Tredici Febbraio.

di past_zonk
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1/3 a crack in the wall of his palace. ***
Capitolo 2: *** 2/3 smokers outside the hospital doors. ***
Capitolo 3: *** 3/3 illusion. ***
Capitolo 4: *** seconda parte: 1/4, amare non è mai un vantaggio. ***
Capitolo 5: *** seconda parte: 2/4, un lenzuolo asciutto color del mare. ***



Capitolo 1
*** 1/3 a crack in the wall of his palace. ***


Spazio dell'autrice: doveva essere una one-shot, e invece la pubblico in tre parti; più che altro è una grossa sega mentale delle mie, con in mezzo dell'angst davvero aberrante, e con un finale indefinito all'inception. Questa serie mi ha fottuto il cervello. Odio questo fandom (non è vero, lo amo con ogni fibra del mio essere)
Buona lettura, gente!
eveyzonk
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TREDICI FEBBRAIO.

1/3 Parte uno di tre - a crack in the wall of his palace.

 

Non ricorda molto del tredici di Febbraio. E' una data che continua ad apparire nella sua  testa, nei suoi sogni, e, senza alcun preciso scopo, nei momenti meno opportuni. Osserva la disposizione di cinque cadaveri ritrovati in una fabbrica abbandonata (dalla location e dall'odore di incenso, un fanatico, dalla pulizia del lavoro, un ossessivo compulsivo, e allo stesso tempo, dalla matrice di certe ferite, un passivo aggressivo. Possibili colpevoli tutti e tre i soggetti, riuniti forse in una sorta di setta), e all'improvviso nella sua mente c'è il tredici di Febbraio. Boom. Flash. Istantanea di un pensiero.

Tredici di Febbraio: 44esimo giorno del calendario, 321 giorni alla fine dell'anno solare, 322 durante quelli bisestili.

Continua l'indagine, facendo qualcosa per cui di solito si sarebbe disprezzato: evita il pensiero, lo scavalca, lo ammucchia nel suo Mind Palace senza prima esaminarlo ai raggi x; ma sente di star facendo la cosa giusta: in qualche modo, il tredici Febbraio lo spaventa. Lo spaventa proprio perché non sa cos'è a spaventarlo, di questo mero pensiero, questa nota scribacchiata al lato di un foglio della sua mente.
Sherlock ha così tante cose scritte nella mente, tanti post-it gialli e verdi, e alcuni rossi (quelli che urlano 'priorità', perché, nonostante tutto, lui
ha delle priorità: evitare che le mani bianche gli si spacchino dal freddo, perché lo odia, controllare che John non scriva qualcosa di imbarazzante su di lui sul blog; John, John, John e ancora John. E' su tutti i post-it rossi, in tutte le variabili possibili: John. John: fagli controllare il frigo; John: non lasciare che legga il vecchio diario dell'Università; John: dì buongiorno di mattina, sai quanto ci tiene).
E se ha imparato a dire buongiorno appena sveglio, può anche imparare a ignorare un pensiero-. Non sarà certo questo a renderlo un uomo comune come gli altri.

Un giorno, è seduto sul divano, il laptop ronzante sulle ginocchia, John è sotto la doccia, e all'improvviso il cervello gli va in crash: è la cosa più spaventosa che gli sia mai successa.Per svariati minuti (Quanti? Due? Dieci? Trenta?) resta totalmente immobile, capace solo di battere ciglio; salivazione azzerata, tremore alla gamba destra, narici dilatate dalla sorpresa, ogni tre battiti di ciglia il soggiorno di Baker Street che viene sostituito da un bianco accecante, ma non totale. Una macchia al lato della sua vista.
Quando riprende controllo di se stesso non riesce ad impedirsi di tremare; una cosa che odia, non controllarsi. Continua a guardare lo schermo del computer, anche se in realtà sta semplicemente carezzando ogni sopramobile del suo Mind Palace. Per un attimo tutto gli era sembrato sul punto di crollare: le colonne portanti infestarsi di crepe, le basi del latino e del francese d'oil tremare, la matematica elementare accartocciarsi, le semplici fondamenta del pensiero mettersi in dubbio assieme a tutto il suo essere.
Cosa sarebbe Sherlock Holmes senza la sua mente?
Quando John esce dal bagno Sherlock ancora non ha il coraggio di muovere un dito. E' semplicemente terrorizzato da ciò che gli è successo.
"Sherlock?" l'uomo bassino si asciuga un punto dietro l'orecchio con la manica dell'accappatoio, arricciando la fronte dalla preoccupazione e osservandolo attentamente. Ogni tanto si pente d'averlo istruito così fedelmente all'osservazione, anche se non ci sarebbe voluto di certo un luminare della deduzione per capire il suo stato di shock.
E mentre John Watson gli si avvicina per controllargli le pupille, la temperatura corporea e vari segni di una patologia qualunque, Sherlock non fa che porsi una semplice domanda: dirglielo o meno?
Opta per un no. Potrebbe essere stata la stanchezza, le notti prolungate senza dormire decentemente, il quarto cerotto alla nicotina sull'avambraccio tre giorni prima. Potrebbe essere stato di tutto.
Potrebbe essere stato il tredici Febbraio.

Il tredici Febbraio 1542 Enrico VIII fa giustiziare la sua quinta moglie, Catherine Howard, per adulterio.

La volta dopo è un lungo sogno.
Una stanza bianca è lì ad accoglierlo.
Osserva i muri immacolati. La mancanza di informazioni da elaborare lo innervosisce, lo porta quasi alla follia. Seduto in un angolo della stanza, chiude per tre volte gli occhi cercando di tornare alla realtà. Non è neanche sicuro sia un sogno. Niente da dedurre, nulla da capire: una stanza bianca e Sherlock Holmes.
Eppure non sceglie di indagare su stesso: il nulla è un'opzione migliore di quello.

Il tredici Febbraio 1633 Galileo Galilei arriva a Roma per il suo processo davanti all'Inquisizione.

Quando si sveglia cerca di trovare uno schema, un pattern, qualcosa, ma c'è il vuoto, ancora una volta, ad attenderlo. Chiama John e gli chiede di portargli una tazza di tè; non ha voglia di alzarsi dal letto.

E' strana, davvero, la sua mente. E' come una gatta gelosa che graffia ogni giorno sulla stessa ferita. Perché nella sua testa, tutto si evolve attorno ad un semplice ed unico pensiero: se stesso. E' per se stesso, per non sentirsi annoiato, che continua a sfruttare le sue sinapsi, è per se stesso, per sentirsi appagato, che lo fa ad alta voce, aspettando gli sguardi estatici dei presenti, è per se stesso che si circonda di John Watson quanto il più possibile, perché lo calma, e lo rassicura, e - anche se sa di non fare su di lui lo stesso effetto -, lo fa sentire protetto.
Certe volte vorrebbe semplicemente essere capace di sentirsi un po' meno egoista. Di sentirsi un po' meno Sherlock Holmes.

 

Una mattina torna da una lunga notte di omicidi e indagini in compagnia della squadra di Scotland Yard, e trova John a pulire l'appartamento con una vecchia canzone di Skeeter Davis in sottofondo.
Si chiama 'The end of the world', e Sherlock proprio non riesce a capire perché lo faccia rabbrividire tanto.
Senza alcun motivo se non l'intenzione d'essere rassicurato, abbraccia John di spalle mentre sta rassettando la libreria. Poggia il mento sulla sua spalla destra e sospira. Quando John volta la testa il necessario per sorridergli, smette di pensare a tutto ciò che ultimamente non riesce ad elaborare, e gli bacia la guancia.
John, John, John, John. Si rintana in questa progressione matematica pura e semplice, linee rette di John, John, John, nient'altro.

Il tredici Febbraio 1894 Auguste e Louis Lumière brevettano il Cinematographe.

John sta cominciando a sospettare qualcosa.
Più che sospettare, però, sembra sappia qualcosa. Lo vede nel modo in cui lo guarda, in cui interrompe la lettura del giornale a tavola per controllare la sua espressione. Gli fa pesare le pause che ormai regolarmente si prende mentre sta facendo qualcosa. Gli ha già chiesto quale sia il pensiero che l'assilla; ma come può dirgli che niente lo assilla, letteralmente, che non sa neanche lui cosa sia, che si sente semplicemente strano, che continua ad avere dei vuoti, che certe cose semplicemente non quadrano?

 

E' il pomeriggio prima di Natale, e John è la prima persona al mondo a chiedergli di fare con lui le spese natalizie. Sherlock lo accompagna per negozi lamentandosi, ma sentendosi in realtà meglio di quanto vuole mostrare. E' divertente, irritare John mentre cerca di decidere il regalo giusto per la Signora Hudson, proporgli un paio di manette di peluche , farlo rabbrividire con la sola parola "Immagina", riferendosi alla loro affittuaria.
Quando hanno scelto persino il regalo per l'ispettore Lestrade (un taccuino, davvero, può esserci qualcosa di tanto scontato?), John si volta e semplicemente dice, "Dovremmo scriverci
'da John e Sherlock', sui regali".
Sherlock sente un'ondata di calore salirgli alle guance; arrossire non era decisamente nelle sue opzioni di interazione sociale, e, nonostante abbia insistito per pagare quasi tutto con la sua carta, incidendo sulla scelta di quasi ogni acquisto - tranne il taccuino -, la proposta di John lo spiazza.
Da John e Sherlock.
Sherlock non si meraviglia di quanto i loro nomi suonino bene accostati; sembrano nati per esser scritti l’uno di fianco all’altro, e così dev’essere, lo sa.
Quando tornano a casa, fa così freddo che
John e Sherlock devono respirare l'uno sulle mani dell'altro per addormentarsi.

Non sa per quale motivo, ma pensa che la causa di quello che gli sta accadendo sia la sua felicità. Non è mai stato così felice nella sua vita, prima d'ora, e pensa semplicemente di non essere brevettato per esserlo.

Quando un giorno sale su un taxi, all'improvviso l'abitacolo scuro diventa trasparente, ed è il suo corpo da solo a viaggiare sulle strade di Londra. Come se niente fosse reale, vede i palazzi e le auto attorno a sé svanire e ricomparire come un ologramma.
Quando John lo scuote, il moro osserva il suo volto per un paio di secondi e poi lo abbraccia forte, lo stomaco sottosopra,  gli occhi del tassista che li scruta dallo specchietto retrovisore.

Il chimico Heinrich Caro è nato a Poznań il tredici Febbraio 1834; è l'inventore del primo colorante indaco. Viene ricordato anche per la composizione chimica (H2SO5) dell'acido perossimonosolforico, l'acido di Caro, per l'appunto.

Allo stato puro, l'acido di Caro, esplode quasi sicuramente, così come i suoi sali.

