi. Anche lei si sentiva svuotata da ogni energia e la testa incominciava a girarle.

   «Lind, no!»

Una grande figura comparve come dal nulla e scaraventò a terra l’essere e la sua preda. Indossava un’armatura grigia e impugnava una strana lancia. Un serpente avvolgeva in parte il braccio e in parte l’arma. La nebbia bianca luminescente avvolgeva il corpo del misterioso individuo. Il volto era ricoperto da scaglie lucide e gli occhi neri sembravano quelli di un rettile. Alden, nella caduta, era riuscito a liberarsi, ma era ancora senza forze, per cui riuscì solo a strisciare pancia a terra per cercare di allontanarsi. L’essere alato si rialzò lentamente da terra, ignorandolo. Le ali si rimpicciolirono fino a scomparire e la spada, invece, ricomparve nella sua mano destra.

   «Bene bene, chi abbiamo qui? Uno degli Angwi? Hai coraggio, per affrontare da solo un Rakhoon. Qual è il tuo nome? »

   «Il mio nome è Boidèn da Cerrejòn. »  

Il Rakhoon si voltò verso di lui.

   «Molto bene, Boidèn. Ora dimmi, per quale motivo stai intralciando la mia strada?»  

   «Non posso permettere che tu prenda il controllo del ragazzo, abbiamo bisogno di lui»

   «Mi dispiace, ma ora questo corpo è in mio possesso. Il ragazzo è debole, quindi, in ogni caso, non ti sarebbe stato d’aiuto. Ora, se mi permetti, finirei quello che ho cominciato.»

   Senza aggiungere altro, si girò nuovamente verso Alden, che nel frattempo era riuscito ad allontanarsi solo di qualche metro. Con due passi gli fu sopra e alzò la spada per colpirlo con la punta della lama in mezzo alla schiena. Boid si lanciò verso di lui brandendo la lancia.

   «Fermo!»

«Non approfittare della mia pazienza!»

   Il Rakhoon alzò il braccio sinistro, dal palmo aperto si generò un’onda d’urto che respinse l’Angwi, facendolo volare a terra.

   «Adesso basta!»

Sephyr, che nel frattempo riusciva nuovamente a muoversi, aveva ascoltato tutto e si era portata alle sue spalle.

   «Non so chi tu sia, ma rivoglio Lind. Subito! »

L’espressione era decisa, ma dagli occhi le colavano le lacrime, i capelli scompigliati le ricadevano sul viso, restando attaccati alle guancie.

   «Stai lontana. Non preoccuparti, non ti farò del male»

Il Rakhoon usò un tono più morbido.  

   «Non m’importa! Ridammi Lind…ti prego…»

Disse lei, con voce rotta dal pianto.

   «Non avvicinarti!»

Boid si era rialzato e, approfittando della distrazione creata dalla ragazza, riuscì ad avvicinarsi, portandosi alle spalle del nemico. Con un movimento rapidissimo, riuscì a immobilizzarlo stringendolo con la lancia sul petto. 

   «Ancora tu!»

«Ragazza! Non chiedermi il perché, ma toccalo ora!»

   Sephyr non se lo fece ripetere e gli gettò le braccia al collo.

Il Rakhoon ebbe un sussulto, dopodiché rimase immobile. La nebbia bianca cominciò a fuoriuscire dal suo corpo, avvolgendo entrambi. A quel punto, Boid mollò la presa e si allontanò di qualche passo. Dopo qualche secondo, l’effetto cessò. La spada cadde a terra.

   “Ma cosa…?”

«Sephyr…stai piangendo? Cos’è successo?»

   La ragazza alzò gli occhi, il suo viso era tornato normale. La stava guardando con un’espressione confusa, ma era di nuovo lui. Gli sorrise dolcemente, continuando ad abbracciarlo. Poi…

   «Sei un cretino!»

Gli assestò un calcio sugli stinchi e si voltò di spalle, Lind si piegò in due dal dolore.

   «Ma che cosa ho fatto?! Che male!!»

«Ci hai fatto prendere un bello spavento, ragazzo. Bisogna fare in modo che la cosa non si ripeta.»

   Lind si girò nella direzione della voce e vide l’uomo in armatura, tornato nel frattempo anche lui alla forma “umana”.

   «E tu, chi saresti?»

«Mi chiamo Boid, e d’ora in poi, potrai chiamarmi Maestro.»

 

Era stato umiliato. Si era pisciato addosso di fronte a lei.

   “Quelli sono dei mostri e preferisce stare con loro? Maledetta!”

Alden, appena ne fu in grado, scappò via il più velocemente possibile, con il volto rigato da lacrime di rabbia e paura corse fino all’uscita della città. Non appena fu fuori dalle mura, crollò a terra, sfinito.

   “Devo fargliela pagare, non può finire così!“

«Non hai seguito i miei consigli. Queste sono le conseguenze.»

   In piedi accanto a lui, c’era un uomo incappucciato, sulla schiena portava una grande falce nera. Il ragazzo si mise a sedere, con una smorfia. Riconobbe la voce che aveva sentito quando si era svegliato legato nel bosco.

   «Ancora tu? Cosa vuoi? Aspetta, tu sei uno di loro vero?»

«Questo non ha importanza. Hai pensato alla mia proposta? Con la forza che ti posso donare, saresti in grado di vendicarti. »

   Il ragazzo rimase per un secondo in silenzio.

«E’ una promessa?»

   Sotto il cappuccio, l’uomo sorrise e due zanne bianche brillarono nella penombra.

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Capitolo 30
*** Un nuovo compagno ***


30.  Un Nuovo Compagno

 

Lind, seduto a terra, guardava Sephyr: la ragazza gli dava le spalle e continuava a singhiozzare. Era parecchio confuso, sapeva che era successo di nuovo, che si era trasformato e aveva sconfitto l’orda di non morti, ma non ricordava nulla dal momento in cui le loro mani si erano divise.

   «Ho cercato di farle del male?»

La domanda era rivolta allo strano personaggio che diceva di chiamarsi Boid, l’arma che impugnava aveva qualcosa di familiare e, molto probabilmente, era anche lui uno stregone. Per il momento però la cosa non aveva molta importanza, era più preoccupato per la ragazza. Apparentemente a livello fisico sembrava stare bene, ma era turbato per il suo stato d’animo, non avrebbe mai creduto di vederla in quelle condizioni, sembrava davvero sconvolta. Fino allora aveva dimostrato un carattere di ferro, cosa poteva averla scossa a tal punto? Aveva paura della risposta. Boid gli mise una mano sulla spalla e parlò a voce bassa, con tono rassicurante. 

   «Non potresti mai torcerle un capello, neanche in quella forma, stai tranquillo. Penso siano solo lacrime di sollievo.»

   Lo guardò stupito.

«Quindi tu sai cosa mi succede, in quei momenti?»

  Boid tolse la mano dalla sua spalla e assunse un’espressione seria.

«Il mio compito è di spiegarti ciò che non sai e soprattutto di insegnarti come evitare quello che è appena successo.»

  Sephyr drizzò la testa a quelle parole, si passò la manica della camicia sugli occhi per asciugare le lacrime e si voltò con espressione forzatamente seria e impassibile.

   «Tu sei come lui, giusto? Però riesci a mantenere il controllo quando sei in quello stato, quindi potrebbe farlo anche lui quando si trasforma in quel…modo?»

   Evitò di dire la parola “mostro” per non turbare ulteriormente il ragazzo. In fondo aveva capito che non le avrebbe mai fatto del male, nonostante l’aspetto che aveva assunto, però non era “lui”, era qualcos’altro e non le piaceva per niente. Non voleva vederlo di nuovo in quello stato. Non voleva più sentirsi in quel modo. In quei momenti si era ulteriormente resa conto che era diventato molto importante per lei e l’idea di perderlo, di non averlo più accanto a sé come lo aveva conosciuto, con la sua goffaggine e la sua dolcezza, la uccideva. Boid la guardò sorridendole quasi in modo paterno, avvertiva l’inquietudine della ragazza e sembrava conoscere bene quello stato d’animo.

   «Sono qui per questo, ma finché non sarà in grado di farlo da solo, la cosa fondamentale è che tu resti al suo fianco.»

   Sephyr distolse lo sguardo e incrociò le braccia.

«Quindi è vero. E’ stata colpa mia. E’ successo quando l’ho lasciato solo, vero? Finché lo tenevo per mano, sembrava poter controllare la cosa…»

   L’uomo le si avvicinò e mise le mani sulle sue spalle.

«Non potevi saperlo, non è stata colpa tua.Ci sono cose che ancora non conoscete. Ora non preoccuparti, dopotutto non è successo nulla di grave, per fortuna. Quel ragazzo sta bene».

   Quel ragazzo…Alden! Dov’era finito? Si guardarono intorno e non ne videro traccia. Lind si alzò da terra.

   «Che fine ha fatto quello stupido? Vorrei proprio sapere cosa ci faceva qui, anche se ho una mezza idea in proposito…»

   Lanciò un’occhiata di traverso alla ragazza, che lo ricambiò in modo severo.

   «Che cosa intendi dire?»

«Bhè, chiaramente non era qui perché era preoccupato per me, non credi?»

   «Cosa vuol dire? Sei geloso?»

«Io geloso di quel borioso attaccabrighe? Perché dovrei, giusto? Anche se, bisogna dirlo, non hai esitato un secondo per andarlo ad aiutare…»

   La ragazza scostò Boid bruscamente e gli si avvicinò minacciosa.

«Sei tu lo stupido! Stava per essere fatto a pezzi da quei mostri, cosa dovevo fare? Ci conosciamo da quando eravamo bambini, dovevo lasciarlo morire senza fare nulla?»

   Lind abbassò lo sguardo, aveva già capito perché era corsa ad aiutarlo e si era già pentito di quello che aveva appena detto, ma gli era uscito così, come sfogo. 

   «…no, penso di no…hai ragione».

Boid guardò improvvisamente in alto verso la vetrata del castello.

   «Scusate, ma continuerete dopo la vostra discussione, ora abbiamo problemi più urgenti.»

   I due ragazzi seguirono il suo sguardo e trasalirono alla vista di quello che stava succedendo. Dalle macerie, stava riemergendo la misteriosa figura che aveva risvegliato i cadaveri. Sephyr, che lo aveva visto cadere sotto le pietre del muro, esclamò spaventata:

   «Com’è possibile che sia ancora vivo?»

Boid, senza staccare lo sguardo da quell’apparizione, le rispose in tono tetro.

   «Semplice, non era vivo neanche prima».

Entrambi lo guardarono stupiti.

   «Quindi anche lui è una specie di zombie? »

«E'qualcosa di più, ed è molto più pericoloso di quei pupazzi di poco fa».

   Lind si chinò automaticamente per prendere in mano la spada, che era ancora a terra, ma un momento prima di afferrarla esitò. Per la prima volta, aveva paura di impugnarla. Sarebbe successo di nuovo? Boid percepì la sua esitazione e lo esortò.

   «Non avere paura! Devi essere in grado di controllarla, e non è esitando che ci riuscirai.»

    Il ragazzo lo guardò dubbioso, non capiva. Anche lui ne parlava come se fosse qualcosa di vivo e la cosa cominciava a non sembrargli più così assurda. Il “Simbiote”, come lo aveva definito l’uomo incappucciato, lo spaventava. Tuttavia, sentiva che non avrebbe potuto farne a meno. La sensazione di potere che aveva avvertito prima di perdere il controllo lo aveva inebriato, gli sembrava di sentire ancora quell’energia immensa scorrergli nelle vene, unita a una grande tranquillità mentale. La situazione era cambiata quando Sephyr aveva lasciato la sua mano. Ma qual era stata la vera causa di quel cambiamento? Il distacco fisico dalla ragazza o il sentimento di gelosia che aveva turbato il suo animo? Forse quell’uomo, Boid, poteva rispondere a queste domande. Qualcosa in lui gli ricordava la persona per la quale erano giunti fino a lì, il Maestro.

   Anche Sephyr si era accorta che c’era qualcosa che non andava in lui. Gli si avvicinò, raccolse la spada e gliela porse, guardandolo dritto negli occhi.

   «Poco fa, quando eri in quello stato, ho avuto paura. Paura di perderti, paura di non poter più fare questo… »

   Lo baciò dolcemente sulle labbra.

«…poi, quando ti ho abbracciato e sei tornato normale quella paura è svanita, perché ho capito che eri tornato da me. Forse è questo il significato delle parole di quella persona, quando mi ha definito “Sigillo” e anche se non abbiamo ancora capito quale sia il fine di tutto questo, di una cosa sono sicura: finché saremo insieme, non potrà succedere nulla d’irrimediabile. »

   Per l’ennesima volta, il potere di quello sguardo ebbe l’effetto dirompente di spazzare via qualsiasi indecisione.

   «Sephyr…grazie. Ero terrorizzato al pensiero di averti fatto del male senza saperlo, non avrei potuto sopportarlo. Questa…”cosa”, il Simbiote, mi fa paura. Ho paura che, prendendo il controllo del mio corpo, possa fare delle cose di cui mi pentirò. Al tempo stesso so che fa parte di me, in qualche modo, per cui dovrò trovare la forza di conviverci. Sapere che tu sei al mio fianco, che posso contare sul tuo aiuto, è tutto ciò che mi serve».

   Lind impugnò la spada e si rialzò con atteggiamento baldanzoso, gonfiando il petto e tenendo la testa alta. Sephyr trattenne una risata, decisamente non era il tipo da atteggiarsi in quel modo, risultava quasi ridicolo, ma era felice di averlo rincuorato. Boid guardò la ragazza con un mezzo sorriso. “Niente male! Bisogna dire che sa come farsi ascoltare, e ha già capito molte cose da sola…”

   «Bene, se ora permettete, il nostro amico ci sta invitando a raggiungerlo. Non possiamo essere scortesi, no? Andiamo».

   La figura misteriosa si era rialzata e dopo aver fatto cenno di seguirlo, era scomparsa all’interno del castello. Boid si avviò verso la scalinata che portava al portone d’ingresso, senza aspettare che i compagni lo seguissero.

“In questo è uguale al Maestro…” Pensò Lind.

   «E se invece ce ne andassimo, lasciandolo aspettare? Sinceramente non è che m’importi molto di essere educato con un morto vivente…»

   Disse sgonfiandosi come un palloncino.

La ragazza gli diede un pugno sulle reni, da dietro.

   «Ahia!…ma perché?»  

«E io che ti ho appena detto quelle cose per farti coraggio! Dov’è finito l’atteggiamento impavido di poco fa? Ti sei dimenticato che siamo venuti fin qui per ritrovare il Maestro? Non sappiamo ancora se è tenuto prigioniero all’interno di questo posto, e tu te ne vuoi andare? Fa come vuoi...»

    Dopodiché, gli diede le spalle e seguì Boid su per le scale.

Il ragazzo li seguì, massaggiandosi il fianco e sorridendo.

   «Ok, ok…stavo scherzando, era solo per sdrammatizzare un po’...che male...»

   L’interno del castello era immerso nel buio, il sole era definitivamente tramontato e, ovviamente, nessuna delle torce appese ai muri era stata accesa.

   «Non si vede un accidente qua dentro, come si fa?»

Boid guardò il ragazzo, che nel frattempo li aveva raggiunti, un po’ sorpreso.

   «Ma sei sicuro di essere uno stregone?»

«Se stai cercando di essermi antipatico, ci stai riuscendo»

   A Sephyr scappò una risata.

«Ogni tanto me lo domando anch’io…»

   «Simpatici…»

«Che disastro…va bene, vediamo se riesci a fare come me. Non devi fare altro che concentrare l'energia nella mano, come per un incantesimo di fuoco, ma senza focalizzare un bersaglio e controllandone l'intensità»

   Detto questo, alzò la mano sinistra, prese un leggero respiro e immediatamente la sua mano cominciò a brillare di una luce arancione, simile a quella che emana una fiaccola.  La stanza fu rischiarata da quella luce, mostrando un grande atrio, dominato da una imponente scalinata. A destra e a sinistra si aprivano due corridoi, che portavano alle due ali del palazzo. 

   «Utile questa cosa...vediamo se ci riesco...»

Lind tentò di ripetere i gesti di Boid, inizialmente con scarso successo, riuscendo solo a creare degli sbuffi di vapore luminoso, poi anche la sua mano s’illuminò. Il ragazzo sorrise di soddisfazione, lanciando un’occhiata alla ragazza, che ricambiò il sorriso.

   «Niente male... Ora saliamo nella stanza del trono, è li che ci sta aspettando. Statemi vicini».

I tre cominciarono a salire le scale che portavano al piano superiore. Nicodhem, o quello che era diventato, li stava aspettando impassibile.

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Capitolo 31
*** Deliah ***


31. Deliah

 

«Maledizione Alomas! Non c’era un modo meno rumoroso? Ci saranno addosso tra un secondo!»

   Corgh e Jofiah, frastornati e coperti di polvere, uscirono dall’apertura nel muro della cella che era appena stata aperta dall’esplosione. L’elfo li stava già aspettando a cavallo, con il vecchio Moshi alla briglia e stranamente tranquillo nonostante gli avvenimenti. L’impassibilità del volto di Alomas faceva supporre che avesse già previsto tutto. Anche se, a pensarci bene, quella era la sua normale espressione, per cui l’oste non poteva esserne del tutto certo.

   «Cosa diavolo è successo?»

Jofiah tossiva e si sfregava gli occhi che lacrimavano.

   «Quando saremo al sicuro vi darò tutte le spiegazioni. Forza, salite in sella, amici miei, come ha detto a ragione Corghyan, non abbiamo molto tempo.»

   Jofiah salì su Moshi, mentre Corgh si accomodò dietro all’elfo. I due cavalli partirono di gran carriera in direzione della foresta.

   «Moshi…cos’è successo? Non correvi così da anni…» disse stupito Jofiah al vecchio cavallo, stringendo le redini.

Avevano percorso poche centinaia di metri quando il suono di un corno d’allarme risuonò nell’aria.

   «Eccoli, sbrighiamoci!»

Alomas spronò il cavallo che accelerò seguito da Moshi, sempre più rinvigorito, quasi non volesse sfigurare al fianco del possente purosangue. Mancava poco al limitare della foresta, dovevano però attraversare il cancello di uscita, che in quel momento era ancora spalancato. Le guardie del cancello sembravano sorprese, avevano sentito il corno e li stavano guardando, indecise sul da farsi. Non erano abituate a situazioni del genere. Improvvisamente, una di esse sembrò riscuotersi e spronò le altre a chiudere la via di fuga a quei cavalieri. Fortunatamente non era cosa semplice, il pesante cancello aveva bisogno di tempo per essere chiuso. Alle spalle dei fuggitivi, quattro guardie a cavallo erano partite all’inseguimento, spronate dal capitano Sheryan, rosso in volto dalla rabbia. Una delle guardie del cancello si parò in mezzo alla strada, puntando la lancia nella loro direzione e intimando l’alt, anche se con poca convinzione, mentre altre due spingevano i pesanti battenti. Alomas non batté ciglio e spronò ulteriormente la cavalcatura non intendendo minimamente deviare o rallentare la corsa. Il povero soldato, intuendo le intenzioni dei cavalieri, si gettò a terra appena in tempo per non essere travolto. Il cancello era oramai quasi completamente chiuso, fortunatamente però, riuscirono a varcarlo appena in tempo. Le due guardie si accorsero troppo tardi del loro passaggio e non riuscirono a tenerlo aperto per gli inseguitori, che dovettero frenare bruscamente per evitare di schiantarsi contro i battenti di metallo.

   «E con questa ho perso cinque anni di vita! Corgh, me la pagherai alla fine. Maledetto me che ti ho seguito in questa storia!»

   Il povero Jofiah era pallido e sudato dalla tensione, stringeva le redini del vecchio Moshi talmente forte da farsi venire le dita bianche e non aveva ancora smesso di tossire per la polvere. Corgh si girò verso di lui con aria truce.

   «Piantala! Siamo salvi, no? E poi, un po’ di adrenalina non può che farti bene! O preferivi restare a marcire nel tuo polveroso negozio a servire le zitelle bisbetiche del paese?»

   Jofiah scaricò una serie d’insulti sull’oste, dopodiché scoppiò in una risata fragorosa che contagiò, incredibilmente, lo stesso Corgh. Nel frattempo, il capitano Sheryan schiumava di rabbia e dispensava minacce di severe punizioni sulle teste dei suoi uomini. Non poteva ordinare loro di inseguirli, il trattato di pace con gli elfi prevedeva il divieto per la milizia di attraversare il cancello con la foresta e infrangere tale divieto sarebbe stato troppo pericoloso. Non poteva nemmeno rivalersi sul fatto che era stato un elfo a farli scappare, non aveva l’autorità per perseguire gli abitanti della foresta. Non aveva nessuna intenzione, però, di lasciarselo scappare, non ora che l'aveva avuto in pugno. Doveva trovare il modo di averlo di nuovo nelle sue mani, ad ogni costo. La soluzione, forse, era una sola. Congedò in malo modo i suoi uomini, dopo aver inflitto consegne straordinarie e cancellato permessi, dopodiché si diresse verso la taverna più malfamata della città, dove era sicuro di trovare il suo uomo, non prima però di essersi camuffato com’era sua abitudine prima di recarsi in un posto che non si addiceva molto al suo rango. Indossando un ampio e logoro mantello con cappuccio e bavero alto a coprire il viso sotto gli occhi, entrò alla “Rosa nera” e si diresse al bancone. Il fumoso locale era come al solito pieno della peggior feccia della città. Li conosceva quasi tutti, avendoli almeno una volta visti dietro le sbarre della sua prigione. Motivo in più per non farsi riconoscere. Sapeva che, bardato in quel modo, non avrebbe corso rischi, quella era gente che non dava peso a un losco figuro a volto coperto che, con ogni probabilità, era uno di loro, ovvero un ladro o un qualche altro tipo di furfante. L’uomo dalle spalle larghe, curvo sul bancone, non mosse un muscolo quando gli si sedette affianco. Era di corporatura piuttosto robusta, sui cinquant'anni. I capelli neri tagliati corti erano brizzolati, il volto segnato da profonde rughe e con un’appariscente cicatrice che gli attraversava la guancia destra. Gli occhi azzurri erano vivi e ne traspariva una grande forza d'animo. Era notevolmente diverso dal resto degli avventori del locale.

   «Vedo che non hai molto da fare, ultimamente».

L'uomo appoggiò il bicchiere. 

   «Non sono affari tuoi».

Non voltò neanche il viso verso il suo interlocutore. La sua voce era profonda e graffiante.

