Hurricane

di noelia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologue ***
Capitolo 2: *** She's my granddaughter. ***
Capitolo 3: *** Hola anaìha. ***
Capitolo 4: *** He killed them ***
Capitolo 5: *** Nice to see you again ***
Capitolo 6: *** My best (worst) friend ***
Capitolo 7: *** Wheel of fortune ***
Capitolo 8: *** Rondance Derreck ***
Capitolo 9: *** Happy b-day ***
Capitolo 10: *** The cave ***
Capitolo 11: *** Your lips on mine ***
Capitolo 12: *** Coded messages ***
Capitolo 13: *** Brainwashing ***
Capitolo 14: *** Memories. ***
Capitolo 15: *** The rapture ***
Capitolo 16: *** Are you the guitar's boy? ***
Capitolo 17: *** Jeremy? Is it you? ***
Capitolo 18: *** Taken. ***
Capitolo 19: *** Leggete. ***



Capitolo 1
*** Prologue ***


PROLOGO


 
Era un piovoso Martedì d’Agosto, ed io me ne stavo seduta sul dondolo, sotto la finestra, ad ammirare le piccole goccioline di pioggia che strisciavano lungo il vetro e che si univano tra di loro formando gocce sempre più grandi. La pioggia mi aveva sempre inspiegabilmente ipnotizzata, sin da bambina.
La mamma diceva che gli uomini erano proprio come quelle piccole goccioline: s’inseguivano l’un l’altra quasi come se fossero alla ricerca di qualcosa; come la felicità, o l’amore.
All’epoca non capivo perché tutti pensassero che fossero così difficili da trovare. Per essere felice mi bastava una caramella, o il bacio della buona notte dei miei genitori. Oh, i miei genitori. Erano passati tre mesi da quando un incidente stradale li aveva portati violentemente via da me. "L’ambulanza è arrivata troppo tardi", mi avevano detto.
E’ proprio vero che capisci quanto tieni a qualcosa quando non l’hai più. I giorni a seguire erano stati devastanti, e per di più, senza preavviso, avevo ricevuto una telefonata in cui dicevano che mi sarei dovuta trasferire a Bali, in Indonesia, dai miei nonni materni.  La cosa non mi aveva affatto turbata, gli ero sempre stata così affezionata, e poi in quel momento erano gli unici che sarebbero stati male come me, o se non di più. Ed eccomi lì, a soli due giorni dal mio arrivo, chiusa in camera ad osservare un vetro rigato dalla pioggia.
La maniglia della porta che si apriva lentamente mi fece sobbalzare.
- Oh, perdonami Rosie, avrei dovuto bussare- disse il nonno facendo un cenno di scuse con la mano.
- Non preoccuparti- feci  per infilare le pantofole e mi diressi verso di lui. – Comunque, buongiorno- gli schioccai un bacio sulla guancia.
Mi rivolse un dolce sorriso.  La colazione sarà pronta a momenti. Da quando sei qui hai a malapena buttato giù un biscotto. Io e la nonna iniziavo a preoccuparci...- abbassò lo sguardo.
- Scendo subito- gli sorrisi mettendogli una mano sulla spalla.
- Perfetto. Ti lascio sola, allora- disse apprensivo, chiudendosi poi la porta alle spalle. Dopo una lunga stiracchiata mi diressi verso il bagno.
L’istinto mi fece accendere la luce, ma lì il sole era così forte che nonostante la pioggia penetrava attraverso le nuvole. I miei occhi si erano fin da subito posati sull’enorme specchio dallo stile vittoriano al centro della stanza. Sotto di esso vi era un moderno lavabo e a circa un metro una lussuosa vasca da bagno, sopra la quale si trovava un grossa vetrata. Come l’avevo sempre desiderata. Mi chiesi come avevo fatto in tutti quegli anni a non notare che i nonni non se la passavano affatto male. Legai la lunga e mossa chioma bruna in una coda di cavallo, aprii il rubinetto e mi sciacquai il volto con acqua ghiacciata, poi alzai lo sguardo. Notai che i miei brillanti occhi verdi a furia di essere pervasi da lacrime erano più chiari del solito. A parte questo, però, ero rimasta la ragazza di sempre, dal viso pulito, le labbra carnose e dalle chiare e delicate lentiggini sul naso.
Uscita dalla stanza scesi le scale di tutta fretta, spinta dall’irrefrenabile voglia di mettere sotto i denti quei biscotti che avevano emanato nell’aria un'aroma sublime.
In un batter d’occhio ero giunta in cucina.
- Tesoro bello!- esclamò la nonna venendomi in contro e stritolandomi con uno dei suoi abbracci. Lo ricambiai. Da sempre ci univa un legame unico.
C’era sempre stata per me ed io per lei. Mai come in quel momento la sua presenza mi fece sentire bene, forse perché era la copia spiccicata di mia madre. – Ma guardati! Sei cresciuta così tanto- prese tra le mani una delle lunghe ciocche di capelli.
- Andiamo Helen, datti una mossa- brontolò il nonno.
- Sempre il solito scortese eh Fred?- ribatté la donna.  Peggio di una donna incinta- borbottò intenta nel prelevare il vassoio dal forno.
- Aspetta nonna, credo che ti servano questi- le porsi dei guanti.
-Grazie cara- rispose strappandomeli praticamente da mano.
Quando fummo finalmente tutti a tavola  io, nonna Helen, nonno Fred e i biscotti – allungai con un movimento repentino la mano per prenderne uno.
La nonna mi fulminò con lo sguardo: – La preghiera prima- disse.
Ci demmo le mani.
Fu il nonno a recitarla: - Oh Signore, benedici questi biscotti- risse sotto i baffi. – Questa tavola, e tutte le persone che ne fanno parte.
Ci fu una breve pausa.  Amen- continuò.
- Amen- concludemmo io e nonna all’unisono.
- Veramente pensavo che la preghiera si facesse solo a pranzo e a cena- commentai incuriosita.
- Di norma sì, ma arrivati ad una certa età è meglio non rischiare sai?- sdrammatizzò il vecchio.
La nonna gli diede una gomitata: – Non dargli retta Rosie, è solo che d’estate è raro fare la colazione insieme. Tuo nonno va abitualmente a pesca.
- Dove, al porto? Oh ti prego portami con te, sai quanto amo il mare!- esclamai con aria supplichevole.
- Non oggi Rose Mary, ci avventureremo verso un’isola a qualche centinaio di chilometri da qui. Potrebbe essere pericoloso, ma ti prometto che domani verrai con me- mi rassicurò.
Annuii, dopodiché feci un bel respiro. – Comunque ...- puntarono i loro sguardi verso di me. – Ho voltato pagina. La mia vita adesso è con voi, in questa casa, in quest'isola e ... vi voglio bene.


 








 

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SPAZIO AUTRICE:
Buonasera a tutti!
Bene, premetto che è la mia prima fan fiction quindi siate clementi, ahah.
Posterò il secondo capitolo non appena questa riceverà qualche recensione - positiva o negativa che sia -, in modo tale da
poter capire il vostro parere a riguardo, e quindi se varrà la pena continuarla o meno. (:


Alyssa.

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Capitolo 2
*** She's my granddaughter. ***


CAPITOLO 1
She's my granddaughter
 


Ero al parco.
Cercai di spingermi con i piedi sull’altalena. Tentativo fallito, le mie gambine erano troppo corte e deboli. Poi una mano mi toccò la schiena e iniziò a farmi dondolare. In alto. Sempre più in alto. Era la mano di mio padre.
Cercai con gli occhi anche mia madre. Eccola, seduta su una panchina sotto un salice, a qualche metro di distanza.
-Guardami mamma, guarda come vado veloce!-, annunciai entusiasta.
Lei mi guardò rivolgendomi uno dei sorrisi più dolci che le avessi mai visto, poi guardò papà. D’un tratto la sua espressione cambiò. Era angosciata, spaventata.
In un secondo mi trovai catapultata nela nostra auto. Papà era al volante, la mamma sul sediolino affianco che dormiva. Si tenevano le mani. Tutto sembrava perfetto, eppure c’era qualcosa che non andava.
D’un tratto iniziai ad allontanarmi da loro, dal mio sediolino, dall’auto. Mi ero materializzata al suo esterno.
Non feci in tempo a rendermi conto della situazione che dei luminosissimi fari provenienti dalla direzione opposta mi abbagliarono la vista. Ci fu un tonfo assordante. Mi immobilizzai. I rottami si erano scaraventati ovunque. La macchina dei miei genitori era accartocciata contro un altro veicolo.
Iniziarono a suonare i rispettivi allarmi.
Gli airbag si erano aperti.. troppo tardi.
Il mio sguardo si posò ancora una volta sulle mani dei miei genitori, congiunte l’una nell’altra, ma questa volta sanguinanti.

Aprii di scatto gli occhi e iniziai ad ansimare. Era solo un incubo, uno di una lunga serie. Con fatica alzai il busto dal soffice materasso. Ero inzuppata, ma era un incrocio di sudore e lacrime. Poi guardai oltre la vetrata. Una ipnotizzante luna piena illuminava le tenebre della notte.
Il pensiero del sogno di pochi istanti prima mi fece mancare il respiro. Involontariamente mi alzai, feci per infilare le pantofole e scesi silenziosamente le scale, fino ad arrivare alla porta sul retro. La aprii, e non appena i miei piedi toccarono la soffice sabbia bianca decisi di lasciare le ciabatte lì. Respirai profondamente.
Una fresca brezza estiva mi invase i polmoni. Il respiro aveva cessato di essere affannoso, mi sentivo già molto meglio.
Solo in quel momento mi resi conto che i nonni avevano il privilegio di vivere a poco più di venti metri dal mare a cui senza nemmeno accorgermene mi avvicinai sempre di più. E iniziai così a camminare a piedi nudi sulla sabbia fino a percorrere quasi tutta la riva. Dopo una decina di minuti mi stesi ai piedi di un’enorme palma. Non staccai un attimo gli occhi dall’oceano e dalla luna riflessa in esso.
In quel momento mi sembrò di sentire il rumore della notte. Era sottoforma di lievi e dolci accordi di chitarra.
Il rumore delle note si faceva sempre più chiaro finché non mi parve di sentire persino una voce umana che accompagnava le note della notte. Pensai di essere pazza.
Mi alzai improvvisamente, e senza un apparente motivo iniziai a camminare fino ad intravedere in lontananza del fumo, poi un fioco bagliore arancione, che si trasformò in fuoco. 
Poi capii: quello di poco prima non il rumore della notte, ma semplicemente una figura umana che intonava qualche parola accompagnato da una chitarra ai piedi di un falò.
Non riuscii a distinguere la sagoma, ma mi accontentai di ascoltarne la voce. Era una voce maschile, decisamente giovane. Doveva essere di un ragazzo.
Dopo un po’ riuscii a decifrare le parole di quella misteriosa melodia:

- I know it's hard baby, to sleep at night 
Don't you worry 
Cause Everything's gonna be alright, ai-ai-ai-aight 
Be alright, ai-ai-ai-aight.


Provai i brividi lungo ogni parte del corpo; sembrava essere scritta per me. Quei minuti furono così intensi ma dannatamente brevi, e ripresi ricognizione del tempo quando una lacrima mi rigò il viso fino a cadermi sulle ginocchia, che nel frattempo si erano avvinghiate contro il petto.
Chiusi gli occhi e tirai respiri lunghi ma silenziosi, o almeno così credevo. La chitarra cessò in modo violento di suonare. Mi sentii stringere il cuore, se si fosse accorto di me? Mi feci piccola nascondendomi il più possibile dietro il muretto di piante che delimitava il confine tra due proprietà. Sentii il rumore della sabbia alzarsi. Si stava avvicinando. Trattenni il respiro e strizzai gli occhi fino a provare dolore. Passarono una manciata di secondi per capire che se n’era semplicemente andato. Ripresi finalmente a respirare e mi alzai cautamente da terra scrutando il luogo. Solo spiaggia, solo altri lunghi metri di spiaggia e il ragazzo si era come smaterializzato.
Un senso di vuoto improvviso mi travolse lo stomaco. Cercai di non pensarci ma poi ne capii la causa: era la sua voce. Mi ero così abituata a quel suono, così lasciata trasportare e cullare dalla sua voce che una volta che se n’era andato aveva lasciato un vuoto dentro. Mi voltai a guardare il mare, poi l’enorme cielo stellato che sembrava avvolgere il mondo intero e rimasi a fissarlo non smettendo nemmeno un attimo di pensare a quel ragazzo.

Fu un inquieta notte. Era come se anche nel sogno continuassi a pensare a lui, la sua chitarra e il battito del mio cuore che accelerava ad ogni accordo.
Il sole non si era ancora del tutto levato nel cielo quando qualcuno mi strattonò violentemente.
- Rosie- chiamavano. 
– Rosie.
Aprii lentamente gli occhi e con la stessa lentezza una sagoma davanti ai miei occhi diventava sempre più nitida fino a farmi intuire che era il nonno.
- Ciao- accennai un sorriso ancora impastata dal sonno.
- Sai che ore sono cara?
- Mh, le dieci?- risposi vaga.
- Sbagliato- sorrise. 
– Sono le cinque del mattino.
Sgranai gli occhi. – Le cinque?! Che diavolo è successo?
- Per me è normale tesoro mio.
- Beh, per me no!- lo interruppi.
- Oh, pensavo ti avrebbe fatto piacere venire a pesca con me, ma ti vedo piuttosto irritata quindi scusa, tolgo il disturbo- fece per voltarmi le spalle.
Mi ci volle un attimo per connettere: il giorno prima mi aveva promesso che mi avrebbe portato con lui.
- Nonno aspetta, non intendevo... scusami è che... non sono abituata- e con un movimento repentino mi liberai dal lenzuolo in cui mi ero – probabilmente a causa dei brutti sogni 
 impigliata.
Il nonno sospirò.
- Hai cinque minuti- mi liquidò.
Non mi scomodai a rispondere, che mi catapultai in bagno.

- Ma come ti sei conciata?- sorrise divertito.
- Ma ..- cercai uno specchio con lo sguardo ma non trovandolo mi accontentai del riflesso della finestra del soggiorno ancora chiusa. Osservai lo specchio attentamente: indossavo un vestitino color cipria svasato ai lati, ai piedi un paio di zeppe e i capelli legati in una coda di cavallo. – Cos’ho che non va?
-  Sei perfetta per la settimana della moda di New York, ma qui siamo a Bali e stiamo andando a pesca. P-e-s-c-a- sibilò.
- Vado a cambiarmi?- balbettai.
- No, non c’è tempo. Temo che il tuo candido vestito si sporcherà, spero tu non ci rimanga troppo male- mi diede una pacca sulla spalla.
Lo ignorai e mi diressi alla porta.
Non appena misi piede fuori caddi in una lunga stiracchiata. – Ah- sospirai. 
– Che tempo stupendo.
Il nonno si chiuse la porta alle spalle. – Andiamo piccola- mi mise una mano dietro la spalla e mi trasportò fino alla macchina in fondo al viale.

Arrivati al porto rimasi piacevolmente sorpresa. La piccole case arrangiate col legno e i modesti negozietti erano sovrastati dalla maestosità e l’imponenza della natura che circondava il luogo. La vegetazione più florea che avessi mai visto: piante ovunque e l’acqua cristallina che giaceva incontrastata senza la minima presenza di un’onda. 
-Allora che ne pensi?- chiese il nonno notando il mio stupore.
-E’ tutto così... magico.
Annuì. – Guarda lì- indicò una graziosa barca lilla stanziata a qualche metro da noi. – Quella è mia.
Mi avvicinai spinta dalla curiosità. – Davvero?
- Già- sorrise soddisfatto.
Osservai più attentamente e notai che vi erano degli uomini che issavano una rete e che preparavano tutto il necessario per una pesca. Il mio sguardo si posizionò su un ragazzo. Pareva essere il più giovane del gruppo. Doveva avere più o meno la mia età,statura media, capelli castani, tratti del viso piuttosto femminili. Era a torso nudo e mi accorsi della decina di tatuaggi che aveva. Io odio i tatuaggi, pensai. – E così hai persone che lavorano per te-
- Direi che più che lavorare per me mi danno una mano- e detto ciò, Fred mi esortò a seguirlo sull’imbarcazione.
Trovai non poche difficoltà nell’attraversare la passerella di legno messa in pessime condizioni e mi maledii per non aver indossato qualcosa di pratico.
Entrammo nella barca e ad accoglierci c’era un ragazzo. Non potei far a meno di notare quanto fosse bello. Era folgorante. Sul metro e ottanta, capelli neri, intensi occhi verdazzurri e labbra prorompenti. Mi nascosi dietro la spalla del nonno.
- Buongiorno capo- disse rivolgendosi al nonno cacciando un sorriso splendente.
- Ehi Daniel- il nonno alzò una mano in segno di saluto. – E’ già tutto pronto?
- Sì Fred, aspettavamo solo lei
- Ah, quasi dimenticavo- si girò verso di me – lei è Rose Mary, mia nipote.
Cercai di rimanere calma e di non far trapelare l’agitazione. Il nonno con un tocco impercettibile mi spinse in avanti. Daniel mi tese la mano. – Lieto di conoscerti Rose Mary.
Non smise di sorridere nemmeno un secondo. Mi chiesi se lo faceva per fare bella figura col nonno o perché non ero poi così orribile da indurre le persone a non sorridere. Ad ogni modo ricambiai il saluto stringendogli la mano. – Piacere mio. Puoi chiamarmi Rosie, comunque – e mi sforzai di sorridere ed apparire carina. Il nonno intanto si allontanava verso l’esterno della barca.
- Come vuoi, Rosie. E’ da molto che sei qui? Non ti ho mai vista prima..
- Veramente sono qui da tre giorni, è ancora tutto un po’ strano. Dovrò abituarmici.
Sorrise. -Se hai bisogno non indugiare.
Annuii imbarazzata.
– Beh, se adesso vuoi seguirmi ti mostro l’esterno- continuò, e da vero gentiluomo – che in tutta onestà non mi avevano mai entusiasmata più di tanto 
 mi fece cenno con la mano di passare prima di lui.
Uscimmo e per qualche secondo fui colpita da un violento capogiro. Barcollai cercando con tutta me stessa di non inciampare in nessuno.
Sentii una mano poggiarsi dietro la mia spalla. – Tutto bene?- era Daniel.
-Sì-, dissi inaspettatamente acida. Mi pentii all'istante di non essere stata più garbata e cadde un lungo silenzio. Per evitare altro imbarazzo mi guardai intorno in cerca del nonno.
Scrutai attentamente finché i miei occhi non si posarono su un braccio tatuato impegnato nell’alzare un barile da terra. I muscoli si gonfiarono, le vene anche. Lo guardai in volto: era il ragazzo che avevo visto al molo poco prima. Restai a fissarlo, non so per quanto, ma si accorse di me e per una frazione di secondo i nostri sguardi si incrociarono.
Abbassai di scatto la testa, ma quando la rialzai si era rimesso a lavoro. Mi chiesi se non avevo avuto un miraggio, forse una conseguenza del caldo.
Una voce profonda mi fece sobbalzare: - Attenzione, attenzione prego- era il nonno salito su uno scalino per attirare l’attenzione di tutti. Feci alcuni passi avanti: un po’ per ascoltare Fred, un po’ spinta dalla curiosità per il ragazzo tatuato.
- Oggi c’è un ospite speciale a bordo, è una ragazza- ci fu un brusio di disaccordo da parte della "ciurma" che nel frattempo si era riunita intorno al nonno. – Sì- fece un cenno con la mano. 
– Lo so, lo so che non sono ammesse ragazze a brodo ma lei è davvero speciale- puntò il suo sguardo su di me, e dopo di lui tutti gli altri. – Lei è mia nipote, la mia nipote preferita... beh, veramente anche l’unica- gli uomini risero. – Rosie ti dispiacerebbe farti avanti?
Fui presa alla sprovvista, c’erano tanti ragazzi, troppi direi, e non ero mai stata abituata ad avere così tante persone dell’altro sesso intorno.
Andiamo Rosie, che sarà mai?, mi dissi, e prendendo coraggio mi incamminai in avanti. Tutti tenevano gli sguardi fissi su di me, qualcuno si lasciò scappare una risata. Per il mio abbigliamento probabilmente. Osservai tutti attentamente. C’era anche lui, il ragazzo tatuato. Era bello, era davvero bello.
Mi fissava con intensità. Quando gli passai davanti alzò un sopracciglio. Sembrava essere quasi disgustato. Arrossi violentemente per l’imbarazzo e pregai che nessuno lo notasse.
Arrivai finalmente al fianco del nonno che mi strinse in un caloroso abbraccio.
- Un grosso applauso per la nuova arrivata ciurma!- esclamò. Tutti si impegnarono nello sbattere le mani. C’era persino chi fischiava. Imbarazzante.
Non volendo lasciai cadere ancora una volta gli occhi sul tizio dei tatuaggi. Notai con non poca irritazione che era l’unico lì, inerme, senza muovere le mani. Che cazzo di problema ha? pensai.
- Ma adesso mettiamoci in viaggio, i pesci non aspettano nessuno e l’isola di St. Catilina ci sta aspettando- concluse il nonno.
Mi lasciai scappare un sorriso, presa dalla felicità.
Ci vollero due o tre minuti per far partire la nave ed eravamo in viaggio da ormai dieci minuti. Più ci allontanavamo dal porto più la paura cresceva in me. Avevo sempre amato il mare ma l’idea di essere circondata da squali e barracuda non mi entusiasmava più di tanto. Cercai di non pensarci e mi andai a sedere sulla poppa della imbarcazione. Mi sporsi per osservare da vicino l’acqua trasparente.
Alzai il capo e mi lasciai accarezzare dal vento, osservando il molo e la natura che lo circondava. Tutto era così tranquillo. Mi voltai a guardare gli uomini. Lui era ancora lì, allo stesso posto di prima, ad alzare un uncino questa volta. Mi fermai a fissarlo sperando che non si accorgesse di me. Si asciugò il sudore dalla fronte e smise per un secondo di lavorare.
Iniziò a guardarsi intorno; probabilmente stava cercando qualcosa, o qualcuno. I suoi occhi si incrociarono di sfuggita con i miei. Ebbe un attimo di esitazione, poi ritornò a guardarmi. Il cuore cominciava lentamente ad accelerare poi...
- Ehi Rosie- Daniel alle mie spalle mi fece sobbalzare.
- Ehi- la sua gentilezza iniziava a diventare irritante.
- Cos 'è che guardavi? O meglio chi è che guardavi!
- Hm, io? Nessuno...
- Non mentire, ti ho vista. Pendevi dalle sue labbra- mi sorrise.
- Dalle labbra di chi?
In realtà sapevo benissimo dalle labbra di chi pendevo.
- Bieber, Justin Bieber.
Lo guardai stranita.
Daniel indicò il tizio dei tatuaggio.
 – Lui.
- Shh!- esclamai, e gli abbassai di corsa il braccio. Per poco non ebbi un attacco di cuore.
- Non preoccuparti.
Quando mi dicevano di non preoccuparmi era quando dovevo preoccuparmi davvero.
- Ehi Bieber!- urlò scuotendo una mano.
Mi sentii avvampare e mi colpì un’improvvisa ira nel confronti di Daniel. Justin si girò verso di lui. Il suo sguardo poi si spostò su di me. Non lasciava trapelare alcun tipo di emozione.
Restò a fissarci per qualche secondo.
- Che diavolo vuoi Daniel?- si decise finalmente a spiccicare parola. 
La sua voce. Io la conosco. Fu un colpo al cuore, peggio, una pugnalata.
Cercai di scervellarmi e ricondurre il suo timbro a qualcuno che conoscevo. Era troppo familiare. Come quando ascolti una canzone tante e tante volte, e la melodia entra a far parte di te, come se ti appartenesse. Ritornai alla realtà quando Daniel mi prese per un braccio e mi trascinò con forza verso Justin.
- Che cazzo fai?- dissi con un filo di voce.
Non fece in tempo a rispondermi che mi ritrovai catapultata di fronte al ragazzo tatuato.
- Bieber, lei è Rose Mary- si girò verso di me. 
– Rosie, lui è Bieber.
Rosie ‘sta calma, non dire nulla, lascia che parli lui per primo
Di tutta risposta scrollò le spalle.
- Cos’è, ti consumi a dire ciao?- i maleducati mi indispettivano, anche se quello in questione era uno dei più belli che avessi mai visto.
Daniel sorrise. 
– Non far caso a lui, fa così con tutti.
Justin aggrottò la fronte accigliato.
- Daniel! Daniel!- urlarono.
Era il nonno. – Daniel, ci servi. Vieni- continuò sorridendo.
Daniel sospirò e si girò verso il tatuato. – Mi raccomando Bieber, la rivoglio viva.
Un mezzo sorriso si formò all’angola della bocca di Justin.
Quando Daniel si fu allontanato, il ragazzo si rimboccò le maniche e ritornò a sollevare uncini.
Fui sgradevolmente sorpresa dalla sua inesistente gentilezza.
-Comunque ciao, ragazzina.
-Ragazzina? Io?- feci una pausa per far sbollentare la rabbia,- hai una bella faccia tosta tizio dei tatuaggi.
Sorrise leggermente scosso. Probabilmente dal mio "tizio dei tatuaggi". – Quanti anni hai?
- Sedici.
- Bene, sei una ragazzina- ribadì divertito.
- E tu quanti anni hai? No, per curiosità dal momento in cui ti comporti da uomo vissuto.
Alzò verso di me il suo sguardo che fino a quel momento era stato fisso sul lavoro. – Sei buffa, Rose Mary.
Avevo sempre odiato l’aggettivo "buffo" a causa dei suoi molteplici significati e delle sue infinite interpretazioni. Poteva essere buffo un elefante, o una nonnetta un po’ troppo decrepita per un leggings maculato.
- Grazie- dissi senza pensare.
Alzò di scatto il busto e iniziò a scrutare il luogo, poi, senza preavviso si allontanò.
- Dove vai?- mi accorsi a dire.
- In bagno, ma so abbassarmi il pantalone da solo. Grazie, comunque-, il suo tono era freddo.
Feci una smorfia di disgusto, -io sarò pure buffa ma tu sei senz’altro strano.
- Grazie.
Poi si allontanò, sempre di più, fino a dissolversi in un angolo.

 



 








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Hola, hola, holaaaa!
Allora, per prima cosa vorrei ringraziarvi per le recensioni
al capitolo precedente, davvero, non 
me l'aspettavo e ancora grazie.
Questo capitolo è più lungo e -credo- più decente dell'altro
quindi spero apprezzezziate. In ogni caso:

RECENSITE!
Voglio assolutamente sapere che ne pensate. (:


Alyssa.

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Capitolo 3
*** Hola anaìha. ***


CAPITOLO 2
Hola anahìa



 
Diedi un’ultima occhiata allo specchio. C’era qualcosa in quel trucco che non andava.
Mi osservai attentamente. – Ma certo!- sussurrai. Era l’eyeliner. Non che l’avessi applicato male, il problema era che il contrasto con i miei occhi azzurri, la pelle pallida e i lunghi capelli bruni, era senz’altro eccessivo. Aprii il cassettone e tirai fuori una salviettina struccante. Avrei messo solo il mascara. Il rossetto invece mi faceva impazzire. Il tono nude che avevo scelto completava il look: un pantaloncino di jeans a vita alta con una casacca beige allacciata appena sopra l’ombelico. Mi mancavano solo degli occhiali rotondi, una fascia in testa e un po’ di erba da fumare per essere una perfetta hippie.
Ci sarà anche il tizio tatuato, ne sono certa, e tutti i suoi amichetti strani. 
Mi chiesi dov’era finito quella mattina. Dal bagno non era più tornato. Ad ogni modo l’isola di St. Catilina era stata bella da mozzare il fiato. Inspiegabilmente magica. Era tutto ciò che ci viene in mente alla parola: natura. Come catapultato in un’altra dimensione.
Fu nel viaggio di ritorno che Daniel mi aveva informato che quella notte ci sarebbe stato un falò sulla spiaggia. – A mezzanotte in punto. Mi auguro per te che tu sappia ballare- mi aveva detto. – Dove precisamente? E’ pieno di spiagge qui. Mi correggo, è tutto spiagge qui- gli risposi. – Una volta arrivata te ne accorgerai subito. La musica. Il fumo. Il fuoco- mi sorrise e poi scomparve. Era matto da legare.
E se ci sarà anche il ragazzo con la chitarra?
Sospirai e per un momento temetti di aver cambiato idea riguardo all’andare alla festa.
Beh ma..pure se fosse non lo saprei comunque. Non ho idea di come sia fatto, e sapere che è di sesso maschile e suona la chitarra non mi è di grande aiuto.
Fu la nonna a fermare i miei pensieri bussando freneticamente alla porta.
- Entra pure.
La vidi dallo specchio. Sembrava abbastanza impazientita.
- Dove credi di andare?- sbottò.
Mi girai di scatto. -Ma il nonno aveva detto di sì...
- Fred? Buon Gesù! Tuo nonno è un decerebrato, e solo Dio sa per quale motivo il numero dei suoi neuroni è pari a quello di un criceto.
Dopo essermi lasciata scappare una risata mi schiarii la gola e dissi seria: -Ma pure se fosse non vedo dove sia il problema nonna. E’ una festa. Io ho sedici anni e più che preoccuparti quando voglio uscire, dovresti farlo quando invece non voglio. Sto cercando di distrarmi e buttarmi tutto alle spalle. E’ così difficile da capire?
Helen sospirò e mi guardò dritta negli occhi. Per un attimo vidi in lei lo stesso sguardo di mia madre. – Hai ragione Rosie, dovrei preoccuparmi quando non hai voglia di uscire ma il problema è che io lo faccio in entrambi i casi. E lo faccio in entrambi i casi perché è come se da quando Robert e Kathrine siano morti, la tua felicità, la tua salute, la tua incolumità dipendessero da me. Non fraintendermi, non sei un peso bambina.. è solo che è una grande responsabilità. E non ho mai avuto modo di educare una ragazza della tua età perché come forse già saprai tua madre è scappata a quattordici anni- concluse.
- Sì, mi racconta... mi raccontava di questa storia ogni volta che ne aveva l’occasione- feci una pausa. 
– Nonna, io so di non essere un angelo, una di quelle che non danno alcun tipo di problema, una di quelle figlie per cui i genitori possano vantarsi con gli amici, ma ti prometto che non mi accadrà nulla. Mi divertirò ma resterò indiscreta- la rassicurai mettendole una mano sulla spalla.
Sospirò. – E va bene- disse infine.
Mi buttai tra le sue braccia stringendola forte e sussurrandole un ti voglio bene.
Si staccò da me. 
– Ma adesso basta trucco o farai una strage di cuori- mi disse sorridendo. Ricambiai il sorriso e insieme scendemmo al piano di giù.
Il nonno era stravaccato sul divano, con le gambe aperte. Il contrasto tra il divano di pelle rossa, signorile ed elegante, e la sua postura da camionista era comico.
Si girò verso di noi. Restò qualche secondo a fissarmi, con la bocca spalancata. 
– Ma sei bellissima!- esclamò.
- Grazie nonno- risposi sorridendo.
- Allora? Andrai alla festa eh?
Annuii. 
– Anche se temo che mi troverò a disagio. Insomma, conosco solo Daniel...
-... E Justin- aggiunse il nonno.
- Justin- ripetei sovrappensiero.
- Justin... Bieber?- si intromise la nonna rivolgendosi al nonno, che feci 'sì' con il capo. L’espressione di Helen mutò completamente. Era spaventata, adesso.
- Cosa c’è che non va?- dissi.
- Cosa c’è che non va? Beh, in quel ragazzo cosa c’è che va. – Il nonno la fulminò con lo sguardo, ma lei proseguì. – Devi stargli alla larga, Rosie. E’ pericoloso.
- Helen, non essere ridicola!- intervenne Fred  irritato. Facendo come se non avesse parlato però, la nonna continuò: -Si dice che ad uccidere sua madre.. sua sorella-, fece un lungo respiro, - sia stato lui. Ho avuto a che fare con con quel ragazzo una sola volta, e mi è bastata. C’é qualcosa di sinistro in lui.
Dal suo devi stargli alla larga in poi, mi si era formato un nodo allo stomaco, e mi passò davanti agli occhi l’immagine di Justin che uccideva a sangue freddo.
- Helen, basta così!- esclamò il nonno alzandosi in piedi e avvicinandosi a noi. – Justin non è niente di tutto ciò. E tu sai perché si comporta in quel modo con gli altri.
- Fred, sarebbe meglio se Rose Mary gli stesse lontana, e lo sai bene anche tu.
Rimasi inerme ad osservare i loro volti, spaventata. – Vi prego, che sta succedendo? Io ho solo intenzione di andare ad una maledettissima festa.
- E ci andrai Rosie. Dimentica cos’è successo poco fa. Ho raccomandato a Daniel di starti accanto, è tutto okay – disse il nonno in tono rassicurante. 
– Ma adesso sarebbe il caso che tu vada- guardò l’orologio che aveva sul polso. – E' mezzanotte!- esclamò.
Baciai entrambi di sfuggita e m’incamminai a passo veloce verso la porta. Una volta giunta all’esterno iniziai a correre, percorrendo tutta la spiaggia.
Dopo circa dieci minuti d’interminabile corsa mi fermai di scatto. Ero nel punto in cui due notti prima avevo ascoltato la voce.
Notai che sulla spiaggia c’erano ancora i residui del legno carbonizzato. E’ impossibile che siano ancora quelli dell’altra notte.
Poi ebbi la risposta: era stato lì anche quella notteEro delusa, e a malincuore ripresi il cammino, continuando a guardare per qualche secondo, con nostalgia, il punto in cui lui aveva cantato.
Fu dopo cinque minuti che sentii risuonare in lontananza delle urla. Erano urla di gioia, quel tipo di urlo che ti esce spontaneamente quando sei felice. Poi sentii anche la musica. Era una di quelle musiche tribali, di quelle che se ne vedono nei film, in cui degli indigeni con le strisce sul volto suonano freneticamente i tamburi, e il resto della tribù si diletta in quei buffi balli locali.
La musica era così forte che sentivo il cuore scalpitare, e incuriosita, ripresi a correre.
L’immagine che mi ero ritrovata davanti una volta arrivata era molto vicina a quella cui avevo pensato poco prima. C’era almeno un centinaio di persone.
Chi chiacchierava appoggiato a un gazebo; chi prendeva da bere; chi suonava i tamburi (con tanto di strisce sul volto);
Poi notai che al centro di quell’enorme ammasso di divertimento e frenesia, c’era un gigantesco falò, e tutt’intorno delle ragazze con le gonnelline di paglia e delle corone di fiori in testa.
Se solo Daniel mi avesse detto che era una festa a tema.. lo maledii.
Nel complesso era tutto molto carino, e ben organizzato. C’erano persino dei tronchi intagliati, per chi volesse sedersi.
Iniziai a stagliarmi nella folla.
– Rosie! Rosie!- mi girai di scatto. Era Daniel. Con tutta quella confusione non l’avevo sentito avvicinarsi. – Sei bellissima- mi sorrise.
Arrossii. 
– Grazie- non ero il tipo di ragazza che riceveva complimenti così spesso.
- Vieni, ti porto a prendere qualcosa da bere- mi cinse la vita e si fece spazio tra la folla.
Arrivammo sotto il gazebo. – Allora, che ne dici?
- Tutto molto carino. Peccato che tu non mi avessi detto che era una festa a tema.
- Beh, lo è... solo in parte. Ognuno poteva vestirsi come meglio credeva- mi porse un drink.
Guardai il liquido verde con scetticismo, e mi sforzai di non chiedergli se fosse alcolico. Non volevo fare la parte della bambina, o della ragazzina, come mi considerava Justin.
Lo bevvi tutt’un sorso. Il gesto spontaneo che mi venne subito dopo fu quello di portarmi una mano alla bocca, soffocando un conato di vomito.
- E’ disgustoso!- esclamai. Sentivo la gola andare in fiamme.
Lui sorrise divertito. 
– Spero che tuo nonno non le venga a sapere.
In quel momento però, il nonno era il mio ultimo pensiero. Chiacchieravo con Daniel ma la mia mente era altrove: al molo, dove due giorni prima avevo visto Justin. Poi pensai a lui, che toglieva la vita a sua madre e sua sorella. Forse strangolandole, o forse accoltellandole. Rabbrividii.
- Rosie?! Mi stai ascoltando?- mi disse Daniel scuotendomi la mano davanti agli occhi.
- Sì, scusa.
Iniziai a guardarmi intorno per cercare un posto tranquillo in cui stare per il resto della serata. D’un tratto mi era passata tutta la voglia di ballare.
Possibile mai che non ci sia una maledetta sedia.. Poi i miei occhi si posarono sul braccio nudo di un ragazzo. Riconobbi subito quella sottospecie di zoo che aveva tatuato. E’ lui.  
Riconobbi anche i suoi capelli castani, il suo profilo, e le sue labbra che si dilettavano in un bacio appassionato con una ragazza.
Mi sentii avvampare. Cercai di convincere me stessa che era la vicinanza col fuoco, cercando di nascondere il vero motivo.
Rimasi incantata e disgustata allo stesso tempo nel modo in cui la teneva stretta a sé. Con una mano le cingeva la vita, la teneva salda, in modo da non potersi allontanare nemmeno di un centimetro (e non pareva dispiacerle), l’altra mano invece era buttata nei suoi lunghi capelli biondi.
Probabilmente Daniel si accorse che lo stavo guardando. – Ah, Bieber è sempre il solito- esclamò quasi rassegnato.
- Che vuoi dire?- chiesi sforzandomi di distogliere gli occhi da quel bacio che mi aveva ipnotizzata.
- Voglio dire che non si lascia mai scappare l’occasione, e le ragazze sembrano cadere ai suoi piedi come un cane alla vista di un osso- il suo tono era serio.
Io non voglio essere un cane alla vista di un osso.
- Andiamolo a salutare- dissi improvvisamente.
- Tu dici che sarebbe il caso?- e indicò il posto in cui un istante prima stava baciando quella ragazza. Con sorpresa vidi che avevano smesso, così guardai Daniel con aria soddisfatta.
- E va bene, andiamo. – disse lui infine.
Decidemmo di fare il giro da dietro piuttosto che essere schiacciati dalla folla. Daniel mi teneva la mano.
Appena Justin ci vide arrivare e fece per staccarsi la biondina di dosso, quasi come se lo mettesse in imbarazzo il fatto che lo vedessi con lei.
I suoi occhi erano fissi su di me. Abbassai lo sguardo cercando di nascondere le guancie, diventate probabilmente di un rosso scarlatto.
- Ehi- esclamò allegro Daniel.
Lo sguardo di Justin si posò sulle nostre mani ed inarcò un sopracciglio. Mollai subito la presa da Daniel che mi guardò perplesso.
- E loro chi sono?- domandò la bionda con fare altezzoso.
- Veramente, tu chi sei- risposi acida.
- Non è il caso Rosie- m’intimò Dan con tono calmo e sereno.
- Tessa, molto piacere- e la ragazza mi porse violentemente la mano con uno dei sorrisi più falsi che avessi mai visto.
Gliela strinsi, sorridendo altrettanto forzatamente. – Io sono Rose Mary.
Justin restò fermo, in silenzio, ad osservarmi. 

Ciao comunque- dissi rivolgendomi a lui facendo uscire il tono più irritante che avessi.
- Che ci fate qui?- e come sempre lo sguardo di Justin era imperscrutabile.
- Ah sì, mi ero dimenticata che eri allergico alla parola ciao, perdonami.
Daniel rise, e parve l’unico apprezzare il mio umorismo. – Mh, siamo venuti alla festa come tutti gli altri, Bieber.
- Abbiamo forse interrotto qualcosa?- intervenni io tenendo lo sguardo fisso su Justin, che faceva altrettanto.
- Veramente sì- s’intromise Tessa velenosamente.
- No!- esclamò Justin alzando un braccio come a nascondere la ragazza. – Non avete interrotto niente.
Lei lo guardò sconvolta e inviperita.
- Bene- dissi spostando questa volta lo sguardo su Tessa. Dovevo ammettere che era davvero bella. I suoi occhi verdi e i capelli biondi risaltavano in una maniera incredibile sulla carnagione leggermente mulatta.
- Ehm, ehm- qualcuno si schiarì  la voce attraverso un microfono.
Ci girammo tutti di scatto. Era un ragazzo. Alto sul metro e settanta, capelli bruni, pelle scura. Indossava dei bermuda e una canotta che lasciava intravedere gli addominali.
Al collo invece, aveva una di quelle collane di fiori. – Allora gente, vi state divertendo? Fatevi sentire!- urlò. La folla urlò a sua volta. – Bene, siete caldi... caldi abbastanza per catapultarvi nella hola anaìha- fece un sorrisetto. 
– E a causa dei nuovi arrivati vi tocca la spiegazione- fece una pausa, poi riprese:  L’hola anaìha è un’usanza tipica di Bali, nata in origine nel 1732. Significa ‘hey amico’. Il suo scopo in passato fu quello di riappacificare gli animi degli indigeni, originari dell’isola, e i coloni provenienti dalla Francia. Nessuno aveva intenzione di arrendersi, gli uni, per mantenere il loro territorio, gli altri invece, per conquistarlo. Così iniziarono ad uccidersi a vicenda. Ci furono vittime da entrambi gli schieramenti, molte vittime... troppe vittime. Fu così che sotto comune accordo stabilirono una tregua, e per festeggiare l’occasione gli indigeni pensarono di organizzare una festa. Una festa in cui gli stranieri e loro avrebbero mangiato, ballato, bevuto insieme- fece una pausa e scrutò la folla. – Quindi che aspettate? Scegliete la prima persona che vi capita e catapultatevi in pista gente!- concluse con un urlo assordante.
Il mio primo pensiero fu rivolto a Daniel, ma notati con notevole dispiacere che ci aveva pensato Tessa.
L’ha fatto apposta. Stronza.
Dan mi guardò rammaricato. Aprì la bocca, probabilmente per dirmi qualcosa, ma la bionda lo trascinò letteralmente in mezzo a quell’accozzaglia di gente.
A quel punto guardai Justin. Mi osservava. Ancora.
Non gli chiederò di ballare nemmeno morta. 
- Non ho intenzione di ballare- disse schernendomi il viso con una mano come a leggermi nel pensiero.
- Cosa ti fa pensare che io, anche se tu ne avessi avute le intenzioni, avrei ballato con te?
Sorrise divertito.
Però ha delle belle labbra.
Sobbalzai quando una mano mi si posò sulla spalla. Mi girai scossa.
- Ehi bella- era un ragazzo. Notai con immenso piacere che era davvero carino.
- Ehi- gli sorrisi.
- Andiamo a ballare?- mi fece l’occhiolino.
Arrossii violentemente. – C-Certo.
Mi voltai verso Justin. Lo stava squadramdo dalla testa ai piedi, con disprezzo.
- Hey hey, Bieber ci sei anche tu?!
Justin non rispose.
- Oh, devi scusarmi, è la tua ragazza?- e nella  voce dello sconosciuto più che dispiacere c’era un che di ironico.
La sua ragazza?Pff.
- La mia ragazza?- Justin sbuffò distogliendo lo sguardo, e questa volta ero davvero convinta che mi avesse letta nel pensiero. – E’ tutta tua.
Quella frase, stranamente, mi ferì.
-L’avrei presa con o senza la tua approvazione,comunque-, e detto questo il ragazzo mi cinse la vita e mi trascinò con forza vicino al falò.
‘‘L’avrei presa’’. Che cazzo sono una compressa per il diabete?
Cercai di divincolarmi dalla sua salda e possente stretta. Iniziava a farmi male, ma in men che non si dica ci ritrovammo circondati da una miriade di altre persone. La musica era travolgente e il mio corpo non poté fare a meno di muoversi a ritmo.
- Però!- esclamò il ragazzo sorridendo. 
– Non sei proprio male.
- Come ti chiami?- dissi, presa da un improvviso imbarazzo.
- Non è poi così importante saperlo- si fermò a guardarmi, -non credo ci rivedremo mai più.
D’un tratto sentii le sue mani scendere, giù, sempre più giù. Provai brividi lungo la schiena. Bloccai il suo braccio prima che potesse andare oltre.
-Che fai?- dissi sconvolta.
- Mi diverto un po’- sorrise sinistro. Era inquietate. Il suo sorriso era inquietante.
Iniziò a salirmi il cuore in gola. – Se non ti dispiace, vorrei tornare dai miei amici.
Lui non smise nemmeno un attimo di sorridere. – E dai, solo un altro po’.
- Lasciami andare.
Ma invece mi strinse più forte, e avvicinò con un movimento repentino le sue labbra alle mie. Ero immobilizzata, e oltre dalla paura, dalla sua presa. Cercai in tutti i modi di allontanarlo ma lui non mollava. Mi morse il labbro inferiore e puntò le sue labbra sul mio collo. Non riuscivo a respirare.
Poi d’improvviso, tutto cessò. Aprii gli occhi che fino a quel momento erano rimasti chiusi per paura di ciò che avrebbero potuto vedere. Il ragazzo era steso per terra, con una mano portata al naso, sanguinante. Mi guardai intorno perplessa, poi vidi Justin, con il pugno ancora sospeso a mezz’aria.
-Justin-, sussurrai.
Lui parve non sentirmi. – Bel modo di comportarsi con le donne, Trailway.
La folla nel frattempo si era radunata attorno a loro per assistere alla scena. – Non c’è nulla da vedere, lo spettacolo è finito gente-, annunciò Justin, e detto questo, mi prese per un polso e mi trascinò di peso lontano da tutti.