Sono nel letto e John sta giocherellando con un riccio alla base del suo collo, aggrovigliandolo e sgrovigliandolo al suo indice, sovrappensiero.
"John," dice Sherlock, senza sapere però come continuare. Il suo amante risponde con un
hm stanco, come fa quasi sempre quando, dopo aver fatto l'amore, Sherlock gli pone i suoi soliti strani interrogativi. Per il riccio, quei momenti sono come dei nervi scoperti, momenti di riflessione e apertura. Dopo avergli affidato ancora una volta completamente la sua vita, si sente di potergli dire tutto.
"Credo tu te ne sia accorto, ultimamente," inizia, senza poter vedere il volto del biondo. John neanche può vedere il suo, dato che gli da le spalle, ma vi leggerebbe una semplice maschera d'apprensione "Di quello che mi sta accadendo, intendo."
"Sì, Sherlock. L'ho notato."
"Non sono dei veri e propri vuoti, non credo abbiano a che fare con la mia memoria. Non dimentico nulla. Solo..." cerca le parole giuste per esprimere quei concetti "Nulla. Ecco. E' l'unico modo per dirlo. Nulla, non c'è nulla, certe volte."
John non risponde. Continua a giocherellare con i suoi capelli.
Quando Sherlock si volta a guardarlo, per vedere che espressione ha dipinta sul volto, è il terrore che gli si dispiega davanti.
Non c'è nulla.
Nulla, sul volto di John Watson. Un volto indistinto, come pixellato, un'immagine sfocata e spaventosa.
E, "John!" urla, perché non può sopportare che stia penetrando anche nel suo bozzolo felice, non può sopportare che dopo aver espugnato il suo Mind Palace stia passando anche a conquistare John, lui e John,
Sherlock e John, quello che hanno. Non può sopportarlo, quindi chiude gli occhi e inizia a pregare. Non sa cosa, non sa come, non conosce nessuna preghiera, sono solo silenziosi susseguirsi di "John, John, John" e tanti, tanti respiri, più del normale, più del concesso.
Quando si risveglia da quest'incubo, è John che lo sta scuotendo, che cerca una scintilla di razionalità negli occhi di Sherlock, che lo abbraccia e gli dice che tutto va bene.
Per la prima volta, nonostante le braccia di John, Sherlock sente chiaramente che non va bene, no, che niente andrà bene, che non servirà a molto pregare.

Mentre scrive una nota sul suo blog, gli colpisce il cervello: Tredici Febbraio.
Non  una data, non un giorno, non un accadimento:  un contenitore. La sua mente che cerca di dirgli qualcosa. Un grosso cartello d’attenzione affisso ai suoi neuroni.
Riepiloga mentalmente tutti i riferimenti che gli sono venuti in mente sforzandosi di pensare al tredici di Febbraio.
Una regina uccisa per tradimento. Galileo sul rogo assieme alle sue idee. L'invenzione del cinematografo. L'acido di Caro, il colore indaco.
Cerca di disporre gli elementi in maniera che combacino, ma non trova nessun ordine in essi, se non solo vaghi cattivi presagi: omicidio, rogo, illusione, un acido capace di dissolvere, e l'indaco, il colore del risveglio, della spiritualità, la porta del terzo chakra nella tradizione orientale, la malinconia.

Non sa cosa vuol dire, ma ne ha paura.



 

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Capitolo 2
*** 2/3 smokers outside the hospital doors. ***


Note dell'autrice: Ringrazio tutte le persone che hanno inserito la fanfic fra seguite e preferite! E, naturalmente, coloro che hanno recensito:
Maya98: ahah, mi dispiace averti fatto esaurire, diciamo così! La tua recensione mi ha fatto molto sorridere, sopratutto quel 'rileggerò un numero imbarazzante di volte', ahaha! Grazie di cuore per le belle parole : )
Debbysmile:
I tuoi complimenti sono davvero, davvero troppo gentili e garbati. Non so come rispondere, come mio solito, se non con un grande grande grazie! Spero di non deluderti :)

Il capitolo è un po' corto, ma la prossima parte sarà quella finale e credo sarà circa il triplo. Insomma più grande dei primi due messi assieme. Non sono molto sicura del metodo dietro la divisione dei capitoli, ma è quello che mi sentivo di fare.
Peace and Love, gente.

eveyzonk




2/3  Parte due di tre - smokers outside the hospital doors.

 

E' mattina.
E' seduto al tavolo e sta leggendo il giornale, prima che John se ne impossessi dispettosamente come suo solito. E' di buon umore, e non gli accade spesso di esserlo di mattina, quindi se ne rallegra ulteriormente: sarà qualcosa nell'aria, qualcosa in quella quotidianità che ora ama ma che ha sempre disprezzato prima d'allora. Sono i capelli scompigliati del biondo mentre sbadiglia, porgendogli la tazza di tè sbagliata (quella che dovrebbe essere la sua. Sherlock la riconosce dal colore: niente zucchero), sono le sue espressioni assonnate, il suo buongiorno disordinato e il sorriso che sempre gli rivolge.  Sherlock pensa non ci siano cause più sincere di felicità. Si sente così stupido, ma è così, è John, e non può farci nulla.
Mrs. Hudson canta mentre passa l'aspirapolvere al piano di sotto, ed entrambi ridacchiano guardandosi.  John alza il sopracciglio a sottolineare un acuto particolarmente stonato che raggiunge il suo udito.
Ma d’un tratto Sherlock smette di sorridere. Di punto in bianco, come se fosse stato avvertito dal suo istinto, abbassa lo sguardo alla tazza di tè fumante fra le sue mani: il liquido al suo interno è già scomparso. E' vuota. E lui non l'ha portata alle labbra per più di due volte.
Deglutisce.
Alza di nuovo lo sguardo verso John, ed ora è lui a non sorridere più, anche se il fantasma del sorriso di poco prima è ancora lieve sulle sue labbra rosee. La signora Hudson ha smesso di cantare.
"Cosa-"
"Sherlock, lo sai cosa."
Solo che Sherlock
non sa cosa, non capisce, sa che non si tratta puramente del suo tè, sa che non si tratta del Tredici Febbraio in sé, ma sa, ora, senza alcun dubbio che John è al corrente di qualcosa. Che non gliene ha parlato.
Perché? - si domanda. Perché John dovrebbe nascondergli qualcosa?
"Non lo so, John, non so cosa tu stia blaterando,” borbotta, ferito.
"Lo sai, invece" dice John, abbassando lo sguardo, come se fosse spaventato, "Ti prego non farmelo dire", il biondo strizza gli occhi, come se potesse scacciare via un brutto pensiero “Ti prego, Sherlock, sii abbastanza brillante da scoprirlo, perché...non posso semplicemente dirlo”. Inspira, poi.
"Cosa? Cosa non dovrei farti dire? Sapevo mi nascondevi qualcosa, non pensavo fosse così importante da turbarti tanto."
"Non sono io a nascondere qualcosa Sherlock, sei tu.
Tu stai nascondendo qualcosa a te stesso, e lo sai" gli occhi di John si strizzano sempre di più, formando piccole rughette sulle sue tempie. Sembra stia soffrendo.
"John, stai bene?"
"Non...posso..." le mani del dottore si alzano a stringere ciocche di capelli, e ora la sua testa è china verso il tavolo. Sherlock vede le sue labbra sbiancarsi "Non posso dirtelo
io...Sherlock..."
Gli occhi di Sherlock schizzano da un particolare all'altro. Labbra stirate: dolore fisico. (Causato da cosa?) Testa inclinata: orgoglio, non vuole mostrare un possibile cedimento. Mani fra i capelli: disperazione. Occhi strizzati: negazione della realtà, non vorrebbe che nulla di questo stesse accadendo (ma
cosa sta accadendo?). Posizione del busto: inclinato verso le gambe, vuole proteggere se stesso ma sa di non poterlo fare (proteggere da cosa?).
"John, chi è? Chi è che sta facendo questo? Droga, terapie, amnesìa? John,
COSA!" Sherlock si alza dalla sedia e sbatte entrambi i palmi sul tavolo. Pizzicorio.
John respira pesantemente, piagnucola quasi, "John!"
"Ti prego, Sherlock!"
"Cosa!" gli si avvicina, si accovaccia alla sua altezza,  cerca di prendergli le mani e sciogliere i pugni che stanno tirando le ciocche bionde. Un tocco, basta un tocco alla pelle di John per capire.
"John." Sherlock si alza, indietreggia. Sbatte contro il mobile della cucina, inorridisce.
E' allora che John Watson si volta e gli dice, negli occhi una paura fottuta, "
Goodbye, Sherlock."

 

"JOHN!"
All’inizio nel buio non riesce a distinguere niente. Cattura l’aria a grosse boccate, ma sente di non prenderne mai abbastanza; sulla fronte si posa sudore freddo, sulla schiena nuda ballano dei brividi.
Un sogno. Era un sogno.
Solo un sogno.
John è nel letto, affianco a lui, un'espressione molto confusa sul volto, i capelli scompigliati (di nuovo), e la voce è roca mentre gli dice "Mettiti a dormire, era un sogno" rigirandosi dall'altra parte, evidentemente troppo stanco per qualsiasi tipo di rassicurazione.
Sherlock trema leggermente e si stende. Fa aderire il dorso della mano alla sua fronte, e passa così il resto della notte.
Non ricorda
cosa aveva capito toccando la pelle di John nel sogno, ma è grato che l'altro sia troppo assonnato per abbracciarlo o consolarlo: ha paura, assurdamente, che sfiorandolo possa davvero accadere qualcosa, che sparisca, che esploda in coriandoli, o che, chissà, smetta di amarlo.

 

La gara con Moriarty continua fino ad un punto di non ritorno: Sherlock è in piedi sul palazzo del St. Barts, si concentra prettamente sui punti del suo piano: una minima deviazione nei suoi pensieri porterebbe a John Watson, al momento il ricercato numero uno nel suo mind palace, l’individuo indesiderato, il pensiero che rende tutto tremolante e incerto. Sherlock non vuole mentirgli, e allo stesso tempo sa che fingere è l’unico modo per accertarsi della sua sicurezza, quindi ingoia con tristezza l’amaro boccone e procede con il piano.
Sentire la sua voce a telefono è un lusso che lo inseguirà pazientemente nei prossimi anni, lo sa, eppure non può pensare di sparire in silenzio, senza che John sia lì, senza i suoi occhi a implorargli di no, non farlo, per i mille motivi ovvi e per le loro mattinate e le loro risate e quelle volte in cui litigare era solo un pretesto per fare la pace.
Lo ama, e chissà cosa avrebbe pensato di lui, questo John Watson. Probabilmente si sarebbe stupito della sua scelta. Se avesse dovuto ipotizzarlo, avrebbe immaginato un suicidio più bohémien per lui, lo sa. Camera d’albergo a fare da sfondo, o forse la stessa solerte Baker Street, una siringa nel braccio o un barattolo di barbiturici o forse una qualche pillola come quelle del tassista pazzo. Ma signori, buttarsi da un palazzo, quanto può essere egocentrico questo Sherlock Holmes!
All’espressione dipinta sul volto del dottore, Sherlock non può che piangere e continuare con il suo bigliettino d’addio parlato. Quando si lancia dal palazzo, alla fine, nella caduta, nell’attimo in cui tutto si ferma e tutto è leggero, aria, palazzi e ossigeno, in quel preciso istante, si rende conto di non avere un piano, di non sapere cosa star facendo, di cadere per davvero. di non potersi fermare e di non saper pensare a niente. John è lì che urla ‘no’, e non basta il tempo dell’ultima sillaba sul palato del dottore, che lui è già prono sul marciapiede, e già chiude gli occhi per lo shock, e si sente disintegrarsi.
Il suo ultimo pensiero è, sarcasticamente, rivolto al Tredici Febbraio.
Poi
muore.