   «Può darsi. Però penso sia un peccato, il fatto che un uomo con le tue capacità se ne stia con le mani in mano a bere acquavite scadente in un posto del genere».

   L'uomo non rispose e riprese a sorseggiare dal suo bicchiere.

«Taglia corto. Hai qualcosa da offrirmi? Altrimenti ti consiglio di andartene...»

   Abbassò la voce, chinandosi verso di lui.

« ...Capitano Sheryan.»

    «Così si ragiona!» 

Arrivarono ad Aglarfuin, la città degli elfi nel mezzo della Foresta Nera, dopo due ore di cavalcata, senza che nessuno li seguisse. Il capitano, come Alomas aveva previsto, non se l'era sentita di infrangere le regole della Tregua. Non appena sbucarono dal folto degli alberi nella radura che si apriva sulla città, Corgh trattenne il fiato. Erano passati vent’anni dall’ultima volta che era stato lì, un senso di nostalgia lo assalì. La città si mostrò in tutto il suo splendore: le maestose mura di pietra candida riflettevano la luce della luna producendo un effetto di bagliore soffuso su tutta la radura. All’interno delle mura si vedevano i palazzi, anch’essi in pietra bianca, finemente decorati con statue e fregi. I tetti spioventi, ricoperti di tegole di pietra vulcanica nera e opaca, creavano un contrasto fortissimo con il candore dei muri lucidi, le costruzioni sembravano sovrastate da dei triangoli di oscurità. Per questo la città era chiamata Aglarfuin, ovvero “Luce delle tenebre”. Nel centro esatto della circonferenza disegnata dalle mura, si ergeva il Palazzo della Luna, residenza di Eromas, signore degli elfi neri e padre di Alomas. Il palazzo ospitava anche il tempio dedicato al culto della Signora Della Luce, di cui era somma sacerdotessa Deliah. Corgh realizzò solo alla vista delle guglie nere del palazzo che era giunto il momento di rivedere la sua amata consorte. Fino a quel momento aveva cercato di non pensarci, per non farsi prendere dall’emozione, anche perché la notizia che le stava portando non era delle migliori.

   «Come sta lei?»

Chiese improvvisamente ad Alomas. L’elfo, con la sua solita flemma rispose senza attendere un secondo, quasi si aspettasse la domanda. In effetti, era così.

   «La sacerdotessa è in ottima forma. Lo sai, finché si trova qui, non rischia nulla. »

   «Ne sono felice».

Dopo una piccola pausa, l’elfo girò leggermente il viso verso di lui, un atteggiamento confidenziale e informale che lo stupì.

   «Ha sentito molto la vostra mancanza in questi anni».

«Il destino ha voluto che ci separassimo. Sarei voluto tornare insieme a Sephyr, le avrebbe fatto sicuramente piacere».

   «Dov’è vostra figlia in questo momento?»

Corgh sospirò, il trambusto di quelle ore gli aveva tolto dalla testa la preoccupazione per la figlia, che ora gli calò addosso di nuovo come una pietra.

   «E’ con un giovane Rakhoon, lei è il suo Sigillo».

L’elfo ebbe un piccolo e quasi impercettibile sussulto a quelle parole, e l’oste se ne accorse.

   «Capisco. Quindi è questa la ragione che ti ha riportato qui».

«Non esattamente, se il problema fosse solo questo, saprei gestirlo da solo, purtroppo c’è dell’altro. Dobbiamo parlare con Eromas al più presto.»

   «Mio padre sarà felice di rivederti, ma prima devi passare al tempio».

   «Non serva che tu me lo dica».

I due cavalli entrarono dalla porta della città.

   «Sono arrivati, mia signora!»

La giovane portò la notizia con il sorriso sulle labbra, sapeva che la stava aspettando con ansia. Deliah era seduta alla finestra e si alzò di scatto verso di lei. Il suo volto era raggiante. La ragazza rimase affascinata, la bellezza della sacerdotessa era già normalmente fuori dal comune, ma in quel momento aveva qualcosa di ultraterreno. Non aveva mai visto i suoi occhi brillare in quel modo, doveva essere veramente felice. Conosceva la sua storia e aveva sempre percepito il velo di tristezza che la accompagnava per la lontananza dai suoi cari, quella tristezza era stata spazzata via al pensiero di poterli riabbracciare a momenti.

   «Grazie, Elohen. Falli entrare».

Elohen, sorella di Alomas, si congedò e fece segno alle guardie di far entrare gli ospiti. Corgh entrò preceduto da Alomas. Deliah, con le lacrime agli occhi, gli si gettò al collo senza lasciargli il tempo di aprire bocca.   

   «Quanto ho aspettato questo momento…»

L’oste, dapprima sorpreso, strinse a se la moglie.

   «Ti trovo bene, ne sono felice».

La donna lo guardò negli occhi e gli mise una mano sulla guancia.

   «Sei cambiato, amore mio».

«Vent’anni sono tanti, per noi uomini. Tu invece sei splendida come allora».

   Deliah gli sorrise e lo baciò sulle labbra. Spostò lo sguardo alle sue spalle e alla vista di Jofiah cambiò per un secondo espressione. L’oste notò la delusione nel suo sguardo, e anche Jofiah, che abbassò lo sguardo imbarazzato.

   «Sephyr non è qui, mi dispiace».

«Sta bene?»

   C’era preoccupazione, nella sua voce.    

«Sta bene. In questo momento è con un giovane Rakhoon».

   Deliah si staccò da lui e assunse un’espressione seria.

«Raccontami tutto. »

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Capitolo 32
*** Mantenere il controllo ***


32. Mantenere il controllo


«Giusto per curiosità Boid, poiché mi pare tu sappia molte cose, ci sai dire cosa diavolo erano quei mostri li fuori? Da quanto ne so io, i cadaveri non dovrebbero riuscire a muoversi...»

   I tre stavano salendo le scale, attraversando l'oscurità grazie alla luce emanata dagli incantesimi che brillavano dalle mani dei due stregoni, per raggiungere la sala del trono dove Nicodhem li stava aspettando. Sephyr e Lind camminavano fianco a fianco, preceduti da Boid che rimase silenzioso, apparentemente ignorando la domanda del ragazzo. Dopo qualche secondo Lind, non avendo avuto risposta e capendo che non sarebbe arrivata nell’immediato, si girò verso la ragazza per cercare un segno di complicità. Anche Sephyr però, sembrava non aver sentito la domanda, guardava davanti a se con espressione seria e preoccupata. Pensandoci bene, stavano per affrontare una specie di “signore dei morti” per cui era normale che non avessero voglia di fare conversazione. Sephyr inoltre, stava per trovarsi faccia a faccia con l’uomo che le aveva segnato l’esistenza molti anni prima. Allora perché lui era così tranquillo? Il battito del cuore era regolare come il respiro, riusciva a mantenere senza difficoltà l’incantesimo luminoso, anche se era la prima volta che lo usava; i sensi erano amplificati, percepiva chiaramente tutti i rumori, i loro passi sulla pietra e il respiro dei due compagni, se si concentrava, riusciva quasi a percepire i battiti del cuore di Sephyr accanto a se e di Boid poco più avanti. Si sentiva carico come una molla, come un predatore che sta per spiccare il balzo decisivo sulla preda. La lama della spada, chiusa nel suo fodero sulla schiena, aveva cominciato a emanare un calore più intenso del solito. Improvvisamente, percepì distintamente una presenza nella stanza in cui si stavano dirigendo, la sensazione era quella che aveva provato quando la figura misteriosa si era rivelata dalla vetrata. La cosa strana, che lo aveva colpito anche poco prima, era che di questa presenza non percepiva segni “vitali”, ma solo l’esistenza. “Né vivo, né morto” aveva detto a Sephyr. Poi sentì qualcos’altro, un’altra presenza nella stessa stanza. Di questa però, percepiva chiaramente il debole battito cardiaco e il respiro rallentato. Una persona ferita, probabilmente in agonia, chi poteva essere? Un timore improvviso gli calò dall’alto come una doccia fredda. Se fosse il Maestro? Aumentò il passo sfoderando la spada.

   «Che ti succede?»

Sephyr lo guardò allarmata.

   «C’è una persona ferita lassù, potrebbe essere il Maestro!»

«Cosa? E tu come lo sai? Aspetta!»

   Superò velocemente Boid e raggiunse la sommità delle scale, dove una grande porta spalancata dava sulla sala del trono. Il bagliore del fuoco, proveniente da quello che doveva essere stato uno scranno ligneo, illuminava debolmente l’ambiente. La corrente d’aria che entrava dalla vetrata in frantumi faceva danzare le fiamme e spargeva scintille incandescenti che roteavano sulla testa della misteriosa figura, in piedi davanti al rogo. I lunghi capelli neri dello spadaccino senza un braccio seguivano il volo delle scintille, mentre il resto del corpo era completamente immobile. Lind si fermò sulla soglia, osservando la situazione, spada in pugno, e interrompendo l’incantesimo luminoso. Notò immediatamente la ferita aperta sul torace e l’espressione vuota.

   “E’ anche lui un cadavere ambulante, quindi. Ma ha qualcosa di diverso…”

Pensò, cercando con lo sguardo l’altra presenza. A terra, in una pozza di sangue e appoggiato con la schiena al muro, c’era colui che cercava e tirò un sospiro di sollievo. Non era il maestro, ma gli era comunque familiare, riconobbe subito la divisa nera e le bardature su stinchi e avambracci.

   “Ma che…è quello che ci stava seguendo! Che diavolo sta succedendo?”

Avanzò verso il ferito lentamente, controllando con la coda dell’occhio la figura immobile. Intanto, Sephyr e Boid lo avevano raggiunto e si erano fermati a loro volta sulla soglia.

   «Ragazzo!»

«Tranquillo Boid, voglio controllare come sta questo qui. Tu, tieni d’occhio il nostro amico per favore.»

   Si chinò affianco all'uomo e lo osservò meglio, era un ragazzo, probabilmente della sua età, aveva una ferita allo stomaco, dalla quale era uscito molto sangue, era pallido e privo di sensi, ma respirava ancora, come aveva sentito poco prima. Sephyr non riusciva a togliere gli occhi di dosso da quello che era stato Nicodhem, l’uomo che aveva segnato la fine della sua innocenza, terrorizzandola quindici anni prima. Ora era lì, di fronte a lei, ma non era più quella persona. Probabilmente non era più neanche una persona. Non sapeva come doveva sentirsi, aveva pensato molto a quel momento, ma se l’era immaginato diversamente. Non aveva preso in considerazione la possibilità di trovarsi al cospetto di un non morto. Non sarebbe riuscita a fargli capire che non era più in grado di spaventarla, mai più. Improvvisamente, provò rabbia. Imbracciò l’arco e scoccò una freccia tendendo la corda fin quasi a spezzarla. Il dardo sfiorò il volto dell’impassibile figura e si conficcò nello schienale del trono in fiamme, provocando un’esplosione di braci. La pelle del volto cianotico si aprì sulla guancia, ma non una goccia di sangue ne uscì. I due stregoni rimasero per un secondo impietriti dal gesto della ragazza.

   «Sephyr…»

Una lacrima rigava il suo volto. Le immagini di quel giorno le erano ripassate davanti agli occhi, aveva rivisto la figura di quel comandate dallo spirito di ghiaccio che non aveva esitato un istante a troncarsi un braccio, aveva risentito la sua voce ferma e autoritaria e soprattutto la sua dignità nella sconfitta, degna del più nobile dei cavalieri. Vederlo ridotto in quell’abominio, era troppo.

   «Lind!»

La sua voce rotta dall’emozione lo colpì.

   «Si...»

«Riduci in polvere quel mostro, ti prego…»

   Il mostro continuava a restare immobile. Lind posò lo sguardo su di lui, qualcosa in quel fantoccio di carne lo inquietava, ma si sentiva sicuro di sé. Boid rimase in silenzio, si spostò di qualche passo all'interno della stanza per osservare meglio la situazione. Appoggiò la lancia a terra e la strinse con entrambe le mani. Il ragazzo non capiva totalmente la reazione della ragazza, ma era d’accordo con lei su quello che andava fatto, quella cosa andava distrutta. Riportò lo sguardo su di lei e le fece un inchino cavalleresco.

   «Ai vostri ordini, mia signora! »

Puntò sul non morto il palmo della sinistra e si apprestò a lanciare l’incantesimo di fuoco, con tutta l’energia che aveva in corpo.

   “Vediamo adesso come te la cavi” Fu il pensiero di Boid.

Non appena la mano del ragazzo cominciò a brillare e a emettere il vapore luminoso, Nicodhem scattò improvvisamente verso di lui brandendo la spada. In un unico balzo, a una velocità innaturale, gli fu addosso. Fendente frontale dall’alto in basso. Lind sgranò gli occhi colto di sorpresa, imprecò e abbassò la mano sinistra, non avrebbe fatto in tempo a lanciare l’incantesimo, alzò la spada con la lama in orizzontale per parare l’attacco. La potenza del colpo fu impressionante, il ragazzo fu costretto a piegarsi sulle ginocchia per attutire l’impatto, mentre una rosa di scintille luminose si levava dal punto in cui le due lame erano venute a contatto.

   «Lind!»

Sephyr cercò di correre verso i due contendenti, ma fu fermata da Boid, che la trattenne per un braccio.

   «Lasciami!»

«Non preoccuparti, non è ancora in pericolo. Voglio vedere come se la cava.»

   Lind, ancora piegato sotto lo sforzo della parata, sentiva dolore alla spalla destra e l’avambraccio gli tremava.

“Leggermente più forte e mi avrebbe spezzato il braccio…” Pensò.

   Cogliendo la frase di Boid, si girò verso i due compagni.

«Se mi darete una mano, vi prometto che non mi offenderò. Così, tanto perché lo sappiate…Questo coso qui ha una forza mostruosa!»

   Stava ancora finendo la frase, quando la lama della sua spada cominciò a brillare e a emettere la nebbia bianca.

«Oh merda…ci risiamo! »

   «Non dovresti imprecare di fronte a una signora, non è da gentiluomini! »

Boid lo redarguì.

   «Non preoccuparti, ci sono abituata…»

Commentò Sephyr senza cambiare la sua espressione preoccupata.

   «Non perdere la calma, cerca di concentrarti! Non devi permettere al simbiote di prendere il controllo! Ha capito che siete in pericolo e si sta attivando, cerca di fare in modo che la sua energia non sovrasti la tua, falla scorrere all’interno del corpo e usala a tuo vantaggio.»

   Nicodhem aveva fatto due passi indietro, come sorpreso dall’evento.

“Almeno hai un minimo d’intelligenza allora….ti sei ricordato di cosa è successo poco fa, vero?” pensò Lind rialzandosi.    Ascoltò le parole dello stregone e rifletté un secondo con espressione concentrata. Poi si voltò verso di lui.

«Non ho capito niente! Cos’è che devo fare…?»

   Boid e Sephyr assunsero un’espressione affranta. Nel frattempo, l’energia della spada cominciava a fluire attraverso il braccio, la nebbia bianca aveva cominciato ad avvolgerlo. Cominciò a sentire la “presenza” e la sua sete di distruzione.

   “Eccoti di nuovo…questa volta però non ho intenzione di lasciarti fare! Ma come…?”

Improvvisamente gli venne un’idea. Chiuse gli occhi e si concentrò, inspirò profondamente e trattenne il fiato. La nebbia luminosa lo aveva avvolto completamente. Un sorriso si dipinse sul volto di Boid.

   «Bravo, ragazzo…»

Riaprì improvvisamente gli occhi. Le pupille si erano nuovamente tramutate in quelle di un felino, sottili e luminose. Un ghigno si disegnò sulla sua bocca, mostrando una zanna appuntita. La pelle, però, non presentava le solite squame. Sephyr ebbe un sussulto.

   «No…non di nuovo…»

«Tranquilla, questa volta è ancora lui. Ci è riuscito!»

   La ragazza si voltò verso lo stregone, cercando la conferma di quanto aveva appena detto nel suo sguardo. Vedendo la sicurezza nel volto di Boid, si voltò nuovamente verso i due spadaccini, con il cuore più leggero.

   «Fatti sotto, avanzo di fossa! Vediamo cosa sai fare…»

Sentiva un’energia enorme ribollirgli nelle vene e, soprattutto, era pienamente padrone dei suoi movimenti. La sensazione era inebriante, ed era ansioso di mettere alla prova le sue nuove abilità. Nicodhem sembrò cambiare leggermente espressione. Da impassibile divenne leggermente divertita. Dal suo corpo cominciò a fuoriuscire una leggera nebbia nera, simile a fumo, che lentamente lo avvolse completamente. Lind percepì una grande energia.

   “E ti pareva…” Pensò, smettendo di sogghignare.

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Capitolo 33
*** L'anima del Cavaliere ***


33. L’anima del cavaliere

 

Nicodhem alzò improvvisamente la spada verso l’alto e il fumo nero che lo avvolgeva si divise in lingue sottili che si diressero veloci, turbinando nell’aria, in un angolo buio del salone. Lind rimase immobile, mentre Sephyr osservava preoccupata la scena. Boid impugnò la lancia facendo un passo in avanti.

   «Stai all’erta, ragazzo!»

Dall’angolo buio incominciarono a provenire rumori di ferraglia, mentre delle figure indistinte sembravano alzarsi da terra.

   “E adesso, che succede?” pensò Lind stringendo più forte la spada, mentre una decina di corpi traballanti cominciarono ad avvicinarsi, entrando nel cono di luce generato dal rogo del trono. Altri non morti, cavalieri vestiti con abiti militari decorati con le insegne della città, indossavano cotte di maglia, elmi e impugnavano spade e lance finemente decorate. Tutti presentavano ferite simili a quelle di Nicodhem, profondi squarci provocati da artigli. Si disposero alle spalle del comandante, in perfetta fila e si arrestarono, posando i loro sguardi vuoti sul ragazzo. Nicodhem abbassò la spada, puntandola nella sua direzione in segno di sfida. Il ragazzo notò che la grande forza che aveva percepito su di lui poco prima si era trasferita ai nuovi cadaveri.

   «Undici contro uno? Non mi sembra molto equo…ma se siete pietosi come i vostri amici non mi fate paura.»

   I due cavalieri ai lati della fila scattarono verso di lui impugnando le spade, la velocità con cui si muovevano smentì subito l’ipotesi appena formulata. Questa volta però, non si fece cogliere alla sprovvista e decise in una frazione di secondo su quale dei due concentrarsi per primo. Quello a destra si era mosso leggermente in anticipo sull’altro, per cui mosse un passo verso di lui abbassandosi per schivare l’affondo. Fendente circolare dal basso verso l’alto, la spada disegnava scie luminose nell’aria buia. Il non morto fu scagliato indietro dalla potenza del colpo, avvampando con fiamme azzurre. L’altro gli era già addosso. Affondo frontale. La lama attraversò la cotta di maglia come fosse burro all’altezza dello sterno, il corpo del cavaliere fu scosso da uno spasmo. Non appena estrasse la spada, anche questo fu ridotto in cenere dalle fiamme. Senza attendere un secondo, puntò il palmo della sinistra su uno dei cavalieri rimasti nella fila. Istantaneamente questo si trasformò in una palla di fuoco, coinvolgendo quello al suo fianco. I restanti si allontanarono dai due compagni in fiamme per non essere coinvolti. Nicodhem cambiò di nuovo espressione, ora sembrava arrabbiato. Il ragazzo, con ancora la mano sinistra puntata nella loro direzione, gli lanciò un’occhiata spavalda. I sei cavalieri rimasti si mossero contemporaneamente all’attacco. Lind impugnò nuovamente la spada a due mani e la lama fu avvolta dalla nebbia azzurra, aveva deciso di terminare in un colpo solo la faccenda. Fendente obliquo dall’alto in basso. La lama di luce investì i cavalieri facendoli a pezzi e accendendoli come legna secca sul fuoco. Nicodhem si riparò con la spada e incredibilmente riuscì a spezzare l’energia del colpo rimanendo illeso, anche se fu scagliato indietro di qualche metro.

   «Mmmh…mi sa che con te sarà più complicato…»

Il non morto gli lanciò un’occhiata di fuoco, per quanto gli permettessero i suoi occhi vuoti, e si lanciò verso di lui. Lind si preparò a parare il colpo. Un momento prima di affondare, Nicodhem scartò di lato, uscendo dalla zona illuminata e sparendo alla vista.

   «E’ inutile che ti nascondi, so dove sei!»

Lind percepiva distintamente la presenza del nemico che si stava portando alla sua sinistra, inoltre si accorse di vedere chiaramente nel buio, forse era una delle capacità che il simbiote gli stava donando, decise quindi di anticipare l’attacco e si lanciò a sua volta nell’ombra. Sephyr e Boid persero di vista entrambi. La ragazza aveva imbracciato nuovamente l’arco, ma dovette abbassarlo. Nonostante la sua vista quasi da elfo, non riusciva a capire dove fossero. Poi si accorse che si erano spostati nel fondo della sala e il rumore delle lame che si scontravano provocava delle scintille, rivelando la posizione dei due contendenti.

   «Maledizione! Come fanno a muoversi così velocemente?»

Disse irritata tentando di prendere la mira, appena scorgeva un bagliore, quello successivo era distante di alcuni metri.

   «Lascia perdere, faccio fatica anche io a seguirli. Mi pare che Lind sia in vantaggio, abbi fiducia in lui.»

   Anche Boid sembrava sorpreso delle capacità dei due guerrieri.

Un rumore sordo anticipò la comparsa di Lind, nuovamente alla luce. Nicodhem era riuscito a colpirlo con l’elsa della spada sul volto e il colpo lo aveva fatto volare gambe all’aria.

   «Per fortuna che si trovava in vantaggio…»

Sephyr tese la corda dell’arco, era sicura che anche l’altro si sarebbe fatto vedere. Infatti, Nicodhem comparve dall’ombra camminando lentamente verso il ragazzo, che nel frattempo si stava rialzando massaggiandosi la mandibola e imprecando. Non appena lo vide chiaramente, scoccò la freccia. Il dardo trapassò la fronte del non morto in mezzo agli occhi e il contraccolpo gli fece piegare all’indietro il collo in maniera innaturale. Rimase per un secondo con il viso rivolto quasi dietro alle spalle, ma in piedi. Lind, intanto, si era rialzato. Nicodhem riportò la testa lentamente in posizione, la freccia aveva attraversato la testa e si era fermata dopo essere uscita di qualche centimetro dalla nuca. Spostò lo sguardo sulla ragazza e si scagliò verso di lei.

   «Ma porc…»

Lind riuscì ad anticiparlo dandogli una spallata che lo fece rotolare pesantemente a terra, dopodiché si rivolse bruscamente alla ragazza.

