The world through her violet eyes

di monalisasmile
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** - ***
Capitolo 2: *** - ***
Capitolo 3: *** - ***
Capitolo 4: *** - ***
Capitolo 5: *** - ***
Capitolo 6: *** - ***
Capitolo 7: *** - ***
Capitolo 8: *** - ***
Capitolo 9: *** - ***
Capitolo 10: *** - ***
Capitolo 11: *** - ***
Capitolo 12: *** - ***
Capitolo 13: *** - ***
Capitolo 14: *** - ***
Capitolo 15: *** - ***
Capitolo 16: *** - ***
Capitolo 17: *** - ***
Capitolo 18: *** - ***
Capitolo 19: *** - ***
Capitolo 20: *** - ***
Capitolo 21: *** - ***
Capitolo 22: *** - ***
Capitolo 23: *** - ***
Capitolo 24: *** - ***
Capitolo 25: *** - ***



Capitolo 1
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Premessa

 

Questa storia è cominciata diversi anni fa (a giudicare dalla cronologia del mio computer nel 2005) e tra alti e bassi è arrivata fino a oggi inconclusa.

Da allora sono cresciuta, sia come persona sia come scrittrice, ma rileggendo le vecchie pagine ho deciso di non riscriverle, limitandomi ad apportare piccole modifiche là dove ho riscontrato errori grammaticali madornali o imprecisioni per quanto riguarda i contenuti. Credo sia interessante per me quanto per i lettori seguire l’evolversi del mio stile di scrittura così come del carattere dei personaggi, che a distanza di anni vengono delineati con tratti a mio avviso più marcati, ogni tanti tormentati e, forse, per questo più umani.

 

La narrazione comincia in toni leggeri, dallo stile alle vicende che vengono descritte: leggerete di nuovi incontri, di battibecchi e amori adolescenziali, di amicizie e piccoli dispiaceri, emozioni che condizioneranno le giornate e si porranno al centro delle loro vite. Almeno inizialmente.

Come nella vita spesso accade, arriverà il momento in cui i personaggi verranno posti di fronte a problemi maggiori e difficili decisioni. Se fino al giorno prima le loro menti erano totalmente assorbite da “futili” e “puerili” preoccupazioni ed erano sicuri di avere tutto il tempo del mondo per raggiungere i loro obiettivi, d’improvviso tutto parrà sfuggirgli tra le dita. Gli eventi si faranno incalzanti e spesso imprevedibili. Più volte si sentiranno impotenti di fronte a una realtà indecifrabile e troppo crudele per essere affrontata.

Ma andiamo per ordine e diamo inizio a questa storia.

 

 

 

Capitolo 1

 

Era una calda giornata di fine estate: presto la scuola sarebbe ricominciata, portando con sé l’autunno, oltre all’inevitabile marea di compiti in classe.

Un diciottenne camminava spedito per le strade della città.

Taichi sospirò, portandosi le braccia dietro il capo: e dire che c’erano persone a cui la scuola piaceva!

“ Certo che il mondo è pieno di gente strana!”

Si poteva dire che quel ragazzo fosse cambiato negli ultimi anni, ma molti avrebbero ribattuto che era sempre lo stesso. Di sicuro era cresciuto in altezza, il suo corpo si era fatto più robusto e il suo viso cominciava ad assumere le fattezze di un uomo adulto. Tuttavia i suoi occhi nocciola avevano lo stesso sguardo allegro e spensierato e i capelli castani restavano perennemente in disordine. Eppure erano proprio la sua schiettezza e il suo aspetto ancora un po’ infantile a conquistare i cuori delle persone.

Taichi Kamiya non aveva mai avuto nemici. Lui era come quel caldo sole di fine estate che splendeva sulla città e la sua forza e determinazione gli erano valsi, ormai diversi anni addietro, la digipietra del Coraggio.

Probabilmente era per questo che il suo migliore amico era Yamato. Infatti, se il primo era l’astro del giorno, l’altro poteva essere paragonato alla luna. Ricordava bene come al loro primo incontro non andassero d’accordo e i litigi che avevano scatenato. La verità era che non sapevano come comportarsi, riconoscendo nell’altro un proprio pari eppure entrambi troppo orgogliosi per ammetterlo.

Avevano caratteri profondamente diversi: uno socievole e sempre al centro dell’attenzione, pronto a gettarsi con ardore nelle discussioni, l’altro schivo e solitario, sempre attento a studiare le mosse dell’avversario per poi colpirlo con gelide parole. Al contrario di Taichi, Yamato aveva incontrato molte difficoltà nell’accettare la sua digipietra, simbolo dell’Amicizia, dato che si sentiva assolutamente inadeguato a tale ruolo. Ciò nonostante, presto era parso evidente che non vi era stato alcun errore: il ragazzo si era dimostrato pronto a sostenere chi avesse bisogno di aiuto, come un pilastro solido e sicuro, forte della sua sagacia e lealtà. Testardo e caparbio come pochi, non aveva mai gettato la spugna, rivelandosi il compagno ideale del prescelto del Coraggio.

Successivamente Taichi aveva dovuto ammettere a se stesso di aver sempre ammirato le doti di quel ragazzo, uno dei pochi che in determinate occasioni fosse riuscito a contenerlo e farlo ragionare, insegnandogli a mantenere la calma.

Quando frequentavano le medie, Yamato entrò a far parte di una band, nel ruolo di cantante e musicista. Non fu difficile per loro ottenere il successo e presto il gruppo divenne tra i più conosciuti della regione. Il ragazzo era diventato una stella nascente della musica e poteva vantare uno stuolo di fans sfegatate da far invidia agli idol. Taichi invece decise di impegnarsi in campo sportivo, conquistando il titolo di capitano della squadra di calcio della scuola e conducendo i compagni a importanti vittorie.

Poi c’era stata la questione di Sora: per la prima volta dopo tanto tempo i due si erano trovati in competizione. Tuttavia erano troppo legati per mandare all’aria la loro amicizia e il bruno aveva preferito ritirarsi, vista anche la predilezione della ragazza per l’amico. Certo non era stato facile e ne aveva sofferto, ma al contempo pensava di aver fatto la scelta giusta: Sora era una ragazza speciale e meritava di avere vicino una persona eccezionale come Yamato. Così si era trovato a sorridere: i suoi migliori amici si erano messi insieme, cosa poteva volere di più?

Però tra poco tutto ciò sarebbe cambiato. Una volta preso il diploma, si sarebbero separati, per percorrere ciascuno la propria strada. Sora avrebbe frequentato l’Accademia di Belle Arti e a Yamato era stato consigliato di iscriversi a Ingegneria. E allora che ne sarebbe stato di loro? Che ne sarebbe stato di LUI?

Si sentiva più che mai confuso: c’erano molte cose che avrebbe voluto fare nella vita e ancor di più erano quelle di cui non voleva neppure sentir parlare. Ma qualunque sarebbe stata la sua scelta, sapeva che non avrebbe potuto sopportare di perdere i suoi più cari amici. Ne aveva parlato con Yamato e lui aveva confessato di provare gli stessi dubbi. Eppure in quel momento il suo tono era pacato come sempre, senza lasciar tradire la minima agitazione. Perché non riusciva a esternare anche lui la stessa calma? Di sicuro era uno dei motivi per cui il prescelto dell’Amicizia era riuscito a conquistare il cuore di Sora.

Scosse vigorosamente la testa, scacciando quei pensieri. Non era mai stato tanto insicuro in vita sua e la situazione non gli piaceva per niente.

 

Intanto era arrivato in vista del condominio in cui abitava Yamato. Un edificio in mattoni rossi a più piani, con i fiori ai balconi, le aiuole curate e un cortile spazioso che veniva usato come parcheggio per gli ospiti. Lui e il padre vi si erano trasferiti da alcuni anni, decidendo che l’appartamento di prima non era adatto a due uomini quasi sempre assenti. L’abitazione si trovava abbastanza vicino al centro per consentire ad uno di andare a lavorare e all’altro di raggiungere la scuola. Un quartiere pulito e, a giudizio di Sora, dotato di un’eleganza semplice e sobria. Insomma, il luogo adatto a quella coppia di lupi solitari.

Sorrise e attraversò il cancello d’ingresso, registrando subito un’anomalia. Che ci facevano quei grossi camion nel cortile? Si avvicinò e lesse il nome di una ditta di traslochi. Curioso, osservò  un gruppo di uomini scaricare degli scatoloni imballati e trasportarli all’interno. Li seguì, desideroso di vedere chi fossero i nuovi vicini del suo migliore amico.

Con stupore si ritrovò al quarto piano, di fronte alla porta numero 18, sul cui campanello si poteva leggere “Ishida”. Il gruppetto compì una piccola svolta e si infilò nell’apertura accanto, per poi girare a destra e scomparire dalla sua vista. Allungando il collo il ragazzo osservò il 17 in ottone infisso sul legno della porta e lesse il nome scritto con cura sulla targhetta: Kitamura.

Si voltò verso l’abitazione dell’amico, che formava un angolo retto con la precedente, ma anziché suonare il campanello si ritrovò a curiosare oltre quell’uscio sconosciuto: la curiosità aveva vinto ancora una volta.

L’interno pareva accogliente, per quanto lo possa essere una casa in via di sistemazione vista dall’ingresso. Le pareti erano state dipinte in un color panna molto delicato e una cassettiera in pregiato legno scuro faceva la sua bella mostra su un lato del corridoio, sovrastata da uno specchio contornato dal medesimo materiale. Un’unica cornice era stata appesa e racchiudeva l’immagine di una città di notte, illuminata da luci multicolori e sovrastata da un cielo spruzzato di stelle. Aggrottando le sopracciglia si avvicinò, notando un piccolo particolare: una figura sottile si stagliava contro la luna splendente, sulla cima di un alto palazzo.

-      Ti piace? –

-      Sì – rispose lui automaticamente, per poi sussultare e voltarsi.

Davanti a lui c’era una ragazza che sorrideva gentilmente. Taichi si ritrovò ad arrossire: era davvero…bella. Carina sarebbe stato inappropriato: la carnagione era candida, il viso dai tratti regolari e fini. I capelli lunghi e legati in una coda ricadevano morbidi su una spalla, la frangia poggiata da un lato ombreggiava la fronte e alcune ciocche erano sfuggite alla pettinatura. Aveva legato una bandana sul capo e indossava una t-shirt e un paio di pantaloncini. Tra le braccia teneva una delle scatole marroni che aveva visto nei camion. Le sue iridi erano…blu? No, si corresse, viola. Un colore magnetico e seducente dalle varie sfaccettature, risaltato dal contrasto con la pelle chiara. Si sorprese, però, nello scorgere in quello sguardo vellutato che osservava la fotografia un velo di…malinconia? Ma fu solo un istante. Appena lei riportò l’attenzione sul prescelto quella sensazione sparì.

-      Sei un mio vicino? – chiese la ragazza.

-      No, sono solo venuto a trovare un amico. –

-      Meno male – fece lei – vivere con gente tanto curiosa alla porta accanto sarebbe insopportabile. –

Lui arrossì fino alle orecchie.

-      Scusami se sono entrato senza permesso, non volevo essere invadente, lo giuro – balbettò – è solo che… -

-      Eri curioso – terminò l’altra.

Il ragazzo abbassò il capo: aveva ragione e si vergognava di esser stato tanto maleducato.

-      La tua è stata violazione di proprietà privata, lo sai ,vero? –

Lui si fece piccolo piccolo.

-      Il minimo che tu possa fare ora come ora – continuò la sconosciuta con un sorriso – è di terminare il giro, non ti pare? –

-      Eh? – esclamò allibito.

-      Hai sentito bene, però sarà meglio spostarci di qua o rischiamo di intralciare il lavoro della ditta di trasloco! –

-      Ma non sei arrabbiata? –

-      Lo sarò se non mi dai una mano con questa scatola! – sbottò, cosicché l’altro si affrettò a liberarla dal peso.

-      Questa per ora mettila qua, ti faccio fare un giro. – e avanzò, seguita dal ragazzo.

Poi parve ricordare qualcosa e si voltò, porgendogli la mano.

-      Comunque piacere, mi chiamo Rumiko Kitamura. –

-      Taichi Kamija. –

-      Bene Taichi, posso chiamarti per nome, vero? – gli sorrise – Ora avrò l’onore di farti da guida nel mio piccolo regno, anche se non ho finito di sistemare tutto. –

-      Non vorrei disturbare… -

-      Ma quale disturbo? – ribatté energicamente – Ti sembra forse di aver interrotto un’attività piacevole? – fece in tono ironico.

Taichi lanciò una breve occhiata agli scatoloni e alla squadra che usciva per prendere il prossimo carico.

-      Direi proprio di no. – commentò.

-      Esattamente. Noto con piacere che oltre a curioso sei anche perspicace. – lo incalzò.

-      Faccio del mio meglio. – le sorrise.

-      Bene. – si limitò a dire lei, per poi procedere a mostrargli l’appartamento.

Il digiprescelto sospirò, sorridendo interiormente. Aveva proprio ragione: ce n’era di gente strana in giro. Però quella ragazza gli piaceva. Pensando alla ramanzina che avrebbe ricevuto da Yamato per il suo ritardo, si accinse a seguirla.

 

Le stanze nel complesso non avevano nulla di speciale: spaziose e illuminate dal sole, avevano ampie finestre e gli scaffali dei mobili ancora vuoti. Divani e poltrone erano ancora avvolti nei teli e qua e là erano stati ammucchiate le scatole da imballaggio. Sembrava che solo le cornici fossero state sistemate: sulle pareti erano visibili spiagge e città caotiche, ritratte soprattutto di notte o al crepuscolo. Di per sé poteva sembrare un insieme caotico, ma la disposizione accurata conferiva al tutto un aspetto armonioso. Taichi aveva la sensazione di trovarsi in una galleria d’arte.

-      Mio padre è un fotografo molto bravo – spiegò Rumiko, come se gli avesse letto nel pensiero – e predilige i paesaggi. –

Lui si girò a guardarla e rimase paralizzato nel ritrovarsi davanti due ragazze dallo stesso viso, sebbene le espressioni fossero diverse.

-      Non solo. – riuscì a dire, indicando la cornice alle spalle di lei.

L’immagine ritraeva Rumiko. La sua posa era naturale, la bocca leggermente dischiusa, il bel viso rilassato e i capelli sciolti sulle spalle. Sorrideva, enigmatica, come se custodisse un segreto, noto a lei solo.

-      Nel tempo libero gli piace farmi delle foto e alcune le appendiamo in casa, tutto qua – disse con semplicità – Quelle sui paesaggi invece le usa nel suo lavoro. Sai, riviste, book, mostre e via dicendo. –

-      È davvero bravo. – commentò lui.

-      Lo so – sorrise orgogliosa.

Poi gli fece fare un piccolo tour del resto dell’abitazione. Ovunque erano state appese delle foto e tutte le volte il ragazzo rimaneva meravigliato dalla maestria di quell’uomo. Sembrava in grado di trasformare qualunque soggetto in un’opera d’arte in grado di catturare l’attenzione dell’osservatore. Ma non con l’arroganza di molti fotografi contemporanei: immortalava i paesaggi e le persone sulla pellicola con delicatezza, come se intendesse solo sfiorarli.

Rumiko si dimostrava un’ottima guida, mostrandogli i risultati migliori e intrattenendolo conversando. Era una persona interessante e i suo modi lasciavano intendere il suo carattere risoluto. Diretta e sicura di sé, aveva un sorriso splendido. Però non riusciva ad allontanare dalla mente l’immagine del suo sguardo mentre osservava la fotografia appesa all’ingresso.

-      Bene, abbiamo terminato il giro turistico. Posso offrirti qualcosa da bere? –

-      Veramente… - tentò, ricordandosi dell’amico.

-      Dai, così dissetiamo anche quei poveri disgraziati che hanno sollevato pesi tutto il giorno! –

-      Beh, quello potresti farlo anche da sola, non ti pare? –

-      Scherzi?! Vorresti lasciarmi in balia di quattro uomini grandi e grossi e che per di più puzzano di sudore da far schifo? – protestò, scandalizzata.

-      D’accordo, vedo che con te non si può discutere! – rise lui.

-      Ti sbagli, si può eccome, solo che non conviene. – e gli sorrise con aria scaltra.

Poi si affacciò al balcone e invitò i lavoratori a bere qualcosa. Taichi pensò a cosa dovevano aver provato a esser richiamati da uno strillo proveniente dal quarto piano e a ciò di cui avrebbero parlato i vicini per i prossimi giorni. Mentre la ragazza si recava in cucina a prender le bevande il giovane scosse la testa, sorridendo: Rumiko Kitamura era una persona davvero degna di attenzione.

 

Ormai si era quasi fatta sera e Taichi camminava sulla strada di casa. Nonostante quel pomeriggio non fosse cominciato nel migliore dei modi, si era divertito. Rumiko l’aveva invitato a tornare a trovarla quando l’abitazione fosse stata sistemata e lui aveva afferrato al volo l’invito. Quella ragazza gli piaceva e non vedeva l’ora di rivederla. Sperava che potessero diventare amici, in modo da riuscire a comprenderla un po’ meglio. E, naturalmente, l’avrebbe presentata anche agli altri, a Yamato e…

“Porca miseria, mi sono scordato di passare da lui! Domani sarà furioso…”

Un brivido gli attraversò la schiena al solo pensiero. Poi sollevò le spalle: se non altro il giorno dopo era domenica e avrebbe potuto dileguarsi facilmente. Lunedì…beh, lunedì avrebbe pregato tutti i santi!

 

Si fermò davanti a quella cornice, osservandone la fotografia. Si accigliò: quell’immagine non avrebbe dovuto trovarsi lì, esposta allo sguardo di chiunque.

“E soprattutto non al mio”.

La sfilò dall’attacco e la portò nell’altra stanza, intenzionata a buttarla nella pattumiera. Poi si fermò e, senza più guardarla, entrò nella propria camera da letto. Aprì un cassetto ancora vuoto e la fece scivolare al suo interno. Quando lo richiuse, le sue mani tremavano.

 

 

 

Continua…

 

 

 

N.d.a.

Volevo solo chiarire un paio di cose, prima di procedere: innanzitutto l’età di Miyako. Non essendo sicura ho preferito metterla nello stesso anno di Daisuke e gli altri, ma se ho sbagliato vi prego di portare pazienza!

Inoltre ho utilizzato il modello scolastico giapponese, cioè 5 anni di medie e 3 di superiori. Però l’anno scolastico è lo stesso che abbiamo noi, con le vacanze in inverno ed estate e la scuola che finisce a giugno! Altrimenti avrei dovuto inserire le vacanze di primavera (di nuovo non ero sicura del periodo) e poi il periodo esami (ennesimo problema!)

Dunque, ricapitolando:

-      Taichi, Yamato e Sora (18) frequentano il terzo anno delle superiori

-      Koushiro (17) secondo delle superiori

-      Jiou (19) primo di università

-      Daisuke, Hikari, Takeru, Miyako e Ken (15) ultimo delle medie

-      Iori (13) terzo delle medie.

Infine avviso che mi vedrò costretta a inventare lì dove ho alcune lacune, come nel caso del nome del padre di Yamato. Chiedo venia anche per questo!

 

Monalisasmile

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Capitolo 2
*** - ***


Capitolo 2

Yamato Ishida si chiuse la porta alle spalle, furibondo: aveva aspettato Taichi tutto il pomeriggio e lui non si era fatto vedere. Ma appena l’avesse visto gliene avrebbe dette di cotte e di crude. Insomma, poteva almeno avvertire se non aveva intenzione di venire, no?

-      Yamato, metti da parte quel tuo muso lungo, per favore. Non vorrai spaventare i nostri nuovi vicini? –

Il padre di Yamato era un uomo alto sulla cinquantina, capelli castani e viso dai tratti marcati. Chiunque avesse visto la coppia avrebbe affermato che il ragazzo doveva aver preso tutto dalla madre. Eppure il loro legame era saldo e non litigavano quasi mai: forse perché entrambi impegnatissimi, uno con la scuola e la band e l’altro con gli studi televisivi, oppure perché avevano un carattere molto simile.

-      Onestamente non vedo tutta questa fretta di fare le presentazioni. –

-      Non te l’ho detto? – fece l’uomo.

Dall’espressione del figlio capì di non averne neppure accennato. Ed ecco che emergeva il principale difetto del signor Ishida: a momenti era terribilmente distratto, tanto che colui che si occupava della casa era sempre stato il ragazzo, anziché il genitore.

-      Kitamura è uno dei fotografi più famosi di tutto il Giappone, a mio avviso il migliore in circolazione. Mi è capitato di vedere una mostra delle sue opere: davvero stupefacente! Ha una tecnica sopraffina e il suo stile è ineguagliabile! –

-      Non ti avevo mai sentito lodare tanto il lavoro di qualcuno.- commentò, sarcastico.

L’altro sollevò le spalle: a quanto pare il figlio era proprio di malumore.

-      Beh, te ne accorgerai tu stesso se ci mostrerà qualcosa. – dettò ciò suonò il campanello.

La porta si aprì e sulla soglia si presentò un uomo sorridente. Yamato giudicò che doveva avere su per giù l’età di suo padre e come lui era alto e dai capelli castani, qua e la striati di grigio. Però la somiglianza finiva lì: la persona che avevano davanti aveva un fisico non troppo muscoloso, il viso dai lineamenti delicati coperto da un po’ di barba e caldi occhi nocciola. Sembrava un attore di Hollywood e sorrideva amabilmente. Il signor Ishida fece le presentazioni, velatamente imbarazzato: i convenevoli non erano il suo forte.

-      Ehm, buona sera signor Kitamura, ci scusi se la disturbiamo a quest’ora di sera. Siamo i suoi nuovi vicini e pensavamo di fare un salto per presentarci. Mi chiamo Eichi Ishida e questo è mio figlio Yamato. –

-      Piacere.- salutò educatamente il giovane.

-      Piacere mio, il mio nome è Hiroshi Kitamura. Mi fa piacere che siate venuti. Prego, entrate. –

-      Non vorremmo disturbare… - protestò l’altro, piuttosto debolmente a giudizio del ragazzo.

-      Nessun disturbo! Sarei felice che vi fermaste per un drink o un the. Immagino abbiate già cenato.–

Detto questo li fece entrare.

-      Mi scuso per il momentaneo disordine, ma non c’è ancora stato modo di mettere tutto in ordine. –

-      Si figuri – commentò Yamato – noi ci siamo trasferiti quattro anni fa e abbiamo ancora un paio di scatoloni nascosti nell’armadio! –

Il loro ospite sorrise divertito.

-      Beh, quand’è così…vorrà dire che non dovrò preoccuparmi di invitarvi a cena qualche volta! –

Entrarono nel salotto e Kitamura non fece quasi in tempo ad aprire bocca, che il padre di Yamato si era già avvicinato a una fotografia incorniciata e appesa alla parete.

-      Vedo che le interessano i miei lavori. – commentò il fotografo.

-      Non sono un esperto, ma ammetto di aver visto una sua mostra… e di esserne rimasto affascinato. –

-      La ringrazio del complimento. –

Poi si voltò.

-      E tu che ne pensi, Yamato? –

Evidentemente, pensò il ragazzo, il fotografo era abituato ad interagire col pubblico. Perciò si sforzò di mostrare per le sue opere lo stesso educato interesse che l’ospite aveva manifestato nei suoi confronti. Si avvicinò e osservò l’immagine con attenzione. Raffigurava una distesa d’acqua grigia dai riflessi smorzati, che suscitava una sensazione di freddo. Su tutto incombeva un cielo fatto di nuvole bigie. Il sole era una debole macchia di luce lontana.

-      È bella. – commentò.

-      E a cosa ti fa pensare? – lo incalzò l’altro, gentilmente.

-      Suppongo che rappresenti un mare d’inverno e che il suo intento fosse di trasmettere sensazioni fredde, forse la solitudine. Tuttavia non è a questo che mi fa pensare… piuttosto mi dà una sensazione di pace e piacevole silenzio. –

Kitamura parve soddisfatto, perché gli sorrise. Suo padre si guardò attorno, percorrendo la stanza con gli occhi, fino a che il suo sguardo si fermò.

-      Mi scusi, ma quelle fotografie… -

Si avvicinarono e qualcosa in Yamato fremette.

-      I paesaggi sono il mio lavoro – spiegò, osservando la figura con un’espressione d’affetto sul volto – ma nel tempo libero, anche se poco, amo ritrarre il mio soggetto preferito. –

Il giovane, dal canto suo, distolse lo sguardo, turbato: quell’immagine aveva scosso qualcosa dentro di lui. Istintivamente si ritrovò a parlare.

-      Preferisco le foto dei paesaggi. Sono più sinceri e… immacolati. –

-      Cosa vorresti insinuare?! –

Yamato si voltò e trattenne a stento la sorpresa nel ritrovarsi di fronte il soggetto che stava contemplando sulla parete giusto un attimo prima.

-      Vi presento la mia musa ispiratrice, nonché mia figlia. Rumiko, questi sono… -

-      Non mi interessa chi sono. – sbottò lei alterata – Voglio sapere che intendeva dire questo arrogante. –

-      Sono sicuro che il nostro vicino non… -

-      Ah, è pure un vicino! Quando si dice la fortuna… – commentò.

-      Se te la prendi tanto è perché sai che ho ragione. –

-      C- cos’hai detto, scusa?! –

-      Yamato… - tentò il padre, ma il ragazzo lo ignorò.

-      Io ho solo dato la mia opinione, non ti conosco perciò non vi è nulla di personale. – disse, e in parte era vero.

-      Mi stai dando dell’ipocrita?! – ora era davvero livida.

-      Non ho detto questo – le fece notare.

-      Ma è quel che pensavi, non è vero?! –

-      E chi lo sa? –

Lei tremò per la rabbia repressa, il bel volto leggermente arrossato. Poi parve avere un’illuminazione.

-      Ora ho capito chi sei: ti chiami Yamato Ishida, vero? Il cantante. –

-      Devo dedurne che sei una mia fan? – la pizzicò lui.

-      Non t’illudere – sorrise lei, malignamente – Ho solo sentito parlare di te in TV qualche tempo fa. –

-      Sembra che ti sia rimasto impresso bene nella mente. – le sorrise, provocatorio.

-      Yamato, smettila di… -

-      Non tu, ma la tua canzone. Ricordo che ho pensato “non capisco come abbia potuto raggiungere un simile successo con simile musica ”. – disse con un velo di disgusto.

-      Che vuoi dire? – si fece serio.

-      Che i gusti musicali devono essere davvero bassi da queste parti, se c’è qualcuno che apprezza la tua musica. –

-      E tu che ne sai? Sei forse un critico musicale? –

-      Ti assicuro che ho viaggiato abbastanza da farmi un buon bagaglio culturale e musicale. Ed è ovvio che la tua popolarità deriva solo dal tuo bel faccino, visto che di musica ci capisci ben poco. –

-      Rumiko! – la richiamò il padre, ma lei continuò imperterrita.

-      Pensi che comporre significa solo mettere insieme due note che rendano il pezzo orecchiabile e scribacchiare una canzoncina piena di frasi fatte? Non avessi parlato della nascita del gruppo avrei pensato fossi un idol uscito da un programma spazzatura. –

-      Ma senti chi parla: miss “nel stamparmi un sorrisetto carino in faccia e prendere in giro il mondo intero sono una professionista”! –

-      Non accetto simili offese da uno che fa lo spaccone con musica da schifo! –

-      Se non altro non indosso una maschera di ipocrisia che nemmeno il solvente per unghie potrebbe levarmi dalla faccia! –

-      Invece dicono che agli sbruffoni la levi in un secondo! Ne ho una boccetta in bagno, proviamo?! –

-      Ora basta Rumiko! –

-      Anche tu Yamato! Vi state comportando come bambini! –

Nel sentirsi riprendere in quel modo, i ragazzi si bloccarono d’improvviso, ancora scossi per la litigata. Lei si morse le labbra, sentendosi umiliata, si voltò e si chiuse nella sua stanza. Subito dopo fu il turno dell’altro abbandonare il salotto, le mascelle contratte, chiudendosi il portone numero 17 alle spalle.
Rimasti soli, i due genitori sospirarono.

-      Mi spiace, signor Ishida. Mia figlia è una brava ragazza, glielo assicuro, ma quando perde le staffe non c’è modo di fermarla. –

-      Non si deve scusare. Yamato non avrebbe dovuto provocarla in quel modo. –

-      Beh, diciamo che è stato uno scambio di idee piuttosto… -

-      Assordante. –

Sospirarono ancora e poi si salutarono, concordando che l’invito a cena era da rimandare a quando le acque si fossero calmate.

Yamato era seduto per terra, nella penombra della sua stanza. Non ricordava quando era stata l’ultima volta che si era infuriato a tal punto.
Chi diavolo credeva di essere quella per parlargli in quel modo? E poi che cavolo andava a sparare sentenze, lei che di musica non ci capiva di sicuro più della sua professoressa di fisica? Lei, che non era altro che una ragazzina viziata e ipocrita, in grado di mentire perfino all’obiettivo di suo padre.
Guardando quell’immagine, infatti, il ragazzo si era accorto della falsità di quel sorriso. Bastava osservare lo sguardo. Si dice che gli occhi sono lo specchio dell’anima: ebbene, quelle iridi viola gli erano parse… sporche, come se fossero state contaminate da qualcosa. Quando se l’era trovata davanti, poi, ne aveva avuto la conferma: la rabbia che aveva mostrato non era altro che un modo per dissimulare il turbamento che le sue parole avevano generato. Una via di fuga.
Storse la bocca. Si era fatto insultare da una bugiarda e per di più codarda. Aveva permesso che criticasse la musica, la sua musica. Ma se era la guerra che voleva, allora l’avrebbe accontentata.
Serrò i pugni fino a far sbiancare le nocche. Non avrebbe dovuto farlo arrabbiare.

Rumiko era stesa sul letto, il viso rivolto al soffitto.
Come si era permesso di dirle quelle cose? L’aveva giudicata, esprimendo il suo pensiero sulla base di una fotografia. Non ne aveva alcun diritto. Non la conosceva, non sapeva niente, niente!
Una morsa le attanagliò il cuore. Era già abbastanza doloroso così convivere con quei ricordi, ingoiando ogni lacrima, figuriamoci se ci si metteva di mezzo un vicino presuntuoso e sputa sentenze. L’aveva guardata dall’alto in basso, l’aveva umiliata davanti a suo padre… e per questo lo odiava. Per questo, e perché sapeva che aveva ragione, le suggerì una vocina petulante nella sua testa.
Però anche lei aveva detto il vero: la sua musica era orecchiabile, nulla di più. Non era in grado di suscitare alcuna emozione e per questo era vuota. Lei glielo aveva detto e lui era saltato su, poiché quello doveva essere il suo punto debole: l’incapacità di scuotere i cuori della gente attraverso le sue canzoni. C’era chi non ne era in grado e chi aveva paura di farlo, temendo che i propri pensieri e le proprie emozioni non venissero accettati. Lui, evidentemente, apparteneva alla seconda categoria, altrimenti non avrebbe reagito a quel modo. Ricordava ancora di esser rimasta piuttosto contrariata dalla sua esecuzione, del tutto impersonale, ma aveva supposto che si trattasse di una persona estremamente arida e non fosse capace di molto di più. Invece il giovane che si era trovata di fronte le era sembrato l’esatto opposto: un tumulto di emozioni, anche se a suo avviso estremamente caotiche.
L’aveva accusata di essere falsa, lui che ogni volta che saliva sul palco e strimpellava qualche canzoncina melensa abbindolava centinaia di ragazze!
Sorrise, senza allegria. Una cosa era certa: quello schifoso sbruffone, sputa sentenze, ingannatore di masse non l’avrebbe passata liscia! Non avrebbe avuto pace, finché non l’avesse implorata di perdonarlo per le offese che le aveva rivolto. Magari l’avrebbe costretto a comporre una squallida canzoncina di scuse!

Ridacchiò. In fondo l’aveva detto anche a Taichi: con era una buona idea mettersi contro di lei.

 


Continua…



 

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Capitolo 3
*** - ***


Capitolo 3


Quella mattina Taichi dovette raccogliere tutto il suo coraggio per entrare in classe e strisciare fino agli ultimi banchi.
Una ragazza lo guardò sorpresa. Aveva capelli ramati che le sfioravano le spalle e dolci occhi del medesimo colore. Il suo corpo era ben proporzionato, degno di una giocatrice di tennis e come tale portava la gonna corta con disinvoltura. Era molto carina.
Il ragazzo si portò un dito alla bocca, con fare supplichevole, e lei sorrise divertita. Lui proseguì, ma un attimo dopo venne ripreso da una voce che gli fece accapponare la pelle.

-      Alzati, Tai. Non avrai veramente pensato di passare inosservato in quel modo, vero? –

-      Ehm, buongiorno Yamato, bella giornata, non trovi? –

-      Affatto. – rispose l’altro.

“Accidenti, è già di malumore!” pensò Taichi, maledicendo la sua sfortuna “Ora mi mangia, ora mi mangia!”

-      Ecco… per l’altro giorno… ehm…mi dispiace di non essere venuto! – piagnucolò tutto d’un fiato – Lo so, avrei dovuto avvertirti, ma è successo un imprevisto e… -

-      D’accordo, non parliamone più. –

Silenzio stupito.

-      Sicuro di stare bene? – strabuzzò gli occhi Taichi.

-      Per niente. – disse l’altro, atono.

-      Ma che gli prende? Sora, tu ne sai qualcosa?– bisbigliò rivolto alla ragazza.

-      Non ne ho idea. – rispose, facendo spallucce.

Evidentemente Yamato aveva sentito la conversazione, perché sbottò:

-      Ieri sera ho conosciuto la persona più odiosa di questo mondo! –

-      Davvero? – fece il bruno – Anch’io ieri… - ma non terminò la frase perché venne richiamato dall’insegnante.

-      Taichi Kamiya! Nel caso non te ne fossi reso conto, il tuo insegnante ha appena fatto il suo ingresso. Se entro tre secondi non ti vedo seduto al tuo posto potrei passare la prossima ora in piedi. Nel corridoio. Di fronte alla porta del preside. –

In un lampo il prescelto del Coraggio prese posto di fianco all’amico.

-      Bene. – gli lanciò un’occhiata di ammonimento il professore – Ora vorrei presentarvi una nuova studentessa. Si è trasferita nella nostra città solo pochi giorni fa e frequenterà l’ultimo anno insieme a voi. Vi prego di non farmi fare brutta figura. Entri pure, signorina Kitamura. –

La porta si aprì e una figurina fece il suo ingresso. Indossava la divisa verde, composta da gilet, camicetta, cravatta rossa e gonna a pieghe. La camicia bianca a maniche corte lasciava scoperte le braccia candide e il corpetto le fasciava delicatamente il busto. Ai piedi calzava le scarpette nere che utilizzavano tutte le allieve, abbinate a un paio di calzini candidi.

-      Piacere di conoscervi! Mi chiamo Rumiko Kitamura e spero che andremo d’accordo! – recitò come da copione, sorridendo amabilmente.

-      Non ci posso credere. – borbottò fra sé Yamato, per poi sobbalzare quando il prescelto del Coraggio scattò in piedi come una molla.

-      Rumiko! –

-      Oh, Taichi, sono felice di rivederti!.–

-      Anch’io, ma non sapevo che ti fossi iscritta nella mia scuola. –

-      Per forza non lo sapevi…visto che non te l’ho detto. –

Qualcuno sghignazzò e il ragazzo le sorrise gioioso, destando una vena d’invidia in più di un compagno. Dopo un’altra strigliata a Taichi, il professore invitò la ragazza a sedersi e lei si posizionò in prima fila, nell’unico posto libero.

-      Quando ti ho detto di non esser potuto venire per un imprevisto – sussurrò a Yamato una volta tornato a sedersi – mi riferivo a lei! L’ho conosciuta ieri, pensa che è una tua vicina di casa! È una fortuna che sia venuta proprio in questa scuola! Poi te la voglio presentare! –

-      Non ce n’è bisogno. – disse il biondo con una smorfia.

-      E perché scusa? Non è il tuo tipo? –

-      Decisamente no. –

Detto ciò si girò dall’altra parte e non spiccicò più parola per il resto dell’ora.
“Grandioso!” pensò frustrato “La mia peggior nemica ha conquistato il cuore del mio miglior amico!”

Ma aveva la spiacevole sensazione che i suoi guai fossero appena cominciati.

Appena suonata la campanella del cambio d’ora, Taichi ne approfittò per avvicinarsi al banco della ragazza, sotto gli occhi stupiti, curiosi e forse anche un po’ invidiosi dei compagni.

-      Allora? Come ti è sembrato il prof di filosofia? –

-      Soporifero. – rispose soffocando uno sbadiglio – Si limita a leggere i paragrafi del libro, nessun commento, nessun dibattito… E dire che una volta filosofia mi piaceva! –

-      Dici sul serio? Accidenti, non ti facevo così studiosa! –

-      Infatti non lo sono. Però credo che sia una materia interessante, se fatta come si deve. –

-      La penso allo stesso modo. – intervenne Sora.

-      Ah, lei è Sora Takenouchi! –

-      Piacere! –

-      Piacere mio, Sora. Sei la sua…? –

-      No, no! – si affrettò a smentire il giovane – Lei sta con Yamato! –

-      Yamato? – aggrottò la fronte.

-      Sì, Yamato Ishida, il tuo vicino di casa. Forse vi siete già incontrati… –

-      Sì, ci siamo… incontrati. –

-      Ottimo, allora non serve fare le presentazioni. Yamato, vieni qua un secondo! – lo chiamò.

Seppur con riluttanza, il giovane li raggiunse, fermandosi davanti a lei con le mani affondate nelle tasche dei pantaloni.

-      Ciao Yamato. – lo salutò, tranquilla – Mi fa davvero piacere che siamo in classe insieme. Sono sicura che ci…divertiremo. – sorrise.

-      Lo penso anch’io. –

Nessuno poteva immaginare quanto.

Le ore della mattinata trascorsero in fretta. Durante l’intervallo Taichi si offrì di fare da chaperon alla ragazza. Le vennero presentate molte persone, prevalentemente ragazzi di cui, inutile dirlo, dimenticò subito i nomi. L’unico su cui il bruno parve soffermarsi un po’ di più era un giovane che frequentava il secondo anno, con una zazzera rossa sul capo, sopracciglia folte e occhi scurissimi e attenti. Le era stato introdotto come un genio dell’informatica, nonché suo buon amico, e Rumiko l’aveva salutato calorosamente. Lui era arrossito leggermente e la studentessa gli aveva sorriso, deliziata da quel suo comportamento timido e un po’ impacciato che lo rendeva, almeno a suo avviso, estremamente carino. Eppure sembrava che non riuscisse a capacitarsi di poter piacere a una ragazza e questo lo portava a distogliere subito lo sguardo.
“Strano che due persone così diverse siano tanto legate.”
D’altronde anche l’amicizia con Yamato aveva dell’incredibile, dato che lui e Taichi le parvero fin da subito del tutto incompatibili, come due protoni che si respingono a vicenda poiché similmente carichi.

Inizialmente aveva maledetto la sua sfortuna, che gliel’aveva fatto trovare persino a scuola, ma poi aveva cambiato idea: quella spiacevole circostanza poteva rivelarsi un utile mezzo per la sua rivincita. Aveva deciso che l’avrebbe osservato attentamente, per carpirne tutte le informazioni possibili, senza fretta. In fondo la vendetta era un piatto da consumare freddo.
Camminando per i corridoi, la giovane poté farsi un’idea più chiara delle circostanze. Sembrava infatti che una buona percentuale di ragazzi vedesse in Yamato l’ideale dell’uomo duro e vero, che ha tanto successo con le donne quanto sulla scena musicale. Inutile dire che le ragazze stravedevano per lui, tanto da aver formato un fan club all’interno della scuola.
Non se ne stupì, dato il soggetto in questione. Non troppo alto, aveva un fisico da modello. Sulla carnagione lievemente abbronzata spiccavano due occhi azzurri dallo sguardo tenebroso. I capelli biondi tagliati all’ultima moda erano lunghi sulla nuca e scalati ai lati, con una grande ciocca, anch’essa sfilacciata, che gli ombreggiava il volto. I tratti del viso erano marcati, senza per questo apparire rozzi, e quell’aria da lupo solitario lo rendeva ancor più affascinante. Anche i suoi modi di fare avevano un certo stile, per non parlare del modo in cui portava quella divisa. Probabilmente avrebbe indossato con classe anche una camicia da notte! O almeno queste erano le opinioni delle sue ammiratrici.
Personalmente lei lo riteneva una persona detestabile, con quel suo sguardo tagliente e derisorio e quel suo modo di fare quasi sprezzante, come se si ritenesse al di sopra di tutti.
Inaspettatamente, però, sembrava che anche Taichi riscuotesse un certo successo: capitano della squadra di calcio, aveva vinto molte partite e si era guadagnato la stima e l’ammirazione di molti studenti. Tra i più giovani che facevano parte di gruppi sportivi pareva fosse un mito!
Probabilmente, ragionò, questo era dovuto anche al suo carattere: socievole, gentile con tutti e sempre disponibile ad aiutare gli altri come a farsi due risate in compagnia. Un ragazzo d’oro, oltre che eccezionalmente carino, sebbene in modo meno appariscente dell’amico.
E poi c’era Sora, la fidanzata di Yamato invidiata da tutte. A quanto pareva erano quasi cinque anni che stavano insieme. A detta di alcuni invidiosi, la ragazza non aveva nulla di speciale, ma la gran parte dell’istituto la riteneva una persona gentile e simpatica, oltre che intelligente, il che la rendeva ben accetta anche dagli insegnanti. Inoltre giocava a tennis nel club della scuola e sembrava avesse vinto alcuni premi importanti. In poche parole si trattava di una studentessa modello. E, nonostante profondamente diversi, i due avevano un ottimo rapporto, nato a partire da una profonda amicizia.
“Sarà più complicato del previsto.” meditò una volta tirate le somme “Beh, poco male: vorrà dire che gusterò di più la vittoria!”

Yamato era appoggiato alla finestra del corridoio con alcuni compagni di classe, ma prestava scarsa attenzione alla conversazione, troppo preso dai propri pensieri.

Pareva che la fortuna avesse deciso di abbandonarlo definitivamente. Trovarsela davanti era stato già di per sé una spiacevole sorpresa, ma ascoltare il proprio amico lodarla e invitarla a sedersi vicino a loro si era rivelato un pugno dritto allo stomaco. Possibile che Taichi fosse tanto ingenuo da farsi abbindolare da quella ragazza? Beh, di sicuro non era l’unico, visto l’effetto che il suo arrivo aveva fatto sui compagni. Sora sembrava entusiasta di fare la sua conoscenza e i ragazzi non le staccavano gli occhi di dosso. E finché loro due avessero continuato a non andare d’accordo, sarebbe stata la benvista persino dal suo fan club di squilibrate.

-      Guardate, quella lì non è Kitamura? –

E in effetti era proprio lei, che passeggiava per i corridoi scherzando amabilmente con il prescelto del Coraggio.

-      Che fortuna che ha Taichi! Una bella ragazza mette finalmente piede nella nostra scuola e lui l’accalappia in due secondi… -

-      Già già! Ma ho sentito male o è una tua vicina, Yamato? –

-      Sì, purtroppo. –

-      Come “purtroppo”?! Ti rendi conto della fortuna sfacciata che hai?! –

“ Sembra proprio di no.”

-      Vorrei averla io una bellezza simile dall’altra parte del muro! –

-      La spieresti dal mattina alla sera, maniaco sessuale che non sei altro! –

Scoppiarono tutti a ridere.

-      Certo che sì! – rispose quello – Invece mi devo accontentare di una vecchia pazza con otto gatti! Tempi buio questi, amici miei, ve lo dico io! – inscenò in tono melodrammatico, seguito da un altro scoppio di risa.

-      Mah, a me non sembra tutta questa meraviglia… - disse il biondo, cercando di apparire convincente e, soprattutto, onesto.

-      Scherzi?! Scusa, ma l’hai vista?! –

“Certo che l’ho vista, solo che io la guardo con occhi differenti dai vostri!”
Tuttavia si voltò nella sua direzione indicata dal compagno di classe, incassando il colpo: non gli avevano creduto neppure per un istante. E come potevano, se davanti ai loro occhi c’era quella ragazza maledettamente…

“ Bella…”

Yamato ricordava ancora come il suo cuore avesse perso un battito nel posare lo sguardo su quella fotografia appesa nel salotto. Per un attimo non aveva percepito altro e i suoi occhi avevano percorso quel delicato profilo, delineando i contorni della bocca leggermente dischiusa come un fiore prezioso, scivolando sul collo bianco. Rapito, aveva desiderato poter accarezzare quei capelli dai mille riflessi nocciola e perdersi in quelle iridi viola. Sapeva che se non ci fosse stato quel vetro a separarli, l’avrebbe attirata a sé, per stringere quel corpo sottile contro il proprio. Ma si sarebbe accontentato di contemplarla, se non avesse notato quello sguardo: la scoperta l’aveva lasciato sgomento.

Quando poi se l’era trovata di fronte, il viso acceso dalla rabbia e quegli stessi occhi viola puntati nei suoi…

-      Diciamo che è carina. – riuscì a dire.

-      Carina?! Amico, quella lì è un gran pezzo di ragazza! E poi sembra abbia carattere, il che non guasta! –

-      Non sapete quel che dite. Quella lì se si scatena diventa una belva. –

-      Ah sì? Meglio ancora! – rise uno dei ragazzi.

-      Non la penseresti così se fossi stato tu ad essere aggredito. –

-      Perché, scusa? Non dire che l’hai già fatta arrabbiare! –

-      E invece sembra proprio di sì, ieri sera… –

-      Ciò significa che dobbiamo chiedere a Taichi di presentarcela, visto che tu ti sei già bruciato! –

-      Giusto! Allora ciao, ci vediamo dopo in classe, Yamato! – lo liquidarono per puntare a un soggetto più interessante - Ehi, Taichiiii! –

Il biondo sospirò: non sapevano l’errore che stavano commettendo. Possibile che lui fosse l’unico ad essersene accorto? Guardandosi attorno dovette darsi la risposta da solo: sì.
Quella ragazza sembrava in grado di stregare chiunque le stesse attorno.
Passando da fianco al gruppetto che l’aveva circondata, incrociò per un istante un paio di occhi viola, in cui il giovane intravide un moto di sarcasmo nei suoi confronti.
Se le cose stavano così, allora la guerra era da considerarsi aperta… e lui non le avrebbe mai e poi mai dato la soddisfazione di sconfiggerlo e umiliarlo.

Quando le lezioni finalmente terminarono, i ragazzi si salutarono e si avviarono verso casa.

Rumiko e Yamato si ritrovarono a percorre la strada insieme. Chiunque li avesse incontrati avrebbe giurato che non si conoscevano, dato che non si rivolgevano la parola e mantenevano una distanza di sicurezza: lei camminava avanti e lui un po’ più indietro.
Ad un tratto la ragazza si voltò a guardarlo, decidendo di interrompere quel silenzio.

-      Simpatici i tuoi amici. – commentò – Soprattutto Taichi, che è così divertente e simpatico. E Sora è proprio una ragazza d’oro… -

-      Tieniti lontana da loro. – le disse lui, freddo.

-      Hm, penso che sarà piuttosto difficile, visto che piaccio ad entrambi! –

-      Per l’ultima volta: non voglio che ti avvicini a loro. – si avvicinò, lo sguardo duro.

-      E perché scusa? Non mordo mica, sai? – sorrise – O hai forse paura di perderli?

-      Non dire scemenze! Tra noi c’è un legame fortissimo, non riuscirai a spezzarlo. –

-      Un legame, eh? - la sua espressione divenne indecifrabile – Ma quanto può esser resistente un legame? –

-      Il nostro si basa sulla completa fiducia nell’altro, oltre che sull’amicizia. Ci conosciamo da anni e ne abbiamo passate tante insieme, non puoi immaginare quante. Il nostro è un rapporto profondo e tu non riuscirai a rovinarlo! –

-      Nei sei davvero sicuro? – disse, seria – Io penso che non esistano legami indissolubili. –

Yamato si bloccò, vedendole quell’espressione sul volto. In quel momento, di fronte a quello sguardo penetrante, la sua sicurezza vacillò. Ma fu solo un istante e subito si riprese.

-      Sono sicuro che il nostro lo è. – disse semplicemente, certo della veracità delle sue parole.

Lei parve rifletterci su e, senza più dire nulla, si avviò. Il biondo la guardò avanzare lungo la sua strada, una figurina esile e al tempo stesso vibrante di energia. Un pensiero fugace gli attraversò la mente: era sola.

Sebbene le costasse molto ammetterlo, le parole del ragazzo l’avevano scossa. Le era sembrato così sicuro nell’affermare che il suo legame con Taichi e Sora era infrangibile, che lei non era riuscita a ribattere come avrebbe voluto. Invece era stata in silenzio per tutto il resto del tragitto, rimuginando sulla questione. Che avesse ragione lui?
No, non era possibile. Come gli aveva detto poco prima, non esistevano rapporti che non si potessero spezzare. Niente era eterno in quel mondo, neppure i sentimenti. E lei lo sapeva bene, lei che ora si trovava da sola in quella città sconosciuta.
“ No” si corresse subito “non sono sola: con me c’è papà e finché lui starà con me e mi vorrà bene io sarò felice. Perciò va bene così. Non ho bisogno di nessun’altro. Va bene così…”
Eppure, da quando si era sistemata in quell’appartamento, non ne era più tanto sicura.

Ormai l’autunno aveva infuocato il paesaggio: gli alberi avevano perso le chiome verdi per indossare vesti dalle calde sfumature. Un vento freddo spirava da nord, portando mattine grigie e giocando con le gonne delle divise invernali. Le giornate si erano accorciate e la scuola aveva ripreso il suo ritmo serrato.
Rumiko aveva fatto la conoscenza di tutto il gruppo e si era stupita di quanto fosse eterogeneo.

Il più anziano era Jiou Kido, che frequentava il primo anno di medicina: aveva occhi e capelli scuri e indossava un paio di occhiali che gli conferivano un’aria molto diligente e metodica. Era gentile e pacato e parlava generalmente poco, soppesando le parole.

Il più giovane, invece, si chiamava Iori Hida e aveva 13 anni. Non molto alto, capelli castani e grandi occhi verdi, sempre seri e attenti a studiare gli altri. Anche lui non parlava molto, ma quando esprimeva la sua opinione ponderava bene la risposta e la esponeva con tono fermo: alla fine il più maturo del gruppo sembrava lui e spesso riprendeva gli amici più grandi. In particolare un suo sempai, che frequentava l’ultimo anno delle scuole medie: Daisuke Motomiya, un vero pianta casini.

Aveva capelli e gli occhi color prugna, la pelle leggermente abbronzata e un talento naturale nel cacciarsi nei guai. Però era simpatico e divertente, il classico bravo ragazzo incompreso. Assomigliava incredibilmente a Taichi e come lui giocava a calcio come titolare, anche se non rivestiva il ruolo di capitano a causa del suo temperamento. Era evidente che ammirava molto il ragazzo più grande, che si rivelò pure essere il fratello maggiore della cotta di Daisuke.

Hikari era una ragazza carina e molto dolce, anche se un po’ ingenua, che come lui aveva 15 anni. Portava i capelli castano chiaro legati in due morbidi codini lunghi fino alla spalle e aveva gli stessi occhi del fratello, ma lo sguardo era mite e benevolo, anziché sprizzante energia. Il suo corpo era minuto e il viso dai tratti morbidi, sempre increspati da un lieve sorriso, che si allargava visibilmente ogni volta che incontrava lo sguardo del suo compagno Takeru Takashi.

Quest’ultimo era biondo e abbastanza alto da giocare nella squadra di basket della scuola, il fisico atletico e due occhi azzurri da far invidia a molte ragazze. Una persona serena e gentile, in particolare con la graziosa Hikari, a cui non risparmiava attenzioni amorevoli, accolte dal rossore imbarazzato di lei e quello furioso di Daisuke.

Infine una coppia davvero curiosa: Miyako Inoue e Ken Ichijoji. La prima era una vera e propria bomba a orologeria, dai capelli lilla e gli occhiali rotondi, che non perdeva mai occasione per litigare con Daisuke. Una ragazza impulsiva ed estroversa, che non si faceva mai problemi a dire le cose in faccia alla gente. Lui era esattamente l’opposto: studente modello, abile sia in campo sportivo sia scolastico, riscuoteva un certo successo fra le ragazze. Un giovane di bell’aspetto, con i capelli e gli occhi di un blu intenso e profondo, il viso dai tratti fini e il fisico snello. I suoi modi erano pacati ed il suo carattere molto timido e riservato. Sembrava non accettare il fatto di piacere tanto alle persone e questo lo rendeva molto modesto.
Avevano fatto alcune uscite tutti insieme e Rumiko si era divertita, riscuotendo un certo successo. Sembrava che stesse simpatica a tutti, a eccezione di Yamato.
Ormai tutta la scuola si era resa conto che fra quei due non correva buon sangue, sebbene nessuno sapesse darsene una ragione valida. Per lo più evitavano di rivolgersi la parola, non tornavano mai a casa insieme e, almeno in pubblico, usavano frasi distaccate e fredde oppure velatamente ironiche e pungenti. Sembrava una sorta di Guerra Fredda fra due super potenze e nessuno osava mettersi in mezzo.
La verità era che nessuno dei due riusciva a trovare una breccia nelle difese dell’altro per dare inizio uno scontro diretto. Per ora si limitavano a studiarsi e punzecchiarsi a vicenda, forse in attesa dell’occasione giusta per sferrare l’attacco.

Il campanello suonò e Yamato andò ad aprire la porta: davanti a lui c’era il signor Kitamura.

-      Buonasera, ragazzo! Disturbo? –

-      No, non si preoccupi. Si accomodi pure. – lo invitò ad entrare, pentendosene subito per via del disordine che regnava nella casa.

-      Veramente volevo invitarti a fare un salto da me. –

Il giovane corrugò la fronte, cercando di capire cosa avesse escogitato quella ragazza. L’uomo parve leggergli nella mente.

-      Rumiko non c’è, sta facendo delle commissioni. Volevo approfittarne per mostrarti una cosa. –

Alla fine la sua curiosità e la gentilezza del fotografo ebbero la meglio e il biondo si trovò a oltrepassare la soglia numero 17.
Appena fu dentro si guardò attorno: ora l’abitazione era stata sistemata a dovere e il risultato era molto elegante, seppur non eccentrico. Niente soprammobili ingombranti o colori sgargianti, ma un mobilio semplice e raffinato dalle tonalità armoniose.

-      Dimenticavo che tu non hai visto l’appartamento arredato come si deve. Mentre io cerco ciò che volevo mostrarti, tu fatti pure un giro! –

Ringraziandolo per la sua ospitalità, il ragazzo lasciò l’uomo a frugare nel suo studio adiacente al soggiorno. Fece il giro di tutte le stanze, fino a ritrovarsi in quella che doveva essere la camera da letto della figlia.
Fu con una certa amara soddisfazione che non vi trovò le pareti tappezzate di poster di attori e cantanti o una quantità sproporzionata di pupazzi e inutili bigiotterie. Anche qui il mobilio era semplice. Un armadio era stato appoggiato a una parete e aveva alcuni vestiti appesi ad un’anta aperta. Sulla scrivania ad angolo c’era un computer, alcuni quaderni, libri scolastici e penne sparse in giro. Gli scaffali erano occupati da libri, fumetti e molti cd. Si avvicinò e lesse i titoli su alcune custodie. C’era un po’ di tutto: pop, rock, punk, metal, blues, jazz e persino qualcosa di classica. Era evidente che avesse buon gusto in fatto di musica.
Poi il ragazzo portò la sua attenzione sul letto e non poté trattenere un sorriso. Si avvicinò e raccolse un cagnolino di peluche che era stato appoggiato sul cuscino: in fondo, nonostante si ostinasse a fare la dura, era pur sempre una ragazza! Posizionandolo di nuovo al suo posto si accorse che sul soffitto era stata appiccicata una fotografia che ritraeva un meraviglioso cielo stellato. Immaginò quanto dovesse essere piacevole coricarsi per volgere lo sguardo a quella volta incantevole, stringendo l’animale di pezza, e gli venne voglia di buttarsi nel letto.
Stava per lasciare la stanza, quando il suo sguardo venne attirato da un cassetto che non era stato chiuso del tutto. Come attirato da una forza magnetica, si ritrovò a tirare la maniglia in legno, conscio che ciò che stava facendo era sbagliato e che lui stesso si sarebbe infuriato se avesse beccato qualcuno a far la stessa cosa. Ma in fondo in guerra e in amore tutto è permesso, giusto?
Quando l’ebbe aperto vi guardò dentro e non vide nulla. Stava per richiuderlo, quando si accorse di un riflesso: una fotografia. La sollevò alla luce della lampada per vederla meglio: ritraeva una città notturna, in cui le luci delle strade e dei negozi giocavano a mescolarsi. Una maestosa luna piena rischiarava il cielo nero e a stagliarsi contro quella luna…
Sentì dei passi avvicinarsi e rimise l’immagine a posto, richiudendo il cassetto appena in tempo.

-      Ho trovato ciò che cercavo. Vieni, andiamo a sederci in salotto. –

Yamato lo seguì e si sedette sul divano, mentre l’altro prese posto di fronte a lui. Gli venne dato un book e il padrone di casa lo invitò ad aprirlo. Il ragazzo sgranò gli occhi per la sorpresa e sollevò lo sguardo interrogativo.

-      L’altra volta hai detto che i paesaggi possiedono una purezza e una sincerità che in lei non hai visto. – spiegò il signor Kitamura – Volevo farti vedere com’era qualche anno fa. –

Il cantante arrossì d’imbarazzo e riportò la sua attenzione su quelle pagine, il cui unico soggetto era Rumiko, probabilmente all’età di 16 anni. Aveva un’espressione quasi imbronciata, come se non amasse stare in posa. In alcune era quasi buffa, in altre sembrava in collera e in rare immagini sorrideva allegramente. Si trattava di gesti naturali e spensierati, che si estendevano anche ai meravigliosi occhi viola, facendogli battere il cuore.
Questa volta non fece commenti, andandosene dopo aver ringraziato il fotografo della sua cortesia.

Appena ebbe chiuso la porta, Hiroshi Kitamura sospirò, sperando che il suo tentativo fosse valso a qualcosa. Scambiando poche parole con il signor Ishida, infatti, aveva ottenuto conferma sui suoi sospetti: a quanto pareva i loro figli si erano dichiarati guerra. La cosa gli era dispiaciuta molto, visto che non poteva fare a meno di apprezzare quel ragazzo dallo sguardo profondo, l’animo tempestoso e sensibile.
Si dice che gli opposti si attraggono naturalemente, ma in quel caso Hiroshi era convinto della necessità di dare una mano a quei giovani così simili. Sperava con tutto il cuore che Yamato sarebbe riuscito a capire sua figlia, aiutandola a superare quei problemi che da sola non riusciva ad affrontare. E chissà, magari anche lei sarebbe riuscita ad aiutarlo.

Yamato si buttò sul letto, ripensando all’album che aveva sfogliato. Le intenzioni del suo vicino erano state piuttosto eloquenti: gli aveva voluto mostrare la vera Rumiko, cosicché lui potesse rivalutarla. Probabilmente sperava che tra i due nascesse un buon rapporto di amicizia e che lui l’aiutasse a tornare la ragazza di una volta. Beh, di sicuro l’aveva sorpreso non poco!
Però doveva ammettere che la tattica aveva avuto i suoi effetti: al solo ricordo di quel magnifico sorriso, il cuore ricominciava a battergli all’impazzata nel petto. Possibile che la diciottenne che aveva conosciuto fosse la stessa persona ritratta in quelle foto? E, soprattutto, ora come si sarebbe dovuto comportare?
Ancora incerto sul da farsi, si addormentò profondamente. Quella notte sognò di ammirare il cielo notturno. Una grande luna piena sovrastava la città e sulla cima del palazzo più alto c’era una figura snella, che si stagliava scura contro la sfera luminosa, i lunghi capelli mossi dal vento.

 


Continua…

 

 

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Capitolo 4
*** - ***


Capitolo 4

 

Il mattino dopo, uscendo di casa, Rumiko trovò una sorpresa ad attenderla: Yamato appoggiato al man corrente.

-      Che fai qua? Aspetti qualcuno? –

-      Sì, te. – rispose lui, voltandosi dall’altro lato e cominciando a scendere le scale.

Tanto fu lo stupore della ragazza nel sentirsi rivolgere quelle parole, che rischiò di inciampare e finire a gambe all’aria.

-      Cos’è, una nuova tattica? – lo tallonò lei.

-      No. –

-      E allora si può sapere perché mi hai aspettata? –

Lui non rispose e la ragazza sbirciò la sua espressione. Possibile che ciò che vedeva sulle sue guance fosse un leggero rossore? Ma non disse nulla e continuarono a camminare lungo il viale. Di tanto in tanto lui le lanciava delle occhiate, affrettandosi poi a distogliere lo sguardo per non farsi scoprire. Ovviamente non ci riuscì e Rumiko cominciò ad irritarsi: che gli prendeva tutto d’un tratto? Sembrava che scrutasse il suo volto alla ricerca di non si sapeva cosa e lei cominciava a sentirsi come un pezzo d’esposizione.

-      Ehi, Ishida, ti sei forse innamorato di me? – sbottò poi.

Di nuovo lui non rispose. Lei sollevò le spalle, sbuffando leggermente.

-      Non lo credevo possibile, ma congratulazioni, riesci ancora a stupirmi: oggi sei più strano del solito! –

-      Perché, di solito sono strano? –

-      Da quando ti interessa la mia opinione? –

Per l’ennesima volta lui non trovò nulla di pungente con cui risponderle. Lei aggrottò la fronte.

-      Ti senti male, per caso? – chiese, avvicinando una manina al suo capo, ma lui scartò, evitando il suo tocco – Non sono mica un’appestata, sai? Ah, che ragazzo contorto! – e procedette.

Yamato attese un secondo e poi la seguì, il cuore in subbuglio e la mente confusa.

Quella scena si ripeté per un’intera settimana. Tutti i giorni lui l’aspettava davanti a casa, durante le lezioni di tanto in tanto lo beccava a fissarla e per i corridoi le faceva un cenno del capo quando la incontrava. Niente più frecciatine, sorrisi ironici, toni freddi e distaccati, sguardi che la superavano come se fosse fatta d’aria o la fulminavano. Se a molti altri la cosa avrebbe fatto piacere, lei cominciava ad infastidirsi: che si era messo in testa?
“ Giuro che non ci capisco più nulla! Ma cosa avrò di tanto interessante sulla faccia?! Anzi, dentro, visto che sembra farmi la radiografia!”
Incapace di darsi delle risposte, decise di rivolgersi all’unica persona che avrebbe potuto aiutarla.

-      Ciao Taichi, potrei parlarti un secondo? –

-      Dimmi pure! – fece lui, una volta entrati in un’aula deserta, lontani da sguardi indiscreti.

-      Si tratta di Ishida, cioè… Yamato. Ecco… mi sembra strano ultimamente. –

-      Strano in che senso? Io non ho notato nulla! –

-      Beh, noi non siamo mai andati molto d’accordo, eppure ora è come se il suo atteggiamento fosse cambiato improvvisamente… –

-      Mah, Yamato non è tipo da cambiare idea tanto facilmente. Perciò se si comporta in un certo modo avrà di sicuro le sue ragioni. –

-      Capisco… -

In realtà non le era stato di nessun aiuto, dato che ancora non capiva cosa passasse per la mente del biondo. Stava per tornare in classe, quando Taichi la fermò.

-      Ascolta, so che non ha un buon carattere, ma ti è assicuro che è un bravo ragazzo. – si sedette – Vedi, fin da piccolo è stato molto chiuso, anche a causa della separazione dei suoi e la lontananza dal fratellino. –

-      Non ne sapevo nulla. –

-      I genitori hanno divorziato quando lui era piccolo: Yamato è andato a vivere con il padre e Takeru con la madre. –

-      Takeru è… - ma non proseguì la frase.

“ Ma certo, in fondo si assomigliano e il modo in cui parlano tra di loro…” pensò, indispettita con se stessa per essersi lasciata sfuggire quelle nozioni fondamentali sul suo acerrimo nemico.
Taichi si limitò ad annuire.

-      È cresciuto senza il calore della madre e il padre era sempre impegnato, perciò Yamato badava anche alla casa. A 11 anni sapeva già badare a se stesso perfettamente, come un adulto. –

Lei non disse nulla.

-      So che è pieno di difetti, anch’io ci litigavo sempre! È testardo, arrogante, lancia frecciatine e tratta la gente con sufficienza, perché gli basta un’occhiata per farsi un’idea degli altri. Poi però ho scoperto che è solo apparenza: ho cominciato a conoscerlo, capirlo e quindi ad apprezzarlo. Quelle che tu vedi come mancanze ora io li considero dei pregi. So che non è facile, ma bisogna riuscire a comprenderlo e a vedere al di là del suo guscio. Lui ce la mette tutta per migliorarsi, ma non è certo una cosa da poco! Ha vissuto la sua infanzia in solitudine, coperto di responsabilità che un bambino non dovrebbe avere e riuscendo a svolgere tutto nel migliore dei modi. Quando il padre tornava a casa la sera, trovava sempre la cena pronta e le lenzuola pulite. –

Sollevò lo sguardo e la guardò.

-      Non so perché… ma vedo in voi una certa somiglianza. –

Lei lo fissò stupita e incerta.

-      Io penso – continuò sorridendo – che tu possa aiutarlo, proprio perché forse puoi capirlo meglio di me o chiunque altro. –

Fece per andarsene, ma poi parve ripensarci.

-      E penso che anche lui possa aiutare te. – aggiunse, per poi uscire dall’aula.

Rumiko si sedette su un banco, scossa. Che diavolo stava succedendo a tutti? E perché si sentiva tremare?
Udì la campanella decretare la fine dell’intervallo e decise di tornare in classe, dove avrebbe potuto riordinare con più calma le idee.
Una figura nell’ombra attese qualche secondo, per poi seguirla: aveva assistito alla conversazione. Con sorpresa aveva ascoltato le parole di Rumiko e con ancor maggior stupore quelle di Taichi. Cosa aveva voluto dire il ragazzo?
“ Che intenzioni hai, Tai? “
Entrando in classe, Sora richiuse la porta alle sue spalle.

Rumiko e Yamato stavano tornando a casa fianco a fianco ma, come ormai di consueto, senza rivolgersi la parola. Poi quel silenzio venne infranto.

-      Devo andare alle prove questa sera. – esordì il ragazzo, ma poi non parve trovare le parole per continuare.

-      Già, con il tuo gruppo. – commentò lei, dandosi mentalmente della scema per quella frase banale.

Cadde un imbarazzante silenzio e Yamato cominciò a perdere la pazienza: perché non riusciva a chiederglielo? Non era difficile, bastava assemblare poche parole e sputarle fuori! Eppure sembrava che le sue labbra fossero sigillate, il che era decisamente assurdo. Di solito capitava alle persone impacciate che non riuscivano a esprimere i propri sentimenti, invece lui aveva sempre parlato tranquillamente con Sora. Ma allora cosa gli stava accadendo?
“ Forza Yamato, sono due parole in croce! Non è da te titubare in questo modo!” si rimproverò “ E se lei si accorgesse della tua indecisione ne approfitterebbe senza esitare e allora chi la placherebbe più?”

-      Ti va di venire? – riuscì infine a sbiascicare e gli parve di essersi tolto un peso dallo stomaco.

-      Come scusa? –

“ Ma perché? “ pensò sconsolato.

-      Le prove – ripeté – ti va di venire a vederle? –

-      E perché dovrei? Non dirmi che ti interessa la mia opinione! – sorrise lei, sarcastica.

-      Beh, visto che critichi tanto la mia musica, il minimo che tu possa fare è venire ad ascoltarci! –

-      Non saprei… di sera è pericoloso… ci sono tanti maniaci in giro, dicono… - rifletté lei, seriamente preoccupata – potresti approfittare di me! –

-      Non ti preoccupare, ho gusti decisamente più raffinati. – rispose maligno, in cuor suo sollevato che la ragazza avesse alleggerito l’atmosfera: meglio i battibecchi di quel silenzio opprimente.

-      Come ti permetti, razza di cafone? – s’inviperì infatti lei.

-      Allora, vieni o no? – fece lui, ignorando volutamente le sue provocazioni e per questo facendola alterare ancor di più.

-      D’accordo, ci sarò. –

-      Bene, allora ti passo a prendere alle sette. –

Stava per entrare nel suo appartamento, ma si voltò.

-      Ah, un’ultima cosa, Kitamura. –

-      Magaaari fosse l’ultima. –

-      Non farmi fare brutta figura. – e si richiuse la porta alle spalle giusto in tempo per sentire un tonfo sonoro.

Accostò l’orecchio alla porta e poté sentire distintamente i borbottii della ragazza. Yamato sorrise: di sicuro si sarebbe rivelata una serata interessante.

Alle sette in punto si presentò davanti alla porta numero 17 e suonò il campanello. Lei venne ad aprirgli la porta. Indossava un paio di jeans attillati e degli anfibi. Sotto un giubbotto in pelle nera aveva una felpa con la cerniera aperta fino allo stomaco, che mostrava la maglietta rossa con la scritta “sound” sul petto. Non si era truccata, giusto un po’ di mascara e un velo di lucidalabbra. I capelli erano raccolti in una coda appoggiata ad una spalla.
Nel vedere il ragazzo guardarla con, secondo la sua opinione, più attenzione del dovuto, affondò le mani nelle tasche del giubbotto.

-      Andiamo sì o no? – borbottò.

Si avviarono, lui con la chitarra su una spalla, lei con il volto imbronciato e il cappuccio tirato sul capo. Yamato ridacchiò: in quel momento sembrava proprio una bambina scontrosa che fa i capricci.

-      E ora che hai da ridere? –

-      Niente, pensavo… - rispose lui, prevedendo la mossa successiva della compagna.

-      Continui a sorprendermi, Ishida. E cosa pensavi, di grazia? – lo punzecchiò.

-      Che sei carina quando metti il broncio. – disse lui con semplicità.

Rumiko avvampò, finendo di nuovo per mettere il muso tentando di nascondere il suo imbarazzo. Ovviamente il ragazzo aveva previsto anche questo e scoppiò a ridere della sua ingenuità. Lei rimase un attimo spiazzata, di fronte a una simile manifestazione: non aveva mai riso in quel modo così… spontaneo. O almeno non davanti a lei.
Poi la diciottenne parve riacquistare il controllo, perché cominciò a protestare, visibilmente stizzita.

Camminavano lungo il viale alberato, lo stesso che percorrevano per andare a scuola. Però ora appariva diverso, con quel silenzio quasi surreale, le fronde scure degli alberi che incombevano su di loro, le luci dei lampioni che spandevano pozze gialle sull’asfalto. Di tanto in tanto una macchina passava, illuminandoli per un attimo per poi sfrecciare via veloce. Ma non era solo il paesaggio a sembrarle diverso: anche il suo compagno.
Era come vederlo per la prima volta, così calmo e tranquillo, il passo cadenzato, il viso disteso. Indossava abiti semplici: una paio di jeans scuri, un giubbotto e sotto una camicia bianca. La chitarra ondeggiava leggermente, secondo il ritmo del suo incedere, come se fosse un’estensione del suo corpo.
Si arrischiò a scrutarne il volto con più attenzione e il suo cuore perse un battito: un sorriso sereno e una sguardo limpido rischiaravano i suoi lineamenti, facendoli apparire… belli.

Arrivarono a destinazione ed entrarono in quello che una volta doveva esser stato un magazzino. L’interno era stato ristrutturato e ora doveva essere una sorta di locale notturno. Una decina di tavolini e molte sedie erano accatastati lungo una parete e un bancone dall’aspetto rustico si ergeva dall’altro lato. Di fronte a questo erano stati posizionati gli immancabili sgabelli alti e una collezione di bottiglie di ogni forma e colore faceva la sua bella mostra alle spalle del barista. Infine, al fondo dell’edificio, c’era un piccolo palco rialzato riservato al gruppo.
Rumiko dedusse che era lì che si sarebbero svolte le prove per via degli strumenti, le apparecchiature, i microfoni, gli spartiti sparsi sul pavimento e un gruppo di ragazzi che faceva loro cenno di avvicinarsi. Ma appena si accorsero della ragazza cominciarono a sghignazzare.

-      Ma Yamato caro… non ci avevi detto che volevi portare la tua fidanzatina! – cinguettò uno di loro – A saperlo ci saremmo messi in tiro, vero ragazzi? –

Sghignazzarono.

-      Se mai un giorno volessi essere lasciato su due piedi ti presenterò la mia ragazza. – gli rispose a tono Yamato con un ghigno sul bel volto – Lei invece si chiama Rumiko Kitamura ed è la mia nuova vicina di casa. –

-      Comunque resta il fatto che è una donna e tu stesso hai detto di non volerle tra i piedi! – disse un altro.

-      Non è una donna, ma solo… -

-      Prova a dire qualcosa di anche vagamente offensivo – sibilò lei con un grosso sorriso stampato in faccia – e farò in modo che la tua voce raggiunga degli acuti da fare invidia a Whitney Houston… – sibilò lei.

Subito scese il silenzio e tutti la fissarono attoniti. La ragazza contrasse la mascella, per nascondere l’imbarazzo crescente. Poi il silenzio si infranse in una risata generale.

Lanciò un’occhiata d’ammonimento al cantante e subito questo smise di ridere: ormai aveva capito quando stava per passare il limite.

-      Sei proprio forte! Altro che ragazza, sei una bomba a orologeria! – commentò uno tra le lacrime.

-      Già, non avevo mai sentito il gentil sesso minacciare Yamato. –

-      Povero il nostro idolo, ti sei trovato finalmente una ragazza che ti da del filo da torcere! – lo canzonò uno, dandogli delle pacche energiche sulla schiena.

Rumiko decise che era il momento di lasciare il campo.

-      Datti da fare, ok? Non voglio rovinarmi la serata per colpa tua. –

-      Come sarebbe a dire? Guarda che se non ti andava potevi non venire. –

L’altra non gli rispose neanche, liquidandolo con un gesto annoiato della mano. Scese dal palco per andare a sedersi al bancone, dove incrociò le braccia a intendere che dovevano darsi una mossa a cominciare.
I ragazzi si prepararono sghignazzando.

-      Non è solo un peperino, è pure mooolto carina. – commentò il batterista.

-      Già, bella e di carattere! Ma dove le trovi? –

-      Vi prego, evitate: è una musica che già sento tutti i giorni a scuola. –

-      Ce l’hai pure in classe! Ah, beata giovinezza… – disse un altro inforcando il basso.

-      Piantala di fare il matusa, che hai solo due anni più di me! –

-      D’accordo, continuerete dopo! Sta sera abbiamo un ospite pericoloso, perciò impegniamoci, ok? –

E diedero inizio alle prove.

Dopo un oretta decisero di fare una pausa e Yamato raggiunse la ragazza, sedendosi su uno sgabello.

-      Allora, che te ne pare? – chiese.

In realtà avrebbe saputo rispondersi anche da solo: quella sera aveva dato il meglio di sé.

-      Potresti essere bravo. – si limitò a commentare lei, sorseggiando il drink che le era stato offerto dal barista.

-      Come scusa? – fece l’altro, per un momento spiazzato.

Senza alzare lo sguardo dal bicchiere, Rumiko continuò.

-      Hai una bella voce, bassa e leggermente roca… Non esattamente Johnny Cash, ma ha un timbro interessante. Insomma, la tecnica è buona e il ritmo c’è, ma è come se ti mancasse qualcosa… –

-      E cosa sarebbe? – chiese, un po’ stizzito.

-      La passione. – rispose lei, guardandolo finalmente negli occhi.

Di nuovo lui non seppe cosa dire.

-      La…passione? – riuscì solo a sbiascicare.

-      Sì. –

Scese un silenzio imbarazzante e il ragazzo fece un cenno al barista perché gli portasse qualcosa da bere. La ragazza aspettò che mandasse giù un bel sorso, poi proseguì, volgendosi però a guardare il palco dove i musicisti conversavano animatamente.

-      Te l’ho detto anche la prima volta che ci siamo incontrati, no? – continuò, pacata – La tua musica è piacevole, ma le manca trasporto. Ascoltandoti, io posso ammirare le note e la tua intonazione, ma… non posso ammirare te. –

Fece una pausa, constatando che lo sguardo del biondo era puntato su di lei.

-      Le tue canzoni sono del tutto impersonali. Parlano di amicizie, di amori, di nobili sentimenti – un sorriso appena accennato – e sono certa di sapere chi sono le tue fonti d’ispirazione. Sono tutte persone bellissime, ma non sono te. Tu non vuoi cantare di te. –

Lui non rispose, continuando a scrutare il liquido nel bicchiere. Avrebbe voluto ribattere, farla tacere, ma improvvisamente si sentiva la gola secca e la mente svuotata. Si sentiva sotto processo: qualsiasi cosa avesse detto, temeva sarebbe stata usata contro di lui. Eppure lei taceva, in attesa.

-      Non c’è niente di interessante da sapere di me. – riuscì a dire, quasi in un soffio.

-      Mio padre non la pensa così. – commentò lei, in tono fermo – E nemmeno io, Yamato. –

L’altro sollevò lo sguardo, colpito più dal fatto che l’avesse chiamato per nome che dal contenuto delle sue parole.

-      Le persone vanno ai tuoi concerti e acquistano i tuoi album perché vogliono sentirti. – proseguì lei, misurando le parole – Vogliono sentire te, non solo la tua voce. –

-      Le persone vogliono sentire qualcosa di divertente, di triste o commovente. Ma io non sono così. – abbassò il tono di voce – Tai lo è. Anche Sora lo è. Persino Koushiro. Tutti loro traboccano di simili… emozioni. È questo che li rende ciò che sono. È per questo che canto di loro. –

-      Pensi di essere povero di emozioni? –

-      Forse. O forse è come dici tu – sorrise amaramente – Mi manca il trasporto, non sono uno che si lascia andare. – si scompigliò nervosamente i capelli. – Magari sono solo strano, come spesso mi ripeti. –

-      Allora canta di questo. –

-      Questo cosa? –

-      Del fatto che non sai che ti manca, che non riesci a lasciarti trasportare dalle emozioni. Se non altro sarebbe qualcosa di diverso dal solito! –

-      La gente non capirebbe. –

-      Non credere di essere l’unico ad avere simili dubbi, faticare nel conoscere se stessi è un problema che molti affrontano tutti i giorni. Molti capiranno quello stai loro dicendo, altri invece no. Ma infondo che importa? L’importante è che tu riesca a tradurre i tuoi pensieri e le tue emozioni in parole. – gli sorrise – E qualsiasi termini tu scelga per esprimerti, sarà qualcosa di intimo, di te. –

Yamato piegò la bocca in una smorfia.