 

Un battito. Due battiti. Tre battiti.
Pausa.
Di nuovo.
Un ritmo continuo e ripetitivo di colpi secchi e vuoti. Le lancette che scoccano i secondi più inutili, istanti che lo dividono dal nulla e da nessun caso e da quel niente più totale sul quale ha ora paura di affacciarsi. Dentro di sé qualche traccia di razionalità lo porta ad aver paura di questa dimensione chiusa e intricata in cui si trova, questo retroscena , questo ‘dietro le palpebre’, che rende tutto più inconsistente e informe.  
Le sue prime parole, appena sente di possedere delle palpebre, e le batte, sono “John”, e poi subito dopo c’è silenzio. Uno statico silenzio di fondo che non ha mai sentito prima. Se si sforza di sentire il flusso dei suoi pensieri, non sente nulla, ancora una volta, se non quel silenzio. Non capisce.
Muove un’altra palpebra e cerca fra le tasche della mente le chiavi del Mind Palace; ma non le trova, e così inizia a respirare più velocemente, comincia a morire dentro, perché ora come ora l’edificio psicologico  potrebbe semplicemente non esistere più, potrebbe essere crollato, distrutto, raso al suolo, sgretolato.
Sherlock ha paura e per questo non apre gli occhi, se non quando sente un rumore di chiavi girare per due volte nella toppa (della realtà, non del suo palazzo), e dei passi calibrati.
“Signor Holmes, s’è svegliato, finalmente, direi,” esordisce una voce maschile.
E’ un uomo alto e allampanato; Sherlock cerca segni del suo passato nel tono della sua pelle, nel modo in cui s’è abbottonato il camice, ma non riesce a vedere niente. Si passa una mano fra i ricci corvini e inizia a sudare freddo.
Non risponde alle parole del medico, lascia sia lui a fare il primo passo.
Il dottore si accovaccia accanto a lui e inizia ad osservarlo con indecisione, come se non sapesse se toccarlo o meno.
“Signor Holmes, come si sente?”
Come si dovrebbe sentire? Guarda il volto dell’uomo e non vede nessun’indizio, come se non fosse più capace di dedurre. Come dovrebbe sentirsi. Come.
“Sarà confuso, immagino.”
“D-dove…” le parole gli escono fuori rudemente, la gola gli brucia. Continua a osservarsi attorno e a sentire quel rumore statico ronzargli nella testa.
“Si trova nell’ospedale St.Petyr di Cardiff, reparto…” tossicchia “psichiatria.”
Sherlock aggrotta le sopracciglia e appoggia la schiena contro le pareti bianche del muro. Nota il letto dall’altra parte della stanza, accanto ad una finestra, e la scrivania infestata di fogli sparsi e penne stilografiche. Sembra un posto vissuto.
Vissuto, ma da chi?
“Moriarty…?” è un sospiro confuso e roco.

John? Lestrade? La signora Hudson?
John?!

In un secondo Sherlock si sente come una rondine in gabbia, sente il petto stringersi e prova ad alzarsi con scarsi risultati, finendo col ricadere con la schiena contro il muro e ritrovandosi le  mani di quell’uomo altissimo sulle spalle. Ha le mani troppo grandi, e una faccia olivastra, probabilmente di origini francesi, piccoli occhi neri e sopracciglia folte.
“Non si sforzi troppo, Signor Holmes”
“Ma…ma…chi è lei?” gli occhi del detective si accendono subito di una rabbia impazzita e senza meta specifica. “Cosa vuole da me? Mi faccia subito uscire di qui, mio fratello occupa--“
“Una carica minore nel governo britannico, già…” il dottore finisce la sentenza con una nota amara nella voce, e un sospiro.
Sherlock non capisce, si dibatte, si dibatte fin quando i suoi occhi non gli mostrano nient’altro che rosso, rosso carminio sulle pareti e sul volto dell’irritante dottore che, a passo veloce, ritorna alla porta della cella per chiamare qualcuno.
Quando un paio di braccia forti lo placcano al pavimento, e un ago gli penetra la vena del collo, Sherlock sente una forte ondata di nausea e, poi, nient’altro. Di nuovo.





 

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Capitolo 3
*** 3/3 illusion. ***



Spazio dell'autrice: Ultima parte.
E' stata un'emozione scrivere questa fanfiction. Un gran bel viaggio. Ringrazio chiunque l'abbia percorso con me. E, chissà, magari ci rivredremo con qualche altro lavoro ;) eheh. Vi lascio alla lettura, grazie come al solito a chi recensisce e mette fra i seguiti/preferiti/ricordati. Siete l'amore, and you make my life an happy one, per dirla a là Sherlock!
eveyzonk.







3/3 parte tre di tre: illusion.



“Signor Holmes...signor Holmes”
Quando riapre gli occhi, le palpebre sono molto più pesanti. Sherlock nota di essere stato portato in un’altra stanza, più luminosa, più arredata. Uno studio, probabilmente quello del dottore che, ancora una volta, gli sta di fronte.
“Signor Holmes, come si sente?”
Nauseato, vorrebbe rispondere, ma non si fida, così rimane in silenzio, osservando con sguardo perso le carte ammucchiate sulla scrivania che gli si para di fronte. L’hanno fatto accomodare su una poltroncina prima che riprendesse coscienza, di modo che non ponesse resistenza.
“Non vuole parlarmi, capisco. Ma lei deve comprendere che io devo sfruttare questo suo stato di lucidità per cercare di capire. Non sono tanti i momenti come questi,” continua l’altro, con tono serio.
“Sono l’uomo più lucido di Londra,” risponde Sherlock, irritato dal fare del medico. Non capisce.
Quello alza un lembo della bocca, ironico “Già. Quando vuole lo sa davvero essere, Sherlock. Posso chiamarla per nome, vero?”
“No. Cosa intende.”
Il dottore sospira pesantemente, unendo le mani in una posizione pensierosa e alzando gli occhietti da roditore al suo volto. Per una volta, è Sherlock Holmes a sentirsi studiato e a non riuscire a fare il contrario; attribuisce questa incapacità a qualche sedativo che gli avranno somministrato, e rimane in silenzio, aspettando qualche delucidazione.
“Signor Holmes, come descriverebbe la sua vita?”
“Le ho fatto una domanda, dottor…”
“Symons.”
“Le ho fatto una domanda, dottor Symons. Non può rispondere con un’altra domanda.” La situazione lo irrita.
“Si fidi, signor Holmes, la mia è una domanda del tutto pertinente. Come descriverebbe la sua vita?”
“Inusuale.”
“Cosa fa per vivere?”
Sherlock sbuffa, gli occhi chiari che volano a osservare il soffitto “Consulente investigatore, ma non si aspetti che ve lo spieghi”
“No, certo che no. Conosco bene, in realtà, la sua vita, signor Holmes…”
“Ovviamente. O non mi avrebbe sequestrato,” sbuffa il moro.
Il dottore non risponde, inizia a frugare, cercando qualcosa in un cassetto della sua scrivania scura di mogano. Estrae un fascicolo di documenti, e inizia a sfogliarli; si ferma per qualche secondo in più su un dato documento, poi glielo porge, aggrottando le sopracciglia.
Sherlock prende fra le mani il foglio bianco e strizza gli occhi una, due volte; ancora non riesce a vedere perfettamente, quindi aspetta di mettere a fuoco e poi inizia a leggere.
Sembra essere un certificato, o forse un contratto.
Il paziente William Sherlock Scott Holmes, inizia la cura nell’ospedale St. Petyr di Cardiff di sua spontanea volontà, accettando la politica interna dell’ospedale e del suo reparto psichiatrico, il giorno Tredici Febbraio dell’anno 2000.
Firma del paziente - W.S.S. Holmes.
Firma di un familiare/tutore: Mycroft Holmes.

