The world through her violet eyes di monalisasmile (/viewuser.php?uid=9740)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** - ***
Capitolo 2: *** - ***
Capitolo 3: *** - ***
Capitolo 4: *** - ***
Capitolo 5: *** - ***
Capitolo 6: *** - ***
Capitolo 7: *** - ***
Capitolo 8: *** - ***
Capitolo 9: *** - ***
Capitolo 10: *** - ***
Capitolo 11: *** - ***
Capitolo 12: *** - ***
Capitolo 13: *** - ***
Capitolo 14: *** - ***
Capitolo 15: *** - ***
Capitolo 16: *** - ***
Capitolo 17: *** - ***
Capitolo 18: *** - ***
Capitolo 19: *** - ***
Capitolo 20: *** - ***
Capitolo 21: *** - ***
Capitolo 22: *** - ***
Capitolo 23: *** - ***
Capitolo 24: *** - ***
Capitolo 25: *** - ***
Capitolo 1 *** - ***
Premessa
Questa
storia è cominciata diversi anni fa (a giudicare dalla
cronologia del mio
computer nel 2005) e tra alti e bassi è arrivata fino a oggi
inconclusa.
Da allora
sono cresciuta, sia come persona sia come scrittrice, ma rileggendo le
vecchie
pagine ho deciso di non riscriverle, limitandomi ad apportare piccole
modifiche
là dove ho riscontrato errori grammaticali madornali o
imprecisioni per quanto
riguarda i contenuti. Credo sia interessante per me quanto per i
lettori
seguire l’evolversi del mio stile di scrittura
così come del carattere dei
personaggi, che a distanza di anni vengono delineati con tratti a mio
avviso
più marcati, ogni tanti tormentati e, forse, per questo
più umani.
La
narrazione comincia in toni leggeri, dallo stile alle vicende che
vengono
descritte: leggerete di nuovi incontri, di battibecchi e amori
adolescenziali,
di amicizie e piccoli dispiaceri, emozioni che condizioneranno le
giornate e si
porranno al centro delle loro vite. Almeno inizialmente.
Come nella
vita spesso accade, arriverà il momento in cui i personaggi
verranno posti di
fronte a problemi maggiori e difficili decisioni. Se fino al giorno
prima le
loro menti erano totalmente assorbite da “futili” e
“puerili” preoccupazioni ed
erano sicuri di avere tutto il tempo del mondo per raggiungere i loro
obiettivi, d’improvviso tutto parrà sfuggirgli tra
le dita. Gli eventi si
faranno incalzanti e spesso imprevedibili. Più volte si
sentiranno impotenti di
fronte a una realtà indecifrabile e troppo crudele per
essere affrontata.
Ma andiamo
per ordine e diamo inizio a questa storia.
Capitolo
1
Era una
calda giornata di fine estate: presto la scuola sarebbe ricominciata,
portando
con sé l’autunno, oltre all’inevitabile
marea di compiti in classe.
Un
diciottenne camminava spedito per le strade della città.
Taichi
sospirò, portandosi le braccia dietro il capo: e dire che
c’erano persone a cui
la scuola piaceva!
“
Certo
che il mondo è pieno di gente strana!”
Si poteva
dire che quel ragazzo fosse cambiato negli ultimi anni, ma molti
avrebbero
ribattuto che era sempre lo stesso. Di sicuro era cresciuto in altezza,
il suo
corpo si era fatto più robusto e il suo viso cominciava ad
assumere le fattezze
di un uomo adulto. Tuttavia i suoi occhi nocciola avevano lo stesso
sguardo allegro
e spensierato e i capelli castani restavano perennemente in disordine.
Eppure
erano proprio la sua schiettezza e il suo aspetto ancora un
po’ infantile a
conquistare i cuori delle persone.
Taichi
Kamiya non aveva mai avuto nemici. Lui era come quel caldo sole di fine
estate
che splendeva sulla città e la sua forza e determinazione
gli erano valsi,
ormai diversi anni addietro, la digipietra del Coraggio.
Probabilmente
era per questo che il suo migliore amico era Yamato. Infatti, se il
primo era
l’astro del giorno, l’altro poteva essere
paragonato alla luna. Ricordava bene
come al loro primo incontro non andassero d’accordo e i
litigi che avevano scatenato.
La verità era che non sapevano come comportarsi,
riconoscendo nell’altro un
proprio pari eppure entrambi troppo orgogliosi per ammetterlo.
Avevano
caratteri profondamente diversi: uno socievole e sempre al centro
dell’attenzione, pronto a gettarsi con ardore nelle
discussioni, l’altro schivo
e solitario, sempre attento a studiare le mosse
dell’avversario per poi
colpirlo con gelide parole. Al contrario di Taichi, Yamato aveva
incontrato
molte difficoltà nell’accettare la sua digipietra,
simbolo dell’Amicizia, dato
che si sentiva assolutamente inadeguato a tale ruolo. Ciò
nonostante, presto
era parso evidente che non vi era stato alcun errore: il ragazzo si era
dimostrato pronto a sostenere chi avesse bisogno di aiuto, come un
pilastro
solido e sicuro, forte della sua sagacia e lealtà. Testardo
e caparbio come
pochi, non aveva mai gettato la spugna, rivelandosi il compagno ideale
del
prescelto del Coraggio.
Successivamente
Taichi aveva dovuto ammettere a se stesso di aver sempre ammirato le
doti di
quel ragazzo, uno dei pochi che in determinate occasioni fosse riuscito
a
contenerlo e farlo ragionare, insegnandogli a mantenere la calma.
Quando
frequentavano le medie, Yamato entrò a far parte di una
band, nel ruolo di
cantante e musicista. Non fu difficile per loro ottenere il successo e
presto
il gruppo divenne tra i più conosciuti della regione. Il
ragazzo era diventato
una stella nascente della musica e poteva vantare uno stuolo di fans
sfegatate
da far invidia agli idol. Taichi invece decise di impegnarsi in campo
sportivo,
conquistando il titolo di capitano della squadra di calcio della scuola
e conducendo
i compagni a importanti vittorie.
Poi
c’era
stata la questione di Sora: per la prima volta dopo tanto tempo i due
si erano
trovati in competizione. Tuttavia erano troppo legati per mandare
all’aria la
loro amicizia e il bruno aveva preferito ritirarsi, vista anche la
predilezione
della ragazza per l’amico. Certo non era stato facile e ne
aveva sofferto, ma
al contempo pensava di aver fatto la scelta giusta: Sora era una
ragazza
speciale e meritava di avere vicino una persona eccezionale come
Yamato. Così
si era trovato a sorridere: i suoi migliori amici si erano messi
insieme, cosa
poteva volere di più?
Però
tra
poco tutto ciò sarebbe cambiato. Una volta preso il diploma,
si sarebbero
separati, per percorrere ciascuno la propria strada. Sora avrebbe
frequentato
l’Accademia di Belle Arti e a Yamato era stato consigliato di
iscriversi a
Ingegneria. E allora che ne sarebbe stato di loro? Che ne sarebbe stato
di LUI?
Si sentiva
più che mai confuso: c’erano molte cose che
avrebbe voluto fare nella vita e ancor
di più erano quelle di cui non voleva neppure sentir
parlare. Ma qualunque
sarebbe stata la sua scelta, sapeva che non avrebbe potuto sopportare
di
perdere i suoi più cari amici. Ne aveva parlato con Yamato e
lui aveva
confessato di provare gli stessi dubbi. Eppure in quel momento il suo
tono era
pacato come sempre, senza lasciar tradire la minima agitazione.
Perché non
riusciva a esternare anche lui la stessa calma? Di sicuro era uno dei
motivi
per cui il prescelto dell’Amicizia era riuscito a conquistare
il cuore di Sora.
Scosse
vigorosamente la testa, scacciando quei pensieri. Non era mai stato
tanto
insicuro in vita sua e la situazione non gli piaceva per niente.
Intanto
era arrivato in vista del condominio in cui abitava Yamato. Un edificio
in mattoni
rossi a più piani, con i fiori ai balconi, le aiuole curate
e un cortile
spazioso che veniva usato come parcheggio per gli ospiti. Lui e il
padre vi si
erano trasferiti da alcuni anni, decidendo che l’appartamento
di prima non era
adatto a due uomini quasi sempre assenti. L’abitazione si
trovava abbastanza
vicino al centro per consentire ad uno di andare a lavorare e
all’altro di
raggiungere la scuola. Un quartiere pulito e, a giudizio di Sora,
dotato di
un’eleganza semplice e sobria. Insomma, il luogo adatto a
quella coppia di lupi
solitari.
Sorrise e
attraversò il cancello d’ingresso, registrando
subito un’anomalia. Che ci
facevano quei grossi camion nel cortile? Si avvicinò e lesse
il nome di una
ditta di traslochi. Curioso, osservò
un
gruppo di uomini scaricare degli scatoloni imballati e trasportarli
all’interno. Li seguì, desideroso di vedere chi
fossero i nuovi vicini del suo migliore
amico.
Con
stupore si ritrovò al quarto piano, di fronte alla porta
numero 18, sul cui
campanello si poteva leggere “Ishida”. Il gruppetto
compì una piccola svolta e
si infilò nell’apertura accanto, per poi girare a
destra e scomparire dalla sua
vista. Allungando il collo il ragazzo osservò il 17 in
ottone infisso sul
legno della porta e lesse il nome scritto con cura sulla targhetta:
Kitamura.
Si
voltò
verso l’abitazione dell’amico, che formava un
angolo retto con la precedente,
ma anziché suonare il campanello si ritrovò a
curiosare oltre quell’uscio
sconosciuto: la curiosità aveva vinto ancora una volta.
L’interno
pareva accogliente, per quanto lo possa essere una casa in via di
sistemazione
vista dall’ingresso. Le pareti erano state dipinte in un
color panna molto
delicato e una cassettiera in pregiato legno scuro faceva la sua bella
mostra
su un lato del corridoio, sovrastata da uno specchio contornato dal
medesimo
materiale. Un’unica cornice era stata appesa e racchiudeva
l’immagine di una
città di notte, illuminata da luci multicolori e sovrastata
da un cielo
spruzzato di stelle. Aggrottando le sopracciglia si
avvicinò, notando un
piccolo particolare: una figura sottile si stagliava contro la luna
splendente,
sulla cima di un alto palazzo.
-
Ti
piace? –
-
Sì
– rispose lui automaticamente, per poi sussultare e voltarsi.
Davanti a
lui c’era una ragazza che sorrideva gentilmente. Taichi si
ritrovò ad
arrossire: era davvero…bella. Carina sarebbe stato
inappropriato: la carnagione
era candida, il viso dai tratti regolari e fini. I capelli lunghi e
legati in
una coda ricadevano morbidi su una spalla, la frangia poggiata da un
lato
ombreggiava la fronte e alcune ciocche erano sfuggite alla pettinatura.
Aveva
legato una bandana sul capo e indossava una t-shirt e un paio di
pantaloncini.
Tra le braccia teneva una delle scatole marroni che aveva visto nei
camion. Le
sue iridi erano…blu? No, si corresse, viola. Un colore
magnetico e seducente
dalle varie sfaccettature, risaltato dal contrasto con la pelle chiara.
Si
sorprese, però, nello scorgere in quello sguardo vellutato
che osservava la
fotografia un velo di…malinconia? Ma fu solo un istante.
Appena lei riportò
l’attenzione sul prescelto quella sensazione sparì.
-
Sei
un mio vicino? – chiese la ragazza.
-
No,
sono solo venuto a trovare un amico. –
-
Meno
male – fece lei – vivere con gente tanto curiosa
alla porta accanto sarebbe insopportabile.
–
Lui
arrossì fino alle orecchie.
-
Scusami
se sono entrato senza permesso, non volevo essere invadente, lo giuro
–
balbettò – è solo che… -
-
Eri
curioso – terminò l’altra.
Il ragazzo
abbassò il capo: aveva ragione e si vergognava di esser
stato tanto maleducato.
-
La
tua è stata violazione di proprietà privata, lo
sai ,vero? –
Lui si
fece piccolo piccolo.
-
Il
minimo che tu possa fare ora come ora – continuò
la sconosciuta con un sorriso
– è di terminare il giro, non ti pare? –
-
Eh?
– esclamò allibito.
-
Hai
sentito bene, però sarà meglio spostarci di qua o
rischiamo di intralciare il
lavoro della ditta di trasloco! –
-
Ma
non sei arrabbiata? –
-
Lo
sarò se non mi dai una mano con questa scatola! –
sbottò, cosicché l’altro si
affrettò a liberarla dal peso.
-
Questa
per ora mettila qua, ti faccio fare un giro. – e
avanzò, seguita dal ragazzo.
Poi parve
ricordare qualcosa e si voltò, porgendogli la mano.
-
Comunque
piacere, mi chiamo Rumiko Kitamura. –
-
Taichi
Kamija. –
-
Bene
Taichi, posso chiamarti per nome, vero? – gli sorrise
– Ora avrò l’onore di
farti da guida nel mio piccolo regno, anche se non ho finito di
sistemare
tutto. –
-
Non
vorrei disturbare… -
-
Ma
quale disturbo? – ribatté energicamente
– Ti sembra forse di aver interrotto
un’attività piacevole? – fece in tono
ironico.
Taichi
lanciò una breve occhiata agli scatoloni e alla squadra che
usciva per prendere
il prossimo carico.
-
Direi
proprio di no. – commentò.
-
Esattamente.
Noto con piacere che oltre a curioso sei anche perspicace. –
lo incalzò.
-
Faccio
del mio meglio. – le sorrise.
-
Bene.
– si limitò a dire lei, per poi procedere a
mostrargli l’appartamento.
Il
digiprescelto sospirò, sorridendo interiormente. Aveva
proprio ragione: ce
n’era di gente strana in giro. Però quella ragazza
gli piaceva. Pensando alla
ramanzina che avrebbe ricevuto da Yamato per il suo ritardo, si accinse
a
seguirla.
Le stanze
nel complesso non avevano nulla di speciale: spaziose e illuminate dal
sole,
avevano ampie finestre e gli scaffali dei mobili ancora vuoti. Divani e
poltrone erano ancora avvolti nei teli e qua e là erano
stati ammucchiate le
scatole da imballaggio. Sembrava che solo le cornici fossero state
sistemate:
sulle pareti erano visibili spiagge e città caotiche,
ritratte soprattutto di
notte o al crepuscolo. Di per sé poteva sembrare un insieme
caotico, ma la
disposizione accurata conferiva al tutto un aspetto armonioso. Taichi
aveva la
sensazione di trovarsi in una galleria d’arte.
-
Mio
padre è un fotografo molto bravo –
spiegò Rumiko, come se gli avesse letto nel
pensiero – e predilige i paesaggi. –
Lui si
girò a guardarla e rimase paralizzato nel ritrovarsi davanti
due ragazze dallo
stesso viso, sebbene le espressioni fossero diverse.
-
Non
solo. – riuscì a dire, indicando la cornice alle
spalle di lei.
L’immagine
ritraeva Rumiko. La sua posa era naturale, la bocca leggermente
dischiusa, il
bel viso rilassato e i capelli sciolti sulle spalle. Sorrideva,
enigmatica,
come se custodisse un segreto, noto a lei solo.
-
Nel
tempo libero gli piace farmi delle foto e alcune le appendiamo in casa,
tutto
qua – disse con semplicità – Quelle sui
paesaggi invece le usa nel suo lavoro.
Sai, riviste, book, mostre e via dicendo. –
-
È
davvero bravo. – commentò lui.
-
Lo
so – sorrise orgogliosa.
Poi gli
fece fare un piccolo tour del resto dell’abitazione. Ovunque
erano state appese
delle foto e tutte le volte il ragazzo rimaneva meravigliato dalla
maestria di
quell’uomo. Sembrava in grado di trasformare qualunque
soggetto in un’opera
d’arte in grado di catturare l’attenzione
dell’osservatore. Ma non con
l’arroganza di molti fotografi contemporanei: immortalava i
paesaggi e le
persone sulla pellicola con delicatezza, come se intendesse solo
sfiorarli.
Rumiko si
dimostrava un’ottima guida, mostrandogli i risultati migliori
e intrattenendolo
conversando. Era una persona interessante e i suo modi lasciavano
intendere il
suo carattere risoluto. Diretta e sicura di sé, aveva un
sorriso splendido.
Però non riusciva ad allontanare dalla mente
l’immagine del suo sguardo mentre
osservava la fotografia appesa all’ingresso.
-
Bene,
abbiamo terminato il giro turistico. Posso offrirti qualcosa da bere?
–
-
Veramente…
- tentò, ricordandosi dell’amico.
-
Dai,
così dissetiamo anche quei poveri disgraziati che hanno
sollevato pesi tutto il
giorno! –
-
Beh,
quello potresti farlo anche da sola, non ti pare? –
-
Scherzi?!
Vorresti lasciarmi in balia di quattro uomini grandi e grossi e che per
di più
puzzano di sudore da far schifo? – protestò,
scandalizzata.
-
D’accordo,
vedo che con te non si può discutere! – rise lui.
-
Ti
sbagli, si può eccome, solo che non conviene. – e
gli sorrise con aria scaltra.
Poi si
affacciò al balcone e invitò i lavoratori a bere
qualcosa. Taichi pensò a cosa
dovevano aver provato a esser richiamati da uno strillo proveniente dal
quarto
piano e a ciò di cui avrebbero parlato i vicini per i
prossimi giorni. Mentre
la ragazza si recava in cucina a prender le bevande il giovane scosse
la testa,
sorridendo: Rumiko Kitamura era una persona davvero degna di
attenzione.
Ormai si
era quasi fatta sera e Taichi camminava sulla strada di casa.
Nonostante quel
pomeriggio non fosse cominciato nel migliore dei modi, si era
divertito. Rumiko
l’aveva invitato a tornare a trovarla quando
l’abitazione fosse stata sistemata
e lui aveva afferrato al volo l’invito. Quella ragazza gli
piaceva e non vedeva
l’ora di rivederla. Sperava che potessero diventare amici, in
modo da riuscire
a comprenderla un po’ meglio. E, naturalmente,
l’avrebbe presentata anche agli
altri, a Yamato e…
“Porca
miseria, mi sono scordato di passare da lui! Domani sarà
furioso…”
Un brivido
gli attraversò la schiena al solo pensiero. Poi
sollevò le spalle: se non altro
il giorno dopo era domenica e avrebbe potuto dileguarsi facilmente.
Lunedì…beh,
lunedì avrebbe pregato tutti i santi!
Si
fermò
davanti a quella cornice, osservandone la fotografia. Si
accigliò: quell’immagine
non avrebbe dovuto trovarsi lì, esposta allo sguardo di
chiunque.
“E
soprattutto non al mio”.
La
sfilò
dall’attacco e la portò nell’altra
stanza, intenzionata a buttarla nella
pattumiera. Poi si fermò e, senza più guardarla,
entrò nella propria camera da
letto. Aprì un cassetto ancora vuoto e la fece scivolare al
suo interno. Quando
lo richiuse, le sue mani tremavano.
Continua…
N.d.a.
Volevo
solo chiarire un paio di cose, prima di procedere: innanzitutto
l’età di
Miyako. Non essendo sicura ho preferito metterla nello stesso anno di
Daisuke e
gli altri, ma se ho sbagliato vi prego di portare pazienza!
Inoltre ho
utilizzato il modello scolastico giapponese, cioè 5 anni di
medie e 3 di superiori.
Però l’anno scolastico è lo stesso che
abbiamo noi, con le vacanze in inverno
ed estate e la scuola che finisce a giugno! Altrimenti avrei dovuto
inserire le
vacanze di primavera (di nuovo non ero sicura del periodo) e poi il
periodo
esami (ennesimo problema!)
Dunque,
ricapitolando:
-
Taichi,
Yamato e Sora (18) frequentano il terzo anno delle superiori
-
Koushiro
(17) secondo delle superiori
-
Jiou
(19) primo di università
-
Daisuke,
Hikari, Takeru, Miyako e Ken (15) ultimo delle medie
-
Iori
(13) terzo delle medie.
Infine
avviso che mi vedrò costretta a inventare lì dove
ho alcune lacune, come nel
caso del nome del padre di Yamato. Chiedo venia anche per questo!
Monalisasmile
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Capitolo 2 *** - ***
Capitolo 2
Yamato
Ishida si chiuse la porta alle spalle, furibondo: aveva aspettato
Taichi tutto
il pomeriggio e lui non si era fatto vedere. Ma appena
l’avesse visto gliene avrebbe
dette di cotte e di crude. Insomma, poteva almeno avvertire se non
aveva intenzione
di venire, no?
-
Yamato,
metti da parte quel tuo muso lungo, per favore. Non vorrai spaventare i
nostri
nuovi vicini? –
Il
padre di Yamato era un uomo alto sulla cinquantina, capelli castani e
viso dai
tratti marcati. Chiunque avesse visto la coppia avrebbe affermato che
il
ragazzo doveva aver preso tutto dalla madre. Eppure il loro legame era
saldo e
non litigavano quasi mai: forse perché entrambi
impegnatissimi, uno con la
scuola e la band e l’altro con gli studi televisivi, oppure
perché avevano un
carattere molto simile.
-
Onestamente
non vedo tutta questa fretta di fare le presentazioni. –
-
Non
te l’ho detto? – fece l’uomo.
Dall’espressione
del figlio capì di non averne neppure accennato. Ed ecco che
emergeva il
principale difetto del signor Ishida: a momenti era terribilmente
distratto,
tanto che colui che si occupava della casa era sempre stato il ragazzo,
anziché
il genitore.
-
Kitamura
è uno dei fotografi più famosi di tutto il
Giappone, a mio avviso il migliore
in circolazione. Mi è capitato di vedere una mostra delle
sue opere: davvero
stupefacente! Ha una tecnica sopraffina e il suo stile è
ineguagliabile! –
-
Non
ti avevo mai sentito lodare tanto il lavoro di qualcuno.-
commentò, sarcastico.
L’altro
sollevò le spalle: a quanto pare il figlio era proprio di
malumore.
-
Beh,
te ne accorgerai tu stesso se ci mostrerà qualcosa.
– dettò ciò suonò il
campanello.
La
porta si aprì e sulla soglia si presentò un uomo
sorridente. Yamato giudicò che
doveva avere su per giù l’età di suo
padre e come lui era alto e dai capelli
castani, qua e la striati di grigio. Però la somiglianza
finiva lì: la persona
che avevano davanti aveva un fisico non troppo muscoloso, il viso dai
lineamenti delicati coperto da un po’ di barba e caldi occhi
nocciola. Sembrava
un attore di Hollywood e sorrideva amabilmente. Il signor Ishida fece
le
presentazioni, velatamente imbarazzato: i convenevoli non erano il suo
forte.
-
Ehm,
buona sera signor Kitamura, ci scusi se la disturbiamo a
quest’ora di sera.
Siamo i suoi nuovi vicini e pensavamo di fare un salto per presentarci.
Mi
chiamo Eichi Ishida e questo è mio figlio Yamato. –
-
Piacere.-
salutò educatamente il giovane.
-
Piacere
mio, il mio nome è Hiroshi Kitamura. Mi fa piacere che siate
venuti. Prego,
entrate. –
-
Non
vorremmo disturbare… - protestò
l’altro, piuttosto debolmente a giudizio del
ragazzo.
-
Nessun
disturbo! Sarei felice che vi fermaste per un drink o un the. Immagino
abbiate
già cenato.–
Detto
questo li fece entrare.
-
Mi
scuso per il momentaneo disordine, ma non c’è
ancora stato modo di mettere
tutto in ordine. –
-
Si
figuri – commentò Yamato – noi ci siamo
trasferiti quattro anni fa e abbiamo
ancora un paio di scatoloni nascosti nell’armadio! –
Il
loro ospite sorrise divertito.
-
Beh,
quand’è
così…vorrà dire che non
dovrò preoccuparmi di invitarvi a cena qualche
volta! –
Entrarono
nel salotto e Kitamura non fece quasi in tempo ad aprire bocca, che il
padre di
Yamato si era già avvicinato a una fotografia incorniciata e
appesa alla
parete.
-
Vedo
che le interessano i miei lavori. – commentò il
fotografo.
-
Non
sono un esperto, ma ammetto di aver visto una sua mostra… e
di esserne rimasto
affascinato. –
-
La
ringrazio del complimento. –
Poi
si voltò.
-
E
tu che ne pensi, Yamato? –
Evidentemente,
pensò il ragazzo, il fotografo era abituato ad interagire
col pubblico. Perciò
si sforzò di mostrare per le sue opere lo stesso educato
interesse che l’ospite
aveva manifestato nei suoi confronti. Si avvicinò e
osservò l’immagine con
attenzione. Raffigurava una distesa d’acqua grigia dai
riflessi smorzati, che
suscitava una sensazione di freddo. Su tutto incombeva un cielo fatto
di nuvole
bigie. Il sole era una debole macchia di luce lontana.
-
È
bella. – commentò.
-
E
a cosa ti fa pensare? – lo incalzò
l’altro, gentilmente.
-
Suppongo
che rappresenti un mare d’inverno e che il suo intento fosse
di trasmettere
sensazioni fredde, forse la solitudine. Tuttavia non è a
questo che mi fa
pensare… piuttosto mi dà una sensazione di pace e
piacevole silenzio. –
Kitamura
parve soddisfatto, perché gli sorrise. Suo padre si
guardò attorno, percorrendo
la stanza con gli occhi, fino a che il suo sguardo si fermò.
-
Mi
scusi, ma quelle fotografie… -
Si
avvicinarono e qualcosa in Yamato fremette.
-
I
paesaggi sono il mio lavoro – spiegò, osservando
la figura con un’espressione
d’affetto sul volto – ma nel tempo libero, anche se
poco, amo ritrarre il mio
soggetto preferito. –
Il
giovane, dal canto suo, distolse lo sguardo, turbato:
quell’immagine aveva
scosso qualcosa dentro di lui. Istintivamente si ritrovò a
parlare.
-
Preferisco
le foto dei paesaggi. Sono più sinceri e…
immacolati. –
-
Cosa
vorresti insinuare?! –
Yamato
si voltò e trattenne a stento la sorpresa nel ritrovarsi di
fronte il soggetto
che stava contemplando sulla parete giusto un attimo prima.
-
Vi
presento la mia musa ispiratrice, nonché mia figlia. Rumiko,
questi sono… -
-
Non
mi interessa chi sono. – sbottò lei alterata
– Voglio sapere che intendeva dire
questo arrogante. –
-
Sono
sicuro che il nostro vicino non… -
-
Ah,
è pure un vicino! Quando si dice la fortuna…
– commentò.
-
Se
te la prendi tanto è perché sai che ho ragione.
–
-
C-
cos’hai detto, scusa?! –
-
Yamato…
- tentò il padre, ma il ragazzo lo ignorò.
-
Io
ho solo dato la mia opinione, non ti conosco perciò non vi
è nulla di
personale. – disse, e in parte era vero.
-
Mi
stai dando dell’ipocrita?! – ora era davvero livida.
-
Non
ho detto questo – le fece notare.
-
Ma
è quel che pensavi, non è vero?! –
-
E
chi lo sa? –
Lei
tremò per la rabbia repressa, il bel volto leggermente
arrossato. Poi parve
avere un’illuminazione.
-
Ora
ho capito chi sei: ti chiami Yamato Ishida, vero? Il cantante.
–
-
Devo
dedurne che sei una mia fan? – la pizzicò lui.
-
Non
t’illudere – sorrise lei, malignamente –
Ho solo sentito parlare di te in TV
qualche tempo fa. –
-
Sembra
che ti sia rimasto impresso bene nella mente. – le sorrise,
provocatorio.
-
Yamato,
smettila di… -
-
Non
tu, ma la tua canzone. Ricordo che
ho
pensato “non capisco come abbia potuto raggiungere un simile
successo con
simile musica ”.
– disse con un velo
di disgusto.
-
Che
vuoi dire? – si fece serio.
-
Che
i gusti musicali devono essere davvero bassi da queste parti, se
c’è qualcuno che
apprezza la tua musica. –
-
E
tu che ne sai? Sei forse un critico musicale? –
-
Ti
assicuro che ho viaggiato abbastanza da farmi un buon bagaglio
culturale e
musicale. Ed è ovvio che la tua popolarità deriva
solo dal tuo bel faccino,
visto che di musica ci capisci ben poco. –
-
Rumiko!
– la richiamò il padre, ma lei continuò
imperterrita.
-
Pensi
che comporre significa solo mettere insieme due note che rendano il
pezzo
orecchiabile e scribacchiare una canzoncina piena di frasi fatte? Non
avessi
parlato della nascita del gruppo avrei pensato fossi un idol uscito da
un
programma spazzatura. –
-
Ma
senti chi parla: miss “nel stamparmi un sorrisetto carino in
faccia e prendere
in giro il mondo intero sono una professionista”! –
-
Non
accetto simili offese da uno che fa lo spaccone con musica da schifo!
–
-
Se
non altro non indosso una maschera di ipocrisia che nemmeno il solvente
per
unghie potrebbe levarmi dalla faccia! –
-
Invece
dicono che agli sbruffoni la levi in un secondo! Ne ho una boccetta in
bagno,
proviamo?! –
-
Ora
basta Rumiko! –
-
Anche
tu Yamato! Vi state comportando come bambini! –
Nel
sentirsi riprendere in quel modo, i ragazzi si bloccarono
d’improvviso, ancora
scossi per la litigata. Lei si morse le labbra, sentendosi umiliata, si
voltò e
si chiuse nella sua stanza. Subito dopo fu il turno
dell’altro abbandonare il
salotto, le mascelle contratte, chiudendosi il portone numero 17 alle
spalle.
Rimasti soli, i due genitori sospirarono.
-
Mi
spiace, signor Ishida. Mia figlia è una brava ragazza,
glielo assicuro, ma
quando perde le staffe non c’è modo di fermarla.
–
-
Non
si deve scusare. Yamato non avrebbe dovuto provocarla in quel modo.
–
-
Beh,
diciamo che è stato uno scambio di idee
piuttosto… -
-
Assordante.
–
Sospirarono
ancora e poi si salutarono, concordando che l’invito a cena
era da rimandare a
quando le acque si fossero calmate.
Yamato era seduto per terra, nella penombra della sua stanza. Non
ricordava
quando era stata l’ultima volta che si era infuriato a tal
punto.
Chi diavolo credeva di essere quella
per parlargli in quel modo? E poi che cavolo andava a sparare sentenze,
lei che di musica non ci capiva di
sicuro più della sua professoressa di fisica? Lei,
che non era altro che una ragazzina viziata e ipocrita, in
grado di mentire perfino all’obiettivo di suo padre.
Guardando quell’immagine, infatti, il ragazzo si era accorto
della falsità di
quel sorriso. Bastava osservare lo sguardo. Si dice che gli occhi sono
lo
specchio dell’anima: ebbene, quelle iridi viola gli erano
parse… sporche, come
se fossero state contaminate da qualcosa. Quando se l’era
trovata davanti, poi,
ne aveva avuto la conferma: la rabbia che aveva mostrato non era altro
che un
modo per dissimulare il turbamento che le sue parole avevano generato.
Una via
di fuga.
Storse la bocca. Si era fatto insultare da una bugiarda e per di
più codarda.
Aveva permesso che criticasse la musica, la sua
musica. Ma se era la guerra che voleva, allora l’avrebbe
accontentata.
Serrò i pugni fino a far sbiancare le nocche. Non avrebbe
dovuto farlo
arrabbiare.
Rumiko era stesa sul letto, il viso rivolto al soffitto.
Come si era permesso di dirle quelle cose? L’aveva giudicata,
esprimendo il suo
pensiero sulla base di una fotografia. Non ne aveva alcun diritto. Non
la
conosceva, non sapeva niente, niente!
Una morsa le attanagliò il cuore. Era già
abbastanza doloroso così convivere
con quei ricordi, ingoiando ogni lacrima, figuriamoci se ci si metteva
di mezzo
un vicino presuntuoso e sputa sentenze. L’aveva guardata
dall’alto in basso, l’aveva
umiliata davanti a suo padre… e per questo lo odiava. Per
questo, e perché sapeva
che aveva ragione, le suggerì una vocina petulante nella sua
testa.
Però anche lei aveva detto il vero: la sua musica era
orecchiabile, nulla di
più. Non era in grado di suscitare alcuna emozione e per
questo era vuota. Lei
glielo aveva detto e lui era saltato su, poiché quello
doveva essere il suo
punto debole: l’incapacità di scuotere i cuori
della gente attraverso le sue canzoni.
C’era chi non ne era in grado e chi aveva paura
di farlo, temendo che i propri pensieri e le proprie emozioni
non venissero
accettati. Lui, evidentemente, apparteneva alla seconda categoria,
altrimenti
non avrebbe reagito a quel modo. Ricordava ancora di esser rimasta
piuttosto
contrariata dalla sua esecuzione, del tutto impersonale, ma aveva
supposto che
si trattasse di una persona estremamente arida e non fosse capace di
molto di
più. Invece il giovane che si era trovata di fronte le era
sembrato l’esatto
opposto: un tumulto di emozioni, anche se a suo avviso estremamente
caotiche.
L’aveva accusata di essere falsa, lui
che ogni volta che saliva sul palco e strimpellava qualche canzoncina
melensa
abbindolava centinaia di ragazze!
Sorrise, senza allegria. Una cosa era certa: quello schifoso sbruffone,
sputa
sentenze, ingannatore di masse non l’avrebbe passata liscia!
Non avrebbe avuto
pace, finché non l’avesse implorata di perdonarlo
per le offese che le aveva
rivolto. Magari l’avrebbe costretto a comporre una squallida
canzoncina di
scuse!
Ridacchiò.
In fondo l’aveva detto anche a Taichi: con era una buona idea
mettersi contro
di lei.
Continua…
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Capitolo 3 *** - ***
Capitolo 3
Quella mattina Taichi dovette raccogliere tutto il suo coraggio per
entrare in
classe e strisciare fino agli ultimi banchi.
Una ragazza lo guardò sorpresa. Aveva capelli ramati che le
sfioravano le
spalle e dolci occhi del medesimo colore. Il suo corpo era ben
proporzionato,
degno di una giocatrice di tennis e come tale portava la gonna corta
con
disinvoltura. Era molto carina.
Il ragazzo si portò un dito alla bocca, con fare
supplichevole, e lei sorrise
divertita. Lui proseguì, ma un attimo dopo venne ripreso da
una voce che gli
fece accapponare la pelle.
-
Alzati,
Tai. Non avrai veramente pensato
di
passare inosservato in quel modo, vero? –
-
Ehm,
buongiorno Yamato, bella giornata, non trovi? –
-
Affatto.
– rispose l’altro.
“Accidenti,
è già di malumore!” pensò
Taichi, maledicendo la sua sfortuna “Ora mi mangia,
ora mi mangia!”
-
Ecco…
per l’altro giorno… ehm…mi dispiace di
non essere venuto! – piagnucolò tutto
d’un fiato – Lo so, avrei dovuto avvertirti, ma
è successo un imprevisto e… -
-
D’accordo,
non parliamone più. –
Silenzio
stupito.
-
Sicuro
di stare bene? – strabuzzò gli occhi Taichi.
-
Per
niente. – disse l’altro, atono.
-
Ma
che gli prende? Sora, tu ne sai qualcosa?–
bisbigliò rivolto alla ragazza.
-
Non
ne ho idea. – rispose, facendo spallucce.
Evidentemente
Yamato aveva sentito la conversazione, perché
sbottò:
-
Ieri
sera ho conosciuto la persona più odiosa di questo mondo!
–
-
Davvero?
– fece il bruno – Anch’io
ieri… - ma non terminò la frase perché
venne
richiamato dall’insegnante.
-
Taichi
Kamiya! Nel caso non te ne fossi reso conto, il tuo insegnante ha
appena fatto
il suo ingresso. Se entro tre secondi non ti vedo seduto al tuo posto
potrei
passare la prossima ora in piedi. Nel corridoio. Di fronte alla porta
del
preside. –
In
un lampo il prescelto del Coraggio prese posto di fianco
all’amico.
-
Bene.
– gli lanciò un’occhiata di ammonimento
il professore – Ora vorrei presentarvi
una nuova studentessa. Si è trasferita nella nostra
città solo pochi giorni fa
e frequenterà l’ultimo anno insieme a voi. Vi
prego di non farmi fare brutta
figura. Entri pure, signorina Kitamura. –
La
porta si aprì e una figurina fece il suo ingresso. Indossava
la divisa verde,
composta da gilet, camicetta, cravatta rossa e gonna a pieghe. La
camicia
bianca a maniche corte lasciava scoperte le braccia candide e il
corpetto le
fasciava delicatamente il busto. Ai piedi calzava le scarpette nere che
utilizzavano tutte le allieve, abbinate a un paio di calzini candidi.
-
Piacere
di conoscervi! Mi chiamo Rumiko Kitamura e spero che andremo
d’accordo! –
recitò come da copione, sorridendo amabilmente.
-
Non
ci posso credere. – borbottò fra sé
Yamato, per poi sobbalzare quando il
prescelto del Coraggio scattò in piedi come una molla.
-
Rumiko!
–
-
Oh,
Taichi, sono felice di rivederti!.–
-
Anch’io,
ma non sapevo che ti fossi iscritta nella mia scuola. –
-
Per
forza non lo sapevi…visto che non te l’ho detto.
–
Qualcuno
sghignazzò e il ragazzo le sorrise gioioso, destando una
vena d’invidia in più
di un compagno. Dopo un’altra strigliata a Taichi, il
professore invitò la
ragazza a sedersi e lei si posizionò in prima fila,
nell’unico posto libero.
-
Quando
ti ho detto di non esser potuto venire per un imprevisto –
sussurrò a Yamato
una volta tornato a sedersi – mi riferivo a lei!
L’ho conosciuta ieri, pensa
che è una tua vicina di casa! È una fortuna che
sia venuta proprio in questa
scuola! Poi te la voglio presentare! –
-
Non
ce n’è bisogno. – disse il biondo con
una smorfia.
-
E
perché scusa? Non è il tuo tipo? –
-
Decisamente
no. –
Detto
ciò si girò dall’altra parte e non
spiccicò più parola per il resto
dell’ora.
“Grandioso!” pensò frustrato
“La mia peggior nemica ha conquistato il cuore del
mio miglior amico!”
Ma
aveva la spiacevole sensazione che i suoi guai fossero appena
cominciati.
Appena suonata la campanella del cambio d’ora, Taichi ne
approfittò per
avvicinarsi al banco della ragazza, sotto gli occhi stupiti, curiosi e
forse
anche un po’ invidiosi dei compagni.
-
Allora?
Come ti è sembrato il prof di filosofia? –
-
Soporifero.
– rispose soffocando uno sbadiglio – Si limita a
leggere i paragrafi del libro,
nessun commento, nessun dibattito… E dire che una volta
filosofia mi piaceva! –
-
Dici
sul serio? Accidenti, non ti facevo così studiosa!
–
-
Infatti
non lo sono. Però credo che sia una materia interessante, se
fatta come si
deve. –
-
La
penso allo stesso modo. – intervenne Sora.
-
Ah,
lei è Sora Takenouchi! –
-
Piacere!
–
-
Piacere
mio, Sora. Sei la sua…? –
-
No,
no! – si affrettò a smentire il giovane
– Lei sta con Yamato! –
-
Yamato?
– aggrottò la fronte.
-
Sì,
Yamato Ishida, il tuo vicino di casa. Forse vi siete già
incontrati… –
-
Sì,
ci siamo… incontrati. –
-
Ottimo,
allora non serve fare le presentazioni. Yamato, vieni qua un secondo!
– lo
chiamò.
Seppur
con riluttanza, il giovane li raggiunse, fermandosi davanti a lei con
le mani
affondate nelle tasche dei pantaloni.
-
Ciao
Yamato. – lo salutò, tranquilla – Mi fa davvero
piacere che siamo in classe insieme. Sono sicura che
ci…divertiremo. – sorrise.
-
Lo
penso anch’io. –
Nessuno
poteva immaginare quanto.
Le ore della mattinata trascorsero in fretta. Durante
l’intervallo Taichi si
offrì di fare da chaperon alla ragazza. Le vennero
presentate molte persone,
prevalentemente ragazzi di cui, inutile dirlo, dimenticò
subito i nomi. L’unico
su cui il bruno parve soffermarsi un po’ di più
era un giovane che frequentava
il secondo anno, con una zazzera rossa sul capo, sopracciglia folte e
occhi
scurissimi e attenti. Le era stato introdotto come un genio
dell’informatica,
nonché suo buon amico, e Rumiko l’aveva salutato
calorosamente. Lui era
arrossito leggermente e la studentessa gli aveva sorriso, deliziata da
quel suo
comportamento timido e un po’ impacciato che lo rendeva,
almeno a suo avviso,
estremamente carino. Eppure sembrava che non riuscisse a capacitarsi di
poter
piacere a una ragazza e questo lo portava a distogliere subito lo
sguardo.
“Strano che due persone così diverse siano tanto
legate.”
D’altronde anche l’amicizia con Yamato aveva
dell’incredibile, dato che lui e
Taichi le parvero fin da subito del tutto incompatibili, come due
protoni che
si respingono a vicenda poiché similmente carichi.
Inizialmente
aveva maledetto la sua sfortuna, che gliel’aveva fatto
trovare persino a
scuola, ma poi aveva cambiato idea: quella spiacevole circostanza
poteva
rivelarsi un utile mezzo per la sua rivincita. Aveva deciso che
l’avrebbe
osservato attentamente, per carpirne tutte le informazioni possibili,
senza
fretta. In fondo la vendetta era un piatto da consumare freddo.
Camminando per i corridoi, la giovane poté farsi
un’idea più chiara delle
circostanze. Sembrava infatti che una buona percentuale di ragazzi
vedesse in
Yamato l’ideale dell’uomo duro e vero, che ha tanto
successo con le donne
quanto sulla scena musicale. Inutile dire che le ragazze stravedevano
per lui,
tanto da aver formato un fan club all’interno della scuola.
Non se ne stupì, dato il soggetto in questione. Non troppo
alto, aveva un
fisico da modello. Sulla carnagione lievemente abbronzata spiccavano
due occhi
azzurri dallo sguardo tenebroso. I capelli biondi tagliati
all’ultima moda
erano lunghi sulla nuca e scalati ai lati, con una grande ciocca,
anch’essa
sfilacciata, che gli ombreggiava il volto. I tratti del viso erano
marcati,
senza per questo apparire rozzi, e quell’aria da lupo
solitario lo rendeva
ancor più affascinante. Anche i suoi modi di fare avevano un
certo stile, per
non parlare del modo in cui portava quella divisa. Probabilmente
avrebbe
indossato con classe anche una camicia da notte! O almeno queste erano
le
opinioni delle sue ammiratrici.
Personalmente lei lo riteneva una persona detestabile, con quel suo
sguardo
tagliente e derisorio e quel suo modo di fare quasi sprezzante, come se
si
ritenesse al di sopra di tutti.
Inaspettatamente, però, sembrava che anche Taichi
riscuotesse un certo
successo: capitano della squadra di calcio, aveva vinto molte partite e
si era
guadagnato la stima e l’ammirazione di molti studenti. Tra i
più giovani che
facevano parte di gruppi sportivi pareva fosse un mito!
Probabilmente, ragionò, questo era dovuto anche al suo
carattere: socievole,
gentile con tutti e sempre disponibile ad aiutare gli altri come a
farsi due
risate in compagnia. Un ragazzo d’oro, oltre che
eccezionalmente carino,
sebbene in modo meno appariscente dell’amico.
E poi c’era Sora, la fidanzata di Yamato invidiata da tutte.
A quanto pareva
erano quasi cinque anni che stavano insieme. A detta di alcuni
invidiosi, la
ragazza non aveva nulla di speciale, ma la gran parte
dell’istituto la riteneva
una persona gentile e simpatica, oltre che intelligente, il che la
rendeva ben
accetta anche dagli insegnanti. Inoltre giocava a tennis nel club della
scuola
e sembrava avesse vinto alcuni premi importanti. In poche parole si
trattava di
una studentessa modello. E, nonostante profondamente diversi, i due
avevano un
ottimo rapporto, nato a partire da una profonda amicizia.
“Sarà più complicato del
previsto.” meditò una volta tirate le somme
“Beh, poco
male: vorrà dire che gusterò di più la
vittoria!”
Yamato era appoggiato alla finestra del corridoio con alcuni compagni
di classe,
ma prestava scarsa attenzione alla conversazione, troppo preso dai
propri
pensieri.
Pareva
che la fortuna avesse deciso di abbandonarlo definitivamente.
Trovarsela
davanti era stato già di per sé una spiacevole
sorpresa, ma ascoltare il
proprio amico lodarla e invitarla a sedersi vicino a loro si era
rivelato un
pugno dritto allo stomaco. Possibile che Taichi fosse tanto ingenuo da
farsi
abbindolare da quella ragazza? Beh, di sicuro non era
l’unico, visto l’effetto
che il suo arrivo aveva fatto sui compagni. Sora sembrava entusiasta di
fare la
sua conoscenza e i ragazzi non le staccavano gli occhi di dosso. E
finché loro
due avessero continuato a non andare d’accordo, sarebbe stata
la benvista
persino dal suo fan club di squilibrate.
-
Guardate,
quella lì non è Kitamura? –
E
in effetti era proprio lei, che passeggiava per i corridoi scherzando
amabilmente con il prescelto del Coraggio.
-
Che
fortuna che ha Taichi! Una bella ragazza mette finalmente piede nella
nostra
scuola e lui l’accalappia in due secondi… -
-
Già
già! Ma ho sentito male o è una tua vicina,
Yamato? –
-
Sì,
purtroppo. –
-
Come
“purtroppo”?! Ti
rendi conto della
fortuna sfacciata che hai?! –
“
Sembra proprio di no.”
-
Vorrei
averla io una bellezza simile dall’altra parte del muro!
–
-
La
spieresti dal mattina alla sera, maniaco sessuale che non sei altro!
–
Scoppiarono
tutti a ridere.
-
Certo
che sì! – rispose quello – Invece mi
devo accontentare di una vecchia pazza con
otto gatti! Tempi buio questi, amici miei, ve lo dico io! –
inscenò in tono melodrammatico,
seguito da un altro scoppio di risa.
-
Mah,
a me non sembra tutta questa meraviglia… - disse il biondo,
cercando di
apparire convincente e, soprattutto, onesto.
-
Scherzi?!
Scusa, ma l’hai vista?! –
“Certo
che l’ho vista, solo che io la guardo con occhi differenti
dai vostri!”
Tuttavia si voltò nella sua direzione indicata dal compagno
di classe,
incassando il colpo: non gli avevano creduto neppure per un istante. E
come
potevano, se davanti ai loro occhi c’era quella ragazza
maledettamente…
“
Bella…”
Yamato
ricordava ancora come il suo cuore avesse perso un battito nel posare
lo
sguardo su quella fotografia appesa nel salotto. Per un attimo non
aveva
percepito altro e i suoi occhi avevano percorso quel delicato profilo,
delineando i contorni della bocca leggermente dischiusa come un fiore
prezioso,
scivolando sul collo bianco. Rapito, aveva desiderato poter accarezzare
quei
capelli dai mille riflessi nocciola e perdersi in quelle iridi viola.
Sapeva
che se non ci fosse stato quel vetro a separarli, l’avrebbe
attirata a sé, per
stringere quel corpo sottile contro il proprio. Ma si sarebbe
accontentato di
contemplarla, se non avesse notato quello sguardo: la scoperta
l’aveva lasciato
sgomento.
Quando
poi se l’era trovata di fronte, il viso acceso dalla rabbia e
quegli stessi occhi
viola puntati nei suoi…
-
Diciamo
che è carina. – riuscì a dire.
-
Carina?!
Amico, quella lì è un gran pezzo di ragazza! E
poi sembra abbia carattere, il
che non guasta! –
-
Non
sapete quel che dite. Quella lì se si scatena diventa una
belva. –
-
Ah
sì? Meglio ancora! – rise uno dei ragazzi.
-
Non
la penseresti così se fossi stato tu ad essere aggredito.
–
-
Perché,
scusa? Non dire che l’hai già fatta arrabbiare!
–
-
E
invece sembra proprio di sì, ieri sera…
–
-
Ciò
significa che dobbiamo chiedere a Taichi di presentarcela, visto che tu
ti sei
già bruciato! –
-
Giusto!
Allora ciao, ci vediamo dopo in classe, Yamato! – lo
liquidarono per puntare a
un soggetto più interessante - Ehi, Taichiiii! –
Il
biondo sospirò: non sapevano l’errore che stavano
commettendo. Possibile che
lui fosse l’unico ad essersene accorto? Guardandosi attorno
dovette darsi la
risposta da solo: sì.
Quella ragazza sembrava in grado di stregare chiunque le stesse attorno.
Passando da fianco al gruppetto che l’aveva circondata,
incrociò per un istante
un paio di occhi viola, in cui il giovane intravide un moto di sarcasmo
nei
suoi confronti.
Se le cose stavano così, allora la guerra era da
considerarsi aperta… e lui non
le avrebbe mai e poi mai dato la soddisfazione di sconfiggerlo e
umiliarlo.
Quando le lezioni finalmente terminarono, i ragazzi si salutarono e si
avviarono verso casa.
Rumiko
e Yamato si ritrovarono a percorre la strada insieme. Chiunque li
avesse
incontrati avrebbe giurato che non si conoscevano, dato che non si
rivolgevano
la parola e mantenevano una distanza di sicurezza: lei camminava avanti
e lui
un po’ più indietro.
Ad un tratto la ragazza si voltò a guardarlo, decidendo di
interrompere quel silenzio.
-
Simpatici
i tuoi amici. – commentò – Soprattutto
Taichi, che è così divertente e
simpatico. E Sora è proprio una ragazza
d’oro… -
-
Tieniti
lontana da loro. – le disse lui, freddo.
-
Hm,
penso che sarà piuttosto difficile, visto che piaccio ad
entrambi! –
-
Per
l’ultima volta: non voglio che ti avvicini a loro.
– si avvicinò, lo sguardo
duro.
-
E
perché scusa? Non mordo mica, sai? – sorrise
– O hai forse paura di perderli?
-
Non
dire scemenze! Tra noi c’è un legame fortissimo,
non riuscirai a spezzarlo. –
-
Un
legame, eh? - la sua espressione divenne indecifrabile – Ma
quanto può esser
resistente un legame? –
-
Il
nostro si basa sulla completa fiducia nell’altro, oltre che
sull’amicizia. Ci
conosciamo da anni e ne abbiamo passate tante insieme, non puoi
immaginare quante. Il nostro
è un rapporto profondo
e tu non riuscirai a rovinarlo! –
-
Nei
sei davvero sicuro? – disse, seria – Io penso che
non esistano legami
indissolubili. –
Yamato
si bloccò, vedendole quell’espressione sul volto.
In quel momento, di fronte a
quello sguardo penetrante, la sua sicurezza vacillò. Ma fu
solo un istante e
subito si riprese.
-
Sono
sicuro che il nostro lo è. – disse semplicemente,
certo della veracità delle
sue parole.
Lei
parve rifletterci su e, senza più dire nulla, si
avviò. Il biondo la guardò
avanzare lungo la sua strada, una figurina esile e al tempo stesso
vibrante di
energia. Un pensiero fugace gli attraversò la mente: era
sola.
Sebbene le costasse molto ammetterlo, le parole del ragazzo
l’avevano scossa.
Le era sembrato così sicuro nell’affermare che il
suo legame con Taichi e Sora
era infrangibile, che lei non era riuscita a ribattere come avrebbe
voluto.
Invece era stata in silenzio per tutto il resto del tragitto,
rimuginando sulla
questione. Che avesse ragione lui?
No, non era possibile. Come gli aveva detto poco prima, non esistevano
rapporti
che non si potessero spezzare. Niente era eterno in quel mondo, neppure
i
sentimenti. E lei lo sapeva bene, lei che ora si trovava da sola in
quella
città sconosciuta.
“ No” si corresse subito “non sono sola:
con me c’è papà e finché lui
starà con
me e mi vorrà bene io sarò felice.
Perciò va bene così. Non ho bisogno di
nessun’altro. Va bene così…”
Eppure, da quando si era sistemata in quell’appartamento, non
ne era più tanto
sicura.
Ormai l’autunno aveva infuocato il paesaggio: gli alberi
avevano perso le
chiome verdi per indossare vesti dalle calde sfumature. Un vento freddo
spirava
da nord, portando mattine grigie e giocando con le gonne delle divise
invernali. Le giornate si erano accorciate e la scuola aveva ripreso il
suo
ritmo serrato.
Rumiko aveva fatto la conoscenza di tutto il gruppo e si era stupita di
quanto
fosse eterogeneo.
Il
più anziano era Jiou Kido, che frequentava il primo anno di
medicina: aveva occhi
e capelli scuri e indossava un paio di occhiali che gli conferivano
un’aria
molto diligente e metodica. Era gentile e pacato e parlava generalmente
poco,
soppesando le parole.
Il
più giovane, invece, si chiamava Iori Hida e aveva 13 anni.
Non molto alto,
capelli castani e grandi occhi verdi, sempre seri e attenti a studiare
gli
altri. Anche lui non parlava molto, ma quando esprimeva la sua opinione
ponderava bene la risposta e la esponeva con tono fermo: alla fine il
più
maturo del gruppo sembrava lui e spesso riprendeva gli amici
più grandi. In
particolare un suo sempai, che frequentava l’ultimo anno
delle scuole medie:
Daisuke Motomiya, un vero pianta casini.
Aveva
capelli e gli occhi color prugna, la pelle leggermente abbronzata e un
talento
naturale nel cacciarsi nei guai. Però era simpatico e
divertente, il classico
bravo ragazzo incompreso. Assomigliava incredibilmente a Taichi e come
lui
giocava a calcio come titolare, anche se non rivestiva il ruolo di
capitano a
causa del suo temperamento. Era evidente che ammirava molto il ragazzo
più
grande, che si rivelò pure essere il fratello maggiore della
cotta di Daisuke.
Hikari
era una ragazza carina e molto dolce, anche se un po’
ingenua, che come lui
aveva 15 anni. Portava i capelli castano chiaro legati in due morbidi
codini
lunghi fino alla spalle e aveva gli stessi occhi del fratello, ma lo
sguardo
era mite e benevolo, anziché sprizzante energia. Il suo
corpo era minuto e il
viso dai tratti morbidi, sempre increspati da un lieve sorriso, che si
allargava visibilmente ogni volta che incontrava lo sguardo del suo
compagno Takeru
Takashi.
Quest’ultimo
era biondo e abbastanza alto da giocare nella squadra di basket della
scuola,
il fisico atletico e due occhi azzurri da far invidia a molte ragazze.
Una
persona serena e gentile, in particolare con la graziosa Hikari, a cui
non risparmiava
attenzioni amorevoli, accolte dal rossore imbarazzato di lei e quello
furioso
di Daisuke.
Infine
una coppia davvero curiosa: Miyako Inoue e Ken Ichijoji. La prima era
una vera
e propria bomba a orologeria, dai capelli lilla e gli occhiali rotondi,
che non
perdeva mai occasione per litigare con Daisuke. Una ragazza impulsiva
ed
estroversa, che non si faceva mai problemi a dire le cose in faccia
alla gente.
Lui era esattamente l’opposto: studente modello, abile sia in
campo sportivo
sia scolastico, riscuoteva un certo successo fra le ragazze. Un giovane
di
bell’aspetto, con i capelli e gli occhi di un blu intenso e
profondo, il viso
dai tratti fini e il fisico snello. I suoi modi erano pacati ed il suo
carattere molto timido e riservato. Sembrava non accettare il fatto di
piacere
tanto alle persone e questo lo rendeva molto modesto.
Avevano fatto alcune uscite tutti insieme e Rumiko si era divertita,
riscuotendo un certo successo. Sembrava che stesse simpatica a tutti, a
eccezione di Yamato.
Ormai tutta la scuola si era resa conto che fra quei due non correva
buon
sangue, sebbene nessuno sapesse darsene una ragione valida. Per lo
più
evitavano di rivolgersi la parola, non tornavano mai a casa insieme e,
almeno
in pubblico, usavano frasi distaccate e fredde oppure velatamente
ironiche e
pungenti. Sembrava una sorta di Guerra Fredda fra due super potenze e
nessuno
osava mettersi in mezzo.
La verità era che nessuno dei due riusciva a trovare una
breccia nelle difese
dell’altro per dare inizio uno scontro diretto. Per ora si
limitavano a
studiarsi e punzecchiarsi a vicenda, forse in attesa
dell’occasione giusta per
sferrare l’attacco.
Il campanello suonò e Yamato andò ad aprire la
porta: davanti a lui c’era il
signor Kitamura.
-
Buonasera,
ragazzo! Disturbo? –
-
No,
non si preoccupi. Si accomodi pure. – lo invitò ad
entrare, pentendosene subito
per via del disordine che regnava nella casa.
-
Veramente
volevo invitarti a fare un salto da me. –
Il
giovane corrugò la fronte, cercando di capire cosa avesse
escogitato quella
ragazza. L’uomo parve leggergli nella mente.
-
Rumiko
non c’è, sta facendo delle commissioni. Volevo
approfittarne per mostrarti una
cosa. –
Alla
fine la sua curiosità e la gentilezza del fotografo ebbero
la meglio e il
biondo si trovò a oltrepassare la soglia numero 17.
Appena fu dentro si guardò attorno: ora
l’abitazione era stata sistemata a
dovere e il risultato era molto elegante, seppur non eccentrico. Niente
soprammobili ingombranti o colori sgargianti, ma un mobilio semplice e
raffinato
dalle tonalità armoniose.
-
Dimenticavo
che tu non hai visto l’appartamento arredato come si deve.
Mentre io cerco ciò
che volevo mostrarti, tu fatti pure un giro! –
Ringraziandolo
per la sua ospitalità, il ragazzo lasciò
l’uomo a frugare nel suo studio adiacente
al soggiorno. Fece il giro di tutte le stanze, fino a ritrovarsi in
quella che
doveva essere la camera da letto della figlia.
Fu con una certa amara soddisfazione che non vi trovò le
pareti tappezzate di
poster di attori e cantanti o una quantità sproporzionata di
pupazzi e inutili
bigiotterie. Anche qui il mobilio era semplice. Un armadio era stato
appoggiato
a una parete e aveva alcuni vestiti appesi ad un’anta aperta.
Sulla scrivania
ad angolo c’era un computer, alcuni quaderni, libri
scolastici e penne sparse
in giro. Gli scaffali erano occupati da libri, fumetti e molti cd. Si
avvicinò
e lesse i titoli su alcune custodie. C’era un po’
di tutto: pop, rock, punk,
metal, blues, jazz e persino qualcosa di classica. Era evidente che
avesse buon
gusto in fatto di musica.
Poi il ragazzo portò la sua attenzione sul letto e non
poté trattenere un
sorriso. Si avvicinò e raccolse un cagnolino di peluche che
era stato
appoggiato sul cuscino: in fondo, nonostante si ostinasse a fare la
dura, era
pur sempre una ragazza! Posizionandolo di nuovo al suo posto si accorse
che sul
soffitto era stata appiccicata una fotografia che ritraeva un
meraviglioso cielo
stellato. Immaginò quanto dovesse essere piacevole coricarsi
per volgere lo
sguardo a quella volta incantevole, stringendo l’animale di
pezza, e gli venne
voglia di buttarsi nel letto.
Stava per lasciare la stanza, quando il suo sguardo venne attirato da
un cassetto
che non era stato chiuso del tutto. Come attirato da una forza
magnetica, si
ritrovò a tirare la maniglia in legno, conscio che
ciò che stava facendo era
sbagliato e che lui stesso si sarebbe infuriato se avesse beccato
qualcuno a
far la stessa cosa. Ma in fondo in guerra e in amore tutto è
permesso, giusto?
Quando l’ebbe aperto vi guardò dentro e non vide
nulla. Stava per richiuderlo,
quando si accorse di un riflesso: una fotografia. La sollevò
alla luce della
lampada per vederla meglio: ritraeva una città notturna, in
cui le luci delle
strade e dei negozi giocavano a mescolarsi. Una maestosa luna piena
rischiarava
il cielo nero e a stagliarsi contro quella luna…
Sentì dei passi avvicinarsi e rimise l’immagine a
posto, richiudendo il
cassetto appena in tempo.
-
Ho
trovato ciò che cercavo. Vieni, andiamo a sederci in
salotto. –
Yamato
lo seguì e si sedette sul divano, mentre l’altro
prese posto di fronte a lui.
Gli venne dato un book e il padrone di casa lo invitò ad
aprirlo. Il ragazzo
sgranò gli occhi per la sorpresa e sollevò lo
sguardo interrogativo.
-
L’altra
volta hai detto che i paesaggi possiedono una purezza e una
sincerità che in
lei non hai visto. – spiegò il signor Kitamura
– Volevo farti vedere com’era
qualche anno fa. –
Il
cantante arrossì d’imbarazzo e riportò
la sua attenzione su quelle pagine, il
cui unico soggetto era Rumiko, probabilmente
all’età di 16 anni. Aveva
un’espressione quasi imbronciata, come se non amasse stare in
posa. In alcune
era quasi buffa, in altre sembrava in collera e in rare immagini
sorrideva
allegramente. Si trattava di gesti naturali e spensierati, che si
estendevano
anche ai meravigliosi occhi viola, facendogli battere il cuore.
Questa volta non fece commenti, andandosene dopo aver ringraziato il
fotografo
della sua cortesia.
Appena ebbe chiuso la porta, Hiroshi Kitamura sospirò,
sperando che il suo
tentativo fosse valso a qualcosa. Scambiando poche parole con il signor
Ishida,
infatti, aveva ottenuto conferma sui suoi sospetti: a quanto pareva i
loro
figli si erano dichiarati guerra. La cosa gli era dispiaciuta molto,
visto che
non poteva fare a meno di apprezzare quel ragazzo dallo sguardo
profondo,
l’animo tempestoso e sensibile.
Si dice che gli opposti si attraggono naturalemente, ma in quel caso
Hiroshi
era convinto della necessità di dare una mano a quei giovani
così simili.
Sperava con tutto il cuore che Yamato sarebbe riuscito a capire sua
figlia,
aiutandola a superare quei problemi che da sola non riusciva ad
affrontare. E
chissà, magari anche lei sarebbe riuscita ad aiutarlo.
Yamato si buttò sul letto, ripensando all’album
che aveva sfogliato. Le
intenzioni del suo vicino erano state piuttosto eloquenti: gli aveva
voluto
mostrare la vera Rumiko, cosicché lui potesse rivalutarla.
Probabilmente
sperava che tra i due nascesse un buon rapporto di amicizia e che lui
l’aiutasse a tornare la ragazza di una volta. Beh, di sicuro
l’aveva sorpreso
non poco!
Però doveva ammettere che la tattica aveva avuto i suoi
effetti: al solo
ricordo di quel magnifico sorriso, il cuore ricominciava a battergli
all’impazzata nel petto. Possibile che la diciottenne che
aveva conosciuto fosse
la stessa persona ritratta in quelle foto? E, soprattutto, ora come si
sarebbe
dovuto comportare?
Ancora incerto sul da farsi, si addormentò profondamente.
Quella notte sognò di
ammirare il cielo notturno. Una grande luna piena sovrastava la
città e sulla
cima del palazzo più alto c’era una figura snella,
che si stagliava scura
contro la sfera luminosa, i lunghi capelli mossi dal vento.
Continua…
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Capitolo 4 *** - ***
Capitolo 4
Il
mattino dopo, uscendo di casa, Rumiko trovò una sorpresa ad
attenderla: Yamato
appoggiato al man corrente.
-
Che
fai qua? Aspetti qualcuno? –
-
Sì,
te. – rispose lui, voltandosi dall’altro lato e
cominciando a scendere le
scale.
Tanto
fu lo stupore della ragazza nel sentirsi rivolgere quelle parole, che
rischiò
di inciampare e finire a gambe all’aria.
-
Cos’è,
una nuova tattica? – lo tallonò lei.
-
No.
–
-
E
allora si può sapere perché mi hai aspettata?
–
Lui
non rispose e la ragazza sbirciò la sua espressione.
Possibile che ciò che
vedeva sulle sue guance fosse un leggero rossore? Ma non disse nulla e
continuarono a camminare lungo il viale. Di tanto in tanto lui le
lanciava
delle occhiate, affrettandosi poi a distogliere lo sguardo per non
farsi scoprire.
Ovviamente non ci riuscì e Rumiko cominciò ad
irritarsi: che gli prendeva tutto
d’un tratto? Sembrava che scrutasse il suo volto alla ricerca
di non si sapeva
cosa e lei cominciava a sentirsi come un pezzo d’esposizione.
-
Ehi,
Ishida, ti sei forse innamorato di me? – sbottò
poi.
Di
nuovo lui non rispose. Lei sollevò le spalle, sbuffando
leggermente.
-
Non
lo credevo possibile, ma congratulazioni, riesci ancora a stupirmi:
oggi sei
più strano del solito! –
-
Perché,
di solito sono strano? –
-
Da
quando ti interessa la mia opinione? –
Per
l’ennesima volta lui non trovò nulla di pungente
con cui risponderle. Lei
aggrottò la fronte.
-
Ti
senti male, per caso? – chiese, avvicinando una manina al suo
capo, ma lui scartò,
evitando il suo tocco – Non sono mica un’appestata,
sai? Ah, che ragazzo
contorto! – e procedette.
Yamato
attese un secondo e poi la seguì, il cuore in subbuglio e la
mente confusa.
Quella scena si ripeté per un’intera settimana.
Tutti i giorni lui l’aspettava
davanti a casa, durante le lezioni di tanto in tanto lo beccava a
fissarla e
per i corridoi le faceva un cenno del capo quando la incontrava. Niente
più
frecciatine, sorrisi ironici, toni freddi e distaccati, sguardi che la
superavano come se fosse fatta d’aria o la fulminavano. Se a
molti altri la
cosa avrebbe fatto piacere, lei cominciava ad infastidirsi: che si era
messo in
testa?
“ Giuro che non ci capisco più nulla! Ma cosa
avrò di tanto interessante sulla
faccia?! Anzi, dentro, visto che sembra farmi la
radiografia!”
Incapace di darsi delle risposte, decise di rivolgersi
all’unica persona che avrebbe
potuto aiutarla.
-
Ciao
Taichi, potrei parlarti un secondo? –
-
Dimmi
pure! – fece lui, una volta entrati in un’aula
deserta, lontani da sguardi
indiscreti.
-
Si
tratta di Ishida, cioè… Yamato. Ecco…
mi sembra strano ultimamente. –
-
Strano
in che senso? Io non ho notato nulla! –
-
Beh,
noi non siamo mai andati molto d’accordo, eppure ora
è come se il suo
atteggiamento fosse cambiato improvvisamente… –
-
Mah,
Yamato non è tipo da cambiare idea tanto facilmente.
Perciò se si comporta in
un certo modo avrà di sicuro le sue ragioni. –
-
Capisco…
-
In
realtà non le era stato di nessun aiuto, dato che ancora non
capiva cosa
passasse per la mente del biondo. Stava per tornare in classe, quando
Taichi la
fermò.
-
Ascolta,
so che non ha un buon carattere, ma ti è assicuro che
è un bravo ragazzo. – si
sedette – Vedi, fin da piccolo è stato molto
chiuso, anche a causa della
separazione dei suoi e la lontananza dal fratellino. –
-
Non
ne sapevo nulla. –
-
I
genitori hanno divorziato quando lui era piccolo: Yamato è
andato a vivere con
il padre e Takeru con la madre. –
-
Takeru
è… - ma non proseguì la frase.
“
Ma certo, in fondo si assomigliano e il modo in cui parlano tra di
loro…”
pensò, indispettita con se stessa per essersi lasciata
sfuggire quelle nozioni
fondamentali sul suo acerrimo nemico.
Taichi si limitò ad annuire.
-
È
cresciuto senza il calore della madre e il padre era sempre impegnato,
perciò
Yamato badava anche alla casa. A 11 anni sapeva già badare a
se stesso
perfettamente, come un adulto. –
Lei
non disse nulla.
-
So
che è pieno di difetti, anch’io ci litigavo
sempre! È testardo, arrogante,
lancia frecciatine e tratta la gente con sufficienza, perché
gli basta
un’occhiata per farsi un’idea degli altri. Poi
però ho scoperto che è solo
apparenza: ho cominciato a conoscerlo, capirlo e quindi ad apprezzarlo.
Quelle
che tu vedi come mancanze ora io li considero dei pregi. So che non
è facile,
ma bisogna riuscire a comprenderlo e a vedere al di là del
suo guscio. Lui ce
la mette tutta per migliorarsi, ma non è certo una cosa da
poco! Ha vissuto la
sua infanzia in solitudine, coperto di responsabilità che un
bambino non
dovrebbe avere e riuscendo a svolgere tutto nel migliore dei modi.
Quando il
padre tornava a casa la sera, trovava sempre la cena pronta e le
lenzuola
pulite. –
Sollevò
lo sguardo e la guardò.
-
Non
so perché… ma vedo in voi una certa somiglianza.
–
Lei
lo fissò stupita e incerta.
-
Io
penso – continuò sorridendo – che tu
possa aiutarlo, proprio perché forse puoi
capirlo meglio di me o chiunque altro. –
Fece
per andarsene, ma poi parve ripensarci.
-
E
penso che anche lui possa aiutare te. – aggiunse, per poi
uscire dall’aula.
Rumiko
si sedette su un banco, scossa. Che diavolo stava succedendo a tutti? E
perché
si sentiva tremare?
Udì la campanella decretare la fine
dell’intervallo e decise di tornare in
classe, dove avrebbe potuto riordinare con più calma le idee.
Una figura nell’ombra attese qualche secondo, per poi
seguirla: aveva assistito
alla conversazione. Con sorpresa aveva ascoltato le parole di Rumiko e
con
ancor maggior stupore quelle di Taichi. Cosa aveva voluto dire il
ragazzo?
“ Che intenzioni hai, Tai? “
Entrando in classe, Sora richiuse la porta alle sue spalle.
Rumiko e Yamato stavano tornando a casa fianco a fianco ma, come ormai
di
consueto, senza rivolgersi la parola. Poi quel silenzio venne infranto.
-
Devo
andare alle prove questa sera. – esordì il
ragazzo, ma poi non parve trovare le
parole per continuare.
-
Già,
con il tuo gruppo. – commentò lei, dandosi
mentalmente della scema per quella
frase banale.
Cadde
un imbarazzante silenzio e Yamato cominciò a perdere la
pazienza: perché non
riusciva a chiederglielo? Non era difficile, bastava assemblare poche
parole e
sputarle fuori! Eppure sembrava che le sue labbra fossero sigillate, il
che era
decisamente assurdo. Di solito capitava alle persone impacciate che non
riuscivano
a esprimere i propri sentimenti, invece lui aveva sempre parlato
tranquillamente con Sora. Ma allora cosa gli stava accadendo?
“ Forza Yamato, sono due parole in croce! Non è da
te titubare in questo modo!”
si rimproverò “ E se lei si accorgesse della tua
indecisione ne approfitterebbe
senza esitare e allora chi la placherebbe più?”
-
Ti
va di venire? – riuscì infine a sbiascicare e gli
parve di essersi tolto un
peso dallo stomaco.
-
Come
scusa? –
“
Ma perché? “ pensò sconsolato.
-
Le
prove – ripeté – ti va di venire a
vederle? –
-
E
perché dovrei? Non dirmi che ti interessa la mia opinione!
– sorrise lei,
sarcastica.
-
Beh,
visto che critichi tanto la mia musica, il minimo che tu possa fare
è venire ad
ascoltarci! –
-
Non
saprei… di sera è pericoloso… ci sono
tanti maniaci in giro, dicono… - rifletté
lei, seriamente preoccupata – potresti approfittare di me!
–
-
Non
ti preoccupare, ho gusti decisamente più raffinati.
– rispose maligno, in cuor
suo sollevato che la ragazza avesse alleggerito l’atmosfera:
meglio i
battibecchi di quel silenzio opprimente.
-
Come
ti permetti, razza di cafone? –
s’inviperì infatti lei.
-
Allora,
vieni o no? – fece lui, ignorando volutamente le sue
provocazioni e per questo
facendola alterare ancor di più.
-
D’accordo,
ci sarò. –
-
Bene,
allora ti passo a prendere alle sette. –
Stava
per entrare nel suo appartamento, ma si voltò.
-
Ah,
un’ultima cosa, Kitamura. –
-
Magaaari
fosse l’ultima. –
-
Non
farmi fare brutta figura. – e si richiuse la porta alle
spalle giusto in tempo
per sentire un tonfo sonoro.
Accostò
l’orecchio alla porta e poté sentire distintamente
i borbottii della ragazza.
Yamato sorrise: di sicuro si sarebbe rivelata una serata interessante.
Alle sette in punto si presentò davanti alla porta numero 17
e suonò il
campanello. Lei venne ad aprirgli la porta. Indossava un paio di jeans
attillati e degli anfibi. Sotto un giubbotto in pelle nera aveva una
felpa con
la cerniera aperta fino allo stomaco, che mostrava la maglietta rossa
con la
scritta “sound” sul petto. Non si era truccata,
giusto un po’ di mascara e un
velo di lucidalabbra. I capelli erano raccolti in una coda appoggiata
ad una
spalla.
Nel vedere il ragazzo guardarla con, secondo la sua opinione,
più attenzione
del dovuto, affondò le mani nelle tasche del giubbotto.
-
Andiamo
sì o no? – borbottò.
Si
avviarono, lui con la chitarra su una spalla, lei con il volto
imbronciato e il
cappuccio tirato sul capo. Yamato ridacchiò: in quel momento
sembrava proprio
una bambina scontrosa che fa i capricci.
-
E
ora che hai da ridere? –
-
Niente,
pensavo… - rispose lui, prevedendo la mossa successiva della
compagna.
-
Continui
a sorprendermi, Ishida. E cosa pensavi, di grazia? – lo
punzecchiò.
-
Che
sei carina quando metti il broncio. – disse lui con
semplicità.
Rumiko
avvampò, finendo di nuovo per mettere il muso tentando di
nascondere il suo
imbarazzo. Ovviamente il ragazzo aveva previsto anche questo e
scoppiò a ridere
della sua ingenuità. Lei rimase un attimo spiazzata, di
fronte a una simile
manifestazione: non aveva mai riso in quel modo
così… spontaneo. O almeno non
davanti a lei.
Poi la diciottenne parve riacquistare il controllo, perché
cominciò a
protestare, visibilmente stizzita.
Camminavano lungo il viale alberato, lo stesso che percorrevano per
andare a
scuola. Però ora appariva diverso, con quel silenzio quasi
surreale, le fronde
scure degli alberi che incombevano su di loro, le luci dei lampioni che
spandevano pozze gialle sull’asfalto. Di tanto in tanto una
macchina passava,
illuminandoli per un attimo per poi sfrecciare via veloce. Ma non era
solo il
paesaggio a sembrarle diverso: anche il suo compagno.
Era come vederlo per la prima volta, così calmo e
tranquillo, il passo cadenzato,
il viso disteso. Indossava abiti semplici: una paio di jeans scuri, un
giubbotto e sotto una camicia bianca. La chitarra ondeggiava
leggermente,
secondo il ritmo del suo incedere, come se fosse
un’estensione del suo corpo.
Si arrischiò a scrutarne il volto con più
attenzione e il suo cuore perse un
battito: un sorriso sereno e una sguardo limpido rischiaravano i suoi
lineamenti, facendoli apparire… belli.
Arrivarono a destinazione ed entrarono in quello che una volta doveva
esser
stato un magazzino. L’interno era stato ristrutturato e ora
doveva essere una
sorta di locale notturno. Una decina di tavolini e molte sedie erano
accatastati lungo una parete e un bancone dall’aspetto
rustico si ergeva
dall’altro lato. Di fronte a questo erano stati posizionati
gli immancabili
sgabelli alti e una collezione di bottiglie di ogni forma e colore
faceva la
sua bella mostra alle spalle del barista. Infine, al fondo
dell’edificio, c’era
un piccolo palco rialzato riservato al gruppo.
Rumiko dedusse che era lì che si sarebbero svolte le prove
per via degli
strumenti, le apparecchiature, i microfoni, gli spartiti sparsi sul
pavimento e
un gruppo di ragazzi che faceva loro cenno di avvicinarsi. Ma appena si
accorsero della ragazza cominciarono a sghignazzare.
-
Ma
Yamato caro… non ci
avevi detto che
volevi portare la tua fidanzatina! – cinguettò uno
di loro – A saperlo ci
saremmo messi in tiro, vero ragazzi? –
Sghignazzarono.
-
Se
mai un giorno volessi essere lasciato su due piedi ti
presenterò la mia
ragazza. – gli rispose a tono Yamato con un ghigno sul bel
volto – Lei invece si
chiama Rumiko Kitamura ed è la mia nuova vicina di casa.
–
-
Comunque
resta il fatto che è una donna e tu stesso hai detto di non
volerle tra i
piedi! – disse un altro.
-
Non
è una donna, ma solo… -
-
Prova
a dire qualcosa di anche vagamente offensivo –
sibilò lei con un grosso sorriso
stampato in faccia – e farò in modo che la tua
voce raggiunga degli acuti da
fare invidia a Whitney Houston… –
sibilò lei.
Subito
scese il silenzio e tutti la fissarono attoniti. La ragazza contrasse
la
mascella, per nascondere l’imbarazzo crescente. Poi il
silenzio si infranse in
una risata generale.
Lanciò
un’occhiata d’ammonimento al cantante e subito
questo smise di ridere: ormai
aveva capito quando stava per passare il limite.
-
Sei
proprio forte! Altro che ragazza, sei una bomba a orologeria!
– commentò uno
tra le lacrime.
-
Già,
non avevo mai sentito il gentil sesso minacciare Yamato. –
-
Povero
il nostro idolo, ti sei trovato finalmente una ragazza che ti da del
filo da torcere!
– lo canzonò uno, dandogli delle pacche energiche
sulla schiena.
Rumiko
decise che era il momento di lasciare il campo.
-
Datti
da fare, ok? Non voglio rovinarmi la serata per colpa tua. –
-
Come
sarebbe a dire? Guarda che se non ti andava potevi non venire.
–
L’altra
non gli rispose neanche, liquidandolo con un gesto annoiato della mano.
Scese
dal palco per andare a sedersi al bancone, dove incrociò le
braccia a intendere
che dovevano darsi una mossa a cominciare.
I ragazzi si prepararono sghignazzando.
-
Non
è solo un peperino, è pure mooolto
carina. – commentò il batterista.
-
Già,
bella e di carattere! Ma dove le trovi? –
-
Vi
prego, evitate: è una musica che già sento tutti
i giorni a scuola. –
-
Ce
l’hai pure in classe! Ah, beata giovinezza…
– disse un altro inforcando il
basso.
-
Piantala
di fare il matusa, che hai solo due anni più di me!
–
-
D’accordo,
continuerete dopo! Sta sera abbiamo un ospite pericoloso,
perciò impegniamoci,
ok? –
E
diedero inizio alle prove.
Dopo un oretta decisero di fare una pausa e Yamato raggiunse la
ragazza,
sedendosi su uno sgabello.
-
Allora,
che te ne pare? – chiese.
In
realtà avrebbe saputo rispondersi anche da solo: quella sera
aveva dato il
meglio di sé.
-
Potresti
essere bravo. – si limitò a commentare lei,
sorseggiando il drink che le era
stato offerto dal barista.
-
Come
scusa? – fece l’altro, per un momento spiazzato.
Senza
alzare lo sguardo dal bicchiere, Rumiko continuò.
-
Hai
una bella voce, bassa e leggermente roca… Non esattamente
Johnny Cash, ma ha un
timbro interessante. Insomma, la tecnica è buona e il ritmo
c’è, ma è come se
ti mancasse qualcosa… –
-
E
cosa sarebbe? – chiese, un po’ stizzito.
-
La
passione. – rispose lei, guardandolo finalmente negli occhi.
Di
nuovo lui non seppe cosa dire.
-
La…passione?
– riuscì solo a sbiascicare.
-
Sì.
–
Scese
un silenzio imbarazzante e il ragazzo fece un cenno al barista
perché gli
portasse qualcosa da bere. La ragazza aspettò che mandasse
giù un bel sorso,
poi proseguì, volgendosi però a guardare il palco
dove i musicisti conversavano
animatamente.
-
Te
l’ho detto anche la prima volta che ci siamo incontrati, no?
– continuò, pacata
– La tua musica è piacevole, ma le manca
trasporto. Ascoltandoti, io posso
ammirare le note e la tua intonazione, ma… non posso
ammirare te. –
Fece
una pausa, constatando che lo sguardo del biondo era puntato su di lei.
-
Le
tue canzoni sono del tutto impersonali. Parlano di amicizie, di amori,
di
nobili sentimenti – un sorriso appena accennato – e
sono certa di sapere chi
sono le tue fonti d’ispirazione. Sono tutte persone
bellissime, ma non sono te. Tu non
vuoi cantare di te. –
Lui
non rispose, continuando a scrutare il liquido nel bicchiere. Avrebbe
voluto
ribattere, farla tacere, ma improvvisamente si sentiva la gola secca e
la mente
svuotata. Si sentiva sotto processo: qualsiasi cosa avesse detto,
temeva
sarebbe stata usata contro di lui. Eppure lei taceva, in attesa.
-
Non
c’è niente di interessante da sapere di me.
– riuscì a dire, quasi in un
soffio.
-
Mio
padre non la pensa così. – commentò
lei, in tono fermo – E nemmeno io, Yamato.
–
L’altro
sollevò lo sguardo, colpito più dal fatto che
l’avesse chiamato per nome che
dal contenuto delle sue parole.
-
Le
persone vanno ai tuoi concerti e acquistano i tuoi album
perché vogliono
sentirti. – proseguì lei, misurando le parole
– Vogliono sentire te,
non solo la tua voce. –
-
Le
persone vogliono sentire qualcosa di divertente, di triste o
commovente. Ma io
non sono così. – abbassò il tono di
voce – Tai lo è. Anche Sora lo è.
Persino
Koushiro. Tutti loro traboccano di simili… emozioni.
È questo che li rende ciò
che sono. È per questo che canto di loro. –
-
Pensi
di essere povero di emozioni? –
-
Forse.
O forse è come dici tu – sorrise amaramente
– Mi manca il trasporto,
non sono uno che si lascia andare. – si scompigliò
nervosamente i capelli. – Magari sono solo strano, come
spesso mi ripeti. –
-
Allora
canta di questo. –
-
Questo
cosa? –
-
Del
fatto che non sai che ti manca, che non riesci a lasciarti trasportare
dalle
emozioni. Se non altro sarebbe qualcosa di diverso dal solito!
–
-
La
gente non capirebbe. –
-
Non
credere di essere l’unico ad avere simili dubbi, faticare nel
conoscere se
stessi è un problema che molti affrontano tutti i giorni.
Molti capiranno
quello stai loro dicendo, altri invece no. Ma infondo che importa?