-      Cosa ti fa pensare che io muoia dalla voglia di rivelare i miei pensieri più intimi a centinaia di persone? –

-      Il fatto che siamo qui stasera. Che hai scelto di cantare. – rispose lei, sicura.

-      Non essere ingenua – le disse in tono più velenoso di quanto avesse voluto – Far parte di una band non ha nulla a che fare col parlare di se stessi. -

-      E allora perché hai deciso di fare musica? –

-      Per lo stesso motivo di molte altre persone, no? – sbottò lui, tagliente, di nuovo con modi molto più rudi di quelli che avrebbe voluto, incapace di controllarsi.

-      E quali sarebbero questi motivi? – fece lei, cominciando a perdere la pazienza – I soldi, la fama, le ragazze? Tu non hai bisogno di queste cose e lo sappiamo tutti e due. –

-      Mettiti in testa una cosa: TU NON SAI NULLA DI ME! – soffiò lui torvo, per poi abbassare lo sguardo e stringere i pugni.

Questa volta il silenzio calò sull’intero locale: tutti i presenti avevano udito la discussione.

“ Non volevo dirlo, non avrei dovuto… ma tu mi fondi il cervello e io perdo il controllo.
Maledizione… non guardarmi! Non fissarmi con quello sguardo così simile al mio. Se ti guardo mi vedo allo specchio, mi vedo riflesso nei tuoi dannatamente belli occhi viola e questo mi fa male. Ti prego, perciò, non guardarmi così… Delusa…
No, non dire nulla, ti prego! Non aprire quella bocca implacabile, che mi costringe a ribattere con parole ancor più orrende. Non voglio ferirti, non voglio deluderti ancora… Fa male da morire… Ti prego, perciò, non parlare!
Odiami, se vuoi, scappa! Scapperei da me stesso se solo potessi… Non sono la persona giusta per te. Non posso aiutarti come vorrebbe tuo padre, come io stesso vorrei. Perciò fuggi, allontanati, tu che puoi… perché io non posso lasciare questo sgabello che mi tiene inchiodato accanto a te…”

-      È vero, io non so nulla di te, perché non ti conosco. Ma una cosa la so per certo: stai sprecando il tuo talento a causa del tuo stupido orgoglio. O forse per timore che la gente veda chi sei veramente, che ti giudichi. Mette paura essere il giudicato anziché il giudice, vero? – gli rivolse un ghigno sarcastico – Non è piacevole scoprire di essere meno straordinari di quanto si pensava di essere, trovandosi faccia a faccia coi propri difetti. Fortuna – proseguì – che non bisogna essere persone meravigliosamente perfette per comporre e cantare, basta essere schietti. Con se stessi e quindi con gli altri. La musica, quella vera, non è fatta per illudere, ma per parlare ai cuori di chi ti ascolta. –

Lui la guardò, indecifrabile.

-      Mio padre ti direbbe la stessa cosa. In fondo la fotografia e la musica si somigliano. Con le sue opere, mio padre comunica le sue emozioni e suoi pensieri alla gente. Le sue foto sono così belle perché in grado di trasmettere il suo punto di vista, mostra ai cuori delle persone il mondo come lo percepisce lui. Io, quando le guardo, mi sento bene. –

Lui non le staccò gli occhi dosso, nemmeno per un istante.

-      Dovresti fare come lui. –

-      Non è così facile. –

-      Lo so. – ribatté lei fermamente. – Ma cerca di prender spunto da chi ci è riuscito. –

-      Vuoi dire da tuo padre? –

Lei annuì.

-      Lui mi ha detto che hai un tipo davvero… attento, che sa osservare. – continuò lei, distogliendo lo sguardo – Se è così… troverai di sicuro un modo. –

-      E come? –

-      Innanzitutto finendola con queste domande e prendendo quella stupida chitarra! – sbottò lei – Non vorrai far fare tutto a me, no? – gli strizzò un occhio.

Yamato tornò sul palco e si posizionò davanti al microfono. Gli altri componenti lo guardarono, un po’ incerti. Lui fece un semplice accordo, lo strumento vibrò e il suono parve espandersi al suo stesso corpo.
Provò alcuni versi di una canzone, la prima che gli venne in mente. Sentiva lo sguardo di due occhi viola su di sé e il cuore battergli forte nel petto. Ricordò le parole di lei e gli tornarono in mente le fotografie. Rivide quei paesaggi, quei mari, quei cieli, quelle città… e quel viso, quel collo, quelle labbra, quegli occhi… e tutto gli parve così vero e prezioso e delicato, come vibrante di luce, come se il flash ne avesse carpito l’essenza per trasportarla sulla pellicola, come un soffio di vento. Poi quelle immagini si dissolsero e la sua mente si svuotò: forse aveva capito.
Ispirò profondamente, impugnò la chitarra e cantò. Per la prima volta in vita sua ebbe la sensazione di cantare con tutto se stesso, facendo sgorgare l’anima insieme alle parole. Per la prima volta in vita sua si sentì in pace col mondo, quel mondo che l’aveva talvolta respinto ma poi avvolto nel suo abbraccio, sussurrandogli che lui stesso ne era il cuore pulsante.

Gli altri componenti del gruppo si erano uniti al cantante e pareva fossero stati influenzati dalla sua energia.
Rumiko non riusciva a distogliere lo sguardo, ipnotizzata da quella voce. No, si corresse, era ipnotizzata dal suo sorriso, dai suoi gesti. Non riusciva a staccare gli occhi da lui. Un lieve rossore si dipinse sul su volto: in quel momento, le parve bello.

 


Continua…

 

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Capitolo 5
*** - ***


Capitolo 5

 

Era una bella domenica mattina, probabilmente l’ultima di quella stagione. Il sole splendeva nel cielo azzurro solcato da maestose nuvole bianche, rischiarando il paesaggio cittadino. Ormai l’inverno era alle porte e il freddo intenso delle notti e il vento impetuoso avevano spogliato gli alberi delle loro chiome, che ora giacevano alle loro radici, ricordo della passata estate e speranza per la futura primavera.
Rumiko si stiracchiò, bevendo la sua tazza di caffè forte, ancora leggermente intorpidita dal sonno. Di solito non aveva l’abitudine di svegliarsi presto la domenica, anzi, faceva di tutto per dormire fino a mezzogiorno. Ma Daisuke aveva insistito tanto perché lei assistesse alla sua partita…
“ Accidenti a quel ragazzo! Sto diventando troppo buona. Possibile che riesca a farmi sempre convincere?! “
La verità era che quel giovane così esuberante le stava simpatico, con quei suoi modi di fare semplici e diretti. Tutto il contrario di…
“ Basta, possibile che non riesca a pensare ad altro?! “ si rimproverò, scrollando il capo con decisione.
Posò la tazza nel lavello e si diresse in camera, dove scelse gli abiti secondo lei più adatti all’occasione e, soprattutto, a quel tempo.
Alla fine optò per un paio di jeans scuri e attillati, infilati in un paio di stivali in pelle. Scelse una maglietta e una felpa con cerniera e cappuccio. Si truccò poco, indossò il giubbotto in pelle, afferrò la borsa, una tracolla di pelle, le chiavi di casa, della macchina di suo padre e aprì la porta pronta a fiondarsi all’esterno. Poi si bloccò, come raggiunta da un’idea. Tornò sui suoi passi e afferrò un cappellino con visiera, si sciolse i lunghi capelli e se lo calò sul capo.
Soddisfatta, scese in garage e azionò l’Alfa Romeo del padre.

-      Accidenti, ma perché non mi sono svegliato?! Anzi, perché mi SONO svegliato! Stupida sveglia rovina sogni, stupido letto troppo comodo e soprattutto…STUPIDO DAISUKE CHE NON POTEVA GIOCARE NEL POMERIGGIO! –

Taichi ebbe appena il tempo di terminare le sue lamentele, che venne raggiunto da una risatina. Si voltò e vide Rumiko appoggiata alla portiera di un’auto sportiva, accostata al marciapiede.

-      A quanto pare il nostro caro Daisuke ha incastrato anche te. –

-      Già e sono in ritardo, perciò se arrivo a partita iniziata mi farà pure la ramanzina! –

-      Non che i tuoi ritardi siano una novità… -

-      Tu scherzi, ma svegliarsi presto di domenica è davvero una tragedia per uno come me. – protestò.

-      Ti capisco, anch’io ne avrei fatto volentieri a meno! Ma sai com’è Daisuke, così… -

-      Persuasivo. –

Sospirarono entrambi.

-      Dai salta su, ti do uno strappo! – fece lei, invitandolo con un cenno della mano.

-      Non sapevo che avessi un simile gioiellino per macchina! – commentò il ragazzo, una volta preso posto da fianco a lei.

-      Infatti non è mia, ma di mio padre. Lui ora è nel mondo dei sogni, perciò non ne ha bisogno. – spiegò, girando la chiave e spingendo sull’acceleratore.

Taichi si allacciò la cintura, in tutta fretta.

-      Beh, cos’è tutta questa agitazione? –

-      Sai come si dice: donna al volante, pericolo costante! –

Ma appena terminò la frase se ne pentì: sul volto della ragazza s’era dipinto un sorriso maligno.

-      No. No, no, nooo! Guarda che io scherz…! –

Troppo tardi. Rumiko aveva già spinto sull’acceleratore e ora conduceva con mano sicura l’Alfa Romeo, che volava veloce sull’asfalto.

Quando arrivarono al campetto, Taichi saltò subito giù dall’auto.

-      Sono vivo. Santo cielo, sono ancora vivo! Credevo di morire… – disse, portandosi una mano al petto.

-      Quante storie… Non guido mica male. –

-      Mai sentito parlare di limiti di velocità?! –

-      Sì. –

-      E sai per cosa sono stati inventati?! –

-      Per essere infranti? – chiese lei, con innocenza.

-      No, razza di maniaca della velocità! Servono a salvare la vita a noi poveri disgraziati che abbiamo la sfortuna di ritrovarci in macchina con gente come te! – protestò lui, senza però reprimere un risolino.

-      D’accordo papino! Ma ammettilo… – ghignò – che in fondo ti sei divertito. –

Lui la guardò stranito e scoppiò a ridere.

-      Ah, sei proprio matta, Rumiko! Ma chi ti ha insegnato a guidare? –

-      Ho praticamente imparato da sola. – fece lei, orgogliosa.

-      Non l’avrei mai detto… – rispose lui con ironia.

-      E con questo che vorresti dire? – lo guardò minacciosa.

-      Nulla, nulla! –

L’altra si voltò, avviandosi imbronciata.

-      Non ti sarai offesa – le si affiancò – Lo sai che stavo scherzando! –

-      Lo so. – gli sorrise, prendendolo a braccetto.

Taichi rise e insieme si avvicinarono al campetto. Subito si sentirono chiamare da una delle panchine e videro un ragazzo dai capelli prugna che sventolava la mano nella loro direzione.
I due sospirarono e lo raggiunsero.
Daisuke indossava già la divisa rossa della squadra e si stava riscaldando insieme ai compagni.

-      Tai-kun! Rumi-chan! Siete venuti a fare il tifo per me? – li salutò felice e sprizzando energia da tutti i pori.

“ Da quando sono diventata Rumi-chan?! “ pensò sconsolata la ragazza.

-      No, siamo qui per sostenere l’altra squadra. – alzò gli occhi al cielo Taichi – Ma certo che siamo qui per te! –

-      Sbaglio o siete venuti in macchina? –

-      Ho preso in prestito l’Alfa Romeo di mio padre. – spiegò lei, stringendosi nelle spalle come a non voler dar peso alla cosa.

-      Uao! Non sapevo che avessi a disposizione una macchina come quella. Poi mi ci porterai a fare un giro? – chiese subito, emozionato.

-      Non ti conviene: guida come una pazza! –

-      Ma quale pazza? Dì pure che potrei spacciarmi per professionista. – protestò lei.

-      Calma, Schumacher-chan, qui non sei su una pista. –

-      La prossima volta vieni a piedi, ok? –

-      Ehi, Daisuke, chi sono i tuoi amici? Puoi presentarceli? – si avvicinò un compagno di squadra, seguito a ruota dagli altri.

-      Ma certo! – esclamò il moro, gonfiando il petto, compiaciuto – Lui è Taichi Kamiya, un mio grande e intimo amico. –

Rumiko ridacchiò sotto i baffi, di fronte all’espressione del diciottenne, che non sembrava troppo entusiasta a sentirsi definire suo “grande e intimo amico”.

-      Kamiya? Non sarà quel Kamiya, vero?! –

-      E invece sì, è proprio lui! – rispose l’altro, fiero.

-      Uao, io sono un tuo grande ammiratore, sai? – disse uno.

-      Io ho seguito tutte le tue partite! –

-      L’anno prossimo verrò nella tua scuola! –

-      Anch’io! Peccato che non potremo giocare insieme. –

-      Ehm, mi fa piacere, ragazzi… – fece un passo indietro, alzando le mani per proteggersi dai giovani ammiratori.

-      E lei… chi è? –

Tutti si voltarono verso la giovane.

-      Si chiama Rumiko Kitamura ed è nella stessa classe di Taichi. Ovviamente anche lei è… - ma non lo lasciarono terminare.

-      Scommetto che state insieme, vero? –

-      Come? No, vi sbagliate! Certo è una bella ragazza, ma sapete che a me piace già la mia Hikari! – si giustificò Daisuke.

-      Ma che hai capito? Io mi riferivo a Kamiya! –

-      Già, l’ho pensato anch’io. Siete una coppia perfetta! –

-      E poi siete anche venuti in macchina insieme… –

-      Un campione e una bella ragazza… Ah, che invidia! –

-      Hai ragione, sembra una di quelle coppie di vip che si vedono in TV! –

-      E scommetto che voi ne vedete proprio tanta di televisione, per avere il cervello farcito di simili sciocchezze! – esclamò lei, non riuscendo più a trattenersi.

-      Dai, Rumiko… - Taichi tentò di calmarla, tentando di frenare innanzitutto le proprie risate.

-      Questi più che giocatori di calcio – fece una smorfia – sembrano delle portinaie pettegole. –

-      Ah, bellissima e agguerrita! Sono proprio perfetti! – commentò uno, ricevendo in cambio un’occhiata in tralice.

Poi, mettendo il consueto broncio, voltò il capo.

-      Ehm, ragazzi, non la provocate o tocca a me cercare di calmarla. Sapete com’è, ha un caratterino… - sussurrò loro Taichi.

-      Ti ho sentito, sai?! –

-      Come non detto! – disse il ragazzo, sconsolato.

La squadra al completo scoppiò a ridere.

Yamato era seduto sulle scalinate riservate agli spettatori. Alla sua destra c’era Sora e poco più in là avevano preso posto Takeru e Hikari. Inutile dire, però, che da quando un’Alfa Romeo aveva fatto il suo ingresso nel parcheggio, il ragazzo non aveva staccato gli occhi dalla figura che ne era uscita.
Non avevano avuto occasione di parlarsi dalla sera delle prove. Quella volta erano tornati a casa senza fiatare e il giorno dopo erano stati troppo impegnati a causa di un compito in classe.
Ma quella domenica mattina Rumiko gli era parsa più carina del solito ed era con una fitta dolorosa che aveva constatato che era venuta accompagnata. Lo sconcerto non aveva potuto far altro che accrescersi, quando aveva visto il suo migliore amico a braccetto con la ragazza. Poi avevano raggiunto la panchina della squadra di Daisuke e lì erano stati travolti da una raffica di domande da parte dei giocatori.
Yamato si era avvicinato un poco e aveva teso le orecchie. A quanto pareva li avevano scambiati per una coppia di fidanzati. Il biondo era rimasto pietrificato al suo posto, dato che nessuno dei due stava smentendo le insinuazioni dei calciatori. Poi aveva sorriso leggermente, nel riconoscere la voce della ragazza alzarsi sopra le altre per metterle a tacere.
Ma il suo sorriso si era presto dissolto: in fondo li aveva solamente zittiti, senza negare le loro affermazioni.
Ora stava seguendo la partita con scarso interesse, ritrovandosi di tanto in tanto a lanciare delle occhiate verso la panchina. Al riparo del tettuccio, infatti, stavano seduti Taichi e Rumiko, sotto invito dell’intera squadra. Lui incitava i giocatori, dispensando consigli e incoraggiamenti, lei li rimproverava e animava al tempo stesso.
A pochi minuti dalla fine del gioco la squadra si trovava in svantaggio di un punto. Gli avversari avevano deciso di impiegare le loro ultime energie in difesa, perciò gli attaccanti non riuscivano a far breccia. L’allenatore decise di chiamare un ultimo time out, probabilmente nella speranza di escogitare una tattica. Ma a Yamato bastò lanciargli un’occhiata per capire che l’uomo non sapeva che pesci pigliare.
“ Bene, partita conclusa. Mi dispiace per Daisuke, ma a questo punto… “
Poi vide Rumiko prenderlo da parte e sussurrargli qualcosa all’orecchio. Ovviamente non capì di cosa si trattasse, ma vide il quindicenne batterle un cinque e tornare in campo con un sorriso stampato in volto.
“Che intenzioni avranno quei due? “ si chiese, improvvisamente curioso e attento.
La partita riprese e subito la squadra si riportò all’attacco. Daisuke ottenne la palla e avanzò, scansando alcuni avversari. Ma appena si fosse trovato al centro della difesa avversaria, avrebbe perso il pallone, come era avvenuto in precedenza. Poi accadde qualcosa, troppo improvviso per seguirlo con lo sguardo.
Yamato sgranò gli occhi: Daisuke era per terra. Lanciò un’occhiata alla ragazza a bordo campo.
“ No, non può essere! “
L’arbitro fischiò il calcio di punizione. Il giovane si preparò. Davanti a lui c’erano pochi giocatori e il portiere. La posizione di tiro era perfetta.
“ Non è possibile! “
Daisuke prese la rincorsa e calciò con forza la sfera, che fece una piccola parabola per poi andare dritta verso l’incrocio dei pali. Il portiere saltò, ma non raggiunse la palla, che andò ad insaccarsi nella porta. Pareggio a pochi secondi dalla fine.
La squadra esultò. Taichi si alzò dalla panchina e raggiunse la compagna, abbracciandola felice e togliendole la visiera per scompigliarle affettuosamente i capelli. Quella protestò, probabilmente per i suoi capelli lunghissimi ora spettinati, prendendogli a pugni la schiena. Lui rise e le rimise il cappello sul capo. Poi entrambi vennero investiti da un esuberante Daisuke, che lanciò le braccia al collo della ragazza e la stampò un bacio sulla guancia. Ovviamente lei lo allontanò, ma subito il quindicenne fece un cenno ai compagni, che si avventarono su di lei per sollevarla sopra le loro teste e farle fare un piccolo giro del campo, scortati da Taichi.
Yamato abbassò lo sguardo, stringendo i pugni. Qualcosa si mosse dentro di lui e un pensiero gli sfiorò la mente: avrebbe voluto esserci lui al posto di Taichi. Subito, però, scosse la testa. Si stava comportando come un egoista, verso il suo migliore amico e soprattutto verso Sora.
La ragazza parve percepire il suo turbamento, perché gli sfiorò la mano con la sua, sorridendo dolcemente. Il ragazzo si rilassò. In fondo andava bene anche così: Sora gli voleva bene e anche lui teneva a lei. Dunque perché rovinare tutto per una persona come Rumiko, che di sicuro avrebbe portato solo nuovi sconvolgimenti nella sua vita?
Una vocina dentro di lui rispose: forse, perché la sua vita aveva bisogno di esser sconvolta.

Quando finalmente riuscì a scendere, la ragazza si ritrovò tra le braccia di Taichi, che la sorressero prontamente e la fecero atterrare sana e salva.

-      Ehi, campioni! Complimenti per la vittoria! –

Verso di loro venivano Takeru e Hikari, seguiti da Sora e Yamato.

-      Piaciuta la partita, Hikarina mia? Sono stato grande alla fine, vero? – gongolò Daisuke.

-      Ma se è stata Rumiko a dirti cosa fare! – lo rimproverò Taichi.

-      Uffa, possibile che non possa mai avere il mio attimo di gloria? –

-      L’hai avuto il tuo attimo di gloria, perciò non fare la vittima. –

-      Non sapevamo fossi un’esperta in tattiche. – le sorrise Hikari, ammirata.

-      Non che ci voglia un grande genio a spingere un difensore a commettere un fallo. – commentò Yamato.

-      Se avevi altre idee potevi venire ad esporle. – fece lei, infastidita dal suo tono.

-      Giusto! – si intromise Daisuke per darle man forte.

-      Tu datti una calmata, visto che avete solo pareggiato. – incalzò il cantante.

-      Ehi, dattela tu una calmata! Chi ti credi di essere?! – si scaldò il calciatore.

-      Abbassa la cresta, nanerottolo! – tentò di liquidarlo.

-      Nanerottolo a chi?! Sono poco più basso di te, capellone dei miei stivali! –

-      Non ti hanno insegnato a portare un minimo di rispetto a chi è più grande di te? –

-      E perché dovrebbe, visto che tu non ne porti per nessuno? – tornò alla carica la ragazza.

-      Non ti impicciare! –

-      Io mi impiccio come e quando voglio! –

-      L’ho notato. –

-      Che vorresti insinuare?! –

-      Che qualche volta potresti anche farti i fattacci tuoi! –

-      Come ti permetti?! –

-      Ti diverte tanto giocare con la vita della gente per poi gettarla via appena ti stufi?! –

-      Ma che stai dicendo?! – urlò lei, sconcertata.

-      Ti piace tanto far le fusa a Taichi, vero?! Inganni le persone e quando non ti servono più… che fai, le butti via? Ti prendi gioco dei loro sentimenti, approfitti dell’affetto di chi ti è vicino e così farai anche con Tai, come…! – ansimò nervoso.

-      COME COSA?! AVANTI, YAMATO, COME CHE COSA?! – strillò lei, al colmo della rabbia.

-      COME HAI FATTO COL TUO INGENUO PADRE! –

Un silenzio pesante scese su tutto il campo. Yamato si bloccò: Rumiko tremava, il volto rosso contratto dalla rabbia, gli occhi di brace e umidi. Alzò una mano per colpirlo, ma un’altra fu più veloce e lui arretrò sotto il colpo.
Il biondo sgranò gli occhi, voltandosi verso Taichi: il suo migliore amico gli aveva appena tirato un pugno. Yamato aprì la bocca piena di sangue, ma l’altro gli dette le spalle, afferrò la mano di Rumiko e la trascinò via.
Yamato tenne lo sguardo basso. Sentì una mano scivolare nella sua e allontanarlo. Osò sollevare gli occhi e incrociare quelli di Sora: erano più scuri di quanto ricordasse. Inspiegabilmente si ritrovò a balbettare uno “scusa”. Lei contrasse la mascella e lui pensò che anche la sua ragazza l’avrebbe colpito.

-      Le scuse non basteranno certo a farti rivalutare ai miei occhi…e tanto meno ai suoi. –

-      Non volevo… - tentò.

-      No, Yamato. – lo rimproverò con fermezza – Tu volevi, eccome. È questo che ha fatto più male. Conoscevi il suo punto debole e l’hai sfruttato per ferirla e metterla in imbarazzo davanti a tutti. Ti sei comportato da persona meschina. –

Yamato non credeva che le parole potessero fare tanto male. In quel momento, davanti a quello sguardo ambrato, pensò che avrebbe preferito ricevere un cazzotto.

Taichi la trascinò fino all’Alfa Romeo e solo allora si voltò a guardarla: gli occhi viola erano ancora sgranati. Si fece dare le chiavi dell’auto e la fece salire dalla parte del passeggero. Poi si sedette sul sedile del conducente e azionò il motore.
Mentre guidava lungo le strade della città, di tanto in tanto le lanciava un’occhiata, constatando che la sua espressione non era cambiata. Serrò la presa con più forza sul volante e si impose di mantenere la calma. Dire che questa volta Yamato l’aveva combinata proprio grossa sarebbe stato un eufemismo.
Arrivarono a destinazione e lui fermò la macchina nel parcheggio. La fece scendere e la accompagnò fino al quarto piano. Suonò il campanello, ma non ottenne risposta.

-      Non c’è nessuno. – lo raggiunse un filo di voce alle sue spalle.

Lui annuì e prese le chiavi che gli porgeva. Aprì la porta e un pensiero gli attraversò la mente: l’ultima volta che aveva attraversato quella soglia era stato sorpreso dalla vivacità dell’ambiente. Ora fu colpito dal suo silenzio. Improvvisamente gli parve vuoto e grigio, benché la ragione gli dicesse che era assurdo, data la varietà di arredi e immagini appese alle pareti. La condusse nella sua stanza e la fece stendere. La ragazza si coprì la faccia con un braccio.

-      Grazie. – sussurrò senza guardarlo.

-      Ma ti pare. Se hai bisogno non esitare a chiamare, per qualsiasi cosa. – le sorrise.

Ma sapeva che non l’avrebbe mai fatto.
Taichi si richiuse la porta alle spalle. Stava per oltrepassare di nuovo la soglia di casa, quando si fermò: una parete spoglia si stagliava lì dove prima c’era stata una cornice. Ricordava bene la fotografia: il cielo scuro, la città costellata di luci variopinte e una sagoma scura che si stagliava sulla cima del palazzo più alto, i capelli lunghi mossi dal vento. Venne colpito da un’idea e si diede mentalmente dello stupido per non esserci arrivato prima.
“ Quella era lei, senza dubbio! Ha pure gli stessi capelli lunghi mossi dal vento! Ma come mai si trovava in equilibrio ad una simile altezza? E poi perché ha voluto togliere la fotografia? Che le evocasse spiacevoli ricordi? “
Ovviamente non seppe darsi una risposta.

Quando Hiroshi Kitamura tornò a casa, vi trovò uno strano silenzio. Entrò nella stanza della figlia e la trovò addormentata sul letto. Gli bastò uno sguardo per capire che quel giorno qualcosa o qualcuno l’aveva sconvolta. E se si fosse trovato a un tavolo da gioco avrebbe scommesso tutto il suo conto in banca sul numero 17.
Per un attimo sentì montare la rabbia dentro di sé e fu tentato di buttare giù a calci la porta dei vicini per strozzare il responsabile. Poi riacquistò la calma: non doveva intervenire, per il bene del condominio, del signor Ishida, ma soprattutto per il bene di sua figlia.
Sospirò e richiuse la porta dietro di sé: tutto sarebbe andato nel migliore dei modi…o almeno se lo augurava.

 


Continua…


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Capitolo 6
*** - ***


Capitolo 6

 

-      Ehi, Yamato! Dov’è finita la bella Kitamura? –

-      Non lo so. – fu la risposta atona.

A dire il vero poteva supporre dove si trovava, o meglio con chi: Taichi.

-      Cos’è, i due piccioncini hanno litigato? – lo punzecchiò il batterista.

-      Non sono affari tuoi! – scattò lui, per poi recuperare la solita calma.

-      Scusate. – disse a capo chino, per poi afferrare la chitarra.

Gli altri componenti del gruppo lo fissarono stupefatti. Poi il bassista, un giovane dai capelli corti e ingellati, diede il via alle prove.

Da quella domenica le giornate si erano fatte ancor più brevi e fredde, tanto che pochi coraggiosi osavano ancora raggiungere la scuola a piedi. Quel clima pareva riflettere alla perfezione il rapporto tra i due vicini.
Yamato era sicuro che non gli avrebbe mai più rivolto la parola, che lo avrebbe odiato. In realtà lei sembrava limitarsi ad evitarlo. Anzi, pareva che l’avesse completamente cancellato dalla sua mente. Ogni volta che tentava di incrociare il suo sguardo, gli occhi viola volavano oltre, come se lui fosse fatto solo d’ossigeno. Se poi tentava un approccio verbale, le sue parole parevano perdersi nel vento. Qualche volta aveva cercato di fermarla, ma lei era riuscita a scivolargli via, come l’acqua tra le dita.

L’allontanamento dal cantante aveva però segnato un avvicinamento al calciatore. Taichi faceva di tutto per non lasciarla mai sola e lei non faceva nulla per allontanarlo. Nonostante non l’avrebbe mai ammesso, le faceva piacere avere al suo fianco quel ragazzo pieno di riguardi. Con lui riusciva a parlare con maggior libertà, a ridere e scherzare con serenità. Era stata la prima persona che aveva incontrato in quella città e il loro rapporto era speciale.
Rumiko era perfettamente cosciente delle voci che circolavano a proposito di una loro relazione, ma non aveva mai fatto parola per smentirle. E perché avrebbe dovuto? Taichi era un ragazzo d’oro, oltre che molto carino, con quei suoi occhi nocciola, i capelli sempre scompigliati e un sorriso spensierato sul volto. Sotto certi aspetti era ancora un bambino e le faceva tenerezza quando si lagnava per la sua sfortuna o quando esultava per un goal. Lui era fatto così: solido e rassicurante nella sua semplicità disarmante. Certo, se qualcuno fosse arrivato a chiederglielo, lei avrebbe negato i pettegolezzi. Ma per ora andava bene così.
L’unica macchia nera era il rapporto del ragazzo con Yamato. Lei sapeva quanto fossero legati e non poteva fare a meno di sentirsi in colpa: in fondo era a causa sua se i due avevano litigato. Ma quando aveva tentato di far ragionare il bruno, lui era stato irremovibile.

-      Non devi sentirti in colpa, dico sul serio. –

-      Sì, ma la causa del vostro litigio sono stata io. Non è giusto, in fondo tu non centravi nulla… –

-      Come non centravo? Lui ha detto delle cose ignobili ad una mia cara amica e mi vieni a dire che non centravo nulla?! –

-      Ma… -

-      Niente ma! Proprio perché Yamato è mio amico non posso accettare ciò che ha fatto. Parlando in quel modo ha ferito anche me, perché non mi sarei mai aspettato una cosa simile da parte sua. –

-      Hai intenzione di non parlargli mai più? –

-      Beh, “mai” è una parola grossa! Ma stai pure sicura che non lo perdonerò tanto presto. –

E le aveva sorriso. Tuttavia quella sensazione non l’aveva abbandonata e spesso l’aveva sorpreso a lanciare occhiate indecifrabili al compagno. Dunque era costretta ad operare una scelta: perdonare Yamato e farli tornare amici, o persistere nel suo astio e rovinare un’amicizia. Ma se una parte di lei sapeva che avrebbe scelto la prima possibilità, l’altra non riusciva a dimenticare quelle parole crudeli e ad abbassare l’ascia di guerra.
Se avesse dovuto prendere una decisione da sola, forse non ce l’avrebbe fatta. Fortunatamente, come scoprì un pomeriggio di inizio dicembre, non era sola.

Si stava arrovellando tra le pagine di fisica, la materia che detestava di più in assoluto, quando il telefono squillò. Sbuffando, si liberò dei libri che le coprivano le gambe e saltò giù dal divano. Scavalcò in extremis un dizionario di inglese, rischiò di inciampare a causa della tuta troppo lunga e sollevò la cornetta.

-      Pronto, qui casa Kitamura. –

-      Ciao, Rumiko. Sono Sora, hai un minuto? –

L’altra lanciò un’occhiata in tralice ai libri stesi in salotto e sospirò sonoramente.

-      Fosse per me tutto il tempo del mondo. – commentò.

-      Scommetto che stavi studiando fisica, vero? –

-      Da cosa l’hai intuito? –

-      Non è difficile indovinare quando si sta nella stessa barca. Mal comune mezzo gaudio! –

-      Mi spiace dirtelo ma non vi sarà nessun gaudio nel compito di domani. –

-      Non dirmelo, se ci penso mi sale la depressione! Più leggo quelle formule e più mi convinco che non è la materia fatta per me. –

-      Concordo! –

-      Senti, ti va di studiare insieme? Forse la compagnia può renderla più sopportabile. –

-      Hm… dove possiamo vederci? –

-      Non è il caso che vieni da me, visto che è un po’ troppo lontano per te. Possiamo incontrarci in un bar a metà strada. C’è un locale molto tranquillo dalle parti della scuola che fa al caso nostro. –

-      E pensi che ci lascino studiare ai loro tavoli? –

-      Se ordini qualcosa una bella fetta di torta sì, tanto sono abituati agli studenti. Io ci vado spesso. –

Rumiko ci pensò un attimo: di certo non aveva voglia di studiare, né di stare da sola in quelle stanze silenziose. Taichi non era potuto venire a trovarla perché aveva gli allenamenti e suo padre sarebbe tornato tardi come al solito, se non il giorno dopo. L’invito di Sora sembrava un miracolo sceso dal cielo: dolci, compagnia e forse una sufficienza tirata al compito in classe.

-      D’accordo, ci sto! –

-      Fantastico! Allora ci vediamo davanti ai cancelli della scuola tra… mezz’ora ti basta? –

-      Sì, va bene. Allora a dopo. –

-      Ciao! –

A velocità lampo raccolse il materiale necessario in una borsa, si cambiò, indossando una gonna scozzese corta, delle calze lunghe e spesse e un maglione soffice, si pettinò, infilò chiavi, portafoglio e cellulare nella borsa a tracolla e calzò dei stivali alti fino al ginocchio. Afferrò il cappotto e una soffice sciarpa e uscì.

Per fortuna il bus non impiegò molto ad arrivare: non aveva la minima voglia di farsi la strada a piedi con quel freddo. Un conto era d’estate, ancora ancora d’autunno, ma d’inverno non se ne parlava nemmeno!
Arrivò a scuola in tempo e attese pochi minuti. Presto venne raggiunta da una figura altrettanto coperta.

-      È molto che aspetti? –

-      No, sono appena arrivata. –

-      Bene, allora vieni, che qui si congela! – le sorrise la ragazza, per poi avviarsi.

Quel gesto le ricordò Taichi per la sua semplicità e spontaneità. Si sorprese di quel pensiero e la seguì.

Il bar in questione era un luogo caldo e tranquillo. Alcuni tavolini erano occupati da altri studenti, che parlavano pacati, sfogliavano libri, prendevano appunti e si aiutavano a vicenda. Due uomini dietro il bancone, uno sopra i quaranta e l’altro attorno ai trenta, servivano i clienti seduti sugli sgabelli, versavano caffè, the e cioccolate fumanti, disponevano appetitose fette di torta sui piattini. Una sinfonia classica faceva da sottofondo, senza infastidire lo studio.
Sora la condusse al piano superiore, dove presero posto su un lato libero della stanza, non troppo vicino alle finestre per evitar possibili spifferi. Si tolsero i cappotti e li appoggiarono ad un attaccapanni. Si sedettero ed estrassero i libri.

-      Ti piace il posto? – le chiese piano la compagna.

-      Sì, è molto confortevole. –

-      Per quanto lo possa essere un luogo che pullula di libri scolastici, giusto? –

Rumiko si sorprese a sorriderle e l’altra ricambiò il gesto. In quel momento le parve davvero carina: i dolci e luminosi occhi d’ambra, la pelle leggermente abbronzata, i capelli ramati trattenuti da alcune mollette. Indossava una gonna scura lunga fino al ginocchio, con alcune fibbie sul davanti. Sopra una maglietta bianca aveva messo un golfino azzurro, che le risaltava magnificamente il colore dei capelli. Aveva una voce pacata e rassicurante, ma al tempo stesso energica, che non suscitava repliche. Era una ragazza intelligente e allegra, disponibile con tutti. Insomma, una persona d’oro, proprio come Taichi.
Ancora una volta si sorprese del pensiero, ma lo scacciò via immediatamente.

Dopo un’oretta di studio decisero di fare una pausa e chiesero due cioccolate con panna. Stavano sorseggiando il liquido caldo, quando la rossa decise di affrontare l’argomento.

-      Senti, Rumiko… volevo dirti che mi dispiace per la situazione che si è venuta a creare. –

-      Lo so, sono una schiappa in fisica! – scherzò lei tentando si apparire spontanea.

-      Parlo di Yamato. –

-      Oh. – fu tutto ciò che riuscì a commentare: ecco quindi il reale motivo di quell’invito.

-      Ha detto delle cose davvero orribili, fai bene a non perdonarlo tanto facilmente. Io stessa, che sono la sua ragazza e gli voglio bene, non lo farei! –

-      Non ci credo, tu non saresti capace di portare rancore. – disse, senza astio.

-      Sbagli, se pensi che io sia tanto affabile. Sono paziente, questo è vero, ma anch’io perdo le staffe. Sai, una volta ero quasi un maschiaccio, pensa che ero pure il capitano di una squadra di calcio. –

-      Dici sul serio? –

-      Certo! Ho solo cambiato modo di presentarmi al mondo, ma dentro di me sono sempre la stessa. Dunque ti capisco se sei arrabbiata con lui. Ha sbagliato e ora è giusto che paghi per questo. –

Per un attimo Rumiko non disse nulla.

-      Vorrei solo non sentirmi…in colpa. – proseguì poi.

-      Ti riferisci a Yamato e Taichi, vero? –

-      La loro amicizia si è rovinata a causa mia. –

-      Non ti preoccupare di questo! Quei due non è certo la prima volta che litigano, ma hanno sempre finito per fare pace. Sono solo testardi, ma in fondo si vogliono troppo bene per stare lontani a lungo. –

-      Mi pare difficile immaginare una cosa simile di Yamato… – commentò, per pentirsi subito dopo delle sue parole.

“ Accidenti! Proprio davanti alla sua ragazza dovevo andare a dire queste cose?! “
Ma l’altra, anziché arrabbiarsi, sorrise.

-      Lo so, ha un caratteraccio, ma è fatto così da sempre. In realtà è maledettamente orgoglioso e timido… –

-      Timido?! Lui?! –

-      Già, proprio lui! – le confermò con un risolino – Vedi, noi ci conosciamo dalle elementari… intendo io, Taichi e Yamato. E ti assicuro che sotto quella scorza da uomo duro si nasconde un cuore generoso. –

Fece una piccola pausa.

-      In un certo senso noi tre ci assomigliamo: entrambi celiamo un’indole sconosciuta ai più. Così come io nascondo il mio lato di maschiaccio esuberante, Taichi cela quella di persona matura e Yamato quella più altruista e amorevole. Capisci cosa intendo, vero? – la guardò dritta negli occhi.

-      Sì. –

-      Bada, non ti sto dicendo di perdonarlo come se niente fosse successo… te l’ho detto, non lo farei nemmeno io! Ma forse potresti dargli un’altra possibilità… –

Lei stette un attimo zitta.

-      Va bene – disse infine – ci proverò. –

-      Grazie. –

-      Perché mi ringrazi? –

-      Perché mi hai fatto un favore: vorrei evitare che tra il mio ragazzo e la mia amica ci siano dei disaccordi. – le sorrise.

-      Lo dice anche Taichi… Perché mi consideri tua amica? – le chiese, distogliendo però lo sguardo.

-      Beh, penso per lo stesso motivo degli altri: perché mi piaci! –

-      Grazie… anche tu mi piaci. – sbiascicò.

Non era mai stata molto brava in queste cose e ora si sentiva una sciocca: Sora le aveva parlato col cuore, in tono risoluto e tranquillo, mentre lei era solo stata capace di balbettare poche stupidaggini. Però la compagna parve non farci caso, perché le afferrò la mano nella sua.

-      Voi due vi assomigliate molto, perciò do per scontato che le mie parole andranno perse nel vento. Comunque se ti servisse aiuto per qualsiasi cosa, non esitare a chiedermelo, intesi? –

-      D’accordo. –

Ma di nuovo sapeva che, malgrado si sentisse a suo agio con quella ragazza, non l’avrebbe fatto.

Sora la guardò di sottecchi: la compagna era concentrata sui suoi appunti, la fronte leggermente corrugata e lo sguardo attento. Ora capiva le parole di Taichi e come mai il ragazzo le fosse tanto affezionato. Quella ragazza assomigliava molto non solo a Yamato, ma anche a loro due, poiché pure lei nascondeva qualcosa dentro di sé. Si ostinava a fare la dura, a tenere la gente a distanza, senza capire che più tentava di mettere spazio tra lei e gli altri, più loro desideravano colmarlo. C’era qualcosa in lei che attraeva le persone: forse il suo carattere forte, i suoi modi diretti, oppure quel suo sorriso. Eppure lei sembrava non riuscire a capacitarsene, come se non riuscisse ad accettare che qualcuno potesse tenere veramente a lei. Bastava vedere come si era comportata con la rossa poco prima. In un certo senso era come se quegli occhi viola si stessero guardando attorno per la prima volta, meravigliandosi di ciò che scorgevano, e a Sora faceva quasi tenerezza.
Poi aveva scrutato più a fondo in quelle iridi e vi aveva scorto delle ombre. Sorpresa, si era accorta di quanto quegli occhi fossero… tristi, come increspati da un ricordo spiacevole che vi aveva inciso un solco profondo. Allora le era sembrata molto più matura di tutti loro, come se un evento particolare l’avesse fatta crescere.

Taichi era stato il primo ad aver fatto un passo nella sua direzione, ma ora lei intendeva raggiungerlo.

Qualche tempo dopo si sarebbe domandata cosa avrebbe fatto se avesse previsto gli eventi che si sarebbero verificati. Ma, con un sorriso, si sarebbe detta che non avrebbe agito diversamente.

Ormai si era fatta sera. Le due ragazze si erano divise, nonostante Sora fosse stata riluttante a lasciarla ad aspettare il bus da sola. Ma Rumiko aveva insistito: anche la rossa doveva sbrigarsi a tornare a casa e aspettare in due al freddo non sarebbe valso a nulla, se non a far ammalare entrambe. Così si erano salutate e ora lei si trovava da sola, stanca e infreddolita ad aspettare uno stupido mezzo di trasporto che non sembrava avere intenzione di arrivare entro la fine dell’anno.
Dopo una buona mezz’ora d’attesa, decise di avviarsi a piedi: se non altro si sarebbe scaldata. Ovviamente, appena svoltò l’angolo, sentì un suono familiare alle spalle e tornò sui suoi passi, giusto in tempo per vedere il bus sorpassarla, incurante dei suoi gesti. Disperata, pensò alla strada che doveva farsi a piedi, visto che l’alternativa sarebbe stata aspettare il successivo per almeno un’ora buona.
Non passò molto, però, che candidi fiocchi di neve cominciarono a cadere dal cielo. La prima nevicata di quel inverno e, guarda il caso, lei non aveva l’ombrello.

Non aveva idea di quanto tempo fosse passato, visto che non poteva permettersi di tirare su la manica del cappotto per lanciare uno sguardo all’orologio. L’unica cosa certa era che stava congelando. La neve non accennava a diminuire, rendendo il suo passo lento e malfermo. Il freddo pungente le aveva fatto arrossire il naso e le gote e, nonostante cercasse di coprirlo con la spessa sciarpa, anche il mento cominciava a divenire insensibile alla temperatura. Di tanto in tanto emanava nuvolette di vapore, con l’unico risultato di ghiacciarsi la gola e far inumidire la sciarpa. I capelli erano fradici e sembravano più delle alghe marine, che morbidi onde.
Ad un certo punto temette di essersi persa, dato che non era ancora giunta a destinazione.
Poi, in mezzo alla neve, le venne incontro un ombrello azzurro.
“ Sora! “ pensò subito. Ma, ovviamente, non era lei: Yamato le stava di fronte e la guardava, in silenzio.

-      Ho freddo. – sbottò la ragazza, cosa per altro piuttosto evidente.

Lui non rispose, ma la riparò con l’ombrello e l’accompagnò lungo la via. Nonostante il clima non fosse cambiato, Rumiko si sentì meglio. Uno strano pensiero le attraversò la mente stanca: perché il ragazzo si trovava fuori con quel tempo?
Dopo pochi minuti arrivarono al condominio, dove lui aprì il portone principale e lei si scrollò un po’ di neve da addosso. Presero l’ascensore e raggiunsero il quarto piano.

-      Fatti subito un bagno caldo. –

Lei stava per rispondergli con un secco “ Lo so benissimo, cosa credi?! “, ma le tornò in mente la conversazione avuta con l’amica e si trattenne.

-      Grazie. – disse invece.

-      Di nulla. –

Poi la ragazza si richiuse la porta alle spalle. In quel momento si ricordò che era ancora arrabbiata con lui, ma subito si dette della scema. Ormai avevano praticamente fatto pace, cosa che in fondo voleva, no?
“ A pensarci bene non è stata tanto male questa nevicata, visto che mi ha risparmiato il problema di trovare un modo decoroso di deporre l’ascia di guerra! “
Ma subito uno starnuto ben poco decoroso la riportò alla realtà e la ragazza si affrettò a spogliarsi degli indumenti bagnati e immergersi in una vasca d’acqua calda.
L’indomani avrebbe saltato il temuto compito di fisica a causa di un forte raffreddore.

 


Continua…

 

 

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Capitolo 7
*** - ***


Capitolo 7

 

Nei due giorni seguenti ricevette molte telefonate da parte di Taichi e Sora, la seconda terribilmente in colpa per lo stato di salute della ragazza. Lei li aveva tranquillizzati, dicendo che presto sarebbe tornata a scuola, ma non aveva potuto evitare che venissero a farle visita.
Il pomeriggio del secondo giorno si presentarono insieme alla sua porta. Lei venne ad aprire la porta in pigiama.

-      Ok è viva, possiamo andarcene. – fece dietrofront il ragazzo, subito riagguantato dall’amica.

-      Che imbecille. – rise Rumiko dello scherzo.

-      Scusa se piombiamo in casa tua senza preavviso. – si scusò educatamente la rossa.

-      Nessun problema. – bofonchiò lei – Solo mi dispiace che la prima volta che vieni da me la casa sia un tale disastro… –

-      Ah, è vero che tu non sei mai stata qua. Allora posso farti fare il giro dell’appartamento? –

-      Temo tu abbia frainteso l’espressione “fai come se fossi a casa tua”. – alzò un sopracciglio Rumiko.

Dopo un’oretta i due decisero di levare le tende e la salutarono. Rumiko si sedette in salotto e si concentrò sugli appunti che l’amica le aveva portato. Al suo ritorno avrebbe dovuto recuperare il compito di fisica, se non il giorno stesso, di sicuro quello dopo. A quanto le avevano detto, non era stato affatto semplice. Taichi non si preoccupava molto del risultato, dato che era abbonato al 4. Sora invece si era scusata, spiegando che anche lei rischiava un brutto voto e che dunque non era la persona più indicata a spiegarle la materia.
La ragazza sospirò sconsolata: possibile che fosse condannata ad avere anche lei all’insufficienza? Non che la pagella fosse per lei una questione fondamentale, ma prima o poi avrebbe dovuto recuperare i brutti voti, altrimenti avrebbe passato le vacanze a studiare quell’odiosa materia per recuperare i debiti. Insomma, si sarebbe volentieri accontentata di un 6, ma per ottenere la sufficienza avrebbe dovuto dimostrare di aver capito qualcosa e lei non sapeva nemmeno da che parte cominciare!

Dunque a chi poteva rivolgersi? Suo padre sarebbe tornato tardi come al solito e in ogni caso aveva parecchi dubbi riguardo alle sue competenze nelle materie tecniche. Non gli restava che…
Alzò la cornetta del telefono e compose il numero.
“È una situazione di emergenza.“ si giustificò mentalmente “La vita è fatta di compromessi, no? Ebbene: ingoiare il mio orgoglio in cambio dell’estate libera dagli studi. Mi pare ne valga la pena.”

Sperò solo che il professore avrebbe riconosciuto questo sforzo.

Dopo pochi minuti il citofono si fece sentire e, tratto un bel respiro, ripetendosi “vacanze senza studiare, vacanze senza studiare” Rumiko andò ad aprire la porta.
Un ragazzo alto e biondo stava sulla soglia, lo sguardo indecifrabile come sempre.

-      Non hai un bel aspetto. – commentò tranquillamente.

-      Scusa se non mi sono messa in tiro per l’occasione. – rispose lei a tono.

“Cominciamo bene! Non è neppure entrato e già lo prenderei a calci. Chissà perché deve essere sempre così… così insopportabile! Gli danno un premio se mi fa perdere la pazienza in meno di un minuto?“
Senza aggiungere altro lui la sorpassò e cominciò a guardarsi attorno, evidentemente contrariato da ciò che vedeva.

-      Questo posto fa schifo. –

-      Senti un po’, sei venuto per farmi la predica o per aiutarmi?! – lo raggiunse lei.

Lui non rispose, ma scomparve in cucina per tornare con due sacchetti dell’immondizia e le mani infilate in un paio di guanti rosa da cucina. Incurante delle proteste di Rumiko cominciò a raccogliere pacchetti vuoti e cartacce.

-      Si può sapere che diavolo stai facendo?! –

-      Pulisco. – disse lui con semplicità.

-      Forse al telefono non sono stata chiara: ho bisogno di ripetizioni, non di ripuliture. –

-      Non puoi studiare in mezzo al caos. Se l’ambiente è disordinato la tua mente sarà ugualmente disordinata. –

Lei alzò le mani in segno di resa e si sedette sul divano, incrociando le gambe. Yamato continuò a riassettare la casa, spazzando via le briciole, raccattando, con una smorfia esageratamente disgustata i fazzoletti usati, raccogliendo le tazze e i piatti e mettendoli nella lavastoviglie. Ad un tratto la fece anche alzare dalla sua postazione, con un gesto che le ricordava quello di un padrone nei confronti del cane, per ripulire la coperta in cui si era avvolta.
Al termine dell’opera si guardò attorno visibilmente soddisfatto. Ma quando il suo sguardo si posò su di lei, storse la bocca in maniera eloquente.

-      E ora che c’è? – sbuffò lei.

-      Anche tu avresti bisogno di una ripulita. – spiegò.

-      È casa mia e mi concio come mi pare! Piuttosto, sei qui per darmi una mano o per criticare il mio aspetto? –

-      D’accordo, d’accordo! Su, fammi vedere cos’è che non ti è chiaro. –

Si sedettero sul divano e aprirono i libri. Lei gli spiegò brevemente la sua situazione e lui sospirò.

-      In poche parole non hai capito nulla. –

Lei stava per rispondergli di nuovo a tono, ma richiuse la bocca stizzita e mise il broncio, conscia della sua ignoranza. Yamato ignorò la sua reazione, afferrò una penna e cominciò a spiegarle le dimostrazioni.

Rumiko stava china sui libri, il volto teso per la concentrazione. Alcune ciocche di capelli erano sfuggite alla pettinatura improvvisata e le ricadevano ai lati del viso, sfiorandole gli zigomi. Ma lei non se ne curava, limitandosi a spingerli di tanto in tanto dietro un orecchio con un gesto rapido della mano. Una gamba era ripiegata sotto di lei, l’altra penzolava oltre il bordo del divano. Il suo naso era leggermente arrossato. Nonostante i commenti di Yamato, aveva deciso di restare com’era, avviluppata in quegli abiti larghi, stropicciati e a suo avviso comodi, che nascondevano le sue forme. Eppure anche così gli parve estremamente carina.
Ora stava tracciando un grafico con mano sicura, spostando lo sguardo dal disegno ai dati del problema.

-      Scusa. – disse piano il ragazzo.

Lei alzò gli occhi ad incrociare i suoi, poi li abbassò sul disegno aggrottando la fronte perplessa.

-      L’altro giorno… mi sono comportato in maniera meschina. Non dovevo dire quelle cose. –

Fece una pausa, omettendo il motivo che, come aveva compreso in quei giorni, l’aveva spinto a parlare in quel modo: Yamato era geloso.

-      È forse presuntuoso da parte mia chiedertelo, ma… potresti perdonarmi? –

Rumiko lo guardò un attimo, poi annuì piano.

-      La verità è che… ecco, io… - le afferrò la mano, avvicinandosi al suo viso.

Lei si allontanò di scatto, sfuggendo alla sua presa. Yamato cercò i suoi occhi viola: il suo sguardo era deluso.

-      Sora è una ragazza fantastica. – disse, severa – È mia amica e non ho intenzione di farle un torto simile. –

-      Però tu… - si passò una mano tra i capelli biondi, nervoso – Sarò franco: da quando abbiamo litigato non sono riuscito a trovare pace, non ho fatto che ripensare a te, ai nostri battibecchi e al tuo sorriso felice in quelle vecchie foto… -

-      Quali foto? –

-      Quelle di qualche anno fa. È da quando le ho viste che non faccio altro che pensare a te, a come eri spensierata, piena di gioia e… -

-      Ma sono vecchie foto. Sono cambiata molto da allora… –

-      Lo so, ma eri così… -

-      Dici bene: ero. – rispose lei, dura.

-      Non è detto che tu non possa tornare a sorridere così. Ti aiuterò. Vedrai, sono sicuro che riuscirai a recuperare… -

-      Cosa?! Cosa dovrei riuscire a recuperare?! –

-      La vera te stessa. –

-      Ma la vera me stessa è questa! – protestò, battendosi una mano sul petto – Ce l’hai davanti a te! –

-      No, non è vero, questa è solo una maschera, una corazza per proteggerti, forse perché qualcuno ti ha ferita o delusa e non ti fidi più delle persone. Succede a molti, sai? Ma non dirmi che tu non sei così, perché non ci credo… Ti ostini a negarlo, ma in realtà… –

-      Chi è qua quello che si ostina a negare la realtà?! Partiamo dal fatto che quello che mi è successo non ti riguarda e che non posso né ignorarlo né cancellarlo, a meno che tu non nasconda in casa tua la macchina del tempo e mi faccia tornare indietro di qualche anno. In ogni caso i fatti sono questi, che tu lo voglia o no: gli eventi della vita cambiano le persone e così è successo a me. Sono cambiata. Fine della questione. –

-      No… - fece lui, piano.

-      E invece sì! Le persone cambiano, Yamato, e io sono cambiata. Non puoi cambiare le persone semplicemente perché pensi che fossero meglio prima. E anche se avessi questo superpotere, chi ti dice che io sia d’accordo a tornare quella che ero, che non mi piaccia di più così? In fondo, le mutazioni avvengono per meglio adattarsi agli ambienti in cui ci si trova, no? Ebbene, pensi che sarebbe giusto trasformarmi secondo le tue necessità anziché le mie? –

-      Non lo so, ma devo farlo… -

-      Perché?! –

-      PERCHÉ MI SONO INNAMORATO DI TE! –

-      Come? – sussurrò lei.

-      È così, da quando ho visto quelle fotografie mi sono innamorato di te. –

Silenzio.

 

-      No. –

-      Come? –

-      No. Tu non ti sei innamorato di me, semmai della vecchia me che hai visto solo in fotografia, quella che non c’è più. –

-      Ti sbagli… -

-      È così, Yamato: ti sei innamorato di un’immagine, di un fantasma. –

-      No… -

-      Quella persona non esiste più. –

-      Ma se tu… io so che potrei riuscire a… -

-      Cambiarmi? Vorresti cambiarmi per farmi diventare quella che desideri, per il tuo piacere personale? Anche se rimpiangessi la vecchia me, non te lo permetterei. E comunque… non ci riusciresti. –

-      Perché, Taichi sì? – fece lui, con una punta di amarezza nella voce.

-      Taichi non cerca di cambiarmi. A lui vado bene così come sono. –

Fece una pausa.

-      Sono disposta a dimenticare ciò che hai appena detto, Yamato. Ma solo a condizione che tu desista dal tuo folle scopo. –

Lui abbassò il capo, sconfitto. Solo allora si accorse di aver sbagliato tutto, che si era illuso. Aveva provato a fare ciò che secondo lui andava fatto, ma aveva peccato di arroganza ed egoismo.

Aveva rovinato tutto. Anche ammesso che gli avesse ancora voluto rivolgere la parola, lui non avrebbe più osato guardare in faccia Rumiko. E con che coraggio poteva ancora presentarsi davanti a Sora? Nel giro di pochi minuti aveva perso una nuova amica e la fidanzata di tanti anni. Ma chi era quel maledetto imbecille che aveva detto che lui aveva fortuna con le ragazze?!
Si alzò e uscì dall’appartamento.

Abbattuto, si ritrovò di nuovo nell’ingresso di casa sua, in quelle stanze vuote e silenziose. Al pensiero che aveva sperato di poterle riempire con i sorrisi di quella ragazza, si sentì pizzicare gli occhi. In un secondo seppe cosa avrebbe fatto: afferrò le chiavi della moto, il giubbotto, la sciarpa e fu fuori.

Dopo venti minuti si ritrovò davanti ad un portone, incredibilmente familiare ma che non vedeva da troppo tempo. Suonò il citofono e venne ad aprirgli un ragazzo alto e bruno, dai capelli perennemente scompigliati. Non gli fu difficile leggere la sorpresa in quegli occhi nocciola, ma non seppe mai se fosse dovuta alla sua visita inaspettata o alle lacrime che gli solcavano le guance arrossate dal freddo.

Rumiko si accasciò sul divano, con le mani tra i capelli. Al pensiero di quel che era appena successo si sentiva tremare. Nel momento in cui Yamato le aveva afferrato la mano, lei aveva provato un caldo brivido lungo la schiena e il suo cuore aveva preso a battere forte nel petto.

Ma un istante dopo si era riscossa e l’immagine di Sora gli era balzata davanti agli occhi. Una ragazza speciale che l’aveva accolta, parlandole a cuore aperto, offrendole la sua amicizia; non avrebbe mai potuto ricambiare le sensazioni piacevoli che le aveva regalato facendola soffrire.

Rumiko non aveva mai potuto vantare una grande cerchia di amici, dunque non era molto pratica in materia. Conoscenti, sì, ma non amici veri. Ma in fondo non ne aveva mai sentito il bisogno: ciò che aveva le bastava, dunque non aveva mai sentito la mancanza di qualcosa. Tuttavia ora le cose erano diverse: aveva incontrato delle belle persone che la facevano sentire bene, come non era stata da molto tempo. Perché mandare tutto all’aria? Perché rinunciare a passare dei bei momenti in loro compagnia? Per lui? Ne valeva davvero la pena? Ovviamente no.
Poi era stato lui stesso a fugare ogni dubbio residuo. Le parole di Yamato l’avevano ferita altre volte, ma mai come in quel momento. Si era innamorato della Rumiko del passato. Non voleva lei, voleva l’altra! Quella che era sparita due anni fa, insieme a…
Le lacrime le salirono agli occhi.

Si era impegnata molto, in quei due anni. Aveva raccolto i brandelli della sua anima ferita e li aveva rimessi insieme, rammendandoli con forza e coraggio senza mai guardarsi alle spalle. E ora lui voleva riportarla indietro?! Lei gli aveva detto che non era possibile, che non era giusto, che non era la cosa migliore per lei, ma lui non aveva desistito. Ma perché non l’ascoltava? Era stato egoista, presuntuoso e insensibile. Ancora una volta non erano stati in grado di capirsi.
Taichi si era sbagliato: loro due non erano fatti per stare insieme. Avrebbero solo finito per distruggersi a vicenda. E non ne valeva la pena.
Ma allora perché stava così male? Perché si sentiva il cuore in pezzi? Forse perché sapeva che, perdendo Yamato, aveva rinunciato a tutte quelle emozioni che solo lui era in grado di suscitarle. Sia che fosse arrabbiata, sia che sorridesse, in sua compagnia si sentiva fremere. Era una strana sensazione, mai provata prima. Con Taichi e Sora era diverso: con loro si sentiva tranquilla, come cullata da placide acque. Invece con lui si sentiva risucchiare da un vortice, che l’attraeva e la respingeva al tempo stesso, rivoltandola come un calzino.
Afferrò il telefono e compose un numero, quello più assurdo, data la situazione, ma l’unico che le venisse in mente.

-      Pronto? Qui casa Takenouchi! –

-      Sora, mi sento male, ti prego vieni. – disse quasi in un sussurro, mentre la sua voce veniva rotta dal pianto.

 

Taichi non disse nulla, lasciò che il ragazzo si lavasse la faccia e mangiasse qualcosa. Poi guardarono un film alla TV.
Solo quando comparvero i titoli di coda, si voltò verso di lui.

-      Meglio? –

-      Sì, grazie. –

-      Non ringraziarmi. È a questo che servono gli amici, no? A farti guardare film spazzatura quando dentro ti senti da buttare… – accennò a una battuta.

-      Non penso che vorrai essere mio amico ancora per molto. – sorrise amaramente.

-      Cos’è successo, Yamato? – gli chiese lui, calmo e serio.

Lui lo guardò e sospirò, preparandosi al peggio. Poi cominciò a raccontare.

 

-      Rumiko! Che cos’è successo? Hai la febbre? Vuoi che chiami un medico? –

La rossa si era precipitata nella camera da letto dell’amica, che stava raggomitolata sotto le coperte.

-      È successa una cosa orribile… Oh, Sora, non volevo. Giuro che non volevo! –

-      Calmati, qualunque cosa sia successa, sono sicura che… -

Rumiko si alzò di scatto, rivelando gli occhi arrossati e gonfi.

-      Yamato è… - disse piano.

-      COSA TI HA FATTO?! – sbraitò lei.

-      Se te lo dico sono sicura che mi odierai… e non voglio rovinare la nostra amicizia… –

-      Non preoccuparti, Rumiko. Qualsiasi cosa sia successa non rinuncerò a te per via delle azioni del mio ragazzo. In fondo è a questo che servono gli amici, no? Ad aiutarci a risolvere i problemi che da soli non riusciamo a gestire. –

La rossa si sedette sul bordo del letto e le accarezzò la testa. Rumiko, rinfrancata, cominciò a parlare.

-      E questo è tutto. – concluse Yamato.

Silenzio.

-      Hai fatto una bella stronzata, lo sai, vero? – gli disse l’altro, duro.

-      Lo so, ma io ero convinto che… -

-      Che cosa? Che saresti riuscito a cambiarla? A farla tornare la persona che era? Non ne avevi alcun diritto! Tu stesso l’hai accusata di giocare con le persone! –

Yamato si prese la testa tra le mani. Ovviamente il suo amico aveva ragione. Di nuovo aveva sbagliato. Ma che gli stava succedendo? Era la seconda volta che la feriva a causa delle sue azioni avventate e non era certo da lui.

-      Non ci capisco più nulla! Che diavolo sto facendo?! Non voglio… eppure riesco sempre a dire la cosa sbagliata. Mi sento nervoso… è come se tutti si aspettassero qualcosa da me. Persino il padre me l’ha praticamente affidata! –

-      Non penso che ti abbia affidato sua figlia perché tu la trasformassi. –

-      Ma ero davvero convinto di fare la cosa giusta! –

-      Lo so, amico mio, ma non devi accollarti tutte le responsabilità da solo. Tu hai questo pessimo vizio di voler fare le cose a modo tuo e senza chiedere aiuto a nessuno. Però devi metterti in testa che non puoi sempre farcela da solo, nessuno ci riesce. –

-      È che ci tengo molto a lei… -

-      Guarda che non sei l’unico! Anch’io le voglio bene. Non avrei di certo preso a pugni il mio migliore amico per una persona qualsiasi, non ti pare?! E poi anche Sora le è molto affezionata… –

-      Già, Sora… sono riuscito a ferire anche lei. Non credevo che sarei mai arrivato a fare una cosa tanto patetica e meschina… –

-      Non ti preoccupare di questo: sono sicuro che le cose si aggiusteranno. –

-      E come?! L’ho praticamente tradita! –

-      Beh, ma non è successo nulla di concreto e se le dirai la verità sono sicuro che ti perdonerà. –

-      Comincio a pensare di non sapere quale sia la verità. – commentò amaramente.

-      Che vuoi dire? –

-      Insomma, ho tradito, o quasi, la mia ragazza per una persona che non esiste, o almeno non più. Mi sembra tutto così assurdo… -

-      Ma è così che sono andate le cose, no? Tu hai preso una bella cotta per la Rumiko di due anni fa, ma non per quella del presente, giusto? –

-      Sì, suppongo che tu abbia ragione… –

Ormai era scesa la sera e il ragazzo s’infilò il giubbotto per uscire.

-      Un’ultima cosa, Yamato. –

-      Cosa c’è? –

-      Per questa volta passi, ma bada: non deve ripetersi mai più. – gli disse, rivolgendogli uno sguardo tagliente.

-      Taichi…? – stentò a riconoscerlo.

-      Ti perdono perché sei mio amico, ma non ti azzardare a far soffrire ancora Rumiko… e tanto meno Sora. Sono stato chiaro? –

-      Cristallino. – e uscì.

In realtà aveva la spiacevole sensazione di non aver capito del tutto: cosa aveva voluto intendere con quelle parole? Non c’era dubbio che il prescelto del Coraggio fosse legato ad entrambe, ma quali erano le sue intenzioni?
Scosse energicamente la testa: aveva già combinato abbastanza guai, meglio tenersi alla larga da simili questioni.

Intanto Sora era appena rientrata a casa, ancora scossa. Non riusciva a credere che Yamato si fosse comportato in quel modo, ma d’altro canto non poteva certo ignorare le lacrime dell’amica. Le aveva fatto piacere che la ragazza si fosse confidata con lei, ma non poteva fare a meno di sentirsi ferita. Che gioco stava giocando Yamato?
Si chiuse nella sua stanza e si sedette alla scrivania, cercando di riordinare le idee. Tuttavia la situazione non cambiava. Cosa avrebbe dovuto fare? Come avrebbe dovuto comportarsi con il cantante? Fino ad allora era stata certa dei suoi sentimenti per lui, anche se non sempre era stata sicura di essere pienamente corrisposta. Ora non aveva più garanzie di alcun tipo.
La cosa strana era che non ce l’aveva né con Rumiko né con Yamato, bensì con se stessa. Si sentiva una sciocca sentimentale, per essersi illusa fino a quel punto. In fondo erano stati in molti ad apparire scettici di fronte alla sua relazione. E come poteva essere altrimenti? Lui era bello, famoso e pieno di ammiratrici, mentre era così… normale. Carina, simpatica, gentile, abbastanza brava negli sport e intelligente… ma nulla di più. Tutte caratteristiche assolutamente comuni.

“ E dire che sono la prescelta dell’Amore…”
Non era colpa di Yamato se si sentiva attratto da un’altra ragazza, né di Rumiko se lui si era innamorato di lei. L’amica le aveva spiegato che il cantante si era invaghito della sua vecchia persona, ormai inesistente, ma Sora temeva che non fosse del tutto vero. Aveva notato come lui la guardava ed era più che sicura che stesse guardando la Rumiko del presente. Solo che fino a quel momento non aveva mai voluto ammettere l’evidenza: tra quei due non c’era posto per lei.
Si infilò sotto le coperte ancora vestita e si addormentò prima di cena. Le era salita la febbre.

 


Continua…

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Capitolo 8
*** - ***


Capitolo 8

 

Il giorno dopo le due ragazze non si presentarono a scuola. Yamato continuava a lanciare occhiate indecifrabili ai loro banchi, ma il prescelto capì che non avrebbe agito in alcun modo. Ora che aveva imparato la lezione sarebbe stato alla larga da entrambe per qualche tempo cosa che, probabilmente, era la scelta migliore.

“E io come dovrei comportarmi?”

Taichi sospirò sconsolato. Temeva che Sora fosse venuta a sapere dell’accaduto, ma d’altro canto non poteva certo abbandonare Rumiko, dato che lei non aveva alcuna colpa. Anzi, si era comportata correttamente nei confronti dell’amica, rifiutando le avance.

“Che situazione assurda! Il mio migliore amico per poco non ha tradito la mia migliore amica per una ragazza cui tengo moltissimo… Rimanere neutrale già so che sarà impossibile, ma da che parte dovrei schierarmi? Qui sembra che sia l’unico a non aver ancora perso la testa!“

Riesaminò la situazione. Al momento il pericolo più grande era rappresentato da Sora, che poteva esser indotta a prendersela con l’amica e rovinare quel rapporto che avevano appena instaurato e a cui Rumiko teneva sicuramente, tant’è che per difenderlo aveva allontanato con decisione il ragazzo.

Ed ecco che si presentava un’altra gatta da pelare: in un colpo solo Yamato aveva rovinato non solo la sua relazione con la fidanzata e l’amicizia con Rumiko, ma pure incrinato il legame tra le due ragazze.

“Complimenti, amico, si può dire che hai preso due piccioni con una fava!“ pensò serrando i pugni, ma subito recuperò il controllo.

Era inutile accanirsi contro di lui: ormai il danno era stato fatto e bisognava impegnarsi per porvi rimedio. E poi sapeva di non essere in grado di portargli a lungo rancore: in fondo era stato il biondo a trarlo d’impiccio in molte occasioni e ora toccava a lui. Yamato era pieno di difetti e bisognava riconoscere che negli ultimi tempi li aveva messi in luce uno per uno, ma, come si dice: una volta toccato il fondo, non si può far altro che risalire.

Dunque il suo piano era il seguente: recarsi da Sora per accertarsi del suo stato e metterla al corrente della situazione. Poi far una visitina a Rumiko e cercare di tirarle su il morale, che di sicuro ora si trovava sotto terra. Farle incontrare per riappacificarle e infine mettere una buona parola per Yamato, che nel frattempo avrebbe macerato il tempo necessario a tornare in sé.

Sospirando sconsolato, pensò che non sarebbe stata una passeggiata.

 

Alle tre di pomeriggio Rumiko era sotto il getto caldo della doccia. L’acqua le scorreva sulla pelle candida, scivolando lungo il suo corpo in tanti rigagnoli che si ricongiungevano sulle gambe. Espose anche il viso al getto d’acqua. Sentì la stanchezza e lo stress di tanti giorni sciogliersi e fluire via. Però un peso continuava ad opprimerle il petto.

Sapeva bene di cosa, o meglio di chi, si trattasse: Sora. La sera precedente le aveva raccontato tutto, ma vedendola uscire così turbata, si era ripromessa di telefonarle. Però quando, due ore dopo che si erano lasciate, aveva tentato di parlarle, la madre aveva spiegato che la figlia non si sentiva bene e che il giorno dopo non sarebbe andata a scuola.

Il giorno seguente aveva nuovamente tentato di mettersi in contatto con lei, ma senza risultato. Le aveva inviato delle mail sul cellulare e lasciato decine di messaggi nella segreteria telefonica di casa. Tuttavia la rossa non aveva risposto una sola volta.

Ora Rumiko si pentiva di averla chiamata la sera prima e averle confidato tutto con tale leggerezza. Se non l’avesse fatto, avrebbe avuto ancora un’amica cui rivolgersi. Non ce l’aveva con lei per quel silenzio, piuttosto con se stessa per essere stata tanto ingenua: si era confidata con la persona sbagliata. Come poteva biasimarla? Tutto d’un tratto aveva visto la sua relazione perfetta incrinarsi, e per di più a causa della persona con cui si era appena dimostrata tanto gentile.

Sora si era sentita tradita e aveva tutto il diritto di non rivolgerle più la parola.

Con un moto di amarezza inaspettata, Rumiko si era accorta che le mancava. E al pensiero di non vedere più quei dolci sorrisi a lei rivolti, quei capelli rossi che si sposavano tanto bene con l’azzurro del golfino e quegli occhi d’ambra, le si strinse il cuore. Dentro di sé sapeva bene il perché si fosse tanto legata a quella ragazza: sentiva il bisogno di avere vicino una figura femminile. Da quando aveva fatto la conoscenza di quel gruppo, infatti, si era pian piano accorta che la presenza del padre non le era più sufficiente. Aveva bisogno di potersi confidare con altre persone, di aprire liberamente il proprio cuore, di essere accettata.

Ma oramai cosa poteva fare? Sora si era allontanata da lei, forse per sempre, Taichi l’avrebbe di sicuro seguita a ruota e Yamato…

Scosse vigorosamente il capo, spargendo innumerevoli goccioline contro i vetri della doccia. Con lui non voleva più avere niente a che fare. Lei gli aveva permesso di avvicinarsi, di conoscerla e lui… lui l’aveva rifiutata, tradendo la sua fiducia. Da quando si erano conosciuti non aveva fatto altro che ferirla.

“Però ora basta!”

Non gli avrebbe più permesso di giocare con i suoi sentimenti. Ma, allora, chi gli rimaneva? Di chi si poteva ancora fidare?

Il citofono suonò.

 

Intanto Taichi si trovava davanti a casa Takenouchi. Suonò il campanello. Non ottenne risposta. Tentò ancora. Niente. Di nuovo. Nulla. Ancora, ancora e ancora. Nada. Esasperato, incominciò una sottospecie di sinfonia, fatta di trilli lunghi e corti alternati, un gioco che faceva sempre da piccolo.

-          Non hai ancora capito che…! –

Sora aveva spalancato la porta di scatto, facendo sobbalzare il ragazzo.

-          Cos’è che non ho capito? –

-          Niente, pensavo fossi un’altra persona… - abbassò il tono di voce.

-          E chi è lo sfortunato? – tentò di scherzare.

-          Nessuno. –

-          D’accordo – non insistette – mi fai entrare? –

-          Ehm, si, certo. –

Si sedettero in salotto e la ragazza preparò il tè. In attesa che il liquido bollente si raffreddasse, Taichi si guardò un attimo attorno e il suo sguardo cadde sul telefono, che era stato posizionato vicino al divano. Sporgendosi un poco notò che nella segreteria erano stati lasciati… 23 messaggi?!

“Ma che significa? “ si chiese subito.

Bastava lanciare un’occhiata al salotto per capire che la rossa vi aveva trascorso l’intera mattinata. Dunque perché non aveva risposto? Può capitare di trovarsi in bagno e non poter sollevare la cornetta… ma 23 messaggi? O aveva un attacco di diarrea oppure…

Si assicurò che l’amica fosse voltata e pigiò un tasto. Sul piccolo schermo comparvero i numeri che avevano registrato i messaggi nella segreteria. O meglio il numero, poiché sotto i suoi occhi nocciola sfilavano sempre le stesse cifre. Non ricordava a chi appartenesse, ma poi guardò l’ora delle chiamate: tutte di mattina, durante l’orario lavorativo.

Sora tornò nel soggiorno con un vassoio di biscotti e l’appoggiò sul tavolino davanti al divano. Poi si sedette accanto al ragazzo. Solo allora si accorse delle scritte che lampeggiavano sul piccolo schermo del telefono.

Lui la guardò dritta negli occhi, indecifrabile. Per la prima volta da quando si erano incontrati, la ragazza temette di non conoscere quello sguardo. Non riuscendo a reggere quella situazione, Sora decise di dire qualcosa, qualsiasi cosa.

-          Com’è andata oggi a scuola? –

-          Bene, c’erano solo due assenti. –

-          Ah sì? – cominciò ad abbassare lo sguardo.

-          Sì, tu e Rumiko. –

-          Oh, può darsi che non si sia ancora ristabilita… -

-          Può darsi? Pensavo che ne sapessi qualcosa di più. – disse, duro.

Lei cominciò a studiarsi le pantofole. Erano morbide e azzurre, un colore che a quanto dicevano le stava molto bene.

-          Cos’è successo? –

-          Niente. –

-          Ho chiesto: cos’è successo? – scandì lui.

Quelle ciabatte erano indubbiamente le sue preferite, perché le tenevano i piedi caldi anche d’inverno.

-          Per favore, rispondimi. –

Peccato per quel buchino che si stava allargando all’altezza dell’alluce…

-          SORA! –

-          YAMATO MI HA TRADITA! – esplose, mentre calde lacrime le scorrevano lungo le guance.

Taichi le circondò le spalle con un braccio e lei si abbandonò ad un pianto liberatorio, confortata dal calore del suo petto.

 

-          Ciao, mi hanno detto che hai tagliato! –

Rumiko era uscita dalla doccia in tutta fretta, avvolgendosi un asciugamano attorno al corpo alla bel e meglio, rischiando di inciampare mentre si infilava le pantofole e precipitandosi ad aprire la porta. Ora si trovava sulla soglia di casa, i capelli che gocciolavano ovunque.

-          Ah, sei tu, Daisuke. – sbuffò, delusa.

Aveva sperato che si trattasse di Sora.

-          Ehi, io vengo a trovarti e tu mi accogli con un “ah, sei tu”? –

-          Ti ha mandato Taichi? –

-          No, sono qui di mia spontanea volontà e non mi dispiacerebbe entrare! – esclamò lui, risentito.

-          Certo, entra pure. –

-          Allora, come mai hai tagliato? – volle sapere.

-          Ehi, prima piombi in casa mia come se nulla fosse e mi fai correre alla porta bagnata fradicia e ora vuoi anche sapere i fatti miei? –

-          Scusa, scusa, come non detto! Ehm, comunque… se vuoi… puoi anche andare a vestirti… - arrossì un poco.

-          Certo che voglio e ci vado subito! Tu aspetta qui, razza di terremoto umano. – e si richiuse la porta del bagno alle spalle.

Dopo un quarto d’ora lo raggiunse in salotto, vestita e asciutta. A quanto pareva non c’era stato bisogno di dirgli di fare come se fosse a casa sua, visto che aveva già acceso la TV e stava stravaccato sul tappeto. Lei si sedette sulla poltrona vicino a lui. Certo che sembrava davvero un altro mentre era concentrato su una partita.

-          È un incontro importante? –

-          No, solo un’eliminatoria. –

-          Non sono squadre di serie B? –

-          Sì, ma non giocano malaccio… E tu come facevi a saperlo? – si volse a guardarla.

-          Spesso la domenica io e mio padre guardiamo le partite alla TV. Sono anche stata allo stadio qualche volta. –

-          Ti piace il calcio? –

-          Non è la mia passione, ma non mi dispiace. – si strinse nelle spalle.

-          E qual è la tua passione? –

-          Nessuna. –

-          Non c’è niente che ti piaccia tanto? –

-          Nulla in particolare. Non ho mai avuto bisogno di un hobby o cose simili. –

-          E cosa fai nel tempo libero? –

-          Leggo, ascolto musica, guardo un film… -

-          E non fai shopping? – sgranò gli occhi lui.

-          Non molto. –

-          Male, molto male! – la rimproverò severamente – Tutte le ragazze devono fare shopping! –

-          Non se non hai nessuno con cui girare per la città… – disse con un briciolo di amarezza, tornando agli ultimi eventi.

Daisuke parve pensarci un attimo e poi sorrise.

-          Allora perché non ci andiamo insieme? –

-          Come? –

-          Ma sì, tu e io! Vedrai che ci divertiremo! –

-          Non saprei, sono appena stata male… -

-          Non fare la nonnetta! Avevi solo un raffreddore, perciò non morirai di certo! –

-          È che non mi va di uscire al freddo… -

-          E dai, prendilo come un appuntamento! –

-          Questo non mi aiuta. –

-          Non fare la timida, lo so che non vedi l’ora di passare un bel pomeriggio con me. –

Rumiko lo guardò sconvolta: il ragazzo sembrava davvero convinto delle sue parole. Le venne da ridere e accennò un sorriso.