Camminammo lungo la riva della spiaggia finché della musica non si sentiva che una flebile e debole melodia. Fui io a fermarmi di scatto. – Perché lo hai fatto?
Il suo sguardo era rivolto alla luna. – Fatto cosa?
- Perché gli hai tirato un pungo?
- Avresti preferito che ti lasciassi lì?- questa volta mi guardò negli occhi.
- No- abbassai lo sguardo sorpresa dalla dolcezza del suo tono. 
– E' solo che.. non credevo di esserti più di tanto simpatica.
- Non si tratta di simpatia o antipatia, semplicemente, odio il fatto che certi uomini usino la loro virilità per abusare delle ragazze deboli.
Oltre alla storia della ragazzina pensa anche che io sia debole. Riprese a camminare e cercai di stargli dietro.
- Come farai con la bionda adesso?-, mi girai a guardarlo. La sua mascella era serrata, e le lunghe ciglia risaltavano alla luce della Luna.
- Tessa?
Annuii.
- Lei non è la mia ragazza. Non m'interessa- rispose seccato.
- N-No io.. non intendevo questo. Volevo dire: l’hai lasciata lì, da sola, senza nemmeno dirle che andavi via.
Con me, ma sono dettagli.
- Se la caverà, se è di questo che ti preoccupi. Ma dal momento in cui non la conosci non vedo come la cosa possa interessarti.
- E tu?- feci una pausa. 
– Tu la conosci?
- No.
La risposta mi lasciò un attimo perplessa. “Le ragazze sembrano cadere ai suoi piedi come un cane alla vista di un osso’’. 
– Eppure la conosci abbastanza da baciarla.
- Non sono cose che ti riguardano- il suo tono era duro.
Aprii la bocca per risponderlo ma mi bloccai di scatto.
Riconobbi le ceneri sulla sabbia. Eravamo arrivati al punto in cui l’avevo sentito, due notti fa.
- Che ti prende?
- N- niente, è solo che...- guardai più attentamente le ceneri: non erano consumate come quelle che avevo visto all’andata.
E’ stato qui, di nuovo. Ed io non c’ero, di nuovo. 
- Allora?- chiese.
- Questo posto..- poi mi fermai. Non gli dovevo alcuna spiegazione. 
– Questo è un posto importante per me- dissi infine senza riuscire a trattenere il mio impulso.
- Perché?
- Perché...- feci un attimo di pausa. 
– Non sono affari tuoi- dissi infine.
Fece spallucce.
Desiderai con tutta me stessa che mi chiedesse nuovamente perché, ma non lo fece. – Qui l’altra notte ho sentito un ragazzo cantare e da quel momento non ho fatto altro che ripensare a ciò che è accaduto e alla sua voce – dissi tutto d’un fiato.
Justin si girò di scatto verso di me. – Un.. un ragazzo?
Annuii.
- E.. sai com’è fatto? Insomma.. hai visto il suo volto?- proseguì.
Feci di no con la testa. – Era buio, troppo buoi per vedere. L’unica cosa che illuminava debolmente l’ambiente era la luce della Luna, ma continuava ad essere tutto troppo scuro da mettere a fuoco.
Annuì. – E... ricordi cosa cantava?
- Come potrei dimenticarlo? Aveva una chitarra. Le note erano dolci, e la melodia rilassante.  E se non mi sbaglio diceva qualcosa del tipo:
I know it's hard baby, to sleep at night 
Don't you worry 
Cause Everything's gonna be alri..

Per un attimo, mi parve vederlo allarmato.
- Lo so, non sono da grammy...- dissi facendo per abbassare il capo dall’imbarazzo.
- No, non sei male- disse sorridendomi appena.
Per un lungo momento rimanemmo a fissarci, quasi non rendendoci conto dei secondi che passavano; parevamo essere le uniche persone in un posto così immenso.
Justin sbatté le palpebre velocemente, come a riprendere ricognizione del tempo. – Sarebbe meglio proseguire- e senza aspettare un momento di più, riprese a camminare, come preso da mille pensieri.
Per il resto del tragitto non ci parlammo, ci scambiavamo degli sguardi, giusto ogni tanto.
Arrivammo sotto casa.
Mi girai verso di lui. – Beh allora... vado- mi scostai una ciocca di capelli dietro l’orecchio, con lo sguardo fisso su di lui.
- Buona notte, allora- fece per voltarmi le spalle.
- Aspetta...- mi sporsi in avanti. 
– Volevo ringraziarti per prima... sì, cioè...-
Lui annuì, e si rimise sui suoi passi.



 










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ANGOLO AUTORE:
La cucaracha, la cucaracha, na na na na na na na naaaaa ♫
Devo confessarvi una cosa: credo di amarvi. Cioè, vi ringrazio infinitamente per le 35 recensioni ai primi tre capitoli, sono così emozionata e quasi non ci credo.Eccomi ritornata con il secondo. E' il più lungo che abbia postato fin'ora e spero vivamente che vi piccia e che non vi abbia annoiato. Ma adesso, analizzando
un po' il capitolo: Credete alle voci che corrono del fatto che Justin abbia ucciso sua madre e sua sorella? Vi anticipo già che il prossimo capitolo tratterà solo di
questo, sooooo, vi aspetto alla prossima, e vi prego di lasciare qualche recensione a questa merdina di secondo capitolo per farmi capire se vi sia piaciuto o meno.



Alyssa.

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Capitolo 4
*** He killed them ***


CAPITOLO 4
He killed them

 
 
- Rosie, svegliati- sussurrò qualcuno all’orecchio.
Aprii gli occhi, lentamente. – Justin- mormorai.
Mi sorrise. – Devo mostrarti una cosa- mi porse la mano e mi aiutò a scendere dal letto.
- Questa non è la casa dei nonni- mi guardai intorno spaventata. 
– Dove mi trovo?
- Questa è casa mia- disse serio- vieni con me.
Le finestre erano chiuse, ma dei raggi del sole riuscii ad intuire che era mattina, mezzogiorno probabilmente. Attraversammo un lungo e cupo corridoio, in cui sbucavano una miriade di porte. Poi sentii una voce intonare una dolce melodia, in una delle porte. La riconobbi dalla prima nota.
- E’ lui- sussurrai.
- Lo so- rispose dolcemente Justin aprendo la maniglia della porta da cui proveniva il suono.
La spalancò e.. lo vidi. Vidi finalmente il suo volto.
- Justin...-  mi portai una mano alla bocca.
- Sono io.
Ebbi un leggero capogiro. Justin era il tizio della chitarra. Il tizio della chitarra era Justin.
- Ma adesso vieni- mi disse prendendomi nuovamente la mano.
Entrammo nella stanza accanto. L’unica cosa che faceva luce era una candela, sul pavimento, al centro di tutto. Accanto ad essa un bambino con gli occhi sbarrati, la bocca spalancata e qualcosa nella mano nascosta dietro la schiena. Aveva le gambe accartocciate contro il petto e si dondolava nervosamente. Mi avvicinai con cautela. Stava impugnando un coltello. C’era sangue sparso ovunque. Sussultai. Guardai più attentamente la docile figura rabbuiata per terra.
Stesse labbra.
- Justin...
- Sono io, di nuovo.


Aprii gli occhi ansimando. Mi portai una mano alla testa e tirai dei lunghi respiri.
- Justin- sibilai lentamente.
Guardai l’orologio: segnava le 11:32.
Era strano che la nonna non mi avesse ancora svegliata, così mi liberai dalle coperte, corsi in bagno a cambiarmi e scesi di velocemente le scale. La prima cosa che mi saltò all’occhio furono dei nuvoloni neri e minacciosi che sovrastavano l’intero paesaggio. Andai oltre e mi guardai intorno, stupita dall’insolita quiete che faceva capolino nell’edificio. Salone? Vuoto. Soggiorno? Vuoto. Decisi così di dirigermi verso la cucina, ma si rivelò anch’essa vuota.
Iniziai a preoccuparmi. – Nonna?- urlai. Nessuna risposta. – Nonna dove sei?- riprovai.
Ci fu qualche secondo di completo silenzio, poi sentii qualcuno bussare ad un vetro. Il rumore proveniva dalla porta sul retro. Avanzai cautamente.
- Nonna!- esclamai infine, andandole in contro e aprendo la porta di vetro.
- Mi chiamavi Rosie?
- Sì, non c’era nessuno e allora...- feci una pausa squadrando la sua figura. 
– Cos’hai in mano?
- Questo?- alzò un coltello sporco di terra e lo fissò. 
– Oh, stavo tagliando i fiori appassiti.
Oh, la  mamma mi aveva parlato una volta della sua passione per ogni tipo di essere vivente senza occhi, naso e bocca.
Guardai l’orto alle sue spalle, poi il mio sguardo fu rivolto al paesaggio. La casa si stagliava a qualche decina di metri dall’acqua, oltre ad essa, in lontananza, apparivano le sagome di qualche isolotto disabitato e selvaggio, mentre ai lati era circondata da muri abbastanza bassi da lasciar intravedere altre tre o quattro villette nella zona; dietro di esse, giaceva incontrastata una catena montuosa, resa un’enorme macchia verde dalla presenza della palude. Non vi si riusciva a vedere la cima, però, a causa della troppa nebbia.
La nonna alzò gli occhi al cielo. – Oh, mi è caduta una gocciolina d’acqua in testa.
Fu la mia volta. – Anche a me, adesso.
- Li vedi?- indicò uno stormo di uccelli che si libravano in aria. 
– Sta per arrivare una tempesta- mi guardò preoccupata. – Sarebbe meglio entrare.
Annuii.  Helen mi prese per la vita e mi trascinò in casa con lei.
Mi chiusi la porta alle spalle. 
 Che tempaccio.
- Già- fece per togliersi il grembiulino sporco ed infilare una vestaglia grigia. 
– Inizia anche a fare freddo.
- E’ strano... - mi sedetti sullo sgabello intorno all’isola, proprio al centro della cucina. 
– Insomma, avevo sempre pensato che qui ci fosse il sole ventiquattro ore su ventiquattro, che fosse estate tutto l’anno.
- Non proprio tutto l’anno ma è estate da Aprile ad Ottobre. Le persone iniziano a preoccuparsi sai?- cacciò un infuso di tè dalla credenza. 
– Erano decine di anni che non si verificava una cosa del genere.
- In che senso?- dissi poggiando la testa sui gomiti.
Mise dell’acqua del rubinetto in un pentolino e la posizionò sul fornello a fiamma alta. 
 Durante questi mesi non aveva mai piovuto, mai. Il clima era perennemente secco e il cielo limpido a tutte le ore del giorno. Ed invece è da una settimana che piove quasi ogni giorno.
La guardai stranita, non riuscirei ad immaginare la mia vita per mesi senza la pioggia.
- Cos’è? In Georgia piove tutto l’anno?- continuò Helen immergendo l’infuso nell’acqua che bolliva.
- No è che... sei mesi senza la pioggia? Cavoli, io mi sentirei mancare l’aria. E poi non capisco perché ci si debba preoccupare per un po’ di pioggia- guardai verso la finestra, aveva iniziato a piovere rumorosamente.
- Le persone si preoccupano perché...- fece una pausa guardando nel vuoto. 
– L’ultima volta che accadde una cosa del genere, anni fa, un uragano rase al suolo  gran parte dell’isola. E dopo di esso si scatenò uno tsunami. Decine di migliaia di morti, di famiglie completamente distrutte.
Rabbrividii.
La nonna prese due tazze da uno scaffale e versò al loro interno il tè, cercando di dividerlo perfettamente in due parti uguali. – Gradisci anche qualche biscotto cara?
- No, grazie.
- Tieni- mi porse una tazza e si sedette di fronte a me.
La presi ed iniziai a soffiare. In realtà il tè non mi era mai piaciuto, e ogni volta che qualcuno me ne offriva un po’ passavo gran parte del tempo a farlo raffreddare. – Il nonno?
- E’ a lavoro, come sempre- il suo tono lasciava trapelare un’impercettibile presenza di frustrazione.
- E come farà adesso? Per il tempo, dico...
- Io gli avevo detto di lasciar perdere per oggi, ha quasi settant’anni ma si comporta come se fosse un sedicenne. L’avevo quasi convinto a rinviare la pesca ma tutt’un tratto è arrivato quel Justin.
- Justin- pensai a voce alta. – Che cosa ci faceva qui?
- Non ne ho idea, ma c’è di fatto che sta per diluviare e tuo nonno e l’allegra banda sono a navigare chissà dove, andando in contro ad un’imminente tempesta- bevve nervosamente un sorso.
- Nonna...
- Sì cara?
- Ieri sera, prima che andassi alla festa, tu avevi detto una cosa... una cosa su Justin.
La nonna si fermò con la tazza a mezz’aria ed alzò lo sguardo verso di me. – No.
- Cosa no, nonna?
- Non è il caso che tu lo sappia- riprese a guardare il liquido bollente.
- Non sono più una bambina. Per quale motivo non potrei saperlo?
La nonna non mi rispose.
- Nonna...
Posò delicatamente la tazza sul tavolo. – Ne sei proprio sicura? Non è una di quelle fiabe a lieto fine.
 - Voglio saperlo.
- Se è questo che vuoi- sospirò. – Successe tutto dieci anni fa. Furono ritrovati i corpi di Patricia, sua madre, e Juliet, sua sorella, a terra, inermi,  sgozzati e con il sangue che sgorgava da ogni parte del corpo.. e poi fu trovato Justin. Era inginocchiato accanto a loro, tremante, con un coltello da cucina tra le mani. Di Jeremy invece, suo padre, non ci fu alcuna traccia. Justin non parlava, non mangiava. Come un vegetale. Risalendo ai campioni del dna sul manico di quel coltello furono trovate le impronte di Justin. La polizia non sapeva a chi addossare la colpa, e così l’attribuirono a lui. Si servirono anche del fatto che già precedentemente Justin frequentasse uno psicologo, a causa del suo carattere introverso e per certi versi cattivo- socchiuse gli occhi. 
– Decisero di buttarlo in un riformatorio, almeno fino a che non avesse compiuto la maggiore età. E’ uscito due anni fa. Non appena tuo nonno venne a conoscenza della sua liberazione non esitò ad assumerlo. Diceva che era un ragazzo tanto sfortunato.. che aveva bisogno di una seconda chance e poi, diceva che lo doveva a Pattie.
Bevvi sorprendentemente un sorso di tè, con la speranza di far svanire quel nodo che mi si era formato alla gola. Avevo la pelle d’oca. – Perché? Perché lo doveva a Patricia?
- Pattie abitava nella casa accanto alla nostra... è cresciuta con noi, e con tua madre. Era la sua migliore amica. Sai, ricordo che una volta trovammo Patricia sulla soglia della nostra porta, in lacrime. Dei bambini l’avevano spinta a lei si era sbucciata un ginocchio. Tua madre, che all’epoca aveva solo sette anni,  uscì di corsa, e quando ritornò si presentò con i due marmocchietti che l’avevano fatta piangere. Li teneva per le orecchie, e li costrinse a chiedere scusa alla piccola Pattie- sorrise intenerita. Dopodiché si alzò e posò la sua tazza di tè nel lavabo.
Proseguì tenendomi le spalle: 
 I-io l’avevo avvertita. Io le avevo detto di stare lontana da quel ragazzo- balbettò.
- Di chi stai parlando nonna?
- Di Jeremy, Jeremy Bieber, Rose Mary.
- Perché?
- Non era adatto- fece una pausa. 
– Anzi, era completamente sbagliato. Patricia lo conobbe ad uno di quei falò sulla spiaggia. Non capisco il motivo, ma era sempre stata attratta dal pericolo. Iniziarono ad uscire, e più tempo passavano insieme più della vecchia Pattie non rimaneva nulla. Poi una sera bussò alla nostra porta disperata...- si voltò a guardarmi. – Era incinta, ed aveva solo diciotto anni. Il fatto che fosse cattolica la spinse a sposarsi prima di avere il bambino. Non voleva che la gentesse cominciasse a parlare, capisci? Si sposò due settimane dopo aver saputo di aspettare un bambino. Non le importava della cerimonia di per sé, ma di dare una famiglia al piccolo prima che fosse venuto al mondo. Fu dopo la sua nascita che le cose iniziarono a complicarsi.
- Continua.
Esitò per qualche istante, poi fece come le avevo chiesto: - Jeremy era come.. impazzito, più di quanto già non fosse. Iniziò a bere.. a passare le notti fuori casa, e approfittava di quel poco di tempo che passava con Pattie a sminuirla, a farla sentire una donna insignificante. Non potrò mai dimenticare quando una volte le urlò: "è colpa tua! E’ tutta colpa tua e di quell’errore!’’, per “errore” si riferiva a Justin. I litigi diventavano sempre più violenti ed insostenibili finché tua madre non minacciò Jeremy. Gli disse che se non l’avrebbe smesso sarebbe andata a denunciare tutto. E sai lui cosa fece? Addossò la colpa a Pattie, ancora una volta. Le disse che era una bastarda, che aveva detto tutto a Kathrine. La picchiò. Da quel giorno Patricia e Kate non si parlarono più. Poi, qualche tempo più tardi, ancora non so come ma Pattie rimase incinta, di nuovo. Tua madre pensava che lui avesse abusato di lei, che l’avesse costretta. Aveva completamente perso i numi della ragione, era diventato incontrollabile, era diventato un animale selvatico che alla prima occasione mordeva o graffiava. Ci si poteva aspettare tutto da quell’ uomo- mimò due virgolette. 
– Anche se Patricia e tua madre persero i contatti, lei non aspettò un secondo di più ed andò a raccontare tutto alla polizia. Dal primo all’ultimo dettaglio. Tua madre mi aveva detto che Patricia meritava di vivere, di vivere davvero. Quando finalmente ebbero prove abbastanza per sbattere quel bastardo dentro lui...- la nonna abbassò il capo. – Sai già come andò a finire.
Mi portai una mano alla bocca. – Quindi non è stato Justin- sussurrai lentamente.
- No, ma lui era l’unico che si trovava lì in quel momento. Era lui ad avere quel coltello in mano quella sera- la voce quasi le tremava.
- Perché allora ieri hai detto al nonno che gli dovevo stare lontana? Che era pericoloso? Lui non ha fatto niente... e tu lo sai.
- Perché Justin è un ragazzo complessato e pieno di problemi Rose Mary. Perché da quando è uscito l’unica cosa che fa è portare a letto una ragazza diversa ogni sera, ed io non voglio che lui ti stia intorno. Hai già troppi problemi a cui far fronte.
Un tuono ci fece sobbalzare. Puntai di scatto gli occhi verso la finestra, spaventata. 
- Spero solo che tuo nonno e gli altri stiano bene- disse Helen infine.



 




 








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HOLA, HOLA, HOLAAA!
Salve chicas, come va la vita? Spero bene, perché a me va benissimo yoyo. Cioè, 52 recensioni ai prima quattro capitoli? Ma davvero? E' tutto reale? Io ancora non ci credo, ma il merito è tutto vostro, quindi non smetterò mai di ringraziarvi e dirvi quanto siete stupende. Tralasciando le lusinghe, che ne dite del capitolo?Insomma, ve lo sareste mai aspettato un Jeremy Bieber nei panni di un assassino? Spero sia stata una trovata abbastanza originale e nuova, dal momento in cui non ricordo di averlo letto in altro ff, quindi, spero apprezziate! Detto questo, vi anticipo già che nel prossimo capitlo ci sarà l'entrata in scena di un nuovo personaggio, quindi, sperando di avervi incuriosite almeno un po', e cercherò di aggiornare il prima possibile.



Un bacione e alla prossima.
With love, your Alyssa.

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Capitolo 5
*** Nice to see you again ***


CAPITOLO 4
Nice to see you again



Bussarono violentemente alla porta.
- Rosie, vai tu?- urlò la nonna chiusa da qualche parte.
Feci per infilare le ciabatte e scesi dal divano. – Arrivo!- urlai.
Bussarono nuovamente. Mi affrettai a camminare e una volta arrivata all’ingresso aprii la porta.
- ROSIE!- esclamò Alyssa fiondandosi tra le mie braccia.
- Aly- sussurrai stordita.
Restammo abbracciate per un minuto, credo, finché non si staccò da me. – Oh mio Dio! Rosie... I-io non posso crederci, tu... Oh Dio... quanto mi sei mancata-  era scioccata.
Le sorrisi.
 Anche tu, Aly.
- Perché diamine non mi hai chiamata?- disse d’un tratto, quasi scazzata. Era sempre stata particolarmente incline agli sbalzi d’umore.
Ignorai la domanda.
Entra, comunque.
Alyssa si posò una ciocca rosso scuro dietro i capelli e varcò la soglia della casa. – Alla faccia dei nonnetti!- esclamò.
Non ve la passate per niente male Rosie cara.
- Già- sorrisi.
– Ad ogni modo, che ci fai qui?
Mi fermai a fissarla: non era cambiata per niente. I lunghi boccoli rosso misto al castano le cadevano lungo la schiena, gli enormi occhi color dell’ambra che sembravano raccontare una storia e i lineamenti fini e delicati che le donavano l’aspetto di una bambola di porcellana. Forse una cosa era cambiata: il fisico. Era cresciuta di qualche centimetro, aveva rassodato le gambe e assottigliato la vita... o forse erano i miei occhi che avevano un ricordo deformato del suo corpo.
Sospirò. – E’ sempre gratificante fare otto ore di volo ed essere servita con un "che ci fai qui?". Sei dolce quanto uno yoghurt Rosie cara.
Sorrisi.
 Scusami Aly, è che... insomma, sei piombata qui senza preavviso. Sono solo sorpresa.
D’un tratto sentii un sordo rumore proveniente dalla scale. Io e Alyssa girammo la testa. Era la nonna, e non appena ci vide si bloccò di scatto. – E tu chi sei?- disse minacciosamente puntando un dito verso Alyssa.
- S-salve signora, mi chiamo Alyssa- balbettò intimorita chiudendosi nelle spalle.
- Nonna, lei è una mia amica- feci una pausa, -la mia migliore amica.
Helen sorrise rassicurata. – Oh, che onore cara, fatti salutare- e detto ciò scese gli ultimi gradini rimasti e si avvicinò ad Alyssa schioccandole due baci sulle guance. – Arrivi dalla Georgia? Devi essere affamata vero? Oggi fa particolarmente caldo.. per fortuna. Non credo che tu sia poi così abituata al sole. Gradisci un bicchiere di acqua? O una tazza di tè ghiacciato? Ho anche della limonata fresca... l’ho preparata ‘sta mattina e forse si sarà un po’ riscaldata, sperò non ti dispiaccia. Se vuoi ho anc...
- Nonna!- esclamai.
– Ti comporti come se fosse la sopravvissuta di chissà quale tragedia.
- Già- disse Alyssa sorridendo.
– Grazie comunque nonna.
Nonna? Oh ti prego cara, mi fai sembrare più vecchia di quanto non sia. Puoi chiamarmi Helen. E anche tu signorina- continuò rivolgendosi a me, - odio quando mi chiami nonna.
Feci un gesto con la mano per far terminare lì la conversazione. – Vieni con me Aly- la trascinai per un polso.
- Dove la porti Rose Mary?- mi chiese la nonna.
- Le mostro la mia camera.
La donna annuì.
Una volta giunte in camera mi fiondai sui cuscini della cassapanca e mi misi a pancia in su. Alyssa invece si lasciò cadere sul mio morbido e accogliente letto con le trapunte lilla. Avevo sempre ammirato la sua capacità di adattamento e il suo sentirsi a suo agio in un ambiente a lei totalmente sconosciuto. – E’ stupenda, Rosie.
- Lo so- i miei occhi erano fissi sull’enorme finestra subito sopra la cassapanca. Anche se si trovava di lato riuscivo ad intravedere la cima delle montagne d’origine vulcanica – come mi aveva spiegato il nonno- e la grossa palma alta probabilmente tre metri, situata al centro dell’orticello. – La differenza tra questa camera, tappezzata in rosa e con tende e trapunte lilla, e la mia vecchia camera in stile ospedaliero è davvero spiazzante, vero?
- Giusto un po’.
Passammo un minuto o due in totale silenzio, finché Alyssa non ricominciò a parlare. – Ti manca?
- Eh?
- La tua vecchia vita.. La Georgia; i tuoi vecchi compagni; la tua vecchia scuola; la tua vecchia casa. Ti manca?
Non risposi. Il fatto è che mi mancava tutto da star male.
- Si- mi decisi a dire dopo svariati secondi.
– Ma la mia vita è qui adesso.
Parve delusa e vedi il suo sguardo rabbuiarsi.
- E tu facevi parte della mia vecchia vita come di questa, Aly- dissi cercando di farla sentire in un certo senso meglio. La conoscevo da quando era solo una bambina, avevamo entrambe cinque anni. Io ero più grande di lei di quattro mesi però, e utilizzavo ogni volta questo pretesto per comandarla. I bambini la pensano così no? Il più grande comanda, il più grande ha sempre ragione. I primi sei anni ci sopportavamo appena. Lei aveva la sua migliore amica ed io la mia. Le cose cambiarono in seconda media. Tutt’oggi non mi spiego il perché, ma è come se avessimo capito entrambe in contemporanea di appartenerci l’una all’altra. Ed eccoci lì, stese rispettivamente una su una cassapanca e l’altra su un letto rosa, a parlare delle nostre vecchie vite come se fossero passati anni, come se avessimo entrambe ottant’anni e la nostra vita stesse per finire da un momento all’altro.
- La mamma mi aveva raccomandato di non toccare questo argomento, ma poi mi sono detta: "Se non ne parla con me con chi ne deve parlare?’’. Bene- fece una pausa.
– I tuoi genitori?
Girai lo sguardo verso di lei e notai sorpresa che mi stava già guardando; forse mi osservava da quando eravamo entrate. Che cosa intendeva dire con ‘’I tuoi genitori?’’? I miei genitori erano morti, non c’era molto da dire. – Che significa?
Alyssa mi parve per qualche secondo titubante, come se stesse cercando la frase giusta da formulare. – Voglio dire... ti senti un po’ meglio? Per ciò che è accaduto insomma..
Il problema più grande era che io non avevo ancora realizzato che fosse accaduto. Una sera ritorni a casa e i tuoi genitori non ci sono più.. per sempre. Quando ti sembrano passati nemmeno pochi secondi da quando hai normalmente parlato con loro, dando la cosa per scontato.. come se fosse la più normale cosa del mondo parlare come i tuoi genitori. Com’è giusto che sia.  E poi ti inizi a chiedere “per quale motivo?”. Iniziano ad affiorare i primi sensi di colpa, ma non di quelli che sei abituata a provare quando litighi con la tua amica del cuore; quei sensi colpa che ti tolgono il sonno, il respiro; quelli che ti tagliano il cuore in mille pezzi; quelli che divorano l’anima; quelli che spingono le lacrime a scendere ad ogni ora del giorno. E poi ancora ti chiedi “cos’ho fatto di sbagliato?’’, o “sarei potuta essere una persona migliore?’’, o “riuscirò più ad essere felice?’’. Pensieri scollegati legati da nessun nesso logico. 
- Rosie?- la voce di Alyssa risultava debole alle mie orecchie. – Rosie?- continuò scuotendomi dolcemente.
Aprii gli occhi. O meglio, erano già aperti ma non vedevano davvero.
- Rosie, ma guardati...- mi accarezzò il viso.
– Stai piangendo.
Mi toccai il volto con una mano: era bagnato.
- Tieni- mi porse un fazzoletto.
– E scusami, non avrei dovuto mettere in mezzo quell’argomento.
- No, non è colpa tua- presi il fazzoletto e asciugai le lacrime.
– Ultimamente sono perseguitata dagli incubi sai?- buttai lì tanto per cambiare discorso.
Avevamo sempre avuto una passione per i sogni, i loro significati, il subconscio delle persone.
- Anche io- mi sorrise. Almeno qualcosa era rimasta come sempre.
– Prima tu.
- Aspetta, ho bisogno di mettermi comoda- mi alzai e mi posizionai a pancia in giù sul letto, con la testa retta dai gomiti. Alyssa fece lo stesso posizionandosi proprio di fronte a me.
 Sogno i miei genitori, sogno di essere al parco con loro, poi mi ritrovo catapultata nella nostra vecchia macchina. C’è un brutto presentimento che aleggia nell’aria e poi il buio per qualche istante, finché mi ritrovo fuori dalla macchina e assisto al momento dell’incidente. Infine mi sveglio impregnata dalle lacrime e dal sudore. Va avanti da settimane ormai..
Alyssa parve preoccupata.
 Beh, la faccenda del parco potrebbe indicare i tuoi ricordi più felici; il fatto che tu ti ritrova catapultata nella macchina sta proprio ad indicare un cambiamento.. un cambiamento avvenuto nella tua vita, in senso metaforico insomma. Il ritrovarti all’esterno dell’auto prima dell’incidente invece rappresenta la realtà, ovvero, tu non eri in quella macchina, per fortuna- fece una pausa. – Vedrai che passerà. Supererai tutto Rosie, io ne sono certa.
- Sì?- sospirai.
Sentii la nonna chiamare  il mio nome e poi sentii il rumore dei passi salire le scale e avvicinarsi alla porta. Scesi dal letto. – Nonna?
Helen diruppe nella stanza. – Rose Mary, Alyssa, gradite qualcosa?
Risi ripensando alla scena comica qualche minuto prima, di giù. – No nonna, niente grazie.
- A me invece, un tè freddo al limone non dispiacerebbe- disse Alyssa con un sorriso smagliante.
- Vado allora- la nonna ricambiò il sorriso.
- Aspetta- le dissi un attimo prima che chiudesse la porta.
– Veniamo con te.
Presi Aly per un braccio e la trascinai con me di sotto.
- Voglio mostrarti la spiaggia, ti va?- dissi una volta rimaste sole in soggiorno.
- Meraviglioso!- esclamò.
– E poi ho saputo che gli indonesiani sono particolarmente... ehm... caldi- mi diede una gomitata.
– Come no, caldi- dissi con l’aria un po’ svampita. I miei pensieri furono rivolti a Justin: lui non era per niente caldo. In fondo però, come potevo biasimarlo dopo ciò che la vita gli aveva riservato?
Nonna Helen ci raggiunse nel soggiorno con aria rammaricata.
– Alyssa, cara, il tè purtroppo è finito, ti ho portato una limonata. Va bene lo stesso?
- Ma certo, non si preoccupi Helen- rispose Aly andando a prendere il bicchiere.
La donna ritornò in cucina.
- Ah!- esclamò in estasi Alyssa dopo l’ultimo sorso.
– E' paradisiaco.
- Da’ qua- le strappai -delicatamente- il bicchiere da mano e mi diressi verso la cucina.
- Allora?- domandò la nonna rivolgendosi alla mia amica.
- SPET-TA-CO-LA-RE- rispose lei gesticolando in modo strano.
Era proprio buffa.
Posai il bicchiere nel lavabo. – Nonna noi andiamo.
- Dove? Alyssa è appena arrivata!
- In spiaggia- annunciai.
– Voglio mostrarle il posto.
Mi rivolsi verso la rossa e le sorrisi. Ricambiò.
- Va bene- parve un po’ delusa. In effetti mi dispiaceva lasciarla a casa da sola, ma forse ci aveva fatto l’abitudine.
Mi bloccai di scatto non appena uscimmo dall’abitazione. – E quella cos’è?- indicai inorridita una valigia nera con una stella a cinque punte.
- Uh!- si girò a guardarmi.
– Avevo dimenticato di dirti che resterò qui per qualche giorno
Si portò una mano dietro la testa imbarazzata. – Cos’è? La cosa ti preoccupa?- continuò dopo aver probabilmente letto lo sconcerto sul mio volto.
- Beh, non è tanto il fatto che tu debba restare qui, quanto quella stella satanica sulla tua valigia..
- Oh, quella... è una lunga storia.
E quando Alyssa utilizzava ‘’è una lunga storia’’ allora era davvero accaduto qualcosa di estremamente grave. Come quando quella volta mi assentai a scuola, il pomeriggio la chiamai per farmi dettare i compiti e lei mi disse che era accaduta una cosa magnifica e poi ‘’è una lunga storia’’: il nostro professore d’astronomia aveva molestato la vecchia e grassa bidella Linda (ma io ovviamente ero assente).


Avevamo trascorso il viaggio a discutere sulla sua “lunga storia”, e come avevo previsto, era una cosa grave: era sulla strada per diventare una strega (nel vero senso della parola). Mi aveva detto che un pomeriggio, trovò un immenso baule nella soffitta della nonna. Lo aprì e vi trovò all’interno libri di magia nera, candele e rose appassite. Quando chiese di quel baule alla nonna lei le svelò che era una strega, che anche sua madre lo era, e prima di lei sua nonna. Le aveva anche detto però che non c’era motivo di essere turbata, che erano streghe buone (a quel punto ero già con un irrimediabile mal di pancia e le lacrime agli occhi a furia delle troppe risate.). Io le avevo detto che ‘streghe buone’ faceva tanto witch, e lei mi aveva risposto fermamente che era proprio quello che erano. Si chiamavano però in un altro modo, wicca, le streghe della natura. Poi mi aveva anche raccontato che sempre le nonna le aveva detto che anche se nell’immaginario comune le streghe erano considerate ‘mostri’, loro non lo erano affatto, erano le sabba i veri mostri. Una vera e proprio setta satanica che compiva sacrifici, indiceva maledizioni e sortilegi, e che fino a qualche secolo prima massacrava i bambini. A quel punto del racconto avevo smesso di ridere. Ero solo raccapricciata ed incredula. Avevo sempre creduto in Dio, sin da quando ero bambina. I miei genitori mi avevano inculcato l’abitudine di pregare e di andare in chiesa ogni Domenica. Ero ben consapevole però, che come vi erano le persone che credevano e amavano Dio, vi erano anche delle altre che credevano e amavano satana. La cosa però mi aveva spaventata fino ad un certo punto, e poi mi ero lasciata convincere dal suo streghe buone.
- Bella storia Aly. E dimmi, nell’arco di queste settimane è accaduto anche... mh, non saprei... un avvistamento di unicorni vomitare arcobaleni?- decisi di non prendere la storia delle streghe troppo seriamente, le sarebbe passata nel giro di un mese o due (o almeno credevo) .
- Piantala- mi disse sorridendo, -ho anche imparato a leggere i tarocchi sai?
- Oh no! A quelli non ci crederò né ora né mai! Siamo noi a decidere del nostro destino... e Dio.
- Amen.
Risi.
– Le streghe possono dirlo? Cioè, non è come bestemmiare?
- Forse, ma io non venero satana, quindi...- mi disse ritornando seria.
- E chi se non lui?
- La Natura, la nostra Creatrice, la nostra Dea- sospirò stralunata, e probabilmente innamorata al pensiero della sua... regina.
Soffocai un risolino. L’intera faccenda mi faceva davvero ridere. – Adesso tralasciando satana, le streghe e i tarocchi, che ne pensi?- dissi con un ampio movimento del braccio per indicarle l’intero panorama.
- Sono esterefatta, davvero. Hai una gran fortuna sai?- si sedette sulla sabbia a circa due metri dall’acqua e osservò il paesaggio lasciandosi ammaliare dal mare cristallino, ma allo stesso tempo dalla foresta sulle montagne.
- Già.
Mi guardai intorno. – Justin, Daniel- sussurrai.
- Come dici?- mi chiese Alyssa alzando lo sguardo verso di me.
Non la risposi, e aguzzai la vista sperando di essermi solo confusa. Non ero per niente in vena degli atteggiamenti schivi e maleducati di Justin, e di quelli invece fin troppo gentili e in un certo senso invadenti di Daniel.
- Allora?- proseguì Alyssa.
- N- niente. Vieni, andiamo...- le porsi una mano per aiutarla ad alzarsi.
- Ma... non capisco. Siamo qui da manco venti minuti.
- Rosie! Rose Mary!- era Daniel che urlava alla nostre spalle.
- Qualcuno ti sta chiaman..
- Lascia stare!- le misi una mano dietro la spalla e la spinsi in avanti.
Lei si girò verso di me confusa, aggrottando la fronte. – Insomma, che diavolo ti prende?
- Rosie!- continuò Daniel.
Alyssa si girò verso di lui.
Ormai avevo perso l’occasione di filarmela: fui costretta a voltarmi anch’ io.
Vidi Dan scuotere una mano e iniziare a camminare a passo deciso verso di noi.
Alle sue spalle c’era Justin.
- Tante grazie- dissi sottovoce ad Alyssa, che mi guardò stranita.
Daniel ci raggiunse, Justin invece era a qualche metro dietro di lui, prendendosela con tutta calma. – Non ti facevo tipo da nascondino- mi disse strizzandomi un occhio.
Sospirai. - No... è solo che... non ti avevo visto.
- E questa incantevole ragazza?- domandò rivolgendosi ad Alyssa.
Quest’ ultima arrossì violentemente e gli diede timidamente la mano. – Alyssa, tanto piacere.
Aveva sempre avuto la capacità di controllare il suo tono di voce. Pareva calmo e pacato in ogni circostanza. Quante avrei voluto saper fare lo stesso.
Nel frattempo si era aggiunto anche Justin. Non mi aveva degnata nemmeno di un saluto, o quantomeno di uno sguardo, ma iniziavo a farci l’abitudine. I suoi occhi piuttosto, erano fissi su Alyssa.
- E’ la mia migliore amica- sbottai senza troppi preamboli.
– E stavamo per andare.
- No, veramente siamo appena arrivati. E tu chi sei?- chiese sorridente lei rivolta a Justin.
Lui ricambiò il sorriso, e riuscii a leggere nei suoi occhi una divampante malizia. – Io sono Justin, lieto di conoscerti- le prese una mano e la baciò.
Soffocai un conato di vomito. Questo sarebbe stato troppo persino per Daniel.
- Io Alyssa, puoi chiamarmi Aly però- gli sorrise inebetita.
Mi schiarii la gola. – Se avete finito con le effusioni, vorrei tornare a casa- alzai un sopracciglio guardando acidamente Justin.
Lui mi ignorò e proseguì:
 Tutto l’opposto della tua amichetta- e le rivolse un altro di quei stomachevoli e sdolcinati sorrisi.
Non l’avevo mai visto così spigliato, o almeno non con me. Poi però mi ritornarono in mente le parole della nonna: “L’unica cosa che fa è portare a letto una ragazza diversa ogni sera.”
Mi balenò anche in mente che il motivo per cui con me non ci aveva mai provato era che probabilmente gli facevo seriamente ribrezzo.
- Perché diavolo non siete a lavoro?- mi intromisi cercando di tergiversare su un altro discorso.
Stranamente, il fatto che tutta l’attenzione fosse rivolta ad Alyssa mi diede seriamente fastidio.
- Stavamo per partire ma poi ci siamo accorti che molte reti erano bucate e il capo ha mandato noi due in porto a comprarne delle nuove- rispose Daniel con un sorriso stampato in faccia.
- Mh.. questo non mi pare il porto sai?- dissi guardandomi intorno. – Ah...- sospirai. 
– Se solo il nonno lo sapesse.
In effetti il fatto che fossi la nipote del loro capo poteva ricorrermi spesso utile.
- No, no!- esclamò Daniel agitando le mani.
– Stavamo andando.
- Si.. certo- dissi.
– Allora che aspettate? Ciao!- strizzai l’occhio ad entrambi, e notai con non poco fastidio che Justin era ancora a fissare Alyssa.
- E’ stato un piacere, Alyssa- il biondo le baciò ancora una volta la mano.
Lei abbassò il capo imbarazzata.
Dopo che anche Daniel la salutò scuotendo una mano, si avvicinò a me e mi diede un bacio sulla guancia. Justin invece, non si era fatto problemi a voltarmi le spalle ignorando la mia presenza. Li vidi allontanarsi, finché Daniel si girò di scatto verso di me:
 Quasi dimenticavo, ‘sta sera darò una festa, i miei saranno fuori per qualche giorno. Porta anche la tua amica- urlò per poi girarsi e riprendere a camminare di fianco a Justin.
“Porta anche la tua amica” come se poi avesse dato per scontato il fatto che io ci fossi andata.
- Ci andremo! Ci andremo!- disse Alyssa una volta risedutasi sulla sabbia. L’affiancai.
- Ti sono tanto simpatici?- dissi inviperita.
- A te no? Quel Justin soprattutto...- guardò verso l’orizzonte con occhi incantati.
- Io lo odio- dissi.
– Ma sono convinta che anche lui mi odi- dal mio tono trapelò amarezza.
- Scherzi? Non faceva altro che guardarti!- disse, e pareva seriamente convinta.
Mi feci una risata.
 Una wicca strabica... potresti diventare famosa sai?
- A-ha, che spiritosa- mi diede una gomitata.
Stemmo in silenzio per qualche minuto, ascoltando solo in rumore dei gabbiani e delle onde.
- Oh!- esclamai girandomi a guardarla.
– Qual’era il tuo incubo?
- Oh sì! Ho sognato che tu dicevi di non conoscermi, che mi rinnegavi- guardò il mare con gli occhi che le luccicavano.
– Ma ripensandoci: non accadrà mai.
- Ne sei proprio sicura?
- Sì- appoggiò la sua testa sulla mia spalla.
– Sicurissima.  


 












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SPAZIO AUTRICE:
Eeeehilà ragazze! Eccomi ritornata con il quarto capitolo. Prima di farvi il punto della situazione e chiarirvi due cosette, devo ringraziarvi. Potrà sembrare una cosa banale e scontata ma ve lo dico con tutto il cuore: grazie. A tutte voi, una ad una. Detto ciò, vi dico che questo non è un vero e proprio capitolo, ma diciamo una parte transitiva per introdurvi quella che sarà la festa di cui parla Daniel verso la fine e soprattutto per presentarvi il nuovo personaggio entrato in scena: Alyssa (sì, si chiama come me, uh uh). In realtà, dopo aver riletto un numero infinitesimale di volte questo "capitolo", non mi piace, e tra quelliche ho pubblicato fin'ora, è quello che convince meno, ma spero ugualmente che voi apprezziate e che troviate il tempo di lasciare un recensione. Mi farebe davvero un piacere immenso. E infine devo chiarirvi una cosa: siamo a stento all'inizio, e il cammino sarà ancora lungo. Non avete idea di ciò che vi aspetterà in futuro, quando entrerete nel vivo della storia. Ci tenevo a precisarlo perché per il momento è tutto abbastanza piatto, accadono giusto dei fattarelli ma niente di che, vi chiedo dunque di avere pazienza e spero di non deludervi.


your Alyssa.