L’importante
è che tu riesca a tradurre i tuoi pensieri e le tue emozioni
in parole. – gli
sorrise – E qualsiasi termini tu scelga per esprimerti,
sarà qualcosa di
intimo, di te. –
Yamato
piegò la bocca in una smorfia.
-
Cosa
ti fa pensare che io muoia dalla voglia di rivelare i miei pensieri
più intimi
a centinaia di persone? –
-
Il
fatto che siamo qui stasera. Che hai scelto di cantare. –
rispose lei, sicura.
-
Non
essere ingenua – le disse in tono più velenoso di
quanto avesse voluto – Far
parte di una band non ha nulla a che fare col parlare di se stessi. -
-
E
allora perché hai deciso di fare musica? –
-
Per
lo stesso motivo di molte altre persone, no? –
sbottò lui, tagliente, di nuovo
con modi molto più rudi di quelli che avrebbe voluto,
incapace di controllarsi.
-
E
quali sarebbero questi motivi? – fece lei, cominciando a
perdere la pazienza –
I soldi, la fama, le ragazze? Tu non hai bisogno di queste cose e lo
sappiamo
tutti e due. –
-
Mettiti
in testa una cosa: TU NON SAI NULLA DI ME! –
soffiò lui torvo, per
poi abbassare lo sguardo e stringere i pugni.
Questa
volta il silenzio calò sull’intero locale: tutti i
presenti avevano udito la
discussione.
“
Non volevo dirlo, non avrei dovuto… ma tu mi fondi il
cervello e io perdo il
controllo.
Maledizione… non guardarmi! Non fissarmi con quello sguardo
così simile al mio.
Se ti guardo mi vedo allo specchio, mi vedo riflesso nei tuoi
dannatamente
belli occhi viola e questo mi fa male. Ti prego, perciò, non
guardarmi così…
Delusa…
No, non dire nulla, ti prego! Non aprire quella bocca implacabile, che
mi
costringe a ribattere con parole ancor più orrende. Non
voglio ferirti, non
voglio deluderti ancora… Fa male da morire… Ti
prego, perciò, non parlare!
Odiami, se vuoi, scappa! Scapperei da me stesso se solo
potessi… Non sono la
persona giusta per te. Non posso aiutarti come vorrebbe tuo padre, come
io
stesso vorrei. Perciò fuggi, allontanati, tu che
puoi… perché io non posso
lasciare questo sgabello che mi tiene inchiodato accanto a
te…”
-
È
vero, io non so nulla di te, perché non ti conosco. Ma una
cosa la so per
certo: stai sprecando il tuo talento a causa del tuo stupido orgoglio.
O forse
per timore che la gente veda chi sei veramente, che ti giudichi. Mette
paura
essere il giudicato anziché il giudice, vero? –
gli rivolse un ghigno sarcastico
– Non è piacevole scoprire di essere meno
straordinari di quanto si pensava di
essere, trovandosi faccia a faccia coi propri difetti. Fortuna
– proseguì – che
non bisogna essere persone meravigliosamente perfette per comporre e
cantare,
basta essere schietti. Con se stessi e quindi con gli altri. La musica,
quella vera, non è fatta
per illudere, ma per
parlare ai cuori di chi ti ascolta. –
Lui
la guardò, indecifrabile.
-
Mio
padre ti direbbe la stessa cosa. In fondo la fotografia e la musica si
somigliano. Con le sue opere, mio padre comunica le sue emozioni e suoi
pensieri alla gente. Le sue foto sono così belle
perché in grado di trasmettere
il suo punto di vista, mostra ai cuori delle persone il mondo come lo
percepisce lui. Io, quando le guardo, mi sento bene. –
Lui
non le staccò gli occhi dosso, nemmeno per un istante.
-
Dovresti
fare come lui. –
-
Non
è così facile. –
-
Lo
so. – ribatté lei fermamente. – Ma cerca
di prender spunto da chi ci è
riuscito. –
-
Vuoi
dire da tuo padre? –
Lei
annuì.
-
Lui
mi ha detto che hai un tipo davvero… attento, che sa
osservare. – continuò lei,
distogliendo lo sguardo – Se è
così… troverai di sicuro un modo. –
-
E
come? –
-
Innanzitutto
finendola con queste domande e prendendo quella stupida chitarra!
– sbottò lei
– Non vorrai far fare tutto a me, no? – gli
strizzò un occhio.
Yamato
tornò sul palco e si posizionò davanti al
microfono. Gli altri componenti lo
guardarono, un po’ incerti. Lui fece un semplice accordo, lo
strumento vibrò e
il suono parve espandersi al suo stesso corpo.
Provò alcuni versi di una canzone, la prima che gli venne in
mente. Sentiva lo
sguardo di due occhi viola su di sé e il cuore battergli
forte nel petto.
Ricordò le parole di lei e gli tornarono in mente le
fotografie. Rivide quei
paesaggi, quei mari, quei cieli, quelle città… e
quel viso, quel collo, quelle
labbra, quegli occhi… e tutto gli parve così vero
e prezioso e delicato, come
vibrante di luce, come se il flash ne avesse carpito
l’essenza per trasportarla
sulla pellicola, come un soffio di vento. Poi quelle immagini si
dissolsero e
la sua mente si svuotò: forse aveva capito.
Ispirò profondamente, impugnò la chitarra e
cantò. Per la prima volta in vita
sua ebbe la sensazione di cantare con tutto se stesso, facendo sgorgare
l’anima
insieme alle parole. Per la prima volta in vita sua si sentì
in pace col mondo,
quel mondo che l’aveva talvolta respinto ma poi avvolto nel
suo abbraccio,
sussurrandogli che lui stesso ne era il cuore pulsante.
Gli altri componenti del gruppo si erano uniti al cantante e pareva
fossero
stati influenzati dalla sua energia.
Rumiko non riusciva a distogliere lo sguardo, ipnotizzata da quella
voce. No,
si corresse, era ipnotizzata dal suo sorriso, dai suoi gesti. Non
riusciva a
staccare gli occhi da lui. Un lieve
rossore si dipinse sul su volto: in quel momento, le parve bello.
Continua…
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Capitolo 5 *** - ***
Capitolo 5
Era
una bella domenica mattina, probabilmente l’ultima di quella
stagione. Il sole
splendeva nel cielo azzurro solcato da maestose nuvole bianche,
rischiarando il
paesaggio cittadino. Ormai l’inverno era alle porte e il
freddo intenso delle
notti e il vento impetuoso avevano spogliato gli alberi delle loro
chiome, che
ora giacevano alle loro radici, ricordo della passata estate e speranza
per la
futura primavera.
Rumiko si stiracchiò, bevendo la sua tazza di
caffè forte, ancora leggermente
intorpidita dal sonno. Di solito non aveva l’abitudine di
svegliarsi presto la
domenica, anzi, faceva di tutto per dormire fino a mezzogiorno. Ma
Daisuke
aveva insistito tanto perché lei assistesse alla sua
partita…
“ Accidenti a quel ragazzo! Sto diventando troppo buona.
Possibile che riesca a
farmi sempre convincere?! “
La verità era che quel giovane così esuberante le
stava simpatico, con quei
suoi modi di fare semplici e diretti. Tutto il contrario di…
“ Basta, possibile che non riesca a pensare ad altro?!
“ si rimproverò,
scrollando il capo con decisione.
Posò la tazza nel lavello e si diresse in camera, dove
scelse gli abiti secondo
lei più adatti all’occasione e, soprattutto, a
quel tempo.
Alla fine optò per un paio di jeans scuri e attillati,
infilati in un paio di
stivali in pelle. Scelse una maglietta e una felpa con cerniera e
cappuccio. Si
truccò poco, indossò il giubbotto in pelle,
afferrò la borsa, una tracolla di pelle,
le chiavi di casa, della macchina di suo padre e aprì la
porta pronta a fiondarsi
all’esterno. Poi si bloccò, come raggiunta da
un’idea. Tornò sui suoi passi e
afferrò un cappellino con visiera, si sciolse i lunghi
capelli e se lo calò sul
capo.
Soddisfatta, scese in garage e azionò l’Alfa Romeo
del padre.
-
Accidenti,
ma perché non mi sono svegliato?! Anzi, perché mi
SONO svegliato! Stupida
sveglia rovina sogni, stupido letto troppo comodo e
soprattutto…STUPIDO DAISUKE
CHE NON POTEVA GIOCARE NEL POMERIGGIO! –
Taichi
ebbe appena il tempo di terminare le sue lamentele, che venne raggiunto
da una
risatina. Si voltò e vide Rumiko appoggiata alla portiera di
un’auto sportiva,
accostata al marciapiede.
-
A
quanto pare il nostro caro Daisuke
ha
incastrato anche te. –
-
Già
e sono in ritardo, perciò se arrivo a partita iniziata mi
farà pure la ramanzina!
–
-
Non
che i tuoi ritardi siano una novità… -
-
Tu
scherzi, ma svegliarsi presto di domenica è davvero una tragedia per uno come me. –
protestò.
-
Ti
capisco, anch’io ne avrei fatto volentieri a meno! Ma sai
com’è Daisuke, così…
-
-
Persuasivo.
–
Sospirarono
entrambi.
-
Dai
salta su, ti do uno strappo! – fece lei, invitandolo con un
cenno della mano.
-
Non
sapevo che avessi un simile gioiellino per macchina! –
commentò il ragazzo, una
volta preso posto da fianco a lei.
-
Infatti
non è mia, ma di mio padre. Lui ora è nel mondo
dei sogni, perciò non ne ha
bisogno. – spiegò, girando la chiave e spingendo
sull’acceleratore.
Taichi
si allacciò la cintura, in tutta fretta.
-
Beh,
cos’è tutta questa agitazione? –
-
Sai
come si dice: donna al volante, pericolo costante! –
Ma
appena terminò la frase se ne pentì: sul volto
della ragazza s’era dipinto un
sorriso maligno.
-
No.
No, no, nooo! Guarda che io scherz…! –
Troppo
tardi. Rumiko aveva già spinto sull’acceleratore e
ora conduceva con mano
sicura l’Alfa Romeo, che volava veloce sull’asfalto.
Quando arrivarono al campetto, Taichi saltò subito
giù dall’auto.
-
Sono
vivo. Santo cielo, sono ancora vivo! Credevo di morire…
– disse, portandosi una
mano al petto.
-
Quante
storie… Non guido mica male. –
-
Mai
sentito parlare di limiti di velocità?! –
-
Sì.
–
-
E
sai per cosa sono stati inventati?! –
-
Per
essere infranti? – chiese lei, con innocenza.
-
No,
razza di maniaca della velocità! Servono a salvare la vita a
noi poveri disgraziati che abbiamo
la
sfortuna di ritrovarci in macchina con gente come te!
– protestò lui, senza però reprimere un
risolino.
-
D’accordo
papino! Ma ammettilo…
– ghignò – che
in fondo ti sei divertito. –
Lui
la guardò stranito e scoppiò a ridere.
-
Ah,
sei proprio matta, Rumiko! Ma chi ti ha insegnato a guidare? –
-
Ho
praticamente imparato da sola. – fece lei, orgogliosa.
-
Non
l’avrei mai detto… – rispose lui con
ironia.
-
E
con questo che vorresti dire? – lo guardò
minacciosa.
-
Nulla,
nulla! –
L’altra
si voltò, avviandosi imbronciata.
-
Non
ti sarai offesa – le si affiancò – Lo
sai che stavo scherzando! –
-
Lo
so. – gli sorrise, prendendolo a braccetto.
Taichi
rise e insieme si avvicinarono al campetto. Subito si sentirono
chiamare da una
delle panchine e videro un ragazzo dai capelli prugna che sventolava la
mano
nella loro direzione.
I due sospirarono e lo raggiunsero.
Daisuke indossava già la divisa rossa della squadra e si
stava riscaldando
insieme ai compagni.
-
Tai-kun!
Rumi-chan! Siete venuti a fare il tifo per me? – li
salutò felice e sprizzando
energia da tutti i pori.
“
Da quando sono diventata Rumi-chan?!
“ pensò sconsolata la ragazza.
-
No,
siamo qui per sostenere l’altra squadra. –
alzò gli occhi al cielo Taichi – Ma certo
che siamo qui per te! –
-
Sbaglio
o siete venuti in macchina? –
-
Ho
preso in prestito l’Alfa Romeo di mio padre. –
spiegò lei, stringendosi nelle
spalle come a non voler dar peso alla cosa.
-
Uao!
Non sapevo che avessi a disposizione una macchina come quella. Poi mi
ci
porterai a fare un giro? – chiese subito, emozionato.
-
Non
ti conviene: guida come una pazza! –
-
Ma
quale pazza? Dì pure che potrei spacciarmi per
professionista. – protestò lei.
-
Calma,
Schumacher-chan, qui non sei su una
pista. –
-
La
prossima volta vieni a piedi, ok? –
-
Ehi,
Daisuke, chi sono i tuoi amici? Puoi presentarceli? – si
avvicinò un compagno
di squadra, seguito a ruota dagli altri.
-
Ma
certo! – esclamò il moro, gonfiando il petto,
compiaciuto – Lui è Taichi
Kamiya, un mio grande e intimo amico. –
Rumiko
ridacchiò sotto i baffi, di fronte all’espressione
del diciottenne, che non
sembrava troppo entusiasta a sentirsi definire suo “grande e
intimo amico”.
-
Kamiya?
Non sarà quel Kamiya,
vero?! –
-
E
invece sì, è proprio lui! – rispose
l’altro, fiero.
-
Uao,
io sono un tuo grande ammiratore, sai? – disse uno.
-
Io
ho seguito tutte le tue partite! –
-
L’anno
prossimo verrò nella tua scuola! –
-
Anch’io!
Peccato che non potremo giocare insieme. –
-
Ehm,
mi fa piacere, ragazzi… – fece un passo indietro,
alzando le mani per
proteggersi dai giovani ammiratori.
-
E
lei… chi è? –
Tutti
si voltarono verso la giovane.
-
Si
chiama Rumiko Kitamura ed è nella stessa classe di Taichi.
Ovviamente anche lei
è… - ma non lo lasciarono terminare.
-
Scommetto
che state insieme, vero? –
-
Come?
No, vi sbagliate! Certo è una bella ragazza, ma sapete che a
me piace già la
mia Hikari! – si giustificò Daisuke.
-
Ma
che hai capito? Io mi riferivo a Kamiya! –
-
Già,
l’ho pensato anch’io. Siete una coppia perfetta!
–
-
E
poi siete anche venuti in macchina insieme… –
-
Un
campione e una bella ragazza… Ah, che invidia! –
-
Hai
ragione, sembra una di quelle coppie di vip che si vedono in TV!
–
-
E
scommetto che voi ne vedete proprio tanta di televisione, per avere il
cervello
farcito di simili sciocchezze! – esclamò lei, non
riuscendo più a trattenersi.
-
Dai,
Rumiko… - Taichi tentò di calmarla, tentando di
frenare innanzitutto le proprie
risate.
-
Questi
più che giocatori di calcio – fece una smorfia
– sembrano delle portinaie
pettegole. –
-
Ah,
bellissima e agguerrita! Sono proprio perfetti! –
commentò uno, ricevendo in
cambio un’occhiata in tralice.
Poi,
mettendo il consueto broncio, voltò il capo.
-
Ehm,
ragazzi, non la provocate o tocca a me cercare di calmarla. Sapete
com’è, ha un
caratterino… - sussurrò loro Taichi.
-
Ti
ho sentito, sai?! –
-
Come
non detto! – disse il ragazzo, sconsolato.
La
squadra al completo scoppiò a ridere.
Yamato era seduto sulle scalinate riservate agli spettatori. Alla sua
destra
c’era Sora e poco più in là avevano
preso posto Takeru e Hikari. Inutile dire,
però, che da quando un’Alfa Romeo aveva fatto il
suo ingresso nel parcheggio,
il ragazzo non aveva staccato gli occhi dalla figura che ne era uscita.
Non avevano avuto occasione di parlarsi dalla sera delle prove. Quella
volta
erano tornati a casa senza fiatare e il giorno dopo erano stati troppo
impegnati a causa di un compito in classe.
Ma quella domenica mattina Rumiko gli era parsa più carina
del solito ed era
con una fitta dolorosa che aveva constatato che era venuta
accompagnata. Lo
sconcerto non aveva potuto far altro che accrescersi, quando aveva
visto il suo
migliore amico a braccetto con la ragazza. Poi avevano raggiunto la
panchina
della squadra di Daisuke e lì erano stati travolti da una
raffica di domande da
parte dei giocatori.
Yamato si era avvicinato un poco e aveva teso le orecchie. A quanto
pareva li
avevano scambiati per una coppia di fidanzati. Il biondo era rimasto
pietrificato al suo posto, dato che nessuno dei due stava smentendo le
insinuazioni dei calciatori. Poi aveva sorriso leggermente, nel
riconoscere la
voce della ragazza alzarsi sopra le altre per metterle a tacere.
Ma il suo sorriso si era presto dissolto: in fondo li aveva solamente
zittiti,
senza negare le loro affermazioni.
Ora stava seguendo la partita con scarso interesse, ritrovandosi di
tanto in
tanto a lanciare delle occhiate verso la panchina. Al riparo del
tettuccio,
infatti, stavano seduti Taichi e Rumiko, sotto invito
dell’intera squadra. Lui
incitava i giocatori, dispensando consigli e incoraggiamenti, lei li
rimproverava e animava al tempo stesso.
A pochi minuti dalla fine del gioco la squadra si trovava in svantaggio
di un
punto. Gli avversari avevano deciso di impiegare le loro ultime energie
in
difesa, perciò gli attaccanti non riuscivano a far breccia.
L’allenatore decise
di chiamare un ultimo time out, probabilmente nella speranza di
escogitare una
tattica. Ma a Yamato bastò lanciargli un’occhiata
per capire che l’uomo non
sapeva che pesci pigliare.
“ Bene, partita conclusa. Mi dispiace per Daisuke, ma a
questo punto… “
Poi vide Rumiko prenderlo da parte e sussurrargli qualcosa
all’orecchio. Ovviamente
non capì di cosa si trattasse, ma vide il quindicenne
batterle un cinque e
tornare in campo con un sorriso stampato in volto.
“Che intenzioni avranno quei due? “ si chiese,
improvvisamente curioso e
attento.
La partita riprese e subito la squadra si riportò
all’attacco. Daisuke ottenne
la palla e avanzò, scansando alcuni avversari. Ma appena si
fosse trovato al
centro della difesa avversaria, avrebbe perso il pallone, come era
avvenuto in
precedenza. Poi accadde qualcosa, troppo improvviso per seguirlo con lo
sguardo.
Yamato sgranò gli occhi: Daisuke era per terra.
Lanciò un’occhiata alla ragazza
a bordo campo.
“ No, non può essere! “
L’arbitro fischiò il calcio di punizione. Il
giovane si preparò. Davanti a lui
c’erano pochi giocatori e il portiere. La posizione di tiro
era perfetta.
“ Non è possibile! “
Daisuke prese la rincorsa e calciò con forza la sfera, che
fece una piccola
parabola per poi andare dritta verso l’incrocio dei pali. Il
portiere saltò, ma
non raggiunse la palla, che andò ad insaccarsi nella porta.
Pareggio a pochi
secondi dalla fine.
La squadra esultò. Taichi si alzò dalla panchina
e raggiunse la compagna,
abbracciandola felice e togliendole la visiera per scompigliarle
affettuosamente i capelli. Quella protestò, probabilmente
per i suoi capelli
lunghissimi ora spettinati, prendendogli a pugni la schiena. Lui rise e
le
rimise il cappello sul capo. Poi entrambi vennero investiti da un
esuberante
Daisuke, che lanciò le braccia al collo della ragazza e la
stampò un bacio
sulla guancia. Ovviamente lei lo allontanò, ma subito il
quindicenne fece un
cenno ai compagni, che si avventarono su di lei per sollevarla sopra le
loro
teste e farle fare un piccolo giro del campo, scortati da Taichi.
Yamato abbassò lo sguardo, stringendo i pugni. Qualcosa si
mosse dentro di lui
e un pensiero gli sfiorò la mente: avrebbe voluto esserci
lui al posto di
Taichi. Subito, però, scosse la testa. Si stava comportando
come un egoista,
verso il suo migliore amico e soprattutto verso Sora.
La ragazza parve percepire il suo turbamento, perché gli
sfiorò la mano con la
sua, sorridendo dolcemente. Il ragazzo si rilassò. In fondo
andava bene anche
così: Sora gli voleva bene e anche lui teneva a lei. Dunque
perché rovinare
tutto per una persona come Rumiko, che di sicuro avrebbe portato solo
nuovi
sconvolgimenti nella sua vita?
Una vocina dentro di lui rispose: forse, perché la sua vita
aveva bisogno di esser sconvolta.
Quando finalmente riuscì a scendere, la ragazza si
ritrovò tra le braccia di
Taichi, che la sorressero prontamente e la fecero atterrare sana e
salva.
-
Ehi,
campioni! Complimenti per la vittoria! –
Verso
di loro venivano Takeru e Hikari, seguiti da Sora e Yamato.
-
Piaciuta
la partita, Hikarina mia? Sono stato grande alla fine, vero?
– gongolò Daisuke.
-
Ma
se è stata Rumiko a dirti cosa fare! – lo
rimproverò Taichi.
-
Uffa,
possibile che non possa mai avere il mio attimo di gloria? –
-
L’hai
avuto il tuo attimo di gloria, perciò non fare la vittima.
–
-
Non
sapevamo fossi un’esperta in tattiche. – le sorrise
Hikari, ammirata.
-
Non
che ci voglia un grande genio a spingere un difensore a commettere un
fallo. –
commentò Yamato.
-
Se
avevi altre idee potevi venire ad esporle. – fece lei,
infastidita dal suo
tono.
-
Giusto!
– si intromise Daisuke per darle man forte.
-
Tu
datti una calmata, visto che avete solo pareggiato. –
incalzò il cantante.
-
Ehi,
dattela tu una calmata! Chi ti
credi
di essere?! – si scaldò il calciatore.
-
Abbassa
la cresta, nanerottolo! – tentò di liquidarlo.
-
Nanerottolo
a chi?! Sono poco più basso di te, capellone dei miei
stivali! –
-
Non
ti hanno insegnato a portare un minimo di rispetto a chi è
più grande di te? –
-
E
perché dovrebbe, visto che tu non ne porti per nessuno?
– tornò alla carica la
ragazza.
-
Non
ti impicciare! –
-
Io
mi impiccio come e quando voglio! –
-
L’ho
notato. –
-
Che
vorresti insinuare?! –
-
Che
qualche volta potresti anche farti i
fattacci tuoi! –
-
Come
ti permetti?! –
-
Ti
diverte tanto giocare con la vita della gente per poi gettarla via
appena ti
stufi?! –
-
Ma
che stai dicendo?! – urlò lei, sconcertata.
-
Ti
piace tanto far le fusa a Taichi, vero?! Inganni le persone e quando
non ti
servono più… che fai, le butti via? Ti prendi
gioco dei loro sentimenti,
approfitti dell’affetto di chi ti è vicino e
così farai anche con Tai, come…! –
ansimò nervoso.
-
COME
COSA?! AVANTI, YAMATO, COME CHE COSA?! – strillò
lei, al colmo della rabbia.
-
COME
HAI FATTO COL TUO INGENUO PADRE! –
Un
silenzio pesante scese su tutto il campo. Yamato si bloccò:
Rumiko tremava, il
volto rosso contratto dalla rabbia, gli occhi di brace e umidi.
Alzò una mano
per colpirlo, ma un’altra fu più veloce e lui
arretrò sotto il colpo.
Il biondo sgranò gli occhi, voltandosi verso Taichi: il suo
migliore amico gli
aveva appena tirato un pugno. Yamato aprì la bocca piena di
sangue, ma l’altro
gli dette le spalle, afferrò la mano di Rumiko e la
trascinò via.
Yamato tenne lo sguardo basso. Sentì una mano scivolare
nella sua e
allontanarlo. Osò sollevare gli occhi e incrociare quelli di
Sora: erano più
scuri di quanto ricordasse. Inspiegabilmente si ritrovò a
balbettare uno
“scusa”. Lei contrasse la mascella e lui
pensò che anche la sua ragazza
l’avrebbe colpito.
-
Le
scuse non basteranno certo a farti rivalutare ai miei
occhi…e tanto meno ai
suoi. –
-
Non
volevo… - tentò.
-
No,
Yamato. – lo rimproverò con fermezza –
Tu volevi,
eccome. È questo che ha fatto più male. Conoscevi
il suo punto debole e l’hai
sfruttato per ferirla e metterla in imbarazzo davanti a tutti. Ti sei
comportato
da persona meschina. –
Yamato
non credeva che le parole potessero fare tanto male. In quel momento,
davanti a
quello sguardo ambrato, pensò che avrebbe preferito ricevere
un cazzotto.
Taichi la trascinò fino all’Alfa Romeo e solo
allora si voltò a guardarla: gli
occhi viola erano ancora sgranati. Si fece dare le chiavi
dell’auto e la fece
salire dalla parte del passeggero. Poi si sedette sul sedile del
conducente e
azionò il motore.
Mentre guidava lungo le strade della città, di tanto in
tanto le lanciava
un’occhiata, constatando che la sua espressione non era
cambiata. Serrò la
presa con più forza sul volante e si impose di mantenere la
calma. Dire che questa
volta Yamato l’aveva combinata proprio grossa sarebbe stato
un eufemismo.
Arrivarono a destinazione e lui fermò la macchina nel
parcheggio. La fece
scendere e la accompagnò fino al quarto piano.
Suonò il campanello, ma non
ottenne risposta.
-
Non
c’è nessuno. – lo raggiunse un filo di
voce alle sue spalle.
Lui
annuì e prese le chiavi che gli porgeva. Aprì la
porta e un pensiero gli
attraversò la mente: l’ultima volta che aveva
attraversato quella soglia era
stato sorpreso dalla vivacità dell’ambiente. Ora
fu colpito dal suo silenzio.
Improvvisamente gli parve vuoto e grigio, benché la ragione
gli dicesse che era
assurdo, data la varietà di arredi e immagini appese alle
pareti. La condusse
nella sua stanza e la fece stendere. La ragazza si coprì la
faccia con un
braccio.
-
Grazie.
– sussurrò senza guardarlo.
-
Ma
ti pare. Se hai bisogno non esitare a chiamare, per qualsiasi cosa.
– le
sorrise.
Ma
sapeva che non l’avrebbe mai fatto.
Taichi si richiuse la porta alle spalle. Stava per oltrepassare di
nuovo la
soglia di casa, quando si fermò: una parete spoglia si
stagliava lì dove prima
c’era stata una cornice. Ricordava bene la fotografia: il
cielo scuro, la città
costellata di luci variopinte e una sagoma scura che si stagliava sulla
cima
del palazzo più alto, i capelli lunghi mossi dal vento.
Venne colpito da
un’idea e si diede mentalmente dello stupido per non esserci
arrivato prima.
“ Quella era lei, senza dubbio! Ha pure gli stessi capelli
lunghi mossi dal
vento! Ma come mai si trovava in equilibrio ad una simile altezza? E
poi perché
ha voluto togliere la fotografia? Che le evocasse spiacevoli ricordi?
“
Ovviamente non seppe darsi una risposta.
Quando Hiroshi Kitamura tornò a casa, vi trovò
uno strano silenzio. Entrò nella
stanza della figlia e la trovò addormentata sul letto. Gli
bastò uno sguardo
per capire che quel giorno qualcosa o qualcuno
l’aveva sconvolta. E se si fosse trovato a un tavolo da gioco
avrebbe scommesso
tutto il suo conto in banca sul numero 17.
Per un attimo sentì montare la rabbia dentro di
sé e fu tentato di buttare giù
a calci la porta dei vicini per strozzare il responsabile. Poi
riacquistò la
calma: non doveva intervenire, per il bene del condominio, del signor
Ishida,
ma soprattutto per il bene di sua figlia.
Sospirò e richiuse la porta dietro di sé: tutto
sarebbe andato nel migliore dei
modi…o almeno se lo augurava.
Continua…
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Capitolo 6 *** - ***
Capitolo 6
-
Ehi,
Yamato! Dov’è finita la bella Kitamura? –
-
Non
lo so. – fu la risposta atona.
A
dire il vero poteva supporre dove si trovava, o meglio con chi: Taichi.
-
Cos’è,
i due piccioncini hanno litigato? – lo punzecchiò
il batterista.
-
Non
sono affari tuoi! – scattò lui, per poi recuperare
la solita calma.
-
Scusate.
– disse a capo chino, per poi afferrare la chitarra.
Gli
altri componenti del gruppo lo fissarono stupefatti. Poi il bassista,
un
giovane dai capelli corti e ingellati, diede il via alle prove.
Da quella domenica le giornate si erano fatte ancor più
brevi e fredde, tanto
che pochi coraggiosi osavano ancora raggiungere la scuola a piedi. Quel
clima
pareva riflettere alla perfezione il rapporto tra i due vicini.
Yamato era sicuro che non gli avrebbe mai più rivolto la
parola, che lo avrebbe
odiato. In realtà lei sembrava limitarsi ad evitarlo. Anzi,
pareva che l’avesse
completamente cancellato dalla sua mente. Ogni volta che tentava di
incrociare
il suo sguardo, gli occhi viola volavano oltre, come se lui fosse fatto
solo
d’ossigeno. Se poi tentava un approccio verbale, le sue
parole parevano
perdersi nel vento. Qualche volta aveva cercato di fermarla, ma lei era
riuscita a scivolargli via, come l’acqua tra le dita.
L’allontanamento
dal cantante aveva però segnato un avvicinamento al
calciatore. Taichi faceva
di tutto per non lasciarla mai sola e lei non faceva nulla per
allontanarlo.
Nonostante non l’avrebbe mai ammesso, le faceva piacere avere
al suo fianco quel
ragazzo pieno di riguardi. Con lui riusciva a parlare con maggior
libertà, a
ridere e scherzare con serenità. Era stata la prima persona
che aveva
incontrato in quella città e il loro rapporto era speciale.
Rumiko era perfettamente cosciente delle voci che circolavano a
proposito di
una loro relazione, ma non aveva mai fatto parola per smentirle. E
perché
avrebbe dovuto? Taichi era un ragazzo d’oro, oltre che molto
carino, con quei
suoi occhi nocciola, i capelli sempre scompigliati e un sorriso
spensierato sul
volto. Sotto certi aspetti era ancora un bambino e le faceva tenerezza
quando
si lagnava per la sua sfortuna o quando esultava per un goal. Lui era
fatto
così: solido e rassicurante nella sua semplicità
disarmante. Certo, se qualcuno
fosse arrivato a chiederglielo, lei avrebbe negato i pettegolezzi. Ma
per ora
andava bene così.
L’unica macchia nera era il rapporto del ragazzo con Yamato.
Lei sapeva quanto
fossero legati e non poteva fare a meno di sentirsi in colpa: in fondo
era a
causa sua se i due avevano litigato. Ma quando aveva tentato di far
ragionare
il bruno, lui era stato irremovibile.
-
Non
devi sentirti in colpa, dico sul serio. –
-
Sì,
ma la causa del vostro litigio sono stata io. Non è giusto,
in fondo tu non
centravi nulla… –
-
Come
non centravo? Lui ha detto delle cose ignobili ad una mia cara amica e
mi vieni
a dire che non centravo nulla?! –
-
Ma…
-
-
Niente
ma! Proprio perché Yamato è mio amico non posso
accettare ciò che ha fatto.
Parlando in quel modo ha ferito anche me, perché non mi
sarei mai aspettato una
cosa simile da parte sua. –
-
Hai
intenzione di non parlargli mai più? –
-
Beh,
“mai” è una parola grossa! Ma stai pure
sicura che non lo perdonerò tanto
presto. –
E
le aveva sorriso. Tuttavia quella sensazione non l’aveva
abbandonata e spesso
l’aveva sorpreso a lanciare occhiate indecifrabili al
compagno. Dunque era
costretta ad operare una scelta: perdonare Yamato e farli tornare
amici, o
persistere nel suo astio e rovinare un’amicizia. Ma se una
parte di lei sapeva
che avrebbe scelto la prima possibilità, l’altra
non riusciva a dimenticare
quelle parole crudeli e ad abbassare l’ascia di guerra.
Se avesse dovuto prendere una decisione da sola, forse non ce
l’avrebbe fatta.
Fortunatamente, come scoprì un pomeriggio di inizio
dicembre, non era sola.
Si stava arrovellando tra le pagine di fisica, la materia che detestava
di più
in assoluto, quando il telefono squillò. Sbuffando, si
liberò dei libri che le
coprivano le gambe e saltò giù dal divano.
Scavalcò in extremis un dizionario
di inglese, rischiò di inciampare a causa della tuta troppo
lunga e sollevò la
cornetta.
-
Pronto,
qui casa Kitamura. –
-
Ciao,
Rumiko. Sono Sora, hai un minuto? –
L’altra
lanciò un’occhiata in tralice ai libri stesi in
salotto e sospirò sonoramente.
-
Fosse
per me tutto il tempo del mondo. – commentò.
-
Scommetto
che stavi studiando fisica, vero? –
-
Da
cosa l’hai intuito? –
-
Non
è difficile indovinare quando si sta nella stessa barca. Mal
comune mezzo
gaudio! –
-
Mi
spiace dirtelo ma non vi sarà nessun gaudio nel compito di
domani. –
-
Non
dirmelo, se ci penso mi sale la depressione! Più leggo
quelle formule e più mi
convinco che non è la materia fatta per me. –
-
Concordo!
–
-
Senti,
ti va di studiare insieme? Forse la compagnia può renderla
più sopportabile. –
-
Hm…
dove possiamo vederci? –
-
Non
è il caso che vieni da me, visto che è un
po’ troppo lontano per te. Possiamo
incontrarci in un bar a metà strada.
C’è un locale molto tranquillo dalle parti
della scuola che fa al caso nostro. –
-
E
pensi che ci lascino studiare ai loro tavoli? –
-
Se
ordini qualcosa una bella fetta di torta sì, tanto sono
abituati agli studenti.
Io ci vado spesso. –
Rumiko
ci pensò un attimo: di certo non aveva voglia di studiare,
né di stare da sola
in quelle stanze silenziose. Taichi non era potuto venire a trovarla
perché
aveva gli allenamenti e suo padre sarebbe tornato tardi come al solito,
se non
il giorno dopo. L’invito di Sora sembrava un miracolo sceso
dal cielo: dolci,
compagnia e forse una sufficienza tirata al compito in classe.
-
D’accordo,
ci sto! –
-
Fantastico!
Allora ci vediamo davanti ai cancelli della scuola tra…
mezz’ora ti basta? –
-
Sì,
va bene. Allora a dopo. –
-
Ciao!
–
A
velocità lampo raccolse il materiale necessario in una
borsa, si cambiò,
indossando una gonna scozzese corta, delle calze lunghe e spesse e un
maglione
soffice, si pettinò, infilò chiavi, portafoglio e
cellulare nella borsa a
tracolla e calzò dei stivali alti fino al ginocchio.
Afferrò il cappotto e una
soffice sciarpa e uscì.
Per fortuna il bus non impiegò molto ad arrivare: non aveva
la minima voglia di
farsi la strada a piedi con quel freddo. Un conto era
d’estate, ancora ancora
d’autunno, ma d’inverno non se ne parlava nemmeno!
Arrivò a scuola in tempo e attese pochi minuti. Presto venne
raggiunta da una
figura altrettanto coperta.
-
È
molto che aspetti? –
-
No,
sono appena arrivata. –
-
Bene,
allora vieni, che qui si congela! – le sorrise la ragazza,
per poi avviarsi.
Quel
gesto le ricordò Taichi per la sua semplicità e
spontaneità. Si sorprese di
quel pensiero e la seguì.
Il bar in questione era un luogo caldo e tranquillo. Alcuni tavolini
erano
occupati da altri studenti, che parlavano pacati, sfogliavano libri,
prendevano
appunti e si aiutavano a vicenda. Due uomini dietro il bancone, uno
sopra i
quaranta e l’altro attorno ai trenta, servivano i clienti
seduti sugli sgabelli,
versavano caffè, the e cioccolate fumanti, disponevano
appetitose fette di
torta sui piattini. Una sinfonia classica faceva da sottofondo, senza
infastidire lo studio.
Sora la condusse al piano superiore, dove presero posto su un lato
libero della
stanza, non troppo vicino alle finestre per evitar possibili spifferi.
Si
tolsero i cappotti e li appoggiarono ad un attaccapanni. Si sedettero
ed
estrassero i libri.
-
Ti
piace il posto? – le chiese piano la compagna.
-
Sì,
è molto confortevole. –
-
Per
quanto lo possa essere un luogo che pullula di libri scolastici,
giusto? –
Rumiko
si sorprese a sorriderle e l’altra ricambiò il
gesto. In quel momento le parve
davvero carina: i dolci e luminosi occhi d’ambra, la pelle
leggermente
abbronzata, i capelli ramati trattenuti da alcune mollette. Indossava
una gonna
scura lunga fino al ginocchio, con alcune fibbie sul davanti. Sopra una
maglietta bianca aveva messo un golfino azzurro, che le risaltava
magnificamente il colore dei capelli. Aveva una voce pacata e
rassicurante, ma
al tempo stesso energica, che non suscitava repliche. Era una ragazza
intelligente e allegra, disponibile con tutti. Insomma, una persona
d’oro, proprio
come Taichi.
Ancora una volta si sorprese del pensiero, ma lo scacciò via
immediatamente.
Dopo un’oretta di studio decisero di fare una pausa e
chiesero due cioccolate
con panna. Stavano sorseggiando il liquido caldo, quando la rossa
decise di
affrontare l’argomento.
-
Senti,
Rumiko… volevo dirti che mi dispiace per la situazione che
si è venuta a
creare. –
-
Lo
so, sono una schiappa in fisica! – scherzò lei
tentando si apparire spontanea.
-
Parlo
di Yamato. –
-
Oh.
– fu tutto ciò che riuscì a commentare:
ecco quindi il reale motivo di
quell’invito.
-
Ha
detto delle cose davvero orribili, fai bene a non perdonarlo tanto
facilmente.
Io stessa, che sono la sua ragazza e gli voglio bene, non lo farei!
–
-
Non
ci credo, tu non saresti capace di portare rancore. – disse,
senza astio.
-
Sbagli,
se pensi che io sia tanto affabile. Sono paziente, questo è
vero, ma anch’io
perdo le staffe. Sai, una volta ero quasi un maschiaccio, pensa che ero
pure il
capitano di una squadra di calcio. –
-
Dici
sul serio? –
-
Certo!
Ho solo cambiato modo di presentarmi al mondo, ma dentro di me sono
sempre la
stessa. Dunque ti capisco se sei arrabbiata con lui. Ha sbagliato e ora
è
giusto che paghi per questo. –
Per
un attimo Rumiko non disse nulla.
-
Vorrei
solo non sentirmi…in colpa. – proseguì
poi.
-
Ti
riferisci a Yamato e Taichi, vero? –
-
La
loro amicizia si è rovinata a causa mia. –
-
Non
ti preoccupare di questo! Quei due non è certo la prima
volta che litigano, ma
hanno sempre finito per fare pace. Sono solo testardi, ma in fondo si
vogliono
troppo bene per stare lontani a lungo. –
-
Mi
pare difficile immaginare una cosa simile di Yamato…
– commentò, per pentirsi
subito dopo delle sue parole.
“
Accidenti! Proprio davanti alla sua ragazza dovevo andare a dire queste
cose?!
“
Ma l’altra, anziché arrabbiarsi, sorrise.
-
Lo
so, ha un caratteraccio, ma è fatto così da
sempre. In realtà è maledettamente
orgoglioso e timido… –
-
Timido?!
Lui?! –
-
Già,
proprio lui! – le confermò con un risolino
– Vedi, noi ci conosciamo dalle
elementari… intendo io, Taichi e Yamato. E ti assicuro che
sotto quella scorza
da uomo duro si nasconde un cuore generoso. –
Fece
una piccola pausa.
-
In
un certo senso noi tre ci assomigliamo: entrambi celiamo
un’indole sconosciuta
ai più. Così come io nascondo il mio lato di
maschiaccio esuberante, Taichi
cela quella di persona matura e Yamato quella più altruista
e amorevole.
Capisci cosa intendo, vero? – la guardò dritta
negli occhi.
-
Sì.
–
-
Bada,
non ti sto dicendo di perdonarlo come se niente fosse
successo… te l’ho detto,
non lo farei nemmeno io! Ma forse potresti dargli un’altra
possibilità… –
Lei
stette un attimo zitta.
-
Va
bene – disse infine – ci proverò.
–
-
Grazie.
–
-
Perché
mi ringrazi? –
-
Perché
mi hai fatto un favore: vorrei evitare che tra il mio ragazzo e la mia
amica ci
siano dei disaccordi. – le sorrise.
-
Lo
dice anche Taichi… Perché mi consideri tua amica?
– le chiese, distogliendo
però lo sguardo.
-
Beh,
penso per lo stesso motivo degli altri: perché mi piaci!
–
-
Grazie…
anche tu mi piaci. – sbiascicò.
Non
era mai stata molto brava in queste cose e ora si sentiva una sciocca:
Sora le
aveva parlato col cuore, in tono risoluto e tranquillo, mentre lei era
solo
stata capace di balbettare poche stupidaggini. Però la
compagna parve non farci
caso, perché le afferrò la mano nella sua.
-
Voi
due vi assomigliate molto, perciò do per scontato che le mie
parole andranno
perse nel vento. Comunque se ti servisse aiuto per qualsiasi cosa, non
esitare
a chiedermelo, intesi? –
-
D’accordo.
–
Ma
di nuovo sapeva che, malgrado si sentisse a suo agio con quella
ragazza, non
l’avrebbe fatto.
Sora la guardò di sottecchi: la compagna era concentrata sui
suoi appunti, la
fronte leggermente corrugata e lo sguardo attento. Ora capiva le parole
di
Taichi e come mai il ragazzo le fosse tanto affezionato. Quella ragazza
assomigliava molto non solo a Yamato, ma anche a loro due,
poiché pure lei
nascondeva qualcosa dentro di sé. Si ostinava a fare la
dura, a tenere la gente
a distanza, senza capire che più tentava di mettere spazio
tra lei e gli altri,
più loro desideravano colmarlo. C’era qualcosa in
lei che attraeva le persone:
forse il suo carattere forte, i suoi modi diretti, oppure quel suo
sorriso.
Eppure lei sembrava non riuscire a capacitarsene, come se non riuscisse
ad
accettare che qualcuno potesse tenere veramente a lei. Bastava vedere
come si
era comportata con la rossa poco prima. In un certo senso era come se
quegli
occhi viola si stessero guardando attorno per la prima volta,
meravigliandosi
di ciò che scorgevano, e a Sora faceva quasi tenerezza.
Poi aveva scrutato più a fondo in quelle iridi e vi aveva
scorto delle ombre.
Sorpresa, si era accorta di quanto quegli occhi fossero…
tristi, come
increspati da un ricordo spiacevole che vi aveva inciso un solco
profondo.
Allora le era sembrata molto più matura di tutti loro, come
se un evento
particolare l’avesse fatta crescere.
Taichi
era stato il primo ad aver fatto un passo nella sua direzione, ma ora
lei intendeva
raggiungerlo.
Qualche
tempo dopo si sarebbe domandata cosa avrebbe fatto se avesse previsto
gli
eventi che si sarebbero verificati. Ma, con un sorriso, si sarebbe
detta che
non avrebbe agito diversamente.
Ormai si era fatta sera. Le due ragazze si erano divise, nonostante
Sora fosse
stata riluttante a lasciarla ad aspettare il bus da sola. Ma Rumiko
aveva
insistito: anche la rossa doveva sbrigarsi a tornare a casa e aspettare
in due
al freddo non sarebbe valso a nulla, se non a far ammalare entrambe.
Così si
erano salutate e ora lei si trovava da sola, stanca e infreddolita ad
aspettare
uno stupido mezzo di trasporto che non sembrava avere intenzione di
arrivare
entro la fine dell’anno.
Dopo una buona mezz’ora d’attesa, decise di
avviarsi a piedi: se non altro si
sarebbe scaldata. Ovviamente, appena svoltò
l’angolo, sentì un suono familiare
alle spalle e tornò sui suoi passi, giusto in tempo per
vedere il bus
sorpassarla, incurante dei suoi gesti. Disperata, pensò alla
strada che doveva
farsi a piedi, visto che l’alternativa sarebbe stata
aspettare il successivo
per almeno un’ora buona.
Non passò molto, però, che candidi fiocchi di
neve cominciarono a cadere dal
cielo. La prima nevicata di quel inverno e, guarda il caso, lei non
aveva
l’ombrello.
Non aveva idea di quanto tempo fosse passato, visto che non poteva
permettersi
di tirare su la manica del cappotto per lanciare uno sguardo
all’orologio.
L’unica cosa certa era che stava congelando. La neve non
accennava a diminuire,
rendendo il suo passo lento e malfermo. Il freddo pungente le aveva
fatto
arrossire il naso e le gote e, nonostante cercasse di coprirlo con la
spessa
sciarpa, anche il mento cominciava a divenire insensibile alla
temperatura. Di
tanto in tanto emanava nuvolette di vapore, con l’unico
risultato di
ghiacciarsi la gola e far inumidire la sciarpa. I capelli erano fradici
e
sembravano più delle alghe marine, che morbidi onde.
Ad un certo punto temette di essersi persa, dato che non era ancora
giunta a
destinazione.
Poi, in mezzo alla neve, le venne incontro un ombrello azzurro.
“ Sora! “ pensò subito. Ma, ovviamente,
non era lei: Yamato le stava di fronte
e la guardava, in silenzio.
-
Ho
freddo. – sbottò la ragazza, cosa per altro
piuttosto evidente.
Lui
non rispose, ma la riparò con l’ombrello e
l’accompagnò lungo la via.
Nonostante il clima non fosse cambiato, Rumiko si sentì
meglio. Uno strano
pensiero le attraversò la mente stanca: perché il
ragazzo si trovava fuori con
quel tempo?
Dopo pochi minuti arrivarono al condominio, dove lui aprì il
portone principale
e lei si scrollò un po’ di neve da addosso.
Presero l’ascensore e raggiunsero
il quarto piano.
-
Fatti
subito un bagno caldo. –
Lei
stava per rispondergli con un secco “ Lo so benissimo, cosa
credi?! “, ma le
tornò in mente la conversazione avuta con l’amica
e si trattenne.
-
Grazie.
– disse invece.
-
Di
nulla. –
Poi
la ragazza si richiuse la porta alle spalle. In quel momento si
ricordò che era
ancora arrabbiata con lui, ma subito si dette della scema. Ormai
avevano
praticamente fatto pace, cosa che in fondo voleva, no?
“ A pensarci bene non è stata tanto male questa
nevicata, visto che mi ha
risparmiato il problema di trovare un modo decoroso di deporre
l’ascia di
guerra! “
Ma subito uno starnuto ben poco decoroso la riportò alla
realtà e la ragazza si
affrettò a spogliarsi degli indumenti bagnati e immergersi
in una vasca d’acqua
calda.
L’indomani avrebbe saltato il temuto compito di fisica a
causa di un forte
raffreddore.
Continua…
|
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Capitolo 7 *** - ***
Capitolo 7
Nei
due giorni seguenti ricevette molte telefonate da parte di Taichi e
Sora, la
seconda terribilmente in colpa per lo stato di salute della ragazza.
Lei li
aveva tranquillizzati, dicendo che presto sarebbe tornata a scuola, ma
non
aveva potuto evitare che venissero a farle visita.
Il pomeriggio del secondo giorno si presentarono insieme alla sua
porta. Lei
venne ad aprire la porta in pigiama.
-
Ok
è viva, possiamo andarcene. – fece dietrofront il
ragazzo, subito riagguantato
dall’amica.
-
Che
imbecille. – rise Rumiko dello scherzo.
-
Scusa
se piombiamo in casa tua senza preavviso. – si
scusò educatamente la rossa.
-
Nessun
problema. – bofonchiò lei – Solo mi
dispiace che la prima volta che vieni da me
la casa sia un tale disastro… –
-
Ah,
è vero che tu non sei mai stata qua. Allora posso farti fare
il giro
dell’appartamento? –
-
Temo
tu abbia frainteso l’espressione “fai come se fossi
a casa tua”. – alzò un
sopracciglio Rumiko.
Dopo
un’oretta i due decisero di levare le tende e la salutarono.
Rumiko si sedette
in salotto e si concentrò sugli appunti che
l’amica le aveva portato. Al suo
ritorno avrebbe dovuto recuperare il compito di fisica, se non il
giorno
stesso, di sicuro quello dopo. A quanto le avevano detto, non era stato
affatto
semplice. Taichi non si preoccupava molto del risultato, dato che era
abbonato
al 4. Sora invece si era scusata, spiegando che anche lei rischiava un
brutto
voto e che dunque non era la persona più indicata a
spiegarle la materia.
La ragazza sospirò sconsolata: possibile che fosse
condannata ad avere anche
lei all’insufficienza? Non che la pagella fosse per lei una
questione
fondamentale, ma prima o poi avrebbe dovuto recuperare i brutti voti,
altrimenti avrebbe passato le vacanze a studiare quell’odiosa
materia per
recuperare i debiti. Insomma, si sarebbe volentieri accontentata di un
6, ma
per ottenere la sufficienza avrebbe dovuto dimostrare di aver capito
qualcosa e
lei non sapeva nemmeno da che parte cominciare!
Dunque
a chi poteva rivolgersi? Suo padre sarebbe tornato tardi come al solito
e in
ogni caso aveva parecchi dubbi riguardo alle sue competenze nelle
materie
tecniche. Non gli restava che…
Alzò la cornetta del telefono e compose il numero.
“È una situazione di emergenza.“ si
giustificò mentalmente “La vita è fatta
di
compromessi, no? Ebbene: ingoiare il mio orgoglio in cambio
dell’estate libera
dagli studi. Mi pare ne valga la pena.”
Sperò
solo che il professore avrebbe riconosciuto questo sforzo.
Dopo pochi minuti il citofono si fece sentire e, tratto un bel respiro,
ripetendosi “vacanze senza studiare, vacanze senza
studiare” Rumiko andò ad
aprire la porta.
Un ragazzo alto e biondo stava sulla soglia, lo sguardo indecifrabile
come
sempre.
-
Non
hai un bel aspetto. – commentò tranquillamente.
-
Scusa
se non mi sono messa in tiro per l’occasione. –
rispose lei a tono.
“Cominciamo
bene! Non è neppure entrato e già lo prenderei a
calci. Chissà perché deve
essere sempre così… così insopportabile!
Gli danno un premio se mi fa perdere la pazienza in meno di un
minuto?“
Senza aggiungere altro lui la sorpassò e cominciò
a guardarsi attorno,
evidentemente contrariato da ciò che vedeva.
-
Questo
posto fa schifo. –
-
Senti
un po’, sei venuto per farmi la predica o per aiutarmi?!
– lo raggiunse lei.
Lui
non rispose, ma scomparve in cucina per tornare con due sacchetti
dell’immondizia e le mani infilate in un paio di guanti rosa
da cucina.
Incurante delle proteste di Rumiko cominciò a raccogliere
pacchetti vuoti e
cartacce.
-
Si
può sapere che diavolo stai facendo?! –
-
Pulisco.
– disse lui con semplicità.
-
Forse
al telefono non sono stata chiara: ho bisogno di ripetizioni,
non di ripuliture.
–
-
Non
puoi studiare in mezzo al caos. Se l’ambiente è
disordinato la tua mente sarà
ugualmente disordinata. –
Lei
alzò le mani in segno di resa e si sedette sul divano,
incrociando le gambe.
Yamato continuò a riassettare la casa, spazzando via le
briciole, raccattando,
con una smorfia esageratamente disgustata i fazzoletti usati,
raccogliendo le
tazze e i piatti e mettendoli nella lavastoviglie. Ad un tratto la fece
anche
alzare dalla sua postazione, con un gesto che le ricordava quello di un
padrone
nei confronti del cane, per ripulire la coperta in cui si era avvolta.
Al termine dell’opera si guardò attorno
visibilmente soddisfatto. Ma quando il
suo sguardo si posò su di lei, storse la bocca in maniera
eloquente.
-
E
ora che c’è? – sbuffò lei.
-
Anche
tu avresti bisogno di una ripulita. – spiegò.
-
È
casa mia e mi concio come mi pare! Piuttosto, sei qui per darmi una
mano o per
criticare il mio aspetto? –
-
D’accordo,
d’accordo! Su, fammi vedere cos’è che
non ti è chiaro. –
Si
sedettero sul divano e aprirono i libri. Lei gli spiegò
brevemente la sua
situazione e lui sospirò.
-
In
poche parole non hai capito nulla. –
Lei
stava per rispondergli di nuovo a tono, ma richiuse la bocca stizzita e
mise il
broncio, conscia della sua ignoranza. Yamato ignorò la sua
reazione, afferrò
una penna e cominciò a spiegarle le dimostrazioni.
Rumiko stava china sui libri, il volto teso per la concentrazione.
Alcune
ciocche di capelli erano sfuggite alla pettinatura improvvisata e le
ricadevano
ai lati del viso, sfiorandole gli zigomi. Ma lei non se ne curava,
limitandosi
a spingerli di tanto in tanto dietro un orecchio con un gesto rapido
della
mano. Una gamba era ripiegata sotto di lei, l’altra penzolava
oltre il bordo
del divano. Il suo naso era leggermente arrossato. Nonostante i
commenti di
Yamato, aveva deciso di restare com’era, avviluppata in
quegli abiti larghi,
stropicciati e a suo avviso comodi, che nascondevano le sue forme.
Eppure anche
così gli parve estremamente carina.
Ora stava tracciando un grafico con mano sicura, spostando lo sguardo
dal disegno
ai dati del problema.
-
Scusa.
– disse piano il ragazzo.
Lei
alzò gli occhi ad incrociare i suoi, poi li
abbassò sul disegno aggrottando la
fronte perplessa.
-
L’altro
giorno… mi sono comportato in maniera meschina. Non dovevo
dire quelle cose. –
Fece
una pausa, omettendo il motivo che, come aveva compreso in quei giorni,
l’aveva
spinto a parlare in quel modo: Yamato era geloso.
-
È
forse presuntuoso da parte mia chiedertelo, ma… potresti
perdonarmi? –
Rumiko
lo guardò un attimo, poi annuì piano.
-
La
verità è che… ecco, io… -
le afferrò la mano, avvicinandosi al suo viso.
Lei
si allontanò di scatto, sfuggendo alla sua presa. Yamato
cercò i suoi occhi
viola: il suo sguardo era deluso.
-
Sora
è una ragazza fantastica. – disse, severa
– È mia amica e non ho intenzione di
farle un torto simile. –
-
Però
tu… - si passò una mano tra i capelli biondi,
nervoso – Sarò franco: da quando
abbiamo litigato non sono riuscito a trovare pace, non ho fatto che
ripensare a
te, ai nostri battibecchi e al tuo sorriso felice in quelle vecchie
foto… -
-
Quali
foto? –
-
Quelle
di qualche anno fa. È da quando le ho viste che non faccio
altro che pensare a
te, a come eri spensierata, piena di gioia e… -
-
Ma
sono vecchie foto. Sono cambiata
molto
da allora… –
-
Lo
so, ma eri così… -
-
Dici
bene: ero. – rispose lei,
dura.
-
Non
è detto che tu non possa tornare a sorridere
così. Ti aiuterò. Vedrai, sono
sicuro che riuscirai a recuperare… -
-
Cosa?!
Cosa dovrei riuscire a recuperare?! –
-
La
vera te stessa. –
-
Ma
la vera me stessa è questa! – protestò,
battendosi una mano sul petto – Ce
l’hai davanti a te! –
-
No,
non è vero, questa è solo una maschera, una
corazza per proteggerti, forse perché
qualcuno ti ha ferita o delusa e non ti fidi più delle
persone. Succede a
molti, sai? Ma non dirmi che tu non sei così,
perché non ci credo… Ti ostini a
negarlo, ma in realtà… –
-
Chi
è qua quello che si ostina a negare la realtà?!
Partiamo dal fatto che quello
che mi è successo non ti riguarda
e
che non posso né ignorarlo né cancellarlo, a meno
che tu non nasconda in casa
tua la macchina del tempo e mi faccia tornare indietro di qualche anno.
In ogni
caso i fatti sono questi, che tu lo voglia o no: gli eventi della vita
cambiano
le persone e così è successo a me. Sono cambiata.
Fine della questione. –
-
No…
- fece lui, piano.
-
E
invece sì! Le persone cambiano, Yamato, e io sono
cambiata. Non puoi cambiare le persone semplicemente perché pensi che fossero meglio prima. E anche
se avessi questo superpotere, chi ti dice che io sia
d’accordo a tornare quella
che ero, che non mi piaccia di più così? In
fondo, le mutazioni avvengono per
meglio adattarsi agli ambienti in cui ci si trova, no? Ebbene, pensi
che
sarebbe giusto trasformarmi
secondo
le tue necessità
anziché le mie?
–
-
Non
lo so, ma devo farlo… -
-
Perché?!
–
-
PERCHÉ
MI SONO INNAMORATO DI TE! –
-
Come?
– sussurrò lei.
-
È
così, da quando ho visto quelle fotografie mi sono
innamorato di te. –
Silenzio.
-
No.
–
-
Come?
–
-
No.
Tu non ti sei innamorato di me,
semmai
della vecchia me che hai visto solo
in fotografia, quella che non c’è più.
–
-
Ti
sbagli… -
-
È
così, Yamato: ti sei innamorato di un’immagine, di
un fantasma. –
-
No…
-
-
Quella
persona non esiste più. –
-
Ma
se tu… io so che potrei riuscire a… -
-
Cambiarmi?
Vorresti cambiarmi per farmi diventare quella che desideri, per il tuo
piacere
personale? Anche se rimpiangessi la vecchia me, non te lo permetterei.
E
comunque… non ci riusciresti. –
-
Perché,
Taichi sì? –
fece lui, con una punta di
amarezza nella voce.
-
Taichi
non cerca di cambiarmi. A lui vado bene così come sono.
–
Fece
una pausa.
-
Sono
disposta a dimenticare ciò che hai appena detto, Yamato. Ma
solo a condizione che
tu desista dal tuo folle scopo. –
Lui
abbassò il capo, sconfitto. Solo allora si accorse di aver
sbagliato tutto, che
si era illuso. Aveva provato a fare ciò che secondo lui
andava fatto, ma aveva
peccato di arroganza ed egoismo.
Aveva
rovinato tutto. Anche ammesso che gli avesse ancora voluto rivolgere la
parola,
lui non avrebbe più osato guardare in faccia Rumiko. E con
che coraggio poteva
ancora presentarsi davanti a Sora? Nel giro di pochi minuti aveva perso
una
nuova amica e la fidanzata di tanti anni. Ma chi era quel maledetto
imbecille
che aveva detto che lui aveva fortuna con le ragazze?!
Si alzò e uscì dall’appartamento.
Abbattuto, si ritrovò di nuovo nell’ingresso di
casa sua, in quelle stanze
vuote e silenziose. Al pensiero che aveva sperato di poterle riempire
con i
sorrisi di quella ragazza, si sentì pizzicare gli occhi. In
un secondo seppe
cosa avrebbe fatto: afferrò le chiavi della moto, il
giubbotto, la sciarpa e fu
fuori.
Dopo venti minuti si ritrovò davanti ad un portone,
incredibilmente familiare
ma che non vedeva da troppo tempo. Suonò il citofono e venne
ad aprirgli un
ragazzo alto e bruno, dai capelli perennemente scompigliati. Non gli fu
difficile leggere la sorpresa in quegli occhi nocciola, ma non seppe
mai se
fosse dovuta alla sua visita inaspettata o alle lacrime che gli
solcavano le
guance arrossate dal freddo.
Rumiko si accasciò sul divano, con le mani tra i capelli. Al
pensiero di quel
che era appena successo si sentiva tremare. Nel momento in cui Yamato
le aveva
afferrato la mano, lei aveva provato un caldo brivido lungo la schiena
e il suo
cuore aveva preso a battere forte nel petto.
Ma
un istante dopo si era riscossa e l’immagine di Sora gli era
balzata davanti
agli occhi. Una ragazza speciale che l’aveva accolta,
parlandole a cuore aperto,
offrendole la sua amicizia; non avrebbe mai potuto ricambiare le
sensazioni
piacevoli che le aveva regalato facendola soffrire.
Rumiko
non aveva mai potuto vantare una grande cerchia di amici, dunque non
era molto
pratica in materia. Conoscenti, sì, ma non amici veri. Ma in
fondo non ne aveva
mai sentito il bisogno: ciò che aveva le bastava, dunque non
aveva mai sentito
la mancanza di qualcosa. Tuttavia ora le cose erano diverse: aveva
incontrato delle
belle persone che la facevano sentire bene, come non era stata da molto
tempo.
Perché mandare tutto all’aria? Perché
rinunciare a passare dei bei momenti in
loro compagnia? Per lui? Ne valeva davvero
la pena? Ovviamente no.
Poi era stato lui stesso a fugare ogni dubbio residuo. Le parole di
Yamato
l’avevano ferita altre volte, ma mai come in quel momento. Si
era innamorato
della Rumiko del passato. Non voleva lei,
voleva l’altra! Quella che
era
sparita due anni fa, insieme a…
Le lacrime le salirono agli occhi.
Si
era impegnata molto, in quei due anni. Aveva raccolto i brandelli della
sua
anima ferita e li aveva rimessi insieme, rammendandoli con forza e
coraggio
senza mai guardarsi alle spalle. E ora lui
voleva riportarla indietro?! Lei gli aveva detto che non era possibile,
che non
era giusto, che non era la cosa migliore per lei, ma lui non aveva
desistito.
Ma perché non l’ascoltava? Era stato egoista,
presuntuoso e insensibile. Ancora
una volta non erano stati in grado di capirsi.
Taichi si era sbagliato: loro due non erano fatti per stare insieme.
Avrebbero
solo finito per distruggersi a vicenda. E non ne valeva la pena.
Ma allora perché stava così male?
Perché si sentiva il cuore in pezzi? Forse
perché sapeva che, perdendo Yamato, aveva rinunciato a tutte
quelle emozioni
che solo lui era in grado di suscitarle. Sia che fosse arrabbiata, sia
che
sorridesse, in sua compagnia si sentiva fremere. Era una strana
sensazione, mai
provata prima. Con Taichi e Sora era diverso: con loro si sentiva
tranquilla,
come cullata da placide acque. Invece con lui si sentiva risucchiare da
un
vortice, che l’attraeva e la respingeva al tempo stesso,
rivoltandola come un
calzino.
Afferrò il telefono e compose un numero, quello
più assurdo, data la
situazione, ma l’unico che le venisse in mente.
-
Pronto?
Qui casa Takenouchi! –
-
Sora,
mi sento male, ti prego vieni. – disse quasi in un sussurro,
mentre la sua voce
veniva rotta dal pianto.
Taichi
non disse nulla, lasciò che il ragazzo si lavasse la faccia
e mangiasse
qualcosa. Poi guardarono un film alla TV.
Solo quando comparvero i titoli di coda, si voltò verso di
lui.
-
Meglio?
–
-
Sì,
grazie. –
-
Non
ringraziarmi. È a questo che servono gli amici, no? A farti
guardare film
spazzatura quando dentro ti senti da buttare… –
accennò a una battuta.
-
Non
penso che vorrai essere mio amico ancora per molto. – sorrise
amaramente.
-
Cos’è
successo, Yamato? – gli chiese lui, calmo e serio.
Lui
lo guardò e sospirò, preparandosi al peggio. Poi
cominciò a raccontare.
-
Rumiko!
Che cos’è successo? Hai la febbre? Vuoi che chiami
un medico? –
La
rossa si era precipitata nella camera da letto dell’amica,
che stava raggomitolata
sotto le coperte.
-
È
successa una cosa orribile… Oh, Sora, non volevo. Giuro che
non volevo! –
-
Calmati,
qualunque cosa sia successa, sono sicura che… -
Rumiko
si alzò di scatto, rivelando gli occhi arrossati e gonfi.
-
Yamato
è… - disse piano.
-
COSA
TI HA FATTO?! – sbraitò lei.
-
Se
te lo dico sono sicura che mi odierai… e non voglio rovinare
la nostra
amicizia… –
-
Non
preoccuparti, Rumiko. Qualsiasi cosa sia successa non
rinuncerò a te per via
delle azioni del mio ragazzo. In fondo è a questo che
servono gli amici, no? Ad
aiutarci a risolvere i problemi che da soli non riusciamo a gestire.
–
La
rossa si sedette sul bordo del letto e le accarezzò la
testa. Rumiko,
rinfrancata, cominciò a parlare.
-
E
questo è tutto. – concluse Yamato.
Silenzio.
-
Hai
fatto una bella stronzata, lo sai, vero? – gli disse
l’altro, duro.
-
Lo
so, ma io ero convinto che… -
-
Che
cosa? Che saresti riuscito a cambiarla? A farla tornare la persona che
era? Non
ne avevi alcun diritto! Tu stesso l’hai accusata di giocare
con le persone! –
Yamato
si prese la testa tra le mani. Ovviamente il suo amico aveva ragione.
Di nuovo
aveva sbagliato. Ma che gli stava succedendo? Era la seconda volta che
la
feriva a causa delle sue azioni avventate e non era certo da lui.
-
Non
ci capisco più nulla! Che diavolo sto facendo?! Non
voglio… eppure riesco sempre
a dire la cosa sbagliata. Mi sento nervoso… è
come se tutti si aspettassero
qualcosa da me. Persino il padre me l’ha praticamente
affidata! –
-
Non
penso che ti abbia affidato sua figlia perché tu la
trasformassi. –
-
Ma
ero davvero convinto di fare la
cosa giusta!
–
-
Lo
so, amico mio, ma non devi accollarti tutte le
responsabilità da solo. Tu hai
questo pessimo vizio di voler fare le cose a modo tuo e senza chiedere
aiuto a
nessuno. Però devi metterti in testa che non puoi sempre
farcela da solo,
nessuno ci riesce. –
-
È
che ci tengo molto a lei… -
-
Guarda
che non sei l’unico! Anch’io le voglio bene. Non
avrei di certo preso a pugni
il mio migliore amico per una persona qualsiasi, non ti pare?! E poi
anche Sora
le è molto affezionata… –
-
Già,
Sora… sono riuscito a ferire anche lei. Non credevo che
sarei mai arrivato a
fare una cosa tanto patetica e meschina… –
-
Non
ti preoccupare di questo: sono sicuro che le cose si aggiusteranno.
–
-
E
come?! L’ho praticamente tradita! –
-
Beh,
ma non è successo nulla di concreto e se le dirai la
verità sono sicuro che ti
perdonerà. –
-
Comincio
a pensare di non sapere quale sia la verità. –
commentò amaramente.
-
Che
vuoi dire? –
-
Insomma,
ho tradito, o quasi, la mia ragazza per una persona che non esiste, o
almeno
non più. Mi sembra tutto così assurdo…
-
-
Ma
è così che sono andate le cose, no? Tu hai preso
una bella cotta per la Rumiko di due anni fa,
ma
non per quella del presente, giusto? –
-
Sì,
suppongo che tu abbia ragione… –
Ormai
era scesa la sera e il ragazzo s’infilò il
giubbotto per uscire.
-
Un’ultima
cosa, Yamato. –
-
Cosa
c’è? –
-
Per
questa volta passi, ma bada: non deve ripetersi mai più.
– gli disse,
rivolgendogli uno sguardo tagliente.
-
Taichi…?
– stentò a riconoscerlo.
-
Ti
perdono perché sei mio amico, ma non ti azzardare a far
soffrire ancora Rumiko…
e tanto meno Sora. Sono stato
chiaro?
–
-
Cristallino.
– e uscì.
In
realtà aveva la spiacevole sensazione di non aver capito del
tutto: cosa aveva
voluto intendere con quelle parole? Non c’era dubbio che il
prescelto del
Coraggio fosse legato ad entrambe, ma quali erano le sue intenzioni?
Scosse energicamente la testa: aveva già combinato
abbastanza guai, meglio
tenersi alla larga da simili questioni.
Intanto Sora era appena rientrata a casa, ancora scossa. Non riusciva a
credere
che Yamato si fosse comportato in quel modo, ma d’altro canto
non poteva certo
ignorare le lacrime dell’amica. Le aveva fatto piacere che la
ragazza si fosse
confidata con lei, ma non poteva fare a meno di sentirsi ferita. Che
gioco
stava giocando Yamato?
Si chiuse nella sua stanza e si sedette alla scrivania, cercando di
riordinare
le idee. Tuttavia la situazione non cambiava. Cosa avrebbe dovuto fare?
Come
avrebbe dovuto comportarsi con il cantante? Fino ad allora era stata
certa dei
suoi sentimenti per lui, anche se non sempre era stata sicura di essere
pienamente corrisposta. Ora non aveva più garanzie di alcun
tipo.
La cosa strana era che non ce l’aveva né con
Rumiko né con Yamato, bensì con se
stessa. Si sentiva una sciocca sentimentale, per essersi illusa fino a
quel
punto. In fondo erano stati in molti ad apparire scettici di fronte
alla sua
relazione. E come poteva essere altrimenti? Lui era bello, famoso e
pieno di
ammiratrici, mentre era così… normale.
Carina, simpatica, gentile, abbastanza brava negli sport e
intelligente… ma
nulla di più. Tutte caratteristiche assolutamente comuni.
“
E dire che sono la prescelta dell’Amore…”
Non era colpa di Yamato se si sentiva attratto da un’altra
ragazza, né di
Rumiko se lui si era innamorato di lei. L’amica le aveva
spiegato che il
cantante si era invaghito della sua vecchia persona, ormai inesistente,
ma Sora
temeva che non fosse del tutto vero. Aveva notato come lui la guardava
ed era
più che sicura che stesse guardando la Rumiko
del presente. Solo che fino a quel momento
non aveva mai voluto ammettere l’evidenza: tra quei due non
c’era posto per
lei.
Si infilò sotto le coperte ancora vestita e si
addormentò prima di cena. Le era
salita la febbre.
Continua…
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Capitolo 8 *** - ***
Capitolo 8
Il giorno dopo
le due ragazze non si presentarono a
scuola. Yamato continuava a lanciare occhiate indecifrabili ai loro
banchi, ma
il prescelto capì che non avrebbe agito in alcun modo. Ora
che aveva imparato
la lezione sarebbe stato alla larga da entrambe per qualche tempo cosa
che, probabilmente,
era la scelta migliore.
“E io come dovrei
comportarmi?”
Taichi
sospirò sconsolato. Temeva che Sora fosse venuta a
sapere dell’accaduto, ma d’altro canto non poteva
certo abbandonare Rumiko,
dato che lei non aveva alcuna colpa. Anzi, si era comportata
correttamente nei
confronti dell’amica, rifiutando le avance.
“Che
situazione assurda! Il mio migliore amico per poco
non ha tradito la mia migliore amica per una ragazza cui tengo
moltissimo… Rimanere
neutrale già so che sarà impossibile, ma da che
parte dovrei schierarmi? Qui
sembra che sia l’unico a non aver ancora perso la
testa!“
Riesaminò
la situazione. Al momento il pericolo più
grande era rappresentato da Sora, che poteva esser indotta a
prendersela con
l’amica e rovinare quel rapporto che avevano appena
instaurato e a cui Rumiko
teneva sicuramente, tant’è che per difenderlo
aveva allontanato con decisione
il ragazzo.
Ed ecco che si
presentava un’altra gatta da pelare: in un
colpo solo Yamato aveva rovinato non solo la sua relazione con la
fidanzata e
l’amicizia con Rumiko, ma pure incrinato il legame tra le due
ragazze.
“Complimenti,
amico, si può dire che hai preso due
piccioni con una fava!“ pensò serrando i pugni, ma
subito recuperò il controllo.
Era inutile
accanirsi contro di lui: ormai il danno era
stato fatto e bisognava impegnarsi per porvi rimedio. E poi sapeva di
non
essere in grado di portargli a lungo rancore: in fondo era stato il
biondo a
trarlo d’impiccio in molte occasioni e ora toccava a lui.
Yamato era pieno di
difetti e bisognava riconoscere che negli ultimi tempi li aveva messi
in luce
uno per uno, ma, come si dice: una volta toccato il fondo, non si
può far altro
che risalire.
Dunque il suo
piano era il seguente: recarsi da Sora per
accertarsi del suo stato e metterla al corrente della situazione. Poi
far una
visitina a Rumiko e cercare di tirarle su il morale, che di sicuro ora
si
trovava sotto terra. Farle incontrare per riappacificarle e infine
mettere una
buona parola per Yamato, che nel frattempo avrebbe macerato il tempo
necessario
a tornare in sé.
Sospirando
sconsolato, pensò che non sarebbe stata una
passeggiata.
Alle tre di
pomeriggio Rumiko era sotto il getto caldo
della doccia. L’acqua le scorreva sulla pelle candida,
scivolando lungo il suo
corpo in tanti rigagnoli che si ricongiungevano sulle gambe. Espose
anche il
viso al getto d’acqua. Sentì la stanchezza e lo
stress di tanti giorni
sciogliersi e fluire via. Però un peso continuava ad
opprimerle il petto.
Sapeva bene di
cosa, o meglio di chi, si trattasse: Sora.
La sera precedente le aveva raccontato tutto, ma vedendola uscire
così turbata,
si era ripromessa di telefonarle. Però quando, due ore dopo
che si erano
lasciate, aveva tentato di parlarle, la madre aveva spiegato che la
figlia non
si sentiva bene e che il giorno dopo non sarebbe andata a scuola.
Il giorno
seguente aveva nuovamente tentato di mettersi
in contatto con lei, ma senza risultato. Le aveva inviato delle mail
sul
cellulare e lasciato decine di messaggi nella segreteria telefonica di
casa.
Tuttavia la rossa non aveva risposto una sola volta.
Ora Rumiko si
pentiva di averla chiamata la sera prima e
averle confidato tutto con tale leggerezza. Se non l’avesse
fatto, avrebbe avuto
ancora un’amica cui rivolgersi. Non ce l’aveva con
lei per quel silenzio,
piuttosto con se stessa per essere stata tanto ingenua: si era
confidata con la
persona sbagliata. Come poteva biasimarla? Tutto d’un tratto
aveva visto la sua
relazione perfetta incrinarsi, e per di più a causa della
persona con cui si
era appena dimostrata tanto gentile.
Sora si era
sentita tradita e aveva tutto il diritto di
non rivolgerle più la parola.
Con un moto di
amarezza inaspettata, Rumiko si era
accorta che le mancava. E al pensiero di non vedere più quei
dolci sorrisi a
lei rivolti, quei capelli rossi che si sposavano tanto bene con
l’azzurro del
golfino e quegli occhi d’ambra, le si strinse il cuore.
Dentro di sé sapeva
bene il perché si fosse tanto legata a quella ragazza:
sentiva il bisogno di
avere vicino una figura femminile. Da quando aveva fatto la conoscenza
di quel
gruppo, infatti, si era pian piano accorta che la presenza del padre
non le era
più sufficiente. Aveva bisogno di potersi confidare con
altre persone, di
aprire liberamente il proprio cuore, di essere accettata.
Ma oramai cosa
poteva fare? Sora si era allontanata da
lei, forse per sempre, Taichi l’avrebbe di sicuro seguita a
ruota e Yamato…
Scosse
vigorosamente il capo, spargendo innumerevoli
goccioline contro i vetri della doccia. Con lui
non voleva più avere niente a che fare. Lei gli aveva
permesso di avvicinarsi,
di conoscerla e lui… lui l’aveva rifiutata,
tradendo la sua fiducia. Da quando
si erano conosciuti non aveva fatto altro che ferirla.
“Però
ora basta!”
Non gli avrebbe
più permesso di giocare con i suoi
sentimenti. Ma, allora, chi gli rimaneva? Di chi si poteva ancora
fidare?
Il citofono
suonò.
Intanto Taichi
si trovava davanti a casa Takenouchi.
Suonò il campanello. Non ottenne risposta. Tentò
ancora. Niente. Di nuovo.
Nulla. Ancora, ancora e ancora. Nada. Esasperato, incominciò
una sottospecie di
sinfonia, fatta di trilli lunghi e corti alternati, un gioco che faceva
sempre
da piccolo.
-
Non hai ancora
capito che…! –
Sora aveva
spalancato la porta di scatto, facendo
sobbalzare il ragazzo.
-
Cos’è
che non ho capito? –
-
Niente, pensavo
fossi un’altra persona… - abbassò il
tono
di voce.
-
E chi
è lo sfortunato? – tentò di scherzare.
-
Nessuno.
–
-
D’accordo
– non insistette – mi fai entrare? –
-
Ehm, si, certo.
–
Si sedettero in
salotto e la ragazza preparò il tè. In
attesa che il liquido bollente si raffreddasse, Taichi si
guardò un attimo
attorno e il suo sguardo cadde sul telefono, che era stato posizionato
vicino
al divano. Sporgendosi un poco notò che nella segreteria
erano stati lasciati…
23 messaggi?!
“Ma
che significa? “ si chiese subito.
Bastava lanciare
un’occhiata al salotto per capire che la
rossa vi aveva trascorso l’intera mattinata. Dunque
perché non aveva risposto?
Può capitare di trovarsi in bagno e non poter sollevare la
cornetta… ma 23
messaggi? O aveva un attacco di diarrea oppure…
Si
assicurò che l’amica fosse voltata e
pigiò un tasto.
Sul piccolo schermo comparvero i numeri che avevano registrato i
messaggi nella
segreteria. O meglio il numero,
poiché
sotto i suoi occhi nocciola sfilavano sempre le stesse cifre. Non
ricordava a
chi appartenesse, ma poi guardò l’ora delle
chiamate: tutte di mattina, durante
l’orario lavorativo.
Sora
tornò nel soggiorno con un vassoio di biscotti e
l’appoggiò sul tavolino davanti al divano. Poi si
sedette accanto al ragazzo.
Solo allora si accorse delle scritte che lampeggiavano sul piccolo
schermo del
telefono.
Lui la
guardò dritta negli occhi, indecifrabile. Per la
prima volta da quando si erano incontrati, la ragazza temette di non
conoscere
quello sguardo. Non riuscendo a reggere quella situazione, Sora decise
di dire
qualcosa, qualsiasi cosa.
-
Com’è
andata oggi a scuola? –
-
Bene,
c’erano solo due assenti. –
-
Ah
sì? – cominciò ad abbassare lo sguardo.
-
Sì,
tu e Rumiko. –
-
Oh,
può darsi che non si sia ancora ristabilita… -
-
Può
darsi? Pensavo che ne sapessi qualcosa di più. –
disse, duro.
Lei
cominciò a studiarsi le pantofole. Erano morbide e
azzurre, un colore che a quanto dicevano le stava molto bene.
-
Cos’è
successo? –
-
Niente.
–
-
Ho chiesto:
cos’è successo? – scandì lui.
Quelle ciabatte
erano indubbiamente le sue preferite,
perché le tenevano i piedi caldi anche d’inverno.
-
Per favore,
rispondimi. –
Peccato per quel
buchino che si stava allargando
all’altezza dell’alluce…
-
SORA! –
-
YAMATO MI HA
TRADITA! – esplose, mentre calde lacrime le
scorrevano lungo le guance.
Taichi le
circondò le spalle con un braccio e lei si
abbandonò ad un pianto liberatorio, confortata dal calore
del suo petto.
-
Ciao, mi hanno
detto che hai tagliato! –
Rumiko era
uscita dalla doccia in tutta fretta,
avvolgendosi un asciugamano attorno al corpo alla bel e meglio,
rischiando di
inciampare mentre si infilava le pantofole e precipitandosi ad aprire
la porta.
Ora si trovava sulla soglia di casa, i capelli che gocciolavano ovunque.
-
Ah, sei tu,
Daisuke. – sbuffò, delusa.
Aveva sperato
che si trattasse di Sora.
-
Ehi, io vengo a
trovarti e tu mi accogli con un “ah, sei
tu”? –
-
Ti ha mandato
Taichi? –
-
No, sono qui di
mia spontanea volontà e non mi
dispiacerebbe entrare! – esclamò lui, risentito.
-
Certo, entra
pure. –
-
Allora, come mai
hai tagliato? – volle sapere.
-
Ehi, prima
piombi in casa mia come se nulla fosse e mi
fai correre alla porta bagnata fradicia e ora vuoi anche sapere i fatti
miei? –
-
Scusa, scusa,
come non detto! Ehm, comunque… se vuoi…
puoi anche andare a vestirti… - arrossì un poco.
-
Certo che voglio
e ci vado subito! Tu aspetta qui, razza
di terremoto umano. – e si richiuse la porta del bagno alle
spalle.
Dopo un quarto
d’ora lo raggiunse in salotto, vestita e
asciutta. A quanto pareva non c’era stato bisogno di dirgli
di fare come se
fosse a casa sua, visto che aveva già acceso la TV e stava
stravaccato sul
tappeto. Lei si sedette sulla poltrona vicino a lui. Certo che sembrava
davvero
un altro mentre era concentrato su una partita.
-
È un
incontro importante? –
-
No, solo
un’eliminatoria. –
-
Non sono squadre
di serie B? –
-
Sì,
ma non giocano malaccio… E tu come facevi a saperlo?
– si volse a guardarla.
-
Spesso la
domenica io e mio padre guardiamo le partite
alla TV. Sono anche stata allo stadio qualche volta. –
-
Ti piace il
calcio? –
-
Non è
la mia passione, ma non mi dispiace. – si strinse
nelle spalle.
-
E qual
è la tua passione? –
-
Nessuna.
–
-
Non
c’è niente che ti piaccia tanto? –
-
Nulla in
particolare. Non ho mai avuto bisogno di un
hobby o cose simili. –
-
E cosa fai nel
tempo libero? –
-
Leggo, ascolto
musica, guardo un film… -
-
E non fai
shopping? – sgranò gli occhi lui.
-
Non molto.
–
-
Male, molto
male! – la rimproverò severamente –
Tutte le
ragazze devono fare shopping! –
-
Non se non hai
nessuno con cui girare per la città… –
disse con un briciolo di amarezza, tornando agli ultimi eventi.
Daisuke parve
pensarci un attimo e poi sorrise.
-
Allora
perché non ci andiamo insieme? –
-
Come? –
-
Ma
sì, tu e io! Vedrai che ci divertiremo! –
-
Non saprei, sono
appena stata male… -
-
Non fare la
nonnetta! Avevi solo un raffreddore, perciò
non morirai di certo! –
-
È che
non mi va di uscire al freddo… -
-
E dai, prendilo
come un appuntamento! –
-
Questo non mi
aiuta. –
-
Non fare la
timida, lo so che non vedi l’ora di passare
un bel pomeriggio con me. –
Rumiko lo
guardò sconvolta: il ragazzo sembrava davvero
convinto delle sue parole. Le venne da ridere e accennò un
sorriso.
-
D’accordo,
mi hai convinta. Aspetta che mi preparo. –
-
Fatti bella, mi
raccomando! –
Lei gli fece la
linguaccia: Daisuke sembrava aver preso
gusto al ruolo dell’accompagnatore.