-          D’accordo, mi hai convinta. Aspetta che mi preparo. –

-          Fatti bella, mi raccomando! –

Lei gli fece la linguaccia: Daisuke sembrava aver preso gusto al ruolo dell’accompagnatore.

 

-          Ti senti meglio? –

-          Sì, grazie Tai. E scusa se ti ho bagnato la felpa. –

-          È stato un piacere! – le sorrise.

Insieme alle lacrime erano sgorgate anche le parole e ora la ragazza si sentiva più tranquilla, stretta nell’abbraccio del bruno. Improvvisamente, accortasi della situazione imbarazzante, si scostò, leggermente rossa in viso. Ma lui non vi badò e il suo sguardo nocciola si fece di nuovo pensieroso.

-          Sora, mi dispiace per quel che ha fatto Yamato. Dico sul serio. Ma ciò non toglie che sei stata molto scorretta nei confronti di Rumiko. –

Lei abbassò lo sguardo, colpita dalla verità di quelle parole. Non sembrava dispiaciuto, bensì deluso e amareggiato.

-          Lei ti ha raccontato come sono andate le cose, ha avuto fiducia nel tuo perdono… -

-          Non ce l’ho con lei. –

-          E allora perché non hai risposto alle sue chiamate? –

-          È che… non me la sentivo. –

-          Lo capisco, ma lei… -

-          Lei, lei, lei… sempre e solo lei! –

-          Sora? –

-          Ah, adesso però c’è anche Sora? –

-          Ma che ti prende? –

-          Mi prende che sono stufa marcia di tutto questo! Io sono buona e gentile con tutti e per risposta vengo presa a pesci in faccia! –

-          Rumiko non intendeva… -

-          LO SO! Ti ho già spiegato che non ce l’ho con lei! –

-          E allora con chi? –

-          Con voi ! -

-          Ti riferisci a me e Yamato? – chiese stupito.

-          Esatto, proprio a voi due! Uno mi tradisce con la mia amica e l’altro mi tratta come una scema! –

-          Lo sai che non è vero. Non ti ho mai trattata come una scema. –

-          Le tue continue attenzioni, anche il fatto che ora sei qui. Cos’è, pensi che non posso farcela da sola?! Beh, eccoti una notizia: ho diciotto anni, sono adulta e vaccinata e non ho bisogno di una balia! È umiliante! –

-          Ma abbiamo sempre… -

-          Svegliati, Tai! La gente cambia e cresce ! Io sono cresciuta ! E anche tu sarebbe ora che ti decidessi a crescere, Peter Pan! –

Scese un pesante silenzio.

-          Aspetterò che ti passi. – disse infine lui.

-          No, Tai, non mi passerà. –

-          Io non sono cambiato e non penso che lo farò mai. Perciò se ti venisse voglia di parlare con un vecchio amico, saprai dove trovarmi. – e uscì.

-          Ti sbagli, anche tu sei cresciuto. – sussurrò tra sé, una volta rimasta sola – Devi solo accettarlo. –

 

Era pomeriggio inoltrato e le strade del centro cominciavano ad essere affollate a causa delle compere di Natale, a cui mancavano solo due settimane. Eppure, nonostante la folla radunata davanti alle vetrine illuminate, Daisuke sembrava più entusiasta che mai. Ogni volta che intravedeva un bel vestito, trascinava l’amica nel negozio per farglielo provare.

All’inizio Rumiko aveva protestato energicamente, ma poi era stata contagiata dalla sua allegria. Ora passeggiava insieme al ragazzo, lasciandosi trascinare per la città.

-          Uao! Quello è proprio carino! Forza, provatelo! – e la spinse nell’ennesimo negozio – Signorina, vorremmo vedere quello nero in vetrina, per favore! –

Rumiko si chiuse la tendina del camerino alle spalle e indossò l’abito. Lanciò uno sguardo allo specchio e constatò che non era male: semplice e con le maniche a tre quarti, un po’ più aderente sul punto vita. Il materiale era morbido al tatto e scendeva liscio lungo i fianchi, fino alle ginocchia, con un piccolo spacco laterale.

Appena Daisuke la vide cominciò a girarle attorno, studiandola, come se qualcosa non gli andasse a genio.

-          Oh, ma le sta benissimo, signorina! Lo sa che ha proprio un bel fisico? – squittì subito la commessa.

-          Grazie. –

-          Dico sul serio! Il suo ragazzo è proprio fortunato! –

-          La ringrazio, ma noi non… -

-          Siete una coppia davvero carina! –

Rumiko non le rispose neppure, sapendo che presto avrebbe perso le staffe. Cominciava ad averne davvero abbastanza di quella trentenne petulante, che non voleva saperne di farsi i fatti suoi.

-          Ti sta molto bene, ma è troppo… scuro. – sancì alla fine il giovane.

-          Per forza, è nero! – sbottò lei.

-          È tempo di festa e il nero non mi è mai piaciuto! – sentenziò – Signorina, non è che lo avete anche di altri colori? –

-          Ma sì, certo! Mi segua che glieli faccio vedere! –

-          Tu resta qui, torno subito. – e si allontanò con la donna.

Dopo pochi minuti furono di ritorno e sul volto di Daisuke compariva un sorriso soddisfatto.

-          Questo ti starà d’incanto! – e le porse il vestito.

Lei distolse lo sguardo.

-          No. –

-          Dai, provalo, sono sicuro che ti starà benissimo! –

-          Non voglio, non mi piace. –

-          Però se lo provi… -

-          Su, non faccia i capricci! – si intromise la commessa di prima.

-          Ho detto che non voglio e non lo proverò. –

-          Dai, che il suo ragazzo ci rimarrà male! –

-          Non è il mio ragazzo. –

-          Ah, no? Beh, però sarebbe un peccato non provarlo neanche, non le pare? –

-          Decisamente no! –

-          Ma perché si ostina a… -

-          PERCHÉ É AZZURRO! –

-          Rumi… - le si avvicinò Daisuke, mentre la trentenne faceva un passo indietro sconvolta.

-          Ho litigato con Sora. –

-          Come? –

-          Ho litigato con Sora – ripeté – e l’azzurro è il suo colore. Non voglio… prendere qualcosa di suo, capisci? Non sarebbe giusto, le sta così bene… oh, ma che sto dicendo?! –

-          Senti, per il momento la cosa migliore è uscire di qua e andare a mettere qualcosa sotto i denti. –

-          Come? –

-          A me aiuta sempre! – si strinse nelle spalle.

Lei accennò un sorriso e andò a cambiarsi. Poi andarono a rifocillarsi.

 

-          E così avete litigato, eh? –

-          Già. –

Rumiko aveva ordinato una fetta di torta e un cappuccino, mentre Daisuke si era servito un vero e proprio pasto, sotto gli occhi stupefatti di lei. Come diavolo faceva ad ingozzarsi in quel modo alle 6 di sera?!

-          Il motivo? –

-          Diciamo che ho fatto una cosa che non avrei dovuto fare… -

-          Che tipo di cosa? –

-          Le ho praticamente rubato una cosa… anche se involontariamente. –

-          Le hai fregato qualcosa senza accorgertene? –

-          No, non gliel’ho rubata. L’ho attirata involontariamente e me ne sono accorta troppo tardi. –

-          Vai avanti. –

-          In quel momento ho pensato che non fosse giusto nei suoi confronti e così… -

-          Hai rifiutato questa… cosa. –

-          Esatto. Solo che poi mi sentivo… -

-          Uno schifo. -

-          Sì e non sapendo che fare… -

-          Gliel’hai detto. –

-          Ma che ti sto a raccontare se sai già tutto?! – scattò lei, nervosa.

-          In realtà non ne so nulla, te lo posso assicurare! Sono solo andato per intuizione! – si giustificò in fretta.

-          D’accordo, comunque ora lei lo sa e temo ci sia rimasta molto male. –

-          Come lo sai? –

-          Ieri sera ho tentato di chiamarla, ma la madre mi ha detto che le era salita la febbre e che non sarebbe andata a scuola. –

-          Brutto segno: lei non è mai assente. – commentò, per ricevere un’occhiata storta.

-          Grazie, così sì che mi aiuti! In ogni caso ho tentato di chiamarla, questa mattina. Le ho scritto delle mail sul cellulare e le ho lasciato ben 23 messaggi sulla segreteria di casa… –

-          Ma lei non ti ha richiamata. –

-          Esatto. È evidente che mi detesta e non posso certo darle torto, però… mi manca. –

-          E allora dove sta il problema? –

-          Come, dove sta il problema ?! Se ti ho appena finito di dire che…! –

-          Se le sei legata devi insistere, mi pare ovvio! Non vorrai gettare la spugna dopo il primo giorno, no? –

-          Sì, ma… -

-          Niente ma! È inutile stare a piangersi addosso! –

-          Non mi sto piangendo addosso! Sono solo realista… –

-          Non mi pare proprio. –

-          Che vorresti dire? –

-          Se ci è rimasta tanto male, è ovvio che le serva un po’ di tempo. Non so di voi altri, ma a me è stato insegnato che, quando un amico è in difficoltà, non lo si può abbandonare. –

-          Dici che dovrei riprovare? –

-          Ma certo! Invitala ad uscire, sono sicuro che le farà bene! –

-          E come fai a sapere che accetterà? –

-          Esperienza… - sorrise, esibendo un’aria saggia da persona vissuta.

Rumiko sorrise.

-          Va bene, ma ora non darti tante arie! –

-          Uffa, non posso mai godermi il mio momento di gloria! –

-          Non fare la vittima, o non ti permetterò mai più di trascinarmi per negozi. –

-          Vuoi dire che mi concedi un altro appuntamento? –

-          In fondo mi diverto a girare con te, perciò… -

-          Potremo passeggiare mano nella mano? –

-          No. –

-          Perché no? – piagnucolò lui.

-          Perché sei troppo piccolo per me e non voglio che la gente pensi che sono disperata. –

-          Ma la commessa diceva… -

-          Lascia perdere quella. –

-          Perché? A me stava simpatica! –

-          Solo perché continuava a farti complimenti. –

-          Non tutti me li fanno! Perché dovete togliermi i piccoli attimi di felicità? –

L’altra represse un risolino alla vista della sua espressione. Senza neanche accorgersene, quel pomeriggio era passato in fretta.

 

Una moto si allontanò dalla vetrata del bar. Il conducente nascosto dal casco era pensieroso. Aveva notato la coppia seduta al tavolino e si era accostato senza dare nell’occhio. Non poteva sentire la conversazione a causa del vetro, ma era stato attento alle loro espressioni. In particolare a quelle di lei.

L’aveva vista titubante, poi arrabbiata, sorpresa e un po’ scettica, sorridente, finta indifferente e infine mal celatamente allegra. Tutte manifestazioni che prima vedeva tutti i giorni e che ora osservava furtivamente. Al pensiero provò una fitta dolorosa al petto, ma la represse subito: non era più affar suo. L’aveva già fatta soffrire abbastanza, non era il caso di turbarla ancora.

Si fermò al semaforo rosso. Negli ultimi giorni aveva cominciato a capire qualcosa che solo dopo l’ultima litigata aveva potuto accertare: lei era fragile. Fingeva di esser forte, insofferente alle parole degli altri, sicura di sé e indipendente, ma in realtà non lo era affatto. Il suo spirito era delicato come vetro e rischiava di frantumarsi. Lui era quasi riuscito a spezzarla. Però non avrebbe rinunciato a guardarla, seppur da lontano. Perché lei era… bella. Quella sua fragilità la rendeva unica e… maledettamente bella. Quel gioco di luci e ombre celato nelle iridi viola lo attraevano, come una falena anelava alla fiamma di una lanterna.

Lentamente, nel suo cuore si faceva strada la consapevolezza che, per quanto si fosse ostinato, non avrebbe mai potuto opporsi al magnetismo che lei esercitava su di lui. Quel sentimento l’aveva colto di sorpresa e faticava a riconoscerlo, ma non dubitava che presto sarebbe riuscito a far chiarezza in se stesso. E, chissà, magari allora sarebbe stato pronto ad aiutarla sul serio, se lei ne avesse avuto bisogno.

La moto ripartì a tutta velocità: era scattato il verde, un brillante verde speranza.

 

 

 

Continua…

 

 

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Capitolo 9
*** - ***


Capitolo 9

 

Quella sera stessa Sora ricevette una mail sul cellulare e questa volta decise di leggerla.
“Conosco un posticino tranquillo non troppo lontano dalla scuola. Una mia amica ha detto che ci fanno delle ottime cioccolate calde. Se ti va un po’ di compagnia, alle 19.00 io sarò lì. Rumiko.“
Senza perder tempo afferrò il cappotto e uscì di casa.

-      Ciao. –

-      Ciao. Sono felice che tu sia venuta. –

-      Anch’io. –

La rossa si sfilò il cappotto e l’appoggiò ad una sedia vicina. Erano sedute allo stesso tavolo dell’altra volta. Entrambe stringevano le tazze fumanti tra le mani arrossate, nel tentativo di scaldarsele.

-      Mi dispiace. – esordì Sora.

L’altra non disse nulla, limitandosi a guardarla.

-      Non avrei dovuto evitarti in quel modo. Tu mi hai parlato col cuore, ti sei confidata nella speranza di ricevere sostegno, non di essere abbandonata. Mi spiace davvero. –

-      Non devi, dico sul serio. Anch’io avrei dovuto capire quanto la cosa ti avesse scioccata. Sono stata egoista: invece che lasciarti del tempo per riflettere, ti sono stata col fiato sul collo. –

-      No, non sei stata egoista. Ti sei solo preoccupata per me. Le tue attenzioni mi hanno fatto piacere. –

-      Hai… hai parlato con lui ? –

-      No – sospirò – ma presto lo farò. Ho deciso di lasciarlo. –

-      Non voglio che la vostra relazione finisca a causa mia. –

-      Non è colpa tua. Quello che è successo ieri mi ha solo aperto gli occhi. Vedi, quando sono tornata a casa ci ho pensato e ho capito che… non ci ero rimasta tanto male perché Yamato mi aveva tradita, ma per il semplice fatto di esser stata tradita. Non sopportavo di esser stata presa in giro in quel modo, di esser stata rifiutata in quel modo… -

-      Non… -

-      Aspetta, lasciami finire, per favore. Mi sentivo abbattuta, ma poi è subentrata la rabbia. In quel momento non ce l’avevo né con te, né con lui, bensì con me stessa, proprio per essermi lasciata andare in quel modo.. Insomma, si tratterà pur sempre di un ragazzo, ma è solo un ragazzo! Mi ero fatta dominare da quella situazione piatta, continuavo a farmi cullare dalla sicurezza di quel rapporto, che “rapporto” non era più. –

-      Vuoi dire che non provi più nulla per lui? –

-      Gli voglio ancora bene, si capisce, ma come amico… La nostra relazione non aveva più senso perché non avevamo più nulla da dirci, nulla da fare… ci eravamo così abituati a stare insieme, che eravamo diventati ciechi a tutto il resto. Quando l’ho capito ho deciso che avremmo fatto meglio a lasciarci. –

-      Ti piace qualcun altro? –

-      No, non penso. –

-      E Taichi? Lui tiene molto a te. – disse senza malizia.

-      Lo so e anche io gli voglio molto bene, ma… oggi è venuto a casa mia. –

-      Ed è successo qualcosa? –

-      Abbiamo litigato. –

-      Avete litigato?! –

-      Già, o meglio io ho litigato e lui ha accusato ogni colpo con pazienza. –

-      Cosa gli hai detto? –

-      Che avevo aperto finalmente gli occhi e che anche lui avrebbe dovuto farlo. –

-      A proposito di cosa? –

-      Di… di lui, della propria vita. Taichi è rimasto un bambino e sembra intenzionato a non voler crescere. –

-      La sindrome di Peter Pan. –

-      Esatto. Ho cercato di fargli capire che le persone cambiano e che anche lui era cambiato. –

-      E Taichi cos’ha detto? –

-      Che lui non sarebbe mai cambiato e che, se volevo parlare con un vecchio amico, avrei potuto rivolgermi a lui. –

Rumiko parve riflettere un attimo.

-      Ho capito. – disse poi – Ma sei sicura di ciò che gli hai detto? –

-      In che senso? –

-      Lui è di sicuro cresciuto, su questo non ci sono dubbi. Tutti prima o poi si sviluppano. Però la trasformazione può essere più o meno evidente, non trovi? Crescere non vuol dire per forza cambiare e Taichi l’ha capito, forse meglio di noi. Probabilmente lui è molto più maturo di quanto tu possa pensare. Tanto maturo da aver volontariamente deciso di non cambiare interiormente. –

-      Ma perché non dovrebbe? –

-      E perché sì? Alla gente lui piace così com’è e se questa sua condizione gli permette di aiutare gli altri e di essere al contempo onesto con se stesso… -

-      Forse hai ragione tu, ma sta di fatto che avevo bisogno di una pausa. È sempre stato così premuroso nei miei riguardi, così presente in ogni momento… -

-      Che hai avuto bisogno di stare un po’ per conto tuo. –

La rossa annuì e Rumiko le sorrise.

-      Ti capisco, sai? Questi uomini vogliono fare tanto i protettivi, ma dopo un po’ diventano assillanti. – le strizzò un occhio con fare complice.

-      Secondo me hanno quasi bisogno di starci addosso in questo modo. Pensano di essere indispensabili! – scherzò Sora.

-      E poi finiamo noi a far loro da balie! – sospirò l’altra.

Sora rise e le afferrò una mano.

-      Sono felice di poter di nuovo parlare con te. Non avrei mai permesso ad un ragazzo di dividermi dalla mia nuova amica. –

-      Grazie, anch’io ne sono felice. –

-      Per un po’ niente più uomini. –

Era il 13 di Dicembre, una data che segnò l’inizio di una lunga serie di cambiamenti. Quel giorno Rumiko e Sora si presentarono a scuola insieme, cosa che non passò inosservata agli studenti dell’istituto. Si sa, infatti, che le voci circolano in fretta, specialmente se si tratta di un idolo delle teenagers: secondo i pettegolezzi il biondino aveva tradito la rossa con la vicina. Cos’era successo poi era un mistero, si sapeva solo che nessuna delle due si era presentata alle lezioni il giorno seguente, cosa che aveva alimentato le voci di corridoio.
Quando le ragazze attraversarono il cancello principale, si ritrovarono alcune centinaia di occhi curiosi puntati addosso.
“Che schifo di situazione!” sbuffò Rumiko, una volta raggiunto il proprio banco.

-      Mi dispiace. – le sussurrò la rossa – Le voce peggiori sono tutte rivolte a te. –

-      Lo so. Non che me ne importi qualcosa di quel che pensano questo branco di pettegoli, ma non mi piace che mi si sparli alle spalle… mentre sono in ascolto. –

-      Vedrai, presto questa storia verrà archiviata. – cercò di tirarla su di morale.

-      Lo spero proprio. – poi si volse a guardarla negli occhi – Ma non sentirti obbligata a fare quella cosa per me, chiaro? –

-      Non ti preoccupare, l’avrei fatto comunque. –

-      E… quando? Quando glielo dirai? –

-      Al primo intervallo lo prenderò da parte. –

-      Ho capito… -

-      Non ti sentirai ancora in colpa, vero? –

-      No, tranquilla. –

Ma sapeva di non esser totalmente sincera.

Yamato era rimasto un attimo sorpreso nel ritrovarsele davanti così… allegre. Conversavano tranquillamente, come due buone amiche. Poi lo stupore aveva lasciato il posto ad un sorriso. D’altronde che altro avrebbe potuto aspettarsi da una ragazza come Sora? Non per niente era la prescelta dell’Amore! Sembrava quasi che le due ragazze fossero più vicine di prima e la cosa non poteva che fargli piacere. Ma non si faceva illusioni sul futuro che avrebbe avuto il suo legame con le due ragazze. Bastava ascoltare le voci di corridoio.

Non gli importava delle insinuazioni sul suo conto, ma non sopportava che le due diciottenni venissero beffeggiate: Sora era considerata una “povera sfigata” e Rumiko una “rovina-famiglie” e pure peggio.
Al solo udire quelle parole, aveva sentito la rabbia montargli dentro e aveva dovuto fare appello a tutto il suo autocontrollo per riuscire a contenerla. La colpa di tutto ciò era solo ed esclusivamente sua, perciò si era ripromesso di porvi rimedio al più presto. Non sapeva ancora come, ma avrebbe trovato il modo di farsi perdonare.

Accanto al cantante sedeva Taichi, anche lui pensieroso. A quanto pareva Sora e Rumiko si erano riappacificate e il loro rapporto sembrava più profondo che mai. Il giorno prima era passato a casa Kitamura ma non aveva trovato nessuno: a quanto pareva la ragazza era uscita. Poi era venuto a sapere dalla sorella che Daisuke l’aveva preceduto, con l’intento di portare l’amica a fare un giro. Subito si era preoccupato: ci mancava solo che quel casinista ci si mettesse in mezzo a far precipitare del tutto la situazione! Poi aveva sollevato le spalle sconfitto: infondo le cose non potevano degenerare più di così!
Tuttavia quella mattina si era dovuto ricredere. Ovviamente non poteva essere sicuro che si trattasse dell’operato del ragazzo, ma stava di fatto che le due giovani si erano riappacificate e che stavano chiacchierando come non avevano mai fatto.
“Forse non tutto il mal vien per nuocere!” pensò speranzoso. Ma gli bastò voltarsi verso il suo compagno per ricordarsi che c’erano ancora delle cose in sospeso che andavano chiarite.

Finalmente suonò il tanto atteso intervallo e Rumiko lanciò una rapida occhiata alla compagna. Sora sembrava tranquilla e le sorrise dolcemente, allentando un po’ la sua tensione. Possibile che fosse lei a sentirsi agitata?! Il pensiero la spinse a serrare la mascella stizzita.
Non si voltò neanche quando l’amica si alzò e si avvicinò al biondo. Solo quando uscirono dall’aula si azzardò a guardarli con la coda dell’occhio. Fu allora che incrociò un identico sguardo nocciola.

Erano in terrazza e, dopo essersi accertati di non avere ascoltatori indesiderati, Yamato si sedette a terra, appoggiando la schiena contro la cancellata di sicurezza. Non guardava lei, in piedi davanti a lui. I suoi occhi celesti scrutavano il cielo lontano, come se vi potesse scorgere qualcosa di inaspettato.
Sora si sedette accanto a lui e sospirò.

-      Hai sempre guardato il cielo con quello sguardo, come a frugarlo in cerca di qualcosa. E mi sono sempre chiesta cosa fosse quel qualcosa. Sai, ne sono sempre stata un po’ gelosa. –

-      Di cosa? –

-      Del tuo cielo. Del tuo mondo. –

Silenzio.

-      Mi dispiace. – sbiascicò lui, grattandosi il capo imbarazzato.

-      No, tu sei fatto così. In fondo questo tuo lato enigmatico mi piaceva. – gli sorrise.

-      Ti piaceva? –

-      Mi piace ancora, ma ho capito che non mi basta. Vedi, tu sei sempre stato così assorto… però sapevo che non ero io l’oggetto dei tuoi pensieri. E io merito di più. Merito un ragazzo che pensi a me costantemente, che mi sussurri frasi dolci, che mi coccoli, che mi porti a vedere il tramonto in riva alla spiaggia… –

-      Io non credo di esser fatto per queste cose… –

-      Lo so. E so che possono sembrarti sciocchezze per gente sdolcinata, ma è ciò che vorrei dal mio ragazzo. –

-      Perciò hai deciso di lasciarmi per cercare il tuo principe azzurro, giusto? –

-      Sì. – pausa – Quattro anni fa ero convinta di averlo trovato in te. Ma mi sbagliavo. Tu sei un bravo ragazzo, gentile e pieno di riguardi verso le persone a te più importanti, onesto con tutti… -

-      Non mi pare di esserlo stato, negli ultimi tempi. – fece con amarezza.

-      Non sono arrabbiata con te, se è questo che pensi, o almeno non più. In fondo era inevitabile che prima o poi succedesse. Potevi essere tu come potevo esserlo io. –

-      No, tu non l’avresti mai fatto. –

-      Avete tutti un’opinione troppo alta di me! – sorrise divertita – Guardate che sono anch’io un essere umano, soggetto alle leggi della natura! –

-      Ed è naturale tradire la propria ragazza? –

-      Yamato, - disse dolcemente – la natura ci insegna che non si può comandare i sentimenti. E te lo dice una prescelta dell’Amore! –

Ancora silenzio.

-      La verità è che pensi sempre agli altri prima che a te stessa. Anche ora, sei disposta a perdonarmi nonostante abbia fatto una cosa orribile! –

-      È così orribile ciò che hai fatto? In fondo il tuo scopo non era ferirmi e umiliarmi… -

-      …Come sono riuscito a fare comunque! – sbottò lui.

-      Seguire il proprio cuore non può essere un crimine. – proseguì senza dar peso alle sue parole – E se lo fosse, penso che dovrebbero macchiarsene molte persone. –

-      Non so cosa ho seguito io, ma di sicuro non dovevo farlo. –

-      Hai solo fatto un errore… non vorrai abbatterti per così poco! –

-      Però le ho detto delle cose terribili, l’ho giudicata senza averne alcun diritto. Lei si è fidata di me e io l’ho rifiutata. Ho persino cercato di cambiarla, ti rendi conto?! Ho tentato di farla tornare la persona che era, quando è evidente che lei non ne avesse la minima intenzione! –

-      Yamato… -

-      Da quando l’ho conosciuta non faccio altro che ferirla! Dico sempre la cosa sbagliata al momento sbagliato, riesco a farla infuriare almeno una volta al giorno… il che non è normale! Non mi sono mai comportato così e giuro che non lo faccio apposta! – buttò la testa all’indietro – Ogni volta mi riprometto di non farlo più, ma poi succede di nuovo. Non so perché, so solo che mi manda fuori di testa, che riesce a far emergere i miei aspetti peggiori come non ci riesce nessun altro! Però mi piacerebbe che tornasse a sorridermi, lo vorrei sul serio… – si volse a guardarla – Pensi che sia possibile? –

-      Non lo so, ora dipende solo da te. –

-      È questo che mi spaventa di più. –

-      Yamato Ishida saventato ?! Questo sì che ha dello straordinario! – rise la rossa.

-      Sono serio. –

-      Beh, se sei così spaventato significa che ci tieni davvero a lei… Perciò, se quella ragazza è tanto importante per te, ti consiglio di non darti per vinto. –

Lui annuì e la giovane si alzò. Il ragazzo la trattenne per un braccio.

-      Grazie, per avermi ascoltato. E… scusami, se puoi. –

Lei si limitò a sorridergli. Stava per lasciare la terrazza, quando venne richiamata ancora dalla sua voce.

-      Come hai detto? –

-      Ho detto che mi dispiace, che la nostra relazione non abbia funzionato come avrebbe dovuto. Sono stato bene con te. Te ne sono grato. –

-      È stato un piacere. – e scomparve oltre la porta.

Sora si fermò a metà della gradinata, un’espressione indecifrabile sul viso.
Si erano lasciati, eppure non era stato affatto doloroso, forse perché entrambi stavano già guardando al futuro. Era stata sorpresa nel sentire Yamato parlare in quel modo dell’amica: era chiaro che la sua mente era molto confusa, ma il suo cuore? Possibile che non si rendesse conto di ciò che provava? Una cosa era certa: nei suoi confronti non aveva mai avvertito nulla di simile. Stranamente, però, non aveva provato risentimento. Ora che la loro relazione era stata troncata, si sentiva quasi… sollevata?
Ritornò con la mente alle due versioni che aveva sentito e corrugò un poco la fronte. Di sicuro quei ragazzi avrebbero finito per far pace, ma era difficile dire quanto ci sarebbe voluto. Si augurava solo che il biondo riuscisse a porre rimedio al danno fatto.

Ormai mancava poco più di una settimana alla fine delle scuole e lo spirito del Natale sembrava vivo in ogni cittadino che si avventurasse per le vie affollate della città. Rumiko era seduta su un muretto, vicino al grande abete che era stato addobbato nella piazza del centro. I locali erano tutti ultra affollati ed era stato impossibile trovare un tavolo. Perciò il suo compagno di shopping estremo si era offerto di prendere delle bevande calde da bere all’aria fresca. Peccato che l’aria in questione fosse un paio di gradi sotto zero e che le avesse fatto arrossire il naso e le gote, cosa che lei non poteva sopportare.
Sospirò, sconsolata. In fondo di cosa si lamentava, visto che era stata lei stessa a concedere al quindicenne delle altre uscite? Però non poteva negare di divertirsi molto in sua compagnia. A pensarci bene, dunque, quegli ultimi giorni non erano stati affatto male. Dopo aver troncato la sua relazione, Sora sembrava essere più felice che mai, come se si fosse tolta un peso. Anche le voci di corridoio stavano diminuendo. L’unica macchia nera ora sembrava essere il rapporto tra la rossa e Taichi. Dalla loro discussione non avevano affrontato più l’argomento e quasi non si parlavano. Non che uno dei due serbasse rancore per quelle parole, ma piuttosto a causa dell’imbarazzo. Comunque la cosa non la preoccupava più di tanto: di sicuro si sarebbero riconciliati molto presto.
E poi c’era lui, che più che un problema era un pensiero costante. D’altro canto era difficile che fosse altrimenti, dato che si vedevano tutti i giorni. Non si parlavano, non ci provavano nemmeno, come se improvvisamente fossero diventati due perfetti sconosciuti. Però… nonostante mantenesse accuratamente le distanze, lui… la guardava. La osservava costantemente, sia che si trovassero a lezione, che si incrociassero sul pianerottolo, che si trovassero sullo stesso bus. Non la spiava, semplicemente la guardava in ogni momento, tanto che anche nei suoi sogni si era ritrovata di fronte a quelle silenziose iridi azzurre. Quello sguardo era così indecifrabile che qualche volta si era ritrovata ad arrossire fino alla punta delle orecchie. Il che era assurdo, visto che lo detestava. Non gli avrebbe mai perdonato le sue azioni e tuttavia…

-      Ecco la tua cioccolata! Bevila calda, così ti riscaldi! – la raggiunse di corsa Daisuke.

-      Difficile, visto che sono completamente assiderata. – sbuffò lei, accettando comunque la bevanda e borbottando un “grazie”.

Daisuke si sedette accanto a lei e sorseggiò la sua cioccolata.

-      Sai, nonostante tu sia tanto scontrosa, mi piaci molto! – disse sorridente.

-      Grazie del complimento. –

Lui le si appoggiò ad una spalla. Lei lo lasciò fare. Poi lui cominciò a strusciarsi e lei gli diede una piccola spinta per scollarselo di dosso.

-      A momenti mi facevi rovesciare tutto! – si lagnò Daisuke.

-      Ti sta bene! Così impari ad approfittare della mia gentilezza. –

-      Ma perché sei così cattiva? – piagnucolò il quindicenne.

-      Se sono così cattiva puoi anche a fare a meno di me, no? – e fece l’atto di alzarsi.

-      No, no, stavo scherzando! –

-      D’accordo, ma scherzi a parte, mi spieghi perché ci tieni tanto a uscire con me? –

-      Perché mi piaci! –

-      Ho detto: scherzi a parte. –

-      Davvero! Tu sei al secondo posto dopo la mia Hikaruccia. –

-      Daisuke… -

-      Ok, bene, ho capito. – sospirò – C’è una ragazza della mia scuola che mi sta rendendo la vita infernale… –

-      Non posso credere che proprio tu possa dire una cosa simile! – scherzò lei.

-      Ridi pure, ma è una cosa seria! Non so come sia successo, ma un giorno me la sono trovata davanti alla classe e mi ha fatto una dichiarazione davanti a tutti. Da quella volta non riesco a levarmela di torno. –

-      Hai fatto conquiste… – ghignò.

-      Ma quali conquiste?! È una pazza del mio anno che non mi da tregua! –

-      E questa pazza… è carina? –

-      Ehm… non lo so, io non la sopporto! – arrossì in maniera eloquente lui.

-      E così, per sfuggirle, hai deciso di frequentarmi. –

-      Non prendertela, tu mi piaci davvero, non ho mai voluto usarti… –

-      Lo so, tu sei un bravo ragazzo. – gli sorrise dolcemente.

Lui arrossì.

-      Senti… ti va di venire con me ad una festa? –

-      Ehi, ora non montarti la testa! –

-      Per favore! Devi accettare! –

-      Perché devo ?! –

-      Beh, perché ci sarà anche lei e se ci vedrà insieme… -

-      Vorresti farmi passare per la tua ragazza? Stai scherzando, vero? Non ci cascherebbe nessuno. –

-      Non dobbiamo per forza essere fidanzati! Diciamo la verità, no? Che tu sei mia amica e che usciamo insieme… –

“Astuto… ecco il perché di tutti questi appuntamenti!” sorrise tra sé e sé.

-      Non mi piace per niente. E alla mia reputazione non ci pensi? –

-      Ma tu vieni in qualità di mia amica… Io sarò il tuo cavaliere per una sera, tutto qua! –

-      E che festa sarebbe? –

-      La festa di Natale della mia scuola, il 23 sera. Anche Tai ci sarà, perché l’ha invitato Hikari. –

-      Non saprei… -

-      Ti prego! Con te farei un figurone… Non posso lasciare che Takeru mi rubi tutta la scena! –

-      E lui cosa c’entra? –

-      Ha chiesto a suo fratello di suonare alla festa, così si è procurato la band… Capisci? Lui porta uno dei gruppi più famosi del Giappone e farà da cavaliere alla mia Hikarina! E io non voglio fare la figura dello… - probabilmente gli riusciva troppo difficile dirlo, perché non proseguì.

Lei ci pensò un attimo. Non che l’entusiasmasse l’idea di andare ad una festa di ragazzini e di avere come sottofondo la voce che meno desiderava sentire, ma come poteva dire di no a quel ragazzo che l’aveva tirata su di morale del momento del bisogno?

-      D’accordo. – disse infine.

-      Davvero? –

-      Davvero. –

-      Sul serio? –

-      Sul serio. –

-      Non mi stai prendendo in giro, vero? –

-      No, ma se me lo richiedi cambio idea. –

-      Va bene, non dico più nulla! –

-      Perfetto, allora, per farti sdebitare, ora mi accompagni a comprare una cosa. – sentenziò alzandosi e cominciando ad incamminarsi.

-      È un regalo? – le corse dietro lui.

-      Sì. –

-      È per me? –

-      No. –

-      E perché no? –

-      Perché ti ho appena fatto un regalo. –

-      Ma Natale è periodo di generosità! – piagnucolò.

-      Sono già stata fin troppo generosa. –

Ma dentro di sé stava prendendo nota: comprare regalo a Daisuke.

Quella sera Rumiko tornò a casa carica di pacchi e pacchetti, tanto che a fatica riuscì ad infilarsi nell’ascensore. Raggiunto il quarto piano si fermò un attimo davanti alla porta 18, come se fosse combattuta. Poi annotò qualcosa a mente ed entrò a casa sua. Il Natale era davvero alle porte…

 


Continua…

 

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Capitolo 10
*** - ***


Capitolo 10

 

Mancavano cinque giorni alla festa, quando Taichi si presentò a casa sua. Erano un paio di settimane che non si parlavano quasi più. Non che avessero motivo di disaccordo, semplicemente per un tacito patto di rispetto nei confronti dei rispettivi amici. Fu perciò con una certa sorpresa che Rumiko lo fece accomodare nel salotto.

-      È da un po’ che non vengo da te. – commentò allegro.

In effetti era vero, anche perché la ragazza passava meno tempo in casa. Trascorreva i pomeriggi in compagnia di Daisuke o di Sora.

-      Senti, so che ti potrà sembrare un po’ strano, ma… ti va di venire con me ad una festa? –

-      Ti riferisci a quella delle scuole medie? –

-      Sì, come facevi a saperlo? –

-      Daisuke me ne ha parlato e mi ha convinta ad accettare l’invito. –

-      Daisuke ti farà da cavaliere?! – sgranò gli occhi.

-      Già, sai com’è, per non essere secondo a Takeru… -

-      Allora lo sai che ci viene anche Yamato? –

-      Sì. –

-      E hai deciso di venire lo stesso? –

-      Non intendo diventare una suora in clausura a causa sua, perciò non vedo perché rintanarmi in casa. In fondo è Natale, no? –

-      Mi sembra di sentire Daisuke parlare dello spirito natalizio! – sospirò lui.

-      Forse hai ragione, non devo farmi influenzare troppo. – sorrise.

Lui la guardò un attimo.

-      Mi sembri allegra. Sai, negli ultimi tempi ci sono stati un po’ di… casini. Perciò non ho potuto avvicinarmi troppo, capisci? –

-      Sì, non preoccuparti. Sto bene. –

-      Mi fa davvero piacere. Sono stato in pensiero per te… -

-      Grazie… ma non ce n’era bisogno. – arrossì leggermente – Sono sempre riuscita a cavarmela da sola. E poi con me c’erano Daisuke e Sora… -

-      Già, certo… -

-      Ecco… perché non inviti lei alla festa? –

-      Come? –

-      Ma sì, in fondo non sai con chi andarci, no? –

-      Non so se accetterà… -

-      Io penso di sì! – gli sorrise.

-      D’accordo. Allora ci provo! – si alzò, avviandosi verso l’uscita – Ma in caso vada a monte… -

-      Risparmierò un ballo per te. – sorrise aprendogli la porta.

Taichi si fermò un attimo sulla soglia.

-      Sai, mi piace il tuo sorriso, ti rende più… bella. – commentò tranquillo, per poi salutarla e scomparire alla sua vista.

-      Più… bella? – sussurrò tra sé, sfiorandosi il viso con una mano e accorgendosi di essere arrossita lievemente.

Fece per tornare in casa, quando incrociò due iridi azzurre, che la guardavano indecifrabili. Poi si affrettò a richiudersi la porta alle spalle. Il cuore le batteva forte nel petto.

-      Ok. –

-      Come scusa? –

-      Ho detto che va bene. –

Taichi la guardò fisso e la rossa divenne in tinta con i capelli. Insomma, di punto in bianco si presentava a casa sua, le chiedeva di poterle fare da cavaliere ad una festa e poi la fissava con quegli occhi da pesce lesso… E meno male che era Natale, o l’avrebbe sbattuto fuori di casa all’istante! La stava forse prendendo in…

-      Grazie, grazie Sora! – le sorrise felice come un bambino, facendole morire ogni istinto omicida.

-      Non devi ringraziarmi, stupido! Sei tu che mi hai invitato nonostante avessimo litigato, perciò… -

-      Oh, ma ormai quella è acqua passata, no? –

-      Sì, se lo è per te… -

-      Ma certo! Lo sai che non serbo rancore! –

-      Hai ragione – gli sorrise dolcemente – non si addice alla tua personalità. –

Yamato girovagava per le stanze come un avvoltoio in cerca di una preda, la mente in subbuglio.
Poi si sedette sul divano, in mezzo ai libri e i quaderni di scuola. Le gambe larghe piantate saldamente al suolo, i gomiti puntellati sulle ginocchia, il mento appoggiato alle mani. Guardava avanti a sé, senza però vedere il disordine che regnava nella stanza. Il suoi occhi erano lontani, i pensieri volavano verso un altro mondo.
Ad un tratto riemerse da quel luogo remoto per tornare alla realtà. Si guardò intorno in cerca di qualcosa, impugnò una penna e afferrò il primo foglio che gli capitò a tiro. La sua mano si mosse, tracciando segni e scritte, a tratti quasi nervosa, poi placida e leggera, un momento tanto pesante da rischiare di strappare il pezzo di carta. La sua mente e le sue dita un tutt’uno. La bocca si muoveva, gli occhi semichiusi, l’espressione concentrata e distesa al tempo stesso.
Dopo pochi minuti si alzò, senza lasciare il prezioso foglio, raggiunse la chitarra e provò alcuni accordi. Scarabocchiò qualcosa sulla superficie stropicciata e sfiorò ancora le corde con le dita agili e forti.
Sì, la sensazione era quella giusta… una piccola modifica e sarebbe stata perfetta. Sorrise, sereno per la prima volta da molti giorni: forse aveva trovato il modo di farsi perdonare.

Era la sera del 23. Daisuke si presentò alla porta numero 17 alle 19.30: era puntuale. In più aveva indossato il suo abito migliore, composto da giacca scura e pantaloni ben stirati, camicia e cravatta. Niente di eclatante, ma comunque faceva la sua bella figura. Suonò il campanello e gli venne aperta la porta.
Dopo un secondo di stupore, esibì un largo sorriso.

-      Sei bellissima! –

La sala era spaziosa e elegante. Fiori bianchi e rossi erano stati posizionati sui tavoli del rinfresco, sulle gradinate e vicino al palco. Era una serata importante, non tanto perché si trattava di una tradizione degli studenti dell’ultimo anno della scuola media, quanto per i personaggi che vi avrebbero presenziato.
Quando Daisuke e Rumiko fecero il loro ingresso non passarono inosservati. Il ragazzo era soddisfatto del figurone che stava facendo. Dal canto suo, lei esibiva il miglior sorriso che le riuscisse, camminando a braccetto dell’amico.
“ Ma chi me l’ha fatto fare? “ si chiese sconsolata. D’altronde non poteva certo piantare in asso il suo cavaliere, perciò… perciò avrebbe dovuto far buon viso a cattivo gioco.
“ Sperando che questo gioco duri poco! “

Yamato seppe con esattezza quando era entrata, lo avvertì un piccolo fremito lungo la schiena.
Con gli occhi vagò tra la folla… e la trovò.
Indossava un abito di raso viola, corto poco sopra le ginocchia e abilmente drappeggiato. Le braccia erano scoperte, il decolleté ampio ma non per questo volgare. I capelli erano stati fissati dietro il capo con uno chignon. Una ciocca vaporosa ombreggiava un lato del viso luminoso, poco truccato. Ai piedi, ragionò il biondo, probabilmente calzava un paio di scarpe dai tacchi vertiginosi, vista la ridotta differenza di altezza tra lei e il suo cavaliere.
La constatazione che il suo accompagnatore fosse Daisuke lo rincuorò un poco: era sicuro che sarebbe venuta con Taichi. Se ripensava alle parole dell’amico e all’effetto che avevano avuto su di lei… meglio accantonare la questione, almeno per il momento.
Però, seppur di nascosto, continuò ad osservarla.

Rumiko non fece caso a quegli occhi puntati su di lei, forse perché ne aveva ben altri da tenere a bada. Infatti, da quando avevano messo piede nella sala, la coppia era stata letteralmente circondata da una decina di ragazzi, a cui presto si erano aggiunti molti altri.

-      Ehi, Daisuke! Non ci avevi detto di avere una ragazza così attraente! – scherzò uno.

-      Già, dove la nascondevi? Cattivo, non si fa così! – rise un altro.

-      E pensare che vai ancora dietro a Hikari quando hai a disposizione una… -

-      Adesso basta! La mia Hikarina resterà sempre al primo posto! – li zittì lui.

-      E allora come spieghi la sua presenza? – disse qualcuno indicandola – Non l’avrai pagata, spero! –

-      Ehi, ma come ti permetti?! – esplose la ragazza in questione – Innanzitutto abbassa quel dito! E poi modera i termini, visto che sono più grande di te! –

-      Ragazzi, vi presento Rumiko Kitamura, una mia amica! Frequenta l’ultimo anno delle superiori. – si mise in mezzo il quindicenne, per tentare di salvare la situazione e, soprattutto, i compagni.

-      Ehi, ma non è la ragazza che ci era venuta a vedere un mesetto fa? – fece un ragazzo.

-      Hai ragione, deve essere proprio lei! Con un caratterino simile… -

-      Ma non stava con Kamiya? –

-      No, non sono mai stati insieme. – spiegò Daisuke, un po’ infastidito – Sono solo ottimi amici e compagni di classe. –

-      Ah, e dovremmo crederti? Non è che sei geloso? –

-      Ma che dici? – si intromise un secondo – Lui può sempre ripiegare sulla piccola Mei. A proposito, dov’è finita? Strano che non ti sia già saltata addosso! – rise.

-      Che branco di pettegoli. – sbottò Rumiko, seccata da simili discorsi.

-      Ma dai, stavamo solo scherzando! –

-      Io no. – li mise tutti a tacere.

-      Vedo che hai già perso le staffe! – scherzò qualcuno alle sue spalle.

-      Non mettertici anche tu, Taichi, non è giornata… –

-      Ma a Natale sono tutti più buoni! Non puoi deporre l’ascia di guerra solo per questa sera? –

-      Va bene, ma lo faccio solo per non offendere la tua dama. – accennò ad un sorriso rivolto alla rossa.

Erano proprio una bella coppia. Lui era stato messo in tiro, con uno smoking dal taglio semplice, anche se i capelli restavano spettinati. Lei indossava un abito blu scuro, lungo fino alle caviglie e con uno spacco fino a poco sopra il ginocchio. Una fascia le stringeva la vita e le spalle erano scoperte. I capelli erano stati raccolti e due piccole ciocche erano tenute dietro le orecchie, da cui pendeva una coppia di piccoli orecchini sfavillanti.

-      Vedo con piacere che alla fine sei riuscito ad invitarla. – disse Rumiko, stando ben attenta che l’amica sentisse.

-      Beh, sì. – sbiascicò il bruno, imbarazzato.

-      Non so se lui te l’ha già detto, ma sei davvero bella questa sera, Sora. –

-      Grazie, ma me l’ha detto anche lui appena mi ha vista… – sorrise, mentre il ragazzo si grattava il capo, impacciato.

-      Però la coppia più bella siamo noi! – si intromise Daisuke.

-      Certo, come no. – sospirò lei.

-      Ammettilo che sono il cavaliere dei tuoi sogni… –

-      Piuttosto dei suoi incubi! – scherzò Taichi.

Le due diciottenni trattennero a stento un risolino.

-      Ridete pure! Ma vi dimostrerò che, oltre a gentilissimo, sono anche un ottimo ballerino. –

-      Me lo auguro… - disse la castana, sconsolata.

-      Vuoi dire che non l’hai testato prima di accettare? – esclamò il bruno.

-      Perché, Sora l’ha fatto? – protestò il quindicenne.

-      Non ne ha bisogno, perché IO non sono un impiastro come te! –

-      Sono sicuro che farai una figuraccia! –

-      Vedremo chi farà una figuraccia, tappo! –

-      Ancora con sto “tappo”? Sono nella media, va bene? –

-      Ma se sei alto quanto la tua dama? –

-      Solo perché lei ha dei tacchi da paura! –

-      Non tiratemi in mezzo! Io e le miei scarpette non vi abbiamo fatto nulla. –

-      Ma faranno molti qualcosa sui miei piedi! –

-      Per un ballerino provetto non dovrebbe essere un problema… –

-      Colpito e affondato, Daisuke! –

-      Tu è meglio se stai zitto, che non sei tanto meglio di lui. –

-      Sentito? –

-      E tu non montarti la testa! Siete entrambi degli impiastri. –

-      Cattivaaa! – piagnucolarono i due, sotto lo sguardo inclemente della castana, tra le risate della rossa e lo sbalordimento del pubblico.

La band venne invitata a salire sul palco e, tra gli applausi generali, diedero fondo a tutto il loro repertorio.
Rumiko faceva di tutto per non alzare lo sguardo, sapendo cosa, o meglio chi avrebbe incontrato. Nella sua mente lo vedeva, in piedi sotto i riflettori, mentre con una mano teneva il microfono e con l’altra impugnava la chitarra. I capelli biondi ad ombreggiargli il viso imperlato di sudore e dall’espressione concentrata. I movimenti sicuri. La camicia tenuta fuori dai pantaloni, la cravatta allentata che gli pendeva sul petto. All’apparenza dimesso, eppure maledettamente elegante.
La sua musica la rapiva. Quanto era cambiata in quelle ultime settimane… da orecchiabile era diventata ammaliante, capace di prenderla con il solo sfiorarla, così soave e vera da sembrare una…
“ Fotografia.”
Al pensiero si sentì scuotere. Aveva fatto come lei gli aveva detto. L’aveva ascoltata, seguendo il suo consiglio. Si era impegnato e… ci era riuscito. Era riuscito a fondersi con le note, a creare un tutt’uno tra parole e mente, a comunicare al cuore delle persone. Al suo cuore.
Appoggiando il capo alla spalla del suo cavaliere, lasciò che quei suoni la avvolgessero.

Taichi e Sora ballavano al centro della pista. La ragazza dapprima aveva trattenuto a stento le risate: lui non faceva che pestarle i piedi, alla faccia di ciò che aveva detto prima. Poi l’aveva visto in faccia, concentrato, e un dolce sorriso aveva sostituito l’ilarità. Era evidente che stava facendo del suo meglio e che si sentiva imbarazzato. Provava tenerezza per quel suo modo di fare così testardo e orgoglioso, così simile a quello che aveva da bambino. Eppure era diverso, così diverso da risultarle a tratti irriconoscibile. C’era qualcosa nel suo sguardo, nel suo portamento, nei suoi gesti, nella linea del suo mento che lo rendeva… adulto. Per la prima volta lei lo guardò e pensò che era davvero carino, ma non come un ragazzo, bensì come un uomo.
Quel pensiero la fece arrossire, ma le sue braccia si strinsero con più forza a lui, senza riserve.

Rumiko e Daisuke stavano ballando, o meglio, lei tentava di evitare i piedi dell’altro. Però c’era da dire che il ragazzo imparava in fretta, dato che rispetto alla prima mezz’ora le sue scarpe protestavano molto di meno. Ad un tratto, lei sentì un brivido tutt’altro che piacevole percorrerle la schiena e si voltò leggermente: una ragazza la fissava. Era di costituzione piccolina, probabilmente sui quindici anni. I capelli corti e ricci creavano un’aureola bionda attorno al suo visino. Indossava un abito rosso fuoco, corto e dal taglio semplice. Tuttavia, nonostante fosse carina e di sicuro di indole dolce e allegra, in quel momento aveva un’aria ben poco rassicurante.
“ Ma chi è quella? E perché diavolo mi sta fulminando? Non sto mica facendo nulla di male! Di certo non può essere un crimine ballare con… “ ma improvvisamente le fu tutto chiaro.

-      Ehm, Daisuke? –

-      Non dirmi che ti ho pestato di nuovo i piedi! –

-      No, sta volta non si tratta delle mie scarpe, ma della mia vita. –

-      Ah, grazie… –

-      Non mi riferivo a te, ma a lei. – e lo fece voltare un poco.

-      Ah, quella. – commentò.

-      La conosci, vero? Scommetto che si tratta della tipa di cui mi parlavi. Com’è che hanno detto che si chiama? …Kotobugi? –

-      Kotobuki. Mei Kotobuki, alias la mia rovina! –

-      Non essere antipatico, non ti si addice. – lo rimproverò gentilmente.

-      Va bene, scusami… -

Lei lo trasse un attimo da parte e si sedettero.

-      Ah, finalmente un po’ di riposo per le mie povere membra! Allora, mi vuoi spiegare cos’è questa storia? –

-      Niente di che, è solo una svitata. –

-      Sarà anche una svitata, ma ciò non cambia che abbia intenzioni omicide nei miei confronti. –

-      Non ti preoccupare, ci sono io a proteggerti! –

-      Lo sai che questo non mi conforta affatto? – commentò acida – Non mi hai ancora spiegato perché l’hai rifiutata. –

-      Ma te l’ho già detto che la mia Hikarina è al primo posto nella… -

-      Sii serio, Dai. Lo sappiamo tutti e due che il motivo non è certo quello. Insomma, potrai essere cotto e stracotto, ma dopo anni e anni avrai capito che non hai speranza, no? Anche questa sera lei è venuta con Takeru. –

-      Lo so, ma non si sono ancora messi insieme, perciò… -

-      Perciò cosa? Sono solo timidi oltre natura, ma lo sanno tutti che sono fatti l’uno per l’altro. –

-      Hai ragione. Lo so che hai ragione, eppure io… -

-      Se ti impunti in questo modo non otterrai nulla, anzi: rischi di rimanere da solo. –

-      Ma ci sei tu qui con me… –

-      Sì, ora. Ma non per sempre, lo capisci? –

Lui abbassò lo sguardo e lei addolcì il tono, prendendolo per mano.

-      Tu sei un ragazzo gentile e affettuoso, un tipo che merita di essere amato. Potresti fare felici molte ragazze. –

-      Lo dici solo per consolarmi. –

-      Lo sai che non è mia abitudine farlo. Sono oggettiva e se dico che potresti, anzi, dovresti  legarti ad un’altra ragazza, sono seria. –

-      Perché dovrei? –

-      Perché ne hai bisogno. – sospirò – Prendi me, ad esempio: io sono una di quelle persone possono stare sole. Ma per quelli come te è diverso. Voi… voi avete bisogno di avere qualcuno accanto. –

-      Ed è un male? –

-      Assolutamente no! Che c’è di male a voler amare ed essere amati? È perfettamente… naturale. –

Daisuke si appoggiò allo schienale della sedia.

-      Dunque, secondo te dovrei provare ad amare qualcun altro? –

-      Non pretendo che il sentimento sbocci di punto in bianco, ma… perché no? In fondo non hai nulla da perdere, no? –

-      Già. In effetti Mei non è male… insomma, sarà un po’ esuberante, ma è carina, simpatica, quando vuole dolce… -

-      Penso che andreste d’accordo. – gli sorrise.

-      Va bene. Allora… io ci provo, ok? –

-      Visto che hai fatto pratica con le mie povere scarpe, se te la fai scappare vuol dire che sei DAVVERO un impiastro. – rise lei.

-      Grazie per la lezione di ballo! –

E fece per andarsene.

-      Ah, un’ultima cosa: quando ridi così sembri più luminosa, sei più… bella, credo! –

-      Sarà l’effetto del trucco. – borbottò per nascondere l’imbarazzo.

-      Può darsi… ma penso che dovresti farlo più spesso! –

E si allontanò.

Dopo pochi minuti Rumiko era di nuovo sulla pista, accompagnata da un ragazzo dai capelli scuri e il sorriso smagliante. Lui la riempiva di complimenti, a cui lei rispondeva con sorrisi tirati e monosillabi.
Però ballare le piaceva. Volteggiava sulla pista, leggera e sicura, illuminata dalle luci colorate che si riflettevano sul suo abito. Anche il dolore ai piedi era passato. Poco lontano da lei c’erano Sora e Taichi, che ballavano abbracciati, mentre con la coda dell’occhio poteva vedere Daisuke e la sua nuova dama. Quest’ultima coppia era di sicuro la più eccentrica, visto che investivano la gente vicina, improvvisando passi su passi che non avevano nulla a che fare con il ritmo della musica.
Quando la canzone finì, il ragazzo dai capelli neri venne sostituito da un biondino, quasi sicuramente tinto e stratinto. Lavorava molto di braccia mentre ballava, forse anche un po’ troppo. Ad un tratto la ragazza si ritrovò una mano sul sedere, che scansò senza troppe cerimonie. Il giovane ci riprovò: a quanto pareva non aveva capito l’antifona. Questa volta lei non si fece cogliere impreparata e gli piantò un tacco nel piede. Lui aprì la bocca per dire qualcosa, ma anche se proferì parola, nessuno lo sentì. Rumiko si avvicinò al suo orecchio e gli sibilò un gelido “scusa”.
Stava per voltarsi, quando la musica si fermò.

-      Un attimo di attenzione, per favore. – parlò il cantante.

La sala intera era in silenziosa attesa.

-      La canzone che vi canterò ora l’ho composta pochi giorni fa ed è molto importante per me. É dedicata a due persone cui tengo molto e che recentemente ho ferito. Mi sono comportato come un idiota, non lo nascondo. Eppure una di queste due persone mi ha già assolto. Non ho la presunzione di credere che una semplice canzone basti a cancellare i miei atti, ma… forse ingenuamente, spero di riuscire ad ottenere un perdono che per me significherebbe molto. –

Un leggero brusio percorse la pista da ballo. Per un attimo fugace le parve che quegli occhi azzurri l’avessero guardata, malinconici.

Note di puro rock. La chitarra s’impennò. Le corde del basso vibrarono. La batteria tuonò. La tastiera filò il tutto in un unico arazzo musicale.
Le voci si spensero.


All that you touch
All that you see
All that you taste
All you feel

All that you love
All that you hate
All you distrust
All you save

All that you give
All that you deal
All that you buy
beg, borrow or steal

All you create
All you destroy
All that you do
All that you say

All that you eat
everyone you meet
All that you slight
everyone you fight

All that is now
All that is gone
All that’s come
and everything under the sun is in tune
but the sun is eclipsed by the moon.


Non un suono accolse la fine. Un applauso si levò, seguito da un secondo, un terzo, un quarto e un quinto. E poi un altro e un altro ancora, finché tutta la sala si riempì di urla, schiamazzi e incitamenti urlati a gran voce.
Yamato fece un segno ai compagni e la band ricominciò a suonare, mentre il ragazzo alla pianola assunse temporaneamente il ruolo di vocalist. Ma il biondo non si unì a loro.
Con un balzo scese dal palco e si fece largo tra la folla acclamante.

-      Allora? Che ne pensate? –

-      Che ne pensiamo?! Ma dico, scherzi?! –

-      Credo che Tai volesse dire che sei stato davvero sensazionale! – sorrise la rossa.

-      Qui ci sta uno dei “mitico” di Daisuke! – aggiunse il bruno.

-      Credete che sia andato bene, insomma, non sarà stato un po’… -

-      Sono sicura che le è piaciuta. – disse dolcemente Sora.

Yamato non se lo fece ripetere due volte: era di nuovo scomparso tra la folla.

Gli invitati avevano ripreso a ballare. Il biondino si era tirato faticosamente in piedi e le si era avvicinato.

-      Ma che diavolo ti è preso, tutto d’un tratto?! Mi hai azzoppato solo per…? –

-      Ciao. –

-      Ciao. – disse, quasi in un sussurro.

Poi si fecero entrambi zitti, come se avessero esaurito gli argomenti o se li fossero improvvisamente dimenticati.

-      Ehm, la canzone… - tentò Yamato.

-      Come s’intitola? –

-      Eclipse. –

“ Eclisse” tradusse Rumiko tra sé e sé. Non ricevendo risposta, lui continuò.

-      È molto semplice, lo so. Probabilmente ti aspettavi qualcosa di più… -

-      È bella. –

-      Come? –

-      Ho detto: è bella. – abbassò un poco il capo, per nascondere un lieve rossore.

-      Lo so che non dovrei chiedertelo, ma… potresti perdonarmi? Per tutto, intendo. –

In quel momento, una parte di lei avrebbe voluto urlargli di no. Avrebbe voluto farlo soffrire, vederlo rabbuiarsi. Sarebbe stata la sua vendetta… E l’avrebbe fatto. Fino a qualche mese fa avrebbe gioito nel vederlo logorarsi per lei.
Quel pensiero la fece rabbrividire. Ormai era acqua passata. Aveva superato quel momento e ora stava conducendo una nuova vita… o no?

-      Sì, ti perdono. –

Yamato le regalò uno di quei sorrisi splendidi e speciali che riservava a pochi. Poi le porse la mano, che lei accettò, e la condusse al centro della pista, incurante del biondino azzoppato che cercava di attirare la loro attenzione.

Ballavano, scatenandosi al centro della sala. Lei volteggiava leggera e sinuosa. Sembrava una farfalla, nel suo vestito di raso. In quel momento si accorse di quanto gli era mancata: i suoi capelli lunghi e morbidi, il profumo della pelle candida, gli occhi viola che sapevano incantare e ingannare, la voce, il broncio abituale, il sorriso così… enigmatico, a tratti timido o malizioso, ma comunque radioso, che la faceva brillare come un angelo ai suoi occhi. Ricordava come fosse ieri il giorno che l’aveva vista dalla finestra arrancare in mezzo alla neve alta e si era ritrovato ad afferrare un ombrello. Le era andato incontro e lei si era fermata, meravigliata quasi quanto lo fosse lui stesso. Tremava, avvolta da una sciarpa spessa tra le cui maglie il suo respiro si era condensato, i capelli gocciolanti, il naso e le gote arrossate. Così piccola e delicata, incoronata dai fiocchi di neve. Lui l’aveva riparata con l’ombrello, per quanto fosse ormai inutile. Lei non aveva fiatato, limitandosi a seguirlo. Strano: fino ad allora non si era accorto di quanto il suo passo forse corto, le spalle strette. Ebbe l’improvviso desiderio di cingerla con un braccio, di stringerla forte contro il suo petto. Poi le aveva lanciato un’occhiata fugace e l’aveva vista… così fragile e vibrante di una strana energia, che non aveva osato infrangere quell’istante.
Anche in quel momento, avvolta dalla musica, lei era…
“ Magica, come una fata.”
Non sapeva quanto avesse ragione e torto al tempo stesso.

Così, la sera del 23 dicembre segnò l’inizio di molte cose: nuovi sentimenti, nuova musica e nuove storie. Ma vecchi ricordi stavano tornando in superficie, per infrangere quella felicità tanto perfetta quanto fragile. Più tardi se ne sarebbero resi conto… era solo questione di tempo.

 


Continua…



N.d.a.
Quando scrissi questo capitolo mi ero fissata con i PINK FLOYD. Alcuni di voi può darsi che abbiano riconosciuto il testo di una delle loro più famose canzoni: ECLIPSE.

Per chi amasse il rock e non li conoscesse (difficile!) li consiglio vivamente.

Monalisasmile

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Capitolo 11
*** - ***


Capitolo 11

 

Era la mattina della Vigilia di Natale. Rumiko si stropicciò pigramente gli occhi, stiracchiandosi svogliata. Andò in cucina e preparò del caffè forte, come tutti i giorni. Dei passi pesanti e strascicati le indicarono l’avvicinarsi del padre. Insieme si sedettero al tavolo, uno di fronte all’altro, fissando come inebetiti le rispettive tazze fumanti. Facevano proprio una bella figura: entrambi spettinati quanto assonnati, esibivano un paio di occhiaie scure sotto gli occhi.

-      Hai la bava alla bocca, papà. –

-      Ah. – si strofinò il viso.

Di nuovo silenzio. In quella casa c’era sempre silenzio, come se tutto fosse in precaria attesa di un qualcosa che non veniva mai. Attendevano, padre e faglia, non sapevano bene cosa, non sapevano bene chi. Era un silenzio quasi malinconico, come se entrambi sentissero la mancanza di qualcosa. O meglio qualcuno, sapevano bene chi.

-      Fai qualcosa di bello oggi? –

Era sempre lui ad interrompere quei silenzi carichi di troppi pensieri. Una volta non era così, una volta non ce n’era bisogno.

-      In teoria dovrei dare i regali ad alcuni amici… -

-      E allora che ne dici di invitarli qua? Potresti dare una piccola festa. –

-      Non lo so… -

-      E dai! Così mi diverto anch’io di tanto in tanto. –

-      Ma se passi le giornate con i personaggi più in vista dal paese! –

-      Sì, ma con loro non mi diverto… - piagnucolò lui.

-      Insomma, hai deciso di passare una serata in compagnia dei giovani, dico bene, vecchio? – ghignò.

-      Vecchio a chi? Dentro di me sono ancora un ventenne! –

-      Certo, certo… - disse in tono annoiato.

Lo stuzzicava sempre e sempre lui stava allo scherzo. Giochi infantili per persone che non riuscivano a farne a meno, che avevano bisogno di zittire silenzi e schiacciare ricordi con la forza delle risate.

-      Ciao. Ti va di venire da me, questo pomeriggio? Volevo dare una piccola festa per quelli che si reggono ancora in piedi. –

-      Vengo volentieri! Chi altri ci sarà? –

-      Taichi ha detto che viene, ma Hikari è a letto malata. Sai, ha preso freddo ieri, dopo il ballo. Dunque suppongo che Takeru le starà accanto tutto il giorno. Poi ci sarà Daisuke e se vuole gli ho detto di portare anche Mei… -

-      Non è la biondina con cui ballava ieri? –

-      Proprio lei. –

-      Hai deciso di far le parti di Cupido? – rise la rossa.

-      Ma quale Cupido? – borbottò – Dovevo far riposare i miei poveri piedi e ho colto l’occasione per liberarmi del mio sicario. –

-      Va bene, va bene! E chi altro viene? –

-      Koushiro ha detto che ci sarà più che volentieri e Iori pure. Joe è partito per la montagna con alcuni compagni e tornerà tra qualche settimana. Miyako ha detto che avrebbe passato il Natale a casa di Ken. –

-      Ormai quei due sono una coppia a tutti gli effetti. – commentò Sora – Tra poco Miyako comincerà a fantasticare sul matrimonio… –

-      Roba da film dell’orrore. –

-      Ma dai, in fondo sono carini! – tentò, poco convinta.

-      Non lo metto in dubbio, ma a quindici anni non ti sembra un po’… prematuro? –

-      Lei è fatta così. È da anni che progetta la sua vita coniugale! –

-      E dire che io mi limito a progettare la festa di oggi stesso… – sospirò la castana.

-      Non abbatterti, anzi, se hai bisogno di una mano non hai che da chiedere! –

-      Grazie, ma tra me e mio padre non dovremmo avere troppi problemi… o almeno mi auguro. – concluse, lanciando un’occhiata angosciata al genitore che cercava di districare i cavi delle luci per l’albero.

-      In caso di necessità posso sempre chiamare rinforzi dalla porta da fianco. –

-      Tu e Yamato vi siete riappacificati, vero? –

-      Sì. – sbiascicò, ripensando alla sera precedente.

Avevano ballato fino a notte fonda, senza quasi parlarsi. Ricordava bene il suo profumo, la sensazione di quel corpo alto e forte vicino a lei. Non si erano neppure guardati, intessendo una complessa danza di sguardi, fatta di occhiate fuggevoli, che si sfioravano appena, senza mai incrociarsi o indugiare troppo sul partner.

-      Rumiko? Ci sei ancora? –

-      Ah, sì certo! – parve rinvenire.

-      Ti eri incantata, per caso? Comunque ti ho chiesto se viene anche lui. –

-      Veramente non gliel’ho ancora chiesto… -

-      Ma lo inviterai, vero? Visto che vi siete riappacificati non dovrebbero esserci problemi, no? –

-      Ma certo che non ci sono problemi! È solo che non ne ho ancora avuto il tempo… -

-      Ma se siete vicini di casa! Non mi dirai che ti fai ancora delle riserve. –

-      Riserve, io? Ma certo che no! – sbottò lei.

-      Bene, allora vai subito da lui! Ci vediamo sta sera, ciao! – e attaccò senza darle il tempo di protestare.

“ Accidenti a Sora! Ora sono praticamente costretta ad invitarlo.”
Non che non l’avrebbe fatto, ma voleva farlo poi, con calma. Era ovvio che l’avrebbe invitato… o no? Mica si faceva “riserve”. Insomma, equivaleva a dire che se la faceva sotto!
“ Bugia.” si rimproverò da sola. La verità era che dopo tutti quei giorni passati ad evitarsi, temeva di non sapere come comportarsi, cosa dire, con che sguardo guardarlo.
“ Al diavolo!” sbuffò poi, irritata con se stessa “ Non è da me farmi simili problemi! In fondo che ci vuole? Basta pigiare il citofono…”
E lo premette.
“ Aspettare pazientemente qualche secondo e…”
La porta si aprì e i pensieri si dissolsero improvvisamente.

-      Ci hai messo poco! Ma perché non usi mai le chia… -

Yamato stava di fonte a lei, nudo. Aveva solo un asciugamano legato alla bell’e meglio attorno ai fianchi, che non gli arrivava neppure alle ginocchia. I capelli bagnati facevano ricadere grandi gocce sulle spalle, da cui si congiungevano in tanti rigagnoli che scorrevano sul petto.
Una nuvoletta di schiuma imbiancava uno zigomo, simile a zucchero filato. Inconsciamente si soffermò su quel particolare un istante di più.
Si guardarono in silenzio, immobili. Poi, con un gesto fulmineo… lei gli sbatté la porta in faccia.

Con la mente in subbuglio, senza riuscirne a districare un pensiero concreto, Rumiko lo sentì allontanarsi di corsa e chiudersi una porta alle spalle.
Dal piano di sopra sentì una porta aprirsi e la testa di un bambino fece capolino dalle scale. Gli occhiettini scuri la guardarono curiosi e lei si affrettò a recuperare l’abituale calma. Ma si sa, i bambini si fanno ingannare meno difficilmente degli adulti. Il piccolo sorrise scaltro, con aria saputa, e si affrettò a tornare in casa, chiudendo il portone dietro di sé.
Lei si appoggiò alla superficie in legno su cui spiccava il numero 18. Istintivamente affondò le mani in tasca, affondando tra le spalle e contraendo i muscoli del viso in un’espressione dura. Poi si ricordò di una cosa che le dicevano sempre: “ Quell’atteggiamento da bulletto si addice poco ad una bella ragazza, Rumi.”
Allora corresse la postura, incrociando le braccia dietro la schiena e distendendo l’espressione facciale. Una volta quei gesti la stizzivano, ora non più. Forse perché…
La porta si aprì d’improvviso e lei arrancò a vuoto nell’aria, finendo per atterrare dolorosamente a terra. Si massaggiò i glutei doloranti e alzò lo sguardo: il biondo la guardava a occhi sgranati. Poi le sue labbra si contrassero, un lato della bocca si sollevò e… scoppiò a ridere.

-      Ehi, che c’è che ti fa tanto sbellicare?! – lo fulminò.

Lui buttò la testa indietro, senza interrompersi.

-      Ma guarda te! Io vengo qua con le più buone intenzioni del mondo e, dopo aver assistito ad una situazione a dir poco imbarazzante ed essere stata presa per i fondelli da un marmocchio di sei anni, finisco col sedere a terra! Poi, come se non fosse bastato, vengo sfottuta di nuovo, e da niente poco di meno che la causa dei dieci minuti più umilianti della mia vita! – protestò, rossa in volto.

Ovviamente, il risultato non fu quello sperato, poiché le risate, anziché placarsi, aumentarono di volume.

Quando il signor Ishida entrò in casa, pochi minuti dopo, non credette ai suoi occhi: suo figlio aveva le lacrime agli occhi e un sorrisino represso. Voltandosi, però, il mistero si risolvette subito: la loro vicina stava a braccia conserte seduta su una sedia, visibilmente indispettita.

-      Ciao, Rumiko. – la salutò l’uomo.

-      Buongiorno, signor Ishida. – bofonchiò lei.

Lui fece attenzione a non far trapelare un piccolo sorriso: quella ragazza era incredibile, a momenti faceva paura persino a lui.

-      Volevo invitare Yamato a casa mia per le 7.00 di questa sera. – si rivolse al genitore – Vengono anche Taichi, Sora, Daisuke… una decina di persone in totale, per festeggiare il Natale tra amici. Ma da quando ho superato quella porta suo figlio non fa che ridermi in faccia. –

Il biondo continuava a sghignazzare e lei non mostrò di volersi girare verso di lui, continuando a dargli le spalle.

-      Non tiratemi in mezzo ai vostri litigi, ragazzi! – protestò l’uomo – Comunque per me non ci sono problemi. Piuttosto, hai bisogno di una mano con i preparativi? –

-      No, non si preoccupi. Io e mio padre ce la caviamo benissimo. –

Ma un richiamo risuonò attraverso le pareti:

-      AL DIAVOLO VOI E LE VOSTRE STUPIDE LAMPADINE! PEGGIO PER VOI SE NON VOLETE COLLABORARE, VI SIETE GIOCATI IL NATALE! –

Nel silenzio che seguì la ragazza sospirò sconsolata e il biondo esibì un ghigno.

-      Forse un paio di mani in più non sarebbero tanto male… - sbiascicò lei alla fine.

Poco dopo le due famiglie erano al lavoro all’indirizzo 17. Ovviamente il padre di Rumiko aveva colto l’occasione per invitare anche il signor Ishida, che aveva accettato subito. Poi si erano seduti ai piedi dell’abete, impegnandosi a districare i famelici cavi delle luci di Natale.

-      Sembrano due bambini. – aveva commentato Yamato.

-      Possibile che nemmeno insieme ce la facciano? –

-      Possibilissimo. –

I giovani avevano sospirato, preferendo voltare la schiena ad un simile spettacolo sconfortante.
Rumiko estrasse un libro di ricette e cominciò a sfogliarlo. Presto si accigliò: possibile che tutte richiedessero un’abilità, un tempo e soprattutto una pazienza spropositata?!
Per fortuna gli invitati avrebbero portato antipasti e da bere. Sora aveva anche promesso un dolce. Ma per quanto riguardava i piatti caldi, di quelli avrebbe dovuto occuparsi lei.

-      Che stai facendo? –

-      Scelgo i piatti da cucinare per questa sera. –

-      Perché non fai questa, oppure quest’altra? – le indicò lui – Anche questa non è male, però dubito che riusciresti a trovare tutti gli ingredienti… qualcosa di semplice, niente portate da ristorante di lusso. –

-      E queste sarebbero semplici? –

-      Non mi dirai che non sai cucinare! – la canzonò lui.

-      E anche se fosse? – lo minacciò.

-      Niente, è che mi aspettavo che in una casa dove vivono una figlia e un padre, uno dei due sapesse cucinare. E visto che tuo padre non sembra troppo affidabile… - osò lanciare uno sguardo fugace ai due, che avevano preso a confabulare, come se stessero organizzando un piano di battaglia.

-      Infatti sono io a fare i pasti, ma mi limito a cibi molto più semplici di questi, tipo surgelati, bistecche, insalate e così via… Non ho mai avuto bisogno di usare un libro di ricette. –

-      Ma ne hai una sfilza. – commentò lui guardando lo scaffale – Come mai ne tieni così tanti, se non li usi? –

-      Non sono miei. Erano di… mia madre. –

Era la prima volta che entravano in argomento. A pensarci bene, lui sapeva ben poco di lei, di come fosse la sua vita prima di trasferirsi in quella città. Voleva conoscerla, ma non sapeva come avvicinarsi.

-      I miei hanno divorziato. – disse alla fine, decidendo che la cosa migliore era fare lui il primo passo – Quando ero piccolo. Io sono stato affidato a mio padre e Takeru a mia madre. –

Rumiko non disse nulla.

-      All’inizio non era stato facile, ma poi cominciai a preferire quella condizione un po’ strana ai continui litigi dei miei. L’unica macchia nera era stato separarsi da Takeru… gli ero molto affezionato. E lui era piccolo e sapevo che aveva bisogno di me… -

Di nuovo lei non fece parola.

-      Ora sto bene e anche lui. È cresciuto e sa badare a se stesso molto meglio di prima. Mio padre dice che sono libero di fare ciò che più desidero. Volendo potrei anche andare a vivere da solo, a condizione che badi da solo alle spese, il che grazie al successo della band non sarebbe certo un problema. – fece una pausa – Ma non penso che lo farò molto presto. Non sa badare a se stesso, basta vedere lo stato della casa quando torno dopo una lunga assenza! Io posso farne a meno, ma lui ha bisogno di qualcuno che gli stia vicino, di una presenza femminile. E in mancanza di quella ci penso io al mio vecchio! –

Ancora un attimo di silenzio, poi fu lei a romperlo.

-      Una volta Tai me ne ha parlato. Mi ha detto di te e della tua famiglia, di quanto sia stato difficile crescere con le proprie forze. – disse piano – Sai, ti ammiro. –

-      E perché? Anche tu ci sei riuscita. –

-      No, per me è diverso. – lo guardò in faccia ed improvvisamente la sua espressione si fece gelida e scrutatrice – Mia madre è morta un anno fa, quando vivevamo a New York. –

Questa volta fu il turno di lui non fiatare. Il suo cervello stava elaborando in fretta le informazioni.

Il fatto che la madre fosse morta poteva costituire la causa del profondo cambiamento avvenuto nella ragazza. Era successo circa un anno fa, il che spiegava come mai lei e il padre si trovassero in quell’equilibrio un po’ precario, come non avvezzi alla situazione. Probabilmente nessuno dei due aveva ancora digerito la cosa, soprattutto lei. Infine l’accenno alla città americana gli fece tornare in mente la fotografia trovata qualche mese prima nel cassetto. Quella volta aveva immaginato che, se era stata chiusa là dentro anziché appesa, un buon motivo c’era di sicuro ed eccolo svelato: la fotografia le faceva tornare in mente ricordi spiacevoli. Era possibile che la figura che si stagliava sulla cima del grattacielo fosse la madre stessa della ragazza.
Tutto questo attraversò la sua mente in un secondo, ma nulla trapelò sul volto.

-      Stavate a New York? - disse, dandosi subito dello stupido: domanda più insignificante non poteva trovarla.

Ma lei annuì, senza lasciar trapelare nulla.

-      Quattro anni fa mio padre accettò un’opportunità di lavoro. Cominciava ad essere conosciuto anche all’estero e viaggiare è utile a un fotografo. Voleva vedere nuovi orizzonti. Io e mia madre l’abbiamo seguito e ci siamo stabiliti là tutti e tre. – liquidò l’argomento con un gesto della mano.

-      Come… è stato un incidente? – chiese, cercando di non apparire indiscreto.

Lei parve rifletterci un attimo, come se non riuscisse a catalogare l’accaduto. O forse non sapeva se rivelarglielo o meno. Poi parve decidersi.

-      I giornali hanno parlato di “attacco terroristico nella metropolitana”. – scandì le parole, faticosamente.

Al biondo tornarono in mente i telegiornali di un anno fa: forti esplosioni e decine di morti, alcune centinaia di feriti, tutti abbastanza gravemente. Pochi indenni. Probabilmente opera di kamikaze, uomini suicidi di cui si ignoravano i mittenti. Nessuno aveva rivendicato l’attentato, lasciandolo avvolto nel mistero.
E sua madre era morta lì, in quella tragica notte.

-      Mi dispiace. – disse a capo chino.

-      Lo so, me lo dicono tutti. Ma nessuno capisce davvero. – fece lei, voltandosi e allontanandosi.

-      In realtà – sussurrò tra sé il biondo– Mi spiace proprio perché non posso capirti… perché non posso esserti d’alcun aiuto. –

Se si fosse soffermato un secondo di più, avrebbe scorto, nel modo in cui lei ne aveva parlato, nell’espressione del suo viso, qualcosa di… ambiguo.

La giornata filò liscia, come se nulla fosse stato detto. Yamato non sapeva se rallegrarsene o meno. Possibile che la conversazione non avesse significato nulla per lei? Che non l’avesse minimamente turbata? O forse stava di nuovo celando le sue vere emozioni?
Sospirò, sconfitto. Per quanto fosse bravo a scrutare le persone, aveva la sensazione che non avrebbe mai capito quella ragazza. Eppure eccola lì, le mani immerse nell’impasto, il bel volto concentrato e sporco di farina. Così semplice e complessa al tempo stesso. Pareva che qualcuno di animo audace avesse tessuto un arazzo di emozioni contrastanti, in precaria e splendida armonia.

-      Va bene così? –

-      No, gli ingredienti si devono amalgamare bene. –

-      Ma è da una vita che impasto questa roba! – protestò energicamente.

