Entropy

di Nimue_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dicembre 1944 ***
Capitolo 2: *** L'imprevedibilità di una deviazione casuale ***
Capitolo 3: *** L'irreversibilità di una reazione di combustione ***
Capitolo 4: *** La radiazione assorbita da un corpo nero ***
Capitolo 5: *** La parabola descritta da un coltello che cala ***
Capitolo 6: *** L'epinefrina liberata dalla scoperta dell'attentatore ***
Capitolo 7: *** La sconfitta più grande dopo la Rivoluzione Copernicana ***
Capitolo 8: *** Febbraio 1945 ***
Capitolo 9: *** L'invasiva cura per una crisi d'astinenza da problemi ***
Capitolo 10: *** La cristallizzazione di un piano che non tende all'amorfismo ***
Capitolo 11: *** L'effetto catastrofico di una farfalla che viene liberata ***



Capitolo 1
*** Dicembre 1944 ***


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PROLOGO.

Dicembre 1944

Aleggiava un odore dolciastro, nell'aria. Il solito.
Nessuno lo definiva mai in quel modo, perché nel Campo i nomi venivano perduti insieme a tutto il resto e ogni cosa prendeva a chiamarsi in modo diverso, ma lei non avrebbe saputo in che altro modo descriverlo. Il lezzo di carne che bruciava diventava insopportabile vicino ai Forni, ma non c'era un solo centimetro - nemmeno agli angoli estremi delle Recinzioni - dove si riuscisse a respirare normalmente. Era diventato parte dell'aria stessa, quell'effluvio di morte, sospeso nella cenere.
Il fumo aveva ripreso ad uscire da qualche ora, ormai, ma non la stavano portando nelle Camere. Lo aveva capito dopo che il terrore viscerale che le aveva consumato le vene si era intirizzito di nuovo nello stomaco, ritirandosi dal cervello un po' per volta, mentre due soldati la costringevano ad avanzare nella poltiglia di ghiaccio sciolto. Se ne prendevano tre o quattro alla volta, avevi qualche speranza. Se volevano uccidere, ti sparavano un colpo in testa all'istante, oppure ti prelevavano insieme ad altre cento persone; non appena il primo di loro aveva messo piede nel dormitorio, però, lei si era resa conto che qualcosa, negli schemi, era cambiato. Camice lindo, immacolato, una mascherina di stoffa sulla bocca. Non era una guardia, l'uomo che era  venuto a prenderla, scegliendola personalmente insieme ad altre cinque ragazze di cui nemmeno conosceva il nome. Aveva semplicemente fatto correre lo sguardo sulla carne del loro corpo scheletrico, poi aveva controllato i numeri che le catalogavano e aveva annuito. Non una parola, nient'altro. Pochi secondi dopo erano fuori.
In quel momento si stavano dirigendo ai blocchi speciali, quelli che tutti facevano finta non esistessero. Si vociferava che ci vivessero i Dottori, lì dentro, ma pochi sapevano che cosa significasse.
Arrivati ad uno dei tanti edifici di mattoni, i soldati bussarono alla porta una volta sola, scambiando qualche parola con chi si trovava dall'altra parte.
Le costrinsero ad entrare, e una delle ragazze si artigliò a un lembo della sua gonna sgualcita con le mani scorticate dal gelo. In alcuni punti mancavano strati su strati di pelle.
Avrebbe voluto dirle di non avere paura, ma sapeva che nessuno ci riusciva più dal primo giorno in cui avevano scorto i cancelli del Campo, tanto che la spaventava riuscire a sentire qualcos'altro, in quel momento. La spaventava che oltre il panico e l'orrore, nel suo cervello, si fosse acceso un barlume di curiosità.
- Silenzio!
Le altre ragazze smisero di piagnucolare all'istante. Quando l'ordine arrivava, le lacrime non erano più un diritto.
Sbigottita dalla sensazione dell'aria tiepida sulla pelle, ci mise un po' per capire dove si trovasse. L'interno del blocco era lindo, quasi asettico, con lunghi banconi pieni di fogli, strumenti e persone chine su di essi. Dottori e Dottoresse. C'erano davvero dei medici.
Respirando a fatica, con la paura che se si fosse guardata intorno l'avrebbero punita, tentò di avanzare qualunque spiegazione si celasse dietro quella convocazione, ma l'ambiente la confondeva. Si era appena accorta della fila di porte sulle pareti, quando le divisero, parlando concisamente tra di loro. Le gemelle furono tenute nell'atrio dell'edificio, mentre ad ognuna delle rimanenti veniva assegnata una porta da oltrepassare. Alcuni dei Dottori non si accorsero nemmeno del loro arrivo, quasi fossero invisibili. Avrebbe voluto strappargli gli occhi e puntarli su di sé.
Le guardie si sistemarono in coppia per controllarle. Due a testa, ebbe la forza di contare. Più la pistola puntata al centro della schiena che premeva contro una delle sue vertebre sporgenti come scogli aguzzi.
Scambiandosi un'ultima occhiata con la ragazza dai capelli rasati e il labbro spaccato, si accorse di aver perso sensibilità alla parte destra del volto. Tentò di muovere le labbra per dirle qualcosa, ma metà della sua faccia era ridotta a un formicolio insopportabile. La spinsero dentro prima ancora che avesse il tempo di terrorizzarsi all'idea di cosa avrebbe potuto trovare oltre quella parete.

Un corridoio. Lungo, in discesa, immacolato; di un bianco che feriva gli occhi e dilatava lo spazio fino a inghiottirla. Si sentiva sospesa in un nulla di follia infinita come il bianco, quel bianco dappertutto. La costrinsero a percorrerlo, svoltando di tanto in tanto come in un labirinto incolore, ma fu certa che si stessero muovendo solo quando scorse una donna alla fine del percorso. Al suo fianco si stagliava un'altra porta, l'ennesima. Questa però era diversa: sembrava dovesse tenere a bada una bestia feroce.
La donna con il camice le fece cenno di avvicinarsi. C'era qualcosa di strano, in lei, e nel modo in cui le sue dita pallide artigliavano lo schedario, tendendosi fino a stirarsi sulle giunture.
Con un ordine secco le guardie le comandarono di fermarsi, in attesa che la donna finisse di leggere i documenti che stringeva preziosamente. 
- Che cosa mi volete fare?
Perché non mi uccidete e basta, perché non mi date fuoco e mi lasciate andare via una volta per tutte? Perché non mi lasciate vedervi marcire dall'alto? Perché era sicura che sarebbero marciti. Se c'era ancora qualcosa di sensato, in quel Mondo, sarebbe successo. Prima o poi quel cancro avrebbe cominciato a consumarsi da solo.
La donna continuò a tenere lo sguardo fisso, lontano dal suo, come se non l'avesse sentita. Una delle guardie la spinse tanto forte contro la porta da succhiarle via il respiro. Il candore delle pareti si tinse di rosso. Le ossa sporgenti delle ginocchia cozzarono l'una contro l'altra nello sforzo di tenerla in piedi.
- Per favore. Voglio solo sapere.
Lo sussurrò senza nemmeno pensarci. Per favore. In realtà erano in pochi a pronunciare quelle parole, e lei aveva giurato a se stessa di non farlo mai, ma la morte, comprese infine, era la promessa più antica del mondo, e trasformava in polvere tutte le altre.
Dietro gli occhiali a mezzaluna, degli occhi verdi si convinsero ad incontrare i suoi. Erano passati sei mesi dall'ultima volta in cui aveva scorto il colore dell'erba di primavera.
- Per favore, - ripeté, mentre le lacrime e il muco le bagnavano le labbra.
- Identify yourself.
 Un singhiozzo sordo lottò per uscirle dalla gola, mentre i soldati la tenevano stretta. La donna non era della loro stessa nazionalità.
- Identify yourself.
Era americana. 
Come gli Alleati che avrebbero dovuto seppellire il Campo e radere al suolo quell'abominio. Come chi, si sussurrava nei sogni infranti, sarebbe sicuramente venuto a salvarli, se avesse saputo quale orrore prendeva vita in quel posto. Come chi, evidentemente, sapeva, e non salvava nessuno.
- Figli di puttana, - disse ad alta voce.
La donna fermò il pugno della guardia prima che potesse spaccarle la testa, poi scandì lentamente le sue parole, stavolta in una lingua che potesse comprendere nonostante l'accento insolito.
- Identificati.
Strinse i pugni, digrignando i denti per non piangere. Tenne la schiena dritta, mentre qualcuno le sfrecciava di fianco per aprire la porta. Aveva lo sguardo troppo annebbiato per vedere qualunque cosa, ma il suono delle sicurezze che venivano sbloccate era distinto.
- Vittoria. Il mio nome è Vittoria.
Una smorfia storta attraversò il volto della donna, come se avesse avuto labbra pesanti, di piombo.
- Il tuo numero.
Un suono lungo e grave echeggiò per il corridoio.
- Non sono un numero. 
Fu l'ultima volta, quella, in cui si guardarono, prima che la donna desse l'assenso. Bastò quello, un movimento del capo, e la ragazza venne prelevata di peso, spinta nella Stanza e chiusa dentro ermeticamente. Dai muri cominciarono a vibrare le grida delle altre donne, spaccandole la testa a metà, come decine di pallottole tutte insieme. Le porte si sigillarono di nuovo e lei seppe che era finita.
Dietro una parete riflettente, nel frattempo, una fila di uomini in camice bianco osservava lo spettacolo. Qualcuno era eccitato, ma la maggior parte aveva perso fiducia e sbadigliava con apatia.
- Cominciate.
Quando il Processo ebbe inizio, colse tutti di sorpresa. Erano abituati alle urla e alle suppliche disperate, e con il tempo il divertimento e l'euforia si erano trasformati in noia e mal di testa, ma quello spettacolo era insolito.
La ragazza gridava, e fino a quel punto non c'era niente di nuovo. La classica perdita di tempo rumorosa, aveva imprecato uno dei Dottori.
Ma poi aveva cominciato farlo così forte da coprire il suono delle macchine in funzione, e loro erano riusciti a cogliere qualcosa di sensato nel delirio.
Gridava il suo nome. 
Un uomo dai capelli corti e il sorriso bianco ammiccò alla donna dagli occhiali a mezzaluna che li aveva raggiunti nell'Osservatorio e che continuava a scrivere ininterrottamente sul suo taccuino.
- Questa è quella buona, - sussurrò a bassa voce, in modo che solo lei potesse sentirlo. Sembrava che non avesse mai visto niente di più divertente.
- C'è solo il 2,4% delle possibilità che funzioni, - rispose lei, senza tradire alcuna emozione.
- Da quanto tempo è arrivata?
- Sei mesi. Troppo poco. 2% delle possibilità.
L'uomo poggiò la fronte sulla parete riflettente, invitandola a guardare l'interno della Stanza.
- Guarda come combatte per sopravvivere. Non ho mai visto niente del genere, - sorrise.
- E' quella buona.








Angolo autrice: c'è un momento, nella vita di una fanwriter, in cui l'embrione di una storia propria e originale comincia a prendere forma e non si può far altro che provare a farlo crescere. E' un'impresa folle, ma la voglia di mettersi in gioco c'è tutta. Le tematiche non sono semplici, come avrete capito dall'ambientazione del prologo, ma penso di essere abbastanza matura da poter esprimere il mio pensiero riguardo a certi aspetti dell'esistenza umana. Scrivere una storia fantascientifica/young adult/distopica non è semplice, ma perché non provarci? Spero che qualcuno vorrà vivere quest'avventura con me, aiutarmi, consigliarmi e criticarmi quando serve. Spero che pubblicare il prologo mi darà l'imput per impegnarmi sul resto. Grazie a chiunque passerà e a tutti quelli che mi hanno tra gli autori preferiti. It means the World to me!

PS. Essendo una storia originale, il 98% dei personaggi mi appartiene totalmente; la storia è protetta da copyright.


 

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Capitolo 2
*** L'imprevedibilità di una deviazione casuale ***




capitolo 1 nvu
ENTROPIA: graduale degenerazione di un sistema verso il massimo disordine.


CAPITOLO 1.




Dicembre 2018

Mi sveglio con l'assoluta certezza di stare per morire.
Non appena spalanco gli occhi nel buio un colpo mi scuote con tale violenza che il dolore, irradiandosi, raggiunge le costole con la stessa potenza di un'onda d'urto. Istintivamente mi appiglio a tutto ciò che possa identificarmi come persona ancora in vita. Lo stomaco che pulsa per lo spavento, come se il cuore vi fosse scivolato dentro; un sapore salato sulle labbra dischiuse; il sudore sotto i palmi delle mani: sono tutte sensazioni reali, e questo può significare una cosa sola. Non sono morta. Sono viva. Maldestramente abbandonata sul pavimento, con il naso premuto a terra e un attacco di panico che combatte con gli artigli per prendere il sopravvento, ma viva.
M'impongo di inspirare lentamente, espirare, inspirare di nuovo e buttare fuori aria ad un ritmo regolare.
Nel silenzio, prima ancora di sentire lo scricchiolio dei passi nel corridoio, la percepisco arrivare. Un attimo dopo Lilith sguscia nella stanza, materializzandosi con sguardo distante, come se stesse pensando troppe cose insieme e il mio capitombolo fosse solo una fastidiosa interferenza.
- Sono caduta, - mormoro, facendo leva sulle braccia per alzarmi, - tutto qua.
Una fitta mi attraversa lo sterno, ma cerco di ignorarla e issarmi fino al materasso. Magari possiamo far finta che non sia successo un'altra volta.
- Tornatene a letto.
Afferro la sveglia per non dover guardare in faccia mia sorella. E' notte fonda, ma Lilith è perfettamente vigile.
- Dovresti accendere la luce. La probabilità di avere un'altra crisi diminuirà di quattro venticinquesimi.
Le faccio cenno di sparire. Sono stufa dei calcoli matematici che usa per descrivermi, quasi volesse ridurmi a un problema di geometria, quasi fossi nient'altro che una linea spezzata a formare angoli troppo acuti.
Continuo a concentrarmi sulla respirazione. Mr. S. ritiene che il training autogeno possa aiutare, ma a me fa venire un gran mal di testa.
Lilith si avvicina alla scrivania e preme un minuscolo interruttore: la luce soffusa della lampada a forma di gufo le illumina il viso dalle forme morbide, abbastanza da farmi cogliere l'estensione delle ombre che le sfiorano gli zigomi. Occhiaie. Lilith non ne ha mai avute prima, ma in questo periodo è solita rimanere a studiare fino a tardi. Forse è per questo che mi ha sentita cadere.
Passo le mani sulle lenzuola per asciugarle dal sudore e non apro bocca. Lilith non accenna ad andare via.
- Sai dove trovarmi, se hai bisogno di me.
Sono così incredula che il mutismo mi sembra la replica più efficace. Lilith è sempre gentile e disponibile con tutti, ma non con me. I rapporti all'interno della nostra famiglia si sono deteriorati da troppo tempo, e nemmeno ricordo l'ultima volta in cui mi ha offerto il suo aiuto.
- È che hai urlato per 3:12 secondi, - si giustifica.
Inarco un sopracciglio come so fare io.
- Descrivi il fenomeno.
Il sarcasmo nella mia voce è palpabile, corrosivo. Detesto quando Lilith deve analizzare la realtà come fosse un insieme di numeri. E' una maniera disgustosamente fredda di approcciarsi alle cose.
- Quaranta decibel, direttamente proporzionale all'attacco di panico.
- Grandioso, ho superato qualche genere di record?
- No, per niente, - scuote debolmente la testa, con i capelli che le dondolano sulle spalle in onde castane. La serietà con cui lo spiega mi fa venire da ridere.
- Un insegnante londinese ha emesso un urlo da 129 decibel, quindici anni fa.
Interessante.
- Bene. Grazie della lezione, ma adesso vattene. Chiudi la porta.
Indugia come in attesa di qualcosa. Le do la schiena per farle capire che ne ho avuto abbastanza per questa notte.
Alla fine Lilith parla con un filo di voce.
- Quando perdi il controllo i test si attivano.
- Che?
La porta viene chiusa di nuovo, e quando mi volto Lilith è sparita. Al suo posto, vicino al letto, c'è un libro che non ricordo di aver mai comprato.
"Selezione Naturale."
Probabilmente Lilith stava studiando questa roba prima di venire in camera mia.
- Maniaca.
Il sonno non tornerà troppo presto, quindi tanto vale che trovi qualcosa con cui ingannare il tempo. Scelgo una pagina a caso e faccio scorrere lo sguardo sui paragrafi. Il primo concetto biologico di cui leggo il titolo basta a farmi dichiarare resa totale.
"Sopravvivenza del più adatto."
Mi chiedo se si possa definirmi una persona adatta, ma poi ci penso su e cambio domanda. Che cosa vuol dire essere una persona adatta?
Lancio il libro dall'altra parte della stanza per scaricare la rabbia e finisco per rompere la lampada. Non c'è più luce.

***

Salgo in macchina con l'assoluta certezza che qualcosa andrà storto. Sono una ragazza piena di certezze, come la maggior parte dei miei coetanei. E, come per la maggior parte dei miei coetanei, queste certezze si rivelano ciarle inconsistenti rivestite da una buona dose di fatalismo.
Poggio la fronte sul finestrino umido, ritrovandomi a pensare allo psicologo della scuola. E' un uomo sulla quarantina con la fronte minuscola e lucida. Lilith ha confidato alla mamma che dopo sette anni di risparmio assiduo si è sottoposto ad un trapianto di capelli.
"Osserva il tessuto epiteliale sull'attaccatura. E' elementare."
Fa impressione che un uomo del genere mi abbia diagnosticato un "disturbo ansioso cronico-e-generalizzato". Non sono sicura che una patologia del genere esista davvero: sono una persona generalmente ansiosa o la diagnosi in generale è generalizzata e incerta? Niente diagnosi, niente cura. Lilith non fa che ripeterlo.
Il fatto è che Mr. S. non è un grande psicanalista, però è un bravo giocatore di scacchi, e durante le sedute mi insegna qualche trucchetto. Quando si tratta di affrontare il problema, però, la sua sentenza è sempre la stessa: "la gioventù d'oggi è oppressa dalla Rottura."
Lo dicono tutti da quando il sistema è crollato e i continenti hanno cominciato a separarsi. La crisi economica è peggiorata, l'Europa ha dimezzato i Paesi membri, gli Stati Uniti hanno violato la dichiarazione dei diritti dell'ONU e tutto il resto è stato come giocare a domino. Insomma, la solita storia di tre anni fa.
Sbadiglio rumorosamente e chiudo gli occhi, anestetizzata dalla stanchezza della notte insonne e dal parlare incessante di mia sorella. E' fin troppo loquace, e infilarsi le cuffiette nelle orecchie non basta a coprire la sua voce, ma oggi non m'importa. Se Lilith fa abbastanza chiasso da distrarmi, riuscirò a scrollarmi di dosso il presentimento sinistro che mi ronza dentro da stamattina.
Non è la prima volta che succede, e Mr. S. ha detto che è normale per una persona "con problemi". Come se i problemi non li avessero tutti. Oggi, però, il senso di soffocamento legato allo stato ansioso mi si è appeso addosso a peso morto.
Qualcosa andrà male, lo sento, e al diavolo il fatalismo.
Mi sporgo sul sedile davanti per dare un'occhiata alla situazione. Lilith, con il suo completo verde chiaro e una treccia ordinata che le ricade sulla spalla, tiene stretto tra le mani un icosaedro di vetro. So che è un icosacoso solo perché lo sta spiegando nei minimi dettagli, aggiungendo decine di termini incomprensibili di cui non conosco il significato. Le scienze matematiche non sono il mio campo.
Faccio per toccarlo con una mano, ma Lilith mi scansa come si fa con una farfalla: usando delicatezza per mascherare l'irritazione.
Mi pizzico una gamba per distogliermi dall’idea.
Mr. S. ha dice che è essenziale smettere di pensare male di chiunque. Devo avere fiducia nelle persone.
La mamma annuisce impacciatamente, con l'aria di chi a stento riesce a capire una parola su dieci. Ha le rughe intorno alle labbra, calchi di stanchezza e rassegnazione, ma il peggio per lei è passato. Finalmente la battaglia contro mio padre è diventata solo legale.
- Spero di vincere il concorso nazionale. Ci ho lavorato senza interruzione per quattro mesi e sono pronta a farlo funzionare. La commissione ne sarà entusiasta.
- Vinci ogni anno, tesoro. Non sarà diverso dalle altre volte.
Arriccio il naso con disappunto: è scontato che Lilith porti a casa qualunque premio venga messo in palio, ma sentirselo ricordare tutti i giorni può diventare sfiancante, anche se nessuno pare rendersene conto.
- Non c'è niente che tu abbia compreso del mio progetto, eppure trovi semplice minimizzare i miei meriti.
Una frenata stridente.
Devo puntare le ginocchia sul sedile anteriore per non volare via.
- Merda!
- SYBIL!
- "Mannaggia", ho detto "mannaggia".
C'è un breve istante di silenzio, poi mamma artiglia le mani sul volante e tiene gli occhi fissi sulla strada fino a quando non arriviamo davanti al cortile della scuola.
- Sei troppo intelligente per tutti noi, tesoro, - mormora infine, con una nota triste nella voce.
Emetto un grugnito seccato e torno a guardare fuori, ma prima ancora di scendere dall'auto riesco a sentire Lilith che sibila qualcosa tra sé e sé.
- Già.
I nostri sguardi si incrociano per un istante attraverso il riflesso dello specchietto, ma subito dopo Lilith scocca un bacio sulla guancia della mamma e scende come se nulla fosse successo.
Già.
Prima d'ora Lilith non si era mai vantata di quello che è universalmente riconosciuto da tutti: mia sorella è un genio. Le maestre di scuola sono state le prime a rendersene conto. Erano solite consegnare una caramella a chi imparava nuove lettere dell'alfabeto, rispondeva correttamente alle loro stupide domande o memorizzava per primo le filastrocche. Ogni giorno Lilith tornava a casa e svuotava lo zainetto pieno di dolciumi sul tavolo del soggiorno.
C'è dell'altro, però, qualcosa che mi è stato raccontato e di cui, troppo piccola, non potevo accorgermi. Prima ancora di levarle il pannolino Lilith aveva già compiuto prodigi: aveva cominciato a camminare due mesi prima della norma, a parlare fluentemente con largo anticipo rispetto ad un bambino considerato precoce e a leggere, scrivere e fare di conto a tre anni.
Lilith a dieci anni parlava quattro lingue, a tredici ne conosceva sei. Lilith ha sempre costruito oggetti tra i più insoliti, e adesso che di anni ne ha sedici dipinge, suona, e balla come se tutti i talenti del mondo le fossero innati.
E' un genio in qualunque campo si sia mai applicata.
Già.
Però mai aveva guardato qualcuno dall'alto in basso. Per lei, una ragazza dalle movenze eleganti e il parlare raffinato, nessuno ha mai avuto meno dignità. E nonostante non scorra buon sangue tra di noi, Lilith non si è mai definita superiore a me. Si è perfino rifiutata di sottoporsi a test per il calcolo del quoziente intellettivo o roba del genere.
Tutto fino a oggi.
Invece di seguire mia sorella oltre l'ingresso della scuola rimango poggiata alla macchina e batto un dito sul finestrino ricoperto di brina, nascondendomi tra le pieghe della sciarpa. Il vetro si abbassa, svelando la tensione di mia madre.
- Chiamami appena ti annunciano il verdetto, va bene?
Lei sembra pensarci un po' su, ma so che sta prendendo tempo: la campanella di inizio lezioni comincia a suonare, lasciando la risposta sospesa nell’aria invernale.
Il finestrino sale e sono costretta a farmi da parte.
- Va bene? – insisto, cercando un assenso oltre i microscopici cristalli di ghiaccio.
- Non fare tardi, Sybil.
Mia madre ingrana la prima e l’auto si allontana. La guardo andare via senza sapere che cosa pensare: è diventato così semplice sfuggire a una conversazione spiacevole, che delle volte ho paura che questo sia solo il primo passo. Forse un giorno non avremo più bisogno di parlare l’un con l’altro grazie alla scusa di non avere mai abbastanza tempo.
Mi sistemo lo zaino in spalla e strascico i piedi fino all'aula di matematica, dove mi lascio cadere sulla sedia e nascosta dal chiacchiericcio incessante dei miei compagni di scuola mi rintano a leggere. Smetto di pensare a qualsiasi altra cosa, smetto di sentire, di parlare, di preoccuparmi. Mi basta poco per far finta di essere da un’altra parte.