-
Ti senti meglio?
–
-
Sì,
grazie Tai. E scusa se ti ho bagnato la felpa. –
-
È
stato un piacere! – le sorrise.
Insieme alle
lacrime erano sgorgate anche le parole e ora
la ragazza si sentiva più tranquilla, stretta
nell’abbraccio del bruno.
Improvvisamente, accortasi della situazione imbarazzante, si
scostò,
leggermente rossa in viso. Ma lui non vi badò e il suo
sguardo nocciola si fece
di nuovo pensieroso.
-
Sora, mi
dispiace per quel che ha fatto Yamato. Dico sul
serio. Ma ciò non toglie che sei stata molto scorretta nei
confronti di Rumiko.
–
Lei
abbassò lo sguardo, colpita dalla verità di
quelle
parole. Non sembrava dispiaciuto, bensì deluso e amareggiato.
-
Lei ti ha
raccontato come sono andate le cose, ha avuto
fiducia nel tuo perdono… -
-
Non ce
l’ho con lei. –
-
E allora
perché non hai risposto alle sue chiamate? –
-
È
che… non me la sentivo. –
-
Lo capisco, ma
lei… -
-
Lei, lei,
lei… sempre e solo lei!
–
-
Sora? –
-
Ah, adesso
però c’è anche Sora?
–
-
Ma che ti
prende? –
-
Mi prende che
sono stufa marcia di tutto questo! Io sono
buona e gentile con tutti e per risposta vengo presa a pesci in faccia!
–
-
Rumiko non
intendeva… -
-
LO SO! Ti ho
già spiegato che non ce l’ho con lei! –
-
E allora con
chi? –
-
Con voi ! -
-
Ti riferisci a
me e Yamato? – chiese stupito.
-
Esatto, proprio
a voi due! Uno mi tradisce con la mia
amica e l’altro mi tratta come una scema! –
-
Lo sai che non
è vero. Non ti ho mai
trattata come una scema. –
-
Le tue continue
attenzioni, anche il fatto che ora sei
qui. Cos’è, pensi che non posso farcela da sola?!
Beh, eccoti una notizia: ho
diciotto anni, sono adulta e vaccinata e non ho bisogno di una balia!
È
umiliante! –
-
Ma abbiamo
sempre… -
-
Svegliati, Tai!
La gente cambia e cresce ! Io sono cresciuta
! E anche tu sarebbe ora che
ti decidessi a crescere, Peter Pan!
–
Scese un pesante
silenzio.
-
Aspetterò
che ti passi. – disse infine lui.
-
No, Tai, non mi
passerà. –
-
Io non sono
cambiato e non penso che lo farò mai. Perciò
se ti venisse voglia di parlare con un vecchio amico, saprai dove
trovarmi. – e
uscì.
-
Ti sbagli, anche
tu sei cresciuto. – sussurrò tra sé,
una
volta rimasta sola – Devi solo accettarlo. –
Era pomeriggio
inoltrato e le strade del centro
cominciavano ad essere affollate a causa delle compere di Natale, a cui
mancavano solo due settimane. Eppure, nonostante la folla radunata
davanti alle
vetrine illuminate, Daisuke sembrava più entusiasta che mai.
Ogni volta che
intravedeva un bel vestito, trascinava l’amica nel negozio
per farglielo
provare.
All’inizio
Rumiko aveva protestato energicamente, ma poi
era stata contagiata dalla sua allegria. Ora passeggiava insieme al
ragazzo,
lasciandosi trascinare per la città.
-
Uao! Quello
è proprio carino! Forza, provatelo! – e la spinse
nell’ennesimo negozio – Signorina, vorremmo vedere
quello nero in vetrina, per
favore! –
Rumiko si chiuse
la tendina del camerino alle spalle e
indossò l’abito. Lanciò uno sguardo
allo specchio e constatò che non era male:
semplice e con le maniche a tre quarti, un po’ più
aderente sul punto vita. Il
materiale era morbido al tatto e scendeva liscio lungo i fianchi, fino
alle
ginocchia, con un piccolo spacco laterale.
Appena Daisuke
la vide cominciò a girarle attorno,
studiandola, come se qualcosa non gli andasse a genio.
-
Oh, ma le sta benissimo,
signorina! Lo sa che ha proprio un bel fisico? –
squittì subito la commessa.
-
Grazie.
–
-
Dico sul serio!
Il suo ragazzo è proprio fortunato! –
-
La ringrazio, ma
noi non… -
-
Siete una coppia
davvero carina! –
Rumiko non le
rispose neppure, sapendo che presto avrebbe
perso le staffe. Cominciava ad averne davvero abbastanza di quella
trentenne
petulante, che non voleva saperne di farsi i fatti suoi.
-
Ti sta molto
bene, ma è troppo… scuro. –
sancì alla fine
il giovane.
-
Per forza,
è nero! – sbottò lei.
-
È
tempo di festa e il nero non mi è mai piaciuto! –
sentenziò – Signorina, non è che lo
avete anche di altri colori? –
-
Ma
sì, certo! Mi segua che glieli faccio vedere! –
-
Tu resta qui,
torno subito. – e si allontanò con la donna.
Dopo pochi
minuti furono di ritorno e sul volto di
Daisuke compariva un sorriso soddisfatto.
-
Questo ti
starà d’incanto! – e le porse il vestito.
Lei distolse lo
sguardo.
-
No. –
-
Dai, provalo,
sono sicuro che ti starà benissimo! –
-
Non voglio, non
mi piace. –
-
Però
se lo provi… -
-
Su, non faccia i
capricci! – si intromise la commessa di
prima.
-
Ho detto che non
voglio e non lo proverò. –
-
Dai, che il suo
ragazzo ci rimarrà male! –
-
Non è
il mio ragazzo. –
-
Ah, no? Beh,
però sarebbe un peccato non provarlo neanche,
non le pare? –
-
Decisamente no!
–
-
Ma
perché si ostina a… -
-
PERCHÉ
É AZZURRO! –
-
Rumi…
- le si avvicinò Daisuke, mentre la trentenne
faceva un passo indietro sconvolta.
-
Ho litigato con
Sora. –
-
Come? –
-
Ho litigato con
Sora – ripeté – e l’azzurro
è il suo colore. Non
voglio… prendere
qualcosa di suo, capisci? Non sarebbe giusto, le sta così
bene… oh, ma che sto
dicendo?! –
-
Senti, per il
momento la cosa migliore è uscire di qua e
andare a mettere qualcosa sotto i denti. –
-
Come? –
-
A me aiuta
sempre! – si strinse nelle spalle.
Lei
accennò un sorriso e andò a cambiarsi. Poi
andarono a
rifocillarsi.
-
E
così avete litigato, eh? –
-
Già.
–
Rumiko aveva
ordinato una fetta di torta e un cappuccino,
mentre Daisuke si era servito un vero e proprio pasto, sotto gli occhi
stupefatti
di lei. Come diavolo faceva ad ingozzarsi in quel modo alle 6 di sera?!
-
Il motivo?
–
-
Diciamo che ho
fatto una cosa che non avrei dovuto fare…
-
-
Che tipo di
cosa? –
-
Le ho
praticamente rubato una cosa… anche se
involontariamente. –
-
Le hai fregato
qualcosa senza accorgertene? –
-
No, non
gliel’ho rubata.
L’ho attirata involontariamente e me ne sono accorta troppo
tardi. –
-
Vai avanti.
–
-
In quel momento
ho pensato che non fosse giusto nei suoi
confronti e così… -
-
Hai rifiutato
questa… cosa.
–
-
Esatto. Solo che
poi mi sentivo… -
-
Uno schifo. -
-
Sì e
non sapendo che fare… -
-
Gliel’hai
detto. –
-
Ma che ti sto a
raccontare se sai già tutto?! – scattò
lei, nervosa.
-
In
realtà non ne so nulla, te lo posso assicurare! Sono
solo andato per intuizione! – si giustificò in
fretta.
-
D’accordo,
comunque ora lei lo sa e temo ci sia rimasta
molto male. –
-
Come lo sai?
–
-
Ieri sera ho
tentato di chiamarla, ma la madre mi ha
detto che le era salita la febbre e che non sarebbe andata a scuola.
–
-
Brutto segno:
lei non è mai assente. – commentò, per
ricevere un’occhiata storta.
-
Grazie,
così sì che mi aiuti! In ogni caso ho tentato di
chiamarla, questa mattina. Le ho scritto delle mail sul cellulare e le
ho
lasciato ben 23 messaggi sulla segreteria di casa…
–
-
Ma lei non ti ha
richiamata. –
-
Esatto.
È evidente che mi detesta e non posso certo darle
torto, però… mi manca. –
-
E allora dove
sta il problema? –
-
Come, dove sta il
problema ?! Se ti ho appena finito di dire che…!
–
-
Se le sei legata
devi insistere, mi pare ovvio! Non
vorrai gettare la spugna dopo il primo giorno, no? –
-
Sì,
ma… -
-
Niente ma!
È inutile stare a piangersi addosso! –
-
Non mi sto
piangendo addosso! Sono solo realista… –
-
Non mi pare
proprio. –
-
Che vorresti
dire? –
-
Se ci
è rimasta tanto male, è ovvio che le serva un
po’
di tempo. Non so di voi altri, ma a me è stato insegnato
che, quando un amico è
in difficoltà, non lo si può abbandonare.
–
-
Dici che dovrei
riprovare? –
-
Ma certo!
Invitala ad uscire, sono sicuro che le farà
bene! –
-
E come fai a
sapere che accetterà? –
-
Esperienza…
- sorrise, esibendo un’aria saggia da persona
vissuta.
Rumiko sorrise.
-
Va bene, ma ora
non darti tante arie! –
-
Uffa, non posso
mai godermi il mio momento di gloria! –
-
Non fare la
vittima, o non ti permetterò mai più di
trascinarmi per negozi. –
-
Vuoi dire che mi
concedi un altro appuntamento? –
-
In fondo mi
diverto a girare con te, perciò… -
-
Potremo
passeggiare mano nella mano? –
-
No. –
-
Perché
no? – piagnucolò lui.
-
Perché
sei troppo piccolo per me e non voglio che la
gente pensi che sono disperata. –
-
Ma la commessa
diceva… -
-
Lascia perdere
quella. –
-
Perché?
A me stava simpatica! –
-
Solo
perché continuava a farti complimenti. –
-
Non tutti me li
fanno! Perché dovete togliermi i piccoli
attimi di felicità? –
L’altra
represse un risolino alla vista della sua espressione.
Senza neanche accorgersene, quel pomeriggio era passato in fretta.
Una moto si
allontanò dalla vetrata del bar. Il
conducente nascosto dal casco era pensieroso. Aveva notato la coppia
seduta al
tavolino e si era accostato senza dare nell’occhio. Non
poteva sentire la
conversazione a causa del vetro, ma era stato attento alle loro
espressioni. In
particolare a quelle di lei.
L’aveva
vista titubante, poi arrabbiata, sorpresa e un
po’ scettica, sorridente, finta indifferente e infine mal
celatamente allegra.
Tutte manifestazioni che prima vedeva tutti i giorni e che ora
osservava
furtivamente. Al pensiero provò una fitta dolorosa al petto,
ma la represse
subito: non era più affar suo. L’aveva
già fatta soffrire abbastanza, non era
il caso di turbarla ancora.
Si
fermò al semaforo rosso. Negli ultimi giorni aveva
cominciato a capire qualcosa che solo dopo l’ultima litigata
aveva potuto
accertare: lei era fragile. Fingeva
di esser forte, insofferente alle parole degli altri, sicura di
sé e
indipendente, ma in realtà non lo era affatto. Il suo
spirito era delicato come
vetro e rischiava di frantumarsi. Lui
era quasi riuscito a spezzarla. Però non avrebbe rinunciato
a guardarla, seppur
da lontano. Perché lei era… bella.
Quella sua fragilità la rendeva unica e…
maledettamente bella. Quel gioco di
luci e ombre celato nelle iridi viola lo attraevano, come una falena
anelava
alla fiamma di una lanterna.
Lentamente, nel
suo cuore si faceva strada la
consapevolezza che, per quanto si fosse ostinato, non avrebbe mai
potuto
opporsi al magnetismo che lei esercitava su di lui. Quel sentimento
l’aveva
colto di sorpresa e faticava a riconoscerlo, ma non dubitava che presto
sarebbe
riuscito a far chiarezza in se stesso. E, chissà, magari
allora sarebbe stato
pronto ad aiutarla sul serio, se lei ne avesse avuto bisogno.
La moto
ripartì a tutta velocità: era scattato il verde,
un brillante verde speranza.
Continua…
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Capitolo 9 *** - ***
Capitolo 9
Quella
sera stessa Sora ricevette una mail sul cellulare e questa volta decise
di
leggerla.
“Conosco un posticino tranquillo non troppo lontano dalla
scuola. Una mia amica
ha detto che ci fanno delle ottime cioccolate calde. Se ti va un
po’ di compagnia,
alle 19.00 io sarò lì. Rumiko.“
Senza perder tempo afferrò il cappotto e uscì di
casa.
-
Ciao.
–
-
Ciao.
Sono felice che tu sia venuta. –
-
Anch’io.
–
La
rossa si sfilò il cappotto e l’appoggiò
ad una sedia vicina. Erano sedute allo
stesso tavolo dell’altra volta. Entrambe stringevano le tazze
fumanti tra le
mani arrossate, nel tentativo di scaldarsele.
-
Mi
dispiace. – esordì Sora.
L’altra
non disse nulla, limitandosi a guardarla.
-
Non
avrei dovuto evitarti in quel modo. Tu mi hai parlato col cuore, ti sei
confidata nella speranza di ricevere sostegno, non di essere
abbandonata. Mi
spiace davvero. –
-
Non
devi, dico sul serio. Anch’io avrei dovuto capire quanto la
cosa ti avesse
scioccata. Sono stata egoista: invece che lasciarti del tempo per
riflettere, ti
sono stata col fiato sul collo. –
-
No,
non sei stata egoista. Ti sei solo preoccupata per me. Le tue
attenzioni mi
hanno fatto piacere. –
-
Hai…
hai parlato con lui ? –
-
No
– sospirò – ma presto lo
farò. Ho deciso di lasciarlo. –
-
Non
voglio che la vostra relazione finisca a causa mia. –
-
Non
è colpa tua. Quello che è successo ieri mi ha
solo aperto gli occhi. Vedi,
quando sono tornata a casa ci ho pensato e ho capito che…
non ci ero rimasta
tanto male perché Yamato
mi aveva
tradita, ma per il semplice fatto di esser stata tradita. Non
sopportavo di
esser stata presa in giro in quel modo, di esser stata rifiutata
in quel modo… -
-
Non…
-
-
Aspetta,
lasciami finire, per favore. Mi sentivo abbattuta, ma poi è
subentrata la
rabbia. In quel momento non ce l’avevo né con te,
né con lui, bensì con me
stessa, proprio per essermi lasciata andare in quel modo.. Insomma, si
tratterà
pur sempre di un ragazzo, ma è solo
un ragazzo! Mi ero fatta dominare da quella situazione piatta,
continuavo a
farmi cullare dalla sicurezza di quel rapporto, che
“rapporto” non era più. –
-
Vuoi
dire che non provi più nulla per lui? –
-
Gli
voglio ancora bene, si capisce, ma come amico… La nostra
relazione non aveva
più senso perché non avevamo più nulla
da dirci, nulla da fare… ci eravamo così
abituati a stare insieme, che eravamo diventati ciechi a tutto il
resto. Quando
l’ho capito ho deciso che avremmo fatto meglio a lasciarci.
–
-
Ti
piace qualcun altro? –
-
No,
non penso. –
-
E
Taichi? Lui tiene molto a te. – disse senza malizia.
-
Lo
so e anche io gli voglio molto bene, ma… oggi è
venuto a casa mia. –
-
Ed
è successo qualcosa? –
-
Abbiamo
litigato. –
-
Avete
litigato?! –
-
Già,
o meglio io ho litigato e lui ha
accusato ogni colpo con pazienza. –
-
Cosa
gli hai detto? –
-
Che
avevo aperto finalmente gli occhi e che anche lui avrebbe dovuto farlo.
–
-
A
proposito di cosa? –
-
Di…
di lui, della propria vita. Taichi è rimasto un bambino e
sembra intenzionato a
non voler crescere. –
-
La
sindrome di Peter Pan. –
-
Esatto.
Ho cercato di fargli capire che le persone cambiano e che anche lui era
cambiato. –
-
E
Taichi cos’ha detto? –
-
Che
lui non sarebbe mai cambiato e che, se volevo parlare con un vecchio
amico,
avrei potuto rivolgermi a lui. –
Rumiko
parve riflettere un attimo.
-
Ho
capito. – disse poi – Ma sei sicura di
ciò che gli hai detto? –
-
In
che senso? –
-
Lui
è di sicuro cresciuto, su questo non ci sono dubbi. Tutti
prima o poi si
sviluppano. Però la trasformazione può essere
più o meno evidente, non trovi?
Crescere non vuol dire per forza cambiare e Taichi l’ha
capito, forse meglio di
noi. Probabilmente lui è molto più maturo di
quanto tu possa pensare. Tanto
maturo da aver volontariamente
deciso
di non cambiare interiormente. –
-
Ma
perché non dovrebbe? –
-
E
perché sì? Alla gente lui piace così
com’è e se questa sua condizione gli permette
di aiutare gli altri e di essere al contempo onesto con se
stesso… -
-
Forse
hai ragione tu, ma sta di fatto che avevo bisogno di una pausa.
È sempre stato
così premuroso nei miei riguardi, così presente
in ogni momento… -
-
Che
hai avuto bisogno di stare un po’ per conto tuo. –
La
rossa annuì e Rumiko le sorrise.
-
Ti
capisco, sai? Questi uomini vogliono fare tanto i protettivi, ma dopo
un po’
diventano assillanti. – le strizzò un occhio con
fare complice.
-
Secondo
me hanno quasi bisogno di starci
addosso in questo modo. Pensano di essere indispensabili! –
scherzò Sora.
-
E
poi finiamo noi a far loro da
balie!
– sospirò l’altra.
Sora
rise e le afferrò una mano.
-
Sono
felice di poter di nuovo parlare con te. Non avrei mai permesso ad un ragazzo di dividermi dalla mia nuova
amica. –
-
Grazie,
anch’io ne sono felice. –
-
Per
un po’ niente più uomini. –
Era
il 13 di Dicembre, una data che segnò l’inizio di
una lunga serie di
cambiamenti. Quel giorno Rumiko e Sora si presentarono a scuola
insieme, cosa
che non passò inosservata agli studenti
dell’istituto. Si sa, infatti, che le
voci circolano in fretta, specialmente se si tratta di un idolo delle
teenagers: secondo i pettegolezzi il biondino aveva tradito la rossa
con la
vicina. Cos’era successo poi era un mistero, si sapeva solo
che nessuna delle
due si era presentata alle lezioni il giorno seguente, cosa che aveva
alimentato le voci di corridoio.
Quando le ragazze attraversarono il cancello principale, si ritrovarono
alcune
centinaia di occhi curiosi puntati addosso.
“Che schifo di situazione!” sbuffò
Rumiko, una volta raggiunto il proprio
banco.
-
Mi
dispiace. – le sussurrò la rossa – Le
voce peggiori sono tutte rivolte a te. –
-
Lo
so. Non che me ne importi qualcosa di quel che pensano questo branco di
pettegoli, ma non mi piace che mi si sparli alle spalle…
mentre sono in
ascolto. –
-
Vedrai,
presto questa storia verrà archiviata. –
cercò di tirarla su di morale.
-
Lo
spero proprio. – poi si volse a guardarla negli occhi
– Ma non sentirti
obbligata a fare quella cosa per
me,
chiaro? –
-
Non
ti preoccupare, l’avrei fatto comunque. –
-
E…
quando? Quando glielo dirai? –
-
Al
primo intervallo lo prenderò da parte. –
-
Ho
capito… -
-
Non
ti sentirai ancora in colpa, vero? –
-
No,
tranquilla. –
Ma
sapeva di non esser totalmente sincera.
Yamato era rimasto un attimo sorpreso nel ritrovarsele davanti
così… allegre.
Conversavano tranquillamente, come due buone amiche. Poi lo stupore
aveva
lasciato il posto ad un sorriso. D’altronde che altro avrebbe
potuto aspettarsi
da una ragazza come Sora? Non per niente era la prescelta
dell’Amore! Sembrava
quasi che le due ragazze fossero più vicine di prima e la
cosa non poteva che
fargli piacere. Ma non si faceva illusioni sul futuro che avrebbe avuto
il suo
legame con le due ragazze. Bastava ascoltare le voci di corridoio.
Non
gli importava delle insinuazioni sul suo conto, ma non sopportava che
le due
diciottenni venissero beffeggiate: Sora era considerata una
“povera sfigata” e
Rumiko una “rovina-famiglie” e pure peggio.
Al solo udire quelle parole, aveva sentito la rabbia montargli dentro e
aveva
dovuto fare appello a tutto il suo autocontrollo per riuscire a
contenerla. La
colpa di tutto ciò era solo
ed esclusivamente sua,
perciò si era
ripromesso di porvi rimedio al più presto. Non sapeva ancora
come, ma avrebbe
trovato il modo di farsi perdonare.
Accanto al cantante sedeva Taichi, anche lui pensieroso. A quanto
pareva Sora e
Rumiko si erano riappacificate e il loro rapporto sembrava
più profondo che
mai. Il giorno prima era passato a casa Kitamura ma non aveva trovato
nessuno:
a quanto pareva la ragazza era uscita. Poi era venuto a sapere dalla
sorella
che Daisuke l’aveva preceduto, con l’intento di
portare l’amica a fare un giro.
Subito si era preoccupato: ci mancava solo che quel casinista ci si
mettesse in
mezzo a far precipitare del tutto la situazione! Poi aveva sollevato le
spalle
sconfitto: infondo le cose non potevano degenerare più di
così!
Tuttavia quella mattina si era dovuto ricredere. Ovviamente non poteva
essere
sicuro che si trattasse dell’operato del ragazzo, ma stava di
fatto che le due
giovani si erano riappacificate e che stavano chiacchierando come non
avevano
mai fatto.
“Forse non tutto il mal vien per nuocere!”
pensò speranzoso. Ma gli bastò
voltarsi verso il suo compagno per ricordarsi che c’erano
ancora delle cose in
sospeso che andavano chiarite.
Finalmente suonò il tanto atteso intervallo e Rumiko
lanciò una rapida occhiata
alla compagna. Sora sembrava tranquilla e le sorrise dolcemente,
allentando un
po’ la sua tensione. Possibile che fosse lei
a sentirsi agitata?! Il pensiero la spinse a serrare la mascella
stizzita.
Non si voltò neanche quando l’amica si
alzò e si avvicinò al biondo. Solo
quando uscirono dall’aula si azzardò a guardarli
con la coda dell’occhio. Fu
allora che incrociò un identico sguardo nocciola.
Erano in terrazza e, dopo essersi accertati di non avere ascoltatori
indesiderati, Yamato si sedette a terra, appoggiando la schiena contro
la
cancellata di sicurezza. Non guardava lei, in piedi davanti a lui. I
suoi occhi
celesti scrutavano il cielo lontano, come se vi potesse scorgere
qualcosa di
inaspettato.
Sora si sedette accanto a lui e sospirò.
-
Hai
sempre guardato il cielo con quello sguardo, come a frugarlo in cerca
di
qualcosa. E mi sono sempre chiesta cosa fosse quel qualcosa. Sai, ne
sono sempre
stata un po’ gelosa. –
-
Di
cosa? –
-
Del
tuo cielo. Del tuo mondo. –
Silenzio.
-
Mi
dispiace. – sbiascicò lui, grattandosi il capo
imbarazzato.
-
No,
tu sei fatto così. In fondo questo tuo lato enigmatico mi
piaceva. – gli
sorrise.
-
Ti
piaceva? –
-
Mi
piace ancora, ma ho capito che non mi basta. Vedi, tu sei sempre stato
così
assorto… però sapevo che non ero io
l’oggetto dei tuoi pensieri. E io merito di
più. Merito un ragazzo che pensi a me costantemente, che mi
sussurri frasi
dolci, che mi coccoli, che mi porti a vedere il tramonto in riva alla
spiaggia…
–
-
Io
non credo di esser fatto per queste cose… –
-
Lo
so. E so che possono sembrarti sciocchezze per gente sdolcinata, ma
è ciò che
vorrei dal mio ragazzo. –
-
Perciò
hai deciso di lasciarmi per cercare il tuo principe azzurro, giusto?
–
-
Sì.
– pausa – Quattro anni fa ero convinta di averlo
trovato in te. Ma mi
sbagliavo. Tu sei un bravo ragazzo, gentile e pieno di riguardi verso
le
persone a te più importanti, onesto con tutti… -
-
Non
mi pare di esserlo stato, negli ultimi tempi. – fece con
amarezza.
-
Non
sono arrabbiata con te, se è questo che pensi, o almeno non
più. In fondo era
inevitabile che prima o poi succedesse. Potevi essere tu come potevo
esserlo
io. –
-
No,
tu non l’avresti mai fatto. –
-
Avete
tutti un’opinione troppo alta di me! – sorrise
divertita – Guardate che sono
anch’io un essere umano, soggetto alle leggi della natura!
–
-
Ed
è naturale tradire la
propria
ragazza? –
-
Yamato,
- disse dolcemente – la natura ci insegna che non si
può comandare i
sentimenti. E te lo dice una prescelta dell’Amore! –
Ancora
silenzio.
-
La
verità è che pensi sempre agli altri prima che a
te stessa. Anche ora, sei
disposta a perdonarmi nonostante abbia fatto una cosa orribile!
–
-
È
così orribile ciò che hai fatto? In fondo il tuo
scopo non era ferirmi e
umiliarmi… -
-
…Come
sono riuscito a fare comunque! – sbottò lui.
-
Seguire
il proprio cuore non può essere un crimine. –
proseguì senza dar peso alle sue
parole – E se lo fosse, penso che dovrebbero macchiarsene
molte persone. –
-
Non
so cosa ho seguito io, ma di sicuro non dovevo farlo. –
-
Hai
solo fatto un errore… non vorrai abbatterti per
così poco! –
-
Però
le ho detto delle cose terribili, l’ho giudicata senza averne
alcun diritto.
Lei si è fidata di me e io l’ho rifiutata. Ho
persino cercato di cambiarla, ti
rendi conto?! Ho tentato di farla tornare la persona che era, quando
è evidente
che lei non ne avesse la minima intenzione! –
-
Yamato…
-
-
Da
quando l’ho conosciuta non faccio altro che ferirla! Dico
sempre la cosa
sbagliata al momento sbagliato, riesco a farla infuriare almeno una
volta al
giorno… il che non è normale! Non mi sono mai
comportato così e giuro che non
lo faccio apposta! – buttò la testa
all’indietro – Ogni volta mi riprometto di
non farlo più, ma poi succede di nuovo. Non so
perché, so solo che mi manda
fuori di testa, che riesce a far emergere i miei aspetti peggiori come
non ci
riesce nessun altro! Però mi piacerebbe che tornasse a
sorridermi, lo vorrei
sul serio… – si volse a guardarla –
Pensi che sia possibile? –
-
Non
lo so, ora dipende solo da te. –
-
È
questo che mi spaventa di più. –
-
Yamato
Ishida saventato ?! Questo
sì che ha
dello straordinario! – rise la rossa.
-
Sono
serio. –
-
Beh,
se sei così spaventato significa che ci tieni davvero a
lei… Perciò, se quella
ragazza è tanto importante per te, ti consiglio di non darti
per vinto. –
Lui
annuì e la giovane si alzò. Il ragazzo la
trattenne per un braccio.
-
Grazie,
per avermi ascoltato. E… scusami, se puoi. –
Lei
si limitò a sorridergli. Stava per lasciare la terrazza,
quando venne richiamata
ancora dalla sua voce.
-
Come
hai detto? –
-
Ho
detto che mi dispiace, che la nostra relazione non abbia funzionato
come
avrebbe dovuto. Sono stato bene con te. Te ne sono grato. –
-
È
stato un piacere. – e scomparve oltre la porta.
Sora
si fermò a metà della gradinata,
un’espressione indecifrabile sul viso.
Si erano lasciati, eppure non era stato affatto doloroso, forse
perché entrambi
stavano già guardando al futuro. Era stata sorpresa nel
sentire Yamato parlare
in quel modo dell’amica: era chiaro che la sua mente era
molto confusa, ma il
suo cuore? Possibile che non si rendesse conto di ciò che
provava? Una cosa era
certa: nei suoi confronti non aveva mai avvertito nulla di simile.
Stranamente,
però, non aveva provato risentimento. Ora che la loro
relazione era stata
troncata, si sentiva quasi… sollevata?
Ritornò con la mente alle due versioni che aveva sentito e
corrugò un poco la
fronte. Di sicuro quei ragazzi avrebbero finito per far pace, ma era
difficile
dire quanto ci sarebbe voluto. Si augurava solo che il biondo riuscisse
a porre
rimedio al danno fatto.
Ormai mancava poco più di una settimana alla fine delle
scuole e lo spirito del
Natale sembrava vivo in ogni cittadino che si avventurasse per le vie
affollate
della città. Rumiko era seduta su un muretto, vicino al
grande abete che era
stato addobbato nella piazza del centro. I locali erano tutti ultra
affollati
ed era stato impossibile trovare un tavolo. Perciò il suo
compagno di shopping
estremo si era offerto di prendere delle bevande calde da bere all’aria fresca. Peccato che
l’aria in
questione fosse un paio di gradi sotto zero e che le avesse fatto
arrossire il
naso e le gote, cosa che lei non poteva sopportare.
Sospirò, sconsolata. In fondo di cosa si lamentava, visto
che era stata lei
stessa a concedere al quindicenne delle altre uscite? Però
non poteva negare di
divertirsi molto in sua compagnia. A pensarci bene, dunque, quegli
ultimi
giorni non erano stati affatto male. Dopo aver troncato la sua
relazione, Sora
sembrava essere più felice che mai, come se si fosse tolta
un peso. Anche le
voci di corridoio stavano diminuendo. L’unica macchia nera
ora sembrava essere
il rapporto tra la rossa e Taichi. Dalla loro discussione non avevano
affrontato
più l’argomento e quasi non si parlavano. Non che
uno dei due serbasse rancore
per quelle parole, ma piuttosto a causa dell’imbarazzo.
Comunque la cosa non la
preoccupava più di tanto: di sicuro si sarebbero
riconciliati molto presto.
E poi c’era lui, che più che un problema era un
pensiero costante. D’altro canto
era difficile che fosse altrimenti, dato che si vedevano tutti i
giorni. Non si
parlavano, non ci provavano nemmeno, come se improvvisamente fossero
diventati
due perfetti sconosciuti. Però… nonostante
mantenesse accuratamente le
distanze, lui… la guardava. La osservava costantemente, sia
che si trovassero a
lezione, che si incrociassero sul pianerottolo, che si trovassero sullo
stesso
bus. Non la spiava, semplicemente la guardava in ogni momento, tanto
che anche
nei suoi sogni si era ritrovata di fronte a quelle silenziose iridi
azzurre.
Quello sguardo era così indecifrabile che qualche volta si
era ritrovata ad
arrossire fino alla punta delle orecchie. Il che era assurdo, visto che
lo detestava.
Non gli avrebbe mai perdonato le
sue
azioni e tuttavia…
-
Ecco
la tua cioccolata! Bevila calda, così ti riscaldi!
– la raggiunse di corsa Daisuke.
-
Difficile,
visto che sono completamente assiderata. – sbuffò
lei, accettando comunque la
bevanda e borbottando un “grazie”.
Daisuke
si sedette accanto a lei e sorseggiò la sua cioccolata.
-
Sai,
nonostante tu sia tanto scontrosa, mi piaci molto! – disse
sorridente.
-
Grazie
del complimento. –
Lui
le si appoggiò ad una spalla. Lei lo lasciò fare.
Poi lui cominciò a strusciarsi
e lei gli diede una piccola spinta per scollarselo di dosso.
-
A
momenti mi facevi rovesciare tutto! – si lagnò
Daisuke.
-
Ti
sta bene! Così impari ad approfittare della mia gentilezza.
–
-
Ma
perché sei così cattiva? –
piagnucolò il quindicenne.
-
Se
sono così cattiva puoi anche a fare a meno di me, no?
– e fece l’atto di
alzarsi.
-
No,
no, stavo scherzando! –
-
D’accordo,
ma scherzi a parte, mi spieghi perché ci tieni tanto a
uscire con me? –
-
Perché
mi piaci! –
-
Ho
detto: scherzi a parte. –
-
Davvero!
Tu sei al secondo posto dopo la mia Hikaruccia. –
-
Daisuke…
-
-
Ok,
bene, ho capito. – sospirò –
C’è una ragazza della mia scuola che mi sta
rendendo la vita infernale… –
-
Non
posso credere che proprio tu possa dire una cosa simile! –
scherzò lei.
-
Ridi
pure, ma è una cosa seria! Non so come sia successo, ma un
giorno me la sono
trovata davanti alla classe e mi ha fatto una dichiarazione davanti a
tutti. Da
quella volta non riesco a levarmela di torno. –
-
Hai
fatto conquiste… – ghignò.
-
Ma
quali conquiste?! È una pazza del mio anno che non mi da
tregua! –
-
E
questa pazza…
è carina? –
-
Ehm…
non lo so, io non la sopporto! – arrossì in
maniera eloquente lui.
-
E
così, per sfuggirle, hai deciso di frequentarmi. –
-
Non
prendertela, tu mi piaci davvero, non ho mai voluto usarti…
–
-
Lo
so, tu sei un bravo ragazzo. – gli sorrise dolcemente.
Lui
arrossì.
-
Senti…
ti va di venire con me ad una festa? –
-
Ehi,
ora non montarti la testa! –
-
Per
favore! Devi accettare! –
-
Perché
devo ?! –
-
Beh,
perché ci sarà anche lei e se ci vedrà
insieme… -
-
Vorresti
farmi passare per la tua ragazza? Stai scherzando, vero? Non ci
cascherebbe
nessuno. –
-
Non
dobbiamo per forza essere fidanzati! Diciamo la verità, no?
Che tu sei mia
amica e che usciamo insieme… –
“Astuto…
ecco il perché di tutti questi appuntamenti!”
sorrise tra sé e sé.
-
Non
mi piace per niente. E alla mia reputazione non ci pensi? –
-
Ma
tu vieni in qualità di mia amica… Io
sarò il tuo cavaliere per una sera, tutto
qua! –
-
E
che festa sarebbe? –
-
La
festa di Natale della mia scuola, il 23 sera. Anche Tai ci
sarà, perché l’ha
invitato Hikari. –
-
Non
saprei… -
-
Ti
prego! Con te farei un figurone… Non posso lasciare che
Takeru mi rubi tutta la
scena! –
-
E
lui cosa c’entra? –
-
Ha
chiesto a suo fratello di suonare alla festa, così si
è procurato la band…
Capisci? Lui porta uno dei gruppi più famosi del Giappone e
farà da cavaliere
alla mia Hikarina! E io
non voglio fare la figura dello… -
probabilmente gli riusciva troppo difficile dirlo, perché
non proseguì.
Lei
ci pensò un attimo. Non che l’entusiasmasse
l’idea di andare ad una festa di
ragazzini e di avere come sottofondo la voce che meno desiderava
sentire, ma
come poteva dire di no a quel ragazzo che l’aveva tirata su
di morale del
momento del bisogno?
-
D’accordo.
– disse infine.
-
Davvero?
–
-
Davvero.
–
-
Sul
serio? –
-
Sul
serio. –
-
Non
mi stai prendendo in giro, vero? –
-
No,
ma se me lo richiedi cambio idea. –
-
Va
bene, non dico più nulla! –
-
Perfetto,
allora, per farti sdebitare, ora mi accompagni a comprare una cosa.
– sentenziò
alzandosi e cominciando ad incamminarsi.
-
È
un regalo? – le corse dietro lui.
-
Sì.
–
-
È
per me? –
-
No.
–
-
E
perché no? –
-
Perché
ti ho appena fatto un regalo. –
-
Ma
Natale è periodo di generosità! –
piagnucolò.
-
Sono
già stata fin troppo generosa. –
Ma
dentro di sé stava prendendo nota: comprare regalo a Daisuke.
Quella sera Rumiko tornò a casa carica di pacchi e
pacchetti, tanto che a
fatica riuscì ad infilarsi nell’ascensore.
Raggiunto il quarto piano si fermò
un attimo davanti alla porta 18, come se fosse combattuta. Poi
annotò qualcosa
a mente ed entrò a casa sua. Il Natale era davvero alle
porte…
Continua…
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Capitolo 10 *** - ***
Capitolo 10
Mancavano
cinque giorni alla festa, quando Taichi si presentò a casa
sua. Erano un paio
di settimane che non si parlavano quasi più. Non che
avessero motivo di
disaccordo, semplicemente per un tacito patto di rispetto nei confronti
dei
rispettivi amici. Fu perciò con una certa sorpresa che
Rumiko lo fece
accomodare nel salotto.
-
È
da un po’ che non vengo da te. –
commentò allegro.
In
effetti era vero, anche perché la ragazza passava meno tempo
in casa.
Trascorreva i pomeriggi in compagnia di Daisuke o di Sora.
-
Senti,
so che ti potrà sembrare un po’ strano,
ma… ti va di venire con me ad una
festa? –
-
Ti
riferisci a quella delle scuole medie? –
-
Sì,
come facevi a saperlo? –
-
Daisuke
me ne ha parlato e mi ha convinta ad accettare l’invito.
–
-
Daisuke
ti farà da cavaliere?! – sgranò gli
occhi.
-
Già,
sai com’è, per non essere secondo a
Takeru… -
-
Allora
lo sai che ci viene anche Yamato? –
-
Sì.
–
-
E
hai deciso di venire lo stesso? –
-
Non
intendo diventare una suora in clausura a causa sua, perciò
non vedo perché
rintanarmi in casa. In fondo è Natale, no? –
-
Mi
sembra di sentire Daisuke parlare dello spirito natalizio! –
sospirò lui.
-
Forse
hai ragione, non devo farmi influenzare troppo. – sorrise.
Lui
la guardò un attimo.
-
Mi
sembri allegra. Sai, negli ultimi tempi ci sono stati un po’
di… casini. Perciò
non ho potuto avvicinarmi troppo, capisci? –
-
Sì,
non preoccuparti. Sto bene. –
-
Mi
fa davvero piacere. Sono stato in pensiero per te… -
-
Grazie…
ma non ce n’era bisogno. – arrossì
leggermente – Sono sempre riuscita a cavarmela
da sola. E poi con me c’erano Daisuke e Sora… -
-
Già,
certo… -
-
Ecco…
perché non inviti lei alla festa? –
-
Come?
–
-
Ma
sì, in fondo non sai con chi andarci, no? –
-
Non
so se accetterà… -
-
Io
penso di sì! – gli sorrise.
-
D’accordo.
Allora ci provo! – si alzò, avviandosi verso
l’uscita – Ma in caso vada a
monte… -
-
Risparmierò
un ballo per te. – sorrise aprendogli la porta.
Taichi
si fermò un attimo sulla soglia.
-
Sai,
mi piace il tuo sorriso, ti rende più… bella.
– commentò tranquillo, per poi
salutarla e scomparire alla sua vista.
-
Più…
bella? – sussurrò tra sé, sfiorandosi
il viso con una mano e accorgendosi di
essere arrossita lievemente.
Fece
per tornare in casa, quando incrociò due iridi azzurre, che
la guardavano
indecifrabili. Poi si affrettò a richiudersi la porta alle
spalle. Il cuore le
batteva forte nel petto.
-
Ok.
–
-
Come
scusa? –
-
Ho
detto che va bene. –
Taichi
la guardò fisso e la rossa divenne in tinta con i capelli.
Insomma, di punto in
bianco si presentava a casa sua, le chiedeva di poterle fare da
cavaliere ad
una festa e poi la fissava con quegli occhi da pesce lesso…
E meno male che era
Natale, o l’avrebbe sbattuto fuori di casa
all’istante! La stava forse
prendendo in…
-
Grazie,
grazie Sora! – le sorrise felice come un bambino, facendole
morire ogni istinto
omicida.
-
Non
devi ringraziarmi, stupido! Sei tu che mi hai invitato nonostante
avessimo
litigato, perciò… -
-
Oh,
ma ormai quella è acqua passata, no? –
-
Sì,
se lo è per te… -
-
Ma
certo! Lo sai che non serbo rancore! –
-
Hai
ragione – gli sorrise dolcemente – non si addice
alla tua personalità. –
Yamato
girovagava per le stanze come un avvoltoio in cerca di una preda, la
mente in
subbuglio.
Poi si sedette sul divano, in mezzo ai libri e i quaderni di scuola. Le
gambe
larghe piantate saldamente al suolo, i gomiti puntellati sulle
ginocchia, il
mento appoggiato alle mani. Guardava avanti a sé, senza
però vedere il
disordine che regnava nella stanza. Il suoi occhi erano lontani, i
pensieri
volavano verso un altro mondo.
Ad un tratto riemerse da quel luogo remoto per tornare alla
realtà. Si guardò
intorno in cerca di qualcosa, impugnò una penna e
afferrò il primo foglio che
gli capitò a tiro. La sua mano si mosse, tracciando segni e
scritte, a tratti
quasi nervosa, poi placida e leggera, un momento tanto pesante da
rischiare di
strappare il pezzo di carta. La sua mente e le sue dita un
tutt’uno. La bocca
si muoveva, gli occhi semichiusi, l’espressione concentrata e
distesa al tempo
stesso.
Dopo pochi minuti si alzò, senza lasciare il prezioso
foglio, raggiunse la
chitarra e provò alcuni accordi. Scarabocchiò
qualcosa sulla superficie
stropicciata e sfiorò ancora le corde con le dita agili e
forti.
Sì, la sensazione era quella giusta… una piccola
modifica e sarebbe stata
perfetta. Sorrise, sereno per la prima volta da molti giorni: forse
aveva
trovato il modo di farsi perdonare.
Era la sera del 23. Daisuke si presentò alla porta numero 17
alle 19.30: era
puntuale. In più aveva indossato il suo abito migliore,
composto da giacca
scura e pantaloni ben stirati, camicia e cravatta. Niente di eclatante,
ma
comunque faceva la sua bella figura. Suonò il campanello e
gli venne aperta la
porta.
Dopo un secondo di stupore, esibì un largo sorriso.
-
Sei
bellissima! –
La
sala era spaziosa e elegante. Fiori bianchi e rossi erano stati
posizionati sui
tavoli del rinfresco, sulle gradinate e vicino al palco. Era una serata
importante, non tanto perché si trattava di una tradizione
degli studenti
dell’ultimo anno della scuola media, quanto per i personaggi
che vi avrebbero
presenziato.
Quando Daisuke e Rumiko fecero il loro ingresso non passarono
inosservati. Il
ragazzo era soddisfatto del figurone che stava facendo. Dal canto suo,
lei
esibiva il miglior sorriso che le riuscisse, camminando a braccetto
dell’amico.
“ Ma chi me l’ha fatto fare? “ si chiese
sconsolata. D’altronde non poteva
certo piantare in asso il suo cavaliere, perciò…
perciò avrebbe dovuto far buon
viso a cattivo gioco.
“ Sperando che questo gioco duri poco! “
Yamato seppe con esattezza quando era entrata, lo avvertì un
piccolo fremito
lungo la schiena.
Con gli occhi vagò tra la folla… e la
trovò.
Indossava un abito di raso viola, corto poco sopra le ginocchia e
abilmente
drappeggiato. Le braccia erano scoperte, il decolleté ampio
ma non per questo
volgare. I capelli erano stati fissati dietro il capo con uno chignon.
Una
ciocca vaporosa ombreggiava un lato del viso luminoso, poco truccato.
Ai piedi,
ragionò il biondo, probabilmente calzava un paio di scarpe
dai tacchi
vertiginosi, vista la ridotta differenza di altezza tra lei e il suo
cavaliere.
La constatazione che il suo accompagnatore fosse Daisuke lo
rincuorò un poco:
era sicuro che sarebbe venuta con Taichi. Se ripensava alle parole
dell’amico e
all’effetto che avevano avuto su di lei… meglio
accantonare la questione,
almeno per il momento.
Però, seppur di nascosto, continuò ad osservarla.
Rumiko non fece caso a quegli occhi puntati su di lei, forse
perché ne aveva
ben altri da tenere a bada. Infatti, da quando avevano messo piede
nella sala,
la coppia era stata letteralmente circondata da una decina di ragazzi,
a cui
presto si erano aggiunti molti altri.
-
Ehi,
Daisuke! Non ci avevi detto di avere una ragazza così
attraente! – scherzò uno.
-
Già,
dove la nascondevi? Cattivo, non si fa così! –
rise un altro.
-
E
pensare che vai ancora dietro a Hikari quando hai a disposizione
una… -
-
Adesso
basta! La mia Hikarina resterà sempre al primo posto!
– li zittì lui.
-
E
allora come spieghi la sua presenza? – disse qualcuno
indicandola – Non l’avrai
pagata, spero! –
-
Ehi,
ma come ti permetti?! – esplose la ragazza in questione
– Innanzitutto abbassa
quel dito! E poi modera i termini, visto che sono più grande
di te! –
-
Ragazzi,
vi presento Rumiko Kitamura, una mia amica! Frequenta
l’ultimo anno delle
superiori. – si mise in mezzo il quindicenne, per tentare di
salvare la
situazione e, soprattutto, i compagni.
-
Ehi,
ma non è la ragazza che ci era venuta a vedere un mesetto
fa? – fece un
ragazzo.
-
Hai
ragione, deve essere proprio lei! Con un caratterino simile…
-
-
Ma
non stava con Kamiya? –
-
No,
non sono mai stati insieme. – spiegò Daisuke, un
po’ infastidito – Sono solo ottimi
amici e compagni di classe. –
-
Ah,
e dovremmo crederti? Non è che sei geloso? –
-
Ma
che dici? – si intromise un secondo – Lui
può sempre ripiegare sulla piccola
Mei. A proposito, dov’è finita? Strano che non ti
sia già saltata addosso! – rise.
-
Che
branco di pettegoli. – sbottò Rumiko, seccata da
simili discorsi.
-
Ma
dai, stavamo solo scherzando! –
-
Io
no. – li mise tutti a tacere.
-
Vedo
che hai già perso le staffe! – scherzò
qualcuno alle sue spalle.
-
Non
mettertici anche tu, Taichi, non è giornata…
–
-
Ma
a Natale sono tutti più buoni! Non puoi deporre
l’ascia di guerra solo per
questa sera? –
-
Va
bene, ma lo faccio solo per non offendere la tua dama. –
accennò ad un sorriso
rivolto alla rossa.
Erano
proprio una bella coppia. Lui era stato messo in tiro, con uno smoking
dal
taglio semplice, anche se i capelli restavano spettinati. Lei indossava
un
abito blu scuro, lungo fino alle caviglie e con uno spacco fino a poco
sopra il
ginocchio. Una fascia le stringeva la vita e le spalle erano scoperte.
I
capelli erano stati raccolti e due piccole ciocche erano tenute dietro
le
orecchie, da cui pendeva una coppia di piccoli orecchini sfavillanti.
-
Vedo
con piacere che alla fine sei riuscito ad invitarla. – disse
Rumiko, stando ben
attenta che l’amica sentisse.
-
Beh,
sì. – sbiascicò il bruno, imbarazzato.
-
Non
so se lui te l’ha già detto, ma sei davvero bella
questa sera, Sora. –
-
Grazie,
ma me l’ha detto anche lui appena mi ha vista…
– sorrise, mentre il ragazzo si grattava
il capo, impacciato.
-
Però
la coppia più bella siamo noi! – si intromise
Daisuke.
-
Certo,
come no. – sospirò lei.
-
Ammettilo
che sono il cavaliere dei tuoi sogni… –
-
Piuttosto
dei suoi incubi! – scherzò Taichi.
Le
due diciottenni trattennero a stento un risolino.
-
Ridete
pure! Ma vi dimostrerò che, oltre a gentilissimo, sono anche
un ottimo
ballerino. –
-
Me
lo auguro… - disse la castana, sconsolata.
-
Vuoi
dire che non l’hai testato
prima di accettare?
– esclamò il bruno.
-
Perché,
Sora l’ha fatto? – protestò il
quindicenne.
-
Non
ne ha bisogno, perché IO non sono un impiastro come te!
–
-
Sono
sicuro che farai una figuraccia! –
-
Vedremo
chi farà una figuraccia, tappo! –
-
Ancora
con sto “tappo”? Sono nella media, va bene?
–
-
Ma
se sei alto quanto la tua dama? –
-
Solo
perché lei ha dei tacchi da paura! –
-
Non
tiratemi in mezzo! Io e le miei scarpette non vi abbiamo fatto nulla.
–
-
Ma
faranno molti qualcosa sui miei
piedi! –
-
Per
un ballerino provetto non dovrebbe essere un problema…
–
-
Colpito
e affondato, Daisuke! –
-
Tu
è meglio se stai zitto, che non sei tanto meglio di lui.
–
-
Sentito?
–
-
E
tu non montarti la testa! Siete entrambi
degli impiastri. –
-
Cattivaaa!
– piagnucolarono i due, sotto lo sguardo inclemente della
castana, tra le risate
della rossa e lo sbalordimento del pubblico.
La
band venne invitata a salire sul palco e, tra gli applausi generali,
diedero
fondo a tutto il loro repertorio.
Rumiko faceva di tutto per non alzare lo sguardo, sapendo cosa, o
meglio chi avrebbe incontrato.
Nella sua mente
lo vedeva, in piedi sotto i riflettori, mentre con una mano teneva il
microfono
e con l’altra impugnava la chitarra. I capelli biondi ad
ombreggiargli il viso
imperlato di sudore e dall’espressione concentrata. I
movimenti sicuri. La camicia
tenuta fuori dai pantaloni, la cravatta allentata che gli pendeva sul
petto.
All’apparenza dimesso, eppure maledettamente elegante.
La sua musica la rapiva. Quanto era cambiata in quelle ultime
settimane… da
orecchiabile era diventata ammaliante, capace di prenderla con il solo
sfiorarla, così soave e vera da sembrare una…
“ Fotografia.”
Al pensiero si sentì scuotere. Aveva fatto come lei gli
aveva detto. L’aveva
ascoltata, seguendo il suo consiglio. Si era impegnato e… ci
era riuscito. Era
riuscito a fondersi con le note, a creare un tutt’uno tra
parole e mente, a
comunicare al cuore delle persone. Al suo
cuore.
Appoggiando il capo alla spalla del suo cavaliere, lasciò
che quei suoni la
avvolgessero.
Taichi e Sora ballavano al centro della pista. La ragazza dapprima
aveva
trattenuto a stento le risate: lui non faceva che pestarle i piedi,
alla faccia
di ciò che aveva detto prima. Poi l’aveva visto in
faccia, concentrato, e un
dolce sorriso aveva sostituito l’ilarità. Era
evidente che stava facendo del
suo meglio e che si sentiva imbarazzato. Provava tenerezza per quel suo
modo di
fare così testardo e orgoglioso, così simile a
quello che aveva da bambino.
Eppure era diverso, così diverso da risultarle a tratti
irriconoscibile. C’era
qualcosa nel suo sguardo, nel suo portamento, nei suoi gesti, nella
linea del
suo mento che lo rendeva… adulto. Per la prima volta lei lo
guardò e pensò che
era davvero carino, ma non come un ragazzo, bensì come un
uomo.
Quel pensiero la fece arrossire, ma le sue braccia si strinsero con
più forza a
lui, senza riserve.
Rumiko e Daisuke stavano ballando, o meglio, lei tentava di evitare i
piedi
dell’altro. Però c’era da dire che il
ragazzo imparava in fretta, dato che
rispetto alla prima mezz’ora le sue scarpe protestavano molto
di meno. Ad un
tratto, lei sentì un brivido tutt’altro che
piacevole percorrerle la schiena e
si voltò leggermente: una ragazza la fissava. Era di
costituzione piccolina,
probabilmente sui quindici anni. I capelli corti e ricci creavano
un’aureola bionda
attorno al suo visino. Indossava un abito rosso fuoco, corto e dal
taglio
semplice. Tuttavia, nonostante fosse carina e di sicuro di indole dolce
e
allegra, in quel momento aveva un’aria ben poco rassicurante.
“ Ma chi è quella? E perché diavolo mi
sta fulminando? Non sto mica facendo
nulla di male! Di certo non può essere un crimine ballare
con… “ ma improvvisamente
le fu tutto chiaro.
-
Ehm,
Daisuke? –
-
Non
dirmi che ti ho pestato di nuovo i piedi! –
-
No,
sta volta non si tratta delle mie scarpe, ma della mia vita. –
-
Ah,
grazie… –
-
Non
mi riferivo a te, ma a lei.
– e lo
fece voltare un poco.
-
Ah,
quella. – commentò.
-
La
conosci, vero? Scommetto che si tratta della tipa di cui mi parlavi.
Com’è che
hanno detto che si chiama? …Kotobugi? –
-
Kotobuki.
Mei Kotobuki, alias la mia rovina! –
-
Non
essere antipatico, non ti si addice. – lo
rimproverò gentilmente.
-
Va
bene, scusami… -
Lei
lo trasse un attimo da parte e si sedettero.
-
Ah,
finalmente un po’ di riposo per le mie povere membra! Allora,
mi vuoi spiegare
cos’è questa storia? –
-
Niente
di che, è solo una svitata. –
-
Sarà
anche una svitata, ma ciò non cambia che abbia intenzioni
omicide nei miei
confronti. –
-
Non
ti preoccupare, ci sono io a proteggerti! –
-
Lo
sai che questo non mi conforta
affatto? – commentò acida – Non mi hai
ancora spiegato perché l’hai rifiutata.
–
-
Ma
te l’ho già detto che la mia Hikarina è
al primo posto nella… -
-
Sii
serio, Dai. Lo sappiamo tutti e due che il motivo non è
certo quello. Insomma,
potrai essere cotto e stracotto, ma dopo anni e anni avrai capito che
non hai
speranza, no? Anche questa sera lei è venuta con Takeru.
–
-
Lo
so, ma non si sono ancora messi insieme, perciò… -
-
Perciò
cosa? Sono solo timidi oltre natura, ma lo sanno tutti che sono fatti
l’uno per
l’altro. –
-
Hai
ragione. Lo so che hai ragione, eppure io… -
-
Se
ti impunti in questo modo non otterrai nulla, anzi: rischi di rimanere
da solo.
–
-
Ma
ci sei tu qui con me… –
-
Sì,
ora. Ma non per sempre, lo capisci? –
Lui
abbassò lo sguardo e lei addolcì il tono,
prendendolo per mano.
-
Tu
sei un ragazzo gentile e affettuoso, un tipo che merita di essere
amato.
Potresti fare felici molte ragazze. –
-
Lo
dici solo per consolarmi. –
-
Lo
sai che non è mia abitudine farlo. Sono oggettiva e se dico
che potresti, anzi,
dovresti legarti
ad un’altra ragazza, sono seria. –
-
Perché
dovrei? –
-
Perché
ne hai bisogno. – sospirò – Prendi me,
ad esempio: io sono una di quelle
persone possono stare sole. Ma per quelli come te è diverso.
Voi… voi avete
bisogno di avere qualcuno accanto. –
-
Ed
è un male? –
-
Assolutamente
no! Che c’è di male a voler amare ed essere amati?
È perfettamente… naturale. –
Daisuke
si appoggiò allo schienale della sedia.
-
Dunque,
secondo te dovrei provare ad amare qualcun altro? –
-
Non
pretendo che il sentimento sbocci di punto in bianco, ma…
perché no? In fondo
non hai nulla da perdere, no? –
-
Già.
In effetti Mei non è male… insomma,
sarà un po’ esuberante, ma è carina,
simpatica,
quando vuole dolce… -
-
Penso
che andreste d’accordo. – gli sorrise.
-
Va
bene. Allora… io ci provo, ok? –
-
Visto
che hai fatto pratica con le mie povere scarpe, se te la fai scappare
vuol dire
che sei DAVVERO un impiastro. – rise lei.
-
Grazie
per la lezione di ballo! –
E
fece per andarsene.
-
Ah,
un’ultima cosa: quando ridi così sembri
più luminosa, sei più… bella, credo!
–
-
Sarà
l’effetto del trucco. – borbottò per
nascondere l’imbarazzo.
-
Può
darsi… ma penso che dovresti farlo più spesso!
–
E
si allontanò.
Dopo pochi minuti Rumiko era di nuovo sulla pista, accompagnata da un
ragazzo
dai capelli scuri e il sorriso smagliante. Lui la riempiva di
complimenti, a
cui lei rispondeva con sorrisi tirati e monosillabi.
Però ballare le piaceva. Volteggiava sulla pista, leggera e
sicura, illuminata
dalle luci colorate che si riflettevano sul suo abito. Anche il dolore
ai piedi
era passato. Poco lontano da lei c’erano Sora e Taichi, che
ballavano
abbracciati, mentre con la coda dell’occhio poteva vedere
Daisuke e la sua
nuova dama. Quest’ultima coppia era di sicuro la
più eccentrica, visto che
investivano la gente vicina, improvvisando passi su passi che non
avevano nulla
a che fare con il ritmo della musica.
Quando la canzone finì, il ragazzo dai capelli neri venne
sostituito da un
biondino, quasi sicuramente tinto e stratinto. Lavorava molto di
braccia mentre
ballava, forse anche un po’ troppo. Ad un tratto la ragazza
si ritrovò una mano
sul sedere, che scansò senza troppe cerimonie. Il giovane ci
riprovò: a quanto
pareva non aveva capito l’antifona. Questa volta lei non si
fece cogliere
impreparata e gli piantò un tacco nel piede. Lui
aprì la bocca per dire
qualcosa, ma anche se proferì parola, nessuno lo
sentì. Rumiko si avvicinò al
suo orecchio e gli sibilò un gelido
“scusa”.
Stava per voltarsi, quando la musica si fermò.
-
Un
attimo di attenzione, per favore. – parlò il
cantante.
La
sala intera era in silenziosa attesa.
-
La
canzone che vi canterò ora l’ho composta pochi
giorni fa ed è molto importante
per me. É dedicata a due persone cui tengo molto e che
recentemente ho ferito.
Mi sono comportato come un idiota, non lo nascondo. Eppure una di
queste due
persone mi ha già assolto. Non ho la presunzione di credere
che una semplice
canzone basti a cancellare i miei atti, ma… forse
ingenuamente, spero di
riuscire ad ottenere un perdono che per me significherebbe molto.
–
Un
leggero brusio percorse la pista da ballo. Per un attimo fugace le
parve che
quegli occhi azzurri l’avessero guardata, malinconici.
Note di puro rock. La chitarra s’impennò. Le corde
del basso vibrarono. La
batteria tuonò. La tastiera filò il tutto in un
unico arazzo musicale.
Le voci si spensero.
All that you touch
All that you see
All that you taste
All you feel
All that you love
All that you hate
All you distrust
All you save
All that you give
All that you deal
All that you buy
beg, borrow or steal
All you create
All you destroy
All that you do
All that you say
All that you eat
everyone you meet
All that you slight
everyone you fight
All that is now
All that is gone
All that’s come
and everything under the sun is in tune
but the sun is eclipsed by the moon.
Non un suono
accolse
la fine. Un applauso si levò, seguito da un secondo, un
terzo, un quarto e un
quinto. E poi un altro e un altro ancora, finché tutta la
sala si riempì di
urla, schiamazzi e incitamenti urlati a gran voce.
Yamato fece un segno ai compagni e la band ricominciò a
suonare, mentre il
ragazzo alla pianola assunse temporaneamente il ruolo di vocalist. Ma
il biondo
non si unì a loro.
Con un balzo scese dal palco e si fece largo tra la folla acclamante.
-
Allora?
Che ne pensate? –
-
Che
ne pensiamo?! Ma dico, scherzi?! –
-
Credo
che Tai volesse dire che sei stato davvero sensazionale! –
sorrise la rossa.
-
Qui
ci sta uno dei “mitico” di Daisuke! –
aggiunse il bruno.
-
Credete
che sia andato bene, insomma, non sarà stato un
po’… -
-
Sono
sicura che le è piaciuta. – disse dolcemente Sora.
Yamato
non se lo fece ripetere due volte: era di nuovo scomparso tra la folla.
Gli invitati avevano ripreso a ballare. Il biondino si era tirato
faticosamente
in piedi e le si era avvicinato.
-
Ma
che diavolo ti è preso, tutto d’un tratto?! Mi hai
azzoppato solo per…? –
-
Ciao.
–
-
Ciao.
– disse, quasi in un sussurro.
Poi
si fecero entrambi zitti, come se avessero esaurito gli argomenti o se
li
fossero improvvisamente dimenticati.
-
Ehm,
la canzone… - tentò Yamato.
-
Come
s’intitola? –
-
Eclipse.
–
“
Eclisse” tradusse Rumiko tra sé e sé.
Non ricevendo risposta, lui continuò.
-
È
molto semplice, lo so. Probabilmente ti aspettavi qualcosa di
più… -
-
È
bella. –
-
Come?
–
-
Ho
detto: è bella. – abbassò un poco il
capo, per nascondere un lieve rossore.
-
Lo
so che non dovrei chiedertelo, ma… potresti perdonarmi? Per
tutto, intendo. –
In
quel momento, una parte di lei avrebbe voluto urlargli di no. Avrebbe
voluto
farlo soffrire, vederlo rabbuiarsi. Sarebbe stata la sua
vendetta… E l’avrebbe
fatto. Fino a qualche mese fa avrebbe gioito nel vederlo logorarsi per
lei.
Quel pensiero la fece rabbrividire. Ormai era acqua passata. Aveva
superato
quel momento e ora stava conducendo una nuova vita… o no?
-
Sì,
ti perdono. –
Yamato
le regalò uno di quei sorrisi splendidi e speciali che
riservava a pochi. Poi
le porse la mano, che lei accettò, e la condusse al centro
della pista,
incurante del biondino azzoppato che cercava di attirare la loro
attenzione.
Ballavano, scatenandosi al centro della sala. Lei volteggiava leggera e
sinuosa. Sembrava una farfalla, nel suo vestito di raso. In quel
momento si
accorse di quanto gli era mancata: i suoi capelli lunghi e morbidi, il
profumo
della pelle candida, gli occhi viola che sapevano incantare e
ingannare, la
voce, il broncio abituale, il sorriso così…
enigmatico, a tratti timido o
malizioso, ma comunque radioso, che la faceva brillare come un angelo
ai suoi
occhi. Ricordava come fosse ieri il giorno che l’aveva vista
dalla finestra
arrancare in mezzo alla neve alta e si era ritrovato ad afferrare un
ombrello.
Le era andato incontro e lei si era fermata, meravigliata quasi quanto
lo fosse
lui stesso. Tremava, avvolta da una sciarpa spessa tra le cui maglie il
suo
respiro si era condensato, i capelli gocciolanti, il naso e le gote
arrossate.
Così piccola e delicata, incoronata dai fiocchi di neve. Lui
l’aveva riparata
con l’ombrello, per quanto fosse ormai inutile. Lei non aveva
fiatato,
limitandosi a seguirlo. Strano: fino ad allora non si era accorto di
quanto il
suo passo forse corto, le spalle strette. Ebbe l’improvviso
desiderio di
cingerla con un braccio, di stringerla forte contro il suo petto. Poi
le aveva
lanciato un’occhiata fugace e l’aveva
vista… così fragile e vibrante di una
strana energia, che non aveva osato infrangere quell’istante.
Anche in quel momento, avvolta dalla musica, lei era…
“ Magica, come una fata.”
Non sapeva quanto avesse ragione e torto al tempo stesso.
Così, la sera del 23 dicembre segnò
l’inizio di molte cose: nuovi sentimenti,
nuova musica e nuove storie. Ma vecchi ricordi stavano tornando in
superficie,
per infrangere quella felicità tanto perfetta quanto
fragile. Più tardi se ne
sarebbero resi conto… era solo questione di tempo.
Continua…
N.d.a.
Quando scrissi questo capitolo mi ero fissata con i PINK FLOYD. Alcuni
di voi
può darsi che abbiano riconosciuto il testo di una delle
loro più famose
canzoni: ECLIPSE.
Per
chi amasse il rock e non li conoscesse (difficile!) li consiglio
vivamente.
Monalisasmile
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Capitolo 11 *** - ***
Capitolo 11
Era
la mattina della Vigilia di Natale. Rumiko si stropicciò
pigramente gli occhi,
stiracchiandosi svogliata. Andò in cucina e
preparò del caffè forte, come tutti
i giorni. Dei passi pesanti e strascicati le indicarono
l’avvicinarsi del
padre. Insieme si sedettero al tavolo, uno di fronte
all’altro, fissando come
inebetiti le rispettive tazze fumanti. Facevano proprio una bella
figura:
entrambi spettinati quanto assonnati, esibivano un paio di occhiaie
scure sotto
gli occhi.
-
Hai
la bava alla bocca, papà. –
-
Ah.
– si strofinò il viso.
Di
nuovo silenzio. In quella casa c’era sempre silenzio, come se
tutto fosse in
precaria attesa di un qualcosa che non veniva mai. Attendevano, padre e
faglia,
non sapevano bene cosa, non sapevano bene chi. Era un silenzio quasi
malinconico, come se entrambi sentissero la mancanza di qualcosa. O
meglio
qualcuno, sapevano bene chi.
-
Fai
qualcosa di bello oggi? –
Era
sempre lui ad interrompere quei silenzi carichi di troppi pensieri. Una
volta
non era così, una volta non ce n’era bisogno.
-
In
teoria dovrei dare i regali ad alcuni amici… -
-
E
allora che ne dici di invitarli qua? Potresti dare una piccola festa.
–
-
Non
lo so… -
-
E
dai! Così mi diverto anch’io di tanto in tanto.
–
-
Ma
se passi le giornate con i personaggi più in vista dal
paese! –
-
Sì,
ma con loro non mi diverto… - piagnucolò lui.
-
Insomma,
hai deciso di passare una serata in compagnia dei giovani, dico bene,
vecchio?
– ghignò.
-
Vecchio
a chi? Dentro di me sono ancora un ventenne! –
-
Certo,
certo… - disse in tono annoiato.
Lo
stuzzicava sempre e sempre lui stava allo scherzo. Giochi infantili per
persone
che non riuscivano a farne a meno, che avevano bisogno di zittire
silenzi e
schiacciare ricordi con la forza delle risate.
-
Ciao.
Ti va di venire da me, questo pomeriggio? Volevo dare una piccola festa
per
quelli che si reggono ancora in piedi. –
-
Vengo
volentieri! Chi altri ci sarà? –
-
Taichi
ha detto che viene, ma Hikari è a letto malata. Sai, ha
preso freddo ieri, dopo
il ballo. Dunque suppongo che Takeru le starà accanto tutto
il giorno. Poi ci
sarà Daisuke e se vuole gli ho detto di portare anche
Mei… -
-
Non
è la biondina con cui ballava ieri? –
-
Proprio
lei. –
-
Hai
deciso di far le parti di Cupido? – rise la rossa.
-
Ma
quale Cupido? – borbottò – Dovevo far
riposare i miei poveri piedi e ho colto
l’occasione per liberarmi del mio sicario. –
-
Va
bene, va bene! E chi altro viene? –
-
Koushiro
ha detto che ci sarà più che volentieri e Iori
pure. Joe è partito per la
montagna con alcuni compagni e tornerà tra qualche
settimana. Miyako ha detto
che avrebbe passato il Natale a casa di Ken. –
-
Ormai
quei due sono una coppia a tutti gli effetti. –
commentò Sora – Tra poco Miyako
comincerà a fantasticare sul matrimonio…
–
-
Roba
da film dell’orrore. –
-
Ma
dai, in fondo sono carini! – tentò, poco convinta.
-
Non
lo metto in dubbio, ma a quindici anni non ti sembra un
po’… prematuro? –
-
Lei
è fatta così. È da anni che progetta
la sua vita coniugale! –
-
E
dire che io mi limito a progettare la festa di oggi stesso…
– sospirò la
castana.
-
Non
abbatterti, anzi, se hai bisogno di una mano non hai che da chiedere!
–
-
Grazie,
ma tra me e mio padre non dovremmo avere troppi problemi… o
almeno mi auguro. –
concluse, lanciando un’occhiata angosciata al genitore che
cercava di
districare i cavi delle luci per l’albero.
-
In
caso di necessità posso sempre chiamare rinforzi dalla porta
da fianco. –
-
Tu
e Yamato vi siete riappacificati, vero? –
-
Sì.
– sbiascicò, ripensando alla sera precedente.
Avevano
ballato fino a notte fonda, senza quasi parlarsi. Ricordava bene il suo
profumo, la sensazione di quel corpo alto e forte vicino a lei. Non si
erano
neppure guardati, intessendo una complessa danza di sguardi, fatta di
occhiate
fuggevoli, che si sfioravano appena, senza mai incrociarsi o indugiare
troppo
sul partner.
-
Rumiko?
Ci sei ancora? –
-
Ah,
sì certo! – parve rinvenire.
-
Ti
eri incantata, per caso? Comunque ti ho chiesto se viene anche lui.
–
-
Veramente
non gliel’ho ancora chiesto… -
-
Ma
lo inviterai, vero? Visto che vi siete riappacificati non dovrebbero
esserci
problemi, no? –
-
Ma
certo che non ci sono problemi! È solo che non ne ho ancora
avuto il tempo… -
-
Ma
se siete vicini di casa! Non mi dirai che ti fai ancora delle riserve.
–
-
Riserve,
io? Ma certo che no! – sbottò lei.
-
Bene,
allora vai subito da lui! Ci vediamo sta sera, ciao! – e
attaccò senza darle il
tempo di protestare.
“
Accidenti a Sora! Ora sono praticamente costretta
ad invitarlo.”
Non che non l’avrebbe fatto, ma voleva farlo poi, con calma.
Era ovvio che
l’avrebbe invitato… o no? Mica si faceva
“riserve”. Insomma, equivaleva a dire
che se la faceva sotto!
“ Bugia.” si rimproverò da sola. La
verità era che dopo tutti quei giorni
passati ad evitarsi, temeva di non sapere come comportarsi, cosa dire,
con che
sguardo guardarlo.
“ Al diavolo!” sbuffò poi, irritata con
se stessa “ Non è da me farmi simili
problemi! In fondo che ci vuole? Basta pigiare il
citofono…”
E lo premette.
“ Aspettare pazientemente qualche secondo
e…”
La porta si aprì e i pensieri si dissolsero improvvisamente.
-
Ci
hai messo poco! Ma perché non usi mai le chia… -
Yamato
stava di fonte a lei, nudo. Aveva solo un asciugamano legato alla
bell’e meglio
attorno ai fianchi, che non gli arrivava neppure alle ginocchia. I
capelli
bagnati facevano ricadere grandi gocce sulle spalle, da cui si
congiungevano in
tanti rigagnoli che scorrevano sul petto.
Una nuvoletta di schiuma imbiancava uno zigomo, simile a zucchero
filato.
Inconsciamente si soffermò su quel particolare un istante di
più.
Si guardarono in silenzio, immobili. Poi, con un gesto
fulmineo… lei gli sbatté
la porta in faccia.
Con la mente in subbuglio, senza riuscirne a districare un pensiero
concreto,
Rumiko lo sentì allontanarsi di corsa e chiudersi una porta
alle spalle.
Dal piano di sopra sentì una porta aprirsi e la testa di un
bambino fece
capolino dalle scale. Gli occhiettini scuri la guardarono curiosi e lei
si
affrettò a recuperare l’abituale calma. Ma si sa,
i bambini si fanno ingannare
meno difficilmente degli adulti. Il piccolo sorrise scaltro, con aria
saputa, e
si affrettò a tornare in casa, chiudendo il portone dietro
di sé.
Lei si appoggiò alla superficie in legno su cui spiccava il
numero 18.
Istintivamente affondò le mani in tasca, affondando tra le
spalle e contraendo
i muscoli del viso in un’espressione dura. Poi si
ricordò di una cosa che le
dicevano sempre: “ Quell’atteggiamento da bulletto
si addice poco ad una bella
ragazza, Rumi.”
Allora corresse la postura, incrociando le braccia dietro la schiena e
distendendo l’espressione facciale. Una volta quei gesti la
stizzivano, ora non
più. Forse perché…
La porta si aprì d’improvviso e lei
arrancò a vuoto nell’aria, finendo per
atterrare dolorosamente a terra. Si massaggiò i glutei
doloranti e alzò lo
sguardo: il biondo la guardava a occhi sgranati. Poi le sue labbra si
contrassero,
un lato della bocca si sollevò e…
scoppiò a ridere.
-
Ehi,
che c’è che ti fa tanto sbellicare?! –
lo fulminò.
Lui
buttò la testa indietro, senza interrompersi.
-
Ma
guarda te! Io vengo qua con le più buone intenzioni del
mondo e, dopo aver
assistito ad una situazione a dir poco imbarazzante ed essere stata
presa per i
fondelli da un marmocchio di sei anni, finisco col sedere a terra! Poi,
come se
non fosse bastato, vengo sfottuta di nuovo, e da niente poco di meno
che la
causa dei dieci minuti più umilianti della mia vita!
– protestò, rossa in
volto.
Ovviamente,
il risultato non fu quello sperato, poiché le risate,
anziché placarsi,
aumentarono di volume.
Quando il signor Ishida entrò in casa, pochi minuti dopo,
non credette ai suoi
occhi: suo figlio aveva le lacrime agli occhi e un sorrisino represso.
Voltandosi, però, il mistero si risolvette subito: la loro
vicina stava a
braccia conserte seduta su una sedia, visibilmente indispettita.
-
Ciao,
Rumiko. – la salutò l’uomo.
-
Buongiorno,
signor Ishida. – bofonchiò lei.
Lui
fece attenzione a non far trapelare un piccolo sorriso: quella ragazza
era
incredibile, a momenti faceva paura persino a lui.
-
Volevo
invitare Yamato a casa mia per le 7.00 di questa sera. – si
rivolse al genitore
– Vengono anche Taichi, Sora, Daisuke… una decina
di persone in totale, per
festeggiare il Natale tra amici. Ma da quando ho superato quella porta
suo
figlio non fa che ridermi in faccia. –
Il
biondo continuava a sghignazzare e lei non mostrò di volersi
girare verso di
lui, continuando a dargli le spalle.
-
Non
tiratemi in mezzo ai vostri litigi, ragazzi! –
protestò l’uomo – Comunque per
me non ci sono problemi. Piuttosto, hai bisogno di una mano con i
preparativi?
–
-
No,
non si preoccupi. Io e mio padre ce la caviamo benissimo. –
Ma
un richiamo risuonò attraverso le pareti:
-
AL
DIAVOLO VOI E LE VOSTRE STUPIDE LAMPADINE! PEGGIO PER VOI SE NON VOLETE
COLLABORARE, VI SIETE GIOCATI IL NATALE! –
Nel
silenzio che seguì la ragazza sospirò sconsolata
e il biondo esibì un ghigno.
-
Forse
un paio di mani in più non sarebbero tanto male…
- sbiascicò lei alla fine.
Poco
dopo le due famiglie erano al lavoro all’indirizzo 17.
Ovviamente il padre di
Rumiko aveva colto l’occasione per invitare anche il signor
Ishida, che aveva
accettato subito. Poi si erano seduti ai piedi dell’abete,
impegnandosi a
districare i famelici cavi delle luci di Natale.
-
Sembrano
due bambini. – aveva commentato Yamato.
-
Possibile
che nemmeno insieme ce la facciano? –
-
Possibilissimo.
–
I
giovani avevano sospirato, preferendo voltare la schiena ad un simile
spettacolo sconfortante.
Rumiko estrasse un libro di ricette e cominciò a sfogliarlo.
Presto si accigliò:
possibile che tutte richiedessero un’abilità, un
tempo e soprattutto una
pazienza spropositata?!
Per fortuna gli invitati avrebbero portato antipasti e da bere. Sora
aveva
anche promesso un dolce. Ma per quanto riguardava i piatti caldi, di
quelli avrebbe
dovuto occuparsi lei.
-
Che
stai facendo? –
-
Scelgo
i piatti da cucinare per questa sera. –
-
Perché
non fai questa, oppure quest’altra? – le
indicò lui – Anche questa non è male,
però dubito che riusciresti a trovare tutti gli
ingredienti… qualcosa di
semplice, niente portate da ristorante di lusso. –
-
E
queste sarebbero semplici?
–
-
Non
mi dirai che non sai cucinare! – la canzonò lui.
-
E
anche se fosse? – lo minacciò.
-
Niente,
è che mi aspettavo che in una casa dove vivono una figlia e
un padre, uno dei
due sapesse cucinare. E visto che tuo padre non sembra troppo
affidabile… - osò
lanciare uno sguardo fugace ai due, che avevano preso a confabulare,
come se
stessero organizzando un piano di battaglia.
-
Infatti
sono io a fare i pasti, ma mi limito a cibi molto
più semplici di questi, tipo surgelati, bistecche, insalate
e così via… Non ho
mai avuto bisogno di usare un libro di ricette. –
-
Ma
ne hai una sfilza. – commentò lui guardando lo
scaffale – Come mai ne tieni
così tanti, se non li usi? –
-
Non
sono miei. Erano di… mia madre. –
Era
la prima volta che entravano in argomento. A pensarci bene, lui sapeva
ben poco
di lei, di come fosse la sua vita prima di trasferirsi in quella
città. Voleva
conoscerla, ma non sapeva come avvicinarsi.
-
I
miei hanno divorziato. – disse alla fine, decidendo che la
cosa migliore era
fare lui il primo passo – Quando ero piccolo. Io sono stato
affidato a mio
padre e Takeru a mia madre. –
Rumiko
non disse nulla.
-
All’inizio
non era stato facile, ma poi cominciai a preferire quella condizione un
po’
strana ai continui litigi dei miei. L’unica macchia nera era
stato separarsi da
Takeru… gli ero molto affezionato. E lui era piccolo e
sapevo che aveva bisogno
di me… -
Di
nuovo lei non fece parola.
-
Ora
sto bene e anche lui. È cresciuto e sa badare a se stesso
molto meglio di
prima. Mio padre dice che sono libero di fare ciò che
più desidero. Volendo
potrei anche andare a vivere da solo, a condizione che badi da solo
alle spese,
il che grazie al successo della band non sarebbe certo un problema.
– fece una
pausa – Ma non penso che lo farò molto presto. Non
sa badare a se stesso, basta
vedere lo stato della casa quando torno dopo una lunga assenza! Io
posso farne
a meno, ma lui ha bisogno di qualcuno che gli stia vicino, di una
presenza
femminile. E in mancanza di quella ci penso io al mio vecchio!
–
Ancora
un attimo di silenzio, poi fu lei a romperlo.
-
Una
volta Tai me ne ha parlato. Mi ha detto di te e della tua famiglia, di
quanto
sia stato difficile crescere con le proprie forze. – disse
piano – Sai, ti
ammiro. –
-
E
perché? Anche tu ci sei riuscita. –
-
No,
per me è diverso. – lo guardò in faccia
ed improvvisamente la sua espressione
si fece gelida e scrutatrice – Mia madre è morta
un anno fa, quando vivevamo a
New York. –
Questa
volta fu il turno di lui non fiatare. Il suo cervello stava elaborando
in
fretta le informazioni.
Il
fatto che la madre fosse morta poteva costituire la causa del profondo
cambiamento avvenuto nella ragazza. Era successo circa un anno fa, il
che
spiegava come mai lei e il padre si trovassero in
quell’equilibrio un po’
precario, come non avvezzi alla situazione. Probabilmente nessuno dei
due aveva
ancora digerito la cosa, soprattutto lei. Infine l’accenno
alla città americana
gli fece tornare in mente la fotografia trovata qualche mese prima nel
cassetto. Quella volta aveva immaginato che, se era stata chiusa
là dentro
anziché appesa, un buon motivo c’era di sicuro ed
eccolo svelato: la fotografia
le faceva tornare in mente ricordi spiacevoli. Era possibile che la
figura che
si stagliava sulla cima del grattacielo fosse la madre stessa della
ragazza.
Tutto questo attraversò la sua mente in un secondo, ma nulla
trapelò sul volto.
-
Stavate
a New York? - disse, dandosi subito dello stupido: domanda
più insignificante
non poteva trovarla.
Ma
lei annuì, senza lasciar trapelare nulla.
-
Quattro
anni fa mio padre accettò
un’opportunità di lavoro. Cominciava ad essere
conosciuto anche all’estero e viaggiare è utile a
un fotografo. Voleva vedere
nuovi orizzonti. Io e mia madre l’abbiamo seguito e ci siamo
stabiliti là tutti
e tre. – liquidò l’argomento con un
gesto della mano.
-
Come…
è stato un incidente? – chiese, cercando di non
apparire indiscreto.
Lei
parve rifletterci un attimo, come se non riuscisse a catalogare
l’accaduto. O
forse non sapeva se rivelarglielo o meno. Poi parve decidersi.
-
I
giornali hanno parlato di “attacco terroristico nella
metropolitana”. – scandì
le parole, faticosamente.
Al
biondo tornarono in mente i telegiornali di un anno fa: forti
esplosioni e
decine di morti, alcune centinaia di feriti, tutti abbastanza
gravemente. Pochi
indenni. Probabilmente opera di kamikaze, uomini suicidi di cui si
ignoravano i
mittenti. Nessuno aveva rivendicato l’attentato, lasciandolo
avvolto nel
mistero.
E sua madre era morta lì, in quella tragica notte.
-
Mi
dispiace. – disse a capo chino.
-
Lo
so, me lo dicono tutti. Ma nessuno capisce davvero. – fece
lei, voltandosi e
allontanandosi.
-
In
realtà – sussurrò tra sé il
biondo– Mi spiace proprio perché non posso
capirti…
perché non posso esserti d’alcun aiuto. –
Se
si fosse soffermato un secondo di più, avrebbe scorto, nel
modo in cui lei ne
aveva parlato, nell’espressione del suo viso, qualcosa
di… ambiguo.
La giornata filò liscia, come se nulla fosse stato detto.
Yamato non sapeva se
rallegrarsene o meno. Possibile che la conversazione non avesse
significato
nulla per lei? Che non l’avesse minimamente turbata? O forse
stava di nuovo
celando le sue vere emozioni?
Sospirò, sconfitto. Per quanto fosse bravo a scrutare le
persone, aveva la
sensazione che non avrebbe mai capito quella ragazza. Eppure eccola
lì, le mani
immerse nell’impasto, il bel volto concentrato e sporco di
farina. Così
semplice e complessa al tempo stesso. Pareva che qualcuno di animo
audace
avesse tessuto un arazzo di emozioni contrastanti, in precaria e
splendida
armonia.
-
Va
bene così? –
-
No,
gli ingredienti si devono amalgamare bene. –
-
Ma
è da una vita che impasto questa roba! –
protestò energicamente.
-
E
devi continuare finché non diventa uniforme. –
Sbuffando,
lei si rimise all’opera.