-      E devi continuare finché non diventa uniforme. –

Sbuffando, lei si rimise all’opera.
Difetti. Rimuko ne era piena. E non si curava di metterli in mostra: bastava pensare alla sua impazienza e irrequietezza, gli atteggiamenti a volte altezzosi, il sorriso scaltro, lo sguardo tagliente, di sufficienza o derisorio.
Eppure sapeva sorridere e gioire senza riserve. E piangere e soffrire. Solo non voleva darlo a vedere, riservata e di animo schivo per natura. Parlava con tutti e tutti la conoscevano. Però nessuno sapeva qualcosa di personale su di lei o sulla sua vita. Popolare e sconosciuta, strano accoppiamento di parole che la descriveva perfettamente.
Ma al ragazzo bastò lanciarle uno sguardo per dare una mano di spugna e cancellare tutti i suoi pensieri. Quella che aveva davanti, le mani impiastricciate di pasta e il broncio stampato sul viso, era l’unica Rumiko. Né semplice né complessa, solo Rumiko.

-      Buon Natale a tutti! –

-      Non ti smentisci mai: sempre in ritardo. –

-      Ma non è colpa mia! Io ero quasi puntuale, ma per colpa sua… -

-      Colpa di chi? Non lo sai che le donne si fanno sempre aspettare un po’? –

-      Ma quale donna e donna! E poi ti pare poco mezz’ora?! –

-      Parli tu, che sei quasi arrivato un’ora dopo! –

Gli altri guardavano la coppia esterrefatti. Non solo Daisuke aveva portato una ragazza, ma sembravano due gocce d’acqua: entrambi due bombe a orologeria.

-      Come ti è saltato in mente di invitare questi due pazzi? Dico, ti sei completamente ammattita?! – sussurrò Taichi all’orecchio della padrona di casa.

-      Visto che sono stata io farli mettere insieme, mi sembrava naturale estendere l’invito anche a lei… -

-      Ma sì, è Natale, ragazzi! – si intromise un sorridente signor Kitamura – L’importante è che non sfascino la casa, poi va tutto bene. –

La figlia si strinse nelle spalle, come ad indicare che la questione era chiusa.

-      Ah, voi ancora non la conoscete! – si riscosse Daisuke, ricordandosi dove si trovava – Lei è Mei Kotobuki! –

-      La sua ragazza! – precisò la biondina, sorridendo felice.

-      Complimenti, Dai! Era ora che ti staccassi da mia sorella! – esclamò Taichi.

-      Ah, tu sei il fratello della Kamiya! Sappi che non ho nulla contro di te, nonostante lei sia mia rivale! –

-      Ehm, grazie… - disse il bruno, interdetto.

-      Ah, Rumi-chan! Grazie dell’invito! – le si rivolse Daisuke, sorridendo allegro.

Immediatamente venne fulminata dalla riccia, astiosa.

-      Ora sono pure Rumi-chan, eh? –

-      E perché no? Tra amici ci si chiama così! Ovviamente tu puoi chiamarmi Dai-kun! –

-      Senti, Dai-kun, penso sia meglio che tu non la provochi. – si inserì Yamato, prevedendo l’esplosione.

-      Ma tu sei Yamato Ishida, vero? Hai cantato alla festa ieri sera! – fece Mei, allegra – Sei davvero bravo, sai? Penso che diventerò una tua fan! –

-      Ah, grazie. – disse senza troppa convinzione.

-      Ma come? Prima stravedi per me e ora vai dietro a questo qua…- riprese la parola Daisuke.

-      Cos’è, per caso sei geloso? –

-      No! –

-      E invece sì e ti sta solo bene! Così impari a fare il cascamorto con quella lì! –

-      Ma quale cascamorto! Io e Rumi-chan siamo amici, tutto qua! –

-      Allora anch’io e Yama-kun diventeremo amici! –

-      Non è la stessa cosa! –

-      E perché no? –

-      Perché… perché… perché tu sei una ragazza! –

-      E tu un ragazzo! –

-      Lo vedo da me, cosa credi?! –

-      Anch’io se per questo so di essere una ragazza! –

-      Buon per te! –

-      Sai che quando ti arrabbi sei più carino? – si addolcì improvvisamente lei.

-      Davvero? –

Intanto Rumiko e Yamato sembravano esser stati dimenticati. Meglio così, pensò lei. Taichi aveva perfettamente ragione: ma che le era saltato in mente ad invitarli? E ora la tiravano pure in mezzo ai loro battibecchi. E meno male che era Natale, o ci avrebbe pensato lei a dividere i due litiganti. Non che il cantante fosse entusiasta della situazione: l’ultima cosa di cui aveva bisogno era un’altra ammiratrice sfegatata.
Alla fine riuscirono a ristabilire la calma e andarono in salotto, dove era stata preparata la tavola. Miracolosamente i due genitori erano riusciti a districare il groviglio di cavi e l’abete era pronto per essere addobbato.

-      Abbiamo pensato che sarebbe stato carino decorare l’albero tutti insieme! – mentì la castana, con un sorriso forzato. In realtà non ne avevano avuto il tempo, visto che i papà avevano impiegato più del previsto a compiere il loro lavoro. Ma se non altro ora le luci erano accese e luccicavano tra le fronde verdi.

Il gruppo si dimostrò felice dell’iniziativa e si avventò sulle scatole contenenti gli addobbi. La ragazza tirò un sospiro di sollievo: l’avevano bevuta.

Tra risate e immancabili litigi vennero appesi i festoni dorati. Ora veniva la parte più difficile: le altre decorazioni. Perché difficile? A causa della ressa per accaparrarsi i pezzi migliori. Neppure i due genitori facevano eccezione e presto si aprì una vera e propria battaglia.
Iori afferrò una pallina rossa, che Daisuke pensò bene di rubargli. Peccato che il più giovane non fosse disposto a cedergliela tanto facilmente, così dette un forte strattone e se ne rimpossessò, tra le suppliche del moro. Dall’altro lato Taichi sembrava deciso a mettere il proprio angioletto proprio nel punto dove già stava la campanella di Sora. Senza pensarci su due volte la sostituì, ma subito la rossa gli fu addosso e i due cominciarono a contendersi il rametto. Troppo tardi si accorsero che Koushiro aveva appena infilato la propria pallina. Intanto il signor Kitamura aveva avvistato in fondo ad uno scatolone la stella da mettere sulla punta dell’albero. Peccato che il padre di Yamato l’avesse vista insieme a lui e ora non sapevano decidere chi dovesse metterla. Più lesto di mano fu però il cantante, che se ne impossessò, lasciando entrambi con un palmo di naso. Ma appena si voltò si ritrovò le mani vuote: Rumiko sorrideva maligna davanti a lui. Gli fece la linguaccia e si apprestò ad infilarla al suo posto. Peccato che la cima fosse molto alta. Da dietro le sue spalle sentì il giovane sghignazzare, ma non si diede per vinta.

“Al diavolo l’altezza!”

Ce l’avrebbe fatta comunque. Recuperò una sedia e vi salì. Giusto il tempo di lanciargli un sorriso canzonatorio… e si ritrovò per terra, leggermente stordita.
“ Ma che diavolo è successo?! “
Subito gli altri accorsero a vedere come stava.

-      Non mi sono fatta nulla, ve lo assicuro! – tranquillizzò la piccola folla.

Una persona mancava all’appello dei preoccupati. Capendo al volo l’accaduto, si alzò e si scrollò un poco i vestiti. Si muoveva con gesti lenti e pacati. Raddrizzò la sedia e raccolse la stella, ancora intatta. Poi sollevò gli occhi e la guardò dritta in faccia.

-      Vuoi metterla tu? –

-      Io… no, perché? –

-      Pensavo fosse quello il motivo per cui mi hai fatta cadere. Ma a quanto pare ce n’è un altro. –

Mei non le rispose, perché non sapeva come levarsi dall’impiccio. Invece si avvicinò, le prese la stella di mano, si arrampicò sulla sedia e la infilò sulla cima dell’albero.

-      Ehi ragazzi, abbiamo finito l’albero! Qui bisogna festeggiare! – proclamò il signor Kitamura.

-      Io ho fame! – protestò un certo moretto.

-      E allora andiamo a mangiare. Su, tutti a tavola! –

Guardando di sotto, la biondina poté scorgere un sorrisetto sul volto della rivale. Accusò il colpo: 1 a 0 per lei. Ma la partita era ancora aperta.

Dal canto suo, Rumiko era soddisfatta. Se quella piccoletta sperava di averla vinta si sbagliava di grosso. Capiva perfettamente il motivo del suo astio, ma lei non aveva fatto nulla per attirarlo, perciò la cosa non la preoccupava. Che si accanisse pure la biondina! Presto si sarebbe accorta che era pericoloso giocare col fuoco.

 


Continua…


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Capitolo 12
*** - ***


Capitolo 12

 

La cena procedette senza intoppi, a parte gli occasionali dispetti di Mei. Coglieva ogni buona occasione per criticare il cibo e la tavola, senza il minimo riguardo. Ma niente di preoccupante per la padrona di casa, che non si faceva ingannare dai suoi tiri mancini, restituendoli senza fatica.
Poi arrivò il momento tanto atteso: lo scambio dei regali. Per ognuno c’era un pensiero, fatto singolarmente o a gruppi.
Il primo fu Iori, che scartò il libro regalatogli da Rumiko. La ragazza lo conosceva poco, ma le era stato descritto come un adulto racchiuso nel corpo di un bambino. Dunque la scelta era ricaduta su qualcosa che potesse stuzzicarne l’interesse: un’opera letteraria di pregio. Lui lesse attentamente il retro, poi si alzò e fece un inchino educato, sorridendole: aveva apprezzato.
Quando venne il turno di Sora, le venne presentato un pacchetto da parte dell’amica e di Daisuke. La rossa lo scartò e rimase un attimo meravigliata: un vestito turchese, corto e dal taglio semplice.

-      L’ho trovato io, ma l’idea è stata di Rumiko! – gioì il moretto.

-      Voleva che lo comprassi per me, ma ho pensato che il colore si addicesse più a te. –

Sora li ringraziò entrambi, abbracciandoli insieme, cosa che, manco a dirlo, scatenò di nuovo la gelosia della biondina.

I pacchetti passavano ancora di mano in mano, quando Mei si sedette, annoiata. Per lei non c’era niente, poiché fino a poche ore fa era estranea a quel gruppo di amici. Eppure qualcuno le si avvicinò e si sedette accanto a lei.

-      Buon Natale. – e si ritrovò un pacchetto sotto il naso.

-      Da te non voglio nulla, grazie. – girò il capo dall’altra parte, indignata.

-      Preferiresti ricevere qualcosa da Daisuke. – commentò l’altra.

La biondina non rispose.

-      Sai bene che non ti ha comprato nulla, visto che vi siete messi insieme solo ieri sera. Perché ti ostini? – chiese Rumiko, attenta a non apparire indiscreta.

-      Non sono affari tuoi! –

-      Senti, io non ti ho fatto nulla, anzi. – cominciò ad irritarsi - Vuoi sapere perché lui è venuto da te ieri sera? Perché io gli ho detto di lasciar perdere Hikari. –

-      Me l’ha detto! Cosa credi?! Che mi faccia piacere sapere di averlo ottenuto dopo tanto tempo solo grazie ad un’altra?! –

-      Potevo essere io come chiunque altro. Prima o poi qualcuno gli avrebbe aperto gli occhi. –

-      Ma volevo essere io a farlo! –

-      Non avrebbe funzionato. –

-      E perché?! –

-      Perché tu saresti stata imparziale. Ci voleva una persona esterna per fargli vedere le cose oggettivamente. –

-      Però… lui è stato praticamente spinto nella mia direzione. – abbassò un poco la voce.

-      E che ti importa? – la guardò negli occhi – Quel che conta è che ora state insieme, no? Se hai avuto un po’ di fortuna, tanto meglio! –

Lei non rispose, ma abbassò gli occhi. Sentì il pacchetto spingerle piano contro la spalla e si decise ad accettarlo. Lo scartò e afferrò un… libro?

-      È un libro di ricette. Visto che hai criticato tanto la mia tavola, volevo darti l’occasione di dimostrarci le tue qualità di cuoca. –

-      Io non so cucinare… - ammise la quindicenne.

-      Nemmeno io. – le confidò Rumiko.

-      Ma se era tutto buonissimo! –

-      Mi ha aiutata Yamato. – bofonchiò, lanciando un’occhiata al biondo – Diciamocelo – aggiunse poi, come se le parole le uscissero a fatica – ha fatto tutto lui. –

La biondina rise: in fondo loro due un po’ si assomigliavano.

-      Buon Natale. – e si ritrovò un pacchetto fra le mani. Voltandosi incontrò il volto sorridente di Yamato.

-      Ehm, grazie, ma io… -

-      Non fare tante storie e aprilo. Non voglio passare la notte a pregarti. –

-      Va bene, va bene. –

Era di forma cubica e avvolto da una carta blu scura. Il fiocco era stato fatto alla bell’e meglio e il nastro adesivo era stato staccato e riattaccato un paio di volte.

-      Scommetto che il pacco l’hai fatto tu. E dire che ti sei descritto come un perfetto uomo di casa. – lo canzonò.

-      Appunto: uomo di casa, non dei pacchetti. – borbottò lui.

La diciottenne sorrise divertita e scartò con cura il regalo. Dentro vi trovò una scatola bianca e al suo interno… dei cd. Anzi, i suoi cd.

-      Ma questi sono… -

-      Tutti i singoli e gli album che abbiamo sfornato. –

-      Grazie… –

Ora veniva la parte più difficile: riferirgli di non avere alcun regalo da dargli. In realtà l’aveva comprato qualche giorno prima, ma non avrebbe mai ammesso di averlo ceduto a Mei. Lei stessa si era sorpresa del proprio gesto, però che ci poteva fare? Ormai l’aveva già consegnato alla biondina, perciò…

-      Ehm, per il tuo regalo devi aspettare un attimo! Mi… mi sono dimenticata di prenderlo… dalla mia stanza, è ovvio! – e si dileguò in fretta, sotto lo sguardo perplesso di lui.

Chiusasi la porta alle spalle si guardò attorno, in cerca di un’idea. Ma quale idea? Non poteva certo regalargli qualcosa di usato! E poi cosa poteva interessargli di ciò che aveva lei? Non c’era nulla di particolare in quella camera…
Si voltò verso il cassetto e, lentamente, lo aprì. La foto era ancora al suo posto, completa di cornice. Era riuscita davvero bene, una delle migliori scattate da suo padre, se non fosse per il soggetto che si stagliava contro la luna piena. Rimase lì, inginocchiata a terra, pallida e immobile come pietrificata. Sentiva lo stomaco torcersi e le lacrime pizzicarle gli occhi, la testa che le girava. Ma non pianse e sollevò piano la cornice. Quasi a fatica la impacchettò con della carta e del nastro avanzati e ad ogni movimento si ripeteva: “devo liberarmene, devo liberarmene, devo liberarmene”. Non impiegò molto e pochi minuti dopo si trovava di nuovo in salotto, scossa ma sorridente.

-      Buon Natale… e scusa se ci ho messo un po’, ma era rimasto in mezzo alla carta da pacchi. –

-      Fa niente, anzi! Mi ha stupito che tu mi abbia voluto fare un regalo, dopo… -

-      Ti avevo perdonato già prima della festa. –

-      Allora ho fatto tutta quella fatica con la canzone per niente? –

-      Apri il regalo e piantala di lamentarti! –

-      Ah, guardate, stanno scartando l’ultimo dono! Dai, Yamato, non tenerci sulle spine! – e tutti si strinsero attorno alla coppia.

-      Va bene, va bene… lo sto aprendo. – sorrise il cantante.

Stava per togliere la carta, quando, lanciando un rapido sguardo alla ragazza, si accorse di quanto fosse pallida. Per un attimo le sue mani si fermarono, incerte. Cosa le prendeva tutto d’un tratto?
La cornice gli scivolò in mano e lui la guardò, gli occhi sgranati. Tutti si sporsero per vedere il regalo misterioso ed esclamarono un “oooh”, seguito da complimenti e apprezzamenti. Solo Taichi parve avere la stessa reazione di Yamato ed entrambi si voltarono verso di lei.

“ A che gioco stai giocando, Rumiko? Pensavo che fosse importante per te, che non volessi liberartene. Credevo fosse un ricordo importante della tua vita passata. Ero convinto che l’avessi nascosta in fondo a quel cassetto per non vederla e al tempo stesso tenerla sempre accanto a te. Tua madre… non è forse tua madre quella ritratta nella foto? Non è forse la città dove lei è morta, quella che si vede? Perché me la stai regalando? Cos’hai in mente? Sono forse una semplice discarica di ricordi spiacevoli? O piuttosto mi stai affidando un tesoro importante? ”

-      Ti piace? – chiese lei, la voce ridotta ad un flebile sussurro.

“ Il tuo è lo sguardo vergognoso di chi teme un rimprovero. No, non mi piace per niente essere la tua discarica di ricordi infelici. Come non mi piace la tua domanda, che al mio orecchio suona tanto ambigua. Vorrei scagliarla a terra con tutte le mie forze. Vorrei urlarti il mio sdegno e il mio orrore. Perché non posso e non voglio credere che tu stia facendo una cosa simile. Pensi forse di cancellare il passato, gettandolo in faccia ad altre persone? Hai deciso di scaricare tutto su di me, senza chiedermi nulla? È per questo che oggi mi hai detto quelle cose, è per questo che ti sei confidata con me? Per prendermi in giro? Per usarmi? E mi chiedi ancora se mi piace?! NO! ”

-      Sì. –

“ A che gioco stai giocando, Rumiko? Quando l’ho vista appesa all’ingresso la prima volta, ne sono rimasto estasiato, come incantato. Ricordo bene il tuo sguardo, che allora mi era parso tanto triste e malinconico. Poi l’immagine era sparita, lasciando uno spazio bianco accanto alla porta. Perché? La stessa domanda mi ero posta allora e mi pongo adesso. Perché quella fotografia appare e scompare in questo modo? Quando non l’avevo più vista ero sicuro che l’avessi nascosta, magari anche buttata. Perché ti faceva tornare in mente cose spiacevoli, si capiva. E ora eccola risorgere come per magia, inspiegabilmente. “

-      Ti piace? – chiese a Yamato, la voce ridotta ad un flebile sussurro.

“Sì, io direi di sì, senza alcun indugio. Lo direi anche solo per il modo in cui l’hai chiesto, così tremante e piena di timore. Immagino che ti sia valso molto coraggio regalarla. Significa molto per te, su questo non c’è dubbio. Eppure sei disposta a separartene, a beneficio di un amico. Lo fai per riconciliarti? Vuoi dargli un pegno della tua fiducia? E gli chiedi ancora se gli piace?! SÍ!”

-      Sì. –

“ Mi chiedo a che gioco sto giocando. Ma non lo so e non lo voglio sapere. Ormai, non ha più importanza, come non ne ha quest’immagine. Si dice che bisogna lasciarsi il passato alle spalle, no? Ebbene, io, lo sto facendo. La sensazione è brutta: il corpo e l’animo si contorcono, il cuore piange. Ma è la cosa migliore. È giusto così. Lo so, eppure non riesco a fermare il fremito che mi percuote. Perché? Perché mi sento così… colpevole? Non può essere una colpa voler dimenticare. “

-      Ti piace? – chiese a Yamato, la voce ridotta ad un flebile sussurro.

“ Sì, ti prego, dì di sì. Non so perché, ma sento di aver bisogno della tua approvazione. Sento lo sguardo di tutti su di me. Anche tu mi guardi, ma non riesco a percepire i tuoi pensieri. Sei contorto, Yamato. Sei contorto e pericoloso. Te lo leggo nello sguardo, così attento e sagace. Eppure voglio sentire il tuo commento, solo il tuo. Il perché, non me lo chiedo neanche. In questo momento non saprei rispondermi. Non voglio rispondermi. E, invece di dar sfogo al mio cuore, ti chiedo se ti piace.”

-      Sì. –

“ Non ti chiedo a che gioco stai giocando, Rumiko. Non faccio domande e non pretendo risposte. Solo spero tu sappia cosa stai facendo. Sperare è concesso, ad un padre? Ecco, mi sono posto una domanda. Avevo deciso di cancellarle, ma i punti interrogativi della mia vita sono tanti e irrisolti. Sono uno spettatore, io, padre vedovo innamorato di sua figlia. Assisto alla vita della persona a cui tengo di più, esterno. Anche adesso osservo i suoi gesti, la sua espressione, e capisco. Capisco e osservo, io, il padre esterno. “

-      Ti piace? – chiese a Yamato, la voce ridotta ad un flebile sussurro.

“ Parla. Non voglio dirti come rispondere, io, che non mi pongo domande e non pretendo risposte. Ma, per favore, parla, tu che sei entrato nella vita di mia figlia. Ti prego, parla, tu che hai il potere di penetrare nel suo animo. Ti supplico, parla.

Ricordo quella volta che ti mostrai le vecchie fotografie. Tu le guardasti e percepii in te un fremito. Quella volta, ti innamorasti della mia bambina, morta un anno fa. Probabilmente sbagliai, poiché tu fraintendesti il mio gesto. Io, che non sono mai stato bravo con le parole, volevo presentarti il suo passato. Volevo che conoscessi e apprezzassi la donna che è diventata. Volevo che le stessi vicino, che la sostenessi come io non ero più in grado di fare, non come vorrei. E così guardo anche questa scena, spettatore paziente che osserva un dramma o commedia, che ancora non si sa. Perciò non mi chiedo se ti piace, io, padre esterno e innamorato di sua figlia.”

-      Sì. –

“ E buon Natale a tutti. “

La festa era finita, gli invitati se n’erano andati. Rumiko si gettò sul letto, mentre il padre era stato investito del ruolo di “metti a lavare i piatti, se no puzzano tutta la notte”. A dire il vero il compito ingrato era stato giocato a carta-forbici-sasso.
“ Povero papà… Però l’idea di affidarsi alla sorte è stata sua! “ rise piano. In un altro momento gli avrebbe dato una mano, ma era letteralmente a pezzi. E il giorno dopo le sarebbe toccato riordinare tutto.
“ E dire che è Natale!” sospirò sconsolata.
Si rigirò tra le morbide coperte. Beh, poteva sempre fare appello ai vicini, sperando che il biondo non facesse troppe storie. In fondo era lui il perfetto uomo di casa, no?
Il pensiero del ragazzo la fece accigliare. Come mai, così all’improvviso, aveva tanta voglia di averlo in casa? Ma, a pensarci bene, non era esattamente una novità. E poi non c’era nulla di strano nel voler riallacciare i rapporti con un amico a cui non aveva rivolto la parola per giorni… era perfettamente normale che volesse chiacchierare e scherzare con lui, che era anche suo vicino, nonché compagno di classe… ma era altrettanto normale che lo pensasse tanto?
Scosse la testa. Meglio non farsi prendere da simili idee sconnesse. Però, per quanto cercasse di distrarsi con altri pensieri, non riusciva a scacciarlo dalla testa.
Lo sguardo cadde un secondo sul cassetto dimenticato aperto e automaticamente la mente ricominciò a viaggiare. Aveva ceduto la fotografia. Se n’era liberata insieme al suo passato. Senza sapere il perché, gliel’aveva regalata. Ora ce l’aveva lui, magari in camera sua, in un cassetto come il suo, o forse sulla scrivania, o su uno scaffale, oppure l’aveva già appesa al posto di qualche altro quadretto. Non era mai entrata nella sua stanza, perciò non poteva saperlo. Eppure immaginava che in quel momento lui fosse seduto sul letto, le gambe larghe e le braccia appoggiate alle ginocchia. O magari con la schiena abbandonata contro la parete e una gamba piegata, come suo solito. Immaginava i suoi occhi azzurri che scorrevano sulla liscia superficie, attenti e profondi, che si perdevano fra i giochi di luce, che delineavano i contorni della sagoma dai capelli lunghi mossi dalla brezza… e allora pensava a lei, ai suoi capelli, a…
“ Ma che diavolo mi viene in mente?! Devo essermi rincretinita a causa di quella compagnia di pazzi! Come posso anche solo immaginare che lui stia pensando a me?! Perché dovrebbe farlo? E, soprattutto… perché dovrei volerlo? ”
Ormai non poteva più nascondere a se stessa di desiderare che quei pensieri fossero rivolti a lei. Ma come si era ritrovata a fantasticare cose simili? Loro due erano, nell’ordine: vicini, compagni e amici. Le cose stavano e andavano bene così.
Allora perché si faceva simili problemi? Perché continuava a rimuginarci? Perché desiderava che la notte passasse più in fretta possibile?
La sua mente stava per formulare la risposta, quando si assopì. Poco male: il cervello cancella, ma il cuore ricorda.

Comunque non aveva indovinato. Appena entrato nella stanza, Yamato aveva deciso di appendere l’immagine sul soffitto, sopra il proprio letto. Con attenzione aveva attaccato dei pezzi di nastro adesivo sul retro, per non rovinarla.
Ora stava sdraiato sulle coperte. E rifletteva. Il suo sguardo era fisso sull’immagine, duro. Più ci pensava e meno riusciva a capire. Che le era preso, così all’improvviso? Quali erano le sue intenzioni? Che significato aveva quell’oggetto?
All’improvviso si accorse di aver dato troppe cose per scontato. Tanto per cominciare l’immagine stessa. Che fosse stata scattata a New York non c’erano dubbi, dati gli edifici che spiccavano nel cielo. Ma qui finivano le certezze e cominciavano i dubbi.

Innanzitutto la data in cui era stata scattata. Poteva trattarsi di poco prima la loro partenza o l’inizio del soggiorno in America. Dunque una distanza di quattro anni. Di per sé la cosa poteva apparire poco rilevante, ma il ragazzo capì di aver trovato la pista giusta. Innanzitutto quattro anni fa Rumiko non aveva di sicuro quell’aspetto e la figura dai capelli lunghi era di sicuro una donna. Poi c’era da tenere conto la morte della madre. Dunque quella misteriosa sagoma poteva essere o la madre quattro anni fa, oppure la giovane stessa, non più un anno fa.
Non staccò gli occhi dalla fotografia, lo sguardo minuzioso e la mente lucida. Poi bisognava considerare un altro particolare, sempre legato al tempo: i sentimenti della ragazza. Se era vera la prima supposizione, significava che l’immagine rappresentava i giorni felici del passato. In caso si esaminasse la seconda, più recente, le cose cambiavano: quell’immagine le ricordava il dolore, la disperazione, la solitudine e tutte le emozioni provate alla scomparsa di una persona tanto cara. E solo una volta accertati i suoi stati d’animo avrebbe saputo quale fosse il suo ruolo e come reagire.
Alla fin fine la soluzione stava nel misterioso personaggio. Si sollevò a sedere, deciso. Il giorno dopo si sarebbe recato da loro, magari con la scusa di dare una mano con le pulizie, e avrebbe indagato. Difficilmente avrebbe ottenuto informazioni da lei, che quasi sicuramente non intendeva dargliene. Anzi, se avesse scoperto le sue intenzioni si sarebbe chiusa ermeticamente e avrebbe perduto la sua occasione di far chiarezza nella vicenda. Doveva dunque rivolgersi al padre, che sicuramente si sarebbe dimostrato più disponibile a collaborare. Ovviamente avrebbe agito con discrezione, per non allarmarli. Ma era certo della riuscita del suo piano.
Si sentiva uno di quei famosi personaggi di gialli e polizieschi. Solo che lui aveva un problema in più. Non essendo del tutto esterno alla situazione, non sapeva come comportarsi nei confronti dell’indiziata. Ora la rabbia e la delusione per l’enigmatico regalo ricevuto erano passati, lasciando spazio ad una sorta d’apprensione mista a impazienza. La fotografia da offesa era diventata indizio prezioso, un punto di partenza per conoscere quella misteriosa ragazza che aveva fatto irruzione nella sua vita.

 


Continua…



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Capitolo 13
*** - ***


Capitolo 13

 

La mattina di Natale.

Fuori il cielo era nuvoloso, ma ciò non sembrava alterare lo spirito natalizio che animava la città. Eppure non tutti condividevano quell’euforia.

La luce filtrava attraverso la finestra di una stanza buia, illuminando una figura ancora addormentata. Ad un tratto la pace della camera venne infranta dal suono della sveglia, accompagnata dall’altrettanto insistente abbaiare di un cane. La ragazza si rigirò tra le coperte, tirandole fino a coprire il capo.

A quanto pareva la sera prima aveva dimenticato di disattivarla. Accidenti a lei e alla sua sbadataggine! Però anche quel cane poteva smetterla di fare tutto quel casino. Possibile che i padroni non riuscissero a farlo tacere?

Alla fine decise che ne aveva abbastanza. Ancora intorpidita dal sonno, fece leva sul gomito per solversi quel tanto che bastava per allungare una mano verso l’orologio sul comodino, spegnerlo e… trovarsi faccia a faccia con un muso peloso.

-      AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAH! –

Subito la porta si aprì e il signor Kitamura si gettò nella stanza.

-      Tutto bene piccola? Cos’è successo? –

-      Quello – strillò puntando il dito contro l’animale – che ci fa qui?! –

-      Ah, lui è il tuo nuovo amico. Buon Natale, tesoro! – le sorrise.

-      Cosa?! Ma dico sei impazzito?! – saltò su lei – Non mi serve un amico pulcioso e bavoso! –

Forse aveva capito di esser stato tirato in ballo, perché il cane le si accoccolò in grembo.

Rumiko rimase un attimo interdetta. Era un piccolo meticcio dal pelo folto e morbido, color cioccolato. Gli occhi erano scuri e dolci. Aveva le zampe abbastanza grosse, il che preannunciava che sarebbe cresciuto fino a raggiungere una taglia abbastanza considerevole. La sua mano prese a scorrere sul dorso, affondando le dita nella folta pelliccia.

Il padre parve accorgersi del cambiamento, perché esibì un largo sorriso.

-      Allora, come lo chiamiamo? –

-      Sei un’irresponsabile! – tornò alla carica lei – Ho già il mio bel da fare così e ora dovrò occuparmi anche di un cane! –

-      Scusami, hai ragione. Avrei dovuto chiedere la tua opinione. Però quando l’ho visto non ho saputo resistere. Sai, un mio amico l’ha trovato abbandonato sotto casa sua, ma in quel condominio non si possono tenere animali. L’avrebbero portato al canile. Così ho pensato che poteva tenerti compagnia durante le mie assenze. Immaginavo che questa casa ti sembrasse tanto vuota e silenziosa… non sopporto l’idea che tu stia qui da sola. –

Lei rimase un attimo in silenzio. Sapeva che suo padre ce la metteva tutta e nonostante questo lei insisteva a rimanere sulle sue. Perché si comportava in quel modo? Perché non poteva semplicemente venirgli incontro?

-      D’accordo… visto che ormai non abbiamo scelta… però dovrai fare la tua parte quando sei a casa! –

Lui sorrise, allegro come un bambino.

-      Lo prometto! – disse – Però ora che è entrato a far parte della famiglia ha bisogno di un nome. –

-      Prima ho bisogno di una bella tazza di caffè forte e quando sarò tornata nel mondo dei vivi… ma sì, certo! – esclamò sollevando il cucciolo davanti a sé – Che ne dici di “Caffè”? Il suo pelo è dello stesso colore. –

Il padre le sorrise, dolcemente.

-      Penso che sia perfetto. –

Si voltò per uscire dalla stanza, ma venne richiamato.

-      Papà… grazie. – lo raggiunse una voce appena udibile.

-      Di nulla, Rumi. –

 

Si chiuse la porta alle spalle. Era sicuro che la figlia avrebbe fatto resistenza sulle prime, ma aveva contato sull’appoggio del cucciolo per blandirla. Ed infatti il piccolo aveva compiuto egregiamente il suo lavoro, degno di un professionista.

“ Comincio a dubitare che sia stato abbandonato… Quello è un volpacchiotto, non un cane!”

Solo si rammaricava di non aver saputo parlarle come avrebbe voluto. Amava sua figlia e desiderava poterle esprimere tutto il suo affetto, farle sapere che lui voleva solo la sua felicità.

Ma non era mai stato molto bravo ad esternare i suoi sentimenti e dalla morte della moglie…

Si rabbuiò un poco. Amava ancora disperatamente quella donna, anche se era passata a miglior vita da quasi un anno. Spesso aveva pensato che Rumiko necessitasse di una figura femminile al suo fianco, ma non aveva mai preso seriamente in considerazione l’idea di risposarsi. Un’altra donna non sarebbe certamente riuscita a colmare il vuoto che lei aveva lasciato. Era troppo grande.

Emi non era solo bella, ma anche una persona straordinaria. Era speciale, non perfetta. Ed era dei suoi difetti che lui si era innamorato. Fin dall’inizio era stata lei a prendere in mano la relazione e poi la famiglia. Rumiko aveva ereditato il temperamento impetuoso della madre e la reticenza nei sentimenti del padre. Eppure non vi erano mai stati disaccordi o tensioni nella loro casa, perché Emi aveva la capacità di attrarre le persone e trasmettere loro la sua energia. Un piccolo e bellissimo sole che rischiarava i suoi satelliti, facendoli brillare.

Poi se n’era andata e tra padre e figlia era venuto a mancare un legame, oltre al dialogo.

Ora si rammaricava di non essere stato abbastanza vicino alla giovane, di non averla abbracciata nel momento del bisogno. Si era abbandonato al suo dolore, dando per scontate troppe cose.

Ma adesso che l’aveva capito, non se ne sarebbe restato con le mani in mano. Avrebbe riconquistato il rapporto perduto, poco alla volta: dalle ceneri della sua vecchia famiglia ne avrebbe si sarebbe impegnato a crearne una nuova.

Si sentiva come un architetto in procinto di progettare una città, o un comandante che si preparava a dare battaglia. Caffè era stato il primo passo. Il secondo non avrebbe tardato ad arrivare.

 

Quando il citofono suonò, il signor Kitamura si precipitò ad aprire.

-      Buongiorno Hiroshi e buon Natale! – lo salutò il vicino di casa.

- ‘giorno. – si limitò a dire il biondo.

A quanto pareva non era dell’umore migliore.

“ Ah, i giovani d’oggi: anche a Natale con il broncio! Ma pure noi eravamo così?” pensò il padrone di casa.

-      Buon Natale a voi! Prego, entrate. –

-      Non vorremmo disturbare… - azzardò l’altro, abbassando un poco lo sguardo.

Kitamura sorrise fra sé e sé. Era più che evidente che la loro intenzione era stata esattamente quella, o almeno per quanto riguardava l’uomo. Dentro di sé sospirò: sembrava non fosse l’unico padre a trovarsi alle prese con una progenie intrattabile.

-      Non scherzare, Eichi. – gli disse con sincerità - Su, venite dentro! –

Richiuse la porta alle loro spalle e li condusse in cucina, dove la figlia stava facendo colazione, incurante del fatto che fosse quasi ora di pranzo.

Quando la vide sorrise allegramente, di fronte a quella scena che, se solo avesse potuto, avrebbe immortalato sulla pellicola.

 

Ed eccola lì, davanti a loro. Yamato si fermò un attimo, incerto. Tutto si sarebbe aspettato tranne quel singolare quadretto.

Rumiko era seduta sul tavolo della cucina, davanti alla finestra. Indossava una vestaglia grigio perla, con dei fiorellini rosa stampati sopra. I capelli erano spettinati e raccolti frettolosamente in uno chignon. Ciocche disordinate le ricadevano sulle piccole spalle. Le gambe, nude, erano incrociate, i piedi scalzi. Le mani stringevano una tazza fumante di quello che, con ogni probabilità, era caffè. In grembo, accoccolato tra le morbide pieghe della veste e col capo appoggiato su un suo ginocchio, stava un cucciolo dal folto pelo scuro. Lui sonnecchiava beatamente, lei guardava fuori dalla finestra.

Il contrasto tra la pelle ancora calda di lei e il vetro freddo e appannato. L’espressione rilassata, la posa naturale. La piccola palla di pelo raggomitolata tra le sue gambe come un uccellino nel suo nido. E ancora la sua bocca, bagnata da un velo di caffè.

Si sentì arrossire: in quel momento gli parve bellissima. E il pensiero che tale visione fosse stata riservata a lui, gli scaldò il cuore.

Yamato scosse la testa energicamente, turbato da pensieri che si era imposto di cancellare dalla sua mente. Si soffermò su quegli occhi viola, cercando di decifrarne lo sguardo. Ma quelli rimanevano distanti, persi in un ricordo o un desiderio, in un pensiero che lui non riusciva a cogliere.       

Poi, come ogni visione, anche quella si dissolse.

-      Andiamo, Caffè, la colazione è finita. – disse quasi in un sussurro, accarezzando il pelo morbido.

Posò la tazza nel lavello, il cagnolino che scodinzolava gioioso al suo fianco. Poi si voltò e registrò la loro presenza. Si bloccò, per un attimo sorpresa. Le gambe a penzoloni, le mani puntellate sul bordo del tavolo, una ciocca di capelli a solleticarle il volto. Ma subito riacquistò il controllo e spiccò un piccolo salto fino ad atterrare con i piedi nudi sul freddo pavimento. Voltò loro le spalle e permise al piccolo di saltarle in braccio.

-      Sbaglio o l’hai chiamato Caffè? – commentò Yamato, ironico, senza sapere nemmeno il  perché di quel tono canzonatorio.

-      E se così fosse? –

-      È un nome banale. – tagliò corto.

Lei gli lanciò un’occhiata fulminante e lo superò a grandi passi, il cucciolo stretto al petto, la vestaglia frusciante.

In quel momento un pensiero irrilevante attraversò la mente del biondo: prima non se n’era accorto, ma sotto la veste indossava una maglietta e delle culottes, che le fasciavano bene il corpo dalle dolci forme...

Un tonfo sonoro indicò ai presenti che Rumiko si era richiusa la porta della camera alle spalle.

 

Eichi Ishida sospirò.

“ Mi chiedo come abbia potuto anche solo sperare di trascorrere un Natale tranquillo. Possibile che anche noi fossimo così alla loro età?”

No, si rispose da solo. Era quella nuova generazione ad essere tanto inquieta. Grazie al suo lavoro, che lo teneva sempre in contatto diretto con la gente, il signor Ishida aveva avuto modo di assistere a quel lento consumarsi, a quelle esplosioni d’ira. Erano giovani vibranti di passione, che si ritrovavano di fronte ad un mondo che non riuscivano a sentire loro. Nemmeno suo figlio faceva eccezione. Capiva bene, infatti, che quell’atteggiamento spesso indifferente e scostante era dettato dal bisogno di mettere più spazio possibile tra sé e tutto ciò che lo circondava. Avrebbe voluto dargli una mano, fargli capire che gli era vicino. Ma si può venire incontro a qualcuno che non vuole essere aiutato?

Uno scambio di sguardi con il vicino di casa gli tolse ogni dubbio. Sì, si può. Ma non è semplice. Tuttavia bisogna persistere, senza arrendersi mai. Perché quelle tigri brucianti di emozioni non hanno altra arma che il loro coraggio.

In cuor suo attendeva con fiducia il giorno in cui suo figlio avrebbe incontrato quel qualcosa che l’avrebbe spinto ad abbattere la barriera, a protendersi verso il mondo e, dunque, verso di lui. Sperava solo che quel qualcosa non tardasse troppo.

 

Rumiko gettò la vestaglia sul letto. Come si era permesso a fare un simile commento?! L’aveva fatto apposta, questo era ovvio. Sapeva esattamente come avrebbe reagito lei, glielo aveva letto negli occhi, in quelle stesse iridi che l’avevano fatta sognare la notte precedente. Possibile che la detestasse a tal punto da provocarla ogni volta che era possibile? Eppure fino al giorno prima era convinta che il loro rapporto fosse finalmente migliorato o che, per lo meno, sarebbero andati più d’accordo. Invece…

Aggrottò la fronte.

“ Ma come ragiona quel tipo? Prima litighiamo a più non posso, poi di punto in bianco mi dice che è innamorato della vecchia me stessa. Nasce un caos tremendo e non ci parliamo per un bel po’. Poi alla festa mi dedica una canzone bellissima e balliamo tutta la sera. Pure la Vigilia sembra andare tutto abbastanza bene, se si tralasciano piccoli incidenti di percorso…”

Immancabilmente la sua mente volò al giorno prima, quando era andata a casa sua e lui l’aveva accolta mezzo nudo e bagnato come un pulcino. Solo al ricordo si sentì avvampare. S’impose la calma: non era da lei comportarsi come una qualsiasi ragazzina ingenua. In vita sua non era certo la prima volta che le capitava di vedere un uomo mezzo nudo! Eppure le sue ginocchia non volevano smettere di tremare. Si sentiva la testa leggera, il cuore le batteva forte.

Si stese sul letto, subito raggiunta da Caffè. Lei lo abbracciò stretto, come se fosse un peluche, e lui la lasciò fare. Era inutile continuare quell’assurda pagliacciata e lei lo sapeva bene: Yamato Ishida le piaceva e molto. Non era solo attrazione fisica. C’era qualcosa in lui che le faceva battere il cuore a mille, che la faceva arrabbiare o sorridere. Con lui non poteva fare a meno di essere travolta da un turbine di forti emozioni, che lottavano nel suo piccolo petto. Ma non le piaceva tutto di lui. Era incantata da quegli occhi vibranti e penetranti, ma ne detestava lo sguardo tagliente e sprezzante. Le piaceva la sua voce vellutata e bassa, ma non il tono sarcastico e canzonatorio. Al contrario di quanto andavano dicendo le sue fans, Yamato era pieno di difetti e lei lo sapeva bene, poiché li aveva sperimentati sulla sua stessa pelle. Quante volte aveva pianto e sofferto a causa sua, Dio solo lo sapeva!

Eppure ne era attratta come le api dal miele. No, non ne era semplicemente attratta. Se no come spiegare quelle fitte al cuore? Quella sensazione di euforia che la scuoteva e la turbava?

Capì e la presa su Caffè si strinse ancor di più.

D’altronde anche sua madre lo diceva sempre: “ Papà ha tante imperfezioni e alcune proprio non riesco a mandarle giù. Però questo non significa che non lo ami. Vedi, Rumi, ci sono tanti tipi d’amore, perché ogni persona è diversa dall’altra e ognuno ama in modo diverso. Ma è pur sempre amore.”

Sorrise.

-      Avevi ragione, mamma. – sussurrò - Come sempre: avevi ragione tu. –

 

Quando la porta della stanza si riaprì lei indossava una paio di jeans attillati e uno spesso maglione bianco, con il collo alto e le maniche che le nascondevano le mani. I capelli pettinati scivolavano sulle spalle in morbide onde di creme caramel.

-      Potevi almeno cercare qualcosa che fosse della tua taglia. – bofonchiò il biondo, cercando di nascondere l’imbarazzo.

Stranamente lei si limitò a sbuffare e lo sorpassò, seguita dal cucciolo che trotterellava allegramente. Yamato si diede mentalmente dello stupido. Per giorni non si erano nemmeno rivolti la parola e lui non aveva desiderato altro che farsi perdonare. Le aveva anche dedicato una canzone. Eppure sembrava non riuscisse a fare a meno di stuzzicarla. Perché continuava a ferirla con parole taglienti e sguardi beffardi?

Gli tornarono in mente le parole di un’anonima canzone.

“ È colpa tua, che mi streghi e m’incanti. Giorno dopo giorno mi appari sempre più bella e desiderabile. Sei speciale, come se emanassi un’aura invisibile. Sei così piccola e fremente di emozioni, che mi togli il respiro. Per quanto mi sforzi non riesco a capirti. Non so nulla del tuo passato, della tua vita, dei tuoi dolori, ma vorrei che mi aprissi il tuo cuore. Da quando ti sei chiusa nel tuo bozzolo, piccola farfalla viola? Mi chiedo se riuscirò mai a conquistare la tua fiducia, ad avvicinarmi abbastanza da sfiorarti. Ma tu respingi tutti, li eludi sgusciando tra le loro dita, inafferrabile come l’acqua. Dunque che posso fare io? Solo continuare a guardarti, incantato, studiandoti e cercando di svelarti.”

Certo avrebbe dovuto trovare un modo per evitare di provocarla. Entrò nel salotto.

 

-      Allora al pranzo ci penso io! – stava annunciando lei allegramente.

-      Meglio che ci stia io ai fornelli, o qua finiamo per passare il Natale al pronto soccorso. –

Lei gli lanciò uno sguardo fulminante e voltò il capo, indispettita.

Yamato alzò gli occhi al cielo: l’aveva di nuovo offesa.

 

Il biondo lavorava in cucina da quasi un’ora, quando fece capolino un piccolo muso peloso, seguito dal volto di Rumiko. Senza una parola, lei lo guardò un attimo, per poi sedersi sul tavolo e incrociare le gambe, il cucciolo accoccolato nel suo grembo. Tuttavia, anziché rivolgersi verso la finestra, questa volta le diede le spalle, appoggiandovi la schiena.

Lo guardava, mentre mischiava gli ingredienti e scaldava la carne, attenta ad ogni suo movimento.

Lui le lanciava delle occhiate di nascosto con la coda dell’occhio, ma fingeva di non badare alla sua presenza. In realtà non proferiva parola per evitare di offenderla di nuovo.

Poi lei allungò il braccio verso una mensola e, aprendo l’anta, svelò una radio portatile. Era un modello vecchio, tanto che aveva solo il posto per le cassette. L’accese e le note insistenti di un ritornello riempirono la stanza. Lei storse la bocca, come disgustata da quelli che erano i tormentoni del momento.

Yamato sorrise tra sé: nemmeno lui poteva dire di apprezzare quelle band di idol, che infestavano le stazioni radio con le loro canzoni banali. Non erano in grado di comporre musica, solo di fare presenza sul palco.

Lei armeggiò un attimo in una scatola che aveva trovato lì vicino, poi estrasse una cassetta e la infilò nello stereo. Play.

 

Le dolci note di una melodia conosciuta si diffusero nell’aria.

“ Yesterday.” Pensò lui.

Per un attimo lasciò che il mestolo si appoggiasse al bordo della pentola e socchiuse gli occhi.

Poi la musica lasciò spazio alle parole…

Yesterday, all my troubles seemed so far away,
Now it looks as though they're here to stay,
Oh I believe in yesterday.

Un’altra voce si aggiunse a quella di John Lennon e il ragazzo si voltò verso Rumiko. Aveva le palpebre abbassate e cantava piano, muovendo lentamente le labbra, la pronuncia fluida e sicura di chi ha vissuto diversi anni all’estero.

Suddenly, I'm not half to man I used to be,
There's a shadow hanging over me.
Oh yesterday came suddenly.

Il volume della voce si alzò un poco. Yamato, distogliendo lo sguardo, tornò alla sua occupazione, la bocca a mala pena socchiusa.

Why she had to go?
I don't know she wouldn’t say.

Il piccolo petto si gonfiò appena, inspirando l’aria ed emettendolo lunghe note melodiose.

I said something wrong,
now I long for yesterday.

Le sopracciglia leggermente contratte per la concentrazione di tenere l’accordo.

Yesterday, love was such an easy game to play,
Now I need a place to hide away,
Oh I believe in yesterday.

 

Una breve pausa, giusto il tempo di appoggiarsi più comodamente contro il vetro freddo. Poi la musica ripartì, con un’altra canzone composta da John Lennon.

Imagine there's no heaven
It's easy if you try
No hell below us
Above us only sky
Imagine all the people
Living for today... 

Imagine there's no countries
It isn't hard to do
Nothing to kill or die for
And no religion too
Imagine all the people
Living life in peace... 

Il ragazzo diede fiato alle sue corde vocali e la sua voce si unì al coro. Lei aprì un attimo gli occhi, poi li socchiuse nuovamente. La sua voce acquistò maggiore sicurezza e si alzò leggermente, più energica e vitale.

You may say I'm a dreamer
But I'm not the only one
I hope someday you'll join us
And the world will be as one 

Imagine no possessions
I wonder if you can
No need for greed or hunger
A brotherhood of man
Imagine all the people
Sharing all the world... 

You may say I'm a dreamer
But I'm not the only one
I hope someday you'll join us
And the world will live as one.

Ora veniva un altro grande successo dei Beatles, leggermente più impegnativo. Non era sicuro di ricordare bene la canzone, ma le parole parvero venire da sé.

When I find myself in times of trouble
Mother Mary comes to me
Speaking words of wisdom, let it be.
And in my hour of darkness
She is standing right in front of me
Speaking words of wisdom, let it be.

 

Let it be, let it be.
Whisper words of wisdom, let it be.

Lei si sollevò un poco, lui posò lo strumento da cucina.

And when the broken hearted people
Living in the world agree,
There will be an answer, let it be.
For though they may be parted there is
Still a chance that they will see
There will be an answer, let it be.

Let it be, let it be. Yeah
There will be an answer, let it be.

And when the night is cloudy,
There is still a light that shines on me,
Shine on until tomorrow, let it be.
I wake up to the sound of music
Mother Mary comes to me
Speaking words of wisdom, let it be.

Let it be, let it be.
There will be an answer, let it be.
Let it be, let it be,
Whisper words of wisdom, let it be.

 

Rumiko riaprì gli occhi si lasciò di nuovo andare all’indietro. Sospirò soddisfatta: non era andata poi tanto male.

Inizialmente si era recata in cucina con l’intenzione di dargli una mano, ma quando l’aveva visto all’opera aveva preferito mettere da parte i suoi propositi. Quasi senza accorgersene l’aveva osservato dosare con sicurezza gli ingredienti, creare e amalgamare un impasto informe e trarne una pietanza. Le pareva impossibile che da quell’agglomerato fosse nato un simile manicaretto. Di certo lei non vi sarebbe riuscita.

Era calmo e tranquillo in quella cucina, uno spettacolo singolare con il grembiule bianco a stampe floreali e le maniche della camicia arrotolate fino ai gomiti. Però non aveva riso di lui. Semplicemente era rimasta incantata e guardarlo. Anche se poteva sembrare assurdo, in quel momento, con il volto sporco di farina e il mestolo in mano, le era sembrato più… uomo.

Si ritrovò ad arrossire fino alla punta dei capelli. Davanti a lei c’era forse il Yamato del futuro, un uomo maturo e affidabile, padrone di sé come di tutto ciò che lo circondava. Il suo cuore prese a battere forte, al pensiero che sembrava il tipico marito casalingo sposato con una donna che era meglio tenere lontana dalla cucina.

Le tornarono in mente le parole di poco fa:

-      Meglio che ci sto io ai fornelli, o qua finiamo per passare il Natale al pronto soccorso. –

Certo, in quel momento l’aveva incenerito con lo sguardo, ma ora… In fondo avrebbe potuto limitarsi a prenderla in giro e deriderla per quella sua mancanza. Invece si era recato senza altre parole in cucina e lì si era applicato. Proprio come un marito che, nonostante le proteste, afferrava il mestolo e preparava la cena.

Poi avevano cantato. Lei aveva estratto la vecchia radio che sua madre ascoltava di tanto in tanto, mentre preparava i pasti. Aveva ripetuto quei famosi versi istintivamente, guidata da note che conosceva da sempre. Poi lui si era unito a lei, la voce più sicura ed allenata. Presto Rumiko si era ritrovata a seguirne i ritmi e le intonazioni, rapita da quella voce profonda e virile, estremamente vellutata. Come aveva potuto una volta schernirlo per le sue scarse doti canore?

-      Non credevo sapessi cantare. – lo sentì dire.

-      È da quando sono piccola che ho la passione per la musica. Però di solito preferisco ascoltarla. –

-      È un peccato, con un po’ di allenamento potresti senz’altro diventare una buona vocalist. –

Lei si sforzò di cogliere l’immancabile nota beffarda, ma non la percepì.

-      Beh, per ora mi accontento di aiutare gli altri cantanti. – fece con cautela.

Sapeva che le sue parole costituivano un azzardo: conosceva abbastanza Yamato da sapere che non era tipo da accettare aiuto dagli altri. Dunque attese con trepidazione la protesta. Che non arrivò.

-      Allora posso dire ai ragazzi che sei dei nostri? – si voltò a guardarla.

-      Suppongo di sì… -

-      Ah, hai appena fatto la felicità di molti! – le sorrise, il volto illuminato e disteso in quel gesto tanto semplice e incantevole, quanto raro.

Poi tornò alle sue occupazioni.

Lei voltò il capo verso il vetro appannato. Alzò un dito affusolato a strofinarne piano la superficie opaca. Ciò che vide nel riflesso fu un volto speranzoso, sognante, molto confuso e… innamorato.

 

 

 

Continua…

 

 

N.d.a.

Ovviamente i testi delle canzoni che ho trascritto non sono opera mia. Si tratta di “Yesterday”, “Imagine” e “Let it be” dei Beatles.

 

Monalisasmile

 

 

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Capitolo 14
*** - ***


Capitolo 14

 

Il pranzo venne consumato più tardi del previsto, ma fu delizioso. Non che qualcuno avesse osato disdegnare le sue pietanze, dato che fra i presenti era l’unico a saper usare un forno.

Rumiko mangiò di gusto, sebbene talvolta si ritrovasse assorta in altri pensieri…relativi al biondo che le sedeva di fronte. Di tanto in tanto, infatti, quando incrociava il suo sguardo, si sentiva fremere e le gote si velavano di un lieve rossore.

Subito si riconcentrava sul suo piatto, sconcertata dall’effetto che quel ragazzo aveva su di lei. Certo, aveva avuto delle cotte in quegli anni, ma non le era mai capitato di perdere la testa in quel modo. Era forse questo l’effetto del decantato amore?

 

Yamato sorrideva. Quella giornata si stava rivelando più piacevole del previsto, anche grazie ad un armistizio inaspettato. Certo, dalla sera della festa il loro rapporto era migliorato notevolmente, ma non avrebbe mai immaginato che la ragazza rinunciasse alle loro piccole scaramucce. Le aveva rivolto battute beffarde e provocatorie, eppure lei si limitava a lanciargli occhiate indecifrabili, senza proferire parola.

Ora la guardava, studiandone minuziosamente i bei lineamenti, le dolci onde dei capelli, l’impugnatura della mano sulla forchetta. Lei parve accorgersene, ma anziché avventarsi contro di lui, si limitò a lanciargli una breve occhiata, che il cantante non riuscì ad interpretare. 

 

I due genitori si scambiarono uno sguardo d’intesa. Nessuno dei due, infatti, aveva potuto fare a meno di percepire l’atmosfera insolitamente rilassata che regnava su quella tavola. Ed era ovvio che lo spirito natalizio centrasse ben poco. O no? In fondo il Natale era un giorno carico di magia e chissà che su quei due ragazzi non fosse stato operato un sortilegio.

Stava di fatto, però, che la presenza dei padri non era contemplata.

 

Si stava facendo tardi. Fuori dalle finestre le ombre degli edifici s’allungavano sull’asfalto e l’aria di faceva sempre più fredda.

Terminato il dolce, il signor Ishida si alzò, ringraziando per il pasto squisito e l’ospitalità. Poi, inaspettatamente, si rivolse a Rumiko.

-      Posso rubarti il tuo vecchio per un po’? – le chiese con un sorriso.

Lei sollevò un sopracciglio.

-      Avevo pensato di andare a festeggiare noi due “matusa” in un locale qua vicino. Giusto una birretta… -

Questa volta le braccia si incrociarono al petto.

-      Dai, Rumi, non faremo tardi… - tentò di venir incontro all’amico l’altro.

-      Il signor Ishida magari può permetterselo, ma tu hai passato molte notti insonni e hai bisogno di riposare. – lo rimproverò seccamente lei – E poi lo so che non si tratta di “una birretta”, bensì di una generosa serie. – lanciò uno sguardo al vicino.

Entrambi i genitori abbassarono gli occhi, remissivi di fronte a quella che pareva una madre severa e intransigente.

-      Ma ovviamente – aggiunse – siete entrambi grandi e vaccinati e non posso certo impedirvi di andare in giro a sbronzarvi. Solo evitate di farvi venire a prendere nel cuore della notte dall’altra parte di Tokyo. –

Senza farselo ripetere, i signori sparecchiarono in fretta e furia i loro piatti e afferrarono cappotti e sciarpe. Stavano per uscire quando li raggiunse la voce della ragazza dall’altra sala.

-      Cellulare, portafoglio e chiavi di casa potranno tornarvi utili. –

Subito quelli tornarono in salotto e infilarono tutto nelle tasche delle giacche. Dopo un frettoloso “ buona serata”, la porta si richiuse alle loro spalle con un tonfo sordo. Nell’appartamento calò un pesante silenzio.

 

Rumiko non osava sollevare lo sguardo dal suo piatto, in cui anche l’ultima briciola del dolce era stata spazzata via. Continuava a giocherellare con la forchetta, passandola di tanto in tanto sulla liscia superficie. Tuttavia, mentre la sua mano era a caccia di un rimasuglio di crema, la sua mente cercava disperatamente di escogitare un modo per levarsi da quel guaio. Non poteva infatti ignorare il fatto di trovarsi ancora di fronte al giovane vicino di casa. Sentiva il suo sguardo azzurro puntato addosso e quegli occhi attenti avrebbero notato il suo disagio. E allora come avrebbe potuto giustificare quel suo stato d’animo?

Era ancora intenta a raschiare il piattino con la forchetta quando il rumore di una sedia che veniva spostata la riscosse e lei sollevò di scatto il capo.

-      Che fai? – chiese perplessa, guardando il biondo che si era alzato.

-      Sparecchio. –

Subito lei si pentì delle proprie parole, dandosi mentalmente della sciocca. Si aspettava un commento sarcastico, ma stranamente il ragazzo si limitò a fare il giro della tavola impilando i piatti sulle braccia.

 

Quando fece per afferrare il piatto di Rumiko, lei esibì un’espressione tanto stupita che lui si bloccò un attimo.

-      Che c’è? –

-      No, nulla…cioè…grazie… -

-      Figurati, per così poco… -

-      Aspetta, ti do una mano! – si offrì.

-      No, lascia stare, qui finisco io. –

-      Allora io scelgo un film da vedere, d’accordo? –

-      Un film? –

-      Se preferisci la tombola…ma non pensavo fossi un tipo da giochi da tavola! – scherzò lei.

Il suo tono era ilare, ma non sarcastico, e nel parlare aveva esibito un sorriso divertito. Yamato si ritrovò a pensare a quanto fosse carina quando non aveva quell’aria di sfida. Non capiva bene cosa stava succedendo, ma sentì gli angoli della sua bocca alzarsi a loro volta in un sorriso.

-      Io avrei un’idea migliore. –

 

-      Allora? Quale sarebbe questa grande idea? –

-      Proprio non indovini? Ti facevo più perspicace. – le sorrise di rimando, aprendo la porta d’ingresso del condominio.

Lei restò un attimo ferma al suo posto. Yamato si voltò a guardarla, puntando i suoi occhi azzurri in quelli viola di lei. Esitava, stretta nel suo giubbotto in pelle imbottito di morbido pelo, i jeans attillati infilati in un paio di stivali alti fino al polpaccio. Al collo aveva avvolto in più giri una spessa sciarpa e sulla testa aveva infilato un berretto di morbida lana. Ma fuori faceva freddo e lei sembrava molto riluttante all’idea di avventurarsi all’esterno.

Non poté fare a meno di pensare nuovamente a quanto fosse carina e per un attimo si chiese se era solo lui a vederla in quel modo o se facesse lo stesso effetto su tutti. Certo, nessuno poteva negare il suo fascino ed era risaputo che avesse molti corteggiatori in tutta la scuola…

Rumiko sbuffò, mettendo il broncio.

Yamato sorrise. L’unica cosa certa era che quella ragazza lo attraeva terribilmente e trovava impossibile anche solo l’idea di separarsene, quasi sulla sua mente fosse stato gettato un incantesimo.

-      Coraggio, ti assicuro che non te ne pentirai. –

 

Detto fatto. Bastarono quelle poche parole a farla scivolare oltre l’uscio, le mani guantate affondate nelle tasche della giacca. Fuori il freddo era pungente e subito si sentì pizzicare le guance. Affondò ancor di più il mento nella sciarpa e lasciò che i capelli le ricadessero davanti al volto.

Ormai ne era sicura: sarebbe morta di freddo. E tutto perché era stata tanto sciocca da dargli ascolto. Ma non aveva potuto resistere a quella voce tanto vellutata e sensuale, a quello sguardo tanto caldo e…

-      Beh? Vuoi restare lì ancora per molto? –

Sorpresa, lei sollevò il capo, ritrovandosi a pochi centimetri dal volto di lui. Arrossì.

-      N-no! – balbettò, sentendo il cuore balzarle in gola.

“ Calma, Rumi, respira…”

Yamato sollevò una mano a sfiorarle il volto.

-      Andiamo, rischiamo di fare tardi. –

Lei lo guardò allontanarsi. Si portò una mano alla guancia: era calda. Rituffò il volto nella sciarpa e s’affrettò a seguirlo.

 

-      Hai intenzione di sequestrarmi? –

-      Può darsi…- le rispose in tono vago.

Uno sguardo alla fronte corrugata della ragazza gli fece capire che la prospettiva di una gita un moto non l’allettava.

-      Non avrai mica paura… – ghignò.

-      Non dire fesserie! – sbottò lei, afferrando il casco e calandoselo sul capo con decisione.

Yamato sorrise: l’aveva convinta.

 

Correvano per le strade di Tokyo, mentre la sera si faceva sempre più scura e fredda.

Rumiko era appena cosciente delle luci della città che sfrecciavano veloci ai suoi lati. Percepiva il vento schiaffeggiarle con forza il giubbotto, irrigidendole le mani guantate. Ma non aveva freddo, appoggiata alla schiena tiepida del biondino, le braccia avvolte attorno al suo torace. Seguiva i suoi movimenti quando la moto si piegava in curva, flettendo il corpo all’unisono.

Non pensava a nulla, cullata dal rumore del motore e dal battito del suo cuore, ipotizzando che pure esso fosse sincronizzato con Yamato.

 

Quando s’arrestarono erano giunti sulla cima del promontorio che sovrastava la città. Rumiko scese dalla moto e si sfilò il casco, avvicinandosi velocemente al bordo del dirupo. Spalancò gli occhi al paesaggio che le si presentò.

La città si stendeva sotto di loro, in un magnifico spettacolo di luci e colori, i rumori del traffico troppo lontani per esser uditi. Sulla destra i bagliori si riflettevano sulla superficie nera del mare, diventando liquide e scivolando sulla sua liscia superficie come acquarelli. E lungo la linea dell’orizzonte gli ultimi raggi del sole infiammavano l’acqua.

L’aria fredda le sferzava il volto e lei lasciò che le scompigliasse i capelli. Sentiva il cuore leggero e la mente sgombra da ogni pensiero. Una piacevole sensazione di pace e serenità la pervase e lei inspirò a pieni polmoni gli odori della sera.

Yamato le si affiancò, guardando anche lui il panorama. Le sfiorò una mano, per poi stringerla nella sua, sotto lo sguardo sinceramente stupito di Rumiko.

Quando il biondo parlò non aveva ancora distolto lo sguardo dal paesaggio.

-      Una volta mi hai detto che la persona di cui mi ero innamorato non esisteva più, che era solo un’ombra… Probabilmente avevi ragione. –

Abbassò il capo, sorridendo mestamente.

     Eppure il mio cuore… - portò la mano di Rumiko a infilarsi dentro il suo giubbotto, posandola sul torace – non ha mai smesso di picchiare follemente nel mio petto. –

Rumiko arrossì, avvertendo il battito del cuore di Yamato. Sembrava un cavallo scalpitante.

Ora lui la guardava, cercando con insistenza i suoi occhi viola.

-      Ho fatto un pasticcio l’ultima volta. Ho ferito tante persone che mi erano care perché

sono stato egoista e ottuso. –

C’era sincero dolore nella sua voce e lei alzò lo sguardo, rimanendo incatenata dai suoi occhi azzurri.

-      Ma questa volta – le accarezzò una guancia – vorrei fare le cose per bene… -

-      C-che cosa? – balbettò Rumiko, maledicendo l’emozione che le faceva tremare la voce.

Yamato sorrise dolcemente.

Pride can stand a thousand trials,
the strong will never fall
But watching stars without you,
my soul cried.

Senza scostare la mano di Rumiko dal suo petto le afferrò l’altra, stringendola delicatamente nella sua. Cantava a bassa voce, guardandola negli occhi, a pochi centimetri dal suo volto. Il respiro caldo si condensava in nuvolette candide che andavano a lambire le labbra socchiuse di lei.

Heaving heart is full of pain,
oh, oh, the aching.

La distanza tra di loro si ridusse sempre più. Lei chiuse gli occhi, lui si chinò sul suo volto, sfiorandole le labbra con un bacio leggero.

'Cause I'm kissing you, oh.

Le parole della canzone erano intervallate da piccoli baci a fior di labbra.

I'm kissing you, oh.
Touch me deep, pure and true,
gift to me forever
'Cause I'm kissing you, oh.
I'm kissing you, oh.

Sorridevano entrambi, ebbri di felicità.

La voce di Rumiko si levò come un sussurro insieme a quella di Yamato.

I'm kissing you, oh.
Touch me deep, pure and true,
gift to me forever
'Cause I'm kissing you, oh.
I'm kissing you, oh.

Lui avvolse le braccia attorno al busto di lei, lei portò le mani dietro al capo di lui, affondando le dita nei suoi capelli biondi. Le loro bocche s’incontrarono in un bacio più profondo e intenso, le loro lingue s’intrecciarono avide.

 

Quando si staccarono Yamato la strinse forte a sé e lei affondò il viso nel suo petto, inspirando forte il suo odore.

Le accarezzò dolcemente i lunghi capelli, volgendo lo sguardo al paesaggio.

“ E dire che avevo detto a Sora di non essere fatto per questo genere di romanticismo.”

Per la prima volta da tanto tempo sentiva il suo cuore colmo di gioia e il suo corpo leggero come una piuma. Ma nei suoi occhi azzurri passò un’ombra di amarezza e nella sua mente risuonarono le ultime parole di quella canzone tanto romantica quanto triste.

Where are you now?
Where are you now?
'Cause I'm kissing you.
I'm kissing you, oh

Mentre il sole calava oltre l’orizzonte e la notte scivolava sulle acque del mare, cancellando gli ultimi raggi luminosi di quella giornata, Yamato si chiese se sarebbe mai riuscito a svelare il mistero che quegli occhi viola, da lui tanto amati, custodivano. Poiché anche in quel momento, stretta tra le sue braccia, Rumiko gli appariva lontana.

Aveva rinunciato a elaborare teorie sul suo passato. Avrebbe invece atteso che fosse lei a raccontargli la sua storia, quando si fosse sentita pronta. Ma sperava che questo momento arrivasse il più presto possibile. Non tanto per soddisfare la sua curiosità, quanto perché era sinceramente preoccupato per lei.

 

Di solito le persone cadono in depressione in seguito a una tragedia. Piangono, soffrono, si disperano per un periodo più o meno lungo e nulla può esser detto o fatto per risollevarli. Una volta che questi hanno dato sfogo ai loro sentimenti, comincia una lenta risalita e piano piano ricominciano a sorridere e vivere le loro vite.

Ma per Rumiko era diverso. Giorno dopo giorno il suo volto si faceva più spento, il suo sorriso meno luminoso, i suoi occhi meno vividi. Nessuno se ne accorgeva. Forse solo suo padre, ma  impacciato e smarrito dalla morte della moglie non sapeva come venirle incontro.

La ferita inferta nel cuore della fanciulla non accennava a rimarginarsi. Al contrario continuava a sanguinare e con essa il suo animo, che soffriva in silenzio nell’oscurità.

Ma ciò che nessuno sapeva, nemmeno suo padre, nemmeno lei stessa, era che tale oscurità in cui il suo spirito languiva non era semplicemente una metafora, bensì un’entità viva e pulsante, che si nutriva del suo tormento e della sua angoscia in attesa del momento in cui avrebbe potuto nuovamente manifestarsi.

 

A pochi chilometri di distanza un aereo proveniente da New York atterrava all’aeroporto di Tokyo.

Koushiro attendeva in mezzo alla folla, le mani affondate nelle tasche del cappotto aperto. Gli occhi scuri fissavano il tabellone degli arrivi da più di un quarto d’ora, quasi vi cercassero una risposta, una soluzione al quesito che lo tormentava.

Ancora una volta si chiese cosa fosse saltato in mente alla sua amica per mettersi in viaggio a Natale ma, ancora una volta, dovette scuotere il capo. La ragione si rivelava impotente di fronte all’avventatezza e impulsività di quella ragazza.

“ Ma pretendo delle spiegazioni, se non altro per avermi fatto correre qua prima del dolce.”

Pensò alla deliziosa cena cucinata da sua madre e alla torta ancora più squisita che senza dubbio l’attendeva. Sospirò sconsolato: ma che Natale era mai quello, passato ad attendere in piedi in mezzo alla ressa davanti all’uscita passeggeri di un volo in ritardo di quasi un’ora?

Una voce metallica infranse i suoi pensieri, annunciando l’imminente sbarco dei passeggeri.

Poco dopo sopraggiunsero i primi viaggiatori, evidentemente stanchi e spossati dal lungo viaggio, ognuno dei quali spingeva il suo carrello contenente i bagagli.

Koushiro s’alzò in punta di piedi, tentando di scorgere una figura conosciuta: inutile, di lei nemmeno l’ombra. Quando la folla cominciò a disperdersi, il ragazzo avanzò fino alla prima fila. Ma i passeggeri erano sempre più radi e di lei nessun segno.

Si passò una mano nella zazzera rossa: stava cominciando a preoccuparsi. Che le fosse successo qualcosa?

-      Hi, Koushiro! Merry Christmas! –

Quasi cadde a terra dalla sorpresa quando la vide sopraggiungere, allegra e pimpante come non mai e soprattutto spingendo un carrello colmo di bagagli.

-      Ehm, Mimi, ma quanta roba ti sei portata dietro per un paio di settimane? – le chiese, sconfortato all’idea di doverla ospitare a casa sua.

Lei s’arrestò a un metro da lui, incrociando le braccia ed esibendo un’espressione offesa. Koushiro si sorprese a constatare quanto quella ragazza diventasse ogni giorno più bella. I lunghi capelli castani scendevano fino alle spalle, incorniciando un volto angelico dai dolci occhi nocciola. Vestiva abiti firmati, come sempre attenta alla moda del momento, le unghie laccate e curate, il trucco leggero e impeccabile.

-      È da una vita che non ci vediamo e tutto quello che sai fare è lamentarti? –

-      Oh, scusami Mimi, hai ragione, che cafone! –

Di fronte al sincero rammarico dell’amico, lei non seppe resistere e lo abbracciò di slancio.

-      M-Mimi… - balbettò lui, rosso d’imbarazzo.

-      Tu sei troppo gentile, Koushiro. Un giorno qualcuno potrebbe approfittarsene, sai? – gli sussurrò ad un orecchio.

Fece per allontanarsi dal rosso, ma con uno scatto gli stampò un sonoro bacio sulla guancia.

-      Mi porteresti i bagagli, darling? – cinguettò lei, incamminandosi verso l’uscita.

Lui era rimasto al suo posto, imbambolato e rosso in volto. Era pronto a scommettere che se si fosse trovato in mezzo a una strada anziché ad un aeroporto le macchine si sarebbero arrestate di fronte a quel semaforo umano.

-      Allora? – si voltò a guardarlo lei, in attesa davanti alle porte scorrevoli – Non vorrai passare il tuo Natale qui, no? –

A quelle parole il rosso si riscosse.

“ Maledetta Mimi, riesce sempre a controllarmi!”

Borbottando, prese a spingere il carrello coi bagagli verso di lei. Mimi era fatta così: bella e viziata, anche se notevolmente meno rispetto a quando era bambina, otteneva sempre quello che voleva facendo gli occhi dolci alla gente. Tendeva a dare subito fiducia alle persone e ad  affezionarsi facilmente. Odiava la violenza, ma era disposta a farsi in quattro per venire in contro a coloro che ne avevano bisogno.

 

Koushiro fece arrestare il carrello a pochi metri da lei, improvvisamente serio. Lei lo guardò perplessa.

-      Che succede, Koushiro? –

-      Dimmi, Mimi… - la guardò dritta negli occhi – Perché sei venuta qua in fretta e furia? Non è da te lasciare la tua famiglia e i tuoi amici per imbarcarti su un volo durante un periodo di festeggiamenti. –

Lei distolse lo sguardo.

-      Ma che stai dicendo? Qui ci siete tu e gli altri, Tokyo è comunque la mia città e poi… -

-      Sono serio. – la interruppe lui – E gradirei lo fossi anche tu. –

Mimi si voltò nuovamente a guardarlo, sgranando gli occhi di fronte a quel ragazzo che lei ricordava ancora come un bambino interessato unicamente all’informatica.

Quando s’erano conosciuti, diversi anni prima, Koushiro era un ragazzino solitario e schivo, quasi asociale nella sua incapacità di relazionarsi con gli altri. Ma tale handicap era andato via via riducendosi, fino a scomparire quasi del tutto. In lui restava solo una timidezza innocente, che lei non riusciva a non trovare adorabile.

Eppure non avrebbe esitato a definire il ragazzo che aveva di fronte adulto e…

“Affascinante…”

Si morse le labbra a quel pensiero e si costrinse a tornare coi piedi per terra. Le aveva posto una domanda ben precisa, l’unica cui non aveva voluto dare risposta fino a quel momento, evitando accuratamente l’argomento nelle mail che si erano scambiati.

 

Koushiro la vide scostare una ciocca di capelli dal volto pensieroso e portarla dietro l’orecchio destro. Un gesto meccanico, che lui aveva imparato a interpretare come un segno di nervosismo o di esitazione.

-      C’è una questione che devo risolvere… una cosa successa diverso tempo fa e di cui non ho mai parlato con nessuno di voi, anche se probabilmente avrei dovuto… -

La vide mordicchiarsi ancora il labbro inferiore: sì, era turbata da qualcosa.

-      Solo che allora – riprese lei – non sapevo di cosa si trattasse, avevo solo un sospetto, ma la cosa mi sembrò di poca importanza e presto me ne dimenticai… -

Abbassò un attimo lo sguardo, colpevole di qualcosa che l’altro non riusciva ad immaginare.

-      Non so nemmeno io perché non ne ho parlato almeno con te e soprattutto come ho fatto a scordarmene! Spero solo non sia troppo tardi… -

 

Koushiro le si avvicinò e le posò una mano su una spalla, sollevandole il mento con l’altra, dolcemente. Le sorrise rassicurante e lei si perse per un attimo in quelle iridi scure e calde.

-      Per oggi non pensarci più: è Natale e tu sarai molto stanca dopo questo lungo viaggio. Ora andiamo a casa mia, ci attende uno dei strepitosi dolci di mia madre! –

Afferrò nuovamente le maniglie del carrello e lo spinse verso l’uscita, mentre lei gli si affiancava, prendendolo sottobraccio.

-      Sai – le disse ancora, senza guardarla – sono davvero felice tu sia qui, qualunque sia il motivo. –

Mimi non era sicura che il lieve rossore sulle guance di Koushiro non fosse dovuto al freddo della notte d’inverno. Ma si strinse ancora di più contro il suo braccio, sorridendo allegra.

“ Anche io sono contenta di essere qua, Koushiro…”

 

Qualcosa prese a pulsare dentro il corpo di Mimi. Ma qualunque cosa fosse, lei non se ne accorse.

 

 

 

Continua…

 

 

 

N.d.a:

La canzone è “Kissing you” di Des’ree, romantica ma anche molto triste. Un po’ banale, se paragonata a quelle che ho citato negli altri capitoli, però è la prima che mi è venuta in mente mentre scrivevo.

Monalisasmile

 

 

 

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Capitolo 15
*** - ***


Capitolo 15

 

Il sole splendeva gioioso su Tokyo, riflettendosi in bagliori accecanti sulla neve che per tutta la notte non aveva cessato di fioccare. Al porto le imbarcazioni erano attraccate saldamente al pontile, incrostate da un sottile strato di ghiaccio.

Era la mattina del 26 dicembre e Mimi inspirò a pieni polmoni l’aria frizzante. Seduta sul muretto che costeggiava il lungomare, il volto scoperto rivolto verso l’acqua, sembrava voler assorbire con un solo sguardo l’intero paesaggio.

-      Ero convinto che con la scusa del fuso orario avresti dormito per due giorni di fila. –

Non c’era derisione nella voce del rosso, calda e dolce alle orecchie della ragazza.

Mimi arrossì, voltandosi e incontrando il suo sguardo.

-      Koushiro! - sgranò gli occhi, trovandosi a pochi centimetri dal volto di lui.

-      Oh, scusami, ti ho spaventata? –

Sembrava sinceramente mortificato e lei non poté far altro che scuotere il capo, tentando di nascondere il rossore che le imporporava le guance.

Lui si sedette accanto all’amica, allungando le gambe al di là del parapetto.

-      Sai, Koushiro…mi è mancato tutto questo. –

 

Le lanciò un’occhiata di soppiatto e la vide sorridere dolcemente verso l’orizzonte, gli occhi luminosi alla luce del mattino.

Sorrise a sua volta: quella ragazza non avrebbe mai smesso di sorprenderlo. Ogni suo gesto era talmente genuino e spontaneo da lasciarlo sbigottito.

Ricordò l’avventura che avevano vissuto insieme diversi anni fa. Non si conoscevano, ma sin dal primo momento gli era parso chiaro che Mimi fosse l’opposto di lui: semplice, spontanea e passionale. Alle volte s’era sorpreso ad invidiarla un po’ per quelle qualità che spesso l’avevano messa nei guai ma che in compenso le avevano permesso di conquistare l’affetto di molti. Cosa che non si poteva dire di Koushiro, razionale e contenuto in ogni suo gesto. Sapeva badare a se stesso e non aveva mai avuto bisogno di nessuno. O almeno questo era ciò che credeva.

Era stata la stessa Mimi a fargli capire il suo errore di giudizio, anche se probabilmente non se n’era mai accorta.

Koushiro riportò lo sguardo sul mare, sorridendo sereno.

 

-      Allora, cosa mi racconti di nuovo? – esordì la ragazza dopo un lungo silenzio.

-      Cosa vuoi sapere? –

-      Non so… un po’ di pettegolezzi! – sorrise lei, civettuola.

Lui scoppiò a ridere, gettando il capo all’indietro: non era cambiata di una virgola! E la cosa gli riempiva il cuore di gioia.

“ Per fortuna certe cose non cambiano mai…” pensò, riportando la mente ai fatti che erano accaduti negli ultimi tempi.

Certo nulla di grave, sicuramente molte persone ora erano serene e spensierate, ma ciò non di meno alcuni di loro avevano sofferto ingiustamente. Ma non era questo a preoccuparlo.