***

- Sei un disastro.
La classe è deserta quando mi guardo intorno: ci sono fazzoletti usati sui banchi e cartacce per terra. Lo sporco e la maleducazione spiccano solo quando qualcuno rimane indietro a contarne i danni.
- Sybil, dico a te.
Il professore arriccia la fronte solcata da ragnatele di rughe.
- L’ho sentita.
- Dopo due ore di lezione. Ti ho già detto centinaia di volte che non ti è concesso leggere durante le mie spiegazioni.
Infilo i quaderni in borsa con gesti che tradiscono il nervosismo. Solitamente è un gioco da ragazzi sfuggire alle sue ramanzine, ma quando si è in branco come lupi è più semplice sventare l’offesa di questa vecchia volpe.
- Vero. Però Sharpe può mandare stupidi sms a quella tipa del quinto anno, e Green può smaltarsi le unghie.
Mi alzo di malavoglia e aspetto una risposta, sfoggiando una finta aria strafottente.
- Non possono, naturalmente. Ma almeno, se li richiamo, hanno la decenza di improvvisarsi degli angioletti, rifilarmi il “non stavo facendo nulla di male” e tornare ad ascoltare la lezione.
- Per dieci secondi.
Il collo di D’hall si ricopre di chiazze rosse, segno che sta perdendo la pazienza. Se dovesse venirgli un attacco di cuore a causa mia, quasi sicuramente non potrei perdonarmelo.
- Per avere la tua attenzione dovrei comprarmi un megafono, Sybil, e questo è inaccettabile, considerata la tua media nelle mie materie.
Abbassa lo sguardo sulla sua cartella e ne estrae un foglio ricoperto di linee rosse, ma non mi serve una delucidazione per capire di che cosa si tratta, così mi rassegno e prendo in mano il mio compito.
- E’ una D?
- E’ una F!
Firmo la verifica con l’amaro in bocca e faccio per filarmela. Avrò un bel po' da fare durante le vacanze di Natale.
Ci sono abituata e me la caverò, è solo che vado forte nelle discipline umanistiche.
- Buona giornata, professore.
- Sybil, i tuoi problemi familiari non sono una giustificazione, lo sai?
- Sì, certo che lo so.
- Se chiedessi a tua sorella di darti una mano, le cose cambierebbero. Possono sempre cambiare.
- No.
- L'avevo detto che eri un disastro.
- No, - ripeto, ed esco dalla classe sbattendo la porta.

***

Il resto della mattinata non passa abbastanza in fretta da evitarmi un controllo ossessivo del display del telefono. All’ora di pranzo provo a mandare giù un boccone con qualche amico, ma lo stomaco si oppone. So che non riuscirò a mangiare fino a quando mia madre non si sarà fatta sentire, così comincio a cercare Lilith in giro per la scuola. Il processo dovrebbe essersi concluso da un pezzo, e sicuramente lei è più informata di me. Mia sorella è sempre la prima a venire al corrente delle novità.
La trovo sotto una quercia spoglia, in un’accesa discussione con i suoi compagni di corso. Il tipo smilzo che le sta sempre addosso è attraente, però si chiama Ranulph ed è un tipo strano. Molto più strano di me, intendo.
Cerco di attirare la sua attenzione, sventolando un braccio per aria.
Lilith non dà segno di essersene accorta, e sospetto che ignorarmi le venga naturale.
Mi mordo l'interno della guancia per scacciare l'idea. Devo avere fiducia nelle persone.
Tossicchio parecchio e platealmente, ma niente.
Per sicurezza controllo lo schermo del telefono un’ultima volta, poi mi avvicino quel tanto che basta a farmi sentire e cerco di mantenere un tono distaccato.
- Hai dimenticato il tuo volume di biologia.
Svariate paia di occhi mi inchiodano sul posto. Non li definirei necessariamente ostili, quanto piuttosto sorpresi. Non mi meraviglierei se alcuni di loro nemmeno conoscessero il mio nome: Lilith non parla mai di me, né io di lei, ma la somiglianza tra noi due è innegabile. Non potremmo far finta di non essere sorelle.
- E’ nel mio armadietto, dovresti venire a riprenderlo prima che me ne dimentichi.
Lilith rivolge un cenno fin troppo eloquente al gruppo e sussurra un “a dopo” dalla sua affabilità snervante. Il lato positivo dell’averla come sorella è che è maledettamente perspicace. Le basta ascoltarti un istante per capire che c’è qualcosa che non va.
Nessuna delle due dice niente fino a quando non troviamo un angolo appartato del cortile. I suoi compagni hanno già distolto lo sguardo, ma Alphy - quel Ranulph, il suo migliore amico - ci tiene d’occhio.
- Che ha detto mamma?
Sospira, divertita.
- Il volume di biologia.
Mi agito con impazienza, dondolandomi sui piedi per scaricare l'ansia. Scommetto che non ci sono buone notizie.
- Non fare la finta tonta. Avrebbe dovuto chiamarmi appena emanata la sentenza, ma deve essersene dimenticata.
Dimenticata, certo.
- Tu hai saputo niente?
- L’udienza è stata rimandata. A quanto pare c’è stata una violazione del principio del contradditorio.
Lilith lucida delicatamente il suo icosaedro di vetro.
Le sue parole mi vorticano in testa senza controllo, e fanno vorticare anche tutto ciò che ho dentro. Devo mantenere la calma.
- Che cosa significa?
- Non avresti dovuto farti illusioni.
Lo dice come se provasse pietà di me.
- Dimmi che significa!
La tiro forte per un braccio, ma si divincola dalla mia presa quasi la tenessi stretta con una striscia di carta. Sentire i suoi muscoli contrarsi sotto il palmo della mano è inquietante: a vederla non si direbbe che Lilith nasconda tanta forza. Mi rivolge un'occhiata serena. Come fa a non scomporsi mai? Come ci riesce?
- Significa che a quanto pare è stato negato a nostro padre il diritto di difendersi in tribunale. Significa che dobbiamo ancora sfamarlo. Mi meraviglia che ti aspettassi qualcosa di diverso.
Tento malamente di incassare il colpo, ma dal calore del sangue che mi brucia le guance capisco di aver toccato le sfumature più impensabili di colore.
- Conosci la parola "burocrazia", Sybil?
Pensavo che le lezioni fossero finite, e invece mi tocca sorbirmene un'altra.
- Non ha importanza. Del resto le parole che conosciamo hanno sempre il significato che ci fa più comodo attribuire loro. In realtà la burocrazia è un gioco. Nonostante il caso sia assolutamente essenziale e banale, l'avvocato di nostra madre sta giocando con il difensore legale di nostro padre per allungare il processo. Così fanno anche i giudici, del resto. Devo spiegarti perché?
Denaro. Semplice. Non so che cosa fosse la burocrazia un tempo, ma dopo la Rottura deve essere diventata una macchina per fare soldi.
Alzo lo sguardo su di lei con gli occhi che pungono. La mia richiesta suona così stupida e infantile che mi faccio tenerezza.
- Parlaci tu.
Tiro su con il naso. C'è che il raffreddore lo fa gocciolare, nient'altro. E c'è che non posso sopportare un altro mese di questo schifo. L'ho sopportato per sedici anni, e il solo pensiero è una sferzata sul cuore. Mio padre deve sparire dalla nostra vita, se non per dovere morale, per legge.
- Per favore. Lo hai fatto altre volte. Con quel neurologo, quello famoso, quando la mamma se la passava male. E poi con la preside, e con il procuratore. Sappiamo entrambe che parlando con il giudice troverai un modo, Lil.
Alphy, che nel frattempo si è avvicinato, ha teso un orecchio verso di noi. Anche se non vuole ammetterlo, so che Lilith si vergogna della situazione almeno quanto me, per questo spero che lo mandi via.
- Allora?
- No.
Ingoio a vuoto.
- Perché?
- Perché ho sedici anni.
Sì, ha sedici anni. E a sedici anni non si dovrebbe portare certi pesi sul cuore, né certe responsabilità, ma un rifiuto da parte di Lilith è impensabile.
- Lo so, - dico a denti stretti.
So che sarebbe ingiusto chiederlo a chiunque altro, però Lilith ne è capace. Lei può sempre fare qualcosa.
- Li ho anche io, sedici anni, ma a differenza tua non posso cambiare le cose.
Mi fissa con l'espressione impenetrabile della Gioconda. Forse scorge l'invidia che da anni mi consuma nella consapevolezza di non essere alla sua altezza. Ci ho provato e riprovato, ma ogni tentativo è stato un buco nell'acqua.
Ironia della sorte: una sorella è incredibilmente dotata e già influente. L’altra, suo esatto riflesso distorto, ne è solo una replica mal riuscita, troppo normale per competere. Essere costretta a chiedere il suo aiuto è solo l'ennesimo fallimento, e mi fa sentire come se stessi calpestando la mia dignità insieme al fango del cortile.
- C'è una forza motrice più forte del vapore, dell'elettricità e dell'energia atomica: la volontà.¹
Un suono gutturale mi esce dalla gola. Premo i palmi delle mani sugli occhi fino quasi a sfondarmi la fronte. Devo mettercela tutta per non cominciare ad urlare.
- Allora usala, porca miseria. Se è una questione di volontà, che ti costa? Dio, stiamo parlando della nostra famiglia, e stanotte mi hai...
- Ho detto di no.
La guardo in cagnesco da dietro una gabbia di dita.
- Perché?
Lilith calcola l’ora attraverso la proiezione della sua ombra sul terreno. Sembra colta di sorpresa, e indugia nella sua operazione più del solito: vuole esserne assolutamente certa.
- Non ho davvero tempo per queste stupidaggini. Non mi riguardano più.
Non mi muovo.
Rimango immobile in uno stato di fissità catatonica che sembra aver atrofizzato i polmoni per impedirmi di respirare e fare troppo rumore. Non ho idea di che cosa sia la fissità catatonica. Non mi interessa. Non mi muovo.
Alphy e Lilith capiscono cosa sta per accadere prima ancora che sia io a deciderlo. Lo fanno quando ancora non mi muovo. Non mi muovo. Poi, però, i muscoli si contraggono senza un comando apparente. Mi lancio su quel genio di mia sorella con l’istinto ferino di spaccarle la testa a metà, ma all’ultimo secondo cambio idea e faccio a pezzi qualcos’altro.

***

Non riesco a credere di averlo fatto davvero. In un primo momento i cocci aguzzi dell'icosaedro di vetro e le crepe spezzate che attraversano quanto ne è rimasto mi inorridiscono. Poi, però, l’ilarità generale mi contagia e mi lascio trascinare dagli applausi. L'aria si riempie di risate sguaiate.
- Ottipregono.
Alphy accorre e si lascia cadere in ginocchio sul prato, armeggiando con il congegno rotto di Lilith tra una parolaccia e l’altra. Ciuffi disordinati gli sfuggono dalla fascia di pile che li tiene lontani dalla fronte.
- Che diavolo hai combinato?
- L’ho lanciato. L’alternativa era la sua testa.
Ammicco al marchingegno, ansimando per lo scatto furioso con cui l'ho fracassato. E’ con estrema spensieratezza che mi rivolgo a mia sorella, che tiene ancora le mani sospese a stringere il nulla. Non provo nemmeno a nascondere il piacere infantile di aver distrutto un frutto del suo ingegno.
- Aggiustalo. Puoi farlo, no? Tu, o uno dei tuoi amici da premio Nobel.
- Non hai idea di quanto Lilith avesse lavorato a questo progetto. C’era in ballo il riconoscimento per le alte tecnologie più illustre della nazione!
Alphy è più buffo del solito quando è arrabbiato; qualcun altro lo zittisce. Vogliono godersi la scena, è comprensibile.
- Rimonta il tuo giocattolo, schifosa egoista. Questo ti riguarda abbastanza, non è vero?
Altre risate.
Chissà se Lilith si sente in imbarazzo. Guarda il suo tesoro di microchip e cavi, poi me. Di nuovo l’icosaedro in pezzi, di nuovo me. Ed è come vivere sulla propria pelle la deviazione casuale di una goccia di pioggia in caduta libera. E’ l'unica immagine che riesce a descrivere la sensazione che mi assale: un momento prima mi sto vantando del mio futile trionfo, quello dopo mi ritrovo senza fiato, in prenda allo smarrimento.
La mia voce si incrina in un suono stonato, mentre sento il sangue addensarsi nelle vene. La nausea mi travolge.
Maledizione, che mi succede? Strabuzzo gli occhi per focalizzare ciò che mi circonda, ma ci riesco a malapena.
Non ho altri dubbi. Il brutto presentimento si è trasformato in un attacco di panico.
Una volta per tutte ho la prova inconfutabile di essere diventata pazza prima del normale. Di solito, a meno che non stia sognando, le crisi non mi assalgono senza una causa scatenante, e gli sbalzi d’umore non sono mai tanto repentini da farmi sembrare una squilibrata.
Non adesso.
Non adesso.
Lilith dovrebbe essere quella che perde il controllo, a questo punto.
E’ scienza.
No, non lo è. Perché dovrebbe esserlo? Perché ci ho pensato? Niente pensieri sconnessi, devo riuscire a tenerli fuori.
La folla è confusa, ma scommetto che trova l’evoluzione degli eventi un vero spasso.
- Ripara la tua lampada. Potrebbe servirmi visto che stanotte ho fatto fuori la mia. E' una lampada, vero?
Con estrema, estrema lentezza Lilith si sistema i polsini della camicia, e qualcosa nel suo intero essere si trasforma. E’ impercettibile e terribilmente chiaro allo stesso tempo: per la prima volta in vita mia mi sembra di avere davanti un’estranea.
- Non è una lampada. E' il primo previsore sismico della storia, – mi rimprovera.
Il poliedro scheggiato scatta. Alphy fa un balzo all’indietro, con gli occhi sul punto di uscirgli fuori dalle orbite.
- Lilith, io non... Non ho attivato niente, pensavo fosse rotto!
Due aste di metallo scuro escono dal marchingegno e si infilano nel terreno umido, poi una luce flebile comincia a tremolare tra le facce di vetro infranto.
Sta lampeggiando.
Senza spiegarmi come sia possibile, trovo in quella luce intermittente la chiave della mia crisi di panico.
Sta per succedere qualcosa di brutto e, nella mia testa, di inevitabile.
- Di cosa hai detto che si tratta? – balbetta Alphy.
- Previsore Sismico.
- Non esistono macchine del genere, Lil. Il brevetto per un’invenzione del genere ti renderebbe una delle persone più ricche del pianeta. - Alphy si fa più vicino con aria sospettosa. Essere al centro dell'attenzione è un'agonia, per tipi come lui.
- E’ impossibile prevedere un sisma, tantomeno con questo scricciolo. Sarebbe come fare a gara con la Natura e arrivare un passo davanti a lei, cacchio.
- No che non si può! – mi ritrovo a gridare solo per far uscire aria dal corpo e abbassare la pressione. Un istinto vecchio come il mondo mi divora: mi urla di scappare, di correre a perdifiato, perché qualcosa di orribile sta per accadere. E’ così chiaro che sembra scritto nella Terra stessa.
- Ma lei adora giocare a fare Dio, - ringhio.
Ho paura e non so di che cosa. Forse ho paura di tutto, ed è questo che intendeva Mr. S. quando parlava di "disturbo generalizzato". Improvvisamente, però, Lilith mi sembra il nemico peggiore che abbia mai avuto, ed è lei ciò che mi spaventa di più.
Sto impazzendo.
Sono andata.
Eppure Lilith non batte ciglio. La sua espressione si fa calma e concentrata. Mi esamina attentamente, come se il resto del mondo non esistesse, come se le risate tutt'intorno facessero meno rumore di un granello di polvere che cade. Annuisce con pacatezza, poi muove le labbra in un bisbiglio.
- Se attivi i test, prenderanno anche te.
Non è reale. Ho già avuto sintomi del genere una volta o due e dovrei avere imparato a riconoscere quando il mio cervello si spegne. Niente di brutto sta per accadere. Scuoto forte la testa per scacciare la follia.
Devo avere fiducia che sia tutto qui dentro. Dentro la mia mente.
Ho solo bisogno di una partita a scacchi con Mr. S.
Lilith sposta la sua attenzione sul terreno, e pare che riesca a vedervi attraverso. Chissà quante cose vede, cose che noi altri nemmeno immaginiamo.
- Non è esattamente un sisma, - sospira, - ma il prototipo di previsore funziona.
C’è una vibrazione sorda nel terreno.
E' così che comincia.
E mia sorella sorride, dolce come il miele.
Non è reale, giusto? Non se l'ho percepito solo io.
Una scossa più violenta fa gridare l'intera scuola e pietrifica Alphy in una maschera d'orrore.
Quando gli allarmi dell'Istituto scattano, prendo in considerazione l'idea che non sia poi tutto qui dentro. Impossibile, mi rifiuto di crederci.
Mia sorella invece non sembra farci troppo caso.
Irreale?
Fuori i pensieri sconnessi.
Non riesco a capire.
Ma devo avere fiducia.
Lilith si porta le mani sulle orecchie come una bambina in attesa dei fuochi d'artificio.
E la scuola esplode.






1. Albert Einstein.

Angolo autrice: oh dear, finalmente ho aggiornato. Sarà che questa storia mi gira in testa da anni ed è talmente complicata che ridurla per iscritto è una sfida davvero ardua. Ci sono cose che sicuramente non vi sembreranno chiare, che vi lasceranno perplessi, o che vi appariranno scontate. Vi assicuro che avranno una spiegazione. Che cos'è la Rottura, per esempio? Ogni cosa a suo tempo, vi basti sapere che amo le distopie, ma trovo poco originale che tutti le riducano al post apocalisse, quindi volevo qualcosa di diverso. Questo è un progetto pazzo, ma sono decisa portarlo avanti e spero che riuscirò ad incuriosirvi. Btw, non ho altre note. Chiarisco solo che i personaggi presentati fino a questo momento sono Americani. Per qualunque chiarimento sono qui, chiedete pure.
Ringrazio Viola per i preziosi consigli che mi ha dato. Mi dispiace che il primo capitolo non le sia piaciuto, ma prima o poi rivedrò tutto ciò che stona, promesso! Ringrazio anche le 46 persone che mi hanno inserito tra gli autori preferiti e mando un bacio a Liz, lettrice sempre entusiasta, a Charly (<3) e a coloro che gentilmente vorrano lasciare un commento alla mia prima storia originale.



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Capitolo 3
*** L'irreversibilità di una reazione di combustione ***


Capitolo 2
Irreversibilità: una reazione chimica si dice irreversibile quando  non è possibile
 recuperarne  i reagenti una volta che questi si sono trasformati in prodotti.
Le irreversibili sono reazioni di non-equilibrio.
C(g) + O2(g) → CO2(g)


CAPITOLO 2.

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Il disastro non ha suono.
C’è solo un innaturale silenzio qui intorno, qui dentro, qui. Nel petto, dove non riesco a sentire il soffio del mio respiro.
Tento di schiudere le palpebre incollate, ma se apro gli occhi ciò che vedo è una miriade di punti cangianti che vorticano in un moto disordinato. La velocità strappa loro strati su strati di  colore, e non passa molto tempo prima che comincino a sbiadire. Quando riesco a focalizzare la fanghiglia sotto di me sono ancora del tutto sorda. Improvvisamente mi sento soffocare dalla paura irrazionale che in questa campana di vetro nella quale non c’è alcun rumore l’aria finirà per consumarsi.
Se non lo sentissi pulsare sottopelle non riuscirei a credere che il mio cuore possa battere tanto affannosamente senza martellarmi i timpani.
Delle braccia gracili mi tirano verso l’alto, ma le ginocchia non riescono a reggere il mio peso. Scivolo di nuovo, ancora e ancora.
Qualcuno mi scuote forte per convincermi ad alzarmi.
Non posso sentirti, chiunque tu sia. Non sento niente.
Una ragazza dai capelli corti muove la labbra spaccate in un muto incitamento. La osservo, confusa. Carne viva le scivola lungo il mento appuntito.
Vorrei poter c –
Uno strattone.
Il polso fa male quando lo artiglia per rimettermi in piedi, ma ritrovato l’equilibrio il Mondo smette di dondolare e si ferma ad aspettarmi. Strabuzzo gli occhi per orientarmi. Tutto ciò che vedo è –
Strattone.
La spingo lontano, mormorando un ringraziamento che non sono sicura di aver detto ad alta voce. La ragazza si dilegua senza  pensarci due volte. La seguo con lo sguardo, e alla confusione subentra il panico. Questa volta non ho bisogno di soluzioni psicoanalitiche per capire che cosa stia succedendo, né di una partita a scacchi con Mr. S.
La scuola in fiamme è una spiegazione sufficiente.
Comincio a ricordare che cosa è successo, immobilizzata dallo smarrimento e dal dolore delle contusioni. Io e Lilith stavamo parlando - no, litigando, - quando il sensore ha cominciato a brillare, e l’ala est (sud?) è saltata in aria.
Mi guardo intorno con la vista che trema: le pareti dell’edificio si stanno sbriciolando come gesso, e di Lilith, come del suo sensore, non c'è traccia.
Ingoio la saliva per stapparmi le orecchie ovattate. Ci riprovo. Spalanco la bocca e la richiudo più volte, allontanandomi dalla l'area in fiamme. Eco indistinte riempiono il cortile, coperte dal ruggito del fuoco.
Attentato.
E’ la prima parola che riesco a sentire mentre cerco di infrangere la campana di vetro una volta per tutte, ma suona distante come il ritornello di un incubo.
Terroristi.
L’ultima volta che qualcuno ne ha parlato è stato durante la Rottura: dopo quell’Inferno nessuno aveva più avuto il coraggio di discuterne pubblicamente. I Governi rimasti avevano giurato che niente del genere sarebbe più accaduto, ma i governi ci hanno mentito così tante volte che perfino per Loro è diventato difficile rintracciare il filo connettore delle loro bugie.
Decine di studenti mi sfrecciano vicino, in preda al panico generale. Un campanello d’allarme mi scuote le interiora, costringendomi a pensare. Non posso rimanere qui. Non ho nessuna intenzione di diventare un arrosto.
Mi devo concentrare. Non ho tempo di cercare una spiegazione, né di avere fiducia.
Seguo il coro delle voci terrorizzate, instabile e ubriaca d'angoscia. Un piede dopo l’altro mi avvicino alle classi ancora intatte. L’ala nord (ovest?) non è ancora crollata.
Non posso guardarmi indietro. Ciò che conta è andare via e seguire il protocollo d’emergenza, ma non me lo ricordo. Dio, non lo ricordo. E sembra tutto così assurdo che forse potrei lanciarmi nel fuoco e scoprire che è tutto uno gioco, uno scherzo della mia mente.
Fuori i pensieri sconnessi, direbbe Mr. S. 
Mr.S.
che a quest'ora potrebbe essere ossa annerite e polvere e carbone.
Niente distrazioni. Protocollo d’emergenza.
Qualunque esso sia è chiaro che gli studenti non lo stiano mettendo in pratica: corrono, strillano, si sparpagliano e si spingono l’uno con l’altro. Quando mi accorgo di intralciare la loro fuga disperata verso i cancelli è tardi. Ho solo il tempo di accorgermi che se c’è qualcosa di più pericoloso di un incendio, è la paura. Poi mi sono addosso.

***

La sensazione è quella di venire investita da una mandria inferocita che mi assale fino a farmi perdere la cognizione dello spazio tutto intorno. Sento braccia tirarmi da parte e spalle spingermi con violenza, e puzza di bruciato e di sudore e di sangue. 
Il caldo emanato dai loro corpi che premono contro il mio è soffocante.
- Emily!
C’è una ragazza per terra, la stessa che mi ha aiutato ad alzarmi. Punto i piedi per terra e ammortizzo la spinta seguente, cercando di riprendere il controllo della situazione pur di non pestarle la testa. Quasi riesco a immaginare lo scricchiolio delle sue ossa quando decine di persone le schiacciano le mani. Le faccio scudo con la schiena, ma non sono abbastanza forte, e l’onda mi trascina via senza che possa opporre resistenza. Guardo i volti delle persone che mi circondano senza riconoscerne alcuno. Questo è il risultato di 10 anni di esercitazioni eseguite con troppa leggerezza, quando erano nient’altro che l’occasione di stringere la mano di qualcuno che ci piaceva.
Una mano come quella che si allaccia alla mia, trascinandomi lontano dal fiume in piena. Non c’è possibilità di risalirlo, né di lasciarsi travolgere dalla corrente: chi mi tiene stretta fende la marea di studenti di traverso, scivolando tra una persona e l’altra. Una gomitata mi cozza contro le costole, piegandomi in due, ma le dita mi stringono con disperazione e non mollano la presa fino a quando non siamo fuori. Braccia magre salgono a toccarmi le spalle in un abbraccio timido e maldestro, ma ricadono subito dopo. Basta questo a ricordarmi perché io e Alphy non possiamo essere amici. Ne ora né mai.