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Capitolo 6
*** My best (worst) friend ***


CAPITOLO 5
My best (worst) friend


 
- Sono proprio stufa di queste ricole feste! Sembra di essere in una puntata di “The Vampire Daries”, feste ogni di’!- Esclamai lasciandomi cadere sul letto.
- Beh, se tu non ne hai voglia posso sempre andarci con tuo nonno- disse Alyssa con gli occhi fissi sulla sua mano, intenta a stendere una passata di smalto trasparente.
Una volta tornato da lavoro avevo presentato al nonna Alyssa. In un batter d’occhio si comportavano già come se fossero amici di vecchia data, la cosa però mi piaceva.
- Oh, Daniel è una gran palla! Se non ci andrò continuerà ad assillarmi- dissi.
- Credo che lo farà in ogni caso- sorrise.
- Che vuoir dire?- domandai aggrottando la fronte.
- Gli piaci!- cantilenò allegra.
La ignorai.
Mi girai su un lato e mi misi ad osservare la luce rosa emanata dal lumino della Sirenetta che avevo sul comodino. Me l’ero portato dietro dalla Georgia, e no, non m’importava di passare per una bambinetta. Quello era uno dei pochi ricordi della vecchia vita che mi rimanevano. Non mi spiego il motivo ma la sua luce mi aveva sempre rilassata, fatta sentire protetta e amata, e poi l’aveva scelto papà. – Dobbiamo proprio andarci Aly?
Lei sbuffò. – Non azzardarti a cambiare idea dopo avermi fatto passare tre ore appresso a te per trasformati da cavernicola trascurata a donna. E poi che problema hai? Sei bellissima!- diede un’ultima passata al mignolo.
In realtà il mio guardaroba l’aveva delusa parecchio. Solo jeans, shorts, e qualche maglietta "con una taglia da obesa", come l’aveva definite lei. Probabilmente voleva dire che erano un po’ larghe. L’unico capo decente che possedevo era un vestitino color cipria regalatomi dalla mamma; davvero fine ed elegante ma le avevo detto che l’avevo già indossato al molo, e lei aveva annuito dicendo:"Se ti vedono sempre con le stesse pezze addosso ti prenderanno per una barbona stracciona". Così, disperata, aveva deciso di prestarmi qualcuno dei suoi abiti chic. Dio doveva volermi davvero bene perché quello era un evento verificatosi piuttosto raramente nella vita di Alyssa. Cacciò dalla sua inquietante valigia da strega un vestito lungo fino ai piedi di chiffon, con una fantasia floreale che andava sui toni del rosa e del glicine. Era ultra leggero, e la cosa mi piaceva, ma la parte che mi metteva un po’ in imbarazzo era la generosa scollatura che lasciava intravedere il seno, dettaglio che avevo in tutti i modi cercato di nascondere con la convinzione che una seconda fosse davvero troppo poco. La cosa che tirò fuori subito dopo fu come una botta in testa: i tacchi. Insomma, non avevo la minima intenzione di vantarmi, ma il mio metro e settantacinque mi andava più che bene. E poi, chi ci era mai salita su uno di quei trampoli? Riuscii così a convincerla per un paio di ballerine. Per il trucco invece, non avevo avuto niente da ridire: solo mascara, una leggera sfumatura di blush rosato sulle guance e un colore altrettanto chiaro sulle labbra. Mi aveva detto che ero bellissima così, e che non avevo bisogno di trucco per sembrare bella. Anche per i capelli aveva optato per un look sobrio, e in fondo, cosa c’era di meglio che lasciarli sciolti? Erano lunghi e lisci come la seta, quindi non avevo bisogno di piastra o qualche crema particolare. I capelli erano una delle pochissime cose che amavo di me stessa, e stranamente, al contrario di tutte le altre brune o castane, non desideravo averli biondi per nulla al mondo. Lo trovavo troppo insipido e sciapito; il nero invece riusciva splendidamente a mettere in risalto gli occhi chiari, in particolare quelli verdi, come i miei.
- Piuttosto, sai dove abita?- mi chiese richiudendo la smalto e puntando lo sguardo su di me.
- Sì, credo. Per quello che ho potuto capire dalle indicazioni del nonno abita a circa cinque minuti di macchina da qui. Dal lato opposto della spiaggia.
- Mh, mh, la cosa comincia a farsi interessante- sorrise intrigata.
Non avevo ancora colto a pieno cosa intendesse dire, così feci spallucce. – Andremo con la macchina, comunque.
- Sì, in effetti con questi tacchi- abbassò lo sguardo verso di essi e storse i piedi. - Non credo di arrivare lontano.
- Io ti avevo detto di mettere le ballerine..
Sventolò una mano. – Sveglia tesoro! Sono a stento un metro e sessantasette.
L’ossessione per l’altezza era da sempre il suo chiodo fisso. Non era molto più bassa di me, e nessuno pareva farci caso, tranne lei. E poi la sua pancia piatta e le gambe sode la slanciavano parecchio, e questo era un punto a suo vantaggio. – Ma ritornando al nostro discorso: ci accompagnerà uno di quei tuoi amichetti hot?
- Io non conosco nessuno qui.. a parte Daniel e Justin.
E il ragazzo della chitarra di cui non conoscevo il nome, e di cui avevo deliberatamente deciso di non parlare a nessuno (a parte Justin, a cui ne avevo parlato senza un apparente motivo). Anche se, il fatto di tenerlo segreto ad Alyssa mi faceva sentire terribilmente in colpa, ma in fondo, a chi importava? Era solo una fantasia elaborata dalla mia mente. Forse non era così speciale, forse era un ragazzo come tutti gli altri, o forse ancora peggio. Non sapeva di me ad ogni modo, e la cosa in parte mi faceva sentire sollevata (non avrei mai voluto che le mie aspettative venissero deluse). – Ci accompagnerà il nonno.
- E dimmi, sai se ci sarà anche Justin?
- Non ne ho idea, ma la cosa non suscita in me poi così tanto interesse. Spero solo che se ci sarà, la nonna non lo venga a sapere, e soprattutto che non venga a sapere che fai la gatta morta con lui- risposi acida, forse più di quanto avrei dovuto.
- Perché? Ha fatto qualcosa di male?
Veramente questo non l’ho capito ancora bene, forse sì, o forse no. – Non le è particolarmente simpatico.
Alyssa sbuffò. – Peccato, era così carino..
- Sì.. carino.
 

Eravamo in viaggio da quasi dieci minuti, le previsioni del nonno erano evidentemente sbagliate. Ogni tratto di strada era uguale a quello precedente ma allo stesso tempo diverso. C’era verde ovunque, e la strada non era una di quelle strade i quali ero abituata a percorrere. Queste erano strette, e circondate dalla vegetazione più svariata.
- Nonno, ci siamo? Sono le 22.30 e saremmo dovute stare lì da un pezzo ormai.
- Si, si, tranquilla, siamo quasi arrivati- disse non scollando nemmeno per un attimo gli occhi dalla strada.
Mi girai verso il finestrino. Il cielo era nuvoloso, e aveva tutta l’aria di scatenare un acquazzone. Ripensai a ciò che mi aveva detto la nonna, all’uragano, alle persone che iniziavano a preoccuparsi. Scacciai dalla mente un brutto pensiero.
- Ragazze, io so cosa accade in questi tipi di feste- disse improvvisamente Fred, -ci sono alcolici e ragazzi che fanno sesso in ogni parte della casa, ma vi prego di essere discrete.
Aveva un tono serio e supplichevole contemporaneamente.
- Non si preoccupi Fred- disse Alyssa dandomi una gomitata.
Risi comprendoni la bocca con una mano.
Il nonno premette di scatto il freno. – Oh, siamo arrivati.
- Bene- dissi. – Allora a dopo- feci per aprire lo sportello e mettere un piede fuori dall’auto.
- Aspetta!- urlò lui girandosi verso di me, - chi vi accompagnerà a ritorno?
In effetti a questo non ci avevo pensato. La festa sarebbe finita sicuramente a notte tarda, e non mi andava di far scomodare il nonno. – Troveremo qualcuno, vedrai.
Lui annuì non troppo convinto.
Entrambe scendemmo dalla macchina, e ad accoglierci ci fu un enorme ed imponente cancello dorato, con su le iniziali ‘’JL’’. Doveva essere il padre di Dan, probabilmente.
Una volta entrate da un piccolo cancelletto aperto di lato, attraversammo un lungo viale alberato, finché non arrivammo a destinazione.
- Proprio un’ umile e modesta dimora!- esclamò Alyssa ironica.
Io non risposi. Ero semplicemente esterrefatta. Più che a Bali sembrava si essere in una zona chic di Miami. La ‘’casa’’, si sviluppava su tre piani. Era di colore bianco e vi si entrava all’interno salendo dei larghi scalini di marmo. Tutt’intorno era circondata da palme e fiori variopinti.
Già dall’esterno rimbombava la  musica ad un volume umanamente insopportabile. Per quel poco che ne capivo di musica doveva essere rap. Avevo sempre amato quel genere, anche se non mi ero mai azzardata a cantare qualche strofa reppando. Sarei stata decisamente ridicola.
- Beh, direi di entrare- disse Alyssa prendendomi per mano.
La porta d’ingresso era socchiusa, così la spalancai ed entrammo all’interno dell’abitazione.
Inutile dire che il dentro era pomposo almeno quanto il fuori. Non riuscii a cogliere i particolari della casa, c’erano troppe persone. Persone ovunque. Occupavano tutto il perimetro.
Mi feci spazia tra la folla, tenendo sempre la mano nella salda stretta di Alyssa. Intravidi Daniel, in lontananza, che rideva a crepapelle in compagnia di qualche amico. Piombargli vicino in compagnia di altri ragazzi mi avrebbe sicuramente messa in imbarazzo, ma che altra scelta avevo?
Mi avvicinai sempre di più fino a ritrovarmelo di fronte.
Non appena mi vide sgranò gli occhi e soffocò un: ‘Oh’. Il suo sguardo poi, puntò alla scollatura che, come avevo previsto, non passò inosservata. – Però!- esclamò.
Gli feci un cenno di saluto con la mano. – Ho portato anche Alyssa, come mi avevi chiesto.
Mi girai verso di lei, ma vidi che guardava oltre. Stava osservando tutto e tutti con la bocca ancora leggermente spalancata.
- Aly?- la presi per un braccio.
Si girò di scatto, sorridendo entusiasta non appena vide Daniel. – Ehi! Però, proprio niente male!
Lui sorrise di rimando. – Mi fa piacere che ti piaccia.
Mi chiesi dove fossero finiti i ragazzi con cui stava parlando poco prima. D’un tratto si erano dissolti tra la folla. Tirai un sospiro di sollievo, dopo tutto, se ero lì era solo per far contenta Alyssa, e non di certo perché ero in vena di fare nuove amicizie.
- Justin?- chiese lei elettrizzata all’idea di rivederlo.
- Oh, non ne ho idea. Cos’è, muori dalla voglia di vederlo?
Lei rise silenziosamente e abbassò lo sguardo. – No, no. Posso stare benissimo senza.
Iniziava ad irritarmi il fatto che Alyssa fosse così attratta da Justin. Cioè, non che me l’avesse detto, ma indirettamente si capiva.
- Insisto! Possiamo andarlo a cercare se vuoi- le disse stuzzicandola.
Alyssa si girò a guardarmi, come se cercasse il permesso da parte mia. Io odiavo Justin, ed era chiaro che Daniel fosse più interessato a stare con lei che con me, quindi, in fondo, cosa poteva fregarmene se le avessi detto ‘si’? Così annuii. – Va pure- dissi sbuffando, ma mi ci volle una certa forza di volontà per formulare quella frase. Il motivo non mi era ancora del tutto chiaro.
Li vidi allontanarsi, lei sotto il braccio di lui.
Mi guardai intorno.
In effetti non avevo calcolato l’eventualità che rimanendo sola ed indifesa qualcuno avrebbe potuto importunarmi, o peggio ancora, comportarsi nel modo in cui si era comportato quel ragazzo al falò sulla spiaggia, durante l’ hola ananìha.
Scacciai via quei brutti pensieri e m’incamminai, proseguendo a spintoni tra quell’ammasso di persone.
Non potei fare a meno di notare che erano tutti con una birra in mano, o per lo meno qualcosa di alcolico, e sì, proprio come aveva previsto il nonno c’erano ragazzi che facevano sesso nascosti qua e la. Mi sentii immediatamente in imbarazzo. Io non avevo mai baciato nessuno in vita mia, al contrario di Alyssa, che si era spinta anche oltre.
Forse era per questo che tutti erano così attratti da lei. Forse si percepiva il suo essere matura, e il fatto di essere al mio fianco lo faceva notare ancora di più, lei però non pareva farci caso.
Camminai a passo svelto senza ancora una meta precisa. Evitai qualche bottiglia di whisky buttata barbaramente per terra e incontrai nel mio cammino perfino un reggiseno. Sorrisi.
Arrivai in un’ala della casa decisamente più affollata di quella in cui mi trovavo in precedenza. Vidi prima di varcare la soglia di una stanza, che tutti si stavano riunendo al centro, altri che invece si tenevano alla larga da quel nucleo che si era formato.
Sentii delle urla.
- Devi starle alla larga cazzo!- fece la voce di uno.
- Non prendo ordini da nessuno, ne tantomeno da uno stronzo come te!- urlò l’altro spingendolo violentemente.
Entrò in scena una ragazza dai capelli biondi, in lacrime, che si mise in mezzo tra i due. – Vi prego smettetela.
Capii all’istante che era lei la causa di quel che stava succedendo.
- Levati dal cazzo puttanella- ringhiò minaccioso il secondo lanciandosi contro il primo, rispondendo alla sua precedente provocazione.
Così in un batter d’occhio iniziarono a volare pugni, calci, imprecazioni. A loro si unirono anche le rispettive comitive. Mi ero sempre chiesta per quale assurdo motivo invece di placare una lite, gli amici dei diretti interessati si buttavano a loro volta nella mischia quasi felici di fare a botte.
Stupidi trogloditi, pensai.
Fu coinvolta anche la bionda, che vidi improvvisamente cadere a terra, portandosi una mano alla testa.
Mi lanciai senza pensarci due volte in suo soccorso.
Mi chinai su di lei trascinandola circa un metro lontana dagli altri. – Tutto ok?
Lei alzò gli occhi verso di me. Le lacrime non smettevano nemmeno un attimo di scendere. – N- no- balbettò.
- Ce la fai ad alzarti?- le chiesi mettendole una mano sulla spalla.
Lei annuì debolmente. Si aggrappò al mio braccio, e tremante, si sollevò.
- Andiamo a prendere del ghiaccio.
Era ridotta piuttosto male: le usciva sangue dal naso e dalla bocca, ed era rossa in viso per le botte prese. – Aspetta- mi disse, -loro?- continuò girandosi nel punto in cui stava andando avanti la rissa. – Si faranno del male- iniziò a singhiozzare.
- Non importa, vieni con me.
E detto questo iniziai a camminare. In realtà non avevo idea di come fosse divisa la casa, né tantomeno di dove si trovasse il bagno, così, senza un motivo preciso, la portai verso le scale e salimmo al piano di sopra. Uno, era più tranquillo; due, avremmo trovato un bagno con maggiore calma. – Bene- dissi, -non ci resta che bussare in ogni camera e capire dov’è il bagno.
La bionda sorrise.
Il secondo piano era un lungo corridoio in cui sbucavano una miriade di stanze.
Arrivammo alla terza e bussai come avevo fatto per le precedenti, che si erano rivelate rispettivamente una camera da letto e una sgabuzzino.
- Occupato- si affrettò a dire una donna oltre la stanza. Mi ci volle un attimo per connettere: era la voce di Alyssa.
Spalancai la porta con la più totale calma. Era la mia migliore amica e tra migliori amiche non esiste in termine “disturbare”, quindi, cosa avrei mai potuto fare di male?
Poi capii.
Girò di scatto la testa verso di me, e dopo di lei Justin.
Erano avvinghiati gli uni agli altri, su un letto. Lui le teneva ancora le mani sotto una coscia e lei al suo petto.
- Rose Mary- sussurrò Justin.
Nessuno parve accorgersene, tranne me.
Rimasi lì, sulla soglia della porta, inerme.
Fissavo il ragazzo che qualche istante prima Alyssa stava baciando appassionatamente. Il suo sguardo, questa volta, al contrario delle altre, non era poi così imperscrutabile. Mi parve di vedere i suoi occhi turbati, sconvolti e.. delusi.
Indietreggiai lentamente, e prima che Alyssa potesse alzarsi in piedi, uscii dalla stanza e mi chiusi la porta alle spalle.
- Tutto ok?- mi chiese la bionda che, avevo dimenticato per qualche secondo, era lì con me perché stavamo cercando un bagno.
Com’era evidente, non era in quella stanza.
- Si.. sì. Scusami. Vieni, continuiamo.
Cercai di cancellarmi dalla mente quella scena, dovevo trovare un bagno e aiutare la ragazza a rimettersi in sesto. Ma poi, a me cosa importava di loro? Ad Alyssa non era vietato baciare Justin. Lo stesso per lui.
Eppure, per qualche assurdo motivo, la cosa mi provocò una fitta alla stomaco, che persistette anche una volta trovato un maledetto bagno.
- Finalmente!- esclamai accendendo la luce e chiudendo la porta. 
Mi guardarmi intorno per orientarmi.
- Come ti chiami?- mi domandò la ragazza facendo per sedersi sul bordo della vasca da bagno.
Trovai all’interno di un cassetto una specie di kit di sopravvivenza. – Io Rose Mary- aprii la scatola di latta con l’enorme croce rossa sopra. – Tu?
- Demetria.
Presi il ghiaccio e mi girai verso di lei. – Bel nome! Puoi chiamarmi Rosie, comunque- dissi dolcemente.
- Tu invece puoi chiamarmi Demi.
- Posso chiamarti Demetria? Mi piace di più- le sorrisi.
Parve essere colta di sorpresa. – Certo.
- E’ che mi ricorda una dea della mitologia greca: Demetra. Era la sorella di Zeus ed era considerata la ‘madre terra’. Inoltre era anche la portatrice delle stagioni, la dea dei fiori, della frutta e della terra- le spiegai portandole del ghiaccio al naso e premendo delicatamente.
- Non avevo mai visto il mio nome da questo punto di vista, grazie- disse timidamente e ancora visibilmente scossa.
Le ordinai di tenere il ghiaccio ancora lì per qualche istante e corsi a prendere della carta per toglierle il sangue che le usciva di bocca.
- Se non ti scoccia, potrei sapere perché quei due ragazzi litigavano?- proseguii.
La domanda parve metterla in imbarazzo. Abbassò il ghiaccio e mi guardò negli occhi. – E’ un gran casino- stette in silenzio per qualche istante. – Joe, quello che urlava di starmi alla larga, è il mio ex..
- Lo immaginavo- la interruppi sovrappensiero.
- L’altro che invece gli ha dato dello ‘stronzo’, è Wilmer. E’ da poco che esco con lui ma credo sia finita ormai.
- Beh, ti ha dato della ‘puttanella’. Idiota!
- In realtà l’ha fatto perché aveva visto me e Joe ballare. Ma credimi, non c’erano secondi fini in quel gesto.. ci stavamo solo comportando come buoni amici- nella sua voce c’era una strana inclinazione, prova che non era del tutto convinta di ciò che diceva.
- E’ stato il tuo ragazzo, insomma, non vorrei mettere il dito nella piaga ma.. come si fa ad essere buoni amici dopo aver avuto una storia?- buttai lì.
Mi chiesi se era il caso di dare lezioni d’amore dal momento in cui il ragazzo per cui provavo qualcosa non sapeva nemmeno che esistessi e mi ero infatuata di lui per mezzo di una chitarra.
Lei parve pensarci un po’ su, poi riprese a parlare: - Forse hai ragione, ma non credo che ci sia possibilità che tra di noi le cose possano ritornare come una volta.
Non stetti a chiederle il perché, erano affari suoi, e poi ero tutta immersa nel guarirle il volto.
- Chi erano quei ragazzi di prima?- chiese lei soffocando un ghigno di dolore per il sangue su cui stavo versando del disinfettante.
- Quali ragazzi? Ne abbiamo trovati tanti insomma- sorrisi distrattamente e non pensandoci molto su alla sua domanda. Poi capii: si riferiva a Justin ed Alyssa.
Il mio sorriso mutò in una smorfia rabbiosa. – Oh, loro.
- Scusami, se non ti va di parlarne non devi preoccuparti.
- No, no. Tu mi hai parlato dei tuoi ex ed adesso tocca a me- cercai di riassumere un’espressione serena. – Lei è la mia migliore amica.. e lui.. beh, lui.. un ragazzo.
- Sì, mi pareva abbastanza ovvio che fosse un ragazzo- disse lei sorridendo.
In realtà non sapevo cos’eravamo. ‘Eravamo’, come se poi ci fosse un ‘noi’. Quella situazione mi mandava nella confusione più totale. Un giorno mi salutava, l’altro no. Un altro giorno mi salvava da un mentecatto in piena fase di tempesta ormonale, l’altro mi sminuiva mettendomi a paragone con la mia migliore amica. – Il fatto è che non so nemmeno se siamo amici o meno.
- Non si direbbe che sia uno sconosciuto dal modo in cui l’hai guardato prima e dal modo in cui lui ha guardato te..- ribadì lei senza alcuna cattiveria, solo essendo onesta.
In che modo ci guardavamo?
Mi vennero in mente le parole di Alyssa sulla spiaggia: “Non faceva altro che guardarti’’ .
Era per tutti così evidente tranne che per me.. e per lui.
- In realtà non lo so, certe volte si comporta in modo carino (e queste ‘certe volte’ possono contarsi sulle dita di una mano), altre fa totalmente finta che io non esista. E’ tutto così confuso- sputai lì frustrata.
- Forse è semplicemente.. timido.
Sorrisi sinceramente divertita. – Beh, non lo conosci affatto. E poi che motivo avrebbe di essere chiuso e irascibile solo con me?
- Non lo so- disse lei portandosi l’indice sulle labbra, pensosa. Notai dei tatuaggi su entrambe le braccia, ma non mi soffermai più di tanto a guardarli. – Mettila così- proseguì, - forse si comporta in questo modo solo con te perché ti reputa diversa. Forse gli piaci- terminò con un sorriso a trentadue denti, fiera del ragionamento che aveva appena ideato.
Non potei fare a meno di notare quanto fosse bello ed ammaliante il suo sorriso. – Scarterei l’ipotesi ma grazie- sorrisi a mia volta. – Bene, qui abbiamo finito.
- Sei stata un’ottima crocerossina, Rosie.
- E tu un’ottima paziente, Demetria.
Sorridemmo entrambe.
 La porta alle mie spalle si spalancò violentemente, tanto da essere colpita ad un’anca.
- Devi andare via di qui- mi incalzò Justin decisamente allarmato e inquieto.
- Che diavolo succede?- domandai provando un brivido non appena i nostri occhi si incrociarono.
- E’ arrivata la polizia.
Ed ecco un finale col botto.





 

















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SPAZIO AUTRICE:
Bonjour à tout le monde!
Ok, lo ammetto, sono poco credibile, ho usato google traduttore, lol. Eccomi qui con il quinto capitolo e sì, proprio come avevano previsto alcune ragazze, la nostra amica Alyssa inizia a portare guai. Vi confesso che ho provato anche io un po' di odio nei suoi confronti mentre scrivevo la scena de bacio ahah. Non so, è la prima volta che mi capita: il capitolo mi piace. Cioè, credo sia uno dei migliori scritti fin'ora (nonchè uno dei più lunghi), quindi, sono abbastanza fiera del mio lavoro, e spero davvero con tutto il cuore che possiate apprezzarlo. Detto questo, colgo l'occasione per ringraziare tutte coloro che hanno aggiunto la storia ai seguiti/preferiti/ricordati, coloro che ogni giorno mi lasciano delle dolcissime recensioni (105, non mi sembra vero), e anche le cosiddette "lettrici invisibili", grazie a tutti dal profondo del mio cuore! E' solo grazie a voi se le mie fantasie prendono forma, e se il mio sogno di scrivere una fanfic sta diventado realtà. Lo so, non sto scrivendo un libro, ma sono comunque così felice e grata a tutti voi per il supporto e i complimenti. Ok, mi sto dilungando troppo, come sempre. Termino dicendovi che pubblicherò il sesto capitolo tra pochi giorni, e che il prossimo (il settimo) sarà pubblicato direttamente il primo Settembre. I motivi sono che devo iniziare a studiare per le vacanze, e dopodché andrò in vacanza, quindi non posso dedicare altro tempo alla fan fiction, mi spiace davero, e spero che nonostante la lunga pausa non mi abbandonerete. Detto questo, mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate del capitolo, dunque: RECENSITE!

 
with love, your Alyssa

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Capitolo 7
*** Wheel of fortune ***


CAPITOLO 6
Wheel of fortune


 
Mi lasciai cadere su uno dei divanetti bianchi di pelle della casa, Justin sedeva al mio fianco. Alyssa invece, era stravaccata a gambe aperte su una poltrona, di fronte a me.
Justin avrebbe apprezzato la visuale, pensai.
Daniel era troppo nervoso per stare seduto, così aveva deciso di camminare avanti ed indietro imprecando sottovoce.
Stetti a godermi il silenzio che abitava in quel momento nella casa. Era vuota, completamente vuote, tranne noi ovviamente.
L’arrivo imminente della polizia di Bali   creò lo sconforto generale.
Erano piombati in casa con delle divise e dei manganelli, ordinando a tutti di sgomberare l’abitazione e annunciando la fine della festa.
Dopo aver avvisato me e Demetria dell’arrivo della polizia, Justin mi aveva afferrato per mano, e mi aveva detto di non muovermi da vicino a lui. – Alyssa?- gli avevo chiesto. – E’ andata a cercare Daniel- mi aveva detto.
E finché la casa non si svuotò del tutto, rimasi intrappolata al fianco di Justin all’interno di uno sgabuzzino. – Se la polizia ci vede, ci caccia via, ma tu non vai da nessuna parte. Aspetteremo qui.
L’idea di essere chiusa lì dentro, con lui, al buio, non mi andava molto a genio, ma nemmeno lui pareva essere entusiasta all’idea. Notai che ogni tanto ansimava e si aggrappava al muro come se gli mancasse l’aria.
Quando ebbe quella reazione per la terza volta, circa, cercai la sua mano, e senza stare lì a fare troppe congetture gliela strinsi forte per qualche secondo.
La cosa parve tranquillizzato.
Andammo avanti in quel modo per circa dieci minuti, finché Daniel dalle scale non urlò il nostri nomi a squarciagola, annunciandoci che se n’erano andati via tutti.
Così eravamo usciti da lì ed avevamo raggiunto lui ed Alyssa al pian terreno.
Fino a ritrovarci nella situazione in cui ci trovavamo in quel momento.
- Maledizione! Quando i miei genitori verranno a saperlo - Daniel era un omone grande e grosso, e il fatto che avesse ancora timore dei suoi genitori lo rese stranamente tenero.
- Sta’ calmo Lightwood- disse Justin.
Perché diavolo non si chiamano per nome?
Un flash illuminò l’intera stanza.
Mi guardai intorno, o meglio, guardai fuori dalla finestra e capii che non era un flash, ma un lampo. Mi sentii stupida.
- E come se non bastasse, ci si mette anche il cielo- disse stizzita Alyssa.
E col migliore dei tempismi, non appena ebbe terminato la frase partì uno spaventoso tuono.
Rabbrividii e mi portai le gambe al petto, come quando avevo sei anni.
Justin girò leggermente il capo verso di me, come se stesse per sputare qualcosa di offensivo sul fatto che avessi paura, così non ricambiai lo sguardo.
Non ero in vena dei suoi stupidi insulti, o di rispondere alle sue provocazioni, così rimasi a guardarmi le ginocchia.
Dopo una serie di altri lampi e tuoni, e, l’aggiunta della pioggia, Daniel decise di spegnere le luci per non correre alcun pericolo, e chiese ad Alyssa di accompagnarlo a prendere qualche candela.
Svoltarono in un angolo a destra e sparirono.
Eravamo soli, adesso.
- Non devi avere paura- disse improvvisamente, - passerà.
Girai incuriosita il mio sguardo verso di lui. Era così evidente il fatto che fossi terrorizzata?
- Io non ho paura.
- Dal modo in cui ti mordi le labbra, non si direbbe.
Un altro lampo fece capolino.
- Lasciami in pace- dissi acida.
C’era qualcosa che mi spingeva ad odiarlo, ed il motivo di quel qualcosa era sepolto nei meandri nel mio cuore, e lì sarebbe stato più che bene.
- Cos’è che ti spaventa allora?- proseguì ignorando la richiesta fattagli precedemente.
Non risposi.
Io amavo la pioggia, i temporali un po’ meno ma non mi creavano alcun tipo di problema, erano gli uragani piuttosto.
Non potei proprio fare a meno di pensare a ciò che mi aveva raccontato la nonna a proposito. – Credi che si sia la possibilità che il fatto che piova anche d’estate possa scatenare un uragano?- lo guardai negli occhi intensamente, con non poca paura.
- Chi può dirlo?- abbassò lo sguardo. – Non devi temere la natura Rose Mary, essa ha un corso da seguire. Abbi paura delle persone piuttosto. Loro sanno essere più terribili di un uragano.
Le sue parole, ma soprattutto, il modo in cui lo disse, lo fecero apparire.. fragile.
C’era qualche possibilità che la sua frase fosse indirettamente indirizzata a Jeremy?
Per qualche momento tutto il rancore che provavo nei suoi confronti svanì.
- Parli come se la vita ti avesse riservato qualcosa di orribile - dissi sapendo fin troppo bene cosa la vita gli aveva riservato.
Non rispose.
La conversazione terminò lì.
Tutta la casa era nella quiete più totale, persino i tuoni, non erano più suoni spaventosi, ma suoni semplicemente rumorosi che facevano da cornice alla situazione. Si sentiva il rumore del silenzio.
Al contrario di ciò che mi era capitato in altre circostanze nel trovarmi in uno stato di silenziosità con dei ragazzi, rimanere in silenzio con Justin era diverso. Era rilassante.
Chiusi gli occhi, e non appena vidi il buoio, percepii il suo sguardo su di me. La cosa mi piaceva.
Il battito del cuore iniziò a risuonarmi nelle orecchie, e per un momento temetti che lo sentisse anche lui.
- Mi dispiace che tu prima abbia visto me ed Alyssa.. ehm..- sussurrò a voce basse, per non rovinare l’atmosfera che si era creata.
Aprii gli occhi e girai lo sguardo verso di lui. La sua bellezza era disarmante. - Lascia stare. Mi sono comportata da stupida. In realtà non so nemmeno perché abbia reagito così- balbettai.
L’avevo detto davvero? Mi stavo davvero scusando con lui?
- No, sono io a doverti delle scuse.
- Scuse per cosa?
- Per il modo in cui mi comporto con te.
Almeno se ne rendeva conto.
La pioggia continuò impetuosa, ogni secondo più violenta.
- Eccoci qui- annunciò Alyssa con un sorriso sghembo sul volto. Quest' ultimo però mutò completamente non appena vide me e Justin circondati da un’aria così intima.
La cosa però non mi fece sentire in colpa neanche un po’.
Insomma, era davvero stata un’ ingenua a pensare che il bacio che si erano dati valesse qualcosa.
- Abbiamo interrotto qualcosa?- intervenne Daniel sbattuto, alle prese con una pila di candele in mano.
- No. Niente- dissi alzandomi e andandogli in contro per dargli una mano con i ceri.
- Lascia, faccio io- mi bloccò Justin alzandosi a sua volta e superandomi.
I due, con l’aiuto di Alyssa accesero un numero sufficiente di candele per far apparire il tutto un po’ meno grottesco e da film horror.
Adesso c’era un’atmosfera carina, familiare oserei dire.
Non appena ebbero finito il lavoro si sedettero.
Justin riprese la sua posizione sul divano accanto a me, Alyssa fece lo stesso per la poltrona, e Daniel si accasciò su un pouf di pelle bianca, di canto alla poltrona.
- Bene- disse, - che si fa?
- Per quanto mi riguarda, voglio tornare a casa- risposi aspra.
- Dormirete qui. Tutti e tre.
Lo guardai sconcertata.
- Tranquilla- proseguì lui, - ho già avvisato tuo nonno. Ha acconsentito aggiungendo “ma non toccare Rose Mary o sei licenziato’’- terminò facendosi uscire un mezzo sorriso.
La notizia mi provocò un lieve rossore alle guance.
- Stupendo!- esclamò Alyssa con una vocina stridula. Dopodiché rivolse uno sguardo d’intesa a Justin del tipo: tu ed io dormiamo insieme.
Ecco, ci risiamo.
- Io dormo con chi mi capita- fu pronto a dire il biondo azzerando del tutto le sue speranze.
Alyssa 0, Rosie 1, pensai, ma me ne pentii all’istante.
Quella gelosia non aveva alcuna ragione di esistere. 
Alyssa si zittì, e la tensione nell’aria fu palpabile.
- Sto iniziando ad avere sonno - dissi poggiando la testa allo schienale.
- Restiamo qui un altro po’, dai - il tono di Daniel era così accattivante, eccitato, quasi, e la cosa mi provocò agitazione.
- So io cosa possiamo fare- intervenne Alyssa ridendo sotto i baffi.
Iniziavo a preoccuparmi.
- Cosa?- domandò Justin ma senza un reale interesse.
- Potrei leggevi le carte.
- Non se ne parla!- obbiettai alzando di scatto la testa.
- Perché no?- mi chiese Justin girandosi a guardarmi.
Ricambiai lo sguardo. – Perché io credo in Dio, e non in queste stronzate.
- Beh, se non ci credi allora non dovresti avere nessuna preoccupazione a fartele leggere. Prendila come un gioco- gli si formò un sorrisetto sulle labbra.
Sbuffai. – Va bene.
Alyssa esultò sottovoce e prelevò un mazzo di carte dalla sua pochette di pelle.
- Vai in giro con dei tarocchi a portata di mano?- le domandai divertita.
Lei annuì. – Per momenti di noia come questi.
Si alzò dalla poltrona e si sedette per terra, con le gambe incrociate protendendosi verso il tavolino di legno.
Mi sporsi anch' io in avanti, e con me Justin e Daniel.
Cacciò il mazzo di carte da una scatolina. – E iniziamo proprio dalla nostra miscredente.
Ovviamente si riferiva a me. – Ok.
Poggiò il mazzo sul tavolino, gli premette le mani sopra e chiuse gli occhi.
La scena di per sé era abbastanza comica, una caricatura, ma soffocai con tutta la mia forza di volontà una risata che si ostentava a voler uscire. Poi utilizzai una tattica infallibile: Pensa a qualcosa di brutto.
Riuscii così a frenarmi ed aspettai in silenzio che riaprisse gli occhi, una volta acquistata la concentrazione necessaria.
Qual momento arrivò circa cinque minuti più tardi. – Sono pronta- annunciò.
Iniziò a mischiare le carte con una tale naturalezza, come se non avesse fatto altro in tutta la sua vita. – In questa prima fase sto distruggendo l’ordine che c’era in precedenza: questo gesto purifica il mazzo e la mia coscienza dagli influssi che erano rimasti in entrambi- disse con la maggiore calma.
Smise di mescolare e con la mano sinistra creò due mazzetti, che rimise insieme con la destra ricominciando a far fondere le carte. – Adesso ho costruito un nuovo ordine, una nuova armonia di mille significati sincronici.
Io annuii, sinceramente sorpresa.
- Cosa vuoi sapere dalle carte?- chiese lei pacatamente.
Appunto, cosa volevo sapere?
Forse il futuro; se avessi avuto figli; se avessi trovato la persona giusta.
Non avevo proprio idea di cosa volevo sapere, così buttai la prima cosa che mi venne in mente. – Sarò felice su quest’ isola?
Lei attese qualche secondo, dopodiché girò la prima carta: - Il matto.
- Che significa?- domandai senza pensarci due volte. Era una cosa nuova per me, non capivo ancora fino in fondo come comportarmi.
- Il matto è segno di impulsività, talvolta esagerata. E’ segno di imprudenza, fuga dalla realtà. Libertà repressa.. paura di impegnarsi sentimentalmente.
Sentii le guance avvampare. L’ultima cosa che volevo era apparire debole e complessata agli occhi di Justin, Daniel ed Alyssa. – Non è vero.
- Le carte non mentono, Rose Mary- rispose lei in tono autoritario. – E adesso vuoi che continui o pensi che sia sola una perdita di tempo?
- Continua- mormorai.
Girò la seconda carta. Esitò prima di parlare: - L’impiccato. Un amore non corrisposto.
Il cuore iniziò lentamente ad accelerare. Io non amo nessuno, pensai. – Poi?
- Non c’è molto da dire su questa carta, il suo significato è univoco.
Mi girai di scatto verso Justin e Daniel, come ad avere una prova che fossero ancora dietro di me. Justin si inumidì le labbra. Pareva nervoso.
Alyssa girò la terza carta.
Rimase a fissarla, con gli occhi sbarrati. Le gambe iniziarono a muoversi nervosamente e la mano a tremarle. Alzò lentamente il suo sguardo su di me. Aveva le pupille dilatate e la faccia iniziò a sbiancare.
- Che succede?- chiesi posandole una mano su un braccio per fermarle il tremolio.
Lei scosse la testa energeticamente, con gli occhi chiusi. – N-niente- balbettò, - niente.
- Aly, che succede? Perché è capovolta? Girala!- le ordinai con tutta la semplicità del mondo.
Tirò un lungo e affannato respiro. – N-non voglio.
- Non vuoi cosa?
- Non voglio girarla- continuava a tenere gli occhi chiusi.
Cercai di far uscire il tono più dolce che avessi. – Perché?
Aprì gli occhi. – E’ un brutto presagio. Il significato della carta viene triplicato. Si aggrava.
- Non m’importa, io voglio vederla.
La mia voce non ammetteva repliche, e parve accorgersene, perché sollevò lentamente la carta dal suo lato, di modo che potesse vederla solo lei.
Poi con un movimento repentino la girò di scatto e la sbatté sul tavolino.
- Vedi? Cosa c’è di male? Vi è raffigurato un angelo- tirai un sospiro di sollievo.
Lei non rispose.
Continuava a fissarla, ed iniziò a mordersi il labbro. –  La ruota della fortuna- disse alzando lo sguardo su di me. – Quando esce capovolta significa.. significa una brutta sciagura, una catastrofe- balbettò. – E le carte non mentono- sussurrò socchiudendo gli occhi.
Se il cuore aveva ripreso un battito regolare, in quel preciso istante ricominciò a palpitare alla velocità della luce, e un macigno mi si posò sullo stomaco.
- Alyssa, basta così- intervenne Justin poggiando le sue mani sulle mie, e stringendole forte.
Cercai di dire qualcosa ma dalla mia bocca non uscì che un suono smozzato.
Ripetevo a me stessa che erano solo carte, ma era troppo tardi, ero caduta nella loro trappola e la paura aveva presto il sopravvento.












 



 




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SPAZIO AUTRICE:
Yo! No scusatemi, è che oggi sono un po' depressa perché sono passati esattamente quattro mesi dal 23 Marzo, il giorno in cui i miei sogni hanno preso forma; il giorno in cui ho avuto a pochi metri di distanza una delle persone più importanti della mia vita, una di quelle persone che la vita me l'hanno resa megliore: JUSTIN. Va be', mettendo da parte questo (perché sennò finisco per piangere), eeeccomi qui con il sesto capitoluccio! Nel precedente vi avevo detto che questo sarebbe stato l'ultimo, e dopodiché avrei aggiornato direttamente il primo Settembre per motivi vari, ma ho una sorpresina per voi eheh. Visto che siete delle così brave figliule, che sopportano i miei scleri, mi assecondano, mi lasciano una miriade di dolcissime recensioni (129 OMG), e mi fanno morire con tutti i loro complimenti, ho deciso di postare un altro capitolo domani. Vi anticipo subito che non è un capitolo come gli altri, ma un enorme flashback di circa tra pagine (l'ho già scritto), in cui verrà narrata in modo profondo la storia di Alyssa. Credo che dopo averlo letto capirete davvero molte cose. Soprattutto capirete perché si comporta in quel modo. (Ho deciso di pubblicarlo domani per il semplice fatto che molte stanno iniziando ad odiarla, ma voglio assulutamente che sappiano come stanno in realtà le cose, e lo capiranno leggendo dunque
quel capitolo in cui ho davvero dato il meglio di me.) Va be', ritornando a questo sesto capitolo invece, che ne pensate? So che è un po' cortino ma l'ho usato come tramite per mettere in luce una cosa ben precisa (ma non vi svelo niente). Voi ci credete ai tarocchi? A ciò che ha predetto Alyssa? Alla catastrofe? Io nella realtà no, credo anch'io, come Rose Mary, in Dio, ma vi consiglio di non sottovalutare l'elemento delle carte in questa storia (che in fondo è frutto della mia fantasia). Detto ciò, spero davvero che il capitolo vi sia piaciuto, e che possiate trovare qualche minuto per lasciare una recensione e dirmi cosa ne pensate.
Un bacione e a domani.

with love, your Alyssa.

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Capitolo 8
*** Rondance Derreck ***


CAPITOLO 8
Rondance Derrek


 
 
Rondance Derreck attravesava insicura Wilborne Street alle due in punto ogni notte. Si avviava automaticamente con passo instabile e sprezzante verso il vecchio cancelletto che intonava la nenia familiare di ferro arruginito, come Rondance, come i suoi occhi stretti, e i canali di sangue arrabbiato che attraversavano i suoi bulbi. Una volta erano stati grossi, con iridi di un blu sincero, che si era trasformato in uno spento indaco-grigio impregnato di rassegnazione come impregnate di fumo sono le vecchie pareti dei club per soli uomini. Questi stanchi occhi scioglievano lo stato di allerta una volta varcata la soglia del vecchio cancelletto che apriva all’incolto e piccolo giardino posto davanti al tugurio che ancora non aveva il coraggio di chiamare casa.



Rondance Derreck aveva cambiato il suo modo di camminare sei anni a questa parte, aveva abbandonato la postura fiera e decisa e il passo felpato, ora vagava come un’anima in pena tremendamente cosciente della vita, ma ancor più tremendamente consapevole e attaccata ad una realtà materialistica irreversibile. Un anno prima aveva avuto in mano il mondo, o meglio credeva di averlo, ma soprattutto non portava addosso stampato dentro la pelle, inciso sotto la carne il simbolo della sua rovina: quella strana cicatrice a forma di cerchio che le era comparsa sul braccio e che la osservava, e la braccava, in ogni momento della sua giornata; troppo facile e troppo comodo dare la colpa a quella donna bisbetica, che da quando le aveva confessato di essere una strega non aveva il coraggio di chiamare madre. Per sua sfortuna Rondence scoprì a sue spese il significato di quella cicatrice. Le era comparsa subito dopo la misteriosa morte di Guillermo, il suo amato marito. Da quando aveva scoperto che la tradiva, Rondance aveva perso le staffe, passava i giorni sul letto a meditare sulla sua vendetta, quella donna, l’altra, che diritto aveva di toglierle l’unica cosa che era stata in grado di fare fino ad ora ? Amare. Era l’unica cosa che sapeva fare, e se ne accorse quando si ritrovò sola, solo che in quell’occasione trasformò il verbo “amare” in quello “creare amore”. Si ritrovò da sola dopo essere ritornata dall’ospedale. Questa volta era tornata con una costola rotta oltre che con i soliti lividi che decoravano il corpo sensuale, da quando aveva deciso di dire a Guillermo che voleva lasciarlo solo come un cane, con la sua puttana. Pare che Guillermo non avesse preso bene la cosa. Ma non le importava affatto essere violata fisicamente, quello che la distrusse quella sera fu lo sguardo terrorizzato, assente e così ingiustamente coinvolto della figlia, che terrorizzata assisteva paralizzata alla scena delle grosse e dure mani del padre sul vulnerabile corpo della madre.



Rondance Derreck aveva immaginato il peggio quando al suo rientro dall’ospedale quella notte, intravide le pareti bianche del soggiorno abbracciate a macchie rosso carminio del tutto impreviste. Temette per l’incolumità della figlia, così fragile nei suoi appena cinque anni, e fu orrendamente sorpresa quando varcò la soglia della cucina e vide la figlia accasciata a terra,  con il volto corrugato di sudore misto al sangue. Non una lacrima le rigava il volto. I capelli rossi danzavano sulla sua fronte e porgevano cortesemente la mano agli occhioni smarriti che si lasciavano coccolare da quelle ciocche selvagge, e il corpo dell’ormai passato Signor Derreck si era ridotto ad una serie infinita di minuscoli brandelli, tutti sparpagliati sul pavimento, una volta vergine, e sulle pareti e i mobili nuovi, silenti e custodi di chissà quale orrendo segreto. In preda al panico febbrile Rondance Derreck prese d’istinto la piccola figlia tra sé, serrandola tra le  braccia tremanti e ritrovandosi inspiegabilmente una dolorossissima cicatrice circolare sotto al gomito, era sicura non fosse stata opera del marito, almeno quella no.