Corrugò la fronte: da qualche tempo aveva una strana sensazione. Avvertiva una tensione, nell’aria e nelle persone che lo circondavano, che andava acuendosi di giorno in giorno. Quasi che si stessero creando le premesse per il compiersi di un evento.

Mimi dovette mal interpretare la sua espressione pensierosa. 

-      Dai, non vorrai dirmi che non è successo nulla da quando ci siamo visti l’ultima volta… -

Koushiro le sorrise, chiudendo dentro di sé i suoi pensieri e i suoi sentimenti. Come era solito fare, d’altronde. Perché allarmarla inutilmente? Gliene avrebbe parlato quando ne avrebbe avuto le prove.

-      Beh effettivamente sono successe diverse cose, dipende quali vuoi sentire per prime. –

-      Love stories? –

“ Prevedibile” pensò lui, affettuosamente.

-      Yamato e Sora si sono lasciati. –

-      Oh… - si spense il sorriso della ragazza – Mi dispiace per lei, deve esser stato un duro colpo… -

-      È stata lei a lasciarlo. –

-      Davvero?! –

Koushiro annuì, godendosi l’espressione stupefatta dell’amica. Quanto le era mancato quel volto tanto espressivo e sincero.

 

-      Come mai si sono lasciati? –

Koushiro alzò le spalle.

-      Lo sai che i pettegolezzi non sono mai stati il mio forte. E poi non sono il tipo di persona da cui gli altri vengono per sfogarsi… -

Mimi abbassò il capo. Conosceva Koushiro da tanti anni, forse meglio di tutti gli altri digiprescelti: un ragazzo timido e gentile, dolcissimo e premuroso, sebbene a modo suo. Quella che gli altri scambiavano per insofferenza e circospezione era in realtà un’impacciata modestia. Che lei trovava adorabile.

-      Però – continuò il rosso – credo che il loro rapporto avesse diverse piccole incrinature già da un po’ di tempo. Non parlavano più come prima, non erano più legati come una volta. –

Lei sorrise dolcemente dell’innata perspicacia dell’amico: chissà come, sapeva sempre qualcosa in più di quello che si poteva supporre. Sin da bambino, per quanto taciturno e concentrato più sul suo computer che sulle persone che lo circondavano, aveva un acuto sesto senso. Col passare degli anni e grazie all’amicizia con gli altri digiprescelti, il rosso aveva imparato a interagire maggiormente col mondo, sviluppando la sua sensibilità. E in tutto questo processo, a Mimi piaceva pensare di aver avuto una parte importante…ma non gliel’aveva mai chiesto, timorosa di ricevere una grande delusione.

-      Poi, certo, è intervenuto un fattore esterno… -

-      “ Fattore esterno”… - levò gli occhi al cielo lei – Koushiro, questa non è scienza, ma pettegolezzo! – lo canzonò lei.

-      Hai ragione, Mimi. Allora vogliamo chiamarla…ragazza? –

 

Come aveva previsto gli occhi della castana s’accesero d’entusiasmo e lei si aggrappò con entrambe le mani al suo braccio. Koushiro ringraziò di avere il cappotto, altrimenti quelle dita artigliate gli avrebbero lacerato la carne.

-      Una ragazza?! Chi?! Yamato ha…?! –

-      No, non penso l’abbia tradita. Ma credo che Sora abbia capito che avrebbe potuto farlo, perciò l’ha lasciato. –

-      Povera cara… Se metto le mani su quella sciacquetta…! – ruggì furiosa.

Koushiro sospirò di fronte all’istinto protettivo suscitato nella ragazza di fronte alle disgrazie dell’amica. D’altronde era fatta così: sensibile, impulsiva e tremendamente testarda.

-      Non le farai nulla, Mimi. – tentò di calmarla lui.

-      E perché?! Credi che non ne sarei capace?! –

-      Oh, non lo metto in dubbio! Ma probabilmente dovresti ingaggiare battaglia non solo contro Yamato, ma anche contro Sora, Taichi e un’agguerritissimo Daisuke! –

La vide sollevare un sopracciglio, perplessa.

-      Vedi, prima che accadesse tutto quel trambusto, Rumiko aveva già stretto amicizia con tutti loro e dopo l’accaduto il rapporto tra lei e Sora s’è addirittura rafforzato, perciò… -

-      Come? –

-      Dicevo che Sora l’ha perdonata, dunque… -

-      No no, come l’hai chiamata? –

Koushiro cercò il suo sguardo, ma la ragazza pareva persa in foschi pensieri.

 

“ No, non può essere lei…sarebbe un caso troppo fortuito, una coincidenza incredibile… eppure ho come l’impressione che si tratti proprio di lei, perché se così fosse…”

-      Rumiko…si chiama Rumiko Kitamura. Ah, giusto, ha vissuto a New York per un po’, per caso la conosci? –

 

Ci fu una breve pausa, troppo corta per lasciar spazio ad altre domande, troppo lunga per non indovinare la risposta.

-      No… - fece lei, voltando il capo dalla parte opposta e nascondendo il viso allo sguardo indagatore dell’amico.

 

Koushiro aggrottò la fronte.

“ Sei sempre stata negata per le bugie, Mimi. Che cosa mi stai nascondendo?”

Una cosa era certa: il nome di Rumiko le era tutt’altro che nuovo.

 

“Alla fine è stato più semplice del previsto.”

Eppure quel pensiero non le procurava alcun sollievo. Ora cominciava la parte difficile.

Era da un anno che la cercava, ma dopo quella notte la famiglia Kitamura pareva esser svanita nel nulla. I vicini avevano riferito che s’erano trasferiti, ma nessuno sapeva dire dove. Aveva fatto molte ricerche, ma senza risultato. Poi c’era stato uno spiraglio: un collega del signor Kitamura le aveva riferito che entro qualche mese il fotografo avrebbe allestito una mostra personale a Tokyo. Il tempo di organizzare la partenza e Mimi s’era messa in viaggio. Non ne aveva fatto parola con gli altri digiprescelti, nemmeno con Koushiro. Innanzitutto doveva trovarla e meno persone erano coinvolte, minore era la possibilità che lei se ne accorgesse.

“ Maledetta strega…”

 

Un sonoro “etciù” ruppe il silenzio dell’appartamento 18.

Yamato sghignazzò.

-      Credi che qualcuno stia parlando male di te? –

-      Non escludo l’ipotesi, ma è più facile che io mi sia raffreddata, non credi?! –

Il biondo rise di gusto, sotto lo sguardo fulminante di Rumiko, seduta sul divano e avvolta da un morbido piumone blu.

-      Sei sempre malata. – la beffeggiò lui, posando il vassoio con la colazione sul tavolino di fronte al sofà.

-      È colpa tua se ho preso freddo! Tua, della tua moto e delle tue gite notturne! –

Lui si chinò sul suo volto, fermandosi a pochi centimetri di distanza.

-      Vuoi dire che non ti è piaciuto? – le sussurrò con voce roca.

-      N-non volevo dire questo. – borbottò lei, scostando lo sguardo dai suoi occhi azzurri e magnetici.

Yamato le stampò un bacio sulla guancia.

-      Sei adorabile. –

Rumiko abbassò lo sguardo, impacciata. Non era abituata a riceve complimenti tanto diretti, soprattutto a doverli accettare senza ribattere con battute sarcastiche.

-      Ho dimenticato i cucchiaini, arrivo subito. – si scusò il biondo, scomparendo in cucina.

Rimasta sola nel salotto di casa Ishida, Rumiko lasciò che la sua mente volasse alla sera precedente.

 

Yamato l’aveva baciata. Era stato tutto perfetto, semplicemente meraviglioso. Nella sua testa risuonavano ancora le parole della canzone che le aveva cantato. Una melodia romantica e struggente…

Poi erano tornati a casa. Ma anziché dividersi, lei era entrata in casa Ishida. Non era la prima volta che attraversava quella soglia, ma questa volta si era concentrata meglio su quanto la circondava.

Un appartamento ordinato e moderno, arredato in maniera semplice ma fornito di un mega televisore al plasma, uno stereo di ultima generazione, molti cd, dvd e, immancabilmente, giochi per il computer. Mancavano i fiori e tende e tovaglie erano di un monotono bianco. In compenso le pareti erano costellate di poster d’arte contemporanea e paesaggi, sui mobili comparivano cornicette che riquadravano i volti sorridenti dei familiari. La casa di due uomini, insomma.

Yamato aveva lasciato che desse un’occhiata in giro, poi l’aveva condotta nella sua stanza. Anche questa si era presentata esattamente come Rumiko se l’era immaginata: spaziosa e piena di musica. Le pareti erano un collage di poster di band e rock star. I cd parevano sbucare da dovunque, impilati su ogni scaffale, mensola o ripiano disponibile.

S’era gettata sul letto per sfuggire all’abbraccio di Yamato, ma il giovane l’aveva seguita, stendendosi accanto a lei.

-      Quella foto… -

Yamato aveva seguito la direzione del suo sguardo.

-      Perché l’hai appiccicata al soffitto? –

-      Per poterla ammirare più comodamente. – aveva risposto lui, senza distogliere lo sguardo dall’immagine.

Il silenzio era calato nella stanza, scandito dai loro respiri. Ciascuno poteva percepire il rincorrersi dei pensieri nella mente dell’altro, senza però riuscire a intuirne il contenuto.

Lui si era alzato a sedere, probabilmente con l’intento di metter fine alla faccenda.

Rumiko aveva fissato la sua schiena, spaziosa ed eretta, e le ampie spalle. E aveva provato l’irresistibile impulso di rifugiarsi dietro di esse, di esser rassicurata e consolata.

Invece era rimasta immobile. Come sempre…

 

-      Ehi, tutto bene? –

Rumiko si riscosse improvvisamente dai suoi pensieri.

-      S-sì, certo! Benissimo! – sbiascicò in fretta.

Yamato non disse nulla, limitandosi a sedersi accanto a lei. Rumiko afferrò la tazza di caffè ancora calda e l’accostò alle labbra.

-      Senti… - sentì esordire Yamato – Forse io non sono la persona più raccomandabile, ma vorrei che ti fidassi di più di me. –

Rumiko non osò guardarlo, fissando lo sguardo nel liquido scuro tra le sue mani.

-      So che non è facile, ma parlare a volte aiuta a capire, ad accettare…anche a dimenticare, se necessario. Ci sono passato anche io, tanto tempo fa… -

-      Non credo… – sussurrò lei, posando la tazza sul tavolino.

-      Ne sei sicura? –

Silenzio.

-      Il fatto che due persone abbiano vissuto vicende diverse non significa che non possano capirsi l’un l’altra. Persone con esperienze simili possono al contrario confrontarsi, metter l’altro a parte delle consapevolezze acquisite. –

Silenzio.

-      Rumiko… - le afferrò delicatamente le mani nelle sue – Io voglio aiutarti, per quanto mi sia possibile. Ma non posso farlo se non mi parli. –

La vide tremare impercettibilmente. Allora temette di aver esagerato. L’abbracciò e la cullò dolcemente sul suo petto, senza dire più nulla.

 

“ Io voglio fidarmi di te! Voglio davvero fidarmi di te! Perché tengo molto a te…”

 

-      Quella foto… -

Yamato smise di cullarla, ma non la lasciò.

-      Quella foto è molto importante…riguarda il mio passato, un passato che ormai mi sono lasciata alle spalle... –

-      Che tipo di passato? –

Lei parve pensarci un attimo su.

-      Non saprei nemmeno io come definirlo… Facevo qualcosa che mi entusiasmava, che mi faceva sentire forte, quasi invincibile. Anche se forse non sempre era giusto… Ho trascorso dei bei momenti, ma poi è morta mia madre e tutto è cambiato… O forse è solo cambiato il mio modo di vedere il mondo. D’improvviso quelle cose che avevo fatto mi sono sembrate mostruose e solo l’idea di rifarle mi procurava disgusto. Fino a quel momento non avevo pensato alle conseguenze delle mie azioni, ma ripensandoci mi accorgevo del dolore che dovevo aver procurato a molti, seppur indirettamente. Ho cominciato a chiedermi perché avessi compiuto certe azioni, ma ogni risposta mi sembrava insoddisfacente. –

Sospirò.

-      Ho cominciato a cercare all’esterno le riposte di cui avevo bisogno. E sono venuta a conoscenza di alcune verità che hanno accresciuto la mia amarezza, aumentando anziché dissipando i miei dubbi. Ho capito di non esser mai stata messa al corrente di tutta la verità. Ho provato rancore per quelli che avrebbero dovuto aiutarmi e guidarmi e che invece mi avevano lasciata in balia della sorte. Mi sono sentita abbandonata e usata. E impotente. Perché ormai quelle cose erano già successe e non avrei potuto far nulla per cambiarle. –

Lui non aveva ancora proferito parola, immobile e attento.

-      Non penso di rinnegare del tutto quel mio passato, ma andandomene da New York ho deciso di porvi la parola “fine”. È un capitolo chiuso della mia vita… -

Yamato annuì, sebbene non fosse affatto sicuro di aver capito.

-      Quella foto me lo ricorda continuamente, perché ne ha immortalato un momento rappresentativo. –

Yamato ripensò alla figura dai capelli lunghi che si stagliava sulla cima del grattacielo. Osservandola con attenzione aveva notato che portava uno strano copricapo, con due punte sulla cima. Un mano teneva un bastone. Era una teppista?

“ Beh, col caratterino che ha non mi stupirebbe…”

Era possibile che dopo la scomparsa della madre avesse capito il significato della morte e del dolore che poteva arrecare ad altre persone. Forse aveva messo la testa a posto per non impensierire ulteriormente il padre, già abbattuto dalla perdita della moglie. O forse da quel giorno qualcosa s’era spento dentro di lei e non aveva più trovato una ragione per continuare con quello stile di vita.

 

“ Ti prego, non chiedermi altro…non posso dirti nulla di più. Quelle cose che ho fatto, quella che ero e quello che è successo nessuno dovrà mai saperlo! Perciò ti prego, non chiedermi altro, non riuscirei a mentirti…”

 

Probabilmente lei non intendeva andare più a fondo con le spiegazioni e lui non avrebbe insistito. Però c’era ancora una cosa che voleva sapere.

-      Mi hai regalato quella foto per disfarti di un ricordo doloroso? –

 

Sapeva che prima o poi gliel’avrebbe chiesto. Lei aveva provato diverse volte a elaborare una risposta soddisfacente. Ma gli sforzi non l’avevano condotta da nessuna parte.

 

-      Non lo so… - si scostò da lui.

Lui attese che continuasse, cercando d’intercettare il suo sguardo evasivo.

-      È stato un gesto… -

-      Impulsivo? –

-      Direi piuttosto istintivo… -

Rumiko scrollò le spalle, come a volersi arrendere.

-      Ok, lo ammetto: non avevo un regalo per te. Cioè sì, ce l’avevo, ma l’ho dato a Mei. -

-      Credevo avessimo fatto pace alla festa della scuola. Mi odi così tanto? – rise lui.

-      No, certo che no! Il regalo te l’avevo preso già prima della festa… -

Il sorriso del ragazzo si allargò e lei s’accorse di aver parlato troppo.

-      Comunque l’ho dato a Mei perché Daisuke non le aveva preso nulla e non volevo che si sentisse esclusa…poi tu mi hai regalato i cd e non volevo lasciarti a mani vuote, così sono andata in camera mia in cerca di… -

-      Di qualcosa da riciclare! – scoppiò a ridere lui.

Lei lo fulminò.

-      Tu mi avevi fatto un regalo bellissimo, mi avevi regalato qualcosa di tuo. E io avrei voluto fare altrettanto…ho cercato qualcosa che potesse piacerti, che mi rappresentasse, che potesse farti pensare solo a me… -

Yamato non rideva più, fissandola serio.

-      Ho pensato alla foto e prima che me ne accorgessi te l’avevo già impacchettata… -

Lui le afferrò una mano, ma lei parve non accorgersene e continuò imperterrita la sua spiegazione disordinata.

-      Non sapevo nemmeno io come dovessi interpretarla, non so cosa ho pensato in quel momento. –

Lei non s’accorse del corpo di lui che s’accostava al suo.

-      Ma per quanto a me possa rievocare spiacevoli ricordi, è qualcosa di mio, di personale. Qualcosa che nessun altro ha. Perciò io… -

La interruppe con un bacio.

 

Sapeva che l’interruzione avrebbe potuto farla inviperire, ma non aveva potuto trattenersi.

Gli bastava incontrare quegli occhi viola, smarriti e turbati per aver voglia di stringerla tra le sue braccia. Rumiko era forte e coraggiosa, ne era convinto. Ma nel suo sguardo vedeva il suo tormento interiore, l’intensità delle sue emozioni, i fantasmi del suo passato misterioso.

“ Voleva regalarmi qualcosa di solamente suo...”

Sentirle pronunciare quelle parole gli aveva fatto battere il cuore a mille. Sapere che lei lo pensava, che voleva che anche lui la pensasse…

Le credeva. Voleva credere ad ogni sua parola. Perché l’amava.

 

Quando scese la notte, le nuvole si muovevano lente, ora oscurando, ora rivelando piccoli scorci di una pallida sfera sopra Tokyo.

Tutto era silenzioso.

Poi improvvisamente si levò l’ululato del vento, che scacciò rapidamente le nubi.

Una luna piena brillava ora nel cielo, proiettando la sua luce sulle alture alle spalle della città, insinuandosi tra rocce ed alberi, fino a rivelare le colonne di un tempio scintoista dedicato al dio Inari, la divinità del riso.

L’alone latteo scivolò sulle lisce superfici e sulle mattonelle del sentiero, sino all’ingresso del santuario. Ma non proseguì oltre: la statua di una volpe si ergeva ai piedi di un antico ciliegio, le fauci spalancate e minacciose.

L’ululato del vento si fece più insistente, rimbombando sulle pendici del promontorio e  agitando le chiome dell’albero.

Poi tutto tacque.

Le nubi tornarono a coprire la luna e tutto venne nuovamente avvolto dall’oscurità. Eppure un debole biancore s’aggirava ancora nel cortile del santuario, quasi che la luna avesse scordato di ritirare uno dei suoi raggi luminosi.

 

 

 

Continua…

 

 

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Capitolo 16
*** - ***


Capitolo 16

 

-      Mamma, una volpe! Una volpe bianca! –

-      Una volpe? –

-      Lì lì, era proprio lì! –

Ma il dito del bambino indicò vanamente un vicolo cieco. La madre sospirò, prendendolo in braccio.

-      Non ci sono volpi bianche da queste parti, Soichiro… -

-      Ma io l’ho vista! – protestò lui con vigore.

-      Certo, certo… -

Mentre s’allontanavano il piccolo non distolse lo sguardo dal punto dove l’aveva vista comparire, sicuro di non essersi sbagliato.

 

-      Ehi, sei con noi? –

-      Taichi! Ma che modi di fare sono questi?! – lo rimproverò Sora.

-      Oh, scusa… - si grattò il capo lui, imbarazzato.

Rumiko esibì un sorriso tirato.

-      Non ti preoccupare, non c’è problema… -

Ma voltandosi dall’altra parte incontrò uno sguardo azzurro che sembrava voler dire “no, un problema c’è eccome, solo che tu non ce lo vuoi dire”.

-      Ti vedo stanca…sicura di stare bene? - le chiese la rossa, sinceramente preoccupata.

Rumiko annuì. Non voleva farli preoccupare inutilmente. D’altronde cosa poteva dire? Che non dormiva da quasi una settimana e che a stento mangiava? Le avrebbero chiesto il perché e allora lei sarebbe stata costretta a mentire.

“ A causa di un presentimento…”

Una cosa ridicola, se ne rendeva perfettamente conto. Ma sapeva anche che tempo fa quelle sensazioni si erano rivelate fondate in più di un’occasione. C’era infatti stato un tempo in cui era stata in grado di percepire la tensione nell’aria, l’odore della paura, l’imminente svolgersi di un evento significativo.

“ Tempo fa…”

Era questo a preoccuparla maggiormente.

Aggrottò la fronte, pensierosa. Era convinta di aver perduto quel tipo di istinto un anno fa, andandosene da New York, lasciandosi tutto alle spalle.

Che stava succedendo? Perché d’improvviso quelle sensazioni erano tornate, più violente che mai, togliendole il sonno e l’appetito?

Percepiva una presenza accanto a sé, che di giorno la osservava e di notte tentava in tutti i modi di entrare nella sua mente, nei suoi sogni. Non sapeva darle un nome, né una forma, ma istintivamente tutto il suo essere si ritraeva al suo avvicinarsi e lottava con tenacia per scacciarla quando la sfiorava.

Per quanto si sforzasse non riusciva a capire cosa le stava accadendo. Ma aveva una spiacevole sensazione di dejà vu.

 

Yamato la vide aggrottare le sopracciglia e seppe che si stava di nuovo perdendo in un labirinto di pensieri.

Era così da quasi una settimana e a ogni colazione lei appariva più pallida e debole. I momenti in cui si estraniava da tutto ciò che la circondava si moltiplicavano e diventavano via vai più lunghi.

All’inizio aveva tentato di parlarle, di capire cosa le stesse succedendo, ma dalla confusione nel suo sguardo aveva capito che nemmeno lei lo sapeva. Le aveva allora chiesto a cosa pensasse. Ma qui Rumiko aveva taciuto, distogliendo lo sguardo.

“ Non si fida ancora di me?” aveva pensato lui con amarezza.

Le lanciò nuovamente un’occhiata, ma come da un po’ di tempo a quella parte non riuscì a incrociare il suo sguardo. Si chiese in che luogo e tempo stessero vagando quegli occhi viola. E se mai sarebbe riuscito a raggiungere la meta di quello sguardo.

 

Sora e Taichi si scambiarono un’occhiata.

Avevano deciso di ritrovarsi dopo quasi una settimana che non si vedevano, per scambiarsi un po’ di notizie e magari organizzare una gita in montagna.

Ma ora, seduti al tavolino di un bar del centro da venti minuti, non avevano ancora iniziato un discorso. L’unica speranza di ravvivare l’atmosfera era rappresentata dall’arrivo di Koushiro e Mimi.

“ Ammesso che Mimi riesca a decidersi su cosa mettere!” pensò la rossa, sorridendo tra sé al pensiero della fatica che occorreva a Koushiro per sopportare ogni piccolo capriccio dell’amica.

 

-      Ti dispiacerebbe allungare il passo? Siamo in tremendo ritardo! –

-      Quante storie per dieci minuti… - sbuffò la castana.

-      Nulla da obiettare, Mimi, se quei dieci minuti non vengono triplicati! –

-      Ma dai, tanto sono al caldo… -

Koushiro si voltò a guardarla, sollevando un sopracciglio: era evidente che la ragazza non era molto entusiasta di quel incontro. Il perché poteva intuirlo: Rumiko. Ma il motivo dell’astio della digiprescelta nei suoi confronti era ancora un mistero.

“ Strano che Mimi sia riuscita a mantenere il segreto per una settimana…”

Eppure quella constatazione non lo faceva sorridere minimamente. Doveva trattarsi di qualcosa di serio e presto avrebbe scoperto di cosa si trattava.

 

Quando arrivarono in vista del bar Mimi rallentò l’andatura, così scattò il semaforo rosso per i pedoni. Vide Koushiro scalpitare, impaziente, eppure non proferì parola.

Lei benedisse il suo garbo. Aveva bisogno di riordinare le idee prima di metter piede là dentro.

Innanzitutto doveva studiare la sua avversaria, tentando di capire di cosa fosse a conoscenza e quali fossero i suoi intenti. Ma qualunque cosa accadesse non doveva scoprirsi con gli altri. Non temeva che Koushiro potesse rivelare qualcosa a qualcuno, si fidava della sua discrezione e del suo buon senso. Di sicuro sarebbe stato d’accordo con lei con l’inutilità di una litigata con il resto del gruppo, che di sicuro avrebbe difeso Rumiko contro delle accuse tanto gravi e prive di prove concrete.

“ A parte la mia testimonianza.”

Strinse la mascella, al pensiero di quello che era accaduto e del motivo che l’aveva spinta a saltare su un aereo per inseguirla fino dall’altra parte dell’oceano: vendetta.

 

-      Scusate, se non vi dispiace io prenderei una boccata d’aria fresca. –

Detto questo Rumiko s’alzò. Yamato fu lesto a imitarla, ma Taichi parlò per primo.

-      Vengo con te, ho bisogno di sgranchirmi le gambe! – si stiracchiò le braccia sopra il capo.

-      Allora io e Yamato vi aspettiamo qua al calduccio così se arrivano gli altri ci trovano, va bene? – Sora si rivolse al biondo.

Il cantante lanciò prima una breve occhiata alla ragazza che si stava infilando il giubbotto, poi si lasciò ricadere sulla sedia.

-      Ok. –

-      Benone, torniamo tra poco. –

Taichi schioccò un bacio sulla guancia della rossa e poi seguì Rumiko fuori dal locale.

 

Rimasti soli, Sora allungò una mano a stringere quella di Yamato dall’altra parte del tavolo.

Lui le rivolse uno sguardo cupo.

-      Sei preoccupato per lei, vero? –

-      È così evidente? – sorrise lui amaramente.

Lei gli parlò con voce calda e gentile.

-      Quanto è evidente che ne sei innamorato. –

Yamato quasi scoppiò a ridere. Invece buttò il capo all’indietro, aprendo la bocca a vuoto e rivolgendo uno sguardo triste al soffitto.

-      Deve essere la mia punizione… -

-      Punizione? –

-      Per non esser stato corretto con te, per non averti amata quanto meritavi… -

-      Che sciocchezze. –

Il biondo la guardò, sorpreso del tono duro dell’amica.

-      Sono cose che capitano e nessuno può esser definito colpevole “di non amare abbastanza” qualcun altro. –

-      Come fai a dirlo? –

-      Beh – lei si chinò verso di lui, sorridendo furbescamente – sono o non sono la prescelta dell’Amore? –

Lui le sorrise.

-      Non fartene una colpa – proseguì lei – se non riesci a capirla del tutto. Non pensare che lei non ti racconti tutto ciò che l’angustia perché non si fida di te. È un atteggiamento controproducente che ti porterà solo a deprimerti ancor di più. E non è quello di cui ha bisogno lei in questo momento, se è già preoccupata per qualcosa. –

Yamato annuì, stupito di come Sora fosse riuscita a leggergli così bene nel pensiero.

-      Non so cosa preoccupi Rumiko, ma prima o poi avrà bisogno del tuo aiuto. Allora dovrai esser pronto a sostenerla o consolarla, anche senza fare domande. Lo so, vorresti sapere tutto e subito. Vorresti poter entrare nella sua mente e vedere cosa la disturba tanto. Ma non puoi, perciò devi fidarti di lei, devi fidarti del fatto che quando si riterrà pronta ti racconterà ogni cosa. Fino ad allora limitati a starle accanto. Vedrai, le basterà. –

-      Sora… perché le cose tra noi non hanno funzionato? –

La domanda gli uscì spontanea prima ancora che se ne rendesse conto.

-      Perché – gli sorrise amaramente lei – io non ho mai desiderato abbastanza di poterti capire, così come tu non hai mai sentito la necessità di svelarti. Se manca la volontà l’attesa è inutile. –

-      Già… ma non è colpa di nessuno dei due, giusto? Ci siamo incontrati senza riuscire ad avvicinarci abbastanza da capirci fino in fondo. E dalle incomprensioni sono nati i dubbi, le ansie… -

-      Succede, ci abbiamo provato. – concluse lei – L’importante è fare tesoro delle nostre esperienze e andare avanti. –

 

-      E così tu e Yamato ora state insieme! -

-      Sì… -

L’intento di Taichi di tirarle su il morale e cambiare discorso era chiaro come il sole. Aveva fatto in modo che a uscire fossero solo loro due, così da allentare un po’ la tensione. Gliene era profondamente grata.

-      Da quando? – volle sapere ancora lui.

-      Da Natale, ho dormito da lui e… -

-      Rumiko ! –

Sembrava davvero indignato e lei non poté fare a meno di scoppiare a ridere.

-      Non abbiamo fatto nulla, volevamo solo evitare di esser svegliati dai nostri genitori che tornavano ubriachi al mattino presto! E credimi, è stato un bene… il mattino dopo erano entrambi sdraiati sul tappeto del salotto a russare con Caffè che giocava con le loro scarpe! –

-      Caffè? –

-      Sì, il mio cucciolo. –

-      Hai un cucciolo? –

-      Sì, me l’ha regalato mio padre per Natale… -

-      Allora potrò venire da te qualche volta? Mi piace giocare coi cani… -

-      Sei sempre il benvenuto, lo sai, e penso che piaceresti molto a Caffè. Ma non è che Sora s’ingelosisce? – gli sorrise complice.

-      Del tuo cucciolo? –

Rumiko scoppiò a ridere.

-      Taichi, ti sto prendendo in gi…! –

Ma qualcosa le fece morire le parole in bocca.

-      Ehi, Rumiko... – le si accostò il digiprescelto.

-      Devo andare. –

E corse via.

 

-      Hello guys! – cinguettò Mimi, allegra.

-      Ciao Mimi! – l’abbracciò Sora.

Koushiro salutò Yamato, che era rimasto seduto al suo posto sorseggiando un caffè.

-      Taichi e Rumiko non sono qua con voi? – si stupì il rossino.

-      Sono fuori a prendere una boccata d’aria… - rispose stancamente il cantante.

-      Allora andiamo a prenderli! Coraggio coraggio, tutti fuori! – li strattonò Mimi.

Koushiro levò gli occhi al cielo: la castana non conosceva le mezze misure.

-      Quanta fretta, Mimi… - commentò Sora, stupita – Come mai tanto entusiasmo? –

-      Beh è da una vita che non vedo Taichi e Koushiro mi ha parlato tanto di questa Rumiko… voglio conoscerla! –

-      Va bene, allora… - ma la rossa venne interrotta dal sopraggiungere di Taichi.

Mimi allungò il collo in cerca di una ragazza dagli occhi viola, ma non la vide da nessuna parte.

-      E lei dov’è? – fu la prima a rivolgersi al castano.

Questi scosse il capo, confuso.

-      Non lo so, è fuggita via all’improvviso… non so perché! –

-      Fuggita?! – esclamò Mimi.

-      FUGGITA?! – saltò su Yamato.

-      Non ho avuto il tempo di fare nulla. – si scusò Taichi – L’ho persa un isolato dopo tra la folla… -

Il biondo ricadde pesantemente sulla sedia, tenendosi il capo tra le mani.

-      Ma non hai idea di cosa sia successo? – insistette Mimi – Avrà visto o sentito qualcosa… -

-      Non ne ho idea… -

Lei annuì pensierosa, mentre Taichi e Sora si avvicinavano a Yamato per tranquillizzarlo. Koushiro le si accostò, chiedendole se avesse voglia di fare un giro o tornare subito a casa: in una simile situazione sarebbe stato meglio rinviare la rimpatriata.

Ma lei quasi non lo sentì, troppo impegnata a cercare di interpretare quell’azione improvvisa e apparentemente insensata. Che avesse intuito le sue intenzioni?

“ No, impossibile… È più probabile che abbia visto un fantasma!”

 

Ma non era un fantasma quello da cui Rumiko fuggiva, sebbene avesse un morbido pelo candido.

“ No, no, non è possibile! Non qui… non ora… no!”

Correva tra la folla, senza avere una chiara idea di dove stava andando.

“ Non può avermi seguita, non può esser giunta fin qui, è impossibile !”

Urtava la gente ma non se ne accorgeva nemmeno, continuando a correre.

“ Come ha fatto a varcare il Confine?! Credevo di poterglielo permettere solo io!”

Non si accorse nemmeno che si stava allontanando sempre più dal centro e che i passanti diminuivano gradualmente.

“ Allora quella sensazione, quella presenza che tentava di entrare nei miei sogni, nella mia mente… era lei !”

Aveva il fiato corto ormai, sentiva i polmoni bruciarle e la borsa pesarle su una spalla.

“ Perché è tornata, perché mi ha seguita?!”

Si fermò, stremata dalla corsa.

-      LASCIAMI STARE! – urlò verso il cielo – TI AVEVO CHIESTO DI ANDARTENE! PERCHÉ MI FAI QUESTO?! –

-      Perché ti voglio bene… -

Cadde a terra in ginocchio. Ripensò a sua madre, a quanto era accaduto un anno fa, a quello che aveva causato un anno fa.

-      Non è colpa tua… - le giunse di nuovo quella voce gentile.

-      Come no?! Siamo state noi a causare tutto quello! –

-      È stato un incidente e vista la situazione era inevitabile che accadesse... Non puoi fartene una colpa. –

-      MIA MADRE È MORTA IN QUEL “INCIDENTE”! E IO NON DOVREI FARMENE UNA COLPA?! – strillò – È  COLPA MIA SE LEI NON C’È PIÙ, È COLPA MIA SE TANTE ALTRE PERSONE NON CI SONO PIÙ! SE IO NON AVESSI AGITO, SE NON AVESSI VOLUTO COMBATTERE, ALLORA… -

-      Allora molte altre persone avrebbero fatto una fine ancor più atroce. –

Silenzio.

-      Avremmo potuto evitarlo, avremmo potuto… -

-      Sai che non è così… –

Rumiko scosse il capo.

-      Vorrei non averti mai conosciuta… -

Questa volta fu l’altra a non rispondere.

Il silenzio calò di nuovo.

 

Rumiko tese le orecchie, in cerca di un segno che rivelasse la presenza della creatura, ma non captò nulla.

“ Se ne sarà andata?”

Una morsa familiare le strinse il cuore: rimorso.

“ No, ho fatto la cosa più giusta…”

Ma lei sapeva davvero cosa fosse giusto? Era giusto sfogare su di lei il rancore che provava verso se stessa? Era giusto rivolgerle parole tanto crudeli e immeritate?

Sapeva di averla ferita, poteva sentire il suo dolore sulla sua stessa pelle.

Quest’ultima constatazione incupì ancor di più la ragazza.

“ Il nostro legame è ancora tanto forte dopo un anno di separazione?”

Avevano vissuto tante avventure insieme, avevano viaggiato in luoghi che lei non avrebbe mai neppure immaginato. Stando accanto a lei si era sempre sentita protetta, al sicuro da qualsiasi nemico avesse mai osato sfidarle.

Non era vero che rimpiangeva di averla conosciuta. Perché anche lei voleva bene al suo digimon.

 

White Foxmon guardò la sua prescelta alzarsi e pulirsi sommariamente le ginocchia. Poi Rumiko raccolse la borsa e s’incamminò verso il centro della città, a passo lento.

Il digimon si soffermò ancora una volta sul viso stanco della ragazza, pallido e tirato come non l’aveva mai visto.

Appoggiò il muso sulle zampe anteriori, preoccupata. Era giunta nel Mondo Reale la notte prima, attraverso il santuario dedicato al dio Inari, cui sono sacre le volpi. Aveva sfruttato la presenza della luna piena in contemporanea nei due mondi e aveva aperto un varco. Era stato difficile e molto faticoso in quelle sembianze, ma necessario.

Attese che Rumiko svoltasse l’angolo, poi prese a seguirla a debita distanza. La prescelta aveva acquisito un certo sesto senso stando accanto al digimon, ma quella facoltà era solo un’ombra del potere chiaroveggente di White Foxmon.

La creatura digitale balzava agilmente da un tetto all’altro, poi s’acquattava nell’ombra, in attesa che la ragazza proseguisse. Assomigliava in tutto e per tutto a una volpe, non fosse stato per gli occhi di rubino.

Aveva avvertito qualcosa di strano grazie all’ancora forte legame con Rumiko e poche notti prima aveva utilizzato i suoi poteri per capire di cosa si trattasse. Certo le sue facoltà erano piuttosto limitate allo stadio intermedio, ma ciò nonostante era riuscita a vedere l’imminente svolgersi degli eventi. E a capire meglio quelli del passato.

“ Sono stata una sciocca a non averci pensato prima.”

Se si fosse soffermata un po’ di più su quanto era accaduto quella notte di un anno fa, le cose ora non sarebbero a questo punto. Ma come aveva sempre ripetuto a Rumiko, era inutile perdersi nelle incertezze. I “se” non avevano mai portato nessuno da nessuna parte.

Con un agile balzo superò un ostacolo e saltò sul tetto successivo. Doveva parlarne assolutamente con Rumiko e al più presto.

Sapeva che non sarebbe stato facile, quella ragazza poteva rivelarsi davvero testarda. Ma si era ripromessa di insistere finché non le avesse dato ascolto. Tuttavia…

Rallentò per un attimo il passo, trafitta nuovamente da quel dolore acuto. Quelle parole le avevano fatto male. Più di qualsiasi ferita in battaglia.

Perché molti lo ignoravano, ma, sebbene i digimon fossero essenzialmente costituiti da dati digitali, alcuni “predestinati” acquisivano un’anima nel momento in cui incontrano i loro umani, instaurando un legame che permetteva loro di condividere le stesse gioie e gli stessi dolori, finanche fisicamente. Tale traguardo si materializza nella Biodigievoluzione.

“ Ma il significato di tutto ciò Rumiko non lo sa… Non appieno…”

Quante cose avrebbe voluto dirle, quanti dubbi avrebbe voluto risolverle…

S’impose di non lasciarsi più abbattere da quelle parole. Probabilmente non ci credeva davvero.

 

Era ormai scesa la sera. Stanca e spossata, Rumiko aveva infine smesso di girovagare per la città e s’apprestava a tornare a casa.

Improvvisamente si fermò. Il digimon fece lo stesso, nascondendosi alla sua vista: che l’avesse scoperta?

La vide voltarsi e far saettare lo sguardo in un vicolo buio. La vide turbata.

-      White Foxmon… smettila di seguirmi… - la udì rivolgersi alle ombre.

Ma la sua voce tremava leggermente, quasi non credesse davvero che lì potesse celarsi il suo digimon. Poi si rivoltò e allungò il passo.

“ Allora non mi ha scoperta…”

Stava per uscire dal suo nascondiglio sul tetto, ma si ritrasse velocissima: aveva avvertito un’altra presenza.

Aguzzò la vista e attese pazientemente.

Poi qualcosa si mosse nelle ombre del vicolo e una ragazza sbucò da dietro l’angolo. Aveva lunghi capelli castani e occhi nocciola. I tratti del volto erano dolci e indossava dei begli abiti.

“ Perché non ho avvertito la sua presenza molto prima?” si chiese la volpe.

La fanciulla si guardò attorno con circospezione, alzando il viso come se annusasse l’aria.

Un pensiero improvviso attraversò la mente di White Foxmon.

“ Un digimon?!”

S’accucciò ancor di più per evitare che il vento le portasse il suo odore. La ragazza attese ancora qualche minuto, poi s’incamminò nella direzione che aveva preso Rumiko.

 

White Foxmon imprecò fra sé: le cose stavano procedendo velocemente, troppo velocemente.

“ Rumiko non è ancora pronta…”

Ma sapeva di non avere scelta: doveva scoprire chi fosse, o meglio cosa fosse quella ragazza e quali fossero le sue intenzioni. Poi avrebbe informato Rumiko, che fosse ben disposta o meno. Ormai non c’era più tempo.

Digrignò i denti, frustrata. Poi riprese la sua corsa, questa volta seguendo la pista di Mimi.

 

 

 

Continua…

 

 

 

N.d.a

White Foxmon è un digimon da me inventato. Leggendo potrete notare diversi parallelismi con Renamon, uno dei digimon protagonisti della terza serie. Tuttavia ci tengo a precisare che la mia scelta di un digimon-volpe è stata tutt’altro che casuale e ve ne accorgerete successivamente.

Per ultimo, ho estrapolato alcuni concetti e fenomeni (quali la Biodigievoluzione) da serie successive o altre fonti, interpretandole secondo i fini della mia storia.

 

Monalisasmile

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Capitolo 17
*** - ***


Capitolo 17

 

-      DOVE DIAVOLO SEI STATA?! –

Rumiko non rispose, prendendosi tutto il tempo per chiudere la porta dell’appartamento 17 alle sue spalle.

“ Forse avrei dovuto aspettare un po’ prima di dargli una copia delle chiavi di casa…” fu il suo pensiero, effettivamente del tutto fuori luogo.

Non era stupita di trovarsi di fronte Yamato, né della sua collera. Era fuggita senza dire una parola e per tutto il pomeriggio non aveva risposto al cellulare. Aveva fatto preoccupare tutti, forse lui più degli altri. Ma aveva bisogno di stare sola, di pensare…

-      ALLORA?! CHE CAVOLO TI È PRESO?! –

-      Nulla… -

-      “ NULLA” NON È UNA RISPOSTA ACCETTABILE IN QUESTO MOMENTO! –

-      Non posso dirtelo… -

Yamato aprì la bocca per dire qualcosa, ma non vi uscì nulla. Rumiko si sentì morire vedendo lo sconforto e la disperazione nei suoi occhi.

Il cantante si portò entrambe le mani al capo, chinando la testa e appoggiandosi a una parete.

Stettero in silenzio per quelle che alla ragazza parvero ore, ma non osava infrangerlo. Per dire cosa, poi? Che era fuggita sperando scioccamente di seminare il suo digimon, un mostro digitale proveniente da un mondo parallelo? Che una volta erano compagne inseparabili, che avevano combattuto insieme per anni, per poi allontanarsi bruscamente? Che la causa del loro lungo distacco era il disastro accaduto un anno fa a New York in cui centinaia di persone, tra cui la sua amata madre, avevano perso la vita? Che lei si odiava per quello che aveva fatto?

“ Sono una persona disgustosa…un’assassina, una codarda…”

White Foxmon non aveva più colpe di lei per quello che era successo, eppure lei l’aveva allontanata malamente, le aveva rivolto parole crudeli, accuse immeritate. Perché aveva paura.

“ Non posso dirti nulla, Yamato… Lo so che sono egoista, lo so che sono una bugiarda e una vigliacca, ma se te lo dicessi tu mi lasceresti…”

E lei non voleva perderlo.

“ Io credo di amarti, Yamato…”

-      Cosa devo fare? – lo sentì mormorare.

Si copriva gli occhi con una mano, ma Rumiko ebbe la sensazione che fosse vicino al pianto. Avrebbe voluto abbracciarlo, rassicurarlo, fargli capire che lei gli era vicino e il resto non contava nulla.

Ma non si mosse, né seppe cosa rispondere.

Il biondo non disse più nulla. Trasse un profondo respiro e si staccò dalla parete. Si diresse verso la ragazza e la oltrepassò senza che i loro sguardi s’incrociassero.

Quando lei si voltò, lui aveva già chiuso la porta alle sue spalle.

 

-      Mimi? –

Daisuke allungò il passo. Non aveva ancora avuto modo d’incontrarla da quando era giunta a Tokyo, dato che ormai passava le sue giornate con Mei.

-      Che c’è, Dai? Chi hai visto? –

La biondina lo guardava interrogativa, avvinghiata al suo braccio.

A distanza di una settimana Daisuke non riusciva ancora a capacitarsi di quanto le cose fossero cambiate. Fino a poco tempo prima non aveva occhi che per la dolce Hikari, mentre ora…

-      Stavi guardando una ragazza, dì la verità! – insistette la riccia, mettendo il broncio.

“ Mentre ora mi sono preso una cotta per una pazza gelosa!” sospirò lui.

Eppure quel pensiero lo faceva sorridere. Mei era una ragazzina tutto pepe, frizzante ed esuberante, eppure nei suoi confronti si dimostrava spesso dolce e piena d’attenzioni. Era una strana sensazione accorgersi di piacere veramente a qualcuno. Inutile dire che la cosa lo riempiva d’orgoglio.

-      Ehi, abbassa la cresta, ragazzino! – lo avrebbe rimproverato scherzosamente Rumiko.

“ Già, Rumiko… in fondo è soprattutto grazie a lei se ora io e Mei stiamo insieme!”

A ben pensarci era da parecchi giorni che non la vedeva, chissà come aveva passato il Natale? Si ripromise di andarla a trovare nei prossimi giorni, magari in compagnia di Mei, dato che un paio di giorni fa la biondina aveva ammesso di trovarla simpatica.

-      Mi era parso di vedere una mia vecchia amica… – rispose  alla domanda della ragazza.

-      Che tipo di amica?! – lo fulminò lei.

-      Un’amica come Sora, come Rumiko… -

Sembrava averla convinta.

-      Ti spiace se la raggiungiamo? Mi piacerebbe salutarla visto che è da tanto tempo che non la vedo! –

-      Ok… ma facciamo in fretta! – si strinse ancor di più al suo braccio, quasi temesse che qualcuno potesse portarglielo via.

Lui si gonfiò d’orgoglio, sentendosi tanto desiderato. Poi partirono nella direzione in cui l’aveva vista.

 

Yamato si chiuse la porta del suo appartamento alle spalle e si diresse verso la sua stanza. Non si stese sul materasso, volendo evitare di vedere la fotografia che lei gli aveva regalato. Si sedette invece per terra, appoggiando la schiena al bordo del letto.

“ Cosa devo fare?”

Non lo sapeva. Per la prima volta in vita sua si ritrovava con le spalle al muro, incapace di reagire e, soprattutto, di proteggere una persona a lui cara. In passato aveva saputo consigliare i compagni, proteggere Takeru, riempire i vuoti lasciati dal divorzio nella vita del padre, ma ora… Ora tutta la sua maturità, il suo coraggio e la sua forza di volontà sembravano inutili.

“ Cosa devo fare?”

A chi poteva chiederlo? Il padre aveva già abbastanza grattacapi e sarebbe stata la prima volta che i due affrontavano un simile discorso.

I suoi amici sospettava che ne sapessero meno di lui. Aveva parlato con Sora quel giorno stesso, ma ormai gli sembrava chiaro che la pazienza e l’attesa erano soluzioni insufficienti al suo caso. Era sempre stato in tipo perseverante, ma non credeva di riuscire a sopportare in silenzio mentre Rumiko s’allontanava ogni giorno sempre più da lui.

S’erano appena sfiorati e già la stava perdendo…

“ Cosa devo fare?”

Per tutta la vita si era rifiutato di chiedere aiuto ad altre persone, fatta forse eccezione per Taichi e Sora. Ma se loro non erano in grado di aiutarlo, allora chi poteva farlo?

“ Gabumon…”

Era da molto tempo che non lo vedeva, chissà come stava, chissà se lo pensava, chissà se percepiva il tormento del suo digiprescelto anche a una simile distanza.

Istintivamente allungò una mano ad aprire l’ultimo cassetto del suo comodino e ne estrasse il suo digivice. Lo strinse nel pugno, quasi lo stesse supplicando di dar risposta ai suoi mille dubbi.

Ma l’oggetto rimase freddo e insensibile alla sua richiesta. Allargò le dita, lasciando che cadesse a terra, rimbalzando sul parquet con un tonfo metallico.

Si levò in piedi. Non poteva lasciarsi abbattere in questo modo, non era da lui! E poi…

“ Rumiko ha bisogno di me... e anche io di lei. Non posso perderla proprio ora che ci siamo avvicinati!”

Con questi propositi lasciò la stanza, deciso a farsi una doccia e lavare via i pensieri spiacevoli.

Il digivice restò ai piedi del letto.

 

-      Mei, la vedi? –

-      No! C’è troppa gente, Dai! –

I due allungarono il collo, alla ricerca di Mimi, ma inutilmente: la fiumana di persone di ritorno dal lavoro non permetteva loro di scorgerla.

-      Cavolo, eppure era davanti a noi un attimo fa… - borbottò il digiprescelto.

-      Eccola! –

Mei indicò una figurina in t-shirt che s’infilava in un vicolo sulla destra.

“ Ma dove va senza nemmeno una giacca? Siamo in dicembre!” si chiese Daisuke.

La coppia allungò il passo, cominciando a correre radente alle vetrine. Svoltarono l’angolo e s’infilarono nel vicolo.

Daisuke quasi urlò, quando vide Mimi poggiare le mani a terra e spiccare un balzo fino al tetto del palazzo di fronte.

Con uno strattone schiacciò Mei tra il suo corpo e il muro di un edificio, sperando che le ombre della sera li nascondessero alla vista di quella creatura che non poteva essere Mimi.

-      Dai, che diavolo…?! –

Le tappò la bocca con una mano, facendole segno di tacere. Si sporse un poco per vedere se la creatura se n’era andata. Non la vide da nessuna parte. Forse l’avevano scampata.

Mei colse quel attimo di distrazione per liberarsi dalla sua presa.

-      Che diavolo sta succedendo?! Perché la tua amica è saltata sul tetto di un palazzo a cinque piani?! –

-      Mei… - tentò di tranquillizzarla lui.

-      Che cosa è quella ragazza?! –

-      Non lo so… -

-      Che vuol dire che NON LO?! – strillò lei.

-      Esattamente quello che ho detto: NON LO SO! –

La biondina si ritrasse, stupita: era la prima volta che sentiva Daisuke alzare la voce.

-      Quella non è Mimi, non quella che conosco io… Deve esserle successo qualcosa. –

Ma cosa di preciso, non ne aveva idea. Sapeva solo che nessun essere umano né animale era in grado si compiere un simile balzo. Solo…

“ Solo un digimon potrebbe saltare in quel modo.”

La sua espressione era tanto seria e preoccupata che Mei decise di deporre l’ascia di guerra, almeno per il momento. Gli afferrò una mano, stringendola gentilmente.

-      Dai, che sta succedendo? E non dirmi che non lo sai, perché ho come l’impressione che tu un’idea ce l’abbia… -

-      Mei, non so se è una buona idea… -

-      Non ti fidi di me? O pensi che saperlo potrebbe mettermi in pericolo? –

-      Non è così semplice… -

-      Perché? –

Perché c’erano in ballo verità di cui pochi erano a conoscenza. Perché si parlava dell’esistenza di un altro mondo, parallelo al loro, e di altre creature molto diverse da quelle che popolavano la Terra che tutti conoscevano.

Spiegarle quella situazione voleva dire metterla a parte di tutto ciò che avevano fatto, che avevano visto. Voleva dire svelare non solo se stesso e il suo digimon, ma anche quelli degli altri.

Non ne aveva fatto parola con nessuno, nemmeno la sua famiglia. Dunque perché mai avrebbe dovuto…

-      Per favore, Dai… - lo supplicò la biondina sfoderando uno sguardo da cerbiatta.

-      E va bene, ti racconterò tutto… -

C’era poco da fare: Daisuke non sapeva resistere alle moine.

 

Rumiko esitò un attimo, poi infilò la chiave nella toppa ed entrò nell’appartamento 18.

Chiudendosi la porta alle spalle senza far rumore, per un attimo si sentì una ladra.

“ Che sciocchezze, è stata sua l’idea di scambiarci una copia delle chiavi. E poi non vengo a rubare!”

Voleva parlargli. Non sapeva ancora cosa gli avrebbe detto di preciso, ma non sopportava più di vederlo così. Se era stata lei a fargli del male, allora sarebbe stata lei a lenire quelle ferite. E se questo voleva dire rivelargli la verità, quella verità che persino ai suoi genitori aveva raccontato solo in parte…

Ormai non si chiedeva più se fosse o meno la cosa giusta da fare, perché non riusciva più a dare un significato a quel termine.

“ Giusto…”

Era forse giusto quello che era stato fatto a sua madre e a quella gente? Era forse giusto che suo padre e tante altre persone fossero state private dei loro cari? Era giusto il rancore che lei aveva riversato su White Foxmon?

Scosse il capo.

“ Ormai non ha più importanza…”

Sentì lo scroscio dell’acqua proveniente dal bagno e ipotizzò che Yamato si stesse facendo una doccia ristoratrice. Decise di attenderlo in camera sua.

Aprì la porta.

 

-      White Foxmon… quale piacevole sorpresa! –

Il digimon non si mosse, studiando con gli occhi rossi la fanciulla che aveva di fronte. Una cosa era sicura: il suo tono falsamente meravigliato tradiva una perversa ilarità, segno che s’era accorta da tempo del pedinamento.

-      A cosa devo l’onore? –

La voce poteva apparire umana, ma il digimon la percepiva stranamente distorta.

-      Cosa sei? –

La creatura sorrise, per nulla infastidita che la sua domanda fosse stata deliberatamente ignorata.

-      Dovresti saperlo… L’hai pensato non appena mi hai visto, ne sono sicuro. –

“ Un digimon…”

-      Esatto. – annuì la ragazza.

White Foxmon fece un balzo indietro: possibile che le avesse letto nel pensiero?

-      Possibilissimo, mia cara. –

La volpe rizzò il pelo, ringhiando guardinga.

-      Perché ti stupisci tanto? Non è la prima volta che ti capita d’incontrare un digimon con simili facoltà. –

White Foxmon lasciò che il pelo si riabbassasse, mentre indietreggiava a occhi sbarrati.

“ No…”

-      Oh sì… -

La volpe bianca si voltò e fece per fuggire, ma ormai era tardi: era caduta nella sua trappola.

Non vi furono colpi, né lampi luminosi. Improvvisamente la sua vista s’oscurò e il digimon cadde sulla grondaia del tetto, apparentemente privo di vita.

 

-      Quindi tu hai un mostro tutto tuo. – riassunse una perplessa Mei.

Se non avesse visto quella ragazza elevarsi per più di 15 metri, non ci avrebbe mai creduto. Ma ora le pareva tutto possibile. O quasi.

-      Digimon. – la corresse Daisuke – Io ho un digimon di nome V-mon. –

-      Certo, gli hai dato un nome, come si fa coi cani, i gatti… -

-      No no, lui si chiama proprio così. È il nome della sua…diciamo “specie”. –

-      Ho capito… e questo V-mon sa combattere? –

-      Altrochè! È fortissimo! –

-      Ma quanto è grande? –

-      Buh, è altro più o meno così… - si toccò un fianco.

Mei non riusciva a capacitarsi di tutto ciò. Un mostriciattolo fatto di dati digitali, proveniente da un mondo parallelo, in grado di combattere e di trasformarsi, assumendo dimensioni gigantesche e forza ancora maggiore.

-      E tu… - sollevò un sopracciglio, scettica – e tu saresti il suo padrone? –

-      No no, io sono piuttosto un amico per lui, sono il suo… -

 

-      Digiprescelto? -

Rumiko non s’accorse che l’acqua aveva smesso di scorrere ormai da un bel po’. Era rimasta immobile accanto alla porta, lo sguardo fisso sull’oggetto che giaceva ai piedi del letto.

“ No, non è possibile…”

Eppure per quanto s’ostinasse a ripeterselo, sapeva bene cosa fosse quella cosa: un digivice.

“ Magari è solo uno strano cercapersone…”

S’avvicinò lentamente, ma s’accorse che tremava e che a ogni passo si sentiva più debole, quasi fosse sul punto di svenire. Si chinò a sfiorarlo.

Ma appena le sue dita toccarono lo schermo, l’oggetto parve animarsi e sul quadrante comparve un simbolo simile allo Ying e Yang. E lei sapeva bene cosa significasse…

-      Vedo che hai trovato il mio cercapersone, devo averlo dimenticato per terra. –

Lei non si mosse al sopraggiungere di Yamato.

Non ricevendo risposta, lui si chinò a raccoglierlo, senza smettere di frizionarsi i capelli con un asciugamano. Quando notò il simbolo comparso sul quadrante, aggrottò le sopracciglia.

-      Si è attivato? – mormorò tra sé e sé.

Poi, quasi si fosse ricordato della presenza di Rumiko, si affrettò ad aggiungere con noncuranza:

-      Credevo fosse rotto! Forse sono solo scariche le batterie… -

-      Non prendermi in giro… -

-      Come? –

La ragazza si alzò.

-      NON OSARE PRENDERMI IN GIRO! –

-      Che ti prende, Rumiko? - fece un passo indietro lui, sorpreso da quella reazione.

-      Il tuo digivice si è attivato perché l’ho toccato! –

-      Tu...tu sai cos’è? –

Yamato sembrava interessato, quasi piacevolmente sorpreso da quella rivelazione inaspettata.

-      Certo che lo so! E so anche chi sei TU! - ringhiò lei, furiosa.

I suoi occhi viola mandavano saette di puro odio.

-      Tu – sibilò – tu sei uno degli otto bambini prescelti che entrarono in possesso delle digipietre. Tu sei il prescelto dell’Amicizia. E io… io per colpa vostra… -

Sembrava davvero sconvolta e, sebbene non ne capisse il motivo, Yamato provò il desiderio di tranquillizzarla. Ma appena le si avvicinò, Rumiko scattò indietro come fosse stata scottata.

-      Rumiko… -

-      Io vi odio… vi odio tutti, voi e gli altri quattro… -

-      Ma perché? Che abbiamo fatto? –

-      DOVE ERAVATE UN ANNO FA? DOVE ERAVATE MENTRE ALPTRAUMON IMPERVERSAVA SU NEW YORK, SEMINANDO L’ANGOSCIA E LA PAURA? DOVE ERAVATE MENTRE IO E WHITE FOXMON COMBATTEVAMO DA SOLE, MENTRE CI ERA STATO PROMESSO IL VOSTRO AIUTO?! –

Yamato la guardò sbigottito.

-      Deve esserci stato un malinteso, noi non… -

-      UN MALINTESO?! – indietreggiò lei, inorridita – CENTINAIA DI PERSONE SONO MORTE E TU PARLI DI MALINTESO?! –

Calò il silenzio.

Lui non sapeva cosa dire perché non aveva capito quasi nulla, lei perché sembrava aver dato sfogo a ogni grammo di energia.

Poi, senza più dire una parola, Rumiko lasciò la stanza, chiudendo rumorosamente la porta dell’appartamento 18 alle sue spalle.

Yamato si lasciò cadere sul letto, il digivice ancora stretto in mano: le cose si complicavano sempre più.

 

Rumiko si chiuse la porta di casa alle spalle e si diresse a grandi falcate in salotto. Caffè la raggiunse dalla cucina, scodinzolando felice di vedere la padroncina.

“ Lui è uno di quei digiprescelti e gli altri chissà dove…”

Si bloccò: un’intuizione le aveva attraversato la mente.

“ Yamato, Sora, Taichi, Koushiro…”

Da quanto aveva capito una parte del loro gruppo di amici si conosceva da molto tempo. Daisuke le aveva raccontato che quando Takeru s’era trasferito nella loro scuola era evidente che conosceva Hikari profondamente…

“ Yamato, Sora, Taichi, Koushiro, Takeru, Hikari…”

Non aveva avuto modo di vedere molto spesso Jiou, ma s’era stupita di quanto fosse saldo anche il suo rapporto con il resto della comitiva, sebbene si frequentassero poco.

“ Yamato, Sora, Taichi, Koushiro, Takeru, Hikari, Jiou…”

Sette. E l’ottavo…

 

Yamato guardò nuovamente l’immagine appesa sul suo letto. Una nuova interpretazione si stava facendo largo nella sua mente: quella immortalata nella fotografia non era Rumiko, ma il suo digimon.

“ Un digimon di sembianze umane, perché no?”

Se non altro ora quadravano molte cose. La reticenza della ragazza a parlare del suo passato, a svelare il significato di quella foto…

“ Ecco perché lei non ha ancora superato lo shock per la perdita della madre…”

Immaginava quale trauma dovesse esser stato, quale peso dovesse portare nel suo cuore, sapendo di esser la causa della morte non solo della propria madre, ma anche di molte altre persone.

Ricordava i titoli dei quotidiani nei giorni successivi al disastro nella metropolitana, le immagini raccapriccianti che avevano invaso i telegiornali. Una New York devastata…

Aggrottò le sopracciglia.

Se era in corso una simile battaglia tra digimon, com’era possibile che Mimi non se ne fosse accorta?

 

L’ottavo non poteva che essere la loro amica newyorchese.

Dopo la battaglia contro Alptraumon, Rumiko aveva scoperto che a New York risiedeva una degli otto digiprescelti che per primi avevano messo piede a Digiworld ed erano entrati in possesso delle digipietre. Non sapeva i loro nomi, né dove risiedessero gli altri. Ma una cosa era certa: l’avevano abbandonata al suo destino, lasciandola sola a combattere contro un nemico troppo potente perché potesse affrontarlo da sola.

“ Se fossero arrivati, se mi avessero aiutata, quella notte io…”

 

Yamato incrociò le braccia sotto la testa.

Se le cose stavano così, il rancore di Rumiko nei loro confronti era comprensibile. Ma non lo era il comportamento di Mimi.

“ Perché non ci ha avvertiti della battaglia? Saremmo intervenuti di certo! Perché non ce ne ha fatto parola nemmeno dopo? Possibile che non lo sapesse?”

Impossibile, non se la battaglia aveva assunto simili proporzioni. Ma allora…

“ Ce l’ha forse tenuto nascosto? Ma perché avrebbe dovuto…?”

Balzò in piedi, folgorato da un’intuizione.

Quel pomeriggio, quando lei e Koushiro erano arrivati al luogo dell’appunto e Rumiko se n’era appena andata, Mimi aveva dimostrato un certo interesse nei suoi confronti, piuttosto ingiustificato, considerando che non l’aveva mai vista prima…

“ A meno che non la conoscesse già.”

Koushiro aveva detto che la ragazza s’era praticamente autoinvitata a casa sua, quasi senza preavviso e senza dare spiegazioni. Che si trattasse del semplice desiderio di una rimpatriata coi vecchi amici era da escludersi: conoscendo Mimi, si sarebbe presa tutto il tempo per organizzare un ritorno in grande stile.

“ Ma che Diavolo sta succedendo?”

Si prese il capo tra le mani, sedendosi nuovamente sulla sponda del letto.

Mimi non poteva non sapere cosa fosse successo quella notte. Ma sul perché non ne avesse parlato ai compagni, Yamato non sapeva darsi una risposta plausibile.

E ora eccola qua, tornata in fretta e furia da New York, senza dare spiegazioni a nessuno e dimostrando uno spiccato interesse per una persona che teoricamente non dovrebbe conoscere.

Inoltre…

Il telefono squillò.

 

Rumiko si lasciò cadere su una poltrona e il cucciolo color cioccolato balzò al suo fianco.

Lei lo accarezzò distrattamente, mentre il cagnolino uggiolava piano, quasi avesse intuito lo stato d’animo della ragazza.

Dunque tutti loro, compresi Daisuke, Miyako, Ken e Iori, erano dei digiprescelti. Quei digiprescelti. Quelli che non l’avevano soccorsa nel momento del bisogno, quelli che potevano evitare la morte di tutte quelle persone…di sua madre…

Se loro fossero intervenuti, forse nessuno si sarebbe fatto male, nessuno avrebbe sofferto e lei…lei non si sarebbe macchiata del sangue di centinaia di persone innocenti, costretta a vivere nel tormento per il resto della sua vita.

A quante persone aveva inflitto una ferita che mai si sarebbe rimarginata, quante persone aveva privato dei familiari e degli amici…quanti orfani, vedove e vedovi piangevano ancora la notte, soli… Le bastava vedere suo padre per ricordarsi ogni giorno della sofferenza che aveva dato a tanta gente.

Tutto questo avrebbe potuto essere evitato proprio da loro…

“ Daisuke…”

Sentiva le lacrime salirgli agli occhi.

“ Sora…”

Raccolse le ginocchia al petto, abbracciando le gambe e nascondendo il volto già rigato di lacrime. Caffè le leccò una mano, ma non ottenne reazione.

“ Taichi…”

Scossa dai singhiozzi, non s’accorse del cagnolino che si stava infilando sotto le sue braccia.

“ Yamato…”

Sollevò il capo di scatto quando la lingua rosea di Caffè le leccò il mento. Guardò il cucciolo sul suo ventre, che la osservava con le orecchie basse e lo sguardo triste.

Lei lo abbracciò stretto, affondando il suo viso nel pelo morbido.

Voleva bene a tutti loro e aveva da poco scoperto di provare qualcosa di speciale per Yamato. Aveva riassaporato la felicità… Perché doveva trattarsi proprio di loro? Lei odiava quei digiprescelti, le avevano rovinato la vita…

 

-      Ciao Koushiro, che succede? –

La voce dall’altro capo del telefono gli appariva preoccupata e titubante.

-      Per caso hai notizie di Mimi? -

-      Mimi? –

“ Parli del Diavolo…”

-      Quando siamo tornati a casa ha detto di sentirsi molto stanca e di voler riposare…quando mia madre ha detto che la cena era pronta sono andato a svegliarla, ma lei non era più nella sua stanza… -

-      Magari è andata a farsi un giro… -

-      Nessuno di noi l’ha vista o sentita uscire… -

Silenzio. Al biondo parve che l’amico stesse traendo un respiro, come se la cosa che si apprestasse a raccontare gli costasse molta fatica.

-      Yamato… credo che sia uscita dalla finestra… -

-      Ma abitate al sesto piano! –

-      Lo so! – lo sentì quasi strillare dall’altro capo del telefono.

Yamato immaginò che al rosso costasse parecchia fatica anche solo ipotizzare che la cosa fosse possibile, data la sua proverbiale razionalità.

-      Yamato, sono preoccupato... c’è qualcosa che non va… -

Il biondo si sedette sul divano del salotto, sospirando: se non altro non era solo lui a esser diventato paranoico.

-      Ascolta… non ti ho detto una cosa, riguardo Mimi… -

-      Di cosa si tratta? –

-      Credo che lei sia qui per Rumiko. –

Yamato si fece più attento.

-      Che vuoi dire? Cosa vuole da lei? –

-      Non ne ho idea. – ammise l’altro – Ma quando le ho fatto il nome di Rumiko era chiaro che non le fosse nuovo. Credo che si conoscessero già a New York… -

-      Rumiko non la conosce, gliene ho parlato diverse volte ma non ha reagito minimamente. –

-      Strano… dalla espressione seria di Mimi avevo ipotizzato che fosse successo qualcosa tra di loro lì… -

Yamato trattenne il respiro. Improvvisamente i pezzi cominciavano a combaciare.

-      Koushiro… hai detto che è uscita dalla finestra… ne sei sicuro? –

-      Non ha senso, lo so, ma noi eravamo vicini all’ingresso e di là non è passata, perciò… -

-      Koushiro – lo bloccò lui – e se quella non fosse Mimi? –

-      Che vuoi dire? –

-      Cosa può saltare fuori da una finestra del sesto piano e non farsi nulla? –

 

-      Toc toc! – cinguettò una voce femminile.

Rumiko si guardò intorno perplessa, il volto rigato dalle lacrime che, asciugandosi, avevano creato sottili linee salate. Caffè si liberò dal suo abbraccio, correndo ad abbaiare alla porta a vetri del salotto.

-      C’è qualcuno là fuori? – si tirò in piedi stancamente.

Si sentiva stranamente debole.

-      Sì, mi apri per favore? Fa freddo… - squittì ancora quella voce sconosciuta.

Scostò le tende.

-      Buonasera, Rumiko… -

 

 

 

Continua…

 

 

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Capitolo 18
*** - ***


Capitolo 18

 

Rumiko non riuscì a far nulla: la ragazza al di là della finestra spaccò il vetro e l’afferrò per il collo con una rapidità mostruosa. Caffè prese ad abbaiare forsennatamente, mentre lei s’aggrappava a quel braccio tentando di liberarsi. Ma per quanto sembrasse esile, la sua presa era ferrea.

-      Potresti aprire, per piacere? O vuoi che sfondi l’intera finestra? –

Rumiko sentì le dita gelide della fanciulla stringersi sempre più attorno alla sua gola. Annuì.

Trovò a tentoni la maniglia della porta a vetri e la fece scattare. La ragazza sul balcone sorrise estasiata e la lasciò andare per permettere alla finestra di scorrere.

Rumiko colse l’occasione per scattare verso l’ingresso.

Ma l’altra fu più lesta. La superò e le sbarrò la strada, allargando le braccia.

Rumiko virò verso la cucina e sbatté la porta alle sue spalle. Afferrò un coltello da cucina rimasto sul bancone e si voltò, trovandosi l’avversaria a pochi centimetri di distanza.

Urlò di spavento e andò a urtare il lavello alle sue spalle.

-      Cosa vorresti fare, Rumiko? –

Sorrideva e la strana voce zuccherosa sembrava davvero curiosa.

Rumiko traeva respiri profondi e irregolari, il coltello puntato di fronte a sé, l’altra mano appoggiata al lavandino alle sue spalle. Si sentiva debole, incredibilmente debole, mentre la sua avversaria era rapida e forte.

Si prese un attimo per osservarla e improvvisamente le parve familiare. I lunghi capelli castani, i tratti dolci, gli occhi color caramello… l’aveva vista in una delle foto di gruppo in camera di Yamato. L’amica che si era trasferita a New York diversi anni fa.

“ L’ottavo prescelto…”

-      Esatto… - sibilò la ragazza – Mimi Tachigawa, molto piacere! – cinguettò.

Le porse la mano, ma Rumiko non accennò ad afferrarla.

Quella non era la stessa fanciulla ritratta nella foto. Quegli occhi nocciola, che nell’immagine le erano parsi tanto vispi e dolci, ora traboccavano di crudeltà e follia. Che lei odiasse o meno Mimi la digiprescelta ora non aveva importanza, perché quella che aveva di fronte non era lei, ne era sicura.

Qualcuno prese a battere sulla porta d’ingresso.

-      Rumiko, che è successo? Apri la porta! – le giunse la voce di Yamato.

Ma lei lo ignorò, concentrandosi sulla creatura che aveva di fronte e tentando di trattenere le energie che sentiva fluire via dal suo corpo.

Per la prima volta notò che indossava una maglietta a maniche corte e un paio di jeans. Ai piedi aveva solo un paio di calze, rovinate e sudice come se avesse camminato scalza per tutta la città.

-      Rumiko! – la chiamò ancora Yamato, senza smettere di picchiare la porta d’ingresso.

Le aveva offerto la mano destra, quella con cui l’aveva afferrata per la gola poco prima, sfondando il vetro. Ma solo ora s’accorse di quanto sanguinasse, lacerata quasi fino al gomito da una serie di tagli più o meno profondi. Qualche scheggia di vetro era rimasta piantata nella carne. Ma lei sembrava non accorgersene neppure.

-      Ho capito… - disse infine, quasi tra sé e sé.

-      Davvero? – disse l’altra, deliziata, inclinando il capo da un lato.

-      Sì…spiegami solo una cosa… - la guardò dritta negli occhi – come puoi saltare fino al quarto piano di un palazzo servendoti di un corpo umano? –

Il sorriso dell’altra s’allargò.

-      Non sai quante cose può fare un corpo posseduto! – squittì allegra – È tutta questione di suggestione! – disse, puntandosi un dito alla tempia – Le emozioni umane sono talmente volubili…un attimo prima siete delle persone deliziose, ma è tutta apparenza… basta poco per far emergere il peggio di ognuno di voi. Bisogna solo saperlo sfruttare… -

-      Così come tu hai fatto con lei. –

-      Così come io ho fatto con entrambe, mia cara… - si leccò le labbra.

-      Che vuoi dire? – Rumiko aggrottò le sopracciglia.

-      Mimi è solo una piccola parte del progetto… diciamo che in tutto questo lei è stata il mezzo per giungere fino a te, che a tua volta sei chiave e custode. –

Ora cominciava a non capire. Credeva che si trattasse di un digimon di tipo virus che s’era impossessato del corpo di quella digiprescelta. Di solito però se ne servivano principalmente come mezzo per accedere al mondo reale, abbandonando poi il corpo umano per aver maggiore libertà d’azione.

La ragazza posseduta sorrise crudelmente.

-      Allora non hai capito chi sono... –

Come faceva a leggerle nella mente? I digimon di tipo virus di solito non ne erano in grado.

-      Già, di solito no… - le fece il verso la falsa Mimi, quasi stesse ripetendo una filastrocca.

“ Un digimon che agisce sulle menti delle persone… in grado di leggerle e manipolarle fino ad averne il controllo…ma come…?”

-      Già, come? –

Un particolare attirò la sua attenzione: gli occhi della ragazza compivano movimenti appena percettibili, lenti e oscillanti. Quasi stesse per…

“ Addormentarsi…”

L’altra rise beffarda.

-      Ora hai capito chi sono… -

-      No… - quasi supplicò, la voce improvvisamente piena di sconforto.

Rumiko sentiva le forze abbandonarla sempre più. Tra poco sarebbe certamente svenuta.

-      Oh, sì che lo sai… coraggio, dillo… - sibilò melliflua.

-      No… - mormorò lei.

Avvertiva la presenza del digimon oscuro farsi sempre più forte e schiacciare la sua volontà. I tonfi sulla porta d’ingresso si facevano sempre più lontani. S’accasciò a terra e il coltello le sfuggì di mano.

-      Qual è il nostro nome? – si chinò su di lei.

-      No… -

Strisciava a terra, quasi contorcendosi nel tentativo di resistere alle parole del digimon. Ma la sua mente cominciava a vacillare, avvolta dalla voce crudele come dalle spire di un serpente. Non riusciva più a ragionare, ogni pensiero le costava fatica. Non sentiva più la voce di Yamato dall’altra parte della porta.

-      Il nostro nome… - sibilò la creatura – Dì il nostro nome… -

-      Alp…traumon… -

 

Dai tempi antichi, in qualsiasi civiltà, ogni magia o rito era abbinato a delle formule verbali, poiché erano queste a evocare incantesimi e poteri mistici.

La parola è sempre stata uno strumento potente e spesso molti dimenticano quanto possa essere pericolosa: dare un nome a un’idea può conferirle non solo materialità, ma anche vita.

 

Caffè abbaiò disperatamente, vedendo il volto della sua padroncina contorcersi in una maschera di terrore.

Rumiko si afferrò il capo tra le mani, agitandolo forsennatamente, come se fosse sul punto d’esplodere. Dagli occhi chiusi scendevano copiose lacrime di dolore e la mascella serrata faceva digrignare i denti, quasi stesse tentando di non gridare.

Sentiva che qualcosa dentro di lei premeva per uscire, ma non l’avrebbe mai permesso, a costo di esplodere.

La falsa Mimi le sorrise dolcemente, accarezzandole il volto con la mano insanguinata.

-      È inutile che ti opponi, Rumiko. Non ne hai la forza. Coraggio… - le sussurrò suadente – lascia andare… -

Ma non ottenne l’effetto sperato, perchè la ragazza le voltò le spalle, persistendo nella sua lotta silenziosa.

-      Non ce la puoi fare, cara… - tornò a risuonare la voce zuccherosa – Quella cosa è dentro di te. Per un anno ha atteso in silenzio che giungesse questo momento e ora sta per ricongiungersi con la sua metà. Se tenterai d’impedirglielo ti ucciderà. –

Rumiko piangeva terrorizzata, mentre Caffè abbaiava come un pazzo.

La falsa Mimi aggrottò le sopracciglia.

-      Perché insisti? L’hai già fatto una volta e a cosa è servito? – rise crudele – Io sono ancora qui! Quanta gente deve ancora morire perché tu capisca l’inutilità della tua testardaggine? –

Crack. Il cuore di Rumiko si spezzò.

 

Caffè vide la sua padroncina dilatare gli occhi e afflosciarsi a terra, inanimata come una bambola.

Dalla sua bocca dischiusa cominciò a colare un liquido nero simile a petrolio.

Il cucciolo indietreggiò, mentre la macchia scura s’espandeva sempre più sul pavimento della cucina.

L’altra ragazza sorrise estasiata, sedendosi su una sedia e poggiando il mento sulle mani, osservando rapita quello spettacolo inquietante. Non si accorse perciò di un rumore proveniente dall’ingresso.

Ma Caffè scattò fuori dalla cucina, andando ad abbaiare disparatamente ai piedi di Yamato.

 

Il ragazzo vide il cucciolo venirgli incontro e lo seguì in fretta fino alla cucina.

Ma appena ebbe messo piede nella stanza s’immobilizzò.

-      Buonasera, Yamato. – cinguettò Mimi, senza voltarsi a guardarlo.

-      Mimi, cosa…?! –

-      Sssh… - si portò un dito alle labbra lei – È da un anno che aspetto questo momento. Non vorrai rovinarmelo! –

Yamato allungò il collo oltre la ragazza seduta e scorse Rumiko.

-      RUMIKO! – si slanciò verso di lei.

Ma un corpo si frappose tra loro, facendolo finire contro la parete al fondo della stanza.

-      Non puoi toccarla. –

Yamato scosse il capo, stordito dal duro colpo.

-      Abbi ancora un po’ di pazienza. – sorrise allegramente Mimi – Ancora un paio di minuti e potrai abbracciare il suo corpo gelido. –

-      Mimi… -

La ragazza voltò il capo verso l’ingresso e incrociò uno sguardo scuro e affranto.

-      Koushiro! – squittì lei – Anche tu qui, a cosa devo l’onore? –

-      Ero al telefono con Yamato quando Rumiko ha urlato… - lo sguardo del rosso si posò sulla ragazza in mezzo alla pozza di liquido nero.

-      Sei venuto anche tu a soccorrerla? – lo canzonò lei, ma il tono di voce era stridente, come infastidito da qualcosa.

-      Ero sicuro che ti avrei trovata qui. –

Il suo sguardo serio era impenetrabile. Lei non ribatté.

-      Cosa stai facendo, Mimi… -

Non sembrava una domanda, quanto un’affermazione, come se già conoscesse la risposta.

-      Sembra che tu sappia già le mie intenzioni. – si leccò le labbra lei, avvicinandosi con fare provocante – Sei talmente perspicace… -

-      Cosa ti sei fatta alla mano? –

Le sfiorò il braccio ferito, ma lei lo ritrasse rapida.

-      Ti fa molto male? – chiese Koushiro con voce preoccupata.

-      Certo che no! – rise lei – Io non sento nulla di questo corpo! Né il caldo, né il freddo, né… -

-      Lo so. – rispose lui, gelido – Mi stavo rivolgendo a Mimi. –

La creatura vacillò.

Yamato vide la ragazza aggrottare le sopracciglia e contrarre la mascella, come se fosse combattuta.

-      Mimi… -

Lei indietreggiò.

-      Stammi lontano, Koushiro… - sibilò.

-      Dobbiamo curarti quella mano, stai perdendo molto sangue… -

-      NON TOCCARMI! – strillò la creatura, continuando a indietreggiare.

Lui non si mosse.

-      Se tu non vuoi non lo farò… - la guardava dritto negli occhi – Ma ti prego, lascia che ti aiuti… -

-      Non ho bisogno del tuo aiuto! –

Mimi si voltò a guardare Rumiko.

“ Manca poco” pensò “il processo è quasi ultimato, devo solo attendere un altro poco…”

Ma qualcosa aveva preso a vacillare.

 

Mimi non sapeva cosa le stava accadendo. Che fosse tutto solo un brutto sogno?

Eppure il tocco di Koushiro le era sembrato tanto caldo e gentile quanto reale…

Il suo sguardo nocciola volò sull’espressione preoccupata del rosso, poi su Yamato che tentava di rialzarsi a fatica. Infine sul corpo immobile di Rumiko.