Difetti. Rimuko ne era piena. E non si curava di metterli in mostra:
bastava pensare
alla sua impazienza e irrequietezza, gli atteggiamenti a volte
altezzosi, il
sorriso scaltro, lo sguardo tagliente, di sufficienza o derisorio.
Eppure sapeva sorridere e gioire senza riserve. E piangere e soffrire.
Solo non
voleva darlo a vedere, riservata e di animo schivo per natura. Parlava
con
tutti e tutti la conoscevano. Però nessuno sapeva qualcosa
di personale su di
lei o sulla sua vita. Popolare e sconosciuta, strano accoppiamento di
parole
che la descriveva perfettamente.
Ma al ragazzo bastò lanciarle uno sguardo per dare una mano
di spugna e
cancellare tutti i suoi pensieri. Quella che aveva davanti, le mani
impiastricciate di pasta e il broncio stampato sul viso, era
l’unica Rumiko. Né
semplice né complessa, solo Rumiko.
-
Buon
Natale a tutti! –
-
Non
ti smentisci mai: sempre in ritardo. –
-
Ma
non è colpa mia! Io ero quasi puntuale, ma per colpa
sua… -
-
Colpa
di chi? Non lo sai che le donne si fanno sempre aspettare un
po’? –
-
Ma
quale donna e donna! E poi ti pare poco mezz’ora?! –
-
Parli
tu, che sei quasi arrivato
un’ora dopo!
–
Gli
altri guardavano la coppia esterrefatti. Non solo Daisuke aveva portato
una
ragazza, ma sembravano due gocce d’acqua: entrambi due bombe
a orologeria.
-
Come
ti è saltato in mente di invitare questi due pazzi? Dico, ti
sei completamente
ammattita?! – sussurrò Taichi
all’orecchio della padrona di casa.
-
Visto
che sono stata io farli mettere insieme, mi sembrava naturale estendere
l’invito anche a lei… -
-
Ma
sì, è Natale, ragazzi! – si intromise
un sorridente signor Kitamura –
L’importante è che non sfascino la casa, poi va
tutto bene. –
La
figlia si strinse nelle spalle, come ad indicare che la questione era
chiusa.
-
Ah,
voi ancora non la conoscete! – si riscosse Daisuke,
ricordandosi dove si trovava
– Lei è Mei Kotobuki! –
-
La
sua ragazza! – precisò la biondina, sorridendo
felice.
-
Complimenti,
Dai! Era ora che ti staccassi da mia sorella! –
esclamò Taichi.
-
Ah,
tu sei il fratello della Kamiya! Sappi che non ho nulla contro di te,
nonostante lei sia mia rivale! –
-
Ehm,
grazie… - disse il bruno, interdetto.
-
Ah,
Rumi-chan! Grazie dell’invito! – le si rivolse
Daisuke, sorridendo allegro.
Immediatamente
venne fulminata dalla riccia, astiosa.
-
Ora
sono pure Rumi-chan, eh? –
-
E
perché no? Tra amici ci si chiama così!
Ovviamente tu puoi chiamarmi Dai-kun! –
-
Senti,
Dai-kun, penso sia meglio che tu non
la provochi. – si inserì Yamato, prevedendo
l’esplosione.
-
Ma
tu sei Yamato Ishida, vero? Hai cantato alla festa ieri sera!
– fece Mei,
allegra – Sei davvero bravo, sai? Penso che
diventerò una tua fan! –
-
Ah,
grazie. – disse senza troppa convinzione.
-
Ma
come? Prima stravedi per me e ora vai dietro a questo qua…-
riprese la parola
Daisuke.
-
Cos’è,
per caso sei geloso? –
-
No!
–
-
E
invece sì e ti sta solo bene! Così impari a fare
il cascamorto con quella lì! –
-
Ma
quale cascamorto! Io e Rumi-chan siamo amici, tutto qua! –
-
Allora
anch’io e Yama-kun diventeremo amici! –
-
Non
è la stessa cosa! –
-
E
perché no? –
-
Perché…
perché… perché tu sei una ragazza!
–
-
E
tu un ragazzo! –
-
Lo
vedo da me, cosa credi?! –
-
Anch’io
se per questo so di essere una ragazza! –
-
Buon
per te! –
-
Sai
che quando ti arrabbi sei più carino? – si
addolcì improvvisamente lei.
-
Davvero?
–
Intanto
Rumiko e Yamato sembravano esser stati dimenticati. Meglio
così, pensò lei.
Taichi aveva perfettamente ragione: ma che le era saltato in mente ad
invitarli? E ora la tiravano pure in mezzo ai loro battibecchi. E meno
male che
era Natale, o ci avrebbe pensato lei a dividere i due litiganti. Non
che il
cantante fosse entusiasta della situazione: l’ultima cosa di
cui aveva bisogno
era un’altra ammiratrice sfegatata.
Alla fine riuscirono a ristabilire la calma e andarono in salotto, dove
era
stata preparata la tavola. Miracolosamente i due genitori erano
riusciti a
districare il groviglio di cavi e l’abete era pronto per
essere addobbato.
-
Abbiamo
pensato che sarebbe stato carino decorare l’albero tutti
insieme! – mentì la
castana, con un sorriso forzato. In realtà non ne avevano
avuto il tempo, visto
che i papà avevano impiegato più del previsto a
compiere il loro lavoro. Ma se
non altro ora le luci erano accese e luccicavano tra le fronde verdi.
Il
gruppo si dimostrò felice dell’iniziativa e si
avventò sulle scatole contenenti
gli addobbi. La ragazza tirò un sospiro di sollievo:
l’avevano bevuta.
Tra risate e immancabili litigi vennero appesi i festoni dorati. Ora
veniva la
parte più difficile: le altre decorazioni. Perché
difficile? A causa della
ressa per accaparrarsi i pezzi migliori. Neppure i due genitori
facevano
eccezione e presto si aprì una vera e propria battaglia.
Iori afferrò una pallina rossa, che Daisuke pensò
bene di rubargli. Peccato che
il più giovane non fosse disposto a cedergliela tanto
facilmente, così dette un
forte strattone e se ne rimpossessò, tra le suppliche del
moro. Dall’altro lato
Taichi sembrava deciso a mettere il proprio angioletto proprio nel
punto dove
già stava la campanella di Sora. Senza pensarci su due volte
la sostituì, ma
subito la rossa gli fu addosso e i due cominciarono a contendersi il
rametto.
Troppo tardi si accorsero che Koushiro aveva appena infilato la propria
pallina. Intanto il signor Kitamura aveva avvistato in fondo ad uno
scatolone
la stella da mettere sulla punta dell’albero. Peccato che il
padre di Yamato
l’avesse vista insieme a lui e ora non sapevano decidere chi
dovesse metterla. Più
lesto di mano fu però il cantante, che se ne
impossessò, lasciando entrambi con
un palmo di naso. Ma appena si voltò si ritrovò
le mani vuote: Rumiko sorrideva
maligna davanti a lui. Gli fece la linguaccia e si apprestò
ad infilarla al suo
posto. Peccato che la cima fosse molto alta. Da dietro le sue spalle
sentì il
giovane sghignazzare, ma non si diede per vinta.
“Al
diavolo l’altezza!”
Ce
l’avrebbe fatta comunque. Recuperò una sedia e vi
salì. Giusto il tempo di
lanciargli un sorriso canzonatorio… e si ritrovò
per terra, leggermente
stordita.
“ Ma che diavolo è successo?! “
Subito gli altri accorsero a vedere come stava.
-
Non
mi sono fatta nulla, ve lo assicuro! –
tranquillizzò la piccola folla.
Una
persona mancava all’appello dei preoccupati. Capendo al volo
l’accaduto, si
alzò e si scrollò un poco i vestiti. Si muoveva
con gesti lenti e pacati. Raddrizzò
la sedia e raccolse la stella, ancora intatta. Poi sollevò
gli occhi e la
guardò dritta in faccia.
-
Vuoi
metterla tu? –
-
Io…
no, perché? –
-
Pensavo
fosse quello il motivo per cui mi hai fatta cadere. Ma a quanto pare ce
n’è un
altro. –
Mei
non le rispose, perché non sapeva come levarsi
dall’impiccio. Invece si
avvicinò, le prese la stella di mano, si
arrampicò sulla sedia e la infilò
sulla cima dell’albero.
-
Ehi
ragazzi, abbiamo finito l’albero! Qui bisogna festeggiare!
– proclamò il signor
Kitamura.
-
Io
ho fame! – protestò un certo moretto.
-
E
allora andiamo a mangiare. Su, tutti a tavola! –
Guardando
di sotto, la biondina poté scorgere un sorrisetto sul volto
della rivale.
Accusò il colpo: 1 a
0 per lei. Ma la partita era ancora aperta.
Dal canto suo, Rumiko era soddisfatta. Se quella piccoletta sperava di
averla
vinta si sbagliava di grosso. Capiva perfettamente il motivo del suo
astio, ma
lei non aveva fatto nulla per attirarlo, perciò la cosa non
la preoccupava. Che
si accanisse pure la biondina! Presto si sarebbe accorta che era
pericoloso
giocare col fuoco.
Continua…
|
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Capitolo 12 *** - ***
Capitolo 12
La
cena procedette senza intoppi, a parte gli occasionali dispetti di Mei.
Coglieva ogni buona occasione per criticare il cibo e la tavola, senza
il
minimo riguardo. Ma niente di preoccupante per la padrona di casa, che
non si
faceva ingannare dai suoi tiri mancini, restituendoli senza fatica.
Poi arrivò il momento tanto atteso: lo scambio dei regali.
Per ognuno c’era un
pensiero, fatto singolarmente o a gruppi.
Il primo fu Iori, che scartò il libro regalatogli da Rumiko.
La ragazza lo
conosceva poco, ma le era stato descritto come un adulto racchiuso nel
corpo di
un bambino. Dunque la scelta era ricaduta su qualcosa che potesse
stuzzicarne
l’interesse: un’opera letteraria di pregio. Lui
lesse attentamente il retro,
poi si alzò e fece un inchino educato, sorridendole: aveva
apprezzato.
Quando venne il turno di Sora, le venne presentato un pacchetto da
parte
dell’amica e di Daisuke. La rossa lo scartò e
rimase un attimo meravigliata: un
vestito turchese, corto e dal taglio semplice.
-
L’ho
trovato io, ma l’idea è stata di Rumiko!
– gioì il moretto.
-
Voleva
che lo comprassi per me, ma ho pensato che il colore si addicesse
più a te. –
Sora
li ringraziò entrambi, abbracciandoli insieme, cosa che,
manco a dirlo, scatenò
di nuovo la gelosia della biondina.
I pacchetti passavano ancora di mano in mano, quando Mei si sedette,
annoiata.
Per lei non c’era niente, poiché fino a poche ore
fa era estranea a quel gruppo
di amici. Eppure qualcuno le si avvicinò e si sedette
accanto a lei.
-
Buon
Natale. – e si ritrovò un pacchetto sotto il naso.
-
Da
te non voglio nulla, grazie.
– girò
il capo dall’altra parte, indignata.
-
Preferiresti
ricevere qualcosa da Daisuke. – commentò
l’altra.
La
biondina non rispose.
-
Sai
bene che non ti ha comprato nulla, visto che vi siete messi insieme
solo ieri
sera. Perché ti ostini? – chiese Rumiko, attenta a
non apparire indiscreta.
-
Non
sono affari tuoi! –
-
Senti,
io non ti ho fatto nulla, anzi.
–
cominciò ad irritarsi - Vuoi sapere perché lui
è venuto da te ieri sera? Perché
io gli ho detto di lasciar perdere
Hikari. –
-
Me
l’ha detto! Cosa credi?! Che mi faccia piacere sapere di
averlo ottenuto dopo
tanto tempo solo grazie ad un’altra?!
–
-
Potevo
essere io come chiunque altro. Prima o poi qualcuno gli avrebbe aperto
gli
occhi. –
-
Ma
volevo essere io a farlo!
–
-
Non
avrebbe funzionato. –
-
E
perché?! –
-
Perché
tu saresti stata imparziale. Ci voleva una persona esterna per fargli
vedere le
cose oggettivamente. –
-
Però…
lui è stato praticamente spinto nella mia direzione.
– abbassò un poco la voce.
-
E
che ti importa? – la guardò negli occhi
– Quel che conta è che ora state
insieme, no? Se hai avuto un po’ di fortuna, tanto meglio!
–
Lei
non rispose, ma abbassò gli occhi. Sentì il
pacchetto spingerle piano contro la
spalla e si decise ad accettarlo. Lo scartò e
afferrò un… libro?
-
È
un libro di ricette. Visto che hai criticato tanto la mia tavola,
volevo darti
l’occasione di dimostrarci le tue
qualità di cuoca. –
-
Io
non so cucinare… - ammise la quindicenne.
-
Nemmeno
io. – le confidò Rumiko.
-
Ma
se era tutto buonissimo! –
-
Mi
ha aiutata Yamato. – bofonchiò, lanciando
un’occhiata al biondo – Diciamocelo –
aggiunse poi, come se le parole le uscissero a fatica – ha
fatto tutto lui. –
La
biondina rise: in fondo loro due un po’ si assomigliavano.
-
Buon
Natale. – e si ritrovò un pacchetto fra le mani.
Voltandosi incontrò il volto
sorridente di Yamato.
-
Ehm,
grazie, ma io… -
-
Non
fare tante storie e aprilo. Non voglio passare la notte a pregarti.
–
-
Va
bene, va bene. –
Era
di forma cubica e avvolto da una carta blu scura. Il fiocco era stato
fatto
alla bell’e meglio e il nastro adesivo era stato staccato e
riattaccato un paio
di volte.
-
Scommetto
che il pacco l’hai fatto tu. E dire che ti sei descritto come
un perfetto uomo
di casa. – lo canzonò.
-
Appunto:
uomo di casa, non dei pacchetti. – borbottò lui.
La
diciottenne sorrise divertita e scartò con cura il regalo.
Dentro vi trovò una
scatola bianca e al suo interno… dei cd. Anzi, i suoi cd.
-
Ma
questi sono… -
-
Tutti
i singoli e gli album che abbiamo sfornato. –
-
Grazie…
–
Ora
veniva la parte più difficile: riferirgli di non avere alcun
regalo da dargli.
In realtà l’aveva comprato qualche giorno prima,
ma non avrebbe mai ammesso di
averlo ceduto a Mei. Lei stessa si era sorpresa del proprio gesto,
però che ci
poteva fare? Ormai l’aveva già consegnato alla
biondina, perciò…
-
Ehm,
per il tuo regalo devi aspettare un attimo! Mi… mi sono
dimenticata di
prenderlo… dalla mia stanza, è ovvio! –
e si dileguò in fretta, sotto lo
sguardo perplesso di lui.
Chiusasi
la porta alle spalle si guardò attorno, in cerca di
un’idea. Ma quale idea? Non
poteva certo regalargli qualcosa di usato! E poi cosa poteva
interessargli di
ciò che aveva lei? Non c’era nulla di particolare
in quella camera…
Si voltò verso il cassetto e, lentamente, lo
aprì. La foto era ancora al suo
posto, completa di cornice. Era riuscita davvero bene, una delle
migliori
scattate da suo padre, se non fosse per il soggetto che si stagliava
contro la
luna piena. Rimase lì, inginocchiata a terra, pallida e
immobile come pietrificata.
Sentiva lo stomaco torcersi e le lacrime pizzicarle gli occhi, la testa
che le
girava. Ma non pianse e sollevò piano la cornice. Quasi a
fatica la impacchettò
con della carta e del nastro avanzati e ad ogni movimento si ripeteva:
“devo
liberarmene, devo liberarmene, devo liberarmene”. Non
impiegò molto e pochi
minuti dopo si trovava di nuovo in salotto, scossa ma sorridente.
-
Buon
Natale… e scusa se ci ho messo un po’, ma era
rimasto in mezzo alla carta da
pacchi. –
-
Fa
niente, anzi! Mi ha stupito che tu mi abbia voluto fare un regalo,
dopo… -
-
Ti
avevo perdonato già prima della festa. –
-
Allora
ho fatto tutta quella fatica con la canzone per niente? –
-
Apri
il regalo e piantala di lamentarti! –
-
Ah,
guardate, stanno scartando l’ultimo dono! Dai, Yamato, non
tenerci sulle spine!
– e tutti si strinsero attorno alla coppia.
-
Va
bene, va bene… lo sto aprendo. – sorrise il
cantante.
Stava
per togliere la carta, quando, lanciando un rapido sguardo alla
ragazza, si
accorse di quanto fosse pallida. Per un attimo le sue mani si
fermarono,
incerte. Cosa le prendeva tutto d’un tratto?
La cornice gli scivolò in mano e lui la guardò,
gli occhi sgranati. Tutti si
sporsero per vedere il regalo misterioso ed esclamarono un
“oooh”, seguito da
complimenti e apprezzamenti. Solo Taichi parve avere la stessa reazione
di
Yamato ed entrambi si voltarono verso di lei.
“ A che gioco stai giocando, Rumiko? Pensavo che fosse
importante per te, che
non volessi liberartene. Credevo fosse un ricordo importante della tua
vita
passata. Ero convinto che l’avessi nascosta in fondo a quel
cassetto per non
vederla e al tempo stesso tenerla sempre accanto a te. Tua
madre… non è forse
tua madre quella ritratta nella foto? Non è forse la
città dove lei è morta,
quella che si vede? Perché me la stai regalando?
Cos’hai in mente? Sono forse
una semplice discarica di ricordi spiacevoli? O piuttosto mi stai
affidando un
tesoro importante? ”
-
Ti
piace? – chiese lei, la voce ridotta ad un flebile sussurro.
“
Il tuo è lo sguardo vergognoso di chi teme un rimprovero.
No, non mi piace per
niente essere la tua discarica di ricordi infelici. Come non mi piace
la tua
domanda, che al mio orecchio suona tanto ambigua. Vorrei scagliarla a
terra con
tutte le mie forze. Vorrei urlarti il mio sdegno e il mio orrore.
Perché non
posso e non voglio credere che tu
stia facendo una cosa simile. Pensi forse di cancellare il passato,
gettandolo
in faccia ad altre persone? Hai deciso di scaricare tutto su di me,
senza
chiedermi nulla? È per questo che oggi mi hai detto quelle
cose, è per questo
che ti sei confidata con me? Per prendermi in giro? Per usarmi? E mi
chiedi
ancora se mi piace?! NO! ”
-
Sì.
–
“
A che gioco stai giocando, Rumiko? Quando l’ho vista appesa
all’ingresso la
prima volta, ne sono rimasto estasiato, come incantato. Ricordo bene il
tuo
sguardo, che allora mi era parso tanto triste e malinconico. Poi
l’immagine era
sparita, lasciando uno spazio bianco accanto alla porta.
Perché? La stessa
domanda mi ero posta allora e mi pongo adesso. Perché quella
fotografia appare
e scompare in questo modo? Quando non l’avevo più
vista ero sicuro che l’avessi
nascosta, magari anche buttata. Perché ti faceva tornare in
mente cose
spiacevoli, si capiva. E ora eccola risorgere come per magia,
inspiegabilmente.
“
-
Ti
piace? – chiese a Yamato, la voce ridotta ad un flebile
sussurro.
“Sì,
io direi di sì, senza alcun indugio. Lo direi anche solo per
il modo in cui
l’hai chiesto, così tremante e piena di timore.
Immagino che ti sia valso molto
coraggio regalarla. Significa molto per te, su questo non
c’è dubbio. Eppure
sei disposta a separartene, a beneficio di un amico. Lo fai per
riconciliarti?
Vuoi dargli un pegno della tua fiducia? E gli chiedi ancora se gli
piace?! SÍ!”
-
Sì.
–
“
Mi chiedo a che gioco sto giocando. Ma non lo so e non lo voglio
sapere. Ormai,
non ha più importanza, come non ne ha
quest’immagine. Si dice che bisogna
lasciarsi il passato alle spalle, no? Ebbene, io, lo sto facendo. La
sensazione
è brutta: il corpo e l’animo si contorcono, il
cuore piange. Ma è la cosa migliore.
È giusto così. Lo so, eppure non riesco a fermare
il fremito che mi percuote.
Perché? Perché mi sento
così… colpevole? Non può essere una
colpa voler
dimenticare. “
-
Ti
piace? – chiese a Yamato, la voce ridotta ad un flebile
sussurro.
“
Sì, ti prego, dì di sì. Non so
perché, ma sento di aver bisogno della tua
approvazione. Sento lo sguardo di tutti su di me. Anche tu mi guardi,
ma non
riesco a percepire i tuoi pensieri. Sei contorto, Yamato. Sei contorto
e
pericoloso. Te lo leggo nello sguardo, così attento e
sagace. Eppure voglio
sentire il tuo commento, solo il tuo. Il perché, non me lo
chiedo neanche. In
questo momento non saprei rispondermi. Non voglio
rispondermi. E, invece di dar sfogo al mio cuore, ti chiedo se ti
piace.”
-
Sì.
–
“
Non ti chiedo a che gioco stai giocando, Rumiko. Non faccio domande e
non
pretendo risposte. Solo spero tu sappia cosa stai facendo. Sperare
è concesso,
ad un padre? Ecco, mi sono posto una domanda. Avevo deciso di
cancellarle, ma i
punti interrogativi della mia vita sono tanti e irrisolti. Sono uno
spettatore,
io, padre vedovo innamorato di sua figlia. Assisto alla vita della
persona a
cui tengo di più, esterno. Anche adesso osservo i suoi
gesti, la sua
espressione, e capisco. Capisco e osservo, io, il padre esterno.
“
-
Ti
piace? – chiese a Yamato, la voce ridotta ad un flebile
sussurro.
“
Parla. Non voglio dirti come rispondere, io, che non mi pongo domande e
non
pretendo risposte. Ma, per favore, parla, tu che sei entrato nella vita
di mia
figlia. Ti prego, parla, tu che hai il potere di penetrare nel suo
animo. Ti
supplico, parla.
Ricordo
quella volta che ti mostrai le vecchie fotografie. Tu le guardasti e
percepii
in te un fremito. Quella volta, ti innamorasti della mia bambina, morta
un anno
fa. Probabilmente sbagliai, poiché tu fraintendesti il mio
gesto. Io, che non
sono mai stato bravo con le parole, volevo presentarti il suo passato.
Volevo
che conoscessi e apprezzassi la donna che è diventata.
Volevo che le stessi
vicino, che la sostenessi come io non ero più in grado di
fare, non come vorrei.
E così guardo anche questa scena, spettatore paziente che
osserva un dramma o
commedia, che ancora non si sa. Perciò non mi chiedo se ti
piace, io, padre
esterno e innamorato di sua figlia.”
-
Sì.
–
“
E buon Natale a tutti. “
La festa era finita, gli invitati se n’erano andati. Rumiko
si gettò sul letto,
mentre il padre era stato investito del ruolo di “metti a
lavare i piatti, se
no puzzano tutta la notte”. A dire il vero il compito ingrato
era stato giocato
a carta-forbici-sasso.
“ Povero papà… Però
l’idea di affidarsi alla sorte è stata sua!
“ rise piano.
In un altro momento gli avrebbe dato una mano, ma era letteralmente a
pezzi. E
il giorno dopo le sarebbe toccato riordinare tutto.
“ E dire che è Natale!”
sospirò sconsolata.
Si rigirò tra le morbide coperte. Beh, poteva sempre fare
appello ai vicini,
sperando che il biondo non facesse troppe storie. In fondo era lui il
perfetto
uomo di casa, no?
Il pensiero del ragazzo la fece accigliare. Come mai, così
all’improvviso,
aveva tanta voglia di averlo in casa? Ma, a pensarci bene, non era
esattamente
una novità. E poi non c’era nulla di strano nel
voler riallacciare i rapporti
con un amico a cui non aveva rivolto la parola per giorni…
era perfettamente
normale che volesse chiacchierare e scherzare con lui, che era anche
suo
vicino, nonché compagno di classe… ma era
altrettanto normale che lo pensasse
tanto?
Scosse la testa. Meglio non farsi prendere da simili idee sconnesse.
Però, per
quanto cercasse di distrarsi con altri pensieri, non riusciva a
scacciarlo
dalla testa.
Lo sguardo cadde un secondo sul cassetto dimenticato aperto e
automaticamente
la mente ricominciò a viaggiare. Aveva ceduto la fotografia.
Se n’era liberata
insieme al suo passato. Senza sapere il perché,
gliel’aveva regalata. Ora ce
l’aveva lui, magari in camera sua, in un cassetto come il
suo, o forse sulla
scrivania, o su uno scaffale, oppure l’aveva già
appesa al posto di qualche
altro quadretto. Non era mai entrata nella sua stanza,
perciò non poteva
saperlo. Eppure immaginava che in quel momento lui fosse seduto sul
letto, le
gambe larghe e le braccia appoggiate alle ginocchia. O magari con la
schiena
abbandonata contro la parete e una gamba piegata, come suo solito.
Immaginava i
suoi occhi azzurri che scorrevano sulla liscia superficie, attenti e
profondi,
che si perdevano fra i giochi di luce, che delineavano i contorni della
sagoma
dai capelli lunghi mossi dalla brezza… e allora pensava a
lei, ai suoi capelli,
a…
“ Ma che diavolo mi viene in mente?! Devo essermi
rincretinita a causa di
quella compagnia di pazzi! Come posso anche solo immaginare che lui
stia
pensando a me?! Perché dovrebbe farlo? E,
soprattutto… perché dovrei volerlo? ”
Ormai non poteva più nascondere a se stessa di desiderare
che quei pensieri
fossero rivolti a lei. Ma come si era ritrovata a fantasticare cose
simili?
Loro due erano, nell’ordine: vicini, compagni e amici. Le
cose stavano e
andavano bene così.
Allora perché si faceva simili problemi? Perché
continuava a rimuginarci?
Perché desiderava che la notte passasse più in
fretta possibile?
La sua mente stava per formulare la risposta, quando si
assopì. Poco male: il
cervello cancella, ma il cuore ricorda.
Comunque non aveva indovinato. Appena entrato nella stanza, Yamato
aveva deciso
di appendere l’immagine sul soffitto, sopra il proprio letto.
Con attenzione
aveva attaccato dei pezzi di nastro adesivo sul retro, per non
rovinarla.
Ora stava sdraiato sulle coperte. E rifletteva. Il suo sguardo era
fisso
sull’immagine, duro. Più ci pensava e meno
riusciva a capire. Che le era preso,
così all’improvviso? Quali erano le sue
intenzioni? Che significato aveva
quell’oggetto?
All’improvviso si accorse di aver dato troppe cose per
scontato. Tanto per
cominciare l’immagine stessa. Che fosse stata scattata a New
York non c’erano
dubbi, dati gli edifici che spiccavano nel cielo. Ma qui finivano le
certezze e
cominciavano i dubbi.
Innanzitutto
la data in cui era stata scattata. Poteva trattarsi di poco prima la
loro
partenza o l’inizio del soggiorno in America. Dunque una
distanza di quattro
anni. Di per sé la cosa poteva apparire poco rilevante, ma
il ragazzo capì di
aver trovato la pista giusta. Innanzitutto quattro anni fa Rumiko non
aveva di
sicuro quell’aspetto e la figura dai capelli lunghi era di
sicuro una donna.
Poi c’era da tenere conto la morte della madre. Dunque quella
misteriosa sagoma
poteva essere o la madre quattro anni fa, oppure la giovane stessa, non
più un
anno fa.
Non staccò gli occhi dalla fotografia, lo sguardo minuzioso
e la mente lucida.
Poi bisognava considerare un altro particolare, sempre legato al tempo:
i
sentimenti della ragazza. Se era vera la prima supposizione,
significava che
l’immagine rappresentava i giorni felici del passato. In caso
si esaminasse la
seconda, più recente, le cose cambiavano:
quell’immagine le ricordava il
dolore, la disperazione, la solitudine e tutte le emozioni provate alla
scomparsa di una persona tanto cara. E solo una volta accertati i suoi
stati
d’animo avrebbe saputo quale fosse il suo ruolo e come
reagire.
Alla fin fine la soluzione stava nel misterioso personaggio. Si
sollevò a
sedere, deciso. Il giorno dopo si sarebbe recato da loro, magari con la
scusa
di dare una mano con le pulizie, e avrebbe indagato. Difficilmente
avrebbe
ottenuto informazioni da lei, che quasi sicuramente non intendeva
dargliene.
Anzi, se avesse scoperto le sue intenzioni si sarebbe chiusa
ermeticamente e
avrebbe perduto la sua occasione di far chiarezza nella vicenda. Doveva
dunque
rivolgersi al padre, che sicuramente si sarebbe dimostrato
più disponibile a
collaborare. Ovviamente avrebbe agito con discrezione, per non
allarmarli. Ma
era certo della riuscita del suo piano.
Si sentiva uno di quei famosi personaggi di gialli e polizieschi. Solo
che lui
aveva un problema in più. Non essendo del tutto esterno alla
situazione, non
sapeva come comportarsi nei confronti dell’indiziata. Ora la
rabbia e la
delusione per l’enigmatico regalo ricevuto erano passati,
lasciando spazio ad
una sorta d’apprensione mista a impazienza. La fotografia da
offesa era
diventata indizio prezioso, un punto di partenza per conoscere quella
misteriosa ragazza che aveva fatto irruzione nella sua vita.
Continua…
|
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Capitolo 13 *** - ***
Capitolo
13
La mattina
di Natale.
Fuori il
cielo era nuvoloso, ma ciò non sembrava alterare lo spirito
natalizio che
animava la città. Eppure non tutti condividevano
quell’euforia.
La luce
filtrava attraverso la finestra di una stanza buia, illuminando una
figura
ancora addormentata. Ad un tratto la pace della camera venne infranta
dal suono
della sveglia, accompagnata dall’altrettanto insistente
abbaiare di un cane. La
ragazza si rigirò tra le coperte, tirandole fino a coprire
il capo.
A quanto
pareva la sera prima aveva dimenticato di disattivarla. Accidenti a lei
e alla
sua sbadataggine! Però anche quel cane poteva smetterla di
fare tutto quel
casino. Possibile che i padroni non riuscissero a farlo tacere?
Alla fine
decise che ne aveva abbastanza. Ancora intorpidita dal sonno, fece leva
sul
gomito per solversi quel tanto che bastava per allungare una mano verso
l’orologio sul comodino, spegnerlo e… trovarsi
faccia a faccia con un muso
peloso.
-
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAH!
–
Subito la
porta si aprì e il signor Kitamura si gettò nella
stanza.
-
Tutto
bene piccola? Cos’è successo? –
-
Quello –
strillò puntando il dito contro
l’animale – che ci fa qui?! –
-
Ah,
lui è il tuo nuovo amico. Buon Natale, tesoro! –
le sorrise.
-
Cosa?!
Ma dico sei impazzito?! – saltò su lei –
Non mi serve un amico pulcioso e
bavoso! –
Forse
aveva capito di esser stato tirato in ballo, perché il cane
le si accoccolò in
grembo.
Rumiko
rimase un attimo interdetta. Era un piccolo meticcio dal pelo folto e
morbido,
color cioccolato. Gli occhi erano scuri e dolci. Aveva le zampe
abbastanza
grosse, il che preannunciava che sarebbe cresciuto fino a raggiungere
una
taglia abbastanza considerevole. La sua mano prese a scorrere sul
dorso,
affondando le dita nella folta pelliccia.
Il padre
parve accorgersi del cambiamento, perché esibì un
largo sorriso.
-
Allora,
come lo chiamiamo? –
-
Sei
un’irresponsabile! – tornò alla carica
lei – Ho già il mio bel da fare così e
ora dovrò occuparmi anche di un cane! –
-
Scusami,
hai ragione. Avrei dovuto chiedere la tua opinione. Però
quando l’ho visto non
ho saputo resistere. Sai, un mio amico l’ha trovato
abbandonato sotto casa sua,
ma in quel condominio non si possono tenere animali.
L’avrebbero portato al
canile. Così ho pensato che poteva tenerti compagnia durante
le mie assenze.
Immaginavo che questa casa ti sembrasse tanto vuota e
silenziosa… non sopporto
l’idea che tu stia qui da sola. –
Lei rimase
un attimo in silenzio. Sapeva che suo padre ce la metteva tutta e
nonostante
questo lei insisteva a rimanere sulle sue. Perché si
comportava in quel modo?
Perché non poteva semplicemente venirgli incontro?
-
D’accordo…
visto che ormai non abbiamo scelta… però dovrai
fare la tua parte quando sei a
casa! –
Lui
sorrise, allegro come un bambino.
-
Lo
prometto! – disse – Però ora che
è entrato a far parte della famiglia ha
bisogno di un nome. –
-
Prima
ho bisogno di una bella tazza di caffè forte e quando
sarò tornata nel mondo
dei vivi… ma sì, certo! –
esclamò sollevando il cucciolo davanti a sé
– Che ne
dici di “Caffè”? Il suo pelo
è dello stesso colore. –
Il padre
le sorrise, dolcemente.
-
Penso
che sia perfetto. –
Si
voltò
per uscire dalla stanza, ma venne richiamato.
-
Papà…
grazie. – lo raggiunse una voce appena udibile.
-
Di
nulla, Rumi. –
Si chiuse
la porta alle spalle. Era sicuro che la figlia avrebbe fatto resistenza
sulle
prime, ma aveva contato sull’appoggio del cucciolo per
blandirla. Ed infatti il
piccolo aveva compiuto egregiamente il suo lavoro, degno di un
professionista.
“
Comincio
a dubitare che sia stato abbandonato… Quello è un
volpacchiotto, non un cane!”
Solo si
rammaricava di non aver saputo parlarle come avrebbe voluto. Amava sua
figlia e
desiderava poterle esprimere tutto il suo affetto, farle sapere che lui
voleva
solo la sua felicità.
Ma non era
mai stato molto bravo ad esternare i suoi sentimenti e dalla morte
della
moglie…
Si
rabbuiò
un poco. Amava ancora disperatamente quella donna, anche se era passata
a
miglior vita da quasi un anno. Spesso aveva pensato che Rumiko
necessitasse di
una figura femminile al suo fianco, ma non aveva mai preso seriamente
in
considerazione l’idea di risposarsi. Un’altra donna
non sarebbe certamente
riuscita a colmare il vuoto che lei aveva lasciato. Era troppo grande.
Emi non
era solo bella, ma anche una persona straordinaria. Era speciale, non
perfetta.
Ed era dei suoi difetti che lui si era innamorato. Fin
dall’inizio era stata
lei a prendere in mano la relazione e poi la famiglia. Rumiko aveva
ereditato
il temperamento impetuoso della madre e la reticenza nei sentimenti del
padre.
Eppure non vi erano mai stati disaccordi o tensioni nella loro casa,
perché Emi
aveva la capacità di attrarre le persone e trasmettere loro
la sua energia. Un
piccolo e bellissimo sole che rischiarava i suoi satelliti, facendoli
brillare.
Poi se
n’era andata e tra padre e figlia era venuto a mancare un
legame, oltre al
dialogo.
Ora si
rammaricava di non essere stato abbastanza vicino alla giovane, di non
averla
abbracciata nel momento del bisogno. Si era abbandonato al suo dolore,
dando
per scontate troppe cose.
Ma adesso
che l’aveva capito, non se ne sarebbe restato con le mani in
mano. Avrebbe
riconquistato il rapporto perduto, poco alla volta: dalle ceneri della
sua
vecchia famiglia ne avrebbe si sarebbe impegnato a crearne una nuova.
Si sentiva
come un architetto in procinto di progettare una città, o un
comandante che si
preparava a dare battaglia. Caffè era stato il primo passo.
Il secondo non
avrebbe tardato ad arrivare.
Quando il
citofono suonò, il signor Kitamura si precipitò
ad aprire.
-
Buongiorno
Hiroshi e buon Natale! – lo salutò il vicino di
casa.
-
‘giorno. – si limitò a dire il biondo.
A quanto
pareva non era dell’umore migliore.
“ Ah,
i
giovani d’oggi: anche a Natale con il broncio! Ma pure noi
eravamo così?” pensò
il padrone di casa.
-
Buon
Natale a voi! Prego, entrate. –
-
Non
vorremmo disturbare… - azzardò l’altro,
abbassando un poco lo sguardo.
Kitamura
sorrise fra sé e sé. Era più che
evidente che la loro intenzione era stata
esattamente quella, o almeno per quanto riguardava l’uomo.
Dentro di sé
sospirò: sembrava non fosse l’unico padre a
trovarsi alle prese con una
progenie intrattabile.
-
Non
scherzare, Eichi. – gli disse con sincerità - Su,
venite dentro! –
Richiuse
la porta alle loro spalle e li condusse in cucina, dove la figlia stava
facendo
colazione, incurante del fatto che fosse quasi ora di pranzo.
Quando la
vide sorrise allegramente, di fronte a quella scena che, se solo avesse
potuto,
avrebbe immortalato sulla pellicola.
Ed eccola
lì, davanti a loro. Yamato si fermò un attimo,
incerto. Tutto si sarebbe
aspettato tranne quel singolare quadretto.
Rumiko era
seduta sul tavolo della cucina, davanti alla finestra. Indossava una
vestaglia
grigio perla, con dei fiorellini rosa stampati sopra. I capelli erano
spettinati e raccolti frettolosamente in uno chignon. Ciocche
disordinate le
ricadevano sulle piccole spalle. Le gambe, nude, erano incrociate, i
piedi
scalzi. Le mani stringevano una tazza fumante di quello che, con ogni
probabilità, era caffè. In grembo, accoccolato
tra le morbide pieghe della
veste e col capo appoggiato su un suo ginocchio, stava un cucciolo dal
folto
pelo scuro. Lui sonnecchiava beatamente, lei guardava fuori dalla
finestra.
Il
contrasto tra la pelle ancora calda di lei e il vetro freddo e
appannato. L’espressione
rilassata, la posa naturale. La piccola palla di pelo raggomitolata tra
le sue
gambe come un uccellino nel suo nido. E ancora la sua bocca, bagnata da
un velo
di caffè.
Si
sentì
arrossire: in quel momento gli parve bellissima. E il pensiero che tale
visione
fosse stata riservata a lui, gli scaldò il cuore.
Yamato
scosse la testa energicamente, turbato da pensieri che si era imposto
di
cancellare dalla sua mente. Si soffermò su quegli occhi
viola, cercando di
decifrarne lo sguardo. Ma quelli rimanevano distanti, persi in un
ricordo o un
desiderio, in un pensiero che lui non riusciva a cogliere.
Poi, come
ogni visione, anche quella si dissolse.
-
Andiamo,
Caffè, la colazione è finita. – disse
quasi in un sussurro, accarezzando il
pelo morbido.
Posò
la
tazza nel lavello, il cagnolino che scodinzolava gioioso al suo fianco.
Poi si
voltò e registrò la loro presenza. Si
bloccò, per un attimo sorpresa. Le gambe
a penzoloni, le mani puntellate sul bordo del tavolo, una ciocca di
capelli a
solleticarle il volto. Ma subito riacquistò il controllo e
spiccò un piccolo
salto fino ad atterrare con i piedi nudi sul freddo pavimento.
Voltò loro le
spalle e permise al piccolo di saltarle in braccio.
-
Sbaglio
o l’hai chiamato Caffè? –
commentò Yamato, ironico, senza sapere nemmeno
il perché
di quel tono canzonatorio.
-
E
se così fosse? –
-
È
un nome banale. – tagliò corto.
Lei gli
lanciò un’occhiata fulminante e lo
superò a grandi passi, il cucciolo stretto
al petto, la vestaglia frusciante.
In quel
momento un pensiero irrilevante attraversò la mente del
biondo: prima non se
n’era accorto, ma sotto la veste indossava una maglietta e
delle culottes, che
le fasciavano bene il corpo dalle dolci forme...
Un tonfo
sonoro indicò ai presenti che Rumiko si era richiusa la
porta della camera alle
spalle.
Eichi
Ishida sospirò.
“ Mi
chiedo come abbia potuto anche solo sperare di trascorrere un Natale
tranquillo. Possibile che anche noi fossimo così alla loro
età?”
No, si
rispose da solo. Era quella nuova generazione ad essere tanto inquieta.
Grazie
al suo lavoro, che lo teneva sempre in contatto diretto con la gente,
il signor
Ishida aveva avuto modo di assistere a quel lento consumarsi, a quelle
esplosioni d’ira. Erano giovani vibranti di passione, che si
ritrovavano di
fronte ad un mondo che non riuscivano a sentire loro. Nemmeno suo
figlio faceva
eccezione. Capiva bene, infatti, che quell’atteggiamento
spesso indifferente e
scostante era dettato dal bisogno di mettere più spazio
possibile tra sé e
tutto ciò che lo circondava. Avrebbe voluto dargli una mano,
fargli capire che
gli era vicino. Ma si può venire incontro a qualcuno che non
vuole essere
aiutato?
Uno
scambio di sguardi con il vicino di casa gli tolse ogni dubbio.
Sì, si può. Ma
non è semplice. Tuttavia bisogna persistere, senza
arrendersi mai. Perché
quelle tigri brucianti di emozioni non hanno altra arma che il loro
coraggio.
In cuor
suo attendeva con fiducia il giorno in cui suo figlio avrebbe
incontrato quel
qualcosa che l’avrebbe spinto ad abbattere la barriera, a
protendersi verso il
mondo e, dunque, verso di lui. Sperava solo che quel qualcosa non
tardasse
troppo.
Rumiko
gettò la vestaglia sul letto. Come si era permesso a fare un
simile commento?!
L’aveva fatto apposta, questo era ovvio. Sapeva esattamente
come avrebbe
reagito lei, glielo aveva letto negli occhi, in quelle stesse iridi che
l’avevano fatta sognare la notte precedente. Possibile che la
detestasse a tal
punto da provocarla ogni volta che era possibile? Eppure fino al giorno
prima
era convinta che il loro rapporto fosse finalmente migliorato o che,
per lo
meno, sarebbero andati più d’accordo.
Invece…
Aggrottò
la fronte.
“ Ma
come
ragiona quel tipo? Prima litighiamo a più non posso, poi di
punto in bianco mi
dice che è innamorato della vecchia me stessa. Nasce un caos
tremendo e non ci
parliamo per un bel po’. Poi alla festa mi dedica una canzone
bellissima e
balliamo tutta la sera. Pure la Vigilia sembra andare
tutto abbastanza bene, se si
tralasciano piccoli incidenti di percorso…”
Immancabilmente
la sua mente volò al giorno prima, quando era andata a casa
sua e lui l’aveva
accolta mezzo nudo e bagnato come un pulcino. Solo al ricordo si
sentì
avvampare. S’impose la calma: non era da lei comportarsi come
una qualsiasi
ragazzina ingenua. In vita sua non era certo la prima volta che le
capitava di
vedere un uomo mezzo nudo! Eppure le sue ginocchia non volevano
smettere di
tremare. Si sentiva la testa leggera, il cuore le batteva forte.
Si stese
sul letto, subito raggiunta da Caffè. Lei lo
abbracciò stretto, come se fosse
un peluche, e lui la lasciò fare. Era inutile continuare
quell’assurda
pagliacciata e lei lo sapeva bene: Yamato Ishida le piaceva e molto.
Non era
solo attrazione fisica. C’era qualcosa in lui che le faceva
battere il cuore a
mille, che la faceva arrabbiare o sorridere. Con lui non poteva fare a
meno di
essere travolta da un turbine di forti emozioni, che lottavano nel suo
piccolo
petto. Ma non le piaceva tutto di lui. Era incantata da quegli occhi
vibranti e
penetranti, ma ne detestava lo sguardo tagliente e sprezzante. Le
piaceva la
sua voce vellutata e bassa, ma non il tono sarcastico e canzonatorio.
Al
contrario di quanto andavano dicendo le sue fans, Yamato era pieno di
difetti e
lei lo sapeva bene, poiché li aveva sperimentati sulla sua
stessa pelle. Quante
volte aveva pianto e sofferto a causa sua, Dio solo lo sapeva!
Eppure ne
era attratta come le api dal miele. No, non ne era semplicemente
attratta. Se
no come spiegare quelle fitte al cuore? Quella sensazione di euforia
che la scuoteva
e la turbava?
Capì
e la
presa su Caffè si strinse ancor di più.
D’altronde
anche sua madre lo diceva sempre: “ Papà ha tante
imperfezioni e alcune proprio
non riesco a mandarle giù. Però questo non
significa che non lo ami. Vedi,
Rumi, ci sono tanti tipi d’amore, perché ogni
persona è diversa dall’altra e
ognuno ama in modo diverso. Ma è pur sempre amore.”
Sorrise.
-
Avevi
ragione, mamma. – sussurrò - Come sempre: avevi
ragione tu. –
Quando la
porta della stanza si riaprì lei indossava una paio di jeans
attillati e uno
spesso maglione bianco, con il collo alto e le maniche che le
nascondevano le
mani. I capelli pettinati scivolavano sulle spalle in morbide onde di
creme
caramel.
-
Potevi
almeno cercare qualcosa che fosse della tua taglia. –
bofonchiò il biondo,
cercando di nascondere l’imbarazzo.
Stranamente
lei si limitò a sbuffare e lo sorpassò, seguita
dal cucciolo che trotterellava
allegramente. Yamato si diede mentalmente dello stupido. Per giorni non
si
erano nemmeno rivolti la parola e lui non aveva desiderato altro che
farsi
perdonare. Le aveva anche dedicato una canzone. Eppure sembrava non
riuscisse a
fare a meno di stuzzicarla. Perché continuava a ferirla con
parole taglienti e
sguardi beffardi?
Gli
tornarono in mente le parole di un’anonima canzone.
“
È colpa
tua, che mi streghi e m’incanti. Giorno dopo giorno mi appari
sempre più bella
e desiderabile. Sei speciale, come se emanassi un’aura
invisibile. Sei così
piccola e fremente di emozioni, che mi togli il respiro. Per quanto mi
sforzi
non riesco a capirti. Non so nulla del tuo passato, della tua vita, dei
tuoi
dolori, ma vorrei che mi aprissi il tuo cuore. Da quando ti sei chiusa
nel tuo
bozzolo, piccola farfalla viola? Mi chiedo se riuscirò mai a
conquistare la tua
fiducia, ad avvicinarmi abbastanza da sfiorarti. Ma tu respingi tutti,
li eludi
sgusciando tra le loro dita, inafferrabile come l’acqua.
Dunque che posso fare
io? Solo continuare a guardarti, incantato, studiandoti e cercando di
svelarti.”
Certo
avrebbe dovuto trovare un modo per evitare di provocarla.
Entrò nel salotto.
-
Allora
al pranzo ci penso io! – stava annunciando lei allegramente.
-
Meglio
che ci stia io ai fornelli, o qua finiamo per passare il Natale al
pronto
soccorso. –
Lei gli
lanciò uno sguardo fulminante e voltò il capo,
indispettita.
Yamato
alzò gli occhi al cielo: l’aveva di nuovo offesa.
Il biondo
lavorava in cucina da quasi un’ora, quando fece capolino un
piccolo muso
peloso, seguito dal volto di Rumiko. Senza una parola, lei lo
guardò un attimo,
per poi sedersi sul tavolo e incrociare le gambe, il cucciolo
accoccolato nel
suo grembo. Tuttavia, anziché rivolgersi verso la finestra,
questa volta le
diede le spalle, appoggiandovi la schiena.
Lo
guardava, mentre mischiava gli ingredienti e scaldava la carne, attenta
ad ogni
suo movimento.
Lui le
lanciava delle occhiate di nascosto con la coda dell’occhio,
ma fingeva di non
badare alla sua presenza. In realtà non proferiva parola per
evitare di
offenderla di nuovo.
Poi lei
allungò il braccio verso una mensola e, aprendo
l’anta, svelò una radio
portatile. Era un modello vecchio, tanto che aveva solo il posto per le
cassette. L’accese e le note insistenti di un ritornello
riempirono la stanza.
Lei storse la bocca, come disgustata da quelli che erano i tormentoni
del momento.
Yamato
sorrise tra sé: nemmeno lui poteva dire di apprezzare quelle
band di idol, che
infestavano le stazioni radio con le loro canzoni banali. Non erano in
grado di
comporre musica, solo di fare presenza sul palco.
Lei
armeggiò un attimo in una scatola che aveva trovato
lì vicino, poi estrasse una
cassetta e la infilò nello stereo. Play.
Le dolci
note di una melodia conosciuta si diffusero nell’aria.
“
Yesterday.” Pensò lui.
Per un
attimo lasciò che il mestolo si appoggiasse al bordo della
pentola e socchiuse
gli occhi.
Poi la
musica lasciò spazio alle parole…
Yesterday,
all my troubles seemed so far away,
Now it looks as though they're here to stay,
Oh I believe in yesterday.
Un’altra
voce si aggiunse a quella di John Lennon e il ragazzo si
voltò verso Rumiko.
Aveva le palpebre abbassate e cantava piano, muovendo lentamente le
labbra, la
pronuncia fluida e sicura di chi ha vissuto diversi anni
all’estero.
Suddenly,
I'm
not half to man I used to be,
There's a shadow hanging over me.
Oh yesterday
came
suddenly.
Il volume
della voce si alzò un poco. Yamato, distogliendo lo sguardo,
tornò alla sua
occupazione, la bocca a mala pena socchiusa.
Why
she had
to go?
I don't know she wouldn’t say.
Il piccolo
petto si gonfiò appena, inspirando l’aria ed
emettendolo lunghe note melodiose.
I
said
something wrong,
now I long for yesterday.
Le
sopracciglia leggermente contratte per la concentrazione di tenere
l’accordo.
Yesterday,
love was such an easy game to play,
Now I need a place to hide away,
Oh I believe in yesterday.
Una breve
pausa, giusto il tempo di appoggiarsi più comodamente contro
il vetro freddo.
Poi la musica ripartì, con un’altra canzone
composta da John Lennon.
Imagine
there's no heaven
It's easy if you try
No hell below us
Above us only sky
Imagine all the people
Living for today...
Imagine there's no countries
It isn't hard to do
Nothing to kill or die for
And no religion too
Imagine all the people
Living life in peace...
Il ragazzo
diede fiato alle sue corde vocali e la sua voce si unì al
coro. Lei aprì un
attimo gli occhi, poi li socchiuse nuovamente. La sua voce
acquistò maggiore
sicurezza e si alzò leggermente, più energica e
vitale.
You
may say
I'm a dreamer
But I'm not the only one
I hope someday you'll join us
And the world will be as one
Imagine no possessions
I wonder if you can
No need for greed or hunger
A brotherhood of man
Imagine all the people
Sharing all the world...
You may say I'm a dreamer
But I'm not the only one
I hope someday you'll join us
And the world will live as one.
Ora veniva
un altro grande successo dei Beatles, leggermente più
impegnativo. Non era
sicuro di ricordare bene la canzone, ma le parole parvero venire da
sé.
When
I find
myself in times of trouble
Mother Mary comes to me
Speaking words of wisdom, let it be.
And in my hour of darkness
She is standing right in front of me
Speaking words of wisdom, let it be.
Let
it be,
let it be.
Whisper words of wisdom, let it be.
Lei si
sollevò un poco, lui posò lo strumento da cucina.
And
when the
broken hearted people
Living in the world agree,
There will be an answer, let it be.
For though they may be parted there is
Still a chance that they will see
There will be an answer, let it be.
Let
it be, let it be. Yeah
There will be an answer, let it be.
And when the night is cloudy,
There is still a light that shines on me,
Shine on until tomorrow, let it be.
I wake up to the sound of music
Mother Mary comes to me
Speaking words of wisdom, let it be.
Let
it be,
let it be.
There will be an answer, let it be.
Let it be, let it be,
Whisper words of wisdom, let it be.
Rumiko
riaprì gli occhi si lasciò di nuovo andare
all’indietro. Sospirò soddisfatta:
non era andata poi tanto male.
Inizialmente
si era recata in cucina con l’intenzione di dargli una mano,
ma quando l’aveva
visto all’opera aveva preferito mettere da parte i suoi
propositi. Quasi senza
accorgersene l’aveva osservato dosare con sicurezza gli
ingredienti, creare e
amalgamare un impasto informe e trarne una pietanza. Le pareva
impossibile che
da quell’agglomerato fosse nato un simile manicaretto. Di
certo lei non vi
sarebbe riuscita.
Era calmo
e tranquillo in quella cucina, uno spettacolo singolare con il
grembiule bianco
a stampe floreali e le maniche della camicia arrotolate fino ai gomiti.
Però
non aveva riso di lui. Semplicemente era rimasta incantata e guardarlo.
Anche
se poteva sembrare assurdo, in quel momento, con il volto sporco di
farina e il
mestolo in mano, le era sembrato più… uomo.
Si
ritrovò
ad arrossire fino alla punta dei capelli. Davanti a lei c’era
forse il Yamato
del futuro, un uomo maturo e affidabile, padrone di sé come
di tutto ciò che lo
circondava. Il suo cuore prese a battere forte, al pensiero che
sembrava il
tipico marito casalingo sposato con una donna che era meglio tenere
lontana
dalla cucina.
Le
tornarono in mente le parole di poco fa:
-
Meglio
che ci sto io ai fornelli, o qua finiamo per passare il Natale al
pronto
soccorso. –
Certo, in
quel momento l’aveva incenerito con lo sguardo, ma
ora… In fondo avrebbe potuto
limitarsi a prenderla in giro e deriderla per quella sua mancanza.
Invece si
era recato senza altre parole in cucina e lì si era
applicato. Proprio come un
marito che, nonostante le proteste, afferrava il mestolo e preparava la
cena.
Poi
avevano cantato. Lei aveva estratto la vecchia radio che sua madre
ascoltava di
tanto in tanto, mentre preparava i pasti. Aveva ripetuto quei famosi
versi
istintivamente, guidata da note che conosceva da sempre. Poi lui si era
unito a
lei, la voce più sicura ed allenata. Presto Rumiko si era
ritrovata a seguirne
i ritmi e le intonazioni, rapita da quella voce profonda e virile,
estremamente
vellutata. Come aveva potuto una volta schernirlo per le sue scarse
doti
canore?
-
Non
credevo sapessi cantare. – lo sentì dire.
-
È
da quando sono piccola che ho la passione per la musica.
Però di solito
preferisco ascoltarla. –
-
È
un peccato, con un po’ di allenamento potresti
senz’altro diventare una buona
vocalist. –
Lei si
sforzò di cogliere l’immancabile nota beffarda, ma
non la percepì.
-
Beh,
per ora mi accontento di aiutare gli altri cantanti. – fece
con cautela.
Sapeva che
le sue parole costituivano un azzardo: conosceva abbastanza Yamato da
sapere
che non era tipo da accettare aiuto dagli altri. Dunque attese con
trepidazione
la protesta. Che non arrivò.
-
Allora
posso dire ai ragazzi che sei dei nostri? – si
voltò a guardarla.
-
Suppongo
di sì… -
-
Ah,
hai appena fatto la felicità di molti! – le
sorrise, il volto illuminato e
disteso in quel gesto tanto semplice e incantevole, quanto raro.
Poi
tornò
alle sue occupazioni.
Lei
voltò
il capo verso il vetro appannato. Alzò un dito affusolato a
strofinarne piano
la superficie opaca. Ciò che vide nel riflesso fu un volto
speranzoso,
sognante, molto confuso e… innamorato.
Continua…
N.d.a.
Ovviamente
i testi delle canzoni che ho trascritto non sono opera mia. Si tratta
di
“Yesterday”, “Imagine” e
“Let it be” dei Beatles.
Monalisasmile
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Capitolo 14 *** - ***
Capitolo
14
Il pranzo
venne consumato più tardi del previsto, ma fu delizioso. Non
che qualcuno
avesse osato disdegnare le sue pietanze, dato che fra i presenti era
l’unico a
saper usare un forno.
Rumiko
mangiò di gusto, sebbene talvolta si ritrovasse assorta in
altri pensieri…relativi
al biondo che le sedeva di fronte. Di tanto in tanto, infatti, quando
incrociava il suo sguardo, si sentiva fremere e le gote si velavano di
un lieve
rossore.
Subito si
riconcentrava sul suo piatto, sconcertata dall’effetto che
quel ragazzo aveva
su di lei. Certo, aveva avuto delle cotte in quegli anni, ma non le era
mai
capitato di perdere la testa in quel modo. Era forse questo
l’effetto del
decantato amore?
Yamato
sorrideva. Quella giornata si stava rivelando più piacevole
del previsto, anche
grazie ad un armistizio inaspettato. Certo, dalla sera della festa il
loro
rapporto era migliorato notevolmente, ma non avrebbe mai immaginato che
la
ragazza rinunciasse alle loro piccole scaramucce. Le aveva rivolto
battute
beffarde e provocatorie, eppure lei si limitava a lanciargli occhiate
indecifrabili, senza proferire parola.
Ora la
guardava, studiandone minuziosamente i bei lineamenti, le dolci onde
dei
capelli, l’impugnatura della mano sulla forchetta. Lei parve
accorgersene, ma
anziché avventarsi contro di lui, si limitò a
lanciargli una breve occhiata,
che il cantante non riuscì ad interpretare.
I due
genitori si scambiarono uno sguardo d’intesa. Nessuno dei
due, infatti, aveva
potuto fare a meno di percepire l’atmosfera insolitamente
rilassata che regnava
su quella tavola. Ed era ovvio che lo spirito natalizio centrasse ben
poco. O
no? In fondo il Natale era un giorno carico di magia e
chissà che su quei due
ragazzi non fosse stato operato un sortilegio.
Stava di
fatto, però, che la presenza dei padri non era contemplata.
Si stava
facendo tardi. Fuori dalle finestre le ombre degli edifici
s’allungavano
sull’asfalto e l’aria di faceva sempre
più fredda.
Terminato
il dolce, il signor Ishida si alzò, ringraziando per il
pasto squisito e
l’ospitalità. Poi, inaspettatamente, si rivolse a
Rumiko.
-
Posso
rubarti il tuo vecchio per un po’? – le chiese con
un sorriso.
Lei
sollevò
un sopracciglio.
-
Avevo
pensato di andare a festeggiare noi due “matusa” in
un locale qua vicino. Giusto
una birretta… -
Questa
volta le braccia si incrociarono al petto.
-
Dai,
Rumi, non faremo tardi… - tentò di venir incontro
all’amico l’altro.
-
Il
signor Ishida magari può permetterselo, ma tu
hai passato molte notti insonni e hai bisogno di riposare. –
lo rimproverò
seccamente lei – E poi lo so che non si tratta di
“una birretta”, bensì di una
generosa serie. – lanciò uno sguardo al vicino.
Entrambi i
genitori abbassarono gli occhi, remissivi di fronte a quella che pareva
una
madre severa e intransigente.
-
Ma
ovviamente – aggiunse – siete entrambi grandi e
vaccinati e non posso certo
impedirvi di andare in giro a sbronzarvi. Solo evitate di farvi venire
a
prendere nel cuore della notte dall’altra parte di Tokyo.
–
Senza
farselo ripetere, i signori sparecchiarono in fretta e furia i loro
piatti e
afferrarono cappotti e sciarpe. Stavano per uscire quando li raggiunse
la voce
della ragazza dall’altra sala.
-
Cellulare,
portafoglio e chiavi di casa potranno tornarvi utili. –
Subito
quelli tornarono in salotto e infilarono tutto nelle tasche delle
giacche. Dopo
un frettoloso “ buona serata”, la porta si richiuse
alle loro spalle con un
tonfo sordo. Nell’appartamento calò un pesante
silenzio.
Rumiko non
osava sollevare lo sguardo dal suo piatto, in cui anche
l’ultima briciola del
dolce era stata spazzata via. Continuava a giocherellare con la
forchetta,
passandola di tanto in tanto sulla liscia superficie. Tuttavia, mentre
la sua
mano era a caccia di un rimasuglio di crema, la sua mente cercava
disperatamente di escogitare un modo per levarsi da quel guaio. Non
poteva
infatti ignorare il fatto di trovarsi ancora di fronte al giovane
vicino di
casa. Sentiva il suo sguardo azzurro puntato addosso e quegli occhi
attenti
avrebbero notato il suo disagio. E allora come avrebbe potuto
giustificare quel
suo stato d’animo?
Era ancora
intenta a raschiare il piattino con la forchetta quando il rumore di
una sedia
che veniva spostata la riscosse e lei sollevò di scatto il
capo.
-
Che
fai? – chiese perplessa, guardando il biondo che si era
alzato.
-
Sparecchio.
–
Subito lei
si pentì delle proprie parole, dandosi mentalmente della
sciocca. Si aspettava
un commento sarcastico, ma stranamente il ragazzo si limitò
a fare il giro
della tavola impilando i piatti sulle braccia.
Quando fece
per afferrare il piatto di Rumiko, lei esibì
un’espressione tanto stupita che
lui si bloccò un attimo.
-
Che
c’è? –
-
No,
nulla…cioè…grazie… -
-
Figurati,
per così poco… -
-
Aspetta,
ti do una mano! – si offrì.
-
No,
lascia stare, qui finisco io. –
-
Allora
io scelgo un film da vedere, d’accordo? –
-
Un
film? –
-
Se
preferisci la tombola…ma non pensavo fossi un tipo da giochi
da tavola! –
scherzò lei.
Il suo
tono era ilare, ma non sarcastico, e nel parlare aveva esibito un
sorriso
divertito. Yamato si ritrovò a pensare a quanto fosse carina
quando non aveva
quell’aria di sfida. Non capiva bene cosa stava succedendo,
ma sentì gli angoli
della sua bocca alzarsi a loro volta in un sorriso.
-
Io
avrei un’idea migliore. –
-
Allora?
Quale sarebbe questa grande idea? –
-
Proprio
non indovini? Ti facevo più perspicace. – le
sorrise di rimando, aprendo la
porta d’ingresso del condominio.
Lei
restò
un attimo ferma al suo posto. Yamato si voltò a guardarla,
puntando i suoi
occhi azzurri in quelli viola di lei. Esitava, stretta nel suo
giubbotto in
pelle imbottito di morbido pelo, i jeans attillati infilati in un paio
di
stivali alti fino al polpaccio. Al collo aveva avvolto in
più giri una spessa
sciarpa e sulla testa aveva infilato un berretto di morbida lana. Ma
fuori
faceva freddo e lei sembrava molto riluttante all’idea di
avventurarsi
all’esterno.
Non
poté
fare a meno di pensare nuovamente a quanto fosse carina e per un attimo
si
chiese se era solo lui a vederla in quel modo o se facesse lo stesso
effetto su
tutti. Certo, nessuno poteva negare il suo fascino ed era risaputo che
avesse
molti corteggiatori in tutta la scuola…
Rumiko
sbuffò, mettendo il broncio.
Yamato
sorrise. L’unica cosa certa era che quella ragazza lo
attraeva terribilmente e
trovava impossibile anche solo l’idea di separarsene, quasi
sulla sua mente
fosse stato gettato un incantesimo.
-
Coraggio,
ti assicuro che non te ne pentirai. –
Detto
fatto. Bastarono quelle poche parole a farla scivolare oltre
l’uscio, le mani
guantate affondate nelle tasche della giacca. Fuori il freddo era
pungente e
subito si sentì pizzicare le guance. Affondò
ancor di più il mento nella
sciarpa e lasciò che i capelli le ricadessero davanti al
volto.
Ormai ne
era sicura: sarebbe morta di freddo. E tutto perché era
stata tanto sciocca da
dargli ascolto. Ma non aveva potuto resistere a quella voce tanto
vellutata e
sensuale, a quello sguardo tanto caldo e…
-
Beh?
Vuoi restare lì ancora per molto? –
Sorpresa,
lei sollevò il capo, ritrovandosi a pochi centimetri dal
volto di lui. Arrossì.
-
N-no!
– balbettò, sentendo il cuore balzarle in gola.
“
Calma,
Rumi, respira…”
Yamato
sollevò una mano a sfiorarle il volto.
-
Andiamo,
rischiamo di fare tardi. –
Lei lo
guardò allontanarsi. Si portò una mano alla
guancia: era calda. Rituffò il
volto nella sciarpa e s’affrettò a seguirlo.
-
Hai
intenzione di sequestrarmi? –
-
Può
darsi…- le rispose in tono vago.
Uno
sguardo alla fronte corrugata della ragazza gli fece capire che la
prospettiva
di una gita un moto non l’allettava.
-
Non
avrai mica paura… – ghignò.
-
Non
dire fesserie! – sbottò lei, afferrando il casco e
calandoselo sul capo con
decisione.
Yamato
sorrise: l’aveva convinta.
Correvano
per le strade di Tokyo, mentre la sera si faceva sempre più
scura e fredda.
Rumiko era
appena cosciente delle luci della città che sfrecciavano
veloci ai suoi lati.
Percepiva il vento schiaffeggiarle con forza il giubbotto,
irrigidendole le
mani guantate. Ma non aveva freddo, appoggiata alla schiena tiepida del
biondino, le braccia avvolte attorno al suo torace. Seguiva i suoi
movimenti quando
la moto si piegava in curva, flettendo il corpo all’unisono.
Non
pensava a nulla, cullata dal rumore del motore e dal battito del suo
cuore,
ipotizzando che pure esso fosse sincronizzato con Yamato.
Quando
s’arrestarono erano giunti sulla cima del promontorio che
sovrastava la città.
Rumiko scese dalla moto e si sfilò il casco, avvicinandosi
velocemente al bordo
del dirupo. Spalancò gli occhi al paesaggio che le si
presentò.
La
città
si stendeva sotto di loro, in un magnifico spettacolo di luci e colori,
i
rumori del traffico troppo lontani per esser uditi. Sulla destra i
bagliori si
riflettevano sulla superficie nera del mare, diventando liquide e
scivolando
sulla sua liscia superficie come acquarelli. E lungo la linea
dell’orizzonte
gli ultimi raggi del sole infiammavano l’acqua.
L’aria
fredda le sferzava il volto e lei lasciò che le
scompigliasse i capelli.
Sentiva il cuore leggero e la mente sgombra da ogni pensiero. Una
piacevole
sensazione di pace e serenità la pervase e lei
inspirò a pieni polmoni gli
odori della sera.
Yamato le
si affiancò, guardando anche lui il panorama. Le
sfiorò una mano, per poi
stringerla nella sua, sotto lo sguardo sinceramente stupito di Rumiko.
Quando il
biondo parlò non aveva ancora distolto lo sguardo dal
paesaggio.
-
Una
volta mi hai detto che la persona di cui mi ero innamorato non esisteva
più,
che era solo un’ombra… Probabilmente avevi
ragione. –
Abbassò
il
capo, sorridendo mestamente.
–
Eppure il mio
cuore… - portò la mano
di Rumiko a infilarsi dentro il suo giubbotto, posandola sul torace
– non ha
mai smesso di picchiare follemente nel mio petto. –
Rumiko
arrossì, avvertendo il battito del cuore di Yamato. Sembrava
un cavallo
scalpitante.
Ora lui la
guardava, cercando con insistenza i suoi occhi viola.
-
Ho
fatto un pasticcio l’ultima volta. Ho ferito tante persone
che mi erano care
perché
sono
stato egoista e ottuso. –
C’era
sincero dolore nella sua voce e lei alzò lo sguardo,
rimanendo incatenata dai
suoi occhi azzurri.
-
Ma
questa volta – le accarezzò una guancia
– vorrei fare le cose per bene… -
-
C-che
cosa? – balbettò Rumiko, maledicendo
l’emozione che le faceva tremare la voce.
Yamato
sorrise dolcemente.
Pride
can stand a thousand trials,
the strong will never fall
But watching stars without you,
my soul cried.
Senza
scostare la mano di Rumiko dal suo petto le afferrò
l’altra, stringendola
delicatamente nella sua. Cantava a bassa voce, guardandola negli occhi,
a pochi
centimetri dal suo volto. Il respiro caldo si condensava in nuvolette
candide
che andavano a lambire le labbra socchiuse di lei.
Heaving
heart is full of pain,
oh, oh, the aching.
La
distanza tra di loro si ridusse sempre più. Lei chiuse gli
occhi, lui si chinò
sul suo volto, sfiorandole le labbra con un bacio leggero.
'Cause
I'm kissing you, oh.
Le parole
della canzone erano intervallate da piccoli baci a fior di labbra.
I'm
kissing you, oh.
Touch me deep, pure and true,
gift to me forever
'Cause I'm kissing you, oh.
I'm kissing you, oh.
Sorridevano
entrambi, ebbri di felicità.
La voce di
Rumiko si levò come un sussurro insieme a quella di Yamato.
I'm kissing you, oh.
Touch me deep, pure and true,
gift to me forever
'Cause I'm kissing you, oh.
I'm kissing you, oh.
Lui avvolse
le braccia attorno al busto di lei, lei portò le mani dietro
al capo di lui,
affondando le dita nei suoi capelli biondi. Le loro bocche
s’incontrarono in un
bacio più profondo e intenso, le loro lingue
s’intrecciarono avide.
Quando si
staccarono Yamato la strinse forte a sé e lei
affondò il viso nel suo petto,
inspirando forte il suo odore.
Le
accarezzò dolcemente i lunghi capelli, volgendo lo sguardo
al paesaggio.
“ E
dire
che avevo detto a Sora di non essere fatto per questo genere di
romanticismo.”
Per la
prima volta da tanto tempo sentiva il suo cuore colmo di gioia e il suo
corpo
leggero come una piuma. Ma nei suoi occhi azzurri passò
un’ombra di amarezza e
nella sua mente risuonarono le ultime parole di quella canzone tanto
romantica
quanto triste.
Where
are you now?
Where
are you
now?
'Cause
I'm kissing you.
I'm kissing you, oh
Mentre il
sole calava oltre l’orizzonte e la notte scivolava sulle
acque del mare,
cancellando gli ultimi raggi luminosi di quella giornata, Yamato si
chiese se
sarebbe mai riuscito a svelare il mistero che quegli occhi viola, da
lui tanto
amati, custodivano. Poiché anche in quel momento, stretta
tra le sue braccia,
Rumiko gli appariva lontana.
Aveva
rinunciato a elaborare teorie sul suo passato. Avrebbe invece atteso
che fosse
lei a raccontargli la sua storia, quando si fosse sentita pronta. Ma
sperava
che questo momento arrivasse il più presto possibile. Non
tanto per soddisfare
la sua curiosità, quanto perché era sinceramente
preoccupato per lei.
Di solito
le persone cadono in depressione in seguito a una tragedia. Piangono,
soffrono,
si disperano per un periodo più o meno lungo e nulla
può esser detto o fatto
per risollevarli. Una volta che questi hanno dato sfogo ai loro
sentimenti,
comincia una lenta risalita e piano piano ricominciano a sorridere e
vivere le
loro vite.
Ma per
Rumiko era diverso. Giorno dopo giorno il suo volto si faceva
più spento, il
suo sorriso meno luminoso, i suoi occhi meno vividi. Nessuno se ne
accorgeva.
Forse solo suo padre, ma impacciato
e
smarrito dalla morte della moglie non sapeva come venirle incontro.
La ferita
inferta nel cuore della fanciulla non accennava a rimarginarsi. Al
contrario
continuava a sanguinare e con essa il suo animo, che soffriva in
silenzio
nell’oscurità.
Ma
ciò che
nessuno sapeva, nemmeno suo padre, nemmeno lei stessa, era che tale
oscurità in
cui il suo spirito languiva non era semplicemente una metafora,
bensì un’entità
viva e pulsante, che si nutriva del suo tormento e della sua angoscia
in attesa
del momento in cui avrebbe potuto nuovamente manifestarsi.
A pochi
chilometri di distanza un aereo proveniente da New York atterrava
all’aeroporto
di Tokyo.
Koushiro
attendeva in mezzo alla folla, le mani affondate nelle tasche del
cappotto
aperto. Gli occhi scuri fissavano il tabellone degli arrivi da
più di un quarto
d’ora, quasi vi cercassero una risposta, una soluzione al
quesito che lo
tormentava.
Ancora una
volta si chiese cosa fosse saltato in mente alla sua amica per mettersi
in
viaggio a Natale ma, ancora una volta, dovette scuotere il capo. La
ragione si
rivelava impotente di fronte all’avventatezza e
impulsività di quella ragazza.
“ Ma
pretendo delle spiegazioni, se non altro per avermi fatto correre qua
prima del
dolce.”
Pensò
alla
deliziosa cena cucinata da sua madre e alla torta ancora più
squisita che senza
dubbio l’attendeva. Sospirò sconsolato: ma che
Natale era mai quello, passato
ad attendere in piedi in mezzo alla ressa davanti all’uscita
passeggeri di un
volo in ritardo di quasi un’ora?
Una voce
metallica infranse i suoi pensieri, annunciando l’imminente
sbarco dei
passeggeri.
Poco dopo
sopraggiunsero i primi viaggiatori, evidentemente stanchi e spossati
dal lungo
viaggio, ognuno dei quali spingeva il suo carrello contenente i bagagli.
Koushiro
s’alzò in punta di piedi, tentando di scorgere una
figura conosciuta: inutile,
di lei nemmeno l’ombra. Quando la folla cominciò a
disperdersi, il ragazzo
avanzò fino alla prima fila. Ma i passeggeri erano sempre
più radi e di lei
nessun segno.
Si
passò
una mano nella zazzera rossa: stava cominciando a preoccuparsi. Che le
fosse
successo qualcosa?
-
Hi,
Koushiro! Merry Christmas! –
Quasi
cadde a terra dalla sorpresa quando la vide sopraggiungere, allegra e
pimpante
come non mai e soprattutto spingendo un carrello colmo di bagagli.
-
Ehm,
Mimi, ma quanta roba ti sei portata dietro per un paio di settimane?
– le
chiese, sconfortato all’idea di doverla ospitare a casa sua.
Lei
s’arrestò a un metro da lui, incrociando le
braccia ed esibendo un’espressione
offesa. Koushiro si sorprese a constatare quanto quella ragazza
diventasse ogni
giorno più bella. I lunghi capelli castani scendevano fino
alle spalle,
incorniciando un volto angelico dai dolci occhi nocciola. Vestiva abiti
firmati, come sempre attenta alla moda del momento, le unghie laccate e
curate,
il trucco leggero e impeccabile.
-
È
da una vita che non ci vediamo e tutto quello che sai fare è
lamentarti? –
-
Oh,
scusami Mimi, hai ragione, che cafone! –
Di fronte
al sincero rammarico dell’amico, lei non seppe resistere e lo
abbracciò di
slancio.
-
M-Mimi…
- balbettò lui, rosso d’imbarazzo.
-
Tu
sei troppo gentile, Koushiro. Un giorno qualcuno potrebbe
approfittarsene, sai?
– gli sussurrò ad un orecchio.
Fece per
allontanarsi dal rosso, ma con uno scatto gli stampò un
sonoro bacio sulla
guancia.
-
Mi
porteresti i bagagli, darling? – cinguettò lei,
incamminandosi verso l’uscita.
Lui era
rimasto al suo posto, imbambolato e rosso in volto. Era pronto a
scommettere
che se si fosse trovato in mezzo a una strada anziché ad un
aeroporto le
macchine si sarebbero arrestate di fronte a quel semaforo umano.
-
Allora?
– si voltò a guardarlo lei, in attesa davanti alle
porte scorrevoli – Non
vorrai passare il tuo Natale qui, no? –
A quelle
parole il rosso si riscosse.
“
Maledetta Mimi, riesce sempre a controllarmi!”
Borbottando,
prese a spingere il carrello coi bagagli verso di lei. Mimi era fatta
così:
bella e viziata, anche se notevolmente meno rispetto a quando era
bambina,
otteneva sempre quello che voleva facendo gli occhi dolci alla gente.
Tendeva a
dare subito fiducia alle persone e ad
affezionarsi facilmente. Odiava la violenza, ma era
disposta a farsi in
quattro per venire in contro a coloro che ne avevano bisogno.
Koushiro
fece arrestare il carrello a pochi metri da lei, improvvisamente serio.
Lei lo
guardò perplessa.
-
Che
succede, Koushiro? –
-
Dimmi,
Mimi… - la guardò dritta negli occhi –
Perché sei venuta qua in fretta e furia?
Non è da te lasciare la tua famiglia e i tuoi amici per
imbarcarti su un volo durante
un periodo di festeggiamenti. –
Lei
distolse lo sguardo.
-
Ma
che stai dicendo? Qui ci siete tu e gli altri, Tokyo è
comunque la mia città e
poi… -
-
Sono
serio. – la interruppe lui – E gradirei lo fossi
anche tu. –
Mimi
si voltò nuovamente a guardarlo, sgranando gli occhi di
fronte a quel ragazzo
che lei ricordava ancora come un bambino interessato unicamente
all’informatica.
Quando
s’erano conosciuti, diversi anni prima, Koushiro era un
ragazzino solitario e
schivo, quasi asociale nella sua incapacità di relazionarsi
con gli altri. Ma
tale handicap era andato via via riducendosi, fino a scomparire quasi
del
tutto. In lui restava solo una timidezza innocente, che lei non
riusciva a non
trovare adorabile.
Eppure non
avrebbe esitato a definire il ragazzo che aveva di fronte adulto
e…
“Affascinante…”
Si morse
le labbra a quel pensiero e si costrinse a tornare coi piedi per terra.
Le
aveva posto una domanda ben precisa, l’unica cui non aveva
voluto dare risposta
fino a quel momento, evitando accuratamente l’argomento nelle
mail che si erano
scambiati.
Koushiro
la vide scostare una ciocca di capelli dal volto pensieroso e portarla
dietro
l’orecchio destro. Un gesto meccanico, che lui aveva imparato
a interpretare
come un segno di nervosismo o di esitazione.
-
C’è
una questione che devo risolvere… una cosa successa diverso
tempo fa e di cui
non ho mai parlato con nessuno di voi, anche se probabilmente avrei
dovuto… -
La vide
mordicchiarsi ancora il labbro inferiore: sì, era turbata da
qualcosa.
-
Solo
che allora – riprese lei – non sapevo di cosa si
trattasse, avevo solo un
sospetto, ma la cosa mi sembrò di poca importanza e presto
me ne dimenticai… -
Abbassò
un
attimo lo sguardo, colpevole di qualcosa che l’altro non
riusciva ad
immaginare.
-
Non
so nemmeno io perché non ne ho parlato almeno con te e
soprattutto come ho
fatto a scordarmene! Spero solo non sia troppo tardi… -
Koushiro
le si avvicinò e le posò una mano su una spalla,
sollevandole il mento con
l’altra, dolcemente. Le sorrise rassicurante e lei si perse
per un attimo in
quelle iridi scure e calde.
-
Per
oggi non pensarci più: è Natale e tu sarai molto
stanca dopo questo lungo
viaggio. Ora andiamo a casa mia, ci attende uno dei strepitosi dolci di
mia
madre! –
Afferrò
nuovamente le maniglie del carrello e lo spinse verso
l’uscita, mentre lei gli
si affiancava, prendendolo sottobraccio.
-
Sai
– le disse ancora, senza guardarla – sono davvero
felice tu sia qui, qualunque
sia il motivo. –
Mimi non
era sicura che il lieve rossore sulle guance di Koushiro non fosse
dovuto al
freddo della notte d’inverno. Ma si strinse ancora di
più contro il suo
braccio, sorridendo allegra.
“
Anche io
sono contenta di essere qua, Koushiro…”
Qualcosa
prese a pulsare dentro il corpo di Mimi. Ma qualunque cosa fosse, lei
non se ne
accorse.
Continua…
N.d.a:
La canzone
è “Kissing you” di Des’ree,
romantica ma anche molto triste. Un po’ banale, se
paragonata a quelle che ho citato negli altri capitoli, però
è la prima che mi
è venuta in mente mentre scrivevo.
Monalisasmile
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Capitolo 15 *** - ***
Capitolo 15
Il
sole splendeva gioioso su Tokyo, riflettendosi in bagliori accecanti
sulla neve
che per tutta la notte non aveva cessato di fioccare. Al porto le
imbarcazioni
erano attraccate saldamente al pontile, incrostate da un sottile strato
di
ghiaccio.
Era
la mattina del 26 dicembre e Mimi inspirò a pieni polmoni
l’aria frizzante.
Seduta sul muretto che costeggiava il lungomare, il volto scoperto
rivolto
verso l’acqua, sembrava voler assorbire con un solo sguardo
l’intero paesaggio.
-
Ero
convinto che con la scusa del fuso orario avresti dormito per due
giorni di
fila. –
Non
c’era derisione nella voce del rosso, calda e dolce alle
orecchie della
ragazza.
Mimi
arrossì, voltandosi e incontrando il suo sguardo.
-
Koushiro!
- sgranò gli occhi, trovandosi a pochi centimetri dal volto
di lui.
-
Oh,
scusami, ti ho spaventata? –
Sembrava
sinceramente mortificato e lei non poté far altro che
scuotere il capo,
tentando di nascondere il rossore che le imporporava le guance.
Lui
si sedette accanto all’amica, allungando le gambe al di
là del parapetto.
-
Sai,
Koushiro…mi è mancato tutto questo. –
Le
lanciò un’occhiata di soppiatto e la vide
sorridere dolcemente verso
l’orizzonte, gli occhi luminosi alla luce del mattino.
Sorrise
a sua volta: quella ragazza non avrebbe mai smesso di sorprenderlo.
Ogni suo
gesto era talmente genuino e spontaneo da lasciarlo sbigottito.
Ricordò
l’avventura che avevano vissuto insieme diversi anni fa. Non
si conoscevano, ma
sin dal primo momento gli era parso chiaro che Mimi fosse
l’opposto di lui:
semplice, spontanea e passionale. Alle volte s’era sorpreso
ad invidiarla un
po’ per quelle qualità che spesso
l’avevano messa nei guai ma che in compenso
le avevano permesso di conquistare l’affetto di molti. Cosa
che non si poteva
dire di Koushiro, razionale e contenuto in ogni suo gesto. Sapeva
badare a se
stesso e non aveva mai avuto bisogno di nessuno. O almeno questo era
ciò che
credeva.
Era
stata la stessa Mimi a fargli capire il suo errore di giudizio, anche
se
probabilmente non se n’era mai accorta.
Koushiro
riportò lo sguardo sul mare, sorridendo sereno.
-
Allora,
cosa mi racconti di nuovo? – esordì la ragazza
dopo un lungo silenzio.
-
Cosa
vuoi sapere? –
-
Non
so… un po’ di pettegolezzi! – sorrise
lei, civettuola.
Lui
scoppiò a ridere, gettando il capo all’indietro:
non era cambiata di una
virgola! E la cosa gli riempiva il cuore di gioia.
“
Per fortuna certe cose non cambiano mai…”
pensò, riportando la mente ai fatti
che erano accaduti negli ultimi tempi.
Certo
nulla di grave, sicuramente molte persone ora erano serene e
spensierate, ma
ciò non di meno alcuni di loro avevano sofferto
ingiustamente. Ma non era
questo a preoccuparlo.
Corrugò
la fronte: da qualche tempo aveva una strana sensazione. Avvertiva una
tensione, nell’aria e nelle persone che lo circondavano, che
andava acuendosi
di giorno in giorno. Quasi che si stessero creando le premesse per il
compiersi
di un evento.
Mimi
dovette mal interpretare la sua espressione pensierosa.