***

- Tu.
- Io, - rispondo.
Entrambi abbiamo il respiro affannato. Io per il dolore al petto e la fatica, lui per lo sforzo di averci tirato fuori dalla ressa e per lo sconforto che gli si legge sul volto.
- Credevo che fossi…
- Lilith, sì. Deve essere scappata insieme a tutti gli altri.
E’ quello che continuo a ripetermi, almeno. 
Pur di non guardarlo comincio a strusciare i polpastrelli vicino alle orecchie per controllare i danni all'udito. L'ho visto fare in un telefilm, qualche volta. Alphy stringe gli occhi grigi per nascondere la delusione.
- Grazie per avermi tirata fuori di lì, - dico amaramente, e allo stesso momento le sue parole coprono le mie.
- Stai bene?
Ci penso su prima di rispondere.
- No, per niente. Che diavolo sta succedendo?
Ci siamo allontanati dall’edificio in fiamme abbastanza da poterci concedere una tregua: le fondamenta della parte vecchia della scuola, quella costruita prima della Rottura, rovinano su loro stesse in un’esplosione accecante, coprendo il suono degli allarmi. Qualcuno deve aver chiamato i soccorsi.
- Non lo so. Non c’è stato tempo di fare supposizioni, ma di qualunque cosa si tratti questo disastro non è la conseguenza di una semplice fuga di gas.
Mi appoggio alla sua spalla per combattere la nausea, sebbene tremi più di quanto non faccia io. E’ appuntita, dalle ossa sporgenti e leggermente curvata verso il torace, come se Alphy non facesse che cercare di raggomitolarsi per cercare scomparire.
- Che intendi?
Quasi mi stupisco di quanto la mia voce suoni distante. Decine di aule vengono evacuate, e alle nostre spalle ululano le sirene dei vigili del fuoco.
- Guarda, - risponde, - guarda il colore del fuoco.
E io non posso non guardare le fiamme che danzano verso l’alto, come dita bellissime e terribili che cercano di catturare il fumo. Non posso non guardare il modo in cui il rosso sfuma fino a brillare di un azzurro fosforescente e gelido, perché mai ho visto qualcosa di così innaturale in tutta la mia vita.
- No, non.. Non è possibile. Il fuoco non può avere il colore del ghiaccio.
- Certo che può, - le sue labbra si schiudono appena quando parla. Oltre gli occhiali nasconde quell'aria intellettuale tipica dei lineamenti di Lilith.
- Sì, se siamo sul set del prossimo X-Men!
- Può, - sbotta a voce stridula - se brucia a 1400 gradi centigradi e c'è qualcuno ad alimentarlo!
Alphy mi rimprovera di aver nominato X-Men in un momento del genere, e si rifiuta di scappare. E' tanto incuriosito quanto sicuro che il fenomeno non possa durare oltre.
Non sono mai stata un scienziato, né potrei darmi alla chimica in un momento del genere, ma le sue parole basterebbero a spiegare ciò che succede subito dopo.
Le vampate, che in pochi minuti hanno inglobato una grossa fetta dell’Istituto, perdono lucentezza, tornando dall'azzurro al bianco e dal bianco a tutte le gradazioni del rosso. E’ uno spettacolo surreale, sospeso nel calore insopportabile dell'aria. Per quanto mi sforzi di convincere Aplhy ad andare via, non riesco a staccare gli occhi dalla striscia di morte che rincorre tutto ciò che non sia ancora stato ridotto in cenere.
Ed è così che la vedo, a fare strada al fuoco, addentrandosi in un edificio che ancora resiste al crollo. Unica rimasta a sfidare la pira. Gonna verde pastello e treccia castana. Lilith.

 

***

Sono un animale che segue l’istinto. Le mie gambe si muovono senza altro comando che quello inconscio di continuare a correre. E’ questo che fanno le sorelle quando una delle due è in pericolo, anche quelle che, come noi, non riescono che a detestarsi? Si precipitano nel bel mezzo di un attentato? L’unica certezza che tengo a mente è che non mi posso fermare. Se questo è reale come l’odore di fumo che impregna l’aria e la scuola brucia e la gente muore, devo raggiungerla e dirle che il suo stupido sismografo funziona. Devo portarla via da lì, senza perdere tempo a chiedermi perché abbia sviluppato manie suicide negli ultimi dieci minuti. Può capitare e basta, immagino.
Alphy non è abbastanza veloce da raggiungermi. Mi sfilo la giacca sintetica, schivando un pericolo dopo l’altro con il rischio di spezzarmi l'osso del collo: avvicinarsi all'edificio è come schiantarsi contro un muro di nebbia bollente. Tossisco, ma non smetto di correre fino a quando non sono dentro. Se mi fermassi adesso mi renderei conto di aver fatto quella che è allo stesso tempo la scelta più coraggiosa e più folle.

***

Mia sorella se ne sta al centro di un corridoio saturo di fumo, come una bambina che ha perso la strada di casa. Ha l’aria febbricitante, ma non è spaventata. Sembra piuttosto insicura, e si guarda intorno senza quasi notarmi. Dei neon precipitano da soffitto, crepitando in migliaia di scintille. Non riesco a trattenere un grido.
- Lilith, che cavolo stai combinando? Dobbiamo andarcene da qui!
Allungo un braccio per afferrarla, ma la corrente rischia di friggermi la pelle. Così maledettamente vicina e allo stesso tempo così lontana da lei, cerco un modo per riportarla dal mio lato del corridoio.
- Ti si è spento quel cervello da genio? Forza!
Lilith non sembra dare peso alla nostra morte imminente. Non lo fa nemmeno quando le scintille, alimentate dal calore insopportabile dell’aria, sciolgono i cavi della corrente e prendono fuoco. Fiamme alle sue spalle, fiamme di fronte a lei. Lilith è bloccata.
Arretro in un balzo, chiamando aiuto fino a quando la gola comincia a gonfiarsi. Passano secondi interminabili prima che Lilith si decida a reagire.
- Non c’è niente che tu possa fare, - dice, ma nel caos la sua voce è ridotta a un sussurro.
- C’era bisogno di questo, di una reazione irreversibile come la combustione. Non si è mai disposti ad andare avanti e a cambiare le cose se c’è ancora la possibilità di tornare indietro.
Lo dice tutto d’un fiato, rovinando sulle ginocchia. Adesso ricordo perfettamente ciò che è successo prima dell'attentato, ricordo come Lilith mi fosse sembrata irrimediabilmente diversa dalla ragazza perfetta che tutti stimavano. Quell'ombra è di nuovo su di lei, più buia quanto più arde il fuoco, e io non la riconosco più. Non è più Lilith quella che sembra in viso.

Nient’altro che cenere riesce a raggiungere i mie polmoni, e troppo presto mi accorgo di non riuscire a respirare. Non respiro.
Non - 
Respiro.
Stordita, soffocata, sono costretta ad allontanarmi. Un passo alla volta retrocedo tra le macerie, sempre più indietro, mentre il fuoco divora lo spazio che mi separa da esso. E improvvisamente il suo petto si scontra con la mia schiena.
Non avevo mai pianto di gratitudine prima di vedere i soccorritori materializzarsi tra le volute di fumo. Gemiti strozzati consumano il poco ossigeno che mi è rimasto. Mi avvinghio al primo uomo che riesco a toccare, quello alle mie spalle: vorrei poterlo supplicare di portarmi fuori, ma Lilith è ancora lì, senza via di scampo, e le sue ginocchia hanno ceduto.
- Mia sorella!
Posso solo pregare che l’abbiano individuata. Tendo un braccio a indicarla; sembra assurdo che sia ricoperto da vesciche pulsanti, del colore vivo della carne. Perché non provo dolore?
L’uomo mi indica una luce che filtra la cenere: vuole che raggiunga l’uscita.
- Dovete salvare mia sorella! 
Il soccorritore mi mette da parte con una spinta violenta. E’ interamente ricoperto da una tuta gelida e perlacea dalla strana consistenza, che scivola sotto la pelle.
Una squadra bianca e silenziosa mi supera senza accorgersi della mia esistenza. Il resto dei soccorritori avanza tra le fiamme, come stesse attraversando dell'acqua limpida; il fuoco accarezza le loro uniformi mentre si fanno strada per raggiungere Lilith. Non hanno un estintore, né un idrante, nemmeno un briciolo di esitazione. Scivolano a passi sincronizzati, quasi eseguendo una coreografia preparata con cura, con le maschere riflettenti a nascondere le loro espressioni.
Vedono il fuoco come lo vedo io?
Sono costretta a cedere spazio. Non ho il coraggio di guardare di nuovo le mie braccia: una sostanza appiccicosa scivola lungo le mani, colando dalle dita. E ancora non provo dolore.
L’uomo mi spinge di nuovo verso l’uscita, ma mi rifiuto di scappare senza prima assicurarmi che portino Lilith al sicuro.
Forse hanno una tuta anche per lei.
Raggiungono Lilith a piccoli gruppi. Prima due, poi tre, sei. Lei, con i capelli bruciacchiati, sorride di gratitudine quando l’avvolgono in un cerchio per cercare di proteggerla.
Sventolo le mani in aria per incitarli: non posso resistere oltre.
- Dobbiamo andarcene!
Il gruppo di soccorritori non mi guarda, ma deve avermi sentito. Cominciano a camminare lentamente, poi sempre più veloce.
Ma lo fanno dalla parte opposta.
- Dove state andando?
Una trave si stacca dal soffitto e si schianta sul terreno. La temperatura all'interno dell'edificio è così alta che sembra di stare precipitando nel centro della Terra. E' stata Lilith a insegnarmi che la superficie rocciosa nasconde un cuore di magma pronto ad esplodere. Fuori. I. Pensieri. Sconnessi.
- Dove la state portando? Lilith!
Il mio ultimo grido di disperazione viene schiacciato dal fragore del disastro: se tutto era iniziato del silenzio, adesso decine di sirene squillano ininterrottamente, le tubature si piegano e ogni cosa viene consumata da lingue ardenti.
Non riesco più a scorgere mia sorella, e non c'è nulla che io possa fare. E' troppo tardi, ed è tutto troppo grande per potere essere affrontato. Se non lascio andare Lilith, non avrò speranza.
La squadra in bianco si dilegua nella direzione opposta e a me non resta che andarmene prima di sciogliermi come cera. Mi copro il naso con la maglietta e soffoco l'idea che mi carbonizza più del fuoco: se riesco a sopravvivere, questa potrebbe essere stata l’ultima volta in cui ho visto mia sorella.
Ripercorro il corridoio, incrociando un altro gruppo di soccorso.
Un uomo basso dalla corporatura robusta mi prende in braccio e continua a correre per me. Non sarei riuscita a fare un altro passo, da sola. 
L’uomo dice che sono salva, che andrà tutto bene, che non devo piangere, ma una volta fuori lo costringo a lasciarmi andare. Tutto ciò che avevo nello stomaco esce fuori in un fiotto acido, e quando il pranzo è finito vomito bile e saliva. E’ insieme a tutto il resto che si libera il dolore, mentre sento la pelle staccarsi nei punti in cui le vesciche sono scoppiate. L'uomo mi tiene la fronte con una mano e continua a parlare.
- E’ finita, - mormora.
Le lacrime sono una grande delusione: non bastano e non sono fredde abbastanza. Si asciugano sulla pelle bollente senza averla guarita, senza potermi guarire. Non voglio alzare lo sguardo e affrontare il numero dei sopravvissuti.
Mi portano via su una barella, premendomi una maschera di plastica sulla bocca riarsa. Sono costretti ad allontanare i giornalisti con spintoni e insulti. E’ questo ciò che vogliono vedere in televisione, loro che non conoscevano di persona quelli che forse sono morti?
- E’ finita, piccola. 
La voce dell'uomo si addolcisce mano a mano che ci allontaniamo dalla scuola. Continua a parlarmi fino a quando un ago non mi perfora la base del collo, e un calore diverso, piacevole, mi riempie.
Non rispondo.
Torno sotto la mia campana di vetro, dimenticando come si fa a parlare. Non gli dico che muoio di dolore, o che mia sorella era bloccata tra le fiamme. Non gli  dico che gli uomini che l’hanno soccorsa non avevano la sua stessa uniforme.



Angolo Autrice: come avrete capito sono molto veloce quando si tratta di aggiornare [insert sarcasm here #]. Questo capitolo è stato complicato, se non altro perché non sono abituata a scrivere scene d'azione. Beh, immagino che dovrò imparare. Non ci sono osservazioni particolari che volevo proporvi, a parte due. La prima riguarda il personaggio principale, Sybil. Ciò che mi piacerebbe delineare in lei, è una tendenza a pensare troppo (il flusso dei suoi pensieri è molto...pomposo?) e a parlare, invece, con grande difficoltà, o poco tatto. Spero di riuscire a caratterizzarla sempre più chiaramente nel corso della storia. La seconda osservazione è banale, ma importante. Se vi state chiedendo "ma Mr.S. è un voluto riferimento al Dottor S. di Svevo?" la risposta è sì. Se avete qualche dubbio sulle nozioni scientifiche che ispirano questa originale chiedete pure: vi assicuro che sono molto semplici, o non mi permetterei a chiamarle in causa, non essendo particolarmente dotata in questi campi.

Ringrazio le 49 persone che mi hanno inserito tra gli autori preferiti, chi segue questa storia e magari, gentilmente, la recensisce. Un bacio a Viola, Charly, Liz, Ania e allo Stello.

 

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Capitolo 4
*** La radiazione assorbita da un corpo nero ***


CAP3

Corpo nero: in fisica è un oggetto ideale che assorbe la luce 
(e tutta la radiazione elettromagnetica incidente) e che, di conseguenza, né riflette né trasmette alcuna energia.

CAPITOLO 3.

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Premo il tasto del telecomando.
Canale ventisei.
Canale ventisette.
Il canale ventotto è oscurato.
- Sybil, ti andrebbe di ricapitolare cosa è successo?
Il commissario si asciuga la fronte con un fazzoletto di cotone. Il sudore gli imperla il contorno delle labbra in una patina lucida, sebbene i riscaldamenti siano rimasti spenti negli ultimi mesi e in soggiorno faccia quasi freddo.
Il signor Jean ha l’aria stanca e sconsolata, ma posso capirlo: non c’è stato alcun progresso nelle indagini, solo un rincorrersi di funerali, articoli di cronaca nera e giornalisti indiscreti.
Canale ventinove.
Canale trenta.
Canale trentuno.
- Sybil.
- Il vento deve aver storto l'antenna, - dico.
- Non importa, comunque. Parlano tutti della stessa cosa. Non c’è un solo telegiornale che non ne parli.
- Non succede tutti i giorni che ci sia un attentato, Sybil.
Alzo le spalle. D'improvviso mi ricordo che il commissario aspetta una risposta: se non lo accontenterò la specialista che si è portato dietro penserà che c’è qualcosa che non va in me. Cambio canale e ricomincio da capo.
- Posso farlo se vuole. Raccontarle com’è andata, intendo.
Di nuovo.

- Te la senti?
Affondo nel divano, avvolta da una felpa di due taglie più grandi della mia. Non sopporto di vedere la pelle delle mie braccia ridotta in strisce di croste ruvide. All’ospedale sembravano fiduciosi che la maggior parte delle cicatrici sparirà, ma non ne sono così sicura.
L’antidolorifico mi fa stare meglio, però, e il dolore è sopportabile. Quella specie di macigno che sento sul torace invece rimane dove l’ho lasciato due settimane fa. Il primario dell'ospedale mi ha spiegato che i traumi emotivi non si curano come le altre ferite, ma che delle gocce di calmanti potrebbero aiutare. Secondo lui starmene seduta e sedata su un letto li avrebbe nascosti per un po'. Ho costretto mia madre a firmare la dimissione dall'ospedale subito dopo: non ho intenzione di giocare a nascondino con i miei problemi, sebbene non riesca ancora ad accendere un fiammifero senza che la vista del fuoco non mi terrorizzi.
- La scuola è esplosa. Sono caduta. Quando ho riaperto gli occhi l’ala sud era in fiamme. Forse era quella a est.
- Est, - conferma lui.
- Ho cominciato a correre verso i cancelli fino a quando non ho visto mia sorella. L’ho persa dopo un po’ per colpa del fumo, tutto qua.
- Sei sicura?
Cambio canale.
Due.
Tre.
Annuisco. Se continuerò a ripetere questa versione dei fatti finirò per convincermene e riuscirò a dormire di nuovo. Dopotutto omettere è più semplice che mentire.
Mi alzo per accompagnarli alla porta con il telecomando ancora stretto nella mano, senza attendere che mi facciano altre domande. Mia madre non uscirà dalla sua camera per un bel po’, e comunque non sarebbe in grado di rilasciare dichiarazioni in questo momento.
L’ispettore sospira e fa per seguirmi, riponendo il suo taccuino in tasca. Non ha appuntato niente di nuovo da quando è entrato.
- Se c’è qualcosa che devi dirmi, qualunque cosa, dovrai farlo adesso.
Gli rivolgo un’occhiata interrogativa. L’ispettore ha lavorato in questa città per una vita, e mai l’avevo visto così serio prima d’ora. Ha la faccia gonfia e cerulea per la mancanza di sonno, e gli ultimi capelli che gli erano rimasti sono caduti.
- Hanno tolto il caso al nostro dipartimento, ragazzina. Da domani se ne occuperà la USD. Il nuovo capo della polizia è già arrivato in città.
La plastica scricchiola sotto la mia stretta.
La USD è il dipartimento di difesa delle Nazioni rimaste in piedi dopo la Rottura, o qualcosa del genere. Controlla pressoché tutti gli apparati investigativi e armati dei Paesi che non sono ancora falliti, ed è una delle autorità più potenti al Mondo. Non c’è alcun dubbio che si sia trattato di un vero attentato se quelli della USD sono entrati in gioco.
Penso al numero dei morti, quarantuno, e a come la moglie di Mr. S. si è accasciata sul suo feretro il giorno del funerale. Penso alle persone scomparse: quattro, inclusa mia sorella, e sento uno spillo d’inquietudine salire in gola, appuntito, freddo.
Se c’è qualcosa che devi dirmi, dovrai farlo adesso.
Schiudo le labbra per parlare e faccio per richiudere la porta. Poi però ricordo l’espressione incredula e spaventata di Alphy Fleming e la mia bocca si chiude a chiave. Nessuno sa che Lilith è stata portata via, nessuno a parte lui, il suo migliore amico. Era lì quando ho ripreso conoscenza, seduto nell’angolo meno illuminato della stanza; tra le mani aveva un fumetto per me. Non era ferito, ma terribilmente sconvolto dall’accaduto. Gli ho detto di Lilith non appena siamo rimasti soli, e tutto ciò che ha fatto è stato guardarmi come se fossi pazza, tornarsene a casa con il manga che avrebbe dovuto regalarmi e, da quel momento, fare finta di non conoscermi.
- Non ho niente da dire, - mormoro, - mi dispiace.

***

Il panino è dove l’ho lasciato, sul comò. Mia madre non sembra aver notato che le ho portato il pranzo. Sono giorni interi che non tocca cibo, e la faccenda ha cominciato a stancarmi.
- Devi mettere qualcosa sotto i denti.
La camera da letto è buia e puzza di chiuso. Le lunghe tende sono spiegate a non far passare il minimo raggio di luce, e il pavimento è disseminato di vestiti. Non so come possa rimanere sotto le coperte senza soffocare, tanto l’aria è consumata. La scuoto debolmente, ma lei non smette di singhiozzare. Da quando Lilith è sparita non ha fatto che piangere, riempiendo la casa di lamenti acuti e continui. Ogni lacrima pare invecchiarla di un anno, come se l’umore assorbito dai cuscini contenesse tutta la forza vitale di cui disponeva.
- Mamma, - dico, sforzandomi di rimanere tranquilla, - le famiglie dei ragazzi scomparsi si stanno dando da fare per capire che cosa sia successo. Vogliono che ci uniamo alle ricerche.
- L’ispettore dice che potrebbero essersi allontanati in stato confusionale.
Bugiarda. Non è andata in questo modo. Ma sono sicura di quanto è successo agli altri, io? I tre studenti che mancano all'appello potrebbero essersi dileguati per lo shock. Non c’è niente che li legasse a mia sorella, comunque, e quasi non si conoscevano.
Lei, però, lei è stata presa. Lilith è stata portata via.
La mamma si scrolla di dosso il mio braccio, alzando la voce. 
- E’ facile per te, non è vero? Sapere che tua sorella non c’è più. Sei sempre stata invidiosa di lei, e non hai fatto altro che detestarla per tutti questi anni! Se fosse morta tu –
Non aspetto che finisca la frase. Mi precipito giù dalle scale, tappandomi le orecchie, e inciampo sui primi gradini. Scivolo fino alla base della scala, dove rimango per quella che sembra un’eternità.
Continuo a ripeterni che la mamma non lo pensa davvero. Lo dice perché è distrutta e ferita, e perché per un genitore che perde la propria figlia non ci sono mai abbastanza possibilità.
Poggio la schiena contro la ringhiera.
Egoista. L’avevo detto di Lilith poco prima che succedesse quel disastro di cui non voglio ricordare niente.
Forse, però, l’egoista sono io, e la mamma ha ragione. Perché c’è qualcosa che mi sforzo di tenere a bada da quando mi sono svegliata in quel letto d’ospedale, senza fiori o biglietti d’auguri ai piedi della testata. È come una bestia feroce che morde le sbarre della propria gabbia: più cerco di controllarla, più la sento aizzarsi e ringhiare. E non è la tristezza, né la paura che mia sorella sia persa per sempre; è quel senso di soddisfazione sporca che provo nel non averla più intorno, e insieme ad esso, una gelosia colpevole. Perfino con la sua plateale uscita di scena Lilith è rimasta la protagonista delle nostre vite.
Allungo il braccio per spegnere la luce. Al buio è più facile far finta che si possa avere fiducia.


****

Che significato ha il tempo quando si è soli e non c’è nulla  a riempire i secondi che si rincorrono? Delle volte sembra solo una stupida convenzione con cui registriamo il divenire. Ma quando intorno a noi tutto rimane uguale, quando si percepiscono lo stesso vuoto e lo stesso malessere ancora e ancora, che cosa rimane nel ticchettio dell'orologio?
Tic-tac, tic-tac.
Sono passate ore intere, ma non c’è nessuna notizia di mio padre. La polizia è riuscita a contattarlo ieri sera, mettendolo al corrente della scomparsa di mia sorella. La conversazione è stata breve, e da allora non si è più fatto vivo.
Finisco per appisolarmi sulle scale, gli occhi appiccicaticci che fanno fatica a rimanere aperti.
Improvvisamente il mio cellulare comincia a vibrare.
Rispondo con il fiato sospeso.
- Sybil?
Non è lui. Non è mio padre.
- Sybil, sono Alphy Fleming. Ci sei?
- Che cosa vuoi?
L’ultima volta che l’ho sentito è stata due settimane fa. Biascico con la consapevolezza che potrei crollare da una parola all’altra, come se stessi camminando sul filo di un rasoio. Cadere vorrebbe dire vomitargli contro tutta la mia frustrazione, perciò decido che sarò concisa.
- Ho bisogno di parlarti, - dice, ed è chiaro che sta tormentando il filo del telefono con le dita, - disturbo?
Disturba? 
- Cazzo, no, figurati. Mia sorella è stata rapita da un branco di Terroristi con le tute da gelataio e io non posso dirlo a nessuno senza correre il rischio di venire rinchiusa in manicomio. Mia madre è fuori di testa e il commissario a cui ho raccontato un mare di stronzate è appena stato licenziato. Questo vuol dire che dovrò ripetere il mare di stronzate a un nuovo ispettore e alla strizzacervelli di turno, che scriverà su quella sua maledettissima agenda di pelle che sono una sedicenne con stress post-traumatico di livello duemila. Non disturbi Alphy, ti pare?
Dall’altra parte del telefono Alphy non produce alcun suono: ho bisbigliato le parole con un’amarezza tale da farle suonare avvelenate. Considerando l’effetto che hanno avuto è come se avessi urlato. Se questo fosse un film sarei la prima a scusarmi per aver esagerato, ma la realtà non è abbastanza romantica e aspetto solo che riattacchi.
- Fatti trovare davanti alla porta, passo a prenderti tra venti minuti.
Per poco non ruzzolo giù dalle scale. Lancio un’occhiata all’orologio sul muro e mi asciugo le guance. Ho un gran mal di testa e sono troppo confusa per capire se stia scherzando o no.
- Che  diavolo stai dicendo?
- Sto dicendo che non sei pazza, e che ti credo: Lilith è stata rapita. Fuori dalla porta, venti minuti. Andiamo dalla polizia. Se non crederanno a te, crederanno a noi.

***

Sbircio dalla porta semichiusa, accertandomi che il petto di mia madre si alzi e si abbassi con regolarità, segno che si è addormentata. Lo prendo come un semaforo su cui scatta il verde: non farà niente di stupido, sta bene. Posso andare.
Le lascio un biglietto davanti alla porta, ma dubito che lo leggerà.
“Esco a prendere una boccata d'aria con Alphy, un compagno di scuola. Ho il cellulare in tasca.”
Se ti serve qualcosa chiamami.
Questo non lo scrivo, perché sono un’adolescente testarda e scontata.
Alle otto e trentacinque, circa mezz'ora dopo aver chiamato, Alphy si presenta davanti casa mia. C’è il rumore delle ruote di uno skate a precederlo. È vecchio, scolorito e troppo piccolo per lui, e Alphy è così goffo che rischia di cadere ogni due metri.
- Sei in ritardo, - butto lì. Non so come cominciare.
- Non trovavo un documento che non fosse l'abbonamento alla rivista settimanale per piccoli fisici.
- Perché ho l’impressione che tu non stia scherzando?
Prima che possa rispondere tiro fuori la carta d’identità senza la quale, probabilmente, non accetterebbero di parlare con noi della scomparsa di Lilith. Ci refilerebbero un “Solo familiari, ci dispiace,” per poi mandarci via.
Mi prendo qualche secondo per osservare Alphy: con quei capelli castani tutti scompigliati e gli occhi grigi che sfumano in tonalità più scure verso il centro dell’iride, resi ancora più grandi dagli occhiali enormi, è un perfetto genio strampalato.
Sulla sua maglietta c'è scritto "la conoscenza è potere".
Non posso presentarmi dalla polizia con un tipo del genere, ma non ho altra scelta.
- Andiamo, - sospiro, - ma chiuditi quella giacca. Per favore, sì, grazie.
Lui non fa discussioni.