“ Che sta succedendo?”

 

Koushiro vide la ragazza guardarsi attorno un attimo spaesata, come se solo in quel momento si accorgesse di cosa stesse accadendo. O meglio, di cosa avesse fatto.

Che stesse recuperando il controllo delle sue azioni?

 

Cos’era quel liquido nero che sgorgava dalla bocca di Rumiko? Mimi non ne aveva la più pallida idea. Sapeva solo che, qualunque cosa fosse, attraeva il suo corpo come una calamita un pezzo di metallo. Eppure non le piaceva, anzi, provava un’istintiva ripugnanza per quella sostanza.

 

Koshiro vide Mimi incamminarsi verso Rumiko. Ma sebbene le sue gambe sembrassero risolute, la testa continuava a voltarsi ora da una parte, ora dall’altra, a scatti, come se tentasse di liberarsi da una presa invisibile.

 

Era stata lei. Non ricordava come fosse entrata in quella casa, né come potesse trovarsi ora in quella situazione, ma era sicura di esser stata lei a fare tutto quello.

Aveva aggredito Rumiko e poi Yamato, probabilmente giunto in suo soccorso.

“ Ma perché?! Perché l’ho fatto?!”

“ Perché tu la odi…”

Non si voltò cercando chi avesse parlato. Conosceva ormai bene quella voce, che da un anno ormai le si rivolgeva in sogno.

“ Ma io non…” tentò di protestare “ Io non volevo questo…”

“ Volevi vendicarti.” le venne rammentato “ Volevi vendicarti dell’assassina che aveva ucciso centinaia di persone innocenti.”

“ No…”

“ Volevi vendicarti della digiprescelta che aveva commesso un crimine tanto terribile.”

“ Ma non così…”

Sentì la voce misteriosa ridere, crudele come non l’aveva mai udita.

“ Sei sicura che non era questo ciò che volevi?”

Mimi esitò. Le parve di percepire quell’oscura presenza sorridere.

“ No che non lo sei… Tu non sai cosa c’è dentro di te. Sei tanto impegnata a mantenere una bella facciata, a compiacere gli altri che non ti accorgi dei tuoi stessi desideri.”

“ Non è vero!” protestò.

“ Ah no? Allora dimmi, piccola Mimi, cosa vuoi?”

 

White Foxmon aprì gli occhi.

 

Yamato si sentiva impotente.

Non era uno sciocco, sapeva che se si fosse avvicinato nuovamente a Rumiko l’esito non sarebbe stato più felice. Dunque cosa poteva fare per aiutarla?

“ Probabilmente nulla…”

 

-      I-io… - balbettò – non lo so… Io non lo so cosa voglio… Io… -

Mimi non aveva mai avuto grandi ideali e obiettivi di vita, a volte bastava un nuovo paio di scarpe per farla felice.

Cadde a terra sulle ginocchia. Le parve di sentire una piccola fitta di dolore, ma proveniente dal petto, anziché dalle gambe.

-      Io…sono così frivola e…vuota? –

Avrebbe voluto urlarlo, ma il suo lamento le parve più debole di un sussurro, tanto che nessuno avrebbe potuto sentirlo.

Abbassò il capo, sconfitta, e lasciò che gli occhi le si riempissero di calde lacrime di disperazione. In quella cucina sconosciuta, circondata dal dolore, l’amarezza e la delusione causate dalle sue stesse azioni si sentì più sola e miserabile che mai. Le pareva di percepire il suo cuore sanguinare, mentre l’oscura presenza dentro di lei diventava sempre più forte e il suo corpo sempre più debole. Le forme diventavano sempre più sfocate mentre il buio scendeva di nuovo sulla sua vista.

Poi un tocco gentile sul suo capo le fece sollevare il volto. Koushiro era chino di fronte a lei, lo sguardo caldo come un abbraccio e la bocca piegata nel dolce sorriso che riservava a poche persone, quelle per lui più importanti.

-      Tu non sei frivola, né vuota, Mimi… e non è vero che non sai cosa vuoi. –

La sua voce era vellutata e morbida e Mimi vi si aggrappò per non ricadere nel buio in cui quell’oscura presenza la stava nuovamente avvolgendo.

-      Tu sai perfettamente cosa vuoi e anche da parecchi anni! – il tono del rosso sembrava quasi divertito – Vuoi sposarti con un uomo bello e ricco, abitare in una villetta con giardino dove far giocare i vostri due bambini e il cane. Diventerai presidentessa di qualche club di signore, rappresentante del comitato genitori della scuola dei tuoi figli e una moglie modello che tuo marito sarà orgoglioso di portare a ogni ricevimento. –

-      M-ma a m-me – balbettò tra i singhiozzi – p-piacciono l-le scarpe… -

Koushiro esitò e lei credette che la stesse giudicando una persona superficiale. Invece scoppiò a ridere.

-      Mimi, sei una ragazza… a molte ragazze piacciono le scarpe! Non c’è nulla di male! –

-      M-ma… -

-      Mimi – le circondò il volto con le mani – io ero un bambino che passava le sue giornate attaccato al computer, che faticava a parlare coi ragazzini della sua età e non aveva amici. La cosa più importante per me, esclusi i miei genitori, era una scatola di microchip. Poi ho conosciuto una ragazzina viziata a capricciosa ma con un cuore colmo di generosità e dolcezza. La digiprescelta della Purezza… -

-      La Purezza… - s’oscurò nuovamente lei, pensando a quanto poco fosse azzeccata la sua digipietra.

Ma lui non le permise di abbassare nuovamente lo sguardo, fissando il suo negli occhi nocciola di lei.

-      Ai miei occhi è sempre parsa la più bella di tutte, così come lo sei sempre stata tu. –

Mimi sgranò gli occhi.

-      La tua sincerità, la tua purezza d’animo hanno affascinato quel bambino solitario e chiuso in se stesso. È uscito dal suo guscio di silenzi per poterti stare accanto, per poter vedere con la tua stessa gioia il mondo che lo circondava. –

Mimi non singhiozzava più, completamente rapita dalle parole di Koushiro, la voce malvagia nella sua mente ridotta a un eco lontano.

-      Tu non hai mai avuto dubbi su ciò che volevi, sul futuro che desideravi. Avevi già deciso perfino l’abito che avresti indossato per il tuo matrimonio! –

Lei sorrise, ripensando agli scarabocchi che faceva da bambina e che un giorno aveva mostrato a Koushiro. Allora credeva che lui l’avrebbe derisa per quella sciocca idea, ma lui s’era invece dimostrato estremamente serio, studiando con attenzione i disegni e concludendo con un “starai benissimo” che non aveva nulla d’ironico.

-      Mimi… - le accarezzò gentilmente il volto lui – Non tutti sognano grandi gesta d’altruismo per il mondo intero. Non c’è nulla di male a desiderare la semplicità di una vita felice e colma di piccole gioie personali. Il fatto che un sogno non sia glorioso non significa che non sia importante. Gli uomini perseguono la felicità individuale. Se desideri lo stesso non significa che tu sia vuota o egoista, semplicemente umana. –

-      Koushiro… -

 

Mimi esplose in un urlo di dolore. Koushiro la vide rotolarsi a terra, reggendosi la testa con le mani.

-      Mimi! – la chiamò spaventato.

Che le stava succedendo? Che quella cosa dentro di lei stesse riprendendo il controllo della sua mente e del suo corpo? Proprio ora che credeva di esser riuscito di far breccia dentro di lei…

-      Mimi! – tentò di avvicinarsi – Non dare ascolto a quella voce, non farti condizionare da quella presenza, non è reale, è solo… -

-      “Non è reale”? – sibilò una voce crudele e gelida che nulla aveva a che fare con Mimi.

Con orrore Koushiro vide la ragazza sollevare il capo ed esibire due iridi nere circondate da un bulbo sanguigno.

-      Io sono più reale di quanto tu creda, Koushiro… e anche meno paziente. - la bocca era piegata in un sorriso malvagio, che nulla aveva di rassicurante – Hai parlato anche troppo per oggi.

Con uno scatto fulmineo si avventò sul digiprescelto, facendolo schiantare a terra alcuni metri più indietro.

 

Yamato vide la creatura saltare addosso a Koushiro. Il movimento fu talmente rapido che quando se ne accorse Koushiro aveva già battuto la testa sul pavimento.

Pregò che avesse semplicemente perso i sensi, mentre scattava più veloce che poteva verso Rumiko, approfittando della momentanea distrazione di Mimi.

Ma quando la sfiorò la sentì gelida come un ghiacciolo. Accostò le dita al suo collo: le pulsazioni erano appena percettibili. Il suo cuore perse un battito.

“ No, Rumiko, no…” la raccolse tra le sue braccia, attento a non muoverla troppo, quasi temesse che il suo corpo potesse spezzarsi.

Tremava mentre le baciò le guance, attento a non toccare il liquido nero che aveva smesso di scorrere dalla sua bocca e s’era seccato sul suo mento. Sentì l’angoscia stringergli il cuore in una morsa.

“ Ti prego, non te ne andare…io ho bisogno di te…”

-      Allora tienila, a me non serve più.

Yamato alzò il capo e quasi si spaventò a vedere quegli occhi sanguigni tanto vicini. Istintivamente abbracciò Rumiko con più forza.

-      Umani… - sibilò la creatura – Così tumultuosi nelle loro passioni, così pieni di sogni e illusioni…eppure così fragili… -

Yamato poteva sentire il suo alito gelido soffiargli sul collo e seppe che non sarebbe riuscito a sfuggirgli: era la fine.

Ma la creatura si ritrasse, voltando il capo verso il salotto e annusando l’aria. Improvvisamente sembrava aver fretta.

Yamato la vide immergere entrambe le mani nella pozza di melma nera. Per un attimo si immaginò il disgusto che avrebbe provato Mimi solo all’idea di un simile gesto. E mentre la creatura andava borbottando parole a lui incomprensibili, sotto lo sguardo sconvolto del biondo quella strana materia nera prese a muoversi, alzandosi e modellandosi in una creatura mostruosa.

Assomigliava a un enorme cavallo nero dagli occhi bianchi e spettrali, quasi fosse cieco. La bocca era grande e irta di zanne, la criniera e la coda fiamme terrificanti e gli zoccoli circondati da lingue di fuoco. Braci ardenti ardevano nelle sue narici, crateri di vulcani pronti ad eruttare magma e fiamme.

Scalpitò irrequieto e il fragore dei suoi zoccoli scosse l’intera stanza. Urtò il tavolo della cucina, che si rovesciò come fosse stato fatto di carta e le sedie vennero spezzate come stuzzicadenti. Yamato strinse al suo petto il corpo inerme di Rumiko per proteggerlo dalle schegge di legno. Caffè aveva ripreso ad abbaiare forsennatamente, senza però osare avvicinarsi alla creatura infernale.

Dall’esterno provenivano grida di terrore e le sirene delle volanti della polizia in avvicinamento. Che fossero state quelle ad allarmare la creatura?

Yamato vide Mimi sorridere e voltarsi verso il salotto.

-      Ben ritrovata, White Foxmon, dormito bene?

Solo allora il biondo s’accorse del digimon che era comparso nel soggiorno. Una volpe bianca dagli occhi di rubino li osservava in silenzio, o meglio il suo sguardo si spostava da Rumiko al cavallo demoniaco, a Mimi e poi di nuovo a Rumiko. Sembrava preoccupato per lei… e fremente di rabbia.

Yamato ebbe un’intuizione: che si trattasse del suo digimon?

Il sorriso crudele sul volto di Mimi s’allargò.

-      Con permesso, io levo il disturbo.

Eseguì un inchino. Ma sotto lo sguardo scioccato di Yamato, Mimi restò chinata e un volto butterato e dagli occhi sanguigni si levò dal suo corpo.

Con un balzo, l’orrendo troll uscì dal corpo della ragazza, che cadde a terra priva di sensi. Era alto poco più di un metro, gobbo e deforme. La sua pelle era simile a sabbia giallastra e tutta la sua piccola e malvagia persona era avvolta da stracci. In mano reggeva un bastone di legno marcescente, lungo forse due metri e nodoso almeno quanto lo era il suo proprietario.

Yamato era insieme disgustato e terrorizzato da quella scena che in un solo modo avrebbe potuto definire: da incubo.

L’orrenda creatura riportò lo sguardo si di lui, o meglio su Rumiko, ma la volpe bianca fu lesta a frapporsi tra loro.

Il troll ghignò malignamente.

-      Con quanta trepidazione ho atteso questo momento… il momento della vendetta. – la sua voce era distorta, come se non provenisse da un punto solo – Ma sono di gusti più raffinati di quanto tu creda, White Foxmon. –

Il sorriso crudele s’allargò, mentre la volpe rizzava il pelo ringhiando minacciosa.

-      Non le torcerò un solo capello, non ne ho bisogno. Ormai il suo cuore s’è spezzato, schiacciato dal terrore e dall’angoscia, dal rimorso per ciò che lei stessa ha provocato. Le pulsazioni sono solo un’eco e presto anche quello si spegnerà. Ecco la vendetta per me più deliziosa: Rumiko si lascerà morire perché disgustata dal sangue di innocenti di cui s’è macchiata e tu, White Foxmon, sarai costretta a sopravvivere e soffrire per non esser stata in grado di salvarla. È questa la peggiore delle pene per un digimon prescelto… –

-      No… - sussurrò quasi fra sé e sé Yamato – Rumiko non morirà…lei non merita di… -

-      Ne sei sicuro? – gli si rivolse il troll con voce melliflua  – Tu cosa sai di quello che accadde realmente nella metropolitana di New York? –

-      Non è stata lei a provocare quella strage. – gli rispose con convinzione.

-      Sembri molto sicuro di ciò che dici. – commentò l’altro.

-      Sua madre era tra le vittime. –

-      Già, che shock deve esser stato per la povera Rumiko sapere di aver ucciso pure la sua cara mamma. – recitò quello in tono lamentoso – Capisco come mai sia fuggita in fretta e furia da New York, senza dare spiegazioni a nessuno. Capisco come mai sia tanto cambiata da allora. Capisco come mai non parli volentieri del suo passato persino con te che tanto ti sei aperto con lei… -

Yamato non rispose: quella voce persuasiva aveva insinuato il dubbio dentro di lui.

Il troll rise maligno, per poi balzare agilmente in groppa al gigantesco cavallo nero. La terrificante creatura nitrì e le pareti vennero nuovamente scosse dalla potenza dei suoi zoccoli. Poi balzò verso la finestra della cucina.

Yamato abbassò il capo, pronto a proteggersi dalla pioggia di vetro e cemento. Ma nulla accadde. Quando sollevò nuovamente il capo, la coppia infernale era scomparsa.

 

All’esterno i richiami della gente s’erano fatti sempre più insistenti e le sirene della polizia quasi assordanti. Ma tutto si spense alle orecchie di Yamato quando accostò le dita al collo di Rumiko: il suo cuore aveva smesso di battere.

 

 

 

Continua…

 

 

 

N.d.a:

Un ringraziamento in particolare a lovegio92, che è stata tanto gentile da commentare subito i capitoli precedenti. Spero che la storia continui a entusiasmarti e non temere per la tua coppia preferita…ho in serbo ancora qualcosa per loro!

 

Monalisasmile

 

 

 

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Capitolo 19
*** - ***


Capitolo 19

 

-      Yamato… -

Il ragazzo si riscosse solo in quel momento dallo stato di apatia in cui era scivolato. Quasi stupito, si accorse di esser ancora nella cucina devastata dei Kitamura. Koushiro e Mimi erano ancora stesi a terra, privi di sensi ma apparentemente in buone condizioni. Caffè uggiolava accanto alla sua padroncina.

Il biondo alzò il volto rigato di lacrime, trovandosi a poca distanza da un muso candido. Apatico, pensò che la digievoluzione di White Foxmon era molto bella.

Più grande del livello intermedio, aveva lo stesso manto candido, quasi argentato, e gli stessi occhi di rubino. Le sue code erano nove, folte e striate alle estremità da linee rosse simili a lingue di fuoco. Anche il capo e le zampe erano decorate dallo stesso motivo. Attorno al collo il pelo era più folto.

A Yamato ricordò le kitsune della mitologia giapponese, volpi intelligenti e magiche che con le loro nove code erano in grado di appiccare fuoco ad intere foreste. Ma al contrario delle creature ambigue della tradizione, gli occhi rossi del digimon che aveva di fronte gli trasmettevano un dolce tepore.

-      Yamato… - si sentì nuovamente chiamare dal digimon – lasciala. –

-      No… - la strinse più forte al suo petto.

Solo all’idea di separarsi da lei si sentiva perso. Quel corpo gelido sembrava diventato la sua ancora di salvezza, senza la quale sarebbe affogato nel mare di rimorso che aveva invaso il suo cuore.

Non era stato in grado di salvarla. Non era stato in grado di fare nulla per aiutarla. Ma, soprattutto, non l’aveva mai realmente capita.

Avrebbe preferito non dar retta alle parole di quel orrendo digimon-troll, ma qualcosa gli diceva che non aveva mentito, o almeno non del tutto. Il fatto che Rumiko fosse in qualche modo coinvolta nell’incidente di un anno fa spiegava molte cose sul suo comportamento, sulla sua ritrosia a parlare di sé e del suo passato.

Solo ora cominciava a rendersi conto dell’angoscia, del dolore, del rimorso e degli incubi che dovevano averla turbata. Il fatto di aver scavato con le sue stesse mani il vuoto che s’era creato non solo nella sua vita ma anche in quella di suo padre doveva esser stato un peso enorme, sebbene non l’avesse fatto intenzionalmente.

Perché di questo era fermamente convinto: Rumiko non era un’assassina. La sua Rumiko, la sua sorridente, sensibile e coraggiosa Rumiko non avrebbe mai fatto del male a nessuno.

-      Yamato… lasciala andare, per favore. –

La voce della volpe era calda e vellutata e Yamato desiderò lasciarsi cullare da quel dolce suono e addormentarsi per sempre, dimenticando l’angoscia e il dolore.

Invece strinse nuovamente a sé il corpo privo di vita di Rumiko.

-      No… -

-      Per favore, Yamato. –

-      Perché? – sussurrò appena, senza guardare la volpe negli occhi magnetici.

-      Perché voglio stringerla anche io. –

Yamato non se la sentiva di lasciarla andare, inconsciamente temeva di vederla svanire sotto i propri occhi. Ma sapeva che era giusto permettere che anche il suo digimon le desse l’ultimo saluto.

-      Io l’amavo… l’amavo… - riprese a singhiozzare, accarezzandole dolcemente le guance.

-      Lo so, Yamato… e te ne sono grata. L’hai resa molto felice. –

-      No, non è vero… Non sono stato in grado di capirla, di consolarla, di salvarla… –

-      Ma le sei stato accanto ed è questo ciò di cui lei aveva bisogno: una persona forte e sicura come te, che le facesse dimenticare, seppur per un momento, le sue angosce. Ma tu hai fatto di più. Tu le hai fatto conoscere l’amore. –

-      Come fai a dirlo? – alzò gli occhi bagnati di lacrime sul digimon.

-      Lo so, Yamato… Perché siamo una cosa sola.  - rispose con semplicità e sicurezza la volpe.

Yamato si asciugò le lacrime col dorso della mano, annuendo. Poi ripulì la bocca e il mento di Rumiko dai rimasugli del liquido nero con la manica della sua felpa. E la baciò.

 

Era un ultimo bacio. Di quelli che sanno di lacrime e di dolore, di quelli che preannunciano un addio, di quelli che lasciano i cuori spezzati ma pieni di bei ricordi.

 

Si scostò da lei, prendendo il cucciolo in braccio e allontanandosi di qualche passo per lasciare che il digimon si accostasse alla ragazza.

Il cane si dimenava forsennatamente, restio quanto lui ad abbandonare la sua padroncina.

Sentendosi straordinariamente vicino a quella piccola palla di pelo, la strinse forte al petto, tentando di calmarlo per calmare anche se stesso.

-      Buono Caffè, buono… lasciamo che anche lei possa salutarla, non dobbiamo esser egoisti… ci sono altri che le vogliono bene, sai? Non siamo gli unici ad amarla tanto… -

Il digimon si chinò su di lei e accostò il muso al suo volto, strofinandolo gentilmente a occhi chiusi. Le accarezzò in questo modo la fronte, poi scese sulla guancia, proseguì sul mento e poi tornò su, chiudendo il cerchio.

 

Accadde tutto in pochi secondi: il digimon aprì gli occhi e quello che era stato un cerchio immaginario sul volto di Rumiko s’infiammò.

Yamato cacciò un urlo, pronto a soccorrerla, ma il digimon si frappose tra loro, le nove code in fiamme e gli occhi di rubino luminosi come braci ardenti.

-      Che stai facendo?! – le urlò il ragazzo.

-      La porto con me. –

Poi entrambe vennero avvolte dalle fiamme. E scomparvero.

-      RUMIKO! – urlò al vuoto.

Fu ancora la voce della volpe a rispondergli, un eco lontano a mala pena percettibile.

-      Se davvero la ami, allora abbi fiducia in lei, Yamato… -

-      Cosa?! Che vuol dire?! Dove sei?! Dove la stai portando?! Ehiiii! –

Ma questa volta non ottenne risposta.

 

Quando Mimi aprì gli occhi fu quasi accecata dalla luce del neon sulla sua testa. Socchiuse nuovamente le palpebre, ancora intorpidita dalla prolungata immobilità.

Non le fu difficile indovinare dove si trovasse: l’odore di disinfettante degli ospedali era inconfondibile. Ma cos’era successo? Perché si trovava lì?

Ruotò il capo alla sua sinistra e vide che il letto da fianco al suo era occupato da Koushiro. Aveva una flebo al braccio e delle bende attorno al capo.

Improvvisamente si ricordò di tutto e si voltò dalla parte opposta, sconvolta: era stata lei a ferirlo.

Solo allora si accorse di Yamato, seduto in fondo alla stanza a braccia conserte. La stava guardando.

Subito le tornò in mente ciò che aveva fatto anche a lui. E a quella ragazza a cui lui sembrava tenere così tanto, Rumiko…

Lo vide alzarsi e dirigersi verso di lei. Ebbe paura di quello sguardo penetrante che conosceva da tanti anni e istintivamente nascose il capo sotto il cuscino, come una bambina terrorizzata dal severo rimprovero del genitore.

 

Yamato si sedette sul bordo del suo letto e non la sfiorò neppure, vedendola tremare sotto le lenzuola.

La paura di Mimi gli fece compassione.

Inizialmente avrebbe voluto tartassarla di domande, finché non fosse riuscito a capirci di più in quella faccenda. Ma ora l’unica cosa che gli venne in mente di chiederle fu:

-      Stai bene, Mimi? –

 

Lei scoprì il volto e si meravigliò del sorriso gentile e triste sul viso di Yamato.

Le salirono le lacrime agli occhi e si gettò tra le sue braccia.

Lui l’abbracciò gentilmente, accarezzandole il capo per calmare i suoi singhiozzi.

Era tornata la Mimi di sempre.

 

Quando si fu calmata, la prescelta della Purezza si scostò dal petto di Yamato, asciugandosi le lacrime con una manica.

-      Ora, Mimi – la guardò con gentile fermezza lui – vuoi raccontarmi com’è successo? –

-      Vuoi dire come quella cosa… - esitò lei – è entrata dentro di me? –

Il biondo annuì.

-      Non lo so… davvero, non ne ho idea… -

Si sentiva in colpa per non essere in grado di dargli spiegazioni. Ma lui non parve demoralizzato.

-      Dimmi tutto quello che sai, Mimi, tutto ciò che può essere ricollegabile. –

Lei lo guardò un attimo dubbiosa.

-      Credo…anzi, sono sicura che sia cominciato tutto quella notte, la notte della battaglia nella metropolitana di New York. Sai, io ero là vicino quando c’è stata l’esplosione. Stavo tornando a casa dopo una festa a casa di alcuni amici quando è successo: la terra ha cominciato a tremare, intere strade sono sprofondate e alte fiamme si sono levate dalle profondità. –

Yamato la vide serrare i pugni.

-      La gente urlava, gridava e piangeva, disperata, senza capire cosa stesse accadendo. Ma io l’ho vista. –

-      Cosa? –

-      Rumiko, in sella al suo digimon-volpe, che emergeva dalle fiamme e fuggiva. –

Lui guardò quegli occhi nocciola pieni di rancore. E cominciò a capire. Lentamente, i pezzi del puzzle stavano andando al loro posto.

Si alzò, infilando le mani in tasca e avvicinandosi alla finestra.

-      E da quando ti sei accorta di questa… presenza dentro di te? –

-      Beh, non saprei…all’inizio non mi ero nemmeno resa conto che ci fosse qualcosa di strano, sentivo solo delle voci, anzi dei deboli sussurri…solo ogni tanto però… -

-      Quando sono cominciati quei sussurri? – insistette lui, tranquillo ma deciso.

-      Credo poco dopo quella notte… continuavo a sognare quei momenti, a rivedere e risentire il dolore di tutta quella gente… e lei, che fuggiva da ciò che lei stessa aveva fatto, come un’assassina con le mani macchiate dal sangue di innocenti! –

-      È questo che ti sussurrava quella voce? Che lei era un’assassina ignobile? –

Lei non rispose, non ce n’era bisogno: la domanda di Yamato le era parsa evidentemente retorica.

Calò un attimo di silenzio, in cui Mimi era convinta che lui avrebbe quanto meno protestato, dato che si trattava della sua ragazza.

-      Il digimon che ti aveva posseduta voleva vendicarsi di Rumiko e del suo digimon. Ha fatto riferimento diverse volte agli eventi di quella notte nella metropolitana… – commentò lui con calma, come se stesse parlando più a se stesso che a Mimi – Io credo che Rumiko stesse combattendo contro di lui e che l’esplosione sia stata solo un tragico incidente. –

Mimi aprì la bocca per ribattere, ma un’occhiata di Yamato la fece tacere.

-      Perché non ci hai detto che a New York era comparso un digimon tanto pericoloso? –

-      I-io… io non… - balbettò lei, confusa per l’improvviso cambio di argomento.

-      Dov’eravamo noi mentre Rumiko combatteva contro un nemico tanto potente? –

-      Io non ne sapevo nulla, davvero! – protestò lei – Altrimenti ve l’avrei detto di sicuro! –

-      Com’è possibile che tu non ne sapessi nulla?! – alzò un poco il tono lui – Abiti o non abiti in quella città?! –

-      Certo che ci abito, appunto per questo ti dico che non è possibile che vi fosse un digimon nemico in circolazione e io non me ne fossi accorta! Come ti è venuta in mente una simile idea? –

Ma lui parve ignorare la sua domanda, perso nel corso dei suoi pensieri.

-      Sfido che lei ci odi… se fossimo stati lì avremmo forse potuto evitare quella strage… centinaia di persone innocenti sarebbero ancora vive… sua madre sarebbe ancora viva… - disse fra sé e sé.

-      Yamato? –

-      Mimi, io credo che tu sia stata raggirata sin dall’inizio. Le tue convinzioni, i tuoi pensieri e probabilmente i tuoi stessi passi sono stati pilotati da quel digimon. –

-      C-cosa? – corrugò la fronte lei.

-      Ti ha tenuta lontana da lui per esser certo che nessuno di noi interferisse coi suoi piani, ma ti ha costretta ad assistere a ciò cui lui voleva che tu assistessi. Ti costringeva a rivivere continuamente quei momenti per far sì che quella dolorosa ferita non si rimarginasse mai. Ti ha convinta che la colpevole di tutto ciò fosse Rumiko, al solo scopo di far nascere in te rancore e desiderio di vendetta. –

Lei distolse lo sguardo.

-      Dimmi, Mimi, perché sei qui? Perché sei venuta qui in fretta e furia senza preavviso? Avevi tanta nostalgia di noi e della tua città natale da non poter attendere nemmeno che passassero le feste, non è vero? Sei saltata sull’ultimo sovraffollato aereo prima di Natale perché volevi riabbracciarci, non è vero? –

Mimi sentì gli occhi inumidirsi e abbassò il capo, vergognosa.

-      La verità è che le hai dato la caccia per molto tempo, non è vero? Tenendoci all’oscuro di tutto. E come un segugio, appena hai fiutato la pista giusta ti sei fiondata all’inseguimento della tua preda. –

Lei tentava invano di trattenere le lacrime, ma già le sentiva scorrere sulle sue guance.

-      Possibile che non te ne rendi conto? Possibile che tu non ti renda conto di quanto quella creatura ti stesse controllando?! –

Le si avvicinò, prendendola per le spalle. Ma lei tenne la testa bassa, continuando a piangere in silenzio.

-      Mimi, quel digimon ti ha ingannata e usata! Ti ha costretta a tenere segrete le tue intenzioni e a mentire ai tuoi amici e compagni! Ti ha fatto lottare contro di me e contro Koushiro, che darebbe una mano per te! Ti ha convinta che Rumiko fosse un’assassina e che tu avessi tutte le ragioni per odiarla con tutto il cuore! Ma davvero era questo ciò che desideravi?! Davvero il tuo rancore era tanto da spingerti ad ucciderla?! –

 

Mimi credette di svenire, cosa che avrebbe accolto con gioia. Invece quella vertigine la fece solo ricadere nel letto, come un peso morto ma perfettamente cosciente.

 

Yamato chinò il capo. Non avrebbe voluto dirglielo in questo modo. Ma aveva perso il suo abituale sangue freddo.

-      Non è colpa tua… - le disse, sentendosi colpevole ma senza guardarla – Eri posseduta da quel digimon… -

Tuttavia persino alle sue orecchie quelle parole erano prive di convinzione.

Erano passate alcune ore da quando avevano lasciato quel appartamento per esser portati al pronto soccorso, eppure la ferita al cuore di Yamato non aveva ancora accennato a smettere di sanguinare.

Scuro in volto, lasciò la stanza.

 

Si sedette su una sedia lungo il corridoio, appoggiò la testa al muro alle sue spalle e volse lo sguardo agli spicchi di cielo incorniciati dalle finestre di fronte a lui. Aveva ripreso a nevicare e i suoni dall’esterno gli parevano ovattati.

Si sentiva completamente privo d’energie, eppure avrebbe smosso mari e monti se vi fosse stata anche solo la più piccola possibilità di stringere nuovamente a sé la persona che amava.

“ Rumiko…”

Possibile che se ne fosse andata veramente? Possibile che tra loro fosse tutto finito ancor prima di iniziare? Possibile che il loro amore non avesse mai avuto futuro?

“ Possibile che sia tutto finito… così?”

Qualcosa dentro di lui urlava un disperato dissenso. Qualcosa che lui temeva rispondesse al nome di “disperazione”. Sì, non poteva che esser la disperazione a farlo ancora sperare…

“ Eppure il suo digimon ha detto di aver fiducia in lei…”

Non aveva ancora avuto modo di pensarci seriamente, ma ora prese a interrogarsi sullo strano comportamento della volpe.

Non si chiese come mai gli avesse mentito. Entrambi sapevano bene che Yamato non si sarebbe mai allontanato dal suo corpo se avesse saputo che sarebbe scomparsa sotto ai suoi occhi.

Ora, a mente fredda, riusciva anche a capire come mai non gli avesse detto quali fossero le sue intenzioni: non voleva illuderlo inutilmente. Si sa, le false speranze possono fare tremendamente male, specialmente a un cuore infranto.

Tuttavia si chiese cosa mai potesse fare il digimon-volpe per salvarla. Dubitava fortemente che esistesse un digimon in grado di resuscitare i morti. E Rumiko era morta, l’aveva constatato lui stesso.

“ E ora cosa dico a suo padre?”

Già, perché la polizia non aveva trovato segni di Rumiko: né sangue né bruciature che potessero indicare il suo coinvolgimento in quella scena. Prima o poi il padre avrebbe però denunciato la sua scomparsa.

E Yamato, che sapeva la verità, cosa avrebbe dovuto dirgli? Che sua figlia era stata uccisa da una ragazza posseduta da un mostro digitale e che il suo cadavere era stato trafugato dal suo stesso digimon, le cui intenzioni erano tanto assurde quanto misteriose? O avrebbe dovuto tacere, limitandosi a esprimere il suo cordoglio per il presunto rapimento della sua unica e preziosa figlia?

Si prese il capo tra le mani, disperato e pieno di dubbi.

 

-      YAMATO! –

Il ragazzo alzò a mala pena il capo al sopraggiungere di suo padre e dei suoi due migliori amici.

Un pensiero irrilevante gli passò per la mente:

“ Alla fine era destino che Taichi e Sora stessero insieme…forse era anche destino che io e Rumiko venissimo separati così presto…”

Il padre si chinò di fronte a lui, poggiandogli entrambe le mani sulle spalle. Il suo volto gli parve più vecchio di quanto ricordasse.

“ Quanto faccio preoccupare il mio vecchio…”

-      Yamato, stai bene? –

La sua voce apprensiva e lo sguardo preoccupato degli amici lo fecero crollare definitivamente.

-      No… - disse a bassa voce, abbandonando la testa sconfitto – No, non sto affatto bene… -

-      Cos’è successo? – parlò ancora suo padre.

-      Siamo stati attaccati da un digimon… -

-      Un digimon?! – esclamò Taichi – Ma non è possibile, non abbiamo rilevato nulla di… -

-      S’era impossessato di Mimi… - lo interruppe Yamato, cupo – Credo che si sia servito di lei per un anno intero, al solo scopo di esser condotto qua e potersi vendicare… di Rumiko. –

-      Di Rumiko? – s’intromise questa volta Sora.

-      È stata lei a sconfiggerlo… un anno fa a New York… -

-      Aspetta, vuoi dire che Rumiko è una digiprescelta?! –

Yamato annuì con rabbia alla domanda di Taichi. Domande e domande, mai una risposta!

Seguì un attimo di silenzio, in cui tutti, probabilmente, si stavano ponendo la stessa domanda.

Fu Sora a formularla.

-      E lei… dov’è ora? –

Yamato rise senza gioia.

-      Vorrei saperlo anche io, sai? Vorrei proprio saperlo… -

-      Ma sta bene, vero? –

Questa volta lui non rispose.

-      Yamato… -

La voce di Sora tremava, ma lui non la guardò in volto. Non se la sentiva.

Silenzio.

Un rumore di passi. Qualcuno si sedette accanto a lui.

-      Allora, Yamato, cos’è successo a mia figlia? –

Il tono di Hiroshi Kitamura era stato tranquillo e gentile come una carezza.

Yamato spalancò gli occhi per la sorpresa. Alzò lo sguardo sull’uomo seduto al suo fianco e sentì le lacrime rigargli le guance.

Improvvisamente gli parve un gesto ignobile mentire a quel uomo sulla scomparsa di sua figlia. Gli avrebbe raccontato tutto, a costo di rivelargli cose che una persona normale non dovrebbe sapere, a costo di venir odiato da quel uomo gentile per non essere stato in grado di salvare la sua unica figlia.

 

Koushiro aprì gli occhi e voltò il capo alla sua destra. Nel letto accanto al suo, Mimi singhiozzava silenziosamente, abbracciandosi le ginocchia come una bimba spaventata.

Il rosso avrebbe voluto abbracciarla e rincuorarla, ma non poteva muoversi dal letto.

-      Mimi… - la chiamò dolcemente.

Lei sembrò fermarsi un attimo, come in attesa.

-      Mimi, non piangere… -

La ragazza si alzò e azzerò la distanza tra loro, tuffandosi nel suo caldo abbraccio.

Pianse forte, appoggiata al suo petto. Koushiro la cullò dolcemente, stringendola forte a sé, felice di aver ritrovato la persona per lui più importante: la sua amata Mimi.

 

Yamato s’abbandonò contro lo schienale della seggiola e voltò il capo verso suo padre e gli amici, che avevano deciso di attendere a rispettosa distanza dalla coppia. Il signor Ishida annuì al figlio in segno d’approvazione: poteva esser fiero del coraggio che aveva appena dimostrato. Eppure lui si sentiva semplicemente svuotato di ogni emozione.

Attese ancora qualche minuto, concedendo al signor Kitamura il tempo di realizzare quanto gli era appena stato riferito.

Lasciò che il suo sguardo azzurro si perdesse tra i fiocchi di neve che continuavano a scendere, mentre l’alba stentava a sorgere su Tokyo. Pensò a quanto triste sarebbe stata quell’aurora, a quanto vuoto e dolore avrebbe portato il nuovo giorno.

I minuti passavano lenti, nel silenzio quasi assoluto. Con la coda dell’occhio vide Taichi chinarsi su Sora e bisbigliarle qualcosa all’orecchio. Lei annuì debolmente, tamponandosi gli occhi bagnati di lacrime con un fazzoletto. Ipotizzò che il prescelto del Coraggio di fosse offerto di andare a prenderle qualcosa di caldo.

Ora che ci pensava, quel corridoio era piuttosto freddo. Notò per la prima volta la rarefatta nuvoletta che compariva a ogni sua espirazione, per svanire pochi istanti dopo.

Si concentrò su quel particolare. Tentò di contare il tempo che restava sospesa per aria, ma dovette presto arrendersi. Allora immaginò di poterla afferrare, di poterla stringere nel pugno e inumidire il palmo della sua mano. Fantasticò di poterla seguire, librandosi sempre più in alto, più leggero dell’aria. Immaginò di potersi dissolvere come quella nuvoletta di vapore.

-      Hai detto che è…svanita? –

Dapprima non riuscì a collegare un soggetto a quella voce. Poi si riscosse, voltandosi stupito verso il signor Kitamura.

-      Sì… - esitò un attimo, perplesso – è scomparsa nel nulla senza lasciare la minima traccia… -

-      Insieme a Kitsunemon. –

-      Come, scusi? –

-      Kitsunemon, l’evoluzione del suo digimon. –

Il signor Kitamura s’alzò in piedi, avvicinandosi alla finestra pensieroso. Yamato lo seguì con lo sguardo.

-      Lei dunque sapeva che Rumiko era una digiprescelta, conosceva il suo digimon… -

-      No, non la conoscevo. – gli rispose l’uomo, dandogli le spalle – Dunque è così che vi fate chiamare, voi ragazzi “speciali”: digiprescelti… -

-      Come fa lei a… -

-      Si tratta pur sempre di mia figlia, no? – gli sorrise amaramente – Chi credi che rappresenti la foto che lei ti ha regalato per Natale? –

Yamato ripensò alla figura dai lunghi capelli in cima al grattacielo. Allo strano copricapo con due punte sulla cima, al lungo bastone in una mano.

-      Quella è il suo digimon evoluto, non è vero? – chiese il ragazzo.

-      Sì e no… quella foto rappresenta Rumiko e il suo digimon, come una cosa sola… - parlò quasi fra sé e sé l’uomo.

-      Che significa? –

-      Significa che non so quanto sia forte il legame tra te e il tuo digimon, ma il loro senza dubbio lo è molto… Dimmi, Kitsunemon ti ha forse detto qualcosa prima di scomparire? –

-      Sì… - esitò un attimo lui, incerto se era il caso di illudere quel uomo – Mi ha detto di avere fiducia in Rumiko… -

Il signor Kitamura sorrise benevolo.

-      Allora dobbiamo fidarci… di entrambe. – si voltò a guardare l’orizzonte – Sono sicuro che torneranno. –

Yamato lo guardò sbigottito: possibile che la sua fiducia fosse davvero incrollabile?

Aggrottò la fronte, distogliendo lo sguardo da quel volto colmo di speranza, e strinse i pugni con rabbia.

“ Io però non ci riesco! Rumiko è morta e nessuno può resuscitare i morti!”

 

In un luogo difficilmente accessibile, eppure sorprendentemente vicino, Kitsunemon posò il corpo senza vita di Rumiko sulla sponda di un lago immoto, i cui confini si perdevano nella nebbia.

S’accucciò accanto alla ragazza, poggiando il capo sulle zampe anteriori e fissando il lago in un punto indefinito nella nebbia.

Nessuno avrebbe saputo dire se fosse stato giorno o notte, ma la cosa non era rilevante. Ammesso che il tempo in quel luogo esistesse, probabilmente non vi era sole che sorgesse o luna che illuminasse la notte. D’altronde nell’Oblivion World non viveva nessuno e non vi era nulla, al di fuori della nebbia e di quel lago immoto: lo Specchio del Limbo.

Era in quel luogo indefinito che venivano raccolte le anime di coloro che ancora non s’erano completamente staccati dal mondo reale, vuoi perché con delle faccende ancora in sospeso, vuoi perché morti impropriamente.

Lo Specchio era una finestra ambigua su quel luogo oscuro e brumoso. Ma occorreva una grande forza di volontà e un profondo attaccamento alla vita perché un’anima riuscisse a emergere dalla sua superficie. E non solo.

Kitsunemon strinse i denti, frustrata. Nessun morto poteva tornare alla vita come niente fosse, nemmeno se il suo corpo era perfettamente integro: una volta toccati dalla gelida mano della Morte non si poteva far marcia indietro. Non senza un adeguato rimborso. E la Morte, si sa, è tutt’altro che generosa.

Chinò di nuovo il capo sulle zampe, accarezzando il corpo di Rumiko con le sue folte code. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per lei.

Avrebbe pagato qualunque prezzo per rivederla sorridere felice. Perché la felicità di lei era la sua. Perché senza la sua prescelta, la sua migliore amica, la sua anima gemella, lei non aveva motivo di vivere. Perché lei era la sua ragione di esistere.

Dunque l’avrebbe riportata in vita e poi condotta nel suo mondo, da suo padre e dai suoi amici. O sarebbe morta nel tentativo e nessuno l’avrebbe mai saputo.

D’altronde, quello era il Mondo dell’Oblio in cui tutto si perdeva nella nebbia.

 

 

 

Continua…

 

 

 

N.d.a

Kitsunemon è un digimon di mio invenzione. Il nome è poco originale, ma ci tenevo a sottolineare la differenza tra lo stadio intermedio e quello campione.

Come accennato nel capitolo, il riferimento è la kitsune della mitologia giapponese. Si tratta di una volpe ambigua e intelligente, magica e in grado di entrare nei sogni delle persone. Spesso gioca dei brutti tiri agli uomini, tramutandosi in bellissima donna e seducendo le sue vittime per poi abbandonarli al loro destino quando questi meno se l’aspettano, a volte persino alla morte. Le sue nove code possono incendiarsi e appiccare fuoco alle foreste o alle abitazioni degli uomini.

La mia Kitsunemon però non è malvagia: possiede i poteri delle kitsune giapponesi, non il loro temperamento!

Arrivederci al prossimo capitolo…e grazie della recensione lovegio92!

Monalisasmile

 

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Capitolo 20
*** - ***


Capitolo 20

 

Mimi aveva smesso di singhiozzare.

Ma non aveva ancora proferito parola. Accoccolata nel caldo abbraccio di Koushiro, avrebbe voluto restare in silenzio ancora a lungo, assaporando la pace di quei momenti.

-      Mimi… - la chiamò lui, delicatamente – Vuoi raccontarmi cos’è successo? –

Lei non rispose, ostinandosi a non guardarlo in faccia.

Lui attese ancora qualche momento, poi parlò di nuovo: era arrivato il tempo delle spiegazioni e di affrontare la realtà, qualunque essa fosse, che lei lo volesse o meno.

-      Come siamo finiti qua? – insistette il rosso – Che ne è stato di quella presenza che ti aveva monopolizzata? –

La vide stringere le lenzuola tra i pugni. Tuttavia non demorse.

-      Dove sono Yamato e Rumiko? –

Mimi sussultò. E Koushiro seppe di aver centrato il bersaglio.

Non avrebbe voluto metterla alle strette, né esser per lei causa di turbamento. Ma la questione era semplicemente troppo importante per poter esser accantonata.

-      Mimi, rispondimi per fav… -

-      Yamato era qui poco tempo prima che tu ti svegliassi – lo interruppe in fretta lei – Sta bene… -

-      E Rumiko? –

Silenzio.

-      Rumiko come sta? –

Ancora silenzio. Lei aveva di nuovo distolto lo sguardo e per quanto lui cercasse i suoi occhi nocciola, questi gli sfuggivano continuamente.

Ma Koushiro era paziente e tenne il tono fermo e pacato.

-      Mimi, che cos’è successo a Rumiko? –

Ebbe l’impressione che fosse stata scossa da un brivido.

-      Mimi… -

-      È morta. –

 

Era stato un sussurro. Ma bastò a far calare un pesante silenzio.

Koushiro ripensò all’ultima volta che aveva scorto la ragazza, stesa sul freddo pavimento della sua cucina, pallida e apparentemente svenuta. Del liquido nero usciva dalla sua bocca socchiusa, spandendosi in una pozza disgustosa che non lasciava presagire nulla di buono.

Cos’era successo? Com’era potuto accadere? Chi…?

Quasi gli avesse letto il pensiero, Mimi parlò di nuovo.

-      Sono stata io…l’ho uccisa… -

Silenzio.

 

Yamato distese le braccia, stiracchiando i muscoli indolenziti. Era stanco, ma sapeva che una volta tornato a casa non sarebbe riuscito a dormire sonni tranquilli dopo quanto aveva visto quella sera. Suo padre invece si era offerto di ospitare il signor Kitamura e caffè, insistendo che sarebbero stati ospiti più che graditi fin tanto che l’appartamento fosse stato inagibile a causa dei danni. Con un’occhiata d’intesa, Yamato aveva intuito che il motivo principale di tanta solerzia da parte del suo vecchio fosse un altro: tenere d’occhio un amico che aveva subito un fortissimo trauma per evitare che facesse qualche stupidaggine, a dispetto delle apparenze.

Si passò una mano tra i capelli, ripensando al volto di quell’uomo: sfinito e afflitto, ma con un sorriso speranzoso appena accennato.

“ Non so proprio cosa pensare…” scosse il capo mestamente “ Che stesse sragionando? Che avesse bisogno d’illudersi? Che sapesse qualcosa che noi non sappiamo?”

Aveva passato la notte in bianco a farsi domande, chiedendosi ripetutamente se quella speranza fosse solo follia, se tutto ciò non fosse altro che un incubo, se non sarebbe impazzito anche lui a breve.  

Si ricordò di aver adocchiato una terrazza accessibile dal corridoio dell’ospedale, così vi si diresse con passo strascicato, sperando che l’aria frizzante del mattino lo rinvigorisse. Abbassò la maniglia e aprì la porta di servizio, ritrovandosi all’esterno. Socchiuse gli occhi e inspirò a pieni polmoni. Un brivido di irrequietezza gli percorse la schiena e Yamato riaprì gli occhi di scatto.

L’aria era immota. Non una brezza scuoteva le chiome degli alberi, silenziosi giganti immobili come statue. Non si udiva il cinguettio di un uccello.

La città intera pareva in attesa di qualcosa e, Yamato se lo sentiva fin nelle ossa, si trattava di qualcosa di fondamentale. Si guardò attorno in cerca di una risposta, avvertendo l’ansia impossessarsi del suo petto. Eppure tutto era avvolto nel silenzio, le strade deserte, le insegne dei negozi lampeggianti…

Un pensiero gli attraversò la mente e Yamato portò lo sguardo all’orologio: le 10.00 di mattina.

Come mai non vi era traffico per le strade? Come mai i negozi non avevano ancora tirato su le serrande? Come mai non si udiva il cinguettio degli uccelli? Ma soprattutto… come mai era ancora buio?

Si voltò verso Est, ma non vi era traccia di un bagliore luminoso: il sole non era sorto.

 

Una coppia di passi frettolosi lungo i corridoi dell’ospedale annunciò a Taichi e Sora l’arrivo di Daisuke e Mei.

Si arrestarono di fronte ai ragazzi, poggiando le mani sulle ginocchia e chinando le teste per riprendere fiato.

Per un attimo la rossa si chiese come i due fossero già venuti a conoscenza di quanto fosse successo a Rumiko, ma subito il suo sguardo si addolcì e i suoi occhi si riempirono di lacrime di commozione. Daisuke era molto legato alla ragazza, ma la prontezza con cui persino Mei era accorsa era semplicemente…

-      L-La città non si sveglia! – interruppe i suoi pensieri Daisuke.

-      Come? – Taichi aggrottò la fronte.

-      È come ti ho detto, Tai! – fece una pausa per riprendere fiato il moretto – Fuori è ancora notte, le strade sono praticamente deserte, gli abitanti stanno ancora tutti dormendo! –

-      Ma che Diavolo… -

Taichi lanciò un’occhiata al suo orologio da polso. Le 10.20 di mattina. Portò lo sguardo alla finestra e si accorse che il giovane digiprescelto aveva ragione: all’esterno tutto era ancora avvolto nell’oscurità. I lampioni spandevano la loro pallida luce su strade deserte.

-      Tai… - il sussurro appena udibile di Sora lo spinse a riportare la sua attenzione verso i presenti.

-      Come sapevate che eravamo qua? – si rivolse di nuovo al ragazzo.

-      Ho fatto un giro di telefonate appena mi sono accorto che c’era qualcosa che non andava…l’unico ad aver risposto è stato Yamato. Mi ha detto che eravate all’ospedale e di raggiungervi subito… -

-      E hai portato anche Mei. – constatò Taichi in tono piatto, ma il suo sguardo su Daisuke era di rimprovero.

La biondina si scaldò.

-      Sì, ci sono anche io, qualche problema?! –

-      Sì Mei, se finirai per essere coinvolta in faccende pericolose…- le rispose Taichi, senza però staccare lo sguardo dal moretto a capo chino.

-      Daisuke mi ha raccontato tutto, non avete più segreti per me! – alzò il mento lei.

-      Ah sì? – sollevò un sopracciglio il prescelto del Coraggio.

-      Certo! E sono sicura che finché ci sarà Daisuke l’Impavido accanto a me, nessun mostro digitale potrà farmi del male! – ribatté lei con fierezza.

L’interessato arrossì violentemente e voltò il capo con fare casuale.

-      Daisuke l’Impavido eh? – rise Taichi, afferrandolo per la collottola come un micetto dispettoso.

-      I-impavido è un sinonimo di coraggioso – tentò di divincolarsi il ragazzo – e dato che io sono il…ehm, un digiprescelto del Coraggio… -  

-      Beh sarà il caso che più tardi io e il grande eroe scambiamo due parole sull’utilità della riservatezza per quanto riguarda un certo tipo di informazioni. -

-      V-va bene Tai! – si liberò della presa il moretto – Ma ora posso sapere una cosa? –

-      Spara, grande eroe impavido! – si lasciò andare su una sedia con un sospiro sconsolato l’altro.

-      Come mai tu e Sora siete all’ospedale? E dov’è Yamato? –

Taichi si voltò verso la rossa ed entrambi sgranarono gli occhi.

Il prescelto del Coraggio scattò immediatamente in piedi e si diresse a grandi falcate verso la terrazza, tallonato dalla ragazza. Spinse con forza la porta di servizio, che si spalancò andando a rimbalzare rumorosamente sulla parete esterna dell’edificio. Per terra giaceva un cellulare. Di Yamato nemmeno l’ombra.

Taichi raccolse l’oggetto e si passò una mano tra i capelli, sfinito.

-      Dove sarà mai andato? – si rivolse al cielo brumoso che minacciava un’altra nevicata.

Non gli capitava spesso di preoccuparsi per il suo migliore amico: da quando si conoscevano era piuttosto il biondo, con il suo sangue freddo e buon senso, a doverlo sempre tirare fuori dai guai. Perché quello avventato, che si lasciava trasportare dai turbamenti e dalle emozioni era sempre stato lui.

Tuttavia da qualche tempo a quella parte Yamato era cambiato, lasciando trasparire lati di se stesso che aveva sempre accuratamente celato dentro di sé. Era diventato più passionale e suscettibile, più impulsivo e schietto nel manifestare i propri sentimenti. Ma ora che l’artefice di questa trasformazione se n’era andata e Taichi poteva solo figurarsi come l’amico potesse sentirsi.

“ Anzi, probabilmente sono ben lontano da riuscire a immaginarlo… L’ha vista morire… e non ha potuto fare nulla per salvarla.”

Yamato era sempre stato perfettamente in grado di difendersi dagli attacchi esterni, verbali o fisici che fossero. Ma Taichi temeva che non sarebbe stato altrettanto pronto a proteggersi dai sensi di colpa e dall’angoscia profonda che egli stesso stava infliggendo al proprio cuore.

-      Non fare cavolate, Matt… - bisbigliò tra sé e sé.

Una mano tiepida intrecciò le proprie dita alle sue, rassicurante.

-      Sono sicura che Yamato ce la farà… è forte. – lo raggiunse la dolce voce di Sora.

-      Lo so… - la cinse tra le sue braccia, regalandole uno dei suoi migliori sorrisi d’incoraggiamento – Yamato è sempre stato un duro, supererà anche questa. –

Ma nonostante le sue parole, il sorriso della rossa era sofferente e i suoi occhi umidi minacciavano di riempirsi nuovamente di lacrime.

-      E noi Taichi? Noi ce la faremo? –

Il sorriso del ragazzo si addolcì mentre si chinava a baciarla sulla fronte.

 

-      Ehm, spiacente d’interrompere, ma abbiamo una città da buttare giù dal letto! –

Taichi sbuffò per l’entrata in scena decisamente fuori luogo di Mei. Mani sui fianchi ed espressione decisa, la biondina li stava rimproverando con lo sguardo, affiancata da un imbarazzato Daisuke.

-      Complimenti Dai, hai trovato una rompiscatole di prima categoria. –

-      Beh, non eravate voi i prescelti?! Allora fate qualcosa! –

-      Già, quasi dimenticavo che hai deciso di spiattellarle tutto riguardo le nostre faccende private senza dirci nulla! –

-      Se per questo – alzò di nuovo il mento sfrontatamente lei – dovreste ancora spiegarci come mai siete tutti all’ospedale! Non è stato divertente correr… -

-      Yamato era qua con voi? – la interruppe Daisuke.

Fu Sora a parlare, avvicinandosi al moretto.

-      Sì Dai, era uscito su questa terrazza per prendere un po’ d’aria… Ma evidentemente ha sentito il bisogno di allontanarsi per starsene un po’ per conto suo, sai com’è fatto… -

-      È successo qualcosa? Qualcuno si è fatto male? – corrugò la fronte il ragazzo.

Non ottenne risposta. La rossa abbassò lo sguardo, mentre Taichi si fece scuro in volto.

Daisuke fece passare lo sguardo dall’uno all’altro, turbato, poi un pensiero terribile si affacciò nella sua mente.

-      Dov’è Rumiko? Mi pare di aver intravisto suo padre lungo i corridoi… –

Le spalle di Sora sobbalzarono appena, ma il movimento non gli sfuggì e l’espressione del ragazzo divenne angosciata.

-      Le è capitato qualcosa, non è vero? È ricoverata nella stanza davanti la quale vi abbiamo trovati, non è vero? –

-      In quella stanza sono ricoverati Mimi e Koushiro… - gli rispose debolmente Sora, senza però alzare lo sguardo su di lui.

-      Mimi?! – s’intromise Mei – Quella Mimi?! – lanciò un’occhiata significativa a Daisuke.

Taichi aggrottò la fronte: non gli risultava che le due ragazze si fossero mai incontrate.

-      La conosci, Mei? - volle sapere.

-      Beh, non esattamente… - la biondina distolse lo sguardo da un ancora scioccato Daisuke per portarlo sull’altro prescelto – Ieri pomeriggio Dai l’ha scorta tra la folla e l’ha voluta seguire per salutarla dicendo che era una sua vecchia amica… ma l’abbiamo persa di vista quand’è saltata sul tetto di un palazzo di cinque piani! –

Il ragazzo si scambiò un’occhiata eloquente con Sora: quei due erano fortunati ad essere ancora vivi.

-      N-non sembrate sorpresi… - balbettò un’esterrefatta Mei.

-      Effettivamente no, Mei. – le rispose Taichi, serio e pensieroso – In ogni caso la Mimi ricoverata in quella stanza non è esattamente la stessa che avete visto voi. –

-      C-che significa? –

Taichi ebbe un attimo di compassione per la biondina: ricordava la sensazione di trovarsi catapultati in un film di fantascienza in cui niente pareva avere un nesso logico. Sebbene Mei si trovasse ancora nella sua città, circondata da persone che conosceva, le circostanze rendevano la situazione persino più tragica di quella da loro affrontata anni fa: se non altro, l’avventura dei prescelti non era cominciata con un lutto.

Il ragazzo sospirò.

-      Temo che le sorprese per te non siano ancora finite, Mei. – le rivolse un sorriso stanco – Anzi, ho la netta sensazione che stai per ritrovarti intrappolata in un incubo… -

Mei rabbrividì e gli altri si fecero cupi in volto.

Nessuno di loro poteva immaginare quanto le parole di Taichi si sarebbero rivelate veritiere.

 

La neve cominciò a cadere in morbidi fiocchi, che avvolgevano nella loro luminosa coltre candida il paesaggio buio. Yamato levò lo sguardo verso il cielo, lasciando che i ricordi della notte di Natale invadessero la sua mente, trafiggendogli il cuore.

Inspirò a pieni polmoni, godendo del freddo che gli pungeva le guance, e accese i fari della moto.

Ormai erano le 11.00 di mattina, le luci dei lampioni che costeggiavano le strade si stavano spegnendo. Eppure il sole non era ancora sorto e i cittadini rimanevano avvolti nel sonno. Aveva telefonato sia a casa che al cellulare di sua madre e di Takeru non appena ricevuta la chiamata di un agitatissimo Daisuke. Ma non ottenendo alcuna risposta, non aveva fatto un secondo tentativo: se erano avvolti nello stesso sonno profondo in cui erano avviluppati gli altri cittadini dubitava fortemente che la suoneria di un cellulare avrebbe potuto svegliarli.

S’infilò il casco e diede gas al motore, sfrecciando a tutta velocità nel cortile condominiale e poi nella strada deserta.

Ignorò ogni precedenza o semaforo rosso, mentre sentiva crescere dentro di sé l’adrenalina. Si sfilò il casco, lasciando che il vento gli schiaffeggiasse con arroganza il volto, rubando le lacrime che avevano preso a sgorgare dagli occhi socchiusi. Che il mondo osservasse pure quella dimostrazione di debolezza, che gli rubasse l’orgoglio e il suo proverbiale buon senso! Chissà che il vento non sarebbe riuscito a strappargli via anche i pensieri e con essi i ricordi di quegli ultimi mesi…

Un suono attirò la sua attenzione mentre attraversava a tutta velocità l’ennesimo incrocio: il clacson assordante di un camion. Yamato riportò le mani sul manubrio appena in tempo per sterzare bruscamente. Evitò il veicolo, ma la motocicletta non s’arrestò, roteando impazzita. Le gomme fumavano a causa dell’azione dei freni e per un attimo il biondo venne avvolto in una nuvola di fumo, mentre un solo pensiero si affacciò cristallino nella sua mente: se solo non si fosse tolto il casco…

Poi quella trottola impazzita s’arrestò contro quella che il ragazzo ipotizzò essere una balaustra. Sebbene la velocità fosse ormai ridotta, il contraccolpo fu violento e Yamato venne scagliato sul marciapiede ricoperto da un sottile strato di neve.

 

Si contorse nella neve: ogni centimetro del corpo gli doleva e gli girava la testa. L’eco di una voce giungeva alle sue orecchie, ma Yamato non riuscì ad afferrarne le parole.

Si sollevò, mettendosi faticosamente a quattro zampe. Aveva la vista annebbiata, ma riuscì ugualmente a mettere a fuoco la macchia scarlatta che s’allargava sulla neve. Ancora una volta rimpianse di essersi tolto il casco.

Per un attimo gli sovvenne alla mente l’espressione accigliata di Rumiko mentre redarguiva il padre. Il suo tono era severo, ma dal suo sguardo trasparivano affetto e preoccupazione. Immaginò di trovarsela di fronte in quel momento, circondata dai fiocchi di neve che turbinavano nel vento, avvolta in quello stesso maglione candido e troppo grande in cui l’aveva vista avviluppata una mattina d’inverno a casa sua. Incurante dei capelli che le schiaffeggiavano il volto, lei si chinava verso di lui, lo sguardo crucciato e il labbro sporgente come quando si offendeva per qualcosa di poco carino che lui le aveva detto. Lo guardava dritto negli occhi e lui si perdeva nelle sue iridi viola e profonde.

-      Hai fatto una cosa davvero stupida, Yamato. Non farlo più. –

Senza staccare lo sguardo da quella visione, il ragazzo si sedette goffamente, poggiando una mano nella neve dietro la schiena per meglio sostenere il peso del corpo ancora scoordinato. Si portò l’altra mano alla fronte, rilevando l’origine del sangue.

Osservò inebetito le sue dita macchiate, ma quando rialzò lo sguardo lei era scomparsa. Rimase un attimo fermo, mentre avvertiva una presenza accanto a sé, questa volta decisamente reale, che tentava di attirare la sua attenzione per sincerarsi delle sue condizioni.

Poi gli angoli della bocca di Yamato si piegarono all’insù e il ragazzo scoppiò in una risata.

“ Hai ragione, Rumiko, ho fatto una cosa davvero stupida. Non lo farò più.”

 

L’uomo scosse il capo, rassegnato: quel ragazzo aveva preso davvero una bella botta.

-      Ehi, ragazzo! Ti senti bene? – gli chiese nuovamente.

Questa volta il giovane si voltò a guardarlo. Aveva smesso di ridere, ma nei suoi occhi azzurri brillava una strana luce, che, insieme al rivolo di sangue che gli scorreva lungo la tempia, gli conferiva un’espressione decisamente agghiacciante.

Dovette attendere un attimo per riceve risposta, come se il biondo dovesse ancora riuscire a realizzare la sua presenza. Poi quella strana espressione svanì dal suo volto e sembrò ricordarsi nuovamente cosa fosse successo e in che condizioni si trovasse. Riportò lo sguardo accigliato a fissare la macchia di sangue sulla sua mano e quella che segnava il punto in cui aveva perso i sensi.

Infine rialzò lo sguardo sull’uomo di fronte a lui. Il camionista lo scrutò in volto e seppe che aveva riacquistato lucidità.

-      Direi che sono stato meglio… - gli rispose il ragazzo.

L’uomo sospirò di sollievo.

-      Meno male, quando ti ho visto in quella pozza di sangue e privo di sensi ho temuto… -

-      Come, scusi? – si accigliò il giovane.

-      Beh, non ti muovevi, non aprivi gli occhi, eri freddo come un pezzo di ghiaccio, così ho cominciato a temere il peggio… -

-      Ero privo di sensi… - disse tra sé e sé il giovane.

-      Sì è così, ragazzo. – gli spiegò l’uomo, vedendolo pensieroso – Poi improvvisamente hai cominciato a muoverti, ad occhi socchiusi, quasi fossi in trance! Ti sei tirato su, ti sei toccato la ferita, tenevi il volto alzato verso il cielo quasi stessi guardando qualcuno. Poco dopo hai aperto gli occhi e… beh, sei scoppiato a ridere. –

Yamato guardò l’espressione perplessa dell’uomo e sorrise leggermente.

-      Devo esserle sembrato svitato eh? –

L’altro si strinse nelle spalle.

-      Onestamente sì. –

Il biondo annuì, apprezzando la schiettezza di quell’uomo. Si tirò in piedi, aiutato dalle braccia forti del camionista.

-      Sicuro di farcela, ragazzo? –

-      Non si preoccupi…sono stato peggio. –

Ed era vero: il dolore lancinante agli arti e la testa pulsante non erano nulla in confronto a quanto il suo cuore aveva patito fino a poco prima. Si sorprese nel constatare che la caduta aveva alleviato le sue sofferenze emotive. Ma forse era ancora stordito per l’incidente.

-      Mi tolga ancora una curiosità… - si fermò il biondo, rendendosi conto di non sapere ancora il nome dell’uomo.

-      Masahiro. – rispose l’altro, asciutto.

-      Per quanto sono rimasto svenuto, Masahiro? –

L’uomo si prese qualche secondo per pensarci.

-      Direi all’incirca un quarto d’ora, forse venti minuti. –

-      Ho capito… - commentò l’altro a bassa voce, mentre la sua mente aveva ripreso a ponderare.

-      Ora però vorrei che fossi tu a togliermi una curiosità… –

-      Yamato. –

-      Bene, Yamato… Vorresti spiegarmi dove credevi di andare a quella velocità, senza casco e per giunta ignorando i semafori? –

Anche lui si prese qualche secondo per rispondere.

-      Credo che volessi raggiungere una persona a me molto cara… - disse infine, con un filo di voce, quasi stesse parlando a se stesso anziché con l’uomo di fronte a lui – Ma sai qual è la cosa buffa di tutto ciò, Masahiro? –

-      No, proprio non ci arrivo. – alzò un sopracciglio lui.

-      Che quando finalmente l’ho raggiunta, lei mi ha sgridato! –

 

Masahiro scosse il capo di fronte al sorriso sereno sebbene contrito di Yamato: quel ragazzo aveva dato una testata davvero colossale. O forse era semplicemente matto.

 

 

 

Continua…

 

 

 

N.d.a:

Questo capitolo è dedicato a lovegio92, fedele lettrice di questa storia che mi ha dato la gioia di leggere il suo commento dopo la mia lunga interruzione. Grazie!

 

Rileggendo i capitoli precedenti mi sono imbattuta in errori di battitura e qualche ripetizione che andrò pian piano a correggere. A tal proposito spero che i lettori di questa storia vogliano commentarla anche per aiutarmi a migliorarla là dove ci sono state delle sviste o degli errori grammaticali.

Oltre a questo sono ovviamente molto curiosa di conoscere le vostre impressioni e opinioni sui personaggi e le vicende narrate!

 

Sperando di riuscire ad appassionarvi sempre più a questa storia

 

Monalisasmile

 

 

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Capitolo 21
*** - ***


Capitolo 21

 

-      YAMATO! Che Diavolo hai combinato?! –

Lui si sedette su una sedia libera accanto al letto di un esterrefatto Koushiro, ignorando deliberatamente le proteste di Taichi per la striscia di sangue raggrumato che gli delineava la tempia. Masahiro restò in piedi accanto a lui, come una silenziosa guardia del corpo.

-      Ti devo parlare, Koushiro. –

 

L’uomo si era inizialmente offerto di accompagnarlo all’ospedale perché il giovane fosse visitato, caricando la moto malandata nel container e aiutando il biondo a issarsi nel posto passeggeri accanto al suo. Aveva sbirciato incuriosito il ragazzo, ma non aveva posto ulteriori domande riguardo il motivo della sua bravata: dubitava che avrebbe avuto ulteriori chiarimenti, per il momento.

Tra i due era calato un pesante silenzio, finché Masahiro non l’aveva interrotto cambiando argomento.

-      Non voglio sembrarti ficcanaso, Yamato… - aveva esordito, senza guardarlo – Ma hai idea di quello che sta accadendo in questa città? –

Gli lanciò un’occhiata fugace: la sua espressione si era fatta nuovamente meditabonda. Dunque il ragazzo sapeva qualcosa.

-      Sembra di stare in una città fantasma. – proseguì imperterrito il camionista, ma in tono pacato – Dove sono finiti tutti gli abitanti? –

-      Dormono. –

La risposta concisa lo fece voltare ad occhi sgranati.

-      Tutti?! –

-      Quasi… - sembrò parlare più a se stesso Yamato, quasi stesse ragionando ad alta voce – Coloro che da quel momento non si sono coricati devono essere ancora svegli… -

-      Che vuoi dire, ragazzo? Quale momento? –

-      Non lo so. – si lasciò andare sullo schienale, frustrato – Non ne sono sicuro. Ma credo che prima, quando ho perso i sensi, stavo per fare la loro stessa fine. –

-      Ammetto che tutto ciò non mi è molto chiaro. –

Yamato si voltò a guardarlo, provando un briciolo di compassione per quell’uomo semplice che si trovava catapultato in una situazione a lui del tutto aliena. Ripensò a tutte le volte che i digimon avevano fatto la loro comparsa in quel mondo, scombussolando l’esistenza di centinaia di persone. Persone ignare di quanto stava accadendo intorno a loro, del pericolo che correvano, di chi li minacciasse e perché. Eppure quello era il loro mondo e quelle che venivano scombussolate erano le loro vite.

Riportò il suo sguardo su Masahiro, che guidava silenzioso e concentrato per le strade buie di Tokyo. Si era levato il giubbotto imbottito, rivelando le braccia forti e muscolose che non avevano faticato troppo a issare la moto nel camion. Anche da seduto superava Yamato di un paio di decine di centimetri, eppure il giovane non avvertiva la sua gigantesca mole come una minaccia. Forse perché l’aveva aiutato, forse perché non aveva fatto ulteriori domande sull’accaduto, il giovane si sentiva a suo agio con lui. Spiò i lineamenti marcati ma non rozzi del suo volto, soffermandosi sugli occhi azzurri, trasparenti come due pozze d’acqua cristallina. Si soffermò su quelle iridi e sull’espressione seria del loro sguardo. E seppe di potersi fidare di lui.

-      Masahiro… Vorresti sapere cosa sta accadendo? –

 

Il camionista si voltò a guardarlo, colpito dall’espressione grave e lo sguardo penetrante del giovane. Era estremamente serio e l’uomo annuì.

-      Sicuro? Ti avverto: potrebbe essere molto pericoloso avere a che fare con tutto ciò. – indicò la città buia e silenziosa con un gesto stanco della mano – E una volta che vi sarai entrato non so cosa potrebbe capitarti, di sicuro la tua vita non sarebbe più la stessa. –

Masahiro sembrò pensarci un attimo, lo sguardo perso sull’asfalto che scorreva di fronte a sé. Poi parlò, la voce ridotta a un sussurro, ma carica di energia.

-      Io non ho famiglia, Yamato. Mi sono presentato senza il mio cognome perché non ho mai conosciuto i miei genitori. Sono orfano da quando avevo quattro anni. Non ho ricordi più remoti. –

Fece una pausa.

-      Vivo la mia vita senza pensare al domani, guido questo camion in giro per il Giappone e questo mi è sempre bastato. Ho visto posti meravigliosi, conosciuto persone incredibili…ma questo – accennò brevemente al paesaggio tenebroso – supera qualsiasi cosa. –

Si voltò verso il biondo e sorrise, rivelando un dente dorato, che sfavillò nella penombra.

-      Ho idea che ci scapperebbe una bella avventura e non voglio lasciarmela sfuggire! E poi…- gli ammiccò, col sorriso da squalo – mi sembri un tipo in gamba, Yamato. Anche se forse non del tutto a posto… - fece roteare l’indice accanto alla tempia.

Il biondo scoppiò a ridere.

-      E non ti preoccupa doverti affidare a un ragazzo svalvolato? –

-      Francamente – rispose l’altro con fare serissimo – mi preoccupa di più non poterlo tenere sott’occhio. –

La risata di entrambi squarciò il silenzio lugubre della città.

-      Un’ultima cosa, ragazzo. –

-      Dimmi, Masahiro. – si voltò a guardarlo il biondo, interpretando il suo tono improvvisamente serio come il preludio per una nuova battuta.

-      Riguardo il tuo fantastico volo dalla moto… - aggrottò la fronte l’uomo – Hai fatto una cosa davvero stupida. Non farlo più. –

-      D-d’accordo… -

Ma nella sua mente risuonò l’eco di un altro rimprovero: la voce era diversa, ma le parole uguali.

 

Yamato aveva appena terminato di raccontare a Koushiro quanto gli era accaduto, tra lo sgomento generale. Solo Masahiro era rimasto impassibile.

Il rosso non l’aveva interrotto, ascoltandolo a tratti sorpreso, a tratti rabbuiato.

-      Fammi capire bene – intervenne quando l’amico ebbe smesso di parlare – credi di esserti trovato nello stesso stato degli altri cittadini per… -

-      Un quarto d’ora circa. –

-      Un quarto d’ora… - ragionò ad alta vice Koushiro, meditabondo – E poi di essere riuscito a svegliarti da solo? –

Yamato incassò il colpo, senza che nulla trapelasse sul suo volto. Non distolse lo sguardo: Koushiro era sempre stato sveglio, sapeva che si sarebbe accorto che il racconto fosse incompleto. Ma non aveva intenzione di raccontare loro della visione di Rumiko che aveva avuto. Prima avrebbe dovuto darsi delle risposte…da solo.

Perciò ritorse la domanda contro lo stesso rosso.

-      E tu, Koushiro, come hai fatto a svegliarti? –

Sapeva la risposta, ma l’occhiata fugace che l’amico lanciò a Mimi gliene dette la conferma. Sorrise scaltro davanti all’imbarazzo del giovane: era sempre stato un libro aperto.

-      Ma quello che più mi incuriosisce è – si rivolse alla ragazza – come Mimi ci sia riuscita. –

-      C-che vuoi dire? – balbettò lei, perplessa.

-      Ce l’hai fatta da sola o hai avuto una sorta di “aiutino”? –

-      Non capisco cosa tu voglia dire… - corrugò la fronte.

 

Ed era vero.

Mimi non riusciva a capire dove volesse andare a parare Yamato. Lei non aveva sentito né visto nulla di strano. Per la prima volta da tanto tempo era stata avvolta in un sogno senza sogni, si era potuta lasciare andare a un piacevole torpore, in cui niente e nessuno poteva disturbarla.

Ad un tratto, semplicemente, si era risvegliata. Perché si ostinavano a chiedere spiegazioni a lei, quando c’era una sfilza di medici che avrebbero potuto dar loro delle spiegazioni scientifiche in merito?

-      Mimi… - le si rivolse Koushiro, in tono decisamente più gentile e comprensivo del biondo – Yamato voleva sapere se anche tu, come noi, hai avuta una sorta di… - sospirò, come sconfitto – visione. –

Lo sguardo della ragazza s’addolcì e afferrò una delle mani del rosso tra le sue, senza vergogna. Vide l’imbarazzo dipingersi sul volto del giovane, ma questo anziché indispettirla la intenerì ulteriormente. Il suo Koushiro, che sempre si preoccupava per lei…per un attimo si chiese quale visione potesse averlo svegliato, se veramente il motivo era stato quello. Ma immediatamente la risposta le fu chiara: probabilmente quel pensiero era l’ennesima prova della sua vanità, tuttavia aveva la netta impressione di sapere chi l’avesse riportato alla realtà.

Sorrise di gioia e fu tentata di gettargli le braccia al collo, invece si limitò a bisbigliare:

-      Sono felice di averti riportato indietro. -

In risposta la presa sulla sua mano si rafforzò leggermente. Lo vide sorridere, poi l’espressione della castana tornò seria e si rivolse nuovamente a Yamato.

-      In ogni caso posso assicurarti che non ho visto né sentito assolutamente nulla. Semplicemente, a un certo punto mi sono risvegliata. –

Poteva comprendere il risentimento del ragazzo nei suoi confronti, ma non era disposta a farsi maltrattare in eterno.

Yamato annuì e si rivolse all’uomo che aveva portato con sé in ospedale.

-      Tu che ne pensi? –

I presenti rimasero un attimo sorpresi dalla familiarità che sembrava avere con quello sconosciuto, persino il padre del ragazzo restò un attimo interdetto: Yamato non era tipo da chiedere aiuto.

Lo sconosciuto parve pensarci un attimo, scrutando Mimi con aria meditabonda. La ragazza si sentì arrossire d’imbarazzo, sotto quello sguardo di ghiaccio che pareva volerle scavare dentro, e si voltò indispettita.

Infine l’uomo ruppe il silenzio in cui era rimasto avvolto fino a quel momento.

-      Se la tua amica ha dovuto convivere con quella creatura per molto tempo, può darsi che ora sia immune dal suo potere… - abbassò lo sguardo sul biondo, che lo ascoltava attentamente – D’altronde è ciò che il corpo umano tende a fare anche nei confronti delle malattie, o no? Quando l’organismo viene attaccato dai virus, il sistema immunitario tenta di sviluppare una “cura” con cui passare al contrattacco, anche se magari ciò richiede un po’ di tempo… -

-      Stai cercando di insinuare che sono infetta da qualche morbo ripugnante?! – sibilò Mimi, disgustata.

Koushiro intervenne a sostegno dell’uomo, con grande disappunto di Mimi.

-      Effettivamente non è una teoria da escludere… - ragionò, accarezzandosi il mento, per poi rivolgersi alla castana – Mimi, pensaci, nell’appartamento dei Kitamura tu sei riuscita a liberarti dalla morsa di quell’essere. –

-      Perché c’eri tu, Koushiro… -

-      Sì – annuì lui, afferrandole entrambi le mani – Forse non ci saresti riuscita senza un aiuto dall’esterno, ma io non sono stato che un imput, la “cura” era già dentro di te, l’avevi sviluppata tu stessa, col tempo… -

-      Ma non sono riuscita a liberarmi di quel mostro finché non è stato lui ad andarsene! – protestò lei – E cura o non cura, mi ha comunque usata a proprio piacimento! –

Il pensiero di quanto aveva fatto la invase nuovamente e la ragazza rabbrividì, questa volta inorridita da se stessa.

-      Mimi… - le accarezzò una guancia il rosso, gentile – Si era impossessato di te, quella creatura viveva dentro di te. Tutto il suo potere era concentrato nel tuo corpo, lo stesso potere che ora, distribuito in uno spazio molto più vasto, ha fatto addormentare un’intera città! –

-      In altre parole? – piagnucolò lei: non era mai stata una scheggia nelle conclusioni.

-      In altre parole – Koushiro addolcì ulteriormente il tono di voce – tu ora dovresti essere immune al sonno anomalo in cui sta costringendo gli altri abitanti della città, poiché la sua intensità è nulla in confronto a quella che hai dovuto sopportare nell’ultimo anno. –

Lei annuì e si accoccolò accanto al ragazzo, rassicurata: Koushiro aveva sempre una spiegazione per tutto.

 

Fu Yamato a infrangere il silenzio.

-      Dunque – riprese con voce decisa – siamo tutti d’accordo che sia stato quel digimon a far addormentare tutta la città? –

-      Direi di sì… - si grattò il capo Taichi.

-      E siamo tutti d’accordo che nessuno di noi dovrà farsi prendere dal sonno finché non avremo trovato una soluzione a questa situazione? – sondò con lo sguardo i presenti.

Tutti annuirono, scuri in volto.

Per un attimo Yamato si soffermò su suo padre e sul signor Kitamura: parevano entrambi davvero stanchi. Il padre di Rumiko, in particolare, sembrava che non desiderasse altro che lasciarsi andare a un sonno eterno, sfinito e sconfortato dagli ultimi eventi. Eppure era ancora là, in piedi accanto al signor Ishida, con un debole sfavillio di speranza degli occhi.

Fino a poche ore fa Yamato non avrebbe retto il peso di quello sguardo, ma ora lo ricambiò: forse per la visione che l’aveva risvegliato, forse per la botta alla testa, adesso anche lui voleva credere che Rumiko sarebbe tornata.