   «Stai lontana! Le tue frecce non servono a niente! Faccio già fatica a tenergli testa, se devo anche pensare a proteggere te non ne usciamo più, stupida! »

   «Come mi hai chiamata? Io volevo solo aiutarti, brutto imbecille!»

Boid la prese per un braccio e la trascinò indietro di qualche metro. Nicodhem si rialzò puntellandosi con la spada, nella caduta la freccia si era spezzata e ora usciva solo la punta dalla nuca. Il ragazzo aveva già riportato lo sguardo su di lui.

   «Va bene, allora proviamo qualcosa di diverso, questo dovrebbe ricordarti qualcosa, sempre che tu abbia ancora qualche ricordo in quella testa in decomposizione!»

   Infilò la spada nel fodero dietro alla schiena, allargò braccia e gambe raddrizzando la schiena. Dopo aver inspirato profondamente, le sue mani cominciarono a brillare di una luce fredda e a emanare un vapore denso, come fa un pezzo di ghiaccio in un ambiente caldo. Sephyr riconobbe la posa ed ebbe un sussulto. Nicodhem non sembrava sorpreso e si scagliò verso l’avversario, incurante del pericolo, brandendo la spada per un affondo frontale ed emettendo una sorta di ringhio roco. Il ragazzo puntò il palmo sinistro e la gamba destra del comandante si trasformò in ghiaccio spandendo scintille trasparenti nell’aria e bloccandogli immediatamente i movimenti, inchiodandolo al pavimento. Palmo destro. L’unico braccio e la spada divennero un tutt’uno surgelato. L’espressione ora era d’incredulità. Boid sorrise, soddisfatto. Forse, il suo lavoro sarebbe stato più facile del previsto, il ragazzo aveva delle capacità inaspettate. Lind sfilò lentamente la spada dal fodero e si avvicinò all’avversario, oramai del tutto inoffensivo, mentre questi cercava inutilmente di liberarsi con movimenti bruschi. Giuntogli di fronte, assestò un calcio alla gamba congelata che si spezzò all’altezza del ginocchio facendolo cadere pesantemente al suolo. Nella caduta, il braccio si frantumò in mille pezzi sbattendo contro il pavimento. Sephyr rimase colpita dalla crudeltà del gesto.

   «Perché l’hai fatto? Non poteva più difendersi! »

Il ragazzo si girò verso di lei, le pupille da gatto erano luminose e il sorriso che aveva stampato sulla faccia era di cupa soddisfazione. Rivide la creatura spietata nella quale si era trasformato poco prima, il Rakhoon.

   «Lind… »

Il fiato le si spezzò in gola e si girò di colpo, preoccupata, verso Boid.

   «Cosa succede? Non avevi detto che era riuscito a controllarlo?!»

Lo stregone le rispose senza smettere di sorridere.

   «Stai tranquilla, è già tornato in sé, ma forse è meglio se gli dai una mano adesso.»

   Sephyr riportò lo sguardo su Lind, che ora si stava tenendo la fronte con la mano sinistra e sembrava sofferente. La ragazza capì al volo le parole dello stregone, si avvicinò e lo prese per mano. Immediatamente il volto del ragazzo tornò normale.  

   «Grazie…Accidenti se è difficile tenere a bada questa cosa…basta un secondo per perdere il controllo…deve essere successo quando ho usato le energie per l’incantesimo di ghiaccio..»

    La ragazza gli sorrise dolcemente e lo abbracciò, appoggiandogli la guancia sul petto.

   «Sei stato bravo…»

Lui le cinse le spalle con un braccio e rivolse lo sguardo a terra.

   «Mi dispiace, anche se è un mostro, non volevo ridurlo così…è stato un degno avversario.»

Il corpo mutilato si muoveva senza logica, gli occhi vuoti fissavano il soffitto e la bocca si apriva e chiudeva emettendo grugniti. Boid si avvicinò e alzò la lancia puntandogli la lama sulla fronte, la lama cominciò a brillare avvolta dalla nebbia azzurra.

   «E’ ora di porre fine all’esistenza di costui.»

«FERMO!»

   Si girarono tutti e tre contemporaneamente nella direzione della voce. Si erano dimenticati del ferito, che ora si era alzato in piedi a fatica e si stava avvicinando tenendosi lo stomaco con le mani. Era tremendamente pallido.

   «E’ meglio se te ne stai tranquillo, ragazzo. Hai una gran brutta ferita, ma se avrai pazienza, ci prenderemo cura di te.»

   Boid aveva parlato con tono neutro, come se non fosse del tutto convinto di quello che stava dicendo.

   «Non serve che reciti con me, stregone, lo so che ho i minuti contati, sono un Dieber, so riconoscere una ferita mortale. Abbassa la tua arma, per favore, non posso permettere che il Comandante Nicodhem perisca in modo tanto disonorevole.»

   «Questa non è più la persona che conoscevi.»

«So che è sotto il controllo di quel demone, ma l’ho servito per anni insieme a mio padre e non lo lascerò morire in questo modo».

   Lind si rivolse a Boid.

«Di cosa sta parlando? Chi è questo demone in grado di controllare i morti? Tu sai cosa sta succedendo, spiegalo anche a noi!»

   Poi, senza aspettare risposta, si rivolse al ferito.

«E tu chi sei? Ci stavi seguendo, giusto?»

   Il ragazzo lo guardò negli occhi.

«Mi dispiace, Lind. Il mio nome è Lucius. Sì, vi stavo seguendo per essere sicuro che arrivaste qui sani e salvi, il mio signore era convinto che solo tu avresti potuto fermarlo, ma non abbiamo fatto in tempo…»

   Finì la frase abbassando lo sguardo, dimostrando di sentirsi responsabile per quel fallimento. Sephyr, improvvisamente, si staccò da Lind e senza dire nulla si avvicinò, sotto lo sguardo stupito degli altri, a Nicodhem, che nel frattempo aveva smesso di agitarsi. Solo qualche lieve fremito scuoteva quel che restava del prode cavaliere di un tempo. Il ragazzo allungò un braccio per fermarla, ma Boid gli fece cenno di no, dall’espressione sembrava attendersi qualcosa. La ragazza sembrava in trance, s’inginocchiò, mise i palmi sulla fronte gelida del quasi cadavere e chiuse gli occhi. Le mani incominciarono a brillare di una luce candida e il corpo di Nicodhem fu colto da spasmi. Dopo qualche secondo, si accasciò a terra. Lind si precipitò a soccorrerla.

   «Sephyr! Ma cosa… »

Riprese immediatamente conoscenza, ma era confusa. La aiutò a rialzarsi sorreggendola.

   «Cos’è successo? Quello sembrava uno degli incantesimi di Shayra, ma quando hai imparato?»

«Non lo so…ho solo sentito che dovevo farlo, ma non chiedermi come ci sono riuscita.»

   Una voce flebile proveniente da terra attirò la loro attenzione. Nicodhem li stava guardando, ma i suoi occhi non erano più vuoti, e un malinconico sorriso gli illuminava il volto.

   «Mi ricordo di te, sei cresciuta…»

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Capitolo 34
*** Redenzione ***


34. Redenzione

«Comandante!»

Lucius s’inginocchiò a fianco del corpo martoriato riuscendo a stento a mantenersi diritto, il movimento gli procurò un capogiro e dovette puntellarsi con una mano a terra per non cadere.

   «Siete di nuovo in voi?»

Nicodhem spostò lo sguardo su di lui.

   «Lucius, ci sei riuscito quindi, hai trovato il ragazzo e l’hai portato qui, ben fatto. Tuo padre sarebbe fiero di te!»

La voce era poco più che un sussurro. Lucius chinò il capo.

   «Troppo tardi, però. Mi dispiace signore, non sono riuscito a salvarvi e a salvare la città».

«Non mortificarti, ho pagato per i miei peccati ed è giusto che sia così. Non ero più degno di essere Cavaliere da molti anni, la mia anima è marcia e ho vissuto anche troppo con quest’onta nel cuore. Anche il tempo di Caputargilis era esaurito, la sabbia che ne segnava lo scorrere era diventata nera nella clessidra dell’universo, l’avevo trasformata in una città maledetta e la lenta agonia alla quale l’ho costretta doveva finire. Per ironia del fato è stata proprio una creatura maledetta a farlo, un demone evocato a causa della mia stessa debolezza ha posto fine ai suoi giorni. Forse, avrei dovuto farlo io stesso tanti anni fa, con le mie mani, ma la amavo troppo. Era la mia città ed è giusto che me ne vada insieme a lei».

   Chiuse per un attimo gli occhi sorridendo amaramente. Aveva commesso molti e gravi errori durante la sua esistenza, ma percepire il rispetto di quel giovane nei suoi confronti gli dava la sensazione di aver fatto, forse, anche qualcosa di buono. Uno di quei molti errori era qui, davanti a lui in carne e ossa come prova vivente della sua debolezza e sentiva che doveva a lei la possibilità di rimediare, almeno in parte, a ciò che aveva fatto. Non sentiva dolore, se non quello dell’anima, ma ricordava molto bene il momento in cui il demone alato gli aveva squarciato il petto con i suoi artigli, senza dargli la possibilità di difendersi. Ricordava il buio che era seguito e poi la brutta sensazione di essere “ritornato” ma senza avere la possibilità di decidere le sue azioni. Era tutto molto confuso, ma le immagini della battaglia con il giovane stregone erano impresse nella sua testa. Ricordava la tremenda sensazione che provava nel vedere il suo corpo muoversi senza “sentirlo”. Aveva cercato di fermarsi, ma non poteva fare nulla, le sue azioni erano governate da un’oscura entità che aveva preso il sopravvento sulla sua volontà. Alla fine, fortunatamente, il ragazzo era riuscito a immobilizzarlo. Poi una sensazione di calore lo aveva strappato a quello stato di semi incoscienza, una luce bianca era esplosa nella sua testa, aveva sentito scomparire l’entità maligna e ora era lì, ma sentiva che era solo una piccola parentesi, prima di poter finalmente essere libero, nel sonno della morte. Riaprì gli occhi e tornò a guardare la ragazza, vide che lo stava fissando con occhi allo stesso tempo spaventati e risoluti. Stava stringendo il braccio del giovane stregone, mentre lui la sorreggeva. 

   Tentò di sorriderle.

   «Tu sei la bimba che Balham salvò quindici anni fa a Pineswood, giusto?»

La ragazza strinse più forte il braccio di Lind, che soffocò un lamento di dolore, poi prese un grosso respiro per farsi forza e si raddrizzò, tentando di assumere un atteggiamento fiero.

   «Il mio nome è Sephyr, figlia di Corghyan di Southill e Deliah di Aglarfuin. Non mi fai paura, Nicodhem di Caputargilis, e non tremerò mai più di fronte a te».

   Nicodhem si fece serio e la fissò negli occhi, gli stessi che avevano tormentato la sua coscienza per anni.

«Ti chiedo perdono, Sephyr. So di aver commesso un’enorme ingiustizia nei tuoi confronti. A quel tempo i miei occhi erano ciechi e vedevano solo la necessità di far sopravvivere la mia città, a costo di compiere razzie in pacifici villaggi come il tuo. Mi sono macchiato d’indicibili nefandezze nel nome di Caputargilis e mi sono reso conto troppo tardi dei miei errori. Ho infangato il nome dei Cavalieri. Sono felice di averti incontrato prima della fine, non merito la tua misericordia, ho fatto del male a te e a tuo padre, ma ti ringrazio per avermi dato la possibilità di dimostrarti il mio dolore. E sono felice anche che proprio tu sia una delle persone che hanno il potere di rimediare ai miei errori, non avrei potuto chiedere di meglio al destino. Ti ringrazio».

   Sephyr lo ascoltò fino alla fine senza distogliere gli occhi dai suoi. Aveva nuovamente di fronte quell’uomo fiero e impavido che ricordava, la nobiltà e la sincerità delle sue parole la commossero. Aveva provato odio nei suoi confronti per anni ma ora si rendeva conto che era solo un uomo che aveva commesso degli errori per difendere ciò che amava. Errori che gli erano costati molto. Sentì una lacrima rigarle la guancia, ma cercò di mantenere il controllo. Riuscì solo a fare un cenno con la testa, per fargli capire che aveva compreso e che sarebbe riuscita a perdonarlo. Nicodhem le sorrise, poi si rivolse a Lind.

   «Giovane Stregone, non ero padrone delle mie azioni durante lo scontro, il mio corpo era dominato da una forza oscura. Fortunatamente ti sei rivelato più forte di essa. Fai attenzione però, mio giovane amico, per un momento ho sentito che il tuo spirito era avvolto da qualcosa che mi ho sentito vicino al demone. Cerca di dominare questo lato oscuro, so che ne sarai in grado, e nessun nemico potrà sopraffarti, neanche il più terribile. Purtroppo, a causa mia, dovrai affrontare proprio il più terribile dei nemici. Se mai potrai, ti chiedo di perdonarmi per questo».

   Lind chinò il capo e si mise la mano destra sul petto in segno di ringraziamento e rispetto, anche se quelle parole lo avevano turbato. Di che terribile nemico parlava? Nicodhem, infine, si rivolse a Lucius.

   «Lucius, ti affido questi giovani. Da questo momento sei l’ultimo cavaliere di Caputargilis, in memoria di tuo padre. Mi perdonerai se non posso celebrare la tua investitura in modo consono, ma ora ripeti insieme con me il giuramento».

   Evidentemente non si rendeva conto che, anche per Lucius, il tempo stava per terminare e il giovane non ebbe la forza per dirglielo. Per qualche ragione, i suoi ricordi incominciavano con l’arrivo degli stregoni e di Sephyr nella sala, prima di quell’istante era solo il buio. Recitarono il giuramento dei cavalieri, nel silenzio dei presenti.

   «Io sarò il campione del diritto e del bene, contro l’ingiustizia e il male».

Nicodhem recitò il verso con l’ultimo respiro, dopodiché chiuse gli occhi per sempre. Lucius ripeté le sue parole e chinò il capo.

   «Addio, comandante. Purtroppo non potrò assolvere il compito che mi avete affidato, ma se potrò, vi servirò per sempre nella terra degli avi».

   Dopodiché si accasciò a terra. Sephyr scoppiò in lacrime. Lind era rimasto in silenzio, ma appena vide Lucius cadere si precipitò verso di lui stendendolo a terra con il volto verso l’alto.

   «Eh no maledizione, non puoi morire così, hai appena promesso di aiutarci. Sephyr, vieni voglio provare una cosa».

La ragazza lo guardò tra le lacrime e si chino di fronte a lui senza protestare. Si asciugò gli occhi con la manica della camicia.

   «Che intenzioni hai?»

«Metti la mano sulla sua ferita e cerca di concentrarti, prendi un profondo respiro e immagina che stia guarendo, io cerco di aiutarti».

   «Che cosa? Ma io non…»

«Non discutere per favore, non abbiamo tempo».

   Le prese la mano destra e la appoggiò sopra alla ferita, tenendo sopra la sua. Boid seguiva la cosa con interesse.

«Va bene, ora cerca di rilassarti e inspira profondamente».

   Lind ritornò al giorno in cui Shayra aveva fatto lo stesso con lui e cercò di trasmettere a Sephyr la stessa fiducia che le aveva trasmesso la donna in quel momento. La ragazza sembrava confusa, ma seguì le sue indicazioni. Chiuse gli occhi e cercò di calmarsi, dopo qualche istante inspirò.

   «Bravissima, ora cerca di focalizzare mentalmente la ferita e immagina che si rimargini, sempre senza espirare».

Lind inspirò a sua volta e si concentrò. Dopo qualche istante, la sua mano cominciò a brillare e a emettere il vapore luminescente dell’incantesimo, subito dopo, anche la mano di Sephyr cominciò a brillare dapprima debolmente, poi con più intensità. A quel punto il ragazzo staccò la sua mano. L’incantesimo si fece sempre più intenso, il bagliore illuminava la sala quasi interamente. Lind sorrise, soddisfatto, mentre la ragazza continuava a tenere chiusi gli occhi, i suoi capelli sembravano mossi da una leggera brezza, seguendo gli sbuffi del vapore azzurro. Dopo qualche secondo, l’intensità della luce diminuì, fino a spegnersi del tutto. Sephyr riaprì gli occhi e guardò Lind con sguardo confuso.

   «Ma come...»

«Non lo so ancora, ma è da quando ti conosco che vedo in te qualcosa di Shayra, ora capisco il perché. Guarda la sua ferita.»

   La ragazza tolse la mano dal ventre di Lucius, a essere bucata ora era solo la maglia nera del ragazzo, la pelle si era riformata e si vedeva a fatica solo una piccola cicatrice. Boid le mise una mano sulla spalla.

   «Molto bene, ragazza mia. Non credevo saresti riuscita a esprimere così in fretta il tuo potenziale».

Lanciò un’occhiata di approvazione a Lind.

  «Bravo Lind, non avrei potuto fare di meglio».

Il volto del ferito, nel frattempo, stava rapidamente riprendendo colore. La luce della luna riusciva a filtrare attraverso la cappa di fumo che ricopriva la città, nel suo cammino nel cielo si era portata ora davanti al palazzo e un fioco bagliore incominciò a illuminare la sala attraverso la vetrata in frantumi. Lind ebbe la netta impressione che un’ombra attraversasse il cielo. Un brivido gelido gli scese lungo la schiena.

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Capitolo 35
*** Risvegli e incubi ***


35. Risvegli e incubi

   Lucius si risvegliò di soprassalto. Era confuso e frastornato, si mise a sedere e si guardò intorno, era in una stanza del castello disteso su di un letto ed era notte fonda. Cos’era successo? Poco alla volta i ricordi si fecero largo nella sua memoria. Ricordava di aver pronunciato il giuramento dei Cavalieri poco prima di veder spirare il comandante Nicodhem, poi era caduto allo stremo delle forze e si era convinto di essere sul punto di morire. 

   Evidentemente non era così. 

Si tastò il ventre ed ebbe un sussulto: la ferita era scomparsa. Probabilmente uno degli stregoni lo aveva curato, anche se pensava che non ne fossero in grado. Non sapeva come doveva sentirsi, felice per essere ancora vivo? Aveva perso tutto, suo padre era morto insieme all’unica altra persona alla quale avrebbe dedicato la vita, il Comandate. Cosa gli rimaneva? Probabilmente non sarebbe neanche potuto tornare dai suoi compagni Dieber, aveva fatto la sua scelta restando al fianco di Nicodhem, quindi era equivalente a una diserzione. Forse, sarebbe stato meglio se fosse morto anche lui. Cercò di mettersi a sedere ma la testa gli girava. Una voce alla sua destra lo fece sobbalzare.

   «Vacci piano, ragazzo. Ti ricordo che hai perso moltissimo sangue».

Un imponente uomo inarmatura grigia era seduto su una sedia, nella penombra a poca distanza dal letto. Appoggiata di traverso sul suo petto, una lunga lancia brillava nella semioscurità. Poi ricordò, era lo stregone che accompagnava i due ragazzi.

   «Pensavo di essere morto, ti ringrazio. Qual è il tuo nome?»

Disse con tono poco convincente.

   «Mi chiamo Boid, ma non è me che devi ringraziare, io non sono in grado di curare le persone, come tutti gli stregoni del resto. Sei ancora vivo grazie alla ragazza».

   Lucius si passò le mani sul volto, per cercare di scuotersi dal torpore e per combattere i giramenti di testa.

«Sephyr? Non mi avevano detto che era una curatrice, sapevo che era una mezzosangue, per cui non credevo potesse avere il dono delle sacerdotesse di Aglarfuin, nonostante fosse la figlia di Deliah».

   «Non è una curatrice, ma molto di più».

«Cosa significa?»

   «Per il momento non è importante, spiegherò tutto anche a te. Ora sei l’ultimo Cavaliere di Caputargilis e hai giurato di servire e proteggere quei due giovani, quindi ne hai il diritto. Ora però riposati e recupera le forze, ne avrai bisogno. Su quel comodino c’è del cibo, se vuoi. Partiremo all’alba».

   Detto questo, si alzò e si avviò verso la porta. Poco prima di uscire, si fermò e si rivolse di nuovo al giovane.

«Ora hai di nuovo un compito da assolvere. Non desiderare la morte prima del tempo, la tua ora non è ancora giunta».

   Lucius lo guardò chiudersi la porta alle spalle e dopo disse tra se e se, sorridendo amaramente.

«Sono l’ultimo cavaliere di Caputargilis…mio padre ne sarebbe felice…»

   Sentì lo stomaco lamentarsi, aveva dimenticato da quanto tempo non mangiava, per cui azzannò con gusto la carne secca e il pane che lo stregone gli aveva lasciato, dopodiché si scolò quasi tutta la caraffa d’acqua. Dopo essersi nuovamente disteso, cadde in un sonno profondo senza sogni.