***

La centrale di polizia non è distante da casa mia, venti minuti a piedi al massimo. Ho convinto Alphy a lasciare lo skateboard in cortile prima che si spezzasse qualche osso. È appena sopravvissuto a un attentato, sarebbe il colmo che si facesse male in maniera tanto stupida. Aspetto prima di rimproverarlo per quello che è successo all’ospedale. Forse è stata una reazione comprensibile, la sua.
- Ce la fai a raccontarmi tutto prima di entrare?
Lui scuote la testa e si pulisce gli occhiali. Deve essere praticamente cieco se sbanda come un ubriaco ogni volta che li mette via.
- Voglio prima allontanarmi dalla strada, se non ti dispiace. Dirò tutto ciò che so alla polizia.
Immagino che dovrebbe dispiacermi, visto che c’è in ballo la vita di mia sorella. Però condivido il nervosismo di Alphy: non è rassicurante girandolare di sera in questo periodo. Da due settimane le strade sono deserte e le finestre delle abitazioni sbarrate.
Accelero il passo, ignorando il broncio triste di Alphy. Lilith sembra mancare più a lui, che a me. Mi tiro una ciocca di capelli per scacciare il senso di colpa con il fastidio. È una soluzione stupida, ma funziona. La mia bisnonna lo faceva sempre.
Quasi non me ne accorgo quando arriviamo davanti alla centrale. L’edificio è vecchio e quadrato, un unico blocco di cemento cavo. Le luci dentro sono accese e dalla porta aperta esce un profumo invitante di caffè.
Il primo agente che incontriamo è indeciso sul da farsi. Non sono brava a parole, e vorrei che Alphy si spiegasse per entrambi. È chiaro, però, che stare in mezzo agli altri lo mette a dura prova. Credo che sia sul punto di vomitare.
- Senta, voglio solo parlare con l’Ispettore Jean.
- Mi dispiace informarti che il Signor Jean è stato trasferito nel pomeriggio. Il commissario Jerome Ryars ha preso il suo posto da qualche ora.
Di già? La USD non ha perso tempo. Se hanno così fretta di fare chiarezza su quanto è accaduto, ascolteranno ciò che ho da dire. Chiedo di poter incontrare il nuovo capo della polizia, sfoggiando tutta la sicurezza che riesco a improvvisare.
- Pensavo che non avessi più niente da dichiarare.
L’agente batte il piede sul pavimento. Lo riconosco, è stato uno dei primi a interrogarmi.
- Mi sono tornati alla mente nuovi particolari.
La porta sul fondo della stanza si apre.
"Nuovi particolari" è il mio “Apriti, Sesamo”. Come con la formula magica di una fiaba, mi basta pronunciarla perché una testa bruna esca dalla penombra e mi inviti ad entrare.
- I ragazzi possono accomodarsi nel mio ufficio, Agente.
Guardo l’uomo dalla mano tesa in segno di benvenuto e serro i denti. Provo a separarli per salutare, ma la mascella non risponde più a niente che non sia quello sguardo nero come un pozzo senza fondo. Sento sulla schiena le dita di Alphy che mi spingono verso l’ufficio, e sul viso gli occhi di Jerome Ryars che assorbono la luce.
Perché si tratta di Jerome Ryars.
Quando la porta si chiude dietro di me e l’Ispettore mi fa cenno di prendere posto, non ricordo di essere mai entrata, tanto i miei denti tengono occupato il cervello.
- Nuovi particolari sono ciò di cui abbiamo bisogno in questo momento, - mormora Ryars, mentre si siede e riempie un bicchiere d’acqua con stre cucchiaiate di zucchero.
Se il nuovo ispettore della USD mi ha sentito parlare dall’altra parte dell’edificio, deve avere un eccezionale senso dell'udito.

***

L’ufficio del nuovo capo della polizia è tirato a lucido. Le pareti - leggermente scrostate in alcuni punti - sono state smacchiate da poco: qualcosa mi dice che Jean non lavorava in questo studio. Ryars è rigidamente seduto su una poltroncina di pelle, e ci squadra senza lasciar trapelare alcuna emozione. Deve avere sì e no trentacinque anni, ma con i suoi capelli corvini e il viso spigoloso finisce per dimostrarne di più. La spilla a forma di scudo della USD spicca sul completo nero perfettamente stirato. 
Non parla per un po’. Distolgo lo sguardo quando l’ispettore mi osserva, incuriosita dall'ordine maniacale della stanza: una stilografica dalla linea elegante, un foglio e un telefonino sono quanto è sistemato sulla scrivania, oltre al bicchiere, la zuccheriera e una bottiglia d’acqua di vetro. Tutto è disposto parallelamente.
Non posso fare a meno di fantasticare: sua madre deve averlo traumatizzato da piccolo, costringendolo a tenere per bene la cameretta.
Alphy mi dà un calcio sotto la scrivania per riportarmi alla realtà: Ryars è passato alle presentazioni, composto come una statua di cera. La pelle sulle guance, pallida come carta sottile, si muove appena.
- Scusi?
- Mi stavo accertando che fossi la sorella di Lilith Crowford, la ragazza scomparsa tredici giorni fa.
Frugo nella borsa e apro il mio documento sulla scrivania. Per errore tocco la sua stilografica, spostandola di qualche centimetro. Ritiro subito la mano, ma Ryars controlla la mia carta d’identità solo dopo aver riallineato la penna. E’ annoiato.
- Lui è Ranulph Fl –
- Si è già presentato, - taglia corto con voce monotona, rauca. Io e Alphy ci scambiamo un’occhiata impacciata: gli viene naturale essere così inquietante?
- Mi stupisce che non sia venuta con sua madre, Signorina Crowford.
Ryars torna a puntarmi quegli occhi di pietra nera addosso. Sembra tutt’altro che stupito. Mi schiarisco la gola.
- Ho portato Alphy perché c’è qualcosa di importante che dobbiamo dire alla polizia e lei, in questo momento, è la polizia.
- Riguarda Lilith.
- Ah, i giovani non si perdono mai d'animo. Avete la mia attenzione.
- Abbiamo ragione di credere che mia sorella sia stata rapita.
Fuori. L’ho detto. È stato più semplice di quanto pensassi. Il peso della verità che viene a galla mi permette di alzare la testa e guardare in faccia il mio riflesso sulla superficie della bottiglia. Aspetto la reazione del commissario, ma non c’è nessuna maledettissima reazione. Ryars è totalmente inespressivo, e stento a credere che mi abbia sentito. 
Lo ripeto di nuovo.
- Ipotesi piuttosto fantasiosa. È più probabile che sia fuggita in preda allo shock.
- L’avreste trovata, allora.
- Un’ala della scuola è ancora ridotta a un cumulo di macerie. Non è escluso che sua sorella sia ancora lì sotto.
No. Lilith non può essere morta. Non è un’ipotesi da poter prendere in considerazione.
- L’hanno portata via.
- Impossibile. 
- L’ho visto con i miei occhi!
Sbatto le mani sulla scrivania di legno e la stilografica rotola via una volta per tutte, cadendo sul pavimento. Alphy emette un suono strozzato.
- C’erano degli uomini con una tuta bianca dalla consistenza strana, nella scuola. Non erano i soccorritori che hanno spento l’incendio, eppure mia sorella non ha opposto alcuna resistenza!
Ho appena scolpito un’espressione sul viso scarno dell’Ispettore Jerome Ryars. Qualcosa mi dice che sono la prima persona ad aver mai compiuto una simile impresa.
Ogni parte del suo corpo diventa rigida come ghiaccio secco. Il gelo cala sul suo viso e ne contrae i lineamenti. Ryars cerca di nascondere l’incredulità.
- Seduta, - sussurra; stacco i palmi dalla scrivania, senza fiatare.
- Per favore, - aggiunge, e io ubbidisco non appena mi rendo conto di aver gridato. Mi scuso.
Ryars recupera la sua accurata apatia. Mi chiedo se creda anche solo a una parola di quello che ho detto. Cerco le dita di Alphy e le tiro forte in una muta richiesta d’aiuto. Lui prende un bel respiro e raccoglie la stilografica di Ryars per parlare senza dover affrontare un confronto diretto.
- Negli ultimi tempi Lilith era sospettosa. Dormiva appena, non faceva che studiare. Quasi non mi parlava.
- Riceveva delle strane telefonate, - confessa, ma lo fa con cautela. Mi guarda con i suoi grandi occhi acquosi, come se volesse chiedermi il permesso di continuare. Sono troppo allibita per dire qualunque cosa.
Vorrei aver notato qualche cambiamento nel modo di comportarsi di Lilith, ma la verità è che prima dell'attentato non l’ho fatto. 
Alphy si dondola sulla sedia, impaziente; è chiaro che vuole aggiungere qualcosa.
 - Chiunque fosse, Lilith rispondeva. Diciamo che io potrei aver… Insomma, diciamo che potrei aver cercato di rintracciare l’intestatario del numero qualche tempo fa. 
Le dita di Alphy sono scivolose per il sudore. Le lascio andare non appena mi ricordo che sono allacciate alle mie.
Non so perché arrossisco.
Ryars aggiunge due cucchiai di zucchero alla sua bevanda e mescola con estrema calma.
- Potrebbe averlo fatto o lo ha fatto, signor Fleming?
Un silenzio tetro cala nell’ufficio. Quanto realizzato da Alphy è illegale, ma ciò non toglie che lo abbia fatto per Lilith. Si era accorto che qualcosa non andava, e per questo ha sfidato la legge irremovibile della USD. Io, al contrario, sono rimasta cieca e sorda davanti a quello che stava succedendo. Mi ritrovo a guardare Alphy con una certa ammirazione.
- L’ho fatto. Ho hackerato il suo telefono.
- Notevole. Non è da tutti.
Ryars, ispettore dell'ente di giustizia più severo del Mondo, rimane impassibile e si concentra su Alphy.
- Non c’era traccia delle telefonate. Tutte le chiamate in entrata e in uscita erano per amici o familiari.
- La ritieneva capace di manomettere un dispositivo di telecomunicazione?
Il labbro inferiore di Alphy, livido, gli trema quando Ryars parla di mia sorella al passato.
- Non c’è qualcosa di cui Lilith non sia capace. Non mi fraintenda, ispettore, ma deve essere stato un gioco da ragazzi per lei. Lilith è un genio.
Alphy si rianima. L’accenno di un sorriso gli riempie le guance, e c’è una fierezza dolce nel modo in cui il nome di Lilith suona quando è lui a pronunciarlo.
Mi concentro su quello che ho scoperto. Lilith non risponderebbe mai ad un numero anonimo. Se c’è una certezza in questo momento è che conosceva il mittente di quelle chiamate. Ora capisco perché Alphy non trovava il coraggio di parlare. Nemmeno lui riesce a credere alle proprie rivelazioni.
- Non le hai mai chiesto con chi parlasse?
- Certo che l’ho fatto, ma si limitava a definirli degli “Amici”, e tutte le volte che provavo ad insistere si arrabbiava.
Lilith arrabbiata? Arrabbiata con Alphy? Nessuno la contattava quando era a casa, ma passavamo così poco tempo insieme che per quanto ne so, negli ultimi mesi, avrebbe potuto pianificare la conquista del Mondo.
Mi prendo la testa tra le mani. Mi sembra di avere davanti agli occhi un compito di matematica: non ci capisco niente.
- Tutto ciò è davvero interessante.
Ryars.
Mi deprime che “interessante” sia l’unico commento che abbia da fare a riguardo, ma deve aver colto la delusione sul mio viso, perché prende il cellulare e mi sorride, gesto alquanto insolito da parte sua. Guarda l’orologio con eloquenza, come se volesse farci capire che ci siamo trattenuti abbastanza.
- Farò qualche telefonata per riferire quanto mi avete detto, se non vi dispiace. Sono sicuro che le vostre dichiarazioni potrebbero rivelarsi utili, nonostante non ci siano prove sufficienti per dimostrarle.
Ricambio il sorriso con tutta la gentilezza di cui sono capace: adesso è la sua smorfia forzata contro la mia, esageratamente cortese. Imito mia sorella, per quanto mi riesce.
- Sono sicura che troverà lei le prove, Ispettore.
Con un cenno della testa l’uomo ci liquida dal suo ufficio e compone un numero; più mi allontano da lui, più mi sento leggera. Alphy mi invita a darmi una mossa, ma rimane sempre alle mie spalle. L’ultima immagine che colgo di Ryars è quella di una teiera da zucchero che viene svuotata nel bicchiere, mentre l’Ispettore sussurra a bassa voce.
Fuori è buio.
- Si può morire di apatia?
Alphy si nasconde sotto un cappello di lana e scuote la testa.
- Proprio no, o Jerome Ryars sarebbe già nella tomba.
- Lo prendo come un “non ci ha creduto”.
L’aria umida della sera mi gonfia i capelli; li sento talmente crespi, quando ci passo attraverso le dita, che non mi stupirei se un uccellino decidesse di farci il nido per l’inverno.
- Prendila come vuoi, ma Jerome Ryars non mi piace. 
- Già, neanche a me. Non ho mai visto due occhi così spenti. Forse la stanza non era abbastanza illuminata, ma non riuscivo a vedergli le pupille. Era spaventoso, - ridacchio, ma ho ancora la pelle d’oca.
Alphy si  alza gli occhiali sul naso.
- Non ci sarà mai abbastanza luce, immagino. Un corpo nero ne assorbe completamente la radiazione: è scienza.
Alzo le braccia al cielo. Non ho idea di che cosa significhi.
- Grande, professore, ma non lo rende meno spaventoso.
- No, - Alphy ci pensa su. Sembra più smarrito del solito.
- Non lo fa.


Angolo Autrice: se il capitolo vi sembra lungo, sappiate che in origine (è stato pensato anni fa) comprendeva anche ciò che di sconvolgente succederà in quello seguente. Ho ritenuto opportuno alternare momenti di spannung o di azione (l'attentato) a capitoli più discorsivi e, magari, introspettivi. Non ci sono note particolari da fare. La maglietta di Alphy è un tributo a una delle mie t-shirts preferite. Avrete notato, forse, che ho cambiato un po' la sua descrizione.
Ah, sì, darò un biscottino a chi riconoscerà il nome dell'ispettore. 
Se qualcuno è arrivato alla fine del capitolo e si sta chiedendo che cosa sia la USD, sappiate che la sigla sta per "Unbreakable Shield Department", dove quell'infrangibile si oppone alla Rottura. Vi ringrazio per i numerosi 'like' al capitolo 2; mi piacerebbe anche sapere cosa ne pensate, ogni tanto xD
Come al solito ringrazio chi segue silenziosamente (fatevi sentire!) la storia, chi la recensisce e chi mi ha inserito tra gli autori preferiti, sopratutto Charly e Viola.

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Capitolo 5
*** La parabola descritta da un coltello che cala ***


entropy 4
Parabola: in matematica è il luogo geometrico dei punti equidistanti da una
retta chiamata "direttrice" e da un punto fisso detto "fuoco".

y = ax² + bx + c
Se a < 0, la concavità della parabola è verso il basso.
CAPITOLO 4.

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Nessuno dei due ha voglia di parlare. Dopo quello che ho scoperto sembra un miracolo che riesca ancora a pensare.
Alphy tiene la testa china e conta le pozzanghere sulla strada; io cammino poco più avanti, saltando su e giù dal marciapiede vinto dalle erbacce. Approfitto del silenzio per controllare il telefono: mia madre non ha provato a contattarmi da quando sono uscita. Alla fine lo spengo per salvare la batteria e smetto di preoccuparmene.
Il prurito alle braccia è incessante, ma l’aria fredda della sera aiuta, mi dà sollievo.
Cammino piano, facendo finta di non notare i mazzi di fiori finti alle porte delle case in lutto. Contemplo la povertà, quella vera, da periferia. Fino a qualche anno fa pareva distante come un miraggio sfuocato, ma adesso è di una consistenza così implacabile da non lasciare spazio al resto. La mia famiglia andava - va - avanti grazie alle borse di studio di Lilith, ma la maggior parte delle persone che conosco non riesce ad arrivare a fine mese, e ormai tutta la città è periferia. Gran parte del Mondo lo è.
Eppure tutti fanno finta di niente. Pigrizia, rassegnazione? Sfinimento. Da tre anni paghiamo i danni di quello che è successo, e lo facciamo senza discutere, minacciati dai media: il sistema può crollare di nuovo da un momento all'altro, affermano. E allora tutti tengono le proteste per sé, soffocano il malcontento, e tirano avanti nonostante le tasse, la corruzione, i numeri limitati delle assicurazioni e la privatizzazione di tutte le università; e poi ancora la disoccupazione, la soppressione "momentanea" del diritto di voto, i cambiamenti climatici.
La mia idea è che ci abbiano ammaestrati bene, come animali di una fattoria.¹
Ogni tanto mi fermo per evitare piccoli gruppi di giornalisti. Non ho fretta di arrivare a casa, comunque. Non c’è nessuno ad aspettarmi, e stare all’aperto mi piace. I guai si ridimensionano sotto un cielo infinitamente più grande di tutto il resto. Si spengono sotto le stelle, si riducono a gocce nell’oceano della notte.
- Mi dispiace per quello che è successo all’ospedale.
Alphy si avvicina e fa di nuovo quella cosa con il cappello, premendoselo sulle tempie. Le sue gambe fanno fatica a tenere il mio passo, perché è di qualche centimetro più basso di me.
- Sono stato un vigliacco. 
Sì, sei stato un vigliacco. Per poco non lo dico. Poi però gli do un buffetto sulla spalla e scuoto la testa per lasciare cadere il discorso. Non sono nessuno per poterlo chiamare “codardo”. Alphy stava solo facendo i conti con ciò che aveva scoperto, e niente riportava. Calcoli su calcoli e nessun risultato.
- Credi che Lilith conoscesse gli attentatori?
Il mio respiro si condensa in volute di vapore, e le lenti di Alphy si appannano. Si mette le mani in tasca e guarda le luci fluorescenti dei lampioni. Ha gli occhi cerchiati di viola, come se nemmeno ricordasse l’ultima volta in cui è riuscito a dormire.
- Sì.
La risposta non mi stupisce. È più facile immaginare Lilith mentre è a conoscenza di qualcosa. Pensarla all’oscuro di tutto è inverosimile, e stona con il ricordo vivo che ho di mia sorella.
- È che... Non avrebbe mai messo a repentaglio la vita di tante persone.
- Lo so.
Rinuncio a trovare un senso alla faccenda per questa sera, ma riporto alle mente un particolare che mi era sfuggito. L’illuminazione delle strade è terribile da queste parti: trema e si spegne di continuo, come in un malfunzionamento ciclico. È snervante. Nel quartiere illuminato a intermittenza io e Alphy sembriamo solo delle figure anonime che si confondono sulle mura delle pareti fatiscenti.
Lui avverte sua zia che farà tardi, ma la chiamata dura più del previsto: a quanto pare Alphy non è capace di farsi valere, tagliando corto.
Io faccio da guida silenziosa e metto le distanze. Averlo vicino è strano in un modo che non riesco a spiegarmi.
Svolto lungo qualche traversa, schivando cocci aguzzi di bottiglie, e ripeto come un mantra ciò che Lilith mi ha bisbigliato il giorno del disastro.
Quando perdi il controllo i test si attivano. Se attivi i test, prenderanno anche te.
- Alphy, mi sono ricordata di qualcosa, - comincio, e le parole rimangono sospese come la nebbia tra le abitazioni.
Manca poco a casa mia quando mi accorgo che la strada è chiusa. Alphy è ancora a telefono, ma appena vede le transenne rosse e bianche lo mette via.
Scruto oltre i segnali di divieto.
- Non c’era prima, quando siamo passati di qua.
Un blocco stradale della polizia.
No, non della polizia. Della USD.
Capisco subito che è impossibile compiere qualche bravata e scavalcarlo. Il simbolo a forma di scudo spicca al centro di un triangolo, e dei lampeggianti rimandano a un passaggio obbligato. A dirla tutta ci sono più insegne al neon che nel piccolo Funfair in cui andavo da bambina.
- Dobbiamo fare il giro lungo, - sbadiglio. Mi accorgo di essere troppo stanca per cercare una scorciatoia, quindi mi limito a seguire le indicazioni della polizia e rimando a più tardi le spiegazioni.
Finiamo qualche isolato più in là, dove le case sono pericolanti e disabitate a causa delle immigrazioni di massa. Dopo la Rottura le autorità cittadine ne promisero la demolizione, rimandandola a quando sarebbero spuntati i fondi necessari per buttarle giù. Fondi che, stranamente, non sono mai saltati fuori. 
Ci fermiamo a un vecchio incrocio per fare il punto della situazione.
- Sarà evaso qualche serial killer.
Faccio riferimento al blocco stradale e mi passo il pollice sotto la gola.
Il colore abbandona le guance di Alphy, e gli occhi sbarrati gli occupano l'intero viso.
Fifone.

- Sto scherzando, Ranulfo. Si tratta di qualche ronda, secondo me. Non svenire qui, okay? 
- Avremmo dovuto chiamare un taxi. Le strade di sera sono pericolose, e dopo quello che è successo…
- Di cosa hai paura? Di certo non verrai attaccato dai Nazgul, Alphy, perché in effetti non esistono.
- Sai dove siamo? Sai almeno di cosa stai parlando?
- Credevo fossi un Nerd.
- Lo sono, infatti, - puntualizza, - E se non facessi parte di quel 99% di individui che fraintendono il significato del termine "Nerd", lo sapresti.
-
Tu e Lilith siete fatti l'uno per l'altra, - sospiro.
Aspetto che rida, che giri i tacchi per andarsene, o che al massimo si arrabbi.
Alphy non lo fa. Guarda fisso sopra la mia spalla e viene scosso da un tremito, come se alla luce fredda dei lampioni avesse visto la Morte incombere su di me.
- Che ti prende? - gli chiedo.
Lui apre la bocca per urlare. Incredibilmente il suono della sua voce mi giunge distorto, niente di più che un'eco vibrante, e viene coperto dallo scricchiolio delle mie ossa sull’asfalto quando un uomo mi prende per i capelli, mi alza in aria e mi lancia dall’altra parte della strada.

 ***

Sento in bocca il sapore del ferro e dell’acqua sporca. La testa non mi gira, e nonostante l’urto non svengo. Tutto il resto però fa male. A ogni respiro sembra quasi che le costole stiano per bucarmi il torace come spine di vetro. Con le braccia fasciate cerco di rialzarmi, ma le ferite si sono riaperte.
Bruciano.
Sanguinano.
Tingono le fasciature di nero. Quel nero che assorbe laradiazionedellaluceperchéèscienz
Alphy. Riapro gli occhi per lui che è il primo pensiero non-sconnesso che riesco ad afferrare.
Non lo so che cosa provo nel vederlo steso a terra. Per un po’ non provo niente, e basta. Per un po’ non sono disposta a credere che stia succedendo davvero.
Un uomo alto, vestito di nero, ha una mano stretta attorno al suo collo, e con l’altra sfila un aggeggio dalla forma allungata dalla giacca. Mi sembra di guardarli da un luogo estremamente lontano, dove posso concentrarmi sui particolari senza fare rumore: le labbra di Alphy che diventano blu, i capillari che scoppiano, iniettandogli le orbite di sangue, il coltello appeso alla cintura dell’uomo.
L'arma mi riaccende.
Il primo impulso mi suggerisce di chiedere aiuto. Quando provo a parlare tossisco rosso e sono costretta a rinunciare. Prendo in considerazione l’idea di scappare mentre l’uomo è ancora occupato a strangolare Alphy, ma tutto quello a cui riesco a pensare è "Lilith". Lilith che viene portata via, e Io che non riesco a salvarla e  Io che scappo senza di Lei e Lei che mi guarda come se se lo aspettasse. Come se fosse scontato, per me, abbandonare le persone quando ho paura.
Mi alzo in piedi e mi pulisco il fango dalla faccia.
Non abbandonerò Alphy.
Mi sto muovendo prima ancora di averlo deciso, lanciandomi sull’aggressore con tutta la forza di cui sono capace. Gli stringo le braccia attorno al collo come ho visto fare in qualche centinaio di film, e tiro. Delle volte i cliché sono tutto ciò che ti resta.
- Lascialo andare!
L’uomo non sembra notarmi, così appesa sulla sua schiena. I miei sessanta chili non sono una garanzia.
Affondo le unghie nella stoffa della sua giacca per tenermi. Quest’uomo deve essere strafatto, o non mi spiegherei tanta resistenza. Eroina, metanfetamina? I cristalli sono diventati il business più produttivo dall'ex-New Messico al Nebraska. 
Ruggisco di frustrazione e faccio la prima cosa che mi passa per la testa. Affondo  i denti nella sua spalla, serrando la mascella come un animale, ed è come mordere un pezzo di carne congelata, o ricevere un pugno dritto in bocca. 
La pelle dell’uomo è dura, resistente, e si lacera solo quando rischio di slogarmi la mandibola. Un’esplosione di liquido salato mi provoca conati di vomito.
L’uomo, però, mugugna per il fastidio e lascia la presa. 
Alphy emette un suono spaventoso, come un risucchio, e il suo petto torna a rialzarsi. L’aggressore mi scrolla via e con uno schiaffo mi spinge tra due braccia magre.
La testa mi pulsa incessantemente. Non riesco a vederla, ma sento l’alito fresco di una donna sull’orecchio. Una complice. Siamo due contro due, adesso.
Alphy striscia per raggiungermi, con le unghie che graffiano l’asfalto umido. Sta pregando l’uomo con voce lamentosa e impastata, ma ha la faccia così gonfia che non riesce a parlare.
- Che cosa volete da noi? Non abbiamo denaro, né oggetti di valore.
La donna mi schiaccia un piede con il tacco del suo stivale, così appuntito da perforare le sneakers. Sono scarpe troppo costose per poter essere indossate dal membro di una gang di strada.
- Sareste dovuti rimanere due anonimi ragazzini annoiati, - sospira, - Scommetto che non era difficile vivere la vostra insulsa vita da parassiti senza dare troppo nell'occhio.
La donna ha un accento strano, tutto suoni duri e gutturali.
- Invece adesso ci tocca piantarvi due rudimentali coltelli da cucina in gola. 