-      Yamato… -

Fu la voce di Mei a riportarlo alla realtà. Si voltò a guardare la biondina titubante, gli occhi rossi e gonfi di pianto. Lo sguardo del prescelto si addolcì leggermente, di fronte al dolore della ragazza per la scomparsa di Rumiko. Lasciò che il suo sguardo si soffermasse anche su Daisuke, seduto in un angolo poco distante, scuro in volto e con le guance rigate di lacrime che non si era curato di cancellare.

-      Dimmi, Mei. –

-      C-credi che riusciremo a riportare il giorno? I-io comincio ad avere paura di tutto questo buio… -

Yamato si diede mentalmente dell’idiota. Si era scordato di un altro aspetto fondamentale: il sole. Lo sconforto si rimpadronì dei presenti e il silenzio calò pesante. Se anche fossero riusciti a svegliare gli abitanti della città, se anche fossero riusciti a scovare il digimon artefice di tutto ciò e a sconfiggerlo, chi garantiva che il sole sarebbe sorto nuovamente?

Infine fu Taichi a interromperlo.

-      Bene, abbiamo due problemi cui pensare: come svegliare gli abitanti e come far sorgere nuovamente il sole. – sentenziò – Direi che non abbiamo tempo da perdere! – concluse ammiccando.

A tutti fu chiaro, ancora una volta, come mai era sempre stato lui il “capo” del gruppo. E si misero all’opera.

-      Ah, Matt, riguardo il tuo incidente in moto –Taichi gli posò una mano sulla spalla, guardandolo dritto negli occhi con fare improvvisamente serio – Hai fatto una cosa davvero stupida. Non farlo più. –

Yamato lo guardò ad occhi sgranati, poi scosse il capo e si defilò.

 

Fecero una buona provvista di caffé, bibite energetiche e quant’altro poteva tenerli svegli. Camminando per i corridoi dell’ospedale avevano potuto verificare la loro ipotesi: tutti coloro che si addormentavano non potevano più esser svegliati. I medici rimasti in piedi si unirono alla loro causa, poiché giunti alla medesima conclusione, senza tuttavia individuarne una ragione plausibile. L’allarme venne lanciato nella città, risuonando come un eco squillante tra le pareti buie e silenziose degli edifici. Tutti coloro che ancora non erano caduti nel sonno profondo vennero invitati ad unirsi ai superstiti presso l’ospedale, avvertendo contemporaneamente del pericolo che l’assopimento comportava.

L’ospedale divenne il quartier generale dei superstiti, in totale alcune centinaia, tra uomini, donne e bambini, tutti terrorizzati e preoccupati per la sorte dei loro cari.

Vennero mandati diversi S.O.S. alle città vicine, ma nessuno parve giungere a destinazione: Tokyo era completamente isolata. Uscire dalla metropoli era impossibile: una spessa coltre di nubi aveva oscurato totalmente il cielo e un muro di nebbia aveva circondato la città. Coloro che avevano tentato di oltrepassarla erano sempre tornati indietro, raccontando di terrificanti visioni che uscivano dalla foschia e facevano rizzare i capelli.

Dopo tre giorni la situazione era ancora stazionaria: nessuno si era svegliato, nessuno era riuscito a fuggire dalla città e lo sconforto dilagava per i corridoi dell’ospedale. Una ventina di persone aveva ceduto al sonno, andando ad infoltire le fila dei Dormienti. Così erano stati chiamati i cittadini placidamente sdraiati nei loro letti, apparentemente privi di vita, gelidi e immobili come statue, non fosse stato per il lento alzarsi e abbassarsi del petto.

Al quarto giorno, un nuovo problema si presentò agli Svegli: la convivenza. L’ansia e la stanchezza presto si trasformarono in irrequietezza, che li faceva litigare gli uni con gli altri, sfociando in certi casi anche in azioni violente. Alcuni poliziotti tentavano di sedare i conflitti, i medici si adoperavano per curare i feriti, ma a tutti era chiaro che quella situazione non sarebbe stata sopportabile ancora a lungo.

Koushiro aveva aperto un portale su Digiworld, prendendo atto di una cosa sconcertante: i digimon dei prescelti addormentati erano avvolti in un sonno profondo, da cui era stato impossibile svegliarli. Meravigliato, aveva chiesto spiegazioni a Tentomon.

-      Evidentemente – gli spiegò il digimon dalle sembianze di scarabeo – quello che è stato gettato sui concittadini non è un semplice sonno. –

-      Che vuoi dire? – aveva corrugato la fronte il ragazzo, seduto sul bordo del letto d’ospedale, circondato dagli amici prescelti, i rispettivi digimon, Masahiro e i padri di Yamato e Rumiko.

-      Tra un prescelto e il suo digimon non vi è solo un legame di amicizia, Koushiro… c’è molto, molto di più… - parve in difficoltà il coleottero – Non è facile spiegarlo, per noi è una cosa naturale, non abbiamo bisogno di dargli una spiegazione perché lo capiamo istintivamente. Ma credo voi lo chiamereste legame spirituale o qualcosa del genere. –

Koushiro annuì: effettivamente c’erano sempre stati diversi punti oscuri e incomprensibili a proposito del legame che li univa.

-      Immagino sia stato questo legame spirituale a far sì che voi vi digievolveste solo in nostra presenza… -

-      Esattamente! – gioì Tentomon, fiero del suo amico: Koushiro era sempre stato sveglio.

-      Per questo erano le nostre emozioni a permettervi di digievolvere, suppongo… -

Il coleottero annuì.

-      E le digipietre e tutto quell’armamentario? –

Fu Yamato a rispondergli, dal fondo della stanza.

-      Erano delle chiavi, dei catalizzatori delle nostre emozioni. Probabilmente anche delle “prove” per testare le nostre capacità. –

Koushiro lo guardò un attimo confuso.

-      Detta così sembra che qualcuno volesse metterci alla prova, mettendoci degli ostacoli sul percorso apposta per… -

-      Per renderci più forti. – concluse il biondo, spassionato.

-      Ma a che scopo? –

Yamato sollevò le spalle.

-      Io questo non lo so. Ma qualcun altro forse sì. –

-      Chi? – gli si accostò Gabumon, interessato dall’intuizione che doveva aver avuto il suo prescelto.

-      Gennai. –

 

Il volto senza tempo si materializzò di fronte a loro e sorrise attraverso lo schermo del pc di Koushiro. Stranamente, quel gesto solitamente sereno e rassicurante, era velato di amarezza.

-      Salve, ragazzi. –

-      Salve, Gennai. – gli rispose Koushiro, un poco imbarazzato – Ehm, Yamato aveva urgenza di parlarti. Ha delle domande da porti… -

L’uomo col codino annuì, per nulla sorpreso.

-      Lo immaginavo. –

Il rosso ruotò il portatile verso il ragazzo, che aveva preso posto su una sedia, serio in volto.

-      Ciao, Yamato. - lo salutò gentilmente Gennai.

-      Ciao. –

La voce del biondo era impregnata di una cortesia tagliente e a Koushiro si accapponò la pelle: nessuno di loro si era mai rivolto in quel modo a Gennai. Ma era anche vero che Yamato era famoso per il suo buon senso: se aveva deciso di comportarsi a quel modo doveva esserci una buona ragione.

-      Koushiro mi ha detto che hai qualcosa da chiedermi. –

-      Effettivamente sì, ho diverse domande da porti. Hai tempo? – chiese in tono velatamente ironico.

-      Ho tutto il tempo che ti serve. –

-      Innanzitutto: sapevi che oggi avresti dovuto sostenere questa conversazione con me? –

La domanda lasciò esterrefatti i presenti: stava forse scherzando?

Ma il sorriso che si dipinse sul volto di Gennai era soddisfatto.

-      Non sapevo con precisione quando ne avrei avuto il piacere, ma sì, l’avevo previsto. –

-      Quanto di tutto ciò – fece un gesto con la mano per indicare quanto lo circondava – avevi previsto? –

-      Beh ammetto che quel taglio sulla tua fronte non rientrava nella mia visione. Complimenti per la caduta, Yamato. –

Gli altri prescelti sgranarono gli occhi: sembrava quasi che l’uomo col codino lo stesse punzecchiando.

Il biondo annuì, senza dare a vedere di voler cogliere la provocazione.

-      Una cosa davvero stupida in effetti. – disse con non-calanche, appoggiandosi allo schienale della sedia – Ma diciamo che ne è valsa la pena: se non altro ho potuto assistere a qualcosa di…bellissimo. –

Gennai rise.

-      Immagino, avrai visto intere costellazioni dopo quella botta! –

Yamato si raddrizzò, puntando lo sguardo sullo schermo del pc. L’altro smise di ridere, mentre il biondo pareva sondarne l’espressione.

-      Dunque tu non sai tutto…o forse semplicemente non l’hai previsto… -

Dall’espressione perplessa dell’uomo era evidente che non aveva afferrato a cosa si riferisse il ragazzo.

Stava per chiedergli spiegazioni, ma il giovane non gli dette tempo di investigare: voleva tenere per sé tutto ciò che quell’uomo non era riuscito a carpire.

-      In ogni caso non hai risposto alla mia domanda: quanto avevi previsto di questa situazione? –

-      Spiegati meglio. – il sorriso di Gennai era tornato apparentemente gentile, ma a tutti parve evidente che il suo tono era provocatorio.

-      Va bene, partiamo dal principio. – si riappoggiò allo schienale Yamato. – Voglio porti una domanda che è stata fatta a me, qualche tempo fa, ma che sono sicuro meritasse una risposta più esauriente da parte tua. – fece una pausa e il suo sguardo si fece di ghiaccio – Dov’eravamo un anno fa, mentre quel digimon imperversava su New York e Rumiko era costretta a combattere da sola contro di lui? –

-      Y-Yamato… - s’intromise Mimi, seppure riluttante – è colpa mia, mi trovavo lì e avrei dovuto avvisarvi… -

-      Tu non avresti mai potuto avvisarci, Mimi. – la interruppe lui, secco ma gentile – Eri già sotto il controllo di quella creatura. Doveva sapere che eri una di noi e averti tenuto d’occhio fin dall’inizio. – lasciò che la sua bocca si piegasse in un sorriso tirato – D’altronde siamo piuttosto famosi, siamo i primi ad esser entrati in contatto con Digiworld, persino Rumiko sapeva della nostra esistenza. –

Pronunciare il suo nome era ogni volta una pugnalata al cuore: rivedeva la sua espressione rabbiosa eppure ferita, risentiva la sua voce carica d’accusa e odio. Ma si costrinse a stringere i denti e voltarsi di nuovo verso Gennai, in attesa al di là dello schermo.

-      Non riesco a credere che tu fossi all’oscuro di quanto stesse accadendo a New York, probabilmente sapevi anche dello stato in cui si trovava Mimi. – sentenziò con ritrovata sicurezza – Dunque è facile per me supporre che tu avessi previsto anche gli eventi di pochi giorni fa e le ripercussioni che avrebbero avuto sulla città e tutti noi. –

Fece una pausa in cui nessuno osò quasi respirare, sconvolti dalle implicazioni delle sue parole.

-      Tu, Gennai – sibilò Yamato, avvicinando il volto allo schermo – avevi previsto cosa sarebbe capitato a Rumiko, a Mimi e alle persone che stavano loro vicine in quel momento. Avevi previsto che per far tornare alla vita il cavallo nero quel digimon l’avrebbe uccisa e non hai fatto nulla per evitarlo! L’hai lasciata morire e hai permesso che su questa città cadesse il sonno eterno! –

 

Silenzio. Nessuno osò neppure muoversi, temendo di spezzare quel fragile equilibrio. E nessuno osò incrociare lo sguardo di Yamato, rigido sulla sedia, le mani strette attorno ai braccioli della sedia fino a far sbiancare le nocche, la mascella contratta, gli occhi ridotti a due fessure. Ogni centimetro del suo corpo incuteva timore: nessuno l’aveva mai visto tanto furioso.

Poi Gennai sorrise. Ma non vi era né gioia né malizia in quel gesto, nessuna traccia della precedente provocazione. Solo cordoglio, amarezza e, sentimento comune agli umani ma fino ad allora ritenuto sconosciuto sul suo volto, insicurezza.

-      Devo confessare che non avevo previsto tutto ciò… - si oscurò lievemente in volto.

-      Spiegati. – ruggì in un sibilo Yamato.

L’uomo col codino sospirò. Aveva previsto che sarebbe arrivato un momento per le spiegazioni e che vi sarebbero stati rancori e dispiaceri. Ma ciò nonostante non era facile trovare le parole adatte a quel momento. La verità era che la situazione gli era sfuggita di mano.

-      Per quanto riguarda ciò che accadde l’anno scorso a New York devo darti una delusione, Yamato: non ne ero pienamente cosciente. – fece una pausa – White Foxmon non ha sempre fatto avanti e indietro da questo mondo a Digiworld, quindi ho sempre avuto una certa difficoltà a tenermi aggiornato sui suoi spostamenti e le vicende che viveva. Per non parlare di Rumiko: al contrario di voi, lei non ha mai lasciato la sua città per lunghi periodi e l’incontro col suo digimon è avvenuto nel Mondo Reale. –

-      M-ma com’è possibile? – balbettò un esterrefatto Koushiro: nemmeno i digimon più potenti che avevano incontrato erano stati in grado di creare un varco tra i due mondi, non senza mille sforzi. Che vi fosse riuscito un digimon di livello intermedio aveva assolutamente dell’incredibile.

-      White Foxmon appartiene a una categoria molto ristretta di digimon, quelli di tipo ultraterreno. Sono creature dai poteri imprevedibili, oscuri a tutti fuorché a loro e i loro prescelti. Nessun digimon normale, per quanto potente, riuscirebbe a passare da una dimensione all’altra da solo. Ma White Foxmon l’ha fatto, giungendo in questo mondo, al solo scopo di congiungersi con la sua prescelta. Non è stata guidata da nessuno, semplicemente sapeva che l’avrebbe trovata. E una volta incontratesi, non si sono più lasciate. Tra di loro è subito nato un rapporto molto stretto, più profondo di qualunque altro abbia mai visto… - lanciò uno sguardo intenerito ai ragazzi che lo guardavano – Nemmeno in voi ho mai riscontrato qualcosa di simile, devo ammetterlo. –

-      È per questo che l’hai lasciata in balia di quel mostro? Perché volevi testare quanto fosse straordinario quel legame?! –

Evidentemente Yamato non si era fatto incantare troppo facilmente.

-      Ammetto che in un primo momento non mi ero accorto di quanto stesse accadendo, proprio perché avevo minor controllo su quella coppia. Immagino che Alptraumon, così si chiama quel digimon, sia sbarcato nel Mondo Reale sfruttando qualche varco rimasto aperto e abbia preparato con cura il suo “palcoscenico”. – lanciò un’occhiata significativa verso Mimi – Voleva esser sicuro che nessuno avrebbe interferito col suo piano, sebbene io ignori tutt’oggi cos’avesse in mente di preciso. – corrugò la fronte.

-      Che vuoi dire? – lo interrogò Koushiro.

-      Continuo ad avere troppe poche informazioni per poter formulare delle valide ipotesi. L’unica somiglianza tra le due situazioni è la barriera che isola la città dal resto del mondo, ma per il resto i due attacchi non hanno apparenti punti in comune. – ragionò ad alta voce l’uomo – A New York si concentrò su un attacco diretto, per lo più allo scopo di diffondere il terrore tra la popolazione, presumo… Sembrava una situazione “normale” e non troppo difficile da gestire, per questo all’inizio ho lasciato che gli eventi facessero il loro corso. – ammise Gennai, visibilmente imbarazzato e contrito, ma nei suoi occhi vibrava una luce d’entusiasmo – Erano secoli che non vedevo una coppia come quella di Rumiko e White Foxmon. Avrei voluto ammirarle in azione, voi non avete idea di quanto fossero meravigliose… - ma si bloccò, rabbuiandosi.

-      Non lo furono abbastanza, Gennai? – la voce di Yamato fendette l’aria, velenosa.

-      Eccome, Yamato… Furono splendide… - sospirò – Ma qualcosa andò storto. Fu un incidente, nemmeno io mi ero reso conto del pericolo della situazione: tutta quella potenza sprigionata nei sotterranei della città…non vi era spazio per far disperdere una tale mole di energia e, prima che incontrasse il cielo aperto, s’imbatté negli impianti della metropolitana. L’esplosione fu davvero terribile… -

Yamato vide nel suo sguardo il turbamento e il dolore di molti volti intervistati che avevano popolato i telegiornali di un anno fa, per diverse settimane. Per la prima volta cercò d’immaginarsi quell’inferno di fiamme e urla intrappolate a decine di metri sotto terra, vicine eppure troppo lontane dalla salvezza. E Rumiko, che fuggiva a cavallo del suo digimon-volpe, sconvolta, impotente, non meno devastata della città sotto di lei.

Rabbrividì e tacque.

Fu Gennai a infrangere nuovamente quel silenzio carico di cordoglio.

-      Ma Alptraumon non fu sconfitto. Inizialmente eravamo convinti che fosse rimasto coinvolto nell’esplosione e che fosse stato polverizzato. Tuttavia non avevamo fatto i conti con la sua natura incorporea… -

Attese di aver tutti gli sguardi su di sé, poi proseguì.

-      Alptraumon ha caratteristiche molto simili ai digimon-incubo ed è costituito da due elementi distinti: Sandmannmon, altrimenti detto il Fante della Sabbia, e Angstmon. Il primo è probabilmente l’artefice del sonno che ha contagiato tutti gli abitanti della città, colui che si era impadronito di Mimi. Di solito approfitta del torpore delle sue vittime per controllarne le menti, portando loro incubi e facendoli agire come meglio preferisce. –

Koushiro annuì.

-      Tentomon ha accennato al fatto che quello in cui sono imprigionati i cittadini non è semplicemente un sonno profondo, altrimenti non si spiegherebbe come mai anche i digimon di Takeru, Kari e gli altri sono nelle stesse condizioni. –

-      Giusta intuizione. – sorrise in approvazione al coleottero – Normalmente Sandmannmon non si spinge tanto oltre, non con un’intera città, poiché costringere al Sonno il subconscio di una creatura richiede una quantità di energia non indifferente… -

-      E allora come ci riesce con l’intera Tokyo?! – si mise in mezzo Mei – Persino le piante e gli animali sembrano essere entrati in questa specie di favola della Bella Addormentata nel Bosco! –

Gennai sorrise alla biondina.

-      Lascia che finisca di parlare, piccola Mei… - le disse gentilmente – Dopo potrai farmi tutte le domande che tanto ti assillano. –

La ragazzina arrossì violentemente.

-      S-sai il m-mio nome… - balbettò, eccitata e al contempo vergognosa per la figuraccia appena fatta.

-      Come ha brillantemente intuito Yamato, avevo previsto diverse cose… - le fece l’occhiolino.

Poi tornò a rivolgersi a Koushiro.

-      La risposta alla domanda di Mei, in ogni caso, non mi è ancora chiara. – ammise con riluttanza – È evidente che deve avere una fonte di energie non indifferente, ma non saprei dire cosa possa essere tanto potente da… -

-      Quindi dovremmo solo trovarla e distruggerla, dico bene? – saltò su Daisuke, illuminato dalla prospettiva di aver finalmente trovato qualcosa con cui tenersi occupato.

-      Certo, Daisuke – intervenne Taichi, sorridendogli solare, il tono decisamente ironico – dobbiamo solo trovare questa misteriosa fonte inestinguibile di energia e distruggerla…possibilmente senza rimetterci le penne, dato che siamo pochi, disorientati e soprattutto stanchissimi…un gioco da ragazzi! –

Il moretto arrossì e tacque, riprendendo posto accanto a Mei.

-      Io ti adoro, Dai, lo sai… - gli sussurrò lei – ma non ti pare di fare un po’ troppe figuracce? –

Daisuke sospirò sconfortato e un risolino sfuggì ai presenti.

Solo Yamato rimase impassibile.

-      E Angstmon? –

Gennai riportò la sua attenzione sul biondo.

-      È una creatura oscura che penso si nutra del terrore che semina tra le sue vittime… - spiegò l’uomo col codino, stringendosi nelle spalle – Ma non so dirvi molto altro su di lui. –

-      Come mai? Credevo che tu sapessi praticamente tutto dei digimon, Gennai… -

Non c’era accusa nel tono di Koushiro, solo molta perplessità: aveva sempre visto Gennai come una sorta di enciclopedia digitale.

-      Lo credevo anch’io, Koushiro. – aggrottò la fronte l’uomo, segno che la cosa non piaceva nemmeno a lui – Ma Angstmon è diverso dagli altri digimon… Non ne avevo mai nemmeno sentito parlare prima dell’attacco a New York… -

-      Forse sarebbe il caso tu t’informassi un po’ meglio, non credi? –

La voce di Yamato fu ancora una volta velenosa.

-      Yamato… - sospirò Gennai – So cosa provi… -

-      L’avevi previsto, non è vero?! –

-      Yamato, calmati. – intervenne Taichi, posandogli una mano sulla spalla – Gennai credeva che Alptraumon fosse morto… -

-      In un primo momento” – citò le parole dell’uomo col codino – Ma dubito fortemente che per un anno intero non si sia accorto di nulla. In fondo l’ha detto lui stesso che gli è sempre stato difficile controllare Rumiko e il suo digimon per via dello scarso legame che avevano con Digiworld…ma Mimi poteva sorvegliarla alla perfezione! E dubito che non potesse accorgersi della presenza di un digimon dentro di lei. E se Sandmannmon si era impadronito del suo corpo, non doveva esser troppo difficile intuire dove si trovasse Angstmon. –

-      Ma poteva trovarsi nel corpo di qualunque abitante di New York che si trovasse nelle vicinanze al momento dell’esplosione! – protestò Taichi.

-      Sveglia, Tai, usa i neuroni! – balzò su dalla sedia Yamato per fronteggiarlo – Credi che Mimi sia stata posseduta da quel digimon per caso?! Tra tutta la gente che si trovava nei paraggi in quel momento perché avrebbe dovuto finire proprio nel suo corpo?! Niente accade per caso, Tai, tutto qua è frutto di premeditazioni! –

-      Ma che stai dicendo? – fece un passo avanti Sora, sconvolta dalla furia del biondo ma decisa a non lasciare il prescelto del Coraggio da solo a fronteggiarlo – Stai sragionando, Yamato… -

-      Ma davvero?! – si voltò verso il pc, come a voler sfidare l’uomo che lo guardava serio al di là dello schermo – Ti dico cosa penso io di tutto questo, Gennai. Io credo che tu sia stato onesto nel dire che non avevi previsto quell’esplosione, ma penso anche che tu abbia omesso a tutti noi molte cose. –

Chiuse un attimo gli occhi, riportando a galla i ricordi e lasciando che gli trafiggessero il cuore con tutta la loro tristezza.

-      Rumiko ci odiava per averla abbandonata a se stessa. Mi ha urlato in faccia che le era stato promesso il nostro aiuto. Ma non ne sapevamo nulla e lei non conosceva Mimi, dunque può esser stata solo una persona ad averle detto una cosa simile. – fece una breve pausa, lasciando che le sue parole penetrassero nelle menti di tutti – Hai mentito, Gennai. E l’hai fatto per il tuo egoismo, perché volevi spingerla al massimo delle sue forze, cosicché rivelasse quel potere tanto straordinario cui volevi assistere. –

Si avvicinò al pc di un passo.

-      E forse in un primo momento credevi effettivamente che Alptraumon fosse morto, ma, come ho già detto, poi devi esserti accorto di quel che era successo in realtà. Quel digimon deve aver approfittato di quel momento di confusione generale per scindersi in due entità distinte e nasconderle nel miglior nascondiglio possibile: il corpo di un digiprescelto. I dettagli ovviamente posso solo intuirli – sollevò le spalle con noncuranza – ma immagino che, essendo molto più abituati al contatto coi digimon e, forse, anche dotati di un’energia maggiore cui attingere nutrimento, i nostri organismi siano più adatti ad ospitare qualcosa di tanto estraneo agli altri esseri umani. Sandmannmon deve aver optato per quello di Mimi perché aveva già avuto modo di entrare in contatto con la sua mente, mentre Angstmon si è impossessato di Rumiko. –

Nessuno lo interruppe, Gennai si limitò ad annuire, l’espressione indecifrabile.

-      Ma una volta scoperto quanto accaduto, devi esserti trovato davanti a un problemino. – sorrise maligno il biondo – Immagino che non sia facile eliminare un mostro che ha pensato bene di mettersi al sicuro nel corpo di una ragazza. Tanto più se la ragazza in questione è speciale, anzi, una prescelta. Un’idea veramente brillante, quella di Alptraumon, non c’è che dire! –

-      Hai ragione, Yamato – intervenne Gennai – è stato davvero brillante, lo ammetto. Doveva aver intuito che me ne sarei accorto, ma avevo le mani legate… -

-      Certo, certo. – annuì il biondo con fare comprensivo – Meglio lasciare che le due parti si ricongiungessero e Alptraumon tornasse in vita. D’altronde ci avrebbe pensato ancora una volta Rumiko a sconfiggero, dandoti l’occasione di riammirare quel potere meraviglioso, questa volta assicurandoti che si trovassero all’aria aperta e che dessero fondo fino all’ultimo granello di energia per esser sicuri di polverizzarlo. – strinse i pugni, abbassando lo sguardo – Ma non avevi previsto quale sarebbe stato il mezzo per liberare Angstmon dalla sua copertura. Non ti è nemmeno passato di mente che Rumiko avrebbe dovuto pagare l’ennesimo prezzo di tutto ciò. Dopo il rimorso, il dolore, l’impotenza…per un anno ha sopportato da sola quanto accaduto a New York, senza potersi liberare di quel peso… Ma non era abbastanza per te… Dovevi spingerla ancora più al limite, per vedere quale fantasmagorico potere sarebbe stata in grado di tirar fuori questa volta… -

-      Yamato, sono davvero desolato per quanto accaduto e… - esitò un attimo, come se non trovasse le parole adatte – per il comportamento di Kitsunemon. So quanto nel vostro mondo sia importante l’usanza di sepoltura dei morti… Non ho idea di dove abbia portato il suo cadavere, ma appena le avrò localizzate farò in modo di riportarvelo. -

Silenzio. Yamato parve per un attimo perso nei suoi pensieri, poi voltò le spalle al computer, superando gli amici e afferrando la maniglia della porta.

-      Dimmi una cosa, Gennai – lanciò un’ultima occhiata allo schermo del pc – questa volta, come intendi sconfiggere Alptraumon? Sappi che non potrai contare sul mio aiuto, ho di meglio da fare che prender parte alle tue messe in scena. –

 

Taichi e Sora si guardarono un attimo sbigottiti. Poi la rossa si alzò per bisbigliargli all’orecchio:

-      È ancora sconvolto per la morte di Rumiko, vedrai che tornerà presto. –

Il ragazzo annuì e nessuno fece più parola dello strano comportamento del biondo.

 

“ Lo sapevo” gioì Yamato nei suoi pensieri “Gennai non ha previsto tutto e soprattutto non sa tutto.”

 

D’altronde il Destino degli Uomini è sempre stato in mano loro. Alcuni ammettono che siano degli estranei a guidarli, ma gli spiriti liberi e fieri non hanno mai permesso che fossero altri a plasmare il loro Avvenire. 

 

 

 

Continua…

 

 

 

N.d.a:

Ebbene sì, eccomi tornata per proseguire questa storia.

Buona lettura!

Monalisasmile

 

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Capitolo 22
*** - ***


Capitolo 22

 

-      Posso farti una domanda, Koushiro? –

Yamato si era intrufolato nella sua stanza appena gli altri avevano levato le tende. Il rosso balzò per la sorpresa.

“ Beh, se non altro lo spavento mi terrà sveglio per un po’!” pensò e annuì: d’altronde Yamato non era tipo da accettare un “no” come risposta.

-      Ti va di raccontarmi come sei riuscito a svegliarti dopo che avevi perso i sensi? Nei dettagli se non ti dispiace… - lo incalzò con un sorriso malizioso.

Koushiro avvampò.

-      Francamente sì, mi dispiace, sono cose…private… E poi a che ti servirebbe? –

Yamato si strinse nelle spalle con fare innocente.

-      Beh, dato che sei l’unico oltre a me e Mimi ad essersi risvegliato, poteva essere interessante sapere come di preciso ci sei riuscito, così da mettere a confronto le nostre esperienze, no? - gli sorrise scaltro, sapendo di aver colpito nel suo punto debole: la sua fame di sapere.

-      O-ok… - acconsentì il ragazzo, impacciato – Comunque non è che ci sia molto da raccontare… Ero immerso in quel torpore, di cui francamente non ho alcun ricordo, quando ho sentito la voce di Mimi. Non capivo cosa dicesse di preciso, mi sembrava solo molto turbata e io… - arrossì di nuovo, abbassando lo sguardo – a-avrei voluto consolarla, capisci? Poi l’ho sentita piangere e non ce l’ho più fatta, semplicemente dovevo svegliarmi. E così è stato. –

-      Tutto qua? –

Il rosso alzò lo sguardo sull’espressione sbigottita del biondo.

-      S-sì… - sbiascicò, incerto.

-      L’hai sentita piangere… ma non hai avuto una visione, non hai visto né sentito altro? –

-      No… -

Yamato sorrise soddisfatto e fece per andarsene, quando la voce del rosso lo richiamò.

-      Ah, Yamato… -

-      Dimmi, Koushiro. – si voltò a guardarlo, interrogativo di fronte all’espressione improvvisamente seria dell’amico.

-      A proposito della tua caduta dalla moto: hai fatto una cosa davvero stupida. Non farlo più. –

Il biondo lo fissò un attimo esterrefatto, poi annuì e si defilò.

 

Gabumon raggiunse Yamato sulla terrazza dell’ospedale. Il prescelto guardava verso la città buia, lo sguardo perso nel vuoto e la mente affondata nei pensieri.

Il digimon sospirò, sedendosi accanto a lui: aveva imparato da tempo quanto insondabile potesse essere il ragazzo.

-      Ho bisogno del tuo aiuto, Gabumon. –

L’amico sgranò gli occhi: credeva che Yamato fosse momentaneamente perso in qualche ragionamento strano, invece era perfettamente reattivo. A volte credeva che non l’avrebbe mai capito. Ma ovviamente anche questa parte della loro amicizia poteva accettarla con gioia, perché lui era il suo prescelto.

-      Sai che puoi sempre contare su di me, Yamato. –

-      Lo so, amico mio. – gli sorrise il biondo, grato di avere un alleato tanto fedele.

Quanto gli era mancato il suo amico digitale…

Ma quello non era il momento per i sentimentalismi. Corrugò la fronte, tornando serio e pensieroso.

-      Ci sono un paio di cose che non ho raccontato agli altri e che nemmeno Gennai sa… Riguardano Rumiko. –

Il digimon annuì, in ascolto. Aveva capito quanto la ragazza fosse importante per lui.

-      Gli altri penserebbero che sono pazzo, ma io credo che Rumiko… - scelse accuratamente le parole – possa tornare… -

-      Intendi… - esitò Gabumon – viva? –

Il ragazzo gli sorrise.

-      Ma non era… insomma, non l’avevi vista tu stesso…? –

-      Sì, so cos’ho visto quella notte. Ma il padre di Rumiko ha detto di avere fiducia…lui crede in Kitsunemon. –

-      Ma cosa potrebbe fare? Per quanto sia potente, resta pur sempre un digimon. E senza le sua prescelta le sue capacità dovrebbero esser più limitate… -

-      Sì sì, lo so. – gettò la testa indietro Yamato – Nemmeno io riuscivo a crederci all’inizio. Ma poi ho fatto quel volo con la moto… -

-      Una cosa davvero stupida, Yamato. Non farlo più. – intervenne il digimon, serissimo.

Il ragazzo restò un attimo sbalordito, poi sorrise raggiante.

-      Sono le stesse parole che mi ha detto lei… -

-      Lei chi? –

-      Rumiko. –

Ora Gabumon era sicuro di non capirci più nulla. Possibile che, come si andava sussurrando per i corridoi, Yamato avesse perso qualche rotella a causa di quella capocciata?

-      Non ti seguo… -

-      Ascolta, so che può sembrati assurdo, ed in effetti probabilmente lo è… ma quando ho battuto la testa e ho perso i sensi, è grazie a lei se mi sono risvegliato. Sono rimasto svenuto per un quarto d’ora all’incirca, avvolto in quello stesso sonno anomalo in cui sono costretti i Dormienti. Eppure io non mi ricordo né di aver chiuso né di aver riaperto gli occhi; se non me l’avesse detto Masahiro penserei di esser sempre stato sveglio. Invece a un certo punto devo aver riaperto gli occhi, ancora avvolto nello stesso torpore. Una volta scacciato definitivamente sentivo tutto: il dolore, il freddo, la sensazione di bagnato sulla tempia…vedevo il sangue sulla neve, nel punto in cui ero caduto, sentivo la voce di Masahiro…e poi ho visto lei. Si è materializzata di fronte a me, in mezzo alla neve, si è avvicinata e mi ha detto “Hai fatto una cosa davvero stupida, Yamato. Non farlo più.” Subito dopo è scomparsa. –

Sospirò.

     Non so come sia possibile, non ci crederei nemmeno io se non l’avessi vissuto personalmente… Ho parlato con Koushiro poco fa e mi ha spiegato com’è riuscito a svegliarsi: ha sentito la voce di Mimi, l’ha sentita piangere accanto a lui…e si è svegliato per poterla consolare. –

-      Beh, non che io ci capisca molto di queste cose – ammise il digimon, imbarazzato – ma mi pareva che tra loro ci fosse un sentimento speciale… -

-      Sì, lo so anch’io, ma il punto è che lui è stato strappato al sonno dalla presenza di Mimi. –

-      Una cosa piuttosto reale. – sottolineò il digimon.

-      Infatti! Solo qualcosa di altrettanto reale avrebbe potuto strappare anche me da quel sonno. –

-      Ma quella di Rumiko è stata solo un’allucinazione… -

-      Forse no. – sorrise il biondo.

Gabumon scosse la testa, perplesso.

-      Ascolta, amico mio: – gli accarezzò il capo Yamato – Mimi è stata risvegliata da una sorta di anticorpi che è riuscita a sviluppare nel giro di un anno. Koushiro dalla presenza della ragazza di cui è innamorato, bisognosa di conforto. Entrambi hanno ricevuto una sorta di “aiuto”, chi dall’interno, chi dall’esterno. Ora, volendo escludere che io provi un’attrazione passionale nei confronti di Masahiro – esibì una faccia esageratamente disgustata apposta per strappare una risata al digimon – e non volendo sopravvalutare le mie capacità di autodifesa e sminuire quelle di Mimi… direi che è stato qualcos’altro ad aiutarmi. –

-      Sì, ma cosa? –

-      Già, cosa? Eppure in mezzo al buio, la neve e il freddo di questa città solitaria non c’era niente che avesse un potere tale su di me. E Masahiro ha confermato di non aver scorto nulla all’infuori di me. L’unico ad aver visto qualcos’altro sono stato io, per quanto si trattasse di una visione. E poiché ero sveglio, non credo che a inviarmela sia stato Alptraumon. –

-      Avrai battuto la testa un po’ troppo forte. – azzardò il digimon.

-      È quello che pensano tutti, da queste parti… - gli ammiccò – Ma io ho un’altra teoria. –

Yamato riportò lo sguardo sulla città buia e deserta. Un paesaggio davvero lugubre.

-      Gabumon, tu sai cosa sono i fantasmi? –

-      Fantasmi? –

-      È una delle tante leggende che si tramandano nel nostro mondo. Si racconta che lo spirito di coloro che muoiono anziché ascendere al Cielo come tutte le altre anime, a volte resti intrappolato nel mondo dei vivi. Di solito ciò accade perché hanno delle “faccende in sospeso”, come un compito da portare a termine o qualcuno da proteggere. Sono invisibili a tutti, fuorché ad alcune persone “speciali”, o perché a loro care oppure perché dotate di qualche potere particolare. Ufficialmente sono storie molto affascinanti ma prive di fondamento, in realtà nessuno è mai entrato in contatto con una di queste anime. Tuttavia… - si girò a guardarlo, lo sguardo volto a scrutare gli occhioni dolci dell’amico – nessuno ha mai creduto nemmeno all’esistenza di altri mondi paralleli al nostro e tanto meno all’esistenza di straordinarie creature digitali. –

Gabumon arrossì, imbarazzato e felice. Yamato avvolse il digimon con un braccio, stringendolo accanto a sé.

-      Eppure io ci credo. Ho un amico digitale e sono finito innumerevoli volte nel suo mondo. E so che ve ne sono altri, paralleli ai nostri, sebbene meno accessibili. E così come noi attraverso il portale digitale aperto dai nostri pc, sono sicuro che anche da quei mondi è possibile comunicare, in qualche modo. –

Strinse la presa sul compagno, quasi fosse in cerca di maggior energia per quanto stava per dire.

-      Se credo in tutto ciò, allora posso anche credere nei fantasmi. – corrugò la fronte, concentrato e deciso – La visione che ho ricevuto, il vostro ripetere le sue stesse parole, sono tutti messaggi che Rumiko mi sta mandando per farmi sapere che lei c’è, da qualche parte, e che veglia su di me. È stata lei a risvegliarmi da quel sonno maledetto, ne sono sicuro. – abbassò il capo – E tornerà… - disse a voce più bassa, quasi stesse parlando a se stesso – Molto presto tornerà… -

“…da me…” concluse nella sua mente, in un una muta preghiera.

 

Kitsunemon fece ondeggiare le nove code, rilassandosi: Yamato sembrava esser finalmente giunto alla conclusione che si aspettava. Tuttavia le cose, nel Mondo Reale, non erano affatto semplici…

Aveva speso non poche energie per risvegliare Yamato dal sonno di Sandmannmon, e sperava che il digimon non se ne fosse accorto: ora come ora era meglio che lui e, soprattutto, Angstmon non sapessero dove lei e la sua prescelta si trovassero. Avrebbero intuito le sue intenzioni e avrebbero fatto di tutto per distruggere il corpo di Rumiko, così da rendere vana ogni speranza.

“ Già, la speranza…”

Per questo aveva inviato a Yamato quella visione e aveva messo le stesse parole in bocca ai suoi amici: voleva che lui continuasse a sperare e credere.

Sfiorò teneramente il volto gelido della sua prescelta. Suo padre credeva in lei, Yamato pure. E lei…lei, che era il suo digimon, la sua compagna, la sua amica, l’altra metà della sua anima…lei avrebbe dato tutta se stessa per aiutarla.

Ma era lei il vero ostacolo… Perché non credeva in se stessa, perché aveva perso l’ultimo barlume di speranza prima che il suo corpo cadesse a terra, privo di vita.

La volpe bianca spostò lo sguardo sullo Specchio del Limbo.

Eppure era là, la poteva vedere in quella pozza scura, rannicchiata sul fondo di quel lago infernale, apparentemente vicina eppure mortalmente lontana. Aveva gli occhi chiusi, i lunghi capelli fluttuavano attorno al suo corpo nudo, mentre le braccia stringevano quasi spasmodicamente le ginocchia al petto. Sembrava terrorizzata, sofferente e bisognosa di conforto.

Ma Kitsunemon sapeva che se fosse entrata in quelle acque l’immagine si sarebbe dissolta e i flutti l’avrebbero inghiottita per sempre, condannandola alla peggiore delle pene…

Rabbrividì, riabbassando il capo e appoggiandolo alle zampe. Rumiko non poteva vederla, finché si ostinava a tenere gli occhi chiusi, e per quanto lei l’avesse chiamata, la ragazza non aveva mai dimostrato di riuscire a sentirla. Probabilmente si rifiutava di farlo.

Ancora una volta, la frustrazione minacciò di prendere il sopravvento. Tuttavia ripensò a coloro che le volevano bene e avrebbero desiderato riabbracciarla. Perfino quella graziosa palla di pelo marrone di nome Caffè. Ma, soprattutto, ripensò al motivo per cui la sua anima si trovava imprigionata nello Specchio del Limbo, l’unica finestra tra il Mondo dei Morti e quello dei Vivi: Rumiko aveva delle “faccende in sospeso” e diverse persone da proteggere.

-      La domanda ora è: – sussurrò Kitsunemon, e la sua voce parve quasi assordante nel paesaggio deserto e silenzioso – quello che hai alle spalle e che ti richiama a gran voce è abbastanza importante per te da tornare indietro e lottare ancora? O sei troppo stanca e amareggiata e preferisci scegliere la via più semplice? –

La presa sulle ginocchia si rafforzò, ma le palpebre si socchiusero appena, rivelando due iridi viola.

 

Sandmannmon fece scorrere lo sguardo maligno sulla città buia, soffermandosi sull’unico puntino luminoso: l’ospedale in cui erano radunati i superstiti al primo attacco.

Annusò l’aria: era impregnata di ansia, agitazione mal repressa e paura.

Trotterellò sul cornicione dell’alto palazzo.

Non gli sarebbe dispiaciuto fare una capatina dagli Svegli, giusto per spaventarli un po’…

Il rombo alle sue spalle frenò i suoi pensieri e il digimon dalle sembianze di troll si voltò di scatto, trovandosi a pochi metri da due narici ardenti come braci. Quasi fece un balzo indietro per lo spavento: Angstmon sapeva essere davvero terrificante.

-      Ho capito, ho capito! – gracchiò il Fante di Sabbia – Li lascerò in pace… -

“ Per ora…” concluse nella sua mente.

-      Però tu evita queste entrate in scena così rumorose, o mi farai venire un infarto! –

Il gigantesco cavallo nero non parve badare alle sue parole, perché prese la rincorsa dal fondo della terrazza e, con un grande rombare di zoccoli, spiccò un balzo nel vuoto, librandosi nell’aria fredda e immota.

 

Galoppava nel cielo plumbeo, mimetizzandosi tra le nuvole scure, promesse di tempesta. Ogni tanto faceva esplodere un tuono qua e là, assaporando il terrore che quei semplici agenti atmosferici sapevano incutere negli umani.

Le fauci fameliche si piegarono in un sorriso spaventoso.

Quanto erano deboli gli esseri umani… I loro fragili cuori potevano essere spezzati con facilità, i loro propositi deviati e i loro ideali infangati… I loro stessi sentimenti non erano nulla più di un battito d’ali di farfalla, troppo effimero per durare nel tempo e resistere alle difficoltà della vita di tutti i giorni… Figurarsi se avrebbero retto all’inferno che stava per scatenarsi su di loro…

Sbuffò e due fasci di fiamme vennero esalati dalle narici. Sandmannmon si accontentava di far addormentare i cittadini, poiché il digimon-troll aveva una mente limitata e votata più al dispetto che alla distruzione. Amava giocare con le sue vittime, trovava piacere nel terrorizzarle, ma mai quanto Angstmon. Per lui la paura che si poteva percepire nell’aria era semplicemente deliziosa.

Tuttavia, per quanto infinitesimale al suo confronto, Sandmannmon gli tornava parecchio utile. D’altronde era stato lui a risvegliarlo da quel sonno profondo in cui era costretto da diversi secoli: curioso e ignorante dei pericoli che correva, il Fante di Sabbia aveva desiderato potersi avvalere di un destriero nelle sue scorribande. E quale cavalcatura migliore di un antico Demone, rinchiuso da tempo immemorabile nelle profondità di una montagna?

Il nome che gli avevano dato gli Uomini in passato era Angst, altrimenti conosciuto come Terrore, poiché era l’essenza stessa della paura, un fantasma portatore di angoscia. Il digimon l’aveva ribattezzato Angstmon e gli aveva detto che d’ora in avanti avrebbe seguito il suo volere. Il cavallo infernale aveva sorriso crudelmente, compiaciuto dell’ingenuità del troll dei sogni.

L’aveva assecondato nel suo piano di seminare terrore nella città di New York, intravedendo una buona occasione per fare una bella scorpacciata di anime corrotte e rimettersi in forze, dopo la lunga immobilità della reclusione.

Ma qui aveva fiutato un’interessante novità: un digimon ultraterreno e il suo prescelto, una giovane umana di nome Rumiko. Aveva percepito un forte legame tra di loro e un’energia non indifferente. Da sole erano insignificanti, insieme erano… qualcosa che Angstmon non aveva mai visto prima d’allora, sebbene il Demone potesse vantare un’esistenza di parecchie generazioni.

Aveva suggerito a Sandmannmon ti tenere sotto controllo un’altra giovane digiprescelta che viveva nella città, giusto per precauzione: sapeva bene che se Gennai, il ficcanaso custode di Digiworld, aveva adocchiato quella coppia speciale non avrebbe resistito alla tentazione di vederla in azione. E lui gliene avrebbe dato un valido motivo.

Così era avvenuto lo scontro diretto e quel potere che Angstmon aveva fiutato si era sprigionato. Ma qualcosa era andato storto: il corpo del Demone, non ancora nel pieno delle sue forze, stava per essere disintegrato. Così, ruggendo di rabbia e giurando vendetta, aveva fatto quanto era in suo potere per evitare la sconfitta totale: aveva trasferito la sua anima e la sua essenza nel corpo di Rumiko, l’unico essere umano abbastanza forte da sopportare la sua presenza, ponendovi un sigillo. Necessitando anche di una chiave che potesse liberarlo nuovamente, nel momento più opportuno, trasferì Sandmannmon nel corpo della prescelta che già si trovava sotto il suo controllo.

Sarebbe trascorso un anno, tempo sufficiente perché un nuovo piano venisse elaborato e le energie recuperate. Poi Sandmannmon avrebbe trovato il modo di ritrovarsi faccia a faccia con Rumiko. Sarebbe stata lei a liberarlo, poiché solo lei conosceva il loro nome, nonché chiave per rompere il sigillo. Una volta fatto ciò, Sandmannmon avrebbe pronunciato la formula per restituirgli materialità.

Il cavallo demoniaco abbassò gli occhi crudeli sul paesaggio sotto di lui.

Da qualche parte in quella dimensione si andava raccontando che Dio aveva creato il loro mondo in sei giorni.

Nitrì, e il suono di un milione di urla di angoscia stridette nell’aria, facendo accapponare la pelle agli Svegli.

Lui  avrebbe impiegato lo stesso tempo a distruggerlo, a cominciare da quella città. E questa volta non ci sarebbero state esplosioni traditrici.

 

-      Cos’è stato?! –

Sora si strinse a Taichi, terrorizzata. Il ragazzo sospirò: se la situazione non fosse stata tanto tragica, avrebbe gioito di quel contatto.

Avvolse le spalle della rossa con un braccio, stringendola ancor di più a sé.

-      Tranquilla, Sora… Sono vicino a te. –

Lei annuì, un poco imbarazzata: talvolta Taichi era irriconoscibile, sembrava quasi…

-      …un uomo. –

-      Come? – la guardò il castano, perplesso.

-      N-niente! – distolse lo sguardo la ragazza.

Lui fece spallucce: le donne.

Si trovavano sul terrazzo dell’ospedale e Sora fece scorrere lo sguardo sul cortile sottostante, in cui i bambini avevano smesso di giocare per tapparsi le orecchie e rannicchiarsi a terra, spaventati.

-      Tai, forse dovremmo scendere nel cortile per consol… -

Ma un altro coro di urla strazianti squarciò il cielo e la ragazza fu costretta a imitare i bimbi, coprendo le orecchie con le mani guantate e accucciandosi sulle mattonelle. Istintivamente chiuse gli occhi, quasi che i fantasmi che avevano dato vita a quei suoni terrificanti potessero materializzarsi di fronte a lei. Dopo pochi minuti, invece, schiudendo le palpebre si ritrovò a pochi centimetri dal volto di Taichi, che l’aveva imitata.

Gli occhi nocciola del ragazzo erano fissi nei suoi, dolci e profondi. Sora si rilassò, perdendosi in quel mare di serenità, traendone forza e coraggio.

Lui le sorrise e lei fu certa che il calore di quel gesto sarebbe stato in grado di sciogliere la neve ai loro piedi. Invece a liquefarsi fu il suo cuore, che accelerò i battiti e la spinse ad azzerare la distanza tra loro.

Sora lo baciò e quel momento fu come lei se l’era sempre immaginato: carico di dolcezza e tenerezza. In un primo momento la bocca del ragazzo restò rigida contro la sua, poi anche lui si lasciò andare e le labbra risposero istintivamente a ogni carezza di quelle di lei.

Approfondirono il bacio.

In quel momento un altro coro di strilla infernali squarciò l’aria, interrompendo quell’attimo magico. Le loro bocche si separarono, ma la fretta fece battere le loro teste l’una contro l’altra. Il colpo fece perdere loro l’equilibrio ed entrambi rotolarono nella neve, urlando di dolore non tanto alla fronte quanto ai timpani scoperti e perforati da quelle urla.

Quando anche quell’ondata terminò, i due giovani si ritrovarono ansanti e fradici. Quello che prima era stato un manto candido intervallato da poche impronte, ora sembrava che avesse fatto da ring a un incontro di lotta libera.

Taichi si voltò a guardarla. Il petto di Sora si alzava e abbassava ritmicamente, la sua bocca aperta esalava piccole nuvolette di vapore. Si soffermò un attimo su quelle labbra umide e leggermente arrossate, sulle guance colorite, le ciglia bagnate e nere come inchiostro, i capelli rossi appiccicati alla fronte su cui forse sarebbe comparso un bernoccoletto. Distendendo il braccio avrebbe potuto toccarla. E così fece.

Allungò una mano priva di guanto per sfiorarle una guancia, delicatamente. Lei si voltò a incontrare il suo sguardo.

Taichi vagò in quelle iridi nocciola screziate di pagliuzze dorate, che scintillavano di gioia. Fece scorrere le dita sulla sua pelle morbida, dallo zigomo fino alle labbra piegate in un sorriso. Lei non si mosse, lasciando che lui prolungasse più a lungo possibile quel contatto delicato.

-      Cosa pensi? – le chiese lui, la voce ridotta ad un sussurro.

Il sorriso di lei s’allargò.

-      Penso che dovremmo ricominciare da dove ci siamo interrotti, prima che quelle urla riprendano. –

Taichi rise, rotolando su un fianco e portandosi su di lei, a quattro zampe.

-      Non ero io il digiprescelto del Coraggio? – scherzò lui.

-      Sì – gli rispose lei, scostandogli una ciocca di capelli fradici dalla fronte – ma io sono quella dell’Amore… -

Il sorriso che lui le regalò la fece ammutolire. Poi Taichi si chinò nuovamente sulle sue labbra.

 

-      Beh, vi pare il momento di giocare a palle di neve?! – sbraitò Daisuke, appena li vide incedere attraverso il corridoio.

-      Palle di neve? – parlarono contemporaneamente Taichi e Sora.

Poi si guardarono a vicenda: solo allora si ricordarono di essere ancora fradici e infreddoliti.

Scoppiarono a ridere simultaneamente e il suono delle loro fresche risate parve per un attimo ripulire l’aria del terrore di pochi minuti prima.

Daisuke sbattè le palpebre, sbigottito e offeso dall’effetto di quello che doveva suonare un rimprovero.

Mei scosse il capo, armata di secchiello e straccio.

-      Non riderebbero se toccasse a loro ripulire i corridoi. –

Ma Taichi e Sora non poterono fare a meno di aumentare il volume delle loro risate.

Più tardi si sarebbero offerti di asciugare loro la scia d’acqua che avevano lasciato lungo i corridoi, un po’ per rasserenare una seccatissima Mei, un po’ per non lasciarsi sfuggire un’altra occasione di restare da soli.

 

Le urla strazianti si ripeterono per diverse ore durante tutta la giornata, a distanza di al massimo dieci minuti l’una dall’altra. Manco a dirlo, tra gli Svegli cominciò a serpeggiare il panico. Sembravano le grida di uomini e donne sotto tortura, incapaci di pronunciare verbo ma che caricavano nelle loro voci tutto il dolore che provavano.

Tuttavia era impossibile capirne l’esatta provenienza, sebbene tutti concordassero che sembravano propagarsi dal cielo burrascoso.

-      Ma com’è possibile?! – Koushiro si passò una mano tra i capelli spettinati.

Mimi lo guardò preoccupata. Da quando si era risvegliato non aveva più chiuso occhio e mangiava appena. Sosteneva che il cibo faceva assopire, perciò andava avanti a caffé e pochi altri alimenti. Il suo volto pallido e magro era segnato dalle occhiaie sempre più profonde, che conferivano agli occhi scuri l’aspetto di due crateri di pece.

Non che Mimi avesse intenzione di tornare sui suoi passi, intendiamoci, il suo Koushiro sarebbe rimasto adorabile per mille altri motivi. Però il suo aspetto trascurato metteva la ragazza a disagio, soprattutto per l’impotenza che si era accorta di avere per quanto riguardava certe sue scelte.

Koushiro era sempre stato un ragazzo d’oro, gentile e dolcissimo, su questo non c’erano dubbi. Ma la ragazza si era recentemente accorta anche di quanto potesse essere caparbio. Sembrava quasi che avesse deciso di non curarsi del suo corpo fintanto che non fosse venuto a capo di tutti i dubbi che lo tormentavano.

-      Koushiro… - gli si avvicinò la ragazza, arricciando il naso di fronte alla sua scrivania ingombra di carte, libri e, ovviamente, l’inseparabile pc e relativi marchingegni; accanto allo schermo l’ormai altrettanto indivisibile tazza di caffé, ormai freddo.

-      Non riesco a capire! – protestò il rosso, reggendosi la fronte con una mano.

Mimi pensò che le grida non dovevano aiutarlo a concentrarsi. E sapeva bene quanto Koushiro detestasse esser distratto mentre cercava di districare la matassa di un ragionamento.

-      Forse dovresti mangiare qualcosa… - azzardò lei, a bassa voce.

-      Non devo mangiare, Mimi, devo capire. – parlò a occhi chiusi lui – Devo capire come fare a intrappolare Sandmannmon, che a quanto pare trova molto divertente farci delle sortite e poi svignarsela, scomparendo nella città buia. E devo capire da dove vengono queste urla, chi le sta provocando e soprattutto perché! – si lasciò andare contro lo schienale della sedia, sfinito – Perché Sandmannmon ha voluto addormentare un’intera città? Perché non siamo ancora stati attaccati? Che cosa aspettano?! E che ruolo ha Angstmon in tutto ciò? Perché né io né Gennai riusciamo a capire cosa sia? Ho idea che non sia un digimon come gli altri, ammesso che effettivamente lo sia… Per quanto ne sappiamo potrebbe essere qualsiasi cosa, il fatto che sia entrato in contatto con Sandmannmon non prova la sua natura. –

-      M-ma non esistono creature simili nel nostro mondo! – intervenne Mimi – Solo a Digiworld… -

-      Sandmannmon ha sfruttato un varco lasciato aperto per giungere in questo mondo. Ma per quanto ne sappiamo potrebbero essercene a centinaia, che si affacciano su altrettanti mondi paralleli…Persino alcuni di noi hanno avuto modo di trovarsi in altre dimensioni parallele… -

Mimi rabbrividì, al ricordo del racconto spaventoso di Kari.

-      Dunque – aveva ripreso il discorso Koushiro, parlando più a se stesso che alla ragazza accanto a lui – non è da escludere che Sandmannmon abbia fatto visita a qualche altro mondo, prima di giungere nel nostro, e che in uno di quei viaggetti si sia imbattuto in Angstmon… -

-      Ma è un nome da digimon… - protestò lei, in tono quasi infantile.

-      I nomi possono essere storpiati facilmente… - le rispose Koushiro distrattamente, mentre era chiaro che la sua mente aveva ripreso a galoppare – Sandmannmon è un digimon d’altronde…sarà quasi un’abitudine per lui aggiungere il suffisso “-mon”… -

Liberò frettolosamente la tastiera del computer e aprì la Home page di Google, digitando la parola “Angst”.

Mimi si allungò per sbirciare lo schermo.

Una lista di siti in tedesco si srotolò sotto i suoi occhi. La maggior parte erano traduttori, che davano al termine il significato di “paura”, “terrore”, “ansia”. Nulla di nuovo, insomma.

Eppure Koushiro pareva aver fiutato una pista.

-      Cosa vedi in tutto ciò che io non riesco a scorgere? - sbuffò Mimi – Questo non fa che confermare quanto ci ha detto Gennai, cioè che si nutre della paura… -

-      Infatti, Mimi… - si voltò a guardarla, improvvisamente sorridente – E non ti pare una coincidenza piuttosto curiosa l’associazione tra la sua natura e questo termine tedesco? Scommetto che spulciando le leggende della Germania possiamo trovare qualcosa al riguardo! – le strizzò l’occhio.

-      Credi dunque che quel mostro venga dal nostro mondo?! –

-      Probabilmente no, Mimi…ma come il nostro mondo è in stretto contatto con Digiworld, allo stesso modo potrebbe esserlo con altri…magari in tempi molto antichi qualcuno è sbarcato nella dimensione da cui proviene Angst e questo spiegherebbe l’origine del suo nome… -

-      Non capisco cosa speri di trovare. – scosse il capo Mimi – Si tratta comunque di un mostro appartenente ad un altro mondo. Perché dovrebbe esserci qualche informazione su di lui in questo? Se anche qualcuno fosse finito in quella dimensione, probabilmente non ne ha mai voluto parlare, per paura di esser preso per matto, e il segreto è ormai morto e sepolto insieme a lui. Una volta bruciavano le persone se andavano in giro a raccontare cose strane… -

-      Lo so, Mimi. – le accarezzò una guancia, gentile.

Come faceva la gente a dire che Mimi era stupida? Il fatto che a volte fosse un po’ superficiale e molto attenta alle cose materiali, nulla toglieva alla sua intelligenza.

-      Tuttavia pensa a noi. – le sorrise teneramente – Abbiamo fatto diversi viaggi in un altro mondo e siamo entrati in contatto con le creature che lo popolavano. Non l’abbiamo sventolato ai quattro venti, eppure altre persone all’infuori di noi sanno dei digimon. I nostri genitori, alcuni amici… Gli stessi digimon sono comparsi diverse volte nel Mondo Reale e sono stati visti da centinaia di persone. Forse non sono l’argomento del giorno, probabilmente la maggior parte della gente crede di aver avuto un’allucinazione, ma non mi stupirei se qualcuno ne fosse stato ispirato per un romanzo o un’opera d’arte. –

Abbassò il capo, afferrandole una mano e accarezzandola delicatamente.

-      Forse non troverò nulla, ma non so più dove sbattere la testa. Io devo capirci qualcosa di più in questa faccenda! –

Mimi annuì: tipico di Koushiro.

-      Va bene – parve acconsentire la ragazza – ma tenta di non stancarti troppo, d’accordo? –

Fece per andarsene, quando la voce del rosso la richiamò.

-      Mimi… -

-      Dimmi. – si voltò a guardarlo perplessa.

-      Avrei un certo languorino… -

Koushiro le sorrideva gentile, le guance leggermente imporporate. Lo stava facendo per lei, perché aveva notato la sua preoccupazione per la sua salute, ne era sicura. Ma non lo dette a vedere.

-      D’accordo, genio. Però dovrai mangiare tutto. – lo ammonì.

Lui annuì, balbettando un “grazie”. Mimi uscì dalla stanza, chiudendosi la porta alle spalle.

-      Grazie a te, Koushiro… - sussurrò rivolta alla porta.

Poi aggrottò la fronte e sbuffò: gli avrebbe anche preparato un bel tazzone di caffè.

 

Yamato aveva mille dubbi per la testa. Solo una certezza risultava cristallina nel suo cervello: doveva aiutare Rumiko a tornare. Qualcosa dentro di lui gli diceva che tutto sarebbe tornato a posto non appena lei avrebbe fatto la sua ricomparsa. Certo, una parte di lui si ostinava a rammentargli che tale convinzione era dettata dall’amore che provava nei suoi confronti, ma Yamato aveva smesso da tempo di dar retta a quella vocina.

Innanzitutto avrebbe avuto bisogno di informazioni. E quale luogo migliore per effettuare una ricerca se non la biblioteca? Dubitava però che in quella centrale di Tokyo avrebbe trovato qualche informazione utile su come riportare in vita i morti.

Tuttavia si era impossessato di un computer dell’ospedale e aveva preso a fare ricerche. Doveva pur esserci un qualche filosofo che avesse compiuto degli studi in merito. Se c’era una cosa che aveva imparato degli esseri umani, infatti, era che non vi era limite alla loro curiosità.

Ma dopo mezza giornata passata a rovistare nel web non aveva ancora trovato nulla d’interessante, solo ciarpame. Si accasciò sulla sedia, sfinito, e dette alcune grandi sorsate alla tazza di caffé che teneva sempre a portata di mano. Spesso si chiedeva quanto tempo sarebbe passato prima che il suo organismo si adattasse a quella bevanda e la caffeina non riuscisse più a tenerlo sveglio.

Lanciò un’occhiata ai suoi compagni di sotterfugi (non aveva accennato agli altri delle sue intenzioni, era certo l’avrebbero preso per pazzo e lo avrebbero ostacolato in tutti i modi).

Gabumon e Masahiro conversavano amabilmente, il primo appollaiato su un mobiletto, il secondo seduto a cavalcioni di una sedia, le braccia conserte appoggiate allo schienale. Inizialmente il digimon non aveva nascosto la sua reticenza ad accettare la presenza di quell’uomo accanto a sé e soprattutto al suo prescelto. Yamato aveva sorriso della sua gelosia e gli aveva raccontato dell’incontro-scontro con Masahiro. Il digimon aveva ascoltato in silenzio e lentamente, seppur all’inizio con riluttanza, aveva cominciato a mostrarsi più gentile nei confronti dell’uomo. Ma appena quest’ultimo prese a raccontargli dei suoi viaggi e di tutto ciò che aveva avuto modo di vedere, Gabumon ne era rimasto affascinato almeno quanto Yamato, gioendo a sua volta nel raccontare aneddoti e avventure vissute col suo prescelto.

Quello che stupiva realmente il biondo, tuttavia, era la semplicità con cui Masahiro aveva accettato non solo di trovarsi catapultato in quella situazione tenebrosa, ma anche di passare le sue giornate in compagnia di un ragazzo praticamente sconosciuto e una creatura digitale decisamente fuori dal comune.

-      Te l’ho detto, ragazzo – gli aveva semplicemente risposto Masahiro, quando Yamato gli aveva esposto la sua perplessità – ti trovo un tipo piuttosto in gamba e interessante, decisamente cresciuto, per la tua età. –

-      Ti sembro saggio? – aveva alzato un sopracciglio il biondo, scettico.

-      I “grandi” non sono necessariamente saggi, ma hanno sulle spalle maggiori esperienze, responsabilità e problemi. Anche se sono sempre stato convinto che la maggior parte di questi ultimi se li creano da soli. – si era stretto nelle spalle.

-      E per quanto riguarda Gabumon? –

-      Credo sia un tipo parecchio forte anche lui. All’inizio pensavo fosse un animaletto da compagnia decisamente più bizzarro di quelli che avevo visto fin ora. Ma parlandoci mi sono ricreduto: se tu sei un giovane adulto, lui invece è un bimbo maturo. –

Yamato aveva riso.

-      Un bimbo maturo? Tralasciando il controsenso…ma non sono la stessa cosa? –

-      No. – gli aveva spiegato Masahiro, come se fosse una cosa ovvia – Un giovane adulto è un ragazzo che ha vissuto più esperienze e attraversato più difficoltà di un suo coetaneo. Questo l’ha fatto maturare anzitempo, gli ha caricato le spalle di doveri che un ragazzo della sua età non conosce neppure e gli ha plasmato la mente, rendendola disillusa e contorta come quella di un adulto. Un bambino maturo, invece, sebbene abbia vissuto le stesse esperienze e dovuto superare gli stessi ostacoli, non ha permesso che gli eventi avessero la meglio su di lui. È rimasto lo stesso bambino sognatore, in grado di sperare e credere ciecamente, semplicemente per affetto. –

Aveva ammiccato a un meditabondo Yamato.

-      Per farti un esempio: tu ora mi hai esposto i tuoi dubbi, mentre il tuo amico digitale non credo se li sia nemmeno posti. Per lui probabilmente è ovvio che io trovi piacevole la vostra compagnia, altrimenti non passerei tutto il mio tempo con voi, con un altro centinaio di persone a disposizione con cui socializzare. Per quanto il suo ragionamento sia ingenuo, infatti, non fa una piega. – posò una manona sulla spalla del ragazzo – Dovresti chiedergli consiglio più spesso anziché arrovellarti inutilmente da solo. –

 

Il ragazzo tornò alla realtà, sospirando sconsolato.

-      Gabumon – apostrofò il digimon, che si voltò a guardarlo incuriosito – tu a chi chiederesti informazioni su come resuscitare i morti? –

Il digimon aggrottò la fronte. Parve pensarci un attimo, grattandosi il muso con fare meditabondo, come se stesse tentando di estrapolare un ricordo preciso.

-      Se non sbaglio – azzardò poi – li chiamate sacerdoti… -

Yamato sgranò gli occhi, tirandosi una manata sulla fronte.

-      Ma certo! Perché non ci ho pensato io? –

Ma negli occhi di Masahiro gli parve di leggere la risposta: perché era un giovane adulto.

 

 

 

Continua…

 

 

 

N.d.a:

Sarei molto curiosa di leggere le vostre impressioni sulla storia e sulla piega che stanno prendendo gli eventi.

Tante domande sono state poste, ora per i personaggi è arrivato il momento di cercare delle risposte. E di risolvere i propri dubbi.

 

Dal capitolo 23:

[…] Sapeva bene che Koushiro non aveva parlato. Eppure lei l’aveva sentito.

 

Un abbraccio,

Monalisasmile

 

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Capitolo 23
*** - ***


Capitolo 23

 

Koushiro ingoiò un’altra cucchiaiata di minestra sotto lo sguardo compiaciuto di Mimi. Le sorrise, sebbene si sentisse un imbroglione: voleva renderla felice, ma presto l’avrebbe nuovamente contrariata e fatta preoccupare.

Distolse lo sguardo da quegli occhi nocciola, temendo che la ragazza potesse intuire le sue intenzioni. Per quanto avesse spulciato il web, infatti, non era riuscito a trovare altre informazioni su Angstmon nelle leggende alemanne. Ma era sicuro che un archivio ben fornito avrebbe contenuto qualche volume prezioso, in cui comparisse almeno un accenno in merito. Solo che per consultarlo avrebbe dovuto lasciare il quartier generale degli Svegli e inoltrarsi nella città buia, dove sarebbe stato facile preda di un attacco da parte di Alptraumon.

Per un attimo Koushiro si chiese il motivo per cui era stato coniato quel termine, dato che le due creature già possedevano un nome. Ma poi immaginò si trattasse di un’altra trovata di Sandmannmon: se erano a tutti gli effetti una “coppia”, avrebbero dovuto avere un appellativo comune. Dunque Alptraumon, in tedesco tradotto come “incubo”.

Quest’ultima scoperta l’aveva portato a pensare che si trattasse di un suggerimento di Angstmon, il che avrebbe confermato le sue teorie sull’origine di quella creatura.

Prese nota mentalmente di inserire anche “Alptraum” tra i termini della sua ricerca, una volta che fosse riuscito ad eludere la sorveglianza di Mimi.

Koushiro aveva pensato di portare Tentomon con sé, ma di non permettere agli altri prescelti di seguirlo: la loro presenza sarebbe stata molto più utile accanto ai superstiti, in caso di un attacco improvviso, piuttosto che in qualche angolo sperduto della città. Loro erano combattenti migliori di lui, mentre quanto Koushiro poteva fare per aiutarli era adoperarsi in ciò che meglio sapeva fare: trovare delle spiegazioni. Il tempo stringeva, l’ansia e la stanchezza aumentavano sempre più. Poteva leggerlo sul volto degli uomini, delle donne e dei bambini. Il suo stesso viso era spaventosamente tirato.

Occorreva dunque che partisse al più presto. Avrebbe preparato il necessario, poi ne avrebbe parlato agli amici, sperando che non gli facessero perdere troppo tempo nel tentativo di convincerli.

Lanciò uno sguardo a Mimi, che gli sorrideva raggiante per la buona riuscita del pasto. Notò come le occhiaie stessero scavando anche il suo bel viso, sebbene lei tentasse di nasconderle col trucco. Nonostante probabilmente non corresse alcun pericolo ad addormentarsi, infatti, la ragazza si era ostinata a restare sveglia. E il giovane aveva il sospetto che l’avesse fatto per poter vegliare su di lui.

“ Come faccio a convincere lei a lasciarmi andare?” si chiese sconsolato.

Sapeva bene quanto Mimi potesse essere testarda e che avrebbe cominciato a fare i capricci pur di poter fare come preferiva. E se ciò che voleva era fargli da spalla, lui non avrebbe saputo come dissuaderla.

Ovvio che trovasse piacevole la sua presenza, la amava. Ma come avrebbe potuto sopportare che lei lo seguisse in quella folle ricerca se ciò comportava dei rischi? Non era sicuro di essere in grado di proteggerla, non era forte quanto Taichi o Yamato… E se le fosse successo qualcosa non se lo sarebbe mai potuto perdonare.

Dunque che fare?

“ Forse” pensò amaramente, abbassando gli occhi sulla minestra ormai tiepida nel suo piatto “è meglio non dirle nulla… Mi detesterà per questo, ma preferisco essere odiato che rischiare di perderla…”

Affondò un'altra cucchiaiata e la cacciò rapidamente in bocca.

-      Sono contenta che ti piaccia! – gioì la ragazza – Modestamente sono sempre stata piuttosto brava come cuoca… -

-      È delizioso, Mimi. – le sorrise gentilmente lui.

-      Lo so, lo so. – si alzò lei, fiera di sé – Vedrai che manicaretto ti cucinerò domani, ti leccherai i baffi! – gli strizzò l’occhio.

Lui annuì, distogliendo lo sguardo.

“ Mi spiace, Mimi, ma domani non sarò più qui…”

La ragazza lo fissò un attimo esterrefatta.

-      H-hai detto qualcosa, Koushiro? –

Lui arrossì, ma dopo il primo attimo di smarrimento scosse il capo, accingendosi a finire il suo pasto.

Mimi lo studiò ancora qualche secondo, poi con una scusa si dileguò.

 

Chiuse la porta alle sue spalle e vi appoggiò la schiena, aspettando che i battiti del cuore rallentassero e la mente tornasse lucida.

Sapeva bene che Koushiro non aveva parlato. Eppure lei l’aveva sentito.

Trasse un profondo respiro. La prima volta che era capitato si era agitata parecchio, quasi quanto l’infermiere che l’aveva vista portarsi una mano alla bocca, sconvolta.

-      Signorina, si sente bene? – le aveva chiesto, avvicinandosi a Mimi.

Lei non aveva risposto, limitandosi a voltargli le spalle.

“ Deve essere ancora sotto shock, poverina” aveva pensato l’uomo.

Mimi aveva nuovamente sobbalzato, sicura, sebbene non l’avesse visto in volto, che le labbra dell’uomo nuovamente non si erano dischiuse.

Si era imposta la calma e aveva accantonato l’evento, non sapendo darvi una risposta razionale.

Tuttavia, man mano che questi episodi si ripetevano, un’idea si era fatta avanti prepotentemente nella sua mente. Un’idea assolutamente folle, eppure l’unica le paresse in qualche modo verosimile.

Si lasciò scivolare a terra, raccogliendo le ginocchia al petto.

Verosimile...in tutta questa storia non c’è mai stato nulla di verosimile, se vista dagli occhi di una normale persona dotata di un minimo di raziocinio.”

Per quanto avesse cercato di negarlo a se stessa, era ormai evidentemente che c’era qualcosa che non andava in lei, se poteva sentire i pensieri delle persone.

Le venne la pelle d’oca a ripensare a certi apprezzamenti nei suoi confronti o alle tacite minacce di altri. Era certa che quelle persone non volessero mandarglieli intenzionalmente, così com’era sicura che lei non fosse in grado di controllare questa sua nuova facoltà.

Ignorava come fosse arrivata a possederla, ma sospettava che la causa fosse Sandmannmon, dato che si era manifestata per la prima volta quando era stata dimessa.

Una bambina trotterellò per il corridoio, fino a raggiungerla e fermarsi di fronte a lei. La studiò qualche minuto, perplessa.

-      Che ci fai là per terra? – squittì.

Mimi sospirò stancamente.

-      Mi riposo un attimo e penso a quello che dovrei fare, piccolina. – tentò di sorriderle.

-      Mmmm… - annuì la bimba, poco convinta, per poi girare i tacchi e allontanarsi.

“ Che schifo però lì per terra…sarà tutto sporco!”

Mimi attese che la bambina si fosse allontanata, poi abbandonò il capo sulle ginocchia.

“ Non posso andare avanti così. Ogni giorno sento sempre di più…e se arrivassi a udire tutti i pensieri della gente?!”

Sapeva bene la risposta: sarebbe impazzita.

Ma cosa poteva fare per evitarlo? Come sarebbe riuscita a liberarsi di quel potere o quanto meno a controllarlo?

Aveva pensato di chiedere aiuto ai prescelti, ma temeva che non l’avrebbero capita. Era convinta che solo Koushiro sarebbe stato in grado di ascoltarla e aiutarla, ma il rosso era già sufficientemente stressato.

“ Non posso chiedere sempre aiuto a lui…sarei davvero egoista…”

E la parola “egoista” mal si abbinava al termine “amore”.

Un pensiero le attraversò fulmineo il cervello. Koushiro era un ragazzo timido e molto riservato: se gli avesse rivelato di esser in grado di percepire quei pensieri che lui tanto gelosamente custodiva, si sarebbe allontanato da lei per preservarli e proteggere la sua intimità?

Alzò il capo di scatto, terrorizzata più da quell’eventualità che dal potere di cui era entrata in possesso.

“ Come potrei biasimarlo? La cosa spaventerebbe persino una ragazza egocentrica come me!”

No, non poteva perderlo. Dunque non glielo avrebbe detto. Se la sarebbe cavata da sola, senza coinvolgerlo ulteriormente nei suoi problemi.

Già, ma come?

Aveva parecchi dubbi riguardo all’esistenza di un sito da cui scaricare una guida che illustrasse un modo per controllare poteri paranormali. E di certo in quel ospedale non vi erano medici competenti in materia.

“ Ma chi voglio prendere in giro?! Non esiste nessuno competente in materia. Anzi, diciamo pure che nessuna persona sana di mente starebbe ad ascoltare una ragazza che si definisce…”

Un’idea le balzò alla mente, ma scosse vigorosamente il capo per accantonarla. Folle, semplicemente insensata.

“ Oddio” si portò le mani al capo “ sto cominciando a ragionare negli stessi termini di Koushiro!”

Tuttavia c’era ancora qualcosa in tutta quella faccenda che potesse dirsi sensata? La sua stessa capacità di leggere i pensieri delle persone era assolutamente irrazionale. Dunque la risposta ai suoi problemi non poteva che seguire l’onda delle insensatezze. E se era una risposta insensata che cercava, qualcosa di assurdo quanto lo era tutto il resto, allora l’avrebbe senz’altro trovata nelle superstizioni e nelle leggende. E chi era il custode di tutte le storie, chi le avrebbe creduto perché credeva nel potere da lei posseduto?

“ Un sacerdote.”

Si tirò in piedi e si spolverò la gonna con alcune manate decise: in effetti quel pavimento necessitava di una spolveratina. Prese mentalmente nota e si allontanò a passo spedito, in cerca di Palmon.

Purtroppo Mimi era famosa per la sua leggerezza e il pensiero captato dalla mente di Koushiro passò in secondo piano.

 

Doveva stabilire una meta precisa prima di avventurarsi all’esterno e possibilmente una sola: dubitava fortemente che Alptraumon non si sarebbe accorto della sua presenza se si fosse messo a scorrazzare per tutte le biblioteche della città.

Koushiro aggrottò la fronte: la Biblioteca Centrale? Senz’altro ospitava molti più volumi rispetto alle altre e vantava una vasta scelta di argomenti. Ma qualcosa gli diceva che trovare quello che lui cercava in un archivio tanto grande sarebbe stato difficile e soprattutto molto lungo.

Occorreva restringere il campo di ricerca.

Ma esisteva a Tokyo una biblioteca specializzata in leggende di demoni provenienti da mondi paralleli?

Sgranò gli occhi e si battè una mano sulla fronte, tanto vigorosamente che Tentomon sobbalzò.

“ La biblioteca del Tempio”

 

In toni bassi ma decisi aveva esposto la sua idea a Taichi e Sora che, riluttanti e scuri in volto, avevano annuito. Per quanto quella situazione non piacesse a nessuno dei due, era evidente che qualcosa andava fatto per sbloccare quel terribile assedio cui erano costretti e al più presto possibile. Avrebbero voluto accompagnarlo per dargli manforte, ma tutti e tre avevano cupamente convenuto che non era saggio lasciare l’ospedale privo di protezione.

Il rosso avrebbe voluto discuterne anche con Yamato, ma dalla scomparsa di Rumiko il cantante era diventato estremamente schivo, sempre più pallido e silenzioso, più simile a un fantasma che a un essere umano in carne e ossa.

Daisuke e Mei erano occupati a calmare gli umori sempre più irascibili di alcuni ragazzi, ma Koushiro era sicuro che non si sarebbero opposti al suo piano, sebbene avrebbero tentato di convincerlo a portarli con sé. Non faceva fatica a immaginare quanto quelle due teste calde si sentissero in gabbia tra le mura di quel ospedale in cui la gente stava dando di matto. Tuttavia per mantenere la segretezza e non esser scoperti da Alptraumon era necessario muoversi con cautela e discrezione, due doti di cui i ragazzi non conoscevano il significato.

Aveva invece evitato accuratamente Mimi, chiedendo ai prescelti del Coraggio e dell’Amore di vegliare su di lei in sua assenza e di dissuaderla da colpi di testa che avrebbero potuto metterla in pericolo.

Poi aveva preso uno zaino con le poche cose che gli sarebbero servite per giungere a destinazione e si era messo in cammino affiancato da Tentomon, dando le spalle all’ospedale degli Svegli.

Non poteva immaginare cosa l’avrebbe atteso durante il suo breve percorso nella città addormentata. Di certo non immaginava che altri camminavano avanti a lui, ognuno ignaro dei piani dell’altro, tutti diretti verso la stessa meta: il Tempio.

 

Yamato si voltò di scatto, puntando una pistola davanti a sé: gli pareva di aver udito una voce. Scrutò l’oscurità di fronte a sé, cui i suoi occhi si stavano lentamente abituando dopo diverse ore di cammino attraverso la città spettrale.

Il ticchettio del suo orologio pareva quasi assordante alle sue orecchie, i muscoli di tutto il corpo gli dolevano a causa della continua tensione. Da quando lui e i suoi compagni di viaggio avevano lasciato furtivamente l’ospedale, i suoi sensi erano continuamente in allerta, pronti a captare il minimo segno di pericolo.