Sherlock alza entrambe le sopracciglia, poi ridacchia, roco, gli occhi persi e sconcertati “A che gioco sta-”
“Signor Holmes,” lo interrompe l’altro “quelli sono i documenti che accertano la vostra permanenza in quest’ospedale; vi assicuro la loro veridicità, anche se, conoscendovi, non mi crederete; neanche stavolta.”
Neanche stavolta? Il detective alza un sopracciglio.
“Non è la prima volta che abbiamo questa conversazione, anzi, posso dire di essere ferrato, ormai. So esattamente cosa dire, cosa le farà perdere la pazienza, cosa la spaventerà a morte. Devo dire che questa volta speravo di ritrovarla meno sperduto, ma la vedo anzi più confuso di qualche volta fa.”
“Si spieghi.”
Le dita di Sherlock sono nervose; comincia a tamburellarle sul bracciolo della poltrona nera, osservando quei documenti assurdi. Cosa sta succedendo? Non doveva essere morto? Com’è sopravvissuto alla caduta?
Cosa starà facendo ora John? Conoscendolo, starà mettendo a fare un tè. O forse starà riflettendo, sulla sua poltrona a Baker Street. Ma dev’essere a Baker Street, perché l’idea che non sia lì semplicemente lo ferisce.
“E’ difficile, davvero, signor Holmes, ma sarò il più diretto possibile. Ogni qual volta ho cercato di procrastinarle la verità, lei è diventato sempre più irritabile e s’è richiuso in se stesso, quindi questa volta cercherò di essere il quanto più sincero,” c’è una piccola pausa, in cui sembra stia soppesando le parole da usare, poi: “La sua vita è una bugia.”
La sua vita è una bugia.
Le parole colpiscono Sherlock allo stomaco, anche se sa, con tutto se stesso, che l’unica bugia è quella appena uscita dalla bocca del dottor Symons. Cosa vuol dire ‘la sua vita è una bugia’? Non ha neanche un senso logico. Sherlock esordisce con un mezzo sorrisetto perché è così che reagisce quando non sa come dovrebbe sentirsi. Resta in silenzio, aspettando altre assurde delucidazioni.
“Lei è affetto da un derivato del disturbo istrionico della personalità, un grave e amplificato disturbo narcisistico che l’ha portato, negli anni dell’adolescenza, a ricrearsi un’altra vita. Negli ultimi quindici anni, a causa di vari accadimenti dispiacevoli, la sua condizione è andata peggiorando, portandola ad uno stato di semi-incoscienza dal quale non riusciamo a scuoterla il più delle volte. Fortunatamente, ora è fra noi.”
Sherlock batte le palpebre tre volte di seguito, velocemente.
Ovviamente tutto quello che sta ascoltando non è vero, ma ne è comunque terrorizzato. Sa che è una tattica di qualche nemico, di qualcuno che vuole distruggerlo fin dalle radici; Moriarty c’ha già provato, ma lui aveva vinto, John era salvo, e…
Ed ora è lì, ma non importa. John stava bene, da qualche parte a Londra, e lui era in mano a qualche altro pazzo furioso che cercava di farlo fuori con mezzi poco convenzionali. Era la sua vita, ed era così che andava.
“Molto interessante, dottor Symons, davvero. Non avevo mai subito direttamente questi metodi. Sarà un’occasione per studiarli. Ma mi dica di più, chi sarei io?” dice, con un sorrisetto che dovrebbe far trasparire sicurezza, anche se non ne è del tutto certo.
Il francese sospira ed annuisce, “William Sherlock Scott Holmes. Nato a Londra nel 1976, entrambi i genitori in vita fino all’adolescenza, un fratello maggiore, Mycroft, una famiglia alquanto puritana. Suo fratello sviluppa fin da bambino una particolare intelligenza che lo porta ad eccellere in tutte le discipline scolastiche, e ad essere continuamente elogiato in famiglia. Lei cresce con questo imponente termine di paragone e sviluppa un senso di inadeguatezza che, unito alla naturale ritrosia caratteriale, la porta ad estraniarsi sia in casa sia in termini extra-famigliari. Ha subito atti di bullismo, anche abbastanza gravi, dai dodici anni in poi. A diciassette anni si avvicina all’eroina, ne diventa dipendente; a diciannove anni ha già scritto tre libri dove narra le avventure dell’alter-ego che predilige e sul quale fa ricadere tutto ciò che lei non possiede: Sherlock Holmes, per l’appunto. La morte di sua madre lo fa cadere in un trauma atarassico per circa un anno, poi ne esce, ma solo per ripiombarci quando suo fratello viene arrestato per associazione a delinquere. Un punto di riferimento che crolla, lei si chiude definitivamente nel suo mondo di casi e investigazioni, e ci rimane fino a…ora, praticamente.” Il discorso dello psichiatra è permeato da un tono quasi annoiato, come se lo ripetesse ogni giorno allo specchio. Non ha davvero bisogno di leggerlo dalle carte, sembra farlo per convenzione, per quanto dia l’impressione di conoscere per davvero a memoria la storiella.
Sherlock sente qualcosa alla base dello stomaco tremargli.
“Bene. Vada più a fondo, sono estasiato.”
“Sapevo avrebbe reagito così. Bene, Sherlock-“
“Signor Holmes”
“Bene, Signor Holmes. Sono quindici anni che lei è qui al St.Petyr, quindici anni che vari esperti la studiano e cercano di scuoterla da questo stato di catalessi in cui si trova per la maggior parte del suo tempo trascorso. Vede, la sua mente è quasi sempre nell’altro universo, nell’altra Londra. E’ il suo bozzolo, la sua copertura. Si rifiuta di uscirne, se non quando – evidentemente – succede qualcosa di dispiacevole anche lì. Le andrebbe di raccontarmi cosa è successo questa volta? Se ricordo bene, l’ultima occasione che ho avuto di parlare con lei, poco più che sei mesi fa, era appena uscito da un caso che l’aveva molto turbato. Il caso del violinista, che era poi morto, e nel quale si rivedeva terribilmente. Prego.”
Il dottore inforca un paio di occhiali semi-trasparenti e lo fissa con interesse.
Sherlock alza un sopracciglio e ridacchia “E’ interessato alla faccenda di Moriarty, vero? Era in affari con lui, per caso?” Sherlock cerca di trarre a suo vantaggio la situazione; se l’impostore cerca di trarre informazioni, si sbaglia di grosso: tutt’al più sarà lui ad estrargli qualcosa.
Il dottore sorride, “Il collega Moriarty è di certo in affari con me, signor Holmes, ma non credo nel senso in cui lei intende. E’ stato trasferito in un ospedale scozzese, se le interessa.”
Per un momento quasi ci crede, aggrotta le sopracciglia. Poi si scuote. Nella sua testa, è la voce di John a richiamarlo alla realtà.
“Le ho fatto una domanda, Signor Holmes. Cosa le è successo, ultimamente?”
Sherlock lo guarda in cagnesco. La situazione sta cominciando a turbarlo, così chiude gli occhi e inizia a pensare ad altro.
John. John che fa quel suono strano quando gli prude la gola, perché d’estate è sempre allergico. John che si annoia di portare un ombrello con sé, e lui che proprio non riesce a capire come abbia vissuto in Inghilterra per una vita intera senza mai acquistarne uno tutto suo. John che fa il verso a Lestrade mentre il dato investigatore è troppo impegnato a balbettare dall’imbarazzo per averli colti a baciarsi.
John. Chissà se lo starà bevendo sul serio, quel tè.
“Signor Holmes, lei non mi crede.”
“Come potrei,” sorride Sherlock “lei è davvero un cattivo attore, dottor Symons”
“Naturalmente,” alza un sopracciglio l’uomo olivastro, la voce permeata da quell’acidità tipica del popolo francese, “le sue doti deduttive non sono brillanti come crede, qui
Sherlock rimane in silenzio, stringe i denti e guarda di lato.
“In realtà c’è un pattern alquanto brillante, nella creazione del suo universo. Lei non inventa i personaggi, no, lei è meglio di così. Lei trasfigura le persone che hanno avuto una qualche importanza nella sua vita, e le fa diventare un nemico acerrimo o un qualche sospettato. Se sono persone che stima, diventano aiutanti, in qualche modo. Il vecchio capitano di nave del Missouri, ad esempio; il signor Gregory Lestrade. A quanto pare è colui che dall’altra parte le procura i casi, vero?”
Ancora silenzio.
Il dottore strizza gli occhi da dietro le lenti e continua a leggere “La signorina Molly Hooper, una schizofrenica pura nella realtà, nel suo mondo lavora in obitorio – sì, questa mi ha sempre divertito. La signora Hudson era una sua vecchia insegnante; suo fratello mi disse che aveva la strana abitudine di passare sigarette di contrabbando ai suoi studenti. Irene Adler. Interessante, questa. Frequentava il primo anno di università con lei. Morta per strangolamento, una storia molto triste; c’è scritto che non le rivolse mai la parola; forse provava qualcosa? E infine il dottor Moriarty, il suo primo psicanalista. Non capisco perché l’odio nei suoi confronti si spinga a tal punto da renderlo il suo nemico numero uno, non mi ha mai parlato delle vostre sedute...segreto professionale, ovviamente.”
Sherlock ha quasi paura di porre la domanda. La gola gli pizzica, ma dopo un minuto di silenzio, prende coraggio e chiede, quasi per curiosità: “Cosa mi dice di John Watson?”
Il dottore deglutisce. Sembra preoccupato. Per un attimo rimane in silenzio, si gratta la nuca e i capelli radi.
“Signor Holmes…”
“John Watson, dottor Symon. Si concentri” gli occhi di Sherlock sono un azzurro in tempesta. Il cuore gli batte, lo sente nelle orecchie, la vista è ancora instabile, si sente, d’un tratto, stanco.
“Sherlock, non esiste nessun John Watson.”
Gli occhi di Sherlock si spalancano.
Nella sua mente rielabora le parole più e più volte, riascoltandole come un nastro registrato. Come può anche solo esistere una possibile vita in cui non ci sia il nome John affianco a quello di Sherlock?
Deve mantenere la calma. E’ ovviamente tutta una bugia per indebolirlo, per usarlo, per distruggerlo; tanti ci hanno provato, pochi si sono avvicinati all’obiettivo, nessuno c’è riuscito completamente. Ma ora, evidentemente, ha un punto debole, e ciò lo porta ad essere una vittima di certo più facile. L’amore è uno svantaggio pericoloso. Gli offusca il cervello, quel concetto.
Il dottore lo osserva in silenzio mentre inizia a mordersi un labbro, a tremare. A ricordare. Il nulla che ultimamente permeava la sua vita, che penetrava all’improvviso, che quella notte gli aveva portato via anche John per qualche minuto. Per un attimo valuta che le parole dello psichiatra siano vere.
Per un secondo.
Un istante così insignificante da non dover comportare nulla ma, allo stesso tempo, abbastanza pesante da fargli mancare l’aria, come un pugno alla bocca dello stomaco.
Su quei regali c’era scritto “Da John e Sherlock”, e niente poteva – doveva – cambiare quella verità.
Sherlock batte i denti un paio di volte, nervoso, poi s’alza in piedi, guarda dritto il dottore negli occhi, cercando una traccia di bluff, una crepa in quella maschera. Quando non ne trova alcuna, la testa comincia a pulsargli, la vista ad annebbiarsi, le gambe a formicolare.
Sherlock sviene lì, cade al suolo per l’ennesima volta.