Arrabbiata. Realizzo che sono così furiosa che il panico non trova spazio, questa volta. Sono così piena d’ira che potrei scoppiare.
Prima l'attentato, adesso questo.
Sono stufa della sfortuna sempre sopra la mia testa, della follia nella quale mi sono persa, dell’uomo che riempie Alphy di calci.

Smetto di combattere contro la presa della donna e mi giro a guardarla. Le sputo il sangue sul viso.
E funziona.
Mi scaraventa a terra, puntandomi un coltello al centro della fronte. Adesso riesco a vederla dritta in faccia.
- Piccola bestiolina feroce!
La donna si pulisce la guancia come se fosse contaminata. Le provo tutte per levarmela di dosso, senza risultato. Ho sempre pensato che i maniaci si riconoscessero dall'esaltazione febbrile negli occhi, ma lei mi squadra con assoluta professionalità. Ha un aspetto strano, androgino. Se i lunghi capelli biondi non le ricadessero sulle spalle, non sarei capace di definirne il sesso. L’uomo si concentra su di noi, e mi accorgo che la somiglianza tra di loro è inquietante. Sono fratelli.
- Avete preso le persone sbagliate!
L’uomo ride di gusto, ma sua sorella non sembra altrettanto divertita. Fa scorrere la lama lungo la linea del mio naso, senza fare pressione. Il sudore che mi appiccica i vestiti al corpo è gelido.
- Tu e Lei siete talmente diverse che non c'era alcun rischio di commettere errori. Adesso da brava, lasciami lavorare. Quest’arma volgare è una seccatura sufficiente.

Lei? 
Lei chi?

Che stia parlando di -
- Velocità di ripresa del moccioso? – chiede, rivolta al fratello.
L’uomo arriccia il naso per il disgusto.
- Nulla.

- Capacità di reazione?
Una risata sarcastica.
- Facciamola finita, allora. Uccidi anche lui.
Nello stesso istante in cui la donna alza il coltello sopra la mia testa, l’uomo estrae il suo e fa per calarlo su Alphy. Il tragitto della lama segue una linea particolare, armonica. Come una parabola dalla curva accentuata.
Lilith lo diceva degli aeroplanini di carta che cercavamo di far volare da piccole. I suoi volavano sempre più in alto, sempre più a lungo, piroette su piroette.
Respiro piano.
Per lei era tutta una questione di coordinate e di accelerazione verticale, per me di vento tra le ali.
Ma i suoi volavano più in alto.
Chiudo gli occhi e aspetto che sia finita, senza sapere perché stia finendo davvero.
C'è un sibilo acuto.
Poi un colpo secco. 
Il rumore della carne che frigge.
Li riapro.

***

La donna è in ginocchio e un ago sottile le spunta dalla coscia destra. Trattiene a stento le imprecazioni mentre prova a portare a termine il lavoro nonostante tutto. La sua testa scatta in spasmi incontrollati e un lampo di delusione la fa fremere. Si accorge che la mano che muove non è quella che stringe il coltello, e ne sembra sorpresa.
Ci guardiamo.
Io alzo il pugno per spaccarle la faccia, la testa, tutto. Alla fine però apro le dita e le richiudo attorno al manico del coltello, scandendo un’unica parola con solennità.
- Fottiti.
Balzo in piedi per salvare Alphy e chiamo il suo nome. 
L’arma è pesante. Pesantissima.
L’uomo lascia andare Alphy e si butta sulla sorella per farle da scudo, senza preoccuparsi di me. È un gesto strano, mi lascia interdetta. Che succede?
Perché sta per succedere qualcosa, o non ci starebbero fissando tutti con il fiato sospeso.
Me ne accorgo solo adesso, quasi per istinto.
Tutti. Ogni singola persona nascosta nell’ombra delle case disabitate, dove prima non l'avevo notata.
Abbasso lo sguardo sulla miriade di puntini rossi che spiccano sul mio corpo e vedo ciò che cercano le sagome nel buio. Un bersaglio.
- O mio Dio, - soffio.
Intorno a noi scoppia il finimondo.

 ***

Due furgoni sfondano il recinto abbandonato e piombano in strada. Dalle finestra partono colpi di pistola a silenziatore, come fischi metallici. Colgo il bagliore dei proiettili sulla strada e corro alla cieca fino a quando non trovo Alphy.
Respira.
Rido istericamente nell’incavo del suo collo insanguinato, e senza una precisa ragione penso al formaggio svizzero pieno di buchi. Rido di quanto tutto questo sia grottesco. Grottesco, sì. Potremmo finire come il formaggio.
Ho una crisi di nervi che è l’ultimo dei miei problemi in questo momento.
Alphy ha un taglio sul fianco, ed è pallido come il sudario di un morto.
Delle figure sfrecciano al centro della via. Potrebbero esserci decine di persone, qui.
- Qualcuno ci aiuti! – grido.
Non lascio andare il coltello.
I proiettili sfondano i vetri delle case, ma rimbalzano contro la carrozzeria dei furgoni. Mi dico che forse possiamo sopravvivere e vedere un’altra alba. Mi convinco che posso trascinare Alphy e chiamare la polizia.
Uno sparo mi sfreccia a pochi centimetri dall’orecchio, poi vicino alla spalla.
Un piccolo disco autocomandato si alza dal tettuccio di un furgone e vola sopra di noi. Ci disegna un cerchio intorno, chiudendoci in un cono di fumo.
Perdo di vista Alphy quando degli uomini mi caricano di peso, senza che possa dire o fare qualunque cosa. 
Uno di loro mi scaraventa nel furgone più vicino e preme il suo corpo contro il mio per tenermi ferma. Cerco di piantargli il coltello nella schiena, ma riesce a disarmarmi in un secondo.
Il cappuccio gli scivola dalla testa e per poco non rimango senza fiato.
Un ragazzo dalle iridi come fili d’erba mi soffia via i capelli dalla faccia.
- È così che ringrazi il principe che è venuto a salvarti?
Gli infilo il dito medio nell’occhio.
Il principe che è venuto a salvarmi mi mette le manette e mi chiude un casco sofisticato intorno alla testa per tapparmi occhi e bocca.
- Homo sapiens, - sbuffa, - che razza di animale.


1. Il riferimento è ad "Animal Farm" di George Orwell.

Angolo delle ciance: capitolo più corto, ma più movimentato. Il titolo in principio era "Il moto parabolico di un coltello che cala", in analogia a quello compiuto dagli areoplanini di carta, but quelli bravi in fisica mi avrebbero linciato, quindi l'ho cambiato. Ho specificato quando la concavità di tale luogo geometrico è rivolta verso il basso (come vedete nella figura), perché il coltello che cala disegna una parabola del genere. Also, finalmente entra in scena questo importantissimissimo personaggio. Le parole che lo introducono saranno essenziali per la sua caratterizzazione!
Ringrazio di cuore chiunque abbia letto questa storia, e mando un bacio alle 52 persone che mi hanno inserito tra gli autori preferiti: siete tanto belle <3

Ania, Charly, Chimera: grazie!

 



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Capitolo 6
*** L'epinefrina liberata dalla scoperta dell'attentatore ***


Entropy - Capitolo 5


Epinefrina: anche conosciuta come adrenalina; si tratta di un neurotrasmettitore coinvolto nelle reazioni di "fight or flight", "combatti o scappa". I suoi effetti sono riscontrabili nei momenti di intensa attività fisica, soprattutto in caso di scontro violento o di fuga. 

CAPITOLO 5.

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Tiro una spallata contro la portiera del furgone.
Quanti traumi deve superare il mio corpo prima di sviluppare una resistenza sufficiente al dolore? Continuo a sperare che succeda. Mi ripeto che la prossima spinta non farà così male, che posso sopportarla, ma più provo a liberarmi, più i colpi mi tolgono il respiro.
Il viaggio non finisce mai. Scalcio, tormentando i cilindri cavi delle manette fino a quando l'agitazione febbrile che mi tiene vigile non comincia a cedere alla stanchezza. Quando la rassegnazione prende il sopravvento, mi abbandono contro il sedile e reclino la testa all’indietro.
All'inizio nessuno dei miei sequestratori dice una parola. Regna un silenzio da far accapponare la pelle, qui dentro.
Il sangue raggrumato mi fa prudere le labbra, ma il casco mi impedisce di grattarmi la faccia, così penso fitto per distrarmi, passare il tempo, tenere a bada il panico. Rievoco quello che è successo e scrivo centinaia di possibili trame su quello che sta per accadere: provo a immaginare che cosa mi faranno, perché mi hanno aggredita e dove mi stanno portando.
Chi sono?
Chi è il ragazzo dagli occhi verdi che mi ha sollevato di peso e chiuso nel furgone?  A lui non riesco a smettere di pensare. È seduto al mio fianco - con la chiave delle manette nascosta nelle tasche, probabilmente -, ma faccio attenzione a non toccarlo.
- Qualcuno è a corto di C9H13NO3, mi pare.
La sua è la prima voce che sento dopo ore intere di viaggio. Non capisco di cosa stia parlando, comunque. Le ferite sulle braccia strepitano, coprendo la sua risata sprezzante per un po’. È controllata: né eccessiva, né forzata, come se si fosse esercitato a lungo per migliorarla.
- Epinefrina, se te lo stai chiedendo, - aggiunge, - sebbene ne dubiti fortemente.
Parla con me? Dal momento in cui non posso rispondere, né ho la minima idea del significato delle sue parole, rimango zitta e ascolto. Non so se a sconvolgermi di più sia il suo tono scocciato o il fatto che non possa avere più di diciotto anni. Un criminale precoce, il ragazzo.
- Adrenalina, - sbotta, - ti suggerisce niente?
Lo ignoro. Fa strani discorsi per essere un rapitore.
Mi volto verso il finestrino per non dargliela vinta, nonostante il casco mi impedisca di vedere quello che c’è fuori. Lui sospira con freddezza. Dopo il nostro breve scambio – a dire il vero il ragazzo ha fatto tutto da solo – il tempo scorre con una lentezza ostinata. Mi rassegno a uno stato di torpore che rifiuta perfino la paura: ho le gambe rigide, pesanti, tradite dalla circolazione, e i polsi gonfi che premono contro le manette.
Di tanto in tanto il ragazzo discute con i sequestratori seduti sui sedili anteriori, ma non fa che confondermi le idee, quindi smetto di farci caso. Almeno fino a quando non bisbiglia un ordine secco.
- Porta la velocità a 230 chilometri orari, sono stufo di stare qui dentro.
Istintivamente mi allontano dallo sportello del furgone. 230 cosa? Pensavo fossimo su un’autovettura qualunque, non su un treno superveloce. Se fosse vero e la portiera si aprisse per errore, precipiterei fuori e... Scaccio l'immagine per non vomitare.
Drizzo le orecchie: forse il casco attutisce i rumori, ma non c’è alcun suono che tradisca lo sfrecciare del furgone. Mi convinco di aver capito male: nessuna strada consente di marciare a una velocità del genere, comunque.
- Jian dice che il ragazzo ha bisogno di cure. Sbrigatevi.
Alphy.
Il migliore amico di mia sorella, da qualche parte in un altro furgone, è in pericolo di vita. Provo a sbirciare sotto la visiera del casco per capire dove siamo diretti, ma non c'è verso di riuscirci.
Mi viene un’idea. 
Mi piego in avanti con il petto sulle ginocchia, e tossisco forte. Ho la bocca incollata dal casco e solo il naso libero, ma questo è un punto a mio vantaggio: dal rantolo che produce la mia gola sembra che stia per soffocare.
Uno degli uomini sul sedile anteriore pare allarmato.
- C’è qualcosa che non va. Apra il casco fin sotto gli occhi, per favore.
No, toglietemelo tutto, toglietemi questa roba di dosso.
Il rifiuto del ragazzo è categorico.
- Sta solo bluffando. Il casco viene continuamente rifornito d’ossigeno, non c’è niente che possa andare storto.
Simulo un tremito e cerco di avvicinarmi le mani al collo. Nelle recite scolastiche mi relegavano sempre sullo sfondo. Non sono mai stata una brava attrice.
- Seymour ci ha dato delle precise direttive!
Colgo un movimento: l’uomo si stende oltre il sedile e mi sfiora il retro della nuca con due dita, disegnando qualcosa di imprecisato sul casco. La visiera si alza di scatto, fino a metà del naso. Prendo un respiro profondo. Cominciavo a sentirmi in trappola.
- Stai bene, ragazzina?
- No, devo andare in bagno.
Lascio ricadere le braccia, delusa. Sono ancora cieca.
- Devo andare in bagno e voglio sapere che diavolo sta succedendo e che ne è stato di Alphy.
Mi faranno del male per il brutto scherzo che gli ho tirato? Se avessero voluto uccidermi avrebbero lasciato che quella donna mi tagliasse la gola, giusto?
- Posso chiudere il casco, adesso che avete avuto prova della vostra stupidità?
- Comincia con il chiudere quella maledetta bocca.
Lo bisbiglio a voce così bassa che io stessa faccio fatica a sentirmi parlare, eppure una canna cilindrica e fredda mi preme sulle labbra prima ancora che abbia finito la frase, mandandomi un brivido lungo la schiena. C’è lo scocco appena percettibile di una sicura che viene rimossa. Sembra quella di una pistola.
- Fossi in te, rimarrei a cuccia.
Il respiro del ragazzo è sulla mia guancia, a pizzicarmi la pelle. Gli altri sequestratori non osano fiatare: il ragazzo è un pezzo grosso, molto più grosso di loro.
Mi costringo ad ubbidire. Accetto di rimanere in silenzio, a patto che il casco resti semi-alzato.
Dopo un po’ il guidatore annuncia che siamo quasi arrivati e il furgone prosegue su una lunga salita; quando si ferma del tutto il ragazzo si tende sopra di me per aprire il finestrino e cacciare fuori un braccio. Rimango perfettamente immobile.
- Accesso consentito. Bentornato, Signor Reichenbach.
Il pavimento sotto le ruote si alza. Su, sempre più su, per secondi interminabili. Che posto è questo?
Per quanto la preghi di continuare a muoversi, di non consegnarmi a quello che mi aspetta senza reagire, la pedana si ferma.
- Datele da bere, medicatela e fatele trovare un bagno, ma non azzardatevi a toglierle il casco nei corridoi.
Il tono del ragazzo non ammette discussioni.
- Seymour riceverà la creaturina tra un’ora esatta: è una vostra responsabilità, adesso.
Un passo leggero si allontana dal furgone, ma non riesco a distinguere la direzione verso cui si dirige. Due persone mi alzano dal sedile e mi guidano nel buio senza commentare: nessuno di loro è il ragazzo dagli occhi verdi. Non riesco a spiegarmi come sia possibile, ma so che riconoscerei il suo tocco tra mille.
Reichenbach.
Il principe.
Se non mi uccidono prima, farò bene a ricordarmi il suo sguardo di giada, la pressione delle sue mani, il modo in cui tiene il mento leggermente alzato in una posa fiera.
La prossima volta terrò più stretto quel coltello.

 ***

 La prima cosa che vedo quando mi tolgono il casco è una fila di alte vetrate sulla parete di un vecchio salotto. I miei occhi, finora costretti al buio, rifuggono i raggi del sole che rinasce: combatto per tenere alzate le palpebre, e dopo un po’ riesco ad aprirle del tutto. La luce inonda la stanza di un colore acceso, rosso vivo.
L’alba.
La rincorsa della mattina sulle ore della notte, la conquista di un altro giorno. Credevo che non l'avrei più rivista, e invece mi ritrovo a sorridere impercettibilmente. Sono qui, e respiro ancora.
- Sybil?
E anche lui respira. Così debolmente che non mi ero accorta della sua presenza, ma respira. Mi precipito da Alphy, lasciandomi cadere in ginocchio vicino al divano su cui è steso: le sue mani sottili e un po' sudaticce sono incrociate sopra il ventre; una camicia pulita, ben lontana dal ricordare la sua t-shirt, gli avvolge il busto smilzo e spigoloso, lasciando intravedere le macchie bluastre dei lividi sul petto.
- Pensavo che non fossimo arrivati in tempo per salvarti. Dio, credevo che fossi morto!
Ammicca al fianco fasciato e mugugna che sta bene, che non devo preoccuparmi. Vorrei riuscirci, ma mi sento in debito con lui: è come se ne fossi responsabile. Alphy porta il lutto per la scomparsa di Lilith quando non ce la faccio, e io in cambio lo proteggo. Solo questo, nient’altro. Esiste una specie di patto tra noi due.
- La donna che me l'ha medicato ha detto che era un taglio poco profondo.
Mi guardo intorno per assicurarmi che siamo soli: gli uomini che mi hanno condotta fin qui se ne sono andati. Mi alzo le maniche della felpa fin sopra i gomiti per scoprire le fasciature e sapere che cosa ne pensa; dalle braccia passo alle ginocchia e al viso, dove la guancia destra si è sgonfiata. Alphy ha perso gli occhiali, e per osservarmi deve avvicinarsi fin quasi a toccarmi con il naso.
- Qualcuno ha medicato anche me, - annuisco, - ma non sono riuscito a vederlo in faccia.
Lui non sembra sorpreso che gli abbiano risparmiato il casco, visto che è praticamente cieco. Mi chiede di descrivergli il salotto, e all’inizio non so come iniziare. Non sono mai stata gli occhi di qualcun altro: richiede una fiducia che nessuno si è mai preso il rischio di darmi.
Gli parlo della stanza circolare come la descriverei se stessi scrivendo un libro, partendo da lontano: le vetrate sconfinate, le teche di cristallo lungo i muri, piene di strumenti dall’aria costosa e antica; solo in un secondo momento mi avvicino, mettendo a fuoco i particolari: il divano sulla quale siamo poggiati, con le zampe di leone che poggiano sul pavimento di marmo, e una singolare scrivania  al centro della stanza.
- Ha una forma strana, come una mezzaluna dalla superficie liscia.
La maggior parte delle famiglie dalle nostre parti non riesce ad arrivare a fine mese, figuriamoci a mantenere un posto del genere. Sento il portafoglio piangere non appena poso lo sguardo da qualche a parte. Ma non è detto che mi trovi ancora nei dintorni della mia città, visto che il viaggio è durato fino all’alba. Chissà dove siamo.
- Dove siamo capitati, Alphy?
Ho bisogno di una risposta più di quanto non abbia bisogno di dormire e recuperare le energie. Una singola certezza, una sola; è tutto quello che mi serve.
Lui però scuote la testa e si abbandona di nuovo sul divano. Chiude gli occhi dalle ciglia lunghissime.
Lilith lo ha mai visto dormire?
- Non riesco a credere che tutto questo stia succedendo, – sussurro, più a me stessa che a lui. Mi alzo per lasciarlo riposare e giro il salotto in lungo e in largo. Mi fermo su una teca contenente un cannocchiale che ruota, posto su una pedana circolare. Due “G” sono incise sull’anello più stretto dello strumento.
- C’è una sola spiegazione: siamo stati presi di mira dalla Mafia.
Una risata. Ma non è quella di Alphy.
Entrambi ci voltiamo di scatto verso la porta di legno intarsiato. Dove prima non c’era nessuno un giovane uomo si piega in un leggero inchino. Ogni centimetro del mio corpo si elettrizza alla sua vista. Serro i pugni ben stretti per essere pronta ad attaccare, ma lui alza le mani in segno di pace. Raggiunge la scrivania a falce, invitandomi a prendere posto vicino ad Alphy.
Non smetto di tenerlo d’occhio.
- Qualcuno aveva puntato tutto sul fatto che mi avreste aggredito non appena avessi messo piede qui dentro, - sorride. Le sue guance arrossiscono come quelle di un bambino imbarazzato.
- Sono felice di aver vinto questa scommessa.
Sei ancora in tempo per perderla, penso, ma a che scopo? Saltargli addosso sarebbe un tentativo troppo avventato perfino per me. 
- Per farci sparare un colpo in testa?
L’uomo ha l’aria sconsolata, come se si sentisse terribilmente in colpa. Non so che cosa mi aspettassi dai miei sequestratori, ma di certo non questo. Provo a mantenere allerta il buon senso e ad avere paura di lui, ma c’è qualcosa nel modo in cui si muove che lo rende impossibile.
- No, grazie, abbiamo visto abbastanza proiettili per una vita intera.
Per poco ad Alphy non prende un colpo. Lo rassicuro con una buona dose di fatalismo. Potrebbero ucciderci in qualunque momento, se volessero; tanto vale scoprire perché.
- Non vi farei mai del male, - dice l’uomo, e il suo tono è serio, - mai. Quello che è successo ieri sera è stato un errore irreparabile.
Quando rapiscono tua sorella c’è ancora la possibilità che di errore si possa parlare, ma quando fanno per pronunciare il suo nome  puntandoti un coltello alla gola, non c’è alcuna coincidenza che regga.
- Dov’è Lilith?
Alphy non perde tempo. Si muove piano, come se dovesse ridursi in polvere da un momento all’altro, tirandosi su con le braccia. Niente gli impedisce di chiedere di lei, anche se sarebbe stato più logico pretendere delle spiegazioni riguardo l'aggressione. Aveva centinaia di domande a disposizione, e ne ha scelta una sola.
L’uomo - deve essere Seymour - abbassa lo sguardo. Sfiora le venature del legno con un dito e la superficie della scrivania scivola via, lasciando spazio a uno schermo illuminato. Una specie di proiezione dalle numerose interfacce si accende.
È...incredibile, e viene voglia di toccarla. Dicevano che il progresso tecnologico si fosse spezzato come tutto il resto, tre anni fa. Forse con il denaro si può aggiustare ogni cosa.
Seymour accarezza la proiezione, sfogliando i documenti come pagine di un manuale di carta.
- Lilith Crowford, quasi diciassette anni. Sua sorella, non è vero?
Il suo nome mi provoca una fitta acuta al petto. Annuisco. Avevamo ragione a pensare che fosse tutto collegato.
- Lei sa che cosa le è accaduto, non è vero?
- Datemi del tu, per favore. Lo fanno tutti, anche chi non dovrebbe. Il mio nome è Xanders Seymour, piacere di conoscervi.
Ho la sensazione che non ci sia alcun bisogno di presentarsi, quindi non ricambio la cortesia. Seymour fa di tutto per metterci a nostro agio, ma i suoi modi educati non fanno che confondermi.
- Che cosa le avete fatto?
Un sospiro. Xanders è dispiaciuto, ma non sembra preoccuparsi di quello che potrebbe scatenare il rapimento di due sedicenni; o meglio, tre. Le ricerche saranno cominciate da un pezzo e la USD potrebbe già essere sulle nostre tracce. Spero.
- Immagino che mentirvi a questo punto sia del tutto inutile. So che cosa ne è stato di Lilith, - dice.
Ma c’è un ma, naturalmente.
- Ma non ne sono responsabile, come non lo sono le persone che rappresento in questo momento.
Fa una pausa in cui cerco di capire se stia scherzando o no. Se sono sveglia o no. Se posso fidarmi di quello che sentono le mie orecchie oppure no.
Una parte di me viene attratta dalla verità come se fosse il centro stesso della Terra, e vuole disperatamente crederci, per avere la conferma che avevo ragione sull'esistenza di quegli uomini dalle tute bianche. L’altra rifiuta di accettare una realtà tanto assurda.
- Mi sta confermando che mia sorella è viva?
- Certo.
- Che è stata rapita?
- Sì, e che l’attentato alla scuola che frequentavate era solo un pretesto per portarla via.
Qualsiasi cosa Xanders abbia aggiunto, io non la capisco. Per un po’ le parole mi scivolano di dosso come acqua corrente, altrettanto, gelide, sfuggenti. Poi però mi sommergono fino a quando non riesco più a risalire in superficie, e affogo, affogo, affogo in quello che Seymour continua a ripetere.
- Sono morte quarantuno persone, - boccheggio, e quel numero suona proibito.
- Chi rischierebbe tutto questo per sequestrare una ragazza?
- Qualcuno disposto a inscenare una rapina finita male solo per togliervi di mezzo, perché sapete troppo.
Al solo ricordo mi viene la pelle d'oca.
- Voglio dire, perché sconvolgere quello che è rimasto del Mondo per una persona qualunque?