-
Dai,
non vorrai dirmi che non è successo nulla da quando ci siamo
visti l’ultima
volta… -
Koushiro
le sorrise, chiudendo dentro di sé i suoi pensieri e i suoi
sentimenti. Come
era solito fare, d’altronde. Perché allarmarla
inutilmente? Gliene avrebbe
parlato quando ne avrebbe avuto le prove.
-
Beh
effettivamente sono successe diverse cose, dipende quali vuoi sentire
per
prime. –
-
Love
stories? –
“
Prevedibile” pensò lui, affettuosamente.
-
Yamato
e Sora si sono lasciati. –
-
Oh…
- si spense il sorriso della ragazza – Mi dispiace per lei,
deve esser stato un
duro colpo… -
-
È
stata lei a lasciarlo. –
-
Davvero?!
–
Koushiro
annuì, godendosi l’espressione stupefatta
dell’amica. Quanto le era mancato
quel volto tanto espressivo e sincero.
-
Come
mai si sono lasciati? –
Koushiro
alzò le spalle.
-
Lo
sai che i pettegolezzi non sono mai stati il mio forte. E poi non sono
il tipo
di persona da cui gli altri vengono per sfogarsi… -
Mimi
abbassò il capo. Conosceva Koushiro da tanti anni, forse
meglio di tutti gli
altri digiprescelti: un ragazzo timido e gentile, dolcissimo e
premuroso,
sebbene a modo suo. Quella che gli altri scambiavano per insofferenza e
circospezione
era in realtà un’impacciata modestia. Che lei
trovava adorabile.
-
Però
– continuò il rosso – credo che il loro
rapporto avesse diverse piccole
incrinature già da un po’ di tempo. Non parlavano
più come prima, non erano più
legati come una volta. –
Lei
sorrise dolcemente dell’innata perspicacia
dell’amico: chissà come, sapeva
sempre qualcosa in più di quello che si poteva supporre. Sin
da bambino, per
quanto taciturno e concentrato più sul suo computer che
sulle persone che lo
circondavano, aveva un acuto sesto senso. Col passare degli anni e
grazie
all’amicizia con gli altri digiprescelti, il rosso aveva
imparato a interagire
maggiormente col mondo, sviluppando la sua sensibilità. E in
tutto questo
processo, a Mimi piaceva pensare di aver avuto una parte
importante…ma non
gliel’aveva mai chiesto, timorosa di ricevere una grande
delusione.
-
Poi,
certo, è intervenuto un fattore esterno… -
-
“
Fattore esterno”… - levò gli occhi al
cielo lei – Koushiro, questa non è
scienza, ma pettegolezzo! – lo canzonò lei.
-
Hai
ragione, Mimi. Allora vogliamo chiamarla…ragazza? –
Come
aveva previsto gli occhi della castana s’accesero
d’entusiasmo e lei si
aggrappò con entrambe le mani al suo braccio. Koushiro
ringraziò di avere il
cappotto, altrimenti quelle dita artigliate gli avrebbero lacerato la
carne.
-
Una
ragazza?! Chi?! Yamato ha…?! –
-
No,
non penso l’abbia tradita. Ma credo che Sora abbia capito che
avrebbe potuto
farlo, perciò l’ha lasciato. –
-
Povera
cara… Se metto le mani su quella sciacquetta…!
– ruggì furiosa.
Koushiro
sospirò di fronte all’istinto protettivo suscitato
nella ragazza di fronte alle
disgrazie dell’amica. D’altronde era fatta
così: sensibile, impulsiva e
tremendamente testarda.
-
Non
le farai nulla, Mimi. – tentò di calmarla lui.
-
E
perché?! Credi che non ne sarei capace?! –
-
Oh,
non lo metto in dubbio! Ma probabilmente dovresti ingaggiare battaglia
non solo
contro Yamato, ma anche contro Sora, Taichi e
un’agguerritissimo Daisuke! –
La
vide sollevare un sopracciglio, perplessa.
-
Vedi,
prima che accadesse tutto quel trambusto, Rumiko aveva già
stretto amicizia con
tutti loro e dopo l’accaduto il rapporto tra lei e Sora
s’è addirittura
rafforzato, perciò… -
-
Come?
–
-
Dicevo
che Sora l’ha perdonata, dunque… -
-
No
no, come l’hai chiamata? –
Koushiro
cercò il suo sguardo, ma la ragazza pareva persa in foschi
pensieri.
“
No, non può essere lei…sarebbe
un
caso troppo fortuito, una coincidenza incredibile… eppure ho
come l’impressione
che si tratti proprio di lei,
perché
se così fosse…”
-
Rumiko…si
chiama Rumiko Kitamura. Ah, giusto, ha vissuto a New York per un
po’, per caso
la conosci? –
Ci
fu una breve pausa, troppo corta per lasciar spazio ad altre domande,
troppo
lunga per non indovinare la risposta.
-
No…
- fece lei, voltando il capo dalla parte opposta e nascondendo il viso
allo
sguardo indagatore dell’amico.
Koushiro
aggrottò la fronte.
“
Sei sempre stata negata per le bugie, Mimi. Che cosa mi stai
nascondendo?”
Una
cosa era certa: il nome di Rumiko le era tutt’altro che nuovo.
“Alla
fine è stato più semplice del previsto.”
Eppure
quel pensiero non le procurava alcun sollievo. Ora cominciava la parte
difficile.
Era
da un anno che la cercava, ma dopo quella notte la famiglia Kitamura
pareva
esser svanita nel nulla. I vicini avevano riferito che
s’erano trasferiti, ma
nessuno sapeva dire dove. Aveva fatto molte ricerche, ma senza
risultato. Poi
c’era stato uno spiraglio: un collega del signor Kitamura le
aveva riferito che
entro qualche mese il fotografo avrebbe allestito una mostra personale
a Tokyo.
Il tempo di organizzare la partenza e Mimi s’era messa in
viaggio. Non ne aveva
fatto parola con gli altri digiprescelti, nemmeno con Koushiro.
Innanzitutto
doveva trovarla e meno persone erano coinvolte, minore era la
possibilità che
lei se ne accorgesse.
“
Maledetta strega…”
Un
sonoro “etciù” ruppe il silenzio
dell’appartamento 18.
Yamato
sghignazzò.
-
Credi
che qualcuno stia parlando male di te? –
-
Non
escludo l’ipotesi, ma è più facile che
io mi sia raffreddata, non credi?! –
Il
biondo rise di gusto, sotto lo sguardo fulminante di Rumiko, seduta sul
divano
e avvolta da un morbido piumone blu.
-
Sei
sempre malata. – la beffeggiò lui, posando il
vassoio con la colazione sul
tavolino di fronte al sofà.
-
È
colpa tua se ho preso freddo! Tua, della tua moto e delle tue gite
notturne! –
Lui
si chinò sul suo volto, fermandosi a pochi centimetri di
distanza.
-
Vuoi
dire che non ti è piaciuto? – le
sussurrò con voce roca.
-
N-non
volevo dire questo. – borbottò lei, scostando lo
sguardo dai suoi occhi azzurri
e magnetici.
Yamato
le stampò un bacio sulla guancia.
-
Sei
adorabile. –
Rumiko
abbassò lo sguardo, impacciata. Non era abituata a riceve
complimenti tanto
diretti, soprattutto a doverli accettare senza ribattere con battute
sarcastiche.
-
Ho
dimenticato i cucchiaini, arrivo subito. – si
scusò il biondo, scomparendo in
cucina.
Rimasta
sola nel salotto di casa Ishida, Rumiko lasciò che la sua
mente volasse alla
sera precedente.
Yamato
l’aveva baciata. Era stato tutto perfetto, semplicemente
meraviglioso. Nella
sua testa risuonavano ancora le parole della canzone che le aveva
cantato. Una
melodia romantica e struggente…
Poi
erano tornati a casa. Ma anziché dividersi, lei era entrata
in casa Ishida. Non
era la prima volta che attraversava quella soglia, ma questa volta si
era
concentrata meglio su quanto la circondava.
Un
appartamento ordinato e moderno, arredato in maniera semplice ma
fornito di un
mega televisore al plasma, uno stereo di ultima generazione, molti cd,
dvd e,
immancabilmente, giochi per il computer. Mancavano i fiori e tende e
tovaglie
erano di un monotono bianco. In compenso le pareti erano costellate di
poster
d’arte contemporanea e paesaggi, sui mobili comparivano
cornicette che riquadravano
i volti sorridenti dei familiari. La casa di due uomini, insomma.
Yamato
aveva lasciato che desse un’occhiata in giro, poi
l’aveva condotta nella sua
stanza. Anche questa si era presentata esattamente come Rumiko se
l’era
immaginata: spaziosa e piena di musica. Le pareti erano un collage di
poster di
band e rock star. I cd parevano sbucare da dovunque, impilati su ogni
scaffale,
mensola o ripiano disponibile.
S’era
gettata sul letto per sfuggire all’abbraccio di Yamato, ma il
giovane l’aveva
seguita, stendendosi accanto a lei.
-
Quella
foto… -
Yamato
aveva seguito la direzione del suo sguardo.
-
Perché
l’hai appiccicata al soffitto? –
-
Per
poterla ammirare più comodamente. – aveva risposto
lui, senza distogliere lo
sguardo dall’immagine.
Il
silenzio era calato nella stanza, scandito dai loro respiri. Ciascuno
poteva
percepire il rincorrersi dei pensieri nella mente dell’altro,
senza però
riuscire a intuirne il contenuto.
Lui
si era alzato a sedere, probabilmente con l’intento di metter
fine alla
faccenda.
Rumiko
aveva fissato la sua schiena, spaziosa ed eretta, e le ampie spalle. E
aveva
provato l’irresistibile impulso di rifugiarsi dietro di esse,
di esser
rassicurata e consolata.
Invece
era rimasta immobile. Come sempre…
-
Ehi,
tutto bene? –
Rumiko
si riscosse improvvisamente dai suoi pensieri.
-
S-sì,
certo! Benissimo! – sbiascicò in fretta.
Yamato
non disse nulla, limitandosi a sedersi accanto a lei. Rumiko
afferrò la tazza
di caffè ancora calda e l’accostò alle
labbra.
-
Senti…
- sentì esordire Yamato – Forse io non sono la
persona più raccomandabile, ma
vorrei che ti fidassi di più di me. –
Rumiko
non osò guardarlo, fissando lo sguardo nel liquido scuro tra
le sue mani.
-
So
che non è facile, ma parlare a volte aiuta a capire, ad
accettare…anche a
dimenticare, se necessario. Ci sono passato anche io, tanto tempo
fa… -
-
Non
credo… – sussurrò lei, posando la tazza
sul tavolino.
-
Ne
sei sicura? –
Silenzio.
-
Il
fatto che due persone abbiano vissuto vicende diverse non significa che
non
possano capirsi l’un l’altra. Persone con
esperienze simili possono al
contrario confrontarsi, metter l’altro a parte delle
consapevolezze acquisite.
–
Silenzio.
-
Rumiko…
- le afferrò delicatamente le mani nelle sue – Io
voglio aiutarti, per quanto
mi sia possibile. Ma non posso farlo se non mi parli. –
La
vide tremare impercettibilmente. Allora temette di aver esagerato.
L’abbracciò
e la cullò dolcemente sul suo petto, senza dire
più nulla.
“
Io voglio fidarmi di te! Voglio
davvero fidarmi di te! Perché tengo molto a
te…”
-
Quella
foto… -
Yamato
smise di cullarla, ma non la lasciò.
-
Quella
foto è molto importante…riguarda il mio passato,
un passato che ormai mi sono
lasciata alle spalle... –
-
Che
tipo di passato? –
Lei
parve pensarci un attimo su.
-
Non
saprei nemmeno io come definirlo… Facevo qualcosa che mi
entusiasmava, che mi
faceva sentire forte, quasi invincibile. Anche se forse non sempre era
giusto… Ho
trascorso dei bei momenti, ma poi è morta mia madre e tutto
è cambiato… O forse
è solo cambiato il mio modo di vedere il mondo.
D’improvviso quelle cose che
avevo fatto mi sono sembrate mostruose e solo l’idea di
rifarle mi procurava
disgusto. Fino a quel momento non avevo pensato alle conseguenze delle
mie
azioni, ma ripensandoci mi accorgevo del dolore che dovevo aver
procurato a
molti, seppur indirettamente. Ho cominciato a chiedermi
perché avessi compiuto
certe azioni, ma ogni risposta mi sembrava insoddisfacente. –
Sospirò.
-
Ho
cominciato a cercare all’esterno le riposte di cui avevo
bisogno. E sono venuta
a conoscenza di alcune verità che hanno accresciuto la mia
amarezza, aumentando
anziché dissipando i miei dubbi. Ho capito di non esser mai
stata messa al
corrente di tutta la verità. Ho provato rancore per quelli
che avrebbero dovuto
aiutarmi e guidarmi e che invece mi avevano lasciata in balia della
sorte. Mi
sono sentita abbandonata e usata. E impotente. Perché ormai
quelle cose erano
già successe e non avrei potuto far nulla per cambiarle.
–
Lui
non aveva ancora proferito parola, immobile e attento.
-
Non
penso di rinnegare del tutto quel mio passato, ma andandomene da New
York ho
deciso di porvi la parola “fine”. È un
capitolo chiuso della mia vita… -
Yamato
annuì, sebbene non fosse affatto sicuro di aver capito.
-
Quella
foto me lo ricorda continuamente, perché ne ha immortalato
un momento
rappresentativo. –
Yamato
ripensò alla figura dai capelli lunghi che si stagliava
sulla cima del
grattacielo. Osservandola con attenzione aveva notato che portava uno
strano
copricapo, con due punte sulla cima. Un mano teneva un bastone. Era una
teppista?
“
Beh, col caratterino che ha non mi stupirebbe…”
Era
possibile che dopo la scomparsa della madre avesse capito il
significato della
morte e del dolore che poteva arrecare ad altre persone. Forse aveva
messo la
testa a posto per non impensierire ulteriormente il padre,
già abbattuto dalla
perdita della moglie. O forse da quel giorno qualcosa s’era
spento dentro di
lei e non aveva più trovato una ragione per continuare con
quello stile di
vita.
“
Ti prego, non chiedermi altro…non posso dirti nulla di
più. Quelle cose che ho
fatto, quella che ero e quello che è successo nessuno
dovrà mai saperlo! Perciò
ti prego, non chiedermi altro, non riuscirei a
mentirti…”
Probabilmente
lei non intendeva andare più a fondo con le spiegazioni e
lui non avrebbe
insistito. Però c’era ancora una cosa che voleva
sapere.
-
Mi
hai regalato quella foto per disfarti di un ricordo doloroso?
–
Sapeva
che prima o poi gliel’avrebbe chiesto. Lei aveva provato
diverse volte a
elaborare una risposta soddisfacente. Ma gli sforzi non
l’avevano condotta da
nessuna parte.
-
Non
lo so… - si scostò da lui.
Lui
attese che continuasse, cercando d’intercettare il suo
sguardo evasivo.
-
È
stato un gesto… -
-
Impulsivo?
–
-
Direi
piuttosto istintivo… -
Rumiko
scrollò le spalle, come a volersi arrendere.
-
Ok,
lo ammetto: non avevo un regalo per te. Cioè sì,
ce l’avevo, ma l’ho dato a
Mei. -
-
Credevo
avessimo fatto pace alla festa della scuola. Mi odi così
tanto? – rise lui.
-
No,
certo che no! Il regalo te l’avevo preso già prima
della festa… -
Il
sorriso del ragazzo si allargò e lei s’accorse di
aver parlato troppo.
-
Comunque
l’ho dato a Mei perché Daisuke non le aveva preso
nulla e non volevo che si
sentisse esclusa…poi tu mi hai regalato i cd e non volevo
lasciarti a mani
vuote, così sono andata in camera mia in cerca
di… -
-
Di
qualcosa da riciclare! – scoppiò a ridere lui.
Lei
lo fulminò.
-
Tu
mi avevi fatto un regalo bellissimo, mi avevi regalato qualcosa di tuo.
E io
avrei voluto fare altrettanto…ho cercato qualcosa che
potesse piacerti, che mi
rappresentasse, che potesse farti pensare solo a me… -
Yamato
non rideva più, fissandola serio.
-
Ho
pensato alla foto e prima che me ne accorgessi te l’avevo
già impacchettata… -
Lui
le afferrò una mano, ma lei parve non accorgersene e
continuò imperterrita la
sua spiegazione disordinata.
-
Non
sapevo nemmeno io come dovessi interpretarla, non so cosa ho pensato in
quel
momento. –
Lei
non s’accorse del corpo di lui che s’accostava al
suo.
-
Ma
per quanto a me possa rievocare spiacevoli ricordi, è
qualcosa di mio, di
personale. Qualcosa che nessun altro ha. Perciò
io… -
La
interruppe con un bacio.
Sapeva
che l’interruzione avrebbe potuto farla inviperire, ma non
aveva potuto
trattenersi.
Gli
bastava incontrare quegli occhi viola, smarriti e turbati per aver
voglia di
stringerla tra le sue braccia. Rumiko era forte e coraggiosa, ne era
convinto.
Ma nel suo sguardo vedeva il suo tormento interiore,
l’intensità delle sue
emozioni, i fantasmi del suo passato misterioso.
“
Voleva regalarmi qualcosa di solamente suo...”
Sentirle
pronunciare quelle parole gli aveva fatto battere il cuore a mille.
Sapere che
lei lo pensava, che voleva che anche lui la pensasse…
Le
credeva. Voleva credere ad ogni sua parola. Perché
l’amava.
Quando
scese la notte, le nuvole si muovevano lente, ora oscurando, ora
rivelando
piccoli scorci di una pallida sfera sopra Tokyo.
Tutto
era silenzioso.
Poi
improvvisamente si levò l’ululato del vento, che
scacciò rapidamente le nubi.
Una
luna piena brillava ora nel cielo, proiettando la sua luce sulle alture
alle
spalle della città, insinuandosi tra rocce ed alberi, fino a
rivelare le
colonne di un tempio scintoista dedicato al dio Inari, la
divinità del riso.
L’alone
latteo scivolò sulle lisce superfici e sulle mattonelle del
sentiero, sino
all’ingresso del santuario. Ma non proseguì oltre:
la statua di una volpe si
ergeva ai piedi di un antico ciliegio, le fauci spalancate e minacciose.
L’ululato
del vento si fece più insistente, rimbombando sulle pendici
del promontorio e agitando
le chiome dell’albero.
Poi
tutto tacque.
Le
nubi tornarono a coprire la luna e tutto venne nuovamente avvolto
dall’oscurità. Eppure un debole biancore
s’aggirava ancora nel cortile del
santuario, quasi che la luna avesse scordato di ritirare uno dei suoi
raggi
luminosi.
Continua…
|
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Capitolo 16 *** - ***
Capitolo
16
-
Mamma, una
volpe! Una volpe bianca! –
-
Una volpe?
–
-
Lì
lì, era proprio lì! –
Ma il dito
del bambino indicò vanamente un vicolo cieco. La madre
sospirò, prendendolo in
braccio.
-
Non ci sono
volpi bianche da queste
parti, Soichiro… -
-
Ma io
l’ho vista! – protestò lui con
vigore.
-
Certo,
certo… -
Mentre
s’allontanavano
il piccolo non distolse lo sguardo dal punto dove l’aveva
vista comparire,
sicuro di non essersi sbagliato.
-
Ehi, sei con
noi? –
-
Taichi! Ma che
modi di fare sono
questi?! – lo rimproverò Sora.
-
Oh,
scusa… - si grattò il capo lui,
imbarazzato.
Rumiko
esibì un sorriso tirato.
-
Non ti
preoccupare, non c’è problema…
-
Ma
voltandosi dall’altra parte incontrò uno sguardo
azzurro che sembrava voler
dire “no, un problema c’è eccome, solo
che tu non ce lo vuoi dire”.
-
Ti vedo
stanca…sicura di stare bene?
- le chiese la rossa, sinceramente preoccupata.
Rumiko
annuì. Non voleva farli preoccupare inutilmente.
D’altronde cosa poteva dire?
Che non dormiva da quasi una settimana e che a stento mangiava? Le
avrebbero
chiesto il perché e allora lei sarebbe stata costretta a
mentire.
“ A
causa
di un presentimento…”
Una cosa
ridicola, se ne rendeva perfettamente conto. Ma sapeva anche che tempo
fa
quelle sensazioni si erano rivelate fondate in più di
un’occasione. C’era
infatti stato un tempo in cui era stata in grado di percepire la
tensione
nell’aria, l’odore della paura,
l’imminente svolgersi di un evento
significativo.
“
Tempo fa…”
Era questo
a preoccuparla maggiormente.
Aggrottò
la fronte, pensierosa. Era convinta di aver perduto quel tipo di
istinto un
anno fa, andandosene da New York, lasciandosi tutto alle spalle.
Che stava
succedendo? Perché d’improvviso quelle sensazioni
erano tornate, più violente
che mai, togliendole il sonno e l’appetito?
Percepiva
una presenza accanto a sé, che di giorno la osservava e di
notte tentava in
tutti i modi di entrare nella sua mente, nei suoi sogni. Non sapeva
darle un
nome, né una forma, ma istintivamente tutto il suo essere si
ritraeva al suo
avvicinarsi e lottava con tenacia per scacciarla quando la sfiorava.
Per quanto
si sforzasse non riusciva a capire cosa le stava accadendo. Ma aveva
una
spiacevole sensazione di dejà vu.
Yamato la
vide aggrottare le sopracciglia e seppe che si stava di nuovo perdendo
in un
labirinto di pensieri.
Era
così
da quasi una settimana e a ogni colazione lei appariva più
pallida e debole. I
momenti in cui si estraniava da tutto ciò che la circondava
si moltiplicavano e
diventavano via vai più lunghi.
All’inizio
aveva tentato di parlarle, di capire cosa le stesse succedendo, ma
dalla
confusione nel suo sguardo aveva capito che nemmeno lei lo sapeva. Le
aveva
allora chiesto a cosa pensasse. Ma qui Rumiko aveva taciuto,
distogliendo lo
sguardo.
“ Non
si
fida ancora di me?” aveva pensato lui con amarezza.
Le
lanciò
nuovamente un’occhiata, ma come da un po’ di tempo
a quella parte non riuscì a
incrociare il suo sguardo. Si chiese in che luogo e tempo stessero
vagando
quegli occhi viola. E se mai sarebbe riuscito a raggiungere la meta di
quello
sguardo.
Sora e
Taichi si scambiarono un’occhiata.
Avevano
deciso di ritrovarsi dopo quasi una settimana che non si vedevano, per
scambiarsi un po’ di notizie e magari organizzare una gita in
montagna.
Ma ora,
seduti al tavolino di un bar del centro da venti minuti, non avevano
ancora
iniziato un discorso. L’unica speranza di ravvivare
l’atmosfera era
rappresentata dall’arrivo di Koushiro e Mimi.
“
Ammesso
che Mimi riesca a decidersi su cosa mettere!”
pensò la rossa, sorridendo tra sé
al pensiero della fatica che occorreva a Koushiro per sopportare ogni
piccolo
capriccio dell’amica.
-
Ti dispiacerebbe
allungare il passo?
Siamo in tremendo ritardo! –
-
Quante storie
per dieci minuti… -
sbuffò la castana.
-
Nulla da
obiettare, Mimi, se quei
dieci minuti non vengono triplicati! –
-
Ma dai, tanto
sono al caldo… -
Koushiro
si voltò a guardarla, sollevando un sopracciglio: era
evidente che la ragazza
non era molto entusiasta di quel incontro. Il perché poteva
intuirlo: Rumiko.
Ma il motivo dell’astio della digiprescelta nei suoi
confronti era ancora un
mistero.
“
Strano
che Mimi sia riuscita a mantenere il segreto per una
settimana…”
Eppure
quella constatazione non lo faceva sorridere minimamente. Doveva
trattarsi di
qualcosa di serio e presto avrebbe scoperto di cosa si trattava.
Quando
arrivarono in vista del bar Mimi rallentò
l’andatura, così scattò il semaforo
rosso per i pedoni. Vide Koushiro scalpitare, impaziente, eppure non
proferì
parola.
Lei
benedisse il suo garbo. Aveva bisogno di riordinare le idee prima di
metter
piede là dentro.
Innanzitutto
doveva studiare la sua avversaria, tentando di capire di cosa fosse a
conoscenza e quali fossero i suoi intenti. Ma qualunque cosa accadesse
non
doveva scoprirsi con gli altri. Non temeva che Koushiro potesse
rivelare qualcosa
a qualcuno, si fidava della sua discrezione e del suo buon senso. Di
sicuro
sarebbe stato d’accordo con lei con
l’inutilità di una litigata con il resto
del gruppo, che di sicuro avrebbe difeso Rumiko contro delle accuse
tanto gravi
e prive di prove concrete.
“ A
parte
la mia testimonianza.”
Strinse la
mascella, al pensiero di quello che era accaduto e del motivo che
l’aveva
spinta a saltare su un aereo per inseguirla fino dall’altra
parte dell’oceano:
vendetta.
-
Scusate, se non
vi dispiace io prenderei
una boccata d’aria fresca. –
Detto
questo Rumiko s’alzò. Yamato fu lesto a imitarla,
ma Taichi parlò per primo.
-
Vengo con te, ho
bisogno di
sgranchirmi le gambe! – si stiracchiò le braccia
sopra il capo.
-
Allora io e
Yamato vi aspettiamo qua
al calduccio così se arrivano gli altri ci trovano, va bene?
– Sora si rivolse
al biondo.
Il
cantante lanciò prima una breve occhiata alla ragazza che si
stava infilando il
giubbotto, poi si lasciò ricadere sulla sedia.
-
Ok. –
-
Benone, torniamo
tra poco. –
Taichi
schioccò
un bacio sulla guancia della rossa e poi seguì Rumiko fuori
dal locale.
Rimasti
soli, Sora allungò una mano a stringere quella di Yamato
dall’altra parte del
tavolo.
Lui le
rivolse uno sguardo cupo.
-
Sei preoccupato
per lei, vero? –
-
È
così evidente? – sorrise lui
amaramente.
Lei gli
parlò con voce calda e gentile.
-
Quanto
è evidente che ne sei
innamorato. –
Yamato
quasi scoppiò a ridere. Invece buttò il capo
all’indietro, aprendo la bocca a
vuoto e rivolgendo uno sguardo triste al soffitto.
-
Deve essere la
mia punizione… -
-
Punizione?
–
-
Per non esser
stato corretto con te,
per non averti amata quanto meritavi… -
-
Che sciocchezze.
–
Il biondo
la guardò, sorpreso del tono duro dell’amica.
-
Sono cose che
capitano e nessuno può
esser definito colpevole “di non amare abbastanza”
qualcun altro. –
-
Come fai a
dirlo? –
-
Beh –
lei si chinò verso di lui,
sorridendo furbescamente – sono o non sono la prescelta
dell’Amore? –
Lui le
sorrise.
-
Non fartene una
colpa – proseguì lei
– se non riesci a capirla del tutto. Non pensare che lei non
ti racconti tutto
ciò che l’angustia perché non si fida
di te. È un atteggiamento
controproducente che ti porterà solo a deprimerti ancor di
più. E non è quello
di cui ha bisogno lei in questo momento, se è già
preoccupata per qualcosa. –
Yamato
annuì, stupito di come Sora fosse riuscita a leggergli
così bene nel pensiero.
-
Non so cosa
preoccupi Rumiko, ma
prima o poi avrà bisogno del tuo aiuto. Allora dovrai esser
pronto a sostenerla
o consolarla, anche senza fare domande. Lo so, vorresti sapere tutto e
subito.
Vorresti poter entrare nella sua mente e vedere cosa la disturba tanto.
Ma non
puoi, perciò devi fidarti di lei, devi fidarti del fatto che
quando si riterrà
pronta ti racconterà ogni cosa. Fino ad allora limitati a
starle accanto. Vedrai,
le basterà. –
-
Sora…
perché le cose tra noi non
hanno funzionato? –
La domanda
gli uscì spontanea prima ancora che se ne rendesse conto.
-
Perché
– gli sorrise amaramente lei –
io non ho mai desiderato abbastanza di poterti capire, così
come tu non hai mai
sentito la necessità di svelarti. Se manca la
volontà l’attesa è inutile. –
-
Già…
ma non è colpa di nessuno dei
due, giusto? Ci siamo incontrati senza riuscire ad avvicinarci
abbastanza da
capirci fino in fondo. E dalle incomprensioni sono nati i dubbi, le
ansie… -
-
Succede, ci
abbiamo provato. –
concluse lei – L’importante è fare
tesoro delle nostre esperienze e andare
avanti. –
-
E
così tu e Yamato ora state insieme!
-
-
Sì…
-
L’intento
di Taichi di tirarle su il morale e cambiare discorso era chiaro come
il sole.
Aveva fatto in modo che a uscire fossero solo loro due, così
da allentare un
po’ la tensione. Gliene era profondamente grata.
-
Da quando?
– volle sapere ancora lui.
-
Da Natale, ho
dormito da lui e… -
-
Rumiko
! –
Sembrava
davvero indignato e lei non poté fare a meno di scoppiare a
ridere.
-
Non abbiamo
fatto nulla, volevamo
solo evitare di esser svegliati dai nostri genitori che tornavano
ubriachi al
mattino presto! E credimi, è stato un bene… il
mattino dopo erano entrambi
sdraiati sul tappeto del salotto a russare con Caffè che
giocava con le loro
scarpe! –
-
Caffè?
–
-
Sì,
il mio cucciolo. –
-
Hai un cucciolo?
–
-
Sì,
me l’ha regalato mio padre per
Natale… -
-
Allora
potrò venire da te qualche
volta? Mi piace giocare coi cani… -
-
Sei sempre il
benvenuto, lo sai, e
penso che piaceresti molto a Caffè. Ma non è che
Sora s’ingelosisce? – gli
sorrise complice.
-
Del tuo
cucciolo? –
Rumiko
scoppiò a ridere.
-
Taichi, ti sto
prendendo in gi…! –
Ma
qualcosa le fece morire le parole in bocca.
-
Ehi, Rumiko...
– le si accostò il digiprescelto.
-
Devo andare.
–
E corse
via.
-
Hello guys!
– cinguettò Mimi,
allegra.
-
Ciao Mimi!
– l’abbracciò Sora.
Koushiro
salutò Yamato, che era rimasto seduto al suo posto
sorseggiando un caffè.
-
Taichi e Rumiko
non sono qua con voi?
– si stupì il rossino.
-
Sono fuori a
prendere una boccata
d’aria… - rispose stancamente il cantante.
-
Allora andiamo a
prenderli! Coraggio
coraggio, tutti fuori! – li strattonò Mimi.
Koushiro
levò gli occhi al cielo: la castana non conosceva le mezze
misure.
-
Quanta fretta,
Mimi… - commentò Sora,
stupita – Come mai tanto entusiasmo? –
-
Beh è
da una vita che non vedo Taichi
e Koushiro mi ha parlato tanto di questa Rumiko… voglio
conoscerla! –
-
Va bene,
allora… - ma la rossa venne
interrotta dal sopraggiungere di Taichi.
Mimi
allungò il collo in cerca di una ragazza dagli occhi viola,
ma non la vide da
nessuna parte.
-
E lei
dov’è? – fu la prima a
rivolgersi al castano.
Questi
scosse il capo, confuso.
-
Non lo so,
è fuggita via
all’improvviso… non so perché!
–
-
Fuggita?!
– esclamò Mimi.
-
FUGGITA?!
– saltò su Yamato.
-
Non ho avuto il
tempo di fare nulla.
– si scusò Taichi – L’ho persa
un isolato dopo tra la folla… -
Il biondo
ricadde pesantemente sulla sedia, tenendosi il capo tra le mani.
-
Ma non hai idea
di cosa sia successo?
– insistette Mimi – Avrà visto o sentito
qualcosa… -
-
Non ne ho
idea… -
Lei
annuì
pensierosa, mentre Taichi e Sora si avvicinavano a Yamato per
tranquillizzarlo.
Koushiro le si accostò, chiedendole se avesse voglia di fare
un giro o tornare
subito a casa: in una simile situazione sarebbe stato meglio rinviare
la
rimpatriata.
Ma lei
quasi non lo sentì, troppo impegnata a cercare di
interpretare quell’azione
improvvisa e apparentemente insensata. Che avesse intuito le sue
intenzioni?
“ No,
impossibile… È più probabile che abbia
visto un fantasma!”
Ma non era
un fantasma quello da cui Rumiko fuggiva, sebbene avesse un morbido
pelo
candido.
“ No,
no,
non è possibile! Non qui… non ora…
no!”
Correva
tra la folla, senza avere una chiara idea di dove stava andando.
“ Non
può
avermi seguita, non può esser giunta fin qui, è impossibile !”
Urtava la
gente ma non se ne accorgeva nemmeno, continuando a correre.
“ Come
ha
fatto a varcare il Confine?! Credevo di poterglielo permettere solo
io!”
Non si
accorse nemmeno che si stava allontanando sempre più dal
centro e che i
passanti diminuivano gradualmente.
“
Allora
quella sensazione, quella presenza che tentava di entrare nei miei
sogni, nella
mia mente… era lei !”
Aveva il
fiato corto ormai, sentiva i polmoni bruciarle e la borsa pesarle su
una
spalla.
“
Perché è
tornata, perché mi ha seguita?!”
Si
fermò,
stremata dalla corsa.
-
LASCIAMI STARE!
– urlò verso il cielo
– TI AVEVO CHIESTO DI ANDARTENE! PERCHÉ MI FAI
QUESTO?! –
-
Perché
ti voglio bene… -
Cadde a
terra in ginocchio. Ripensò a sua madre, a quanto era
accaduto un anno fa, a
quello che aveva causato un anno fa.
-
Non è
colpa tua… - le giunse di nuovo
quella voce gentile.
-
Come no?! Siamo
state noi a causare
tutto quello! –
-
È
stato un incidente e vista la
situazione era inevitabile che accadesse... Non puoi fartene una colpa.
–
-
MIA MADRE
È MORTA IN QUEL
“INCIDENTE”! E IO NON DOVREI FARMENE UNA COLPA?!
– strillò – È
COLPA MIA SE LEI NON C’È
PIÙ, È COLPA MIA SE
TANTE ALTRE PERSONE NON CI SONO PIÙ! SE IO NON AVESSI AGITO,
SE NON AVESSI
VOLUTO COMBATTERE, ALLORA… -
-
Allora molte
altre persone avrebbero
fatto una fine ancor più atroce. –
Silenzio.
-
Avremmo potuto
evitarlo, avremmo
potuto… -
-
Sai che non
è così… –
Rumiko
scosse il capo.
-
Vorrei non
averti mai conosciuta… -
Questa
volta fu l’altra a non rispondere.
Il
silenzio calò di nuovo.
Rumiko
tese le orecchie, in cerca di un segno che rivelasse la presenza della
creatura, ma non captò nulla.
“ Se
ne
sarà andata?”
Una morsa
familiare le strinse il cuore: rimorso.
“ No,
ho
fatto la cosa più giusta…”
Ma lei
sapeva davvero cosa fosse giusto? Era giusto sfogare su di lei il
rancore che
provava verso se stessa? Era giusto rivolgerle parole tanto crudeli e
immeritate?
Sapeva di
averla ferita, poteva sentire il suo dolore sulla sua stessa pelle.
Quest’ultima
constatazione incupì ancor di più la ragazza.
“ Il
nostro legame è ancora tanto forte dopo un anno di
separazione?”
Avevano
vissuto tante avventure insieme, avevano viaggiato in luoghi che lei
non
avrebbe mai neppure immaginato. Stando accanto a lei si era sempre
sentita
protetta, al sicuro da qualsiasi nemico avesse mai osato sfidarle.
Non era
vero che rimpiangeva di averla conosciuta. Perché anche lei
voleva bene al suo
digimon.
White
Foxmon guardò la sua prescelta alzarsi e pulirsi
sommariamente le ginocchia.
Poi Rumiko raccolse la borsa e s’incamminò verso
il centro della città, a passo
lento.
Il digimon
si soffermò ancora una volta sul viso stanco della ragazza,
pallido e tirato
come non l’aveva mai visto.
Appoggiò
il muso sulle zampe anteriori, preoccupata. Era giunta nel Mondo Reale
la notte
prima, attraverso il santuario dedicato al dio Inari, cui sono sacre le
volpi.
Aveva sfruttato la presenza della luna piena in contemporanea nei due
mondi e
aveva aperto un varco. Era stato difficile e molto faticoso in quelle
sembianze,
ma necessario.
Attese che
Rumiko svoltasse l’angolo, poi prese a seguirla a debita
distanza. La prescelta
aveva acquisito un certo sesto senso stando accanto al digimon, ma
quella
facoltà era solo un’ombra del potere
chiaroveggente di White Foxmon.
La
creatura digitale balzava agilmente da un tetto all’altro,
poi s’acquattava
nell’ombra, in attesa che la ragazza proseguisse.
Assomigliava in tutto e per
tutto a una volpe, non fosse stato per gli occhi di rubino.
Aveva avvertito
qualcosa di strano grazie all’ancora forte legame con Rumiko
e poche notti
prima aveva utilizzato i suoi poteri per capire di cosa si trattasse.
Certo le
sue facoltà erano piuttosto limitate allo stadio intermedio,
ma ciò nonostante
era riuscita a vedere l’imminente svolgersi degli eventi. E a
capire meglio
quelli del passato.
“ Sono
stata una sciocca a non averci pensato prima.”
Se si
fosse soffermata un po’ di più su quanto era
accaduto quella notte di un anno
fa, le cose ora non sarebbero a questo punto. Ma come aveva sempre
ripetuto a Rumiko,
era inutile perdersi nelle incertezze. I “se” non
avevano mai portato nessuno
da nessuna parte.
Con un
agile balzo superò un ostacolo e saltò sul tetto
successivo. Doveva parlarne
assolutamente con Rumiko e al più presto.
Sapeva che
non sarebbe stato facile, quella ragazza poteva rivelarsi davvero
testarda. Ma
si era ripromessa di insistere finché non le avesse dato
ascolto. Tuttavia…
Rallentò
per un attimo il passo, trafitta nuovamente da quel dolore acuto.
Quelle parole
le avevano fatto male. Più di qualsiasi ferita in battaglia.
Perché
molti lo ignoravano, ma, sebbene i digimon fossero essenzialmente
costituiti da
dati digitali, alcuni “predestinati” acquisivano
un’anima nel momento in cui
incontrano i loro umani, instaurando un legame che permetteva loro di
condividere le stesse gioie e gli stessi dolori, finanche fisicamente.
Tale
traguardo si materializza nella Biodigievoluzione.
“ Ma
il
significato di tutto ciò Rumiko non lo sa… Non
appieno…”
Quante cose
avrebbe voluto dirle, quanti dubbi avrebbe voluto risolverle…
S’impose
di non lasciarsi più abbattere da quelle parole.
Probabilmente non ci credeva
davvero.
Era ormai
scesa la sera. Stanca e spossata, Rumiko aveva infine smesso di
girovagare per
la città e s’apprestava a tornare a casa.
Improvvisamente
si fermò. Il digimon fece lo stesso, nascondendosi alla sua
vista: che l’avesse
scoperta?
La vide
voltarsi e far saettare lo sguardo in un vicolo buio. La vide turbata.
-
White
Foxmon… smettila di seguirmi… -
la udì rivolgersi alle ombre.
Ma la sua
voce tremava leggermente, quasi non credesse davvero che lì
potesse celarsi il
suo digimon. Poi si rivoltò e allungò il passo.
“
Allora
non mi ha scoperta…”
Stava per
uscire dal suo nascondiglio sul tetto, ma si ritrasse velocissima:
aveva
avvertito un’altra presenza.
Aguzzò
la
vista e attese pazientemente.
Poi
qualcosa si mosse nelle ombre del vicolo e una ragazza sbucò
da dietro
l’angolo. Aveva lunghi capelli castani e occhi nocciola. I
tratti del volto
erano dolci e indossava dei begli abiti.
“
Perché
non ho avvertito la sua presenza molto prima?” si chiese la
volpe.
La
fanciulla si guardò attorno con circospezione, alzando il
viso come se
annusasse l’aria.
Un
pensiero improvviso attraversò la mente di White Foxmon.
“ Un
digimon?!”
S’accucciò
ancor di più per evitare che il vento le portasse il suo
odore. La ragazza
attese ancora qualche minuto, poi s’incamminò
nella direzione che aveva preso
Rumiko.
White
Foxmon imprecò fra sé: le cose stavano procedendo
velocemente, troppo velocemente.
“
Rumiko
non è ancora pronta…”
Ma sapeva
di non avere scelta: doveva scoprire chi fosse, o meglio cosa
fosse quella ragazza e quali fossero le sue intenzioni. Poi
avrebbe informato Rumiko, che fosse ben disposta o meno. Ormai non
c’era più
tempo.
Digrignò
i
denti, frustrata. Poi riprese la sua corsa, questa volta seguendo la
pista di
Mimi.
Continua…
N.d.a
White
Foxmon è un digimon da me inventato. Leggendo potrete notare
diversi
parallelismi con Renamon, uno dei digimon protagonisti della terza
serie.
Tuttavia ci tengo a precisare che la mia scelta di un digimon-volpe
è stata
tutt’altro che casuale e ve ne accorgerete successivamente.
Per
ultimo, ho estrapolato alcuni concetti e fenomeni (quali la
Biodigievoluzione)
da serie successive o altre fonti, interpretandole secondo i fini della
mia
storia.
Monalisasmile
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Capitolo 17 *** - ***
Capitolo 17
-
DOVE
DIAVOLO SEI STATA?! –
Rumiko
non rispose, prendendosi tutto il tempo per chiudere la porta
dell’appartamento
17 alle sue spalle.
“
Forse avrei dovuto aspettare un po’ prima di dargli una copia
delle chiavi di
casa…” fu il suo pensiero, effettivamente del
tutto fuori luogo.
Non
era stupita di trovarsi di fronte Yamato, né della sua
collera. Era fuggita
senza dire una parola e per tutto il pomeriggio non aveva risposto al
cellulare. Aveva fatto preoccupare tutti, forse lui più
degli altri. Ma aveva
bisogno di stare sola, di pensare…
-
ALLORA?!
CHE CAVOLO TI È PRESO?! –
-
Nulla…
-
-
“
NULLA” NON È UNA RISPOSTA ACCETTABILE IN QUESTO
MOMENTO! –
-
Non
posso dirtelo… -
Yamato
aprì la bocca per dire qualcosa, ma non vi uscì
nulla. Rumiko si sentì morire vedendo
lo sconforto e la disperazione nei suoi occhi.
Il
cantante si portò entrambe le mani al capo, chinando la
testa e appoggiandosi a
una parete.
Stettero
in silenzio per quelle che alla ragazza parvero ore, ma non osava
infrangerlo.
Per dire cosa, poi? Che era fuggita sperando scioccamente di seminare
il suo
digimon, un mostro digitale proveniente da un mondo parallelo? Che una
volta
erano compagne inseparabili, che avevano combattuto insieme per anni,
per poi allontanarsi
bruscamente? Che la causa del loro lungo distacco era il disastro
accaduto un
anno fa a New York in cui centinaia di persone, tra cui la sua amata
madre,
avevano perso la vita? Che lei si odiava per quello che aveva fatto?
“
Sono una persona disgustosa…un’assassina, una
codarda…”
White
Foxmon non aveva più colpe di lei per quello che era
successo, eppure lei
l’aveva allontanata malamente, le aveva rivolto parole
crudeli, accuse
immeritate. Perché aveva paura.
“
Non posso dirti nulla, Yamato… Lo so che sono egoista, lo so
che sono una bugiarda
e una vigliacca, ma se te lo dicessi tu mi
lasceresti…”
E
lei non voleva perderlo.
“
Io credo di amarti, Yamato…”
-
Cosa
devo fare? – lo sentì mormorare.
Si
copriva gli occhi con una mano, ma Rumiko ebbe la sensazione che fosse
vicino
al pianto. Avrebbe voluto abbracciarlo, rassicurarlo, fargli capire che
lei gli
era vicino e il resto non contava nulla.
Ma
non si mosse, né seppe cosa rispondere.
Il
biondo non disse più nulla. Trasse un profondo respiro e si
staccò dalla
parete. Si diresse verso la ragazza e la oltrepassò senza
che i loro sguardi
s’incrociassero.
Quando
lei si voltò, lui aveva già chiuso la porta alle
sue spalle.
-
Mimi? –
Daisuke
allungò il passo. Non aveva ancora avuto modo
d’incontrarla da quando era
giunta a Tokyo, dato che ormai passava le sue giornate con Mei.
-
Che
c’è, Dai? Chi hai visto? –
La
biondina lo guardava interrogativa, avvinghiata al suo braccio.
A distanza
di una settimana Daisuke non riusciva ancora a capacitarsi di quanto le
cose
fossero cambiate. Fino a poco tempo prima non aveva occhi che per la
dolce
Hikari, mentre ora…
-
Stavi guardando
una ragazza, dì la
verità! – insistette la riccia, mettendo il
broncio.
“
Mentre
ora mi sono preso una cotta per una pazza gelosa!”
sospirò lui.
Eppure
quel pensiero lo faceva sorridere. Mei era una ragazzina tutto pepe,
frizzante
ed esuberante, eppure nei suoi confronti si dimostrava spesso dolce e
piena
d’attenzioni. Era una strana sensazione accorgersi di piacere
veramente a
qualcuno. Inutile dire che la cosa lo riempiva d’orgoglio.
-
Ehi, abbassa la
cresta, ragazzino! –
lo avrebbe rimproverato scherzosamente Rumiko.
“
Già,
Rumiko… in fondo è soprattutto grazie a lei se
ora io e Mei stiamo insieme!”
A ben
pensarci era da parecchi giorni che non la vedeva, chissà
come aveva passato il
Natale? Si ripromise di andarla a trovare nei prossimi giorni, magari
in
compagnia di Mei, dato che un paio di giorni fa la biondina aveva
ammesso di
trovarla simpatica.
-
Mi era parso di
vedere una mia
vecchia amica… – rispose
alla domanda
della ragazza.
-
Che tipo di amica?! – lo
fulminò lei.
-
Un’amica
come Sora, come Rumiko… -
Sembrava
averla convinta.
-
Ti spiace se la
raggiungiamo? Mi
piacerebbe salutarla visto che è da tanto tempo che non la
vedo! –
-
Ok…
ma facciamo in fretta! – si
strinse ancor di più al suo braccio, quasi temesse che
qualcuno potesse
portarglielo via.
Lui si
gonfiò d’orgoglio, sentendosi tanto desiderato.
Poi partirono nella direzione
in cui l’aveva vista.
Yamato si
chiuse la porta del suo appartamento alle spalle e si diresse verso la
sua stanza.
Non si stese sul materasso, volendo evitare di vedere la fotografia che
lei gli
aveva regalato. Si sedette invece per terra, appoggiando la schiena al
bordo
del letto.
“ Cosa
devo fare?”
Non lo
sapeva. Per la prima volta in vita sua si ritrovava con le spalle al
muro,
incapace di reagire e, soprattutto, di proteggere una persona a lui
cara. In
passato aveva saputo consigliare i compagni, proteggere Takeru,
riempire i
vuoti lasciati dal divorzio nella vita del padre, ma ora…
Ora tutta la sua
maturità, il suo coraggio e la sua forza di
volontà sembravano inutili.
“ Cosa
devo fare?”
A chi
poteva chiederlo? Il padre aveva già abbastanza grattacapi e
sarebbe stata la
prima volta che i due affrontavano un simile discorso.
I suoi
amici sospettava che ne sapessero meno di lui. Aveva parlato con Sora
quel
giorno stesso, ma ormai gli sembrava chiaro che la pazienza e
l’attesa erano
soluzioni insufficienti al suo caso. Era sempre stato in tipo
perseverante, ma
non credeva di riuscire a sopportare in silenzio mentre Rumiko
s’allontanava
ogni giorno sempre più da lui.
S’erano
appena sfiorati e già la stava perdendo…
“ Cosa
devo fare?”
Per tutta
la vita si era rifiutato di chiedere aiuto ad altre persone, fatta
forse
eccezione per Taichi e Sora. Ma se loro non erano in grado di aiutarlo,
allora
chi poteva farlo?
“
Gabumon…”
Era da
molto tempo che non lo vedeva, chissà come stava,
chissà se lo pensava, chissà
se percepiva il tormento del suo digiprescelto anche a una simile
distanza.
Istintivamente
allungò una mano ad aprire l’ultimo cassetto del
suo comodino e ne estrasse il
suo digivice. Lo strinse nel pugno, quasi lo stesse supplicando di dar
risposta
ai suoi mille dubbi.
Ma
l’oggetto rimase freddo e insensibile alla sua richiesta.
Allargò le dita,
lasciando che cadesse a terra, rimbalzando sul parquet con un tonfo
metallico.
Si
levò in
piedi. Non poteva lasciarsi abbattere in questo modo, non era da lui! E
poi…
“
Rumiko
ha bisogno di me... e anche io di lei. Non posso perderla proprio ora
che ci
siamo avvicinati!”
Con questi
propositi lasciò la stanza, deciso a farsi una doccia e
lavare via i pensieri
spiacevoli.
Il
digivice restò ai piedi del letto.
-
Mei, la vedi?
–
-
No!
C’è troppa gente, Dai! –
I due
allungarono il collo, alla ricerca di Mimi, ma inutilmente: la fiumana
di
persone di ritorno dal lavoro non permetteva loro di scorgerla.
-
Cavolo, eppure
era davanti a noi un
attimo fa… - borbottò il digiprescelto.
-
Eccola!
–
Mei
indicò
una figurina in t-shirt che s’infilava in un vicolo sulla
destra.
“ Ma
dove
va senza nemmeno una giacca? Siamo in dicembre!” si chiese
Daisuke.
La coppia
allungò il passo, cominciando a correre radente alle
vetrine. Svoltarono
l’angolo e s’infilarono nel vicolo.
Daisuke
quasi urlò, quando vide Mimi poggiare le mani a terra e
spiccare un balzo fino
al tetto del palazzo di fronte.
Con uno
strattone schiacciò Mei tra il suo corpo e il muro di un
edificio, sperando che
le ombre della sera li nascondessero alla vista di quella creatura che
non
poteva essere Mimi.
-
Dai, che
diavolo…?! –
Le
tappò
la bocca con una mano, facendole segno di tacere. Si sporse un poco per
vedere
se la creatura se n’era andata. Non la vide da nessuna parte.
Forse l’avevano
scampata.
Mei colse
quel attimo di distrazione per liberarsi dalla sua presa.
-
Che diavolo sta
succedendo?! Perché
la tua amica è saltata sul tetto di un palazzo a cinque
piani?! –
-
Mei…
- tentò di tranquillizzarla lui.
-
Che cosa è quella ragazza?!
–
-
Non lo
so… -
-
Che vuol dire
che NON LO?! – strillò
lei.
-
Esattamente
quello che ho detto: NON
LO SO! –
La biondina
si ritrasse, stupita: era la prima volta che sentiva Daisuke alzare la
voce.
-
Quella non
è Mimi, non quella che
conosco io… Deve esserle successo qualcosa. –
Ma cosa di
preciso, non ne aveva idea. Sapeva solo che nessun essere umano
né animale era in
grado si compiere un simile balzo. Solo…
“ Solo
un
digimon potrebbe saltare in quel modo.”
La sua
espressione era tanto seria e preoccupata che Mei decise di deporre
l’ascia di
guerra, almeno per il momento. Gli afferrò una mano,
stringendola gentilmente.
-
Dai, che sta
succedendo? E non dirmi
che non lo sai, perché ho come l’impressione che
tu un’idea ce l’abbia… -
-
Mei, non so se
è una buona idea… -
-
Non ti fidi di
me? O pensi che
saperlo potrebbe mettermi in pericolo? –
-
Non è
così semplice… -
-
Perché?
–
Perché
c’erano in ballo verità di cui pochi erano a
conoscenza. Perché si parlava
dell’esistenza di un altro mondo, parallelo al loro, e di
altre creature molto
diverse da quelle che popolavano la Terra
che tutti conoscevano.
Spiegarle
quella situazione voleva dire metterla a parte di tutto ciò
che avevano fatto,
che avevano visto. Voleva dire svelare non solo se stesso e il suo
digimon, ma
anche quelli degli altri.
Non ne
aveva fatto parola con nessuno, nemmeno la sua famiglia. Dunque
perché mai
avrebbe dovuto…
-
Per favore,
Dai… - lo supplicò la
biondina sfoderando uno sguardo da cerbiatta.
-
E va bene, ti
racconterò tutto… -
C’era
poco
da fare: Daisuke non sapeva resistere alle moine.
Rumiko
esitò un attimo, poi infilò la chiave nella toppa
ed entrò nell’appartamento
18.
Chiudendosi
la porta alle spalle senza far rumore, per un attimo si
sentì una ladra.
“ Che
sciocchezze, è stata sua l’idea di scambiarci una
copia delle chiavi. E poi non
vengo a rubare!”
Voleva
parlargli. Non sapeva ancora cosa gli avrebbe detto di preciso, ma non
sopportava più di vederlo così. Se era stata lei
a fargli del male, allora
sarebbe stata lei a lenire quelle ferite. E se questo voleva dire
rivelargli la
verità, quella verità che persino ai suoi
genitori aveva raccontato solo in parte…
Ormai non
si chiedeva più se fosse o meno la cosa giusta da fare,
perché non riusciva più
a dare un significato a quel termine.
“
Giusto…”
Era forse
giusto quello che era stato fatto a sua madre e a quella gente? Era
forse
giusto che suo padre e tante altre persone fossero state private dei
loro cari?
Era giusto il rancore che lei aveva riversato su White Foxmon?
Scosse il
capo.
“
Ormai
non ha più importanza…”
Sentì
lo
scroscio dell’acqua proveniente dal bagno e
ipotizzò che Yamato si stesse
facendo una doccia ristoratrice. Decise di attenderlo in camera sua.
Aprì
la
porta.
-
White
Foxmon… quale piacevole
sorpresa! –
Il digimon
non si mosse, studiando con gli occhi rossi la fanciulla che aveva di
fronte.
Una cosa era sicura: il suo tono falsamente meravigliato tradiva una
perversa
ilarità, segno che s’era accorta da tempo del
pedinamento.
-
A cosa devo
l’onore? –
La voce
poteva apparire umana, ma il digimon la percepiva stranamente distorta.
-
Cosa sei?
–
La
creatura sorrise, per nulla infastidita che la sua domanda fosse stata
deliberatamente ignorata.
-
Dovresti
saperlo… L’hai pensato non
appena mi hai visto, ne sono sicuro. –
“ Un
digimon…”
-
Esatto.
– annuì la ragazza.
White
Foxmon fece un balzo indietro: possibile che le avesse letto nel
pensiero?
-
Possibilissimo,
mia cara. –
La volpe
rizzò il pelo, ringhiando guardinga.
-
Perché
ti stupisci tanto? Non è la
prima volta che ti capita d’incontrare un digimon con simili
facoltà. –
White
Foxmon lasciò che il pelo si riabbassasse, mentre
indietreggiava a occhi sbarrati.
“
No…”
-
Oh
sì… -
La volpe
bianca si voltò e fece per fuggire, ma ormai era tardi: era
caduta nella sua
trappola.
Non vi
furono colpi, né lampi luminosi. Improvvisamente la sua
vista s’oscurò e il
digimon cadde sulla grondaia del tetto, apparentemente privo di vita.
-
Quindi tu hai un
mostro tutto tuo. –
riassunse una perplessa Mei.
Se non
avesse visto quella ragazza elevarsi per più di 15 metri,
non ci avrebbe
mai creduto. Ma ora le pareva tutto possibile. O quasi.
-
Digimon.
– la corresse Daisuke – Io
ho un digimon di nome V-mon. –
-
Certo, gli hai
dato un nome, come si
fa coi cani, i gatti… -
-
No no, lui si
chiama proprio così. È
il nome della sua…diciamo “specie”.
–
-
Ho
capito… e questo V-mon sa
combattere? –
-
Altrochè!
È fortissimo! –
-
Ma quanto
è grande? –
-
Buh,
è altro più o meno così… -
si
toccò un fianco.
Mei non
riusciva a capacitarsi di tutto ciò. Un mostriciattolo fatto
di dati digitali,
proveniente da un mondo parallelo, in grado di combattere e di
trasformarsi,
assumendo dimensioni gigantesche e forza ancora maggiore.
-
E tu…
- sollevò un sopracciglio,
scettica – e tu saresti il suo padrone? –
-
No no, io sono
piuttosto un amico per
lui, sono il suo… -
-
Digiprescelto? -
Rumiko non
s’accorse che l’acqua aveva smesso di scorrere
ormai da un bel po’. Era rimasta
immobile accanto alla porta, lo sguardo fisso sull’oggetto
che giaceva ai piedi
del letto.
“ No,
non
è possibile…”
Eppure per
quanto s’ostinasse a ripeterselo, sapeva bene cosa fosse
quella cosa: un
digivice.
“
Magari è
solo uno strano cercapersone…”
S’avvicinò
lentamente, ma s’accorse che tremava e che a ogni passo si
sentiva più debole,
quasi fosse sul punto di svenire. Si chinò a sfiorarlo.
Ma appena
le sue dita toccarono lo schermo, l’oggetto parve animarsi e
sul quadrante
comparve un simbolo simile allo Ying e Yang. E lei sapeva bene cosa
significasse…
-
Vedo che hai
trovato il mio
cercapersone, devo averlo dimenticato per terra. –
Lei non si
mosse al sopraggiungere di Yamato.
Non
ricevendo risposta, lui si chinò a raccoglierlo, senza
smettere di frizionarsi
i capelli con un asciugamano. Quando notò il simbolo
comparso sul quadrante,
aggrottò le sopracciglia.
-
Si è
attivato? – mormorò tra sé e
sé.
Poi, quasi
si fosse ricordato della presenza di Rumiko, si affrettò ad
aggiungere con
noncuranza:
-
Credevo fosse
rotto! Forse sono solo
scariche le batterie… -
-
Non prendermi in
giro… -
-
Come? –
La ragazza
si alzò.
-
NON OSARE
PRENDERMI IN GIRO! –
-
Che ti prende,
Rumiko? - fece un
passo indietro lui, sorpreso da quella reazione.
-
Il tuo digivice
si è attivato perché l’ho
toccato! –
-
Tu...tu sai
cos’è? –
Yamato
sembrava interessato, quasi piacevolmente sorpreso da quella
rivelazione
inaspettata.
-
Certo che lo so!
E so anche chi sei
TU! - ringhiò lei, furiosa.
I suoi
occhi viola mandavano saette di puro odio.
-
Tu –
sibilò – tu sei uno degli otto
bambini prescelti che entrarono in possesso delle digipietre. Tu sei il
prescelto dell’Amicizia. E io… io per colpa
vostra… -
Sembrava
davvero sconvolta e, sebbene non ne capisse il motivo, Yamato
provò il
desiderio di tranquillizzarla. Ma appena le si avvicinò,
Rumiko scattò indietro
come fosse stata scottata.
-
Rumiko…
-
-
Io vi
odio… vi odio tutti, voi e gli
altri quattro… -
-
Ma
perché? Che abbiamo fatto? –
-
DOVE ERAVATE UN
ANNO FA? DOVE ERAVATE
MENTRE ALPTRAUMON IMPERVERSAVA SU NEW YORK, SEMINANDO
L’ANGOSCIA E LA PAURA? DOVE ERAVATE
MENTRE
IO E WHITE FOXMON COMBATTEVAMO DA SOLE, MENTRE CI ERA STATO PROMESSO IL
VOSTRO
AIUTO?! –
Yamato la
guardò sbigottito.
-
Deve esserci
stato un malinteso, noi
non… -
-
UN MALINTESO?!
– indietreggiò lei,
inorridita – CENTINAIA DI PERSONE SONO MORTE E TU PARLI DI
MALINTESO?! –
Calò
il
silenzio.
Lui non
sapeva cosa dire perché non aveva capito quasi nulla, lei
perché sembrava aver
dato sfogo a ogni grammo di energia.
Poi, senza
più dire una parola, Rumiko lasciò la stanza,
chiudendo rumorosamente la porta
dell’appartamento 18 alle sue spalle.
Yamato si
lasciò cadere sul letto, il digivice ancora stretto in mano:
le cose si
complicavano sempre più.
Rumiko si
chiuse la porta di casa alle spalle e si diresse a grandi falcate in
salotto.
Caffè la raggiunse dalla cucina, scodinzolando felice di
vedere la padroncina.
“ Lui
è
uno di quei digiprescelti e gli
altri
chissà dove…”
Si
bloccò:
un’intuizione le aveva attraversato la mente.
“
Yamato,
Sora, Taichi, Koushiro…”
Da quanto
aveva capito una parte del loro gruppo di amici si conosceva da molto
tempo.
Daisuke le aveva raccontato che quando Takeru s’era
trasferito nella loro
scuola era evidente che conosceva Hikari profondamente…
“
Yamato,
Sora, Taichi, Koushiro, Takeru, Hikari…”
Non aveva
avuto modo di vedere molto spesso Jiou, ma s’era stupita di
quanto fosse saldo
anche il suo rapporto con il resto della comitiva, sebbene si
frequentassero
poco.
“
Yamato,
Sora, Taichi, Koushiro, Takeru, Hikari, Jiou…”
Sette. E
l’ottavo…
Yamato
guardò nuovamente l’immagine appesa sul suo letto.
Una nuova interpretazione si
stava facendo largo nella sua mente: quella immortalata nella
fotografia non
era Rumiko, ma il suo digimon.
“ Un
digimon di sembianze umane, perché no?”
Se non altro
ora quadravano molte cose. La reticenza della ragazza a parlare del suo
passato, a svelare il significato di quella foto…
“ Ecco
perché lei non ha ancora superato lo shock per la perdita
della madre…”
Immaginava
quale trauma dovesse esser stato, quale peso dovesse portare nel suo
cuore,
sapendo di esser la causa della morte non solo della propria madre, ma
anche di
molte altre persone.
Ricordava
i titoli dei quotidiani nei giorni successivi al disastro nella
metropolitana,
le immagini raccapriccianti che avevano invaso i telegiornali. Una New
York
devastata…
Aggrottò
le sopracciglia.
Se era in
corso una simile battaglia tra digimon, com’era possibile che
Mimi non se ne
fosse accorta?
L’ottavo
non poteva che essere la loro amica newyorchese.
Dopo la
battaglia
contro Alptraumon, Rumiko aveva scoperto che a New York risiedeva una
degli
otto digiprescelti che per primi avevano messo piede a Digiworld ed
erano
entrati in possesso delle digipietre. Non sapeva i loro nomi,
né dove
risiedessero gli altri. Ma una cosa era certa: l’avevano
abbandonata al suo
destino, lasciandola sola a combattere contro un nemico troppo potente
perché
potesse affrontarlo da sola.
“ Se
fossero
arrivati, se mi avessero aiutata, quella notte io…”
Yamato
incrociò le braccia sotto la testa.
Se le cose
stavano così, il rancore di Rumiko nei loro confronti era
comprensibile. Ma non
lo era il comportamento di Mimi.
“
Perché
non ci ha avvertiti della battaglia? Saremmo intervenuti di certo!
Perché non
ce ne ha fatto parola nemmeno dopo? Possibile che non lo
sapesse?”
Impossibile,
non se la battaglia aveva assunto simili proporzioni. Ma
allora…
“ Ce
l’ha
forse tenuto nascosto? Ma perché avrebbe
dovuto…?”
Balzò
in
piedi, folgorato da un’intuizione.
Quel
pomeriggio, quando lei e Koushiro erano arrivati al luogo
dell’appunto e Rumiko
se n’era appena andata, Mimi aveva dimostrato un certo
interesse nei suoi
confronti, piuttosto ingiustificato, considerando che non
l’aveva mai vista
prima…
“ A
meno
che non la conoscesse già.”
Koushiro
aveva detto che la ragazza s’era praticamente autoinvitata a
casa sua, quasi
senza preavviso e senza dare spiegazioni. Che si trattasse del semplice
desiderio di una rimpatriata coi vecchi amici era da escludersi:
conoscendo
Mimi, si sarebbe presa tutto il tempo per organizzare un ritorno in
grande
stile.
“ Ma
che Diavolo
sta succedendo?”
Si prese
il capo tra le mani, sedendosi nuovamente sulla sponda del letto.
Mimi non
poteva non sapere cosa fosse successo quella notte. Ma sul
perché non ne avesse
parlato ai compagni, Yamato non sapeva darsi una risposta plausibile.
E ora
eccola qua, tornata in fretta e furia da New York, senza dare
spiegazioni a
nessuno e dimostrando uno spiccato interesse per una persona che
teoricamente
non dovrebbe conoscere.
Inoltre…
Il telefono
squillò.
Rumiko si
lasciò cadere su una poltrona e il cucciolo color cioccolato
balzò al suo
fianco.
Lei lo
accarezzò distrattamente, mentre il cagnolino uggiolava
piano, quasi avesse
intuito lo stato d’animo della ragazza.
Dunque
tutti loro, compresi Daisuke, Miyako, Ken e Iori, erano dei
digiprescelti. Quei digiprescelti.
Quelli che non
l’avevano soccorsa nel momento del bisogno, quelli che
potevano evitare la
morte di tutte quelle persone…di sua madre…
Se loro
fossero intervenuti, forse nessuno si sarebbe fatto male, nessuno
avrebbe
sofferto e lei…lei non si sarebbe macchiata del sangue di
centinaia di persone
innocenti, costretta a vivere nel tormento per il resto della sua vita.
A quante
persone aveva inflitto una ferita che mai si sarebbe rimarginata,
quante
persone aveva privato dei familiari e degli amici…quanti
orfani, vedove e
vedovi piangevano ancora la notte, soli… Le bastava vedere
suo padre per
ricordarsi ogni giorno della sofferenza che aveva dato a tanta gente.
Tutto
questo avrebbe potuto essere evitato proprio da loro…
“
Daisuke…”
Sentiva le
lacrime salirgli agli occhi.
“
Sora…”
Raccolse
le ginocchia al petto, abbracciando le gambe e nascondendo il volto
già rigato
di lacrime. Caffè le leccò una mano, ma non
ottenne reazione.
“
Taichi…”
Scossa dai
singhiozzi, non s’accorse del cagnolino che si stava
infilando sotto le sue
braccia.
“
Yamato…”
Sollevò
il
capo di scatto quando la lingua rosea di Caffè le
leccò il mento. Guardò il
cucciolo sul suo ventre, che la osservava con le orecchie basse e lo
sguardo
triste.
Lei lo
abbracciò stretto, affondando il suo viso nel pelo morbido.
Voleva
bene a tutti loro e aveva da poco scoperto di provare qualcosa di
speciale per
Yamato. Aveva riassaporato la felicità…
Perché doveva trattarsi proprio di loro?
Lei odiava quei digiprescelti, le
avevano rovinato la vita…
-
Ciao Koushiro,
che succede? –
La voce
dall’altro capo del telefono gli appariva preoccupata e
titubante.
-
Per caso hai
notizie di Mimi? -
-
Mimi? –
“
Parli
del Diavolo…”
-
Quando siamo
tornati a casa ha detto
di sentirsi molto stanca e di voler riposare…quando mia
madre ha detto che la
cena era pronta sono andato a svegliarla, ma lei non era più
nella sua stanza…
-
-
Magari
è andata a farsi un giro… -
-
Nessuno di noi
l’ha vista o sentita
uscire… -
Silenzio.
Al biondo parve che l’amico stesse traendo un respiro, come
se la cosa che si
apprestasse a raccontare gli costasse molta fatica.
-
Yamato…
credo che sia uscita dalla
finestra… -
-
Ma abitate al
sesto piano! –
-
Lo
so! – lo
sentì quasi
strillare dall’altro capo del telefono.
Yamato
immaginò che al rosso costasse parecchia fatica anche solo
ipotizzare che la
cosa fosse possibile, data la sua proverbiale razionalità.
-
Yamato, sono
preoccupato... c’è
qualcosa che non va… -
Il biondo
si sedette sul divano del salotto, sospirando: se non altro non era
solo lui a
esser diventato paranoico.
-
Ascolta…
non ti ho detto una cosa,
riguardo Mimi… -
-
Di cosa si
tratta? –
-
Credo che lei
sia qui per Rumiko. –
Yamato si
fece più attento.
-
Che vuoi dire?
Cosa vuole da lei? –
-
Non ne ho idea.
– ammise l’altro – Ma
quando le ho fatto il nome di Rumiko era chiaro che non le fosse nuovo.
Credo
che si conoscessero già a New York… -
-
Rumiko non la
conosce, gliene ho
parlato diverse volte ma non ha reagito minimamente. –
-
Strano…
dalla espressione seria di
Mimi avevo ipotizzato che fosse successo qualcosa tra di loro
lì… -
Yamato
trattenne il respiro. Improvvisamente i pezzi cominciavano a combaciare.
-
Koushiro…
hai detto che è uscita
dalla finestra… ne sei sicuro? –
-
Non ha senso, lo
so, ma noi eravamo
vicini all’ingresso e di là non è
passata, perciò… -
-
Koushiro
– lo bloccò lui – e se
quella non fosse Mimi? –
-
Che vuoi dire?
–
-
Cosa
può saltare fuori da una
finestra del sesto piano e non farsi nulla? –
-
Toc toc!
– cinguettò una voce
femminile.
Rumiko si
guardò intorno perplessa, il volto rigato dalle lacrime che,
asciugandosi,
avevano creato sottili linee salate. Caffè si
liberò dal suo abbraccio,
correndo ad abbaiare alla porta a vetri del salotto.
-
C’è
qualcuno là fuori? – si tirò in
piedi stancamente.
Si sentiva
stranamente debole.
-
Sì,
mi apri per favore? Fa freddo… -
squittì ancora quella voce sconosciuta.
Scostò
le
tende.
-
Buonasera,
Rumiko… -
Continua…
|
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Capitolo 18 *** - ***
Capitolo
18
Rumiko non
riuscì a far nulla: la ragazza al di là della
finestra spaccò il vetro e
l’afferrò per il collo con una rapidità
mostruosa. Caffè prese ad abbaiare
forsennatamente, mentre lei s’aggrappava a quel braccio
tentando di liberarsi.
Ma per quanto sembrasse esile, la sua presa era ferrea.
-
Potresti aprire,
per piacere? O vuoi
che sfondi l’intera finestra? –
Rumiko
sentì le dita gelide della fanciulla stringersi sempre
più attorno alla sua
gola. Annuì.
Trovò
a
tentoni la maniglia della porta a vetri e la fece scattare. La ragazza
sul
balcone sorrise estasiata e la lasciò andare per permettere
alla finestra di
scorrere.
Rumiko
colse l’occasione per scattare verso l’ingresso.
Ma
l’altra
fu più lesta. La superò e le sbarrò la
strada, allargando le braccia.
Rumiko
virò verso la cucina e sbatté la porta alle sue
spalle. Afferrò un coltello da
cucina rimasto sul bancone e si voltò, trovandosi
l’avversaria a pochi
centimetri di distanza.
Urlò
di
spavento e andò a urtare il lavello alle sue spalle.
-
Cosa vorresti
fare, Rumiko? –
Sorrideva
e la strana voce zuccherosa sembrava davvero curiosa.
Rumiko
traeva respiri profondi e irregolari, il coltello puntato di fronte a
sé,
l’altra mano appoggiata al lavandino alle sue spalle. Si
sentiva debole,
incredibilmente debole, mentre la sua avversaria era rapida e forte.
Si prese
un attimo per osservarla e improvvisamente le parve familiare. I lunghi
capelli
castani, i tratti dolci, gli occhi color caramello…
l’aveva vista in una delle
foto di gruppo in camera di Yamato. L’amica che si era
trasferita a New York
diversi anni fa.
“
L’ottavo
prescelto…”
-
Esatto…
- sibilò la ragazza – Mimi
Tachigawa, molto piacere! – cinguettò.
Le porse
la mano, ma Rumiko non accennò ad afferrarla.
Quella non
era la stessa fanciulla ritratta nella foto. Quegli occhi nocciola, che
nell’immagine le erano parsi tanto vispi e dolci, ora
traboccavano di crudeltà
e follia. Che lei odiasse o meno Mimi la digiprescelta ora non aveva
importanza, perché quella che aveva di fronte non era lei,
ne era sicura.
Qualcuno
prese a battere sulla porta d’ingresso.
-
Rumiko, che
è successo? Apri la
porta! – le giunse la voce di Yamato.
Ma lei lo
ignorò, concentrandosi sulla creatura che aveva di fronte e
tentando di
trattenere le energie che sentiva fluire via dal suo corpo.
Per la
prima volta notò che indossava una maglietta a maniche corte
e un paio di
jeans. Ai piedi aveva solo un paio di calze, rovinate e sudice come se
avesse
camminato scalza per tutta la città.
-
Rumiko!
– la chiamò ancora Yamato,
senza smettere di picchiare la porta d’ingresso.
Le aveva
offerto la mano destra, quella con cui l’aveva afferrata per
la gola poco
prima, sfondando il vetro. Ma solo ora s’accorse di quanto
sanguinasse,
lacerata quasi fino al gomito da una serie di tagli più o
meno profondi.
Qualche scheggia di vetro era rimasta piantata nella carne. Ma lei
sembrava non
accorgersene neppure.
-
Ho
capito… - disse infine, quasi tra
sé e sé.
-
Davvero?
– disse l’altra, deliziata,
inclinando il capo da un lato.
-
Sì…spiegami
solo una cosa… - la
guardò dritta negli occhi – come puoi saltare fino
al quarto piano di un
palazzo servendoti di un corpo umano? –
Il sorriso
dell’altra s’allargò.
-
Non sai quante
cose può fare un corpo
posseduto! – squittì allegra –
È tutta questione di suggestione! – disse,
puntandosi un dito alla tempia – Le emozioni umane sono
talmente volubili…un
attimo prima siete delle persone deliziose, ma è tutta
apparenza… basta poco
per far emergere il peggio di ognuno di voi. Bisogna solo saperlo
sfruttare… -
-
Così
come tu hai fatto con lei. –
-
Così
come io ho fatto con entrambe,
mia cara… - si leccò le labbra.
-
Che vuoi dire?
– Rumiko aggrottò le
sopracciglia.
-
Mimi
è solo una piccola parte del
progetto… diciamo che in tutto questo lei è stata
il mezzo per giungere fino a
te, che a tua volta sei chiave e custode. –
Ora
cominciava a non capire. Credeva che si trattasse di un digimon di tipo
virus
che s’era impossessato del corpo di quella digiprescelta. Di
solito però se ne
servivano principalmente come mezzo per accedere al mondo reale,
abbandonando
poi il corpo umano per aver maggiore libertà
d’azione.
La ragazza
posseduta sorrise crudelmente.
-
Allora non hai
capito chi sono... –
Come
faceva a leggerle nella mente? I digimon di tipo virus di solito non ne
erano
in grado.
-
Già,
di solito no… - le fece il verso
la falsa Mimi, quasi stesse ripetendo una filastrocca.
“ Un
digimon che agisce sulle menti delle persone… in grado di
leggerle e
manipolarle fino ad averne il controllo…ma
come…?”
-
Già,
come? –
Un
particolare attirò la sua attenzione: gli occhi della
ragazza compivano
movimenti appena percettibili, lenti e oscillanti. Quasi stesse
per…
“
Addormentarsi…”
L’altra
rise beffarda.
-
Ora hai capito
chi sono… -
-
No… -
quasi supplicò, la voce
improvvisamente piena di sconforto.
Rumiko
sentiva le forze abbandonarla sempre più. Tra poco sarebbe
certamente svenuta.
-
Oh,
sì che lo sai… coraggio, dillo… -
sibilò melliflua.
-
No… -
mormorò lei.
Avvertiva
la presenza del digimon oscuro farsi sempre più forte e
schiacciare la sua
volontà. I tonfi sulla porta d’ingresso si
facevano sempre più lontani. S’accasciò
a terra e il coltello le sfuggì di mano.
-
Qual
è il nostro nome? – si chinò su
di lei.
-
No… -
Strisciava
a terra, quasi contorcendosi nel tentativo di resistere alle parole del
digimon. Ma la sua mente cominciava a vacillare, avvolta dalla voce
crudele
come dalle spire di un serpente. Non riusciva più a
ragionare, ogni pensiero le
costava fatica. Non sentiva più la voce di Yamato
dall’altra parte della porta.
-
Il nostro
nome… - sibilò la creatura
– Dì il nostro nome… -
-
Alp…traumon…
-
Dai tempi
antichi, in qualsiasi civiltà, ogni magia o rito era
abbinato a delle formule
verbali, poiché erano queste a evocare incantesimi e poteri
mistici.
La parola
è sempre stata uno strumento potente e spesso molti
dimenticano quanto possa
essere pericolosa: dare un nome a un’idea può
conferirle non solo materialità,
ma anche vita.
Caffè
abbaiò disperatamente, vedendo il volto della sua padroncina
contorcersi in una
maschera di terrore.
Rumiko si
afferrò il capo tra le mani, agitandolo forsennatamente,
come se fosse sul
punto d’esplodere. Dagli occhi chiusi scendevano copiose
lacrime di dolore e la
mascella serrata faceva digrignare i denti, quasi stesse tentando di
non
gridare.
Sentiva
che qualcosa dentro di lei premeva per uscire, ma non
l’avrebbe mai permesso, a
costo di esplodere.
La falsa
Mimi le sorrise dolcemente, accarezzandole il volto con la mano
insanguinata.
-
È
inutile che ti opponi, Rumiko. Non
ne hai la forza. Coraggio… - le sussurrò suadente
– lascia andare… -
Ma non
ottenne l’effetto sperato, perchè la ragazza le
voltò le spalle, persistendo
nella sua lotta silenziosa.
-
Non ce la puoi
fare, cara… - tornò a
risuonare la voce zuccherosa – Quella cosa è
dentro di te. Per un anno ha
atteso in silenzio che giungesse questo momento e ora sta per
ricongiungersi
con la sua metà. Se tenterai d’impedirglielo ti
ucciderà. –
Rumiko
piangeva terrorizzata, mentre Caffè abbaiava come un pazzo.
La falsa
Mimi aggrottò le sopracciglia.
-
Perché
insisti? L’hai già fatto una
volta e a cosa è servito? – rise crudele
– Io sono ancora qui! Quanta gente
deve ancora morire perché tu capisca
l’inutilità della tua testardaggine? –
Crack. Il cuore di
Rumiko si spezzò.
Caffè
vide
la sua padroncina dilatare gli occhi e afflosciarsi a terra, inanimata
come una
bambola.
Dalla sua
bocca dischiusa cominciò a colare un liquido nero simile a
petrolio.
Il
cucciolo indietreggiò, mentre la macchia scura
s’espandeva sempre più sul
pavimento della cucina.
L’altra
ragazza sorrise estasiata, sedendosi su una sedia e poggiando il mento
sulle
mani, osservando rapita quello spettacolo inquietante. Non si accorse
perciò di
un rumore proveniente dall’ingresso.
Ma
Caffè
scattò fuori dalla cucina, andando ad abbaiare
disparatamente ai piedi di
Yamato.
Il ragazzo
vide il cucciolo venirgli incontro e lo seguì in fretta fino
alla cucina.
Ma appena
ebbe messo piede nella stanza s’immobilizzò.
-
Buonasera,
Yamato. – cinguettò Mimi,
senza voltarsi a guardarlo.
-
Mimi,
cosa…?! –
-
Sssh…
- si portò un dito alle labbra
lei – È da un anno che aspetto questo momento. Non
vorrai rovinarmelo! –
Yamato
allungò il collo oltre la ragazza seduta e scorse Rumiko.
-
RUMIKO!
– si slanciò verso di lei.
Ma un
corpo si frappose tra loro, facendolo finire contro la parete al fondo
della
stanza.
-
Non puoi
toccarla. –
Yamato
scosse il capo, stordito dal duro colpo.
-
Abbi ancora un
po’ di pazienza. –
sorrise allegramente Mimi – Ancora un paio di minuti e potrai
abbracciare il
suo corpo gelido. –
-
Mimi…
-
La ragazza
voltò il capo verso l’ingresso e
incrociò uno sguardo scuro e affranto.
-
Koushiro!
– squittì lei – Anche tu
qui, a cosa devo l’onore? –
-
Ero al telefono
con Yamato quando
Rumiko ha urlato… - lo sguardo del rosso si posò
sulla ragazza in mezzo alla
pozza di liquido nero.
-
Sei venuto anche
tu a soccorrerla? –
lo canzonò lei, ma il tono di voce era stridente, come
infastidito da qualcosa.
-
Ero sicuro che
ti avrei trovata qui.
–
Il suo
sguardo serio era impenetrabile. Lei non ribatté.
-
Cosa stai
facendo, Mimi… -
Non
sembrava una domanda, quanto un’affermazione, come se
già conoscesse la
risposta.
-
Sembra che tu
sappia già le mie
intenzioni. – si leccò le labbra lei,
avvicinandosi con fare provocante – Sei
talmente perspicace… -
-
Cosa ti sei
fatta alla mano? –
Le
sfiorò
il braccio ferito, ma lei lo ritrasse rapida.
-
Ti fa molto
male? – chiese Koushiro
con voce preoccupata.
-
Certo che no!
– rise lei – Io non
sento nulla di questo corpo! Né il caldo, né il
freddo, né… -
-
Lo so.
– rispose lui, gelido – Mi
stavo rivolgendo a Mimi. –
La
creatura vacillò.
Yamato
vide la ragazza aggrottare le sopracciglia e contrarre la mascella,
come se
fosse combattuta.
-
Mimi…
-
Lei
indietreggiò.
-
Stammi lontano,
Koushiro… - sibilò.
-
Dobbiamo curarti
quella mano, stai
perdendo molto sangue… -
-
NON TOCCARMI!
– strillò la creatura,
continuando a indietreggiare.
Lui non si
mosse.
-
Se tu non vuoi
non lo farò… - la
guardava dritto negli occhi – Ma ti prego, lascia che ti
aiuti… -
-
Non ho bisogno
del tuo aiuto! –
Mimi si
voltò a guardare Rumiko.
“
Manca
poco” pensò “il processo è
quasi ultimato, devo solo attendere un altro poco…”
Ma
qualcosa aveva preso a vacillare.
Mimi non
sapeva cosa le stava accadendo. Che fosse tutto solo un brutto sogno?
Eppure il
tocco di Koushiro le era sembrato tanto caldo e gentile quanto
reale…
Il suo
sguardo nocciola volò sull’espressione preoccupata
del rosso, poi su Yamato che
tentava di rialzarsi a fatica. Infine sul corpo immobile di Rumiko.
“ Che
sta
succedendo?”
Koushiro
vide la ragazza guardarsi attorno un attimo spaesata, come se solo in
quel momento
si accorgesse di cosa stesse accadendo. O meglio, di cosa avesse fatto.
Che stesse
recuperando il controllo delle sue azioni?