Tre giorni. Tre giorni, cinque ore e tre minuti dal suo risveglio nell’ospedale. Tre giorni di schiena contro il muro, e silenzio, e ascoltare ipotesi meschine. Tre giorni che cercano di convincerlo raccontandogli quella che loro chiamano verità, ma che per lui non è altro che una stupida bugia senza fondamenti.
La stanza è più fredda del solito; Sherlock osserva il soffitto con sguardo perso e non fa che vederci il parato gotico di Baker Street. Non fa che pensare all’uscio bagnato costantemente dalla pioggia, al suo giaccone che insiste a cadere dall’appendiabiti, alla poltrona di John alla quale pensava addirittura di dare un nome. Pensa ai mille registri con le informazioni su casi chiusi da esaminare, la sua versione in giallo dei cruciverba, con lo scopo di scoprire le definizioni di tanti assassinii e rapimenti. Pensa a Londra, a Scotland Yard, alla signora in rosa e all’obitorio del St.Bart’s.
“A cosa sta pensando, Signor Holmes?”
Sherlock si scuote dai suoi pensieri, violentemente, sconvolto di non essersi accorto prima della presenza del dottor Symons.
Non risponde alla domanda, inoltre, e la cosa lascia campo libero alle dissertazioni dello psicologo. In un attimo, sta analizzando il comportamento di Sherlock durante questi tre giorni di apatia, buttando qui e lì una diagnosi tecnica degna di un idiota. Sherlock non lo sopporta, non sopporta ciò che rappresenta e sicuramente non sopporterà ciò che sta per dirgli, qualsiasi cosa sia.
“Le piacerebbe vedere quello che ha prodotto durante questi anni di...cure?”
Prigionia, definirebbe il suo stato attuale, oltre che con l’esclamazione ‘vaffanculo Lestrade vienimi a prendere.’
“Perché sa, durante questi lunghi anni, lei ha effettivamente esternato quello che ha dentro. Ogni volta che si sveglia cerco di mostrarglielo, e lei declina sempre.”
“Mi faccia vedere,” mormora, senza alcun tono nella voce bassa.
Il dottore sgrana per un secondo gli occhi, sorpreso dalla piega degli eventi, e si alza, pronto a chiedere il materiale all’infermiere di guardia alla porta.
Passano in silenzio, i minuti di attesa, e Sherlock non può che esserne felice. Quando infine il ragazzo col camice fa ritorno, Sherlock fa finta di non essere interessato a ciò che porta con sé; osserva con la coda dell’occhio i fogli che tende al dottor Symons, ne sente l’odore e sa che sono disegni. La pittura è tangibile nell’aria. Il dottore si schiarisce la voce, tendendogli il malloppo silenziosamente, attento a non cambiare l’umore del paziente con qualche parola improvvisa.
Sherlock, in risposta, continua a fissare l’altro capo della stanza, anche se la sua mano raggiunge ciò che il medico gli sta porgendo. Infine, quando il dottore si alza e gli da le spalle, probabilmente intuendo lo stato d’animo del moro, riluttante ad osservare quelle prove contraffatte sotto lo sguardo clinico dello psichiatra, Sherlock si permette di lanciare un’occhiata a ciò che tiene tra le mani. Disegni, per l’appunto. China e acrilico, su fogli di carta ingialliti dal tempo - o, per quanto gli riguarda, probabilmente da un trucco fasullo.
Osserva il primo: Londra. Londra di notte. Un lampione solitario in Glentworth Street, la strada opposta a Baker Street, in una nottata senza pioggia. Sherlock passa le dita sul disegno, su ogni cosciente sbavatura, sulla perfetta quadratura del palazzo antecedente la strada, e, infine, con un brivido freddo, sulla firma, posta alla base del dipinto. E’ fin troppo spaventoso osservarla: non riesce a trovare nessuna incongruenza con la sua vera firma, nessuna esitazione nel premere la stilografica su quel foglio, nello scrivere, con la sua stessa maniera un po’ trasandata, il suo nome. Non per intero, ma non una sigla; un semplice, nero, slanciato, “Sherlock Holmes”.
Deglutisce, poi passa a quello dopo.
E’ Molly Hooper. Si porta una ciocca di capelli dietro l’orecchio e guarda per terra, in un’espressione così quotidiana da rallegrarlo, quasi. La bocca gli sembra tremula mentre si alza in un accenno di sorriso.
E così via, procedono le illustrazioni. Lestrade che beve un caffè con espressione stizzita, Angelo che si strofina le mani sporche di salsa, Mycroft che alza gli occhi al cielo. Alcune sembrano più vecchie: un gatto sul ciglio della strada, un cadavere da sezionare sul tavolo dell’università, Victor Trevor che mastica una matita con aria annoiata, il piede dello stesso Sherlock, sullo sfondo una finestra mostrante la campagna inglese della loro casa di famiglia sulle Cotswolds Hills. E’ tutto fin troppo vivido, tutto fin troppo aderente ai suoi ricordi personali, tutto indicibilmente e terribilmente suo.
Alla fine del lungo fascicolo, divisa dal resto, c’è una cartellina rovinata; sul davanti non c’è scritto niente, è solo di un blu spento e sbiadito. Sherlock cerca di aprirla con dita tremanti, poi si prende una pausa. Sa benissimo cosa ci troverà dentro, gli sembra quasi ovvio e scontato: il colpo di grazia alle sue convinzioni. Ciò che loro credono lo farà arrendere dall’urlare è tutta una bugia ogni volta. Nonostante la consapevolezza, non riesce a fermare la mano che va a sollevare la copertina e a mostrare il primo schizzo.
E’ a china, senza alcun colore, un’illustrazione veloce presa quasi con fretta, di John Watson. Dorme sul divano di Baker Street con un libro poggiato sul petto, la bocca leggermente schiusa e un braccio cadente verso il pavimento, in una posizione tragica che quasi ricorda quella di Marat nella vasca o del Cristo della Pietà di Michelangelo. Sherlock strizza gli occhi nell’osservarla. Beve con avidità ogni stilla di quell’immagine, per imprimerla a fuoco in una mente che è in decadimento. Pensa alle circostanze, alla reticenza nel dipingerla, ai soffici respiri di John mentre dorme, al tratto veloce e ansioso. Poi, infine, passa al prossimo disegno.
John Watson, ovviamente. Questa volta i tratti sono più definiti, ma manca ancora di colore. E’ inginocchiato accanto a un bambino che piange per un ginocchio sbucciato; sono al parco, ai grandissimi Paddington Street Gardens, e Sherlock ricorda quel giorno. Il bambino era solo, senza la madre, ed era caduto proprio di fronte la panchina dove John e Sherlock stavano animatamente discutendo di uno scandalo politico; Sherlock non sapeva cosa fare, se non guardare il volto del bambino trasformarsi in una maschera di dolore e rigarsi di lacrime. Ma John sì, oh John era bravo con questo genere di cose. Si era avvicinato al bambino e aveva cominciato a parlargli, non fa così male, vedi? Sei un ometto, non puoi piangere per queste sciocchezze; su rialziamoci ora, prendi il fazzoletto; la tua mamma non c’è?, e così via, fin quando il bambino non gli aveva offerto un sorriso - mancante di un paio di denti - ed era scappato via, continuando a scorrazzare nel parco. Sherlock aveva immortalato il momento con dedizione, con gli occhi di un devoto, con righe forti e inchiostro scuro, e aveva osservato il profilo di John Watson con un trasporto tale da fargli capire, in quel solo momento, quello che stava nascondendo a se stesso da mesi: amava quell’uomo.
Poche persone potevano dire di avere una prova con sé del momento in cui si innamora per la prima volta, e Sherlock Holmes era fra quelle.
Il fatto che quella prova fosse ora fra le sue mani lo rendeva inquieto e angosciato. Sfiorò il volto del biondo con un polpastrello, e passò a scorrere il resto del fascicolo. Era un’evoluzione del suo rapporto con John. La maggior parte dei disegni non ricordava di averli fatti, anche se riusciva a ricordare i momenti in cui s’erano svolte quelle scene: John che, corrucciato, sottolinea qualcosa su un vecchio libro, John che beve il tè guardando fuori, in una giornata noiosa, piovosa e malinconica, John, infine a colori, che lo osserva, dall’altro lato del letto, e gli sorride, ed ha una mano sotto la guancia e l’altra sul cuscino. Ha lo sguardo semi-presente, come se fosse molto addormentato, molto stupido o molto innamorato - probabilmente tutte e tre le cose.
E’ l’ultimo disegno.
L’ultima prova che i suoi secondini vogliono mostrargli.
Sherlock non ci crede. Non vuole credere a niente che non sia quello che ha vissuto. E’ spaventato, terrorizzato, fino al midollo, un brivido gli percorre la schiena mentre le mani pallide, fredde e nodose chiudono il fascicolo e si alzano a toccargli il collo, come per aiutarlo a respirare meglio. Il dottor Symons si volta a guardarlo, “Sherlock…”
“Signor Holmes, mi chiami…” la voce gli si spezza mentre osserva il pavimento “mi chiami Signor Holmes. E se ne vada,” ora è solo un sussurro “se ne vada.”
L’attimo in cui il dottore chiude la porta della sua stanza, il petto di Sherlock si contrae e le lacrime cominciano a rigargli il volto. Guarda il vuoto con orrore, cerca conforto nel pensiero di casa sua, perché è da così tanto che non si stende sul divano e comincia a lamentarsi di tutto, perché gli manca così tanto sentirsi a casa, perché si sente un bambino spaventato.

Un mese di silenzio.
Un mese di semi-digiuno e niente pensieri. La testa di Sherlock sembra essersi svuotata, forse a causa dei sedativi che forzatamente gli somministrano - quando inizia a dibattersi, a urlare di lasciarlo andare -, forse semplicemente perché pensare è diventato troppo stancante e doloroso. Il dottor Symons gli ha chiesto se gli sarebbe piaciuto uscire dalla sua stanza e vedere il reparto, ma lui ha semplicemente scosso la testa alla terza volta in cui gliel’aveva domandato. Passa le sue giornate osservando il soffitto e sbadigliando. I disegni sono abbandonati in un angolo della stanza; non ha osato aprirli dopo la prima volta.
La finestra è alle sue spalle. Sherlock preferisce non guardare fuori; la bellezza della campagna inglese lo rattrista. Quando piove, poi, la lascia aperta, restando immobile mentre le gocce d’acqua gli bagnano il volto ceruleo e i capelli sconvolti.
Un mese di silenzio, e così tante parole strozzate da poterci affogare.

La prima volta che mette piede fuori dalla sua stanza è perché sono sei giorni che non tocca cibo - sei giorni che lo nasconde sotto il materasso - ed è svenuto, troppo debole anche solo per arrivare al letto e stendersi, liscio sul pavimento freddo, la camicia bianca troppo larga sul suo busto cadaverico. Due infermieri accorrono appena se ne accorgono, anche se ne basterebbe anche solo uno per sollevare quello che rimane di lui. Viene spostato in una stanza attrezzata, gli viene somministrata una flebo, e quando le sue palpebre si alzano, la prima cosa che vedè è il tramonto illuminare quella nuova stanza di arancione; poi riconosce il volto topino dello psicologo Symons, in piedi accanto al suo letto.
“Lei non ha mangiato niente, Signor Holmes. Per sei giorni. Vuole per caso morire?”
E’ la prima volta in un mese e mezzo che Sherlock da segni d’attività, con un mezzo sorrisetto sardonico. Morire? Lui?
“Comunque,” continua lo psichiatra, guardando per un attimo in basso “c’è qualcuno qui per lei, che vuole vederla.”
Il cuore di Sherlock perde un paio di battiti, pensando a chi possa essere; quando la porta si apre, ci sono due persone sulla soglia, indecise se entrare o meno. Una è una donna, capelli leggermente più corti di quanto ricordasse, l’altro è un uomo, e sembra sempre lo stesso.
Sherlock salta seduto sulle lenzuola, tirando i tubi e l’ago che lo tengono fermo, gli occhi sgranati “Lestrade! Molly!” è un urlo istantaneo, e sembra essergli tornata la verve d’un tempo. Sono qui per lui, sono qui per lui, per portarlo a casa.
“Lestrade! M-Molly!” gli occhi chiari gli si riempiono di lacrime, la gola gli si chiude, inizia a tremare.
Il dottor Symons esce dalla stanza, lasciandolo solo con i due che si avvicinano imbarazzati al suo letto.
“A-abbiamo sentito che sei stato male,” inizia Molly, a voce bassa. Anche gli occhi sono bassi verso il pavimento.
“Non immaginate” bisbiglia.
Lestrade rimane in silenzio. Lo guarda, invece, con sguardo vacuo.
C’è un attimo di silenzio, dopodiché Molly ricomincia a parlare “Non si parla altro che di te, nel reparto, sai”
“Dì all’intero Bart’s che sto tornando, cara, cara Molly” sussurra il moro, con un l’inizio di un sorriso.
Un sorriso, purtroppo, interrotto dall’espressione della donna. Molly lo guarda con compassione, tristezza e pietà.
“Sherlock...io non lavoro al Bart’s” dice, scuotendo la testa.
“Cos- Perché?”
“Non ho mai lavorato al Bart’s, non sono un medico.”
Lestrade continua a fissarlo in silenzio. Sherlock poggia di nuovo la schiena contro i cuscini, lo sguardo di nuovo vacuo e spento. Non ha intenzione di replicare. Dentro di lui, li sente: i mille frammenti della sua sanità infilzarsi nel cuore, nei polmoni, nel fegato; sente gli organi interni disgregarsi, un procinto di vomito farsi vivo, un malessere forte, un pugno allo stomaco. Non parla. Non li guarda.
“Sono Molly Hooper; siamo stati amici, durante questi quindici anni, quando sei stato cosciente. E’ la prima volta che mi permettono di parlarti dopo il 2006.”
“Cosa è successo nel 2006?” chiede distaccatamente Sherlock, come se non fosse più se stesso.
Molly sorride, imbarazzata “H-hai cercato di...di farmi del male,” sembra spaventata dal ricordo “Ma! Ma lo so che non eri in te, insomma lo eri, ma...ecco, eri sconvolto. Capisco come ci si sente. Sono stata dismessa solo due anni fa, quindi ricordo ancora vividamente come ci si sente. Ogni tanto ho paura ritorni, ma scaccio via quei pensieri.”
E Sherlock vorrebbe dirlo, a chiunque sia la donna che gli si para dinanzi, che non sa assolutamente come ci si sente, che non può immaginarlo, che se anche fosse vero tutto quello che gli hanno detto, lui non desidererebbe altro che tornare, tornare, nel suo mondo, tornare al sicuro e lontano da tutto quel dolore. Il suo corpo è un tempio di disperazione, le sue vene risucchiate di ogni goccia di sangue, i suoi occhi stanchi di svegliarsi sempre nella stessa realtà, la sua mente stanca di non sapere più chi essere.
“Che è venuto a fare, quell’altro?” chiede annoiato Sherlock.
“Greg? Greg non parla,” Molly lancia uno sguardo veloce all’uomo, uno sguardo di tenerezza, di amore. Sherlock brucia di invidia nel vedere che condividono ciò che lui ha perso “Greg ascolta. E’ guarito anche lui anni fa, ma ha mantenuto questa accezione.”
“Beh, non c’è niente da ascoltare. Niente di niente.”
Sono le ultime parole che Sherlock pronuncia.
Quando Molly Hooper si rende conto che non aprirà più bocca, prende l’uomo al suo fianco per mano, ed insieme escono dalla stanza, lasciandolo solo a se stesso.