Gli occhi di Xanders, di un azzurro senza macchie, tradiscono un guizzo.
- Non una persona qualunque. 
- Sybil, immagino che se ne sia accorta da tempo, ormai. Lilith è speciale.
Ovviamente. È quello che mi ripetono da sempre. Brillante, di un’intelligenza duttile e superiore; prestante, gentile, geniale. Lilith ha i riflettori di tutti puntati addosso fin dal giorno in cui è nata.
Ma questo che vuol dire?
- Si spieghi meglio.
- Commetterei un crimine se lo facessi.
Gli mostro i palmi graffiati delle mani.
- Scusi? – sbotto, - Non è stato un crimine l’averci quasi ucciso ieri sera, l’averci portati qui?
Non sembra che se ne curi troppo, dopotutto.
Il suo viso giovane, coperto da un accenno di barba rossiccia, si contrae per il dispiacere.
- Vi ho portati qui per proteggervi dalle persone che hanno preso tua sorella, Sybil, e me ne assumo le conseguenze. Ma né io, né i miei affiliati abbiamo infranto la legge.
"Affiliazione" non è un termine che sento dire tutti i giorni.
- Chi siete voi, esattamente?
Mano a mano che il sole si alza la scrivania, come una mezzaluna, riduce il proprio bagliore.
Vengo colpita dall’indecisione nell’espressione di Xanders, come se avesse paura di rivelarci troppo. Questo potrebbe significare che non ha intenzione di farci fuori, a patto di tenerci all’oscuro di qualcosa.
Xanders ci riflette su. Nel frattempo una bambina dai capelli cortissimi ci porta tre tazze di cioccolata speziata nel salotto. 
- Non avevo chiesto di te, Leslie. 
La bambina ci guarda come se fossimo il giocattolo più strambo che abbia mai visto e ridacchia di continuo.
- Ciaaaaaao!
Fa parte di un'organizzazione criminale anche lei? 
- Ciao, - rispondo, e Leslie sembra proprio soddisfatta. Almeno fino a quando Xanders non la caccia dal salotto.
Lo stomaco mi brontola, e sono troppo affamata per pensare che la bevanda calda potrebbe essere avvelenata. Mando giù un sorso, assaporandone il retrogusto esotico. Cannella, pepe nero, zafferano e qualcos'altro che non riesco a riconoscere: è deliziosa.
- Dicevamo, lei è della Mafia? Sa, per le armi da fuoco, le auto blindate, e tutta questa roba costosa.
- No, certo che no! Mettiamola in questo modo: faccio parte di una grande società di uomini a cui sta a cuore il futuro del Pianeta. Una famiglia che ha bisogno di persone capaci, qualcuno come Lilith.
- Scopritori di talenti?
- Qualcosa del genere. Solitamente facciamo in modo che questi talenti nascano nelle nostre cerchie, in modo da poterli preservare senza dover affrontare la USD e il codice della Rottura. Sapete che le organizzazioni private sono state sciolte con la forza, non è vero?
- A parte quelle criminali, - dice Alphy. Ha l’aria attenta, concentrata; si slaccia e riallaccia i polsini della camicia in continuazione.
- Noi non facciamo niente di sbagliato, Signor Fleming. Utilizziamo le nostre abilità a favore del progresso, ecco tutto. Investiamo nelle nuove tecnologie e nella ricerca quasi tutto il denaro di cui disponiamo.
Sposta lo sguardo da me ad Alphy.
- Un momento, - dice lui, - come fate a selezionare le persone speciali fin dalla nascita?
- Sì, - gli faccio eco, - come fate?
A dire il vero non so che cosa stia insinuando, ma sembra essere una questione importante. Xanders non si aspettava di avere a che fare con qualcuno di sveglio, a quanto pare. Si massaggia le tempie e prende un respiro profondo.
- Genetica. Oh, è complicato; è la faccenda più complicata che possiate immaginare. E non avrei dovuto dirvelo.
Non ci lascia prendere la parola.
- Le cose stanno così: sua sorella era troppo preziosa per poterne sprecare le doti, - si affretta a spiegare.
Tossisco fino alle lacrime. Alphy mi batte la schiena con una mano, lamentandosi per il dolore agli arti. Siamo un duo ridicolo.
- Lilith è stata rapita perché troppo intelligente?
Vengo investita da migliaia di moventi orribili per cui potrebbero averla sequestrata. Non voglio che le facciano del male senza prima essermi scusata per aver rotto il suo sismografo.
- Vogliono sezionarle il cervello?
Alphy mi guarda storto. Sul serio?
- No, ma credono di avere il diritto di sfruttarne il potenziale.
Mi sporgo in avanti, sul bordo del divano.
Chi può vantare il diritto di strappare Lilith alla sua famiglia? Tutto questo non ha alcun senso. E in ogni caso rimane l'incognita dell'attentato: non bastava rapirla per strada, e farla sparire nel nulla?
Xanders coglie il restio sul mio viso e si schiarisce la gola.

- Come reagireste se vi confidassi che c’è qualcosa nel DNA di Lilith, che la rende più simile a me che alla sua stessa famiglia?
Come reagirei, vuol sapere.
Io -
Non - 
DNA, cioè -
Faccio per posare la tazza vuota sul vassoio. Le dita mi tremano forte, e non le sento più mie. La tazza cade e si rompe in cocci appiccicosi. Xanders mi rassicura che manderà qualcuno a pulire. Mi chino lo stesso e comincio a raccoglierli.
- Sybil, so che è difficile da credere, - azzarda, ma un pezzo aguzzo di porcellana è finito sotto il divano e non ci arrivo e per prenderlo devo abbassarmi.
C'è una bella macchia, qua sotto.
- Quattordici anni fa scoprimmo che tua sorella era un vero e proprio miracolo, e ne fummo colti alla sprovvista. Il suo fenotipo era infinitamente superiore a quello di un comune essere umano, e non riuscimmo a spiegarcelo: da sempre controlliamo che la nostra specie prosegua secondo discendenze monitorate, così da non perderne nessuno. Nessun bambino.
Il coccio è per metà sotto la scarpa slacciata di Alphy. Mi piego sulle ginocchia e gli spingo il piede. Lui non accenna a muoversi. Gli tiro i lacci delle scarpe e lui è immobile come pietra grezza e io comincio a perdere la pazienza. Come faccio a ripulire tutto se manca quel pezzo e Alphy non si sposta?
- E poi arriva Lilith, spuntando dal nulla. Una gemella eterozigote con il genotipo parzialmente diverso da quello della sorella e con due genitori privi del suo potenziale allelico. I rischi che qualcuno lo scoprisse erano una minaccia troppo grande per poter essere affrontata, e fummo costretti a votare sul da farsi. La maggioranza scelse di farle vivere la propria vita senza obbligarla nelle proprie scelte, ma tutti gli altri lo presero come un affronto. Noi decidemmo di lasciarla libera, all’oscuro di tutto, e di non reclamarla mai. A quanto pare, però, qualcun altro non era disposto a mantenere la promessa.
- Sposta il piede, - dico.
Basta un centimetro.
Alphy non mi considera affatto.
- Alphy, sposta il piede.
- Lei sta dicendo che Lilith non è figlia dei Crowford? - chiede lui.
La porcellana mi apre il polpastrello da parte a parte, in superficie. Il taglio non è profondo, e sembra sbagliato che esca così tanto sangue a sporcare il pavimento. Sbagliato, è tutto molto sbagliato. Mi rialzo piano, con il coccio tra le dita, e guardo Xanders: lo fisso in silenzio, perché sembra un sogno, questo. E nei sogni, per quanto ti sforzi di parlare, la voce si perde sempre.
- Sì, - annuisce, - lo è. Generata per mezzo di una fecondazione assistita. Ed è questo il punto.
Fenotipo, genotipo, potenziale allelico. Specie.
Copro la voce di Alphy, ma non lo faccio apposta. Me ne accorgo a stento.
- "La nostra specie", ha detto. La vostra specie di scopritori di talenti? Di criminali, di cantastorie?
Quale delle tre? O tutte insieme?
Lui mi guarda con infinita tenerezza. Povera piccola, povera stupida. Proprio non ci arriva.
- La nostra specie, - dice solo, e io non capisco che cosa c’entri quella cosa in tutta questa storia. La genetica. 
Prendo Alphy per un braccio e lo costringo ad alzarsi: si lascia tirare come una bambola di pezza.
- Andiamo via, torniamo a casa. Vieni, Alphy.
Ma non so dove siamo, non so come raggiungere casa mia. E non mi lasceranno uscire di qui.
Mi artiglio alla manica della sua camicia e giro sui tacchi.
- Andiamo via, - ripeto lo stesso.
- Ranulph, giusto? Sei un ragazzo intelligente, sai di che cosa sto parlando?
- Eugenetica, - balbetta lui, - ed è contro qualunque principio etico-morale.
Paroloni su paroloni su paroloni su paroloni.
- Dimentica per sempre quel termine. È più di questo, è Evoluzione. Le persone come Lilith non sono speciali per caso, ma per un fattore scientifico e tangibile e...
Xanders fa il giro della scrivania e gli prende le spalle. Sorride proprio come un poppante. A quel punto Alphy si china verso di lui e sussurra.
- Lei è folle. Si faccia curare. Intanto noi andiamo dalla polizia.
Mi segue verso la porta.
- Datemi qualche giorno! Mi occuperò personalmente di rassicurare le vostre famiglie, a patto che rimaniate qui e che mi diate l’opportunità di spiegare. Posso dimostrarvi che tutto questo è reale, e posso riportare indietro Lilith. A voi chiedo solo del tempo!
Gocce pesanti cadono dalla punta delle mie dita, scandendo i secondi. Mancano pochi passi. Dieci, nove. Quanti prima che ci rimettano le manette?
- Dovete solo avere fiducia!
Devo avere fiducia. Questo è stato il mio credo per le ultime 52 settimane, ed ecco fin dove mi ha portato.
- Come posso fidarmi di lei, dopo quello che è successo? La sua combriccola ha rapito mia sorella!
- No, non la fazione a cui ho giurato fedeltà! La Rottura ha cambiato tutto: c’è stato uno spaccamento definitivo nella nostra comunità,  e molti di Noi hanno deciso di agire per degli ideali discutibili. Sono gli stessi che quattordici anni fa votarono contro la decisione di lasciar vivere la propria vita a Lilith.
Troppe informazioni, tutte insieme. E io sono così stanca, confusa, e il dito mi pulsa senza sosta. Quando realizzo il significato delle parole di Xanders l’ultimo residuo di energia che mi tiene in piedi rischia di spegnersi. Barcollo.
- Quindi non sa come riportarla indietro, - dico, e anche Alphy si riscuote.
- Lei ci ha portati qui con la forza e ci ha raccontato tutto questo, ma in verità non c'è niente che possa fare. Se Lilith è in mano ai suoi nemici, o quello che è, - taglio corto il suo tentativo di correggermi. Non mi interessa. So che cosa vuole dire: non sono dei nemici, non proprio.
- Non può fare niente per lei.
- Sì che posso. Possiamo, è un dovere della mia fazione. C’è solo bisogno di tempo per chiarire la questione.
- La questione è semplice, - sbotta Alphy. Improvvisamente i suoi lineamenti si deformano in una maschera di rabbia che non gli si addice.
- Avete detto che secondo la vostra legge, nessuno avrebbe dovuto torcerle un solo capello, figuriamoci far saltare in aria quarantuno persone innocenti. Tutto il Mondo ne parla. Non potete, che ne so, sporgere denuncia?
Xanders si rassegna. Socchiude gli occhi limpidi e non trova più il coraggio di guardarmi.
- Tutto quello che possiamo denunciare per ottenere un risultato è l’aggressione ingiustificata ai vostri danni, niente di più.
Che significa? E il rapimento, l’esplosione? Tutti quei feretri calati nella terra?
- L’unico motivo per cui i nostri oppositori possono aver agito in maniera tanto drastica, è perché sapevano che la legge, per quanto dura, non li avrebbe puniti. Sono sicuri che non ci siano prove tangibili per dimostrare che da mesi comunicavano con Lilith, nonostante il divieto che era stato loro imposto. Posso solo immaginare cosa le abbiano inculcato in testa.
- Ciò che gli mancava, - continua, - era un modo di portare tua sorella dalla loro parte, e così è stata lei a trovarne uno. Di certo sarà questa la loro difesa. Ufficialmente loro l'hanno solo salvata da un tentativo di...suicidio. 
- Questa era l'unica parte del patto che ci permetteva di reclamarla. Se Lilith è in pericolo di vita, è nostro dovere proteggerla.
Alphy comincia a scuotere forte la testa. No, balbetta, no, no. Capisce prima di me, come sempre.
- Dica quello che deve dire una volta per tutte.
Xanders lo fa.
E io non dovrei piangere, perché è quello che ho sempre voluto, non è vero? Che Lilith fosse cattiva, per riuscire ad odiarla senza sensi di colpa, né invidia, né rimorsi. E allora da dove piovono queste lacrime di vergogna?
- Abbiamo ragione di credere che in quanto minorenne, e non perseguibile penalmente, sia stata Lilith a organizzare l’attentato. Lei ha fatto esplodere quella bomba, perché sapeva come riuscirci. Era sicura che se avesse finto di volersi togliere la vita qualcuno l'avrebbe portata al sicuro. 
- Sybil, l'ordigno che ha distrutto la scuola è stato costruito da sua sorella.
All’improvviso questa stanza diventa insopportabilmente stretta. E io non riesco a reggere più di quelle quarantuno famiglie distrutte per sempre. Raggiungo la porta troppo in fretta, e la spalanco con troppa violenza, e spero solo di trovare qualcuno, qui fuori, che mi dica che non è vero. Che sono davvero pazza, dopotutto.
E invece non riesco a fare due passi oltre la soglia che lui mi afferra la felpa per trattenermi. È sempre stato qui dietro, a origliare. A spiare nel buco della serratura con quei suoi occhi verdi. Gli tiro uno schiaffo, ma blocca il mio gancio destro e mi inchioda contro il muro.
Reichenbach.
Lo odio.
Lo odio come odio mia sorella.
E ho abbastanza epinefrina, adesso, da stringere il pezzo aguzzo di porcellana e squarciargli il braccio che mi tiene ferma.
Lui mi disarma per la seconda volta in poche ore, ma non è abbastanza rapido. Del sangue comincia a sgorgare dalla carne viva, correndo giù per il polso.
Reichenbach si soffia una ciocca bionda dalla faccia, furioso. All'inizio tutto in lui mi distrae, e quasi non me ne accorgo. Quando
torno ad osservare la ferita - l'ho fatta io sono stata io sono capace di fare del male alle persone - il mio cuore salta un battito. Il taglio si rimargina come se a chiuderlo ci fosse una cerniera. La pelle si ricuce, il sangue smette di uscirne fuori, e mentre il mio polpastrello ancora piange rosso, la sua cicatrice comincia a sbiadire.
Lui liquida tutto come se fosse perfettamente normale, ma si arrabbia più di prima. 
- Tu, - ringhia, rivolto a Xanders, - tu sei un povero idiota.
- E Tu.
Afferra la medaglietta che ho appesa al collo da quando sono piccola ed emette una risata sarcastica alla vista della piccola scritta che vi è incisa sopra.
Frei. Liberi.
- Tu non vai più da nessuna parte, creaturina.


Angoletto:  aggiorno così tardi perché ho vissuto l'intero mese di Agosto a Londra, e a mia discolpa dico che questo capitolo è stato il più difficile da buttare giù. Negli YA le rivelazioni centrali della trama vengono fatte tutte in una volta, ma a me sembra sempre poco realistico, quindi ho deciso di introdurre le mie un po' per volta. Se non capite tutto adesso non temete, ma sentitevi liberissimi di fare domande. Non ci sono note particolari, solo una: "frei" è una parola tedesca. Spero che il capitolo vi sia piaciuto, e che abbiate voglia di lasciare un commento (positivo o negativo). Vi assicuro che la voce del lettore sprona tantissimo! Ringrazio di cuore le 54 persone che mi hanno inserito tra gli autori preferiti, e mando un bacio a chi passerà di qui. 
Forse non vi ho mai segnalato il "fic-trailer" della storia; in caso eccolo qui.


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Capitolo 7
*** La sconfitta più grande dopo la Rivoluzione Copernicana ***


cap6
Rivoluzione Copernicana: con il termine s'intende la nuova visione dell'universo elaborata da Niccolò Copernico, autore della teoria eliocentrica, che pone il Sole al centro del sistema di orbite dei pianeti; essa si oppone a quella geocentrica, che prevedeva invece la Terra al centro del sistema solare.

CAPITOLO 6.
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La ferita continua a rimarginarsi nella mia testa. È come quando si guarda una fonte luminosa troppo a lungo e si finisce per esserne tormentati anche al buio.
Aperta, chiusa, carne sanguinante, cicatrice pallida. Apertachiusapertachiusa.
Reichenbach mi trascina nel salotto circolare per i capelli. Sembra più grande, adesso, l'unico adulto nella stanza, mentre Xanders si accartoccia in un silenzio atterrito. Le dita di Reichenbach tirano forte per tenermi immobile la testa. Fanno male, ma non riesco a dirglielo. C'è una sicura a serrarmi le labbra; un lucchetto, una porta blindata che permette al panico di entrare, senza lasciarlo defluire.
No.
Non si tratta di panico, stavolta, ma di atrofia. Lilith ci aveva fatto una ricerca sopra a undici anni, non è vero? È un'atrofia totale, quella del mio cervello che si rinseccolisce sotto la pressione della sua mano e non vuole funzionare più.
Reichenbach mi costringe a sedere sul divano, allentando la presa.

- Sei appena diventata un fastidioso problema.
Sento i suoi polpastrelli che scivolano via quando si dirige a grandi passi verso la scrivania a mezzaluna, ravviandosi i capelli come se cercasse di mettere una parvenza d'ordine a questo disastro. Xanders trasuda nervosismo da tutti i pori.
- Che stai facendo?
- Informo il Comizio del gravissimo malfunzionamento delle tue sinapsi, Seymour.
Si muore d'atrofia cerebrale?
- No no no,
Si muore di tutto questo?
- Tu,
-  Stammi a sentire,
- No, tu stammi a sentire, - la voce di Reichenbach raggiunge il monotono. C'è qualcosa di definitivo nel modo in cui riesce a soverchiare quella di Xanders senza il minimo sforzo: gli basta imporsi un'apparente calma piatta per fare in modo che Seymour smetta di parlargli sopra.
Li fisso in silenzio.

- Se pensi di poterle rivelare tutto senza il consenso della Fazione, ti sbagli. Hai parlato abbastanza, hai agito abbastanza, e non hai alcun diritto di violare la legge se questo vuol dire metterci tutti in pericolo.
- L'unico diritto da difendere in questo momento è il suo.
Xanders tende un dito verso di me, incerto. Quell'espressione limpida, impacciata, sembra compatirmi per un po'. Non riesco a immaginare cosa veda, squadrando la mia. Confusione? Sgomento, forse, o un'apparente assenza totale.
- I ragazzi meritano di conoscere la verità su quello che sta succedendo. Sono quasi stati ammazzati, Gesù!
Prima che Reichenbach possa controbattere, una donna si precipita nella stanza. Ha i capelli scuri attorno a un chignon sbilenco, e sembra aver corso. Emette un gridolino quando si accorge di Alphy, fermo vicino alla porta come un'ombra che ha perso il corpo.
So che è qui per rendere tutto più complicato, per prendere tempo e discutere su ciò che è giusto o sbagliato. A me non importa. Parlo senza staccare gli occhi dal braccio di Reichenbach. Forse l'atrofia non è letale.

- Voglio solo che ci lasciate andare.
Scopro di non avere più il pianto inchiodato alla gola.
C'è uno scambio d'occhiate che potrebbe significare tutto o niente, poi Xanders sposta la mano di Reichenbach dalla scrivania.
- Il Comizio deve essere informato in ogni caso, - dice lui, - La nostra Fazione, per lo meno.
- Non adesso.
- Infrangi il Trattato, allora! Raccontale di Noi. Fai crollare tutto quello in cui ha sempre creduto.
- Bene.
I pugni di Reichenbach si serrano, facendo schiumare i residui di sangue. All'inizio - quando un frammento di me riesce ancora a cogliere quello che gli succede intorno - penso che sia sul punto di strangolare Xanders. In questo momento non mi dispiacerebbe. Poi, però, la sua mascella si rilassa e il mento affilato si alza leggermente in una posa altezzosa. Come se si fosse rassegnato. O come se avesse calcolato tutto, e avesse trovato qualcosa, nelle conseguenze di quello che sta per succedere, che potrebbe tornargli utile.
- Bene, - dice.
Xanders non mi era mai parso così a disagio; un rossore violento gli sale sulle guance mentre invita Alphy a riprendere posto al mio fianco. La donna lo prega di fermarsi e aspettare ordini dall’Alto. Ma non c’è nessun Alto, dice lui, non c’è una piramide; solo un cerchio. Non ho idea di che cosa voglia dire. Io sono una marionetta a cui nessuno muove più gli arti. Un burattino a cui hanno tagliato i fili. E la mia mente scorre le stesse immagini in continuazione, come un disco inceppato. Ferita aperta, ferita chiusa, ferita aperta, ferita chiusa.
- Che Dio ci aiuti, - sussurra la donna, e Reichenbach sorride.
- Se è Lui la nostra unica speranza, accogliamo la rovina.