Una manona si appoggiò sulla sua spalla, ma il cantante non sussultò.

-      Qualcosa non va, Yamato? – gli chiese in un sussurro Masahiro.

Il biondo scosse il capo, lanciando un’occhiata rassicurante all’uomo e a Gabumon, che lo guardava interrogativo.

Ripresero a camminare, tenendosi al riparo degli edifici per non essere facilmente individuati da Alptraumon in caso fosse volato sopra le loro teste. Masahiro guidava il trio, armato di due pistole di calibro superiore a quella del ragazzo e munito di una torcia velata da un panno perché non emettesse un cono di luce troppo appariscente. Gabumon, ovviamente, non aveva bisogno di altri mezzi di difesa se non se stesso, Digimon o Umano che fosse ad attaccarli.

Si rendevano infatti conto che se qualche superstite era rimasto nella città, era probabile che avesse i nervi a fior di pelle esattamente come gli Svegli nell’ospedale. E non sarebbe stato difficile per qualche mal intenzionato tendere loro un agguato nell’oscurità che avvolgeva Tokyo.

Procedevano lentamente, evitando le strade principali e allungando il tragitto. Ma ormai mancava poco a destinazione.

“ Mi auguro solo che almeno un sacerdote sia rimasto sveglio” pensò cupamente il biondo.

Un’esclamazione soffocata lo fece voltare di colpo e scattare verso il dehor di un ristorante che avevano appena oltrepassato. Scavalcò con un’unica falcata la bassa siepe che circondava i tavolini e atterrò sicuro di fronte a…

 

-      Mimi?! –

Masahiro e Gabumon erano già da fianco a lui e l’uomo puntò la torcia verso la ragazza e il suo digimon-pianta.

La Prescelta teneva entrambe le mani premute sulla bocca e aveva gli occhi lucidi e sgranati in un’espressione di terrore.

Yamato rilassò i muscoli ed emise un sospiro di liberazione: quella era senza ombra di dubbio Mimi.

“ Ma che ci fa qua? Ci stava forse pedinando? Da quanto tempo?”

Lei sembrò tranquillizzarsi un pochino, sebbene la sua espressione si fece sconfortata.

-      Una domanda per volta, Yamato. –

Lui sgranò gli occhi, cercando con lo sguardo conferma sul volto dei suoi compagni: aveva forse parlato ad alta voce? Ma dalle loro espressioni di stupore dedusse che non era l’unico a esser rimasto spiazzato dalle parole della ragazza.

Mimi si guardò attorno tristemente e annuì.

-      Non hai parlato, Yamato, quelle domande le hai solo pensate. –

Lui sollevò un sopracciglio.

-      Ma allora tu… -

-      Io posso sentire i pensieri delle persone. – liquidò lei il discorso con un gesto della mano, come se si trattasse di un insetto fastidioso – Non chiedermi come o perché: non ne ho idea. È per questo che sono qua. – alzò gli occhi su di lui, risoluta.

-      Qua? – aggrottò lui la fronte, lanciando un’occhiata fugace alla città lugubre, decisamente non corrispondente ai gusti raffinati dell’amica.

-      Voi state andando al Tempio. –

Non era una domanda e Yamato era ancora abbastanza sveglio da capire dove lei volesse andare a parare: aveva “sentito” dai loro pensieri che la loro meta era comune e aveva pensato di accodarsi a loro per agevolare un viaggio che le metteva i brividi. Sul perché non avesse voluto rivelare la sua presenza non fece domande: aveva imparato da tempo che non sempre era facile capire la mente delle donne, tanto meno quella di Mimi, che per lui rappresentava una matassa aggrovigliata.

-      Grazie eh! – si lagnò lei con una smorfia di risentimento, segno che aveva ancora una volta udito i suoi pensieri.

Incurante del suo commento, notò che la ragazza era provvista di un bagaglio piuttosto leggero e probabilmente organizzato di fretta. Ipotizzò dunque che fosse sgattaiolata fuori dal ospedale senza dire nulla a nessuno (Koushiro non le avrebbe mai permesso di fare una passeggiatina in un luogo tanto pericoloso) e che non volesse correre il rischio di esser rispedita indietro.

Le gote improvvisamente arrossate di Mimi confermarono la sua tesi.

Non si chiese nemmeno il perché la Prescelta di fosse improvvisamente trovata provvista di quello strano potere: aveva assistito a troppe assurdità in troppi pochi giorni per potersi permettere il lusso di altri interrogativi, che non avrebbero fatto che aumentare il peso di quelli che già portava dentro di sé.

Mimi non fiatò, ma gliene fu grata.

-      Una cosa però non mi è chiara… - sussurrò pensierosa, osservando attentamente il biondo.

Lui la esortò a continuare con uno sguardo.

-      So che anche tu cerchi delle risposte dai sacerdoti del Tempio… ma non riesco a capire riguardo a cosa… -

-      Non l’hai letto nella mia mente? – sorrise senza allegria Yamato, cui l’idea che i suoi pensieri riguardo Rumiko fossero percepibili da qualcuno non garbava affatto, per quanto Mimi fosse una sua amica.

Lei però non parve cogliere il tono sarcastico della sua voce, o forse non volle farlo.

-      No. – ragionò a voce abbastanza alta da essere udita dagli altri – È come ascoltare una persona al telefono quando la linea è disturbata…anzi, come quando in televisione censurano delle conversazioni troppo esplicite con quei “biiip” fastidiosi! Non so se ho reso l’idea… - concluse, imbarazzata per quella spiegazione strampalata.

-      Sì, ho capito… - annuì il biondo pensieroso.

Poi le porse una mano e l’aiutò ad alzarsi.

-      Procedete in fila indiana come stavamo facendo noi. E mi raccomando, Mimi… - le lanciò un’occhiata penetrante – discrezione. –

Lei esibì un’espressione corrucciata, ma annuì.

Yamato stava per voltarsi, quando lei lo trattenne per un braccio.

-      Senti, quello che hai pensato prima… - gli sussurrò lei titubante – credi che quando arriveremo là troveremo qualcuno di sveglio? –

Lui le poggiò una mano sulla spalla.

-      Per ora pensiamo ad arrivarci tutti interi. Al resto penseremo più tardi. –

E detto questo si rimise in marcia.

 

Più o meno un’ora dopo si trovavano ai piedi delle lunghe scalinate che portavano al Tempio. Masahiro propose di raccogliere le energie prima di cominciare la scalata, idea che venne subito accolta con riconoscenza da Mimi, che si sedette con malagrazia tra le radici di un albero.

Yamato però rimase in piedi: il continuo stato di allerta gli pompava adrenalina nelle vene e per quanto la cosa gli prosciugasse rapidamente le energie fisiche, contribuiva a mantenerlo sveglio.

Si guardò attorno circospetto. Lui che per natura diffidava delle persone e delle situazioni apparentemente troppo semplici non poteva credere che fossero arrivati là senza incontrare alcun ostacolo. Non senza l’aiuto di qualcuno. Tuttavia non era detto che dietro vi fossero delle buone intenzioni, anzi, poteva trattarsi di una trappola ben architettata per farli allontanare dai loro amici quanto bastava perché non potessero ricevere soccorso.

O forse no. In fondo Alptraumon, per quanto ne sapeva il biondo, era abbastanza potente da schiacciarli senza difficoltà se solo avesse voluto. Probabilmente l’unico motivo per cui tergiversava era portare a termine un oscuro gioco sadico. Ciò nonostante dubitava che li avrebbe lasciati liberi di scorrazzare per la città, non senza importunarli almeno un po’.

Si passò una mano tra i capelli, frustrato. Per quanto non avesse mai avuto una mente brillante quanto quella di Koushiro era sempre stato un ragazzo sveglio e perspicace. Ma questa volta si trovava sovrastato da dubbi e domande che non solo non trovavano risposta, ma crescevano sempre più.

Sorrise privo di allegria, beffandosi di se stesso. Era passata appena un’ora dalla scoperta della misteriosa capacità extrasensoriale di Mimi ed ecco che gli si parava di fronte un nuovo enigma: in quella spericolata partita vi era un terzo giocatore, oltre a loro e Alptraumon? E se sì, chi mai poteva essere?

“ In questo momento vorrei tanto possedere la mente brillante di Koushiro!”

“ E perché mai? La tua è davvero affascinante, ragazzo mio, nulla da invidiare alla sua.”

Yamato sgranò gli occhi esterrefatto, voltandosi verso i compagni, che tuttavia sembravano non aver notato nulla di strano.

Lanciò occhiate furtive attorno a sé, la presa salda sulla pistola. Ma non scorse nulla. Non un suono infrangeva la tranquillità di quel luogo, a parte il basso brusio di Mimi e Palmon che chiacchieravano ai piedi dell’albero.

Non c’era nessuno a parte loro nelle vicinanze, ne era certo. Di sicuro non l’uomo che gli aveva parlato.

Si portò una mano sugli occhi, stropicciandoli stancamente.

“ Ok, ne ho abbastanza di enigmi. Il Destino potrà anche essere beffardo, ma stronzo fino a questo punto spero proprio di no! Dunque” trasse un profondo respiro, come a volersi calmare “ le cose sono due: o sto dando di matto e sento voci che non esistono, oppure…” fece una pausa, quasi si aspettasse di avere conferma che il suo interlocutore fosse in ascolto “…oppure tu sei il terzo giocatore di questa partita e sai ascoltare e comunicare con la mente delle persone.”

Avvertì un leggero fremito nei suoi pensieri e immaginò che l’uomo stesse sorridendo.

“ Ti avevo detto che la tua mente non era meno elevata di quella di Koushiro.”

“ Inutile chiederti se sai davvero chi sia, vero?” sogghignò il biondo.

L’uomo non parve badarvi.

“ So chi è lui come so chi sei tu, Yamato.”

“ Peccato che io non sappia ancora chi sia tu. E se non erro la buona educazione impone di presentarsi.”

“ La buona educazione impone anche di usare un tono più ossequioso al cospetto di una persona più anziana.” replicò l’altro con calma.

“ Se tu fossi di fronte a me probabilmente lo farei, ma si da il caso che tu sia dentro di me e la cosa m’infastidisce non poco.”

Di nuovo ebbe l’impressione che il misterioso interlocutore sorridesse.

“ D’accordo Yamato. Quando sarai giunto in cima alle scale del Tempio potremo riaffrontare l’argomento “convenevoli” di persona e potrai mettermi a parte del motivo che ti ha spinto ad attraversare la città per farmi visita.”

Perfetto, aveva ringhiato come un cafone contro un sacerdote! Tuttavia bisognava ammettere che era stato piuttosto indiscreto a insinuarsi così nei suoi pensieri.

Dal risolino sommesso che percepì fu certo che anche quest’ultimo pensiero fu sentito dall’uomo. Per quanto una parte di lui si rendesse conto che non era nella posizione di mostrarsi irrispettoso nei confronti del religioso, quella beffa gli fece storcere la bocca in una smorfia di disappunto.

“ Mi pare piuttosto bravo a farsi gli affari miei. Come mai non è riuscito ad afferrare anche il motivo per cui sono qua?”

L’uomo si prese una pausa prima di rispondere.

“ Non lo so nemmeno io, Yamato. Percepisco dei buchi neri in parte dei tuoi pensieri, simili a delle interferenze, come se certe cose si ostinassero a voler rimanere nascoste…”

Il biondo ghignò soddisfatto: evidentemente nemmeno a Rumiko piaceva che altri si facessero i fatti suoi.

“ Uno pari e palla al centro, sacerdote” sorrise tra sé e sé soddisfatto “Passo e chiudo!”

L’uomo rise sinceramente.

“ Arrivederci, Yamato.”

 

-      Tutto bene, Yamato? – gli chiese Mimi, che cominciava a temere che fosse stato posseduto da Alptraumon.

Lui la guardò un attimo pensieroso.

-      Una favola! – ghignò il biondo.

Lei indietreggiò di un passo: non vi era dubbio che quello fosse il vero Yamato, ma che gli prendeva tutto d’un tratto?

-      Sicuro di non avere la febbre? – tentò di tastagli la fronte, ma lui si scostò, afferrandola per un braccio e trascinandola con sé verso le scale.

-      Sto bene, non vedo solo l’ora di arrivare a questo stramaledetto Tempio e di farmi spiegare un po’ di cosette da un sacerdote, tanto per cominciare questa storia della lettura del pensiero. –

Lei lo strattonò, liberando il braccio dalla sua presa e lanciandogli un’occhiataccia.

-      Frena l’entusiasmo, Yamato! Chi ti dice che lassù ci sia qualcuno che possa anche solo credere a quello che gli racconterei?! –

Non ci voleva un Premio Nobel per capire che Mimi si era arrabbiata, ma Yamato rinfoderò la pistola che ancora teneva in mano, infilando poi entrambe le mani nelle tasche dei pantaloni. Le sorrise scaltro, come un bambino dispettoso.

-      Diciamo che me lo sento… - disse, prima di voltare loro le spalle e salire i gradini con calma e disinvoltura, come se fosse un qualsiasi pomeriggio primaverile.

Gli altri si guardarono un attimo straniti, poi lo seguirono, vigili a ogni traccia di pericolo, molto più probabile in quel luogo scoperto che nei meandri della città. Yamato, dal canto suo, sapeva che nulla li avrebbe attaccati: il sacerdote avrebbe vegliato su di loro, così come li aveva controllati durante tutto il loro tragitto.

Quasi sorrideva, mentre saliva i gradini uno a uno, certo che si stava avvicinando alla soluzione dei tanti enigmi che lo tormentavano e, sperava, anche a Rumiko.

“ Tranquilla, Rumiko” pensò, incurante che il sacerdote o Mimi potessero ascoltarlo “presto potrai riabbracciare tuo padre, i tuoi amici, Caffè e…” strinse le mani a pugno nelle tasche per frenare le lacrime “…me.”

 

 

 

Continua…

 

 

 

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Capitolo 24
*** - ***


Capitolo 24

 

Rumiko aveva paura. E nessuno avrebbe potuto biasimarla per aver desiderato fuggire, lasciar perdere tutto: aveva lottato contro un mostro infernale, l’aveva sconfitto a costo di sacrificare involontariamente molte vite, tra cui quella della sua amata madre. Era fuggita nel tentativo di mettere più distanza possibile tra lei e i ricordi dolorosi. Aveva cominciato una nuova vita, accanto a nuove persone.

E per tutto quel tempo aveva portato un grande peso dentro di sé, senza farne parola con nessuno, con l’unica consolazione che quel incubo era ormai finito e che un giorno le ferite nel suo cuore si sarebbero rimarginate.

Ma così non era stato.

Quel brutto sogno era tornato a farle visita, più reale che mai, piombandole addosso all’improvviso. Aveva scoperto ciò che i suoi amici le tenevano nascosto: erano dei Prescelti, esattamente come lo era stata lei.

Se a New York si era sentita abbandonata da coloro che avrebbero dovuto essere suoi compagni in battaglia, a Tokyo, a un anno di distanza, si era sentita tradita da coloro che ormai considerava dei cari amici.

Una vocina nella sua testa le suggerì che proprio perché li conosceva, poteva facilmente intuire che il motivo per cui non erano accorsi ad aiutarla in America era che non fossero a conoscenza della situazione.

Ma lei mise a tacere quel sussurro interiore. Poco importava del perché non fossero venuti in suo soccorso. Erano i risultati a contare e le conseguenze di quella notte erano state raccapriccianti.

“ Non è che stai solo cercando un capro espiatorio?” tornò a farsi sentire quella voce saccente.

“ Perché mai dovrei?!” le ringhiò contro rabbiosamente.

“ Perché hai paura. Hai paura di ammettere a te stessa che quanto è successo era inevitabile, date le circostanze.”

“ Niente è inevitabile.”

La vocina parve sospirare in un’anticamera del suo cervello.

“ Purtroppo alle volte anche la più grande forza di volontà risulta impotente di fronte al Destino…e non è colpa di nessuno. È troppo semplice scaricare accuse su chi non può far altro che accusare il colpo. E non mi riferisco solo ai Prescelti.”

“ Che vuoi dire?”

“ Scaricare la colpa anche su se stessi è un buon modo per mettersi al riparo dalla verità quando non si è in grado di accettarla.”

Piano piano, il corpo di Rumiko si stava rilassando e quella voce stava cominciando ad assumere un tono e un volto familiare.

“ Rumiko” riprese la voce “non sempre c’è un perché nelle cose che accadono, o almeno non una motivazione a noi comprensibile. Anzi, spesso le disgrazie più grandi hanno la causa più misera: il caso. Ma non ha importanza. Perché così è la vita: fatta di imprevisti, belli o brutti che siano. Una persona non può farsi carico di colpe che non ha, soprattutto non di colpe tanto pesanti.”

Lei avrebbe voluto piangere di gioia, ma nessuna lacrima sgorgò dai suoi occhi. Le anime, si sa, non piangono.

“ Hai lottato con coraggio fino ad ora, durante e fuori dalla battaglia: non arrenderti proprio adesso. Non caricarti di fardelli non tuoi. Non disperare più per una tragedia che hai fatto di tutto per evitare. Non incolpare i tuoi amici di crimini che non hanno commesso. Liberati da queste zavorre e ti sentirai più leggera e forte.”

La donna che aveva preso forma nella sua mente le sorrise.

“ Io non ho mai smesso di essere immensamente fiera di te.”

“ Mamma…”

Avrebbe voluto abbracciarla, ma sapeva che anche questo le era precluso: sua madre non era realmente di fronte a lei, si trattava solo di un’immagine fugace, forse un’allucinazione. Abbassò lo sguardo, delusa e amareggiata.

“ Torna nel Mondo Reale, Rumiko” le disse dolcemente “ Torna da tuo padre, dai tuoi amici…e da Yamato.”

“ Yamato?” la guardò sbigottita.

La madre le strizzò un occhio.

“ Persino quaggiù è facile accorgersi che quel ragazzo tiene molto a te.”

 

Nell’Oblivion World l’infrangersi di alcune bollicine sulla superficie dello Specchio destò la curiosità di Kitsunemon.

Rumiko doveva aver esalato un sospiro e la sua espressione era cambiata. Aveva forse avvertito qualcosa di nuovo dal Mondo Reale?

Il Digimon studiò la sua espressione e notò che qualcosa in lei era cambiato: il volto contratto dalla paura e le mani quasi artigliate alle gambe strette al petto avevano lasciato spazio a un atteggiamento affranto. Gli angoli della bocca erano leggermente piegati all’ingiù, i muscoli più rilassati, le braccia sottili avvolte alle gambe non in un gesto spasmodico ma in un semplice abbraccio sconsolato, come a volersi cullare.

Kitsunemon fremette: quella era senza dubbio una novità nello Specchio del Limbo, in cui gli unici sentimenti ammessi erano l’odio, la paura, la vendetta e quanto di più corruttibile potesse risiedere nel cuore di una creatura. Quella che vedeva riflessa nel volto della sua Prescelta era piuttosto la solitudine e l’amaro senso di nostalgia verso qualcosa o qualcuno cui teneva e che – Kitsunemon ne era certa – la stava richiamando a sé a gran voce.

 

“ Dal posto in cui ti trovi…” le sussurrò Rumiko, pensierosa “puoi vedere cosa accade nel Mondo Reale?”

Ricordava perfettamente in quali circostanze avesse perso la vita: Alptraumon era tornato e non dubitava che fosse intenzionato a portare a termine quanto non era riuscito a fare un anno prima. Ricordava come Sandmannmon avesse posseduto il corpo di quella ragazza che aveva fatto irruzione in casa sua. Ma poi…che era accaduto?

Corrugò la fronte, nel tentativo di mettere a fuoco i ricordi, annaspando in un groviglio di pensieri confusi.

Emi le sorrise gentilmente.

“ Perché non ci provi tu?”

“ Io?”

La donna annuì tranquillamente.

Erano poche le cose su cui Rumiko poteva essere sicura riguardo la sua attuale situazione: innanzitutto che non si trovava nel Mondo Reale, ma nemmeno nell’Aldilà, poiché avvertiva una grande distanza tra lei e sua madre. Ma oltre allo spazio fisico, era sicura vi fosse qualcos’altro che le separava: erano diverse.

“ Mamma…io non sono morta…vero?”

Emi scosse il capo, continuando a sorriderle con serenità.

Non percepiva il suo corpo e lo spazio attorno a lei era vuoto. Non lo percepiva né ostile né piacevole. Semplicemente un ambiente neutro.

Tuttavia ricordava di esser stata attaccata da Sandmannmon e di aver risvegliato Angstmon, rinchiuso dentro di lei. Fremette di rabbia e frustrazione all’idea di aver dato involontariamente asilo a quel mostro per un anno intero.

“ Ma come Diavolo ha fatto a…”

Scosse il capo con decisione. Una cosa alla volta: innanzitutto doveva capire dove si trovava e in che stato.

Aveva sentito il suo cuore spezzarsi sotto il peso delle parole di Sandmannmon. Ma non l’aveva ferita fisicamente e le parole non avevano mai ucciso nessuno… Allora perché si trovava lì? Perché sentiva di essersi separata dal suo corpo?

Che fosse tutta un’illusione del digimon? Che bastasse aprire gli occhi per ritrovarsi sul pavimento della sua cucina?

Aveva la sensazione di conoscere la risposta a questi interrogativi, eppure ogni volta che credeva di scorgerla questa le sfuggiva.

 

Altre bollicine e un’altra espressione sul viso, questa volta corrucciata. Kitsunemon avrebbe voluto fare i salti di gioia: Rumiko stava cominciando a reagire.

 

“ Mamma, tu sai dove mi trovo?”

La donna annuì.

“ Allora dimmelo, ti prego!”

Emi scosse tristemente il capo.

“ Non posso, cara…”

“ Perché? Perché non puoi, mamma?!” le chiese disperatamente.

“ Perché non mi è concesso…”

Rumiko serrò le labbra, frustrata.

Aveva bisogno di aiuto. Doveva capire. Doveva sapere.

A chi poteva chiedere? Chi avrebbe saputo consigliarla? Ma soprattutto…chi l’avrebbe sentita?  

 

“…to…”

Mimi si fermò. Tese le orecchie. Nulla. Eppure le pareva di aver udito una voce, simile a un eco lontano.

-      Tutto bene, Mimi? –

Lei si voltò a guardare il sacerdote.

Erano da poco arrivati al Tempio e subito erano stati accolti da un anziano monaco, che si era presentato loro col nome di Hisashi. Yamato si era comportato in maniera piuttosto strana, ghignando e rivolgendosi all’uomo come se lo conoscesse già, ma mostrandosi ugualmente rispettoso nei suoi confronti. Con grande sollievo di Mimi, l’uomo aveva riso dei modi del biondo, rivolgendosi al ragazzo come se pure lui lo conoscesse già.

Poi si era rivolto agli altri, apparentemente indifferente al fatto di trovarsi di fronte due digimon e apostrofando tutti per nome senza che si fossero presentati. Una cosa che aveva lasciato a bocca aperta la compagnia e allargato il sorriso sul volto costellato di rughe. Il sacerdote si era poi portato un dito sulla fronte con fare significativo. Il cuore di Mimi aveva perso un battito per l’emozione e l’uomo le aveva ammiccato: anche lui poteva leggere i pensieri delle persone.

Ora stavano camminando per i corridoi del Tempio, preceduti da Hisashi.

-      Sì, tutto bene, signore… -

-      Hisashi – la corresse gentilmente lui.

-      Hisashi… - ripeté lei.

Lui annuì e si rimise in testa al gruppo.

-      Questo Tempio… - spezzò il silenzio Masahiro – A quale divinità è dedicato? –

-      Al dio Inari –

Masahiro annuì.

-      Il kami della fertilità, dell’agricoltura, dell’industria e del successo terreno…-

-      L’avevi intuito, non è vero amico mio? –

Non era una domanda, ma palesemente un’affermazione. Ciò nonostante il camionista annuì.

-      Avevo notato le kitsune a guardia dell’ingresso… -

Yamato rizzò impercettibilmente la schiena: il digimon di Rumiko aveva l’aspetto delle kitsune, le leggendarie volpi messaggere di Inari. E si era dimostrato altrettanto enigmatico. Prese appunto mentalmente di quella constatazione.

Voltandosi incontrò la fronte corrugata di Hisashi: ipotizzò che il sacerdote fosse di nuovo riuscito a carpire solo frammenti dei suoi pensieri riguardanti Rumiko. Ghignò soddisfatto.

L’anziano tornò a rivolgersi a Masahiro.

-      Le kitsune, mio caro Masahiro, si dice che abbiano protetto il Tempio in periodo di guerra. E non mi riferisco a quelle riproduzioni in pietra… -

-      Che significa? – domandò Gabumon – Credevo che le kitsune fossero volpi leggendarie, fantasticherie… -

-      Fantasticherie? – gli sorrise l’anziano – Curioso che sia proprio tu a fare quest’osservazione. Non sei forse tu stesso, in quanto abitante di un’altra dimensione parallela alla nostra, una creatura chimerica per la maggior parte degli Umani? Eppure sei qua, in carne e ossa di fronte a me. – gli accarezzò gentilmente il capo – Nel giro di diversi secoli le storie tramandate oralmente sono state storpiate e hanno perso i contorni, portando fino a noi solo pallide immagini di ciò che è stato. Ma tutte queste storie concordano sul fatto che le kitsune siano creature misteriose, che agiscono in maniera spesso oscura. Sovente ingannano le persone tramite illusioni, si dice che possano entrare nei sogni e persino… piegare il tempo e lo spazio… -

Si rivolse a Palmon, che li fissava colma di meraviglia.

-      Non mi stupirei troppo se fossero in grado di viaggiare attraverso i mondi. Voi vi servite di portali, spesso aperti tramite computer, giusto? Beh loro non hanno bisogno di altri mezzi se non il loro immenso potere –

-      Sembri conoscerle bene, Hisashi… - lo punzecchiò Yamato.

-      Ammetto che l’argomento mi ha sempre affascinato molto. – si rizzò il sacerdote, guardando con occhio compiaciuto il ragazzo – Dunque ogni volta che ne ho avuto occasione mi sono informato di più sull’argomento. –

-      Immagino non si riferisca solo ai libri ammuffiti di una biblioteca. –

-      Yamato! – lo rimproverò Mimi.

-      Yamato ha ragione, Mimi – le sorrise cordialmente Hisashi – I libri sono nulla in confronto a un’esperienza dal vivo, direttamente a contatto con l’oggetto dei tuoi studi –

-      E immagino che tale “contatto” sia avvenuto a New York, diciamo…un anno fa? –

Il sacerdote rimase un attimo basito e Yamato se ne accorse.

-      Molto bene, Hisashi – sorrise trionfante, infilandosi le mani nelle tasche dei jeans neri e poggiandosi a una parete – Credo che venire fino qua sia stata un’ottima idea –

L’uomo sospirò sconfitto: nei pensieri del giovane c’erano troppi buchi neri perché potesse decifrarli. Evidentemente il motivo per cui era venuto al Tempio aveva a che fare con gli eventi accaduti in America un anno addietro. Ma che correlazione poteva avere tutto ciò con le kitsune, cui il biondo sembrava stranamente interessato?

-      Ammetto che hai stuzzicato la mia curiosità, Yamato. Ma ogni cosa a suo tempo. – si rivolse a tutta la compagnia – Vi devo pregare di attendere in questa sala fino al mio ritorno. –

Mimi parve turbata, forse all’idea di poter perdere il “maestro” che l’avrebbe istruita sul suo potere.

-      Tornerai presto, vero Hisashi? –

Lui rise gentilmente della sua preoccupazione.

-      Tranquilla Mimi, mi assento il tempo di portarvi una bevanda da me appositamente preparata affinché i tuoi amici rimangano svegli. Poi potremo parlare del tuo nuovo potere e delle voci che senti…anche di quella debole che hai udito pochi minuti fa. –

Lei arrossì, imbarazzata per non esser stata onesta.

-      Ma… - esitò – sarà stato il pensiero di qualche donna nel Tempio… -

L’anziano scosse il capo.

-      L’unico sveglio nel Tempio sono io… - e si allontanò, lasciandoli soli.

Mimi corrugò la fronte: non aveva nemmeno capito cosa avesse detto. Tentò di concentrarsi, tentando di ricordare quella voce fievole.

-      Mimi, cosa…? –

-      Silenzio, Palmon, ho bisogno di concentrarmi… - le disse gentilmente ma in tono fermo.

Chiuse gli occhi, tentando di isolarsi da tutto ciò che la circondava. Eppure le sue orecchie captavano ogni più debole suono: il respiro dei presenti, il fischio del vento all’esterno, l’armeggiare di Hisashi con tazze e tegami della stanza accanto… Avrebbe dovuto tapparsi le orecchie per non sentire nulla di tutto ciò e permettere alla mente di afferrare quello che i suoi sensi non potevano.

Non aveva mai dovuto sforzarsi di “sentire” qualcosa, i pensieri delle persone le erano sempre giunti automaticamente, senza che lei li cercasse. Per di più non sapeva a chi appartenesse quella voce, dunque come l’avrebbe trovata? Era come lanciare un arpione tra le onde del mare sperando che là sotto vi fosse un pesce.

La similitudine le fece venire in mente un’idea: se arpionarlo era difficile, quasi impossibile, allora avrebbe teso una rete, attendendo che il pesce vi rimanesse impigliato. Non aveva idea di come applicare questo piano strampalato, dunque fece l’unica cosa che le venne in mente: immaginò veramente di stendere una grande rete tutto attorno a lei, diramando il suo pensiero in tutta la stanza, dilatando il più possibile la sua percezione. Tenne gli occhi chiusi, timorosa che se li avesse aperti quella maglia si sarebbe dissolta.

“…to…”

Eccola.

“…uto…”

Si concentrò maggiormente, stringendo la rete attorno a quelle parole fluttuanti.

“…aiuto…”

Ora riusciva a captarla con più facilità. Era senza dubbio una donna…e a Mimi sovvenne una strana sensazione di dejà vu. Dove l’aveva già sentita? Ma soprattutto, a chi apparteneva?

Anche se più chiara, sembrava sempre provenire da un luogo molto lontano. Ma quanto? Che provenisse dalla città sottostante? O dall’ospedale? Eppure fino a quel momento era stata in grado di percepire i pensieri solo delle persone nelle immediate vicinanze. Che le sue capacità si fossero sviluppate fino a quel punto?

Non aveva mai provato a comunicare mentalmente con qualcuno, ma decise di tentare.

“ Dove sei?”

Silenzio. Nessuna risposta. Poi…

“…non lo so…”

Mimi sobbalzò per la sorpresa e quasi aprì gli occhi. S’impose di mantenere la calma e non perdere la concentrazione.

“ Perché hai bisogno di aiuto?”

“…perché non so dove mi trovo…”

“ Chi sei?”

Nessuna risposta. Mimi ipotizzò che la donna fosse indecisa se dirle o meno il suo nome. Non poteva darle tutti i torti, in effetti: se già si trovava in difficoltà, sarebbe stato imprudente fidarsi di una completa estranea.

“ Ascolta…posso capire che non ti fidi di me, dato che non sai chi sono. Forse quello che sto per dirti per te non avrà alcun significato, ma mi chiamo Mimi Tachigawa e sono una digiprescelta”

Di nuovo silenzio.

“ Ancora non ci capisco nulla in questa storia, lo ammetto, ma se me lo concederai farò di tutto per aiutarti. Fidati di me!”

“…mi chiamo Rumiko Kitamura…”

 

Mimi svenne.

 

Riaprì gli occhi, lentamente. Si trovava ancora nella stanza di prima, stesa sul pavimento.

Le ci vollero alcuni secondi per fare mente locale, poi si lasciò sfuggire un urlo per la sorpresa, portandosi entrambe le mani a tappare la bocca.

Di fronte a lei, i compagni la guardavano sconvolti e preoccupati. Hisashi era inginocchiato davanti a lei, attento e pensieroso.

-      Mimi, che è successo? – le accarezzò una gamba Palmon, in apprensione.

Ma la ragazza non rispose, gli occhi sgranati e colmi di lacrime che esitavano a scendere, lo sguardo perso nel vuoto.

-      Mimi… -

I richiami ansiosi del digimon la riportarono alla realtà e abbassò le palpebre, lasciando che le lacrime rigassero le guance.

Trasse un profondo respiro, poi riaprì gli occhi, voltandosi verso Yamato.

-      Yamato… Ho udito una voce, una voce lontana, simile a un eco… -

Lui l’ascoltava senza battere ciglio.

-      Invocava aiuto…le ho chiesto perché…mi ha detto che non sa dove si trova…le ho chiesto come si chiama… -

Mimi trasse un profondo respiro.

-      Rumiko Kitamura –

 

Yamato non si mosse. Assaporò quel momento di silenzio, in cui nulla si udiva, fuorché il sibilare del vento all’esterno.

Il vento… Immaginò i lunghi capelli color caramello di Rumiko ondeggiare nella brezza, leggeri e fluidi come onde calde. Immaginò di catturarne una ciocca per farla scorrere tra le dita, morbida al tatto. Immaginò le sue esili spalle tremare impercettibilmente per la corrente fredda e il suo volto corrucciato: di sicuro quel luogo ventoso era una trovata di Yamato, che per farle una sorpresa non le aveva detto di vestirsi più pensante. Immaginò di trovarsi in cima a una scogliera: di fronte a loro il mare blu, dietro di loro il bosco verde. Immaginò di sorriderle e stringerla tra le sue braccia: lei dapprima avrebbe protestato un po’, poi di sarebbe lasciata andare, accoccolandosi contro il suo petto caldo. Immaginò la testa di lei poggiata comodamente sulla sua spalla e la sua reclinata sul capo di lei: i suoi capelli profumavano di lavanda. Immaginò di sfiorarle il collo candido con le labbra, procurandole un leggero brivido di piacere, per poi risalire più su, accarezzandole il mento e giungendo infine alle sue labbra rosee. Immaginò di perdersi in quel attimo di pace solo per loro, inebriandosi del suo profumo e traendo piacere dal suo corpo esile abbandonato al suo.

L’avrebbe protetta, sempre. A qualunque costo. Per tutto ciò che era, per le sensazioni uniche e meravigliose che sapeva regalargli, per i momenti di lite e per quelli di serenità. Perché una volta vista la luce, non poteva più accontentarsi di vivere nella penombra. Perché con lei tutto aveva un senso e senza di lei niente più ne aveva. Perché la amava.

Riemerse dai suoi pensieri e tornò a rivolgere la sua attenzione a Mimi, che lo fissava in attesa di una reazione.

Le sorrise rassicurante e sereno come non lo era da diversi giorni.

-      Lo sapevo – le disse in tono calmo.

-      Come?! –

-      Lo sapevo, Mimi –

-      Ho capito cos’hai detto, non sono sorda! – rispose la ragazza, cui la compostezza dell’amico di fronte a una tale sconvolgente rivelazione stava facendo perdere quella poca calma che aveva mantenuto fino ad allora – Ma come facevi a sapere che non era morta?! –

-      Me l’ha detto la sua kitsune – ammiccò a un esterrefatto Hisashi.

Mimi scosse tragicamente il capo.

-      Tu sei tutto matto…seriamente, Yamato, credo che quel incidente in moto ti abbia mandato fuori di testa… -

-      Pensala come vuoi – alzò le spalle il biondo, con fare indifferente – ma io non ho mai creduto che lei fosse morta…non del tutto se non altro…e a quanto pare avevo ragione –

-      E cosa c’entra la kitsune? –

-      È il suo digimon, Mimi…ha le sembianze di una kitsune ed è stata lei a dirmi di avere fiducia. –

-      Questa è bella, il cinico Yamato Ishida che ha fiducia…non ci credo nemmeno se lo vedo! – replicò lei, tagliente.

Lui la trafisse con uno sguardo glaciale, zittendo sul nascere ogni battutina.

-      Io ho fiducia in lei. Non credo che tornerà in questo mondo, ne sono sicuro. E, dati i precedenti – aggiunse, in tono velenoso – direi che tu sei l’ultima persona a potersi permettere un commento al riguardo, non trovi? –

Mimi deglutì nervosamente.

-      N-non p-potevo fare n-nulla… - balbettò.

-      Lo so, Mimi, lo so…la prima volta avresti dovuto avvertirci di quanto stava accadendo a New York ma non hai potuto…la seconda hai tentato di ucciderla per risvegliare Angstmon e non hai potuto opporti… - le sollevò il mento con un dito, per costringerla a guardarlo negli occhi – Dopo tutto quello che è successo, lei è ancora viva, da qualche parte, e chiede aiuto per tornare qua. Come si suol dire, non c’è due senza tre, giusto? Il Destino sembra abbia voluto metterti alla prova, cara Mimi…ma la domanda ora è: questa volta, potrai aiutarla? E bada: lei sa chi è la Prescelta che un anno fa non è corsa in suo aiuto a New York. Se le hai detto il tuo nome e lei ha comunque deciso di fidarsi di te, fossi in te non l’abbandonerei…un’altra volta. –

E detto questo s’alzò, lasciando una piangente Mimi seduta a terra.

 

-      Yamato! –

Il biondo sedeva ai piedi di un salice nel cortile del Tempio. Si voltò verso il suo digimon.

-      Dimmi, Gabumon. –

-      Non ti pare di aver esagerato? – lo rimproverò.

Il biondo scosse il capo.

-      No, non credo proprio. Anzi, un giorno me ne sarà grata. –

Il digimon lo guardò perplesso e Yamato lo invitò a sedersi accanto a sé.

-      Vedi, Gabumon, per quanto teoricamente quanto è successo non sia colpa sua, sta di fatto che lei si trova coinvolta in questo grande pasticcio. Non ho detto che sia tutta opera sua, ma è innegabile che non può chiamarsene fuori semplicemente dicendo che non poteva fare altrimenti. Soprattutto non di fronte a Rumiko, che prima ha dovuto cavarsela da sola senza il suo aiuto, poi ha addirittura dovuto difendersi dai suoi attacchi. –

Sospirò.

-      Rumiko ci odia, sai, Gabumon? Odia me e tutti gli altri Prescelti. Ma più di tutti credo che odi Mimi, perché si trovava a New York e avrebbe potuto correre in suo soccorso per prima. Ovunque si trovi adesso, sono sicuro che sta cominciando a capire come sono andate realmente le cose, del perché Mimi non si sia comportata come avrebbe dovuto. Ma se io fossi in lei, non potrei comunque fidarmi di persone che mi hanno già abbandonata una volta, lasciandomi da solo ad affrontare un nemico tanto potente, a sobbarcarmi il peso del dolore per la morte di tante persone, persino di mia madre…in particolare, non potrei fidarmi di Mimi. –

Gabumon annuì tristemente.

-      Eppure lei le ha rivelato il suo nome…ha voluto fidarsi di Mimi, dunque lei dovrà aiutarla, non esistono “non posso” questa volta. Ed è bene che se lo metta bene in testa, che si assuma le sue responsabilità per quello che è successo e faccia tutto il possibile per porvi rimedio. –

-      E tu, Yamato? Che farai? –

-      Io? – gli sorrise il biondo – Io farò anche l’impossibile per riaverla. –

 

 

 

Continua…

 

 

 

N.d.a:

I “kami” sono le “divinità” in giapponese.

 

Chiedo scusa per le imprecisioni, esagerazioni ed errori, che sicuramente saranno molti.

Per quanto riguarda i contenuti, come avrete intuito siamo entrati nel vivo della storia: l’intreccio è arrivato al culmine, i protagonisti stanno per mettere le mani nella matassa degli avvenimenti, pronti a snodarla e trovarne il capo. È solo questione di giorni.

 

Spero continuerete a leggere e commentare, nonostante le LUNGHE pause tra una pubblicazione e l’altra.

Buon proseguimento di lettura.

Monalisasmile

 

 

 

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Capitolo 25
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Capitolo 25

 

“ Ascolta…posso capire che non ti fidi di me, dato che non sai chi sono. Forse quello che sto per dirti per te non avrà alcun significato, ma mi chiamo Mimi Tachigawa e sono una digiprescelta.”

Rumiko si era irrigidita istintivamente. Aveva capito perfettamente chi fosse quella ragazza e le sue parole avevano per lei più significato di quanto immaginasse.

Serrò la mascella: il Destino sembrava averci preso gusto a giocare con lei, facendo sì che il suo unico appiglio al Mondo Reale fosse proprio colei che l’aveva mandata nel posto in cui ora si trovava. A pensarci quasi le venne da ridere: che situazione assurda!

Fu tentata di liquidarla in tono sprezzante, ma preferì non risponderle. Che se ne andasse al Diavolo quella maledetta Prescelta e tutti i suoi compagni bugiardi!

Vide sua madre scuotere il capo, ma la ignorò. Erano loro la fonte di tutti i suoi guai e della sua sofferenza, non li avrebbe perdonati tanto facilmente.

Si chiuse in un ostinato silenzio.

“ Sei sempre stata piuttosto cocciuta, come tuo padre…” le si avvicinò la madre.

“ Tu li perdoneresti tanto facilmente?!”

Emi le sorrise dolcemente e Rumiko sbuffò.

“ Che domanda idiota: ovvio che tu li perdoneresti. Ma io no. Non posso dimenticare quello che mi hanno fatto, quello che ti hanno fatto.”

“ Nessuno ha parlato di dimenticare. Ma credevo che fossero tuoi amici…”

“ Lo credevo anche io…” le rispose in tono sarcastico.

“ Rumiko…” l’ammonì gentilmente la donna.

“ Sì sì lo so, loro non hanno colpa per quanto è successo a New York…risparmiami, l’ho già sentita.”

“ Non siamo in un tribunale, non ci sono giudici che possano sentenziare chi ha colpa di cosa” la redarguì severamente Emi “ Tu vuoi bene ai tuoi amici, lo so, e loro ne vogliono a te. Ostinarti a odiarli è ingiusto nei loro confronti…e anche nei tuoi, che così facendo ti fai solo del male.”

“ Cosa ti fa credere che la cosa mi sia dannosa?”

“ La solitudine ti rende forse felice?”

Rumiko non rispose.

“ Tesoro…pensa a tuo padre, ai tuoi amici…non ti mancano? Preferisci stare in questo luogo informe e incolore piuttosto che tornare a riabbracciarli?”

Rumiko pensò a suo padre. Lo immaginò sofferente e inconsolabile seduto a tavola nella loro cucina. Era solo, in un appartamento deserto e silenzioso, il volto stanco e scavato, sul piatto una cena misera preconfezionata e riscaldata al microonde dopo una dura giornata di lavoro. Sembrava incredibilmente invecchiato. Sulle pareti gli aloni bianchi ricordavano che una volta lì vi erano appese delle fotografie, raffiguranti splendidi paesaggi, scorci di città e scatti a sorpresa della figlia ormai scomparsa.

La sua mente volò a una foto in particolare, una volta appesa nel corridoio d’ingresso. Quello scatto immortalava una parte di quella figlia, una parte oscura ai più, connessa a un profondo legame di amicizia, fratellanza e fiducia.

Ripensò a Foxmon, il suo amato digimon, la sua compagna di tante avventure, la sua migliore amica, l’altra metà della sua anima. Ne avevano passate tante insieme, eppure le aveva voltato le spalle, cacciandola malamente. Perché aveva paura e il suo cuore era pieno di rabbia e dolore. Non tanto verso Foxmon, quanto verso se stessa. Inconsciamente aveva preso a considerare il suo digimon il mezzo tramite cui aveva compiuto quel massacro, un’arma pericolosa che lei non aveva saputo utilizzare con dovuta cautela. Solo più tardi si era accorta dell’errore madornale di giudizio che aveva commesso: era stata crudele a definire il suo digimon un’arma di distruzione, sebbene l’avesse fatto perché l’amava troppo per dividere la sua terribile colpa con la sua compagna. Ma ormai il danno era stato fatto e non sapeva come porvi rimedio. La testardaggine e il timore di sbagliare nuovamente, ferendola più di quanto avesse già fatto, l’avevano frenata dal fare marcia indietro e rimangiarsi le parole.

Le aveva quindi manifestato il suo disprezzo, sebbene le volesse molto bene. Così come aveva fatto coi Prescelti, sebbene non conoscesse la dinamica esatta degli eventi. Ma era più semplice così: l’odio poteva essere un’utile valvola di sfogo per la sofferenza. Probabilmente Angstmon si era trovato piuttosto a suo agio in un corpo tanto ribollente di rancore.

Poi però il Destino aveva voluto beffarsi di lei e Rumiko si era affezionata, senza saperlo, proprio a quelle persone che tanto s’era ostinata a odiare per tutto quel tempo.

Ripensò a Sora, Taichi, Daisuke e tutti gli altri. Da quando li aveva incontrati ne avevano passate di tutti i colori, tra risate, litigi, incomprensioni, abbracci e lacrime. Lei li aveva aiutati quando poteva e loro l’avevano sostenuta nei momenti di sconforto, con preoccupazione e affetto sincero. Yamato le aveva persino dedicato una splendida canzone…

Già, Yamato…

Ripensò ai suoi occhi azzurri e penetranti come lame, ma capaci di scioglierla come neve al sole. Qualche volta l’aveva scoperto a guardarla di nascosto, ma senza malizia, e aveva finto di non accorgersene. Le piaceva il modo in cui la guardava, come se la volesse accarezzare con lo sguardo. Ricordava il brivido lungo la schiena quando le sue mani la sfioravano gentili, a volte del tutto casualmente. Erano grandi, le dita lunghe e il tocco incredibilmente delicato. Ripensò alla sua voce vellutata mentre cantava la canzone che le aveva dedicato, il trasporto e la delicata passione che imprimeva in quelle parole. Ricordò i suoi sorrisi: ne aveva tanti, uno per ogni occasione, alcuni riservati solo a poche persone. Prediligeva quello ironico, ma mai maligno. Poi c’era quello divertito, che spesso si apriva in presenza di Taichi o Daisuke. C’era quello gentile, che tanto spesso aveva rivolto a Sora. C’era quello comprensivo e compassionevole che gli aveva visto indirizzare al padre mentre tentava inutilmente di districare la matassa dei lumini per l’albero di Natale.

E poi ce n’era un altro, uno che non aveva mai visto rivolgere ad altri, nemmeno a Takeru. Un sorriso tutto per lei, che esprimeva il meglio di lui: la dolcezza, il riguardo nei suoi confronti, la preoccupazione per quando stava male, la felicità per quando la vedeva serena, la pace di quando stavano insieme. Rumiko aveva imparato ad apprezzare e a voler bene a quel ragazzo all’apparenza tanto distaccato e pungente, ma dallo sguardo attento a tutto ciò che lo circondava e sempre pronto a farsi in quattro per coloro cui teneva. Certo, non lo avrebbe mai ammesso, cocciuto e orgoglioso com’era! Ma ciò dimostrava quanto il suo animo fosse in realtà semplice e generoso.

E prima che se ne rendesse conto, i suoi sentimenti erano mutati ancora, diventando qualcosa di più profondo e intimo, qualcosa cui non sapeva o forse non osava dare un nome. Ma una cosa era innegabile: quando lui l’aveva baciata, la notte di Natale, il cuore aveva preso a batterle furiosamente nel petto e, per la prima volta da tanto tempo, si era lasciata completamente andare a sensazioni fortissime e sconosciute.

Con la mente tornò a quei brevi attimi di intimità, ricordando la sensazione delle sue labbra sulle sue, del suo odore tranquillizzante, delle sue braccia forti che la stringevano contro il suo petto caldo. Ricordò la sua schiena spaziosa e le sue ampie spalle. Ricordò la sua voce roca mentre le sussurrava all’orecchio.

Però tutto ciò cominciava già ad apparirle lontano e sfocato. Possibile che il tempo stesse già sbiadendo i suoi ricordi?

Ripensò ai momenti passati insieme. Quante volte avevano litigato? Tante, troppe… eppure lei non aveva mai smesso di pensare a lui.

Strinse i pugni, desiderando improvvisamente di esser stata meno orgogliosa. Se fosse stata solo un po’ più comprensiva e accondiscendente, se gli avesse dato modo di spiegarsi, anziché voltargli le spalle, lui in quel momento non la odierebbe…

Quel pensiero la fece tremare. Era la prima volta, da quando era relegata in quel posto sconosciuto, che pensava a lui e a quello che era accaduto poco prima della sua dipartita. Era stata crudele nei suoi confronti, l’aveva attaccato senza pietà, indifferente a ciò che lui avrebbe potuto dirle. L’aveva aggredito e poi era fuggita. Naturale che lui ora la detestasse… avrebbe dovuto farsene una ragione…

Ma per quanto se lo ripetesse, il suo cuore si dimenava furiosamente, incapace di accettarlo. Yamato era importante per lei. Non sapeva quando lo era diventato, ma ora sentiva che la sua vita non sarebbe stata la stessa senza di lui. Senza i suoi sorrisi, i suoi profondi occhi blu, le sue mani gentili, i suoi baci, le sue battutine sarcastiche e i suoi silenzi pieni di comprensione le sue giornate sarebbero state…

“ Vuote…”

Una volta tornata nel Mondo Reale gli avrebbe rivelato tutto, finalmente, senza giri di parole o omissioni. A partire dall’inizio, gli avrebbe raccontato la sua storia e gli avrebbe chiesto di fare lo stesso. Lui l’avrebbe capita, l’avrebbe stretta dolcemente tra le sue braccia e le avrebbe regalato uno dei suoi sorrisi più belli.

Ma se non avesse funzionato? Se il risentimento nei suoi confronti fosse troppo grande e questa volta non fosse disposto ad ascoltarla e a permetterle di rimediare?

“ Ancora non ci capisco nulla in questa storia, lo ammetto, ma se me lo concederai farò di tutto per aiutarti. Fidati di me!”

Sì, si sarebbe fidata di lei, della ragazza che in passato l’aveva abbandonata al suo Destino. E se lei fosse stata in grado di perdonare quella Prescelta, allora anche Yamato l’avrebbe perdonata, ne era sicura.

L’avrebbe ascoltata, le avrebbe concesso la sua comprensione e lei avrebbe dimenticato ogni sconforto. Le loro vite sarebbero tornate a scorrere serenamente, come prima, tra battibecchi e piacevoli momenti passati insieme.

Suo padre l’avrebbe riaccolta con gioia, così come i suoi amici, ne era certa. Ma se lui, anche solamente lui, le avesse voltato le spalle, allora lei si sarebbe sentita perduta. Aveva bisogno del perdono di quel ragazzo freddo ma sincero, aveva bisogno della benedizione di quegli occhi color del cielo, aveva bisogno dell’assoluzione da tutte le sue colpe e i suoi errori da parte di quella voce vellutata. Ma se non l’avesse avuta, se non avesse riavuto lui accanto a sé, allora…

“…mi chiamo Rumiko Kitamura…”

 

Yamato s’abbandonò sconfortato allo schienale della sedia, chiudendo con un gesto secco l’ennesimo libro. Non era mai stato un topo di biblioteca, preferiva gli spazi aperti all’aria stantia di quei luoghi chiusi e pieni di volumi impolverati. Ma aveva deciso che se voleva capirci qualcosa in quella storia sarebbe stato opportuno informarsi.

Tuttavia dopo diverse ore di ricerche non era ancora riuscito a trovare una risposta alla domanda che lo assillava.

Si portò un braccio sul volto stanco, reclinando il capo all’indietro.

-      Dove sei, Rumiko? – chiese al soffitto senza guardarlo.

-      Yamato? –

Il biondo quasi cadde dalla sedia per la sorpresa.

-      Koushiro?! –

Per un attimo credette di essersi addormentato: che ci faceva lui là?

Da canto suo, il rosso sembrava più che altro turbato.

-      Il Sacerdote mi ha detto che avrei trovato uno dei suoi due ospiti qua… -

Yamato si ricompose, studiando l’espressione lugubre del ragazzo.

-      Tutto bene, Koushiro? Hai avuto difficoltà a raggiungere il Tempio? –

-      Io no… - rispose, chinando il capo.

Il biondo lo studiò un attimo. Il suo fisico era emaciato e il volto un po’ più scavato dall’ultima volta che l’aveva visto all’ospedale degli Svegli. Ma intuiva vi fosse dell’altro, che quegli occhi scuri non fossero solo stanchi, ma anche preoccupati. Capì.

Si alzò per prendere un libro su uno scaffale accanto a Koushiro.

-      Mimi sta bene. – gli disse, senza guardarlo.

Avvertì la tensione abbandonare in parte il rosso e le sue spalle rilassarsi.

-      Non capisco perché sia dovuta venire fin qua, correndo tanti rischi… senza dirmi nulla… - lo sentì bisbigliare.

Capì che Koushiro non sapeva nulla del nuovo potere della castana. Forse avrebbe dovuto dirglielo. Ma intuì che se Hisashi non l’aveva fatto era stato per non dare altre preoccupazioni al ragazzo, che senza dubbio avrebbe fatto di tutto per aiutarla. Dopotutto era giusto che Mimi se la cavasse da sola e che glielo dicesse quando e come ritenesse più opportuno.

-      Per lo stesso motivo per cui sono venuto io… e presumo anche tu: trovare delle risposte. –

Koushiro annuì tetro: aveva capito che per il momento nessuno gli avrebbe rivelato nulla di più. E, conoscendolo, Yamato intuì che questo era uno dei motivi del suo cattivo umore: il Prescelto della Conoscenza non poteva sopportare di non sapere.

Sorrise dell’ironia di quella situazione e gli mise un braccio attorno alle spalle.

-      Tu a quali domande sei venuto a cercare risposta, amico mio? – gli fece l’occhiolino.

Il rosso gli sorrise un poco imbarazzato: non aveva mai passato molto tempo con Yamato e quel improvviso cameratismo era una novità per lui.

-      Voglio scoprire quanto più possibile su Alptraumon. –

Il cantante notò il debole sfavillio che accese quegli occhi scuri: sete di conoscenza.

Sorrise al ragazzo, ammirando la sua risolutezza.

-      Conosci il tuo nemico… - citò il Prescelto dell’Amicizia.

-      Esattamente. E tu, Yamato? Non sei mai stato un frequentatore di biblioteche. Posso aiutarti? –

-      Non saprei, Koushiro… - si grattò il capo imbarazzato – Il tuo aiuto potrebbe essermi davvero utilissimo, visto che questo non è esattamente il mio ambiente naturale… ma se ti dicessi l’argomento delle mie ricerche mi prenderesti per matto. –

-      Prova. – lo esortò l’amico.

Il biondo fece una pausa, soppesando mentalmente le parole.

-      Devo scoprire dove vanno le anime di persone non completamente morte… e come riportarle in vita. –

 

Koushiro spalancò gli occhi.

Si era ripromesso di non manifestare meraviglia per qualsiasi cosa gli avesse rivelato Yamato. Ma una volta udite le sue parole, la mente razionale del rosso aveva avuto la meglio.

Ovviamente non aveva dubbi su quale anima interessasse a Yamato. Da quando si era risvegliato in ospedale gli altri Prescelti gli avevano raccontato dei vagheggiamenti del cantante. Voci di corridoio dicevano che il ragazzo avesse perso il lume della ragione, ma Koushiro non era mai stato un amante dei pettegolezzi, quindi non vi aveva dato retta, preferendo occuparsi del soggetto della sua ricerca.

Ora però si chiedeva se non fossero state fondate.

Un’occhiata al volto di Yamato mise a tacere i suoi pensieri.

Scosse il capo, sconfitto.

-      Tu sai bene che questo va contro le mie idee razionali. – gli disse con onestà – Credo nella scienza e nella verità dimostrabile, non alle superstizioni… -

-      A chi lo dici! – sbuffò il biondo, sorprendendo Koushiro – Mi conosci, ho sempre considerato queste cose nulla più di fandonie ideate da religiosi troppo fantasiosi! –

-      Yamato… - lo ammonì gentilmente l’altro.

-      Lo so, lo so, non sono discorsi da fare in un Tempio. E, credimi, non ci sarei mai venuto in questo posto polveroso e pieno di muffa se avessi avuto scelta! –

Koushiro sorrise, riconoscendo in lui il ragazzo cinico e sospettoso che era sempre stato.

-      Ma questa volta non ho alternativa… - abbassò il tono, perforando il rosso con lo sguardo – Non sono pazzo, al contrario di quello che si dice in giro, e la prova di quello che pensavo l’ho avuta proprio quando siamo arrivati in questo Tempio. Lei c’è ancora, ha comunicato con noi. Non posso dirti come, non ancora, ma non mi riferisco a stupide sedute spiritiche, bensì qualcosa di decisamente reale. Ha detto che non sa dove si trova. Ha chiesto aiuto. E io intendo dargliene quanto più possibile. –

Fece una pausa, senza scostare gli occhi dall’amico.

Koushiro non fiatò, guardandolo rapito e attento: per qualche strana ragione non riusciva a dubitare delle sue parole.

-      Per quanto mi scocci ammetterlo, questo credo che sia l’unico luogo in cui possa trovare delle risposte. E non solo perché è la biblioteca di un Tempio, ma perché si tratta del Tempio che più la può riguardare. –

-      Che vuoi dire? -

-      Questo Tempio è dedicato al dio Inari, cui sono sacre le kitsune. E indovina quali sembianze ha il digimon di Rumiko? Ma non si tratta solo dell’aspetto esteriore: così come le volpi leggendarie, anche Kitsunemon può piegare lo spazio, viaggiando attraverso i mondi… -

Koushiro annuì pensieroso, mentre la sua mente elaborava.

 

-      I miti e le leggende hanno spesso un fondo di verità – ragionò ad alta voce, ripensando all’oggetto della ricerca che era venuto a condurre – Il fatto che si tratti di creature digitali non deve trarci in inganno: è possibile che la loro origine sia antecedente all’avvento dell’informatica nel nostro mondo. Con le nuove tecnologie siamo in grado di trasportarci nel loro mondo, convertendo i nostri corpi in dati, ma ciò non significa che loro non fossero in grado di farlo già tempo fa, forse addirittura secoli prima. –

Yamato non distolse lo sguardo dal Prescelto della Conoscenza.

-      Se così fosse, può darsi che le kitsune dei miti siano molto meno leggendarie di quello che si è portati a pensare. Allora questo Tempio sarebbe stato dedicato proprio al digimon Kitsunemon. –

Aggrottò le sopracciglia.

-      Il Sacerdote Hisashi – riprese il rosso – mi ha riferito che in passato le kitsune hanno protetto questo luogo dalla guerra. Non è da escludere che quei digimon abbiano preso a cuore le sorti del Tempio a loro dedicato: il rischio di esser visti materializzarsi in un luogo in cui la loro presenza era considerata quasi normale lo rendeva un porto sicuro. E può darsi che abbiano lasciato una traccia del loro passaggio… o forse anche di più… –

Prese a passeggiare avanti e indietro, sotto lo sguardo del biondo.

-      Secondo le leggende, tra le capacità delle kitsune vi era quella di potersi trasformare in esseri umani, di solito delle bellissime donne. E se anche in questo vi fosse un pizzico di verità, avrebbero potuto sostare in questo Tempio in veste di sacerdotesse e lasciare una traccia scritta del loro passaggio, magari delle descrizioni dei luoghi che avevano visitato, delle illustrazioni… -

Yamato si tirò uno schiaffo alla fronte e Koushiro sobbalzò per la sorpresa.

-      La fotografia! –

-      Quale fotografia? –

-      Rumiko teneva in casa una fotografia scattata da suo padre. Ritraeva uno scorcio della New York notturna e, in cima a un palazzo, c’era una sagoma femminile: aveva i capelli lunghi, delle orecchie a punta sul capo e teneva una specie di lungo bastone in mano… -

-      Le superdigievoluzioni di alcuni dei nostri digimon hanno sembianze umane, non è da escludere che valga lo stesso anche per Kitsunemon…e se quelle orecchie fossero solo un copricapo o potesse celarle, potrebbe forse mimetizzarsi nel nostro mondo quanto basta… -

Yamato avrebbe voluto mangiarsi le mani per non avere quella fotografia lì con lui in quel momento. Ma se non altro, grazie a Koushiro ora aveva un’ipotesi cui aggrapparsi.

-      Grazie, amico mio… Non vorrei però distoglierti dal motivo per cui sei venuto fin qua… -

-      Non hai nulla da farti perdonare, Yamato, anzi: ho idea che un diario di viaggio di una di queste kitsune potrebbe essere parecchio utile anche a me. D’altronde Rumiko e il suo digimon hanno già affrontato Alptraumon in passato, con un discreto successo, direi. Sono sicuro che fossero molto più preparate di noi sull’argomento. Quindi le cose sono due: o trovo qualcosa in uno scritto lasciato ai posteri, oppure dovrò rivolgermi direttamente a Kitsunemon e Rumiko. –

Yamato gli sorrise, colmo di gratitudine.

 

Taichi avrebbe voluto avere accanto a sé Takeru, il Prescelto della Speranza: forse lui avrebbe saputo infondergli un po’ di fiducia. Ma, ironia della Sorte, la Speranza si era assopita nel momento in cui l’oscurità era scesa sulla città, senza accennare a risvegliarsi.

La situazione all’ospedale degli Svegli stava degenerando sempre più. Poche decine di persone riuscivano ancora a tenere le palpebre aperte, ma a caro prezzo: molti praticavano l’autolesionismo, altri attaccavano rissa perché l’adrenalina della sfida permetteva loro di non assopirsi. Ma non era solo la paura del Sonno a muoverli: i corridoi puzzavano di diffidenza, rancore e morte. Il silenzio era spesso spezzato da pianti e lamenti, grida di rabbia e di terrore. Alcune persone avevano tentato di togliersi la vita, soccorse appena in tempo dai Prescelti e i loro digimon.

Diverse volte al giorno l’aria veniva spezzata dalle urla infernali di Angstmon e di tanto in tanto potevano scorgerlo volare sulle loro teste. Avevano tentato un paio di attacchi, ma il cavallo infernale aveva riso crudelmente dei loro sforzi, scomparendo tra le nubi indenne.

Sandmannmon aveva un’indole altrettanto sadica, ma più dispettosa. Spesso s’intrufolava all’interno dell’ospedale per mettere a soqquadro le cucine o appollaiarsi sul ventre dei Dormienti distesi nei loro letti. Aveva anche fatto incetta delle provviste, ma i Prescelti sospettavano che lo facesse per prendersi gioco di loro, non per cibarsene.

Era stata Sora a suggerire l’ipotesi che il digimon avesse una dieta particolare, dopo che aveva sorpreso Sandmannmon accucciato sul corpo di una ragazza addormentata. Ne aveva fatto parola solo con Taichi, Daisuke, Mei e i digimon, per evitare di diffondere il panico tra gli Svegli già terrorizzati.

Taichi rabbrivì, al ricordo delle parole della rossa.

-      Credo – aveva detto – che Sandmannmon si nutra dei sogni delle persone. –

Inorridì, come due giorni prima nell’udire quella rivelazione. Che essere disgustoso.

Da allora avevano fatto il possibile per tenerlo lontano dai Dormienti, soprattutto dalle donne, per cui pareva avere una certa predilezione. Ma l’orrenda creatura era astuta e spesso riusciva a giocarli, comparendo e dileguandosi come nulla fosse.

Taichi pensò a Hikari e ai suoi genitori, a tutti gli abitanti della città che giacevano ignari nei loro letti. Se la dieta di Sandmannmon era costituita di sogni, sicuramente aveva già fatto loro visita. Ma con quali risultati? Cosa accadeva ai Dormienti quando quel digimon divorava i loro sogni? Un anno prima quella creatura si era insinuata nella mente di Mimi, dapprima controllandola dall’esterno, poi insinuandosi dentro di lei e possedendola. Se solo la Prescelta fosse stata lì avrebbe potuto interrogarla meglio…

-      Maledizione! – afferrando con rabbia la balaustra del parapetto della tromba delle scale.

Aveva bisogno dell’esperienza diretta avuta da Mimi, della razionalità di Koushiro per analizzare le informazioni e della determinazione di Yamato, che l’avrebbe rassicurato e aiutato a tenere i nervi saldi.

Ma Koushiro era partito alla volta del Tempio e Mimi e Yamato erano scomparsi nel nulla coi loro digimon.

Avrebbe voluto andare a cercarli, ma sapeva di non poter abbandonare l’ospedale. Tutto ciò che poteva fare, dunque, era pregare che non fosse successo loro nulla di male…

-      Illuso! – gracchiò una voce a lui ormai ben nota.

Alzò il capo: appeso come un pipistrello pochi metri sopra la sua testa c’era Sandmannmon.

Taichi sospirò, stanco. Sapeva che era inutile tentare di afferrarlo, avrebbe solo sprecato energie.

Il digimon rise, probabilmente leggendo i suoi pensieri. Nessuna meraviglia che i Prescelti non riuscissero a catturarlo, dato che la telepatia permetteva al mostro di anticipare le loro mosse. L’unico momento in cui la sua attenzione veniva meno era quando banchettava dei sogni dei Dormienti.

La creatura color sabbia rise più forte, leccandosi i baffi.

-      Sei perspicace, ragazzo! Voglio farti un regalo: ti mostrerò che fine hanno fatto i tuoi amici! –

-      Non m’interessa, tieniti lontano da me, Sandmannmon. –

-      Sicuro di non volerlo sapere? Eppure uno di loro era il tuo migliore amico… povero ragazzo! Ma si sapeva che aveva perso qualche rotella! – gracchiò, roteando un dito accanto alla tempia e incrociando gli occhi in un’espressione demente.

-      Puoi dire quello che vuoi, ma non ti crederò, bestia maledetta! –

-      E invece dovresti, ragazzo, dovresti! Io non dico bugie, mai! –

-      Sì, certo… - alzò un sopracciglio il Prescelto – e io porto la gonna. –

Il mostro di sabbia rise.

-      Divertente! Sei divertente, ragazzo! –

-      E tu per niente! Vattene! –

-      …altrimenti? – gli sorrise bieco.

-      Altrimenti troverò il modo di farti ringoiare tutte le fandonie che racconti. –

-      Sei sordo o cocciuto, ragazzo? Te l’ho già detto, io non mento mai… dico sempre la verità. Anche alla tua amica Mimi ho sempre detto la verità, lei te lo confermerebbe… -

Taichi esitò un attimo: effettivamente non gli risultava che Mimi avesse detto che Sandmannmon le aveva riempito la testa di bugie. Sicuramente l’aveva ingannata, ma poteva anche aver giocato d’astuzia, senza il bisogno di mentirle.

Ma se così fosse, se davvero il digimon non fosse stato in grado di dire il falso per natura… allora a Yamato e gli altri era davvero capitato qualcosa?

-      Taichi… -

Si voltò, trovandosi faccia a faccia col dolce sorriso di Sora.

-      Ascolta, Sora, Sandmannmon… -

-      Non ha importanza. – gli tappò gentilmente la bocca con una mano – Sei solo stanco e preoccupato. Lo sono anch’io. – gli sorrise tristemente – Ma dobbiamo avere fiducia in noi stessi e nelle persone a noi care. Hai fiducia in Yamato? –

Taichi annuì convinto. Lei sorrise.

-      E hai fiducia in me? – gli chiese dolcemente, togliendo la mano dalla sua bocca.

-      Sì, certo… - arrossì lievemente il Prescelto del Coraggio.

-      Allora ascoltami: non dar retta a questa creatura. Ascolta solo il tuo cuore e le persone che ti vogliono bene e non ti farebbero mai del male… -

Sandmannmon rise di gusto.

-      Tipo chi? Tu? – sibilò velenoso.

Sora lo ignorò deliberatamente, accostando la bocca all’orecchio del ragazzo.

-      Ti amo, Taichi. –

Il mostro mandò un grido di rabbia, conscio di aver perso quella partita e la sua preda. Fece leva sulle gambe tozze e spiccò un balzo verso la finestra, mandandola in frantumi e catapultandosi di fuori come un razzo.

Daisuke e Mei furono là pochi secondi dopo, il fiato corto e lo sguardo allarmato.

-      È successo qualcosa?! State bene?! – s’informò subito lui.

Mei alzò gli occhi al cielo: quel posto stava diventando una gabbia di matti. Avevano sentito le risate di Sandmannmon e la voce nervosa di Taichi. Tuttavia era stato il ringhio furioso del mostro ad allarmarli e poco prima che arrivassero sul parapetto avevano udito l’infrangersi di un vetro.

Quando erano arrivati ai loro occhi si era presentata una scena inattesa: Taichi e Sora si tenevano abbracciati stretti, apparentemente incuranti di tutto il resto.

La riccia sbuffò: in quel momento condivideva la frustrazione di Sandmannmon.

 

-      Yamato, vieni a vedere, forse ho trovato qualcosa! –

Il biondo stava giusto considerando quanto quell’attività si stesse rivelando non solo inutile ma anche controproducente: nulla di meglio di qualche vecchio tomo ammuffito pieno di dati noiosi per addormentarsi.

Ma le parole di Koushiro lo riscossero e si precipitò al suo fianco.

Il rosso gli sorrise incoraggiante e puntò il dito a metà di una pagina ingiallita.

-      Credo di aver trovato qualche annotazione lasciata da una kitsune. – gli ammiccò soddisfatto della sua scoperta.

-      E cosa scrive la nostra volpe? – scherzò Yamato, appoggiando la schiena allo scaffale mentre Koushiro avvicinava una torcia elettrica alle pagine del volume.

Per un attimo Yamato pensò a quanto fossero fortunati a trovarsi in quel Tempio, sufficientemente svegli, provvisti di tutto quanto potesse loro servire e soprattutto, al sicuro dall’influenza negativa di Alptraumon.

Lui e Koushiro ne avevano discusso ed entrambi avevano concordato che quel luogo doveva esser stato rivestito da qualche tipo di protezione, probabilmente opera delle kitsune.

Ripensò a Taichi, Sora, Daisuke e tutti coloro che si trovavano barricati nell’ospedale. Temeva per loro e non essere al corrente di quello che accadeva là gli faceva montare una gran frustrazione. Ma, razionalmente, sapeva che la cosa migliore che lui e gli altri potessero fare era portare a termine quanto avevano iniziato: coloro che erano rimasti dovevano proteggere gli Svegli, mentre chi era andato in cerca di risposte doveva trovarle al più presto, per il bene di tutti. E questo valeva per lui e Koushiro, quanto per Mimi.

La Prescelta della Purezza aveva avuto un ruolo centrale in quella vicenda fin dall’inizio e Yamato era sicuro che non fosse ancora concluso. Il solo fatto che avesse ereditato parte delle capacità del loro nemico la rendeva una carta decisamente utile, sebbene pericolosa. Il biondo pregò che in quei giorni in cui non l’aveva più vista avesse sviluppato il suo potere, imparando a controllarlo.

Lanciò uno sguardo fugace a Koushiro: lui non l’aveva ancora incontrata, ma non aveva fatto altre domande sul suo conto. Yamato ammirò la sua pazienza.

Il rosso si schiarì la voce.

-      Quello che ti leggo è un frammento di una nota risalente a due secoli fa, scritta da una sacerdotessa di questo Tempio. Riguarda il caso di una giovane donna che venne portata al Tempio dopo che, in seguito alla perdita del figlio, ebbe una specie di… - aggrottò la fronte cercando la parola giusta – collasso. –

Fece scorrere le dita sulle scritte sbiadite dal tempo e cominciò a leggere.

-      … La donna è stata distesa di fronte a me e, sotto lo sguardo speranzoso dei compaesani, mi avvicino per guardarla meglio. È bella nella sua immobilità, rilassata come fosse addormentata, fredda come solo la Morte la può rendere.

Dicono che sia deceduta all’improvviso, che il dolore le abbia trafitto il cuore e che si sia afflosciata a terra come un sacco vuoto. Che quando le avevano toccato il collo, il suo cuore aveva già smesso di battere.

Eppure tutto il mio essere freme di gioia e meraviglia nel guardala, con la certezza che la sua anima non sia già partita per il Viaggio Eterno.  

Le sfioro il viso, faccio scorrere le mie dita leggere sul suo collo bianco fino al petto. Percepisco il suo cuore: è fermo e sanguina di dolore. Riesco a fiutare l’odore acre del rimorso.

L’Equilibrio Vitale è stato spezzato e il suo spirito è andato in frantumi. Ora so dov’è andata l’anima di questa donna.

Socchiudo gli occhi e innalzo il mio Canto in una melodia di speranza e di vita. Spero che giunga fino a lei e che le infonda fiducia e coraggio. Poiché non vi è altra forza che possa salvarla se non la sua.

Gli abitanti mi guardano speranzosi e perplessi. Io spiego loro che nulla si può più fare per questa donna, ma che mi occuperò personalmente di seppellirla accanto al figlioletto, affinché la sua anima possa riposare in pace.

È una menzogna, ma non ho altra scelta: l’unica possibilità che il corpo si ricongiunga alla sua anima è che questo le si avvicini quanto più possibile, altrimenti l’anima liberata potrebbe vagare in eterno.

La deporrò dunque accanto allo Specchio.

Più di questo non mi è concesso…

Koushiro si fermò, alzando lo sguardo sull’amico, che sedeva immobile di fronte a lui.

-      Corrisponde a quanto accaduto nel suo appartamento, giusto? – gli chiese il rosso.

L’altro annuì frustrato: le parole della sacerdotessa non avevano rivelato nulla di più di quanto già sapesse, se non che il corpo di Rumiko probabilmente di trovava vicino a uno Specchio e che poteva far affidamento solo su se stessa per rientrarvi. Sempre che ci riuscisse, altrimenti avrebbe vagato per sempre come un fantasma.

In ogni caso in quelle pagine non vi era nulla che potesse suggerirgli dove si trovasse e come aiutarla.

-      C’è dell’altro… - parve leggergli nella mente il rosso.

Il suo tono era esitante e Yamato tornò a rivolgergli la sua attenzione.

-      Quest’altro scritto – esordì Koushiro afferrando un volumetto rilegato in pelle – sembra piuttosto un diario di viaggio, scritto in tedesco. –

Il biondo alzò un sopracciglio.

-      È molto più recente, credo risalga alla fine del 800… -

-      Sai tradurre il tedesco, Koushiro? –

-      No, ma qualcuno ci ha pensato prima di me e ha preso delle note a margine. Con l’aiuto di un dizionario sono riuscito a decifrare il contenuto della parte che credo ci riguardi di più… -

-      Non ti vedo convinto – commentò Yamato, visto che il ragazzo era ancora dubbioso.

-      Sulla prima pagina di questo libro c’è il timbro di una biblioteca. –

-      Pensi sia stato rubato da un sacerdote? –

-      Stento a crederlo. Ma il punto è la biblioteca: l’indirizzo è di New York. –

Yamato aggrottò le sopracciglia.

-      Sono quasi sicuro che un anno fa Hisashi si trovasse a New York. Quindi è probabile sia stato lui a portare qui il manoscritto. –

-      Già, ma non credo sia stato lui a scrivere questi appunti. La calligrafia è semplice e femminile, la trasposizione essenziale, come se si fosse trattato di una seccante incombenza anziché di un genuino interesse… Nulla a che vedere con la preparazione e la dedizione di un sacerdote appassionato dell’argomento. –

Koushiro incrociò lo sguardo del biondo.

-      Credo che sia stata Rumiko a rubarlo e ad apportare questi appunti. –

Yamato sorrise: decisamente molto più verosimile.

-      Probabilmente stava cercando anche lei qualche indizio riguardo il suo nemico. – continuò il rosso, la fronte corrugata.

-      Continui a sembrarmi dubbioso. Rumiko ha scritto qualche strafalcione? –

-      Non è la traduzione a lasciarmi perplesso, bensì il contenuto… ma proprio per questo ho la sensazione che potrebbe esserci utile. –

-      Ti ascolto. –

Koushiro affiancò al libricino dei fogli su cui aveva preso degli appunti personali.

-      Quest’uomo ha viaggiato parecchio, un po’ in tutto il mondo. Una cosa tutt’altro che comune per quegli anni, in cui una tale impresa sarebbe stata non solo molto costosa, ma anche pericolosissima. Alcuni dei luoghi da lui descritti sono decisamente fantasiosi, ai limiti del sovrannaturale. Ma non viaggiava da solo, aveva una compagna inseparabile: Miss Fox. –

Yamato sorrise divertito.

-      Non fa mai riferimento a se stesso come a un Prescelto o qualcosa del genere, il che mi fa supporre che forse erano semplicemente amici, senza avere un rapporto come quello che noi abbiamo coi nostri digimon.

Quest’uomo era uno studioso, interessato soprattutto al rapporto tra i miti e i fatti reali.

Una delle parti più interessanti del suo taccuino riguarda un suo viaggio in Africa, dove è stato ospite di una tribù indigena per alcune settimane. Qui ha appreso molte cose sui loro riti e le loro credenze.

Una di queste riguarda il trapasso: secondo questa tribù, se il decesso avviene in maniera innaturale e infelice, l’anima non può raggiungere l’Aldilà, poiché troppo frammentata e inquieta per staccarsi completamente dal Mondo Reale. In questo caso finisce in quello che loro chiamano il Regno delle Nebbie, in cui si deciderà la sua sorte: se la sua forza vitale è ancora abbastanza forte e riesce a ritrovare l’equilibrio interiore potrà tornare in vita. Altrimenti, se incapace di liberarsi degli affanni, l’anima resterà nel Regno delle Nebbie per l’eternità, macerandosi nel proprio rancore. –

Yamato fece per dire qualcosa, ma Koushiro lo zittì.

-      Fin qua nulla di nuovo, giusto? Solo una delle tante favole che ogni popolo racconta, con lievi varianti. Anche la teoria della resurrezione dell’anima non è una novità. – dette voce alle sue proteste – Ma subito dopo l’esploratore riferisce a Miss Fox di quanto ha udito e la sua misteriosa compagna gli rivela che quel luogo esiste realmente. –

-      Il Regno delle Nebbie?! –

-      Lei lo chiama il Mondo dell’Oblio e lo descrive come un luogo sospeso tra il Mondo dei Vivi e quello dei Morti, in cui nulla cresce e nulla si muove, in cui nulla scandisce il Tempo poiché non vi sono astri nel cielo e in cui regna una nebbia fitta. L’uomo mostra interesse per quella dimensione ignota e chiede alla sua compagna di mostrargli il modo per raggiungerla.

Ma lei si rifiuta fermamente, con grande rammarico dell’uomo.

Le chiede allora se è vero che un’anima non del tutto morta può tornare in vita semplicemente grazie alla sua forza di volontà… -

-      E…? - lo spronò Yamato.

-      Miss Fox dice che – avvicinò il foglio dei suoi appunti per leggere la traduzione letterale da lui fatta – “la Morte non fa concessioni: nulla concede senza ricevere in cambio qualcosa di pari valore”. –

Yamato aggrottò le sopracciglia, lanciando un’occhiata interrogativa all’amico. Ma questi scosse il capo impotente: non aveva idea di cosa potesse bilanciare il peso di una vita…

“ Se non un’altra vita.”

Ma preferì tenere questo pensiero per sé.

 

 

 

Continua…

 

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