   Lind non riusciva a dormire, nonostante fosse esausto. La battaglia lo aveva svuotato di ogni energia e gli era stato difficile persino togliersi gli stivali e stendersi sul letto. Sephyr, invece, si era addormentata di colpo appena aveva messo la testa sul cuscino. Boid aveva portato Lucius in un’altra stanza e loro due si erano sistemati in quella per riposare, dopo che la situazione si era “tranquillizzata” ed erano sicuri di non aver altra compagnia indesiderata nel castello. Avrebbero voluto dare subito degna sepoltura a Nicodhem, ma la stanchezza e il buio avevano fatto loro optare per rimandare la cosa al mattino seguente, nel frattempo avevano composto il corpo del comandante sul grande tavolo della sala del trono, coprendolo con uno dei vessilli che la ornavano. Sephyr non aveva più proferito parola da quando aveva guarito Lucius, evidentemente scossa dagli ultimi avvenimenti. Come darle torto, d’altra parte, rischiare di essere uccisi da un’orda di morti viventi, vedere una persona a te cara tramutarsi in un qualche mostro, veder morire la persona che ha segnato la tua esistenza dopo che era stata trasformata a sua volta in un morto vivente e, dulcis in fundo, scoprire di essere in grado di compiere incantesimi, non erano emozioni così semplici da smaltire prese singolarmente, figurarsi se messe tutte insieme nell’arco di una giornata. Lind l’aveva presa per mano e lei si era fatta guidare docilmente fino alla camera, dopodiché si era stesa ed era piombata nel sonno. Ora il ragazzo la osservava dormire, disteso di fronte a lei. Una miriade di pensieri gli giravano per la testa, c’erano troppe cose oscure e misteriose che incombevano su di loro e non vedeva l’ora di poter interrogare Boid su molte di queste, ma guardare il suo viso addormentato e sentire il suo respiro caldo sulla pelle gli donava tranquillità. Avrebbe voluto essere con lei a centinaia di chilometri da li, solo loro due. In un posto dove non ci fossero stregoni, simbioti, sigilli e misteriosi demoni, avrebbe aspettato che si svegliasse, l’avrebbe baciata e avrebbero fatto l’amore fino a stancarsi, poi si sarebbero alzati, lui le avrebbe preparato il caffè e avrebbero deciso insieme su come trascorrere la giornata, così, senza preoccuparsi di nulla. Per la prima volta nella sua vita, odiava il suo destino. Odiava il “dono” di essere uno stregone. Fino a quel momento ne era stato orgoglioso, sapere di essere in qualche modo superiore alle altre persone lo faceva stare bene. Forse per un senso di rivalsa verso quelli che lo trattavano come un "diverso" o forse per semplice superbia. D'altronde, chi non sarebbe felice di avere un grande potere? Ora, però, quel potere lo aveva portato a rischiare la vita di una persona che amava. Forse, se fosse stato un ragazzo come tutti gli altri non si sarebbero mai incontrati, questo era vero, però almeno lei sarebbe rimasta nel suo villaggio, al sicuro. Shayra gli aveva detto una volta che amare significa prima di tutto mettere il bene dell'altro davanti al proprio, forse era questo che intendeva e in questo momento se ne rese conto definitivamente. Amava quella ragazza, come non avrebbe potuto amare nessun'altra. Una ciocca di capelli le cadde di traverso su una guancia, con la mano lui la spostò lentamente, accarezzandole la pelle con il dorso delle dita. Nel sonno, lei sorrise dolcemente a quel contatto. Dopo qualche istante, però, corrugò la fronte e piegò le labbra in un’espressione spaventata, un incubo? Cominciò ad agitarsi e a sussurrare parole dapprima senza significato, poi disse con tono chiaro “Lind…no!”. Stava sognando il Rakhoon. Le passò il braccio sulle spalle e la strinse a se. Inconsciamente, lei gli afferrò un lembo della camicia e la strinse nel pugno, affondandogli il viso sotto il mento. Il suo respiro tornò regolare e si calmò. La baciò sulla fronte e le sussurrò piano, per non svegliarla “Scusami…mi dispiace”, dopodiché cadde anche lui in un sonno profondo.


   Boid, dopo aver lasciato Lucius, era uscito e si era diretto verso la zona posteriore del castello. Lo spettacolo che si trovò di fronte era terribile. Aumentò l’intensità dell’incantesimo luminoso per vedere meglio, la notte era oramai inoltrata e la luna, coperta da una delle torri, non illuminava quella zona. Di quello che doveva essere stata una antica cappella non rimaneva che un ammasso di pietre, sparse nell’arco di alcuni metri, in mezzo alle quali si vedeva una voragine che un tempo doveva contenere le scale per scendere nei sotterranei. Lo spiazzo che si trovava di fronte alla costruzione sembrava devastato da un terremoto di proporzioni epiche, le rocce erano divelte dal terreno e da sotto di esse spuntavano arti umani, la terra era scura e intrisa del sangue delle vittime.

   «Che potenza spaventosa…»

Disse tra se e se, provando un brivido al pensiero dello spettacolo tremendo al quale avevano dovuto assistere quei poveri soldati, prima di essere schiacciati sotto il peso di quelle pietre. Avanzò lentamente in quello scenario desolante, dirigendosi verso la voragine. Giunto sul bordo constatò che oramai era impossibile scendere, le scale erano distrutte. Pensò che, tanto, quello che vi era custodito non c’era più e quindi, anche se ce ne fosse stata la possibilità, sarebbe stato inutile scendere. Quello che gli interessava ora era ben altro. Si guardò intorno per un po’, smuovendo la polvere con i piedi, finché a un certo punto scorse un luccichio e un sorriso si disegnò sul suo volto.

   « Eccoti qui! »

Si chinò e raccolse quello che stava cercando, lo rimirò per qualche istante alla luce per essere sicuro di non sbagliarsi, poi lo mise in una piccola bisaccia che aveva appeso alla cintura e si riavviò verso il castello.


   La signora Vinn non poteva credere ai suoi occhi. Era sparita. La statua del sindaco senza nome, così l'avevano battezzata gli abitanti di Pineswood, era scomparsa nel nulla, rimaneva solo il piedistallo in pietra. Chi poteva aver fatto una cosa simile? E perchè poi...l'ultima "versione" della statua era anche, a detta sua, discretamente pacchiana...o forse era solo colpa di chi rappresentava...comunque, cosa se ne poteva fare qualcuno di quella tonnellata di vecchio metallo a forma di sindaco? Non riusciva a spiegarselo.

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Capitolo 36
*** Ombre ***


36. Ombre


Deliah aveva ascoltato il racconto in silenzio, Corgh le aveva riferito le parole dal maestro Anilion e raccontato gli avvenimenti di Pineswood, arricchendo il tutto con considerazioni personali sul giovane stregone e sul rapporto tra lui e Sephyr. Sull’ultimo punto aveva fatto ovviamente fatica ad ammettere la simpatia che la figlia provava per quel ragazzo, anche se era evidente. La donna aveva sottolineato le sue parole con un sorriso.

   « Non vedo l’ora di conoscere questo giovane stregone! Deve essere un ragazzo veramente speciale. »

   Corgh l’aveva guardata storto.

« Devo ammettere che non è niente male, ma ricordiamoci che è un Rakhoon. Sai bene di cosa sono capaci quando sono senza controllo. »

   Deliah non mutò espressione a quelle parole.

« Lo so, ma se Sephyr è veramente il suo Sigillo non corre alcun pericolo, giusto? E difficilmente il maestro Anilion si sbaglia, per cui puoi stare tranquillo. La cosa che mi preoccupa, invece, è il risveglio della Sulun Hyanda, quell’arma doveva essere custodita in un luogo più sicuro, abbiamo commesso un grande errore ad affidarla a Caputargilis. Quando la città è caduta in disgrazia, speravamo che fosse stata dimenticata, solo la stirpe reale doveva conoscere dov’era custodita. Mai avremmo pensato che uno degli Angwi ci tradisse per sete di potere. »

   « Lachert è uno stolto! Cosa pensa di fare? Dovrebbe saperlo molto bene che risvegliare quell’arma è come condannare la maggior parte dei popoli liberi! »

   A parlare fu Re Eromas, spalancando le porte della stanza, visibilmente agitato. Corgh e Deliah si girarono nella sua direzione, sorpresi. L’oste si affrettò a inchinarsi di fronte al signore della città, lanciando un’occhiata a Jofiah per esortarlo a fare altrettanto. Deliah si limitò a salutarlo con un cenno del capo. Eromas era di corporatura massiccia, fisicamente dimostrava molti meno dei suoi novant’anni, che non erano pochi neanche per un elfo, la cui longevità si attestava sui centocinquanta o centosessanta anni. I lunghi capelli neri e lisci gli cadevano sulle spalle e i profondi occhi blu esprimevano una grande forza d’animo. Era vestito con abiti informali, camicia verde, un paio di pantaloni marroni e degli stivali da cavallo. Si avvicinò ai due coniugi ritrovati a grandi falcate, accennando un saluto a Jofiah.

   « Piantala Corghyan, alzati. Saranno passati anche vent’anni, ma l’ultima volta ti avevo detto che non devi inchinarti davanti a me e lo ripeto ora. Sono felice di rivederti, ma speravo che il giorno in cui ci fossimo rivisti tu portassi novità migliori. Ora spiega tutto anche a me. »

   Deliah gli lanciò un’occhiata di bonario rimprovero.

« Che c’è, fratello? Non si saluta più? »

   Eromas ricambiò lo sguardo e bofonchiò una qualche scusa, poi prese Corgh per un braccio e lo trascinò verso un tavolo con delle sedie, dopo averlo fatto sedere si sistemò di fronte a lui e attese che cominciasse a parlare. L’oste non fece resistenza, Eromas era forse l’unica persona sulla faccia della terra davanti alla quale non poteva fare a meno di provare rispetto e soggezione. Non perché fosse il Re degli elfi neri, né tantomeno perché era suo cognato, ma perché trovava in lui molti lati del suo carattere e soprattutto perché era dotato di una purezza d’animo cristallina, unita a un’aura di autorità che mai aveva visto su una sola persona. Era stato il primo sostenitore del suo rapporto con la sorella, nonostante lui non fosse di stirpe reale oltre che a non essere un elfo. All’epoca fu uno scandalo, Re Eromas che dava la benedizione al matrimonio tra sua sorella, destinata a essere la Sacerdotessa della Luce al posto della madre, con un semplice miliziano di Southill, fece scalpore. Molti dei nobili cercarono di opporsi, ma non ci fu verso, il Re aveva deciso. In realtà, se fosse stato veramente solo un semplice miliziano, anche lui avrebbe avuto qualche remora, ma dopo aver scoperto che nelle sue vene scorreva il sangue degli Angwi, gli antichi Dragoni protettori del popolo elfico, i suoi dubbi erano spariti. Più che altro aveva trovato nella cosa la scusa, più che buona, per fare in modo che sua sorella fosse felice. Quando diventò di dominio pubblico, anche i nobili si arresero e accettarono l’unione. Qualcuno continuò ad avere delle rimostranze, in quanto era sì discendente degli Angwi, ma non per linea diretta, per cui secondo loro non possedeva tutte le caratteristiche per essere un degno appartenente alla nobiltà di Aglarfuin. Re Eromas aveva zittito queste voci imponendo la propria autorità e la sorella le fu molto grato per questo.

   « Allora, Corghyan, vuoi spiegarmi cosa sta succedendo? Cosa ti ha riferito Anilion? E dov’è ora? »

   Le parole del Re lo distolsero dai sui pensieri. Si fece serio e lo guardò negli occhi, iniziando a parlare.

 

Alomas stava guardando distrattamente fuori dalla finestra di una delle torri. A un certo punto, la sua attenzione cadde su una strana ombra che sembrava muoversi furtiva all’esterno delle mura. Nonostante la sua vista acuta, però, non riuscì a distinguere cosa fosse. “Strano.” Pensò. “Troppo veloce per essere un orso e troppo grossa per essere una volpe.” Decise di scendere a controllare. Si voltò per imboccare le scale, ma si trovò davanti Elohen con una strana espressione sul volto.

   « Sorella, cosa ti cruccia? »

La ragazza sembrava preoccupata.

   « Ho origliato la conversazione tra Deliah e Corghyan… »

Alomas assunse un’espressione severa.

   « Perché lo hai fatto? »

La ragazza arrossì leggermente abbassando lo sguardo.

   « Ero felice per lei ed ero curiosa di conoscere se l’incontro con il marito fosse all’altezza delle sue aspettative. »

   Alomas intenerì lo sguardo.

« Romantica come sempre…devo però dedurre che qualcosa ti ha turbato, vero? »

   Elohen rialzò gli occhi e lo fissò seria.

« Pare che la Sulun Hyanda sia stata risvegliata da un Angwi malvagio che la voleva usare per i suoi scopi inoltre sembra che nostra cugina Sephyr si sia rivelata essere il Sigillo di un giovane Rakhoon che in questo momento è alla ricerca del suo maestro che altri non è che il Rakhoon possessore della Sulun Hyanda e pare inoltre che la volontà di questo stregone sia stata annullata da un incantesimo dell’Angwi e che quindi ora il Rakhoon sia senza controllo… »

   Aveva pronunciato tutto senza prendere fiato, Alomas non perse la sua proverbiale flemma e le mise gentilmente una mano sulla bocca per farle riprendere il colorito normale, poiché stava diventando viola.

   « Riprendi fiato, mi sembra di aver intuito che la cosa sia seria, ma mi perdonerai se ti devo chiedere di attendere qualche minuto, devo scendere a controllare un cosa. Aspettami qui.»

   Elohen tentò di protestare, ma il fratello era già per le scale. Sempre così, a volte le faceva venire rabbia, come riusciva a essere sempre così tranquillo? Sospirò e si sedette sulla sedia di fronte alla finestra.

   « Buonasera signori, tutto tranquillo qui? Avete notato qualcosa di strano? »  

Chiese Alomas alle due guardie in armatura che sorvegliavano il cancello della città. I due soldati furono sorpresi di vederlo.

   « Principe Alomas! Cosa ci fa qui? Tutto tranquillo, come sempre, non si preoccupi. »

   « Nessun movimento sospetto fuori dalle mura? »

Le guardie cominciarono a farsi serie.

   « Non abbiamo visto nulla, dobbiamo controllare il perimetro? »

« Forse è meglio, ho intravisto un’ombra sospetta sul lato est, forse non è nulla, ma mandate due dei vostri a controllare, per favore. »

   « Immediatamente, principe. »

Dopodiché, Alomas si incamminò per tornare al palazzo reale. Era notte fonda e le strade erano deserte. La via principale che portava al palazzo, attraversando tutta la città, era lastricata con le stesse pietre bianche con cui erano costruiti gli edifici e quindi risplendeva alla luce della luna. Di notte si aveva la sensazione di camminare su un ponte luminoso, sospeso nell’oscurità. Amava molto percorrere da solo quella via, era una cosa che gli donava tranquillità. Quella notte, però, la brutta sensazione che l’aveva colto nel momento in cui aveva visto quell’ombra non voleva andarsene. Inoltre, aveva capito che c’era qualcosa di grosso nell’aria quando gli era stato ordinato di andare a salvare Corgh dalle grinfie del capitano Sheryan ma non pensava che centrassero addirittura i Rakhoon, quindi capiva perchè Elohen fosse così agitata, tutti gli elfi conoscevano molto bene le storie che si raccontavano su quegli esseri dai poteri terribili. Immerso nei suoi pensieri, era quasi arrivato al maestoso portone d’ingresso del palazzo, quando percepì un movimento alla sua sinistra. Voltò la testa di scatto e vide un movimento tra gli alberi della boscaglia che costeggiava l'ala est. Senza indugiare, si diresse in quella direzione sfoderando il suo lungo coltello dalla cintura e mimetizzandosi nell’ombra come solo un elfo nero riesce a fare. Arrivato nel punto in cui aveva visto il movimento, si guardò intorno. La luce della luna non riusciva a penetrare tra le foglie degli alberi e l’oscurità era quasi totale, non era un grosso problema per lui, ma un brivido gli corse lungo la schiena. Niente. Poi, come dal nulla, una grande mano guantata in nero gli coprì la bocca e sentì un dolore lancinante. Abbassò lo sguardo e vide la lama di un coltello che usciva dal suo stomaco. La camicia si stava già macchiando di sangue. La vista gli si annebbiò quasi subito. 

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Capitolo 37
*** Il sangue degli Avi ***


37. Il sangue degli Avi

Elohen cominciava a essere preoccupata. Aveva visto Alomas dirigersi verso gli alberi estraendo il pugnale dalla cintura già da qualche tempo, senza però vederlo uscire. Sapeva bene che suo fratello era uno dei più valenti guerrieri della città e che difficilmente qualcuno avrebbe potuto sfidarlo vittoriosamente nel suo “ambiente naturale”, quale un bosco, ma non poteva fare a meno di essere in ansia. Aspettò ancora qualche minuto, poi decise di andare a cercarlo. Scese le scale della torre e si diresse al portone d’ingresso. Di notte il castello era fin troppo silenzioso. Non amava molto girare per quelle sale quando erano avvolte nell’oscurità, cosa abbastanza strana per un elfo nero che per natura dovrebbe essere in grado di sfruttare le tenebre a suo vantaggio, ma per lei era sempre stato così, preferiva notevolmente la luce del sole a quella della luna, anche se non era immune al fascino delle notti di luna piena ad Aglarfuin, quando la città si mostrava nel suo massimo splendore. Questo, unito al suo carattere estroverso, solare e romantico, ben diverso da quello degli altri abitanti della Foresta Nera che erano di norma più pragmatici, aveva da sempre alimentato in lei un senso di quasi estraneità rispetto al suo popolo e spesso dai suoi stessi fratelli o genitori. Non riusciva a riconoscersi nei suoi simili e la cosa la faceva soffrire. L’unica persona nella quale vedeva una somiglianza con se stessa era Deliah, sua zia e Sacerdotessa della Luce. Forse perché aveva sposato un umano e aveva vissuto per un po’ al di fuori di quella gabbia dorata che era il castello, forse perché anche lei aveva un animo romantico e sognatore, ma quando il padre le affidò l’incarico di essere la sua ancella, ne fu felice. La salute di Deliah era precaria, e solo una medicina ricavata dai fiori di Schka Loo riusciva a contenere i sintomi della sua malattia ma, sfortunatamente, l’unico luogo dove la “Regina della Notte” cresceva in abbondanza era proprio il giardino del castello di Aglarfuin. I profumatissimi fiori di quest’antica pianta si schiudevano solo di notte e il bagliore delle mura della città li aiutava a crescere forti e sani. La Schka Loo, naturalmente, cresceva anche altrove come qualsiasi altra pianta, ma con scarsi risultati e con molta difficoltà. Quando i primi sintomi del male si erano manifestati, Deliah e Corgh avevano provato a coltivarla nel paese dove erano andati a vivere, ma non erano mai riusciti a ottenere abbastanza fiori per distillare una quantità sufficiente di medicina. Le condizioni di Deliah si erano velocemente aggravate e così, anche grazie alle suppliche del fratello, avevano dovuto accettare l’unica soluzione, in altre parole quella che lei tornasse ad Aglarfuin. Eromas avrebbe accolto a braccia aperte sia Corgh sia sua nipote Sephyr, ma i due genitori avevano preferito che la loro figlia crescesse lontano dalla vita di corte e soprattutto lontano da Southill. Non ne conosceva il vero motivo, né suo padre né Deliah le avevano mai spiegato nulla, sapeva però che fu una decisione molto difficile da prendere per tutti e non le era difficile capirlo. Il suo compito era quindi quello di assistere Deliah, tenerle compagnia e assicurarsi che assumesse regolarmente la medicina che gli erboristi di corte le preparavano. Durante le giornate passate insieme, Elohen si faceva spesso raccontare dalla zia la vita al di fuori della città e della Foresta Nera, rimanendo affascinata da quanto ascoltava. Deliah le raccontava volentieri quelle storie, commuovendosi però spesso, quando il pensiero andava inevitabilmente alla figlia che non vedeva crescere e che aveva la sua stessa età. Elohen provava un po’ d’invidia nei confronti della cugina che nonostante fosse priva della figura materna, poteva vivere una vita “normale” nel mondo degli umani. Sua madre, la regina, era morta quando era molto piccola e non aveva molti ricordi di lei, per cui aveva riversato su Deliah il suo bisogno di esempio femminile da seguire. Anche per questo invidiava ed era gelosa della cugina, in fondo sua madre era ancora viva e alla fine avrebbero potuto ricongiungersi, lei invece non avrebbe più potuto conoscere l’affetto materno. Sapeva che erano sentimenti egoisti e spesso se ne vergognava, senza però farlo capire a nessuno. Sephyr pareva essere inoltre il Sigillo di un giovane Stregone, motivo in più per invidiarla. Tra le sue storie preferite c’erano quelle che si tramandavano di generazione in generazione e che raccontavano le gesta dell’antico popolo dei Dragoni, una razza oramai estinta nella sua forma pura, ma il cui sangue, unito a quello degli uomini, continuava a vivere nelle vene degli Stregoni.


Lind alzò la mano per interrompere il discorso di Boid.

   « Aspetta un secondo, ferma tutto…come sarebbe a dire? Mi stai dicendo che discendo da una razza non umana? »

Boid lo guardò sorridendo affettuosamente, aveva evidentemente immaginato la sua reazione.

   « Non solo tu, anche io, il tuo Maestro e tutti gli altri Stregoni. Doveva esserci qualcosa di diverso tra noi e i normali “umani”, no? Non te lo eri mai chiesto? »

   Lind assunse un’aria confusa e si sedette meglio sulla roccia, come a cercare di risistemare anche le proprie idee.

« A dire la verità sì…ma non avrei mai immaginato una cosa del genere… »

   Al che si voltò verso Sephyr per coglierne la reazione a quella notizia. Sperava non stesse pensando: “Oddio…il mio ragazzo non è umano, e adesso che faccio?” In realtà la ragazza gli aveva lanciato un’occhiata infastidita per aver interrotto il racconto e non sembrava turbata dalla cosa, per cui, per il momento, si tranquillizzò.

   « Ascoltiamo tutta la storia, ok? »

Disse lei esortando Boid a continuare.

   « Va bene, allora…»

Le leggende raccontano che i Dragoni si estinsero a causa di una tremenda epidemia che colpì tutte le femmine della loro razza. Nel giro di pochi anni erano rimasti solo i maschi che, per evitare che la razza si estinguesse del tutto, decisero di unire il loro sangue a quello delle donne umane. I figli mezzosangue che nacquero furono i primi Angwi. L’unione del sangue dei Dragoni con quello umano produsse degli individui dotati di grande potere, in grado di usare la magia e di assumere l’aspetto dei loro padri in base alla necessità. Quando anche l’ultimo Dragone morì, gli Angwi si legarono agli Elfi Neri, i soli che li avessero accettati poiché gli umani li temevano e li allontanavano a causa dei loro poteri. Questo nuovo popolo divenne quindi il protettore della Foresta Nera e per secoli gli Angwi furono gli artefici della prosperità di Aglarfuin, proteggendola e vegliando su di essa. Questo rapporto però si rivelò fatale. Gli Elfi e gli Angwi rimasero per secoli distinti, seppur vivendo fianco a fianco, fino a quando lo stesso male che decretò la fine dei Dragoni colpì le loro discendenti. Le donne Angwi cominciarono a morire una dietro l’altra, nonostante gli sforzi dei medici della città. Nemmeno le più potenti curatrici erano in grado di debellare la malattia, finché anche l’ultima Angwi spirò. Si decise così che le strade dei due popoli dovevano separarsi, per evitare che il loro sangue si unisse. I Saggi, di entrambi i popoli, avevano sentenziato che sarebbe stato troppo pericoloso, l’unione di due stirpi già così potenti avrebbe rischiato di generare degli individui con un potere così elevato da rischiare di sfuggire al loro controllo. Purtroppo però, il fato si era già compiuto. L’amore quando sboccia non conosce regole o differenze di razza o stirpe. La Sacerdotessa Della Luce dell’epoca si era unita a un Angwi, i due giovani avevano trasgredito alle regole della città. La cosa fu accolta con grande timore da parte di tutti, La Sacerdotessa è da sempre la curatrice con i poteri più grandi e il giovane era tra i più valenti della sua gente. Il figlio che nacque dalla loro unione fu così il primo di un’ulteriore nuova razza, i Rakhoon. Fin da subito ci si rese conto che i Saggi avevano ragione, il bambino possedeva doti superiori a quelle di entrambi i popoli. Intelligenza, forza, la capacità di usare gli incantesimi e, inoltre, aveva la caratteristica unica di essere quasi del tutto immune alle fiamme.