***

Quando Xanders comincia a parlare lo fa come un professore che spiega biologia ai propri alunni; serio e preparato, all'inizio. Invasato poi.
Gesticola incessantemente con le mani, e sfoglia le pagine della proiezione sulla proiezione a falce. Vuole che la sua "rivelazione" sia semplice, ed è per questo che inizia con un nome che mi ricorda mia sorella: Charles Darwin. A volte Lilith ne parlava e io mi rifiutavo di starla a sentire, così non so chi sia quel tipo. La spiegazione si semplifica solo per Alphy.
- Quando vi ho parlato della nostra "specie", intendevo il concetto letterale e scientifico del termine. Mi segui?
No. È tutto molto anormale, fin qui.
- Non fraintendetemi, non sto parlando di una specie aliena, o sovrannaturale. Quelle stranezze non esistono, chiaramente.
C'è qualcosa di ironico in quello che ha appena detto, ma l'atrofia si ritira troppo lentamente per permettermi di cogliere certi giochetti.
 - Quello che sto cercando di spiegarvi è che la nostra Comunità è composta da esseri umani.
Non mi dire.
- Esseri umani con qualcosa di diverso, però.
Non me lo dire per davvero. Non credo di voler sapere altro.
- Siamo stati scoperti un’ottantina di anni fa, - si affretta ad aggiungere.
- Non è chiaro chi per primo si sia accorto che il genotipo della specie umana stava cambiando da tempo, ormai, e che alcuni individui, chissà quando e come, si erano allontanati dalla definizione di homo sapiens. Quando si raccolsero abbastanza informazioni a riguardo, quando vennero compiuti studi e ricerche e analisi, si venne a conoscenza del fatto che una minuscola percentuale della popolazione terrestre aveva raggiunto uno stadio superiore della specie. Che il corpo di tali individui era perfezionato nella forma e nel proprio funzionamento. Che il loro sistema nervoso era una macchina quasi perfetta.
- Si realizzò che esistevano esseri umani Superiori. Frutto di una deriva genetica senza precedenti, forse. Effetto del fondatore, collo di bottiglia? Non lo sappiamo. Ciò che è certo è che abbiamo sconvolto qualsiasi equilibrio Hardy e Weinberg avessero  mai concepito.
Fa una pausa, credo. A me sembra che parli, parli e non prenda il respiro, in un fiume di parole senza senso e senza fine.
- Quello che hai visto, Sybil, la capacità di intervento delle sue piastrine, - annuisce, ammiccando a Reichenbach, - e il modo in cui la sua ferita si è rimarginata, è solo una minima parte del nostro potenziale. E di quello di Lilith.
Cala un silenzio fitto nella stanza, tutto sulle spalle di Xanders.
- Come potete vedere, non c'è niente di cui avere paura, dal momento in cui...
Ci sono talmente tante cose che non capisco che rischio di dimenticare chi sono, ma non che ci sono e che posso ancora provare a parlare.
- Perché? - lo interrompo.
Non era quello che volevo chiedere. Però l’ho fatto, e Xanders si emoziona con poco.
- Perché è successo? Perché siete diversi dal resto del Mondo?
- Te l'ho detto, Sybil: non c'è alcuna risposta a questa domanda, a parte, forse, una.
- Ti sei mai chiesta del perché il Sole sorge da una distesa d’acqua e tramonta fra le montagne? Del perché un bambino comincia ad esistere nel corpo di sua Madre? È la Natura, Sybil.
- Non esiste un perché, ma un come. Esiste l’Evoluzione della specie. Ed è incredibile che tutto questo suoni assurdo e sovrannaturale e bizzarro, quando non c’è niente di più reale della scienza. Ma come puoi vedere gli esseri umani non sono pronti per conoscere la verità. Abbiamo passato quasi un secolo a cercare di nascondere le tracce della nostra presenza su questo Pianeta, perché siamo una minoranza, una diversità. E come tutte le diversità, saremmo considerati una minaccia.
Con la coda dell'occhio vedo Alphy che si stropiccia la camicia.
- L’uomo non accetterà mai di perdere il proprio primato, - continua Xanders.
- A fatica, e solo dopo aver compiuto deplorevoli stragi ha accettato di non costituire il centro stesso dell’Universo, e di ruotare intorno a una Stella come tutto il resto del sistema solare. Pensaci:
da creature elette a infinitesimali punti di niente nello spazio. La Rivoluzione Copernicana non è forse stata la più grande sconfitta del genere umano? Non siete pronti per riceverne un'altra. Questo, per lo meno, è quello che pensa la nostra Fazione, ed è anche la ragione per cui confessare tutto questo a te e a Ranulph è un reato.
Mi caccio il dito in bocca senza nemmeno pensarci. Il sapore del sangue è ferro e sale.
- Che cosa pensa la Fazione opposta alla vostra?
Xanders si stringe l'attaccatura del naso, come a voler schiacciare il mal di testa.
- Il resto della nostra specie, e cioè il partito opposto al nostro, crede di avere il diritto di uscire allo scoperto e di imporsi sui Governi grazie alle nostre sorprendenti capacità. Ma non è questo lo spirito con cui eravamo soliti vivere, te lo assicuro. La Rottura ha portato a galla ambizioni che credevamo lontane dalla nostra natura.
Pare che voglia giustificarsi.
- Sai qual è la nominazione scientifica della nostra specie? - sorride.
- Homo Superior?  - azzarda Alphy. 
Se sapesse essere abbastanza polemico da fare del sarcasmo, questa sarebbe la volta buona. Penso a tutti i libri che ho letto, alle serie televisive che ho guardato, e ai fumetti che ho comprato nel corso degli anni; ricordo di aver sentito la storia dei super-uomini tante di quelle volte che sembra impossibile che non finisca tutto spegnendo la tv, o sfogliando l’ultima pagina di un romanzo; una volta finiti i soldi per le graphic novels.
Xanders sembra orgoglioso quando lo corregge.
- Homo Novus.
Non mi aspettavo questo. Per un momento il mio rifiuto vacilla.
- Vi suggerisce qualcosa?
Qualcosa, sì. Un paragrafo in un libro di storia, di quelli che stampavano prima della Rottura, quando della OC-Italia si poteva ancora parlare.
- Nell’antica Roma gli Uomini Nuovi erano quelli che plasmavano il proprio successo dal nulla. Senza un nome, senza nessuno a comprare loro un posto in Senato, si facevano strada grazie alle proprie capacità. Molti di loro furono uomini magnifici. Innovatori, intellettuali, generali che salvarono la Città Eterna dalla caduta con nient’altro che il loro valore.
Reichenbach parla per la prima volta da quando Xanders ha preso parola. Guarda lontano, fuori dalla finestra, e la luce gli tinge di sfumature rossicce i capelli chiari.
- "Io non posso, per conquistare la vostra fiducia, vantare ritratti o trionfi o consolati dei miei antenati, ma se necessario posso mostrare le cicatrici che mi attraversano il petto. Questi sono i miei ritratti, questa è la mia nobiltà: non mi è stata lasciata in eredità come la loro, ma l'ho conquistata a prezzo di innumerevoli fatiche e pericoli. La virtù parla da sola."¹
Il mattino poggia una corona ramata sulla sua testa. C’è qualcosa, nella solennità con cui tutti rimangono in silenzio, a suggerirmi che si tratta di una citazione di cui non riconosco la fonte.
Reichenbach la recita con tanta naturalezza che sembra portarla come sigillo sulla mente, comandamento di quel cuore di pietra, e quando ne pronuncia la chiusa una corrente sconosciuta mi attraversa il corpo. Mi ritrovo a  ripeterla a fior di labbra.
La virtù parla da sola. 
- Il discorso di Mario, - sussurra Xanders, - primo Uomo Nuovo di Roma.
Impiego più di quanto vorrei a staccare gli occhi da Reichenbach.
- Abbiamo scelto il suo titolo perché sappiamo di che cosa siamo capaci. Sappiamo di poter servire l’Umanità più preziosamente di chiunque altro, perché c’è stato dato un dono, e non lo sprecheremo. Non importa a quale Fazione dei Novi apparteniamo. Tutti noi vogliamo essere qualcosa di più, qualcosa di nuovo. Qualcuno che non commetterà gli errori degli uomini comuni, e che spenderà le proprie doti in nome di un progresso illuminato.
Qualcosa di nuovo, ha detto?
Nuovo.
Senza macchie, senza imperfezioni. Qualcosa che non ha ancora deluso nessuno.
- Sono roba vecchia, le pistole. E gli attentati, e gli omicidi, e la violenza.
Reichenbach si volta. Tutti lo fanno, ma io ho occhi solo per lui.
- Il pensare di essere migliori degli altri, - aggiungo.
E questa è per lui; per il suo broncio sprezzante, e il suo squadrare tutti dall’alto in basso.
- Non c’è niente di nuovo in tutto quello che vi ho visto fare fino ad ora.
- E Lilith non avrebbe mai combinato quello che ha combinato se non avesse avuto a che fare con Voi, - sussurra Alphy. Non riesco a guardarlo in faccia, quando lo dice.
- Ammettiamo che anche solo una minuscola parte del mio cervello accetti tutto questo, - continuo, per dimenticarmi dello strazio nella sua voce, - e non lo fa, tra parentesi... Che cosa dovrei fare?
Io, sedicenne con la famiglia che cade a pezzi, sopravvissuta a una strage provocata dalla propria sorella. Quella sorella che tutti, perfino adesso, credono essere speciale. Lilith che, se tutto questo ha un senso, è più che umana, e ha ucciso quarantuno persone.
- Ditemelo. Che cosa dovrei fare?
Suona come una richiesta d’aiuto, la mia? Per un po’ non riceve risposta, e cresce il sospetto che sia come le altre volte, quando per una dannata parola di conforto grido in silenzio per giorni e giorni, e nessuno riesce a sentirmi.
 D’un tratto, però, Xanders si avvicina, poggiandomi una mano sulla spalla.
- Devi fidarti di me, - dice.
- Questa storia dovrà risolversi con o senza la tua approvazione.
- E Lilith?
- Come ti ho già detto, tua sorella è una di Noi. Solitamente un Novo sposa un altro Novo, così da essere sicuri che il gene della nostra specie riesca a manifestarsi, ma non ci risulta che ci sia qualcun altro, nella vostra famiglia che possa averlo trasmesso a tua sorella. Ho paura che rimarrà un mistero.
- No, intendo...come la riporterete indietro?
- Pura e raffinatissima arte diplomatica. Vedrai che andrà tutto bene, Sybil, ma tanto vale che restiate qui, dove possiamo proteggervi. Ci occuperemo personalmente delle vostre famiglie, promesso.
Reichenbach è incredulo. La sua approvazione non c’è di certo.
- Non hai idea di quello che stai facendo, Seymour. Adesso che gli hai rivelato tutto vanno consegnati al Comizio!
Xanders fa fatica a mantenere il sorriso, come se la presenza del ragazzo lo intimorisse.
- Non sei quello che prende le decisioni in questo posto, Nicholas.
Nicholas.
Pare folle che abbia un nome come tutti noi. Un nome così bello, per una persona così detestabile. Nicholas. Nicholas. Nicholas Reichenb -
- Non ancora, - puntualizza.
Infila la porta per andarsene, e appena lo fa lascio andare tutto quello che non sapevo di stare trattenendo.
Espiro.
L'aria sembra solida e fa fatica a sgusciare dai polmoni.
Se è così che stanno le cose non espirerò mai più. Mai mai mai più.
Cedo due secondi dopo, quando
Alphy fa scorrere il braccio sul divano.
Per un po' le nostre mani rimangono a sfiorarsi senza mai cercarsi davvero, ma alla fine il suo indice si intreccia al mio, ed è incredibile quanto possa fare anche solo un dito.
Mi ricordo che Alphy è una sorta di genio anche lui.
- Dimmi la verità. Da futuro scienziato, intendo. C'è una microscopica possibilità che non sia tutta una balla?
- Io resto, - dice solo.
E vale come un sì, immagino.
- Resto qui.
In cuor mio lo sapevo già, ma non accettavo che Lilith potesse essere amata così tanto, nonostante tutto.

- Anche io.
Ancora una volta i miei occhi si riempiono di lacrime.
Ma scelgo di avere fiducia, e non ne verso nessuna.

 

***

Siamo ancora nell'FC-nA-Minnesota, il che è più lungo a dirsi che altro. Parecchio a Nord, a sentire Xanders, quasi al confine con il GC-Canada. Dalla finestra del dormitorio in cui mi hanno condotto si vede un grande parco tutto intorno alla Villa - così l'ha chiamata Seymour -, con un bosco di conifere che si estende a perdita d’occhio e un lago che riflette il grigio plumbeo del cielo. E pensare che l’alba era stata serena.
Fuori non c’è nessun'abitazione. Non ci sono strade con l’asfalto pieno di buchi, né auto, né edifici fatiscenti; solo alberi e corsi d’acqua, a quanto pare. In meno di sei ore mi sono allontanata da casa come solo una volta in vita mia, qualche anno fa.
Osservo il paesaggio perché non riesco a dormire. Per quanto mi sforzi di riposare anche solo per un po’, continuo ad alzarmi dal letto e a tornare alla finestra. Il dormitorio è vuoto, e la porta è chiusa a chiave. Questa volta non mi hanno tappato gli occhi lungo i corridoi, ma non avevo voglia di guardarmi intorno, così adesso non saprei ricostruire il percorso che hanno seguito.
Il cerotto sul dito mi pizzica. Poggio il polpastrello sul vetro freddo per calmare il prurito e penso alla voce impastata di mia madre. Xanders ha insistito affinché la chiamassi, perché non ha ancora avuto modo di architettare un piano per tenermi qui e gli serve più tempo per pensarci. Lei non sembrava essersi accorta della mia assenza, quando le ho detto di aver passato la  notte a casa di un amico. Ci ha provato ad arrabbiarsi, ma poi ha lasciato perdere. Credo che non voglia avermi intorno in questo momento, e un po’ mi dispiace. So che non lo fa apposta, però.
Alla fine le ho strappato un altro giorno, e per stasera Xanders si sarà inventato qualcosa.
Convincere la zia di Alphy a fare lo stesso ha richiesto più sforzi del necessario, ma alla fine ce l’abbiamo fatta. Ci hanno assegnato due stanze diverse, comunque.
Chiudo le tende e mi trascino di nuovo verso il letto morbido. È costoso, lavorato, e profuma di pulito; affondare tra le coperte è una bella sensazione, ma il sonno non arriva. Se chiudo gli occhi rivedo il lampo azzurro dell’esplosione a scuola; ne riascolto il boato, ne respiro il fumo. Conto tutti i fili castani della treccia di Lilith fino a quando non mi sembra di impazzire.
E allora provo a ricacciare indietro gli attacchi di panico, saltando da un ricordo all’altro per non lasciare che mi inseguano. Quando alla fine mi addormento, sogno di principi che perdono lembi di carne nel fuoco, e di capelli di un biondo chiaro, quasi bianchi sulle punte, che bruciano come paglia. E la carne ricresce, i capelli ricrescono, e bruciano di nuovo in una tortura senza fine.
Non so in quale parte del sogno qualcuno mi tocchi una spalla per cercare di calmarmi. Sento solo il cuore che striscia nella gola come un verme.
- Va tutto bene, era solo un incubo!
Cerco il luogo da cui proviene la voce, mentre il sudore mi cola lungo le tempie, sul petto, attaccandomi i vestiti addosso. 
- Hai urlato.
Lilith. Sei Lilith? C'era lei in camera mia, la notte prima dell'attentato. E io ho urlato, quella volta, per 3:12 secondi.
Appena vedo per la prima volta la ragazza china su di me, però, caccio un grido così lungo che perdo il conto del tempo, perché magari se butto fuori tutto, svuotando la testa, il cuore e i polmoni, questo essere dimezzato sparirà dalla mia vista. Cerco di strapparmelo di dosso, ma le lenzuola non fanno che attorcigliarsi di più intorno alle mie gambe.
Voglio solo svegliarmi prima di uscirne matta, perché
Non.
Posso.
Essere.
Sveglia.
Ma la ragazza che mi tiene la mano non fa parte dell’incubo, né dei principi che sanguinano e rinascono dalle ceneri. Sì che sei sveglia, assicura, sì!
La mia reazione sembra ferirla nel profondo dell’anima.
Sono sveglia, e lei è reale. A lei mancano i pezzi per davvero.




1.
Sallustio, "Bellum iugurthinum".


Angoletto:
ebbene sì, una delle tante rivelazioni della storia è stata fatta. Volevo renderla il più verosimile possibile, quindi troverete all'interno di essa delle teorie scientifiche realmente esistenti, come per esempio quella della deriva genetica, che deve essere letteralmente intesa come quel processo di evoluzione della specie causato da fattori casuali. Uno di questi è il collo di bottiglia, fenomeno che si ha quando un piccolo gruppo di individui sopravvive a situazioni ambientali anormali e si adatta - migliorandosi - fino a "evolversi". L'effetto del fondatore si ha invece quando un individuo con "doti" (se vogliamo dirlo in parole semplici, altrimenti si parla di geni) particolari si stacca dalla popolazione e fonda un nuovo albero genealogico in cui tutti hanno ereditato le sue caratteristiche, formando appunto una nuova specie. L'equilibrio di Hardy-Weinberg, citato in questo capitolo è, per farvi capire, la teoria contraria, ovvero quella che nega la possibilità di "mutazioni" frequenti nel corso del tempo, in quanto sostiene che venga sempre mantenuto un equilibrio evolutivo. Ci sarebbero decine di cose da dire, su Darwin, sul perché ho scelto la denominazione "Homo Novus" e non quella di "Homo Superior", oppure sulle sigle davanti ai nomi dei paesi (quello lo spiegherò in seguito). Non avrebbe senso, però, dirlo qui, se poi magari non interessa. Per qualunque domanda, qualunque, scrivetemi QUI. Sarò ben lieta di rispondervi <3
Grazie alle persone che hanno recensito gli scorsi capitoli, e anche a quelli che seguono in silenzio. Non smetterò mai di dirvelo: fatevi sentire! Aiutatemi a migliorare! Vi mando un bacione, lasciandovi con un'anticipazione. Il prossimo capitolo sarà moooooolto particolare.
A presto!



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Capitolo 8
*** Febbraio 1945 ***


campo

Entropia, II:
ogni processo economico inserito in un contesto ecoistemico incrementa insesorabilmente il disordine del sistema-Terra. Tanta più energia trasformiamo in uno stato indisponibile, tanta più ne sarà sottratta alle generazioni future, e tanto più caos sarà riversato su quello che ci circonda.

Febbraio 1945.

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Ne arrivavano a migliaia.
La ragazza non poteva vederli sfilare sotto i cancelli di ferro del Campo - né sapeva chi fossero o da dove venissero -, ma li sentiva marciare. Ascoltava i loro passi come vibrazioni telluriche della terra che calpestavano metro dopo metro; proprio lì, sopra la sua testa, con le catene che strascicavano sul ghiaccio, sempre.
In lontananza, da qualche parte, lo strillo dei treni che graffiavano le rotaie scandiva il giorno, e -

La porta blindata si aprì in uno sferragliare di meccanismi.
Un giovane uomo con il cappotto lungo e la cintura di pelle stretta ai fianchi se ne stava ritto sulla soglia, ma non era un Dottore. La ragazza spostò lo sguardo dal soffitto e lasciò che ricadesse su di lui: uno strato sottile di neve gli copriva le sowilo sul cappello, facendolo sembrare sporco e consumato, ma la ragazza sapeva che le due saette di stoffa erano lì; solo che non le importava.
Ai soldati come lui non era permesso entrare lì dentro, con le loro mani contaminate, la polvere da sparo sugli stivali e un'arma carica nella fondina, ma gli Infermieri alle sue spalle avevano l'aria troppo atterrita per mettersi a discutere.
Il soldato si avvicinò al bordo del letto con la mano tesa. Parlava con calma, a frasi brevi e senza intonazione, ma la ragazza si limitava a fissarlo senza alcuna espressione sul viso.
- Mi hai sentito?
Il suo accento era privo della musicalità italiana che la ragazza aveva tanto amato, un tempo. Quando di preciso, non riusciva a ricordarlo.
Non aveva detto a nessuno che riusciva a capire il tedesco, ormai, e che dal giorno in cui era arrivata al Campo si era aggrappata a ogni parola, a ogni sillaba o vocale, pur di restare in vita; così i Dottori continuavano a ringhiare parole nella sua vecchia lingua, storpiandone i suoni, i dolci accenti, la poesia nascosta.
- Parlo con te.
Con Lei.
Delle volte la ragazza non riusciva che a pensare a sé stessa in terza persona. Era in quei momenti che la presenza del proprio corpo nella camera da letto in cui la costringevano arrivava a confonderla: doveva passarsi le mani sui capelli bruni che le pizzicavano le guance, o strizzarsi forte le labbra carnose, tirandole e stropicciandole, per accertarsi che non fosse tutto un sogno visionario.
Il soldato trattenne un'imprecazione e la prese da sotto le braccia, facendole ricadere la testa a guardarsi il petto: la vista di un seno bianco e morbido sotto la lana leggera le ricordò  che era tutta roba sua. Sue le dita che si mangiava a piccoli morsi, i polmoni con cui respirava; suoi gli occhi, le curve, le spalle, e sua la voce afonica che sentiva di tanto in tanto, come il sussurro di un genio familiare. Uno dei Dottori aveva provato a spiegarle perché fosse l'unica a sentirla parlare.
- Non c'è nessun altra ragazza a parte te, qui dentro. Quella voce sei tu. Sono i tuoi pensieri, la tua coscienza.
Tu e Lei siete la stessa cosa, e lo siete da sempre.
La ragazza non ricordava di essere stata qualcuno in particolare, così la sua unica risposta era stata anche l'ultima che fossero mai riusciti a strapparle: "Io non sono più."
Le labbra del soldato erano strette in una linea dura. Infermieri dal camice ben stirato gli correvano dietro tutti affannati, con gli zoccoli delle scarpe linde che battevano sul corridoio sotterraneo che collegava ogni ambiente della costruzione.
Ne erano passati di giorni da quando l'avevano portata lì, e ancora quella trama fitta e intricata di laboratori la faceva sentire prigioniera di un labirinto senza soluzione. C'era un mostro, là, nascosto da qualche parte, ma la ragazza ne aveva dimenticato le sembianze. Delle volte richiamava a sé quella coscienza estranea che dicevano le appartenesse, e insieme si sforzavano di riportare alla memoria quello che le era successo tra le mura dell'edificio; che cosa le avevano fatto, e perché. Ma tutto ciò che vedeva, se provava a concentrarsi, era il bianco delle pareti e dei mobili, dei pavimenti e delle vesti disinfettate dei Dottori: neve candida di intonaco e legno, neve di cemento e cotone grezzo.
Il soldato che la teneva sollevata da terra stonava, avvolto nella sua divisa scura.
Camminava spedito, quasi si fosse preoccupato di imparare la strada a memoria. Le gambe della ragazza, scoperte dove la veste chiara non arrivava a coprirle, dondolavano dalle sue braccia.
Si fermarono di fronte a una porta anonima e senza colore come tutte le altre, dove il soldato fece per lasciarla andare.
- Dille di tenersi in piedi, - insistette uno degli Infermieri.
- Si lascerà cadere se non le dirai che deve tenersi in piedi.
I suoi custodi sembravano sull'orlo di una crisi isterica; avevano l'ordine di non toccarla a meno che non vi fosse il permesso dei Dottori, e il contatto con un membro dell'esercito costituiva una disastrosa violazione del protocollo di sicurezza. Lui le fece sfiorare il pavimento con la punta dei piedi.
- Veti di non catere, - sputò.
- Capito?
La ragazza non rispose. Era molto stanca, ma prese il controllo dei propri arti e fece come le veniva intimato.
Il soldato bussò alla porta e attese fino a quando qualcuno, dall'altra parte, non gli ordinò di farsi avanti. La ragazza non aveva voglia di entrare, ma il soldato la spinse dentro con un dito a pungerle la schiena nello spazio tra due vertebre.
Di colpo l'odore di medicinali e composti chimici dei sotterranei scomparve del tutto e un lezzo immondo, come di carne in cancrena, le riempì le narici fino a farle girare la testa.
La stanza era calda, illuminata dal bagliore avvolgente di una stufa. Quando i suoi occhi si schiusero sulle persone che la occupavano, però, la ragazza sentì il gelo del Nord annebbiarle la vista e paralizzarle i muscoli, fino a ridurla a una statua inanimata di cristalli di ghiaccio.

***
Una donna dagli occhi verdi come l'erba di Maggio.
Un Dottore alto, dai capelli diafani tirati indietro sulla testa.
Un uomo incontrato sotto le insegne dei cancelli, quella volta che era scesa dal treno e aveva messo piede all'Inferno: il capo del Campo, circondato da cinque dei suoi cani più fedeli, comandante locale delle Squadre di Protezione.
Erano tutti lì.
E insieme a loro, ritte contro una parete divenuta il muro del pianto - scheletri ricoperti da uno strato friabile di pelle -, c'erano ventuno persone.
Uomini e donne, giovani e anziani, e cinquecentoquattro costole in vista.
La ragazza inchiodò lo sguardo sui prigionieri senza produrre il minimo rumore.
- Non dovrebbe essere qui.
Il Dottore aveva l'aria sconvolta. Scuoteva nevroticamente la testa, infuriato, puntando l'indice contro la schiera di detenuti di spalle. La ragazza lo conosceva bene, ormai, perché erano settimane che veniva a trovarla ogni sera, ma in quello stato faceva fatica a riconoscerlo.
- Qui, con questi appestati. Abbiamo impiegato mesi interi per sterilizzare l'ambiente e renderlo completamente asettico!
Il comandante lanciò un'occhiata affamata alla ragazza. Non la disturbava l'essere praticamente nuda, sotto la vestaglia. L'avevano infastidita così tante volte, al Campo, che lo sguardo di un uomo aveva perso di significato.
- Quanti mesi?
- Due, - disse la Dottoressa. Era rassegnata, guardava per terra. Le ciocche bionde che le sfuggivano dalla treccia erano crespe e spente, a riconrdare un fiore in appassimento.
- Molto male Therese.
Il comandante portò il labbro inferiore all'infuori come un bambino.
- Molto male.
- Ce le avete mandata in condizioni pessime. Abbiamo dovuto rimetterla in sesto, come se l'operazione non fosse già abbastanza delicata, - sbottò il Dottore.
Scoccò un dito verso le guardie, - Fateli uscire, adesso.
I soldati rimasero immobili.
- Ai piani alti ne saranno dispiaciuti, - brontolò il Comandante.
- Ai piani alti si preoccupino d'impugnare la armi, per Dio!
Qualcuno tra i soldati sibilò per l'oltraggio. Loro che non erano stati caricati su vagoni fatiscenti, che non avevano perduto tutto, che erano ancora esseri umani.
Il Dottore si fece piccolo piccolo.
- Il loro lavoro è vincere la guerra, giusto? Perché devono giudicare il mio?
Il Comandante con la fascia rossa al braccio si alzò molto lentamente. Sistemò la poltrona sulla quale si era sistemato, tirò i guanti di pelle sul polso, per farli aderire meglio alla dita, ed estrasse la pistola dalla fondina.
Fece scattare la sicura.
Sparò verso il gruppo di prigionieri senza nemmeno guardare.
La ragazza e il generale non batterono ciglio quando un uomo dalle schiena piena di croste si accasciò sul pavimento.
- Dio.
La Dottoressa si coprì la bocca con una mano cianotica. La ragazza indagò il suo viso tirato per un po', chiedendosi se fosse normale non sentire niente, nemmeno sé stessi.
I corpi contro i muri tremavano, stretti l'uno all'altro, come una catena di ossa e carne congelata.
- Cosa ti passa per la testa? - il Dottore ammiccò alla ragazza ad occhi sbarrati.
- Giocare a tiro al bersaglio davanti all'unico esperimento riuscito! Vuoi farla morire di crepacuore?
Il generale poggiò la canna della pistola sulla fronte del Dottore, premendola fino a farla scricchiolare. Tutti trattennero il respiro.
- Dottore, Dottore, tu lo sai che c'è la fuori?
- No.
- Non ho sentito bene.
- No.
Il generale stuzzicò il grilletto, e il dottore deglutì a fatica. La ragazza pensò che un altro ingoio sarebbe bastato ad aprirgli la gola in due.
- No? Te lo dico io, allora. Ci sono quattro treni che ogni dannato giorno scaricano migliaia e migliaia e migliaia di sacchi di carne mangiata dal tifo e centinaia di fottuti sovietici che mi costringono a sprecare munizioni di fortuna pur di ristabilire l'ordine.
Il generale volse lo sguardo a uno dei suoi.
- Ricordami quanti ne sono stati giustiziati oggi, soldato.
- Novantadue, Signore. 
- Novantadue.
- E quanti ne arriveranno domani, Dottore, questo lo sai?
Silenzio. Il comandante avvicinò le labbra al volto dell'uomo, parlando a denti stretti.
- Potrei ammazzarne altri venti proprio adesso, e là fuori ne troverei altri sessanta ad aspettarmi.
- Da dove pensi che vengano?
L'uomo scosse la testa senza parlare.
- Da Majd**ek. Compi**ne. E da Auschw**z-Birk**au, Dottore.
La ragazza ebbe uno spasmo. I passi che sentiva risuonare sopra la propria camera erano di quei detenuti. Dai binari alle baracche del Campo, di giorno e di notte, quella marcia della morte era la loro.
- C-cosa?
Il generale tolse la pistola dalla fronte del Dottore, sparò un altro colpo e la riportò sulla testa dell'uomo. Un altro cadavere si accasciò contro il muro. 
Nessun altro osava fiatare.
- La stiamo perdendo, la guerra, ecco cosa. E tutte le bestie che mandano qui sono quelle che non riusciamo a fare fuori in tempo, prima che i nemici prendano tutti i Campi superstiti.
La donna con gli occhiali a mezzaluna oscillava impercettibilmente, come se fosse stata sul punto di svenire.
- Auschw**z-Birk**au è stato preso?
- Qualche giorno fa.
- Dai Sovietici?
- Dai tuoi fratelli Americani.
Il comandante sottolineò il concetto con un altro colpo di pistola. Il Dottore aveva le orbite iniettate di rosso.
- Nei nostri laboratori c'è in ballo la sorte dell'umanità, non potete permettere che -
- Il caos è la sorte dell'umanità, - tagliò corto il comandante. Il sangue aveva raggiunto i suoi stivali.
- E io e te, sì, io e te, Dottore, abbiamo l'ordine di resistergli prima che quei figli di puttana rivelino al resto del Mondo qual è il prezzo necessario per una giusta causa.
Una giusta causa? La ragazza non capiva quale ideologia si realizzasse nel rendere materiali gli incubi degli uomini.
- Ora, - disse lui, - la scelta è tua. E anche tua, mia cara Therese. Potete lasciar fare tutto a me e alla mia compagna tubercolosi, fino a quando io ho munizioni e lei non comincia a decimare anche i miei uomini. Oppure potete prendervi una parte di questa palta e farne quello che volete in nome della scienza.
Fece una pausa.
- Ma ricorda, Dottore. Ci hai promesso dei vaccini, delle grandi scoperte. Ci hai promesso di cambiare il Mondo, tu, e di farlo con delle armi. 
- Capirai bene che me ne servono almeno un centinaio, e con loro il procedimento esatto per sfornarne un altro milione. A Sachs***ausen ne hanno già tre in arrivo.
Indicò la ragazza.
- Qui ne vedo solo mezza.
Il Dottore parlò con estrema lentezza. La canna della pistola gli aveva lasciato un solco profondo sull'attaccatura del naso.
- Va bene. Portatemi tutti i soggetti dai quattro ai trentacinque anni, - mormorò.
Il comandante sorrise. Fece scivolare l'arma dal Dottore a Therese, toccandole la spalla. Il Dottore si tese verso di lei, come per proteggerla, ma il comandante passò oltre. La ragazza non si mosse, quando lo vide arrivare.
- Come ti chiami?
Quella era una delle risposte che i prigionieri dovevano saper dare in tedesco, ma lei non disse niente.
- Come ti chiami? 
La ragazza non lo sapeva più.
- 111826, - disse il Dottore.
La Donna dagli occhiali a mezzaluna parlò in un soffio.
- Vittoria. Si chiamava Vittoria.
- Proprio un bel nome. Speriamo che porti bene.
Le accarezzò la pancia, dove un leggero rigonfiamento aveva cominciato a sbocciare. La ragazza non lo aveva mai notato prima.
Come se le avessero piantato un ago nel cervello, le sembrò di morire e rinascere nel tempo d'un tocco. D'improvviso credette di ricordare qualcosa, tra la moltitudine di immagini chiuse sotto i solchi delle sue cicatrici: un processo di tortura. Delle siringhe. Cavi nel suo corpo. Provette ricoperte di brina. Forse, pensò, il vero segreto era lì. Forse, dopo che aveva perso il senno, il mostro del labirinto di laboratori era stato nascosto dentro di lei.
Il comandante fece un cenno con la testa ai suoi soldati, affinché scaricassero le pistole sulla fila di prigionieri. Prima che facessero fuoco, però, salutò il Dottore con un leggero inchino.
- Voglio che tutte le cave siano sane, - disse lui.
- E io, Dottore, voglio il bambino che Vittoria porta in grembo. Prima della caduta di Dachau.