La volta dopo che esce dalla sua stanza è un pomeriggio, e non è costretto da nessuno. Sono passati cinque mesi dal suo “arrivo” in ospedale. Un’infermiera nuova, di nome Sylvia, gli ha detto che c’è una grande biblioteca, lì. Che durante i turni liberi ci va spesso, e che se proprio non vuole uscire gli potrebbe portare lei qualche romanzo. Sherlock reclama di disprezzare ogni forma di conversazione, dice che farebbe bene a stare zitta mentre pulisce la camera, ma la ragazza insiste. Eventualmente, le da retta. Le chiede di condurlo lì, quel pomeriggio, e lei ne è ben contenta. Chiama un altro infermiere - per sicurezza - e lo guida fuori dalla sua stanza.
Camminare per i corridoi è difficile. Sylvia gli suggerisce di non fermarsi troppo ad osservare gli altri, di procedere con calma. Sherlock è ansioso; se non sapeva rapportarsi alla folla nella sua Londra, figurarsi in questo covo di maniaci. La sua mente si estranea fin quando l’infermiera non gli segnala il loro arrivo.
La biblioteca è grande, ariosa, con enormi vetrate dalle quali entra la luce del sole. Per la prima volta in cinque mesi si sente quasi sollevato da qualcosa. Il suo approccio al luogo è dapprima timido, si guarda intorno circospetto. Poi, quando Sylvia e l’infermiere si allontanano - il giusto da osservarlo senza farsi troppo vedere, ne è sicuro - comincia ad esplorare gli scaffali, a prendere tomi a caso, a sfogliarli. Sherlock perde la cognizione del tempo, e passa lì dentro circa quattro ore. Quando infine è troppo buio per continuare a leggere - un manualetto sull’idrolisi -, Sylvia lo viene a scuotere gentilmente e ad avvisarlo che è tempo di tornare in camera.
Quella notte, esausto, s’addormenta senza troppi pensieri. E’ una giornata di prime volte, e un po’, in un angolino della sua anima, ha paura di abituarsi a questa vita.

Stranamente, sembra davvero tranquillizzarsi; anche se, più che tranquillità, gli sembra una resa silenziosa. Di Sherlock Holmes rimane ben poco; un fantasma smagrito e pallido, uno sguardo non più acceso da tutta quella curiosità di un tempo, un animale domato e silenziosamente calmo. Accetta i sedativi con disinteresse, mangia solo se necessario, legge di tutto e per ore. Saltuariamente, addirittura, rivolge la parola all’infermiera Sylvia. In qualche modo, glielo deve per avergli mostrato la biblioteca.
Ma le provocazioni sono scomparse, le urla notturne pure, e con loro ogni voglia di lottare. Non riesce a tornare alla sua vecchia vita, non riesce a credere che sia stata tutta una sua macchinazione, e allo stesso tempo pensa a Molly Hooper, a Greg Lestrade, ai disegni, ai documenti.
Le settimane passano in una calma bianca e letargica. Come un lungo sonno senza sogni.

Una mattina si sveglia per ritrovarsi quello che sembra suo fratello maggiore seduto alla sua scrivania, il disegno di Victor Trevor in mano, la solita posizione distinta, anche se diversa, in qualche modo. E’ vestito con un semplice cardigan su un pantalone di velluto beige a coste, uno stile che non gli si addice per nulla. Ancora prima che suo fratello apri bocca, Sherlock già sa. O non è lui, o tutto ciò che gli stanno ripetendo da mesi è la verità, perché l’uomo che gli si para davanti non è, per nessun motivo, Mycroft Holmes.
“Che lavoro fai?” chiede Sherlock, guardando fuori dalla finestra.
“Ora o prima?”
“Ora.”
“Niente. Non c’è un posto nella società per un pregiudicato come me.”
Sherlock deglutisce un paio di volte, solo per dire, vagamente, “Tu non sei mio fratello.”
“Non ho mai cercato di esserlo.”
Quel pomeriggio rifiuta l’offerta di Sylvia di recarsi in biblioteca. Invece, rimane tutto il giorno ad osservare la campagna soleggiata dalla finestra.
Passa una settimana senza andarci. Una settimana a riflettere. Eventualmente, inizia a valutare l’idea che sia tutto vero. Mycroft.
Chi avrebbe potuto corrompere Mycroft?
E Molly Hooper. La dolce Molly Hooper che era tanto innamorata di lui.
Greg Lestrade, un uomo giusto.
L’ultimo nome aleggia sulle sue labbra, ma non ci pensa. Non ci pensa da molto tempo, ormai. Sa che cadrebbe in pezzi su quel pavimento, altrimenti.

Lights will guide you home.
And ignite your bones.
And I will try to fix you.

L’equilibrio si spezza al nono mese, una notte. In un sogno.
Sherlock chiude gli occhi e si ritrova al numero 221b di Baker Street. Per un attimo gli sembra di esserci riuscito, a ritornare a casa. Salta due gradini alla volta, una leggerezza nel cuore tutta nuova, poggia entrambi i palmi sulla porta scura e fa irruzione nel loro appartamento. Sente già l’odore di caldo e casa.
Quando scorge la figura di John addormentata sul divano si ferma; immobile, respira, lo osserva, poi trema e si lascia scuotere da silenziosi singhiozzi senza lacrime.
Nella sua mente volteggia la voce del Dottor Symons, non è vero, Sherlock, tutto questo non è reale, ma nonostante questo non riesce a non commuoversi, a non gioire. Perché se anche non è vero, anche se è solo una tragedia della sua mente, anche se durerà per soli due secondi e poi riscomparirà, in ogni universo, in ogni secondo della sua insanità o della sua chiarezza, Sherlock ama John e non c’è altra variabile possibile o contemplabile. Perché una vita vera non varrebbe mille e mille sogni insieme a quell’uomo.
Sherlock lo osserva, gli si avvicina, si accascia accanto a lui, e piange, piange forte e John non si scuote, non lo sente. Sherlock gli tiene la mano e si sente dilaniato da un dolore indicibile, mentre l’altro non si sveglia, perché non può sentirlo, perché non c’è, perché è falso, così irreale e intangibile, e Sherlock sta cominciando a dimenticare persino il suo odore, ed è triste, davvero, davvero triste. Sherlock abbraccia un uomo senza neanche un volto definito, ma sa che nel suo cuore sarà per sempre John Watson, il suo verissimo e caldissimo John Watson, più che un sogno.
Quando si sveglia osserva un’alba chiarissima. E’ un risveglio calmo, il suo. Lento e graduale. Nella sua testa c’è un ordine e una chiarezza tale da farlo sentire quasi in pace.
Guarda dalla finestra gli alberi stiracchiarsi sotto i primi raggi del sole, passa con lo sguardo per le strade sterrate e i campi di fiori, vola oltre ciò che non può vedere e sogna di essere libero. Libero, da ogni cosa. E’ così stanco, Sherlock Holmes. Stanco di non provare nulla o di provare tutto.
Sorride all’alba.

Due ore dopo arrivano giusto in tempo, Sylvia e gli altri infermieri. Giusto in tempo per salvare un uomo sorridente steso sul letto, con il volto ancora bellissimo illuminato dalla luce del giorno, a prima occhiata addormentato, ma dopo vari controlli con un polso inesistente e una pupilla pressoché iper-dilatata e opaca.
Diagnosi: suicidio.
Causa: pillole e sedativi, nascosti in un buco nel parato dietro il letto.
Situazione attuale: coma indotto da barbiturici, tranquillanti e oppiacei. Situazione stabilizzata.



Non voleva davvero morire, o forse sì. L’unica consapevolezza che ha è che, per un secondo, ha pensato che se era tornato alla realtà “morendo” nell’altro mondo, sarebbe potuto tornare lì facendo lo stesso. Un pensiero stupido, forse, ma il calore del corpo indistinto di John e di Baker Street gli aveva fatto compagnia tutta la notte. Era stanco, tutto qui. Anche questa volta, comunque, la sua pellaccia aveva resistito e, nonostante tutto, continuato a vivere.

Sherlock Holmes si sveglia dal coma autoindotto e si rende conto che non c’è più nulla da fare.
In qualche modo, accetta la sua condizione.
Sylvia ogni giorno gli porta una buon tazza di tè e cerca di fare conversazione. Le sedute dal dottor Symons aumentano. Sono tutti spaventati che riproverà a fare un gesto folle come l’ultimo, anche se lui li tranquillizza dicendo chiaramente di non averne nessuna intenzione. Nella sua testa, quasi accetta la voce di John che ogni tanto gli fa compagnia. Non gli risponde ad alta voce, sa quanto sia finta, ma la tiene in disparte come qualcosa di molto bello e molto prezioso.
I mesi passano, le giornate belle si avvicendano. Sherlock Holmes non è quello di un tempo, comincia a plasmarsi, a cambiare, a divenire quasi un’altra persona. Le ferite di quel lungo anno sono ancora fresche dentro sé, ma in qualche modo riesce ad andare avanti, meglio di prima.
Tutti si chiedono cosa sia successo nella sua mente.
Alcuni dottori mormorano sia tornato nel suo mondo per lasciarlo definitivamente, altri che non ha intenzione di vivere per davvero, altri ancora sostengono che in realtà raggiunge il suo mondo nel sonno, e che per questo può sopportare il peso di una realtà; dopotutto, non recuperi in un anno una vita di quindici anni.
Ed è vero. Sherlock lo ammette. Non si sente per nulla recuperato, il dolore nel suo cuore non è rientrato nei margini di quel fiume che è la sua anima, no. Ma c’è qualche altra cosa che ha preso il posto del dolore cieco: la calma e lenta accettazione.
Inoltre, non lo dice a nessuno, non lo racconta, a nessuno, neanche nelle sedute più sincere, che John gli ha fatto visita per ogni giorno dei due mesi di coma. Che gli ha portato ogni giorno bellissimi fiori, che s’è seduto con lui sulle lenzuola azzurrine a giocare a Trivial, che era corso al distributore automatico a prendergli tutti i maltesers che voleva, che era stato lì, proprio vicino al suo letto ogni notte in cui Sherlock non si sentiva ancora pronto a svegliarsi.
Nessuno lo sa, ma in silenzio, hanno avuto gli ultimi momenti che il mondo poteva loro concedere. E si sono salutati, non come in una tragedia, ma come in una ingiallita pagina di romanzo lasciata a fluttuare sulle acque di un lago verde di ninfee. Si sono salutati sfiorandosi la pelle e odorandosi e guardandosi come fossero entrambi da un lato di uno specchio, toccandosi i palmi e sorridendosi.
E’ ora di andare, gli aveva detto John. Ed era così che era finita. Così che la sua vita aveva ricominciato a scorrere.



Epilogo.