   Qui fu Sephyr a interrompere il racconto, lanciando uno sguardo tra l’ironico e il sarcastico a Lind.

« Intelligenza? Siamo sicuri che sia un Rakhoon, allora…?»

   Il ragazzo sbuffò offeso.

« Andiamo avanti, per favore…almeno adesso so perché il fuoco non mi crea problemi…»

   Assumendo le sembianze dei Dragoni, poi, poteva modificare a piacimento il proprio corpo, fino a riuscire a crearsi un paio di ali. Questa cosa fu vista come un atto di superbia, la versione alata di un Dragone, bisogna ammetterlo, incuteva un certo timore sugli altri abitanti di Aglarfuin e alcuni cominciavano ad additarlo come un demone ma, nonostante questo, il piccolo Rakhoon sembrava non voler usare la propria forza per scopi malvagi. Kain, questo era il nome del primo Rakhoon, viveva in armonia con gli abitanti della città, tanto da attirare su di se l’attenzione delle stesse persone che ne avevano temuta la genesi. Con il passare degli anni, altri Rakhoon nacquero. Gli Angwi non erano ancora partiti da Aglarfuin, confortati da come Kain si stava integrando con la comunità. Le femmine di Rakhoon che nacquero, stranamente, presentavano però delle caratteristiche diverse rispetto ai maschi: non erano in grado di prendere le sembianze dei Dragoni ed erano in grado di utilizzare la magia in modo molto più limitato, come le guaritrici elfiche. Di contro, avevano un grande potere sui loro simili dell’altro sesso, erano in grado cioè di limitare i loro poteri. Con il semplice tocco, riuscivano ad assopire il loro “lato Dragone” e per questo furono chiamate “Sigilli”.

   Sephyr, a questo punto, abbassò lo sguardo. Lind se ne accorse, gli sembrava strana come reazione, alla notizia che lui fosse un mezzo-drago non aveva battuto ciglio, invece ora che aveva scoperto che erano anche le sue origini, sembrava sconvolta. Certo, le cose sono sempre più grandi e difficili da accettare quando ricadono sulla nostra pelle, però non se lo sarebbe aspettato da lei. Le prese una mano tra le sue.

   « Ecco perché…quindi anche tu…»

La ragazza, dopo qualche secondo, rialzò gli occhi verso Boid con espressione seria, stringendo a sua volta la mano Lind.

   « Da quanto hai detto finora, i Rakhoon e i Sigilli vivevano in armonia e pace con gli elfi, cos’è andato storto? Perché la situazione è cambiata, giusto?»

   Boid annuì e continuò il suo racconto.


Elohen arrivò al piano terra e si diresse di corsa verso la boscaglia nella quale suo fratello si era inoltrato. Aveva il cuore in gola, un bruttissimo presentimento si era fatto largo in lei appena aveva messo piede fuori dal castello.

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Capitolo 38
*** Anime gemelle ***


38. Anime gemelle

I Sigilli avevano però un prezzo da pagare per questo “potere” sui Rakhoon: non erano in grado di legarsi a nessuno che non fosse loro simile e, inoltre, riuscivano a stringere un vero e profondo legame affettivo con un unico individuo.

   Lind interruppe Boid a queste parole.

«Bhè, a parte che dovessero scegliere tra quelli della loro “razza”, il fatto che fossero monogame non mi pare un grande problema, no? Anche perché…»

   Sephyr lo interruppe a sua volta.

«Io penso che il significato di “unico individuo” sia diverso, vero? Significa che esisteva un unico Rakhoon, particolare, al quale potessero legarsi. Uno e nessun altro...»

   Boid annuì senza commentare, aveva capito però che quella parte del racconto aveva suscitato una reazione comprensibile nella ragazza, mentre Lind sembrava non aver ancora messo a fuoco la cosa. Continuò il racconto senza indugiare oltre, rimandando alla fine dello stesso le considerazioni.

   Per ogni Sigillo, esisteva quindi un solo vero compagno Rakhoon. La coppia aveva la certezza di essere quella “giusta” grazie al fatto che i Rakhoon erano in grado di utilizzare gli incantesimi di guarigione solo sui propri Sigilli, oltre che su se stessi, mentre i Sigilli erano in grado di curare chiunque, tranne se stesse.

   Boid capì dalla sua espressione che, con questi dettagli, finalmente anche Lind fosse giunto alla stessa conclusione della ragazza.

   La coppia che si formava era così legata per sempre, completandosi a vicenda. Questa singolare caratteristica era vista dal resto della popolazione in modo molto romantico, e a volte anche con un po’ d’invidia, poiché ne vedevano il concretizzarsi dell’antico concetto di “anime gemelle ”. La Natura sembrava quindi aver creato la perfezione, ma nulla è perfetto e il declino di secoli di pace tra i popoli liberi stava per cominciare. Dopo qualche anno dalla nascita di Kain, venne alla luce Syria, il primo Sigillo. La bambina, nata dall’unione di Gavialis, comandante degli Angwi, e di Erowin, figlia del Re degli Elfi Neri, e fu accolta con più serenità dalla popolazione, rispetto a quanto successo con Kain. Fin da subito, fu chiara l’affinità tra i due bambini e con il passare degli anni il loro rapporto divenne sempre più stretto. La giovane, raggiunta l’adolescenza, cominciò ad accompagnare spesso il padre nelle città dove era inviato in rappresentanza di Aglarfuin, anche perché Kain era sempre più impegnato a corte essendo stato insignito del ruolo di Guardia Reale e quindi avrebbe dovuto passare molto tempo da sola. In questo modo la sua bellezza cominciò a essere conosciuta anche al di fuori della Foresta Nera: aveva il fisico sinuoso delle donne elfo unito al fascino misterioso delle Angwi e alla sensualità delle donne umane. Un incrocio perfetto tra le tre razze, ma la cosa che lasciava tutti senza fiato era il suo sguardo. Si narra che nessuno, tranne Kain, riuscisse a sostenere a lungo quei profondi e misteriosi occhi senza rimanerne turbato, due zaffiri luminosi e profondi che sembravano poter scrutare l’animo di chi avevano di fronte. Se ad Aglarfuin tutti avevano capito che Kain e Syria erano destinati a essere legati l’uno all’altra, non era così al di fuori della Foresta Nera. Il principe di Celestia, Romir, aveva raggiunto la maggiore età e, come impone l'etichetta, era stata organizza la cerimonia in cui sarebbe stato presentato ufficialmente come successore del regno a tutti i sovrani delle Terre Libere. Ovviamente fu invitata anche la corte di Aglarfuin con tutti gli ufficiali, Gavialis compreso. Syria lo accompagnò al posto della madre che non poteva allontanarsi dalla Foresta Nera, poiché le regole della città imponevano, come tutt'ora, che almeno un esponente della famiglia reale debba sempre essere presente nel castello e visto che i suoi genitori dovevano recarsi alla cerimonia, quel compito spettava a lei. Durante la cena ufficiale che si svolse alla sera, Romir si dichiarò a Syria, essendosi invaghido perdutamente di lei al primo sguardo, ricevendo però naturalmente il cordiale rifiuto della ragazza. Non essendo ancora re, non poté fare altro che prendere atto del rifiuto. In cuor suo, però, sapeva che una volta succeduto al padre la situazione sarebbe stata diversa. Re Eromar era molto anziano e, infatti, poco dopo morì, lasciandogli il trono. Alla cerimonia d’incoronazione furono invitate di nuovo tutte le famiglie regnanti, e anche in quest’occasione Syria accompagnò il padre. Anche Kain fu invitato, nel frattempo era stato insignito con la carica di Comandante delle guardie reali, quindi ne aveva il diritto. Al termine della cerimonia, Romir dichiarò la sua intenzione di sposare Syria e di renderla quindi la nuova regina di Celestia. 

   Fu l’inizio degli anni bui delle terre libere. 

Kain e Syria tentarono immediatamente di opporsi, insieme al Re e a tutta la delegazione di Aglarfuin. La risposta di Romir fu terribile, non volendo sentire ragioni, fece trattenere la ragazza con la forza ed espulse tutti gli altri dal castello. La cosa peggiore, fu che i regnanti degli altri paesi umani, Caputargilis e la stessa Southill alleata di Aglarfuin, non osarono prendere le parti degli elfi, temendo di inimicarsi la potente Celestia. Kain inizialmente parve arrendersi, si fece portare fuori senza opporre resistenza, ma era solo la reazione ala processo interiore che lo portò a quello che stava per diventare. 

   Un demone nacque in quel giorno e la sua furia non tardò a esplodere. 

Non proferì parola fino all’arrivo ad Aglarfuin, nella quale le truppe di elfi e Angwi si stavano già mobilitando all’inevitabile guerra, l’affronto subito era troppo grande per non reagire con forza. Il conflitto iniziò alle porte di Irin-Fenn: gli elfi e gli Angwi, guidati da Gavialis, attaccarono la città dopo aver fatto pervenire la dichiarazione di guerra a tutte le città umane. La loro condizione per evitare il conflitto era ovviamente unica, che Syria tornasse ad Aglarfuin. I regnanti di Caputargilis e Southill tentarono di far ragionare Romir, ma questi non volle sentire ragioni, intimandoli di togliere loro la protezione e gli aiuti economico-commerciali da cui dipendevano da Celestia, se non lo avessero appoggiato. Nei mesi successivi il conflitto si fece sempre più cruento: gli elfi, con l’aiuto degli Angwi, erano nettamente più forti rispetto alle truppe umane, anche se ben organizzate e armate, ma in minor numero e quindi ben presto si formò un fronte statico, nel quale nessuna delle due fazioni riusciva a prevalicare l'altra. Kain, nel frattempo, si era chiuso in se stesso: qualcosa lo stava bruciando dentro. Stava rinnegando la sua parte umana, non voleva più sentirsi in nessun modo appartenente a quella razza meschina che lo stava privando della sua anima gemella. Nel suo dolore stava cercando il modo di liberarsi da quella “infezione” e, sfortunatamente, alla fine ci riuscì. Gli Angwi, da tempo, utilizzavano delle particolari armi create per loro dai maestri armaioli elfici, usando un particolare e rarissimo metallo che si era scoperto essere in grado di assorbire l'energia emanata dagli incantesimi, ovvero il Mithril. Questo splendido metallo era sempre stato usato per i gioielli e le armature dei re e dei principi, ma quando si scoprirono le sue caratteristiche “magiche” fu utilizzato per fabbricare lame che, in mano agli Angwi, erano in grado di incanalare e amplificare i loro poteri. Anche Kain aveva la sua arma di Mithril, una splendida e maestosa spada chiamata “Eket Vortah”, donatagli dal Re quando lo insignì del titolo di Comandante. Una mattina, si presentò al più abile fabbro di Aglarfuin con la sua spada e delle strane scaglie nere. Il fabbro era un suo caro amico e non fece grosse domande quando gli chiese di fondere la lama della spada, unendo al metallo fuso quelle scaglie, e forgiarne due di nuove, anche se dimostrò la sua perplessità nel distruggere un'arma così bella. Furono così create la Sulun-Hyanda e la Carak Silde. Lo stesso fabbro rimase stupito dal risultato, le lame erano magnifiche e presentavano delle strane caratteristiche, una su tutte il calore che continuavano a emanare anche dopo temprate. Kain ne volle fare una minacciosa falce e un'agile spada. Alla domanda dell'amico su cosa fossero quelle armi, rispose tetro: “Sono il tramite per la perfezione”. Le misteriose scaglie nere altro non erano che le sue squame trasformato in Dragone e che, unite al Mithril, avevano dato al metallo la capacità di sopprimere il lato umano del loro possessore amplificandone gli altri, ovvero quello elfico e quello dragone.

   Lind posò gli occhi sulla sua spada, che in quel momento era appoggiata, nel suo fodero, alla roccia sulla quale erano seduti.

   «Provo a indovinare...la mia spada è...»

Boid lo anticipò.

   «La Cark Silde. Sì, è lei».

«E penso anche di aver conosciuto chi impugna la falce» disse Lind riportando lo sguardo sullo stregone.

   Boid fu particolarmente sorpreso da quelle parole.

«Cosa? Si è già mostrato a te?»

   «Quasi, non l'ho visto in faccia, ma adesso capisco perché l'arma che portava sulla schiena mi ha fatto quell'effetto».


Eket Vortah: Spada della Guardia

Carak Silde: Zanna d'argento

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Capitolo 39
*** Misteri ***


39. Misteri

«Alomas!» urlò Elohen correndo verso suo fratello, steso a terra tra gli alberi, in una pozza di sangue.

  «Cosa ti hanno fatto?» sussurrò quasi in lacrime chinandosi per controllare che fosse ancora vivo, cosa che sperava con tutto il cuore. Aveva una brutta ferita all’addome, dalla quale era uscito molto sangue, e il colorito era tremendamente pallido. Gli tastò il polso e si sentì subito sollevata, percepiva ancora il battito, debole, ma c’era ancora. Gli mise una mano sotto la testa e con l’altra cercò di tamponare la ferita, non accorgendosi che in realtà la lama lo aveva attraversato da parte a parte, dopodiché urlò con tutto il fiato che aveva in corpo.

   «Aspetta un secondo…questa è Elohen!»

Deliah corse verso la finestra, seguita da Corgh ed Eromas, e guardò verso il giardino cercando di capire da dove provenisse l’urlo. Le chiome degli alberi coprivano la visuale, ma era chiaro che la ragazza si trovasse sotto di essi.

   «Elohen!» Eromas chiamò la figlia.

«Padre! Alomas è ferito!» la voce era rotta dalle lacrime.

   «Arriviamo, stai tranquilla!» Deliah, dopo aver detto questo, corse verso la porta che dava sulle scale. Anche Corgh avrebbe voluto seguirla, ma il re lo fermò.

   «Per favore, andate ad avvisare le guardie, vado io con lei.»

Dopodiché, seguì la sorella. Corgh si diresse allora verso un'altra porta, seguito da Jofiah che era rimasto per tutto il tempo in disparte. Quest’improvviso trambusto gli aveva messo agitazione, si era appena tranquillizzato dopo la fuga rocambolesca dalla prigione e subito arrivavano altri problemi, cominciava a essere troppo per lui, rimpiangeva la sua decisione di accompagnare l’amico in quell’avventura, non era uomo d’azione e aveva veramente nostalgia del suo tranquillo e noioso negozio di Pineswood.

   «Corgh! Che succede? Chi stava urlando lì fuori?»

L’oste non rispose e si limitò a fargli cenno di continuare a seguirlo. Usciti dalla stanza, corsero lungo un corridoio che portava alla sala delle guardie, dove irruppero senza tanti complimenti. All’interno, una decina di elfi in uniforme conversava tranquillamente attorno a un tavolo. Vedendo l’improvvisa intrusione, scattarono in piedi impugnando le loro lance, Corgh non si scompose e urlò con autorità:

   «Presto! Il principe Alomas è stato ferito all’ingresso del castello e probabilmente la principessa Elohen, che è con lui, è in pericolo!»

Dopo un momento di stupore, uno degli elfi riconobbe quel grosso personaggio che sbraitava come un forsennato.

   «Signor Corghyan! E’ lei? Mi avevano detto che era tornato, ma che sta succedendo?»

A parlare era Terodas, capitano delle guardie e vecchio amico di Corgh. Era un elfo molto alto, con i capelli lunghi e nerissimi che gli cadevano sulle spalle, indossava una ricca armatura argentata con le insegne della città. Si precipitò verso di lui e fece cenno ai suoi uomini di stare tranquilli.

   «Terodas! Sono felice di rivederti, ma non c’è tempo per i convenevoli, abbiamo sentito urlare Elohen: è successo qualcosa a Alomas. Prendi i tuoi uomini e andate subito all’ingresso, Deliah ed Eromas sono già andati avanti, ma non è il caso di lasciarli soli con un probabile nemico in giro».

L’elfo sgranò gli occhi.

   «Cosa? La Sacerdotessa e sua Maestà…? Presto, venite con me!»

Le guardie scattarono al comando e lo seguirono fuori dalla sala. Corgh attese che l’ultimo soldato fosse uscito, poi prese l’amico per un braccio.

   «Non muoverti da qui, finché resti all’interno del castello, non può succederti nulla. Io vado con loro».

Jofiah provò a protestare, non aveva nessuna intenzione di rimanere da solo in quelle sale buie, ma non fu abbastanza veloce, l’oste si era già chiuso la porta alle spalle prima che riuscisse ad aprire bocca. Subito dopo, però, un rumore sordo e un lamento soffocato, seguito da un tonfo pesante, lo fecero trasalire. Si avvicinò lentamente alla porta.

   «Corgh…tutto bene?» disse con voce incerta afferrando la maniglia. L’ultima cosa che vide prima di perdere conoscenza fu un’enorme ombra nera che sovrastava il corpo di Corgh, disteso a terra nel corridoio.

   

   «La mia spada e la falce di quello strano tizio incappucciato una volta erano quindi un'unica arma…»

Lind sollevò la spada impugnandola dal fodero e cominciò a osservarla. Con le dita accarezzò il drago sull’elsa, seguendone i contorni con fare pensieroso.

   “E così, vecchia mia, hai una storia alquanto turbolenta, pare”.

Poi, senza alzare lo sguardo chiese: «L’ha definita “Simbiote”, tu sai cosa significa, vero?...»

Boid era turbato da quanto aveva sentito poco prima dal ragazzo e, immerso nei suoi pensieri, non colse la domanda. Il fatto che Balham avesse già provato ad avvicinarlo era preoccupante, lo avevano sottovalutato. Fortunatamente però, sembrava che non avesse ancora fatto la sua mossa, forse erano ancora in tempo…

   «…Boid, mi ascolti? Che ti succede?».

La voce scocciata di Lind finalmente lo distolse dai suoi ragionamenti.

   «Cosa? Mi dispiace…dicevi?».

Sephyr s’intromise prima che Lind potesse riformulare la domanda.

   «Un momento, c’è qualcosa che non mi torna, se io sono un Sigillo, allora mio padre dovrebbe essere…un Angwi, giusto?»

Boid la anticipò.

   «Sì, tecnicamente lo è».

Lind alzò gli occhi dalla spada e assunse un’aria dubbiosa.

   «Corgh uno Stregone? Mi sembra difficile da credere…e poi perché avrebbe dovuto tenerlo nascosto?»

«La madre di Corghyan era umana, mentre il padre era un Angwi, per questo non è uno Stregone e non è in grado di usare la magia. Solo i “sangue puro”, se mi passate il termine, sono in grado di concentrare l’energia per usare gli incantesimi e assumere l’aspetto dei Dragoni. La discendenza è però trasmessa per linea maschile, per cui, anche se non è un vero e proprio appartenente alla nostra “razza”, è comunque in grado di concepire un Sigillo, com’è successo».

Lind cominciava a essere confuso.

   «Faccio fatica a starti dietro, adesso…»

Sephyr gli accarezzò un braccio, con un mezzo sorriso sul viso.

   «Ho capito io, non preoccuparti, poi ti spiego…»

Il ragazzo le lanciò un’occhiataccia, alla quale lei non rispose, dopodiché si rivolse nuovamente a Boid.

   «Va avanti, per favore».


   Kain, dopo essere entrato in possesso delle sue nuove armi, lasciò Aglarfuin senza dire nulla. Scomparve per dei mesi, nei quali il conflitto non vide né vinti né vincitori. Poi, in un giorno d’inverno, fece la sua ricomparsa. La neve ricopriva la piana di Celestia, il fronte del conflitto era ancora confinato a Southill, per cui la città era relativamente poco sorvegliata e difesa. Romir osservava la neve dalla finestra del salone del suo castello, con lui c’era Syria. La giovane non si era ancora piegata al volere del suo rapitore che, nonostante tutto, non la forzava, sicuro del fatto che alla fine avrebbe ceduto. Syria, dal canto suo, non smetteva di tentare di fargli cambiare idea per porre fine a quell’inutile conflitto e per poter finalmente tornare a casa, da Kain. Improvvisamente, arrivarono dalla foresta a decine. Imponenti giganti di metallo avanzarono verso la città, scavando solchi nella neve e abbattendo alberi secolari come fossero fuscelli; dietro di essi, un esercito di figure simili a uomini, ma dai movimenti impacciati e traballanti. Una sinistra figura alata seguiva nel cielo l’avanzata di quest’orda, impugnando una grande falce nera. Romir capì subito che la città non avrebbe avuto speranza, l’esiguo numero di soldati rimasti nulla avrebbe potuto contro quell’esercito mostruoso, comparso dal nulla. Nonostante questo, ordinò ai suoi soldati di disporsi a difesa e inviò due messaggeri, uno al fronte, per richiamare più velocemente possibile le truppe, e uno a Caputargilis per chiedere aiuto, anche se sapeva benissimo che non avrebbero mai fatto in tempo ad arrivare, la sua speranza era che le possenti mura della città reggessero sufficientemente a lungo. La sua speranza fu vana, l’esercito di golem spazzò via soldati e porte della città in pochi minuti. L’orda che seguiva i golem invase la città, senza però aggredire la popolazione terrorizzata. I cittadini riconobbero in quell’esercito i propri cari che erano caduti al fronte e ora erano di nuovo lì, sotto forma di non-morti. Il terrore che si propagò per le strade fu superiore a qualsiasi forma conosciuta, le grida e i pianti di disperazione riecheggiavano fino alle finestre del castello, dalle quali Romir osservava quello che stava succedendo, pietrificato a sua volta dalla paura. La nera figura alata atterrò lentamente sulla terrazza del castello davanti alle finestre delle stanze reali. Syria lo riconobbe immediatamente, nonostante ora il suo aspetto fosse molto cambiato. L’aspetto che aveva ora il Rakhoon si avvicinava più a quello dei Draghi delle leggende che a quello dei Dragoni, che avevano perlopiù un aspetto simile a quello umano. Pelle ricoperta da squame nere, denti sottili e affilati e due corna ricurve che partivano dai lati della testa. Gli occhi luminescenti erano fissi su Romir che non riusciva più a muovere un muscolo, e nella mano destra, provvista di neri artigli, impugnava una grande falce dalla lama nera, mentre al fianco sinistro portava una spada.