Rondance Derreck non era più la stessa da quella sera. Come avesse fatto ad andare avanti non si sapeva, né si sapeva come fosse stata subito prosciolta dai capi d’accusa di omicidio colposo che le erano ricaduti addosso dopo l’inspiegabile morte del marito. Di lei si sapeva che aveva cambiato casa, e il modo di essere guardata dagli altri: le persone per bene la additavano come squilibrata, sociopatica fuori controllo, da tenere alla larga, altri invece, uomini sulla sessantina, un po’ sovrappeso e dagli sguardi non proprio sinceri il più delle volte, la salutavano con fare familiare e la desideravano sempre più ad ogni singolo passo che le sue lunghe e forti gambe compivano. Il suo volto selvaggio e rassegnato conservava un minimo di verve e di vitalità troppo sofisticato da spiegare a parole, risultato di troppe emozioni vissute da una donna così giovane che si è dovuta creare le sue oscure risposte agli insensati e crudeli perché della vita.
Da quando era diventata la vedova nera di Marietta, Rondance Derreck aveva capito cosa significasse vivere di stenti. Lei che fino alla morte del marito aveva avuto tempo solo per sé e per i suoi sfarzi, aveva assaggiato il sapore amaro della fame vera. Fu trovandosi nel bel mezzo del nulla, senza arte né parte che decise di deglutire la pillola della dignità, seppellendola in una piccolissima parte dentro di lei, così ora per vivere “creava amore”; lo dava a chi non era in grado di cercarselo in modo sincero, così la figlia aveva visto tanti uomini grassi, sudici e sorridenti attraversare ogni sera lo squallido e fetido salone di casa sua.



Alyssa Derreck aveva 10 anni adesso, e non si spiegava ancora il perché la sua esistenza fosse così carica nonostante la giovane età. Non era mai stata spensierata, mai aveva giocato sull’altalena con gli altri bambini della sua classe, e portava dentro di sé flashback, ricordi vaghi e tremendi, scene veloci e massacranti, ingigantite da un senso di non chiarezza. Si sentiva diversa, alcune volte cattiva, le venivano in mente strani pensieri, e non sapeva quando avrebbe potuto dare libero sfogo alla sua indole. Aveva in mente cattivi pensieri perché si sentiva in qualche modo colpevole di qualche strana azione di cui conservava qualche vago ricordo.



Rondance Derreck non aveva avuto né il tempo né la forza di dare ad Alyssa un’infanzia normale. Dopo la morte del marito si era spenta del tutto la sua emotività e la figlia aveva avuto tempi e spazi necessari per crearsi una sua idea del mondo attraverso le scene degradanti che viveva ogni giorno. Una cosa però era rimasta: un legame speciale ed inspiegabile legava indissolubilmente le due parenti. Non parlavano molto, non ne avevano bisogno, Rondance di solito lanciava sguardi troppo intensi ad una tutto sommato ancora innocente Alyssa, che però capiva, in silenzio.
L’altro evento che segnò irrimediabilmente la vita di Rondance Derreck fu di nuovo una sera, di nuovo a causa di un uomo. Il sergente Boleria, che andava a trovarla da circa tre mesi, proprio non andava giù ad Alyssa, che aveva avvertito la madre più volte sulla sensazione di marcio che le trasmetteva quell’uomo, ma Rondance non l’ascoltò, così una sera si ritrovò con il sergente Boleria sopra di sé che si divertiva a marchiarle la schiena con un punteruolo rovente. A quanto pare aveva trascurato le perverse fantasie del vecchio sempre fetido di Whiskey di bassa qualità, con le mani perennemente sudice, che quella sera oltrepassarono il limite sul corpo della bella donna; iniziarono a scalfirne i profili con colpi bruschi che parevano essere del tutto estranei alle aggraziate forme di Rondance. Quel corpo ancora appetibile stava facendo i conti un’altra volta con le volgari sberle di due mani indegne. La situazione stava decisamente degenerando quando Il sergente Boleria iniziò a far urlare Rondance di un dolore straziante e penetrante con dei tagli profondi lungo la sinuosa schiena.
A quel punto, quando a Rondance parve di perdere i sensi tanto che il ferro intaccava la sua tenera carne, il sergente Boleria s’interrupe stranamente, e fu sbattuto violentemente contro il muro da una forza sovraumana. Rondance ebbe appena il tempo per vedere: aveva fatto apparizione in camera da letto anche Alyssa, che con uno sguardo carico di forze maligne fissava compiaciuta il sergente Boleira, e lo teneva stretto contro il muro serrandolo attraverso una forza magica che gli faceva aggrumire il sangue alla fronte. Dopo aver sibilato qualche strana parola spaventosa Rondance udì il sergente Boleira imprecare a denti stretti il perdono per le azioni commesse e qualche secondo dopo, del grasso sergente non rimanevano che infinitesimali pezzettini sparpagliati ancora una volta in tutta la stanza. In quel momento lo sguardo della figlia ritornò quello candido e sincero, e ritornò a danzare con le potenti ciocche rosse evidenziate dalle macchie di sangue che si mescolavano a quei diavoli rossi. Rondance non si spiegava cosa potesse essere successo, in quel momento pensò solo di abbracciare la figlia, di tenerla stretta a sé per farsi forza e per sfuggire all’orrore che si manifestava davanti ai suoi occhi, e pensò poi con rabbia alla sua madre bisbetica che di sicuro aveva reso Alyssa un essere anormale, condannata a vita in modo palesemente ingiustificato. Abbracciò con non poco orrore e paura la figlia, e nel momento stesso in cui le loro candide pelli si sfiorarono, un altro dolorosissimo segno le si impresse sotto il gomito: circolare, di nuovo. Si spiegò allora il perché del primo, e una lacrima nera le bagnò il contorno inferiore dell’occhio. Con questa intensità rivolse lo sguardo verso la figlia, che in una sorta di trans inconsapevole si era addormentata beata tra le braccia della madre.




















 

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SPAZIO AUTRICE:
Saaaalve donzelle belle! Beh, come promesso, eccomi qui con questo enorme flashback che vi chiarirà alcune cose sulla vita di Alyssa. Ho voluto davvero superarmi salire di un gradino più alto rispetto al solito, e per la prima volta, sono pienamente soddisfatta del mio lavoro. Ho utilzzato uno stile diverso, un modo di scrivere altrettano differente, e spero davvero che apprezzerete perché ho dato il massimo. Ad ogni modo, vorrei chiarirvi alcune cose se non vi sono molto chiare: dopo la morte del marito, Rondance inizia a prostituirsi ritrovandosi in una situazione degradante. Alyssa invece, dopo aver ucciso il padre (vi ricordo che è una strega), entra in uno stato di  trance, si addormenta e al suo risveglio non ha che vaghi ricordi ingigantiti dal suo senso di non chiarezza. Inoltre, ogni volta che Alyssa compie azioni così orribili come quella di uccidere una persona, al contatto con la madre imprime alla donna quel marchio circolare di cui si parla tanto nel flashbak. Poi boh, non ho più niente da dirvi se non ringraziarvi nuovamete per tutto il supporto, l'affetto, i consigli. Davvero, ve ne sono grata e spero con tutto il cuore che questo ultimo capitolo vi sia piaciuto.
Deeeetto ciò, ci vediamo direttamente il primo Settembre, e sappiate che mi mancherete tantissimo!
Vi voglio bene.


with love, your Alyssa.

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Capitolo 9
*** Happy b-day ***


CAPITOLO 9
Happy b-day



 
- Merda!- imprecai sottovoce dopo aver perso anche l’ultima vita ad una di quei giochi demenziali che il mio telefono lontano dall’idea di “supertecnologico” aveva da offrirmi.
- Rosie- sussurrò lievemente  Alyssa agitandosi nelle coperte. – Che ore sono?
Aveva ancora gli occhi chiusi ed a vederla in quello stato di trance risultava buffa.
Guardai l’orario segnato dal cellulare. – Le 4.47, hai ancora un po’ per dormire.
- Perché non dormi anche tu?
All’età di circa quattordici anni, quando ero la bulletta della scuola, lessi un manuale su “L’arte della persuasione”, e tra una dei trucchi c’era scritto di usare l’imperativo per indurre una persona in dormi-veglia a fare ciò che gli dici. Cercai di mettere in atto quel consiglio.
- Tu dormi!
Detto ciò mi diede le spalle e riprese a dormire su un lato, con le mani unite portate sotto una guancia. Aveva funzionato.
Aspettai qualche minuto sperando che si fosse addormentata prima di alzarmi silenziosamente dal letto, infilare gli infradito ed uscire altrettanto silenziosamente dalla porta principale. (L’unica porta di cui ero a conoscenza dal momento in cui non ero capace di orientarmi in quella casa sconosciuta).
Dovetti  per forza attraversare il salone in cui dormiva supino Daniel.
Mi chiesi per quale assurdo motivo avesse deciso di dormire sul divano con quella decina di camere a disposizione.
Una di quelle fu proprio occupato da Justin, che come aveva già detto voleva dormire da solo (Alyssa non l’aveva presa molto bene).
Una volta chiusami l’imponente porta di legno massiccio alle spalle tirai un lungo sospiro di sollievo.
 Il motivo mi era ancora sconosciuto, ma da quando ero arrivata lì mi ero auto convinta del fatto che ogni volta che non riuscivo a prendere sonno, scendere in spiaggia mi avrebbe aiutata; in effetti funzionava.
Scrutai il paesaggio cercando con gli occhi la villa dei nonni, per essere più tranquilla.
Ovviamente non riuscii a vederla, era troppo lontana ed era tutto troppo buio.
La luna riusciva a riflettersi solo sul mare, lasciando il resto che la circondava un buco nero.
Avvertii improvvisamente una forte ondata di afa che mi fece avvampare le guancie e le orecchie. Solo in quel momento riscossi con piacere che la tempesta aveva cessato: un motivo in più per immergersi nell’acqua vuota e silenziosa e godere di un bagno notturno, cosa che desideravo fare da tempo.
Senza pensarci due volte mi sbarazzai degli enormi vestiti che indossavo – avuti in prestito da Daniel –, eccetto del reggiseno a balconcino blu e della mutandina in pendant.
Lasciai le ciabatte sulla riva e camminai a passi decisi verso l’acqua.
Non appena con la punta del piede ebbi contatto con il liquido rabbrividii, anche se era abbastanza calda.
Presi coraggio ed avanzai cautamente, attenta non toccare alcun tipo di pesce o di corallo.
Allontanatami di circa due metri mi implicai di fermarmi lì.
Per quanto lo volessi con tutta me stessa non era poi così sicuro fare un bagno in un’isola che affacciava sull’Oceano Indiano, e a maggior ragione a notte fonda quando sei l’unico lì in mezzo.
Allargai le braccia ed iniziai a galleggiare a pancia in su, sperando di non essere scambiata per morta da qualche squalo affamato.
Chiusi gli occhi ed iniziai a respirare lentamente per far fronte all’acqua tiepida, ma soprattutto alla paura di essere l’unica lì in mezzo, che iniziava a farsi sentire.
Passarono alcuni minuti ed ero entrata come in uno stato di trance, completamente immersa in me stessa, come se tutto ciò che mi circondava fosse parte di me.
Riuscivo a percepire ogni movimento sotto il mio corpo, ogni impercettibile folata di vento o rumore.
Le mie orecchie poi, udirono qualcosa che somigliava ad accordi di chitarra.
Il suono era flebile ma abbastanza chiaro da farmi capire che non ero pazza, che c’era davvero qualcuno che stava suonando.
Non mi mossi di un millimetro, ero troppo concentrata su quel suono.
Agli accordi seguirono delle strofe:
I'm only here to find you, you 
All I need is you by my side 
All I wanna do is dance under the moon
Cause I all I need is one love 
Cause I all I need is one love 
Baby give it to me
.
Era lui. Era la sua voce.
Dovevo a tutti i costi vederlo, vedere il suo volto.
Presi a nuotare, e ce la misi tutta per essere silenziosa e far sì che non si accorgesse di me, poi però, mi bloccai preda di mille pensieri.
Lo volevo davvero? Volevo davvero vedere chi era e distruggere così tutti i castelli in aria che gli avevo costruito attorno?
No, ala verità era che non lo volevo. Per una volta volevo continuare a vivere in un’illusione; irreale ma felice.
Sospirai e sentii lo stomaco tremare; l’agitazione forse.
Dopo svariati secondi ripresi la precedente posizione, con gli occhi aperti questa volta.
Lui riprese ad intonare qualche strofa:
Cause I don't want-want nobody when I got-got your body 
Baby no no nobody, has got what I need 
Cause I don't want-want nobody when I got-got your body 
Baby no no nobody, has got what I need tonight 

Guardavo le stelle, immaginando che un giorno qualcuno mi avesse detto una cosa del genere.
Fu così, che immersa tra mille sogni e speranze mi lasciai cullare dalle dolci note di quella poesia.

- Aly, svegliati- le sussurrai dolcemente ad un orecchio.
Lei aprì gli occhi, per poi strizzarli. – Troppa luce- si lamentò come un vampiro alla vista dei raggi del sole.
- Dai, apri gli occhi.
Lo fece. A prima mattina i suoi occhi ambra erano ancora più ipnotizzanti.
Le diedi qualche secondo per adattarsi alla nuova luce, poi, con un movimento repentino le tolsi le coperte di dosso.
Non parve apprezzare il gesto perché sentii scapparle qualche imprecazione.
- Scusami, è che non abbiamo tempo da perdere.
- Ok, ok, ho capito- alzò le mani in segno in di resa. – Potevi anche essere più dolce però.
Le sorrisi divertita.
- Aspetta un momento- si bloccò aggrottando la fronte. – Come mai tutta questa fretta?
Il fatto è che Justin è giù a fare colazione e io voglio vederlo, ma non da sola. – Ho fame- mentii.
Lei scrollò le spalle poco convinta. – Andiamo.
Scendemmo le scale e braccio sotto braccio arrivammo in cucina.
- Buongiorno dolcezze!- ci salutò entusiasta Daniel togliendo gli occhi dai fornelli.
La mia attenzione fu tutta rivolta a Justin: era poggiato al lavello della cucina, con le braccia incrociate e lo sguardo incupito (suo solito).
Gli sorrisi debolmente. Di tutta risposta mi fece un cenno con il capo. Che razza di saluto era mai quello?
Alyssa invece, non lo degnò nemmeno di una sguardo. Come biasimarla? Era stata usata per una notte per poi essere rigettata per terra come una bambolina.
- Allora: succo, uova in camicia, frittelle, formaggio, prosciutto?
Soffocai un conato di vomito. Non ero proprio la reincarnazione della ragazza con “The american life-style”. Io odiavo il tipo di colazione che consumavano i miei coetanei, odiavo i loro pranzi al Mc.Donald’s a base di carne di origini del tutto ignote.
La mamma andava pazza per la cucina italiana, e credo che uno dei motivi per cui decise di sposare papà fu che lui era un ottimo cuoco. Con quelle mani grandi e possenti era capace di trasformare il cibo come voleva, cosa che, non si poteva altrettanto dire di Kathrine.
Era stato proprio lui ad inculcare in me uno stile alimentare salutare.
Le mie colazioni erano a base di latte fresco, qualche biscotto asciutto e un pezzo di frutta, ed adesso  proprio non mi andava di affrontare un cambiamento tanto radicale mangiando uova, frittelle e altre bombe caloriche del genere.
- E’ possibile avere tutto?- domandò Aly con un sorriso smagliante.
Daniel annuì e si rivolse a me in attesa della mia scelta.
- Per me niente, grazie- dissi andandomi a sedere su uno degli sgabelli intorno all’isola della cucina.
Alyssa mi guardò stranita. – Ma prima avevi det..
- Ottima scelta- la interruppe Justin accennandomi un mezzo sorriso. – L’ultima volta che ho mangiato qualcosa cucinato da Daniel ho passato una notte in ospedale per una gastroenterite.
Ci fu una risata generale.
Era davvero raro vedere Justin ridere, ma quando lo faceva era talmente.. bello.
Abbassai lo sguardo a quel pensiero.
- Prima che mi dimentichi- intervenne Daniel rompendo il silenzio che si era creato dopo la risata. – Dov’eri ‘sta notte Rosie?
- Ehm- non mi andava di dire che ero andata a fare un bagno, la cosa mi metteva in imbarazzo. – A letto, perché?
Lui aggrottò la fronte. – Ne sei sicura? Mi sono svegliato verso le cinque, sono passato a controllare se era tutto okay ed il tuo letto era vuoto.
- Be’, in effetti sono scesa in spiaggia.. N-Non riuscivo a dormire e speravo che se avessi preso un po’ di aria sarei riuscita a prendere sonno, e.. Ho fatto un bagno.
Justin alzò di scatto il busto ed iniziò a girarsi i pollici nervosamente.
Gli lanciai un’occhiata. Cosa avevo detto di sbagliato?
Mi guardò penetrante negli occhi, come a cercare al loro interno un segno, un indizio.
Fu ricambiato però, solo da uno sguardo spaesato e confuso.
Con poche ma lunghe falcate mi piombò davanti, mi prese per un polso e mi trascinò in giardino.
- Che diavolo vuoi?- sbottai infastidita dalla sua reazione.
- Perché sei scesa in spiaggia?- m’incalzò.
- E da dove esce questa nuova ossessione per me, adesso?- domandai incrociando le braccia. – Io non ti devo alcuna spiegazione- distolsi lo sguardo.
- Guardami!- mi ordinò girandomi poco delicatamente il viso. Non opposi resistenza.
- Hai sentito o visto qualcuno? Eri sola?
Alzai un sopracciglio. Non capivo, non capivo proprio. – Perché me lo chiedi?
S’inumidì le labbra, e parve pensarci un po’ su prima di rispondere: - Perché non è sicuro scendere a quell’ora in spiaggia, fare un bagno.. Da sola per giunta.
Il suo tono era poco convincente e parve accorgersene anch’egli.
- L’ho sentito.. Di nuovo- sussurrai con lo sguardo basso.
- Sentito chi?
- Sentito Lui. Lo stesso ragazzo di cui ti avevo raccontato l’altra notte.
Justin si rabbuiò. – Stagli lontana, Rose Mary.
- Mi stai facendo la paternale?- domandai alzando un sopracciglio, improvvisamente irritata.
- No, cazzo! E’ pieno di malati e malintenzionati qui. Non puoi fare ciò che vuoi, quando vuoi e all’ora che vuoi. Lascialo perdere. E poi manco lo conosci!- urlò.
Il suo tono freddo mi trafisse il cuore come una scheggia in pieno petto.
- Io non voglio conoscerlo.. Justin- dissi in poco più di un sussurro.
- Oh..
Tutt’un tratto parve deluso. Ma che diavolo aveva?
- Non so spiegarti per quale assurdo motivo io mi senta attratta da lui. Non l’ho nemmeno visto in faccia, non ho idea di come si chiami, quanti anni abbia. L’unica cosa che so è che le sue canzoni sembrano parlare di me. La sua voce è riuscita a consolarmi come nessun’altro. Quando lo sentii per la prima volta, diceva che tutto sarebbe andato bene, ed io ho finto che la stesse dedicando a me. Il perché? Non ne ho la più pallida idea.. Sto impazzendo forse. Mi sono creata quest’immagine di ragazzo perfetto che suona la chitarra nella mia mente, e no, non voglio distruggerla scoprendo chi è. Voglio continuare ad illudermi, ad essere felice per quei pochi attimi in cui ascolto la sua voce. E adesso ti sembrerò solo una bambina, ma non m’importa, in fondo è questo che sono, l’hai detto tu, no? Sono una ragazzina. E prima che mi penta di averti detto tutto va’ via.
Aprì la bocca come a dire qualcosa ma la richiuse e fece per andarsene.
- Ah- disse girandosi nuovamente verso di me. – Quando vai di la fa’ gli auguri a Daniel, è il suo compleanno.
Rimasi lì, a fissarlo mentre mi dava le spalle, con i pugni chiusi e i muscoli contratti.

- Dan!- esclamai una volta rientrata in cucina.
Lui era seduto di fronte ad Alyssa ed era lì ad aspettare che finisse di fare colazione. – Sì?
- Auguri!- dissi a voce alta sorridendogli ed andandogli in contro ad abbracciarlo.
Non mi era mai saltato in mente di poterlo abbracciare, ma dopo tutto, perché non dovevo? Era sempre così carino e disponibile, certe volte un po’ ingombrante ma in fondo gli volevo bene.
- Grazie- rispose schernendosi il viso per l’imbarazzo.
- Cosa voleva Justin? E dov’è?- s’intromise Alyssa quasi infastidita.
- N-niente. Voleva dirmi che era il suo compleanno- mentii indicando Daniel. – E no, non so dove sia finito.
- Ci sta aspettando in macchina, forse- rispose Daniel sovrappensiero.
- Per fare cosa?- domandò la rossa.
- Andare al porto, e dopodiché prendere la barca del capo ed andare per alcune ore su un’isola a qualche chilometro da qui. Il modo migliore di trascorrere il tuo diciottesimo compleanno, no? Niente di troppo pericoloso, tranquille pulzelle.
Rimasi spiazzata. Come avrei potuto passare un’intera giornata in compagnia di Justin senza sentirmi una stupida?
-.. E mio nonno ti ha accordato il permesso di prendere la sua braca?- chiesi un po’ scioccata.
“E va bene figliolo, lavori sempre così duramente che per una volta posso chiudere un occhio”- borbottò Daniel imitando la voce grossa del vecchio.
Sia a me che ad Alyssa scappò una risata. Era proprio tale quale.
- Beh, allora se è così corro a cambiarmi!- annunciò Aly alzandosi a posare i piatti ancora mezzi pieni nel lavello. Era strano che lasciasse qualcosa nel piatto, probabilmente Daniel cucinava proprio disgustosamente.
- Tu vieni con me- disse improvvisamente prendendomi per un polso e trascinandomi di sopra.
Ormai ci stavano prendendo tutti l’abitudine a trattarmi come una ragazzina.
- Che diamine voleva Justin, Rosie?- m’incalzò Alyssa una volta chiuseci nella stanza in cui avevamo dormito.
Arrossii. Mentire non era il mio forte, soprattutto se il diretto interessato era una persona che mi conosceva probabilmente meglio di quanto mi conoscessi io. – Non ci pensare. Non è nulla d’importante.
Lei si batté le corte e mangiucchiate unghie sulle labbra, poi si decise a parlare: - A te piace, non è così?
E nel formulare quella frase s’incupì.
Era assurdo. Avrei voluto risponderle, ma l’unica cosa che uscì dalla mia bocca fu una grossa e spontanea risata. – Davvero divertente- dissi portandomi una mano sul fianchi.
Alyssa abbassò lo sguardo ancora più triste di qualche momento prima. – Scusami, non avrei dovuto baciarlo. Come ho fatto a non accorgermi prima che ti piaceva? Tu però perché cazzo non me l’hai detto? Sono o non sono la tua migliore amica?- mi chiese d’un tratto, guardandomi negli occhi come un cane bastonato.
- Non farai sul serio- risposi alzando le mani in segno di resa.
- Sono serissima- sussurrò.
A corto di parole, decisi di abbracciarla.
Parve irrigidirsi per la sorpresa quando mi buttai tra le sue braccia stringendola più forte che potessi, ma poi si rilassò e mi strinse altrettanto forte.
- Cazzo!- imprecai all’improvviso staccandomi di forza da lei.
- Che c’è?
- I nostri vestiti..
- Sì, dobbiamo cambiarci- disse come se fosse la più grande delle ovvietà.
- .. Li abbiamo lasciati a casa- continuai la frase lasciata in sospeso.
Alyssa sorrise portandosi una mano alla testa. – Merda, che sfigate!

- Pronto?- rispose Daniel al cellulare. – Siamo arrivati capo! Ecco, la vedo! Justin parcheggia lì- continuò indicando un posto vuoto. – Eccoci capo- riattaccò.
Il nonno era lì, a pochi metri da noi, che si faceva girare velocemente sul dito le chiavi della barca. Scendemmo tutti e quattro dalla Jeep.
Per tutto il viaggio aveva regnato la massima tensione. Justin non mi aveva degnato di uno sguardo, nemmeno per sbaglio, ma dopo tutto era meglio così.
- Rosie, piccola!- esclamò il nonno stampandomi un bacio sulla fronte. – Non ti hanno fatto nulla vero?- mi domandò lanciando un’occhiataccia al biondo e al moro alle mie spalle.
Scossi la testa.
- Alyssa, è vero?- chiese poi rivolgendosi a lei.
La ragazza annuì.
- Bene- sorrise sollevato. – Ecco le chiavi, ragazzo- le lanciò a Daniel che le afferrò al volo. – E sappi che l’unico motivo per cui io ti stia concedendo la mia bambina- ovviamente si riferiva alla barca, - è perché sei simpatico a mia nipote e la sua amica.
Sorrisi. In un certo senso mi sentivo importante, avevo il controllo su di loro grazie al mio ruolo da “nipote del capo”. La cosa mi allettava parecchio.
- Aspetta- continuò aggrottando la fronte. – Dov’è che dovete andare?
- A Nusa Ceningan- sorrise Dan a trentadue denti.
- Mi auguro per te che tu sappia guidare bene quell’affare, e che per le cinque mia nipote sia a casa sana e salva- il vecchio serrò la mascella scrupoloso.
- Si fidi di me Fred!- lo rassicurò il ragazzo.
- No, lasci perdere lui capo, si fidi di me piuttosto!- si intromise Justin poggiando una mano sulla spalla del nonno.
- Bene Justin, allora dal momento in cui ripongo in te più fiducia ti affido Rose Mary e la rossa. Lightwood, tu invece prenditi cura della barca. Non parla, non respira, devi solo assicurarti che ritorni da suo padre senza nemmeno un graffio- gi fece l’occhiolino provocandolo.
Daniel si chiuse nelle spalle con una smorfia, intimorito, mentre Justin mi lanciò un’occhiata furtiva.
- Accordato capo!- e detto questo Dan si avviò alla passerella per entrare nell’imbarcazione.
Justin lo seguì.
- Salutami la nonna- mi rivolsi a nonno Fred abbracciandolo forte.
L’uomo mi sorrise dolcemente, dopodiché mi voltò le spalle e montò sulla sua vespa bianca.
Rimasi a fissarlo per svariati secondi.
- Qualcosa non va?- mi domandò Alyssa turbata.
- No, è tutto ok.
Ma non era vero; per qualche assurdo motivo, un brutto presentimento iniziava ad insinuarsi dentro di me. 


 





















 


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SPAZIO AUTRICE: 
Tadaaaaaaaaaaaaa'! I'm back bitcheeeeeeeeeeeeeessssssssssssssssssssss! No ok, sono troppo emozionata giuro. Mi siete mancate tutte un casino, e boh, spero non mi abbiate abbandonata per questa piccola pausa che mi sono presa. Che dire? Spero abbiate passato delle bellissme e felicissime vacanze, e se siete arrivate fin qui, grazie dal profondo del mio cuore. Ma adesso parliamo di questo nono capitolo: che ne pensate? A me non convince molto (come sempre), ma spero davvero che abbiate apprezzato! Vi anticipo subito che dal prossimo capitolo le cose inizieranno a complicarsi, e che questo capitolo fa da tramite per il decimo, e quelli successivi. Sono lieta di informarvi che a breve entreremo finalmente nel vivo della storia, e boh, vi ringrazio per l'ennesima volta, per aver reso tutto ciò possible, perché in fondo, senza il vostro supporto e le vostre recensioni questa storia sarebbe rimasta tra le pagine di Word. Ok, me ne vado perché sono noiosa, i know. Spero abbiate un po' di tempo per lasciarmi una recensione e boh, vi voglio bene, davvero! ps: al prossimo capitolo ci sarà anche il trailer.

with love, your Alyssa.

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Capitolo 10
*** The cave ***


CAPITOLO 10
The cave


 
- Non ho idea di dove siamo finiti- sussurrò Daniel alle prese col timone, nel ponte di comando.
Justin imprecò qualcosa sottovoce. – E’ così difficile seguire delle fottute indicazioni?- sbottò con il fuoco negli occhi, riferendosi ad una mappa dell’isola con cui Daniel si stava orientando.
- Voglio tornare a casa- m’intromisi sull’orlo di una crisi di pianto.
- Sta’ calma- m’intimò il biondo.
Mi ritrassi come se avessi preso la corrente. – Sei tu che mi rendi nervosa.
- Rose Mary, non sei d’aiuto- disse Dan visibilmente avvilito.
- Non è colpa mia se non sai nemmeno seguire una stupida mappa- borbottai.
Mi guardò in cagnesco.
Vidi Justin avvicinarsi ad Alyssa e sussurrarle qualcosa all’orecchio.
- Come diavolo la porto fuori? Sta piovendo, non vedi? PIO-VEN-DO- rispose lei isterica.
Se fino a qualche tempo prima affermavo di amare la pioggia, in quel momento ero arrivata al punto di detestarla.
- Io lo sapevo..- mi accasciai rassegnata al muro. Il fatto che fosse tutto rivestito in legno, almeno, donava al tutto un’aria più familiare.
- Dovremmo fermarci da qualche parte il prima possibile, ed aspettare che qualcuno ci venga a prendere- suggerì Justin, cercando con tutto se stesso di non perdersi d’animo.
- Io vedo solo oceano- rispose Daniel.
Justin fece un bel respiro socchiudendo gli occhi. – Senti, ancora non so come, ma sto cercando di mettere da parte il mio essere pessimista, e sappi che sarà l’ultima volta che vedrai questo lato di me, quindi, prima che si scarichino le tacchette da bravo ragazzo, vedi di trovare una cazzo di isola o siamo fott.. fregati.
Il moro sorrise. – Preferisco senza dubbio il Bieber incazzato.
Passarono quindici minuti in cui l’unica cosa che facevamo era girare a vuoto.
- Il carburante!- esclamò tutt’un tratto Daniel, paonazzo. – Sta per finire, è impossibile.. era pieno.. p-porca puttana.
Iniziò a camminare avanti e indietro con le mani tra i capelli.
Alzai di scatto il busto all’udire di quella notizia. – Dio! Non può essere.
Mi avvicinai alla vetrata e scrutai l’orizzonte alla ricerca di qualche promontorio.
Quando le mie speranze era sull’orlo di un precipizio intravidi la sagoma sbiadita di un monte, in lontananza. – Eccola! C’è un’isola!- urlai agitata.
Tutti guardarono nel punto che stavo indicando e tirarono un sospiro.
- Muovi quel cazzo di acceleratore Daniel. Dobbiamo arrivarci il più vicino possibile prima che il carburante ci fotta davvero- lo incitò Justin.
- Sì, accelera che sto per vomitare- disse Alyssa portandosi una mano alla bocca.
In realtà avevo intuito il vero motivo per cui voleva che Daniel accelerasse: non sapeva nuotare, e più saremmo arrivati vicini alla riva, meno tratto di mare avrebbe dovuto percorrere a nuoto.
Ci accostavamo sempre di più fino ad essere a qualche metro dal tratto sabbioso.
Eravamo alla distanza giusta per attraccare.
- L’ancora Daniel! L’ancora!- gli ricordò Justin.
L’ancora fu gettata nel fondale trasparente e la nave si fermò.
- Bene, che si fa adesso?- dissi guardando preoccupata l’isola selvaggia e disabitata, dunque, priva di posti in cui posare l’imbarcazione, o una passerella per passare dal mare alla terra ferma.
- Ci tuffiamo- annunciò Dan più serio che mai.
- I-io non so nuotare- li informò Alyssa con lo sguardo chino.
Daniel si offrì di aiutarla ad arrivare a riva sana e salva, così, insieme ci lanciammo nell’acqua ghiacciata.
Mi tuffai a candela per evitare un impatto violento con il liquido.
- Aiuto!- urlò Alyssa dimenandosi e schizzando acqua a destra e a manca.
- Eccomi- disse Daniel nuotando velocemente verso di lei e prendendola tra le braccia. – E’ tutto ok, respira.
La ragazza fece come le fu ordinato, e parve calmarsi.
- Grazie- gli disse sfinita una volta accasciatasi sulla sabbia bianca.
Mi alzai in piedi ed iniziai a guardarmi in giro per capire quanto male stavamo messi.
Il posto era un paradiso terrestre, e su questo non c’era nulla da dire, il fatto era che subito dopo la riva iniziava una fitta e sinistra palude, e temevo che se nessuno fosse venuto a cercarci, saremmo stati costretti ad addentrarci al suo interno e passare la notte lì.
- Che ore sono?- domandò Justin affiancandomi.
Tastai con la mano i pantaloncini della mamma di Daniel che il ragazzo mi aveva prestato poco prima di scendere. – Merda, devo aver lasciato il cellulare nella camera degli ospiti.
Il ragazzo sbuffò. – Servirai pure a qualcosa, no?
– E che mi dici di te? Il tuo dove l’hai lasciato? Non ce l’hai, vero? Beh, sei inutile almeno quanto me- diedi in escandescenza.
- Smettetela! Siamo tutti fottuti, ed incolparci a vicenda non sistemerà le cose- concluse Daniel disteso al fianco di Alyssa.
- Dillo al tuo amichetto- sibilai a voce bassa guardando Justin di sottecchi.
- Ho bisogno di sapere che ore sono.
- Poco prima che ci tuffassimo ho controllato l’orologio di bordo: erano le 12.34, e più che restare intrappolati in questo isolotto mi preoccupa il fatto che se non porto le due a casa entro le cinque il capo mi scuoia vivo.
- Beh, non c’è tempo da perdere. Aspetteremo per un’altra oretta, dopodiché, se nessuno passerà di qui anche solo per sbaglio, dovremo organizzarci.
- Organizzarci per cosa?- chiesi temendo già la sua risposta.
- Per passare la notte qui. Entro domattina si spargerà la voce della nostra “scomparsa”- mimò tra le virgolette. – Qualcuno verrà a cercarci e torneremo a casa.
- Io non voglio passare la notte lì dentro- indicai la palude.
- Non fare la bambina, cazzo! Guarda il cielo: sta per piovere di nuovo!- sbraitò più duramente di quanto avrebbe dovuto. Dei grossi nuvoloni neri avvolgevano l’aria, e per quanto fossi terrorizzata dal passare la notte tra animali selvatici e piante velenose, almeno non sarei morta con una bronchite, o peggio ancora, fulminata. Ciò non toglieva, però, che non poteva rivolgersi a me in quel modo. – Fottiti- fu la mia risposta, dopodiché mi avvicinai ad Alyssa.
- Come ti senti, Aly?- le chiesi inginocchiandomi per vederla meglio.
- Meglio, bene. Daniel mi ha promesso che prima che io parta mi insegnerà a nuotare- lo guardò sorridente.
- Grandioso!- esclamai. – Potete iniziare da ora, se volete, avete ancora qualche oretta prima che il bisbetico decida di andare a cercare un riparo per la notte.

- Rose Mary!- urlò Justin da qualche parte tra gli alberi.
- Sì?- risposi con nonchalance, distesa supina sulla sabbia, ad ammirare il cielo grigio e a tratti nero.
- Vieni qui. E chiama quei due!
Daniel ed Alyssa erano immersi nel mare più sorridenti ed eccitati che mai. Si schizzavano l’acqua a vicenda e ridevano come dei bambini il giorno di Natale. Alyssa almeno, aveva imparato a galleggiare.
- Ragazzi!- urlai. – Il bisbetico vi cerca- continuai una volta che posarono l’attenzione su di me.
“Bisbetico” sarebbe stato il suo nuovo soprannome. Era proprio azzeccato.
Li aspettai a dedita distanza di sicurezza dal liquido – non avevo intenzioni di bagnarmi ancora –  ed insieme ci dirigemmo verso Justin.
Stava tastando qualcosa, nel terreno, ai piedi di un albero. Alzò poi lo sguardo verso di noi. – Voi- si rivolse a Dan ed Alyssa. – Andate a cercare qualcosa da mangiare e un po’ di legna per il fuoco. Io e Rose Mary invece, cercheremo un posto sicuro in cui passare la notte.
- Momento!- dissi. – Perché non puoi andare tu con Daniel e far venire Alyssa con me?
- No, tranquillo, tranquillo!- esclamò subito Alyssa piazzandosi davanti a me. – Va benissimo così- mi fece un occhiolino che, diversamente da come aveva previsto, fu colto da tutti.
- Justin ha ragione, Rosie- disse Daniel dolcemente. – Siete due ragazzine, e, parliamoci chiaro, non avreste molte speranze di sopravvivere senza noi.
Alzai gli occhi al cielo.
- Ci vediamo qui tra un’oretta. Se non ci troverete aspettateci lo stesso, non possiamo permetterci di perderci di vista.. Non ora- concluse il bisbetico.
- Bene. Pronta signorina?- domandò Daniel ad Aly, che sfoderò un incantevole sorriso.
- Prontissima- rispose lei. – Ah, Bieber, attento alle piante velenose che di veleno in corpo ne hai già abbastanza- finse un sorrisetto, per poi darci le spalle e camminare sotto il braccio di Daniel.
- Ma che problema ha?- mi chiese Justin irritato.
- Credo ce l’abbia ancora con te per averla.. come dire.. usata.
Il ragazzo sorrise divertito. – E fa l’offesa per così poco? Ho fatto di peggio.
- Potrà sembrarti strano ma non tutte le ragazze di questo mondo sono delle puttanelle, Justin. Non è poi così strano che ce l’abbia con te- risposi sorridendogli e sbattendo velocemente le ciglia di proposito. – Ma in fondo che sarà mai? Hai ancora così tante sciacquette che ti vengono dietro da scoparti.
- Beh, inizio ad averne abbastanza delle sciacquette. Forse devo cambiare aria- incurvò gli angoli della bocca beffardo, ma decisi di non rispondere alla sua frecciatina e andare oltre.
Se voleva provocarmi ci stava riuscendo.

- Ferma- sussurrò Justin alle mie spalle, avvolgendomi la vita con le sue mani.
- Che succede?- chiesi senza voltarmi.
- Shh- rispose continuando a stringermi saldamente tra le sue braccia.
Non avevo idea di cosa stesse succedendo, ma qualsiasi cosa fosse, era una sensazione piacevole essere avvolta dal suo corpo, essere protetta da lui. Smettila, Rose Mary mi ammonii mentalmente.
- Non fiatare- m’intimò a voce così bassa che mi chiesi come avessi fatto a sentirlo.
Annuii lenta.
Ci eravamo addentrati nel cuore della palude. Nel giro di un’oretta avevo già rischiato di lasciarci le penne tre volte. In tutt’e tre volte c’entravano piante velenose. Mi chiesi di cosa poteva trattarsi in quel momento, poi ebbi la risposta: le foglie sotto i miei piedi iniziarono a muoversi, riuscii ad intravedere delle squame verdi strisciarmi ad un metro di distanza.
Non che fossero il mio peggior incubo, ma con i serpenti non avevo mai avuto un rapporto così semplice.
Sussultai, e Justin, lentamente, avvicinò il suo corpo al mio. Riuscivo a sentire il calore che emanava la sua pelle. Arrossii, ma per fortuna non poteva vederlo.
Restammo immobili finché il rumore sotto ai miei piedi non cessò, e l’unico suono che si riusciva a percepire era quello del mio cuore battere a mille.
- Ben fatto, puoi anche dire al tuo cuore di rallentare adesso. Da morta servi poco- mi sorrise seducentemente sciogliendomi dalla sua salda presa.
Lo guardai inarcando un sopracciglio. – Guarda che batteva per il serpente.
- Appunto- rispose lui beffardamente.
- Dio, sei un mentecatto.. un.. un bisbetico pervertito!
- Oh, risparmiami la parte da santarellina. Ti ha fatto piacere, lo so- concluse lanciandomi un ultimo dei suoi irritanti sorrisetti da fighetto della festa per poi riprendere il cammino.
Sbuffai seguendolo a ruota.
Dopo circa cinque minuti si bloccò di scatto facendomi finire addosso a lui.
- Che ti prende adesso?- sbottai.
- Hai visto?- chiese lui guardando in cielo, allarmato.
- V-visto co..
Un violentissimo lampo azzurro illuminò la foresta intera.
- Maledizione!- imprecò. – Dobbiamo metterci a riparo prima che cominci a piovere, e ti avverto che qui le piogge non sono come sei abituata a vederle- iniziò a guardarsi intorno.
Mi feci piccola, intimorita.
Senza preavviso mi prese la mano e iniziammo a correre sotto la tempesta che incombeva minacciosa su di noi.
Dopo i fulmini ed i tuoni, fu la volta della pioggia, con il suo adorabile tempismo.
Ero fradicia d’acqua e le gambe non reggevano più.
Iniziai a rallentare lasciando che fosse il braccio di Justin a trascinarmi, finché non mi strinse forte la mano e si girò di sfuggita verso di me, a guardarmi con occhi incoraggianti.
- Lì!- urlò improvvisamente indicando un antro nascosto ai piedi di un imponente e fittizio albero centenario.
Entrammo nel buco nero illuminato appena dalla debole luce grigia che emanavano le nuvole.
Mi piegai sulle ginocchia ed iniziai ad ansimare. – Sono tutta bagnata!
- Dannazione- sussurrò lui ignorandomi del tutto. – Non è possibile! Siamo bloccati su un’isola sperduta e per di più.. Ci siamo persi!- continuò con una sfilza di brutte parole, come se gli fosse capitata la cosa più assurda del mondo; ed in effetti era così.
- Non mi sento a mio agio qui dentro- dissi poggiandomi alla parete rocciosa.
- Oh davvero? Puoi benissimo uscire e farti colpire da un filmine se vuoi- mi rispose in malo modo.
Non ero per niente in vena dei suoi sbalzi d’umore e dei suoi repentini cambi della personalità. La situazione iniziava a stufarmi, ma decisi di chiudere il becco e di resistere alle sue frasi provocatorie.
- Prega sola che un orso non ci mangi!
Lo guardai spaventata.
- Era solo una battuta- disse infine notando il mio sguardo.
In scuola in Georgia avevo il soprannome di “ritardata”, e dovevo ammettere che mi si addiceva. Non capivo mai le battute in tempo con gli altri; talvolta non le capivo affatto, ma fingevo di aver colto l’umorismo e ridevo, giusto per non sembrare una totale deficiente.
La ritardata e il bisbetico pensai, l’accoppiata vincente!
Mi sedetti per terra a gambe incrociate, e mi misi ad osservare Justin sperando che non si accorgesse di me.
Il suo profilo. Lo amavo, e quella mascella serrata era così..
- Perché mi fissi?- mi chiese all’improvviso lui girandosi di scatto verso di me.
- I-io non ti fisso.
Scrollò le spalle e s’incamminò verso il lato più remoto della caverna.
- Dove vai?
- A dare un’occhiata. Se non smetterà di piovere  – e sono sicuro che non smetterà – siamo costretti a passare la notte qui, ma prima devo assicurarmi che sia sicuro.
Annuii. – Posso venire con te?
- No. Resta qui, mi saresti solo d’impiccio.
Lo guardai in cagnesco. – Beh, e invece sai che ti dico? Non me ne fotte un cazzo di ciò che mi dici e vengo con te. Non mi lascio comandare da un bisbetico con uno zoo sul braccio.
Gli si formò un mezzo sorriso agli angoli della bocca. – Che cattiva ragazza!
Mi alzai da terra e lo raggiunsi.
Iniziò a guardarsi intorno, poi il suo sguardo si posò su un angolo oscuro. Vi si avvicinò, chinò il busto, e quando lo rialzò aveva una torcia tra le mani. – E’ strano- disse a voce bassa.
- Eh?
- C’è una torcia- premette su un pulsante e si accese. – Evidentemente non siamo stati i primi ad arrivare qui.
Un brivido mi percorse la schiena.
- Restami vicina.