Cos’era
quel liquido nero che sgorgava dalla bocca di Rumiko? Mimi non ne aveva
la più
pallida idea. Sapeva solo che, qualunque cosa fosse, attraeva il suo
corpo come
una calamita un pezzo di metallo. Eppure non le piaceva, anzi, provava
un’istintiva ripugnanza per quella sostanza.
Koshiro
vide Mimi incamminarsi verso Rumiko. Ma sebbene le sue gambe
sembrassero
risolute, la testa continuava a voltarsi ora da una parte, ora
dall’altra, a
scatti, come se tentasse di liberarsi da una presa invisibile.
Era stata
lei. Non ricordava come fosse entrata in quella casa, né
come potesse trovarsi
ora in quella situazione, ma era sicura di esser stata lei a fare tutto
quello.
Aveva
aggredito Rumiko e poi Yamato, probabilmente giunto in suo soccorso.
“ Ma
perché?! Perché l’ho fatto?!”
“
Perché
tu la odi…”
Non si
voltò cercando chi avesse parlato. Conosceva ormai bene
quella voce, che da un
anno ormai le si rivolgeva in sogno.
“ Ma
io
non…” tentò di protestare “
Io non volevo questo…”
“
Volevi
vendicarti.” le venne rammentato “ Volevi
vendicarti dell’assassina che aveva
ucciso centinaia di persone innocenti.”
“
No…”
“
Volevi
vendicarti della digiprescelta che aveva commesso un crimine tanto
terribile.”
“ Ma
non
così…”
Sentì
la
voce misteriosa ridere, crudele come non l’aveva mai udita.
“ Sei
sicura che non era questo ciò che volevi?”
Mimi
esitò. Le parve di percepire quell’oscura presenza
sorridere.
“ No
che
non lo sei… Tu non sai cosa c’è dentro
di te. Sei tanto impegnata a mantenere
una bella facciata, a compiacere gli altri che non ti accorgi dei tuoi
stessi
desideri.”
“ Non
è
vero!” protestò.
“ Ah
no?
Allora dimmi, piccola Mimi, cosa vuoi?”
White
Foxmon aprì gli occhi.
Yamato si
sentiva impotente.
Non era
uno sciocco, sapeva che se si fosse avvicinato nuovamente a Rumiko
l’esito non
sarebbe stato più felice. Dunque cosa poteva fare per
aiutarla?
“
Probabilmente nulla…”
-
I-io…
- balbettò – non lo so… Io non
lo so cosa voglio… Io… -
Mimi non
aveva mai avuto grandi ideali e obiettivi di vita, a volte bastava un
nuovo
paio di scarpe per farla felice.
Cadde a
terra sulle ginocchia. Le parve di sentire una piccola fitta di dolore,
ma proveniente
dal petto, anziché dalle gambe.
-
Io…sono
così frivola e…vuota? –
Avrebbe
voluto urlarlo, ma il suo lamento le parve più debole di un
sussurro, tanto che
nessuno avrebbe potuto sentirlo.
Abbassò
il
capo, sconfitta, e lasciò che gli occhi le si riempissero di
calde lacrime di
disperazione. In quella cucina sconosciuta, circondata dal dolore,
l’amarezza e
la delusione causate dalle sue stesse azioni si sentì
più sola e miserabile che
mai. Le pareva di percepire il suo cuore sanguinare, mentre
l’oscura presenza
dentro di lei diventava sempre più forte e il suo corpo
sempre più debole. Le
forme diventavano sempre più sfocate mentre il buio scendeva
di nuovo sulla sua
vista.
Poi un
tocco gentile sul suo capo le fece sollevare il volto. Koushiro era
chino di
fronte a lei, lo sguardo caldo come un abbraccio e la bocca piegata nel
dolce
sorriso che riservava a poche persone, quelle per lui più
importanti.
-
Tu non sei
frivola, né vuota, Mimi… e
non è vero che non sai cosa vuoi. –
La sua
voce era vellutata e morbida e Mimi vi si aggrappò per non
ricadere nel buio in
cui quell’oscura presenza la stava nuovamente avvolgendo.
-
Tu sai
perfettamente cosa vuoi e
anche da parecchi anni! – il tono del rosso sembrava quasi
divertito – Vuoi
sposarti con un uomo bello e ricco, abitare in una villetta con
giardino dove
far giocare i vostri due bambini e il cane. Diventerai presidentessa di
qualche
club di signore, rappresentante del comitato genitori della scuola dei
tuoi
figli e una moglie modello che tuo marito sarà orgoglioso di
portare a ogni
ricevimento. –
-
M-ma a m-me
– balbettò tra i
singhiozzi – p-piacciono l-le scarpe… -
Koushiro
esitò e lei credette che la stesse giudicando una persona
superficiale. Invece scoppiò
a ridere.
-
Mimi, sei una
ragazza… a molte
ragazze piacciono le scarpe! Non c’è nulla di
male! –
-
M-ma…
-
-
Mimi –
le circondò il volto con le
mani – io ero un bambino che passava le sue giornate
attaccato al computer, che
faticava a parlare coi ragazzini della sua età e non aveva
amici. La cosa più
importante per me, esclusi i miei genitori, era una scatola di
microchip. Poi
ho conosciuto una ragazzina viziata a capricciosa ma con un cuore colmo
di
generosità e dolcezza. La digiprescelta della
Purezza… -
-
La Purezza…
- s’oscurò nuovamente lei, pensando a quanto poco
fosse azzeccata la sua
digipietra.
Ma lui non
le permise di abbassare nuovamente lo sguardo, fissando il suo negli
occhi
nocciola di lei.
-
Ai miei occhi
è sempre parsa la più
bella di tutte, così come lo sei sempre stata tu. –
Mimi
sgranò gli occhi.
-
La tua
sincerità, la tua purezza
d’animo hanno affascinato quel bambino solitario e chiuso in
se stesso. È
uscito dal suo guscio di silenzi per poterti stare accanto, per poter
vedere
con la tua stessa gioia il mondo che lo circondava. –
Mimi non
singhiozzava più, completamente rapita dalle parole di
Koushiro, la voce
malvagia nella sua mente ridotta a un eco lontano.
-
Tu non hai mai
avuto dubbi su ciò che
volevi, sul futuro che desideravi. Avevi già deciso perfino
l’abito che avresti
indossato per il tuo matrimonio! –
Lei
sorrise, ripensando agli scarabocchi che faceva da bambina e che un
giorno
aveva mostrato a Koushiro. Allora credeva che lui l’avrebbe
derisa per quella
sciocca idea, ma lui s’era invece dimostrato estremamente
serio, studiando con
attenzione i disegni e concludendo con un “starai
benissimo” che non aveva
nulla d’ironico.
-
Mimi…
- le accarezzò gentilmente il
volto lui – Non tutti sognano grandi gesta
d’altruismo per il mondo intero. Non
c’è nulla di male a desiderare la
semplicità di una vita felice e colma di
piccole gioie personali. Il fatto che un sogno non sia glorioso non
significa
che non sia importante. Gli uomini perseguono la felicità
individuale. Se desideri
lo stesso non significa che tu sia vuota o egoista, semplicemente
umana. –
-
Koushiro…
-
Mimi
esplose in un urlo di dolore. Koushiro la vide rotolarsi a terra,
reggendosi la
testa con le mani.
-
Mimi!
– la chiamò spaventato.
Che le
stava succedendo? Che quella cosa dentro di lei stesse riprendendo il
controllo
della sua mente e del suo corpo? Proprio ora che credeva di esser
riuscito di
far breccia dentro di lei…
-
Mimi!
– tentò di avvicinarsi – Non
dare ascolto a quella voce, non farti condizionare da quella presenza,
non è
reale, è solo… -
-
“Non
è reale”? –
sibilò
una voce crudele e gelida che nulla aveva a che fare con Mimi.
Con orrore
Koushiro vide la ragazza sollevare il capo ed esibire due iridi nere
circondate
da un bulbo sanguigno.
-
Io
sono più reale di quanto tu creda, Koushiro… e
anche meno paziente. - la bocca era
piegata in un sorriso
malvagio, che nulla aveva di rassicurante – Hai
parlato anche troppo per oggi. –
Con uno
scatto fulmineo si avventò sul digiprescelto, facendolo
schiantare a terra
alcuni metri più indietro.
Yamato
vide la creatura saltare addosso a Koushiro. Il movimento fu talmente
rapido
che quando se ne accorse Koushiro aveva già battuto la testa
sul pavimento.
Pregò
che
avesse semplicemente perso i sensi, mentre scattava più
veloce che poteva verso
Rumiko, approfittando della momentanea distrazione di Mimi.
Ma quando
la sfiorò la sentì gelida come un ghiacciolo.
Accostò le dita al suo collo: le
pulsazioni erano appena percettibili. Il suo cuore perse un battito.
“ No,
Rumiko, no…” la raccolse tra le sue braccia,
attento a non muoverla troppo,
quasi temesse che il suo corpo potesse spezzarsi.
Tremava
mentre le baciò le guance, attento a non toccare il liquido
nero che aveva
smesso di scorrere dalla sua bocca e s’era seccato sul suo
mento. Sentì
l’angoscia stringergli il cuore in una morsa.
“ Ti
prego, non te ne andare…io ho bisogno di
te…”
-
Allora
tienila, a me non serve più.
–
Yamato
alzò il capo e quasi si spaventò a vedere quegli
occhi sanguigni tanto vicini.
Istintivamente abbracciò Rumiko con più forza.
-
Umani… -
sibilò la creatura – Così
tumultuosi nelle loro passioni, così
pieni di sogni e illusioni…eppure così
fragili… -
Yamato
poteva sentire il suo alito gelido soffiargli sul collo e seppe che non
sarebbe
riuscito a sfuggirgli: era la fine.
Ma la
creatura si ritrasse, voltando il capo verso il salotto e annusando
l’aria.
Improvvisamente sembrava aver fretta.
Yamato la
vide immergere entrambe le mani nella pozza di melma nera. Per un
attimo si
immaginò il disgusto che avrebbe provato Mimi solo
all’idea di un simile gesto.
E mentre la creatura andava borbottando parole a lui incomprensibili,
sotto lo
sguardo sconvolto del biondo quella strana materia nera prese a
muoversi,
alzandosi e modellandosi in una creatura mostruosa.
Assomigliava
a un enorme cavallo nero dagli occhi bianchi e spettrali, quasi fosse
cieco. La
bocca era grande e irta di zanne, la criniera e la coda fiamme
terrificanti e
gli zoccoli circondati da lingue di fuoco. Braci ardenti ardevano nelle
sue
narici, crateri di vulcani pronti ad eruttare magma e fiamme.
Scalpitò
irrequieto e il fragore dei suoi zoccoli scosse l’intera
stanza. Urtò il tavolo
della cucina, che si rovesciò come fosse stato fatto di
carta e le sedie
vennero spezzate come stuzzicadenti. Yamato strinse al suo petto il
corpo
inerme di Rumiko per proteggerlo dalle schegge di legno.
Caffè aveva ripreso ad
abbaiare forsennatamente, senza però osare avvicinarsi alla
creatura infernale.
Dall’esterno
provenivano grida di terrore e le sirene delle volanti della polizia in
avvicinamento. Che fossero state quelle ad allarmare la creatura?
Yamato
vide Mimi sorridere e voltarsi verso il salotto.
-
Ben
ritrovata, White Foxmon, dormito bene?
–
Solo
allora il biondo s’accorse del digimon che era comparso nel
soggiorno. Una
volpe bianca dagli occhi di rubino li osservava in silenzio, o meglio
il suo sguardo
si spostava da Rumiko al cavallo demoniaco, a Mimi e poi di nuovo a
Rumiko. Sembrava
preoccupato per lei… e fremente di rabbia.
Yamato
ebbe un’intuizione: che si trattasse del suo digimon?
Il sorriso
crudele sul volto di Mimi s’allargò.
-
Con
permesso, io levo il disturbo.
–
Eseguì
un
inchino. Ma sotto lo sguardo scioccato di Yamato, Mimi restò
chinata e un volto
butterato e dagli occhi sanguigni si levò dal suo corpo.
Con un
balzo, l’orrendo troll uscì dal corpo della
ragazza, che cadde a terra priva di
sensi. Era alto poco più di un metro, gobbo e deforme. La
sua pelle era simile
a sabbia giallastra e tutta la sua piccola e malvagia persona era
avvolta da
stracci. In mano reggeva un bastone di legno marcescente, lungo forse
due metri
e nodoso almeno quanto lo era il suo proprietario.
Yamato era
insieme disgustato e terrorizzato da quella scena che in un solo modo
avrebbe
potuto definire: da incubo.
L’orrenda
creatura riportò lo sguardo si di lui, o meglio su Rumiko,
ma la volpe bianca
fu lesta a frapporsi tra loro.
Il troll
ghignò malignamente.
-
Con quanta
trepidazione ho atteso
questo momento… il momento della vendetta. – la
sua voce era distorta, come se
non provenisse da un punto solo – Ma sono di gusti
più raffinati di quanto tu
creda, White Foxmon. –
Il sorriso
crudele s’allargò, mentre la volpe rizzava il pelo
ringhiando minacciosa.
-
Non le
torcerò un solo capello, non
ne ho bisogno. Ormai il suo cuore s’è spezzato,
schiacciato dal terrore e
dall’angoscia, dal rimorso per ciò che lei stessa
ha provocato. Le pulsazioni
sono solo un’eco e presto anche quello si
spegnerà. Ecco la vendetta per me più
deliziosa: Rumiko si lascerà morire perché
disgustata dal sangue di innocenti
di cui s’è macchiata e tu, White Foxmon, sarai
costretta a sopravvivere e soffrire
per non esser stata in grado di salvarla. È questa la
peggiore delle pene per
un digimon prescelto… –
-
No… -
sussurrò quasi fra sé e sé
Yamato – Rumiko non morirà…lei non
merita di… -
-
Ne sei sicuro?
– gli si rivolse il
troll con voce melliflua –
Tu cosa sai di
quello che accadde realmente nella metropolitana di New York?
–
-
Non è
stata lei a provocare quella
strage. – gli rispose con convinzione.
-
Sembri molto
sicuro di ciò che dici.
– commentò l’altro.
-
Sua madre era
tra le vittime. –
-
Già,
che shock deve esser stato per
la povera Rumiko sapere di aver ucciso pure la sua cara mamma.
– recitò quello
in tono lamentoso – Capisco come mai sia fuggita in fretta e
furia da New York,
senza dare spiegazioni a nessuno. Capisco come mai sia tanto cambiata
da allora.
Capisco come mai non parli volentieri del suo passato persino con te
che tanto
ti sei aperto con lei… -
Yamato non
rispose: quella voce persuasiva aveva insinuato il dubbio dentro di lui.
Il troll
rise maligno, per poi balzare agilmente in groppa al gigantesco cavallo
nero.
La terrificante creatura nitrì e le pareti vennero
nuovamente scosse dalla
potenza dei suoi zoccoli. Poi balzò verso la finestra della
cucina.
Yamato
abbassò il capo, pronto a proteggersi dalla pioggia di vetro
e cemento. Ma
nulla accadde. Quando sollevò nuovamente il capo, la coppia
infernale era
scomparsa.
All’esterno
i richiami della gente s’erano fatti sempre più
insistenti e le sirene della
polizia quasi assordanti. Ma tutto si spense alle orecchie di Yamato
quando
accostò le dita al collo di Rumiko: il suo cuore aveva
smesso di battere.
Continua…
N.d.a:
Un
ringraziamento in particolare a lovegio92, che è stata tanto
gentile da
commentare subito i capitoli precedenti. Spero che la storia continui a
entusiasmarti e non temere per la tua coppia preferita…ho in
serbo ancora
qualcosa per loro!
Monalisasmile
|
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Capitolo 19 *** - ***
Capitolo 19
-
Yamato…
-
Il
ragazzo si riscosse solo in quel momento dallo stato di apatia in cui
era
scivolato. Quasi stupito, si accorse di esser ancora nella cucina
devastata dei
Kitamura. Koushiro e Mimi erano ancora stesi a terra, privi di sensi ma
apparentemente
in buone condizioni. Caffè uggiolava accanto alla sua
padroncina.
Il
biondo alzò il volto rigato di lacrime, trovandosi a poca
distanza da un muso
candido. Apatico, pensò che la digievoluzione di White
Foxmon era molto bella.
Più
grande del livello intermedio, aveva lo stesso manto candido, quasi
argentato,
e gli stessi occhi di rubino. Le sue code erano nove, folte e striate
alle
estremità da linee rosse simili a lingue di fuoco. Anche il
capo e le zampe
erano decorate dallo stesso motivo. Attorno al collo il pelo era
più folto.
A
Yamato ricordò le kitsune della mitologia giapponese, volpi
intelligenti e
magiche che con le loro nove code erano in grado di appiccare fuoco ad
intere
foreste. Ma al contrario delle creature ambigue della tradizione, gli
occhi
rossi del digimon che aveva di fronte gli trasmettevano un dolce tepore.
-
Yamato…
- si sentì nuovamente chiamare dal digimon –
lasciala. –
-
No…
- la strinse più forte al suo petto.
Solo
all’idea di separarsi da lei si sentiva perso. Quel corpo
gelido sembrava
diventato la sua ancora di salvezza, senza la quale sarebbe affogato
nel mare
di rimorso che aveva invaso il suo cuore.
Non
era stato in grado di salvarla. Non era stato in grado di fare nulla
per
aiutarla. Ma, soprattutto, non l’aveva mai realmente capita.
Avrebbe
preferito non dar retta alle parole di quel orrendo digimon-troll, ma
qualcosa
gli diceva che non aveva mentito, o almeno non del tutto. Il fatto che
Rumiko
fosse in qualche modo coinvolta nell’incidente di un anno fa
spiegava molte cose
sul suo comportamento, sulla sua ritrosia a parlare di sé e
del suo passato.
Solo
ora cominciava a rendersi conto dell’angoscia, del dolore,
del rimorso e degli
incubi che dovevano averla turbata. Il fatto di aver scavato con le sue
stesse
mani il vuoto che s’era creato non solo nella sua vita ma
anche in quella di
suo padre doveva esser stato un peso enorme, sebbene non
l’avesse fatto
intenzionalmente.
Perché
di questo era fermamente convinto: Rumiko non era
un’assassina. La sua Rumiko,
la sua sorridente, sensibile e coraggiosa Rumiko non avrebbe mai fatto
del male
a nessuno.
-
Yamato…
lasciala andare, per favore. –
La
voce della volpe era calda e vellutata e Yamato desiderò
lasciarsi cullare da
quel dolce suono e addormentarsi per sempre, dimenticando
l’angoscia e il
dolore.
Invece
strinse nuovamente a sé il corpo privo di vita di Rumiko.
-
No…
-
-
Per
favore, Yamato. –
-
Perché?
– sussurrò appena, senza guardare la volpe negli
occhi magnetici.
-
Perché
voglio stringerla anche io. –
Yamato
non se la sentiva di lasciarla andare, inconsciamente temeva di vederla
svanire
sotto i propri occhi. Ma sapeva che era giusto permettere che anche il
suo
digimon le desse l’ultimo saluto.
-
Io
l’amavo… l’amavo… - riprese a
singhiozzare, accarezzandole dolcemente le
guance.
-
Lo
so, Yamato… e te ne sono grata. L’hai resa molto
felice. –
-
No,
non è vero… Non sono stato in grado di capirla,
di consolarla, di salvarla… –
-
Ma
le sei stato accanto ed è questo ciò di cui lei
aveva bisogno: una persona
forte e sicura come te, che le facesse dimenticare, seppur per un
momento, le
sue angosce. Ma tu hai fatto di più. Tu le hai fatto
conoscere l’amore. –
-
Come
fai a dirlo? – alzò gli occhi bagnati di lacrime
sul digimon.
-
Lo
so, Yamato… Perché siamo una cosa
sola.
- rispose con
semplicità e sicurezza la
volpe.
Yamato
si asciugò le lacrime col dorso della mano, annuendo. Poi
ripulì la bocca e il
mento di Rumiko dai rimasugli del liquido nero con la manica della sua
felpa. E
la baciò.
Era
un ultimo bacio. Di quelli che sanno di lacrime e di dolore, di quelli
che
preannunciano un addio, di quelli che lasciano i cuori spezzati ma
pieni di bei
ricordi.
Si
scostò da lei, prendendo il cucciolo in braccio e
allontanandosi di qualche
passo per lasciare che il digimon si accostasse alla ragazza.
Il
cane si dimenava forsennatamente, restio quanto lui ad abbandonare la
sua
padroncina.
Sentendosi
straordinariamente vicino a quella piccola palla di pelo, la strinse
forte al
petto, tentando di calmarlo per calmare anche se stesso.
-
Buono
Caffè, buono… lasciamo che anche lei possa
salutarla, non dobbiamo esser
egoisti… ci sono altri che le vogliono bene, sai? Non siamo
gli unici ad amarla
tanto… -
Il
digimon si chinò su di lei e accostò il muso al
suo volto, strofinandolo
gentilmente a occhi chiusi. Le accarezzò in questo modo la
fronte, poi scese
sulla guancia, proseguì sul mento e poi tornò su,
chiudendo il cerchio.
Accadde
tutto in pochi secondi: il digimon aprì gli occhi e quello
che era stato un
cerchio immaginario sul volto di Rumiko
s’infiammò.
Yamato
cacciò un urlo, pronto a soccorrerla, ma il digimon si
frappose tra loro, le
nove code in fiamme e gli occhi di rubino luminosi come braci ardenti.
-
Che
stai facendo?! – le urlò il ragazzo.
-
La
porto con me. –
Poi
entrambe vennero avvolte dalle fiamme. E scomparvero.
-
RUMIKO!
– urlò al vuoto.
Fu
ancora la voce della volpe a rispondergli, un eco lontano a mala pena
percettibile.
-
Se
davvero la ami, allora abbi fiducia in lei, Yamato… -
-
Cosa?!
Che vuol dire?! Dove sei?! Dove la stai portando?! Ehiiii! –
Ma
questa volta non ottenne risposta.
Quando
Mimi aprì gli occhi fu quasi accecata dalla luce del neon
sulla sua testa.
Socchiuse nuovamente le palpebre, ancora intorpidita dalla prolungata
immobilità.
Non
le fu difficile indovinare dove si trovasse: l’odore di
disinfettante degli
ospedali era inconfondibile. Ma cos’era successo?
Perché si trovava lì?
Ruotò
il capo alla sua sinistra e vide che il letto da fianco al suo era
occupato da
Koushiro. Aveva una flebo al braccio e delle bende attorno al capo.
Improvvisamente
si ricordò di tutto e si voltò dalla parte
opposta, sconvolta: era stata lei a
ferirlo.
Solo
allora si accorse di Yamato, seduto in fondo alla stanza a braccia
conserte. La
stava guardando.
Subito
le tornò in mente ciò che aveva fatto anche a
lui. E a quella ragazza a cui lui
sembrava tenere così tanto, Rumiko…
Lo
vide alzarsi e dirigersi verso di lei. Ebbe paura di quello sguardo
penetrante
che conosceva da tanti anni e istintivamente nascose il capo sotto il
cuscino,
come una bambina terrorizzata dal severo rimprovero del genitore.
Yamato
si sedette sul bordo del suo letto e non la sfiorò neppure,
vedendola tremare
sotto le lenzuola.
La
paura di Mimi gli fece compassione.
Inizialmente
avrebbe voluto tartassarla di domande, finché non fosse
riuscito a capirci di
più in quella faccenda. Ma ora l’unica cosa che
gli venne in mente di chiederle
fu:
-
Stai
bene, Mimi? –
Lei
scoprì il volto e si meravigliò del sorriso
gentile e triste sul viso di
Yamato.
Le
salirono le lacrime agli occhi e si gettò tra le sue
braccia.
Lui
l’abbracciò gentilmente, accarezzandole il capo
per calmare i suoi singhiozzi.
Era
tornata la
Mimi
di sempre.
Quando
si fu calmata, la prescelta della Purezza si scostò dal
petto di Yamato,
asciugandosi le lacrime con una manica.
-
Ora,
Mimi – la guardò con gentile fermezza lui
– vuoi raccontarmi com’è successo?
–
-
Vuoi
dire come quella cosa… - esitò lei –
è entrata dentro di me? –
Il
biondo annuì.
-
Non
lo so… davvero, non ne ho idea… -
Si
sentiva in colpa per non essere in grado di dargli spiegazioni. Ma lui
non
parve demoralizzato.
-
Dimmi
tutto quello che sai, Mimi, tutto ciò che può
essere ricollegabile. –
Lei
lo guardò un attimo dubbiosa.
-
Credo…anzi,
sono sicura che sia cominciato tutto quella notte, la notte della
battaglia
nella metropolitana di New York. Sai, io ero là vicino
quando c’è stata
l’esplosione. Stavo tornando a casa dopo una festa a casa di
alcuni amici
quando è successo: la terra ha cominciato a tremare, intere
strade sono
sprofondate e alte fiamme si sono levate dalle profondità.
–
Yamato
la vide serrare i pugni.
-
La
gente urlava, gridava e piangeva, disperata, senza capire cosa stesse
accadendo. Ma io l’ho vista. –
-
Cosa?
–
-
Rumiko,
in sella al suo digimon-volpe, che emergeva dalle fiamme e fuggiva.
–
Lui
guardò quegli occhi nocciola pieni di rancore. E
cominciò a capire. Lentamente,
i pezzi del puzzle stavano andando al loro posto.
Si
alzò, infilando le mani in tasca e avvicinandosi alla
finestra.
-
E
da quando ti sei accorta di questa… presenza dentro di te?
–
-
Beh,
non saprei…all’inizio non mi ero nemmeno resa
conto che ci fosse qualcosa di
strano, sentivo solo delle voci, anzi dei deboli
sussurri…solo ogni tanto però…
-
-
Quando
sono cominciati quei sussurri? – insistette lui, tranquillo
ma deciso.
-
Credo
poco dopo quella notte… continuavo a sognare quei momenti, a
rivedere e
risentire il dolore di tutta quella gente… e lei, che
fuggiva da ciò che lei
stessa aveva fatto, come un’assassina con le mani macchiate
dal sangue di
innocenti! –
-
È
questo che ti sussurrava quella voce? Che lei era
un’assassina ignobile? –
Lei
non rispose, non ce n’era bisogno: la domanda di Yamato le
era parsa
evidentemente retorica.
Calò
un attimo di silenzio, in cui Mimi era convinta che lui avrebbe quanto
meno
protestato, dato che si trattava della sua ragazza.
-
Il
digimon che ti aveva posseduta voleva vendicarsi di Rumiko e del suo
digimon.
Ha fatto riferimento diverse volte agli eventi di quella notte nella
metropolitana… – commentò lui con
calma, come se stesse parlando più a se
stesso che a Mimi – Io credo che Rumiko stesse combattendo
contro di lui e che
l’esplosione sia stata solo un tragico incidente. –
Mimi
aprì la bocca per ribattere, ma un’occhiata di
Yamato la fece tacere.
-
Perché
non ci hai detto che a New York era comparso un digimon tanto
pericoloso? –
-
I-io…
io non… - balbettò lei, confusa per
l’improvviso cambio di argomento.
-
Dov’eravamo
noi mentre Rumiko combatteva contro
un nemico tanto potente? –
-
Io
non ne sapevo nulla, davvero! – protestò lei
– Altrimenti ve l’avrei detto di
sicuro! –
-
Com’è
possibile che tu non ne sapessi nulla?! – alzò un
poco il tono lui – Abiti o
non abiti in quella città?! –
-
Certo
che ci abito, appunto per questo ti dico che non è possibile
che vi fosse un
digimon nemico in circolazione e io non me ne fossi accorta! Come ti
è venuta
in mente una simile idea? –
Ma
lui parve ignorare la sua domanda, perso nel corso dei suoi pensieri.
-
Sfido
che lei ci odi… se fossimo stati lì avremmo forse
potuto evitare quella strage…
centinaia di persone innocenti sarebbero ancora vive… sua madre sarebbe ancora viva…
- disse fra sé e sé.
-
Yamato?
–
-
Mimi,
io credo che tu sia stata raggirata sin dall’inizio. Le tue
convinzioni, i tuoi
pensieri e probabilmente i tuoi stessi passi sono stati pilotati da
quel
digimon. –
-
C-cosa?
– corrugò la fronte lei.
-
Ti
ha tenuta lontana da lui per esser certo che nessuno di noi
interferisse coi
suoi piani, ma ti ha costretta ad assistere a ciò cui lui voleva che tu assistessi. Ti costringeva
a rivivere continuamente
quei momenti per far sì che quella dolorosa ferita non si
rimarginasse mai. Ti
ha convinta che la colpevole di tutto ciò fosse Rumiko, al
solo scopo di far
nascere in te rancore e desiderio di vendetta. –
Lei
distolse lo sguardo.
-
Dimmi,
Mimi, perché sei qui? Perché sei venuta qui in
fretta e furia senza preavviso?
Avevi tanta nostalgia di noi e della tua città natale da non
poter attendere
nemmeno che passassero le feste, non è vero? Sei saltata
sull’ultimo
sovraffollato aereo prima di Natale perché volevi
riabbracciarci, non è vero? –
Mimi
sentì gli occhi inumidirsi e abbassò il capo,
vergognosa.
-
La
verità è che le hai dato la caccia per molto
tempo, non è vero? Tenendoci
all’oscuro di tutto. E come un segugio, appena hai fiutato la
pista giusta ti
sei fiondata all’inseguimento della tua preda. –
Lei
tentava invano di trattenere le lacrime, ma già le sentiva
scorrere sulle sue
guance.
-
Possibile
che non te ne rendi conto? Possibile che tu non ti renda conto di quanto quella creatura ti stesse
controllando?! –
Le
si avvicinò, prendendola per le spalle. Ma lei tenne la
testa bassa,
continuando a piangere in silenzio.
-
Mimi,
quel digimon ti ha ingannata e usata! Ti ha costretta a tenere segrete
le tue
intenzioni e a mentire ai tuoi amici e compagni! Ti ha fatto lottare
contro di
me e contro Koushiro, che darebbe una mano per te! Ti ha convinta che
Rumiko fosse
un’assassina e che tu avessi tutte le ragioni per odiarla con
tutto il cuore!
Ma davvero era questo ciò che desideravi?! Davvero il tuo
rancore era tanto da
spingerti ad ucciderla?! –
Mimi
credette di svenire, cosa che avrebbe accolto con gioia. Invece quella
vertigine la fece solo ricadere nel letto, come un peso morto ma
perfettamente
cosciente.
Yamato
chinò il capo. Non avrebbe voluto dirglielo in questo modo.
Ma aveva perso il
suo abituale sangue freddo.
-
Non
è colpa tua… - le disse, sentendosi colpevole ma
senza guardarla – Eri
posseduta da quel digimon… -
Tuttavia
persino alle sue orecchie quelle parole erano prive di convinzione.
Erano
passate alcune ore da quando avevano lasciato quel appartamento per
esser
portati al pronto soccorso, eppure la ferita al cuore di Yamato non
aveva
ancora accennato a smettere di sanguinare.
Scuro
in volto, lasciò la stanza.
Si
sedette su una sedia lungo il corridoio, appoggiò la testa
al muro alle sue
spalle e volse lo sguardo agli spicchi di cielo incorniciati dalle
finestre di
fronte a lui. Aveva ripreso a nevicare e i suoni dall’esterno
gli parevano
ovattati.
Si
sentiva completamente privo d’energie, eppure avrebbe smosso
mari e monti se vi
fosse stata anche solo la più piccola possibilità
di stringere nuovamente a sé
la persona che amava.
“
Rumiko…”
Possibile
che se ne fosse andata veramente? Possibile che tra loro fosse tutto
finito
ancor prima di iniziare? Possibile che il loro amore non avesse mai
avuto futuro?
“
Possibile che sia tutto finito… così?”
Qualcosa
dentro di lui urlava un disperato dissenso. Qualcosa che lui temeva
rispondesse
al nome di “disperazione”. Sì, non
poteva che esser la disperazione a farlo
ancora sperare…
“
Eppure il suo digimon ha detto di aver fiducia in
lei…”
Non
aveva ancora avuto modo di pensarci seriamente, ma ora prese a
interrogarsi
sullo strano comportamento della volpe.
Non
si chiese come mai gli avesse mentito. Entrambi sapevano bene che
Yamato non si
sarebbe mai allontanato dal suo corpo se avesse saputo che sarebbe
scomparsa
sotto ai suoi occhi.
Ora,
a mente fredda, riusciva anche a capire come mai non gli avesse detto
quali
fossero le sue intenzioni: non voleva illuderlo inutilmente. Si sa, le
false
speranze possono fare tremendamente male, specialmente a un cuore
infranto.
Tuttavia
si chiese cosa mai potesse fare il digimon-volpe per salvarla. Dubitava
fortemente che esistesse un digimon in grado di resuscitare i morti. E
Rumiko
era morta, l’aveva constatato lui stesso.
“
E ora cosa dico a suo padre?”
Già,
perché la polizia non aveva trovato segni di Rumiko:
né sangue né bruciature
che potessero indicare il suo coinvolgimento in quella scena. Prima o
poi il
padre avrebbe però denunciato la sua scomparsa.
E
Yamato, che sapeva la verità, cosa avrebbe dovuto dirgli?
Che sua figlia era
stata uccisa da una ragazza posseduta da un mostro digitale e che il
suo
cadavere era stato trafugato dal suo stesso digimon, le cui intenzioni
erano
tanto assurde quanto misteriose? O avrebbe dovuto tacere, limitandosi a
esprimere il suo cordoglio per il presunto rapimento della sua unica e
preziosa
figlia?
Si
prese il capo tra le mani, disperato e pieno di dubbi.
-
YAMATO!
–
Il
ragazzo alzò a mala pena il capo al sopraggiungere di suo
padre e dei suoi due
migliori amici.
Un
pensiero irrilevante gli passò per la mente:
“
Alla fine era destino che Taichi e Sora stessero
insieme…forse era anche
destino che io e Rumiko venissimo separati così
presto…”
Il
padre si chinò di fronte a lui, poggiandogli entrambe le
mani sulle spalle. Il
suo volto gli parve più vecchio di quanto ricordasse.
“
Quanto faccio preoccupare il mio vecchio…”
-
Yamato,
stai bene? –
La
sua voce apprensiva e lo sguardo preoccupato degli amici lo fecero
crollare
definitivamente.
-
No…
- disse a bassa voce, abbandonando la testa sconfitto – No,
non sto affatto
bene… -
-
Cos’è
successo? – parlò ancora suo padre.
-
Siamo
stati attaccati da un digimon… -
-
Un
digimon?! – esclamò Taichi – Ma non
è possibile, non abbiamo rilevato nulla di…
-
-
S’era
impossessato di Mimi… - lo interruppe Yamato, cupo
– Credo che si sia servito
di lei per un anno intero, al solo scopo di esser condotto qua e
potersi
vendicare… di Rumiko. –
-
Di
Rumiko? – s’intromise questa volta Sora.
-
È
stata lei a sconfiggerlo… un anno fa a New York… -
-
Aspetta,
vuoi dire che Rumiko è una digiprescelta?! –
Yamato
annuì con rabbia alla domanda di Taichi. Domande e domande,
mai una risposta!
Seguì
un attimo di silenzio, in cui tutti, probabilmente, si stavano ponendo
la
stessa domanda.
Fu
Sora a formularla.
-
E
lei… dov’è ora? –
Yamato
rise senza gioia.
-
Vorrei
saperlo anche io, sai? Vorrei proprio saperlo… -
-
Ma
sta bene, vero? –
Questa
volta lui non rispose.
-
Yamato…
-
La
voce di Sora tremava, ma lui non la guardò in volto. Non se
la sentiva.
Silenzio.
Un
rumore di passi. Qualcuno si sedette accanto a lui.
-
Allora,
Yamato, cos’è successo a mia figlia? –
Il
tono di Hiroshi Kitamura era stato tranquillo e gentile come una
carezza.
Yamato
spalancò gli occhi per la sorpresa. Alzò lo
sguardo sull’uomo seduto al suo
fianco e sentì le lacrime rigargli le guance.
Improvvisamente
gli parve un gesto ignobile mentire a quel uomo sulla scomparsa di sua
figlia.
Gli avrebbe raccontato tutto, a costo di rivelargli cose che una
persona
normale non dovrebbe sapere, a costo di venir odiato da quel uomo
gentile per
non essere stato in grado di salvare la sua unica figlia.
Koushiro
aprì gli occhi e voltò il capo alla sua destra.
Nel letto accanto al suo, Mimi
singhiozzava silenziosamente, abbracciandosi le ginocchia come una
bimba
spaventata.
Il
rosso avrebbe voluto abbracciarla e rincuorarla, ma non poteva muoversi
dal
letto.
-
Mimi…
- la chiamò dolcemente.
Lei
sembrò fermarsi un attimo, come in attesa.
-
Mimi,
non piangere… -
La
ragazza si alzò e azzerò la distanza tra loro,
tuffandosi nel suo caldo
abbraccio.
Pianse
forte, appoggiata al suo petto. Koushiro la cullò
dolcemente, stringendola
forte a sé, felice di aver ritrovato la persona per lui
più importante: la sua
amata Mimi.
Yamato
s’abbandonò contro lo schienale della seggiola e
voltò il capo verso suo padre
e gli amici, che avevano deciso di attendere a rispettosa distanza
dalla
coppia. Il signor Ishida annuì al figlio in segno
d’approvazione: poteva esser
fiero del coraggio che aveva appena dimostrato. Eppure lui si sentiva
semplicemente svuotato di ogni emozione.
Attese
ancora qualche minuto, concedendo al signor Kitamura il tempo di
realizzare
quanto gli era appena stato riferito.
Lasciò
che il suo sguardo azzurro si perdesse tra i fiocchi di neve che
continuavano a
scendere, mentre l’alba stentava a sorgere su Tokyo.
Pensò a quanto triste
sarebbe stata quell’aurora, a quanto vuoto e dolore avrebbe
portato il nuovo
giorno.
I
minuti passavano lenti, nel silenzio quasi assoluto. Con la coda
dell’occhio
vide Taichi chinarsi su Sora e bisbigliarle qualcosa
all’orecchio. Lei annuì
debolmente, tamponandosi gli occhi bagnati di lacrime con un
fazzoletto.
Ipotizzò che il prescelto del Coraggio di fosse offerto di
andare a prenderle
qualcosa di caldo.
Ora
che ci pensava, quel corridoio era piuttosto freddo. Notò
per la prima volta la
rarefatta nuvoletta che compariva a ogni sua espirazione, per svanire
pochi
istanti dopo.
Si
concentrò su quel particolare. Tentò di contare
il tempo che restava sospesa
per aria, ma dovette presto arrendersi. Allora immaginò di
poterla afferrare,
di poterla stringere nel pugno e inumidire il palmo della sua mano.
Fantasticò
di poterla seguire, librandosi sempre più in alto,
più leggero dell’aria.
Immaginò di potersi dissolvere come quella nuvoletta di
vapore.
-
Hai
detto che è…svanita? –
Dapprima
non riuscì a collegare un soggetto a quella voce. Poi si
riscosse, voltandosi
stupito verso il signor Kitamura.
-
Sì…
- esitò un attimo, perplesso – è
scomparsa nel nulla senza lasciare la minima
traccia… -
-
Insieme
a Kitsunemon. –
-
Come,
scusi? –
-
Kitsunemon,
l’evoluzione del suo digimon. –
Il
signor Kitamura s’alzò in piedi, avvicinandosi
alla finestra pensieroso. Yamato
lo seguì con lo sguardo.
-
Lei
dunque sapeva che Rumiko era una digiprescelta, conosceva il suo
digimon… -
-
No,
non la conoscevo. – gli rispose l’uomo, dandogli le
spalle – Dunque è così che
vi fate chiamare, voi ragazzi “speciali”:
digiprescelti… -
-
Come
fa lei a… -
-
Si
tratta pur sempre di mia figlia, no? – gli sorrise amaramente
– Chi credi che
rappresenti la foto che lei ti ha regalato per Natale? –
Yamato
ripensò alla figura dai lunghi capelli in cima al
grattacielo. Allo strano
copricapo con due punte sulla cima, al lungo bastone in una mano.
-
Quella
è il suo digimon evoluto, non è vero? –
chiese il ragazzo.
-
Sì
e no… quella foto rappresenta Rumiko e il suo digimon, come
una cosa sola… -
parlò quasi fra sé e sé
l’uomo.
-
Che
significa? –
-
Significa
che non so quanto sia forte il legame tra te e il tuo digimon, ma il
loro senza
dubbio lo è molto… Dimmi, Kitsunemon ti ha forse
detto qualcosa prima di
scomparire? –
-
Sì…
- esitò un attimo lui, incerto se era il caso di illudere
quel uomo – Mi ha
detto di avere fiducia in Rumiko… -
Il
signor Kitamura sorrise benevolo.
-
Allora
dobbiamo fidarci… di entrambe. – si
voltò a guardare l’orizzonte – Sono
sicuro
che torneranno. –
Yamato
lo guardò sbigottito: possibile che la sua fiducia fosse
davvero incrollabile?
Aggrottò
la fronte, distogliendo lo sguardo da quel volto colmo di speranza, e
strinse i
pugni con rabbia.
“
Io però non ci riesco! Rumiko è morta e nessuno
può resuscitare i morti!”
In
un luogo difficilmente accessibile, eppure sorprendentemente vicino,
Kitsunemon
posò il corpo senza vita di Rumiko sulla sponda di un lago
immoto, i cui
confini si perdevano nella nebbia.
S’accucciò
accanto alla ragazza, poggiando il capo sulle zampe anteriori e
fissando il
lago in un punto indefinito nella nebbia.
Nessuno
avrebbe saputo dire se fosse stato giorno o notte, ma la cosa non era
rilevante. Ammesso che il tempo in quel luogo esistesse, probabilmente
non vi
era sole che sorgesse o luna che illuminasse la notte.
D’altronde nell’Oblivion
World non viveva nessuno e non vi era nulla, al di fuori della nebbia e
di quel
lago immoto: lo Specchio del Limbo.
Era
in quel luogo indefinito che venivano raccolte le anime di coloro che
ancora non
s’erano completamente staccati dal mondo reale, vuoi
perché con delle faccende
ancora in sospeso, vuoi perché morti impropriamente.
Lo
Specchio era una finestra ambigua su quel luogo oscuro e brumoso. Ma
occorreva
una grande forza di volontà e un profondo attaccamento alla
vita perché
un’anima riuscisse a emergere dalla sua superficie. E non
solo.
Kitsunemon
strinse i denti, frustrata. Nessun morto poteva tornare alla vita come
niente
fosse, nemmeno se il suo corpo era perfettamente integro: una volta
toccati
dalla gelida mano della Morte non si poteva far marcia indietro. Non
senza un
adeguato rimborso. E la Morte,
si sa, è tutt’altro che generosa.
Chinò
di nuovo il capo sulle zampe, accarezzando il corpo di Rumiko con le
sue folte
code. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per lei.
Avrebbe
pagato qualunque prezzo per rivederla sorridere felice.
Perché la felicità di
lei era la sua. Perché senza la sua prescelta, la sua
migliore amica, la sua
anima gemella, lei non aveva motivo di vivere. Perché lei
era la sua ragione di
esistere.
Dunque
l’avrebbe riportata in vita e poi condotta nel suo mondo, da
suo padre e dai
suoi amici. O sarebbe morta nel tentativo e nessuno l’avrebbe
mai saputo.
D’altronde,
quello era il Mondo dell’Oblio in cui tutto si perdeva nella
nebbia.
Continua…
N.d.a
Kitsunemon
è un digimon di mio invenzione. Il nome è poco
originale, ma ci tenevo a
sottolineare la differenza tra lo stadio intermedio e quello campione.
Come
accennato nel capitolo, il riferimento è la kitsune della
mitologia giapponese.
Si tratta di una volpe ambigua e intelligente, magica e in grado di
entrare nei
sogni delle persone. Spesso gioca dei brutti tiri agli uomini,
tramutandosi in
bellissima donna e seducendo le sue vittime per poi abbandonarli al
loro
destino quando questi meno se l’aspettano, a volte persino
alla morte. Le sue
nove code possono incendiarsi e appiccare fuoco alle foreste o alle
abitazioni
degli uomini.
La
mia Kitsunemon però non è malvagia: possiede i
poteri delle kitsune giapponesi,
non il loro temperamento!
Arrivederci
al prossimo capitolo…e grazie della recensione lovegio92!
Monalisasmile
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Capitolo 20 *** - ***
Capitolo
20
Mimi
aveva smesso di
singhiozzare.
Ma
non aveva ancora
proferito parola. Accoccolata nel caldo abbraccio di Koushiro, avrebbe
voluto
restare in silenzio ancora a lungo, assaporando la pace di quei momenti.
-
Mimi…
- la chiamò lui, delicatamente – Vuoi raccontarmi
cos’è successo? –
Lei
non rispose,
ostinandosi a non guardarlo in faccia.
Lui
attese ancora qualche
momento, poi parlò di nuovo: era arrivato il tempo delle
spiegazioni e di
affrontare la realtà, qualunque essa fosse, che lei lo
volesse o meno.
-
Come
siamo finiti qua? – insistette il rosso – Che ne
è stato di quella presenza che
ti aveva monopolizzata? –
La
vide stringere le
lenzuola tra i pugni. Tuttavia non demorse.
-
Dove
sono Yamato e Rumiko? –
Mimi
sussultò. E Koushiro
seppe di aver centrato il bersaglio.
Non
avrebbe voluto metterla
alle strette, né esser per lei causa di turbamento. Ma la
questione era
semplicemente troppo importante per poter esser accantonata.
-
Mimi,
rispondimi per fav… -
-
Yamato
era qui poco tempo prima che tu ti svegliassi – lo interruppe
in fretta lei –
Sta bene… -
-
E
Rumiko? –
Silenzio.
-
Rumiko
come sta? –
Ancora
silenzio. Lei aveva
di nuovo distolto lo sguardo e per quanto lui cercasse i suoi occhi
nocciola,
questi gli sfuggivano continuamente.
Ma
Koushiro era paziente e
tenne il tono fermo e pacato.
-
Mimi,
che cos’è successo a Rumiko? –
Ebbe
l’impressione che fosse
stata scossa da un brivido.
-
Mimi…
-
-
È
morta. –
Era
stato un sussurro. Ma
bastò a far calare un pesante silenzio.
Koushiro
ripensò all’ultima
volta che aveva scorto la ragazza, stesa sul freddo pavimento della sua
cucina,
pallida e apparentemente svenuta. Del liquido nero usciva dalla sua
bocca
socchiusa, spandendosi in una pozza disgustosa che non lasciava
presagire nulla
di buono.
Cos’era
successo? Com’era
potuto accadere? Chi…?
Quasi
gli avesse letto il
pensiero, Mimi parlò di nuovo.
-
Sono
stata io…l’ho uccisa… -
Silenzio.
Yamato
distese le braccia,
stiracchiando i muscoli indolenziti. Era stanco, ma sapeva che una
volta
tornato a casa non sarebbe riuscito a dormire sonni tranquilli dopo
quanto
aveva visto quella sera. Suo padre invece si era offerto di ospitare il
signor
Kitamura e caffè, insistendo che sarebbero stati ospiti
più che graditi fin
tanto che l’appartamento fosse stato inagibile a causa dei
danni. Con un’occhiata
d’intesa, Yamato aveva intuito che il motivo principale di
tanta solerzia da
parte del suo vecchio fosse un altro: tenere d’occhio un
amico che aveva subito
un fortissimo trauma per evitare che facesse qualche stupidaggine, a
dispetto
delle apparenze.
Si
passò una mano tra i
capelli, ripensando al volto di quell’uomo: sfinito e
afflitto, ma con un
sorriso speranzoso appena accennato.
“
Non so proprio cosa
pensare…” scosse il capo mestamente “
Che stesse sragionando? Che avesse
bisogno d’illudersi? Che sapesse qualcosa che noi non
sappiamo?”
Aveva
passato la notte in
bianco a farsi domande, chiedendosi ripetutamente se quella speranza
fosse solo
follia, se tutto ciò non fosse altro che un incubo, se non
sarebbe impazzito
anche lui a breve.
Si
ricordò di aver
adocchiato una terrazza accessibile dal corridoio
dell’ospedale, così vi si
diresse con passo strascicato, sperando che l’aria frizzante
del mattino lo
rinvigorisse. Abbassò la maniglia e aprì la porta
di servizio, ritrovandosi
all’esterno. Socchiuse gli occhi e inspirò a pieni
polmoni. Un brivido di irrequietezza
gli percorse la schiena e Yamato riaprì gli occhi di scatto.
L’aria
era immota. Non una
brezza scuoteva le chiome degli alberi, silenziosi giganti immobili
come
statue. Non si udiva il cinguettio di un uccello.
La
città intera pareva in
attesa di qualcosa e, Yamato se lo sentiva fin nelle ossa, si trattava
di
qualcosa di fondamentale. Si guardò attorno in cerca di una
risposta,
avvertendo l’ansia impossessarsi del suo petto. Eppure tutto
era avvolto nel
silenzio, le strade deserte, le insegne dei negozi
lampeggianti…
Un
pensiero gli attraversò
la mente e Yamato portò lo sguardo all’orologio:
le 10.00 di mattina.
Come
mai non vi era
traffico per le strade? Come mai i negozi non avevano ancora tirato su
le
serrande? Come mai non si udiva il cinguettio degli uccelli? Ma
soprattutto… come
mai era ancora buio?
Si
voltò verso Est, ma non
vi era traccia di un bagliore luminoso: il sole non era sorto.
Una
coppia di passi
frettolosi lungo i corridoi dell’ospedale annunciò
a Taichi e Sora l’arrivo di
Daisuke e Mei.
Si
arrestarono di fronte ai
ragazzi, poggiando le mani sulle ginocchia e chinando le teste per
riprendere
fiato.
Per
un attimo la rossa si
chiese come i due fossero già venuti a conoscenza di quanto
fosse successo a
Rumiko, ma subito il suo sguardo si addolcì e i suoi occhi
si riempirono di
lacrime di commozione. Daisuke era molto legato alla ragazza, ma la
prontezza
con cui persino Mei era accorsa era semplicemente…
-
L-La
città non si sveglia! – interruppe i suoi pensieri
Daisuke.
-
Come?
– Taichi aggrottò la fronte.
-
È
come ti ho detto, Tai! – fece una pausa per riprendere fiato
il moretto – Fuori
è ancora notte, le strade sono praticamente deserte, gli
abitanti stanno ancora
tutti dormendo! –
-
Ma
che Diavolo… -
Taichi
lanciò un’occhiata
al suo orologio da polso. Le 10.20 di mattina. Portò lo
sguardo alla finestra e
si accorse che il giovane digiprescelto aveva ragione:
all’esterno tutto era
ancora avvolto nell’oscurità. I lampioni
spandevano la loro pallida luce su
strade deserte.
-
Tai…
- il sussurro appena udibile di Sora lo spinse a riportare la sua
attenzione
verso i presenti.
-
Come
sapevate che eravamo qua? – si rivolse di nuovo al ragazzo.
-
Ho
fatto un giro di telefonate appena mi sono accorto che c’era
qualcosa che non
andava…l’unico ad aver risposto è stato
Yamato. Mi ha detto che eravate
all’ospedale e di raggiungervi subito… -
-
E
hai portato anche Mei. – constatò Taichi in tono
piatto, ma il suo sguardo su
Daisuke era di rimprovero.
La
biondina si scaldò.
-
Sì,
ci sono anche io, qualche problema?! –
-
Sì
Mei, se finirai per essere coinvolta in faccende
pericolose…- le rispose
Taichi, senza però staccare lo sguardo dal moretto a capo
chino.
-
Daisuke
mi ha raccontato tutto, non avete più segreti per me!
– alzò il mento lei.
-
Ah
sì? – sollevò un sopracciglio il
prescelto del Coraggio.
-
Certo!
E sono sicura che finché ci sarà Daisuke
l’Impavido accanto a me, nessun mostro
digitale potrà farmi del male! –
ribatté lei con fierezza.
L’interessato
arrossì
violentemente e voltò il capo con fare casuale.
-
Daisuke
l’Impavido
eh? – rise Taichi, afferrandolo per la collottola come un
micetto dispettoso.
-
I-impavido
è un sinonimo di coraggioso – tentò di
divincolarsi il ragazzo – e dato che io
sono il…ehm, un digiprescelto del Coraggio… -
-
Beh
sarà il caso che più tardi io e il grande eroe
scambiamo due parole
sull’utilità della riservatezza per quanto
riguarda un certo tipo di
informazioni. -
-
V-va
bene Tai! – si liberò della presa il moretto
– Ma ora posso sapere una cosa? –
-
Spara,
grande eroe impavido! – si lasciò andare su una
sedia con un sospiro sconsolato
l’altro.
-
Come
mai tu e Sora siete all’ospedale? E
dov’è Yamato? –
Taichi
si voltò verso la
rossa ed entrambi sgranarono gli occhi.
Il
prescelto del Coraggio
scattò immediatamente in piedi e si diresse a grandi falcate
verso la terrazza,
tallonato dalla ragazza. Spinse con forza la porta di servizio, che si
spalancò
andando a rimbalzare rumorosamente sulla parete esterna
dell’edificio. Per
terra giaceva un cellulare. Di Yamato nemmeno l’ombra.
Taichi
raccolse l’oggetto e
si passò una mano tra i capelli, sfinito.
-
Dove
sarà mai andato? – si rivolse al cielo brumoso che
minacciava un’altra
nevicata.
Non
gli capitava spesso di
preoccuparsi per il suo migliore amico: da quando si conoscevano era
piuttosto
il biondo, con il suo sangue freddo e buon senso, a doverlo sempre
tirare fuori
dai guai. Perché quello avventato, che si lasciava
trasportare dai turbamenti e
dalle emozioni era sempre stato lui.
Tuttavia
da qualche tempo a
quella parte Yamato era cambiato, lasciando trasparire lati di se
stesso che
aveva sempre accuratamente celato dentro di sé. Era
diventato più passionale e
suscettibile, più impulsivo e schietto nel manifestare i
propri sentimenti. Ma
ora che l’artefice di questa trasformazione se
n’era andata e Taichi poteva
solo figurarsi come l’amico potesse sentirsi.
“
Anzi, probabilmente sono
ben lontano da riuscire a immaginarlo… L’ha vista
morire… e non ha potuto fare
nulla per salvarla.”
Yamato
era sempre stato
perfettamente in grado di difendersi dagli attacchi esterni, verbali o
fisici
che fossero. Ma Taichi temeva che non sarebbe stato altrettanto pronto
a
proteggersi dai sensi di colpa e dall’angoscia profonda che
egli stesso stava
infliggendo al proprio cuore.
-
Non
fare cavolate, Matt… - bisbigliò tra
sé e sé.
Una
mano tiepida intrecciò
le proprie dita alle sue, rassicurante.
-
Sono
sicura che Yamato ce la farà… è forte.
– lo raggiunse la dolce voce di Sora.
-
Lo
so… - la cinse tra le sue braccia, regalandole uno dei suoi
migliori sorrisi
d’incoraggiamento – Yamato è sempre
stato un duro, supererà anche questa. –
Ma
nonostante le sue
parole, il sorriso della rossa era sofferente e i suoi occhi umidi
minacciavano
di riempirsi nuovamente di lacrime.
-
E
noi Taichi? Noi ce la faremo? –
Il
sorriso del ragazzo si
addolcì mentre si chinava a baciarla sulla fronte.
-
Ehm,
spiacente d’interrompere, ma abbiamo una città da
buttare giù dal letto! –
Taichi
sbuffò per l’entrata
in scena decisamente fuori luogo di Mei. Mani sui fianchi ed
espressione decisa,
la biondina li stava rimproverando con lo sguardo, affiancata da un
imbarazzato
Daisuke.
-
Complimenti
Dai, hai trovato una rompiscatole di prima categoria. –
-
Beh,
non eravate voi i prescelti?!
Allora
fate qualcosa! –
-
Già,
quasi dimenticavo che hai deciso di spiattellarle tutto riguardo le
nostre
faccende private senza dirci
nulla! –
-
Se
per questo – alzò di nuovo il mento sfrontatamente
lei – dovreste ancora
spiegarci come mai siete tutti all’ospedale! Non è
stato divertente correr… -
-
Yamato
era qua con voi? – la interruppe Daisuke.
Fu
Sora a parlare,
avvicinandosi al moretto.
-
Sì
Dai, era uscito su questa terrazza per prendere un po’
d’aria… Ma evidentemente
ha sentito il bisogno di allontanarsi per starsene un po’ per
conto suo, sai
com’è fatto… -
-
È
successo qualcosa? Qualcuno si è fatto male? –
corrugò la fronte il ragazzo.
Non
ottenne risposta. La
rossa abbassò lo sguardo, mentre Taichi si fece scuro in
volto.
Daisuke
fece passare lo
sguardo dall’uno all’altro, turbato, poi un
pensiero terribile si affacciò
nella sua mente.
-
Dov’è
Rumiko? Mi pare di aver intravisto suo padre lungo i
corridoi… –
Le
spalle di Sora
sobbalzarono appena, ma il movimento non gli sfuggì e
l’espressione del ragazzo
divenne angosciata.
-
Le
è capitato qualcosa, non è vero? È
ricoverata nella stanza davanti la quale vi
abbiamo trovati, non è vero? –
-
In
quella stanza sono ricoverati Mimi e Koushiro… - gli rispose
debolmente Sora,
senza però alzare lo sguardo su di lui.
-
Mimi?!
– s’intromise Mei – Quella
Mimi?! –
lanciò un’occhiata significativa a Daisuke.
Taichi
aggrottò la fronte:
non gli risultava che le due ragazze si fossero mai incontrate.
-
La
conosci, Mei? - volle sapere.
-
Beh,
non esattamente… - la biondina distolse lo sguardo da un
ancora scioccato
Daisuke per portarlo sull’altro prescelto – Ieri
pomeriggio Dai l’ha scorta tra
la folla e l’ha voluta seguire per salutarla dicendo che era
una sua vecchia
amica… ma l’abbiamo persa di vista
quand’è saltata sul tetto di un palazzo di cinque piani! –
Il
ragazzo si scambiò
un’occhiata eloquente con Sora: quei due erano fortunati ad
essere ancora vivi.
-
N-non
sembrate sorpresi… - balbettò
un’esterrefatta Mei.
-
Effettivamente
no, Mei. – le rispose Taichi, serio e pensieroso –
In ogni caso la
Mimi ricoverata in quella
stanza non è esattamente la
stessa
che avete visto voi. –
-
C-che
significa? –
Taichi
ebbe un attimo di
compassione per la biondina: ricordava la sensazione di trovarsi
catapultati in
un film di fantascienza in cui niente pareva avere un nesso logico.
Sebbene Mei
si trovasse ancora nella sua città, circondata da persone
che conosceva, le
circostanze rendevano la situazione persino più tragica di
quella da loro
affrontata anni fa: se non altro, l’avventura dei prescelti
non era cominciata
con un lutto.
Il
ragazzo sospirò.
-
Temo
che le sorprese per te non siano ancora finite, Mei. – le
rivolse un sorriso stanco
– Anzi, ho la netta sensazione che stai per ritrovarti
intrappolata in un incubo…
-
Mei
rabbrividì e gli altri
si fecero cupi in volto.
Nessuno
di loro poteva
immaginare quanto le parole di Taichi si sarebbero rivelate veritiere.
La
neve cominciò a cadere
in morbidi fiocchi, che avvolgevano nella loro luminosa coltre candida
il
paesaggio buio. Yamato levò lo sguardo verso il cielo,
lasciando che i ricordi
della notte di Natale invadessero la sua mente, trafiggendogli il cuore.
Inspirò
a pieni polmoni,
godendo del freddo che gli pungeva le guance, e accese i fari della
moto.
Ormai
erano le 11.00 di
mattina, le luci dei lampioni che costeggiavano le strade si stavano
spegnendo.
Eppure il sole non era ancora sorto e i cittadini rimanevano avvolti
nel sonno.
Aveva telefonato sia a casa che al cellulare di sua madre e di Takeru
non
appena ricevuta la chiamata di un agitatissimo Daisuke. Ma non
ottenendo alcuna
risposta, non aveva fatto un secondo tentativo: se erano avvolti nello
stesso
sonno profondo in cui erano avviluppati gli altri cittadini dubitava
fortemente
che la suoneria di un cellulare avrebbe potuto svegliarli.
S’infilò
il casco e diede
gas al motore, sfrecciando a tutta velocità nel cortile
condominiale e poi
nella strada deserta.
Ignorò
ogni precedenza o
semaforo rosso, mentre sentiva crescere dentro di sé
l’adrenalina. Si sfilò il
casco, lasciando che il vento gli schiaffeggiasse con arroganza il
volto,
rubando le lacrime che avevano preso a sgorgare dagli occhi socchiusi.
Che il
mondo osservasse pure quella dimostrazione di debolezza, che gli
rubasse
l’orgoglio e il suo proverbiale buon senso! Chissà
che il vento non sarebbe
riuscito a strappargli via anche i pensieri e con essi i ricordi di
quegli
ultimi mesi…
Un
suono attirò la sua
attenzione mentre attraversava a tutta velocità
l’ennesimo incrocio: il clacson
assordante di un camion. Yamato riportò le mani sul manubrio
appena in tempo
per sterzare bruscamente. Evitò il veicolo, ma la
motocicletta non s’arrestò,
roteando impazzita. Le gomme fumavano a causa dell’azione dei
freni e per un
attimo il biondo venne avvolto in una nuvola di fumo, mentre un solo
pensiero
si affacciò cristallino nella sua mente: se solo non si
fosse tolto il casco…
Poi
quella trottola
impazzita s’arrestò contro quella che il ragazzo
ipotizzò essere una balaustra.
Sebbene la velocità fosse ormai ridotta, il contraccolpo fu
violento e Yamato
venne scagliato sul marciapiede ricoperto da un sottile strato di neve.
Si
contorse nella neve: ogni
centimetro del corpo gli doleva e gli girava la testa. L’eco
di una voce
giungeva alle sue orecchie, ma Yamato non riuscì ad
afferrarne le parole.
Si
sollevò, mettendosi faticosamente
a quattro zampe. Aveva la vista annebbiata, ma riuscì
ugualmente a mettere a
fuoco la macchia scarlatta che s’allargava sulla neve. Ancora
una volta
rimpianse di essersi tolto il casco.
Per
un attimo gli sovvenne
alla mente l’espressione accigliata di Rumiko mentre
redarguiva il padre. Il
suo tono era severo, ma dal suo sguardo trasparivano affetto e
preoccupazione.
Immaginò di trovarsela di fronte in quel momento, circondata
dai fiocchi di
neve che turbinavano nel vento, avvolta in quello stesso maglione
candido e
troppo grande in cui l’aveva vista avviluppata una mattina
d’inverno a casa
sua. Incurante dei capelli che le schiaffeggiavano il volto, lei si
chinava
verso di lui, lo sguardo crucciato e il labbro sporgente come quando si
offendeva per qualcosa di poco carino che lui le aveva detto. Lo
guardava
dritto negli occhi e lui si perdeva nelle sue iridi viola e profonde.
-
Hai
fatto una cosa davvero stupida, Yamato. Non farlo più.
–
Senza
staccare lo sguardo
da quella visione, il ragazzo si sedette goffamente, poggiando una mano
nella
neve dietro la schiena per meglio sostenere il peso del corpo ancora
scoordinato. Si portò l’altra mano alla fronte,
rilevando l’origine del sangue.
Osservò
inebetito le sue
dita macchiate, ma quando rialzò lo sguardo lei era
scomparsa. Rimase un attimo
fermo, mentre avvertiva una presenza accanto a sé, questa
volta decisamente
reale, che tentava di attirare la sua attenzione per sincerarsi delle
sue
condizioni.
Poi
gli angoli della bocca
di Yamato si piegarono all’insù e il ragazzo
scoppiò in una risata.
“
Hai ragione, Rumiko, ho
fatto una cosa davvero stupida. Non lo farò
più.”
L’uomo
scosse il capo,
rassegnato: quel ragazzo aveva preso davvero una bella botta.
-
Ehi,
ragazzo! Ti senti bene? – gli chiese nuovamente.
Questa
volta il giovane si
voltò a guardarlo. Aveva smesso di ridere, ma nei suoi occhi
azzurri brillava
una strana luce, che, insieme al rivolo di sangue che gli scorreva
lungo la
tempia, gli conferiva un’espressione decisamente
agghiacciante.
Dovette
attendere un attimo
per riceve risposta, come se il biondo dovesse ancora riuscire a
realizzare la
sua presenza. Poi quella strana espressione svanì dal suo
volto e sembrò
ricordarsi nuovamente cosa fosse successo e in che condizioni si
trovasse.
Riportò lo sguardo accigliato a fissare la macchia di sangue
sulla sua mano e
quella che segnava il punto in cui aveva perso i sensi.
Infine
rialzò lo sguardo
sull’uomo di fronte a lui. Il camionista lo scrutò
in volto e seppe che aveva
riacquistato lucidità.
-
Direi
che sono stato meglio… - gli rispose il ragazzo.
L’uomo
sospirò di sollievo.
-
Meno
male, quando ti ho visto in quella pozza di sangue e privo di sensi ho
temuto…
-
-
Come,
scusi? – si accigliò il giovane.
-
Beh,
non ti muovevi, non aprivi gli occhi, eri freddo come un pezzo di
ghiaccio,
così ho cominciato a temere il peggio… -
-
Ero
privo di sensi… - disse tra sé e sé il
giovane.
-
Sì
è così, ragazzo. – gli
spiegò l’uomo, vedendolo pensieroso –
Poi
improvvisamente hai cominciato a muoverti, ad occhi socchiusi, quasi
fossi in
trance! Ti sei tirato su, ti sei toccato la ferita, tenevi il volto
alzato
verso il cielo quasi stessi guardando qualcuno. Poco dopo hai aperto
gli occhi
e… beh, sei scoppiato a ridere. –
Yamato
guardò l’espressione
perplessa dell’uomo e sorrise leggermente.
-
Devo
esserle sembrato svitato eh? –
L’altro
si strinse nelle
spalle.
-
Onestamente
sì. –
Il
biondo annuì,
apprezzando la schiettezza di quell’uomo. Si tirò
in piedi, aiutato dalle
braccia forti del camionista.
-
Sicuro
di farcela, ragazzo? –
-
Non
si preoccupi…sono stato peggio. –
Ed
era vero: il dolore
lancinante agli arti e la testa pulsante non erano nulla in confronto a
quanto
il suo cuore aveva patito fino a poco prima. Si sorprese nel constatare
che la
caduta aveva alleviato le sue sofferenze emotive. Ma forse era ancora
stordito
per l’incidente.
-
Mi
tolga ancora una curiosità… - si fermò
il biondo, rendendosi conto di non
sapere ancora il nome dell’uomo.
-
Masahiro.
– rispose l’altro, asciutto.
-
Per
quanto sono rimasto svenuto, Masahiro? –
L’uomo
si prese qualche
secondo per pensarci.
-
Direi
all’incirca un quarto d’ora, forse venti minuti.
–
-
Ho
capito… - commentò l’altro a bassa
voce, mentre la sua mente aveva ripreso a
ponderare.
-
Ora
però vorrei che fossi tu a togliermi una
curiosità… –
-
Yamato.
–
-
Bene,
Yamato… Vorresti spiegarmi dove credevi di andare a quella
velocità, senza
casco e per giunta ignorando i semafori? –
Anche
lui si prese qualche
secondo per rispondere.
-
Credo
che volessi raggiungere una persona a me molto cara… - disse
infine, con un
filo di voce, quasi stesse parlando a se stesso anziché con
l’uomo di fronte a
lui – Ma sai qual è la cosa buffa di tutto
ciò, Masahiro? –
-
No,
proprio non ci arrivo. – alzò un sopracciglio lui.
-
Che
quando finalmente l’ho raggiunta, lei mi ha sgridato!
–
Masahiro
scosse il capo di
fronte al sorriso sereno sebbene contrito di Yamato: quel ragazzo aveva
dato
una testata davvero colossale. O forse era semplicemente matto.
Continua…
N.d.a:
Questo
capitolo è dedicato
a lovegio92, fedele lettrice di questa storia che mi ha dato la gioia
di
leggere il suo commento dopo la mia lunga interruzione. Grazie!
Rileggendo
i capitoli
precedenti mi sono imbattuta in errori di battitura e qualche
ripetizione che
andrò pian piano a correggere. A tal proposito spero che i
lettori di questa
storia vogliano commentarla anche per aiutarmi a migliorarla
là dove ci sono
state delle sviste o degli errori grammaticali.
Oltre
a questo sono
ovviamente molto curiosa di conoscere le vostre impressioni e opinioni
sui
personaggi e le vicende narrate!
Sperando
di riuscire ad
appassionarvi sempre più a questa storia
Monalisasmile
|
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Capitolo 21 *** - ***
Capitolo
21
-
YAMATO!
Che Diavolo hai combinato?! –
Lui si sedette
su una sedia libera
accanto al letto di un esterrefatto Koushiro, ignorando deliberatamente
le
proteste di Taichi per la striscia di sangue raggrumato che gli
delineava la
tempia. Masahiro restò in piedi accanto a lui, come una
silenziosa guardia del
corpo.
-
Ti
devo parlare, Koushiro. –
L’uomo
si era inizialmente offerto di
accompagnarlo all’ospedale perché il giovane fosse
visitato, caricando la moto
malandata nel container e aiutando il biondo a issarsi nel posto
passeggeri
accanto al suo. Aveva sbirciato incuriosito il ragazzo, ma non aveva
posto
ulteriori domande riguardo il motivo della sua bravata: dubitava che
avrebbe
avuto ulteriori chiarimenti, per il momento.
Tra i due era
calato un pesante
silenzio, finché Masahiro non l’aveva interrotto
cambiando argomento.
-
Non
voglio sembrarti ficcanaso, Yamato… - aveva esordito, senza
guardarlo – Ma hai
idea di quello che sta accadendo in questa città? –
Gli
lanciò un’occhiata fugace: la sua
espressione si era fatta nuovamente meditabonda. Dunque il ragazzo
sapeva
qualcosa.
-
Sembra
di stare in una città fantasma. –
proseguì imperterrito il camionista, ma in
tono pacato – Dove sono finiti tutti gli abitanti? –
-
Dormono.
–
La risposta
concisa lo fece voltare
ad occhi sgranati.
-
Tutti?! –
-
Quasi…
- sembrò parlare più a se stesso Yamato, quasi
stesse ragionando ad alta voce –
Coloro che da quel momento non si sono coricati devono essere ancora
svegli… -
-
Che
vuoi dire, ragazzo? Quale momento? –
-
Non
lo so. – si lasciò andare sullo schienale,
frustrato – Non ne sono sicuro. Ma
credo che prima, quando ho perso i sensi, stavo per fare la loro stessa
fine. –
-
Ammetto
che tutto ciò non mi è molto chiaro. –
Yamato si
voltò a guardarlo, provando
un briciolo di compassione per quell’uomo semplice che si
trovava catapultato
in una situazione a lui del tutto aliena. Ripensò a tutte le
volte che i
digimon avevano fatto la loro comparsa in quel mondo, scombussolando
l’esistenza
di centinaia di persone. Persone ignare di quanto stava accadendo
intorno a
loro, del pericolo che correvano, di chi li minacciasse e
perché. Eppure quello
era il loro mondo e quelle che
venivano scombussolate erano le loro vite.
Riportò
il suo sguardo su Masahiro,
che guidava silenzioso e concentrato per le strade buie di Tokyo. Si
era levato
il giubbotto imbottito, rivelando le braccia forti e muscolose che non
avevano
faticato troppo a issare la moto nel camion. Anche da seduto superava
Yamato di
un paio di decine di centimetri, eppure il giovane non avvertiva la sua
gigantesca mole come una minaccia. Forse perché
l’aveva aiutato, forse perché
non aveva fatto ulteriori domande sull’accaduto, il giovane
si sentiva a suo
agio con lui. Spiò i lineamenti marcati ma non rozzi del suo
volto, soffermandosi
sugli occhi azzurri, trasparenti come due pozze d’acqua
cristallina. Si
soffermò su quelle iridi e sull’espressione seria
del loro sguardo. E seppe di
potersi fidare di lui.
-
Masahiro…
Vorresti sapere cosa sta accadendo? –
Il camionista si
voltò a guardarlo,
colpito dall’espressione grave e lo sguardo penetrante del
giovane. Era
estremamente serio e l’uomo annuì.
-
Sicuro?
Ti avverto: potrebbe essere molto pericoloso avere a che fare con tutto
ciò. –
indicò la città buia e silenziosa con un gesto
stanco della mano – E una volta
che vi sarai entrato non so cosa potrebbe capitarti, di sicuro la tua
vita non
sarebbe più la stessa. –
Masahiro
sembrò pensarci un attimo,
lo sguardo perso sull’asfalto che scorreva di fronte a
sé. Poi parlò, la voce
ridotta a un sussurro, ma carica di energia.
-
Io
non ho famiglia, Yamato. Mi sono presentato senza il mio cognome
perché non ho
mai conosciuto i miei genitori. Sono orfano da quando avevo quattro
anni. Non
ho ricordi più remoti. –
Fece una pausa.
-
Vivo
la mia vita senza pensare al domani, guido questo camion in giro per il
Giappone e questo mi è sempre bastato. Ho visto posti
meravigliosi, conosciuto
persone incredibili…ma questo
–
accennò brevemente al paesaggio tenebroso – supera
qualsiasi cosa. –
Si
voltò verso il biondo e sorrise,
rivelando un dente dorato, che sfavillò nella penombra.
-
Ho
idea che ci scapperebbe una bella avventura e non voglio lasciarmela
sfuggire!
E poi…- gli ammiccò, col sorriso da squalo
– mi sembri un tipo in gamba,
Yamato. Anche se forse non del tutto a posto… - fece roteare
l’indice accanto
alla tempia.
Il biondo
scoppiò a ridere.
-
E
non ti preoccupa doverti affidare a un ragazzo svalvolato? –
-
Francamente
– rispose l’altro con fare serissimo – mi
preoccupa di più non poterlo tenere
sott’occhio. –
La risata di
entrambi squarciò il
silenzio lugubre della città.
-
Un’ultima
cosa, ragazzo. –
-
Dimmi,
Masahiro. – si voltò a guardarlo il biondo,
interpretando il suo tono
improvvisamente serio come il preludio per una nuova battuta.
-
Riguardo
il tuo fantastico volo dalla moto… - aggrottò la
fronte l’uomo – Hai fatto una
cosa davvero stupida. Non farlo più. –
-
D-d’accordo…
-
Ma nella sua
mente risuonò l’eco di
un altro rimprovero: la voce era diversa, ma le parole uguali.
Yamato aveva
appena terminato di
raccontare a Koushiro quanto gli era accaduto, tra lo sgomento
generale. Solo
Masahiro era rimasto impassibile.
Il rosso non
l’aveva interrotto,
ascoltandolo a tratti sorpreso, a tratti rabbuiato.
-
Fammi
capire bene – intervenne quando l’amico ebbe smesso
di parlare – credi di
esserti trovato nello stesso stato degli altri cittadini
per… -
-
Un
quarto d’ora circa. –
-
Un
quarto d’ora… - ragionò ad alta vice
Koushiro, meditabondo – E poi di essere
riuscito a svegliarti da solo?
–
Yamato
incassò il colpo, senza che
nulla trapelasse sul suo volto. Non distolse lo sguardo: Koushiro era
sempre
stato sveglio, sapeva che si sarebbe accorto che il racconto fosse
incompleto.
Ma non aveva intenzione di raccontare loro della visione di Rumiko che
aveva
avuto. Prima avrebbe dovuto darsi delle risposte…da solo.
Perciò
ritorse la domanda contro lo
stesso rosso.
-
E
tu, Koushiro,
come hai fatto a svegliarti? –
Sapeva la
risposta, ma l’occhiata
fugace che l’amico lanciò a Mimi gliene dette la
conferma. Sorrise scaltro
davanti all’imbarazzo del giovane: era sempre stato un libro
aperto.
-
Ma
quello che più mi incuriosisce è – si
rivolse alla ragazza – come Mimi
ci sia riuscita. –
-
C-che
vuoi dire? – balbettò lei, perplessa.
-
Ce
l’hai fatta da sola o hai avuto una sorta di
“aiutino”? –
-
Non
capisco cosa tu voglia dire… - corrugò la fronte.
Ed era vero.
Mimi non
riusciva a capire dove
volesse andare a parare Yamato. Lei non aveva sentito né
visto nulla di strano.
Per la prima volta da tanto tempo era stata avvolta in un sogno senza
sogni, si
era potuta lasciare andare a un piacevole torpore, in cui niente e
nessuno
poteva disturbarla.
Ad un tratto,
semplicemente, si era
risvegliata. Perché si ostinavano a chiedere spiegazioni a lei, quando c’era una sfilza di
medici che avrebbero potuto dar
loro delle spiegazioni scientifiche in merito?
-
Mimi…
- le si rivolse Koushiro, in tono decisamente più gentile e
comprensivo del
biondo – Yamato voleva sapere se anche tu, come noi, hai
avuta una sorta di… -
sospirò, come sconfitto – visione. –
Lo sguardo della
ragazza s’addolcì e
afferrò una delle mani del rosso tra le sue, senza vergogna.
Vide l’imbarazzo
dipingersi sul volto del giovane, ma questo anziché
indispettirla la intenerì
ulteriormente. Il suo Koushiro, che sempre si preoccupava per
lei…per un attimo
si chiese quale visione potesse averlo svegliato, se veramente il
motivo era
stato quello. Ma immediatamente la risposta le fu chiara: probabilmente
quel
pensiero era l’ennesima prova della sua vanità,
tuttavia aveva la netta
impressione di sapere chi l’avesse riportato alla
realtà.
Sorrise di gioia
e fu tentata di
gettargli le braccia al collo, invece si limitò a
bisbigliare:
-
Sono
felice di averti riportato indietro. -
In risposta la
presa sulla sua mano
si rafforzò leggermente. Lo vide sorridere, poi
l’espressione della castana
tornò seria e si rivolse nuovamente a Yamato.
-
In
ogni caso posso assicurarti che non ho visto né sentito
assolutamente nulla.
Semplicemente, a un certo punto mi sono risvegliata. –
Poteva
comprendere il risentimento
del ragazzo nei suoi confronti, ma non era disposta a farsi maltrattare
in
eterno.
Yamato
annuì e si rivolse all’uomo
che aveva portato con sé in ospedale.
-
Tu
che ne pensi? –
I presenti
rimasero un attimo
sorpresi dalla familiarità che sembrava avere con quello
sconosciuto, persino
il padre del ragazzo restò un attimo interdetto: Yamato non
era tipo da
chiedere aiuto.
Lo sconosciuto
parve pensarci un
attimo, scrutando Mimi con aria meditabonda. La ragazza si
sentì arrossire
d’imbarazzo, sotto quello sguardo di ghiaccio che pareva
volerle scavare
dentro, e si voltò indispettita.
Infine
l’uomo ruppe il silenzio in
cui era rimasto avvolto fino a quel momento.
-
Se
la tua amica ha dovuto convivere con quella creatura per molto tempo,
può darsi
che ora sia immune dal suo potere… - abbassò lo
sguardo sul biondo, che lo
ascoltava attentamente – D’altronde è
ciò che il corpo umano tende a fare anche
nei confronti delle malattie, o no? Quando l’organismo viene
attaccato dai
virus, il sistema immunitario tenta di sviluppare una
“cura” con cui passare al
contrattacco, anche se magari ciò richiede un po’
di tempo… -
-
Stai
cercando di insinuare che sono infetta da qualche morbo
ripugnante?! – sibilò Mimi, disgustata.
Koushiro
intervenne a sostegno
dell’uomo, con grande disappunto di Mimi.
-
Effettivamente
non è una teoria da escludere… -
ragionò, accarezzandosi il mento, per poi
rivolgersi alla castana – Mimi, pensaci,
nell’appartamento dei Kitamura tu sei
riuscita a liberarti dalla morsa di quell’essere. –
-
Perché
c’eri tu, Koushiro… -
-
Sì
– annuì lui, afferrandole entrambi le mani
– Forse non ci saresti riuscita
senza un aiuto dall’esterno, ma io non sono stato che un
imput, la “cura” era
già dentro di te, l’avevi sviluppata tu stessa,
col tempo… -
-
Ma
non sono riuscita a liberarmi di quel mostro finché non
è stato lui ad
andarsene! – protestò lei – E
cura o non cura, mi ha comunque usata a proprio piacimento! –
Il pensiero di
quanto aveva fatto la
invase nuovamente e la ragazza rabbrividì, questa volta
inorridita da se
stessa.
-
Mimi…
- le accarezzò una guancia il rosso, gentile – Si
era impossessato di te,
quella creatura viveva dentro di
te.
Tutto il suo potere era concentrato nel tuo corpo, lo stesso potere che
ora,
distribuito in uno spazio molto più vasto, ha fatto
addormentare un’intera
città! –
-
In
altre parole? – piagnucolò lei: non era mai stata
una scheggia nelle
conclusioni.
-
In
altre parole – Koushiro addolcì ulteriormente il
tono di voce – tu ora dovresti
essere immune al sonno anomalo in cui sta costringendo gli altri
abitanti della
città, poiché la sua intensità
è nulla
in confronto a quella che hai dovuto sopportare nell’ultimo
anno. –
Lei
annuì e si accoccolò accanto al
ragazzo, rassicurata: Koushiro aveva sempre una spiegazione per tutto.
Fu Yamato a
infrangere il silenzio.
-
Dunque
– riprese con voce decisa – siamo tutti
d’accordo che sia stato quel digimon a far
addormentare tutta la città? –
-
Direi
di sì… - si grattò il capo Taichi.
-
E
siamo tutti d’accordo che nessuno di noi dovrà
farsi prendere dal sonno finché
non avremo trovato una soluzione a questa situazione? –
sondò con lo sguardo i
presenti.
Tutti annuirono,
scuri in volto.
Per un attimo
Yamato si soffermò su
suo padre e sul signor Kitamura: parevano entrambi davvero stanchi. Il
padre di
Rumiko, in particolare, sembrava che non desiderasse altro che
lasciarsi andare
a un sonno eterno, sfinito e sconfortato dagli ultimi eventi. Eppure
era ancora
là, in piedi accanto al signor Ishida, con un debole
sfavillio di speranza
degli occhi.
Fino a poche ore
fa Yamato non
avrebbe retto il peso di quello sguardo, ma ora lo ricambiò:
forse per la
visione che l’aveva risvegliato, forse per la botta alla
testa, adesso anche
lui voleva credere che Rumiko sarebbe tornata.
-
Yamato…
-
Fu la voce di
Mei a riportarlo alla
realtà. Si voltò a guardare la biondina
titubante, gli occhi rossi e gonfi di
pianto. Lo sguardo del prescelto si addolcì leggermente, di
fronte al dolore
della ragazza per la scomparsa di Rumiko. Lasciò che il suo
sguardo si
soffermasse anche su Daisuke, seduto in un angolo poco distante, scuro
in volto
e con le guance rigate di lacrime che non si era curato di cancellare.