E’ una mattina luminosa all’ospedale. Sono passati ventiquattro mesi da quando s’è risvegliato. Ora gli permettono di uscire nel piccolo parco della struttura, di sedersi sulle panchine e osserva le anatre del laghetto. Non sono molti i pazienti a cui lo permettono, ma lui è ora fra quelli. Sono stati due anni di lunghe sedute, di lunghi silenzi, di lunghe giornate senza la luce del sole. Sherlock è grato di potersene beare, ora. Di poter disegnare, con una penna stilografica e un foglio di carta di riso, sulle rive di quel laghetto personale. A Sherlock piacciono le anatre: hanno movimenti sinuosi, mentre si immergono a prendere un pesce e riemergono spennacchiate. Ci sono molti disegni, delle anatre, fra i suoi fascicoli. Il resto dei disegni rappresentano persone del suo reparto, gli infermieri che gli sorridono, i suoi amici pazienti, il portantino di nome Brad che gli passa sempre il telecomando della televisione comune, a patto che non veda solo documentari sulla chimica.
Una leggera brezza scuote le fronde degli alberi, e Sherlock sente un po’ di freddo mentre accavalla le gambe e continua a disegnare.
Questo è un disegno diverso dagli altri, perché, come Sherlock sa bene, è un disegno d’addio. Ogni artista ha il suo testamento spirituale, e questa mattina Sherlock osserva il cielo terso e sa che è giunto il momento. Le linee si susseguono con dedizione e malinconia - Sherlock disegna una panchina, quella di fronte a quella su cui al momento è seduto, disegna il laghetto, le anatre.
John Watson, seduto sulla panchina, lo osserva con un piccolo sorriso, di quelli suoi, di quelli timidi e un po’ reticenti; quei suoi sorrisi tremuli. La mano di Sherlock trema nel delineare i tratti dell’uomo che, nel suo cuore e nella sua testa, ha amato così tanto. Tutti i loro momenti, tutti quei piccoli istanti, sembravano così perfetti, forse anche troppo; Sherlock doveva immaginarlo. Era stato un sogno troppo ovvio, una storia incastonata in uno scenario fantastico; le corse mozzafiato fra le strade di Londra, prendi la mia mano, i casi, i pericoli, le ferite, compra il latte prima di tornare a casa, i piccoli segreti sussurrati fra le coperte, coprire i dolori dell’altro, il Natale a Baker Street, lui che suona il violino e John che sorseggia il tè, i bigliettini sul tavolo, i litigi, le parole sprecate, la quotidianità, gli inseguimenti in taxi, il modo in cui John aggrottava le sopracciglia, i bisogni, i film, gli esperimenti, il disordine, farlo nei posti più strani, il blog, le sue dita, il modo in cui si doveva alzare sulle punte per baciarlo, le sue labbra incastrarsi perfettamente con le sue, le accuse, gli schiaffi, i pianti, le deduzioni, le insicurezze, i suoi capelli biondi, l’amore.
John Watson lo osserva dall’altro lato del laghetto e gli dice addio, questa volta davvero per sempre, con un silenzioso e lento labiale, con un sorriso, con la pace negli occhi.
Sherlock carezza il foglio per un attimo, un ultimo sguardo agli occhi del dottore, un ultimo flash dei momenti più felici della sua vita (perché nonostante tutto, lo è stata, vita, falsa o vera che sia), poi chiude il taccuino.
Mentre s’accovaccia per dare un po’ di pane alle anatre, la luce del sole è così forte da farlo lacrimare. Da farlo accasciare leggermente al terreno e scuotergli la schiena in leggeri singhiozzi.

Sylvia gli regala una sciarpa il giorno in cui lo dimettono. Ha fatto tanto per lui.
Molly e Greg sono lì, anche, e lui addirittura gli sorride. Circa.
Suo fratello lo viene a prendere al tramonto.
Si lascia persino scappare una lacrima, piccola e tonda, prima di prendere i bagagli e uscire dall’ospedale, nel vero mondo.


Era stato strano ritrovarsi in una casa tutta sua. Una casa della quale non ricordava niente, né conosceva i corridoi o la posizione degli interruttori. Ora si era abituato, circa, e cercava di condurre una vita quanto il più normale possibile. Di giorno mangiava ciò che gli andava, e prendeva le sue due pillole giornaliere, leggeva un libro ed aveva persino un gatto. Si chiamava Black.
Proseguiva, così, con tranquillità, con colori pastello e silenzi scossi dal vento, la sua esistenza.
Qualcosa gli mancava, in fondo al suo essere, ma dopotutto non era la stessa persona di un tempo. Non aveva bisogno di casi o di utilizzare un’intelligenza superiore che forse, alla fine, non possedeva neanche.
Così i giorni passavano.

Una settimana dopo il suo rilascio, abbastanza perché Mycroft aveva smesso di portargli la spesa a casa, scende per la prima a volta a fare compere. E’ nervoso, all’idea di dover scegliere da sé cosa prendere, chiedere, e pagare, e fare tutte quelle piccole azioni che insieme l’avrebbero reso un cittadino come gli altri, ma non per questo si impedisce l’opportunità di tornare a vivere.
E’ una bella giornata. Il sole gli scalda la pelle bianchissima e rende i suoi occhi ancora più chiari. C’è una leggera brezza, freddina, anche, che gli rende il naso rosso e i capelli ancora più arricciati e lucidi.
Compie le sue spese con meticolosa calma, attraversando i reparti del supermercato lentamente, prendendosi tutto il tempo che gli serve. In un’altra vita, non sarebbe mai stato così paziente, ma ora sì. Ora l’aveva promesso, e sapeva che non faceva che giovargli.
Le buste non pesano molto, così, invece che prendere un taxi, decide di camminare fino a casa.
Sulla via di ritorno, poco lontano da casa sua, tuttavia, è un odore dolce che gli cattura l’olfatto. Pane, impasto. Croissants.
Si volta giusto il necessario per occhieggiare la panetteria dall’altro lato della strada, un negozio modesto, che pare chiamarlo. Gli sembra familiare; gli ricorda qualcosa che non sa definire.
Osserva per un paio di minuti la struttura dall’esterno, indeciso se entrare o meno. Alla fine opta per un sì, ed entra, deciso.
Allo smuoversi della porta un campanello suona avvisando della sua presenza nel negozio; tutto intorno c’è un calore e un odore che lo avvolgono totalmente.
Sherlock si guarda intorno, poi punta gli occhi al bancone, osservando i croissant lucidi e perfetti. Sorride, rapito.
“Le piacciono i croissants?”
“Sì, molt-”- è uno sguardo.
Sherlock alza gli occhi verso il commesso dietro il bancone. Rimane fermo per un po’ ad osservarlo, sente il labbro inferiore tremargli.
“Si sente bene?”
Muove le labbra ma non riesce a rispondergli. Gli occhi gli si riempiono di lacrime, ma cerca di non mostrarlo, strizzando gli occhi e cominciando a sorridere.
“S-sì” risponde, piano, eventualmente.
La luce del sole illumina il volto di John Watson mentre, con un sorriso stranito, dice, divertito “Deve volere davvero molto quei croissant.”
“Sì.” risponde Sherlock, un sorriso stupido, anzi stupidissimo, stupido molto davvero stupido sulle labbra, “Sì. Non ne ha idea.
Non ne ha idea.”



FINE.








ps. ciao a tutti, sto valutando se continuarla, in qualche modo, in uno spin-off ~ ci penserò, sì sì. Intanto grazie per essere arrivati fin qui! ~~ fatemi sapere cosa ne pensate, ahah!

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Capitolo 4
*** seconda parte: 1/4, amare non è mai un vantaggio. ***



Ehy ehy ehy! Eccomi tornata con il promesso spin-off di questa fanfic.
Innanzitutto volevo ringraziarvi, davvero di cuore, per il seguito fantastico che ha avuto la prima parte. Sono davvero felicissima ;_; miau! -- vi risponderò meglio privatamente, promise.
Un paio di precisazioni prima di andare col capitolo:
a) non ho mai visto Shutter Island, ma recupererò al più presto! Mi ha sorpreso vedere quante persone mi hanno detto che questa fanfic sembra ispirato ad esso, anche se effettivamente non lo era u_u *coffcoff-la-mia-mente-malata-coffcoff*
b) questa è la prima parte dello spin-off, ovvero quattro one-shot sulle vite nell'AU di questi personaggi secondari: Mycroft, Lestrade, Molly e Irene Adler. Dopo questa parte, ci sarà la terza e ultima parte, anche essa divisa in capitoli e credo abbastanza lunga, in cui riprenderò la vita di Sherlock, tornato ormai alla realtà dopo la riabilitazione, e il panettiere John Watson (mio dio, detta così sembra tanto la trama di un romanzetto d'amore Harmony, ngh, bleah).
Ok, direi anche di aver finito lo sproloquio! Grazie di tutto, alla prossima!
eveyzonk.

PS: Ho ascoltato Addicted to a certain lifestyle per scrivere questa piccola shot, mi piacerebbe che la ascoltaste mentre leggete, cliccate qui per il link alla canzone :)





Tredici Febbraio – parte due. Spin off: Ritratti di genere.
Capitolo uno di quattro. Mycroft Holmes.