- Non credi che dovremmo fermarci qui?- gli domandai ad un certo punto dopo aver camminato per circa dieci minuti.
- No, Rose Mary. Prima la torcia, poi il legno carbonizzato. Devo assicurarmi che saremo al sicuro ‘sta notte- rispose lui più serio che mai.
Osservavo il piccolo cerchio di luce che creava la pila elettrica sui muri.
Era tutto così buio ed inquietante.
- Se proprio non ce la fai aspettami qui, ma promettimi che non ti muoverai di un centimetro.
- Te lo prometto- gli dissi strisciandomi sul muro e sedendomi per terra.
- Bene. Tornerò presto. Questa caverna dovrà pure avere un fine!
L’idea di restare sola, in una caverna infestata da orsi e da spiriti di persone che lasciavano delle torce in giro non mi allettava più di tanto, si poteva dire che ero terrorizzata.
- Justin..- lo chiamai svelta facendo per alzare un braccio su di lui.
- Cos’altro vuoi?
- Ho cambiato idea, vengo con te- annunciai fermamente rialzandomi per l’ennesima volta da terra.
Lui sbruffò e mi sfiorò la schiena. Voleva che gli stessi affianco, evidentemente.
- Se non fosse stato per tuo nonno ti avrei lasciata in pasto a quel serpente- disse dopo qualche minuto di silenzio totale.
- Proprio non ce la fai a restare gentile per più di un nanosecondo, eh?- chiesi seccata.
Sorrise continuando a guardare avanti. – Oh, è strano, insomma, le ragazze che mi porto a letto dicono il contrario.
- Per fortuna non sono tra quelle ragazze- lo sfidai lanciandogli un sorrisetto.
- Sì, per fortuna.
Stupido bisbetico con comportamenti da primadonna.
D’un tratto si fermò.
- Che c’è?
- Fine del giro turistico.
E finalmente eravamo arrivati alla fine di quell’interminabile spelonca.
Abbassò la torcia.
- Da’ qua- gli dissi sfilandogliela da mano.
Avrei giurato di aver visto qualcosa sul muro.
Feci luce in quel punto.
Un enorme graffito.
Un cuore.
Due nomi.

Sentii un rumore sordo alle mie spalle. Justin doveva essere inciampato in qualcosa; adesso era accasciato al muro, con le gambe e la mascella tremolanti.
La torcia mi cadde di mano dallo spavento, ma anche nel buio, l’immagine di un grande cuore con all’interno i nomi “Jeremy and Patricia” continuava ad apparirmi davanti agli occhi come il peggiore degli incubi. 


















 
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SPAZIO AUTRICE:
UE' BELLEEEEEEEEEEEEEEEEEEE! Ok, e dopo il saluto vrenzolo vi dico ciao, fanciulle e fanciulli, evviva li facioli! No, basta, sto troppo gasata per "Wait for a minute", e per l'uscita di Believe 3D fissata per l 22 Dicembre. Yeee! Tornando seria, come vi avevo già anticipato nel capitolo nove, adesso si inizia ad entrare nel vivo della storia. Vi anticipo subito che il fattore "Jeremy" rientrerà in scena, lasciando tutti col fiato sospeso. Vi faccio anche un altro piccolo spoiler: nel prossimo capito avverrà una cosa vi piacerà mooooltissimo, ve lo prometto,  abbiate solo pazienza amike pervy, mlml. ouo Basta, Aly, così le spaventi. Ok, che dire del capitolo? Lascio a voi i commenti e le diverse interpretazioni. Il capitolo (manco a farlo apposta) non mi convince AHAHAHAHHA, sì dai, uccidetemi AHAHAH. Adesso mi dielguo, maaaaaaaaa, prima di andarmene, sono lieta di presentarvi... oh ooooooooooh *rullo di tamburi*...
IL TRAILER
http://www.youtube.com/watch?v=s8OsnTJ2O4M&feature=c4-overview&list=UUVN1byk4i4CKeoucLXFlBfQ&hd=1 
Ci tengo a ringraziare per questo meraviglioso trailer la mia amica @firstmarch, che mi ha salvato creandomi questa meraviglia all'ultima minuto. Già che ci sono vi consiglio di passare dalla sua fan fiction, che, per quanto mi riguarda, è diventata una droga! Non ve ne pentirete, davvero. Grazie Ely, ti voglio bene. Vorrei ringraziare anche tutte voi con le dolcissime recensioni, i preferiti, i seguiti, i ricordati, e il sostegno che mi date ad ogni capitolo. GRAZIE! 
In attesa di una vostra recensione, vi saluto ragazze,


con amore, Alyssa.

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Capitolo 11
*** Your lips on mine ***


CAPITOLO 11
Your lips on mine



Socchiusi gli occhi.
Tirai dei lunghi ed intensi respiri.
Cercai di dare più aria possibile ai miei polmoni, che avrebbero fatto tornare il battito del mio cuore regolare, e forse, avrei iniziato a comprendere ciò che era realmente accaduto.
Jeremy era ancora vivo, ma non ero tanto questo a turbarmi quanto il fatto che proprio in quel luogo, decine di anni prima lui e Patricia avevano condiviso il loro amore.
Probabilmente si baciavano nel punto esatto in cui mi ero immobilizzata, o quello in cui Justin era caduto.
Oh, Justin.
Nessuna parola riusciva ad uscire dalla mia bocca in quel momento.
Era tutto troppo strano, era accaduto tutto così in fretta e senza preavviso.
Come doveva sentirsi Justin?
Il fatto era che non ne avevo idea. I miei genitori erano morti, ma per un orribile scherzo della vita, e non perché un giorno ad uno di loro gli si era spento un interruttore nel cervello e ciò l’aveva indotto ad uccidere la persona che amava. Le persone che amava.
- Andiamo via da qui- sussurrò lui con la voce rotta. Irriconoscibile.
Non parlai, semplicemente gli accarezzai la mano, gliela strinsi forte e lo trascinai di peso, via da quell’incubo ad occhi aperti.

- Dove stai andando?- chiesi sottovoce.
Eravamo ritornati all’inizio della caverna, e Justin stava uscendo fuori, sotto la tempesta.
- Ho bisogno di stare da solo- rispose in un sussurro. – Lasciami in pace, e smettila di far finta che t’importi qualcosa di me.
Diedi un’occhiata furtiva al cielo nero, era buio ormai. Presi coraggio e lo raggiunsi fuori. L’acqua era ghiacciata. – A me importa di te- urlai con le braccia al cielo.
Lui distolse lo sguardo.
- Entra dentro con me, Justin.
Nessuna risposta. Si avvicinò ad un piccolo albero, ed iniziò a strappare qualche ramo.
- Ti prego..
Si voltò a guardarmi. Aveva la pelle bagnata, e delle gocce d’acqua gli ricadevano dai capelli e dalle ciglia. I suoi occhi erano così penetranti. Disarmanti.
Abbassò lo sguardo e con poche e veloci falcate rientrò all’interno della grotta. Lo seguii a ruota finendo come un mulo con un piede in una pozzanghera.
Justin iniziò a tastare per terra, finché quando alzò le braccia aveva due pietre tra le mani. Posizionò i rami per terra, s’inginocchiò, ed iniziò a sfregare le pietre creando una fiamma.
Sospirai sollevata e mi sedetti ai piedi del fuoco. Lui fece lo stesso posizionandosi di fronte a me. Si sfilò la canotta, strizzandola.
Quel gesto improvviso mi fece arrossire.
Aveva gli addominali contratti e la sua imponente tartaruga mi saltò irrimediabilmente all’occhio. Aveva proprio un bel fisico. Avvampai e distolsi lo sguardo.
- Dovresti fare lo stesso con la tua- disse d’un tratto in tono freddo.
- Eh?- chiesi sconvolta.
- Dovresti fare lo stesso con la tua- sibilò piano.
- Perché dovrei?- continuavo a non capire.
- Dovresti approfittarne ora che c’è il fuoco per fare asciugare almeno la maglietta- spiegò atono.
Non se ne parlava. Non se ne parlava proprio che io restassi in reggiseno di fronte a lui. Non m’importava della maglietta, la vergogna era più forte.
- Come ti pare- disse infine intuendo ciò che stavo pensando.
Restammo in silenzio per qualche minuto. Ero tutta immersa nei miei pensieri, i più svariati dei pensieri. Jeremy; Pattie; Justin; Juliet; i miei genitori; i nonni; Daniel; Alyssa.
Quando presi ricognizione del tempo e alzai i miei occhi verso di lui notai che i suoi erano immersi nel vuoto. Chissà a cosa pensava.
- Non dev’essere stato facile passare gran parte della vita in un riformatorio- dissi lentamente, all’improvviso.
Alzò di scatto lo sguardo, come se avesse preso la corrente. – Chi te l’ha detto?
- M-mia nonna- balbettai, improvvisamente pentita di aver messo in mezzo l’argomento. – Senti, scusami, cambiamo discorso.. non avrei dovuto tirare in ballo una cosa del ge..
- E perché no?- mi chiese. – E’ successo, è inutile far finta che sia il contrario.
Aprii la bocca per dire qualcosa, ma la richiusi all’istante. Cosa potevo dirgli?
- Hai tutto il diritto a trattarmi come uno psicopatico. La gente lo fa da anni, ho imparato a conviverci- mormorò sprezzante.
- Tu non sei affatto uno psicopatico- ribattei guardandolo intensamente negli occhi.
Ricambiò lo sguardo sorpreso dalla mia risposta.
- Venivo trattato come un mostro, e col tempo, mi sono convinto di esserlo. A furia di essere graffiato sempre nello stesso punto, mi si è formata una ferita che credo non si risanerà mai- puntò lo sguardo alla fiamma arancione, che si rifletteva nei suoi occhi donandogli una rabbia disumana. – Niente contatto col mondo esterno, niente contatto umano, niente calore, solo freddo. Hai freddo al cuore quando sei lì, ti manca l’aria. Ho passato giorni rintanato in quella cazzo di tana per topi che avevano il coraggio di chiamare “stanza”, nascosto in un angolo a contare le mattonelle. Le infermiere dicevano che mi faceva bene, in quel modo avrei potuto meditare sull’errore che avevo commesso- Si fermò per qualche secondo. – Io non ho fatto nulla.
Io lo so.

D’un tratto sentii alle mie spalle un rumore sordo, come di un vetro frantumato.
- Che cosa è stato?- dissi pronta a scattare in piedi.
- N-non ne ho idea- balbettò lui. – Non agitarti, siamo soli, dov’essere stata qualche pietra.. sì, si sarà sgretolata e frantumata al suolo- mi rassicurò.
Annuii non molto convinta. – Ho una brutta sensazione, come se.. come se qualcuno ci osservasse.
- Non devi preoccuparti Rose Mary, non ti accadrà nulla- rispose guardandomi dritto negli occhi.
Stava cercando di essere carino o cosa? Ah, il nonno, certo, pensai poi.
- Ho uno strano presentimento, una sorta di nodo alla gola e allo stomaco- confessai sperando nel suo conforto.
- Forse hai solo fame- ipotizzò. Frugò rumorosamente nelle tasche dei bermuda, dopodiché passò ad ispezionare le tasche posteriori. Aprì una cerniera e accennando un mezzo sorriso cacciò da un taschino una barretta energetica.
Me la lanciò, l’acchiappai al volto. – G-grazie- gli rivolsi un sorriso sghembo.
- Finito!- annunciai pochi secondi dopo, ancora con la bocca piena e piegando la carta in due.
Sorrise scuotendo la testa.
- Che c’è?- domandai innocentemente sputando pezzettini di cioccolata a destra e a manca.
- Lascia stare- disse lui alzando le mani. – Ti senti un po’ meglio adesso?
- No- risposi incupendomi improvvisamente. Il fatto era che avevo anche dimenticato di quell’orribile sensazione che mi perseguitava.
- Rose Mary, non c’è nessuno, non devi preoccuparti.
- Il mio intuito non fallisce mai.
- Oh sì, hai ragione, tu sei una donna, giusto?- mi chiese sorridendo.
Ricambiai il sorriso. Almeno aveva dimenticato del graffito.. forse.
- C’è una cosa mi domando da quando ti ho vista- proseguì. – Perché sei qui? E’ una vacanza, o una specie di viaggio per riflettere su alcune cose, hai presente?
- N-non proprio- sussurrai. – I miei.. i miei..
Perché mi era così difficile formulare quella frase? Ce l’avevo a morte con me stessa, e col mio non riuscire a controllare il mio cervello. Io dovevo dirlo, io ne avevo bisogno. Dovevo realizzare che fosse accaduto davvero. – I miei genitori sono morti qualche mese fa. Incidente stradale.
Abbassai lo sguardo, e sentii il rumore della sua bocca che si apriva, per poi richiudersi senza parole.
- Risparmiati gli “oh scusami” o “mi dispiace tanto”, non voglio pensarci più, tutto qui- dissi acida guardandolo negli occhi.
Delle strane rughe gli contornarono gli occhi che qualche minuto prima avevo definito nella mia mente “disarmanti”.
– Non è così che funziona Rose Mary. Non è ignorando un dolore che lo si affronta. Non serve a niente, sai? Se non ad incrementare la tua muta sofferenza.
- Che vuoi dire?- gli domandai basita e folgorata dal suo sangue freddo. Era la prima volta che mi veniva detta una cosa del genere. Ero sempre stata abituata da tre mesi a quella parte ad udire smielate frasi su come funziona la vita, il destino, e frasi di supporto trovate qui e lì su internet, e che, in tutta onestà, cominciavano a farmi vomitare. – Sai qual è la cosa più ridicola che mi abbiano mai detto? Sono in un posto migliore adesso. Ma davvero? E quale sarebbe questo posto migliore se non accanto alla loro figlia sedicenne troppo immatura ed indifesa per affrontare una vita da sola?- sbraitai con voce graffita, ferita. Le lacrime iniziavano a salire, su, sempre più su, fino a farmi provare quella strana sensazione al naso, quella sensazione che provi quando stai per cadere in un forte e disperato pianto.
Ma forse era meglio così, no? Forse sfogarsi era la soluzione, e non continuare ad ignorare il dolore e sotterrarlo in un piccolo angolino del mio cuore.
- Io mi sento sola. Io sono sola, e il mio cuore è vuoto. Che senso ha essere felice se la tua unica fonte di felicità è svanita? Come posso essere felice?- mi bloccai di scatto con lacrime bollenti che mi rigavano il volto. – Inizio a pensare che sarei dovuta morire anche io insieme a loro quella notte. Avrei sofferto di meno, no, non avrei sofferto affatto. La mia vita sarebbe terminata lì, ma sarebbe terminata lì con loro, le persone che più amavo al mondo. Ho così tanta rabbia e rancore dentro di me. E sai perché ignoro il mio dolore? Perché quando lo caccio fuori il cuore inizia a bruciare, e la mente a vagare per conto suo, ed è tutto così maledettamente strano e straziante.. io.. io non ho la minima idea di ciò che sto dicendo, io sento di star impazzendo.. i-io..
Si appoggiò velocemente sul gomito e con la mano libera mi prese per la nuca e l’avvicinò al suo volto. Le nostre fronti erano attaccate, e i nasi si sfioravano dolcemente. La luce del fuoco faceva apparire le sue labbra di un rosso intenso. Il cuore iniziò a battermi all’impazzata, sentivo il suo respiro, il sangue che gli pulsava nelle vene, poi, all’improvviso socchiuse la bocca e l’appoggiò delicatamente alla mia. Sussultai sgranando gli occhi, il mio primo bacio, ma poi mi lasciai trasportare e coccolare dalle sue soffici e carnose labbra. La sua lingua ebbe contatto con la mia, ed iniziò così a vorticare lentamente. Mi morse il labbro inferiore, dopodiché passò a baciarmi il collo lasciando piccole ed umide scie. Gemetti. Il mio corpo provò una sensazione nuova, una sorta di adrenalina rimbombava dentro di me, dentro le mie gambe che iniziavano a venir meno, ma diedi poca importanza a questo dettaglio e poggiandogli le mani al petto ripresi a baciarlo sulle labbra con una tale dolcezza che sentii il suo cuore sotto la mia mano battere sempre più.
- Aspetta- disse all’improvviso staccandomi violentemente da me.
E’ tutto finito. Pensai girando il capo per non guardarlo negli occhi, e pulendomi le labbra con il dorso della mano.
-Scusami, non avrei dovuto.
Gli diedi le spalle, era tutto così estremamente imbarazzante.
Sentii la sua mano poggiarsi sulla mia spalla, e le sue labbra sussurrarmi all’orecchio: - Scusami.
Dovevo scusarlo per cosa? Per avermi baciato? O forse si era reso conto che non mi voleva davvero? I pensieri più svariati mi invasero il cervello. – Ho sonno, e voglio andare a dormire- borbottai togliendomi la sua mano dalla spalla e girandomi a guardarlo negli occhi.
Annuì deluso.
Notai che le fiamme iniziavano a perdere altezza, fino a trasformarsi in cenere grigiastra. Una volta rimasti al buio, il rumore dei tuoni ricatturò la mia attenzione, mentre i lampi ci facevano da luce naturale. Era tutto così spaventoso, e per giunta, quell’orripilante sensazione persisteva non smettendo di perseguitarmi neanche un attimo. E che dire dei graffiti? Una situazione dannatamente complicata e strana.
Ero davvero stanca, e gli occhi riuscivano a stento a rimanere aperti, così, mi accasciai per terra, per poi stendermi su un lato cercando di trovare la posizione più comoda che ci fosse, a patto che ci fosse una posizione comoda sul suolo di una caverna.
Justin si distese subito dietro di me. Vidi di sottecchi il suo braccio alzarsi, intento ad avvolgermi, ma dopo pochi secondi rimasto a mezz’aria ritornò al suo posto. Al posto in cui sarebbe stato più giusto stare, probabilmente.
Fu così che sobbalzando ogni volta che i nostri corpi avevano un contatto, anche per sbaglio, caddi in un profondissimo sonno.

- Eccoli! Oh Dio, Daniel, eccoli!- la voce di Alyssa risuonò debolmente nelle mie orecchie. Non ero ancora lucida da poter capire a pieno ciò che si dicevano, così aprii lentamente gli occhi.
Le loro sagome diventavano sempre più nitide, finché non vidi entrambi corrermi in contro. Alyssa s’inginocchiò ai miei piedi. – Rosie, eccoti qui!- esclamò alzandomi di peso il busto e abbracciandomi.
- C-che succede?- domandai strofinandomi gli occhi.
- Ci eravamo divisi, poi è scoppiata una tempesta e ci siamo persi.. tu stai bene vero?- mi chiese preoccupata.
- Sì, si io sto bene- la rassicurai.
- Dopo devo dirti una cosa- mi sussurrò all’orecchio con un sorriso a trentadue denti.
- Devo preoccuparmi?- ricambiai il sorriso.
- Forse..
Intanto Daniel stava tentando di risvegliare Justin, ma in vano.
- Lascia, ci penso io- annunciò Alyssa avvicinandosi al biondo, steso supino a qualche centimetro di distanza da me.
Alzò velocemente la mano e gli mollò un rumoroso schiaffo sulla guancia.
Justin aprì di scatto gli occhi imprecando qualcosa. – Ma che cazzo di modi sono? Eh?
Sorrisi silenziosamente. Alyssa aveva avuto la sua vendetta.
- Daniel ci ha provato con le buone ma non davi segni di vita, e così ci ho pensato io. E non guardarmi in quel modo, stronzetto, alza le chiappe piuttosto, che dobbiamo ritornare in spiaggia e aspettare che Fred ci venga a prendere- l’informò lei guardandolo di traverso.
Il bacio, pensai poi improvvisamente. Me n’ero completamente dimenticata, e poi, Alyssa come l’avrebbe presa? Era accaduto però, e indietro non si poteva tornare, e poi io nonvolevo tornare indietro, ma Justin? Forse quando avrebbe ricordato tutto si sarebbe pentito amaramente, ma quello era il problema minore in quel momento, dovevamo solo ritornare a casa.

- No, ma adesso mi spiegate perché cazzo non siamo rimasti sulla nave- sbottai fulminando con lo sguardo Daniel.
In realtà ce l’avevo anche con Justin, ma non avevo il coraggio di guardarlo negli occhi.
- Rosie, è una barchetta per pescare e non uno yatch. Non c’era cibo e solo delle panchine per dormire, e poi è pericoloso restare in mare durante una tempesta- mi rispose pacatamente, come se sapesse sempre cosa dire, come e quando.
- E smettila di essere così calmo che mi dai sui nervi!- l’attaccai. In realtà non avevo alcuna intenzione di prendermela con lui, ma avevo una specie di rabbia repressa dentro di me, e sapevo che lui era quel tipo di persona col carattere giusto per sfogarmi.
- E tu smettila di essere acida- mi disse inarcando un sopracciglio.
- I-Io non sono acida, sono allegramente incazzata, va bene?- sputai lì. Cercai con tutta me stessa di non ridere, ma poi scoppiai in una chiassosa risata, e con me tutti gli altri.
Nel pieno della risata il mio sguardo si scontrò distrattamente con quello di Justin, che scuoteva la testa divertito.
Lo amo, pensai, il suo sorriso, insomma.. non lui, cioè.. amo il suo sorriso. Oh Rosie, devi essere proprio una stupida per comportarti in questo modo a causa di uno stupido bacio.
Che mi prendeva? Che cosa mi stava succedendo?


Certe persone si innamorano e nemmeno se ne accorgono; certe persone hanno bisogno di amare, di essere amati, hanno bisogno dell’amore, e non lo sanno, o se lo sanno, fanno  finta di nulla, come Rosie.

























 
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SPAZIO AUTRICE:
Non so che saluto fare, mi sono sprecata troppo per scrivere il capitolo, sry. Tralasciando la mia scarseggiante fantasia in questo momento passiamo al capitolo, yeeeeeeeeeeeeee! Bene bene, lascio tutti i commenti a voi. Finalmente l'attesissimo momento è arrivato: l'isterico e la ritardata si sono baciati.  E' la prima volta che scrivo la scena di un bacio, perché, come tutti sapete, questa è anche la prima volta che scrivo una fanfic. Ero estremamente gasata quando scrivevo, e devo ringraziare Justin per avermi dato come sempre 
l'ispirazione con ogni singola nota che ascoltavo. Adesso ci terrei a ringraziare voi! Alle oltre settemila visite ai capitoli, alle 233 recensioni e ai 66 preferiti. Non potrei avere lettori migliori, lo giuro! Ormai vi ringrazio ad ogni capitolo, lo sapete, ma il fatto è che vi sono davvero riconoscente per tutto ciò che avete fatto e che fate per me, vi sono riconoscente per aver reso tutto questo possibile. Grazie ragazze, vi voglio bene. Ok, mettendo da parte il mio lato smielato (uh, fatto rima ^^), mi auguro con tutto il cuore che il capitolo vi sia piaciuto, e spero abbiate qualche minuto da spendere per dirmi cosa ne pensate.
A Sabato prossimo amike my, vi amo da vivele ihih.
No ok, me ne vado.


with love, your Alyssa.

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Capitolo 12
*** Coded messages ***


CAPITOLO 12
Coded messages


 
- Mi scappa la pipì- annunciò Alyssa  facendo di proposito la voce di una disperata.
Daniel le sorrise. – E’ proprio così urgente?
Ella annuì guardando verso il basso.
Sbuffai puntando gli occhi al cielo. – Andiamo, ti accompagno io.
La presi per mano e la trascinai ad un po’ di metri da lì, in un luogo dove nessuno avrebbe potuto vederci.
- Forza, che aspetti?- le chiesi notando che non si muoveva di un millimetro.
- Non devo fare pipì, devo dirti quella cosa.. ricordi?-  sorrise strizzando gli occhi e battendo le mani.
- Oh sì, beh, dimmi.
La rossa tirò un lungo respiro. – Io.. credo.. Rosie.. Daniel.. piacere.. me..
Rimasi a fissarla per qualche istante, dopodiché scoppiai in una chiassosissima risata. Cercai di calmarmi un attimo per poterle dire qualcosa. – Daniel piacere te?- domandai riscoppiando a ridere e portandomi una mano alla pancia.
- Ehi, ehi, aspetta..- disse improvvisamente aggrottando le sopracciglia e scostandomi i capelli dal collo. – Cos’hai qua?
Rimase a guardarmi quel punto per svariati secondi. – Quello è.. io.. ho visto bene? Quello è un s-succhiotto?
All’udire di quella parola mi ritornò alla mente la notte precedente. Imbarazzata ricoprii la pelle  con i capelli. – Beh ecco.. può darsi di sì..
- Come può darsi? Che significa può darsi? E’ un succhiotto sì o no?- mi domandò guardandomi allibita.
- S-sì- confessai a sguardo chino.
A quel punto Alyssa iniziò a guardarsi intorno e a muovere nervosamente i piedi e le mani, poi mi guardò sfoderando un enorme sorriso e mi saltò addosso abbracciandomi in modo sovrumano. – Ah, la mia piccolina.. sono così felice. Era da così tanto che aspettavo questo momento. La mia piccolina..- continuò staccandosi da me e guardandomi con occhi fieri. – Aspetta, dove l’hai conosciuto? E quando te l’ha fatto? Ma cosa più importante: chi è il fortunato?- mi chiese con un enorme sorriso.
Era questo il punto, il fortunato.
- Allora?- insistette notando la mia perplessità.
Come avrei potuto dirglielo? – Tu..- sospirai. – Mi prometti che non te la prenderai se ti dico chi è?
- Certo!- esclamò spudorata.
- Justin- sibilai a voce bassa.
- J-Jus..
- ..tin.
- Justin- concluse lei rimettendo insieme il puzzle, con gli occhi nel vuoto. – Ma è fantastico!- urlò improvvisamente.
Ringraziai Dio mentalmente del suo riscontro positivo, anche se, glielo si leggeva negli occhi, il suo entusiasmo non era poi così sincero.
- E’ fantastico, davvero. Cioè, non Justin, insomma, lui fa pena, fa defecare- s’immobilizzò improvvisamente facendo una faccia schifata. – E’ fantastico il fatto che te l’abbia fatto la persona che ti piace.
Mi abbracciò nuovamente, questa volta con più dolcezza e comprensione.
- Aly, ma a me non piace- sussurrai cercando di convincere me stessa per prima.
- Vi siete baciati, giusto?
- Sì.. ci siamo baciati- affermai.
- Se non ti piaceva non l’avresti baciato, Rosie. Ti conosco, e ti dico che non l’avresti fatto.
- Io l’ho baciato perché.. perché.. sarebbe stato scortese rifiutarlo- buttai lì con non troppa convinzione.
- Certo!- finse di comprendermi con un sorrisino da donna vissuta. – Questa è la più grande balla che tu abbia mai detto.
- Ma..
Ad interrompermi fu proprio la voce del protagonista della nostra discussione, che urlava il mio nome a squarciagola.
- Siamo qui!- urlai a mia volta aguzzando la vista e vedendo dov’era.
Apparse in mezzo a due alberi. – Abbiamo sentito il motore di una barca, ma nonostante aver urlato a squarciagola, non ci hanno visti, né sentiti. Dovete aiutarci ad accendere un fuoco, per fare fumo, e a scrivere un messaggio d’aiuto sulla sabbia- ci avvertì serio.
- Va bene, andiamo- dissi stanca, superando Justin ed avviandomi a grandi falcate verso la spiaggia.
- Dan!- esclamai buttandomi tra le sue braccia. – Non ce la faccio più, voglio tornare a casa. Non ce la faccio più- sussurrai trattenendo le lacrime.
Lui mi baciò i capelli accarezzandomi la schiena. – Ti prometto che in un modo o nell’altro entro stasera sarai nel tuo letto.
- Perché non passa nessuno? Dov’è il nonno, e come mai ancora devono trovarci?- continuai lasciando che questa volta le lacrime scorressero e facessero il loro corso. Il tutto era così frustante.
- Vedrai che qualcuno arriverà- mi rassicurò staccandosi da me e guardandomi dritto negli occhi.
- Rose Mary- mormorò Justin sfiorandomi il fondoschiena. Rabbrividii girandomi lentamente verso di lui. – Forse so come fare- continuò.
- Che vuoi dire?- gli domandai tirando su col naso.
- Vieni con me- disse prendendomi per mano e portandomi a qualche metro da lì.
- Non è possibile- si bloccò improvvisamente. – Non è possibile..
- Che cosa, Justin?
- Ieri era qui, io.. io ne sono sicuro- proseguì ignorandomi del tutto.
- Di che stai parlando?- sbottai stringendogli il polso.
Lui guardò d traverso la mia mano sul suo braccio, ma nonostante ciò non mollai la presa. Che stava succedendo?
- Ieri.. ieri mattina, quando mi sono allontanato per ispezionare il posto, ho visto una piccola zattera di legno proprio in questo punto e adesso.. Beh, adesso non c’è più- confessò quasi infuriato con se stesso.
- Com’è possibile?
- Che diamine ne so?
- E quindi adesso siamo fottuti per davvero- mormorai sovrappensiero.
- Ehi, che succede qui?- intervenne Daniel avvicinandosi a noi, seguito a ruota da Alyssa.
- Niente- minimizzò Justin. – Cambio di programma: invece di sprecare energie per accendere un fuoco e inviare un messaggio d’aiuto, dobbiamo andare a cercare una sorgente per dell’acqua e qualche frutto. Oppure possiamo restare qui e morire di fame.
- Io vado a cercare l’acqua, ricordo di aver scorto una sorgente non troppo lontana ieri; Justin, tu vai a cercare la frutta, e Rose Mary e Daniel, voi resterete qui in caso passasse qualcuno, o meglio ancora, arrivasse Fred- sentenziò Alyssa, lasciando tutti di stucco dal suo tono imperioso e dalla sua presa di posizione.
- O-ok- balbettò Daniel dandoci le spalle. Lo affiancai lanciando un’occhiata fugace a Justin che ricambiò con un mezzo sorriso fin troppo sforzato.


- Mi scoccio- cantilenai stonata come una campana, scarabocchiando cuori e stelline sulla sabbia.
- Obbligo o verità?- mi domandò improvvisamente Daniel sedendosi a gambe incrociate di fronte a me.
- Eh?
- Obbligo o verità? Scegli!
- Ehm, verità..?
- Bene- fece una pausa per formulare la domanda perfetta, ma parve abbastanza convinto su ciò che avrebbe dovuto chiedermi, come se fosse stato un gesto premeditato. – Hai una cotta per Justin?
Ma che diavolo! Era così evidente? Quella domanda mi mandava su tutte le furie per il semplice motivo che non ne conoscevo la risposta, e la cosa mi infastidiva parecchio. – No- sibilai lentamente.
- Rosie, lo sai che chi dice le bugie va all’inferno?- mi chiese con un sorrisino irritante.
- E va bene, ho capito- alzai le mani in segno di resa. – Beh, ecco.. può essere che.. forse.. un pochino.. mi piaccia.. credo, insomma, poco, no.. pochissimo, capisci?
Sorrise scuotendo il capo. – Sei perdutamente innamorata.
Arrossi abbassando la testa. – E tu? Obbligo o verità?- gli domandai a mia volta lasciando sviare il discorso di Justin.
- Mh, direi.. aspetta, se dico obbligo sarai tanto crudele?
- Sarò estremamente crudele- risposi sperando che dicesse verità.
- Beh, allora verità.
Cacciai una risatina inquietante e mi sfregai le mani guardandolo minacciosamente. Era il mio momento, dovevo vendicarmi, e c’era una cosa che volevo ardentemente sapere da quando ci eravamo conosciuti. – All’inizio, i primi giorni ecco, ci provavi con me, vero?
Mi guardò in faccia quasi spaventato, come se avessi detto il più grande degli obbrobri, dopodiché scoppiò a ridere. – Rose Mary- riprese fiato per poter terminare la frase. – Io sono gay.
E detto ciò riscoppiò a ridere.
In un primo momento non riuscii a decifrare ciò che aveva detto, poi ci ripensai, e realizzai il tutto. – Tu sei..
- Esatto- mi sorrise. – Beh, sorpresa?
- U-un po’- risposi scossa.
La mia preoccupazione era rivolta ad Alyssa, non avevo la minima intenzione di vederla soffrire, o che ricevesse un’ennesima delusione, ma non potevo nemmeno confessare tutto a Daniel e chiedergli di starle alla larga, o quantomeno, di non illuderla.
- Posso dirti una cosa?- mi  chiese ritornando ad essere serio.
Fai che non sia su Justin. Fai che non sia su Justin.
- Lui è.. è diverso.
Ed ovviamente, con Lui si riferiva a Justin.
- Che vuoi dire?- mi torturai una pellicina, agitata.
- Da quando ha conosciuto te, Rose Mary, Justin è cambiato; ha la testa tra le nuvole, è distratto, talvolta guarda nel vuoto e sorride. Io.. io non so spiegarlo, so solo che c’è qualcosa di strano di lui; non che l’essere gentili sia una cosa strana, ma quando il soggetto in questione è Justin lo è e come!
Sospirai. – Io non ho cambiato proprio nessuno, e poi, lui mi reputa una ragazzina, sì, non mi prende sul serio, insomma- dissi sorridendo nervosamente.
- Io invece credo proprio che tu gli piaccia- affermò calmo.
Arrossii all’istante e delle piccole e fastidiose farfalle iniziarono a fluttuare spensierate nel mio stomaco. – A me non importa nulla di piacergli, non ne ho il minimo interesse, e ho constatato che il sentimento è reciproco, ma adesso cambiamo discorso.
Lui scosse la testa in disaccordo e socchiuse gli occhi. – Va bene. Continuiamo? Ti prometto che tutto ciò che sarà detto resterà tra di noi, sei d’accordo?
Annuii sorridendogli debolmente. – D’accordissimo. Resterà tra di noi, te lo prometto.


Il rumore del motore di una barca mi fece sobbalzare nel pieno di una rivelazione scottante di Daniel.
- Siamo qui!- urlò a squarciagola il moro scuotendo le mani.
Lo imitai urlando le cose più strane e prive di senso: volevo solo tornare a casa.
La barca si spostò verso la nostra direzione. – Siamo qui!- continuai assicurandomi che ci avessero visti per davvero.
L’imbarcazione attraccò ad un metro di distanza dalla sabbia, e degli uomini scesero da uno scaletto, fino ad atterrare sulla riva sabbiosa.
- Nonno!- esclamai non appena lo scorsi tra il gruppetto.
Gli corsi in contro e non appena mi avvicinai a lui lo avvolsi in un energetico abbraccio. Mi feci piccola tra le sue calde e possenti braccia. Gli altri uomini si erano allontanati nel frattempo, e li sentivo blaterare qualcosa a Daniel.
- Nonno- sussurrai in preda all’agitazione mista a felicità.
- Mi hai fatto prendere un colpo- disse staccandosi da me, ma non smettendo nemmeno un attimo di guardarmi.
Notai gli occhi rossi, conseguenza dell’insonnia probabilmente, e delle rughe accentuate sul contorno degli occhi e lungo la fronte.
- Che diavolo è successo? Come avete fatto a perdervi? E tu stai bene?- mi domandò con un tono duro, come se si fosse davvero preso un grande spavento.
- Sì, si, io sto bene, ho solo bisogno di mangiare qualcosa e riposare. Non ho idea di come Daniel abbia potuto perdersi, e come se non bastasse, dopo questo il carburante ha deciso di giocarci un cattivo scherzo, e adesso eccoci qui- spiegai.
Lui sgranò gli occhi. – Ah, adesso mi sente!- urlò facendo per dirigersi verso di lui.
Lo bloccai per il polso e lo costrinsi a guardarmi. – Nonno, adesso pensiamo ad andare a casa. Oh, e dobbiamo andare a chiamare Justin ed Alyssa e dire loro che è tutto risolto.
L’uomo strinse i pugni facendo uno sforzo inimmaginabile per non correre da Daniel e prenderlo a sberle, poi, sospirò. – Non ce n’è bisogno, eccoli!- indicò alle mie spalle. Non appena mi girai vidi il volto sorpreso di Alyssa e quello di Justin accigliato.
- Aly!- urlai.
I suoi occhi volarono su di me, poi sul nonno, dopodiché tirò un sospiro di sollievo e ci venne in contro seguita da Justin.
- Fred- disse a voce bassa dandogli un abbraccio.
Ma il nonno più che essere interessato a lei, parve esserlo a Justin, e i suoi bulbi incandescenti non promettevano nulla di buono.
Nel giro di pochi secondi si unì a noi anche Daniel. – Mi scusi capo, sono mortificato, davvero, non sa quanto mi dispiace- si scusò sinceramente rammaricato.
- Per tua fortuna Rose Mary e Alyssa stanno bene- lo fulminò. – Per fortuna che siete tutti ancora vivi.. ma in fondo, ora che ci penso, è stato meglio così, qui sarete stati sicuramente più al sicuro.
- Che vuoi dire?- domandai allarmata. Sapevo che c’era qualcosa che non andava, me lo sentivo. – La nonna sta bene?
- Sì, Helen sta bene.. è la signora Hutcher..
- Che cosa le è successo?- chiese Daniel sbiancando.
Chi diavolo è la signora Hutcher?, pensai, giungendo poi alla conclusione che doveva essere una donna del posto.
- Due ore fa ha trovato la testa del suo gatto sullo zerbino di casa, e il resto del corpo nascosto dietro dei fiori di peonie nel suo giardino. Le è venuto un infarto. E’ ricoverata in ospedale, adesso.
Mi portai una mano alla bocca, con il cuore che mi martellava nelle orecchie. Non avevo idea di chi  fosse quella donna, ma chi aveva potuto fare una cosa tanto orrenda? E soprattutto, perché?
- Dobbiamo tornare sull’isola, adesso. Tua nonna è in ospedale da Maddaleine- disse rivolgendosi a me. – E le avevo promesso che ti avrei riportata a casa e dopodiché l’avrei raggiunta in ospedale. Justin, Daniel, voi resterete con Rose Mary e Alyssa fino al nostro ritorno. E’ il minimo che potete fare dopo il guaio che avete combinato- concluse gelidamente.
I due annuirono.
- Avete attaccato la mia nave?- urlò il nonno ai suoi uomini.
- Sì capo, è tutto pronto, possiamo partire- urlò di rimando uno facendo segno di “ok”.
- Si ritorna a casa- concluse rivolgendosi a noi.


- Saremo di ritorno tra qualche oretta. Adesso sono le..- Fred guardò l’orario sull’orologio d’oro. – Sono le due e mezza, e per le sei dovremmo essere a casa. Helen ha conservato la lasagna nel forno, mettetela a scaldare nel microonde. Nel frigo avete tutto ciò di cui c’è bisogno, acqua, suc..
- Sì nonno!- lo interruppi. – Non è la prima volta che restiamo soli- lo rassicurai.
L’uomo sospirò ancora leggermente scosso. – Va bene. E mi raccomando, non vi muovete di casa. Ora come ora potrebbe essere poco sicuro.
- Tranquillo- gli schioccai un bacio sulla guancia.
- La nonna non vede l’ora di abbracciarti, Rose Mary- disse infine, dandoci poi le spalle.
- Salite sulla Jeep- ci ordinò Daniel una volta che il vecchio si fu allontanato.


Infilai la chiave nella porta e feci scattare la serratura, che intonò la stridula nenia di ferro arrugginito. Posai le chiavi sul tavolino dell’anticamera, e aprii le persiane del soggiorno e della cucina. La storia della signora Hutcher mi aveva turbato non poco, e magari, essere a contatto la luce del sole avrebbe reso il tutto meno spaventoso.
- Rosie- urlò Alyssa dalla cucina. – Scaldo la lasagna?
- Sì! Vado a darmi una sciacquata, scendo tra un attimo- e detto ciò salii velocemente le scale e mi catapultai in bagno. Una volta lì mi sbarazzai dei vestiti ed entrai nella doccia – prima però, odorai la maglietta con cui mi ero sfregata su Justin, la notte prima, e sì, sapeva di muschio mischiato alla lavanda, proprio come lui, o forse ero io che stavo solo impazzendo.–
Una volta entrata nella doccia fui preda dei pensieri più strani. Erano accadute così tante cose nel giro di poche ore, che avevano lasciato un segno nella mia mente. Protagonista dei miei pensieri era quel bacio. Che cosa diavolo significava? E cosa sarebbe accaduto tra di noi? Sempre che ci fosse un “noi”. Forse era solo una mia fantasia che sarebbe presto stata sfatata. Ero confusa, e nella confusione mi dimenticai completamente del tempo che scorreva. Probabilmente erano già passiti cinque minuti, o dieci.
- Rose Mary- era Lui.
- Sì?- urlai tornando alla realtà.
- Vieni fuori, devo.. parlarti- disse serio.
L’ansia s’impadronì del mio stomaco. – Arrivo- finsi di essere calma.
Chiusi l’acqua, mi asciugai velocemente le gambe e le braccia e mi avvolsi un lungo asciugamano intorno al corpo, che mi faceva da mini abito.
Puoi farcela pensai tirando un lungo respiro e aprendo la porta. Me lo ritrovai di fronte, con quegli occhi ambra incredibilmente penetranti. Fui percorsa da un brivido.
- Quel bacio non significa niente. Non ha significato niente per me, e non deve significare niente per te. Era un momento di debolezza per entrambi, non ero lucido, non ero in me- m’incalzò non smettendo nemmeno un attimo di guardarmi negli occhi.
In quell’istante fu come se il mio cuore fosse stato trafitto da migliaia di piccole schegge di ghiaccio, e lo sentivo perdere un battito allo scadere di ogni secondo.
Non avevo idea di come fosse la mia faccia in quel momento, non mi importava, ero solo ferita; troppo ferita.
Come avrei dovuto comportarmi? Cosa avrei potuto dirgli? Per un attimo il mio orgoglio ebbe la meglio: - Figurati se abbia significato qualcosa per me- gli risposi fingendomi disinteressata, ma stavo mentendo, ed io non mentivo mai. Quella non ero io, quella non era la risposta che avrebbe dato la vera me, era solo l’orgoglio che aveva preso il sopravvento, ma la verità è più forte dell’orgoglio. – No aspetta, sai una cosa? Non è vero. Quel bacio ha significa molto per me, troppo. Forse più di quanto dovrebbe. Io sono stufa di tutto ciò Justin; un giorno mi tratti come se fossi importante, come se avessi un posto nel tuo cuore, quello seguente ti comporti come se fossi invisibile, come se non esistessi. Non sono una di quelle puttanelle che puoi permetterti di portare a letto e di scaricare il giorno dopo come se niente fosse. Io non sono la tua bambola di pezza; non puoi prendermi quando ne hai voglia, e rigettarmi nel baule quando ti sei stufato. La nonna aveva ragione, tutti avevano ragione. Il tuo cuore è più freddo di una pietra- le parole uscirono senza che io me ne accorgessi, come un fiume in piena, e le lacrime pure. Lacrime bollenti. Non aspettai un secondo di più: mi avviai con la testa bassa nella mia camera e sbattei la porta, lasciando uscire tutta la rabbia e la frustrazione che mi portavo dentro.
Stupida, stupidissima Rose Mary. 
Immersi la testa nel cuscino, lasciando che le lacrime scorressero silenziosamente.
- Che diavolo le hai detto?- sentii la voce ovattata di Alyssa che sbraitava contro Justin.
- La cosa più giusta da dire- rispose lui atono.
- Sei proprio un coglione- concluse lei avviandosi verso la porta della mia camera.
Bussò delicatamente. – Rosie?
Non le risposi, volevo solo restare sola e meditare su quanto fossi stata stupida ad illudermi per una come lui.
Alyssa non aspettò il mio permesso – che non sarebbe arrivato comunque –, entrò e basta.
- Ehi..- sussurrò sedendosi affianco a me e accarezzandomi la spalla.
Girai lentamente lo sguardo verso di lei, cercando supporto nei suoi occhi. Ella sospirò. – Credo sia meglio  così Rosie, non è il ragazzo per te, tu meriti di meglio.
Annuii cercando si auto-convincermi. – Sono una cretina.
- Non è vero.
- Sì, è vero- ribattei tirando su col naso.
- Ce la fai a scendere giù con noi?- mi chiese apprensiva.
- No. Non voglio stare con lui.
- Ma tu starai con me.
Ci pensai su per un po’. Non aveva senso restare segregata in camera e continuare a piangermi addosso, e poi morivo di fame.
- Va bene, ma non lasciarmi sola nemmeno un attimo- conclusi.
- Te lo prometto- mi prese per mano ed insieme scendemmo al piano di sotto, dirigendoci verso la cucina.
Mi bloccai sulla soglia della porta; era lì, con le mani conserte, che guardava nel vuoto.
Daniel mi lanciò uno sguardo comprensivo, e mi fece segno di sedersi vicino a lui, proprio di fronte a Justin.
La tensione nell’aria era palpabile. Per il resta del pranzo gli unici suoni che si udivano erano quelli delle forchette a contatto con il piatto.
Per un paio di volte i nostri sguardi si erano incrociati, e per entrambe le volte li avevamo ritratti all’istante, come se avessimo preso la scossa.
Di punto in bianco Justin posò la forchetta nel piatto e si alzò.
- Dove vai?- gli chiesi senza riuscire a trattenermi.
- La mia presenza è di troppo, me ne torno a casa- rispose senza guardarmi in faccia.
Fece per darci le spalle, finché non diruppe nella stanza il rumore del campanello.
- Vado io, devono essere i nonni- dissi superando Justin e aprendo la porta.
Non c’era nessuno, completamente vuoto. Uno strano mugolio catturò la mia attenzione, un bizzarro verso proveniente dal basso, quindi, abbassai lo sguardo. Una scatola di cartone era posata sullo zerbino di casa. Intravidi del pelo bianco latte attraverso la fessura. Aprii la scatola e.. proprio come sospettavo.
- Rosie? Chi è?- mi domandò Alyssa avvicinandosi sempre di più, fino a ritrovarsi alle mie spalle. La sentii starnutire. – E quello cos’è? No..
Mi girai verso di lei con occhi preoccupati, poi, rispostai l’attenzione sul piccolo gattino dal pelo immacolato, rannicchiato in modo indifeso all’interno della scatola. Mi piegai e lo presi in braccio; il piccolo miagolava acutamente, era spaventato. Avevo paura di fargli del male, insomma, era talmente piccolo che sentivo le sue fragili e piccole ossa sotto le dita, così, lo riposi nella scatola e tenendomi a debita distanza da Alyssa – era allergica al pelo di animale – lo portai in casa. Mi diressi verso il soggiorno sperando di evitare domande da parte di Justin e Daniel, ma me li ritrovai proprio lì, ai piedi del grosso divano circolare. – Che diavole è?- mi chiese Justin.
Ero davvero stremata e senza forze per potergli rispondere, così, riaprii la scatola e cacciai il gatto.
- Chi è stato? E a quale scopo?- continuò avvicinandosi a me e accarezzando con il dorso della mano la testolina pelosa. L’animale parve tranquillizzarsi a quel tocco, e smise di miagolare istericamente.
- Chissà, forse un ammiratore?- ipotizzò Dan serio.
- Ne dubito- rifiutai ferma la sua tesi.
- Beh, che importa chi te l’ha regalato? E’ qui, no? Non possiamo mica abbandonarlo- intervenne Alyssa sulla soglia della porta.
- Oh, al diavolo l’allergia!- esclamò improvvisamente incazzata, e avanzando con lunghe falcate verso di me. – Vieni qui piccolino- sorrise inebetita rivolgendosi al gatto, e sfilandomelo da mano.
Se lo passò sotto al collo e socchiuse gli occhi dal piacere. Poverina, doveva essere frustante amare gli animali ma non poter stare a contatto con loro. – Piuttosto, come lo chiamiamo?- domandò entusiasta.
- Perché non Daniel?- propose quest’ ultimo sorridendo beffardo.
- Lo chiamano narcisismo- s’intromise Justin sorridendo appena. Non potei far a meno di ridere a mia volta, ma non potevo ridere, non per una sua battuta. Mi morsi il labbro inferiore.
- Prima controlliamo di che sesso è!- mi rivolsi ad Alyssa.
Ella guardò la pancia del felino. – E’ femmina, è femmina! E’ una di noi!- esclamò strusciandosela nuovamente sotto il collo.
Sorrisi. Se non altro la nuova arrivata era servita a smorzare la tensione. – Voglio chiamarla Melanie! Sì, Melanie!- conclusi con un gran sorriso.
- Mi piace- accordò Daniel.
Alyssa lanciò un altro starnuto, questa volta più violento e buffo del primo.
- Dalla a me- le dissi. – Vieni dalla mamma Mel!- sembravo una completa deficiente.
Vidi di sottecchi Justin che mi osservava, con un mezzo sorriso sul volto.
- Ah, Dan, vai a posare lo scatolo in cucina? E' tutto impolverato, e il tappeto è bianco- gli dissi.
- Ai suoi ordini capo!
Abbassò a testa verso la scatola. – Aspetta- aggrottò le sopracciglia. – C’è.. c’è un biglietto.
Lo  tirò fuori e si mese ad osservarlo per qualche secondo.
Justin glielo sfilò di mano. I suoi occhi si incupirono più di quanto già non lo fossero, e iniziò a torturarsi le labbra, poi posò il suo sguardo su di me. Era così spaventato.
- Che cos’è?- gli presi il biglietto da mano e lo lessi.