-
Dimmi,
Mei. –
-
C-credi
che riusciremo a riportare il giorno? I-io comincio ad avere paura di
tutto
questo buio… -
Yamato si diede
mentalmente
dell’idiota. Si era scordato di un altro aspetto
fondamentale: il sole. Lo
sconforto si rimpadronì dei presenti e il silenzio
calò pesante. Se anche
fossero riusciti a svegliare gli abitanti della città, se
anche fossero
riusciti a scovare il digimon artefice di tutto ciò e a
sconfiggerlo, chi
garantiva che il sole sarebbe sorto nuovamente?
Infine fu Taichi
a interromperlo.
-
Bene,
abbiamo due problemi cui pensare: come svegliare gli abitanti e come
far
sorgere nuovamente il sole. – sentenziò
– Direi che non abbiamo tempo da perdere!
– concluse ammiccando.
A tutti fu
chiaro, ancora una volta,
come mai era sempre stato lui il “capo” del gruppo.
E si misero all’opera.
-
Ah,
Matt, riguardo il tuo incidente in moto –Taichi gli
posò una mano sulla spalla,
guardandolo dritto negli occhi con fare improvvisamente serio
– Hai fatto una
cosa davvero stupida. Non farlo più. –
Yamato lo
guardò ad occhi sgranati,
poi scosse il capo e si defilò.
Fecero una buona
provvista di caffé,
bibite energetiche e quant’altro poteva tenerli svegli.
Camminando per i
corridoi dell’ospedale avevano potuto verificare la loro
ipotesi: tutti coloro
che si addormentavano non potevano più esser svegliati. I
medici rimasti in
piedi si unirono alla loro causa, poiché giunti alla
medesima conclusione,
senza tuttavia individuarne una ragione plausibile. L’allarme
venne lanciato
nella città, risuonando come un eco squillante tra le pareti
buie e silenziose
degli edifici. Tutti coloro che ancora non erano caduti nel sonno
profondo
vennero invitati ad unirsi ai superstiti presso l’ospedale,
avvertendo
contemporaneamente del pericolo che l’assopimento comportava.
L’ospedale
divenne il quartier
generale dei superstiti, in totale alcune centinaia, tra uomini, donne
e
bambini, tutti terrorizzati e preoccupati per la sorte dei loro cari.
Vennero mandati
diversi S.O.S. alle
città vicine, ma nessuno parve giungere a destinazione:
Tokyo era completamente
isolata. Uscire dalla metropoli era impossibile: una spessa coltre di
nubi
aveva oscurato totalmente il cielo e un muro di nebbia aveva circondato
la
città. Coloro che avevano tentato di oltrepassarla erano
sempre tornati
indietro, raccontando di terrificanti visioni che uscivano dalla
foschia e
facevano rizzare i capelli.
Dopo tre giorni
la situazione era
ancora stazionaria: nessuno si era svegliato, nessuno era riuscito a
fuggire
dalla città e lo sconforto dilagava per i corridoi
dell’ospedale. Una ventina
di persone aveva ceduto al sonno, andando ad infoltire le fila dei
Dormienti.
Così erano stati chiamati i cittadini placidamente sdraiati
nei loro letti,
apparentemente privi di vita, gelidi e immobili come statue, non fosse
stato
per il lento alzarsi e abbassarsi del petto.
Al quarto
giorno, un nuovo problema
si presentò agli Svegli: la convivenza. L’ansia e
la stanchezza presto si
trasformarono in irrequietezza, che li faceva litigare gli uni con gli
altri,
sfociando in certi casi anche in azioni violente. Alcuni poliziotti
tentavano
di sedare i conflitti, i medici si adoperavano per curare i feriti, ma
a tutti
era chiaro che quella situazione non sarebbe stata sopportabile ancora
a lungo.
Koushiro aveva
aperto un portale su
Digiworld, prendendo atto di una cosa sconcertante: i digimon dei
prescelti
addormentati erano avvolti in un sonno profondo, da cui era stato
impossibile svegliarli.
Meravigliato, aveva chiesto spiegazioni a Tentomon.
-
Evidentemente
– gli spiegò il digimon dalle sembianze di
scarabeo – quello che è stato
gettato sui concittadini non è un semplice sonno. –
-
Che
vuoi dire? – aveva corrugato la fronte il ragazzo, seduto sul
bordo del letto
d’ospedale, circondato dagli amici prescelti, i rispettivi
digimon, Masahiro e
i padri di Yamato e Rumiko.
-
Tra
un prescelto e il suo digimon non vi è solo un legame di
amicizia, Koushiro…
c’è molto, molto di più… -
parve in difficoltà il coleottero – Non
è facile
spiegarlo, per noi è una cosa naturale,
non abbiamo bisogno di dargli una spiegazione perché lo
capiamo istintivamente. Ma credo
voi lo
chiamereste legame spirituale o
qualcosa del genere. –
Koushiro
annuì: effettivamente
c’erano sempre stati diversi punti oscuri e incomprensibili a
proposito del
legame che li univa.
-
Immagino
sia stato questo legame spirituale a far sì che voi vi
digievolveste solo in
nostra presenza… -
-
Esattamente!
– gioì Tentomon, fiero del suo amico: Koushiro era
sempre stato sveglio.
-
Per
questo erano le nostre emozioni a permettervi di digievolvere,
suppongo… -
Il coleottero
annuì.
-
E
le digipietre e tutto quell’armamentario? –
Fu Yamato a
rispondergli, dal fondo
della stanza.
-
Erano
delle chiavi, dei catalizzatori delle nostre emozioni. Probabilmente
anche
delle “prove” per testare le nostre
capacità. –
Koushiro lo
guardò un attimo confuso.
-
Detta
così sembra che qualcuno volesse metterci alla prova,
mettendoci degli ostacoli
sul percorso apposta per… -
-
Per
renderci più forti. – concluse il biondo,
spassionato.
-
Ma
a che scopo? –
Yamato
sollevò le spalle.
-
Io
questo non lo so. Ma qualcun altro forse sì. –
-
Chi?
– gli si accostò Gabumon, interessato
dall’intuizione che doveva aver avuto il
suo prescelto.
-
Gennai.
–
Il volto senza
tempo si materializzò
di fronte a loro e sorrise attraverso lo schermo del pc di Koushiro.
Stranamente, quel gesto solitamente sereno e rassicurante, era velato
di
amarezza.
-
Salve,
ragazzi. –
-
Salve,
Gennai. – gli rispose Koushiro, un poco imbarazzato
– Ehm, Yamato aveva urgenza
di parlarti. Ha delle domande da porti… -
L’uomo
col codino annuì, per nulla
sorpreso.
-
Lo
immaginavo. –
Il rosso
ruotò il portatile verso il
ragazzo, che aveva preso posto su una sedia, serio in volto.
-
Ciao,
Yamato. - lo salutò gentilmente Gennai.
-
Ciao.
–
La voce del
biondo era impregnata di
una cortesia tagliente e a Koushiro si accapponò la pelle:
nessuno di loro si
era mai rivolto in quel modo a Gennai. Ma era anche vero che Yamato era
famoso
per il suo buon senso: se aveva deciso di comportarsi a quel modo
doveva
esserci una buona ragione.
-
Koushiro
mi ha detto che hai qualcosa da chiedermi. –
-
Effettivamente
sì, ho diverse domande da porti. Hai tempo? –
chiese in tono velatamente
ironico.
-
Ho
tutto il tempo che ti serve. –
-
Innanzitutto:
sapevi che oggi avresti dovuto sostenere questa conversazione con me?
–
La domanda
lasciò esterrefatti i
presenti: stava forse scherzando?
Ma il sorriso
che si dipinse sul
volto di Gennai era soddisfatto.
-
Non
sapevo con precisione quando ne avrei avuto il piacere, ma
sì, l’avevo
previsto. –
-
Quanto
di tutto
ciò – fece un gesto con la
mano per indicare quanto lo circondava – avevi previsto?
–
-
Beh
ammetto che quel taglio sulla tua fronte non rientrava nella mia
visione.
Complimenti per la caduta, Yamato. –
Gli altri
prescelti sgranarono gli
occhi: sembrava quasi che l’uomo col codino lo stesse
punzecchiando.
Il biondo
annuì, senza dare a vedere
di voler cogliere la provocazione.
-
Una
cosa davvero stupida in effetti. – disse con non-calanche,
appoggiandosi allo
schienale della sedia – Ma diciamo che ne è valsa
la pena: se non altro ho
potuto assistere a qualcosa di…bellissimo. –
Gennai rise.
-
Immagino,
avrai visto intere costellazioni dopo quella botta! –
Yamato si
raddrizzò, puntando lo
sguardo sullo schermo del pc. L’altro smise di ridere, mentre
il biondo pareva
sondarne l’espressione.
-
Dunque
tu non sai tutto…o forse
semplicemente non l’hai previsto…
-
Dall’espressione
perplessa dell’uomo
era evidente che non aveva afferrato a cosa si riferisse il ragazzo.
Stava per
chiedergli spiegazioni, ma
il giovane non gli dette tempo di investigare: voleva tenere per
sé tutto ciò
che quell’uomo non era riuscito a carpire.
-
In
ogni caso non hai risposto alla mia domanda: quanto
avevi previsto di questa situazione? –
-
Spiegati
meglio. – il sorriso di Gennai era tornato apparentemente
gentile, ma a tutti
parve evidente che il suo tono era provocatorio.
-
Va
bene, partiamo dal principio. – si riappoggiò allo
schienale Yamato. – Voglio
porti una domanda che è stata fatta a me, qualche tempo fa,
ma che sono sicuro
meritasse una risposta più esauriente da parte tua.
– fece una pausa e il suo
sguardo si fece di ghiaccio – Dov’eravamo un anno
fa, mentre quel digimon
imperversava su New York e Rumiko era costretta a combattere da sola contro di lui? –
-
Y-Yamato…
- s’intromise Mimi, seppure riluttante –
è colpa mia, mi trovavo lì e avrei
dovuto avvisarvi… -
-
Tu
non avresti mai potuto avvisarci, Mimi. – la interruppe lui,
secco ma gentile –
Eri già sotto il controllo di quella creatura. Doveva sapere
che eri una di noi
e averti tenuto d’occhio fin dall’inizio.
– lasciò che la sua bocca si piegasse
in un sorriso tirato – D’altronde siamo piuttosto famosi, siamo i primi ad esser entrati in
contatto con Digiworld,
persino Rumiko sapeva della nostra esistenza. –
Pronunciare il
suo nome era ogni
volta una pugnalata al cuore: rivedeva la sua espressione rabbiosa
eppure
ferita, risentiva la sua voce carica d’accusa e odio. Ma si
costrinse a
stringere i denti e voltarsi di nuovo verso Gennai, in attesa al di
là dello
schermo.
-
Non
riesco a credere che tu fossi all’oscuro di quanto stesse
accadendo a New York,
probabilmente sapevi anche dello stato in cui si trovava Mimi.
– sentenziò con
ritrovata sicurezza – Dunque è facile per me
supporre che tu avessi previsto
anche gli eventi di pochi giorni fa e le ripercussioni che avrebbero
avuto
sulla città e tutti noi. –
Fece una pausa
in cui nessuno osò
quasi respirare, sconvolti dalle implicazioni delle sue parole.
-
Tu,
Gennai – sibilò Yamato, avvicinando il volto allo
schermo – avevi previsto cosa
sarebbe capitato a Rumiko,
a Mimi e alle persone che stavano loro vicine in quel momento. Avevi previsto che per far tornare alla vita
il
cavallo nero quel digimon l’avrebbe uccisa
e non hai fatto nulla per evitarlo!
L’hai lasciata morire e hai permesso che su questa
città cadesse il sonno
eterno! –
Silenzio.
Nessuno osò neppure
muoversi, temendo di spezzare quel fragile equilibrio. E nessuno
osò incrociare
lo sguardo di Yamato, rigido sulla sedia, le mani strette attorno ai
braccioli
della sedia fino a far sbiancare le nocche, la mascella contratta, gli
occhi
ridotti a due fessure. Ogni centimetro del suo corpo incuteva timore:
nessuno
l’aveva mai visto tanto furioso.
Poi Gennai
sorrise. Ma non vi era né
gioia né malizia in quel gesto, nessuna traccia della
precedente provocazione.
Solo cordoglio, amarezza e, sentimento comune agli umani ma fino ad
allora
ritenuto sconosciuto sul suo volto, insicurezza.
-
Devo
confessare che non avevo previsto tutto
ciò… - si oscurò lievemente in volto.
-
Spiegati.
–
ruggì in un sibilo Yamato.
L’uomo
col codino sospirò. Aveva
previsto che sarebbe arrivato un momento per le spiegazioni e che vi
sarebbero
stati rancori e dispiaceri. Ma ciò nonostante non era facile
trovare le parole
adatte a quel momento. La verità era che la situazione gli
era sfuggita di
mano.
-
Per
quanto riguarda ciò che accadde l’anno scorso a
New York devo darti una
delusione, Yamato: non ne ero pienamente cosciente. – fece
una pausa – White
Foxmon non ha sempre fatto avanti e indietro da questo mondo a
Digiworld,
quindi ho sempre avuto una certa difficoltà a tenermi
aggiornato sui suoi
spostamenti e le vicende che viveva. Per non parlare di Rumiko: al
contrario di
voi, lei non ha mai lasciato la sua città per lunghi periodi
e l’incontro col
suo digimon è avvenuto nel Mondo Reale. –
-
M-ma
com’è possibile? – balbettò
un esterrefatto Koushiro: nemmeno i digimon più
potenti che avevano incontrato erano stati in grado di creare un varco
tra i
due mondi, non senza mille sforzi. Che vi fosse riuscito un digimon di
livello
intermedio aveva assolutamente dell’incredibile.
-
White
Foxmon appartiene a una categoria molto ristretta di digimon, quelli di
tipo
ultraterreno. Sono creature dai poteri imprevedibili, oscuri a tutti
fuorché a
loro e i loro prescelti. Nessun digimon normale, per quanto potente,
riuscirebbe a passare da una dimensione all’altra da solo. Ma White Foxmon l’ha
fatto, giungendo in questo mondo, al
solo scopo di congiungersi con la sua prescelta. Non è stata
guidata da
nessuno, semplicemente sapeva che
l’avrebbe trovata. E una volta incontratesi, non si sono
più lasciate. Tra di
loro è subito nato un rapporto molto stretto, più
profondo di qualunque altro
abbia mai visto… - lanciò uno sguardo intenerito
ai ragazzi che lo guardavano –
Nemmeno in voi ho mai riscontrato qualcosa di simile, devo ammetterlo.
–
-
È
per questo che l’hai lasciata in balia di quel mostro?
Perché volevi testare
quanto fosse straordinario quel
legame?! –
Evidentemente
Yamato non si era fatto
incantare troppo facilmente.
-
Ammetto
che in un primo momento non mi ero accorto di quanto stesse accadendo,
proprio
perché avevo minor controllo su quella coppia. Immagino che
Alptraumon, così si
chiama quel digimon, sia sbarcato nel Mondo Reale sfruttando qualche
varco
rimasto aperto e abbia preparato con cura il suo
“palcoscenico”. – lanciò
un’occhiata significativa verso Mimi – Voleva esser
sicuro che nessuno avrebbe
interferito col suo
piano, sebbene io ignori tutt’oggi cos’avesse in
mente di preciso. – corrugò la
fronte.
-
Che
vuoi dire? – lo interrogò Koushiro.
-
Continuo
ad avere troppe poche informazioni per poter formulare delle valide
ipotesi. L’unica
somiglianza tra le due situazioni è la barriera che isola la
città dal resto
del mondo, ma per il resto i due attacchi non hanno apparenti punti in
comune.
– ragionò ad alta voce l’uomo
– A New York si concentrò su un attacco diretto,
per lo più allo scopo di diffondere il terrore tra la
popolazione, presumo…
Sembrava una situazione “normale” e non troppo
difficile da gestire, per questo
all’inizio ho lasciato che gli eventi facessero il loro
corso. – ammise Gennai,
visibilmente imbarazzato e contrito, ma nei suoi occhi vibrava una luce
d’entusiasmo – Erano secoli che non vedevo una
coppia come quella di Rumiko e
White Foxmon. Avrei voluto ammirarle in azione, voi non avete idea di
quanto
fossero meravigliose… - ma si bloccò,
rabbuiandosi.
-
Non
lo furono abbastanza, Gennai?
– la
voce di Yamato fendette l’aria, velenosa.
-
Eccome,
Yamato… Furono splendide…
- sospirò –
Ma qualcosa andò storto. Fu un incidente, nemmeno io mi ero
reso conto del
pericolo della situazione: tutta quella potenza sprigionata nei
sotterranei
della città…non vi era spazio per far disperdere
una tale mole di energia e,
prima che incontrasse il cielo aperto, s’imbatté
negli impianti della
metropolitana. L’esplosione fu davvero terribile…
-
Yamato vide nel
suo sguardo il
turbamento e il dolore di molti volti intervistati che avevano popolato
i
telegiornali di un anno fa, per diverse settimane. Per la prima volta
cercò
d’immaginarsi quell’inferno di fiamme e urla
intrappolate a decine di metri
sotto terra, vicine eppure troppo lontane dalla salvezza. E Rumiko, che
fuggiva
a cavallo del suo digimon-volpe, sconvolta, impotente, non meno
devastata della
città sotto di lei.
Rabbrividì
e tacque.
Fu Gennai a
infrangere nuovamente
quel silenzio carico di cordoglio.
-
Ma
Alptraumon non fu sconfitto. Inizialmente eravamo convinti che fosse
rimasto
coinvolto nell’esplosione e che fosse stato polverizzato.
Tuttavia non avevamo
fatto i conti con la sua natura incorporea… -
Attese di aver
tutti gli sguardi su
di sé, poi proseguì.
-
Alptraumon
ha caratteristiche molto simili ai digimon-incubo ed è
costituito da due
elementi distinti: Sandmannmon, altrimenti detto il Fante della Sabbia,
e
Angstmon. Il primo è probabilmente l’artefice del
sonno che ha contagiato tutti
gli abitanti della città, colui che si era impadronito di
Mimi. Di solito
approfitta del torpore delle sue vittime per controllarne le menti,
portando
loro incubi e facendoli agire come meglio preferisce. –
Koushiro
annuì.
-
Tentomon
ha accennato al fatto che quello in cui sono imprigionati i cittadini
non è
semplicemente un sonno profondo, altrimenti non si spiegherebbe come
mai anche
i digimon di Takeru, Kari e gli altri sono nelle stesse condizioni.
–
-
Giusta
intuizione. – sorrise in approvazione al coleottero
– Normalmente Sandmannmon
non si spinge tanto oltre, non con un’intera
città, poiché costringere al Sonno
il subconscio di una creatura richiede una quantità di
energia non
indifferente… -
-
E
allora come ci riesce con l’intera
Tokyo?! – si mise in mezzo Mei – Persino le piante
e gli animali sembrano
essere entrati in questa specie di favola della Bella Addormentata nel
Bosco! –
Gennai sorrise
alla biondina.
-
Lascia
che finisca di parlare, piccola Mei… - le disse gentilmente
– Dopo potrai farmi
tutte le domande che tanto ti assillano. –
La ragazzina
arrossì violentemente.
-
S-sai
il m-mio nome… - balbettò, eccitata e al contempo
vergognosa per la figuraccia
appena fatta.
-
Come
ha brillantemente intuito Yamato, avevo previsto diverse
cose… - le fece
l’occhiolino.
Poi
tornò a rivolgersi a Koushiro.
-
La
risposta alla domanda di Mei, in ogni caso, non mi è ancora
chiara. – ammise
con riluttanza – È evidente che deve avere una
fonte di energie non
indifferente, ma non saprei dire cosa possa essere tanto potente
da… -
-
Quindi
dovremmo solo trovarla e distruggerla, dico bene? –
saltò su Daisuke,
illuminato dalla prospettiva di aver finalmente trovato qualcosa con
cui
tenersi occupato.
-
Certo,
Daisuke – intervenne Taichi, sorridendogli solare, il tono
decisamente ironico
– dobbiamo solo trovare
questa
misteriosa fonte inestinguibile di energia e
distruggerla…possibilmente senza
rimetterci le penne, dato che siamo pochi, disorientati e soprattutto
stanchissimi…un gioco da ragazzi! –
Il moretto
arrossì e tacque,
riprendendo posto accanto a Mei.
-
Io
ti adoro, Dai, lo sai… - gli sussurrò lei
– ma non ti pare di fare un po’
troppe figuracce? –
Daisuke
sospirò sconfortato e un
risolino sfuggì ai presenti.
Solo Yamato
rimase impassibile.
-
E
Angstmon? –
Gennai
riportò la sua attenzione sul
biondo.
-
È
una creatura oscura che penso si nutra del terrore che semina tra le
sue
vittime… - spiegò l’uomo col codino,
stringendosi nelle spalle – Ma non so
dirvi molto altro su di lui. –
-
Come
mai? Credevo che tu sapessi praticamente tutto dei digimon,
Gennai… -
Non
c’era accusa nel tono di
Koushiro, solo molta perplessità: aveva sempre visto Gennai
come una sorta di
enciclopedia digitale.
-
Lo
credevo anch’io, Koushiro. – aggrottò la
fronte l’uomo, segno che la cosa non
piaceva nemmeno a lui – Ma Angstmon è diverso
dagli altri digimon… Non ne avevo
mai nemmeno sentito parlare prima dell’attacco a New
York… -
-
Forse
sarebbe il caso tu t’informassi un po’ meglio, non
credi? –
La voce di
Yamato fu ancora una volta
velenosa.
-
Yamato…
- sospirò Gennai – So cosa provi… -
-
L’avevi
previsto, non è vero?!
–
-
Yamato,
calmati. – intervenne Taichi, posandogli una mano sulla
spalla – Gennai credeva
che Alptraumon fosse morto… -
-
“In
un primo momento” – citò le
parole dell’uomo col codino – Ma dubito
fortemente che per un anno intero non si sia accorto di nulla.
In fondo l’ha detto lui stesso che gli è sempre
stato
difficile controllare Rumiko e il suo digimon per via dello scarso
legame che
avevano con Digiworld…ma Mimi
poteva
sorvegliarla alla perfezione! E dubito che non potesse accorgersi della
presenza di un digimon dentro di
lei.
E se Sandmannmon si era impadronito del suo corpo, non doveva esser
troppo
difficile intuire dove si trovasse Angstmon. –
-
Ma poteva
trovarsi nel corpo di qualunque
abitante di New York che si
trovasse nelle vicinanze al momento dell’esplosione!
– protestò Taichi.
-
Sveglia, Tai,
usa i neuroni! – balzò
su dalla sedia Yamato per fronteggiarlo – Credi che Mimi sia
stata posseduta da
quel digimon per caso?! Tra tutta
la
gente che si trovava nei paraggi in quel momento perché
avrebbe dovuto finire
proprio nel suo corpo?! Niente
accade
per caso, Tai, tutto
qua è frutto di premeditazioni! –
-
Ma che stai
dicendo? – fece un passo
avanti Sora, sconvolta dalla furia del biondo ma decisa a non lasciare
il
prescelto del Coraggio da solo a fronteggiarlo – Stai
sragionando, Yamato… -
-
Ma davvero?!
– si voltò verso il pc,
come a voler sfidare l’uomo che lo guardava serio al di
là dello schermo – Ti
dico cosa penso io di tutto questo,
Gennai. Io credo che tu sia stato onesto nel dire che non avevi
previsto
quell’esplosione, ma penso anche che tu abbia omesso a tutti
noi molte cose. –
Chiuse un attimo
gli occhi,
riportando a galla i ricordi e lasciando che gli trafiggessero il cuore
con
tutta la loro tristezza.
-
Rumiko
ci odiava per averla abbandonata a
se
stessa. Mi ha urlato in faccia che
le
era stato promesso il nostro aiuto.
Ma non ne sapevamo nulla e lei non conosceva Mimi, dunque
può esser stata solo
una persona ad averle detto una cosa simile. – fece una breve
pausa, lasciando
che le sue parole penetrassero nelle menti di tutti – Hai mentito, Gennai. E l’hai fatto
per il tuo egoismo, perché volevi
spingerla al massimo delle sue forze, cosicché rivelasse
quel potere tanto
straordinario cui volevi assistere. –
Si
avvicinò al pc di un passo.
-
E
forse in un primo momento credevi effettivamente che Alptraumon fosse
morto,
ma, come ho già detto, poi devi esserti accorto di quel che
era successo in
realtà. Quel digimon deve aver approfittato di quel momento
di confusione
generale per scindersi in due entità distinte e nasconderle
nel miglior
nascondiglio possibile: il corpo di un digiprescelto. I dettagli
ovviamente
posso solo intuirli – sollevò le spalle con
noncuranza – ma immagino che,
essendo molto più abituati al contatto coi digimon e, forse,
anche dotati di
un’energia maggiore cui attingere nutrimento, i nostri
organismi siano più
adatti ad ospitare qualcosa di tanto estraneo agli altri esseri umani.
Sandmannmon
deve aver optato per quello di Mimi perché aveva
già avuto modo di entrare in
contatto con la sua mente, mentre Angstmon si è impossessato
di Rumiko. –
Nessuno lo
interruppe, Gennai si limitò
ad annuire, l’espressione indecifrabile.
-
Ma
una volta scoperto quanto accaduto, devi esserti trovato davanti a un problemino. – sorrise maligno
il biondo
– Immagino che non sia facile eliminare un mostro che ha
pensato bene di
mettersi al sicuro nel corpo di una ragazza. Tanto più se la
ragazza in
questione è speciale, anzi, una prescelta.
Un’idea veramente brillante, quella di Alptraumon, non
c’è che dire! –
-
Hai
ragione, Yamato – intervenne Gennai – è
stato davvero brillante, lo ammetto.
Doveva aver intuito che me ne sarei accorto, ma avevo le mani
legate… -
-
Certo,
certo. – annuì il biondo con fare comprensivo
– Meglio lasciare che le due
parti si ricongiungessero e Alptraumon tornasse in vita.
D’altronde ci avrebbe
pensato ancora una volta Rumiko a sconfiggero, dandoti
l’occasione di
riammirare quel potere meraviglioso,
questa volta assicurandoti che si trovassero all’aria aperta
e che dessero
fondo fino all’ultimo granello di energia per esser sicuri di
polverizzarlo. –
strinse i pugni, abbassando lo sguardo – Ma non
avevi previsto quale sarebbe stato il mezzo
per liberare Angstmon dalla sua copertura. Non ti è nemmeno
passato di mente
che Rumiko avrebbe dovuto pagare l’ennesimo prezzo di tutto
ciò. Dopo il
rimorso, il dolore, l’impotenza…per un anno ha
sopportato da sola quanto
accaduto a New York, senza potersi liberare di quel peso… Ma
non era abbastanza
per te… Dovevi spingerla
ancora più
al limite, per vedere quale fantasmagorico potere sarebbe stata in
grado di
tirar fuori questa volta… -
-
Yamato,
sono davvero desolato per quanto
accaduto e… - esitò un attimo, come se non
trovasse le parole adatte – per il
comportamento di Kitsunemon. So quanto nel vostro mondo sia importante
l’usanza
di sepoltura dei morti… Non ho idea di dove abbia portato il
suo cadavere, ma
appena le avrò localizzate farò in modo di
riportarvelo. -
Silenzio. Yamato
parve per un attimo
perso nei suoi pensieri, poi voltò le spalle al computer,
superando gli amici e
afferrando la maniglia della porta.
-
Dimmi
una cosa, Gennai – lanciò un’ultima
occhiata allo schermo del pc – questa
volta, come intendi sconfiggere Alptraumon? Sappi che non potrai
contare sul
mio aiuto, ho di meglio da fare che prender parte alle tue messe in
scena. –
Taichi e Sora si
guardarono un attimo
sbigottiti. Poi la rossa si alzò per bisbigliargli
all’orecchio:
-
È
ancora sconvolto per la morte di Rumiko, vedrai che tornerà
presto. –
Il ragazzo
annuì e nessuno fece più
parola dello strano comportamento del biondo.
“ Lo
sapevo” gioì Yamato nei suoi
pensieri “Gennai non ha previsto tutto
e soprattutto non sa tutto.”
D’altronde
il Destino degli Uomini è
sempre stato in mano loro. Alcuni ammettono che siano degli estranei a
guidarli, ma gli spiriti liberi e fieri non hanno mai permesso che
fossero
altri a plasmare il loro Avvenire.
Continua…
N.d.a:
Ebbene
sì, eccomi tornata per
proseguire questa storia.
Buona lettura!
Monalisasmile
|
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Capitolo 22 *** - ***
Capitolo
22
-
Posso
farti una domanda, Koushiro? –
Yamato si era
intrufolato nella sua
stanza appena gli altri avevano levato le tende. Il rosso
balzò per la
sorpresa.
“ Beh,
se non altro lo spavento mi
terrà sveglio per un po’!”
pensò e annuì: d’altronde Yamato non
era tipo da
accettare un “no” come risposta.
-
Ti
va di raccontarmi come sei riuscito a svegliarti dopo che avevi perso i
sensi?
Nei dettagli se non ti
dispiace… - lo
incalzò con un sorriso malizioso.
Koushiro
avvampò.
-
Francamente
sì, mi dispiace, sono cose…private… E
poi a che ti servirebbe? –
Yamato si
strinse nelle spalle con
fare innocente.
-
Beh,
dato che sei l’unico oltre a me e Mimi ad essersi
risvegliato, poteva essere
interessante sapere come di preciso
ci sei riuscito, così da mettere a confronto le nostre
esperienze, no? - gli
sorrise scaltro, sapendo di aver colpito nel suo punto debole: la sua
fame di
sapere.
-
O-ok…
- acconsentì il ragazzo, impacciato – Comunque non
è che ci sia molto da
raccontare… Ero immerso in quel torpore, di cui francamente
non ho alcun
ricordo, quando ho sentito la voce di Mimi. Non capivo cosa dicesse di
preciso,
mi sembrava solo molto turbata e io… - arrossì di
nuovo, abbassando lo sguardo
– a-avrei voluto consolarla, capisci? Poi l’ho
sentita piangere e non ce l’ho
più fatta, semplicemente dovevo
svegliarmi. E così è stato. –
-
Tutto
qua? –
Il rosso
alzò lo sguardo
sull’espressione sbigottita del biondo.
-
S-sì…
- sbiascicò, incerto.
-
L’hai
sentita piangere… ma non hai avuto una visione,
non hai visto né sentito altro? –
-
No…
-
Yamato sorrise
soddisfatto e fece per
andarsene, quando la voce del rosso lo richiamò.
-
Ah,
Yamato… -
-
Dimmi,
Koushiro. – si voltò a guardarlo, interrogativo di
fronte all’espressione
improvvisamente seria dell’amico.
-
A
proposito della tua caduta dalla moto: hai fatto una cosa davvero
stupida. Non
farlo più. –
Il biondo lo
fissò un attimo
esterrefatto, poi annuì e si defilò.
Gabumon
raggiunse Yamato sulla
terrazza dell’ospedale. Il prescelto guardava verso la
città buia, lo sguardo
perso nel vuoto e la mente affondata nei pensieri.
Il digimon
sospirò, sedendosi accanto
a lui: aveva imparato da tempo quanto insondabile potesse essere il
ragazzo.
-
Ho
bisogno del tuo aiuto, Gabumon. –
L’amico
sgranò gli occhi: credeva che
Yamato fosse momentaneamente perso in qualche ragionamento strano,
invece era
perfettamente reattivo. A volte credeva che non l’avrebbe mai
capito. Ma
ovviamente anche questa parte della loro amicizia poteva accettarla con
gioia,
perché lui era il suo prescelto.
-
Sai
che puoi sempre contare su di me, Yamato. –
-
Lo
so, amico mio. – gli sorrise il biondo, grato di avere un
alleato tanto fedele.
Quanto gli era
mancato il suo amico
digitale…
Ma quello non
era il momento per i
sentimentalismi. Corrugò la fronte, tornando serio e
pensieroso.
-
Ci
sono un paio di cose che non ho raccontato agli altri e che nemmeno
Gennai sa…
Riguardano Rumiko. –
Il digimon
annuì, in ascolto. Aveva
capito quanto la ragazza fosse importante per lui.
-
Gli
altri penserebbero che sono pazzo, ma io credo che Rumiko… -
scelse
accuratamente le parole – possa tornare… -
-
Intendi…
- esitò Gabumon – viva? –
Il ragazzo gli
sorrise.
-
Ma
non era… insomma, non l’avevi vista tu
stesso…? –
-
Sì,
so cos’ho visto quella notte. Ma il padre di Rumiko ha detto
di avere
fiducia…lui crede in Kitsunemon. –
-
Ma
cosa potrebbe fare? Per quanto sia potente, resta pur sempre un
digimon. E
senza le sua prescelta le sue capacità dovrebbero esser
più limitate… -
-
Sì
sì, lo so. – gettò la testa indietro
Yamato – Nemmeno io riuscivo a crederci
all’inizio. Ma poi ho fatto quel volo con la moto…
-
-
Una
cosa davvero stupida, Yamato. Non farlo più. –
intervenne il digimon,
serissimo.
Il ragazzo
restò un attimo
sbalordito, poi sorrise raggiante.
-
Sono
le stesse parole che mi ha detto lei… -
-
Lei
chi? –
-
Rumiko.
–
Ora Gabumon era
sicuro di non capirci
più nulla. Possibile che, come si andava sussurrando per i
corridoi, Yamato
avesse perso qualche rotella a causa di quella capocciata?
-
Non
ti seguo… -
-
Ascolta,
so che può sembrati assurdo, ed in effetti probabilmente lo
è… ma quando ho
battuto la testa e ho perso i sensi, è grazie a lei se mi
sono risvegliato.
Sono rimasto svenuto per un quarto d’ora
all’incirca, avvolto in quello stesso
sonno anomalo in cui sono costretti i Dormienti. Eppure io non mi
ricordo né di
aver chiuso né di aver riaperto gli occhi; se non me
l’avesse detto Masahiro
penserei di esser sempre stato sveglio. Invece a un certo punto devo
aver
riaperto gli occhi, ancora avvolto nello stesso torpore. Una volta
scacciato
definitivamente sentivo tutto: il dolore, il freddo, la sensazione di
bagnato
sulla tempia…vedevo il sangue sulla neve, nel punto in cui
ero caduto, sentivo
la voce di Masahiro…e poi ho visto lei.
Si è materializzata di fronte a me, in mezzo alla neve, si
è avvicinata e mi ha
detto “Hai fatto una cosa davvero stupida, Yamato. Non farlo
più.” Subito dopo
è scomparsa. –
Sospirò.
–
Non
so come sia possibile, non ci crederei nemmeno io se non
l’avessi vissuto
personalmente… Ho parlato con Koushiro poco fa e mi ha
spiegato com’è riuscito
a svegliarsi: ha sentito la voce di Mimi, l’ha sentita
piangere accanto a lui…e
si è svegliato per poterla consolare. –
-
Beh,
non che io ci capisca molto di queste cose – ammise il
digimon, imbarazzato –
ma mi pareva che tra loro ci fosse un sentimento speciale… -
-
Sì,
lo so anch’io, ma il punto è che lui è
stato strappato al sonno dalla presenza
di Mimi. –
-
Una
cosa piuttosto reale. –
sottolineò il
digimon.
-
Infatti!
Solo qualcosa di altrettanto reale avrebbe potuto strappare anche me da
quel
sonno. –
-
Ma
quella di Rumiko è stata solo
un’allucinazione… -
-
Forse no. –
sorrise il biondo.
Gabumon scosse
la testa, perplesso.
-
Ascolta,
amico mio: – gli accarezzò il capo Yamato
– Mimi è stata risvegliata da una
sorta di anticorpi che è riuscita a sviluppare nel giro di
un anno. Koushiro
dalla presenza della ragazza di cui è innamorato, bisognosa
di conforto.
Entrambi hanno ricevuto una sorta di “aiuto”, chi
dall’interno, chi
dall’esterno. Ora, volendo escludere che io provi
un’attrazione passionale nei
confronti di Masahiro – esibì una faccia
esageratamente disgustata apposta per
strappare una risata al digimon – e non volendo
sopravvalutare le mie capacità
di autodifesa e sminuire quelle di Mimi… direi che
è stato qualcos’altro
ad aiutarmi. –
-
Sì,
ma cosa? –
-
Già,
cosa? Eppure in mezzo al buio, la
neve e il freddo di questa città solitaria non
c’era niente che avesse
un potere tale su di me. E Masahiro ha confermato
di non aver scorto nulla all’infuori di me. L’unico
ad aver visto qualcos’altro
sono stato io, per quanto si trattasse di una visione. E
poiché ero sveglio,
non credo che a inviarmela sia stato Alptraumon. –
-
Avrai
battuto la testa un po’ troppo forte. –
azzardò il digimon.
-
È
quello che pensano tutti, da queste parti… - gli
ammiccò – Ma io ho un’altra
teoria. –
Yamato
riportò lo sguardo sulla città
buia e deserta. Un paesaggio davvero lugubre.
-
Gabumon,
tu sai cosa sono i fantasmi? –
-
Fantasmi?
–
-
È
una delle tante leggende che si tramandano nel nostro mondo. Si
racconta che lo
spirito di coloro che muoiono anziché ascendere al Cielo
come tutte le altre
anime, a volte resti intrappolato nel mondo dei vivi. Di solito
ciò accade
perché hanno delle “faccende in
sospeso”, come un compito da portare a termine
o qualcuno da proteggere. Sono invisibili a tutti, fuorché
ad alcune persone
“speciali”, o perché a loro care oppure
perché dotate di qualche potere
particolare. Ufficialmente sono storie molto affascinanti ma prive di
fondamento, in realtà nessuno è mai entrato in
contatto con una di queste
anime. Tuttavia… - si girò a guardarlo, lo
sguardo volto a scrutare gli
occhioni dolci dell’amico – nessuno ha mai creduto
nemmeno all’esistenza di
altri mondi paralleli al nostro e tanto meno all’esistenza di
straordinarie
creature digitali. –
Gabumon
arrossì, imbarazzato e
felice. Yamato avvolse il digimon con un braccio, stringendolo accanto
a sé.
-
Eppure
io ci credo. Ho un amico digitale e
sono finito innumerevoli volte nel suo mondo. E so
che ve ne sono altri, paralleli ai nostri, sebbene meno
accessibili. E così come noi attraverso il portale digitale
aperto dai nostri
pc, sono sicuro che anche da quei
mondi è possibile comunicare, in qualche modo. –
Strinse la presa
sul compagno, quasi
fosse in cerca di maggior energia per quanto stava per dire.
-
Se
credo in tutto ciò, allora posso anche credere nei fantasmi.
– corrugò la
fronte, concentrato e deciso – La visione che ho ricevuto, il
vostro ripetere
le sue stesse parole, sono tutti messaggi che Rumiko mi sta mandando
per farmi
sapere che lei c’è, da qualche parte, e che veglia
su di me. È stata lei a
risvegliarmi da quel sonno maledetto, ne sono sicuro.
– abbassò il capo – E
tornerà… - disse a voce più bassa,
quasi stesse parlando a se stesso – Molto presto
tornerà… -
“…da
me…” concluse nella sua mente,
in un una muta preghiera.
Kitsunemon fece
ondeggiare le nove
code, rilassandosi: Yamato sembrava esser finalmente giunto alla
conclusione
che si aspettava. Tuttavia le cose, nel Mondo Reale, non erano affatto
semplici…
Aveva speso non
poche energie per
risvegliare Yamato dal sonno di Sandmannmon, e sperava che il digimon
non se ne
fosse accorto: ora come ora era meglio che lui e, soprattutto, Angstmon
non
sapessero dove lei e la sua prescelta si trovassero. Avrebbero intuito
le sue
intenzioni e avrebbero fatto di tutto per distruggere il corpo di
Rumiko, così
da rendere vana ogni speranza.
“
Già, la speranza…”
Per questo aveva
inviato a Yamato
quella visione e aveva messo le stesse parole in bocca ai suoi amici:
voleva
che lui continuasse a sperare e credere.
Sfiorò
teneramente il volto gelido
della sua prescelta. Suo padre credeva in lei, Yamato pure. E
lei…lei, che era
il suo digimon, la sua compagna, la sua amica, l’altra
metà della sua anima…lei
avrebbe dato tutta se stessa per aiutarla.
Ma era lei il vero ostacolo…
Perché non credeva in se stessa, perché aveva
perso l’ultimo barlume di speranza prima che il suo corpo
cadesse a terra,
privo di vita.
La volpe bianca
spostò lo sguardo
sullo Specchio del Limbo.
Eppure era
là, la poteva vedere in
quella pozza scura, rannicchiata sul fondo di quel lago infernale,
apparentemente vicina eppure mortalmente lontana. Aveva gli occhi
chiusi, i
lunghi capelli fluttuavano attorno al suo corpo nudo, mentre le braccia
stringevano quasi spasmodicamente le ginocchia al petto. Sembrava
terrorizzata,
sofferente e bisognosa di conforto.
Ma Kitsunemon
sapeva che se fosse
entrata in quelle acque l’immagine si sarebbe dissolta e i
flutti l’avrebbero
inghiottita per sempre, condannandola alla peggiore delle
pene…
Rabbrividì,
riabbassando il capo e
appoggiandolo alle zampe. Rumiko non poteva vederla, finché
si ostinava a
tenere gli occhi chiusi, e per quanto lei l’avesse chiamata,
la ragazza non
aveva mai dimostrato di riuscire a sentirla. Probabilmente si rifiutava
di
farlo.
Ancora una
volta, la frustrazione
minacciò di prendere il sopravvento. Tuttavia
ripensò a coloro che le volevano
bene e avrebbero desiderato riabbracciarla. Perfino quella graziosa
palla di
pelo marrone di nome Caffè. Ma, soprattutto,
ripensò al motivo per cui la sua
anima si trovava imprigionata nello Specchio del Limbo,
l’unica finestra tra il
Mondo dei Morti e quello dei Vivi: Rumiko aveva delle
“faccende in sospeso” e
diverse persone da proteggere.
-
La
domanda ora è: – sussurrò Kitsunemon, e
la sua voce parve quasi assordante nel
paesaggio deserto e silenzioso – quello che hai alle spalle e
che ti richiama a
gran voce è abbastanza importante per te da tornare indietro
e lottare ancora?
O sei troppo stanca e amareggiata e preferisci scegliere la via
più semplice? –
La presa sulle
ginocchia si rafforzò,
ma le palpebre si socchiusero appena, rivelando due iridi viola.
Sandmannmon fece
scorrere lo sguardo
maligno sulla città buia, soffermandosi sull’unico
puntino luminoso: l’ospedale
in cui erano radunati i superstiti al primo attacco.
Annusò
l’aria: era impregnata di
ansia, agitazione mal repressa e paura.
Trotterellò
sul cornicione dell’alto
palazzo.
Non gli sarebbe
dispiaciuto fare una
capatina dagli Svegli, giusto per spaventarli un
po’…
Il rombo alle
sue spalle frenò i suoi
pensieri e il digimon dalle sembianze di troll si voltò di
scatto, trovandosi a
pochi metri da due narici ardenti come braci. Quasi fece un balzo
indietro per
lo spavento: Angstmon sapeva essere davvero
terrificante.
-
Ho
capito, ho capito! – gracchiò il Fante di Sabbia
– Li lascerò in pace… -
“ Per
ora…” concluse nella sua mente.
-
Però
tu evita queste entrate in scena così rumorose, o mi farai
venire un infarto! –
Il gigantesco
cavallo nero non parve
badare alle sue parole, perché prese la rincorsa dal fondo
della terrazza e,
con un grande rombare di zoccoli, spiccò un balzo nel vuoto,
librandosi
nell’aria fredda e immota.
Galoppava nel
cielo plumbeo,
mimetizzandosi tra le nuvole scure, promesse di tempesta. Ogni tanto
faceva
esplodere un tuono qua e là, assaporando il terrore che quei
semplici agenti
atmosferici sapevano incutere negli umani.
Le fauci
fameliche si piegarono in un
sorriso spaventoso.
Quanto erano
deboli gli esseri umani…
I loro fragili cuori potevano essere spezzati con facilità,
i loro propositi
deviati e i loro ideali infangati… I loro stessi sentimenti
non erano nulla più
di un battito d’ali di farfalla, troppo effimero per durare
nel tempo e
resistere alle difficoltà della vita di tutti i
giorni… Figurarsi se avrebbero
retto all’inferno che stava per scatenarsi su di
loro…
Sbuffò
e due fasci di fiamme vennero
esalati dalle narici. Sandmannmon si accontentava di far addormentare i
cittadini, poiché il digimon-troll aveva una mente limitata
e votata più al
dispetto che alla distruzione. Amava giocare con le sue vittime,
trovava
piacere nel terrorizzarle, ma mai quanto
Angstmon. Per lui la paura che si poteva percepire nell’aria
era semplicemente deliziosa.
Tuttavia, per
quanto infinitesimale
al suo confronto, Sandmannmon gli tornava parecchio utile.
D’altronde era stato
lui a risvegliarlo da quel sonno profondo in cui era costretto da
diversi
secoli: curioso e ignorante dei pericoli che correva, il Fante di
Sabbia aveva
desiderato potersi avvalere di un destriero nelle sue scorribande. E
quale
cavalcatura migliore di un antico Demone, rinchiuso da tempo
immemorabile nelle
profondità di una montagna?
Il nome che gli
avevano dato gli
Uomini in passato era Angst, altrimenti conosciuto come Terrore,
poiché era
l’essenza stessa della paura, un fantasma portatore di
angoscia. Il digimon
l’aveva ribattezzato Angstmon e gli aveva detto che
d’ora in avanti avrebbe
seguito il suo volere. Il cavallo infernale aveva sorriso crudelmente,
compiaciuto dell’ingenuità del troll dei sogni.
L’aveva
assecondato nel suo piano di
seminare terrore nella città di New York, intravedendo una
buona occasione per
fare una bella scorpacciata di anime corrotte e rimettersi in forze,
dopo la
lunga immobilità della reclusione.
Ma qui aveva
fiutato un’interessante
novità: un digimon ultraterreno e il suo prescelto, una
giovane umana di nome
Rumiko. Aveva percepito un forte legame tra di loro e
un’energia non
indifferente. Da sole erano insignificanti, insieme erano… qualcosa che Angstmon non aveva mai visto
prima d’allora, sebbene
il Demone potesse vantare un’esistenza di parecchie
generazioni.
Aveva suggerito a Sandmannmon ti tenere sotto
controllo un’altra giovane
digiprescelta che viveva nella città, giusto per
precauzione: sapeva bene che
se Gennai, il ficcanaso custode di Digiworld, aveva adocchiato quella
coppia
speciale non avrebbe resistito alla tentazione di vederla in azione. E lui gliene avrebbe dato un valido
motivo.
Così
era avvenuto lo scontro diretto
e quel potere che Angstmon aveva fiutato si era sprigionato. Ma
qualcosa era
andato storto: il corpo del Demone, non ancora nel pieno delle sue
forze, stava
per essere disintegrato. Così, ruggendo di rabbia e giurando
vendetta, aveva
fatto quanto era in suo potere per evitare la sconfitta totale: aveva
trasferito la sua anima e la sua essenza nel corpo di Rumiko,
l’unico essere
umano abbastanza forte da sopportare la sua presenza, ponendovi un
sigillo.
Necessitando anche di una chiave che potesse liberarlo nuovamente, nel
momento
più opportuno, trasferì Sandmannmon nel corpo
della prescelta che già si
trovava sotto il suo controllo.
Sarebbe
trascorso un anno, tempo
sufficiente perché un nuovo piano venisse elaborato e le
energie recuperate.
Poi Sandmannmon avrebbe trovato il modo di ritrovarsi faccia a faccia
con
Rumiko. Sarebbe stata lei a
liberarlo,
poiché solo lei conosceva il loro nome, nonché
chiave per rompere il sigillo.
Una volta fatto ciò, Sandmannmon avrebbe pronunciato la
formula per
restituirgli materialità.
Il cavallo
demoniaco abbassò gli
occhi crudeli sul paesaggio sotto di lui.
Da qualche parte
in quella dimensione
si andava raccontando che Dio aveva creato il loro mondo in sei giorni.
Nitrì,
e il suono di un milione di
urla di angoscia stridette nell’aria, facendo accapponare la
pelle agli Svegli.
Lui avrebbe impiegato lo stesso
tempo a
distruggerlo, a cominciare da quella città. E questa volta
non ci sarebbero
state esplosioni traditrici.
-
Cos’è
stato?! –
Sora si strinse
a Taichi,
terrorizzata. Il ragazzo sospirò: se la situazione non fosse
stata tanto
tragica, avrebbe gioito di quel contatto.
Avvolse le
spalle della rossa con un
braccio, stringendola ancor di più a sé.
-
Tranquilla,
Sora… Sono vicino a te. –
Lei
annuì, un poco imbarazzata:
talvolta Taichi era irriconoscibile, sembrava quasi…
-
…un
uomo. –
-
Come?
– la guardò il castano, perplesso.
-
N-niente!
– distolse lo sguardo la ragazza.
Lui fece
spallucce: le donne.
Si trovavano sul
terrazzo
dell’ospedale e Sora fece scorrere lo sguardo sul cortile
sottostante, in cui i
bambini avevano smesso di giocare per tapparsi le orecchie e
rannicchiarsi a
terra, spaventati.
-
Tai,
forse dovremmo scendere nel cortile per consol… -
Ma un altro coro
di urla strazianti
squarciò il cielo e la ragazza fu costretta a imitare i
bimbi, coprendo le
orecchie con le mani guantate e accucciandosi sulle mattonelle.
Istintivamente
chiuse gli occhi, quasi che i fantasmi che avevano dato vita a quei
suoni
terrificanti potessero materializzarsi di fronte a lei. Dopo pochi
minuti,
invece, schiudendo le palpebre si ritrovò a pochi centimetri
dal volto di
Taichi, che l’aveva imitata.
Gli occhi
nocciola del ragazzo erano fissi
nei suoi, dolci e profondi. Sora si rilassò, perdendosi in
quel mare di
serenità, traendone forza e coraggio.
Lui le sorrise e
lei fu certa che il
calore di quel gesto sarebbe stato in grado di sciogliere la neve ai
loro
piedi. Invece a liquefarsi fu il suo cuore, che accelerò i
battiti e la spinse
ad azzerare la distanza tra loro.
Sora lo
baciò e quel momento fu come
lei se l’era sempre immaginato: carico di dolcezza e
tenerezza. In un primo
momento la bocca del ragazzo restò rigida contro la sua, poi
anche lui si
lasciò andare e le labbra risposero istintivamente a ogni
carezza di quelle di
lei.
Approfondirono
il bacio.
In quel momento
un altro coro di strilla
infernali squarciò l’aria, interrompendo
quell’attimo magico. Le loro bocche si
separarono, ma la fretta fece battere le loro teste l’una
contro l’altra. Il
colpo fece perdere loro l’equilibrio ed entrambi rotolarono
nella neve, urlando
di dolore non tanto alla fronte quanto ai timpani scoperti e perforati
da
quelle urla.
Quando anche
quell’ondata terminò, i
due giovani si ritrovarono ansanti e fradici. Quello che prima era
stato un
manto candido intervallato da poche impronte, ora sembrava che avesse
fatto da
ring a un incontro di lotta libera.
Taichi si
voltò a guardarla. Il petto
di Sora si alzava e abbassava ritmicamente, la sua bocca aperta esalava
piccole
nuvolette di vapore. Si soffermò un attimo su quelle labbra
umide e leggermente
arrossate, sulle guance colorite, le ciglia bagnate e nere come
inchiostro, i
capelli rossi appiccicati alla fronte su cui forse sarebbe comparso un
bernoccoletto. Distendendo il braccio avrebbe potuto toccarla. E
così fece.
Allungò
una mano priva di guanto per
sfiorarle una guancia, delicatamente. Lei si voltò a
incontrare il suo sguardo.
Taichi
vagò in quelle iridi nocciola
screziate di pagliuzze dorate, che scintillavano di gioia. Fece
scorrere le
dita sulla sua pelle morbida, dallo zigomo fino alle labbra piegate in
un
sorriso. Lei non si mosse, lasciando che lui prolungasse più
a lungo possibile
quel contatto delicato.
-
Cosa
pensi? – le chiese lui, la voce ridotta ad un sussurro.
Il sorriso di
lei s’allargò.
-
Penso
che dovremmo ricominciare da dove ci siamo interrotti, prima che quelle
urla
riprendano. –
Taichi rise,
rotolando su un fianco e
portandosi su di lei, a quattro zampe.
-
Non
ero io il digiprescelto del Coraggio? – scherzò
lui.
-
Sì
– gli rispose lei, scostandogli una ciocca di capelli fradici
dalla fronte – ma
io sono quella dell’Amore… -
Il sorriso che
lui le regalò la fece
ammutolire. Poi Taichi si chinò nuovamente sulle sue labbra.
-
Beh,
vi pare il momento di giocare a palle di neve?! –
sbraitò Daisuke, appena li
vide incedere attraverso il corridoio.
-
Palle
di neve? – parlarono contemporaneamente Taichi e Sora.
Poi si
guardarono a vicenda: solo
allora si ricordarono di essere ancora fradici e infreddoliti.
Scoppiarono a
ridere simultaneamente
e il suono delle loro fresche risate parve per un attimo ripulire
l’aria del
terrore di pochi minuti prima.
Daisuke
sbattè le palpebre,
sbigottito e offeso dall’effetto di quello che doveva suonare
un rimprovero.
Mei scosse il
capo, armata di
secchiello e straccio.
-
Non
riderebbero se toccasse a loro
ripulire i corridoi. –
Ma Taichi e Sora
non poterono fare a
meno di aumentare il volume delle loro risate.
Più
tardi si sarebbero offerti di
asciugare loro la scia d’acqua che avevano lasciato lungo i
corridoi, un po’
per rasserenare una seccatissima Mei, un po’ per non
lasciarsi sfuggire
un’altra occasione di restare da soli.
Le urla
strazianti si ripeterono per
diverse ore durante tutta la giornata, a distanza di al massimo dieci
minuti
l’una dall’altra. Manco a dirlo, tra gli Svegli
cominciò a serpeggiare il
panico. Sembravano le grida di uomini e donne sotto tortura, incapaci
di
pronunciare verbo ma che caricavano nelle loro voci tutto il dolore che
provavano.
Tuttavia era
impossibile capirne
l’esatta provenienza, sebbene tutti concordassero che
sembravano propagarsi dal
cielo burrascoso.
-
Ma
com’è possibile?!
– Koushiro si passò
una mano tra i capelli spettinati.
Mimi lo
guardò preoccupata. Da quando
si era risvegliato non aveva più chiuso occhio e mangiava
appena. Sosteneva che
il cibo faceva assopire, perciò andava avanti a
caffé e pochi altri alimenti.
Il suo volto pallido e magro era segnato dalle occhiaie sempre
più profonde,
che conferivano agli occhi scuri l’aspetto di due crateri di
pece.
Non che Mimi
avesse intenzione di
tornare sui suoi passi, intendiamoci, il suo Koushiro sarebbe rimasto
adorabile
per mille altri motivi. Però il suo aspetto trascurato
metteva la ragazza a
disagio, soprattutto per l’impotenza che si era accorta di
avere per quanto
riguardava certe sue scelte.
Koushiro era
sempre stato un ragazzo
d’oro, gentile e dolcissimo, su questo non c’erano
dubbi. Ma la ragazza si era
recentemente accorta anche di quanto potesse essere caparbio. Sembrava
quasi
che avesse deciso di non curarsi del suo corpo fintanto che non fosse
venuto a
capo di tutti i dubbi che lo tormentavano.
-
Koushiro…
- gli si avvicinò la ragazza, arricciando il naso di fronte
alla sua scrivania
ingombra di carte, libri e, ovviamente, l’inseparabile pc e
relativi
marchingegni; accanto allo schermo l’ormai altrettanto
indivisibile tazza di
caffé, ormai freddo.
-
Non
riesco a capire!
– protestò il rosso, reggendosi la fronte con una
mano.
Mimi
pensò che le grida non dovevano
aiutarlo a concentrarsi. E sapeva bene quanto Koushiro detestasse esser
distratto mentre cercava di districare la matassa di un ragionamento.
-
Forse
dovresti mangiare qualcosa… - azzardò lei, a
bassa voce.
-
Non
devo mangiare, Mimi, devo capire. – parlò a
occhi chiusi lui –
Devo capire come fare a intrappolare Sandmannmon, che a quanto pare
trova molto
divertente farci delle sortite e poi svignarsela, scomparendo nella
città buia.
E devo capire da dove vengono queste urla, chi le sta provocando e
soprattutto perché!
– si lasciò andare contro lo
schienale della sedia, sfinito – Perché
Sandmannmon ha voluto addormentare un’intera
città? Perché
non siamo ancora stati attaccati? Che cosa
aspettano?! E che ruolo ha Angstmon in tutto ciò? Perché né io
né Gennai riusciamo a
capire cosa sia? Ho idea che non
sia
un digimon come gli altri, ammesso che effettivamente lo
sia… Per quanto ne
sappiamo potrebbe essere qualsiasi
cosa, il fatto che sia entrato in contatto con Sandmannmon non prova la
sua
natura. –
-
M-ma
non esistono creature simili nel nostro mondo! – intervenne
Mimi – Solo a Digiworld…
-
-
Sandmannmon
ha sfruttato un varco lasciato aperto per giungere in questo mondo. Ma
per
quanto ne sappiamo potrebbero essercene a centinaia,
che si affacciano su altrettanti mondi paralleli…Persino
alcuni di noi hanno
avuto modo di trovarsi in altre dimensioni parallele… -
Mimi
rabbrividì, al ricordo del
racconto spaventoso di Kari.
-
Dunque
– aveva ripreso il discorso Koushiro, parlando più
a se stesso che alla ragazza
accanto a lui – non è da escludere che Sandmannmon
abbia fatto visita a qualche
altro mondo, prima di giungere nel nostro, e che in uno di quei
viaggetti si
sia imbattuto in Angstmon… -
-
Ma
è un nome da digimon… - protestò lei,
in tono quasi infantile.
-
I
nomi possono essere storpiati facilmente… - le rispose
Koushiro distrattamente,
mentre era chiaro che la sua mente aveva ripreso a galoppare
– Sandmannmon è un
digimon d’altronde…sarà quasi
un’abitudine per lui aggiungere il suffisso
“-mon”… -
Liberò
frettolosamente la tastiera
del computer e aprì la Home
page di Google, digitando la parola “Angst”.
Mimi si
allungò per sbirciare lo schermo.
Una lista di
siti in tedesco si
srotolò sotto i suoi occhi. La maggior parte erano
traduttori, che davano al
termine il significato di “paura”,
“terrore”, “ansia”. Nulla di
nuovo, insomma.
Eppure Koushiro
pareva aver fiutato
una pista.
-
Cosa
vedi in tutto ciò che io non riesco a scorgere? -
sbuffò Mimi – Questo non fa
che confermare quanto ci ha detto Gennai, cioè che si nutre
della paura… -
-
Infatti,
Mimi… - si voltò a guardarla,
improvvisamente sorridente – E non ti pare una coincidenza
piuttosto curiosa
l’associazione tra la sua natura e questo termine tedesco?
Scommetto che
spulciando le leggende della Germania possiamo trovare qualcosa al
riguardo! –
le strizzò l’occhio.
-
Credi
dunque che quel mostro venga dal nostro mondo?!
–
-
Probabilmente
no, Mimi…ma come il nostro mondo è in stretto
contatto con Digiworld, allo
stesso modo potrebbe esserlo con altri…magari in tempi molto
antichi qualcuno è
sbarcato nella dimensione da cui proviene Angst e questo spiegherebbe
l’origine
del suo nome… -
-
Non
capisco cosa speri di trovare. – scosse il capo Mimi
– Si tratta comunque di un
mostro appartenente ad un altro
mondo. Perché dovrebbe esserci qualche informazione su di
lui in questo? Se anche qualcuno
fosse finito
in quella dimensione, probabilmente non ne ha mai voluto parlare, per
paura di
esser preso per matto, e il segreto è ormai morto e sepolto
insieme a lui. Una
volta bruciavano le persone se
andavano in giro a raccontare cose strane… -
-
Lo
so, Mimi. – le accarezzò una guancia, gentile.
Come faceva la
gente a dire che Mimi
era stupida? Il fatto che a volte fosse un po’ superficiale e
molto attenta
alle cose materiali, nulla toglieva alla sua intelligenza.
-
Tuttavia
pensa a noi. – le sorrise
teneramente
– Abbiamo fatto diversi viaggi in un altro mondo e siamo
entrati in contatto
con le creature che lo popolavano. Non l’abbiamo sventolato
ai quattro venti,
eppure altre persone all’infuori di noi sanno dei digimon. I
nostri genitori,
alcuni amici… Gli stessi digimon sono comparsi diverse volte
nel Mondo Reale e
sono stati visti da centinaia di persone. Forse non sono
l’argomento del
giorno, probabilmente la maggior parte della gente crede di aver avuto
un’allucinazione, ma non mi stupirei se qualcuno ne fosse
stato ispirato per un
romanzo o un’opera d’arte. –
Abbassò
il capo, afferrandole una
mano e accarezzandola delicatamente.
-
Forse
non troverò nulla, ma non so più dove sbattere la
testa. Io devo capirci qualcosa di
più in questa
faccenda! –
Mimi
annuì: tipico di Koushiro.
-
Va
bene – parve acconsentire la ragazza – ma tenta di
non stancarti troppo,
d’accordo? –
Fece per
andarsene, quando la voce
del rosso la richiamò.
-
Mimi…
-
-
Dimmi.
– si voltò a guardarlo perplessa.
-
Avrei
un certo languorino… -
Koushiro le
sorrideva gentile, le
guance leggermente imporporate. Lo stava facendo per lei,
perché aveva notato
la sua preoccupazione per la sua salute, ne era sicura. Ma non lo dette
a
vedere.
-
D’accordo,
genio. Però dovrai mangiare tutto.
–
lo ammonì.
Lui
annuì, balbettando un “grazie”.
Mimi uscì dalla stanza, chiudendosi la porta alle spalle.
-
Grazie
a te, Koushiro… - sussurrò rivolta alla porta.
Poi
aggrottò la fronte e sbuffò: gli
avrebbe anche preparato un bel tazzone di caffè.
Yamato aveva
mille dubbi per la testa.
Solo una certezza risultava cristallina nel suo cervello: doveva
aiutare Rumiko
a tornare. Qualcosa dentro di lui gli diceva che tutto sarebbe tornato
a posto
non appena lei avrebbe fatto la sua ricomparsa. Certo, una parte di lui
si
ostinava a rammentargli che tale convinzione era dettata
dall’amore che provava
nei suoi confronti, ma Yamato aveva smesso da tempo di dar retta a
quella
vocina.
Innanzitutto
avrebbe avuto bisogno di
informazioni. E quale luogo migliore per effettuare una ricerca se non
la
biblioteca? Dubitava però che in quella centrale di Tokyo
avrebbe trovato
qualche informazione utile su come riportare in vita i morti.
Tuttavia si era
impossessato di un
computer dell’ospedale e aveva preso a fare ricerche. Doveva
pur esserci un
qualche filosofo che avesse compiuto degli studi in merito. Se
c’era una cosa
che aveva imparato degli esseri umani, infatti, era che non vi era
limite alla
loro curiosità.
Ma dopo mezza
giornata passata a
rovistare nel web non aveva ancora trovato nulla
d’interessante, solo ciarpame.
Si accasciò sulla sedia, sfinito, e dette alcune grandi
sorsate alla tazza di
caffé che teneva sempre a portata di mano. Spesso si
chiedeva quanto tempo
sarebbe passato prima che il suo organismo si adattasse a quella
bevanda e la
caffeina non riuscisse più a tenerlo sveglio.
Lanciò
un’occhiata ai suoi compagni
di sotterfugi (non aveva accennato agli altri delle sue intenzioni, era
certo
l’avrebbero preso per pazzo e lo avrebbero ostacolato in
tutti i modi).
Gabumon e
Masahiro conversavano
amabilmente, il primo appollaiato su un mobiletto, il secondo seduto a
cavalcioni di una sedia, le braccia conserte appoggiate allo schienale.
Inizialmente il digimon non aveva nascosto la sua reticenza ad
accettare la
presenza di quell’uomo accanto a sé e soprattutto
al suo prescelto. Yamato
aveva sorriso della sua gelosia e gli aveva raccontato
dell’incontro-scontro
con Masahiro. Il digimon aveva ascoltato in silenzio e lentamente,
seppur
all’inizio con riluttanza, aveva cominciato a mostrarsi
più gentile nei
confronti dell’uomo. Ma appena quest’ultimo prese a
raccontargli dei suoi
viaggi e di tutto ciò che aveva avuto modo di vedere,
Gabumon ne era rimasto
affascinato almeno quanto Yamato, gioendo a sua volta nel raccontare
aneddoti e
avventure vissute col suo prescelto.
Quello che
stupiva realmente il biondo,
tuttavia, era la semplicità con cui Masahiro aveva accettato
non solo di
trovarsi catapultato in quella situazione tenebrosa, ma anche di
passare le sue
giornate in compagnia di un ragazzo praticamente sconosciuto e una
creatura
digitale decisamente fuori dal comune.
-
Te
l’ho detto, ragazzo – gli aveva semplicemente
risposto Masahiro, quando Yamato
gli aveva esposto la sua perplessità – ti trovo un
tipo piuttosto in gamba e
interessante, decisamente cresciuto, per la tua età.
–
-
Ti
sembro saggio? – aveva alzato un sopracciglio il biondo,
scettico.
-
I
“grandi” non sono necessariamente saggi, ma hanno
sulle spalle maggiori
esperienze, responsabilità e problemi. Anche se sono sempre
stato convinto che
la maggior parte di questi ultimi se li creano da soli. – si
era stretto nelle
spalle.
-
E
per quanto riguarda Gabumon? –
-
Credo
sia un tipo parecchio forte anche lui. All’inizio pensavo
fosse un animaletto
da compagnia decisamente più bizzarro di quelli che avevo
visto fin ora. Ma
parlandoci mi sono ricreduto: se tu sei un giovane adulto, lui invece
è un
bimbo maturo. –
Yamato aveva
riso.
-
Un
bimbo maturo? Tralasciando il controsenso…ma non sono la
stessa cosa? –
-
No.
– gli aveva spiegato Masahiro, come se fosse una cosa ovvia
– Un giovane adulto
è un ragazzo che ha vissuto più esperienze e
attraversato più difficoltà di un
suo coetaneo. Questo l’ha fatto maturare anzitempo, gli ha
caricato le spalle
di doveri che un ragazzo della sua età non conosce neppure e
gli ha plasmato la
mente, rendendola disillusa e contorta come quella di un adulto. Un
bambino
maturo, invece, sebbene abbia vissuto le stesse esperienze e dovuto
superare
gli stessi ostacoli, non ha permesso che gli eventi avessero la meglio
su di
lui. È rimasto lo stesso bambino sognatore, in grado di
sperare e credere
ciecamente, semplicemente per affetto. –
Aveva ammiccato
a un meditabondo
Yamato.
-
Per
farti un esempio: tu ora mi hai esposto i tuoi dubbi, mentre il tuo
amico
digitale non credo se li sia nemmeno posti. Per lui probabilmente
è ovvio che io trovi
piacevole la vostra
compagnia, altrimenti non passerei tutto il mio tempo con voi, con un
altro
centinaio di persone a disposizione con cui socializzare. Per quanto il
suo
ragionamento sia ingenuo, infatti, non fa una piega. –
posò una manona sulla
spalla del ragazzo – Dovresti chiedergli consiglio
più spesso anziché
arrovellarti inutilmente da solo. –
Il ragazzo
tornò alla realtà,
sospirando sconsolato.
-
Gabumon
– apostrofò il digimon, che si voltò a
guardarlo incuriosito – tu a chi
chiederesti informazioni su come resuscitare i morti? –
Il digimon
aggrottò la fronte. Parve
pensarci un attimo, grattandosi il muso con fare meditabondo, come se
stesse
tentando di estrapolare un ricordo preciso.
-
Se
non sbaglio – azzardò poi – li chiamate sacerdoti…
-
Yamato
sgranò gli occhi, tirandosi
una manata sulla fronte.
-
Ma
certo! Perché non ci ho pensato io? –
Ma negli occhi
di Masahiro gli parve
di leggere la risposta: perché era un giovane adulto.
Continua…
N.d.a:
Sarei molto
curiosa di leggere le
vostre impressioni sulla storia e sulla piega che stanno prendendo gli
eventi.
Tante domande
sono state poste, ora
per i personaggi è arrivato il momento di cercare delle
risposte. E di
risolvere i propri dubbi.
Dal capitolo 23:
[…]
Sapeva bene che Koushiro non
aveva parlato. Eppure lei l’aveva sentito.
Un abbraccio,
Monalisasmile
|
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Capitolo 23 *** - ***
Capitolo
23
Koushiro
ingoiò un’altra cucchiaiata
di minestra sotto lo sguardo compiaciuto di Mimi. Le sorrise, sebbene
si
sentisse un imbroglione: voleva renderla felice, ma presto
l’avrebbe nuovamente
contrariata e fatta preoccupare.
Distolse lo
sguardo da quegli occhi
nocciola, temendo che la ragazza potesse intuire le sue intenzioni. Per
quanto
avesse spulciato il web, infatti, non era riuscito a trovare altre
informazioni
su Angstmon nelle leggende alemanne. Ma era sicuro che un archivio ben
fornito avrebbe
contenuto qualche volume prezioso, in cui comparisse almeno un accenno
in
merito. Solo che per consultarlo avrebbe dovuto lasciare il quartier
generale
degli Svegli e inoltrarsi nella città buia, dove sarebbe
stato facile preda di
un attacco da parte di Alptraumon.
Per un attimo
Koushiro si chiese il
motivo per cui era stato coniato quel termine, dato che le due creature
già
possedevano un nome. Ma poi immaginò si trattasse di
un’altra trovata di
Sandmannmon: se erano a tutti gli effetti una
“coppia”, avrebbero dovuto avere
un appellativo comune. Dunque Alptraumon, in tedesco tradotto come
“incubo”.
Quest’ultima
scoperta l’aveva portato
a pensare che si trattasse di un suggerimento di Angstmon, il che
avrebbe
confermato le sue teorie sull’origine di quella creatura.
Prese nota
mentalmente di inserire
anche “Alptraum” tra i termini della sua ricerca,
una volta che fosse riuscito
ad eludere la sorveglianza di Mimi.
Koushiro aveva
pensato di portare
Tentomon con sé, ma di non permettere agli altri prescelti
di seguirlo: la loro
presenza sarebbe stata molto più utile accanto ai
superstiti, in caso di un
attacco improvviso, piuttosto che in qualche angolo sperduto della
città. Loro
erano combattenti migliori di lui, mentre quanto Koushiro poteva fare
per aiutarli
era adoperarsi in ciò che meglio sapeva fare: trovare delle
spiegazioni. Il
tempo stringeva, l’ansia e la stanchezza aumentavano sempre
più. Poteva
leggerlo sul volto degli uomini, delle donne e dei bambini. Il suo
stesso viso
era spaventosamente tirato.
Occorreva dunque
che partisse al più
presto. Avrebbe preparato il necessario, poi ne avrebbe parlato agli
amici,
sperando che non gli facessero perdere troppo tempo nel tentativo di
convincerli.
Lanciò
uno sguardo a Mimi, che gli
sorrideva raggiante per la buona riuscita del pasto. Notò
come le occhiaie
stessero scavando anche il suo bel viso, sebbene lei tentasse di
nasconderle
col trucco. Nonostante probabilmente non corresse alcun pericolo ad
addormentarsi, infatti, la ragazza si era ostinata a restare sveglia. E
il
giovane aveva il sospetto che l’avesse fatto per poter
vegliare su di lui.
“ Come
faccio a convincere lei a lasciarmi
andare?” si chiese
sconsolato.
Sapeva bene
quanto Mimi potesse
essere testarda e che avrebbe cominciato a fare i capricci pur di poter
fare
come preferiva. E se ciò che voleva era fargli da spalla,
lui non avrebbe
saputo come dissuaderla.
Ovvio che
trovasse piacevole la sua
presenza, la amava. Ma come avrebbe
potuto sopportare che lei lo seguisse in quella folle ricerca se
ciò comportava
dei rischi? Non era sicuro di essere in grado di proteggerla, non era
forte
quanto Taichi o Yamato… E se le fosse successo qualcosa non
se lo sarebbe mai potuto perdonare.
Dunque che fare?
“
Forse” pensò amaramente, abbassando
gli occhi sulla minestra ormai tiepida nel suo piatto
“è meglio non dirle
nulla… Mi detesterà per questo, ma preferisco
essere odiato che rischiare di
perderla…”
Affondò
un'altra cucchiaiata e la
cacciò rapidamente in bocca.
-
Sono
contenta che ti piaccia! – gioì la ragazza
– Modestamente sono sempre stata
piuttosto brava come cuoca… -
-
È
delizioso, Mimi. – le sorrise gentilmente lui.
-
Lo
so, lo so. – si alzò lei, fiera di sé
– Vedrai che manicaretto ti cucinerò
domani, ti leccherai i baffi! – gli strizzò
l’occhio.
Lui
annuì, distogliendo lo sguardo.
“ Mi
spiace, Mimi, ma domani non sarò
più qui…”
La ragazza lo
fissò un attimo
esterrefatta.
-
H-hai
detto qualcosa, Koushiro? –
Lui
arrossì, ma dopo il primo attimo
di smarrimento scosse il capo, accingendosi a finire il suo pasto.
Mimi lo
studiò ancora qualche
secondo, poi con una scusa si dileguò.
Chiuse la porta
alle sue spalle e vi
appoggiò la schiena, aspettando che i battiti del cuore
rallentassero e la
mente tornasse lucida.
Sapeva bene che
Koushiro non aveva
parlato. Eppure lei l’aveva sentito.
Trasse un
profondo respiro. La prima
volta che era capitato si era agitata parecchio, quasi quanto
l’infermiere che
l’aveva vista portarsi una mano alla bocca, sconvolta.
-
Signorina,
si sente bene? – le aveva chiesto, avvicinandosi a Mimi.
Lei non aveva
risposto, limitandosi a
voltargli le spalle.
“ Deve
essere ancora sotto shock,
poverina” aveva pensato l’uomo.
Mimi aveva
nuovamente sobbalzato,
sicura, sebbene non l’avesse visto in volto, che le labbra
dell’uomo nuovamente
non si erano dischiuse.
Si era imposta
la calma e aveva
accantonato l’evento, non sapendo darvi una risposta
razionale.
Tuttavia, man
mano che questi episodi
si ripetevano, un’idea si era fatta avanti prepotentemente
nella sua mente.
Un’idea assolutamente folle, eppure l’unica le
paresse in qualche modo
verosimile.
Si
lasciò scivolare a terra,
raccogliendo le ginocchia al petto.
“ Verosimile...in
tutta questa storia non c’è mai
stato
nulla di verosimile, se vista dagli occhi di una normale persona dotata
di un minimo
di raziocinio.”
Per quanto
avesse cercato di negarlo
a se stessa, era ormai evidentemente che c’era qualcosa che
non andava in lei,
se poteva sentire i pensieri delle persone.
Le venne la
pelle d’oca a ripensare a
certi apprezzamenti nei suoi confronti o alle tacite minacce di altri.
Era
certa che quelle persone non volessero mandarglieli intenzionalmente,
così
com’era sicura che lei non fosse in grado di controllare
questa sua nuova
facoltà.
Ignorava come
fosse arrivata a
possederla, ma sospettava che la causa fosse Sandmannmon, dato che si
era
manifestata per la prima volta quando era stata dimessa.
Una bambina
trotterellò per il
corridoio, fino a raggiungerla e fermarsi di fronte a lei. La
studiò qualche
minuto, perplessa.
-
Che
ci fai là per terra? – squittì.
Mimi
sospirò stancamente.
-
Mi
riposo un attimo e penso a quello che dovrei fare, piccolina.
– tentò di
sorriderle.
-
Mmmm…
- annuì la bimba, poco convinta, per poi girare i tacchi e
allontanarsi.
“ Che
schifo però lì per
terra…sarà
tutto sporco!”
Mimi attese che
la bambina si fosse
allontanata, poi abbandonò il capo sulle ginocchia.
“ Non
posso andare avanti così. Ogni
giorno sento sempre di
più…e se
arrivassi a udire tutti i pensieri
della gente?!”
Sapeva bene la
risposta: sarebbe
impazzita.
Ma cosa poteva
fare per evitarlo?
Come sarebbe riuscita a liberarsi di quel potere o quanto meno a
controllarlo?
Aveva pensato di
chiedere aiuto ai
prescelti, ma temeva che non l’avrebbero capita. Era convinta
che solo Koushiro
sarebbe stato in grado di ascoltarla e aiutarla, ma il rosso era
già
sufficientemente stressato.
“ Non
posso chiedere sempre aiuto a
lui…sarei davvero egoista…”
E la parola
“egoista” mal si abbinava
al termine “amore”.
Un pensiero le
attraversò fulmineo il
cervello. Koushiro era un ragazzo timido e molto riservato: se gli
avesse
rivelato di esser in grado di percepire quei pensieri che lui tanto
gelosamente
custodiva, si sarebbe allontanato da lei per preservarli e proteggere
la sua
intimità?
Alzò
il capo di scatto, terrorizzata
più da quell’eventualità che dal potere
di cui era entrata in possesso.
“ Come
potrei biasimarlo? La cosa
spaventerebbe persino una ragazza egocentrica come me!”
No, non poteva
perderlo. Dunque non
glielo avrebbe detto. Se la sarebbe cavata da sola, senza coinvolgerlo
ulteriormente nei suoi problemi.
Già,
ma come?
Aveva parecchi
dubbi riguardo
all’esistenza di un sito da cui scaricare una guida che
illustrasse un modo per
controllare poteri paranormali. E di certo in quel ospedale non vi
erano medici
competenti in materia.
“ Ma
chi voglio prendere in giro?!
Non esiste nessuno competente in
materia. Anzi, diciamo pure che nessuna persona sana di mente starebbe
ad
ascoltare una ragazza che si definisce…”
Un’idea
le balzò alla mente, ma
scosse vigorosamente il capo per accantonarla. Folle, semplicemente
insensata.
“
Oddio” si portò le mani al capo “
sto cominciando a ragionare negli stessi termini di Koushiro!”
Tuttavia
c’era ancora qualcosa in
tutta quella faccenda che potesse dirsi sensata? La sua stessa
capacità di leggere
i pensieri delle persone era assolutamente irrazionale. Dunque la
risposta ai
suoi problemi non poteva che seguire l’onda delle
insensatezze. E se era una
risposta insensata che cercava, qualcosa di assurdo quanto lo era tutto
il
resto, allora l’avrebbe senz’altro trovata nelle
superstizioni e nelle
leggende. E chi era il custode di tutte le storie, chi le avrebbe
creduto
perché credeva nel potere da lei posseduto?
“ Un
sacerdote.”
Si
tirò in piedi e si spolverò la
gonna con alcune manate decise: in effetti quel pavimento necessitava
di una
spolveratina. Prese mentalmente nota e si allontanò a passo
spedito, in cerca
di Palmon.
Purtroppo Mimi
era famosa per la sua
leggerezza e il pensiero captato dalla mente di Koushiro
passò in secondo
piano.
Doveva stabilire
una meta precisa
prima di avventurarsi all’esterno e possibilmente una sola:
dubitava fortemente
che Alptraumon non si sarebbe accorto della sua presenza se si fosse
messo a
scorrazzare per tutte le biblioteche della città.
Koushiro
aggrottò la fronte: la
Biblioteca Centrale?
Senz’altro ospitava molti più volumi rispetto alle
altre e vantava una vasta
scelta di argomenti. Ma qualcosa gli diceva che trovare quello che lui
cercava
in un archivio tanto grande sarebbe stato difficile e soprattutto molto
lungo.
Occorreva
restringere il campo di
ricerca.
Ma esisteva a
Tokyo una biblioteca
specializzata in leggende di demoni provenienti da mondi paralleli?
Sgranò
gli occhi e si battè una mano
sulla fronte, tanto vigorosamente che Tentomon sobbalzò.
“ La
biblioteca del Tempio”
In toni bassi ma
decisi aveva esposto
la sua idea a Taichi e Sora che, riluttanti e scuri in volto, avevano
annuito.
Per quanto quella situazione non piacesse a nessuno dei due, era
evidente che
qualcosa andava fatto per sbloccare quel terribile assedio cui erano
costretti
e al più presto possibile. Avrebbero voluto accompagnarlo
per dargli manforte,
ma tutti e tre avevano cupamente convenuto che non era saggio lasciare
l’ospedale privo di protezione.
Il rosso avrebbe
voluto discuterne
anche con Yamato, ma dalla scomparsa di Rumiko il cantante era
diventato
estremamente schivo, sempre più pallido e silenzioso,
più simile a un fantasma
che a un essere umano in carne e ossa.
Daisuke e Mei
erano occupati a
calmare gli umori sempre più irascibili di alcuni ragazzi,
ma Koushiro era
sicuro che non si sarebbero opposti al suo piano, sebbene avrebbero
tentato di
convincerlo a portarli con sé. Non faceva fatica a
immaginare quanto quelle due
teste calde si sentissero in gabbia tra le mura di quel ospedale in cui
la
gente stava dando di matto. Tuttavia per mantenere la segretezza e non
esser
scoperti da Alptraumon era necessario muoversi con cautela e
discrezione, due
doti di cui i ragazzi non conoscevano il significato.
Aveva invece
evitato accuratamente
Mimi, chiedendo ai prescelti del Coraggio e dell’Amore di
vegliare su di lei in
sua assenza e di dissuaderla da colpi di testa che avrebbero potuto
metterla in
pericolo.
Poi aveva preso
uno zaino con le
poche cose che gli sarebbero servite per giungere a destinazione e si
era messo
in cammino affiancato da Tentomon, dando le spalle
all’ospedale degli Svegli.
Non poteva
immaginare cosa l’avrebbe
atteso durante il suo breve percorso nella città
addormentata. Di certo non
immaginava che altri camminavano avanti a lui, ognuno ignaro dei piani
dell’altro, tutti diretti verso la stessa meta: il Tempio.
Yamato si
voltò di scatto, puntando
una pistola davanti a sé: gli pareva di aver udito una voce.
Scrutò l’oscurità
di fronte a sé, cui i suoi occhi si stavano lentamente
abituando dopo diverse
ore di cammino attraverso la città spettrale.
Il ticchettio
del suo orologio pareva
quasi assordante alle sue orecchie, i muscoli di tutto il corpo gli
dolevano a
causa della continua tensione. Da quando lui e i suoi compagni di
viaggio
avevano lasciato furtivamente l’ospedale, i suoi sensi erano
continuamente in
allerta, pronti a captare il minimo segno di pericolo.
Una manona si
appoggiò sulla sua
spalla, ma il cantante non sussultò.
-
Qualcosa
non va, Yamato? – gli chiese in un sussurro Masahiro.