I veri problemi erano iniziati quando si erano trasferiti a Londra, lui, Sherlock, e la mamma. Loro padre era morto da circa cinque mesi. Incidente sul lavoro; una stupida intossicazione dovuta ad una fuga di idrogeno solforato, in una dannata miniera che stava ispezionando. Mycroft era riuscito ad ottenere una cospicua somma di denaro come risarcimento, e così aveva deciso che cambiare aria avrebbe fatto bene alla famiglia. Ma, come spesso accade ai canarini, anche loro madre finì con l’ammalarsi di crepacuore.
Mycroft non poteva togliersi dalla testa che era stata colpa sua. Se si fosse impegnato di più nel rallegrare la sua amata madre, forse sarebbe rimasta ancorata, seppur con debolezza, alla vita terrena; forse sarebbe stato abbastanza da evitare il resto dei mali, o almeno da preservare ancora per un po’ Sherlock.
Mycroft amava sua madre: era riservata e reticente, proprio come lui; parlava solo se necessario e l’aveva cresciuto rendendolo un esempio di diplomazia ed efficienza. Amare non è un vantaggio, gli aveva insegnato fin da subito, ed era così che  s’era ritrovato ad essere la persona silenziosa e distaccata che era. Amava sua madre, più di ogni altra cosa, e amare non era mai, mai un vantaggio, per l’appunto.
Al destino piaceva giocare con gli Holmes, e Mycroft era il più debole di loro. Incapace di dimostrare affetto, con un’intelligenza ben superiore alla media, ma incapace di metterla a frutto. Mycroft era una persona abietta e inutile, o almeno così si sentiva.
Così, quando era morta sua madre, dopo otto mesi dal trasferimento, si ritrovava a dover accudire suo fratello minore e a doversi trovare un lavoro. I soldi sembravano sempre mancare, sempre, dopo l’acquisto della casa; vivevano in un appartamento piccolo e umido, dormivano nello stesso letto matrimoniale, e a tratti veniva loro tagliata la corrente; quelle sere erano le peggiori. Osservava Sherlock guardare il muro in silenzio, nella penombra rischiarata solo dalla luna, e si sentiva semplicemente male. Si sentiva in colpa, con un groviglio di malessere e dolore che pulsava alla base del suo stomaco, ma che non riusciva ad essere espresso in nessun caso, recintato da quel filo spinato di reticenza che da sempre lo proteggeva e lo distruggeva. Aveva 18 anni, un lavoro totalmente inutile per sfruttare la sua brillante intelligenza, e una relazione umiliante e noiosa con un uomo più grande di lui, Gary.
Umiliante, perché  Gary era sposato, e a Mycroft non piaceva affatto essere un sostituto, e noiosa, perché ormai si riduceva ad un paio di notti in hotel alla settimana, pagate da Gary, con il solito bicchiere di vino rosso ad aspettare Mycroft sul comodino; si sentiva più vecchio di quanto non fosse.
Quando si era deciso a non sforzarsi neanche più di fingere il piacere, i loro incontri erano diventati sempre più radi e, infine, nulli. Senza un addio, senza una parola di conforto. Era così che andava la vita da quelle parti. La gente si sentiva sola e si incontrava in motel. Mycroft aveva pensato di essere come ‘la gente’, di provare a fare quello che gli altri facevano, ma aveva scoperto che la cosa non faceva altro che intristirlo ancora di più. Sarebbe rimasto a casa a guardare Sherlock dormire, i sabato sera, da quel momento in avanti.
Mycroft Holmes sognava un lusso intoccabile. Sognava il potere e la forza di far storcere il naso alle persone più potenti del mondo con il suo solo nome. Voleva riecheggiasse solo nelle stanze più importanti, il suo nome, ma che non fosse conosciuto ai più. Un burattinaio di tutto. Mycroft voleva potere, tanto da poter, con uno schiocco delle dita, prendersela con chi aveva reso la sua vita un inferno. Che fosse stato il suo datore di lavoro, Gary, o la maestra di Sherlock che continuava a umiliare il suo adorato fratello. Che fosse stato Iddio o semplicemente nessuno.  Non voleva necessariamente farlo. Voleva la possibilità di poterlo fare.
Era una parola così bella, potere, premetteva una scelta, una decisione, qualcosa di volontario che veniva fatto solo perché lo si voleva e lo si poteva fare.
E tutto ciò che Mycroft non aveva mai avuto, si racchiudeva entro i limiti della parola scelta e finiva lì. Non aveva chiesto lui quella situazione, e la rimpiangeva.
Non ricordava precisamente come fosse entrato in quel giro malavitoso, ma gli pareva che tutto fosse iniziato con piccole azioni. Ricattare il suo capo con brillanti deduzioni, ottenere aumenti e bearsi della sua intelligenza, spiare conversazioni telefoniche, mettersi in contatto con magnati e ricattarli di denunciare le loro furbizie burocratiche. Era iniziato tutto per noia, e all’inizio si sentiva addirittura dal lato della giustizia. Ma ben presto, come succedeva a coloro che erano destinati ad una mente brillante, iniziò ad annoiarsi. Era riuscito persino a comprare un computer a Sherlock, per Natale, il che aveva reso il suo silenzioso fratello felice, se così si poteva definire il breve attimo di attività nei suoi occhi solitamente opachi. Sherlock aveva iniziato a scrivere, e non faceva altro; non parlava e a scuola non interagiva con nessuno. Mycroft pensava non avesse nessun problema, dopotutto era nel dna degli Holmes essere cupi e riservati, e così aveva ignorato i moniti delle sue insegnanti. Aveva continuato, invece, a crearsi un nome. Era arrivato persino a tenere in pugno i segreti di tre importanti multinazionali, e il suo nome cominciava a farsi spazio nel giro. Si licenziò da lavoro che era Marzo.
Ad Aprile fu contattato da un’organizzazione criminale che gestiva, per usare un eufemismo, gli introiti delle aziende più note; una sorta di mafia tutta inglese, in frack e bombetta. Era esattamente il suo posto. Gli ci volle più o meno un anno per prendere il controllo di suddetta organizzazione. Il suo nome aveva ormai la potenza che un tempo bramava, i potenti lo contattavano e organizzavano cene con lui per discutere di politica, quasi fosse uno di loro, e poteva ormai dire di avere un certo potere decisionale nelle questioni di Stato. Incredibile come il saper dedurre desse le redini del ricatto, come lo Stato fosse in realtà un organismo debole, disorganizzato. Una parola di Mycroft aveva il potere di far crollare imperi finanziari e personalità potenti, e tutto perché sapeva i segreti di chi sguazzava in quell’ambiente, sapeva chi andava a letto con chi e dove venivano presi dati fondi. Mycroft scavava e scavava nelle vite altrui, era un uomo invisibile, senza alcuna storia personale, se non il passato malinconico di sua madre, e i silenzi a cui Sherlock lo sottoponeva da ormai tre anni. Non sapeva se la sua vita fosse bella o frustrante, non sapeva niente, o forse sarebbe stato meglio dire che non provava niente. Si alzava al mattino e faceva colazione con la solita marca di fette biscottate integrali, aveva soldi ma non li spendeva, se non per Sherlock. Non ristrutturava l’appartamento da anni. Non aveva un ruolo ben preciso, nella sua esistenza, se non quello di mettere a rischio la tranquillità degli altri.
Un giorno come gli altri, però, si ritrovò una squadra di polizia in casa. Non avevano un mandato con motivi ben precisi per arrestarlo, lo sapeva; ogni scusa sarebbe stata buona al momento per allontanarlo dai giochi. Come se dal carcere non avesse il potere di minacciare con ricatti. Come se le informazioni accantonate negli anni non persistessero nella sua mente. Mycroft non sapeva come cancellarle, e così viveva all’ombra dei fatti altrui. In questo, era sicuramente più vicino a Sherlock di quanto sapesse d’esserlo.
Quando lo portarono via ammanettato, Sherlock continuava a fissare il soffitto della sua stanza, inerme, cerebralmente morto come era sempre stato, e come Mycroft voleva volutamente ignorare. Non voleva saperlo. Non voleva ammetterlo. Forse anche quella era una forma d’amore, a modo suo. Lasciarlo nel suo universo felice invece che offrirgli quella vita per lui troppo bassa e statica.
 L’ultima cosa che sentì, e l’unica per la quale cercò di dibattersi, furono le parole di una psicologa, probabilmente sulla trentina, che cercava di parlare al ragazzo in catalessi.
“Non ha nulla di sbagliato! Lui è un Holmes! Smettila! Smettila, ti ho detto! Non ha niente che non vada! Non capite, non capite!”
E il volto di Sherlock.
Passivo, spento, pallido, infelice, vacuo e vuoto come nient’altro.
Mycroft sentì il suo dolore dibattersi, ancora una volta, nella sua impossibilità d’esprimersi.
Amare non era mai un vantaggio.




 

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Capitolo 5
*** seconda parte: 2/4, un lenzuolo asciutto color del mare. ***




Ok, questo ritardo è inscusabile. Però ecco qui il nuovo piccolo nuovo capitolo :)
Mi piace il personaggio di Gregory: è anacronistico, del tutto al di fuori del tempo della narrazione. Come vuoi ci siano ancora navi in legno, nell'età moderna? Ed esplorazioni, e morti del genere?
Eppure mi piaceva, come idea. Anche se, come al solito, il risultato non mi sembra soddisfacente. Qualcosa di molto sospeso e più simile ad un'elucubrazione, che ad un capitolo vero e proprio. Spero nei vostri pareri,
eveyzonk.





Tredici Febbraio – parte due. Spin off: Ritratti di genere.
Capitolo due di quattro. Gregory Lestrade.
 
Nessuno osava chiedergli cosa fosse successo in mare. Era una delle poche costanti dell’ospedale St. Petyr. Ci avevano provato, senza ombra di dubbio, per anni ed anni, ma nessuno era riuscito a cavare una parola al comandante di nave Greg Lestrade. Si diceva fosse stato al comando di una nave d’esplorazione chiamata Missouri, in onore della flotta da guerra americana. Si dicevano tante cose sui viaggi di quella nave, situazioni orribili che il capitano aveva vissuto, avventure al limite del possibile.
Si diceva – ed era l’ipotesi più pittoresca di tutte – che era stato costretto a mangiare i suoi sottoposti per vivere, e che, una volta tornato a Londra, aveva smesso di punto in bianco di parlare e si fosse consegnato all’istituto di cure psichiatriche.
Quello che la gente non sapeva, era che Greg parlava continuamente.
Molti dottori si chiedevano perché si fosse ritirato di propria volontà in ospedale, altri capivano perfettamente la sua condizione di auto-esilio dalla società. Evidentemente per Greg era tutto troppo da sopportare, dopo il lungo isolamento del viaggio. Ripartire sarebbe stato un suicidio, cercare di rifarsi una vita un pericolo, così aveva deciso di chiudersi in un bozzolo di protezione e passare in tal modo il resto dei suoi giorni.

Quello che la gente non sapeva, era che Greg parlava con-ti-nua-men-te.
 
Il mattino andava declinando lentamente verso una luce più calda, ed era quello il momento della giornata in cui Gregory s’alzava, osservando ogni giorno la finestra al lato opposto della stanza, e mettendosi a sedere sul letto, meditabondo. Le sue azioni avevano un non so ché di abitudinario, come se fossero tutte parte di una lunga catena; tolto un anello, quello che restava non si reggeva più correttamente.
Era estremamente importante, il saluto alla finestra. Greg guardava prima la distesa di alberi alla sinistra, poi il campo verde alla destra. Chinava il capo al pioppo che si ergeva sul primo piano di questo dipinto, e poi passava a concentrarsi sui più piccoli rumori. La sua giornata non poteva iniziare, altrimenti. Nella sua mente, ogni fruscio di foglie ed ogni lucertola che, impacciata, trascinava la lunga coda fra le frasche, era essenziale. Il rumore dell’acqua corrente nella stanza affianco, i primi pazienti svegli e irrequieti. I passerotti. Cinguettii pulsanti e forti.
Gregory parlava continuamente. Alzava il capo al Sole, lo guardava senza distogliere lo sguardo, la pelle ancora indurita dai lunghi giorni in mare, chiedeva in qualche modo perdono.
Si era reso conto che le parole, a un certo punto dell’esperienza umana, non avevano più un senso; perché quando si riesce a vedere un significato superiore, inizia anche a delinearsi una sottile linea di separazione fra l’umano e il divino, fra le convenzioni che l’uomo ha inventato per intrappolare come una mosca il momento presente, e ciò che semplicemente è. Gregory Lestrade, muto nella sua stanza di manicomio, riusciva a vedere ciò che era, ed eppure rimaneva in silenzio, conscio di non poterlo trasmettere, conscio di doverlo stipare in se stesso fino alla fine dei suoi giorni.
Parlava, parlava, parlava, eccome se parlava. Nella sua mente non fluivano altro che parole, ed ogni volta non erano abbastanza, non riuscivano ad intrappolare ciò che sentiva, né ciò che aveva sentito in passato: il nero mare rigonfiarsi come un lenzuolo, la schiuma rosicare il legno lercio della sua Missouri, i gabbiani scheletrici improvvisarsi avvoltoi, il calore che secca le labbra fino a spaccarle.
Diceva a se stesso che avrebbe parlato, se avesse trovato una sola parola che sembrasse perlomeno adatta.
(Aveva detto Addio a Sherlock Holmes quando aveva lasciato l’ospedale. La gola aveva continuato a bruciargli per una settimana, costringendolo a fare ammenda alla Luna, osservandola senza battere ciglio per una notte intera, parlandole, raccontandole tutto, in silenzio, com’era giusto che fosse).
 
Perché, vedi, Luna, dovevo aprire bocca.
Perché ho capito che gli addii sono necessari, e qualcuno deve pur sempre dirlo, ad alta voce, “addio”. O non ci si distacca mai. Non so neanche se Sherlock Holmes mi abbia sentito, forse vuole convincersi di no, così che alla prima paura ritorni qui a proteggersi, come me.
Invece no, non dev’essere così. Ho messo un punto alla sua permanenza qui.
Le parole sono futili, leggere, stupide; sei stata tu la mia maestra, tu ad insegnarmelo, nelle lunghe notti di secca. I miei compagni piangevano, e dondolavano fra le braccia i  corpi di altri miei compagni, e tu mi zittivi col tuo chiarore.
Shh, dicevi, non parlare. Ora ti guardo da un posto tutt’altro che pericoloso, e tu continui a zittirmi, a proteggermi dagli altri che non capirebbero. Ed hai ragione. Lo accetto.
Solo, non guardarmi così. Sherlock Holmes era uno di noi, Luna, meritava quell’addio quanto io merito d’essere zittito da te e di cogliere la tua luminescenza.
Non ricordarmi il passato. Non punirmi.
Se solo i poeti sapessero quanto sei meschina. Se solo la smettessero di dipingerti come una dolce madre, se solo mi stessero più vicini nel dolore e più lontani nella gioia!
Se solo.
Mi lasciassero solo.
O mi dicessero addio.

 
E chiudeva gli occhi, Gregory Lestrade. Forse per sempre, forse per una notte. Cosa avrebbe tolto al mondo, con la sua assenza?
Dopotutto, la Luna gli aveva detto addio da ormai molti anni, ed ora l’aveva lasciato dormire, libero, e gli aveva persino concesso di dire “Addio” a se stesso, con un sorriso placido, ed un lenzuolo asciutto color del mare a coprirlo.


 

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