Abbine cura piccola mia. Oh, attenta alla testa. xx


 

























 
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SPAZIO AUTRICE:
Buon sabato polmoni del mio cuore. Ok, tralasciando il saluto no sense, eccomi tornata yeeeeeeeeee! Intanto se siete arrivati fino alla fine vi devo fare una statua perché il capitolo è lunghissimo, finora è il più lungo tra quelli che ho pubblicato. Sono ben nove pagine di Word, oh yeah! Spero di non avervi annoiato, ma non potevo dividerlo i due parti, sennò avrebbe avuto senso. Adesso, dal momento in cui è lunghissimo e potrebbe esservi scappato qualcosa, vi faccio un po' un resoconto
di ciò che accade:

Alyssa confessa di essere attratta da Daniel; Rosie confessa ad Alyssa di essersi baciata con Giustino; quando Justin e Alyssa sono nella foresta a cercare dei viveri, durante il gioco "Obbligo o verità" Daniel confessa di essere gay. Ok, ok, seffermiamoci un attimo su questa cosa: ve lo sareste mai aspettati? Io personalmente no... che poi l'ho scritto io ma va be' AHAHAHAHAHAHAHAH. In pratica adesso c'è tutta una situazione contorta in cui ad Aly piace Daniel, ma lui è attratto dai maschi. Ma vabby. In realtà ho voluto sperimentare questa cosa, dato che i gay mi stanno simpatici e per creare un po' di problemi anche per la coppia Dalyssa (boh, credo che si chiamerà così d'ora in poi, lollino). Ma proseguiamo: Arriva Fred con i soccorsi, e da loro una spiacevole notizia: il gatto di una donna del vicinato è stato decapitato, e la proprietaria, la signora Hutcher, dato lo shock subito ha avuto un inferto e adesso è ricoverata in ospedale; tornano a casa, e il nonno raggiunge Helen all'ospedale, dalla signora Hutcher, e impone a Justin e Daniel di restare con Rose Mary e Alyssa fino al loro ritorno; Justin dice a Rosie che il loro bacio non è significato nulla, ed è qui che avviene la litigata del secolo. (Per quanto riguarda ciò che dice Justin, tutto vi sarà chiarito nel prossimo capitolo, sono cattiva, ik). Durante il pranzo suona il campanello. Rosie apre la porta e trova uno scatolone sullo zerbino. In questo scatolone c'è un gatto, Melanie. Quando Rose Mary ordina a Daniel di andare a buttare la scatola, il ragazzo si blocca, e caccia dal cartone un bigliettino che dice: "Abbine cura piccola mia, oh, attenta alla testa".

Fatto questo breve riassunto, vorrei davvero sapere che ne pensate del capitolo, di ciò che sta accadendo sull'isola, e infine dell'inaspettato regalo accompagnato dal quello strano bigliettino, che riceve Rosie. PS: grazie infinite per le oltre novemila visualizzazioni ai capitoli, i preferiti, e le meravigliose recensioni che mi lasciate. Vi voglio bene, e vi aspetto a sabato prossimo belle gnocche.


with love, your Alyssa.

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Capitolo 13
*** Brainwashing ***


CAPITOLO 13
Brainwashing


 
Nelle tre settimane seguenti mi fu molto difficile riuscire a prendere sonno, e continuavo ad avere un senso di rifiuto nei confronti di Melanie; non volevo affezionarmi, c’era qualcosa dentro di me che mi spingeva a non farlo, così mi ero limitata a nutrirla, lasciando che a darle affetto fossero i nonni e – anche se solo vocalmente – Alyssa. Tra lei e Daniel le cose andavano magnificamente, e più la vedevo felice con lui, più mi sentivo in colpa per non averle svelato quel piccolo dettaglio sul ragazzo che le piaceva. Non si poteva dire lo stesso di me e Justin, insomma, la ferita era ancora fresca, e nessuno dei due voleva fare il primo passo, così ci avevo rinunciato focalizzando la mia attenzione solo sullo strano mistero che aveva colpito l’isola. C’era un assassino maniaco a piede libero, e nessuno aveva idea di chi si trattasse, anche se uno strano pensiero iniziava ad insinuarsi dentro di me, ma ogni volta che ci pensavo, la conclusione era sempre questa: “No, non può essere lui”. Alla decapitazione del gatto della signora Hutcher era seguita la scomparsa della piccola Kim Chayenne, una bambina del vicinato. L’isola era sotto shock, e più impaurita che mai. Le porte erano chiuse a chiave, le finestre pure, e la serenità che caratterizzava prima il luogo era stata sostituita dal terrore. A peggiorare la situazione c’era la pioggia, che persisteva non facendo altro che aumentare lo stato d’allerta. Nonostante ciò il nonno non poteva sospendere il lavoro, così io ero costretta a vedere l’Innominato – è così che lo chiamava Alyssa per non scatenare la mia ira – almeno una volta ogni due giorni. Quel mercoledì mattina però, Fred aveva deliberatamente deciso di prendersi una giornata libera ed andare con la nonna dalla famiglia Cheyenne, per dar loro supporto, mentre Alyssa, mi aveva mollato per uno stupidissimo gelato con Dan (le avevo detto che era pericoloso uscire di casa, ma in tutta risposta mi aveva schioccato un bacio sulla guancia). Così ero in casa da sola, che iniziavo a sentirmi in colpa per aver trasgredito una delle regole che vigevano nella casa dopo la scomparsa di Kim: tenere le persiane chiuse a chiave; il fatto era che io proprio non ce la facevo a stare così, mi sentivo mancar l’aria, e senza pensarci due volte le avevo aperte mandando al diavolo il maniaco che girava per l’isola. I bigliettini? Beh, avevo fatto promettere ai tre che non ne avrebbero fatto parola con nessuno, i nonni in particolare; non volevo si preoccupassero per qualche stupido scherzo di un altrettanto stupido ragazzino. L’ultimo l’avevo ricevuto cinque giorni prima, e diceva: “Tutto tornerà alla origini del male. Guardati le spalle, piccola”. Non avevo preso la faccenda troppo sul serio, a dirla tutta, me ne ero completamente fregata, al contrario di Alyssa, che pareva essere più angosciata che mai.
Il rumore del campanello mi staccò dai miei pensieri. Riconobbi immediatamente la sua sagoma attraverso il vetrocemento adiacente alla porta. D’un tratto mi bloccai, presa da mille insicurezze. Poggiai una mano sul legno massiccio e sospirai – forse più rumorosamente di quanto avrei dovuto.
- Rose Mary- disse piano Justin. – Lo so che sei lì dietro.
Ritrassi di scatto la mano portandola lentamente al suo posto, poi, senza pensarci due volte la spostai nuovamente in direzione della maniglia dorata e spinsi verso il basso. – Dimmi che hai una buona ragione per essere qui- lo incalzai guardandolo seriamente negli occhi.
- Non sono qui per te- fu la sua risposta.
Mi prese alla sprovvista, così abbassai la testa con le guance in fiamme. – E per chi, allora?
- Melanie.
Un gatto desta più interesse di me pensai infastidita. – S-sta dormendo- mentii.
Io  davvero non volevo averlo tra i piedi.
- Posso vederla ugualmente?- insistette lanciando un’occhiata furtiva alle mie spalle.
- Non vuole vederti- e solo in quel momento mi resi conto di quanto potesse essere la cosa più ridicola da dire.
- Te l’ha detto lei, presumo. Poi un giorno mi insegnerai il gattese- fece sarcastico.
Non potei far a meno di sorridere, e soffermarmi poi sul suo di sorriso. Mi incantai, scorrendo e osservando con intensità ogni centimetro delle sue labbra, della curva ai lati della sua bocca.
Ma che ti prende Rose Mary? Mi schiarii la gola riprendendo ricognizione del tempo. – Hai cinque minuti- lo liquidai dandogli le spalle e dirigendomi verso la serra, dove avevamo momentaneamente sistemato un’arrangiata cesta in cui dormiva Mel. La serra era situata nell’angolo più remoto della grossa abitazione, un lato di cui pochi, pochissimi si accorgevano. Così era diventato il mio posto preferito; un posto perfetto in cui leggere tranquillamente “Piccole Donne”, con luce naturale del sole che filtrava dal vetro da cui era circondata, con l’odore dei fiori della nonna che ti inondava le narici, e, contemporaneamente, tenendo sotto controllo Melanie, che coltivava la sua nuova passione per distruggere le piante.
- Oh, Melanie!- esclamai disperatamente. Sentii in sottofondo Justin, che si lasciava scappare una lieve risata. – Stupido, stupido gatto!- l’ammonii staccandola dai fiori di peonie che aveva ormai distrutto. Accovacciata presi un petalo bianco immacolato tra le mani. Mi bastò un solo tocco per riaccendere una catena di ricordi, rimasta sepolta nel mio cervello.Oh mamma.
La nostra macchina odorava di peonie; erano i suoi fiori preferiti. Quell’odore mi aveva pervaso le narici, quella sera, e poi, nel giro di un istante, avevo sentito qualcosa di inspiegabilmente importante cadermi via dal cuore; spezzarsi; disintegrarsi; sparire. In quel momento, dall’altra parte della città, avevo perso loro, nella nostra macchina, che odorava dei suoi fiori preferiti. Se solo..
- Rose Mary- disse a voce bassa Justin. – Tutto bene?
- Sì, sì, sto bene- mi capitava spesso ultimamente di perdermi nei miei pensieri abbandonando per quei secondi il mondo. – Beh, come vedi, eccola qui- feci lanciando uno sguardo a Melanie, che mi guardava con occhi da cane bastonato.  
- Mel?- la chiamò con il tono di voce più dolce che gli avessi mai sentito, e accovacciandosi distante pochi centimetri da me. – Ehi!- esclamò giocoso quando essa gli si strisciò vicino le gambe iniziando a fare le fusa. – Guarda che ti ho portato- cacciò dal taschino dei pantaloni della tuta una bustina dorata. L’aprì, e dal suo interno cacciò un grazioso collarino celeste, con infisso un fiocco rosa pallido.
- Oh, ma è meraviglioso!- esclamai sfiorando l’oggetto, ma poi finì con la mia mano che sfiorò la sua. I nostri occhi s’incrociarono. Sentivo il cuore battere all’impazzata, e le guance arrossire violentemente, poi, distolse lo sguardo rialzandosi in piedi. Feci lo stesso, iniziando a torturarmi le unghie.
- Beh- iniziai a dire per rompere quell’imbarazzante silenzio che si era creato.
- Saluto Mel e poi tolgo il disturbo- mi bloccò.
Volevo dirgli che non disturbava affatto, ma una parte di me, quella più orgogliosa, era ancora troppo ferita per poter cedere di nuovo. Mi sentivo così strana; ero la prima a non capire me stessa, e i sentimenti contrastanti che mi portavo dentro mi stavano mandando in uno stato di totale confusione.
L’accarezzò sulla piccola testolina e senza aspettare oltre si diresse verso la porta d’ingresso.
- Posso solo sapere perché, Justin?- le parole mi uscirono da sole, poco prima che attraversasse il giardino e se ne andasse.
- Perché cosa?- fece per girarsi.
- Perché mi hai baciata se per te non significava nulla? Perché lo hai fatto se non provi niente per me?- continuai, mandando al diavolo il fatto che sarei potuta passare per un’ebete ragazzina innamorata.
Lui sospirò, incantandosi a guardare nel vuoto. – No-non posso.
- Non puoi cosa, Justin?- tutto ciò era così assurdo.
Mi guardò per una manciata di secondi, come se volesse dirmi qualcosa, poi, mi diede le spalle.
Rimasi lì, a fissarlo inerme, incredula, e più ferita di quanto non lo fossi prima. Le lacrime iniziarono a salire lungo il condotto, e infine mi pervasero gli occhi. Decisi di rientrare in casa prima che qualcuno mi vedesse. Perché mi comportavo in quel modo? Perché un bacio era bastato a farmi costruire castelli di sabbia? Forse perché non avevo mai provato una cosa del genere per nessun altro prima, ma era successo tutto così repentinamente che il mio stomaco doveva ancora abituarsi alle farfalle, i miei occhi alle lacrime e il mio cuore ad essere continuamente rotto e rincollato. Per lui era tutto normale, uno stupido gioco. Ero una delle tante, una qualunque, e un cuore rotto in più da aggiungere alla lista non lo turbava poi più di tanto.
C’era una cosa però, che proprio non riuscivo a spiegarmi: “Non posso”. Non poteva cosa? E perché non potevo saperlo? Per un attimo mi illusi che c’era altro sotto, ma poi arrivai alla conclusione che non era altro che una patetica scusa per scaricarmi.
Decisi di chiudere tutte le persiane e le finestre, e non per l’assassino, ma per il fatto che volevo starmene tutta sola e indisturbata. Una volta terminata l’operazione di blindaggio, mi diressi in cucina, intenta a prepararmi una tisana. L’atmosfera era diventata così triste e cupa senza luce del sole, e per di più, era ormai raro acchiappare una giornata soleggiata dopo tutte le violente piogge che colpivano l’intera isola. Mi arresi all’idea che sarebbe stato meglio così, almeno per quel giorno, l’avrei fatto per i nonni, e per me stessa. Così, illuminata da una – fortunatamente – abbastanza forte luce emanata dai moderni neon, mi sedetti sullo sgabello intorno all’isola, ed iniziai a sorseggiare il liquido bollente. Era quel tipo di tisana con la funzione “anti-nervosismo”, che faceva proprio al caso mio. Trasalii all’udire del campanello. Mi pulii le mani sulle gambe, asciugai le ultime lacrime rimaste sulle guance e andai ad aprire la porta.  
- Ehi- esclamai con un sorriso sforzato, alla vista di Alyssa.
- Che ti è successo?- tagliò corto lei con aria preoccupata.
- N-niente. Davvero, non mi va di parlarne- la invitai ad entrare.
- Strano- fece un pausa, una volta dentro casa. – Sei riuscita a restare con le finestre chiuse. Non te ne credevo capace.
- E’ stata dura, ma ce l’ho fatta- non potevo dirle che fino a quindici minuti prima era tutto spalancato, si sarebbe infuriata e avrebbe iniziato a farmi la paternale ricordandomi di quanto fosse pericoloso e bla, bla, bla.
- Ritornando a te: dimmi subito che cos’hai- fece sedendosi sulla poltrona rossa in salone, e guardandomi seria.
Feci un salto in cucina per prendere la tazza, e ritornai in salone, dove mi stravaccai sul divanetto di camoscio beige. – Niente- scandii piano.
- Perché hai pianto?- mi puntò un dito contro.
- C-come fa a sa.. Non è vero, non è vero, voglio dire!- blaterai così poco credibilmente che non riuscii a convincere nemmeno me stessa.
- Ah Rosie cara, credi di poter mentire alla tua vecchia e cara Alyssa?- mi domandò con un sorrisino sulle labbra. – Cos’è, qualche altro bigliettino? Oppure… Oh, l’Innominato- continuò incupendosi improvvisamente.
In tutta risposta abbassai lo sguardo, non facendo altro che confermare la sua tesi.
Così iniziai a raccontarle ogni minimo dettaglio. – E l’ultima cosa che mi ha detto è stata “Non posso”. Ti rendi conto?- conclusi sforzandomi di non riscoppiare a piangere.
Alyssa non aveva aperto bocca durante il racconto, e questo era strano, completamente strano considerando che si trattava di lei. – Allora? Non hai niente da dire?- le domandai.
- R-Rosei io..- balbettò, per poi fermarsi a guardare nel vuoto.

 
TRE SETTIMANE PRIMA

Alyssa e Justin s’incamminarono verso il cuore della foresta, rispettivamente alla ricerca di acqua, e frutta per placare gli insopportabili brontolii dei loro stomaci.
- Dove hai visto la sorgente?- domandò il ragazzo una volta allontanatisi abbastanza dagli altri due.
- Non m’importa un bel niente della sorgente- rispose arrogantemente l’altra.
Justin sbruffò. – Il tuo fare l’offesa non ci aiuterà.
- Non riguarda me, Justin- fece la ragazza girandosi a guardarlo negli occhi, e avvicinandosi di qualche passo a lui. – Ma Rose Mary- gli strinse il polso più forte di quanto Justin potesse immaginare.
- Che cosa ti ha detto?- le chiese.
- Non importa ciò che mi ha detto, ma ciò che tu stai diventando per lei.
- Che vuoi dire?- Justin iniziava ad agitarsi, e tentò di divincolarsi dalla presa di Alyssa, ma invano.
- Rose Mary si è innamorata, e il fato ha voluto che il fortunato sia tu. E’ la mia migliore amica, forse la cosa più vicina ad una sorella che io abbia mai avuto. Farei di tutto per lei. Ha sofferto più di quanto immagini in queste settimane; la sua vita da un giorno all’altro è stata distrutta in mille pezzi. L’hanno mandata qui perché i suoi nonni sono l’unica cosa che le è rimasta, ma anche per farle cambiare aria, e dimenticare ciò che le è accaduto. Sta funzionando, i pezzi si stanno rincollando giorno dopo giorno, e non voglio che sia tu il coglione che li romperà ancora. Non ha bisogno di altre sofferenze, non di certo da un tipo come te. Basta poco a capire che ragazzo sei, Justin. Non ti fai scrupoli, non li hai mai fatti con le altre ragazze, non te ne sei fatti con me, e qualcosa mi dice che non te ne farai neanche con Rosie, e questo non mi piace. Vuoi stare con lei? Stacci, ma non azzardarti a farle scendere una sola lacrima che finisce male- concluse gelidamente.
Il ragazzo avvertì una strana sensazione; non solo la voce di Alyssa era fredda, ma tutto ciò che li circondava. Era come se da quaranta gradi fossero scesi a meno zero, e questo gli fece scorrere i brividi lungo ogni parte del corpo. Non aveva idea di cosa risponderle, era tutto così strano e.. minaccioso. Alyssa sembrava un’altra persona, e il suo tono strabordava di rabbia e risentimento, tanto da spingerlo a tacere. Iniziò a meditare alle sue parole, si sentì terribilmente in colpa, e constatò quanto avesse ragione Alyssa, quanto lui fosse una persona orribile. Poi, decise che non lo sarebbe più stato, e avrebbe iniziato da Rose Mary lasciandola vivere felice, senza di lui, senza la sua cattiveria, o almeno ci avrebbe provato.

- Allora, che ti prende?- domandai ad Alyssa, che pareva più strana che mai.
- Niente. Tranquilla- mi mise un mano sul braccio. – Forse è meglio così, Rosie, forse starai meglio senza di lui.
- Come fai a dirlo?
- Guardati! Da quando lo conosci non hai fatto altro che soffrire. Non ne hai abbastanza di piangere?- mi chiese a voce bassa.
- Sì, ne ho abbastanza- affermai, con un orribile vuoto allo stomaco.
- Ci sono io, c’è Fred, Helen, Dan, c’è Melanie.. Non hai bisogno di nessun alto. Non adesso- mi guardò negli occhi comprensiva.
- Hai ragione, non ho bisogno di nessun altro.
Non riuscivo a controllare più la mia bocca, le parole uscivano da sole, ed era come se qualcuno stesso controllando la mia mente, facendomi il lavaggio del cervello. Mi colpì un fortissimo mal di testa. – Non ho bisogno di Justin- continuai senza nemmeno accorgermene, strizzando gli occhi dal dolore.
- Brava!- esclamò lei, abbracciandomi quasi disperatamente; c’era qualcosa di insolito in quell’abbraccio, riuscivo a percepirlo, e quella cosa mi spaventò a morte. Poi, il dolore sparì.

 






















 
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SPAZIO AUTRICE:
Ciao bele bimbe, Aly esele cui pel dominale monto! Ok, come si può intuire dal saluto mi sto dando a droghe pensati, yeee! Saluto il mio spacciatore Tonio Cartonio: sei il d best amò! No va be', torna seria Alyssa che le spaventi. ^^
Eccomi finalmente con il capitoluccio tredici, il numero della Swift. Ciao Tay Tay! Sooo, che ve ne pare donzelle? Felici? Sorprese? Annoiate? Deluse? Come vi avevo detto nello scorso capitolo (in cui vi ricordo che Justin dice a Rose Mary che il bacio non ha significato nulla), qui si scopre il perché della sua affermazione. Come avevano dedotto alcune c'è lo zampino di Alyssa. Beh, se prima la odiavate, adesso prosumo che la volete morta AHAHAHAHAHHAHAHAHAHAHAH. Però ci terrei a soffermarmi un attimo sul suo personaggio: mi ripecchia molto, e credo che questo sia uno dei motivi per cui le ho affibbiato il mio nome. Dietro la sua spavalderia, e la sua arroganza, si cela una strato che oserei definire estremamente debole. Inoltre agisce per fare del bene, ma finisce facendo l'esatto contratrio. Credo che uno degli aspetti più particolare di questo personaggio, sia che nella storia ricopre il ruolo di aiutante ma allo stesso tempo di oppositore. Vorrei chiarirvi un'ultima cosa: quando Rose Mary tocca il petalo della peonia, ella ricorda una serie di eventi legati a quel fiore, e a quell'odore. Se non sono stata abbastanza chiara nel testo, le peonie erano i fiori preferiti di sua madre, Kathrine; la loro macchina odarava di peonie, e nel momento esatto in cui dall'altra parte della città i suoi genitori ebbero l'incidente, dunque, morirono, Rosie fu pervasa da un'odore di peonie. Spero di aver chiarito tutti dubbi e le perplessità. Che altro dire? Mi auguro che riuscirete a ritagliare un po' di tempo da dedicare ad una recensione, piccola o grande che sia, positiva o critica, sono tutte ben accette, davvero. Ci tengo molto a sapere il vostro parere, d'altronde, è grazie a voi se tutto ciò è nato. Madò come sono dolce, cioè, ihih.
Va be', me ne vado, e sappiate che vi voglio bene, e mi sono affezionata moltissimo a voi. (:
A sabato prossimo ragazze,


with love, your Alyssa

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Capitolo 14
*** Memories. ***


CAPITOLO 14
Memories


 
 
“Bali, di nuovo vittima di uno spaventoso giallo” recitava il titolo a caratteri cubitali, del giornale locale posto sullo zerbino di casa. Chiusi la porta, mi diressi verso la cucina, e iniziai a sorseggiare il latte non staccando nemmeno un attimo gli occhi da quell’articolo.
- Che cosa dice?- mi domandò la nonna mettendo dei biscotti a tavola.
- Helen!- esclamò il nonno. – Santo cielo! Biscotti? E da quando?- sbraitò con le braccia al cielo.
La nonna gli schioccò un’occhiataccia. – Rose Mary non è abituata a uova in camicie e bacon, alle nove di mattina. O ti abitui o cambi moglie.
- Allora cambio moglie- borbottò lui accigliato.
Lanciai un sorriso sghembo ad Alyssa, che ricambiò scuotendo la testa.
Mi schiarii la voce. – Risale a poche ore fa la notizia della misteriosa scomparsa del reverendo Mayer. Pare che a denunciare il fatto sia stata la signora Mayer, raccontando agli agenti di polizia di essere tornata a casa, dopo aver assistito alla messa tenuta dallo stesso marito. “Mi aveva detto che doveva riordinare le offerte, e gli indumenti ricevuti in beneficenza” continua la donna lacrimante. “E invece non è più tornato”. A quel punto non ha più la forza di dire altro, e gli agenti la congedano, calandosi subito nella prima indagine. Non è l’unica vicenda ad aver fatto scattare lo stato d’allerta nell’isola, bensì, la seconda. La prima scomparsa risale ad una settimana fa, e la vittima, è la piccola Kim Cheyenne, di appena cinque anni. Le ricerche vanno avanti da giorni, ma di lei nessuna traccia. E’ solo un’orripilante coincidenza del fato, o una catena di eventi ben precisi, messi in atto da un cerebroleso che si aggira per l’isola?- mi fermai di scatto, con la voce che faticava ad uscire.
Alzai lo sguardo scrutando le espressioni di ognuno di loro. Il nonno aveva la bocca dischiusa, e lo sguardo perso nel vuoto; la nonna si girava velocemente i pollici e la preoccupazione nei suoi occhi era palpabile; Alyssa aveva le mani alla bocca, e gli occhi spalancati.
- Reverendo..- sussurrò la nonna.
- Non è possibile..- continuò il nonno.
- Voi.. lo conoscevate?- domandai cautamente.
- Chi non lo conosceva?- fece la nonna mettendosi le mani tra i capelli.
- Chi non lo conosce- la corresse l’uomo mettendo la mano sul braccio tremante della moglie. – Ha sposato lui i tuoi genitori.
Soffocai un “oh”. – Ma c-chi può essere stato?- domandai al vuoto, consapevole che non c’era una risposta a quella domanda. Non ancora.
- Devo parlarti- mi intimò Alyssa portandomi di sopra. I nonni non ci avevano nemmeno fatto caso, erano troppo sconvolti per prestare attenzione a noi due.
- E’ orribile- dissi una volta chiusami la porta della cameretta alle spalle.
- Devi metterli al corrente di ciò che sta succedendo, Rose Mary, e poi andare a denunciare la cosa alla polizia- Alyssa era così seria da non sembrare nemmeno lei.
- Eh? Cosa dovrei denunciare?
- I bigliettini, Rosie, i bigliettini- fece una pausa. – Perché la prendi così alla leggera? Non mi pare così assurdo che questo malato lasci messaggi in codice ad una ragazza.
Oh, era assurdo e come. – Tu hai letto troppi libri, Alyssa, ma questa è la vita reale. E poi dimmi: perché io? Cos’ho di speciale dagli altri? Non ha senso, non ha proprio senso.
- Beh, un motivo deve esserci, no? E noi lo scopriremo.
- E come? Siamo solo delle stupide adolescenti che vogliono cimentarsi in qualcosa di smisuratamente più grande di loro- sbottai cercando di mantenere la calma. – E’ uno scherzo. Deve essere per forza uno scherzo.
- Uno scherzo può arrivare a tale livello? Scherzare su una cosa del genere? Mi sembra improbabile anche per il più grande dei deficienti- ribatté lei alzando il volume della voce.
Feci per dire qualcosa, ma poi tacqui. Perché diavolo non potevo condurre una normalissima esistenza? Sembrava il brutto capitolo di un libro. – Mi arrendo, non so che pesci prendere- dissi infine alzando le mani.
Alyssa mi guardava con aria rassegnata.
- Facciamo così- continuai dopo svariati secondi. – Se mi arriverà un altro bigliettino, ed esso sarà seguito dalla scomparsa di qualcuno o lo sgozzamento di un animale, racconterò tutto- proposi poggiandomi al muro con le braccia incrociate.
Aly sospirò. – Non possiamo aspettare che accada ancora, capisci?
Mi andai a sedere sul letto, e iniziando a dondolarmi sulle gambe. Era così che facevo quando ero concentrata su qualcosa. – E se invece racconto alla polizia dei bigliettini, loro si focalizzano su questi unici “indizi” che hanno e perdono di vista il vero obbiettivo? Se questi bigliettini vogliono solo distrarli e portarli sulla pista sbagliata? Forse è vero, forse è il mostro che sta commettendo queste atrocità a mandarmi questi insulsi fogli di carta, ma se l’ha fatto solo perché era convinto che io andassi a dire tutto alla polizia? Se l’ha fatto per guadagnare tempo?- terminai arrivando finalmente ad una conclusione sensata.
Alyssa parve riluttante. – Forse..
- Mi chiedo solo chi diavolo possa essere. E se mi sta facendo ciò perché era sicuro che io sarei andata alla polizia, allora dev’essere qualcuno che mi conosce, o che mi avrà visto in giro, o..
 -.. O che ti spia- terminò la ragazza in tono solenne.
Qualcosa mi vibrò nelle tasche dei pantaloni. Sussultai.
- Chi é?- mi domandò Alyssa.
- Justin- risposi abbassando lo sguardo. – Che faccio?
- Ciò che ti senti di fare.
E senza pensarci due volte premetti il pulsante rosso, segnando il rifiuto della chiamata.
- Ne sei sicura?- mi chiese.
- No.
Il telefono vibrò ancora, ma quella volta mi implicai di rispondere. – Che vuoi?- lo incalzai infilzandomi senza nemmeno accorgermene, le unghie nel palmo della mano libera.
- Ciao, eh- la sua voce al telefono era così calda e.. sexy. Come se poi dal vivo non lo fosse.
Ah, piantala Rose Mary. – Ribadisco: che vuoi?
- Devo dirti una cosa- mormorò. Sembrava preoccupato, triste allo stesso tempo.
- Mh, tipo che non puoi?- sbottai non riuscendo a trattenermi. – Sai, non sarebbe la prima volta.
Lui sospirò. - No, cazzo. Smettila di comportarti come una ragazzina. Devi venire a casa mia, immediatamente. Devo mostrarti una cosa. Ah, porta i bigliettini.
Prima che però potessi dirgli di no o rispondere a tono per avermi dato della “ragazzina” (come se poi fosse una novità), la telefonata finì. – Ha detto che..
- Sì, ho sentito- mi bloccò Alyssa girandosi i boccoli rosso scuro tra le dita. – Devi andarci, Rosie. Questo non c'entra niente con te e lui.
- Sì, ci andrò- annunciai perdendomi a guardare nel vuoto. – Secondo te cosa potrebbe volere?
- Chi vivrà vedrà- disse con aria da donna vissuta.
- Ma smettila!- le lanciai un cuscino addosso. – Non hai ottant’anni!- le sorrisi.
Ricambiò. Entrambe però, eravamo terribilmente consapevoli che quei sorrisi non sarebbero durati a lungo, e che quella faccenda non avrebbe avuto un lieto fine, qualsiasi cosa sarebbe accaduta.
 
- Abita precisamente lì!- il nonno indicò una graziosa casetta in legno. Era molto fine ed elegante, insomma, niente a che vedere con la persona che ci viveva. Forse però un tempo lo era stato, quando tutto era più facile; quando lui era un bambino normale, che viveva in una normale famiglia composta da quattro persone, in una normale casa. Scacciai quei pensieri, sentendomi irrimediabilmente male per lui, e per tutto ciò che aveva perduto, normalità compresa.
L’uomo nel sediolino accanto a me frenò di scatto, facendo scattare la mia cintura che divenne improvvisamente rigida.
- Certo che con le frenate fai proprio schifo, eh!- lo ammonii con una smorfia.
- Ehi, attenta come parli, signorina. E mi raccomando, torna a casa per pranzo- mi avvisò girando il busto verso di me. – Oh, e a proposito: che vuole Justin?
Nel giro di un nanosecondo il mio cervello cercò di elaborare la scusa più credibile possibile. – D-Deve darmi un pensierino che ha preso per Melanie- sbiascicai.
Il nonno mi lanciò un’occhiata torva. – Mh, certo che le fa un “pensierino” ogni giorno.
- Cosa posso dirti? Si sarà innamorato- dissi ironica.
- Di lei o di te?- mi domandò così disinvolto che caddi in un profondissimo imbarazzo.
- D-Di lei! Ma cosa dici?
Lui sospirò, sbloccando le portiere. – Vai, e torna presto- mi schioccò un bacio sulla fronte.
Scesi dalla macchina e mi incamminai verso il piccolo vialetto circondato da un triste e poco curato giardino, poi, arrivai alla porta e bussai con ancora in corpo un po’ di esitazione.
La porta si aprì, mostrando Justin appoggiato con una mano sullo stipite di legno, e uno sguardo risoluto. – Ehi.
Perché mi era così difficile guardarlo negli occhi senza che il mio cuore iniziasse a scalpitare come un matto? – Una cosa veloce. Sai, non sono molto in vena di averti intorno.
- Il sentimento è reciproco. E poi, nessuno ti ha obbligato a venire- mi fece l’occhiolino.
Oh, avrei voluto prenderlo a schiaffi, ma mi limitai ad alzare il dito medio e ad entrare in casa. – Che c’è di tanto urgente?
- Seguimi- disse dandomi le spalle, e salendo fino al terzo piano, nella mansarda.
Una piccola finestra rotonda, illuminava il tutto lasciando filtrare i raggi rossi del sole, e facendo risaltare dei piccoli granelli di polvere che fluttuavano nell’aria. Aveva tutta l’aria di essere un’ala della casa al quanto abbandonata. Oltre il legno, che ricopriva tutta la superficie, e la finestra, vi era una poltrona di velluto verde ad un’angolo della stanza, e ai suoi piedi un grande e austero baule. Era aperto, e circondato da mille scartoffie e pezzi di carta ammuffiti. Justin gli si avvicinò, e con lui anche io, poi, mi lanciò un’occhiata, come a dirmi di guardarvi all’interno. Mi inginocchiai, sfiorando con le dita la carta, poi, senza un preciso canone, ne presi una, che aveva tutta l’aria di essere una lettera. In fondo, c’era scritto a china:9 Maggio, 1993.
La girai, stando attenta a non farmela sgretolare tra le mani. Avevo ragione: era una lettera.
Mi girai a guardare Justin. I suoi occhi erano di nuovo seri e privi di emozione.
- P-posso..?- balbettai. Lui annuì deciso.
Ripuntai gli occhi sul pezzo di carta, e iniziai a leggere nella mia mente.

Patricia, perdonami.
Non avrei dovuto, lo so, e me ne pento. Se solo tu potessi perdonarmi un’ultima volta.. Io ti amo.
Dovresti saperlo questo, e non dimenticarlo mai. Io ti amo, come non ho mai amato prima.
Voglio vederti; abbracciarti; voglio baciarti e chiederti perdono guardandoti negli occhi. Ti aspetto al tramonto lì, allo stesso posto, il nostro posto.


Jeremy.

Rimasi a fissarla ancora per qualche secondo, poi, la posai delicatamente nel baule. – Che significa?- chiesi a Justin, che guardava altrove, oltre la finestra, con le mani chiuse a pugno.
- Il “nostro posto”- disse a voce bassa. – Credo di aver trovato una foto che li raffiguri lì.
Iniziai a rovistare tra le carte e le lettere, poi, trovai svariate foto una sopra all’altra. Presi la prima che mi capitò sotto mano. Lei era Pattie, l’avevo riconosciuta, la nonna mi aveva mostrato una sua foto; l’uomo accanto a lei.. beh, era la copia spiccicata di Justin. Jeremy. Guardai alle loro spalle, osservai il paesaggio che li circondava. Mi era familiare, estremamente familiare. – Ma..
- Sì- mi interruppe lui girandosi finalmente a guardarmi negli occhi. – E’ il posto in cui- fece una pausa, e mi parve per qualche secondo di vedere le sue guance prendere colorito. Il posto in cui mi hai baciata pensai arrossendo a mia volta. – Il posto in cui abbiamo passato la notte, su quell’isola sperduta al compleanno di Daniel- terminò. Sapevo che stava per dire ciò che io avevo pensato, e sapevo che anche lui l’aveva pensato. O forse no.
- E quindi?- gli domandai alzandomi lentamente da terra. Mi osservava, percorreva ogni curva del mio corpo con gli occhi, fino ad arrivare alle mie iridi verdi.
- Quindi cosa?- domandò di rimando.
- Cosa c’entra tutto questo con ciò che sta accadendo? E con i bigliettini?- chiesi riferendomi alla lettera e le foto.
Lui sospirò, appoggiandosi al muro e incrociando le braccia. – E’ mio.. padre. Ne sono sicuro. E’ ritornato per vendicarsi.. ma non so di cosa. Non ne ha abbastanza di uccidere innocenti?- la voce gli si bloccò in gola. Feci per poggiare la mia mano sul suo braccio, ma si ritrasse. Avrei dovuto sentirmi ferita per il suo gesto, eppure non fu così, perché ciò che stava accadendo era molto più grande di una stupida storiella durata poche ore; anzi, non era mai iniziata.
- Come fai a dirlo? Insomma, non abbiamo nessuna prova. E poi, che senso avrebbe?
Justin scosse a testa. – Lui è pazzo- scandì piano. – I pazzi non pensano seguendo un filo logico, anzi, loro non pensano: agiscono e basta. Credo che però lui non sia come gli altri pazzi- continuò. – Insomma, credo che in lui ci sia ancora un po’ di furbizia, premeditazione; caratteristiche contenute da persone sane di mente. Quando poi la cattiveria si unisce alla pazzia escono fuori mosti come lui- concluse con disprezzo.
Camminai fino all’altro lato della stanza, di fronte a lui; mi lasciai strisciare lungo il muro e mi sedetti sul pavimento, con le gambe al petto. – Io non credo che.. insomma, Justin, non sappiamo nemmeno se è ancora in vita!
- E chi altro potrebbe essere, Rose Mary? Hai qualche idea a riguardo? Ogni parte del mio corpo urla  che c’è di mezzo lui. Vuoi sapere anche un’altra cosa? Ti sembrerò pazzo, ma c’è un collegamento a tutto ciò che sta accadendo..
- Che vuoi dire?- la voce bassa, i nervi tesi.
- Credi che queste scomparse e l’uccisione di quel gatto siano scelte non studiate?
- B-Beh io..
- La risposta è no- mi interruppe. – Questa storia mi sta facendo perdere la testa, e il sonno- fece un bel respiro. – Tre settimane fa il gatto della signora Hutcher; dieci giorni fa Kim; poche ore fa il reverendo Mayer. Noi.. avevamo un gatto, si chiamava Poo, ma poi morì. Prima di avere Juliet, mia mamma perse una gravidanza al quinto mese; era una bambina, e mio padre voleva chiamarla Kim. Il reverendo Mayer.. fu lui a consacrare in matrimonio i miei g-genit- la voce gli venne meno.
Rimasi con la bocca aperta e il sangue iniziò a pulsarmi nelle tempie più velocemente e rumorosamente del dovuto. La testa iniziò a farmi male, e la vista ad annebbiarsi. L’ultima immagine che ebbi davanti agli occhi, fu quella di Justin che mi veniva in contro, poi, il campo visivo fu divorato da tante piccole macchioline nere, finché le palpebre non mi si chiusero.


