Il biondo scosse
il capo, lanciando
un’occhiata rassicurante all’uomo e a Gabumon, che
lo guardava interrogativo.
Ripresero a
camminare, tenendosi al
riparo degli edifici per non essere facilmente individuati da
Alptraumon in
caso fosse volato sopra le loro teste. Masahiro guidava il trio, armato
di due
pistole di calibro superiore a quella del ragazzo e munito di una
torcia velata
da un panno perché non emettesse un cono di luce troppo
appariscente. Gabumon,
ovviamente, non aveva bisogno di altri mezzi di difesa se non se
stesso, Digimon
o Umano che fosse ad attaccarli.
Si rendevano
infatti conto che se
qualche superstite era rimasto nella città, era probabile
che avesse i nervi a
fior di pelle esattamente come gli Svegli nell’ospedale. E
non sarebbe stato
difficile per qualche mal intenzionato tendere loro un agguato
nell’oscurità
che avvolgeva Tokyo.
Procedevano
lentamente, evitando le
strade principali e allungando il tragitto. Ma ormai mancava poco a
destinazione.
“ Mi
auguro solo che almeno un
sacerdote sia rimasto sveglio” pensò cupamente il
biondo.
Un’esclamazione
soffocata lo fece
voltare di colpo e scattare verso il dehor di un ristorante che avevano
appena
oltrepassato. Scavalcò con un’unica falcata la
bassa siepe che circondava i
tavolini e atterrò sicuro di fronte a…
-
Mimi?!
–
Masahiro e
Gabumon erano già da
fianco a lui e l’uomo puntò la torcia verso la
ragazza e il suo digimon-pianta.
La Prescelta
teneva entrambe le mani premute sulla bocca e aveva gli occhi lucidi e
sgranati
in un’espressione di terrore.
Yamato
rilassò i muscoli ed emise un
sospiro di liberazione: quella era senza ombra di dubbio Mimi.
“ Ma
che ci fa qua? Ci stava forse
pedinando? Da quanto tempo?”
Lei
sembrò tranquillizzarsi un
pochino, sebbene la sua espressione si fece sconfortata.
-
Una
domanda per volta, Yamato. –
Lui
sgranò gli occhi, cercando con lo
sguardo conferma sul volto dei suoi compagni: aveva forse parlato ad
alta voce?
Ma dalle loro espressioni di stupore dedusse che non era
l’unico a esser
rimasto spiazzato dalle parole della ragazza.
Mimi si
guardò attorno tristemente e
annuì.
-
Non
hai parlato, Yamato, quelle domande le hai solo pensate. –
Lui
sollevò un sopracciglio.
-
Ma
allora tu… -
-
Io
posso sentire i pensieri delle persone. – liquidò
lei il discorso con un gesto
della mano, come se si trattasse di un insetto fastidioso –
Non chiedermi come
o perché: non ne ho idea. È per questo che sono
qua. – alzò gli occhi su di
lui, risoluta.
-
Qua?
– aggrottò lui la fronte, lanciando
un’occhiata fugace alla città lugubre,
decisamente non corrispondente ai gusti raffinati dell’amica.
-
Voi
state andando al Tempio. –
Non era una
domanda e Yamato era
ancora abbastanza sveglio da capire dove lei volesse andare a parare:
aveva
“sentito” dai loro pensieri che la loro meta era
comune e aveva pensato di
accodarsi a loro per agevolare un viaggio che le metteva i brividi. Sul
perché
non avesse voluto rivelare la sua presenza non fece domande: aveva
imparato da
tempo che non sempre era facile capire la mente delle donne, tanto meno
quella
di Mimi, che per lui rappresentava una matassa aggrovigliata.
-
Grazie
eh! – si lagnò lei con una smorfia di
risentimento, segno che aveva ancora una
volta udito i suoi pensieri.
Incurante del
suo commento, notò che
la ragazza era provvista di un bagaglio piuttosto leggero e
probabilmente
organizzato di fretta. Ipotizzò dunque che fosse
sgattaiolata fuori dal
ospedale senza dire nulla a nessuno (Koushiro non le avrebbe mai
permesso di
fare una passeggiatina in un luogo tanto pericoloso) e che non volesse
correre
il rischio di esser rispedita indietro.
Le gote
improvvisamente arrossate di
Mimi confermarono la sua tesi.
Non si chiese
nemmeno il perché la Prescelta
di fosse
improvvisamente trovata provvista di quello strano potere: aveva
assistito a
troppe assurdità in troppi pochi giorni per potersi
permettere il lusso di
altri interrogativi, che non avrebbero fatto che aumentare il peso di
quelli
che già portava dentro di sé.
Mimi non
fiatò, ma gliene fu grata.
-
Una
cosa però non mi è chiara… -
sussurrò pensierosa, osservando attentamente il
biondo.
Lui la
esortò a continuare con uno
sguardo.
-
So
che anche tu cerchi delle risposte dai sacerdoti del Tempio…
ma non riesco a
capire riguardo a cosa… -
-
Non
l’hai letto nella mia mente? – sorrise senza
allegria Yamato, cui l’idea che i
suoi pensieri riguardo Rumiko fossero percepibili da qualcuno non
garbava
affatto, per quanto Mimi fosse una sua amica.
Lei
però non parve cogliere il tono
sarcastico della sua voce, o forse non volle farlo.
-
No.
– ragionò a voce abbastanza alta da essere udita
dagli altri – È come ascoltare
una persona al telefono quando la linea è
disturbata…anzi, come quando in
televisione censurano delle conversazioni troppo esplicite con quei
“biiip”
fastidiosi! Non so se ho reso l’idea… - concluse,
imbarazzata per quella
spiegazione strampalata.
-
Sì,
ho capito… - annuì il biondo pensieroso.
Poi le porse una
mano e l’aiutò ad
alzarsi.
-
Procedete
in fila indiana come stavamo facendo noi. E mi raccomando,
Mimi… - le lanciò un’occhiata
penetrante – discrezione.
–
Lei
esibì un’espressione corrucciata,
ma annuì.
Yamato stava per
voltarsi, quando lei
lo trattenne per un braccio.
-
Senti,
quello che hai pensato prima… - gli sussurrò lei
titubante – credi che quando
arriveremo là troveremo qualcuno di sveglio? –
Lui le
poggiò una mano sulla spalla.
-
Per
ora pensiamo ad arrivarci tutti interi. Al resto penseremo
più tardi. –
E detto questo
si rimise in marcia.
Più o
meno un’ora dopo si trovavano
ai piedi delle lunghe scalinate che portavano al Tempio. Masahiro
propose di
raccogliere le energie prima di cominciare la scalata, idea che venne
subito
accolta con riconoscenza da Mimi, che si sedette con malagrazia tra le
radici
di un albero.
Yamato
però rimase in piedi: il
continuo stato di allerta gli pompava adrenalina nelle vene e per
quanto la
cosa gli prosciugasse rapidamente le energie fisiche, contribuiva a
mantenerlo
sveglio.
Si
guardò attorno circospetto. Lui
che per natura diffidava delle persone e delle situazioni
apparentemente troppo
semplici non poteva credere che fossero arrivati là senza
incontrare alcun
ostacolo. Non senza l’aiuto di qualcuno. Tuttavia non era
detto che dietro vi
fossero delle buone intenzioni, anzi, poteva trattarsi di una trappola
ben
architettata per farli allontanare dai loro amici quanto bastava
perché non
potessero ricevere soccorso.
O forse no. In
fondo Alptraumon, per
quanto ne sapeva il biondo, era abbastanza potente da schiacciarli
senza
difficoltà se solo avesse voluto. Probabilmente
l’unico motivo per cui
tergiversava era portare a termine un oscuro gioco sadico.
Ciò nonostante
dubitava che li avrebbe lasciati liberi di scorrazzare per la
città, non senza
importunarli almeno un po’.
Si
passò una mano tra i capelli,
frustrato. Per quanto non avesse mai avuto una mente brillante quanto
quella di
Koushiro era sempre stato un ragazzo sveglio e perspicace. Ma questa
volta si
trovava sovrastato da dubbi e domande che non solo non trovavano
risposta, ma
crescevano sempre più.
Sorrise privo di
allegria, beffandosi
di se stesso. Era passata appena un’ora dalla scoperta della
misteriosa
capacità extrasensoriale di Mimi ed ecco che gli si parava
di fronte un nuovo
enigma: in quella spericolata partita vi era un terzo giocatore, oltre
a loro e
Alptraumon? E se sì, chi mai poteva essere?
“ In
questo momento vorrei tanto
possedere la mente brillante di Koushiro!”
“ E
perché mai? La tua è davvero
affascinante, ragazzo mio, nulla da invidiare alla sua.”
Yamato
sgranò gli occhi esterrefatto,
voltandosi verso i compagni, che tuttavia sembravano non aver notato
nulla di
strano.
Lanciò
occhiate furtive attorno a sé,
la presa salda sulla pistola. Ma non scorse nulla. Non un suono
infrangeva la
tranquillità di quel luogo, a parte il basso brusio di Mimi
e Palmon che
chiacchieravano ai piedi dell’albero.
Non
c’era nessuno a parte loro nelle
vicinanze, ne era certo. Di sicuro non l’uomo che gli aveva
parlato.
Si
portò una mano sugli occhi,
stropicciandoli stancamente.
“ Ok,
ne ho abbastanza di enigmi. Il
Destino potrà anche essere beffardo, ma stronzo
fino a questo punto spero proprio di no! Dunque” trasse un
profondo respiro,
come a volersi calmare “ le cose sono due: o sto dando di
matto e sento voci
che non esistono, oppure…” fece una pausa, quasi
si aspettasse di avere conferma
che il suo interlocutore fosse in ascolto “…oppure
tu sei il terzo giocatore di
questa partita e sai ascoltare e comunicare con la mente delle
persone.”
Avvertì
un leggero fremito nei suoi
pensieri e immaginò che l’uomo stesse sorridendo.
“ Ti
avevo detto che la tua mente non
era meno elevata di quella di Koushiro.”
“
Inutile chiederti se sai davvero
chi sia, vero?” sogghignò il biondo.
L’uomo
non parve badarvi.
“ So
chi è lui come so chi sei tu,
Yamato.”
“
Peccato che io non sappia ancora
chi sia tu. E se non erro la buona
educazione impone di presentarsi.”
“ La
buona educazione impone anche di
usare un tono più ossequioso al cospetto di una persona
più anziana.” replicò
l’altro con calma.
“ Se
tu fossi di fronte a me
probabilmente lo farei, ma si da il caso che tu sia dentro
di me e la cosa m’infastidisce non poco.”
Di nuovo ebbe
l’impressione che il
misterioso interlocutore sorridesse.
“
D’accordo Yamato. Quando sarai
giunto in cima alle scale del Tempio potremo riaffrontare
l’argomento
“convenevoli” di persona e potrai mettermi a parte
del motivo che ti ha spinto
ad attraversare la città per farmi visita.”
Perfetto, aveva
ringhiato come un cafone
contro un sacerdote! Tuttavia bisognava ammettere che era stato
piuttosto
indiscreto a insinuarsi così nei suoi pensieri.
Dal risolino
sommesso che percepì fu
certo che anche quest’ultimo pensiero fu sentito
dall’uomo. Per quanto una
parte di lui si rendesse conto che non era nella posizione di mostrarsi
irrispettoso nei confronti del religioso, quella beffa gli fece
storcere la
bocca in una smorfia di disappunto.
“ Mi
pare piuttosto bravo a farsi gli
affari miei. Come mai non è riuscito ad afferrare anche il
motivo per cui sono
qua?”
L’uomo
si prese una pausa prima di
rispondere.
“ Non
lo so nemmeno io, Yamato.
Percepisco dei buchi neri in parte dei tuoi pensieri, simili a delle
interferenze, come se certe cose si ostinassero a voler rimanere
nascoste…”
Il biondo
ghignò soddisfatto:
evidentemente nemmeno a Rumiko piaceva che altri si facessero i fatti
suoi.
“ Uno
pari e palla al centro,
sacerdote” sorrise tra sé e sé
soddisfatto “Passo e chiudo!”
L’uomo
rise sinceramente.
“
Arrivederci, Yamato.”
-
Tutto
bene, Yamato? – gli chiese Mimi, che cominciava a temere che
fosse stato
posseduto da Alptraumon.
Lui la
guardò un attimo pensieroso.
-
Una
favola! – ghignò il biondo.
Lei
indietreggiò di un passo: non vi
era dubbio che quello fosse il vero
Yamato, ma che gli prendeva tutto d’un tratto?
-
Sicuro
di non avere la febbre? – tentò di tastagli la
fronte, ma lui si scostò,
afferrandola per un braccio e trascinandola con sé verso le
scale.
-
Sto
bene, non vedo solo l’ora di arrivare a questo stramaledetto
Tempio e di farmi
spiegare un po’ di cosette da un sacerdote, tanto per
cominciare questa storia
della lettura del pensiero. –
Lei lo
strattonò, liberando il
braccio dalla sua presa e lanciandogli un’occhiataccia.
-
Frena
l’entusiasmo, Yamato! Chi ti dice che lassù ci sia
qualcuno che possa anche
solo credere a quello che gli racconterei?! –
Non ci voleva un
Premio Nobel per capire
che Mimi si era arrabbiata, ma Yamato rinfoderò la pistola
che ancora teneva in
mano, infilando poi entrambe le mani nelle tasche dei pantaloni. Le
sorrise
scaltro, come un bambino dispettoso.
-
Diciamo
che me lo sento… -
disse, prima di
voltare loro le spalle e salire i gradini con calma e disinvoltura,
come se
fosse un qualsiasi pomeriggio primaverile.
Gli altri si
guardarono un attimo
straniti, poi lo seguirono, vigili a ogni traccia di pericolo, molto
più
probabile in quel luogo scoperto che nei meandri della
città. Yamato, dal canto
suo, sapeva che nulla li avrebbe attaccati: il sacerdote avrebbe
vegliato su di
loro, così come li aveva controllati durante tutto il loro
tragitto.
Quasi sorrideva,
mentre saliva i
gradini uno a uno, certo che si stava avvicinando alla soluzione dei
tanti
enigmi che lo tormentavano e, sperava, anche a Rumiko.
“
Tranquilla, Rumiko” pensò,
incurante che il sacerdote o Mimi potessero ascoltarlo
“presto potrai
riabbracciare tuo padre, i tuoi amici, Caffè
e…” strinse le mani a pugno nelle
tasche per frenare le lacrime “…me.”
Continua…
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Capitolo 24 *** - ***
Capitolo
24
Rumiko
aveva paura. E nessuno avrebbe potuto biasimarla per aver desiderato
fuggire,
lasciar perdere tutto: aveva lottato contro un mostro infernale,
l’aveva
sconfitto a costo di sacrificare involontariamente molte vite, tra cui
quella
della sua amata madre. Era fuggita nel tentativo di mettere
più distanza
possibile tra lei e i ricordi dolorosi. Aveva cominciato una nuova
vita,
accanto a nuove persone.
E per
tutto quel tempo aveva portato un grande peso dentro di sé,
senza farne parola
con nessuno, con l’unica consolazione che quel incubo era
ormai finito e che un
giorno le ferite nel suo cuore si sarebbero rimarginate.
Ma
così
non era stato.
Quel
brutto sogno era tornato a farle visita, più reale che mai,
piombandole addosso
all’improvviso. Aveva scoperto ciò che i suoi
amici le tenevano nascosto: erano
dei Prescelti, esattamente come lo era stata lei.
Se a New
York si era sentita abbandonata da coloro che avrebbero dovuto essere
suoi
compagni in battaglia, a Tokyo, a un anno di distanza, si era sentita
tradita
da coloro che ormai considerava dei cari amici.
Una vocina
nella sua testa le suggerì che proprio perché li
conosceva, poteva facilmente
intuire che il motivo per cui non erano accorsi ad aiutarla in America
era che
non fossero a conoscenza della situazione.
Ma lei mise
a tacere quel sussurro interiore. Poco importava del perché
non fossero venuti
in suo soccorso. Erano i risultati a contare e le conseguenze di quella
notte
erano state raccapriccianti.
“ Non
è
che stai solo cercando un capro espiatorio?” tornò
a farsi sentire quella voce
saccente.
“
Perché
mai dovrei?!” le ringhiò contro rabbiosamente.
“
Perché
hai paura. Hai paura di ammettere a te stessa che quanto è
successo era inevitabile, date le
circostanze.”
“
Niente è
inevitabile.”
La vocina
parve sospirare in un’anticamera del suo cervello.
“
Purtroppo alle volte anche la più grande forza di
volontà risulta impotente di
fronte al Destino…e non è colpa di nessuno.
È troppo semplice scaricare accuse
su chi non può far altro che accusare il colpo. E non mi
riferisco solo ai
Prescelti.”
“ Che
vuoi
dire?”
“
Scaricare
la colpa anche su se stessi è un buon modo per mettersi al
riparo dalla verità
quando non si è in grado di accettarla.”
Piano
piano, il corpo di Rumiko si stava rilassando e quella voce stava
cominciando
ad assumere un tono e un volto familiare.
“
Rumiko”
riprese la voce “non sempre c’è un
perché nelle cose che accadono, o almeno non
una motivazione a noi comprensibile. Anzi, spesso le disgrazie
più grandi hanno
la causa più misera: il caso. Ma non ha importanza.
Perché così è la vita:
fatta di imprevisti, belli o brutti che siano. Una persona non
può farsi carico
di colpe che non ha, soprattutto non di colpe tanto pesanti.”
Lei
avrebbe voluto piangere di gioia, ma nessuna lacrima sgorgò
dai suoi occhi. Le
anime, si sa, non piangono.
“ Hai
lottato con coraggio fino ad ora, durante e fuori dalla battaglia: non
arrenderti proprio adesso. Non caricarti di fardelli non tuoi. Non
disperare
più per una tragedia che hai fatto di tutto per evitare. Non
incolpare i tuoi
amici di crimini che non hanno commesso. Liberati da queste zavorre e
ti
sentirai più leggera e forte.”
La donna
che aveva preso forma nella sua mente le sorrise.
“ Io
non
ho mai smesso di essere immensamente fiera di te.”
“
Mamma…”
Avrebbe
voluto abbracciarla, ma sapeva che anche questo le era precluso: sua
madre non
era realmente di fronte a lei, si trattava solo di
un’immagine fugace, forse
un’allucinazione. Abbassò lo sguardo, delusa e
amareggiata.
“
Torna
nel Mondo Reale, Rumiko” le disse dolcemente “
Torna da tuo padre, dai tuoi
amici…e da Yamato.”
“
Yamato?”
la guardò sbigottita.
La madre
le strizzò un occhio.
“
Persino
quaggiù è facile accorgersi che quel ragazzo
tiene molto a te.”
Nell’Oblivion
World l’infrangersi di alcune bollicine sulla superficie
dello Specchio destò
la curiosità di Kitsunemon.
Rumiko
doveva aver esalato un sospiro e la sua espressione era cambiata. Aveva
forse
avvertito qualcosa di nuovo dal Mondo Reale?
Il Digimon
studiò la sua espressione e notò che qualcosa in
lei era cambiato: il volto
contratto dalla paura e le mani quasi artigliate alle gambe strette al
petto
avevano lasciato spazio a un atteggiamento affranto. Gli angoli della
bocca
erano leggermente piegati all’ingiù, i muscoli
più rilassati, le braccia
sottili avvolte alle gambe non in un gesto spasmodico ma in un semplice
abbraccio sconsolato, come a volersi cullare.
Kitsunemon
fremette: quella era senza dubbio una novità nello Specchio
del Limbo, in cui
gli unici sentimenti ammessi erano l’odio, la paura, la
vendetta e quanto di
più corruttibile potesse risiedere nel cuore di una
creatura. Quella che vedeva
riflessa nel volto della sua Prescelta era piuttosto la solitudine e
l’amaro
senso di nostalgia verso qualcosa o qualcuno cui teneva e che
– Kitsunemon ne
era certa – la stava richiamando a sé a gran voce.
“ Dal
posto in cui ti trovi…” le sussurrò
Rumiko, pensierosa “puoi vedere cosa accade
nel Mondo Reale?”
Ricordava
perfettamente in quali circostanze avesse perso la vita: Alptraumon era
tornato
e non dubitava che fosse intenzionato a portare a termine quanto non
era
riuscito a fare un anno prima. Ricordava come Sandmannmon avesse
posseduto il
corpo di quella ragazza che aveva fatto irruzione in casa sua. Ma
poi…che era
accaduto?
Corrugò
la
fronte, nel tentativo di mettere a fuoco i ricordi, annaspando in un
groviglio
di pensieri confusi.
Emi le
sorrise gentilmente.
“
Perché
non ci provi tu?”
“
Io?”
La donna
annuì tranquillamente.
Erano
poche le cose su cui Rumiko poteva essere sicura riguardo la sua
attuale
situazione: innanzitutto che non si trovava nel Mondo Reale, ma nemmeno
nell’Aldilà, poiché avvertiva una
grande distanza tra lei e sua madre. Ma oltre
allo spazio fisico, era sicura vi fosse qualcos’altro che le
separava: erano diverse.
“
Mamma…io
non sono morta…vero?”
Emi scosse
il capo, continuando a sorriderle con serenità.
Non
percepiva il suo corpo e lo spazio attorno a lei era vuoto. Non lo
percepiva né
ostile né piacevole. Semplicemente un ambiente neutro.
Tuttavia
ricordava di esser stata attaccata da Sandmannmon e di aver risvegliato
Angstmon, rinchiuso dentro di lei. Fremette di rabbia e frustrazione
all’idea
di aver dato involontariamente asilo a quel mostro per un anno intero.
“ Ma
come
Diavolo ha fatto a…”
Scosse il
capo con decisione. Una cosa alla volta: innanzitutto doveva capire
dove si
trovava e in che stato.
Aveva
sentito il suo cuore spezzarsi sotto il peso delle parole di
Sandmannmon. Ma
non l’aveva ferita fisicamente e le parole non avevano mai
ucciso nessuno…
Allora perché si trovava lì? Perché
sentiva di essersi separata dal suo corpo?
Che fosse
tutta un’illusione del digimon? Che bastasse aprire gli occhi
per ritrovarsi
sul pavimento della sua cucina?
Aveva la
sensazione di conoscere la risposta a questi interrogativi, eppure ogni
volta
che credeva di scorgerla questa le sfuggiva.
Altre
bollicine e un’altra espressione sul viso, questa volta
corrucciata. Kitsunemon
avrebbe voluto fare i salti di gioia: Rumiko stava cominciando a
reagire.
“
Mamma,
tu sai dove mi trovo?”
La donna
annuì.
“
Allora
dimmelo, ti prego!”
Emi scosse
tristemente il capo.
“ Non
posso, cara…”
“
Perché?
Perché non puoi, mamma?!” le chiese
disperatamente.
“
Perché
non mi è concesso…”
Rumiko
serrò le labbra, frustrata.
Aveva
bisogno di aiuto. Doveva capire. Doveva sapere.
A chi
poteva chiedere? Chi avrebbe saputo consigliarla? Ma
soprattutto…chi l’avrebbe
sentita?
“…to…”
Mimi si
fermò. Tese le orecchie. Nulla. Eppure le pareva di aver
udito una voce, simile
a un eco lontano.
-
Tutto bene,
Mimi? –
Lei si
voltò a guardare il sacerdote.
Erano da
poco arrivati al Tempio e subito erano stati accolti da un anziano
monaco, che
si era presentato loro col nome di Hisashi. Yamato si era comportato in
maniera
piuttosto strana, ghignando e rivolgendosi all’uomo come se
lo conoscesse già,
ma mostrandosi ugualmente rispettoso nei suoi confronti. Con grande
sollievo di
Mimi, l’uomo aveva riso dei modi del biondo, rivolgendosi al
ragazzo come se
pure lui lo conoscesse già.
Poi si era
rivolto agli altri, apparentemente indifferente al fatto di trovarsi di
fronte
due digimon e apostrofando tutti per nome senza che si fossero
presentati. Una
cosa che aveva lasciato a bocca aperta la compagnia e allargato il
sorriso sul
volto costellato di rughe. Il sacerdote si era poi portato un dito
sulla fronte
con fare significativo. Il cuore di Mimi aveva perso un battito per
l’emozione
e l’uomo le aveva ammiccato: anche lui poteva leggere i
pensieri delle persone.
Ora
stavano camminando per i corridoi del Tempio, preceduti da Hisashi.
-
Sì,
tutto bene, signore… -
-
Hisashi
– la corresse gentilmente
lui.
-
Hisashi…
- ripeté lei.
Lui
annuì
e si rimise in testa al gruppo.
-
Questo
Tempio… - spezzò il silenzio
Masahiro – A quale divinità è dedicato?
–
-
Al dio Inari
–
Masahiro
annuì.
-
Il kami della
fertilità,
dell’agricoltura, dell’industria e del successo
terreno…-
-
L’avevi
intuito, non è vero amico
mio? –
Non era
una domanda, ma palesemente un’affermazione. Ciò
nonostante il camionista
annuì.
-
Avevo notato le
kitsune a guardia
dell’ingresso… -
Yamato
rizzò impercettibilmente la schiena: il digimon di Rumiko
aveva l’aspetto delle
kitsune, le leggendarie volpi messaggere di Inari. E si era dimostrato
altrettanto enigmatico. Prese appunto mentalmente di quella
constatazione.
Voltandosi
incontrò la fronte corrugata di Hisashi: ipotizzò
che il sacerdote fosse di
nuovo riuscito a carpire solo frammenti dei suoi pensieri riguardanti
Rumiko.
Ghignò soddisfatto.
L’anziano
tornò a rivolgersi a Masahiro.
-
Le kitsune, mio
caro Masahiro, si
dice che abbiano protetto il Tempio in periodo di guerra. E non mi
riferisco a
quelle riproduzioni in pietra… -
-
Che significa?
– domandò Gabumon –
Credevo che le kitsune fossero volpi leggendarie,
fantasticherie… -
-
Fantasticherie?
– gli sorrise l’anziano
– Curioso che sia proprio tu a fare
quest’osservazione. Non sei forse tu
stesso, in quanto abitante di un’altra dimensione parallela
alla nostra, una
creatura chimerica per la maggior parte degli Umani? Eppure sei qua, in
carne e
ossa di fronte a me. – gli accarezzò gentilmente
il capo – Nel giro di diversi
secoli le storie tramandate oralmente sono state storpiate e hanno
perso i
contorni, portando fino a noi solo pallide immagini di ciò
che è stato. Ma
tutte queste storie concordano sul fatto che le kitsune siano creature
misteriose, che agiscono in maniera spesso oscura. Sovente ingannano le
persone
tramite illusioni, si dice che possano entrare nei sogni e
persino… piegare il
tempo e lo spazio… -
Si rivolse
a Palmon, che li fissava colma di meraviglia.
-
Non mi stupirei
troppo se fossero in
grado di viaggiare attraverso i mondi. Voi vi servite di portali,
spesso aperti
tramite computer, giusto? Beh loro non hanno bisogno di altri mezzi se
non il
loro immenso potere –
-
Sembri
conoscerle bene, Hisashi… - lo
punzecchiò Yamato.
-
Ammetto che
l’argomento mi ha sempre
affascinato molto. – si rizzò il sacerdote,
guardando con occhio compiaciuto il
ragazzo – Dunque ogni volta che ne ho avuto occasione mi sono
informato di più
sull’argomento. –
-
Immagino non si
riferisca solo ai
libri ammuffiti di una biblioteca. –
-
Yamato!
– lo rimproverò Mimi.
-
Yamato ha
ragione, Mimi – le sorrise
cordialmente Hisashi – I libri sono nulla in confronto a
un’esperienza dal
vivo, direttamente a contatto con l’oggetto dei tuoi studi
–
-
E immagino che
tale “contatto” sia
avvenuto a New York, diciamo…un anno fa? –
Il
sacerdote rimase un attimo basito e Yamato se ne accorse.
-
Molto bene,
Hisashi – sorrise
trionfante, infilandosi le mani nelle tasche dei jeans neri e
poggiandosi a una
parete – Credo che venire fino qua sia stata
un’ottima idea –
L’uomo
sospirò sconfitto: nei pensieri del giovane
c’erano troppi buchi neri perché
potesse decifrarli. Evidentemente il motivo per cui era venuto al
Tempio aveva
a che fare con gli eventi accaduti in America un anno addietro. Ma che
correlazione poteva avere tutto ciò con le kitsune, cui il
biondo sembrava
stranamente interessato?
-
Ammetto che hai
stuzzicato la mia
curiosità, Yamato. Ma ogni cosa a suo tempo. – si
rivolse a tutta la compagnia
– Vi devo pregare di attendere in questa sala fino al mio
ritorno. –
Mimi parve
turbata, forse all’idea di poter perdere il
“maestro” che l’avrebbe istruita
sul suo potere.
-
Tornerai presto,
vero Hisashi? –
Lui rise
gentilmente della sua preoccupazione.
-
Tranquilla Mimi,
mi assento il tempo
di portarvi una bevanda da me appositamente preparata
affinché i tuoi amici
rimangano svegli. Poi potremo parlare del tuo nuovo potere e delle voci
che
senti…anche di quella debole che hai udito pochi minuti fa.
–
Lei
arrossì, imbarazzata per non esser stata onesta.
-
Ma… -
esitò – sarà stato il pensiero
di qualche donna nel Tempio… -
L’anziano
scosse il capo.
-
L’unico
sveglio nel Tempio sono io… -
e si allontanò, lasciandoli soli.
Mimi
corrugò la fronte: non aveva nemmeno capito cosa avesse
detto. Tentò di
concentrarsi, tentando di ricordare quella voce fievole.
-
Mimi,
cosa…? –
-
Silenzio,
Palmon, ho bisogno di
concentrarmi… - le disse gentilmente ma in tono fermo.
Chiuse gli
occhi, tentando di isolarsi da tutto ciò che la circondava.
Eppure le sue
orecchie captavano ogni più debole suono: il respiro dei
presenti, il fischio
del vento all’esterno, l’armeggiare di Hisashi con
tazze e tegami della stanza
accanto… Avrebbe dovuto tapparsi le orecchie per non sentire
nulla di tutto ciò
e permettere alla mente di afferrare quello che i suoi sensi non
potevano.
Non aveva
mai dovuto sforzarsi di “sentire” qualcosa, i
pensieri delle persone le erano
sempre giunti automaticamente, senza che lei li cercasse. Per di
più non sapeva
a chi appartenesse quella voce, dunque come l’avrebbe
trovata? Era come
lanciare un arpione tra le onde del mare sperando che là
sotto vi fosse un
pesce.
La
similitudine le fece venire in mente un’idea: se arpionarlo
era difficile,
quasi impossibile, allora avrebbe teso una rete, attendendo che il
pesce vi
rimanesse impigliato. Non aveva idea di come applicare questo piano
strampalato, dunque fece l’unica cosa che le venne in mente:
immaginò veramente
di stendere una grande rete tutto attorno a lei, diramando il suo
pensiero in
tutta la stanza, dilatando il più possibile la sua
percezione. Tenne gli occhi
chiusi, timorosa che se li avesse aperti quella maglia si sarebbe
dissolta.
“…to…”
Eccola.
“…uto…”
Si
concentrò maggiormente, stringendo la rete attorno a quelle
parole fluttuanti.
“…aiuto…”
Ora
riusciva a captarla con più facilità. Era senza
dubbio una donna…e a Mimi
sovvenne una strana sensazione di dejà vu. Dove
l’aveva già sentita? Ma
soprattutto, a chi apparteneva?
Anche se
più chiara, sembrava sempre provenire da un luogo molto
lontano. Ma quanto? Che
provenisse dalla città sottostante? O
dall’ospedale? Eppure fino a quel momento
era stata in grado di percepire i pensieri solo delle persone nelle
immediate
vicinanze. Che le sue capacità si fossero sviluppate fino a
quel punto?
Non aveva
mai provato a comunicare mentalmente con qualcuno, ma decise di
tentare.
“ Dove
sei?”
Silenzio.
Nessuna risposta. Poi…
“…non
lo
so…”
Mimi
sobbalzò per la sorpresa e quasi aprì gli occhi.
S’impose di mantenere la calma
e non perdere la concentrazione.
“
Perché
hai bisogno di aiuto?”
“…perché
non so dove mi trovo…”
“ Chi
sei?”
Nessuna
risposta. Mimi ipotizzò che la donna fosse indecisa se dirle
o meno il suo
nome. Non poteva darle tutti i torti, in effetti: se già si
trovava in difficoltà,
sarebbe stato imprudente fidarsi di una completa estranea.
“
Ascolta…posso capire che non ti fidi di me, dato che non sai
chi sono. Forse
quello che sto per dirti per te non avrà alcun significato,
ma mi chiamo Mimi
Tachigawa e sono una digiprescelta”
Di nuovo
silenzio.
“
Ancora
non ci capisco nulla in questa storia, lo ammetto, ma se me lo
concederai farò
di tutto per aiutarti. Fidati di me!”
“…mi
chiamo Rumiko Kitamura…”
Mimi
svenne.
Riaprì
gli
occhi, lentamente. Si trovava ancora nella stanza di prima, stesa sul
pavimento.
Le ci
vollero alcuni secondi per fare mente locale, poi si lasciò
sfuggire un urlo
per la sorpresa, portandosi entrambe le mani a tappare la bocca.
Di fronte
a lei, i compagni la guardavano sconvolti e preoccupati. Hisashi era
inginocchiato
davanti a lei, attento e pensieroso.
-
Mimi, che
è successo? – le accarezzò
una gamba Palmon, in apprensione.
Ma la
ragazza non rispose, gli occhi sgranati e colmi di lacrime che
esitavano a
scendere, lo sguardo perso nel vuoto.
-
Mimi…
-
I richiami
ansiosi del digimon la riportarono alla realtà e
abbassò le palpebre, lasciando
che le lacrime rigassero le guance.
Trasse un
profondo respiro, poi riaprì gli occhi, voltandosi verso
Yamato.
-
Yamato…
Ho udito una voce, una voce
lontana, simile a un eco… -
Lui
l’ascoltava senza battere ciglio.
-
Invocava
aiuto…le ho chiesto perché…mi
ha detto che non sa dove si trova…le ho chiesto come si
chiama… -
Mimi
trasse un profondo respiro.
-
Rumiko Kitamura
–
Yamato non
si mosse. Assaporò quel momento di silenzio, in cui nulla si
udiva, fuorché il
sibilare del vento all’esterno.
Il
vento…
Immaginò i lunghi capelli color caramello di Rumiko
ondeggiare nella brezza,
leggeri e fluidi come onde calde. Immaginò di catturarne una
ciocca per farla
scorrere tra le dita, morbida al tatto. Immaginò le sue
esili spalle tremare
impercettibilmente per la corrente fredda e il suo volto corrucciato:
di sicuro
quel luogo ventoso era una trovata di Yamato, che per farle una
sorpresa non le
aveva detto di vestirsi più pensante. Immaginò di
trovarsi in cima a una
scogliera: di fronte a loro il mare blu, dietro di loro il bosco verde.
Immaginò di sorriderle e stringerla tra le sue braccia: lei
dapprima avrebbe
protestato un po’, poi di sarebbe lasciata andare,
accoccolandosi contro il suo
petto caldo. Immaginò la testa di lei poggiata comodamente
sulla sua spalla e
la sua reclinata sul capo di lei: i suoi capelli profumavano di
lavanda. Immaginò
di sfiorarle il collo candido con le labbra, procurandole un leggero
brivido di
piacere, per poi risalire più su, accarezzandole il mento e
giungendo infine
alle sue labbra rosee. Immaginò di perdersi in quel attimo
di pace solo per
loro, inebriandosi del suo profumo e traendo piacere dal suo corpo
esile
abbandonato al suo.
L’avrebbe
protetta, sempre. A qualunque costo. Per tutto ciò che era,
per le sensazioni
uniche e meravigliose che sapeva regalargli, per i momenti di lite e
per quelli
di serenità. Perché una volta vista la luce, non
poteva più accontentarsi di
vivere nella penombra. Perché con lei tutto aveva un senso e
senza di lei
niente più ne aveva. Perché la amava.
Riemerse
dai suoi pensieri e tornò a rivolgere la sua attenzione a
Mimi, che lo fissava
in attesa di una reazione.
Le sorrise
rassicurante e sereno come non lo era da diversi giorni.
-
Lo sapevo
– le disse in tono calmo.
-
Come?!
–
-
Lo sapevo, Mimi
–
-
Ho capito
cos’hai detto, non sono
sorda! – rispose la ragazza, cui la compostezza
dell’amico di fronte a una tale
sconvolgente rivelazione stava facendo perdere quella poca calma che
aveva
mantenuto fino ad allora – Ma come facevi a sapere che non
era morta?! –
-
Me
l’ha detto la sua kitsune –
ammiccò a un esterrefatto Hisashi.
Mimi
scosse tragicamente il capo.
-
Tu sei tutto
matto…seriamente,
Yamato, credo che quel incidente in moto ti abbia mandato fuori di
testa… -
-
Pensala come
vuoi – alzò le spalle il
biondo, con fare indifferente – ma io non ho mai creduto che
lei fosse morta…non
del tutto se non altro…e a quanto pare avevo ragione
–
-
E cosa
c’entra la kitsune? –
-
È il
suo digimon, Mimi…ha le
sembianze di una kitsune ed è stata lei a dirmi di avere
fiducia. –
-
Questa
è bella, il cinico Yamato
Ishida che ha fiducia…non
ci credo
nemmeno se lo vedo! – replicò lei, tagliente.
Lui la
trafisse con uno sguardo glaciale, zittendo sul nascere ogni battutina.
-
Io ho fiducia in lei.
Non credo
che tornerà in questo mondo, ne sono sicuro.
E, dati i precedenti – aggiunse, in tono velenoso –
direi che tu sei l’ultima
persona a potersi permettere un commento al riguardo, non trovi?
–
Mimi
deglutì nervosamente.
-
N-non p-potevo
fare n-nulla… -
balbettò.
-
Lo so, Mimi, lo
so…la prima volta
avresti dovuto avvertirci di quanto stava accadendo a New York ma non
hai potuto…la seconda
hai tentato di
ucciderla per risvegliare Angstmon e non hai potuto
opporti… - le sollevò il mento con un dito, per
costringerla
a guardarlo negli occhi – Dopo tutto quello che è
successo, lei è ancora viva,
da qualche parte, e chiede aiuto per tornare qua. Come si suol dire,
non c’è
due senza tre, giusto? Il Destino sembra abbia voluto metterti alla
prova, cara
Mimi…ma la domanda ora è: questa volta, potrai
aiutarla? E bada: lei sa chi è la Prescelta
che un anno fa non è corsa in suo aiuto
a New York. Se le hai detto il tuo nome e lei ha comunque deciso di
fidarsi di
te, fossi in te non
l’abbandonerei…un’altra volta.
–
E detto
questo s’alzò, lasciando una piangente Mimi seduta
a terra.
-
Yamato!
–
Il biondo
sedeva ai piedi di un salice nel cortile del Tempio. Si
voltò verso il suo
digimon.
-
Dimmi, Gabumon.
–
-
Non ti pare di
aver esagerato? – lo
rimproverò.
Il biondo
scosse il capo.
-
No, non credo
proprio. Anzi, un
giorno me ne sarà grata. –
Il digimon
lo guardò perplesso e Yamato lo invitò a sedersi
accanto a sé.
-
Vedi, Gabumon,
per quanto
teoricamente quanto è successo non sia colpa sua, sta di
fatto che lei si trova
coinvolta in questo grande pasticcio. Non ho detto che sia tutta opera
sua, ma
è innegabile che non può chiamarsene fuori
semplicemente dicendo che non poteva
fare altrimenti. Soprattutto non
di fronte a Rumiko, che prima ha dovuto cavarsela da sola senza il suo
aiuto,
poi ha addirittura dovuto difendersi dai suoi attacchi. –
Sospirò.
-
Rumiko ci odia,
sai, Gabumon? Odia me
e tutti gli altri Prescelti. Ma più di tutti credo che odi
Mimi, perché si
trovava a New York e avrebbe potuto correre in suo soccorso per prima.
Ovunque
si trovi adesso, sono sicuro che sta cominciando a capire come sono
andate
realmente le cose, del perché Mimi non si sia comportata
come avrebbe dovuto.
Ma se io fossi in lei, non potrei comunque fidarmi di persone che mi
hanno già
abbandonata una volta, lasciandomi da solo ad affrontare un nemico
tanto
potente, a sobbarcarmi il peso del dolore per la morte di tante
persone,
persino di mia madre…in particolare, non potrei fidarmi di
Mimi. –
Gabumon
annuì tristemente.
-
Eppure lei le ha
rivelato il suo
nome…ha voluto fidarsi
di Mimi,
dunque lei dovrà
aiutarla, non
esistono “non posso” questa volta. Ed è
bene che se lo metta bene in testa, che
si assuma le sue responsabilità per quello che è
successo e faccia tutto il
possibile per porvi rimedio. –
-
E tu, Yamato?
Che farai? –
-
Io? –
gli sorrise il biondo – Io farò
anche l’impossibile per
riaverla. –
Continua…
N.d.a:
I
“kami”
sono le “divinità” in giapponese.
Chiedo
scusa per le imprecisioni, esagerazioni ed errori, che sicuramente
saranno
molti.
Per quanto
riguarda i contenuti, come avrete intuito siamo entrati nel vivo della
storia:
l’intreccio è arrivato al culmine, i protagonisti
stanno per mettere le mani
nella matassa degli avvenimenti, pronti a snodarla e trovarne il capo.
È solo
questione di giorni.
Spero
continuerete a leggere e commentare, nonostante le LUNGHE pause tra una
pubblicazione e l’altra.
Buon
proseguimento di lettura.
Monalisasmile
|
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Capitolo 25 *** - ***
Capitolo
25
“
Ascolta…posso capire che non ti fidi di me, dato che non sai
chi sono. Forse
quello che sto per dirti per te non avrà alcun significato,
ma mi chiamo Mimi
Tachigawa e sono una digiprescelta.”
Rumiko si
era irrigidita istintivamente. Aveva capito perfettamente chi fosse
quella
ragazza e le sue parole avevano per lei più significato di
quanto immaginasse.
Serrò
la
mascella: il Destino sembrava averci preso gusto a giocare con lei,
facendo sì
che il suo unico appiglio al Mondo Reale fosse proprio colei che
l’aveva
mandata nel posto in cui ora si trovava. A pensarci quasi le venne da
ridere:
che situazione assurda!
Fu tentata
di liquidarla in tono sprezzante, ma preferì non
risponderle. Che se ne andasse
al Diavolo quella maledetta Prescelta e tutti i suoi compagni bugiardi!
Vide sua
madre scuotere il capo, ma la ignorò. Erano loro la fonte di
tutti i suoi guai
e della sua sofferenza, non li avrebbe perdonati tanto facilmente.
Si chiuse
in un ostinato silenzio.
“ Sei
sempre stata piuttosto cocciuta, come tuo padre…”
le si avvicinò la madre.
“ Tu
li
perdoneresti tanto facilmente?!”
Emi le
sorrise dolcemente e Rumiko sbuffò.
“ Che
domanda idiota: ovvio che tu li
perdoneresti. Ma io no. Non posso
dimenticare quello che mi hanno fatto, quello che ti
hanno fatto.”
“
Nessuno
ha parlato di dimenticare. Ma credevo che fossero tuoi
amici…”
“ Lo
credevo anche io…” le rispose in tono sarcastico.
“
Rumiko…”
l’ammonì gentilmente la donna.
“
Sì sì lo
so, loro non hanno colpa per quanto è successo a New
York…risparmiami, l’ho già
sentita.”
“ Non
siamo in un tribunale, non ci sono giudici che possano sentenziare chi
ha colpa
di cosa” la redarguì severamente Emi “
Tu vuoi bene ai tuoi amici, lo so, e
loro ne vogliono a te. Ostinarti a odiarli è ingiusto nei
loro confronti…e
anche nei tuoi, che così facendo ti fai solo del
male.”
“ Cosa
ti
fa credere che la cosa mi sia dannosa?”
“ La
solitudine ti rende forse felice?”
Rumiko non
rispose.
“
Tesoro…pensa a tuo padre, ai tuoi amici…non ti
mancano? Preferisci stare in
questo luogo informe e incolore piuttosto che tornare a
riabbracciarli?”
Rumiko
pensò a suo padre. Lo immaginò sofferente e
inconsolabile seduto a tavola nella
loro cucina. Era solo, in un appartamento deserto e silenzioso, il
volto stanco
e scavato, sul piatto una cena misera preconfezionata e riscaldata al
microonde
dopo una dura giornata di lavoro. Sembrava incredibilmente invecchiato.
Sulle
pareti gli aloni bianchi ricordavano che una volta lì vi
erano appese delle
fotografie, raffiguranti splendidi paesaggi, scorci di città
e scatti a
sorpresa della figlia ormai scomparsa.
La sua
mente volò a una foto in particolare, una volta appesa nel
corridoio
d’ingresso. Quello scatto immortalava una parte di quella
figlia, una parte
oscura ai più, connessa a un profondo legame di amicizia,
fratellanza e
fiducia.
Ripensò
a Foxmon, il suo amato digimon, la sua compagna di tante avventure, la
sua
migliore amica, l’altra metà della sua anima. Ne
avevano passate tante insieme,
eppure le aveva voltato le spalle, cacciandola malamente.
Perché aveva paura e
il suo cuore era pieno di rabbia e dolore. Non tanto verso Foxmon,
quanto verso
se stessa. Inconsciamente aveva preso a considerare il suo digimon il mezzo tramite cui aveva compiuto quel
massacro, un’arma pericolosa che lei non aveva saputo
utilizzare con dovuta
cautela. Solo più tardi si era accorta dell’errore
madornale di giudizio che
aveva commesso: era stata crudele a definire il suo digimon
un’arma di
distruzione, sebbene l’avesse fatto perché
l’amava troppo per dividere la sua
terribile colpa con la sua compagna. Ma ormai il danno era stato fatto
e non
sapeva come porvi rimedio. La testardaggine e il timore di sbagliare
nuovamente, ferendola più di quanto avesse già
fatto, l’avevano frenata dal
fare marcia indietro e rimangiarsi le parole.
Le aveva
quindi manifestato il suo disprezzo, sebbene le volesse molto bene.
Così come
aveva fatto coi Prescelti, sebbene non conoscesse la dinamica esatta
degli
eventi. Ma era più semplice così:
l’odio poteva essere un’utile valvola di
sfogo per la sofferenza. Probabilmente Angstmon si era trovato
piuttosto a suo
agio in un corpo tanto ribollente di rancore.
Poi
però
il Destino aveva voluto beffarsi di lei e Rumiko si era affezionata,
senza
saperlo, proprio a quelle persone che tanto s’era ostinata a
odiare per tutto
quel tempo.
Ripensò
a
Sora, Taichi, Daisuke e tutti gli altri. Da quando li aveva incontrati
ne
avevano passate di tutti i colori, tra risate, litigi, incomprensioni,
abbracci
e lacrime. Lei li aveva aiutati quando poteva e loro
l’avevano sostenuta nei
momenti di sconforto, con preoccupazione e affetto sincero. Yamato le
aveva
persino dedicato una splendida canzone…
Già,
Yamato…
Ripensò
ai suoi occhi azzurri e penetranti come lame, ma capaci di scioglierla
come
neve al sole. Qualche volta l’aveva scoperto a guardarla di
nascosto, ma senza
malizia, e aveva finto di non accorgersene. Le piaceva il modo in cui
la
guardava, come se la volesse accarezzare con lo sguardo. Ricordava il
brivido
lungo la schiena quando le sue mani la sfioravano gentili, a volte del
tutto
casualmente. Erano grandi, le dita lunghe e il tocco incredibilmente
delicato.
Ripensò alla sua voce vellutata mentre cantava la canzone
che le aveva
dedicato, il trasporto e la delicata passione che imprimeva in quelle
parole.
Ricordò i suoi sorrisi: ne aveva tanti, uno per ogni
occasione, alcuni
riservati solo a poche persone. Prediligeva quello ironico, ma mai
maligno. Poi
c’era quello divertito, che spesso si apriva in presenza di
Taichi o Daisuke.
C’era quello gentile, che tanto spesso aveva rivolto a Sora.
C’era quello
comprensivo e compassionevole che gli aveva visto indirizzare al padre
mentre
tentava inutilmente di districare la matassa dei lumini per
l’albero di Natale.
E
poi ce n’era un altro, uno che non aveva mai visto rivolgere
ad altri, nemmeno
a Takeru. Un sorriso tutto per lei, che esprimeva il meglio di lui: la
dolcezza, il riguardo nei suoi confronti, la preoccupazione per quando
stava
male, la felicità per quando la vedeva serena, la pace di
quando stavano
insieme. Rumiko aveva imparato ad apprezzare e a voler bene a quel
ragazzo
all’apparenza tanto distaccato e pungente, ma dallo sguardo
attento a tutto ciò
che lo circondava e sempre pronto a farsi in quattro per coloro cui
teneva.
Certo, non lo avrebbe mai ammesso, cocciuto e orgoglioso
com’era! Ma ciò
dimostrava quanto il suo animo fosse in realtà semplice e
generoso.
E
prima che se ne rendesse conto, i suoi sentimenti erano mutati ancora,
diventando qualcosa di più profondo e intimo, qualcosa cui
non sapeva o forse
non osava dare un nome. Ma una cosa era innegabile: quando lui
l’aveva baciata,
la notte di Natale, il cuore aveva preso a batterle furiosamente nel
petto e,
per la prima volta da tanto tempo, si era lasciata completamente andare
a sensazioni
fortissime e sconosciute.
Con
la mente tornò a quei brevi attimi di intimità,
ricordando la sensazione delle
sue labbra sulle sue, del suo odore tranquillizzante, delle sue braccia
forti
che la stringevano contro il suo petto caldo. Ricordò la sua
schiena spaziosa e
le sue ampie spalle. Ricordò la sua voce roca mentre le
sussurrava all’orecchio.
Però
tutto ciò cominciava già ad apparirle lontano e
sfocato. Possibile che il tempo
stesse già sbiadendo i suoi ricordi?
Ripensò
ai momenti passati insieme. Quante volte avevano litigato? Tante,
troppe… eppure
lei non aveva mai smesso di pensare a lui.
Strinse
i pugni, desiderando improvvisamente di esser stata meno orgogliosa. Se
fosse
stata solo un po’ più comprensiva e
accondiscendente, se gli avesse dato modo
di spiegarsi, anziché voltargli le spalle, lui in quel
momento non la
odierebbe…
Quel
pensiero la fece tremare. Era la prima volta, da quando era relegata in
quel
posto sconosciuto, che pensava a lui e a quello che era accaduto poco
prima
della sua dipartita. Era stata crudele nei suoi confronti,
l’aveva attaccato senza
pietà, indifferente a ciò che lui avrebbe potuto
dirle. L’aveva aggredito e poi
era fuggita. Naturale che lui ora la detestasse… avrebbe
dovuto farsene una
ragione…
Ma
per quanto se lo ripetesse, il suo cuore si dimenava furiosamente,
incapace di
accettarlo. Yamato era importante per lei. Non sapeva quando lo era
diventato,
ma ora sentiva che la sua vita non sarebbe stata la stessa senza di
lui. Senza
i suoi sorrisi, i suoi profondi occhi blu, le sue mani gentili, i suoi
baci, le
sue battutine sarcastiche e i suoi silenzi pieni di comprensione le sue
giornate sarebbero state…
“
Vuote…”
Una
volta tornata nel Mondo Reale gli avrebbe rivelato tutto, finalmente,
senza
giri di parole o omissioni. A partire dall’inizio, gli
avrebbe raccontato la
sua storia e gli avrebbe chiesto di fare lo stesso. Lui
l’avrebbe capita,
l’avrebbe stretta dolcemente tra le sue braccia e le avrebbe
regalato uno dei
suoi sorrisi più belli.
Ma
se non avesse funzionato? Se il risentimento nei suoi confronti fosse
troppo
grande e questa volta non fosse disposto ad ascoltarla e a permetterle
di
rimediare?
“
Ancora non ci capisco nulla in questa storia, lo ammetto, ma se me lo
concederai farò di tutto per aiutarti. Fidati di
me!”
Sì,
si sarebbe fidata di lei, della ragazza che in passato
l’aveva abbandonata al
suo Destino. E se lei fosse stata in grado di perdonare quella
Prescelta,
allora anche Yamato l’avrebbe perdonata, ne era sicura.
L’avrebbe
ascoltata, le avrebbe concesso la sua comprensione e lei avrebbe
dimenticato
ogni sconforto. Le loro vite sarebbero tornate a scorrere serenamente,
come
prima, tra battibecchi e piacevoli momenti passati insieme.
Suo
padre l’avrebbe riaccolta con gioia, così come i
suoi amici, ne era certa. Ma
se lui, anche solamente lui, le avesse voltato le spalle, allora lei si
sarebbe
sentita perduta. Aveva bisogno del perdono di quel ragazzo freddo ma
sincero,
aveva bisogno della benedizione di quegli occhi color del cielo, aveva
bisogno
dell’assoluzione da tutte le sue colpe e i suoi errori da
parte di quella voce
vellutata. Ma se non l’avesse avuta, se non avesse riavuto lui accanto a sé,
allora…
“…mi
chiamo Rumiko Kitamura…”
Yamato
s’abbandonò sconfortato allo schienale della
sedia, chiudendo con un gesto
secco l’ennesimo libro. Non era mai stato un topo di
biblioteca, preferiva gli
spazi aperti all’aria stantia di quei luoghi chiusi e pieni
di volumi
impolverati. Ma aveva deciso che se voleva capirci qualcosa in quella
storia
sarebbe stato opportuno informarsi.
Tuttavia
dopo diverse ore di ricerche non era ancora riuscito a trovare una
risposta
alla domanda che lo assillava.
Si
portò un braccio sul volto stanco, reclinando il capo
all’indietro.
-
Dove
sei, Rumiko? – chiese al soffitto senza guardarlo.
-
Yamato?
–
Il
biondo quasi cadde dalla sedia per la sorpresa.
-
Koushiro?!
–
Per
un attimo credette di essersi addormentato: che ci faceva lui
là?
Da
canto suo, il rosso sembrava più che altro turbato.
-
Il
Sacerdote mi ha detto che avrei trovato uno dei suoi due ospiti
qua… -
Yamato
si ricompose, studiando l’espressione lugubre del ragazzo.
-
Tutto
bene, Koushiro? Hai avuto difficoltà a raggiungere il
Tempio? –
-
Io
no… - rispose, chinando il capo.
Il
biondo lo studiò un attimo. Il suo fisico era emaciato e il
volto un po’ più
scavato dall’ultima volta che l’aveva visto
all’ospedale degli Svegli. Ma
intuiva vi fosse dell’altro, che quegli occhi scuri non
fossero solo stanchi,
ma anche preoccupati. Capì.
Si
alzò per prendere un libro su uno scaffale accanto a
Koushiro.
-
Mimi
sta bene. – gli disse, senza guardarlo.
Avvertì
la tensione abbandonare in parte il rosso e le sue spalle rilassarsi.
-
Non
capisco perché sia dovuta venire fin qua, correndo tanti
rischi… senza dirmi
nulla… - lo sentì bisbigliare.
Capì
che Koushiro non sapeva nulla del nuovo potere della castana. Forse
avrebbe
dovuto dirglielo. Ma intuì che se Hisashi non
l’aveva fatto era stato per non
dare altre preoccupazioni al ragazzo, che senza dubbio avrebbe fatto di
tutto
per aiutarla. Dopotutto era giusto che Mimi se la cavasse da sola e che
glielo
dicesse quando e come ritenesse più opportuno.
-
Per
lo stesso motivo per cui sono venuto io… e presumo anche tu:
trovare delle
risposte. –
Koushiro
annuì tetro: aveva capito che per il momento nessuno gli
avrebbe rivelato nulla
di più. E, conoscendolo, Yamato intuì che questo
era uno dei motivi del suo
cattivo umore: il Prescelto della Conoscenza non poteva sopportare di non sapere.
Sorrise
dell’ironia di quella situazione e gli mise un braccio
attorno alle spalle.
-
Tu
a quali domande sei venuto a cercare risposta, amico mio? –
gli fece
l’occhiolino.
Il
rosso gli sorrise un poco imbarazzato: non aveva mai passato molto
tempo con
Yamato e quel improvviso cameratismo era una novità per lui.
-
Voglio
scoprire quanto più possibile su Alptraumon. –
Il
cantante notò il debole sfavillio che accese quegli occhi
scuri: sete di
conoscenza.
Sorrise
al ragazzo, ammirando la sua risolutezza.
-
Conosci
il tuo nemico… - citò il Prescelto
dell’Amicizia.
-
Esattamente.
E tu, Yamato? Non sei mai stato un frequentatore di biblioteche. Posso
aiutarti? –
-
Non
saprei, Koushiro… - si grattò il capo imbarazzato
– Il tuo aiuto potrebbe
essermi davvero utilissimo, visto che questo non è
esattamente il mio ambiente
naturale… ma se ti dicessi l’argomento delle mie
ricerche mi prenderesti per
matto. –
-
Prova.
– lo esortò l’amico.
Il
biondo fece una pausa, soppesando mentalmente le parole.
-
Devo
scoprire dove vanno le anime di persone non completamente
morte… e come
riportarle in vita. –
Koushiro
spalancò gli occhi.
Si
era ripromesso di non manifestare meraviglia per qualsiasi cosa gli
avesse
rivelato Yamato. Ma una volta udite le sue parole, la mente razionale
del rosso
aveva avuto la meglio.
Ovviamente
non aveva dubbi su quale anima interessasse a Yamato. Da quando si era
risvegliato in ospedale gli altri Prescelti gli avevano raccontato dei
vagheggiamenti del cantante. Voci di corridoio dicevano che il ragazzo
avesse
perso il lume della ragione, ma Koushiro non era mai stato un amante
dei pettegolezzi,
quindi non vi aveva dato retta, preferendo occuparsi del soggetto della
sua
ricerca.
Ora
però si chiedeva se non fossero state fondate.
Un’occhiata
al volto di Yamato mise a tacere i suoi pensieri.
Scosse
il capo, sconfitto.
-
Tu
sai bene che questo va contro le mie idee razionali. – gli
disse con onestà –
Credo nella scienza e nella verità dimostrabile, non alle
superstizioni… -
-
A
chi lo dici! – sbuffò il biondo, sorprendendo
Koushiro – Mi conosci, ho sempre
considerato queste cose nulla più di fandonie ideate da
religiosi troppo fantasiosi!
–
-
Yamato…
- lo ammonì gentilmente l’altro.
-
Lo
so, lo so, non sono discorsi da fare in un Tempio. E, credimi, non ci
sarei mai
venuto in questo posto polveroso e pieno di muffa se avessi avuto
scelta! –
Koushiro
sorrise, riconoscendo in lui il ragazzo cinico e sospettoso che era
sempre
stato.
-
Ma
questa volta non ho alternativa… - abbassò il
tono, perforando il rosso con lo
sguardo – Non sono pazzo, al contrario di quello che si dice
in giro, e la
prova di quello che pensavo l’ho avuta proprio quando siamo
arrivati in questo
Tempio. Lei c’è ancora,
ha comunicato
con noi. Non posso dirti come, non ancora, ma non mi riferisco a
stupide sedute
spiritiche, bensì qualcosa di decisamente reale. Ha detto
che non sa dove si
trova. Ha chiesto aiuto. E io intendo dargliene quanto più
possibile. –
Fece
una pausa, senza scostare gli occhi dall’amico.
Koushiro
non fiatò, guardandolo rapito e attento: per qualche strana
ragione non
riusciva a dubitare delle sue parole.
-
Per
quanto mi scocci ammetterlo, questo
credo che sia l’unico luogo in cui possa trovare delle
risposte. E non solo
perché è la biblioteca di un
Tempio,
ma perché si tratta del
Tempio che
più la può riguardare. –
-
Che
vuoi dire? -
-
Questo
Tempio è dedicato al dio Inari, cui sono sacre le kitsune. E
indovina quali
sembianze ha il digimon di Rumiko? Ma non si tratta solo
dell’aspetto
esteriore: così come le volpi leggendarie, anche Kitsunemon
può piegare lo
spazio, viaggiando attraverso i mondi… -
Koushiro
annuì pensieroso, mentre la sua mente elaborava.
-
I
miti e le leggende hanno spesso un fondo di verità
– ragionò ad alta voce,
ripensando all’oggetto della ricerca che era venuto a
condurre – Il fatto che
si tratti di creature digitali non deve trarci in inganno: è
possibile che la
loro origine sia antecedente all’avvento
dell’informatica nel nostro mondo. Con
le nuove tecnologie siamo in grado di trasportarci nel loro mondo,
convertendo
i nostri corpi in dati, ma ciò non significa che loro non
fossero in grado di farlo
già tempo fa, forse addirittura secoli prima. –
Yamato
non distolse lo sguardo dal Prescelto della Conoscenza.
-
Se
così fosse, può darsi che le kitsune dei miti
siano molto meno leggendarie di
quello che si è portati a pensare. Allora questo Tempio
sarebbe stato dedicato
proprio al digimon Kitsunemon. –
Aggrottò
le sopracciglia.
-
Il
Sacerdote Hisashi – riprese il rosso – mi ha
riferito che in passato le kitsune
hanno protetto questo luogo dalla guerra. Non è da escludere
che quei digimon
abbiano preso a cuore le sorti del Tempio a loro dedicato: il rischio
di esser
visti materializzarsi in un luogo in cui la loro presenza era
considerata quasi
normale lo rendeva un porto sicuro. E può darsi che abbiano
lasciato una
traccia del loro passaggio… o forse anche di
più… –
Prese
a passeggiare avanti e indietro, sotto lo sguardo del biondo.
-
Secondo
le leggende, tra le capacità delle kitsune vi era quella di
potersi trasformare
in esseri umani, di solito delle bellissime donne. E se anche in questo
vi
fosse un pizzico di verità, avrebbero potuto sostare in
questo Tempio in veste
di sacerdotesse e lasciare una traccia scritta del loro passaggio,
magari delle
descrizioni dei luoghi che avevano visitato, delle
illustrazioni… -
Yamato
si tirò uno schiaffo alla fronte e Koushiro
sobbalzò per la sorpresa.
-
La
fotografia! –
-
Quale
fotografia? –
-
Rumiko
teneva in casa una fotografia scattata da suo padre. Ritraeva uno
scorcio della
New York notturna e, in cima a un palazzo, c’era una sagoma
femminile: aveva i
capelli lunghi, delle orecchie a punta sul capo e teneva una specie di
lungo
bastone in mano… -
-
Le
superdigievoluzioni di alcuni dei nostri digimon hanno sembianze umane,
non è
da escludere che valga lo stesso anche per Kitsunemon…e se
quelle orecchie
fossero solo un copricapo o potesse celarle, potrebbe forse
mimetizzarsi nel
nostro mondo quanto basta… -
Yamato
avrebbe voluto mangiarsi le mani per non avere quella fotografia
lì con lui in
quel momento. Ma se non altro, grazie a Koushiro ora aveva
un’ipotesi cui
aggrapparsi.
-
Grazie,
amico mio… Non vorrei però distoglierti dal
motivo per cui sei venuto fin qua…
-
-
Non
hai nulla da farti perdonare, Yamato, anzi: ho idea che un diario di
viaggio di
una di queste kitsune potrebbe essere parecchio utile anche a me.
D’altronde
Rumiko e il suo digimon hanno già affrontato Alptraumon in
passato, con un
discreto successo, direi. Sono sicuro che fossero molto più
preparate di noi
sull’argomento. Quindi le cose sono due: o trovo qualcosa in
uno scritto
lasciato ai posteri, oppure dovrò rivolgermi direttamente a
Kitsunemon e Rumiko.
–
Yamato
gli sorrise, colmo di gratitudine.
Taichi
avrebbe voluto avere accanto a sé Takeru, il Prescelto della
Speranza: forse
lui avrebbe saputo infondergli un po’ di fiducia. Ma, ironia
della Sorte, la
Speranza si era assopita nel momento in cui
l’oscurità era scesa sulla città,
senza accennare a risvegliarsi.
La
situazione all’ospedale degli Svegli stava degenerando sempre
più. Poche decine
di persone riuscivano ancora a tenere le palpebre aperte, ma a caro
prezzo:
molti praticavano l’autolesionismo, altri attaccavano rissa
perché l’adrenalina
della sfida permetteva loro di non assopirsi. Ma non era solo la paura
del
Sonno a muoverli: i corridoi puzzavano di diffidenza, rancore e morte.
Il
silenzio era spesso spezzato da pianti e lamenti, grida di rabbia e di
terrore.
Alcune persone avevano tentato di togliersi la vita, soccorse appena in
tempo
dai Prescelti e i loro digimon.
Diverse
volte al giorno l’aria veniva spezzata dalle urla infernali
di Angstmon e di
tanto in tanto potevano scorgerlo volare sulle loro teste. Avevano
tentato un
paio di attacchi, ma il cavallo infernale aveva riso crudelmente dei
loro
sforzi, scomparendo tra le nubi indenne.
Sandmannmon
aveva un’indole altrettanto sadica, ma più
dispettosa. Spesso s’intrufolava
all’interno dell’ospedale per mettere a soqquadro
le cucine o appollaiarsi sul
ventre dei Dormienti distesi nei loro letti. Aveva anche fatto incetta
delle
provviste, ma i Prescelti sospettavano che lo facesse per prendersi
gioco di
loro, non per cibarsene.
Era
stata Sora a suggerire l’ipotesi che il digimon avesse una
dieta particolare,
dopo che aveva sorpreso Sandmannmon accucciato sul corpo di una ragazza
addormentata. Ne aveva fatto parola solo con Taichi, Daisuke, Mei e i
digimon,
per evitare di diffondere il panico tra gli Svegli già
terrorizzati.
Taichi
rabbrivì, al ricordo delle parole della rossa.
-
Credo
– aveva detto – che Sandmannmon si nutra dei sogni
delle persone. –
Inorridì,
come due giorni prima nell’udire quella rivelazione. Che
essere disgustoso.
Da
allora avevano fatto il possibile per tenerlo lontano dai Dormienti,
soprattutto dalle donne, per cui pareva avere una certa predilezione.
Ma
l’orrenda creatura era astuta e spesso riusciva a giocarli,
comparendo e dileguandosi
come nulla fosse.
Taichi
pensò a Hikari e ai suoi genitori, a tutti gli abitanti
della città che
giacevano ignari nei loro letti. Se la dieta di Sandmannmon era
costituita di
sogni, sicuramente aveva già fatto loro visita. Ma con quali
risultati? Cosa
accadeva ai Dormienti quando quel digimon divorava i loro sogni? Un
anno prima
quella creatura si era insinuata nella mente di Mimi, dapprima
controllandola
dall’esterno, poi insinuandosi dentro di lei e possedendola.
Se solo la
Prescelta fosse stata lì avrebbe potuto interrogarla
meglio…
-
Maledizione!
– afferrando con rabbia la balaustra del parapetto della
tromba delle scale.
Aveva
bisogno dell’esperienza diretta avuta da Mimi, della
razionalità di Koushiro
per analizzare le informazioni e della determinazione di Yamato, che
l’avrebbe
rassicurato e aiutato a tenere i nervi saldi.
Ma
Koushiro era partito alla volta del Tempio e Mimi e Yamato erano
scomparsi nel
nulla coi loro digimon.
Avrebbe
voluto andare a cercarli, ma sapeva di non poter abbandonare
l’ospedale. Tutto
ciò che poteva fare, dunque, era pregare che non fosse
successo loro nulla di
male…
-
Illuso!
– gracchiò una voce a lui ormai ben nota.
Alzò
il capo: appeso come un pipistrello pochi metri sopra la sua testa
c’era
Sandmannmon.
Taichi
sospirò, stanco. Sapeva che era inutile tentare di
afferrarlo, avrebbe solo
sprecato energie.
Il
digimon rise, probabilmente leggendo i suoi pensieri. Nessuna
meraviglia che i
Prescelti non riuscissero a catturarlo, dato che la telepatia
permetteva al
mostro di anticipare le loro mosse. L’unico momento in cui la
sua attenzione
veniva meno era quando banchettava dei sogni dei Dormienti.
La
creatura color sabbia rise più forte, leccandosi i baffi.
-
Sei
perspicace, ragazzo! Voglio farti un regalo: ti mostrerò che
fine hanno fatto i
tuoi amici! –
-
Non
m’interessa, tieniti lontano da me, Sandmannmon. –
-
Sicuro
di non volerlo sapere? Eppure uno di loro era il tuo migliore
amico… povero
ragazzo! Ma si sapeva che aveva perso qualche rotella! –
gracchiò, roteando un
dito accanto alla tempia e incrociando gli occhi in
un’espressione demente.
-
Puoi
dire quello che vuoi, ma non ti crederò, bestia maledetta!
–
-
E
invece dovresti, ragazzo, dovresti! Io non dico bugie, mai! –
-
Sì,
certo… - alzò un sopracciglio il Prescelto
– e io porto la gonna. –
Il
mostro di sabbia rise.
-
Divertente!
Sei divertente, ragazzo! –
-
E
tu per niente! Vattene! –
-
…altrimenti?
– gli sorrise bieco.
-
Altrimenti
troverò il modo di farti ringoiare tutte le fandonie che
racconti. –
-
Sei
sordo o cocciuto, ragazzo? Te l’ho già detto, io
non mento mai… dico sempre la
verità. Anche alla tua amica Mimi ho sempre detto la
verità, lei te lo
confermerebbe… -
Taichi
esitò un attimo: effettivamente non gli risultava che Mimi
avesse detto che
Sandmannmon le aveva riempito la testa di bugie. Sicuramente
l’aveva ingannata,
ma poteva anche aver giocato d’astuzia, senza il bisogno di
mentirle.
Ma
se così fosse, se davvero il digimon non fosse stato in
grado di dire il falso
per natura… allora a Yamato e gli altri era davvero capitato
qualcosa?
-
Taichi…
-
Si
voltò, trovandosi faccia a faccia col dolce sorriso di Sora.
-
Ascolta,
Sora, Sandmannmon… -
-
Non
ha importanza. – gli tappò gentilmente la bocca
con una mano – Sei solo stanco
e preoccupato. Lo sono anch’io. – gli sorrise
tristemente – Ma dobbiamo avere
fiducia in noi stessi e nelle persone a noi care. Hai fiducia in
Yamato? –
Taichi
annuì convinto. Lei sorrise.
-
E
hai fiducia in me? – gli chiese dolcemente, togliendo la mano
dalla sua bocca.
-
Sì,
certo… - arrossì lievemente il Prescelto del
Coraggio.
-
Allora
ascoltami: non dar retta a questa creatura. Ascolta solo il tuo cuore e
le
persone che ti vogliono bene e non ti farebbero mai del
male… -
Sandmannmon
rise di gusto.
-
Tipo
chi? Tu? –
sibilò velenoso.
Sora
lo ignorò deliberatamente, accostando la bocca
all’orecchio del ragazzo.
-
Ti
amo, Taichi. –
Il
mostro mandò un grido di rabbia, conscio di aver perso
quella partita e la sua
preda. Fece leva sulle gambe tozze e spiccò un balzo verso
la finestra,
mandandola in frantumi e catapultandosi di fuori come un razzo.
Daisuke
e Mei furono là pochi secondi dopo, il fiato corto e lo
sguardo allarmato.
-
È
successo qualcosa?! State bene?! –
s’informò subito lui.
Mei
alzò gli occhi al cielo: quel posto stava diventando una
gabbia di matti.
Avevano sentito le risate di Sandmannmon e la voce nervosa di Taichi.
Tuttavia
era stato il ringhio furioso del mostro ad allarmarli e poco prima che
arrivassero sul parapetto avevano udito l’infrangersi di un
vetro.
Quando
erano arrivati ai loro occhi si era presentata una scena inattesa:
Taichi e
Sora si tenevano abbracciati stretti, apparentemente incuranti di tutto
il
resto.
La
riccia sbuffò: in quel momento condivideva la frustrazione
di Sandmannmon.
-
Yamato,
vieni a vedere, forse ho trovato qualcosa! –
Il
biondo stava giusto considerando quanto
quell’attività si stesse rivelando non
solo inutile ma anche controproducente: nulla di meglio di qualche
vecchio tomo
ammuffito pieno di dati noiosi per addormentarsi.
Ma
le parole di Koushiro lo riscossero e si precipitò al suo
fianco.
Il
rosso gli sorrise incoraggiante e puntò il dito a
metà di una pagina
ingiallita.
-
Credo
di aver trovato qualche annotazione lasciata da una kitsune.
– gli ammiccò
soddisfatto della sua scoperta.
-
E
cosa scrive la nostra volpe? – scherzò Yamato,
appoggiando la schiena allo
scaffale mentre Koushiro avvicinava una torcia elettrica alle pagine
del
volume.
Per
un attimo Yamato pensò a quanto fossero fortunati a trovarsi
in quel Tempio,
sufficientemente svegli, provvisti di tutto quanto potesse loro servire
e
soprattutto, al sicuro dall’influenza negativa di Alptraumon.
Lui
e Koushiro ne avevano discusso ed entrambi avevano concordato che quel
luogo
doveva esser stato rivestito da qualche tipo di protezione,
probabilmente opera
delle kitsune.
Ripensò
a Taichi, Sora, Daisuke e tutti coloro che si trovavano barricati
nell’ospedale. Temeva per loro e non essere al corrente di
quello che accadeva
là gli faceva montare una gran frustrazione. Ma,
razionalmente, sapeva che la
cosa migliore che lui e gli altri potessero fare era portare a termine
quanto
avevano iniziato: coloro che erano rimasti dovevano proteggere gli
Svegli,
mentre chi era andato in cerca di risposte doveva trovarle al
più presto, per
il bene di tutti. E questo valeva per lui e Koushiro, quanto per Mimi.
La
Prescelta della Purezza aveva avuto un ruolo centrale in quella vicenda
fin
dall’inizio e Yamato era sicuro che non fosse ancora
concluso. Il solo fatto
che avesse ereditato parte delle capacità del loro nemico la
rendeva una carta
decisamente utile, sebbene pericolosa. Il biondo pregò che
in quei giorni in
cui non l’aveva più vista avesse sviluppato il suo
potere, imparando a
controllarlo.
Lanciò
uno sguardo fugace a Koushiro: lui non l’aveva ancora
incontrata, ma non aveva
fatto altre domande sul suo conto. Yamato ammirò la sua
pazienza.
Il
rosso si schiarì la voce.
-
Quello
che ti leggo è un frammento di una nota risalente a due
secoli fa, scritta da
una sacerdotessa di questo Tempio. Riguarda il caso di una giovane
donna che venne
portata al Tempio dopo che, in seguito alla perdita del figlio, ebbe
una specie
di… - aggrottò la fronte cercando la parola
giusta – collasso. –
Fece
scorrere le dita sulle scritte sbiadite dal tempo e cominciò
a leggere.
-
…
La donna è stata distesa di fronte
a me e, sotto lo sguardo speranzoso dei compaesani, mi avvicino per
guardarla
meglio. È bella nella sua immobilità, rilassata
come fosse addormentata, fredda
come solo la Morte la può rendere.
Dicono
che sia deceduta all’improvviso, che il dolore le abbia
trafitto il cuore e che
si sia afflosciata a terra come un sacco vuoto. Che quando le avevano
toccato
il collo, il suo cuore aveva già smesso di battere.
Eppure
tutto il mio essere freme di gioia e meraviglia nel guardala, con la
certezza
che la sua anima non sia già partita per il Viaggio Eterno.
Le
sfioro il viso, faccio scorrere le mie dita leggere sul suo collo
bianco fino
al petto. Percepisco il suo cuore: è fermo e sanguina di
dolore. Riesco a
fiutare l’odore acre del rimorso.
L’Equilibrio
Vitale è stato spezzato e il suo spirito è andato
in frantumi. Ora so dov’è
andata l’anima di questa donna.
Socchiudo
gli occhi e innalzo il mio Canto in una melodia di speranza e di vita.
Spero
che giunga fino a lei e che le infonda fiducia e coraggio.
Poiché non vi è
altra forza che possa salvarla se non la sua.
Gli
abitanti mi guardano speranzosi e perplessi. Io spiego loro che nulla
si può
più fare per questa donna, ma che mi occuperò
personalmente di seppellirla
accanto al figlioletto, affinché la sua anima possa riposare
in pace.
È
una menzogna, ma non ho altra scelta: l’unica
possibilità che il corpo si
ricongiunga alla sua anima è che questo le si avvicini
quanto più possibile,
altrimenti l’anima liberata potrebbe vagare in eterno.
La
deporrò dunque accanto allo Specchio.
Più
di questo non mi è concesso… –
Koushiro
si fermò, alzando lo sguardo sull’amico, che
sedeva immobile di fronte a lui.
-
Corrisponde
a quanto accaduto nel suo appartamento, giusto? – gli chiese
il rosso.
L’altro
annuì frustrato: le parole della sacerdotessa non avevano
rivelato nulla di più
di quanto già sapesse, se non che il corpo di Rumiko
probabilmente di trovava
vicino a uno Specchio e che poteva far affidamento solo su se stessa
per
rientrarvi. Sempre che ci riuscisse, altrimenti avrebbe vagato per
sempre come
un fantasma.
In
ogni caso in quelle pagine non vi era nulla che potesse suggerirgli
dove si
trovasse e come aiutarla.
-
C’è
dell’altro… - parve leggergli nella mente il rosso.
Il
suo tono era esitante e Yamato tornò a rivolgergli la sua
attenzione.
-
Quest’altro
scritto – esordì Koushiro afferrando un volumetto
rilegato in pelle – sembra
piuttosto un diario di viaggio, scritto in tedesco. –
Il
biondo alzò un sopracciglio.
-
È
molto più recente, credo risalga alla fine del
800… -
-
Sai
tradurre il tedesco, Koushiro? –
-
No,
ma qualcuno ci ha pensato prima di me e ha preso delle note a margine.
Con
l’aiuto di un dizionario sono riuscito a decifrare il
contenuto della parte che
credo ci riguardi di più… -
-
Non
ti vedo convinto – commentò Yamato, visto che il
ragazzo era ancora dubbioso.
-
Sulla
prima pagina di questo libro c’è il timbro di una
biblioteca. –
-
Pensi
sia stato rubato da un sacerdote? –
-
Stento
a crederlo. Ma il punto è la biblioteca:
l’indirizzo è di New York. –
Yamato
aggrottò le sopracciglia.
-
Sono
quasi sicuro che un anno fa Hisashi si trovasse a New York. Quindi
è probabile
sia stato lui a portare qui il manoscritto. –
-
Già,
ma non credo sia stato lui a scrivere questi appunti. La calligrafia
è semplice
e femminile, la trasposizione essenziale, come se si fosse trattato di
una
seccante incombenza anziché di un genuino
interesse… Nulla a che vedere con la
preparazione e la dedizione di un sacerdote appassionato
dell’argomento. –
Koushiro
incrociò lo sguardo del biondo.
-
Credo
che sia stata Rumiko a rubarlo e ad apportare questi appunti.
–
Yamato
sorrise: decisamente molto più verosimile.
-
Probabilmente
stava cercando anche lei qualche indizio riguardo il suo nemico.
– continuò il
rosso, la fronte corrugata.
-
Continui
a sembrarmi dubbioso. Rumiko ha scritto qualche strafalcione?
–
-
Non
è la traduzione a lasciarmi perplesso, bensì il
contenuto… ma proprio per
questo ho la sensazione che potrebbe esserci utile. –
-
Ti
ascolto. –
Koushiro
affiancò al libricino dei fogli su cui aveva preso degli
appunti personali.
-
Quest’uomo
ha viaggiato parecchio, un po’ in tutto il mondo. Una cosa
tutt’altro che
comune per quegli anni, in cui una tale impresa sarebbe stata non solo
molto
costosa, ma anche pericolosissima. Alcuni dei luoghi da lui descritti
sono
decisamente fantasiosi, ai limiti del sovrannaturale. Ma non viaggiava
da solo,
aveva una compagna inseparabile: Miss Fox. –
Yamato
sorrise divertito.
-
Non
fa mai riferimento a se stesso come a un Prescelto o qualcosa del
genere, il
che mi fa supporre che forse erano semplicemente amici, senza avere un
rapporto
come quello che noi abbiamo coi nostri digimon.
Quest’uomo
era uno studioso,
interessato soprattutto al rapporto tra i miti e i fatti reali.
Una delle parti
più interessanti del
suo taccuino riguarda un suo viaggio in Africa, dove è stato
ospite di una
tribù indigena per alcune settimane. Qui ha appreso molte
cose sui loro riti e
le loro credenze.
Una di queste
riguarda il trapasso:
secondo questa tribù, se il decesso avviene in maniera
innaturale e infelice,
l’anima non può raggiungere
l’Aldilà, poiché troppo frammentata e
inquieta per
staccarsi completamente dal Mondo Reale. In questo caso finisce in
quello che
loro chiamano il Regno delle Nebbie, in cui si deciderà la
sua sorte: se la sua
forza vitale è ancora abbastanza forte e riesce a ritrovare
l’equilibrio
interiore potrà tornare in vita. Altrimenti, se incapace di
liberarsi degli
affanni, l’anima resterà nel Regno delle Nebbie
per l’eternità, macerandosi nel
proprio rancore. –
Yamato
fece per dire qualcosa, ma Koushiro lo zittì.
-
Fin
qua nulla di nuovo, giusto? Solo una delle tante favole che ogni popolo
racconta, con lievi varianti. Anche la teoria della resurrezione
dell’anima non
è una novità. – dette voce alle sue
proteste – Ma subito dopo l’esploratore
riferisce a Miss Fox di quanto ha udito e la sua misteriosa compagna
gli rivela
che quel luogo esiste realmente. –
-
Il
Regno delle Nebbie?! –
-
Lei
lo chiama il Mondo dell’Oblio e lo descrive come un luogo
sospeso tra il Mondo
dei Vivi e quello dei Morti, in cui nulla cresce e nulla si muove, in
cui nulla
scandisce il Tempo poiché non vi sono astri nel cielo e in
cui regna una nebbia
fitta. L’uomo mostra interesse per quella dimensione ignota e
chiede alla sua
compagna di mostrargli il modo per raggiungerla.
Ma lei si
rifiuta fermamente, con
grande rammarico dell’uomo.
Le chiede allora
se è vero che
un’anima non del tutto morta può tornare in vita
semplicemente grazie alla sua
forza di volontà… -
-
E…?
- lo spronò Yamato.
-
Miss
Fox dice che – avvicinò il foglio dei suoi appunti
per leggere la traduzione
letterale da lui fatta – “la
Morte non fa
concessioni: nulla concede senza ricevere in cambio qualcosa di pari
valore”.
–
Yamato
aggrottò le sopracciglia, lanciando un’occhiata
interrogativa all’amico. Ma
questi scosse il capo impotente: non aveva idea di cosa potesse
bilanciare il
peso di una vita…
“
Se non un’altra vita.”
Ma
preferì tenere questo pensiero per sé.
Continua…
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