   Boid si alzò dal tronco sul quale era seduto e impugnò la sua lancia puntando lo sguardo verso le rovine della cappella, rimanendo in silenzio. I due ragazzi lo guardarono per qualche secondo senza aprire bocca, poi Lind si spazientì.

   «Quindi? Cos’è successo dopo?»

Lo Stregone si girò nuovamente verso di loro.

   «Purtroppo qui termina il racconto conosciuto, quello che successe in quella stanza è tuttora un mistero. Romir, Kain e Syria scomparvero, furono ritrovate solo le armi e il medaglione di mithril che la ragazza portava al collo. Nessuno conosce il luogo dove furono nascosti quegli oggetti, ora sappiamo che la falce era custodita qui a Caputargilis, ma della tua spada e del medaglione, di cui si ignora un eventuale potere, si persero le tracce per secoli».

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Capitolo 40
*** La terribile realtà ***


40. La terribile realtà

Lind rialzò lo sguardo ed estrasse lentamente la spada dal suo fodero, ammirandone la lucida lama a specchio che rifletteva i bagliori della luce dell’alba. Non sapeva cosa pensare, quell’oggetto era per lui familiare come lo erano Shayra e il Maestro, o forse ancora di più. Dopotutto era sua da prima che lo accogliessero nella loro casa come un figlio e probabilmente ne era in possesso da quando era nato.

Da quando era nato…non sapeva chi erano i suoi genitori, ma almeno adesso sapeva “cosa” erano e trovò naturale pensare che fossero stati loro ad affidargli quell’arma, prima di sparire per qualche oscuro motivo.

“Carak Silde”: aveva addirittura un nome. La cosa lo fece sorridere, attribuire un nome proprio a un oggetto era una cosa che aveva sempre trovato bizzarra, ma forse in questo caso non lo era, visto la strana storia che la legava a un tempo oramai remoto e soprattutto a quello che il suo metallo celava. Non aveva però ancora avuto la risposta che gli interessava di più. Senza distogliere lo sguardo dalla lama, si rivolse a Boid con tono deciso.

   «Vuoi, finalmente, spiegarci cos’è un “Simbiote”?».

Lo Stregone annuì.

   «Come vi ho già detto, le armi forgiate con il Mithril hanno la capacità di assorbire e amplificare l’energia degli incantesimi, ma in che modo? Il metallo reagisce all’energia comportandosi come una sorta di magnete, quando viene “caricato” viene attratto dal corpo dello Stregone, deformandosi per entrarne in contatto e amplificarne il potere».

A quel punto sollevò la sua lancia, la mano che la impugnava cominciò a emettere la solita nebbia luminescente e immediatamente il serpente che avvinghiava l’asta si animò e gli avvolse l’avambraccio. Contemporaneamente, i suoi lineamenti si modificarono facendogli assumere l’aspetto, simile a un rettile, che aveva quando comparve per la prima volta ai loro occhi.

   «Una volta che il contatto è avvenuto, lo Stregone e l’arma entrano in uno stato di simbiosi, l’energia fluisce da uno all’altro e può essere usata per eseguire vari tipi d’incantesimi, come ad esempio la lama di energia che hai usato tu contro i non morti. Inoltre, in questo stato, lo Stregone assume l’aspetto dei dragoni ma non ne è ben chiaro il motivo. Forse perché è grazie al sangue dei dragoni che è possibile usare la magia e, quando il potere aumenta, questo sangue reagisce facendo emergere le sue origini».

   «Quindi è vero, queste armi sono… “vive”?» disse Sephyr, ricordando la discussione tra lei e Lind a tal proposito.

«Non proprio, per “vivere” hanno bisogno dell’energia di chi le impugna. Senza di essa sono solo degli oggetti. Il problema è che, se lo Stregone si abbandona completamente alla simbiosi, il lato umano è come addormentato e con esso la razionalità e l’empatia verso il prossimo, lo Stregone diventa quindi una perfetta macchina da guerra, senza coscienza e senza paura. Il potere ha un alto prezzo da pagare».

   Lind lo guardò perplesso, c’era qualcosa che non tornava.

«Quindi già una “normale” arma di mithril ha la capacità di sopire il lato umano dello Stregone, allora perché Kain ne ha volute forgiare delle altre?».

   «A Kain non bastava semplicemente sopire temporaneamente il suo lato umano, ma voleva sopprimerlo definitivamente, per questo ha voluto creare qualcosa di più potente. La proprietà del metallo di assorbire l’energia e di entrare in simbiosi con il possessore, unita alle scaglie, ha creato qualcosa di simile a un parassita. La sua idea era quella che, nutrendosi della sua energia vitale per diventare più forte, avrebbe potuto donargli la capacità di sopprimere definitivamente la sua parte umana. Essendo nato dal solo sangue Dragone, il parassita avrebbe potuto aumentare la forza di questa parte, facendola diventare quella dominante, in questo modo avrebbe potuto raggiungere il suo scopo, in altre parole, quello di vendicarsi del genere umano nel modo peggiore: non facendone più parte».

   Lind era sempre più confuso.

«Aspetta. Alla fine, stai dicendo che non sono altro che strumenti che amplificano i nostri poteri e assopiscono il lato umano, ma io ho avuto la netta sensazione che “qualcosa” fluisse dalla spada al mio corpo durante le “simbiosi” e questo qualcosa aveva una sua, come dire, personalità…tu stesso mi hai consigliato di combattere contro il simbiote affinché non prendesse il sopravvento, pensavo ti riferissi a questo…».

   Boid sembrava sorpreso da queste affermazioni, ma subito sostituì la sorpresa con un interesse che colpì il ragazzo.

«Non so darti una risposta. I miei consigli si riferivano al fatto di non permettere all’arma di sopire completamente il tuo lato umano e razionale, in modo da riuscire a mantenere il controllo di te stesso. Sostieni di aver percepito un’entità estranea?».

   «Sì. La prima volta non me ne sono accorto, ma già la seconda, quando siamo stati attaccati dagli orchi ai piedi delle montagne, ho distintamente sentito che qualcuno o qualcosa mi parlava nella testa, mentre dalla spada fluiva in me una qualche energia molto potente. Quell’entità mi offriva il suo aiuto e non era ostile nei miei confronti, ma ne sentivo la rabbia e la voglia di distruzione. Ripensandoci in seguito ne ho avuto paura, non ero sicuro di cosa sarei stato capace di fare, succube di quella cosa».

   Prese la mano destra di Sephyr tra le sue e la guardò negli occhi.

«Volevo che tu tornassi a casa perché sapevo che avresti corso dei pericoli durante la ricerca del Maestro, ma anche per questo: per allontanarti da me, avevo paura di poterti fare del male, in quelle condizioni».

   Sephy gli strinse le mani a sua volta e ne sostenne lo sguardo.

«L’avevo capito ma, non so perché, ero certa che non avrei corso nessun rischio standoti vicino».

   Dopodiché, assunse un’espressione offesa.

«E avevo ragione, mentre tu invece non avevi nessuna fiducia in me!»

   Lind rimase ancora una volta sorpreso dalla reazione della ragazza. Era sicuro di essere stato particolarmente romantico in quel frangente, ma aveva ricevuto l’ennesimo rimprovero. Assunse l’aria del cane bastonato.

   «Va bene…hai ragione…scusa» sbuffò.

Poi tornò a rivolgersi a Boid, che nel frattempo li guardava sorridendo.

   «Tornando a noi, come te la spieghi questa cosa? Non me la sono sognata! Poi, ci sono altre cose sulle quali non hai ancora detto niente nei tuoi racconti».

   Lo Stregone tornò serio.

«Quali altre cose?».

   «Ad esempio, la capacità che ha la spada di ustionare chiunque che non sia io…o Sephyr. E’ normale o anche questa è, diciamo, anomala?».

   «No, le normali armi di Mithril non hanno questa capacità, se impugnate da persone comuni, sono semplici pezzi di metallo. Anche su questo non so darti spiegazioni ma, almeno di questo, ne eravamo al corrente dalle leggende che si tramandano da allora. Posso fornirti una mia teoria. Come dovresti sapere bene, tutto quello che ci circonda è in grado di immagazzinare una quantità più o meno grande di energia, attraverso particolari incantesimi siamo anche in grado di “visualizzare” questa energia…».

   Lind e Sephyr si scambiarono un’occhiata complice, sembravano passati secoli da quella notte dietro alla locanda, in realtà erano solo pochi giorni.

   «…secondo me, la tua spada e la falce hanno la capacità di immagazzinare una quantità enorme di energia, e questa reagisce come una sorta di protezione contro gli “estranei”».

   Il ragazzo lo guardò poco convinto.

«Non lo so, ma mi sembra un po’ forzata come spiegazione. Altra cosa: della falce e del medaglione si saranno anche perse le tracce, ma la spada è in mio possesso da quando sono nato, come lo spieghi?»

   Boid lo guardò negli occhi con un’espressione che non riuscì a decifrare.

«Questo è un altro mistero. Sappiamo che la tua spada è “quella” da poco tempo, dopotutto non esistono descrizioni dettagliate di questi oggetti, poche persone li avevano visti e altrettanto poche sapevano dov’erano custoditi. Il fatto che fosse proprio la Carak Silde è stato chiaro quando si è impossessata di te durante lo scontro con il golem a Pineswood, prima non ne eravamo certi.»

   Lind si alzò in piedi di scatto guardandolo sospettoso.

«Come fai a sapere del golem? Quindi tu sai da dove è venuto quel coso! Un momento…il comandante degli orchi cacciatori che ci hanno attaccato ai piedi delle montagne ha detto che era un “dono” da parte di qualcuno e, da quanto ne so, solo uno Stregone può creare qualcosa di simile…»

   «Ti stavamo osservando e hai ragione, ma l’unico Stregone in possesso del potere di creare un golem è lo stesso che ha trasformato Nicodhem in un Negromante, ed è colui che in questo momento possiede la Sulun Hyanda. Grazie al suo potere, questo Rakhoon sembra aver ottenuto la maggior parte delle capacità di Kain tra le quali quella di riuscire a trasferire l’intera forza vitale di un individuo da un corpo a un altro, capacità alla base della creazione dei golem. Altra capacità, altrettanto terribile, è appunto quella di essere in grado di creare i “Negromanti”, individui nei quali la scintilla vitale non è del tutto sopita, ma neanche abbastanza viva da avere la forza di essere indipendente. Non sono quindi né vivi né morti, ma sospesi in una sorta di limbo. In questo stato sono un tramite tra il mondo dei viventi e quello dei defunti, riescono cioè a richiamare le anime dei morti nei loro corpi, per poi controllarli e usarli come schiavi, il tutto sotto il controllo dello Stregone».

Lind abbassò lo sguardo.

   «Che cosa orribile…già ritenevo tremendo il fatto di imprigionare un’anima in un pezzo di ferro, ma quella di ridurre un essere vivente in quello stato non può avere giustificazioni. Come può qualcuno compiere delle azioni così inumane? Che razza di uomo può essere?».

   «Hai ragione ma, purtroppo, questo individuo è a sua volta dominato da una forza che ha poco di “umano”. Prima di entrare in possesso della Sulun Hyanda, ha subito un incantesimo con il quale è stato reso succube di un altro Stregone. L’obiettivo di questo Stregone era di controllare indirettamente l’enorme potere della falce. Non potendo entrarne in possesso direttamente, ha creduto che, assoggettando l’individuo prima della simbiosi, sarebbe stato in grado di controllarlo anche dopo. Purtroppo per lui, e per tutti noi, qualcosa è andato storto e dopo che la simbiosi ha avuto luogo, questo individuo si è trasformato in un vero e proprio demone, un Rakhoon senza nessun freno inibitore e dal potere smisurato».

   Lind rialzò lo sguardo, stringendo più forte l’elsa della sua spada, un tremendo dubbio gli si era improvvisamente insinuato nell’animo.

   Le parole di Nicodhem rimbombarono improvvisamente nella sua testa.

“Purtroppo, a causa mia, dovrai affrontare proprio il più terribile dei nemici.

   Il più terribile dei nemici è colui che non vuoi combattere.

«Chi è lo Stregone che ora possiede la falce?».

   Boid non aspettò oltre, decise che era giunto il momento.

«Mi dispiace ragazzo, ma vedo che hai capito. Sì, è la persona che stavate cercando. Balham da Patmos».

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Capitolo 41
*** La Falce ***


22. La falce

 

« Maestro Lachert! L’abbiamo trovata! »

   L’uomo, coperto di polvere dalla testa ai piedi, era corso nella grande sala del castello con ancora una pala in mano. La figura alla quale si rivolgeva era di spalle e stava osservando uno degli affreschi che ricoprivano le pareti. La sala si trovava al piano terra ed era illuminata da un’imponente vetrata che diffondeva il bagliore del sole riflesso sulla neve che ricopriva il grande giardino interno. L’affresco che stava guardando raffigurava un enorme drago alato che ghermiva con gli artigli una figura femminile ricoperta di luce. La figura luminosa sembrava non temere il mostro, pareva invece volerlo abbracciare, tendendogli le braccia aperte. Dietro al drago c’erano altre figure mostruose, serpi giganti e draghi senza ali. Dietro alla figura luminosa, invece, c’erano uomini e donne in ginocchio che si nascondevano dietro a essa. Sullo sfondo si vedeva un altro drago alato che stava arrivando da lontano, quasi a volersi frapporre ai due contendenti. La figura sembrò ignorare per qualche istante l’uomo che gli stava rivolgendo la parola, immerso nella contemplazione dell’affresco. Poi si girò.

   « Molto bene. Che nessuno la tocchi, se ci tiene alla vita. »

Era un uomo di età avanzata, i capelli lunghi erano brizzolati, mentre la barba era completamente bianca. Lo sguardo era deciso e penetrante. Portava un lungo mantello verde scuro sopra delle vesti dello stesso colore. Si appoggiava a un lungo bastone nero al quale era avvinghiata una specie di lucertola, intarsiata nel legno.

   « Ecco, a proposito di questo… »

L’uomo con la pala sembrava imbarazzato, abbassò lo sguardo e fece un passo indietro.

   « Uno di quelli che l’ha ritrovata ha cercato di afferrarla e… »

« Ha avuto quello che si meritava. Non è un oggetto per stupidi esseri umani. Portami lì. »

   « Dobbiamo informare il comandante Nicodhem? »

« Non ancora, sarò io a decidere. »

   I due uomini s’incamminarono fuori della sala e si diressero verso il retro del castello. In mezzo a un piccolo giardino, contornato da statue raffiguranti animali fantastici e alberi oramai morti, c’era una piccola cappella in rovina. All’interno della costruzione, una scala di pietra scendeva in profondità nella terra. L’uomo con la pala prese una delle torce appese alle pareti interne della cappella e fece strada lungo la scala, illuminando la via. La discesa sembrava interminabile, l’aria cominciava a farsi pesante. Finalmente giunsero in una sala ampia quanto la cappella in superficie, con le pareti di roccia viva. Dalla parte opposta della sala, rispetto alle scale, c’era una porta di legno pesante, rinforzata con borchie e lastre di metallo. L’uomo la aprì a fatica spingendo con forza, dall’altra parte c’era un’altra sala, semicircolare, dalla quale partivano cinque o sei gallerie lungo l’emiciclo. Imboccarono la seconda da destra, la via era in discesa. L’aria era sempre più soffocante, ma mentre l’uomo cominciava ad avere il fiato corto, il vecchio sembrava non avere nessun problema. Arrivarono all’ennesima sala, questa volta più piccola. Due uomini sporchi di polvere erano seduti a terra, con le schiene appoggiate alle pareti, sembravano stremati e terrorizzati. La parete frontale era stata abbattuta con pale e picconi, mostrando l’ingresso di una camera segreta. All’interno della camera, sopra a una specie di altare di pietra, era appoggiata una grande falce dalla lama nera, il cui manico era lavorato a formare un drago grigio con le ali ripiegate. La lama era stranamente lucida e su tutto l’oggetto non c’era un granello di polvere, nonostante il resto dell’ambiente ne fosse ricoperto. A terra, di fronte all’altare, c’era il cadavere carbonizzato di un uomo, quasi ridotto in polvere. Il vecchio avanzò nella camera, calpestando senza cura i resti umani, sbriciolando quello che ne restava, e ammirò la bellezza dell’arma da vicino.

    « Meravigliosa!  »

Allungò lentamente una mano verso il manico. L’uomo con la torcia tentò di fermarlo.

   « Maestro! No!  »

« Silenzio!  »

   Quando la mano del vecchio fu a pochi centimetri, la falce sembrò diventare incandescente. L’uomo la ritrasse immediatamente.

   « Come immaginavo, non accetta nemmeno me, ma ora abbiamo la prova che è veramente lei. »

Si girò di scatto e uscì dalla camera. Prese la via del ritorno senza aspettare.

   « Maestro, dobbiamo mettere qualcuno di guardia?  »

« Non ce n’è bisogno, chiunque proverà a toccarla farà la fine di quello stupido.  »

    La sala da bagno era satura di vapore. Nella grande vasca piena di acqua calda Nicodhem e due giovani donne, che a turno si scambiavano il posto sopra di lui, erano ignari della scoperta appena effettuata. Quando la porta fu spalancata, l’aria gelida dell’esterno li fece sobbalzare.

   « Maledizione, Lachert! Chiudi quella porta, fa un freddo dannato li fuori! »

   « L’abbiamo ritrovata, è ora di portarlo qui. »

« Ne sei sicuro? »

   « Puoi andare a verificarlo di persona. »

« Molto bene, prendi gli uomini che ti servono. Sai già dove trovarlo?»

   « Non sottovalutarmi, lo stiamo tenendo d’occhio da molto tempo. Non ho bisogno del tuo permesso o dei tuoi ridicoli briganti, tu tieniti pronto per il mio ritorno. »

    Detto questo, uscì lasciando le porte spalancate. Ad attenderlo c’erano già quattro Dieber in attesa dei suoi ordini. Appena lo videro, lo seguirono verso le porte del castello. Nicodhem li osservò allontanarsi. Cominciava a chiedersi se avesse fatto la cosa giusta appoggiando l’idea di quell’uomo. Quando arrivarono a Pineswood era notte. Le finestre dell’Unghia Nera erano aperte. Lachert lo vide seduto a un tavolo insieme a un giovane.

    « E così hai deciso di addestrarlo, alla fine. Dovevi pensarci prima, ora è troppo tardi. »

    Fece un gesto ai due Dieber, che si disposero ai lati della porta della locanda. Alzò la mano destra puntando il palmo verso l’interno del locale. Lo spostamento d’aria dell’esplosione fece saltare la porta e immediatamente i sicari entrarono rapidamente in mezzo al fumo, trascinando fuori l’uomo, tramortito, in pochi secondi. Contemporaneamente, un terzo Dieber aveva trafugato lo zaino dalla stanza e si dirigeva all’uscita del paese, dove lo attendeva il quarto, che faceva da sentinella. In pochi minuti, erano di nuovo sulla strada di ritorno, con il prigioniero.

   

   Si risvegliò in una stanza che non conosceva. Sembrava la camera di un castello, era disteso su un grande letto con la struttura di legno lavorato e dorato. Le pareti erano ricoperte da decorazioni floreali e il mobilio era molto ricco. Cercò di mettersi a sedere, ma la testa gli girava.

   « Fai pure con calma, Balham, non abbiamo fretta. »

L’uomo ai piedi del letto lo stava osservando con espressione neutra.

   « Chi sei tu? E dove mi trovo? Come conosci il mio nome?»

« Il mio nome è Lachert e sono uno stregone, come te. Ti trovi nel castello di Caputargilis. Mi scuserai per aver dovuto usare un metodo poco ortodosso per portarti qui, ma le circostanze non mi hanno permesso altrimenti. Ti conosco molto bene, per questo sei qui. »

   « Non so chi tu sia e cosa voglia da me, Lachert, ma devo dire che almeno il letto è comodo. »

   « Ne sono felice. »

« Ora però, se non ti dispiace, tornerei da dove sono venuto.»

   Alzò di scatto la mano destra e la puntò contro il vecchio, un’onda d’urto si sprigionò dal palmo. Lachert si limitò a inclinare il bastone. L’onda mandò in briciole il mobilio di mezza stanza e fece crollare il muro alle spalle dello stregone, che non si scompose minimamente. Gli occhi della lucertola sul bastone brillavano di luce verde. Balham rimase a bocca aperta.

   « Ma come… »

« Non è educato distruggere le stanze dei propri ospiti. Comunque è inutile, per quanto tu possa essere potente, senza il tuo simbiote non puoi sfidarmi. »

   « Di cosa diavolo stai parlando? »

« A tempo debito, quando sarai pronto scendi nella sala qui sotto e tutto ti sarà rivelato. Una vecchia conoscenza vuole porgerti i suoi saluti. Ci siamo presi la licenza di portare anche il tuo zaino, per cui hai tutti i tuoi effetti a disposizione. »

   Uscì dalla stanza senza dire altro. Balham rimase qualche secondo a osservare la porta chiusa. Una strana sensazione lo colse all’improvviso. Qualcuno o qualcosa lo stava chiamando, da qualche parte lì vicino. Si alzò dal letto e, nonostante si sentisse molto debole, decise di seguire Lachert.

   « Le cose si fanno interessanti. »

Uscì su un ballatoio, sul quale erano presenti varie porte, probabilmente tutte di stanze da letto. La scala, molto ampia, portava a un atrio luminoso e dal pavimento di marmo, nel quale due statue di angeli, armati di spada, facevano da guardia a una porta ad arco che dava su una sala finemente affrescata con scene di caccia. La luce proveniva da una grande finestra che si affacciava su un chiostro, al centro del quale vi era una statua, rappresentante un condottiero in armatura. All’interno della sala Lachert era a colloquio con un uomo in abiti militari. Aveva un braccio amputato. Balham lo riconobbe subito.

   « Tu sei Nicodhem, il capo dei banditi che attaccarono Pineswood vent’anni fa. Quindi sono tuo ospite, giusto?»

I due uomini si girarono nella sua direzione.

   « Balahm da Patmos, ricordo come se fosse ieri il nostro primo incontro. Non preoccuparti però, non sei qui per il mio spirito di vendetta, ma per un fine ben più importante. »

   « Molto bene allora, ditemi qual è il mio ruolo in questa storia. »

Lachert si avviò verso la porta.

   « C’è una cosa che devi vedere e che ti appartiene. Vieni. »

I tre si diressero verso la scala che conduceva alla stanza sotterranea. Gli occhi del drago, sul manico della falce, incominciarono a brillare di una spettrale luce azzurra.