 


 
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SPAZIO AUTRICE:
打招呼!
Ho imparato il cinese mandarino, eheh, sono o non sono figa? No ok, grazie google traduttore. Eccomi tornata con il capitoluccio quattordici. Che ve ne pare? A me personalmente piace, ok, forse uno dei motivi per cui da me sta diluviando è che per la prima volta nella storia della mia esistenza dico che mi piace un capitolo. Segnate questa data signori e signore, è un evento alquanto raro. 
Che dire del capitolo? Inizia con la notizia della scomparsa del Reverendo Mayer, poi c'è Alyssa che dice a Rose Mary di raccontare la storia dei bigliettini, ma la nostra Rosie continua a non prendere la faccenda seriamente (se ne pentirà? Tattaratààà!). Riceve poi la chiamata da Justin, e poco dopo si ritrova in casa sua. Lì il ragazzo le mostra il baule che ha trovato, contente una serie di lettere e foto riguardante i suoi genitori. In una foto Jeremy e Pattie si trovano nel "loro posto", che poi è esattamente il posto in cui i ragazzi si sono perduti qualche settimana prima. Infine, Justin spiega a Rosie la sua tesi, e tutti i collegamenti con la vita di Jeremy, e le vittime. Ve li rispiego nel caso non fossi stata chiara: loro avevano un gatto, ma poi morì, così come il gatto della signora Hutcher. Al quinto mese di gravidanza Pattie perse la bambina, che Jeremy voleva chiamare Kim, come la piccola Kim Chayenne. E poi c'è il revendo, che avevo sposato Patricia e Jeremy. Voi credete che ci sia per mezzo Jeremy? Che sia lui l'assassino e che voglia in qualche modo vendicarsi? Fatemelo sapere in una recensione, se avete un po' di tempo, e magari ditemi anche che ne pensate del capitolo. Ci tengo molto a leggere i vostri pareri, perché oltre a rendermi estremamente felice, mi aiutano a crescere e a migliorare. Che dire più? Vi voglio bene, e i ringrazio di cuore per tutto, ragazze, davvero.


con amore, Alyssa.♥

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Capitolo 15
*** The rapture ***


 
N.B. dopo leggete le note.
CAPITOLO 15
The rapture




- Il battito è regolare, signora, si sveglierà a momenti- il suono arrivò ovattato e distante alle mie orecchie, ma ero abbastanza lucida da capire che non era una voce familiare, non l’avevo mai sentita prima; ripensai ancora con gli occhi chiusi, alla frase che aveva appena pronunciato quella donna. Dove mi trovavo? Poteva esserci un solo posto in cui si parlava di battiti regolari e quant’altro, ed era un ospedale.
Con tutta la forza che avevo in corpo cercai di aprire le palpebre, pesanti quanto cemento. Non ci riuscii completamente, ma abbastanza da vedere nella fessura a forma di ellissi il volto della nonna che mi scrutava preoccupata.
- Credo stia aprendo gli occhi- disse girandosi alla sua destra.
Mossi di scatto la mano, e vidi che era stretta in quella di qualcun altro. Mi sentivo troppo debole per girare il capo però, e fui colpita da un lancinante mal di testa. Gemetti.
Sentii il rumore di scarpe di gomma sul pavimento, poi, una mano sul ventre, e al posto della nonna vidi una giovane donna, con un camice bianco e un lieve sorriso. – Signorina Fray, riesce a sentirmi?
Sì, avrei voluto rispondere, ma il mal di testa e la stanchezza che provavo dentro non me lo permisero, così cercai di annuire con il capo. Ci riuscii.
- Bene- disse quella che doveva per forza essere un’infermiera. – Adesso io la aiuterò ad alzarsi, va bene?
Mi mise le mani sotto le ascelle e con fatica mi tirò su, girando il cuscino in modo verticale e facendomi appoggiare sopra. Mi sentivo un po’ meglio, e le immagini diventavano più nitide. Scorsi una ciocca rossa alla mia sinistra: era Alyssa, e doveva essere lei a tenermi la mano. Infine vidi l’infermiera premermi sulle tempie qualcosa di ghiacciato, e finalmente, a quel tocco aprii del tutto gli occhi. Le orecchie si erano sturate, e la vista era tornata quella di sempre. Il mal di testa però, persisteva, e anche la stanchezza.
- Rosie!- esclamò Aly balzando in piedi.
La guardai con aria interrogativa. – C-Che mi è successo?- domandai portandomi una mano alla testa.
- Sei svenuta- mi rispose la nonna ai piedi di letto.
- Svenuta?- ripetei incredula. – Quando?
- Poche ore fa- disse Alyssa. – Ma adesso stai bene, vero?
Annuii ancora un po’ intontita. – Chi mi ha portato qui? E dove sono svenuta?- iniziai a domandare, rendendomi conto di non ricordar nulla di ciò che era accaduto prima. – Perché non ricordo nulla?- continuai iniziando ad agitarmi.
- Stia tranquilla signorina- l’infermiera mi mise una mano sul braccio. – E’ normale non ricordare, adesso. Vedrà che a breve tutto sarà come prima- mi rassicurò.
- Perché sono svenuta?
- Agitazione, panico, stress, e febbre alta. Questi fattori possono portare allo svenimento, ma non è nulla di grave. Adesso si sente un po’ stordita, ed ha mal di testa, immagino, ma tra qualche ora le passerà tutto e potrà ritornare a casa- sorrise allontanandosi e uscendo dalla stanza.
- Vado ad avvisare gli altri che si è svegliata- intimò la nonna ad Alyssa.
- Gli altri chi?- domandai a quest’ultima una volta rimaste sole.
- Fred, Daniel e… Justin- disse calma.
- Voglio sapere cosa è successo prima. Con chi ero quando sono svenuta? Io ricordo di aver ricevuto una telefonata, e poi di essermi diretta da qualche parte con il nonno a casa di- mi bloccai scervellandomi per trovare una risposta.
- A casa di Justin- continuò Alyssa paziente.
Sì, ero a casa di Justin pensai iniziando a ricordare. – E che ci facevo a casa sua? Oh sì!- esclamai subito dopo. – Jeremy…- abbassai il tono di voce perdendomi con gli occhi nel vuoto. – Ricordo che stavamo in mansarda, Justin mi stava mostrando… Cosa mi stava mostrando?
Oh, avrei voluto darmi uno schiaffo.
Alyssa mi sorrise. – Perché non lo chiedi a lui?
- S-Sì- balbettai arrossendo. – Dov’è adesso?
- E’ nella sala d’attesa, e sono sicura che se prenderà anche solo un altro caffè, sarà lui ad essere ricoverato- ridacchiò. – Torno subito.
Non appena la mia amica chiuse la porta, sgattaiolai fuori dal letto, dirigendomi verso una porta che speravo desse accesso al bagno. La aprii; sì, per mia fortuna era un bagno, e al centro c’era uno specchio ovale, proprio ciò che stavo cercando. La mia faccia era più simile ad un morto uscito dalla bara, che ad una ragazza. I capelli bruni erano tutti scompigliati, gli occhi arrossati, e la pelle pallida quanto il cuscino su cui appoggiavo la testa.
Impresentabile, era la parola adatta.
- Oh Rose Mary, al diavolo Justin e l’impresentabilità, sei svenuta- borbottai tra me e me intenta a sistemarmi una ciocca dietro l’orecchio.
Una volta rassegnatami all’idea del mio spaventoso aspetto, m’imposi di ritornare a letto. Dopo aver barcollato come una che si fa droga pesante, mi rimisi sotto le coperte asettiche, e qualche secondo più tardi la maniglia si abbassò lasciando entrare Justin all’interno della stanza. Non ha un bell’aspetto fu la prima cosa che pensai. Nonostante ciò, si sforzò di sorridermi e si avvicinò al letto.
- Ehi- dissi con la voce rauca, con la testa che sprofondava nel cuscino.
- Come stai?- mi domandò.
Male. – Bene.
Mi mise una mano in fronte, poi la lasciò scivolare sulle mie guance, diventate probabilmente scarlatte. – Sei pallida, e ancora un po’ accaldata.
Il cuore iniziò a battermi più forte del dovuto. Quell’affarino che misurava i battiti cardiaci iniziò ad emettere un rumore più veloce e fastidioso.
- Ehi, tranquilla- mi disse Justin a voce bassa.
Se ti allontanassi un po’, probabilmente lo sarei. La cosa stava prendendo una piega che non mi piaceva, così iniziai a pensare ad un discorso per sviare la situazione imbarazzante in cui mi ero messa. – Oh!- esclamai. – Tu... potresti dirmi cosa è successo prima che... insomma… prima che svenissi?
Lui sospirò girando la testa, poi ripuntò i suoi occhi su di me. – Tu adesso pensa a riposare- sussurrò.
In quel momento sentii le guance andare letteralmente in fiamme. – N-No, ti prego, non ricordo nulla… ed io voglio ricordare.
- Però promettimi che dopo ti riposi- mi disse guardandomi negli occhi.
Annuii ancora troppo scioccata da quel suo inaspettato lato gentile.
- Va bene- fece trovando una posizione comoda sulla poltrona accanto al letto. – Questa mattina è scomparso il reverendo Mayer, ricordi? Così ti ho chiamata, e ti ho chiesto di venire da me.
- E fin qui ci sono- lo bloccai.
- Poi siamo saliti in mansarda, e ti ho mostrato le lettere e le foto dei miei genitori che ho trovato nel baule. Poi ti avevo detto che secondo me c’era un collegamento a tutto ciò che stava accadendo. Ti avevo spiegato del gatto che avevamo, e che poi morì, proprio come il gatto della signora Hutcher. Ti avevo spiegato che prima di avere Juliet, mia madre perse una bambina al sesto mese di gravidanza, e mio… Jeremy voleva chiamarla Kim, come la bambina scomparsa. E infine il reverendo. Era stato lui a sposare i miei ge... mia madre elui.
D’un tratto i ricordi inondarono il mio cervello come un fiume in piena. – Sì, sì, adesso ricordo.
Justin mi lanciò un’occhiata preoccupata. – Non ci pensare, è colpa mia. Non avrei dovuto coinvolgerti in tutto ciò.
- No. Non è colpa tua- sibilai. – Sta accadendo, siamo in pericolo, e non possiamo ignorarlo.
- Lui è mio padre, non il tuo. Tu non c’entri nulla!
- Sì ma è a me che sta inviando quegli stupidi biglietti!- sbottai iniziando ad innervosirmi. Non mi andava di essere trattata come una bambina. Non lo ero.
- Lo so- abbassò la voce e lo sguardo. – E non voglio che ti accada nulla.
Balbettai qualcosa di incomprensibile, di cui nemmeno io stessa colsi il significato. Gli buttai le braccia al collo, senza riuscire a controllare le mie mani, e la macchina dei battiti cardiaci che continuava ad aumentare con la frequenza. In quel momento, però, non m’importava se avesse saputo quanto il mio cuore battesse, volevo solo sentire il suo calore su di me, toccare la sua pelle. Lui rimase per qualche secondo col fiato sospeso, guardando dritto nei miei occhi, come se fossero l’unica cosa che avesse, l’unica che valesse la pena guardare. Poi, mi avvicinai sempre di più al suo viso, fino ad immergere la mia testa sulla sua spalla. Avrei potuto baciarlo, e lui avrebbe potuto fare lo stesso, io sapevo che lo voleva, eppure, qualcosa di potente me lo impedì. La paura, probabilmente. La paura di essere delusa ancora.
Rimanemmo così ancora un po’, un tempo che mi sembrò infinito, e mi lasciai cullare dalle sue muscolose braccia. Poi però, mi toccò spezzare quella magia, sarebbe potuto entrare qualcuno e non mi andava di sentire per l’ennesima volta quel fastidioso rumore della macchina dei battiti cardiaci impazzire letteralmente a causa della mia vergogna.
Justin mi fissò un istante. – Va tutto bene?- chiese.
- Certo, sono solo un po’ stanca…
- Riposati- detto questo mi stampò un delicato bacio sulla fronte.
Mentre si avviava a grandi passi verso la porta, mi ricordai di una cosa.
- Oh, Justin, quando esci, potresti dire alla nonna di entrare?
Annuì, per poi scomparire nel lungo e quasi deserto corridoio dell’ospedale.  
Dopo qualche istante l’allegra band composta dai nonni, Alyssa e Daniel, diruppe nella stanza. Temetti che fossero rimasti dietro la porta tutto il tempo, e che avessero origliato anche solo una piccola parte della conversazione avuta con Justin poco prima.
- Rosie!- esordì Daniel non appena catturò il mio sguardo.
- Dan!- urlai lanciandogli un sorriso.
- Spostati ragazzo- borbottò il nonno sbattendo praticamente Daniel nel muro. Si avvicinò al mio letto e riempì di baci. – Come stai figliola?
Gli sorrisi. – Molto meglio, grazie, almeno ora quando mi alzo dal letto, non sembro un’ubriacona in procinto di svenire.
Ci fu una risata generale.
- Hai fame tesoro? Hai voglia di mangiare? Ti faccio portare qualcosa o te la vado a preparare io?- chiese nonna Helen come uno scoiattolo psichedelico che aveva abusato con la caffeina. Mi scappò un sorriso a quel buffo pensiero. – Sto bene così, tranquilla.
- Lasci che si riprenda signora Wayland, vedrà che tra un po’ ritornerà a mangiare come un orso- intervenne Daniel mentre si adagiava comodamente sulla poltrona accanto al mio letto, quella su cui poco prima si era seduto Justin.
- Sì nonna, sta’ tranquilla!- esclamai. Lei sbuffò borbottando qualcosa sul fatto che “avrei capito quando avrei avuto una nipote”. – A proposito, quasi me ne dimenticavo! Come sta Mel?
Era assurdo, ma iniziavo a sentire la sua mancanza. – Vorrei vederla- aggiunsi cauta.
Nonna Helen mi guardò poco convinta. – Se proprio vuoi…
Le sorrisi. – Grazie.
- Aspetta Helen- disse il nonno. – Vuoi che vada a prenderla io? Insomma, l’umanità non è al sicuro con te alla guida- ironizzò.
La nonna parve infastidita da quella battuta. – Non sono io che quando freno faccio scattare le cinture e aprire gli airbag- gli lanciò un sorrisetto finto. – E comunque lascia stare caro, ci vado da sola- concluse lanciando uno sguardo a tutti noi, e uscendo dalla porta.
- Il veleno- borbottò il nonno. – Deve essere stata morsa da qualche serpente da bambina- continuò accigliato.
Daniel gli diede un pugno sulla spalla divertito, scuotendo subito dopo la mano e gemendo per l’impatto con i muscoli del vecchio che probabilmente non si aspettava. Il nonno era un omone grande e grosso, sul metro e ottanta, e la pelle soda e abbronzata nonostante la sua settantina. I capelli erano grigi e a tratti bianchi, ma si riuscivano ancora ad intravedere sotto quelle ciocche degli strati neri. Doveva essere un bell’uomo pensai.
- Qualcosa non va, cara?- mi domandò il nonno interrogativo.
- Rosie!- urlò Alyssa dirompendo nella stanza.
Sgranai gli occhi. – Che c’è?
- Non puoi capire- respirò affannosamente. Aveva corso, e mi chiesi il perché. – C’è un’infermiera uguale e spiccicata a Linda!
La guardai perplessa per qualche istante, poi scoppiai a ridere. – Voglio vederla!- esclamai squassata delle risate.
- Chi è Linda?- ci sorrise Daniel.
- La nostra vecchia bidella!- continuò lei entusiasta, come se stesse raccontando la cosa più bella e importante del mondo. – Vieni con me.
Corse ai piedi del letto e buttò violentemente le coperte all’aria, poi mi aiutò a mettere le gambe per terra.
- Ehi, ehi, dove credi di andare?- l’ammonì il nonno bloccandola con un braccio.
- Tranquillo nonnino, il tempo di farle vedere la gemella eterozigote di Linda- lo liquidò Alyssa trascinandomi di peso fuori dalla stanza.
Io odio gli ospedali fu la prima cosa che pensai mettendo piede fuori dalla stanza. Perché erano sempre così spogli e tristi? E perché i loro muri erano impregnati di disperazione e tristezza? Ok, lì dentro le persone morivano, ma perché non avrebbero potuto farlo circondati da un ambiente familiare? Perché dovevano morire circondati da medici isterici che correvano a destra e a sinistra, infermieri frustrati e un letto che puzzava di morte?
Attraversammo un lungo e soffocante corridoio, fino ad arrivare alla sala d’attesa, brulicante di persone con in volto il dipinto della disperazione mista ad ansia. Scorsi Justin in un angolo, vicino al distributore, e non era solo. Con lui vi era un uomo incappucciato, che mi dava le spalle. Dallo sguardo di Justin, doveva trattarsi di una cosa seria.
- Ehi, non hai più voglia di vedere la gemella cattiva di Linda?- Alyssa mi distolse da quella scena.
- Sì, scusa- mi schernii il viso. – Allora? Dov’è?
Lei indicò alla mia sinistra, dietro ad un grosso bancone.
- Oh mio Dio- sibilai. – Non può essere… è lei…
- Alyssa!- la voce fredda di Justin riecheggiò alle nostre spalle. Ci girammo entrambe di scatto.
- Sì?- chiese la rossa alzando un sopracciglio.
- Rose Mary dovrebbe riposare- continuò.
- Ah, smettila, non sei suo padre!- ribatté la ragazza incrociando le braccia.
- No ma sono…- iniziò lui, per poi bloccarsi a pensare. Sì, che cos’era? Che cos’era per me? – Sono suo amico, e il fatto che dopo essere svenuta se ne vada in giro per un ospedale con la sua amica psicopatica mi preoccupa- concluse.
Tra l’amore e l’amicizia c’è la distanza di un bacio- sussurrai guardandolo negli occhi. – Rose..
- Voglio tornare in camera- dissi atona ad Alyssa, bloccandolo. Dopodiché schivai Justin e mi avviai verso il corridoio.
Insomma, noi eravamo amici, solo amici, e questo l’avevo sempre saputo, eppure sentirselo dire fu come un bagno nell’acqua ghiacciata.       

- Non è strano che la nonna non sia ancora venuta?- domandai al nonno lasciando trasparire l’agitazione dalla mia voce.
L’uomo sospirò. – Sì- fece alzandosi dalla poltrona e iniziando a girare a vuoto nella stanza. – Da quanto è via? Trenta minuti, o forse di più.
- Quanti ci vuole con la macchina dall’ospedale alla casa?- gli chiese Alyssa, seduta sull’orlo del letto.
- Cinque minuti- rispose il nonno. – Solo cinque minuti, ed è passata più di mezz’ora.
- Forse Mel avrà combinato qualche guaio che adesso lei starà riparando- disse Daniel. – State calmi. Insomma, cosa potrebbe accad...- si bloccò, guardando poi fuori dalla finestra, e iniziando a realizzare che eravamo ancora tutti in pericolo, che non avevano ancora sbattuto dentro l’uomo che stava commettendo quelle atrocità. Jeremy mi balenò in testa, ma cacciai subito dopo quel pensiero. Non volevo ancora crederci, insomma, i collegamenti intuiti da Justin potevano anche essere pure coincidenze… come potevano non esserlo. C’era qualcosa dentro di me che non voleva ammettere che tutto ciò c’entrasse con lui. – Facciamo una cosa: se tra cinque minuti non torna la chiamiamo, va bene?- proposi. – Ma sono sicura che sia tutto apposto.
Il nonno annuì riluttante.
- A proposito- dissi improvvisamente. – Justin?
Il nonno mi lanciò uno sguardo torvo, Alyssa pure. Arrossii chiedendomi l’origine del loro disappunto. Insomma, eravamo solo… amici. L’aveva detto lui, d’altronde.
- Mi ha detto che se ne tornava a casa, circa dieci minuti fa.
Non è nemmeno passato a salutare pensai sentendomi offesa. Forse non avrei dovuto fare quella sparata continuai. Al diavolo disse poi la mia parte cattiva, gli amici non si baciano appassionatamente in una grotta sperduta, di una giungla sperduta, su un’isola perduta. Hai tutto il diritto di restarci male, Rose Mary, ne hai tutto il diritto!
I cinque minuti passarono in un batter d’occhio, persa tra i miei pensieri più incongrui e contrastanti.
Vidi il nonno cacciare il telefono dalle tasche dei pantaloni, e digitare un numero di fretta e furia. Passarono svariati secondi, e il telefono suonò una dozzina di volte, prima di far scattare la segreteria telefonica. Aly mi strinse forte la mano; riuscivo a percepire la sua paura, forse era quasi più spaventata di me, che continuavo a non vederci chiaro in quella faccenda. Nonno Fred ricompose il numero, una volta, due, tre, finché non lasciò di corsa la stanza.
- Dove sta andando?!- esclamai scendendo dal letto e correndo a mia volta nel corridoio. – Nonno!- urlai. – Nonno!- ma era già scomparso dietro la porta d’ingresso.
- Dove va?- esclamò Daniel raggiungendomi.
- N-Non ne ho idea!- urlai.
- Calmati Rosie, calmati- Alyssa mi accarezzò la schiena.
- Vado con lui- annunciò il ragazzo iniziando a correre.
- Dove vai?- tuonai. – Daniel?- mi fiondai in corridoio, per poi essere bloccata da due infermieri di passaggio. Mi riportarono in stanza, ammonendomi dicendo che non avevo il permesso di uscire, ma soprattutto di disturbare gli altri pazienti urlando in quella maniera.
- Vaffanculo, vaffanculo, vaffanculo- dissi in un sussurro, una volta che mi diedero le spalle scomparendo dietro la porta.
Alyssa si avvicinò al letto, e mi posò una mano sulla fronte. – Calmati, sei bollente. Non ti senti bene?
- Al diavolo come mi sento!- sbraitai sentendomi gli occhi bruciare. – Voglio sapere che sta succedendo. Voglio sapere se la nonna sta bene. Perché non mi fanno uscire, eh? Sto benissimo, cazzo! Be-nis-si-mo- mi fermai respirando lentamente. Sentivo il cuore in gola. Dovevo calmarmi. – Ti prego, chiama qualcuno, chiedigli di dimettermi. Io sto bene, e devo essere sicura che anche la nonna lo sia.
Alyssa mi guardò comprensiva. – Andrà tutto bene, Rosie. Stai tranquilla. Sono sicura che tra meno di dieci minuti Fred e Daniel ci chiameranno, dicendoci che Helen è in casa. Che sta bene, e che magari ha solo perso tempo per riparare a qualche guaio di Melanie.
Abbassai lo sguardo, sentendo una lacrima bollente rigarmi la guancia. – Lo spero. Lo spero tanto.

Quando Daniel Lightwood arrivò alla casa del suo capo, notò che la macchina di quest’ultimo era stata sguaiatamente parcheggiata al centro della strada. Frenò di scatto pochi centimetri prima di tamponare la vettura. Aprì lo sportello e iniziò a correre lungo quella manciata di metri che lo separavano dalla casa. Quando arrivò all’ingresso vide che la porta era spalancata. Entrò accompagnato da una terribile sensazione.
- Capo!- urlò. – Signor Fred!
Nessuna risposta. L’unica cosa che udì furono dei respiri affannati provenienti dal piano di sopra. – Signora Helen?- disse spaventato.
Nessuna risposta. Di nuovo. Udì di nuovo quei violenti respiri, così senza pensarci due volte salì le scale, finché la sagoma rannicchiata di Fred Roy non gli si designò davanti. – Signor Roy- sussurrò avvicinandosi a lui.
L’anziano alzò il viso. Stava piangendo. Il ragazzo notò che erano apparse delle nuove rughe sul suo viso; adesso era costellato di rughe, rughe che occupavano ogni centimetro di quel volto quasi irriconoscibile. Sussultò, pensando di non averlo mai visto così vecchio. – Signor Roy, dica qualcosa, cos’è successo? Dov’è sua moglie?
L’uomo cercò con tutto se stesso di smettere di tremare. – L-L’ha p-p-presa.
- Chi? Chi l’ha presa?- sibilò Daniel. Non si era mai sentito in quel modo. La testa era più pesante che mai, le gambe sempre più deboli. – Fred…
In tutta risposta, l’uomo alzò un braccio tremante. Stringeva debolmente un pezzo di carta bianco. Il ragazzo glielo strappò dalle mani, e finalmente consapevole di ciò che stava accadendo lo lesse:

Ho preso la nonnina, ops.



















 
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SPAZIO AUTRICE:
Oggi niente saluto idiota, devo parlarvi. Volevo dirvi che sospenderò la fan fiction per circa un mese. La data esatta in cui aggiornerò ancora sarà sabato 16 Novembre.
Adesso vi spiegherò in breve i motivi: la scuola. Sono al secondo superiore scientifico, devo mettermi sotto e studiare come una dannata, perché mia mamma mi ha già avvisato che se inizio a prendere al di sotto della sufficienza posso dimenticarmi il viaggio estivo a Londra con la scuola, e il pacchetto vip al prossimo concerto di Justin.
Secondo motivo: credo che anche voi abbiate questi impegni, e diciamo che il primo e il secondo mese di scuola sono tra i più duri, perché bisogna riambientarsi, riprendere il ritmo di studio ecct. ecct., quindi ho pensato che già il mese prossimo, le cose saranno più facili anche per voi. Terzo motivo: ho da poco più di due giorni perso mia zia. E' stata una grossa perdita per me, e diciamo che il mio ultimo pensiero, ora come ora, è scrivere. Mi dispiace infinitamente per voi, ma non ci riesco, sono troppo abbattuta e triste, e ho bisogno di un po' per riprendermi. Detto ciò vorrei passare al capitolo: che ve ne pare? E la scomparsa di nonna Helen? Ve l'aspettavate? Secondo voi c'entra Jeremy? Spero abbiate un po' di tempo per lasciarmi una recensione. Ciò che pensate è sempre importantissimo per me, lo sapete. Prima di lasciarvi volevo ringraziarvi per tutto: il supporto, le dolcissime rencesioni, i consigli, i 104 preferiti e le 337 recensioni. Mi sono affezionata moltissimo a voi, dico sul serio, vi voglio bene, e spero con tutto il cuore che possiate capire i motivi della mia piccola pausa.
Ci rivediamo il 16 Novembre ragazze!


with love, your Alyssa.

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Capitolo 16
*** Are you the guitar's boy? ***


CAPITOLO 16
Are you the guitar's boy?




- Signorina Fray?- una giovane infermiera irruppe nella stanza.
- Sì?- chiesi ancora un po’ scossa.
- Può tornare a casa. E mi raccomando: si tenga a riposo in questi giorni, cerchi di restare calma- disse sorridendo, e aiutandomi a scendere dal letto.
Tirai un sospiro di sollievo. Tolsi velocemente il camice, infilai le vecchie converse che la donna mi stava porgendo e mi catapultai in corridoio, seguita da Alyssa.
Prima di uscire fui costretta a firmare delle carte. – Perfetto!- esclamò la segretaria. – Conosce quel ragazzo? Dice di essere un suo amico, ma se non ho la conferma da lei non posso permettermi di lasciarla andare via con lui- la vecchia e grossa anziana indicò alle mie spalle. Mi girai di scatto, trovando tra un agglomerato di gente Daniel. Aveva gli occhi persi nel vuoto, contornati da insoliti aloni viola. – S-Sì, lo conosco- affermai distratta.
- Benissimo, allora può and- fece, per poi bloccarsi quando si rese conto che stavo già correndo verso Daniel.
- Cosa è successo?- chiesi a voce alta. – La nonna sta bene, vero?
Non mi rispose, semplicemente, mi guardò dritto negli occhi. – Sta bene? Dimmelo, cazzo! Dimmelo!- sbraitai preda alla disperazione più totale.
D’un tratto tutti si zittirono, girandosi verso di me con sguardi interrogativi, confusi.
- Usciamo fuori- sibilò il ragazzo aprendo la vetrata dell’ingresso, e andando all’esterno della struttura.
Tirai una boccata d’aria non appena entrai in contatto con l’atmosfera fresca. – Daniel- dissi in un sussurro. – Cosa-è-successo- scandii piano.
Lui si perse con gli occhi nel vuoto, ancora, poi alzò quelle grosse iridi verdazzurro verso le mie. – L’ha presa.
Boom.
Il mio cuore. Batteva in modo innaturale. Mi vorticarono per la mente immagini, decine di immagini, centinai di immagini. Le gambe vennero meno. Sentii delle braccia reggermi. Non sapevo chi fosse. Non m’importava. Non m’importava di nulla in quel momento.
 - Rosie- sussurrò Alyssa. Alzai lentamente lo sguardo verso di lei, ritornando alla realtà.
- Che vuol dire?- urlai singhiozzando. – Che vuol dire che l’ha presa?- mi scaraventai al petto di Daniel iniziando a dargli dei deboli pugni al petto, con la testa immersa nell’incavo del suo collo. – Che vuol dire...- continuai in tono così basso da sentirmi a stento io.
Lui mi prese il viso fra le mani. – Andrà tutto bene.
- Non è vero!- sbraitai squassata dal pianto. – Non è vero! Chi è stato? Dove l’ha portata? E’ ancora viva? Perché cazzo sta accadendo tutto ciò?- urlai. – E’ irreale. E’ irrea...- la voce mi si strozzò in gola, che sentivo in fiamme.
- Calmati- mi disse piano Alyssa, accarezzandomi una spalla, e portandomi dopodiché a sé.
Tirai dei respiri soffocati. – V-Voglio and-ndare a casa. D-Dov’è il nonno?
- E’ alla polizia- rispose Daniel.

- E’ solo colpa mia...- dissi non smettendo nemmeno un attimo di piangere.
- Suvvia tesoro- fece la signora Murray prendendomi le mani. – Ritroveranno Helen, ne sono sicura. La ritroveranno- proseguì con voce rauca. Jocelyn Murray era la madre di Daniel. La nonna l’aveva praticamente accudita, da quando all’età di cinque anni fu abbandonata dai suoi genitori. Lei faceva parte della combriccola; conosceva mia madre, e Pattie. – Erano inseparabili- mi aveva detto qualche giorno prima la nonna, quando le mostrai una foto delle tre donne, all’epoca ragazzine, che ritrovai sepolta dietro una cristalliera.
- Non è vero!- tuonai. Non era mia intenzione prendermela con lei, o trattarla male, ma mi sentivo uno straccio, e le parole uscivano senza che riuscissi a frenarle.
- Basta così- intervenne Alyssa. – Tu adesso vieni con me- mi prese per un braccio. – Signora Murray, potrebbe prepararle una camomilla?- chiese a voce bassa.
- Non ho bisogno di alcuna camomilla- borbottai ferita.
Alyssa mi guardò di traverso.
- Faccio subito- rispose la donna alla mia amica, con un sorriso sforzato.
Detto ciò, Alyssa mi trascinò nella serra.
- Che diavolo vuoi anche tu?- sbottai continuando a piangere.
- Devi smetterla di piangere!- questa volta fu lei ad alzare la voce. – Smettila! Non serve a nulla.
- Come potrei non piangere? Eh? Come potrei non sentirmi in colpa per ciò che sta accendo? E’ tutta cola mia! E’ questa la verità. E’ tutta colpa mia…
- Non è colpa tua- sussurrò.
Distolsi lo sguardo. Non volevo ascoltarla, niente sarebbe riuscito a farmi cambiare idea. – Se non fosse stato per me… probabilmente lei sarebbe qui, con me- mi bloccai, singhiozzando come un’ossessa.
Alyssa mi prese per le spalle, dopodiché mi avvolse in un caldo abbraccio. Continuai a piangere sulla sua spalla, bagnandole i capelli e i vestiti, ma non le importava, a quanto pareva. – E adesso dimmi che non è colpa tua.
- Non posso- risposi. – Tu come ti sentiresti al mio posto? Ho ricevuto quei bigliettini del cazzo, avrei dovuto capire, eppure ho preso la cosa come un fottuto scherzo.
Ero stata una stupida, un’irresponsabile, e iniziavo lentamente a rendermene conto.
Un miagolio attirò la mia attenzione. A quel suono seguì uno starnuto di Alyssa. – M-Mela…- balbettò, per poi starnutire nuovamente.
D’un tratto mi ritrovai quella piccola palla di pelo tra le caviglie. – Mel- dissi piano inginocchiandomi.
Mi stava facendo le fusa, come se percepisse tutto ciò che stava accadendo, come se percepisse il modo in cui mi stavo sentendo.
- A-Allontanala- fece Alyssa alzando lo sguardo in su, cercando di non starnutire ancora.
Presi in braccio Mel, e la riposizionai a terra, qualche metro più avanti, poi, presi il suo pupazzetto, Row, e glielo misi sotto al naso. Gli saltò addosso, e iniziò a mordicchiarlo spensierata. Quanto avrei desiderato essere un animale in quel momento; senza pensieri, preoccupazioni, pesi sulla coscienza, paura di dire qualcosa di sbagliato. In fondo, l’unica cosa che dovevano fare era vivere felici. L’essere umano no. L’essere umano trovava sempre un modo per soffrire, perché altrimenti… non sarebbe stato un essere umano.
- Rosie?- mi chiamò Alyssa.
Sbattei velocemente le palpebre per ritornare alla realtà. Andai a sedermi sulla panchina, dov’ero precedentemente.
-… Stavamo giusto dicendo che non è colpa tua- mi interruppe.
Scossi la testa in disaccordo, poi, mi alzai avviandomi nel corridoio.
- Dove vai?- mi domandò Alyssa spiazzata.
- Non lo so- risposi semplicemente, continuando a camminare.
Confusione. Era quella la parola che meglio avrebbe potuto rappresentarmi in quel momento. Mi sentivo stordita e… fuoriposto. C’era una parte di me che continuava a ripetere che non avevo colpe, che non avrei potuto prevedere una cosa del genere; questo lato, però, veniva decisamente sovrastato da un altro, che urlava a più non posso di quanto mi fossi comportata da bambinetta, e quanto fosse sbagliato non assumermi le mie colpe.
Così, immersa nel caos della mia mente, mi ritrovai a passare fuori casa di Justin. Mi bloccai sul viale di mattoncini, pensando. Ero incerta sul da farsi, ma prima che la razionalità mi spingesse ad andarmene via, bussai il campanello.
Passarono svariati secondi, così ritentai. Vuole evitarmi, ovvio pensai facendo per ritornarmene indietro, finché delle grosse mani non mi cinsero la vita. Sussultai spaventata.
- Non dovresti startene in giro, è pericoloso- sussurrò. Era lui.
Misi le mie mani sulle sue, intenta a togliermele di dosso. – Mi hai spaventata.
- Scusami- mi rispose a voce bassa. Riuscivo a sentire i suoi caldi respiri, i suoi muscoli tesi che mi avvolgevano i fianchi. Era assurdo, ma per qualche istante mi parve di sentire persino il sangue che gli pulsava in corpo.
- Adesso puoi lasciarmi le mani, sai?- lo sentii ridere appena.
- No- dissi distratta, ancora immersa nel mondo dei sogni.
- Come?
- N-niente- farfugliai staccandomi immediatamente da lui, e girandomi a guardarlo finalmente in faccia.
I suoi occhi. Mi ci perdevo sempre dentro; non era tanto il colore, quanto la loro intensità, sembravano… vivi. Erano ipnotizzanti, disarmanti, ma soprattutto, erano i suoi.
Justin mi sorpassò, infilò la chiave nella porta e l’aprì. Rimasi lì impalata, a fissarlo.
- Sarebbe meglio se entrassi- mi intimò mettendomi una mano sul fianco destro.
- N-No- balbettai. – Invece sarebbe meglio che io vada- ribattei vacillante.
- Se non vuoi entrare allora ti accompagno a casa. Non voglio che tu ci vada da sola, sai benissimo in che situazione siamo- disse serio.
- Non voglio tornare a casa- feci. – Ma non voglio nemmeno stare con t...- mi bloccai all’istante. Ma che diavolo mi stava succedendo? Non riuscivo più a capire quando qualcosa andava detta, o pensata e basta?
Justin si accigliò. – Fai come ti pare.
Mi diede le spalle intento ad entrarsene in casa.
- Aspetta!- mi aggrappai al suo braccio. Si girò con la fronte aggrottata. – P-Posso entrare? Se non ti... insomma se non ti da...
- Entra e basta- sbottò scuotendo la testa.
Bella figura da imbranata, Rose Mary, mi complimento con te.
Justin aprì tutte le persiane, poi, sparì in bagno. Non spiccicò parola.
La nonna! Pensai in quel momento furiosa con me stessa per essermene dimenticata per quei minuti. Come avevo fatto a mettere in secondo piano una cosa tanto seria?
- Justin!- urlai dimenandomi all’ingresso del bagno. Spalancai la porta senza pensarci due volte. Mi bloccai, alla vista di lui in boxer.
- Ma... ma che fai? Rivestiti!- lo ammonii con lo sguardo altrove.
- Ho il diritto di rilassarmi un po’ dopo una giornata di merda come questa?- il suo alto volume attirò la mia attenzione. – Prima l’ospedale, poi la polizia, e infine Loyd- si fermò perdendosi con lo sguardo nel vuoto, come se avesse detto qualcosa di troppo, qualcosa che non doveva.
- Chi è Loyd?- chiesi avanzando di qualche passo verso di lui.
- Esci- sussurrò. Non mi mossi di un centimetro, e non l’avrei fatto finché non avessi iniziato a vederci chiaro. – Ho detto esci- continuò freddo come il ghiaccio.
Il suo tono mi fece quasi sussultare. Era così... severo. Chi era Loyd? Perché non potevo sapere ciò che stava accadendo? Perché volevano tenermi fuori da questa faccenda come se non fossi altro che una bambina immatura? La rabbia iniziò a ribollire dentro di me, affiancata dalla collera, e la disperazione.
Era stata una cattiva idea entrare in casa sua. Una pessima idea.
Così, tra un’imprecazione e un pianto, mi ritrovai nella mansarda, la stessa in cui avevo perso i sensi. Quando misi piede nella stanza impolverata, il baule era scomparso. Justin doveva averlo nascosto, ma non ne capii il motivo, insomma, erano solo vecchi ricordi. Ma i ricordi non invecchiano mai mi resi conto in quel momento, malinconica.
Andai alla ricerca del baule, ispezionando ogni angolo della stanza. Qualcosa di bianco attirò la mia attenzione; era sepolto dietro un grosso e malconcio mobile di legno. Mi abbassai, tirando fuori quel lembo bianco, che si rivelò poi un foglio. Mi catapultai nel leggere ciò che vi era scritto.
“I know it’s hard baby, to sleep at night
Don’t you worry
Cause everything’s gonna be alright, ai-ai-ai-aight
Be alright, ai-ai-ai-aight
Through your sorrow,
Through the fights
Don’t you worry,
Cause everything’s gonna be alright, ai-ai-ai-aight
Be alright, ai-ai-ai-aight”


Girai il foglio, sentendo delle lacrime bollenti in procinto di uscire.

“Cause I all I need is one love
Cause I all I need is one love
Baby give it to me
Cause I don’t want-want nobody when I got-got your body
Baby no no nobody, Rose Mary has got what I need
Cause I don’t want-want nobody when I got-got your body
Baby no no nobody, has got what I need tonight”


Il foglio cadde sul pavimento come una foglia, dalle mie mani tremanti. Era Justin. Lui era Justin. Il ragazzo dalla chitarra era sempre stato solo e soltanto lui. Justin lo sapeva. Justin era l’unico a saperlo, ma mi aveva ingannata. Ancora.
Allo sdegno seguì la rabbia, la frustrazione. Urlai senza riuscire a trattenermi, poi, lasciai che le lacrime scendessero indisturbate. Mi accasciai al muro, singhiozzando. Mi sentivo così strana, mi sentivo così poco Rose Mary. Troppe cose nella mia vita, erano cambiate su quell’isola, e il mio corpo era così esile per poter far fronte a tutto. I miei genitori, gli inganni, Jeremy, la nonna, l’amore. Quella non era la normalità, una stupida adolescente non avrebbe dovuto soffrire in quel modo, non avrebbe dovuto soffrire come stavo soffrendo io.
Sentii dei passi dirigersi verso la porta, ed aprirla. Alzai lo sguardo lentamente, temendo di chi poteva trattarsi. Non appena vidi il suo volto scattò qualcosa dentro di me. Balzai in piedi e mi scaraventai al suo petto, iniziando a colpirlo con tutta la forza che avevo dentro.
- Ehi!- urlò bloccandomi i polsi. – Che ti prende? Eh?
Non risposi, continuando a piangere ormai stremata, e stanca di tutto. Mi lasciò un polso, utilizzando la sua mano per alzarmi il mento, facendo in modo che i miei occhi si incontrassero con i suoi. Distolsi lo sguardo, colpendolo con uno schiaffo in pieno viso. A quel punto mi lasciò pure l’altro polso, portandosi la mano nel punto in cui l’avevo colpito. Pareva sconvolto.
Vidi i suoi occhi cadere sul pavimento, alle mie spalle. In particolare vidi qualcosa cambiare al loro interno, nel momento in cui videro i fogli.
- Mi hai mentita- dissi sprezzante, avvicinandomi sempre di più a lui, finché tra i nostri corpi non rimase che un centimetro di distanza. – Mi hai ingannata.
Lui mi sfiorò la mano, ma la ritrassi all’istante guardandolo con gli occhi pieni di lacrime. – Perché?- urlai. – Perché non fai altro che distruggermi?
- Perdonami- fu l’unica cosa che riuscì a dire.
- Perché non mi hai detto che eri tu? Hai continuato a farmi illudere. Hai continuato a farmi creare castelli di sabbia su quel ragazzo che... NON ESISTEVA!- sbraitai esasperata, poggiando la mia fronte sulla sua spalla. – Io ti odio- sibilai piangendo silenziosamente.
- Scusami- mi mise le mani intorno alla testa, portando le sue labbra al mio orecchio. – Scusami, scusami, scusami- sussurrò facendomi rabbrividire.
Portò poi le sue labbra in un punto estremamente sensibile, tre l’orecchio e la guancia. Sussultai. Continuò, baciandomi la guancia, e arrivando fino all’angola della mia bocca. Lottai contro l’istinto di lasciarlo fare, continuando all’infinito.
- No!- riuscii finalmente a dire, staccandolo immediatamente da me.
Lui s’inumidì le labbra, nervoso. – Ti ho chiesto scusa, cos’altro vuoi?
- Starti lontana, e trovare la nonna. Voglio che quest’incubo finisca.
Ci guardammo per un tempo che mi sembrò infinito. – Devi starmi lontano- dissi, socchiudendo poi gli occhi, tentando di riprendere il controllo di me stessa.
- Ci ho provato- rispose in modo talmente convincente. – Credimi, ci ho provato, ma non ci riesco- mi portò una mano alla guancia.
Il cuore perdeva un battito allo scoccare di ogni secondo, ma contemporaneamente accelerava. – Allora ritenta- scostai la sua mano dal mio viso, lentamente, e pentendomene ogni istante di più. – Mi fai del male, non lo vedi?- lo guardai implorante.
- No, ma lo sento- abbassò lo sguardo, per poi rialzarlo subito dopo verso i miei occhi. – Perché ogni volta che faccio del male te, faccio del male me- sussurrò.
In quel momento avrei voluto sparire, cancellare tutto ciò che gli avevo detto, e sperdermi nel calore delle sue braccia, restando lì, con lui, per sempre. Ma non potevo.
 
Così bello ma così sbagliato.
Gli diedi le spalle, con delle lacrime bollenti che scorrevano sulla mia liscia guancia, scendendo al piano di sotto e andando via. Sperai fino all’ultimo che non mi seguisse, non avrei potuto respingerlo ancora, e fortunatamente per il mio cuore rotto, non lo fece. 







 
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Donzelle mieeee!
OMG, sono così emozionata! Eccomi ritornata dopo un mese - o forse più - di assenza con il capitolo sedici. Come state? Suppongo bene, e spero che questo capitolo (intotolato "Are you the guitar's boy?") vi sia piaciuto tanto quanto gli altri. Spero inoltre che non mi abbiate abbandonato, nonostante le mie frequenti pause, e che troviate qualche minutino da dedicare alla recensione, informandomi dunque, su ciò che è stata la vostre impressione a riguardo.
Ma come sono seria, OMG... dìTèMì Kè Nè PeNZàTè O Mì AFòGò Cò Lò FìLò ìNTèRDèNTàLè Dì Mì NòNà (Kè à Là DèNTìèRà ìhìh). No ok, mi sto mettendo in ridicolo, passiamo al capitolo, che ho sviluppato sui seguenti punti: Rosellina viene messa al corrente della scomparsa di nonna Hel (chi sarà stato?), e nel mentre della sua reazione disperata si ritrova a passare di fronte la casa di... niente di meno che quel bisbetico del suo love. Adesso troviamo dei momenti Josie (spero che i vostri feels siano saliti alle stelle), theeen, Rose Mary, dopo quattordici capitoli scopre che Justin è il ragazzo delle chitarra. Scopre che la persona che ama è contemporaneamente un'altra persona che ama (no sense). Molti si sarebbe aspettati che dopo aver scoperto ciò ci sarebbe stato una bacio appassionato in stile Via col vento, e invece no! Dato che io sono perfida e amo lasciarvi a caxxo (x nn dile 1 alTla kosa xdxd) li ho fatti litigare. Questo però, non è un litigio come gli altri, perché al suo interno vi sono certe frasucciole sdolcinate che spero gli Josiators (?) abbiano apprezzato. Che altro dire? Vi voglio bene, ma questo lo sapete già, e vi aspetto alla prossima. 
PS: da questo momento in poi non vi prometto che sarò sempre puntuale con l'aggiornamento, in ogni caso io vi informerò tramite messaggio, come sempre. E ah, mi scuso per eventuali errori, non ho avuto tempo di rileggere.

with looove, your Alyssa.

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Capitolo 17
*** Jeremy? Is it you? ***


CAPITOLO 17
Parte I
Jeremy? Is it you?



 
Alla fine mi ritrovai a camminare a piedi nudi sul bagnasciuga sabbioso, ormai vuoto e desolato. Avevano ancora tutti troppa paura di uscire di casa, ma io no. Iniziavo a farci l’abitudine.
Nonostante gli innumerevoli eventi successi in quei mesi, il mare restava il mio miglior tranquillante. Mi ci rispecchiavo molto, in quel momento comenon mai. La mia mente era come l’oceano: smisuratamente grande, e orribilmente vuota.
Arrivata ad una palma, mi accasciai ad essa, portandomi le gambe al petto, e meditando baciata dai lievi raggi del tramonto. Chiusi gli occhi, cercando di svuotare la mente, o meglio, quell’oceano, poi, tirai un lungo respiro facendo entrare della fastidiosa aria secca nei miei polmoni.
Dov’è Kim? Mi chiedevo. E il reverendo? Continuavo. E la nonna? Mi torturavo.