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Capitolo 42
*** Genesi ***


42. Genesi

Nicodhem, Lachert e Balham arrivarono nella stanza, dove era custodita la falce. L’arma emanava la nebbia bianca e gli occhi del drago brillavano di una luce azzurra.

   «Cosa diavolo è questa cosa?»

Balham sentiva un’incredibile attrazione verso quel misterioso oggetto, ma ne era contemporaneamente spaventato.

   «Questo è il tuo simbiote. Gli antichi la chiamavano Sulun Hyanda, e si narra che mai si sia vista un arma simile. Essa appartiene al più potente degli stregoni. La figura del cupo mietitore è nata da quest’oggetto, poiché solo la Morte in persona si dice possa eguagliarne il potere.»

   «Ancora questa parola, “simbiote”, a cosa ti riferisci?»

«E’ normale che tu non sappia nulla, ne sei rimasto all’oscuro per tutta la vita a causa degli elfi e dei sovrani degli uomini, perché avevano paura del potere che avresti potuto avere, superiore al loro, se ne fossi entrato in possesso.»

   «Di cosa stai parlando?»

Nonostante l’argomento di discussione, non riusciva a distogliere lo sguardo dalla falce.

   «E’ giunto il momento che tu sappia chi sei veramente e qual è il tuo destino.»

Lachert cominciò a raccontare. Balham, ascoltando le parole dello stregone, rimase affascinato e turbato. Al termine del racconto un senso di oppressione lo assalì, come se un enorme peso gli fosse stato improvvisamente posato sulle spalle.    Riuscì finalmente a distogliere lo sguardo dall’arma e si rivolse allo stregone con voce rotta dall’emozione.

«E chi ti dice che sarei io, il suo proprietario? Come fai a esserne così sicuro?»

   «Lo sta dicendo lei stessa, e dovresti saperlo anche tu. O sbaglio?»

Aveva ragione, il “simbiote” lo stava chiamando. Stava cercando di resistere, ma non ci sarebbe riuscito a lungo.

   «E perché dovresti donarmi tutto questo potere? »

«Perché dici? Perché è giunta l’ora che noi stregoni torniamo ad assumere il ruolo che ci spetta e che ci è stato ingiustamente tolto.»

   Lachert incominciò a regolare la respirazione lentamente, senza farlo capire all’altro. Balham era sempre più agitato, adesso sudava copiosamente e ansimava, come in preda al panico.

   «Se è vero quello che dici, potrei diventare più potente di te con quest’oggetto. Chi ti dice che non lo userei per distruggerti? O per distruggere tutto quello che mi circonda? »

   «Certo, entrandone in possesso diventerai sicuramente più potente di me, e di chiunque altro. Ma ora non lo sei, e quindi posso fare questo. »

   Lo stregone appoggiò di colpo il bastone alla fronte del Maestro. La nebbia bianca, scaturita dalla lucertola, gli entrò negli occhi e nella bocca, senza che potesse fare nulla. Dopo qualche secondo l’effetto cessò e Lachert allontanò il bastone, aveva il fiato pesante e dovette appoggiarsi con entrambe le mani per non cadere. Balham sembrava inebetito, lo sguardo fisso e le pupille dilatate.

   «Ci sei riuscito?»

Nicodhem si era tenuto per tutto il tempo in disparte, era molto nervoso, ora si avvicinò incerto ai due stregoni.

   «Avevi dei dubbi? In questo momento è completamente in mio potere.»

«Ora sì, ma sei sicuro che una volta entrato in simbiosi con la falce rimanga sotto controllo?»

   «Sciocco uomo ignorante! Il simbiote è solo un tramite per il potere, finché la mente dell’ospite è sotto il mio controllo, anch’esso lo sarà.»

   «Spero tu abbia ragione…»

Lo stregone stava riprendendo il controllo del respiro. Il Maestro continuava a restare immobile, con le braccia penzolanti e lo sguardo vuoto.

   «E’ ora che il fato si compi, Balham, impugna la falce!»

Il Maestro, senza cambiare espressione, mosse un passo verso l’altare. Il bagliore degli occhi del drago si fece sempre più intenso. Allungò una mano e impugnò il manico. Istantaneamente, la nebbia bianca svanì, insieme al bagliore. Alzò l’arma dall’altare e la mise in posizione verticale. Nicodhem aveva un brutto presentimento, fece due passi indietro, fuori dalla stanza, verso le scale.

   «Il mio istinto dice che c’è qualcosa che non va.»

Lachert si girò verso di lui con espressione adirata.

   «E allora vattene, stupido uomo!»

Furono le ultime parole che pronunciò. La falce divenne improvvisamente incandescente ed emanò una tremenda vampata di fuoco che investì l’intera camera. Nichodem fu investito dallo spostamento d’aria e fu scaraventato verso le scale. Lachert, invece, fu investito in pieno e ridotto in cenere, insieme al suo bastone. L’uomo cercò di rialzarsi, sentiva la puzza di capelli bruciati, probabilmente erano i suoi. La scena che vide gli fece accapponare la pelle. Non c’era traccia dello stregone, se non un mucchio di cenere sparso a terra. I vestiti di Bahlam erano bruciati, ma lui era ancora in piedi e impugnava la falce. La pelle del suo corpo si era ricoperta di squame nere, le dita delle mani e dei piedi avevano dei lunghi artigli e dai capelli spuntavano due protuberanze, simili a corna. Gli dava ancora le spalle. Improvvisamente la falce sembrò rimpicciolirsi e, contemporaneamente, dalla schiena dell’essere spuntarono un paio di ali nere artigliate. In preda al panico, Nicodhem si alzò di scatto, ignorando il dolore a una gamba che probabilmente aveva sbattuto a terra nella caduta, e fuggì su per le scale. Fece appena a tempo ad uscire dalla cappella che questa esplose in una pioggia di pietre. Lo spostamento d’aria lo fece cadere nuovamente a terra. Girandosi da terra, lo vide comparire in mezzo alla polvere, sopra di quelle che erano, oramai, le rovine della costruzione che un tempo aveva occultato il suo potere. Il volto non aveva più nulla di umano, anch’esso ricoperto di squame nere. Gli occhi emanavano lo stesso bagliore azzurro della falce, dalla bocca, piegata in un sorriso tetro, spuntavano zanne acuminate mentre, dalla testa, due corna ricurve rendevano l’essere ancor più simile a un demone.

   «Finalmente libero! Grazie a quello stolto che ha piegato la volontà del mio ospite posso avere il pieno controllo del mio potere!»

   La voce era simile a quella di Balham, ma allo stesso tempo diversa. Nicodhem trovò la forza di parlare, rialzandosi a fatica da terra ed estraendo la spada.

   «Chi sei? E cosa hai intenzione di fare?»

L’essere, rimanendo fermo a mezz’aria, volse a lui lo sguardo. Sentì il sangue gelarsi nelle vene.

   «Sei tu il signore di questa città? Non sei della stirpe reale.»

«Il mio nome è Nicodhem, signore di Caputargilis. La stirpe di questo regno è morta da molto tempo. »

   «Quindi la stirpe è estinta. Peccato, avrei voluto essere io l’artefice della sua scomparsa. Non ho più nulla da fare qui, allora.»

   Una freccia, scoccata alle spalle dell’uomo, si diresse verso la fronte dell’essere. Prima di colpire il bersaglio esplose in una fontana di scintille luminose.

   «Signore! Si allontani!»

Un gruppo di soldati, gli stessi che lo avevano accompagnato nell’epurazione della nobiltà cittadina, erano giunti richiamati dal fragore dell’esplosione. Alla vista di quello che stava accadendo, avevano imbracciato spade e archi e si preparavano alla battaglia contro il misterioso nemico.

   «Andatevene! Scappate! Non è un nemico contro il quale possiate misurarvi!»

Senza prestare ascolto alle parole del suo comandante, uno dei soldati lo trascinò via, mentre gli altri si disposero a difesa della ritirata.

   «Non avevo nessuna intenzione di distruggervi, ma mi state dando la scusa per sgranchirmi le ossa, dopo tutti questi secoli.»

L’essere puntò il palmo di una mano artigliata verso i cavalieri, immediatamente, dal centro dello stesso, si propagò un bagliore giallo, dal quale si generò una lingua di luce, lunga fino al terreno. La terra tremò, i soldati cominciarono a perdere l’equilibrio, poi le pietre sulle quali poggiavano i piedi si staccarono dal suolo, facendoli volare in aria, per poi seppellirli, ricadendo. Il tutto durò non più di qualche secondo. Nicodhem fece a tempo a vedere la scena prima di essere trascinato all’interno del castello, tentò di urlare, ma il fiato non gli usciva. All’interno del castello, i Dieber di Lachert erano raccolti in una stanza. Alla vista del comandante, uno di loro si avvicinò.

   «Cosa sta succedendo la fuori? Dov’è il maestro?»

Nicodhem stava cercando di riprendere il controllo dei nervi, ma non era semplice. Avevano risvegliato un demone che ora si era rivoltato contro di loro. I suoi fedeli soldati, compagni da anni, erano appena stati spazzati via come foglie.

   «Il vostro maestro è stato ridotto in polvere dal mostro che ha voluto risvegliare. Ora siamo tutti in pericolo.»

«Quindi è morto. Il resto non sono problemi nostri. Sempre che non vogliate essere voi a pagare per i nostri servigi.»

   Mercenari, la specie peggiore del mondo. Servi del denaro e senza una ragione di vita. Nicodhem provò disgusto per quegli uomini.

   «Allora andatevene, questo non è più posto per voi.»

Senza aggiungere altro, se ne andarono. Tutti tranne uno. Il comandante se ne accorse e ne rimase stupito.

   «E tu? Non sperare che cambi idea solo perché sei rimasto da solo, non mi servono soldati prezzolati, per quanto abili.»

L’uomo si tolse la maschera e il cappuccio. Era un giovane, avrà avuto sui vent’anni, con capelli biondissimi e occhi neri, il suo volto aveva qualcosa di familiare.

   «Quanto è grave la situazione?»

Nicodhem lesse sincera preoccupazione nella sua voce.

   «Non lo so, ma ho capito che quel mostro non può essere lasciato libero di agire. Il suo potere è enorme e il suo animo è nero. Mi sono lasciato abbindolare da Lachert, era convinto di poterlo manovrare a suo piacimento. Ma a te cosa importa?»

   «Sono un Dieber ma mio padre è Lucièn, tenente di Caputargilis. Mi ha insegnato cosa sia il dovere e quando sia necessario mettere da parte i propri interessi per il bene comune. Se ha bisogno del mio braccio, sono disposto a offrirvelo. Il mio nome è Lucius.»

   Il comandante trattenne un sussulto. Lucièn era il soldato che aveva scagliato la freccia al mostro. Era perito sotto i massi con i suoi compagni, qualche istante prima.

   «Ho capito Lucius. Ti ringrazio. Temo però, se ho compreso le parole del racconto di Lachert, che solo un altro stregone possa essere in grado di sconfiggerlo. Se solo sapessimo dove trovarlo…»

   Il giovane si illuminò a quelle parole.

«Io so, dove trovarlo!»

   Nicodhem lo guardò con gli occhi spalancati.

«Cosa?!»

   «Quando abbiamo prelevato Balham da Pineswood, il maestro Lachert ha detto che con lui c’era un altro stregone.»

«Bene, Lucius. Allora va e conducilo qui, sperando che sia veramente chi ci può aiutare. Ti affido questa missione, in nome di tuo padre.»

   «Parto immediatamente, si fidi di me.»

Il giovane si rimise maschera e cappuccio e si diresse verso la porta.

   «Lucius…»

«Mio padre è morto. Lo so.»

   Uscì di corsa. Fuori dal castello, incominciavano a sentirsi rumori di battaglia. Altri soldati erano accorsi, ma il comandante sapeva benissimo che sarebbero stati spazzati via. Andò nella sala del trono e attese.


Sulun Hyanda = Lama delle anime

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Capitolo 43
*** Shayra ***


43. Shayra

 

La bambina distesa sulla panca singhiozzava, con il viso rigato dalle lacrime e la bocca piegata in una smorfia di dolore.

   «Shhh…non piangere, adesso passa. Porta solo un pochino di pazienza. »

   Shayra, in ginocchio affianco a lei, le mise una mano sulla guancia sorridendole dolcemente e le asciugò le lacrime con le dita, cercando di calmarla.

   «Facciamo un gioco? Per quanto riesci a trattenere il fiato? »

La bambina la guardò un po’ incuriosita.

   «Almeno dieci secondi! »

«Ne sei sicura? Va bene, allora adesso tu chiudi gli occhi e trattieni il fiato, io inizio a contare. Se riesci a resistere per più di dieci secondi, avrai un premio, va bene?  »

   La bambina annuì divertita, fece un grosso respiro a bocca aperta e poi chiuse gli occhi, gonfiando le guancie e chiudendo le labbra.

   «Uno… »

Shayra appoggiò la mano destra sopra la profonda ferita sulla gamba della bambina.

   «Due… »

La mano incominciò a brillare con una tenue luce azzurra.

   «Tre… »

Una leggera nebbia luminescente si levò dalla mano.

   «Quattro…cinque…sei…»

La bambina cominciò sentire un piacevole calore, mentre il dolore diminuiva.

   «Sette…otto…nove…»

Shayra tolse la mano, la ferita era scomparsa, al suo posto solo una leggera cicatrice.

   «Dieci…undici…»

La bambina riprese a respirare con uno sbuffo, con un gridolino soffocato si mise a sedere alzando le braccine in segno di vittoria.

   «Ho vinto! Ho vinto!»

Shayra la imitò, alzando anche lei le braccia.

   «Bravissima!»

Dopodiché, la abbracciò ridendo.

   «Che cosa ho vinto?»

La donna le sussurrò all’orecchio.

   «Vai in cucina, sopra al tavolo c’è un cestino coperto da un panno. Sotto il panno ci sono dei biscotti al cioccolato appena sfornati, prendine pure quanti ne vuoi.»

   «Evviva!!»

La bimba saltò giù dalla panca e scomparve correndo verso la cucina.

   «Grazie, ero così preoccupata…»

La madre della bambina, commossa nel vederla correre, strinse la mano destra di Shayra tra le sue. 

   «Non preoccuparti, era una brutta ferita, hai fatto bene a portarla qui. Ma dimmi, il nostro dottore cosa aveva detto?»

   La donna si rabbuiò a quella domanda.

«Quell’incompetente voleva addirittura amputargli la gamba! Diceva che non sarebbe riuscita a guarire completamente e rischiava di contrarre la cancrena…mi sono sentita morire.»

   A quel ricordo scoppiò in lacrime.  

«Ha solo cinque anni...non avrei potuto vederla in quello stato....»

   Shayra la strinse a se.

«Il Dottor  Nardion non è un incompetente, le avrebbe salvato la vita. Purtroppo però avrebbe seguito quello che la medicina gli ha insegnato e, a volte, la medicina deve scendere a compromessi per il bene del paziente. E' doloroso, ma a volte è l'unica strada. »

   La donna si scostò da lei, quasi vergognandosi della sua reazione.

«Ma tu l'hai salvata. E ha ancora entrambe le gambe. »

   «In questo caso, fortunatamente sì, eravamo ancora in tempo. Io posso guarire dalle ferite, ma ci sono cose che non posso curare con le mie mani. Perciò, non perdere fiducia nella scienza dei medici, ti prego.»

   La donna strinse ancora le sue mani, poi si congedò insieme alla figlia, che nel frattempo si era riempita la bocca con i biscotti. Uscendo dalla porta, le fece un grande sorriso sporco di pezzi di cioccolata e le urlò:

   «Ciao Shayra! Salutami tanto Lind e il Maestro!»

«Ma certo tesoro!»

   Non appena le due furono uscite, il sorriso scomparve. Era in ansia per i suoi uomini, oramai avrebbero dovuto essere di ritorno, non era mai successo che ritardassero tanto. Nonostante avesse molta fiducia in loro, aveva un brutto presentimento che le rodeva dentro da qualche giorno e quel ritardo cominciava a preoccuparla. Decise di dedicarsi alla cucina, come faceva sempre quando aveva bisogno di distrarsi, anche perché notò che la bimba aveva quasi ripulito il cestino dei biscotti.

   «Ah però, la piccola cavalletta!»

Esclamò sorridendo nuovamente tra se e se, dopo aver alzato il panno. Si rimboccò le maniche e si preparò a fare del nuovo impasto. Dopo qualche minuto, senti bussare alla porta.

   «E’ aperto, sono in cucina!»

Il dottor Nardion comparve sulla soglia, era un uomo dall’aspetto imponente, con una folta barba bruna e due vispi occhi dello stesso colore. Più che grasso era “grosso” e il suo aspetto portava spesso i bambini del paese a chiamarlo “Dottor Orso Bruno”, anche per la sua tendenza a portare abiti in pendant con barba e capigliatura.

   «Buonasera Shayra, disturbo?»

La donna si girò, e alla vista dell’ospite sorrise in modo ironico.

   «Buonasera Bruno! Hai sentito odore di biscotti?»

L’uomo aggrottò le sopracciglia e sbuffò leggermente.

   «Non chiamarmi così, per favore!»

Shayra rise, si conoscevano da molti anni e lei si divertiva a prenderlo in giro con quel soprannome.

   «Va bene, va bene. Siediti qui e fammi compagnia, per scusarmi ti farò assaggiare la prima infornata, ok?»

   L’uomo prese una delle sedie che erano accostate al tavolo.

«Mi sembra il minimo…»

   Disse sedendosi. Rimase poi qualche minuto in silenzio osservando la donna lavorare e tirare la pasta dei biscotti, con aria assorta. Il sole del tramonto filtrava dalla finestra illuminandola con una luce calda, creando intorno alla sua figura un alone soffuso. Non c’era uomo, in tutto il paese, che fosse immune alla sua bellezza, e lui non era da meno. Ovviamente, nessuno era così matto da cercare di mettersi tra lei e Balham, anche perché sarebbe stato inutile. Il rapporto tra loro due era sempre stato quanto di più solido una coppia potesse sognare. Si conoscevano da sempre, entrambi orfani, avevano vissuto a stretto contatto fin da bambini, essendo stati ospiti del vecchio orfanotrofio del paese; lo stesso che andò distrutto la notte in cui fu trovato il piccolo Lind.  I due dimostrarono fin da subito una grande affinità l’uno per l’altra. Se preso singolarmente il piccolo Balham era irrequieto e scontroso, quando era con Shayra diventava l’esatto opposto. Non perdeva un secondo per aiutarla in qualsiasi cosa, e finiva spesso nei guai azzuffandosi con gli altri orfani per difenderla dai loro scherzi. Lei, invece, era sempre gentile e sorridente con tutti, ma in modo particolare con lui. Quando le chiedevano come mai stesse sempre insieme a quel teppistello, rispondeva sempre in modo candido e diretto: “Perché lui è come me”, non dando mai altre spiegazioni. Con il passare degli anni, la gente cominciò a capire cosa intendesse dire. Entrambi dimostrarono di avere capacità fuori dal comune. Un giorno, durante una delle tante risse nelle quali era coinvolto, Balham scagliò inconsciamente un incantesimo contro il suo avversario, quasi uccidendolo. Shayra, che aveva assistito alla scena, si precipitò sul ferito, riuscendo a curarlo con le sue mani. Da quel giorno i due furono guardati sempre più con sospetto e paura dagli altri orfani e dal personale stesso dell’orfanotrofio. Durante quel periodo, il loro rapporto crebbe. Era soli e dovevano convivere con quei “poteri” ai quali non davano una spiegazione. Passato qualche tempo, furono entrambi adottati da uno straniero misterioso che li portò via dal paese, senza lasciare detto dove li avrebbe portati. Tornarono dopo qualche anno, cresciuti e sposati. Il dottore era uno degli orfani che si azzuffava con Bahlam ai tempi dell’orfanotrofio, in realtà lo faceva per gelosia, poiché negli ultimi anni la bellezza di Shayra cominciava già a fare le prime vittime e lui era stato tra quelle.

   «Allora dottore, non credo tu sia venuto qua solo per vedermi fare i biscotti, giusto?»

   L’uomo riemerse dai suoi pensieri.

«No, hai ragione. Ero venuto per vedere come stava la figlia della signora Mhirr, ma vedendola sgambettare fuori dal tuo giardino come se niente fosse, penso di avere già la risposta. »

   «Era messa male, poverina. Fortunatamente la cancrena non aveva ancora incominciato a fare danni e sono riuscita a sistemarla. Mancava veramente poco però.»

   Il dottore sospirò.

«Ti ringrazio, mi sarebbe costato veramente tanto doverla amputare. Avrei dovuto mandarla subito da te…le avrei risparmiato due giorni di sofferenze, povera creatura.»

   Shayra gli mise una mano sulla spalla sorridendogli.

«Non devi rimproverarti di nulla, hai fatto il tuo lavoro.»

   L’uomo mise una mano sulla sua.

«Se avessi le tue capacità, il mio lavoro sarebbe molto più facile…»

   La donna ritrasse la mano di scatto, allontanandosi di un passo e mettendo le mani sui fianchi, assumendo un'espressione severa.

   «Adesso ho capito! Sei qui per cercare di convincermi per l’ennesima volta di venire a lavorare con te! Quante volte te lo devo dire? Non posso stare tutto il giorno nel tuo ambulatorio, ho una famiglia cui pensare! Te li puoi scordare i biscotti!»

   Il dottore assunse un’aria affranta.

«Ma...Shayra, Lind oramai è bello grande mi pare, e Balham può cavarsela da solo per qualche ora al giorno, pensaci. Mi saresti di grande aiuto. A proposito...ma non sono ancora tornati? »

   La donna abbassò lo sguardo.

«No. E a dire la verità comincio a essere un po' preoccupata... »

   Nardion si alzò dalla sedia.

«Non devi esserlo, vedrai che saranno qui a momenti. Avranno solo esagerato con gli allenamenti e si saranno fermati un po' di più a riposare. Comuque, se hai bisogno di qualsiasi cosa, sai dove trovarmi. Ora vado, buonanotte. »

   «Grazie. Buonanotte Dottore. »

Lo osservò dalla finestra allontanarsi nel vialetto del giardino, sospirò sorridendo leggermente, mise dei biscotti in un fagottino e lo seguì fuori. Appena aprì la porta di casa, si accorse che c’era qualcosa di strano. Il dottore si stava accasciando a terra e l’aria era stranamente silenziosa.

   «Nardion! »

Corse verso di lui, facendo cadere il fagotto di biscotti che si sparsero al suolo. Quando fu a pochi passi dall’uomo, un brivido lungo la schiena la fece fermare. C’era qualcuno alle sue spalle.

   «Ciao Shayra.»

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Capitolo 44
*** Ealonor ***


43. Ealonor

«Chi è stato, Elohen?!» chiese Eromas, quasi ringhiando dalla rabbia, mentre Deliah si stava già chinando sul corpo di Alomas per controllarne la ferita.

  «Non lo so…l’ho visto inoltrarsi tra gli alberi sguainando la spada, dopo un po’ ho avuto un brutto presentimento e sono corsa giù. L’ho trovato a terra…» rispose la ragazza tra le lacrime. Poi strinse il braccio a Deliah e la supplicò:

   «Ti prego, salvalo!»

La donna le sorrise in modo rassicurante.

  «Non preoccuparti. Chi l’ha colpito non aveva intenzione di uccidere. La ferita non è mortale, ma bisogna fermare l’emorragia».

   Detto questo, appoggiò la mano destra sull’addome del ragazzo. Il bagliore dell’incantesimo illuminò la notte e, dopo qualche istante, il volto di Alomas riprese colore.

   «Ecco fatto, ora ha solo bisogno di riposare: ha perso molto sangue ed è debole».

Poi si rivolse a Terodas che, nel frattempo, li aveva raggiunti con le guardie.

   «Portatelo nelle sue stanze, per favore».

L’elfo annuì con deferenza e ordinò ai suoi uomini di portare il giovane nel castello. Eromas mise una mano sulla spalla della sorella e la ringraziò per quello che aveva appena fatto. Deliah gli sorrise accarezzandogli la mano e poi si dedicò a Elohen che, nonostante dovesse essere sollevata per le condizioni del fratello, sembrava ancora molto scossa.

   «Va tutto bene ora, non preoccuparti, se la caverà. Probabilmente gli hai salvato la vita: se avessimo tardato di qualche minuto, sarebbe potuto essere troppo tardi, per cui devi esserne felice».

   Elohen si gettò tra le sue braccia singhiozzando, la tensione di quei minuti era stata troppa per essere smaltita in pochi istanti e aveva bisogno di sfogarsi. Deliah la strinse a se accarezzandole i capelli per tranquillizzarla. Si era resa conto da molto tempo che in lei Elohen ricercava la figura materna che le mancava e, dopotutto, le era grata per questo: facendole da madre putativa riusciva a colmare, almeno in parte, l’enorme vuoto interiore causato dalla lontananza di Sephyr. Si aiutavano a vicenda e questo non le dispiaceva, per cui non si tirava mai indietro in queste situazioni. Eromas guardò con affetto le due donne per qualche istante, poi si rivolse a Terodas con tono deciso.

   «Voglio che troviate chi è stato, immediatamente! E lo voglio vivo».

Terodas annuì e impartì subito le istruzioni ai suoi uomini, uno di loro si lanciò di corsa verso la caserma delle guardie, mentre gli altri cominciarono a dividersi per iniziare le ricerche. Terodas fu l’ultimo a congedarsi, ma prima che potesse allontanarsi, Eromas lo fermò.

   «Fai attenzione, credo di aver riconosciuto quel genere di ferita e, se ho ragione, abbiamo a che fare con un grosso problema».

   L’elfo guardò il re negli occhi, sostenendone lo sguardo.

«I Dieber. Sì, l’ho pensato anch’io, Maestà. Non si preoccupi, staremo attenti. C’è altro?»

   Eromas riflettè per un secondo.

«Notizie di Anilion e dei suoi?»

   «No Maestà, non ancora».

«Maledizione…Va bene, vai. Tienimi informato.»

   Terodas s’inchinò e si congedò per raggiungere i suoi uomini. Il re lo seguì con lo sguardo, mentre rifletteva sulla situazione. Troppe cose stavano accadendo in breve tempo, non era un buon segno. Cosa ci faceva un Dieber ad Aglarfuin? Non avevano mai osato introdursi in città senza permesso. Chi poteva averlo mandato? E per fare cosa? Sicuramente non per assassinare Alomas: come aveva detto Deliah, l’aggressore non voleva ucciderlo, ma solo metterlo fuori gioco. Comportamento tipico dei Dieber: uccidevano solo il bersaglio designato, chi si trovava malauguratamente sulla loro strada aveva, almeno, la fortuna di avere la possibilità di sopravvivere. Come suo figlio. Non per questo avrebbe perdonato il responsabile.

Quando Corgh riprese conoscenza, si accorse immediatamente di trovarsi su di un carro. Aveva mani e piedi legati e la testa gli faceva male. L’ultima cosa che ricordava era di essere uscito dalla stanza delle guardie, dove aveva lasciato Jofiah, per seguire Terodas e i suoi. Era ancora buio, quindi non doveva essere passato molto tempo. Era disteso su di un fianco e il suo naso premeva contro la parete di legno del cassone, che stava avanzando abbastanza lentamente. Da quella posizione, non riusciva a capire se erano ancora nel fitto della foresta o altrove. Provò a mettersi seduto e, faticando un po’ fatica a causa dell’impossibilità di usare le mani, legate dietro la schiena, ci riuscì solo dopo qualche tentativo. La testa cominciò a girargli, la vista gli si annebbiò e un conato di vomito lo colse.

   “Maledizione…ma quanto forte mi ha colpito?” pensò, cercando di non rigurgitarsi addosso. Sentì un liquido colargli lungo la fronte, per poi gocciolare sui pantaloni. Sangue.

   “Aspetta che ti metta le mani addosso…”

«Ti consiglio di startene tranquillo e goderti il viaggio».

   La voce, profonda e quasi sussurrata, proveniva dalla cassetta del conducente, alle sue spalle. Il tono delle parole era assolutamente tranquillo e privo di qualsiasi emozione, denotando la grande sicurezza di chi le aveva pronunciate: sapeva benissimo che la sua “preda” non aveva nessuna possibilità di liberarsi e fuggire e, anche se ci fosse riuscita, non sarebbe andata lontano. Corgh capì da dove proveniva tanta sicurezza quando si rese conto da cosa era immobilizzato, non vedeva i polsi, ma le sue caviglie erano imprigionate da un robusto giogo di metallo, assicurato con un grosso lucchetto. Pensare di romperlo con la sola forza era pura follia. Cercò di ragionare in fretta sulla situazione: per il momento non aveva alcuna possibilità di fuggire, per cui avrebbe aspettato che arrivassero a destinazione. Nel frattempo, avrebbe studiato il suo rapitore per trovare qualcosa da usare a suo vantaggio.

   Primo: era riuscito a entrare e uscire da Aglarfuin dandola a bere alle guardie di Terodas, per cui non era un bandito da quattro soldi.

   Secondo: lo aveva trascinato da solo su quel carro facendolo uscire dal castello per cui, quanto a forza fisica, non doveva scherzare.

  Terzo: a giudicare da come lo aveva immobilizzato, non era un rapitore improvvisato, anzi, sapeva molto bene come assicurarsi contro eventuali fughe.

   In pratica, era nei guai fino al collo. E aveva anche una mezza idea di chi potesse essere il mandante…

«Quanto ti ha promesso quella carogna del Capitano Sheryan, per questo lavoretto?» chiese alla fine, per averne la conferma.

Nel frattempo era riuscito a girarsi nella direzione di marcia. L’uomo, curvo sulle redini del carro, aveva le spalle più grosse che avesse mai visto. Vestito con una tuta nera attillata, attraverso la quale si scorgeva la muscolatura definita e possente, era a capo scoperto. I corti capelli erano neri e brizzolati. Sugli avambracci e sugli stinchi portava delle protezioni di leggera corazza nera. Corgh riconobbe quella divisa e trattenne un moto di sorpresa. L’uomo sembrava non voler rispondere alla sua domanda. Dopo qualche istante l’oste esplose in una risata e, forse sorpreso da quella reazione, girò leggermente la testa verso di lui.

   «Devo sentirmi onorato! Addirittura un Dieber…»

«Fai silenzio, se ci tieni ad arrivare vivo dal tuo amico».

   Sembrava irritato più dalle parole che dal comportamento sprezzante, e Corgh se ne accorse.

«E comunque non sono un Dieber. Non più».

   Il risveglio di Tatzel fu più dolce di quello di Corgh. Aprì gli occhi e capì subito di essere disteso su di un morbido materasso. Accanto a lui c’era la sua spada. L’ultima cosa che ricordava era che si era lanciato a testa bassa contro il Rakhoon e poi aveva visto un lampo accecante. Il letto a baldacchino era ornato da motivi floreali, intagliati nel legno e dipinti d’oro. Le lenzuola erano lisce e profumate. Nonostante la sorpresa, si abbandonò per qualche istante a quella sensazione, non aveva mai provato un giaciglio così comodo: viveva nella caserma di Aglarfuin da quando era nato e i letti destinati ai militari erano di tutt’altra fattura. Lenzuola comprese. La stanza era avvolta nella penombra, la debole luce proveniva da una finestra coperta da una pesante tenda, dalla quale filtravano lingue di luce. Doveva esser giorno inoltrato. Provò a muovere braccia e gambe: sentiva dolore, ma non sembrava avere niente di rotto. Inspirò profondamente e si concentrò. L’incantesimo cominciò a illuminare il suo corpo e le lenzuola. Dopo qualche secondo, si mise a sedere sbuffando e massaggiandosi la testa. Senza voltarsi, decise di presentarsi alla figura seduta in disparte.

   «Il mio nome è Tatzel Wurm, ufficiale delle guardie Angwi di Aglarfuin. Posso sapere tu chi sei?»

La figura, seduta su un divanetto nell’angolo in ombra della stanza, si alzò e si avvicinò al letto lentamente, finché la luce svelò i suoi dettagli. La giovane donna era vestita con un leggero abito celeste di una qualche stoffa lucente che le fasciava l’esile ma formoso corpo, terminando in una morbida gonna. Lunghissimi capelli biondi le cadevano dalle spalle, incorniciando un viso dai lineamenti dolci e allo stesso tempo decisi. Qualcosa, in lei, gli ricordava la Sacerdotessa Deliah. Gli occhi erano due perle nere e luminose, fisse nei suoi, specchio di un carattere fiero e sicuro.

   «Mi chiamo Ealonor, principessa di Celestia. Piacere di conoscerti, Tatzel Wurm».

Tatzel non batté ciglio a quella rivelazione, si limitò a fare un cenno con il capo, senza distogliere lo sguardo. Dopodiché, si alzò dal letto non curandosi minimamente del fatto che fosse completamente nudo: aveva scorto i suoi abiti accuratamente ripiegati ai piedi del letto, accanto all’armatura, e si apprestò a indossarli. Ealonor abbassò lo sguardo, arrossendo leggermente, ma senza scomporsi. Tatzel le lanciò uno sguardo sorridendo a mezza bocca. Mettere in imbarazzo le persone era tra i suoi divertimenti preferiti, anche se, ai compagni e in particolare al maestro Anilion, non era mai piaciuto. Finì di vestirsi e di indossare l’armatura senza parlare. Impugnò la spada e la infilò nel fodero dietro la schiena, dopodiché si rivolse nuovamente a Ealonor, che era rimasta compostamente in silenzio, ad attendere.

   «Bene, Principessa. Ti ringrazio per l’ospitalità. Ora però vorrei essere informato su quello che è successo. Il Maestro Anilion è qui? Che fine ha fatto il Rakhoon?».

   Ealonor sembrò perdere un po’ della sua sicurezza e un’ombra passò sul suo volto.

«Se ora vuoi seguirmi, avrai tutte le risposte che chiedi».

   Al che, sì voltò e uscì dalla stanza. Tatzel la osservò per un secondo, prima di seguirla. Si accorse che c’era uno strano odore, nell’aria.

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Capitolo 45
*** Chiarimenti ***


44. Chiarimenti


   Lind stava osservando le macerie della città, illuminate dalla debole luce dell’alba, da una delle terrazze del castello. L’odore di legno bruciato era penetrante, nonostante una piacevole brezza primaverile avesse spazzato via la maggior parte del fumo che ricopriva le strade. C’era anche un altro odore nell’aria, dolciastro, ma non riusciva a capirne la provenienza. La moltitudine di corvi silenziosi che aveva stanziato per giorni tra le macerie era notevolmente diminuita e, soprattutto, non era più silenziosa. I rapaci, ora, si comportavano naturalmente, gracchiando e volando da un rudere all’altro alla ricerca di cibo.       Forse, non risentivano più della presenza del negromante. Lo stato d’animo del ragazzo era combattuto, non riusciva a capire come avrebbe dovuto sentirsi dopo le rivelazioni di Boid.

   Cos’avrebbe dovuto fare adesso?

Dare la caccia al Maestro? E poi? Anche se lo avesse trovato, cosa avrebbe potuto fare?

   Non sarebbe mai stato in grado di combatterlo. Non poteva.

Avrebbe dovuto trovare un modo per farlo tornare quello di prima.

   Non riusciva comunque a spiegarsi come avesse potuto lasciarsi trasformare in un mostro senza fare nulla, l’aveva sempre considerato quasi invincibile. Evidentemente si era sbagliato. La rabbia esplose improvvisamente dentro di lui.

   «Brutto…imbecille!»

Accompagnò l’urlo sbattendo il pugno sul corrimano di pietra della balaustra. Un rumore inconfondibile, seguito da un dolore acuto che si propagò dalla mano, al braccio, fino alla spalla: aveva esagerato e si era rotto il mignolo.

   «Maledizione…»

Trattenne il fiato dal dolore per qualche secondo, dopodiché si concentrò e inspirò profondamente. La mano fratturata fu avvolta dalla nebbia evanescente e luminosa dell’incantesimo d’acqua. Era la prima volta che doveva curarsi una frattura e si sorprese della sensazione che stava provando nel sentire l’osso che si saldava sotto la pelle. Non fu molto piacevole, a dire la verità, però funzionò. Dopo pochi secondi il dolore svanì completamente, lasciando il posto a un leggero intorpidimento.    Sbuffò, massaggiandosi con l’altra mano, aprendo e chiudendo le dita. La presenza, che aveva distintamente avvertito alle sue spalle da qualche secondo, parlò.

   «Il solito incapace! Non sei neanche in grado di imprecare, senza combinare guai».

C’era qualcosa di strano nella voce della ragazza. Non era il suo solito tono sarcastico con il quale lo rimproverava sempre, una nota malinconica accompagnava le sue parole.

   «Lo so, hai ragione. Sono un disastro».

Dicendo questo, si girò verso di lei. La luce dell’alba le illuminava il viso facendole brillare gli occhi, nei quali lesse la stessa malinconia che aveva percepito nella voce, mentre la brezza le scompigliava i capelli. Aveva le braccia incrociate sotto il seno come per difendersi dal freddo, ma l’aria era tiepida, per cui interpretò quella posa come un altro segno del suo stato d’animo.    Nonostante questo, gli sorrideva dolcemente. Guardandola, riscoprendo ancora per una volta la sua bellezza, provò per un secondo qualcosa di simile alle vertigini.

   “Allora è questo, quello che si dice far giare la testa a un uomo…” pensò, ricambiando il suo sorriso.

Le tese la mano.

   «Vieni qua».

Gli si avvicinò senza sciogliere le braccia e gli posò la fronte sul petto. Lui le passò un braccio attorno alle spalle e l’altro attorno alla vita, stringendola piano. Non aveva la minima idea di cosa dire. Chiederle semplicemente “cosa c’è che non va?” sarebbe stato scontato e stupido. Era chiaro che c’era molto che non andava, per cui preferì rimanere in silenzio per qualche secondo. Per la seconda volta nell’arco di poche ore, la vedeva in quello stato. Se non altro, questa volta, non era completamente colpa sua e, fortunatamente, non lo aveva picchiato. Improvvisamente, lei alzò gli occhi verso i suoi e assunse un’espressione seria, quasi accigliata.

   «Tu mi ami?»

Si sarebbe aspettato di tutto, in quel momento, ma quella domanda lo spiazzò. Dopo un istante, nel quale assunse involontariamente un’espressione sorpresa, sostenne il suo sguardo e rispose sinceramente. In seguito, ripensandoci, si sorprese del suo autocontrollo in questa circostanza.

   «Non potrei amare nessun’altra, come amo te».

Era convinto di meritare un sorriso, un bacio, una dimostrazione di felicità a quelle parole e quindi si stava già crogiolando in quei pensieri, quando invece lei abbassò lo sguardo e si divincolò dal suo abbraccio, dandogli le spalle.

   «Sephyr…»

«Ovvio, sono il tuo “Sigillo”».

   Ora la voce era quasi rotta dal pianto.

Lui capì e addolcì la voce.

   «Hai paura che i miei sentimenti non siano sinceri, ma in qualche modo “manipolati” da quella che, a quanto pare, è la nostra natura, giusto?»

   Dicendo questo, le mise una mano sulla spalla, ma lei si scostò di scatto appena ne avvertì il tocco e si voltò verso di lui. Una lacrima ora le rigava la guancia destra e i suoi occhi erano di fuoco.

   «E tu no? Non ti sei chiesto la stessa cosa? Non t’importa che io sia sincera con te?»

Le sorrise e le asciugò la lacrima con le dita.

   «Fino a dieci minuti fa non sapevamo nemmeno cosa fossero i Rakhoon, i Sigilli e tutto il resto. Io so, quello che provo per te e non m’importa che si stato scritto o meno nel mio sangue dalla natura».

   Le mise le mani intorno alla vita e la avvicinò dolcemente a se, mantenendo lo sguardo fisso nei suoi occhi. Lei non si oppose.

   «Io so, che dal primo momento che ti ho vista, ho desiderato starti accanto.

Che quando mi sei vicina sono in pace con me stesso.

Che quando sei in pericolo, lo stomaco mi si chiude e mi manca il fiato.

E che quando sono tra le tue braccia, il resto del mondo potrebbe sparire».

   Un sorriso comparve sul volto della ragazza, ma fu subito ricacciato indietro.

«Anche per me è così…ma come possiamo essere sicuri che tutto questo sia reale? Le persone dovrebbero essere libere di decidere chi amare».

  Detto questo, abbassò il volto per distogliere lo sguardo dal suo. Lui le sollevò piano il mento con la mano.

«Amare non è libertà: non siamo noi a decidere chi amare, lo facciamo e basta. E io, lo faccio».

   A quest’affermazione, lo guardò leggermente perplessa.

«Ehm...nel senso…che ti amo».

   Lei finalmente gli sorrise, e quello fu un sorriso di sincera felicità, oltre che a essere il più bello che avesse mai ricevuto in vita sua. Gli gettò le braccia al collo e lo baciò. Quel bacio rimase per sempre stampato nella sua mente: fu il punto di riferimento per tutti i successivi, il capolavoro, il bacio perfetto. Nessun altro riuscì mai a eguagliarlo. Purtroppo però, furono interrotti nell’esatto istante in cui entrambi avevano deciso di continuare il discorso in una camera. Boid comparve sulla terrazza e senza tante scuse e giri di parole, li invitò a prepararsi: dovevano mettersi in viaggio. Sephyr sbuffò, ancora avvinghiata a lui.

   «Uff…ultimamente siamo interrotti troppo spesso».

«Già…e la cosa comincia a infastidirmi» rispose lui quasi ringhiando.

   Gli stampò un bacio sulla guancia ridendo e si girò verso lo stregone, che nel frattempo era stato raggiunto da Lucius. Il ragazzo non indossava la divisa nera da Dieber, ma un’uniforme bianca e scarlatta con le insegne della città. Sephyr gli sorrise.

   «Lucius, giusto? Come ti senti?»

Il giovane chinò il capo in segno di rispetto e rispose con tono serio.

   «Sto bene grazie a lei. Non vi avevo ancora ringraziato, mi dispiace molto».

«In realtà è Lind che devi ringraziare, io non avevo idea di essere in grado di farlo. Comunque sono felice di vederti in piedi».

   Lucius, allora, si rivolse al ragazzo con la stessa deferenza.

«La ringrazio molto. Vi devo la vita. A entrambi».

   «Non preoccuparti. Non so perché, ma non mi andava di vederti morire, per cui non serve che ci ringrazi» rispose lui in tono amichevole. Poi si rivolse a Boid.

   «Va bene Boid, perché tanta fretta? Dove dobbiamo andare? Cos’hai in mente?».

«E’ tempo di incontrare il Maestro Anilion».

   «E chi è il Maestro Anilion?».

«E’ lo Stregone che mi ha insegnato quello che so, nonché Alto Consigliere di Aglarfuin e il più saggio tra gli Angwi viventi».

   «Addirittura…va bene, e adesso dov’è?».

Boid lo fulminò con lo sguardo.

   «Ti converrà avere più rispetto quando saremo al suo cospetto, ti avverto. Comunque, ora è con un altro degli Angwi a Celestia, dove ci dirigeremo noi tra poco».

   


   «E così non ci sai dire nulla di più?»

Eromas stentava a trattenere la rabbia e il povero Jofiah, sebbene sapesse benissimo di non avere colpe, ne era spaventato.     Non era abituato ad avere a che fare con quel mondo e con quelle situazioni. Il pericolo maggiore che aveva dovuto affrontare in vita sua, fino ad allora, era stato quando era quasi finito in un burrone con il suo carro. Il sentiero che stava percorrendo aveva ceduto a causa delle piogge dei giorni precedenti e si era ritrovato in bilico sullo strapiombo senza poter fare nulla per ore, fino a quando una compagnia di mercanti che passava di lì era riuscita a trarlo in salvo. Ora era invischiato in una situazione che lo aveva già portato a essere rinchiuso in carcere e quasi ucciso da un misterioso aggressore che aveva, oltretutto, rapito Corgh. Inoltre, ora era sotto interrogatorio da un re elfico che aveva tutta l’aria di essere ad un passo dallo scatenare una guerra.

   «Lascialo in pace, fratello. Non vedi che non si è ancora ripreso?»

Deliah, nonostante fosse molto turbata dalla scomparsa del marito, si era accorta dello stato d’animo del pover’uomo e cercò di correre in suo aiuto. Lo sguardo riconoscente di Jofiah la fece sorridere.

   «Maledizione! Com’è possibile che sia riuscito a entrare nel palazzo e a uscirne con Corghyan senza che nessuno lo vedesse!»

   Terodas chinò il capo.

«Non lo so, mio signore, non me lo spiego neanche io. Solo una persona ne sarebbe stata capace, ma a quanto ne sappiamo è scomparsa da molto tempo».

   Eromas aveva voltato le spalle ai presenti e stava guardando distrattamente fuori da una delle finestre cercando di ritrovare il controllo dei nervi. Era anche lui giunto a quella riflessione, ma cercava di combattere quel pensiero. Se fosse stato veramente lui, avrebbe voluto dire che, per Corgh, le speranze erano veramente poche.

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