Helen era completamente bendata, in modo tale che non potesse nemmeno parlare, perché, se ci provava, rischiava di morire soffocata. Sentiva il sangue scorrere lungo le corde ormai bollenti, che sfregavano ad ogni minimo movimento i suoi vecchi polsi. Lui la stava trascinando per un avambraccio. Non sapeva precisamente chi fosse, non aveva mai visto il suo volto, e l’unica cosa che aveva visto, da quando era tornata da Melanie il giorno prima, era il buio. Per fortuna che non aveva mai sofferto di alcun tipo di problema respiratorio, altrimenti sarebbe sicuramente morta... asfissiata. Nonostante la forza che la caratterizzava, in quelle ore Helen si era lasciata andare, scoppiando in un silenziosissimo pianto. Continuava a chiedersi dove si trovasse, chi l’avesse rapita, e a quale scopo. Poi una parola aveva iniziato a tormentarla: morte. Cominciava a rassegnarsi a ciò che probabilmente Dio le aveva riservato. Sperò solo che la morte che le aveva serbato, fosse indolore, e che accadesse il più in fretta possibile, perché non era in grado di resistere oltre in quella gabbia senza aria.
La sua rassegnazione si attenuò leggermente all’udire di alcune voci. – A.. u.. to.
“Aiuto” tentò di urlare, ma le mancò il respiro, in più, fu colpita in pieno petto facendole mancare l’aria in una maniera insopportabile. Strizzò gli occhi, cercando di resistere al dolore, e di non cedere all’agitazione che in una situazione come quella sarebbe stata letale.
- Una nuova amichetta!- annunciò la voce dell’uomo che – lo sapeva benissimo – l’aveva rapita.
Io lo conosco continuò a ripetersi terrorizzata. Io lo conosco. Io lo conosco. Io lo conosco.
Le ci volle un attimo per collegare.
Come avrebbe potuto dimenticare la sua voce? Come avrebbe potuto dimenticare la nota di amarezza e frustrazione in quel tono? Come avrebbe potuto dimenticare la voce che le toglieva il sonno, ogni notte, quando urlava le peggior cose del mondo contro sua moglie?
Era Jeremy. Era quel Jeremy, ne era sicura.
Mostro urlò nella sua mente, sentendo subito dopo una serie di lacrime ghiacciate scorrere dai suoi occhi stanchi, per poi venire assorbite dal tessuto che le circondava il volto, ormai zuppo.
Jeremy si fermò di scatto, lasciandola barcollare in avanti, dopo averle dato una ginocchiata nella schiena. Ansimò, sentendo che un altro secondo sotto quella benda e se ne sarebbe andata per sempre. Poi però, delle mani gliela sfilarono, facendole finalmente realizzare ciò che stava accadendo.
In un primo momento continuò a vedere nient’altro che nero, pensando addirittura di essere diventata cieca, ma poi, i suoi occhi fecero per abituarsi alla nuova luce, alla luce.
Era alla fine di una caverna, illuminata macabramente da numerose fiaccole, allineate in fila sia a destra che a sinistra. Si guardò poi alle spalle, attirata da una grossa fiamma, e da dei… sussulti di spavento.
- R.. v.. n.. d.. o- ciò che le legava la bocca, le impedì di parlare.
Il reverendo Mayer sgranò gli occhi. – Padre Santo! Helen, sei tu?!- chiese tremante, guardandosi le corde che stringevano saldamente anche i suoi polsi.
Helen guardò poi in un angolo della caverna, in cui il pianto di una bambina aveva iniziato a tuonare. – K.. m!
La piccola Kim alzò i suoi grandi occhioni castani, mostrando lo sguardo più impaurito che Helen avesse mai visto nei suoi settantuno anni di vita. Corse verso di lei, ma Jeremy la bloccò con uno strattone. La scrutò per qualche secondo, quindi, le tolse brutalmente la corda dalla bocca. – Così è più divertente, non credi? Sentirvi urlare, piangere e rassicurarvi a vicenda- sorrise con un ghigno.
Helen ansimò, facendo entrare tutta l’aria che le era mancata in quelle ore, nei suoi polmoni. Si diresse poi barcollante verso la piccola.
- S-Signora H-el-len- balbettò singhiozzando sul petto della donna.
Helen si staccò da Kim, notando un grosso taglio lungo la sua tempia. – Chi ti ha fatto questo?- chiese tremando dalla rabbia.
La bambina guardò inorridita verso Jeremy, confermando la sua tesi.
- Mostro- sussurrò. – Sei un mostro!- esplose balzandosi in piedi e scagliandosi contro l’uomo. Finì però, col ricevere un pugno nello stomaco, che le tolse nuovamente il respiro, e la fece inginocchiare, stremata.
Kim urlò. – Voglio tornare a casa- diceva. – Voglio tornare dalla mamma. Mamma... mam...- si ammutolì quando Jeremy le si avvicinò, puntandole un dito contro. – Dì un’altra parola e stai certa che la mammina la rivedrai all’inferno.
La bambina si sforzò di trattenere in respiro, continuando a piangere in silenzio. – Che ti ho fatto?- domandò improvvisamente all’uomo, indifesa e disperata. – Perché mi tratti così? Io non ti ho fatto niente- continuò.
La sua ingenuità parve toccare il reverendo, ormai con gli occhi lucidi. – Lasciaci andare figliolo. Per l’amor di Dio, lasciaci andare, e nostro Signore avrà pietà di te. Pregherò per te tutte le notti, ma ti supplico...- fece, fermandosi poi quando Jeremy scoppiò in un’angosciante risata. – Siete un trio comico.
- Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga al tuo regno, sia fatta la tua volontà come in cielo così in Terra- il reverendo iniziò a pregare sottovoce, con gli occhi semichiusi.
- Dio non esiste- cantilenò inquietantemente il mostro che si ritrovavano davanti.
-... Dacci oggi il nostro pane quotidiano, e rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori- continuò in un sussurro il prete.
- Perché, Jeremy?- bisbigliò Helen. – Che razza di mostro sei diventato?- gli domandò, provando in quel momento una pena incommensurabile nei suoi confronti.
Jeremy rise, ancora una volta, dimostrando ogni secondo di più la sua grave insanità mentale e psichica. Helen scosse la testa. – Mi dispiace così tanto…
- Ti dispiace per cosa?- chiese l’uomo estremamente divertito e allo stesso tempo curioso.
- Mi dispiace di come siano andate le cose. Mi dispiace che tu debba condurre questa esistenza… dannata. Mi dispiace per Pattie, Juliet, mi dispiace per Justin, ma più di tutto mi dispiace per te, Jeremy, e per la tua infelicità- disse sprezzante. – Perché sei un uomo infelice, lo sai bene.
Tentò di formulare il meglio possibile la frase, sperando di aver toccato un tasto delicato, ma le speranze della donna si spensero del tutto alla risposta di Jeremy: un’ennesima risata.
Dopodiché, diede le spalle a tutti loro e s’incamminò verso l’uscita della grotta.
- Dove vai?- gli chiesero il reverendo e Helen all’unisono, Kim intanto continuava a piangere.
- A prendervi qualcosa da mangiare- disse guardandoli maniaco. – Che senso avrebbe torturare delle ossa? Non sarebbe più divertente, non trovate?- si lasciò scappare un’ultima risata squilibrata. Poi diede le spalle ai tre, e sparì dietro la grotta con le urla della bambina che rimbombavano agghiaccianti per la foresta.
- Kim, shh- disse dolcemente il reverendo, avvicinandosi alla bambina e accarezzandole i capelli. – Non ti accadrà nulla, Dio non lo permetterà.
- La prego reverendo- intervenne Helen, guardando nel vuoto con le lacrime agli occhi. – Non la illuda. Moriremo se non facciamo qualcosa- sussurrò.
Il reverendo balbettò, ma poi tacque. Rimasero in quella situazione per un tempo che parve infinito: Helen appoggiata al muro, affranta; di fronte a lei la piccola Kim, che non cessava col pianto nemmeno un istante, e ad avvolgerla il reverendo, che iniziava lentamente a rendersi conto di ciò che li aspettava, ma che nonostante ciò continuava a pregare Dio… invano.

Il rumore della sirena della polizia mi fece trasalire, spezzando lo stato di tranquillità in cui ero caduta. Forse stavano continuando le ricerche delle persone scomparse.
Diciamo che non confidavo molto sull’efficienza della polizia dell’isola, che lasciava a desiderare. Come biasimarli? Bali era un paradiso terrestre, e non una carneficina. Rabbrividii a quel pensiero. Ci furono altri pochi istanti di totale silenzio, poi, il mio cellulare squillò. Guardai il display: Aly.
- Sì?- chiesi sconsolata.
- Dove diavolo sei?- urlò dall’altra parte del telefono. – Lo sai che sono facilmente impressionabile- fece una pausa. Sorrisi, notando che la sua reazione era proprio quella di qualche anno fa, quando tutto era… normale, e per un momento, immaginai di ritrovarmi in Georgia, dove l’unica cosa di cui dovevo preoccuparmi era avere un buon rendimento scolastico. – Torna qui, Fred è tornato, vuole vederci- continuò più tranquilla.
No. Non volevo vedere il nonno. Avevo paura dello stato in cui avrei potuto trovarlo; tuttavia, non potevo nemmeno evitarlo fino alla fine dei mie giorni, o finché non avessero trovato la nonna, sempre se l’avessero trovata.
- Arrivo- dissi stanca. Feci per attaccare.
- Rose?- si apprestò a dire Alyssa prima che la chiamata terminasse. – Ti voglio bene. Non dimenticarlo mai.
Sorrisi, premendo il pulsantino rosso e segnando la fine della telefonata.

Bussai il campanello di quella che ormai, avevo iniziato a considerare casa.
Alyssa aprì dopo qualche secondo, come se stesse aspettando solo me.
Mi lanciò un debole sorriso, che ricambiai. – Dov’è il nonno?
- Nel soggiorno. Ci sta aspettando- rispose. – Oh, c’è anche Dan.
Mi avviai verso la stanza in cui il vecchio ci stava aspettando. Mi bloccai alla soglia, quando me lo ritrovai davanti, con gli occhi rossi e il viso pallido. Irriconoscibile.
Alzò lo sguardo su di me, e si schiarì la gola. Dan era al suo fianco, altrettanto scosso.
- Vieni qui, Rosie- disse piano, distrutto. Feci come mi fu ordinato, avvicinandomi a lui, poi, senza riuscire a trattenermi mi buttai tra le sue calde braccia e cominciai a piangere. Lui mi appoggiò la guancia sul capo, e iniziò ad accarezzarmi i capelli, cercando di calmarmi. Sentii anche la mia mano stringersi in quella di Daniel. Provai così tanta gratitudine nei suoi confronti. Ci eravamo affezionati tantissimo l’uno all’altro, lentamente, senza nemmeno accorgercene. Adesso era una specie di fratello, la persona su cui poter contare sempre, la spalla su cui piangere. Mi resi conto di quando gli volessi bene, e strinsi ancora di più la sua mano. 
- Nonno- sussurrai piano alzando leggermente il capo, per prendere aria. – Non ne posso più… i-io ho già perso abbastanza- rigettai la testa sulla sua spalla più disperata di prima.
Lui stranamente mi staccò da sè. – Non parlare di lei come se fosse morta- il suo tono era apprensivo, duro allo stesso tempo. – La polizia sta facendo l’impossibile per scoprire chi l’ha rapita, lei e tutti gli altri. Dobbiamo solo avere pazienza, e fede.
- La polizia…- gli feci eco distrattamente. Più ci pensavo e più realizzavo che se ci fossimo affidati alla polizia sarebbe stato tutto perduto… uno di quei casi di rapimento che si sentono ai notiziari: “Sono passati esattamente vent’anni dalla scomparsa di…”. No! mi rimproverai imponendomi di smetterla di essere così pessimista.
Nonostante ciò, una strana idea continuava a torturarmi. “Devo fare qualcosa. Dobbiamo fare qualcosa… qualcosa di grande. Non posso starmene con le mani in mano, devo agire da sola, o con lui” questo, pensavo nient’altro che a questo, ma non capivo esattamente cosa volesse dire. Che cosa assurda! Erano i miei pensieri e non riuscivo a decifrarli, come se fossi un’estranea capitata per caso nella mente di qualcun altro.
Sentii Alyssa da dietro avvicinarsi. – I bigliettini- sibilò impercettibilmente.
Sì, i bigliettini.
Non potevo continuare un altro secondo tenendomi quel fardello sullo stomaco. Il nonno doveva saperlo, tutti dovevano saperlo, ed io ero stata una tale stupida a non dirlo prima.
- Nonno…- d’un tratto tutto il mio entusiasmo e la mia convinzione sparirono. Adesso avevo paura, paura che il nonno non avrebbe potuto perdonarmi per avergli taciuto una cosa del genere. In fondo, se fossi stata in lui sarei stata la prima non perdonarmi.
- Allora?- mi domandò impaziente, guardandomi negli occhi.
- Ehm, nonno, io…- Devi smetterla Rose Mary. Dillo. Adesso.
Lui muoveva nervosamente la gamba destra. – Non ho tempo da perdere, Rose- si alzò in piedi. – Devo andare a far visita alle famiglie delle altre… vittime- fece un particolare sforzo nel pronunciare quella parola. Poi, mi superò.
- Nonno aspetta- mi girai di scatto bloccandolo per il polso. Lui mi guardò, in attesa che parlassi. – Io… nonno, e se ti dicessi che posseggo qualcosa che potrebbe facilitare le indagini?- riuscii finalmente a dire.
Lui si sciolse dalla mia presa, rimettendosi in modo retto e guardandomi con curiosità. – Continua.
Feci un bel respiro, dandogli le spalle, e poggiando le mano sul tavolo. Non ce la facevo a guardarlo negli occhi. – Settimane fa... quando trovai Melanie sulla porta di casa... beh, nella scatolone c’era un...
- Rose Mary- mi bloccò Daniel mettendomi una mano sul braccio. Scrutai il suo sguardo, e c’era qualcosa che non andava, lo percepivo. Aggrottai le sopracciglia, come a spingerlo a parlare.
- Ho capito Rosie- disse il nonno interrompendo quel momento di “interpretazione visiva” tra noi due. – Ne parliamo stasera, devo andare.
Diede le spalle a tutti noi e in pochi secondi fu fuori dall’abitazione.
- Perché diavolo non mi hai lasciata continuare? Eh?- tuonai contro Daniel, gesticolando furiosamente. Più che con lui, ero arrabbiata con me stessa, e col fatto che non fossi riuscita a dire ciò in cui mi ero cacciata.
- Calmati- mi prese i polsi per aria e delicatamente me li posò lungo il busto. – Prima che venissi mi ha chiamato Justin…
- Oh- sussultai. Justin, Justin, Justin. Era sempre Justin. C’era lui per mezzo, in ogni circostanza, nonostante cercassi di dimenticarlo. – Che cosa vuole?- chiesi stanca.
- Vederti- mi rispose.
- No- dissi secca, con un tono che non ammetteva repliche. – Io non voglio vederlo. Diglielo, va bene?
Dan scosse la testa. – Cos’è successo tra voi due?
Alyssa che si girava nervosamente i pollici tra le dita catturò la mia attenzione, che dopo poco, ritornò su Daniel. – Ah, sai, le solite cose Rosie/Justin- sdrammatizzai, rendendomi conto solo in quel momento che i tira e molla tra noi due andavano avanti da mesi, e, infine, che anche gli altri si erano accorti che tra di noi ci fosse qualcosa. Gli unici a noi volerlo ammettere eravamo, ovviamente, noi.
- Davvero Rosie- Daniel mi prese una mano. – A me puoi dirlo, lo sai.
Guardai Alyssa, che aveva lo sguardo puntato verso le nostre mani. – Ahi!- esclamai quando sentii qualcosa pungermi sui polpastrelli.
Mi guardai le dita sconvolta, poi vidi che anche Daniel si teneva la mano dolorante. – Cos’è successo?- domandai.
Lui sorrise sghembo. – Elettricità. Siamo tutti troppo nervosi.
- Certo- borbottai. – Elettricità- riposai lo sguardo verso Alyssa, che questa volta mi guardava in modo strano. Per un secondo, un’idea altrettanto strana mi balenò in testa. E’ stata lei. E’ stata lei a ferirci. Oh, era così assurdo, e la storia della strega non mi era ancora del tutto chiara, ma su una cosa ero certa: non era l’elettricità; l’elettricità non c’entrava nulla.

- Reverendo- disse Helen all’uomo. – Dobbiamo scappare. Adesso. Prima che torni.
- S-Scappare?- ripeté il prete a voce bassa. – H-Helen, suvvia, abbi un po’ di buon senso. Se resteremo qui… forse ci risparmierà.
- Risparmierà?!- esclamò la donna, pentendosi subito dopo di aver alzato la voce.
Si avvicinò di qualche passo al reverendo, con la mano sinistra stretta in quella di Kim. – Mi ascolti bene- gli puntò un dito contro. – Non possiamo attendere oltre… né ore, né minuti, né secondi. Sprecare un’occasione del genere è come segnare la propria condanna a morte, e per quanto io muoia dalla voglia di incontrare Dio, ci sono ancora troppe cose che non ho fatto in questa vita, ci sono ancora troppe persone con cui ho dei conti in sospeso.
E sua moglie? Pensi a sua moglie.
Sarà a casa, disperata, piangendo fra uno dei suoi indumenti, con la speranza di riabbracciarla che si dissolverà al passare di ogni attimo.
E Kim. E’ solo una bambina, Dio, non ha idea di cosa sia la vita! Non l’ha ancora vista, e non permetterò che non la vedrà mai.
Se c’è anche solo una speranza… una sola, oh reverendo, io la coglierò, per il bene di tutti.
 Il reverendo Mayer, Harold, come lo chiamavano i suoi famigliari, guardava nel vuoto titubante, finché, dopo qualche istante, qualcosa nei suoi occhi scattò. – Hai ragione, Helen.
Lei sorrise appena, e tendendo una mano all’uomo l’aiutò ad alzarsi. – Sapevo avrebbe preso la scelta migliore, Harold.  
Lui sospirò, pulendosi le mani sui pantaloni ormai a pezzi. – Kim, piccola- le accarezzò una guancia. – Adesso cercheremo di andare via. Tu non lasciare mai la mano di Helen, hai capito?
La bambina annuì aggrappata al braccio della donna.
- Jeremy sarà qui a momenti- sussurrò quest’ultima. – Non ho idea di dove ci troviamo, non ho idea di come tornare a casa, ma per il momento l’unica cosa di cui dobbiamo preoccuparci è nasconderci nella foresta, trovare il riparo più vicino, e passare la notte lì, almeno fino a domattina.
Harold annuì, ma non ancora del tutto convinto.
Così, il più silenziosamente  possibile camminarono adiacentemente al muro, e quando finalmente furono salvi, quando videro la luce, Helen si accorse che il groppo alla gola era sparito.
Insieme sospirarono.
- Adesso dove andiamo? E se lo incontriamo? In che direzione sarà andato? Dobbiamo nasconderci- disse a voce bassa, ma velocissimamente il reverendo, come un robot. Stava scrutando il luogo. Erano circondati da alberi, alberi, alberi e ancora alberi. Nulla. Non c’era nulla, solo loro e la natura selvaggia, e il crepuscolo era ormai vicino.
Dall’uomo traspariva una fastidiosa agitazione, e lo si capiva dal modo il cui si aggrappava al muro della caverna, e dal nervo che gli pulsava spaventosamente sotto l’occhio destro.
 - Harold- Helen gli prese una mano sperando di calmarlo. – Andiamo verso nord, va bene?- indicò davanti a loro. – La palude mi sembra meno fitta,  e più sicura.
L’uomo scosse il capo in disaccordo. – Chi ci dice che non sia proprio quella la strada che ha preso Jeremy? Sarebbe plausibile, perché, appunto, è meno fitta.
Helen annuì sentendosi una stupida per non averlo intuito prima. – Allora che direzione propone di prendere, reverendo?
- Ovest. Giochiamo d’astuzia. Quando lui si accorgerà che saremo fuggiti, il primo posto il cui andrà a cercare sarà quello opposto da cui è venuto, e sono più che sicuro, che verrà da nord. Così andremo ad ovest. Va bene?
Helen annuì di nuovo. – Andiamo, non c’è tempo da perdere- disse. Lanciò poi un’occhiata furtiva a Kim, che giocava con i sassolini sotto i suoi piccoli piedi, e, dopodiché, si incamminarono diretti ad ovest.





 
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SPAZIO AUTRICE:
Ok, ok, ok. Prendetemi a sberle, maledite me e la mia famiglia, insultatemi e desiderate che io soffra... vi capisco.
Mi dispiace immensamente per quest'assenza. Il fatto è che non saprei nemmeno come giustificarla... come dire? Ultimamente mi è un po' passata la voglia di scrivere, e di svolgere qualsiasi altra attavità mi sia mai piaciuta fare. Non ho idea del perché, ma può capitare, no? Be', diciamo che adesso non abbia proprio l'entusiasmo di qualche mese fa, ma ho aggiornato solo per voi, perché riflettendoci, è ingiusto che per un mio capriccio debba voltarvi le spalle in questo modo. Vi voglio bene, e mi sono affezionata a tutti voi, e non meritate di essere trascurati dopo tutte le attenzioni che mi sono state rivolte in questi mesi, dunque, sappiate che questo capitolo è stato scritto solo ed esclusivamente per voi. Spero di non avervi deluso, ho fatto del mio meglio, davvero. Spero, inoltre, che non mi abbiata abbandonata (anche se lo meriterei), e che non vi siate dimenticati di me... Non so nemmeno che dirvi, oltre che un ennesimo "mi dispiace". 


Vi voglio bene,
come sempre, Aly.♥

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Capitolo 18
*** Taken. ***















CAPITOLO 17
   pt II
Taken





Entrai nella mia camera, chiudendomi la porta alle spalle.
Tirai il cellulare sul letto, sospirai, e mi andai a stendere sul morbido materasso.
Justin voleva vedermi.
Anche io. Anche io volevo vederlo, ma contemporaneamente prenderlo a schiaffi. C’erano troppi sentimenti contrastanti, dentro di me, che mi rendevano nervosa, irritante, confusa, più di quanto io non fossi già.
Ero certa: non avrei mai e poi mai capito cosa c’era tra me e Justin.
Cos’era? Amore? Amicizia? Odio? O forse un connubio perfetto delle tre sensazioni?
Il primo giorno che lo vidi, oh, non lo dimenticherò mai; era il mio terzo giorno a Bali, e il nonno mi aveva portato sulla sua barca. Lì c’era un ragazzo in canotta, con l’aria fredda, distaccata, che lavorava tutto solo in un angolo. I nostri sguardi si erano incrociati molte volte quel giorno. Qualche volta aveva risposto alzando un sopracciglio; qualche volta soffermandosi a guardarmi; altre volte aveva distolto gli occhi come se non potesse guardarmi.
Io invece, non facevo altro che guardarlo, e ogni volta che scorgevo una parte del suo corpo, nascosta dietro al muro, il cuore iniziava a battere forte, più di quanto avrebbe dovuto.
Amore a prima vista? O forse mi emozionava semplicemente il fatto che  fosse un bel ragazzo?
Lo rividi poi la sera successiva, al falò sulla spiaggia. Ricordo che in quel momento pensavo fosse pazzo, un ragazzo pericoloso, perché la nonna aveva accennato all’omicidio.
Poi però, aveva preso a pugni un ragazzo, perché mi stava importunando, e mi aveva portata lontana dalla festa, per farmi calmare. Quella fu la prima volta che dialogammo per qualche minuto. Quella fu la prima volta – e l’ultima – che raccontai a qualcuno del ragazzo della chitarra. Justin, ma io non lo sapevo; come potevo, d’altronde?
Dopo qualche giorno, alla festa di Daniel avevo trovato ciò che mai mi sarei aspettata. Justin e Alyssa, che si baciavano appassionatamente in una stanza sperduta del secondo piano. Oh, avevo odiato Alyssa in quel momento, e poi avevo odiato me stessa per aver provato rabbia nei confronti della mia migliore amica.
La colpa era di Justin. Solo sua, ma non l’avrei mai ammesso.
Poi, quella sera, arrivò la polizia, e finché la casa non fu sgomberata io e Justin rimanemmo chiusi in uno sgabuzzino, nel buio più totale. Gli tenevo la mano, perché sentivo il suo respiro affannato, e volevo che si calmasse.
Quando uscimmo di lì, e rimanemmo soli, ancora, Justin mi chiese scusa. Scusa per ciò che era accaduto con Alyssa.
Scusa per cosa?
Io continuavo a dire di odiarlo, lui altrettanto, eppure perché mi aveva chiesto scusa per aver baciato una ragazza?
Il momento decisivo si presentò due giorno dopo.
Era il compleanno di Daniel, ci eravamo persi su quell’isola disabitata, poi divisi. Io e Justin ci eravamo riparati in una grotta. Era notte fonda, una tempesta era in atto, e dopo essermi aperta con lui come mai prima, raccontandogli dei miei genitori, lui mi baciò… Il bacio migliore. Era assurdo pensare che fosse stato il bacio migliore, dato che era anche il primo, ma io ero sicura che mai più mi sarebbe capitato di provare tali sensazioni baciando una persona. Era un bacio quasi disperato, come se entrambi non aspettassimo altro dal primo giorno, poi, si staccò da me, e mi chiese scusa. Ancora. Ed io ancora, mi chiesi: “Scusa per cosa?”, e nemmeno quella volta riuscì a trovare una risposta.
Trasalii all’udire del mio nome, che mi fece completamente staccare da quei ricordi.
Era la voce di Alyssa. Di scatto mi tirai su, poggiandomi compostamente allo schienale imbottito. – Aly, entra.
La porta si aprì lentamente, lasciando scorgere l’esile figura di Alyssa. Mi bastò guardarla negli occhi per capire che qualcosa non andava. E poi, insomma, Alyssa non avrebbe mai aperto il quel modo pacato una porta. Piuttosto l’avrebbe sbattuta all’aria piombando improvvisamente.
- Rose Mary…- si avvicinò al letto. – Rosie…
- Sì?- chiesi squadrandola da capo a piede.
- Senti io…
- Oh, ti prego, sputa il rospo, Aly. Intuisco quando qualcosa non va. Su, dimmi!- le feci segno di sedermi affianco, ma lei scosse la testa e si posizionò ai piedi del letto.
- N-Non so da dove iniziare…
Lasciai che passasse qualche secondo affinché trovasse le parole giuste, ma più il tempo passava, più io iniziavo a preoccuparmi. – E’ successo qualcosa con Daniel?
- No- scosse il capo guardando nel vuoto, - lui non c’entra.
- Ti prego, mi spaventi- le misi una mano sulla gamba.
Lei guardò la mia mano, poi i miei occhi. I suoi erano arrossati, e lucidi. Stava per piangere, e la voglia di sapere il perché mi stava mangiando viva.
- Rosie… ehm… Justin…
- Justin cosa?- la interrupi socchiudendo gli occhi, con quello strano tono di voce che mi usciva ogni qualvolta sentivo pronunciare il suo nome; era un tono calmo, quasi rassegnato, con una sfumatura di curiosità e rabbia.
- Sull’is…
- Ragazze!- esclamò Daniel, dirompendo improvvisamente in camera.
- Che c’è?- gli urlai contro. – Non ne posso più di queste improvvise entrate in scena. Mi mettete ansia!- tuonai istericamente.
Ci furono secondi di imbarazzante silenzio. – Scusa- dissi subito dopo pentendomi di averlo trattato in quel modo.
- Tranquilla- venne ai piedi le letto. – Sei nervosa, lo capisco- mi sfiorò un braccio sorridendomi appena.
Era così bello.
No, oh no. Non era bello in quel senso, non era bello come Justin, ma lo era… oggettivamente.
- Hai qualcosa da dire, Daniel?- domandò Alyssa estremamente irritata, come se dalla voce stesse fuoriuscendo veleno. – Stavamo parlando.
Lui la guardò stranito, aggrottando le sopracciglia, dopodiché fece spallucce. – Mi ha chiamato Fred- lanciò uno sguardo a me, poi ad Alyssa. A quel punto ci disse che il nonno si era completamente dimenticato di avvisarci che quella sera ci sarebbe stata una ricorrenza locale, La festa dei pescatori. Era un’antica ed estremamente importante tradizione dell’isola, un po’ come il giorno del ringraziamento negli Stati Uniti. Tutti accorrevano al porto: vecchi, bambini, giovani donne e uomini, e la notte si trascorreva tra danze, giochi e pesce arrostito. Il nonno non sarebbe venuto; era troppo stanco, aveva detto, e voleva tenere compagnia alla famiglia Cheyenne, e Mayer. – E così dobbiamo andarci noi- concluse con voce fiacca.
Ci scambiammo delle occhiate.
Quante cose sono cambiate pensai con un orribile vuoto allo stomaco. Fino a qualche mese prima sapere che avremmo dovuto partecipare ad una festa ci rendeva euforici, ci faceva uscire di testa… d’altronde, era così che avrebbero dovuto reagire dei normali adolescenti, no?
Il problema era proprio legato a quell’ultima frase: noi non eravamo dei normali adolescenti. Tutto ciò che stava accadendo ci stava segnando terribilmente, senza nemmeno che noi ce ne accorgessimo. Ci stava facendo invecchiare, ma senza capelli bianchi o rughe… ci stava facendo invecchiare dentro. Oh, un bell’e grosso inganno.
- Una festa!- esclamai subito dopo fingendomi entusiasta, e cercando per qualche secondo, di comportarmi come facevo una volta. – Ci divertiremo…- accennai un sorriso sforzato.
- Ci divertiremo- mi fece eco Alyssa, atona. – Vado a vestirmi.
E così scomparve dietro la porta.
- Che diavolo le prende?- chiese Daniel sottovoce.
- Non ne ho idea- puntai lo sguardo fisso sul parato glicine di fronte a me. – E’ strana, ultimamente… non mi sembra nemmeno lei- confessai con una nota di malinconia.
Lui tirò un sospiro. – Mi tratta come se mi odiasse, e non ne capisco il motivo.
Questa volta mi girai a guardarlo negli occhi, curiosa. – Tu… davvero non ti sei accorto di nulla?
- Accorgermi di cosa?- domandò.
Scesi svelta dal letto, andando a chiudere la porta, poi, mi rivolsi nuovamente a lui. – Daniel- avanzai di qualche passo fino ad averlo a pochi centimetri di distanza. – Tu le piaci- gli sussurrai ad un orecchio.
D’un tratto la porta si spalancò. – Rosie, credi ch…- Alyssa si bloccò a guardare la scena, dischiudendo le labbra per la sorpresa.
Entrambi ci girammo di scatto verso di lei, staccandoci contemporaneamente l’uno dall’altro.
- A-Aly- balbettai avvicinandomi a lei. – Che-Che cosa hai detto?
Lei indietreggiò. – Niente…- mi guardò dritta negli occhi per qualche secondo, come si guarda chi ha appena bastonato il proprio cane. – Non ho detto niente- pronunciò sprezzante,  sparendo nuovamente nel lungo corridoio.
Decisi di non correrle dietro, le sarebbe passato nel giro di pochi minuti, e a quel punto le avrei spiegato come erano andate davvero le cose.
Guardai l’orologio: segnava le 19.37.
Mi andai a preparare.

Helen non ne poteva più di camminare; stavano girando a vuoto da ormai trenta minuti.
- Che ore sono, George?- chiese a voce bassa.
Lui controllo l’orologio da polso. – Le diciannove e trentasette.
Da quant’era su quell’isola? Meno di un giorno? Eppure la donna si sentiva mancare il respiro. Solo in quel momento si rese conto che Kim, era lì da settimane.
Oh, povera piccola.
- Non ce la faccio più!- piagnucolò la bambina.
- Shh!- l’ammonì l’uomo, senza però essere esageratamente duro. – Devi abbassare la voce, Kim. Mi hai capito?
Lei annuì abbassando lo sguardo, sentendosi mortificata.
- Cos’è successo in queste settimane qui? Ti ha fatto del male, Kim?- domandò pochi minuti dopo Helen, non riuscendo a trattenere la curiosità.
Il reverendo era qualche passo più avanti, e a quanto pareva, non aveva sentito nulla.
- Brutto- sibilò la piccola con un tono di voce così raccapricciante, da far accapponare la pelle della donna. –… Tanto brutto, signora Helen. Tanto…- la voce le venne meno, e girandosi a guardarla, Helen vide scorrerle delle lacrime lungo il viso.
Velocemente, con un gesto materno le asciugò gli occhi. – Kim, i-io non ti prometto che ritorneremo a casa… ma ti prometto che farò tutto ciò è in mio potere affinché questo accada.
Dopodiché, senza aggiungere altro, e ripuntando gli occhi sulla strada, raggiunse il reverendo, stringendo forte la mano della bambina.
Una decina di minuti dopo erano ancora a vagabondare nel verde più selvaggio, finché il reverendo non si fermò di scatto, allargando le braccia. – Quest’albero- indicò un imponente albero centenario, proprio di fronte a loro. – Non siamo già passati per qui. Quest’albero… me lo ricordo.
Helen iniziava ad agitarsi. – C-Che facciamo adesso?
Tentò di non lasciar trasparire il terrore che stava provando, ma non ci riuscì.
- Non lo so…- ammise l’uomo. – Siamo in un vicolo cieco, un labirinto senza via d’uscita.
- C’è sempre una via d’uscita- Helen tentò di non far morire anche l’ultima fiamma di speranza dentro di sé; la luce era fiacca, circondata dalle ceneri.
La fiamma, però, si spense del tutto pochi secondi dopo, quando una voce, la sua voce, riecheggiò intorno a loro.
- Oh, no- sussurrò Helen guardandosi intorno agitatamente.
- S-Sta tornado?- Kim scoppiò a piangere, di nuovo.
- Basta!- il reverendo alzò le braccia al cielo. – Andiamo da lui. Gli diremo che Kim si è sentita male e che aveva bisogno di prendere aria- si arrese. – S-Se penserà che volevamo scappare… beh…
- Andiamo!- lo schernì Helen riprendendo a camminare, fino a ritrovarsi di fronte all’uomo.
- Oh-Oh-Oh- fece con una voce profonda Jeremy. – Guarda un po’ chi c’è! Non stavate mica tentando di scappare?- si avvicinò ad Helen, puntandole un coltellino al collo.
Lei riversò il capo all’indietro affinché la lama non la ferisse. – Ki-Kim si è sentita male, abbiamo pensato dovesse prende aria- d’un tratto Jeremy allontanò il coltello dalla gola della donna. – Le minacce non ti porteranno da nessuna parte- aggiunse dopo qualche secondo.
Jeremy fece finta di non aver sentito la sua ultima frase, poi sospirò. – Riconosco le bugie, Helen. Che questa sia l’ultima volta che me ne diciate una, altrimenti…
- Altrimenti cosa?- replicò il reverendo con voce fredda. – Coraggio! Uccidici!
Helen gli pizzicò una parte di pelle, ammonendolo.
- Che senso ha tutto ciò?- urlò poi. – Perché ci hai portato qui? Falla finita, adesso! Se vuoi ucciderci fallo!- gli si lanciò addosso, contro tutte le aspettative di Helen.
Jeremy veloce come una saetta gli bloccò i polsi, storcendoglieli. – Chi ha mai parlato di uccidervi?
- Basta, Jeremy- la donna pronunciò con tono solenne, gli occhi socchiusi. – Basta.
L’uomo, folgorato dalla sua fermezza lasciò andare Harold, distraendosi per qualche secondo.
Ora o mai più pensò il reverendo, sferrando subito dopo una ginocchiata nella schiena di quel mostro. Quest’ultimo cadde a terra con gli occhi sgranati. Harold si accovacciò su di lui, che gemeva per il dolore. – Perdonami Signore- disse, dopodiché con un potente pugno lo stordì fino a fargli perdere i sensi.
Quando Jeremy Bieber riaprì gli occhi, Kim dormiva supina tra le braccia di Helen, mentre il reverendo era in un angolo ad affilare un ramo.
- Harold, si è svegliato- sentì come all’interno di una bolla Jeremy.
Quando si riprese del tutto, fu colpito da un lancinante mal di testa. Strizzò gli occhi. Tentò di portarsi una mano alla testa, ma si rese conto che le aveva legate saldamente. In quel momento si aggiunse anche un fastidioso bruciore ai polsi. – Che mi avete fatto?- urlò.
- Taci- sibilò Helen.
- Bastardi! Io vi uccido! Io vi uccido!- si dimenò come un indemoniato, finché non urtò con il capo contro il muro.
Harold Mayer gli si avvicinò a passi tardi, poi, gli puntò il ramo appuntito contro. – Rispondi alle nostre domande, o saremo noi ad uccidere te.
Lui scoppiò in una fragorosa e sincera risata. – Una vecchia, una bambina e un… prete?- disse poi.
- Non giocare con il fuoco- il reverendo avvicinò l’arma di legno fino a provocargli un taglio superficiale sulla guancia destra.
Jeremy sputò per terra, poi guardò le persone di fronte a lui con uno sguardo carico di odio. – Non vi dirò nulla.
Vide la donna togliersi lentamente la bambina di dosso, e avvicinarsi a lui. Poi, cacciò un coltellino. Il suo coltellino, quello con cui qualche ore prima aveva puntato al suo collo. – Ne sei così sicuro?- gli domandò, infilzandogli contemporaneamente la lama nell’incavo della spalla.
Jeremy urlò, straziato dal dolore. – Si-Sicurissimo- ansimò.
Helen tirò un respiro profondo, poi girò lentamente il coltello all’interno della sua carne. Si trattenne all’impulso di vomitare. Era il loro momento, e non potevano commettere errori. – Ti ripeto la domanda: ne sei così sicuro?
Il viso di Jeremy era diventato improvvisamente di un bianco cadaverico, e i suoi occhi erano umidi di pianto, nonostante ciò, riuscì a trovare la forza di annuire.
- Oh, Jeremy, sei sempre stato così testardo- si finse dispiaciuta Helen, estraendo lentamente la lama dalla spalla dell’uomo che tanto conosceva. Esitò per un istante, quando egli urlò spaventosamente inarcando la schiena dal dolore. – B-Bast …- tentò di dire.
Helen si fermò. – Te lo chiedo un’ultima volta, poi ti giuro che la lama te la faccio uscire dall’altra parte: risponderai alle nostre domande?
Dalla sua bocca non uscì che un lamento, ma Helen lo interpretò come un sì, anche perché, per quanto odiasse quell’uomo, vederlo ridotto in quello stato era un tormento anche per lei. – Bene- tirò velocemente il coltellino dalla sua pelle, in modo che sentisse meno dolore, poi, si sedette per terra di fronte a lui. – Perché ci hai portati qui?- era una domanda, ma allo stesso tempo un ordine, come se non avesse altra alternativa se non rispondervi.
- Non lo so- sussurrò lui. Helen fece per rinfilzargli l’arma nella carne. – Non lo so, davvero …
- Non lo sai?- chiese lei a voce bassa. – Non lo sai?- continuò poi urlando.
Lui scosse la testa.
- Perché, Jeremy?- la voce di Helen era decisamente calata di qualche tono. Adesso tentava di renderla pacata, anche se, la rabbia la faceva da padrona.
- Non lo so, Helen, credimi. Io … l’ho fatto e basta. Volevo vendicarmi… i-io volevo fare qualcosa … qualsiasi cosa.
- Qualsiasi cosa- gli fece eco l’anziana, orribilmente consapevole di quanto fosse grave il disturbo mentale che lo affliggeva. Era pazzo. Lei se la stava prendendo con un pazzo, una persona priva di ogni lucidità. Lei se la stava prendendo con Jeremy Bieber, l’uomo che aveva ammazzato a sangue freddo sua moglie e sua figlia, l’uomo che li aveva rapiti scatenando il terrore nell’isola, ma contemporaneamente lei se la stava prendendo con una persona così dannatamente debole. Debole in tutti i sensi, ma in particolare, debole per il fatto che il suo cervello aveva smesso di funzionare da un momento all’altro, e non per colpa sua. Una persona che non riusciva più a controllarsi.
L’autocontrollo.
Era la cosa più importante, pensò.
Le persone prive di autocontrollo non sono cattive, ma condannate.
- Tu… tu hai rapito me… noi, così? Perché ti andava di farlo, Jeremy? Perché è questo che mi stai dicendo- la voce quasi le tremò.
- E’ questo che ti sto dicendo- rispose lui. Helen si rese conto solo in quel momento, che il suo comportamento era mutato radicalmente da qualche ora prima. La risata malata era svanita, anche il sorrisetto stampato sul volto e gli occhi matti. Adesso il suo sguardo e la sua espressione erano come un libro aperto. Adesso nei suoi occhi vi era ira, bilanciata dalla rassegnazione; nel suo sguardo, invece, era dipinta la confusione, la dispersione, come dentro di un buco nero. – Mi dispiace tanto … lasciatemi andare, scapperò … per sempre. Non mi farò vivo mai più, mi rifugerò … dall’altra parte del mondo, da qualsiasi parte voi vorrete. Non portarmi alla polizia, Helen- i suoi occhi supplicavano perdono, ma la sua voce, Helen lo percepì, aveva una strana incrinazione. Stava mentendo.
- Ti lasceremo andare, Jeremy- disse lei mentendogli a sua volta.
- M-Ma… Helen!- esclamò il reverendo incredulo.
Lei lo schernì con un movimento secco del braccio. – Lasci parlare me, Harold- si schiarì la gola. – Ti lasceremo andare- si rivolse nuovamente a Jeremy. – A patto che tu mi dica il perché di tutto ciò, mi racconterai di ciò che è accaduto dieci anni fa, mi spiegherai come hai fatto a scappare, dove hai vissuto fino a questo momento, e poi… sarai libero.
- L-Libero? Mi lascerete?- domandò spaesato.
- Ti lasceremo.
Il reverendo tentò di replicare ancora, ma poi, si rese improvvisamente conto che Helen stava attuando un piano, così, la lasciò fare.



 




 
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SCUSATEMI.
Davvero, scusatemi per l'assenza.
Spero continuerete a leggere e recensire.
Vi amo sempre, lo sapete.


xx, your Alyssa.

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Capitolo 19
*** Leggete. ***


Mi dispiace deludervi, ma questo non è un capitolo.



Non riesco a trovare le parole, è doloroso anche per me dirlo, ma credo che questa pausa durerà per sempre. 
Il fatto è che oltre al tempo che scarseggia, la voglia di scrivere questa storia diminuisce giorno dopo giorno. Questo non significa che non scriverò più, o che non pubblicherò più capitoli su efp, ma semplicemente che non vedrete mai il capitolo "Epilogo" a questa storia. Ho deciso di fermarmi qui, ed è una decisione che dipende solo da me, voi non c'entrate niente, anzi, siete state meravigliose, assistendomi giorno dopo giorno, facendomi sentire il vostro affetto ogni recensione di più.
Spero che non ci rimarrete troppo male, ragazze, perché fidatemi, è dura questa situazione è dura anche per me... Insomma, mi ero affezionata moltissimo a voi in questi lunghi mesi, a questa storia, a questi personaggi che altro non sono che frutto della mia immaginazione, ma ho semplicemente perso... L'ispirazione. Quando iniziai a scrivere la storia ero inesperta, molto inesperta, non sapevo bene come muovermi, non conoscevo l'uso corretto della punteggiatura, molte situazioni che si sono venute a creare all'interno del racconto erano parecchio inverosimili e numerose incongruenze dovute alla mia poca conoscenza del campo si sono ripresentate in questi ultimi capitoli, in cui mi sono davvero sentita avvilita ed ho deciso di mollare tutto.
Non voglio che ci sia nemmeno una minima imperfezione o contraddizione in ciò che scrivo. Considero la scrittura una cosa sacra, e come tale ne si deve fare un uso corretto, ciò che non ho fatto io con questa storia. Prima di concludere, volevo rassicurarvi del fatto che questo non è un "addio", bensì un "arrivederci": ho iniziato a scrivere una nuova storia, sto dando il meglio di me e sono abbastanza orgogliosa di ciò che ne sta uscendo fuori. Vi anticipo subito che è ambientata nell'ottocento, il che è fantastico, perché ho sempre desiderato scrivere una storia che avesse come ambientazione l'epoca Vittoriana, e quindi eccomi qua. Il prologo l'ho pubblicato settimane fa, per verificare se il mio fosse un esperimento riuscito, ma sappiate che continuerò con la pubblicazione della nuova fan fiction solo quando terminerò di scriverla, in modo tale da non far sì che venga a crearsi nuovamente una situazione simile.
Che altro dire, ragazze? Vi voglio bene, e vi ringrazio dal profondo del mio cuore di tutto.

Un abbraccio,
Alyssa
.

 

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