Note: capitolo brutto, per quello che ricorda. Sì, questa è un'opera di fantasia. La storia di Vittoria è totalmente inventata, ma purtroppo alcune situazioni che vengono descritte s'ispirano a fatti storici documentati..Gli esperimenti, le epidemie, le deportazioni nei Campi di Lavoro sono stati incubi reali, e vanno ricordati e condannati. Mi è stato consigliato di spiegare in una prefazione qual è la mia posizione riguardo a tematiche tanto complesse: com'è chiaro rifiuto e maledico gli errori/orrori del passato, ma penso sia necessario conoscerli, perché l'umanità non può permettersi di rifare gli stessi sbagli. Ho coperto i nomi dei Campi di Sterminio con degli asterischi, per rispetto degli esseri umani che li hanno visti e per rispetto dei lettori di questa storia.
Li ho citati in un ordine preciso, ricercato e storicamente documentato, secondo il mese e l'anno di liberazione rispetto a quello che non ho "censurato", ovvero Dachau. Sì, portarono veramente lì tutti i prigionieri che non riuscirono a far fuori negli altri Campi e sì, proprio lì tentarono il tutto per tutto utilizzandoli come delle cavie. Certamente gli esperimenti che io ho descritto sono frutto di pura finzione romanzesca. Potrei dilungarmi su cosa facessero veramente lì dentro, ma non ha senso che sia io a parlarvene. Se siete interessati - e tutti dovrebbero esserlo - vi chiedo di informarvi, o di pormi tutte le domande che volete privatamente (qui). Ringrazio chiunque sia passato per di qua, soprattutto Ania, fedele consigliera. Vi mando un bacio, spero che vorrete continuare a seguire "Entropy", aiutandomi a migliorare. A presto!


 

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Capitolo 9
*** L'invasiva cura per una crisi d'astinenza da problemi ***



capitolo 8

Crisi d'astinenza:
è una sindrome, caratterizzata da segni e sintomi che cambiano da dipendenza a dipendenza; essi appaiono alla sospensione
o alla riduzione dell'utilizzo di una sostanza assunta a dosi elevate e per un lungo periodo di tempo.



CAPITOLO 7.


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Le macchine non possono sentire niente: né la pressione schiacciante dell'impazienza, né quella insostenibile della delusione che ti strappa via le parole e riduce al silenzio. Niente. È quello che si è sempre raccontato, dopotutto: non importa in che libro o in che canzone d'altri tempi. Chi canta un corpo elettrico sa bene che le macchine non provano.
Sono solo cavi di plastica legati a lamiere, chiodi stretti e metallo freddo.
Come le dita poggiate sulla mia spalla.
Le mie grida s’interrompono per il tempo di uno spasmo. Poi vengo assalita da una repulsione così isterica da tentare di scalciare via le coperte, levarmi quelle cose di dosso e –
La mano scende a chiudersi attorno al mio polso.
Piano.
Come a non voler spaventare un animale sanguinante, braccato, smarrito.
Riprendo il controllo di me stessa quel tanto che basta per fare una considerazione sullo strano materiale che la ricopre: è rigido al tocco, ma liscio come una perla e dalla stessa superficie perfettamente lattea che si arrampica lungo il braccio, fino a un viso pieno e proporzionato. È quando incontro lo sguardo della cosa che decido di darci un taglio con questa scenata. Mi costringo a chiudere la bocca e istintivamente porto le mani sul petto. Il cuore sembra sul punto di mollarmi.
In risposta la macchina con il corpo da ragazza nasconde gli arti oltre il bordo del letto e abbassa la testa. Per poco non mi lascio andare a un sospiro di gratitudine: se non mi guarda, non dovrò preoccuparmi di camuffare l'incredulità che mi paralizza. Non potrei riuscirci, comunque. Non quando quello che vedo è un puzzle intricato di meccanica e anatomia che si compenetrano fin dentro al suo corpo.
Il lato sinistro, in particolare, è costituito da uno strato di lamina bianca perfettamente modellata. Delle articolazioni più scure collegano braccio e spalla, tradendo un ronzio leggero quando la ragazza - l’androide? - si avvolge in una stretta timida.
Mi pare di averla fissata per troppo tempo. Le macchine sono per definizione insensibili, è vero, ma lei sembra molto triste, come se non vedesse l'ora di scomparire all’istante. Mi chiedo in quanti l'abbiano squadrata come sto facendo io adesso.
Tanti. Qualcosa suggerisce "tu più di tutti".
Credo che a posto suo detesterei essere guardata in questo modo, e androide o no, non vorrei sapere che qualcuno ha paura di me.
- Mi dispiace di aver gridato in quel modo, - dico.
La gola si lamenta per il trattamento che le ho riservato nelle ultime due settimane; la schiarisco prima di continuare.
- Non sono sempre così imbarazzante.
Dì qualcosa.
Ma lei è immobile.
Dì qualcosa.
- Solo qualche volta.
Finalmente la macchina alza la testa. Le scappa un sorriso, e io faccio finta di non notare tutte le diramazioni metalliche impiantate sotto la sua pelle, che scorrono ad attraversarle il collo, le guance e la fronte, fino all'attaccatura di un orecchio finto.
La pupilla di uno degli occhi si allarga e restringe fino a focalizzare la mia immagine, senza che la palpebra accenni al minimo movimento. L’altra però si chiude in uno scatto involontario. E vivo, soprattutto.
Questo significa che tutti i componenti meccanici che la compongono sono solo una protesi incredibilmente moderna: la ragazza non è una macchina che ha rubato pezzi di pelle a una persona, ma un essere umano che qualcuno deve aver tentato di distruggere, un corpo che qualcuno deve aver cercato di riparare. Mi chiedo che cosa le sia successo, e come possa essere ancora in vita con tante viti nella carne. Poi però ricordo dove mi trovo e che cosa ho scoperto su Xanders e i suoi, finendo per accettarlo.
“Investiamo quasi tutto il nostro denaro in nuove tecnologie, per il bene degli altri."
È questo che ha detto.
- Sybil Crowford.
Tendo una mano calda e sudaticcia, la sinistra.
Lei la stringe con la destra, quella sana. Il risultato è impacciato, ma almeno sembra sollevata.
- Sharazad Al-Bitruji, molto piacere.
Il suo accento è forte. Aspira le vocali in un suono caldo e musicale.
Credo sia araba o qualcosa del genere, e del resto il suo aspetto parla chiaro. Il materiale perlaceo delle protesi sposa bene sia la pelle ambrata che i capelli corvini, rasati sopra l'orecchio meccanico. Forse lì non crescono, ma il taglio – come il contrasto dei colori opposti - sembra fatto apposta. Minuscoli campanellini sono intrecciati all'acconciatura complicata che tiene strette le altre ciocche, lunghissime rispetto alle mie. Quando la ragazza ruota il capo per coprire la metà meccanica della sua faccia, produce un dolce tintinnio.
- Sharazad è un nome che ho già sentito.
La mia pronuncia è ridicola, ma lei annuisce.
- C’era un libro, prima della Rottura, in cui una principessa raccontava fiabe per mille e una notte. Si chiamava Sharazad anche lei.
Faccio una smorfia buffa. Forse è uno di quei libri che hanno misteriosamente smesso di stampare anni fa, dopo che l’Oriente si è ribellato. Non lo conosco.
- Non fa niente. Puoi chiamarmi Shad, se ti va.
Certo che mi va. Non può immaginare quanto vorrei fingere che oggi , ad attendermi, ci sia solo una pagina bianca in cui copiare le stesse righe della mia ripetitiva esistenza. Per un po', forse, potrei riuscire a far finta che lei sia solo una nuova ragazza conosciuta a scuola, e che non c'è niente di diverso all'orizzonte se non la solita, vecchia sonata. Come prima che Lilith -
Come prima.
E invece Shad azzarda un'unica domanda.
- Ti hanno davvero parlato di Noi?
Lo dice come se l'intera faccenda la spaventasse a morte, e io vengo catapultata nella realtà dei fatti ancora una volta.
Sono sveglia.
Lei è Shad, ed è una macchina a metà.
È una di loro, dei Novi, di cui sono ospite e collaboratrice.
O, a seconda dei punti di vista, ostaggio.
Mi soffio via i capelli dalla faccia.
- Sì.
- Sì, - ripeto, - ma non ti preoccupare. Non credo a una parola.
Lei sembra sollevata da un attimo di breve illusione. Si sforza di sorridere, dirigendosi dall'altra parte della stanza, dove un grosso armadio dai motivi orientali è già aperto per me.
- C'è un bagno, lì. Puoi usare tutto quello di cui hai bisogno, mentre cerco dei vestiti adatti. Niente chadar¹, promesso.
Tutto qui? Non ci sono domande, per me? Niente più manette, né rivelazioni da togliermi il respiro? Shad indica una porta intarsiata e mi invita ad entrare; in lei c'è una gentilezza estranea a questo posto, come quella di un fiore in un groviglio di rovi.
Mi guardo intorno, riempiendomi gli occhi di tutta questa eleganza: siamo davvero nella sua camera da letto, visto il tipo d'arredamento così bizzarro, ma questa mattina non me ne ero accorta. Adesso sembra di stare in una corte sospesa nel tempo.
Non si hanno più molte notizie sull'Oriente: le nuove generazioni sanno che esiste, da qualche parte, e che la Rottura non ne ha lasciato che macerie. Qualcosa mi dice che questa stanza vi guarda ancora con un certa nostalgia.
Indugio sulla porta del bagno, respirando l'odore di resina e candele. Prima di entrare mi volto verso Shad.
- Ero seria. Non credo nei supereroi.
Lavorerò con loro, forse, ma per adesso non voglio credere che esistano esseri umani superiori, né tantomeno che mia sorella sia una di loro. Sarà solo un'ipotesi da verificare, di quelle che Lilith scriveva a grandi caratteri sulle pareti della propria cameretta prima di un'esperienza di laboratorio. È un punto di partenza, diceva, e allo stesso tempo un punto d'arrivo. Tutto torna, prima o poi, come le linee di un campo magnetico. Bisogna solo trovare il percorso giusto da seguire.
Shad apre un maglioncino morbido davanti a sé, come a prenderne le misure. Nel suo labbro inferiore - striato d'argento - affondano denti bianchi e perfetti.
- Meglio così, - sussurra.
Io mi chiudo la porta alle spalle, entrando sotto la doccia con i vestiti ancora addosso e l'acqua gelida che mi martella la testa. Respiro a grandi boccate.
Di tutte le risposte che Shad poteva darmi, questa è la peggiore.
***

Guardarsi allo specchio è come saltare fuori dal proprio corpo e osservarlo dall'esterno. Mi passo le mani sulle guance, cercandovi il segno di un rigonfiamento, ma le ferite vanno meglio di quanto sperassi; i tagli hanno già cominciato a cicatrizzare e i lividi hanno perso colore. Lancio un'occhiata interrogativa a Shad, che si è offerta di acconciarmi i capelli in un chignon sopra la testa. Lei ha l'aria colpevole.
- Ho lavorato un po' sulle ferite, mentre dormivi. Le tue cellule hanno reagito bene al trattamento e... Beh, hai delle piastrine niente male.
- Uhm, grazie?
Torno a fissare il riflesso del mio viso ovale, soffermandomi sugli occhi grandi, dove qualche pagliuzza schiarisce il castano; poi faccio scorrere lo sguardo sulle labbra piene e arriccio il naso contro gli incisivi superiori cresciuti troppo. A un esame più attento trovo anche un piccolo neo sullo zigomo sinistro, quello che mi distingue da Lilith.
Come se fosse possibile scambiarci l'una per l'altra.
Shad mi prende in giro.
- Controlli di essere veramente tu?
Prima che possa giustificarmi, Shad mi riserva il risultato finale.
- Tadà!
In effetti con i vestiti comodi che mi ha prestato, la faccia pulita e i capelli in ordine, mi sembra di essere una persona diversa da quella che ero ieri sera: una persona nuova.
Deglutisco all'idea.
- Grazie, - dico, e sono sincera.
- Non ho mai avuto i capelli così apposto. Penso che ti terrò con me per il prossimo quadrimestre a scuola.
La scuola che mia sorella ha fatto saltare in aria.
Lei fa finta di non capire. Comincio a sperare che non sappia tutto, a proposito della ragione che mi trattiene in questo posto, ma in realtà Shad è una persona così tranquilla che non può fare a meno di mettere gli altri a proprio agio.
Mi dà qualcosa da mangiare e chiede di me come se le importasse davvero. Quanti anni ho, - lei ne ha quasi compiuti venti, - che cosa mi piace fare, come mi sento in questo momento. Solo alla fine accenna al resto.
- Sai, Xanders mi ha chiesto di farti fare un giro del posto, mentre pianifica qual è il prossimo passo.
Mi prendo qualche secondo per pensare, rassegnandomi all'idea che se voglio ottenere qualcosa da questa storia, devo rimanere qui. Tanto vale saperne di più sul luogo in cui mi trovo.
- Okay, - annuisco.
I suoi vestiti mi stanno corti sulle maniche, ma è bello avere qualcosa di pulito addosso. Shad è stata carina a prendersi cura di me. Mi piace.
Sto per dirglielo quando qualcuno bussa alla porta. La mia prima impressione è che si tratti di un picchio, tanto è insistente.
E adesso? chiedo a Shad con un'occhiata, ma lei si limita a sospirare dolcemente, sfiorando un pannello sul muro. La porta si spalanca e dietro c'è -
- Buongioooooooooorrrrrrno!
Lolly. Levy?
- Buon pomeriggio, Leslie.
Leslie.
La bambina è una forza della Natura. Chissà se anche lei è diversa da me. Superiore a me. Più intelligente e sveglia e resistente. Più carina lo è di certo, con quei capelli corti da folletto e il nasino sottile.
- Su su su, andiamo, Sybil! La Villa è enoooorme.
- Non ti sei nemmeno presentata, Leslie.
Shad si mette le mani sui fianchi e la rimprovera in maniera tenera, quasi materna, ma Leslie è un fiume in piena. Mi prende per mano, trascinandomi verso la porta senza una spiegazione.
- Ciao Sybil, sono Leslie, quella della cioccolata, e mi avrebbe fatto taaanto piacere se ti fossi unita agli altri per pranzo. È che stamattina mi sei sembrata un po' fuori di testa e Shad ha pensato bene di renderti le cose più semplici, portandoti qui la colazione. Shad pensa seeeempre a tutto.
Mi aggrappo allo stipite della porta, puntando i piedi. Non ho intenzione di andarmene da qui senza Shad.
- Tu non vieni? - la supplico.
- Leslie ha un talento per i giri turistici, - dice, - e io vi rallenterei.
Ammicca agli ingranaggi sofisticati che ha a posto delle gambe.
Oh.
Le sue dita meccaniche si piegano per salutarci, emettendo un leggero stridio. La ringrazio un'ultima volta prima di uscire, e lei risponde indicandosi la metà sfigurata.
- Grazie a te. Per non avermi chiesto di questo.
Anche se avresti voluto farlo.
Seguo Leslie per non dover aggiungere altro. Non voglio rischiare di ferire l'unica persona della quale spero di potermi fidare.
Che sia Nova o no, Shad è la più umana che abbia incontrato fin ora.
***

Quando recuperiamo Alphy - a cui hanno inspiegabilmente procurato degli occhiali nuovi - ho già sviluppato:
A) Una lunga serie d'istinti omicidi nei confronti di Leslie.
B) Una brama piuttosto egoistica di essere ricca come quelli che vivono qui dentro.
D) Guardare la lettera A per maggiori informazioni.

Quella che la ragazzina definisce una Villa, è un complesso di immense proporzioni. Non è il luogo in cui mi sarei aspettata di trovare delle persone come Xanders e i suoi, tutti progresso e ricerca scientifica. La Villa sembra più una vecchia tenuta aristocratica, abbellita da quadri, lampadari e decorazioni sui marmi del pavimento. Alphy non ha abbastanza spazio nel cervello per memorizzare tutto, e lo capisco: l'FC-nA Minnesota è ancora in buono stato, ma questo è troppo. Ci sono più soldi qui di quanti ne abbia mai immaginati in tutta la mia vita, e mette i brividi pensare che fuori da qui manchino servizi, energie, e qualche volta perfino del cibo.
- Aaaaallora, mentre i grandi risolvono i vostri problemi, noi andiamo a farci un giretto.
Mi avvicino ad Alphy più che posso, dandogli una pacca sulla spalla. Ha la faccia gonfia, come se avesse pianto.
- Che facciamo quando è finita la gita, ci hai pensato?
Continua a camminare, lasciandomi indietro, e io mi ricordo che non sono l'amica con cui vorrebbe parlare.
Perfetto modo di iniziare la giornata.
Quasi preferivo svegliarmi presto per andare a lezione.
- Cos'è esattamente la Villa, Leslie?
- Lo so a che pensi, amica, ma la Villa non è un quartier generale. Quelli sono nelle grandi città.
Non lo pensavo, ad essere sinceri.
- Questo per i Novi è solo un centro di ricerca, dove cerchiamo cose. Hai presente?
Mima il gesto di guardare attraverso una lente d'ingrandimento e ride di gusto.
Leslie si diverte con poco.
- Ce ne sono centomilamiliardi come questa, nel Mondo. Forse un po' di meno, tipoooo...qualche centinaio.
- I bambini come me ci vanno per imparare cose nuove, mentre i genitori si concentrano sulle scienze applicate. Qui però non ci sono genitori.
- O dai, è uno scherzo.
Alphy si porta le mani sui capelli, come se volesse strapparseli per lo sconforto. Lo capisco, anche io stento a crederci.
- Sì, mi stai dicendo che questo è un orfanatrofio per piccoli geni?
- No, non quello. Il quadro sopra la porta.
Si allontana da noi di qualche passo.
Questa è la parte in cui comincia una lezione delle sue?
- È un falso, spero.
Mi chiedo come possa importargli di un quadro proprio qui e proprio adesso, con tutti gli oggetti che addobbano questo posto. All'inizio quasi non lo noto, tanto i colori sono scuri e i lineamenti sfuocati dalle ombre. Poi un sorriso malizioso mi dice che l'ho trovata: si tratta di una tavola di all'incirca un metro quadrato, chiusa dentro una teca di vetro che quasi non si nota.
Adesso so perché ad Alphy sia venuto un colpo.
- Noooo, macché. Mica abbiamo falsi, qui. Ci è stato donato dal padre di uno dei nostri. Lo ha salvato dalle razzie giù in Europa.
- Se fosse vero, io non terrei il San Giovanni di Leonardo in un posto qualunque.
Leonardo? Quel Leonardo? Pensavo che anche lui fosse scomparso anni fa.
La versione ufficiale è che i capolavori dei più importanti artisti della storia sono stati affidati all'USD e rinchiusi in caveau segreti. Questo dopo essere stati sottratti a Stati Uniti e a Gran parte dell'Europa per come si sono comportati durante la Rottura, è chiaro.
Attualmente la polizia gestisce tutti i musei ancora esistenti, ma l'ingresso è limitato, periodico e così costoso che nessuno che conosco ci è mai andato. Io trovo che sia un'ingiustizia bella e buona, ma la USD non pensa che gli esseri umani si meritino di coltivare la bellezza. L'abbiamo fatta marcire da troppo tempo.
Comunque esistono ancora copie, stampe, cartoline e doppioni. Alla gente basta questo: in una scala dei bisogni l'arte è l'ultimo dei nostri problemi, purtroppo.
- Uffa, non è mica un posto qualunque! La Villa è stata costruita a partire dall'ala Est, e la prima pietra è stata posta proprio in questo punto. Non vedete?
Io e Alphy ci guardiamo intorno.
- No.
C'è qualcosa di inquietante in questa tavola. Nonostante le dimensioni di un comune ritratto non si può che rimanere di stucco davanti alla smorfia appena accennata di Giovanni. Gli occhi scuri del Battista mi fanno sentire praticamente nuda: dicono troppo, senza lasciar capire niente.
D'improvviso sento il bisogno di andarmene alla svelta.
- Forte il modo in cui sembra guardarti, vero? Eeeeh?
Leslie dondola sui piedi, gesticolando. Si porta due dita sugli occhi e poi le allontana, come a tracciare una linea immaginaria tra il suo sguardo e quello del Santo.
- Si tratta di un effetto ottico mooolto complesso. Puoi spostarti da una parte all'altra del corridoio, ma fino a quando rimarrai davanti alla porta, San Giovanni ti vedrà.
Alphy non sembra convinto.
- Perché quella mano alzata a indicare il cielo? - gli chiedo.
Si tormenta gli occhiali nuovi come se li sentisse estranei, troppo instabili sull'arcata un po' storta del proprio naso. Ha la bocca aperta per lo stupore.
- Le interpretazioni sono tantissime. Secondo alcuni il dito puntato verso l'alto è per ricordarci che c'è Dio lassù. Altre fonti, quelle più laiche, considerano che sia Da Vinci stesso ad essersi rappresentato nella tela, e che il suo gesto sia nient'altro che un codice per far riferimento alla...
- Conoscenzaaaaa! Il dono più alto di tutti, - l'anticipa Leslie.
- Il bene superiore.
Chino la testa per sfuggire al giudizio del Battista. Mi sento esclusa dai loro discorsi. Tagliata fuori. Ancora.
Leslie delle volte parla come se fosse un libro stampato. È un tono che non si addice a una bambina come lei, eppure non sembra farci caso. E intanto io mi sento come se non potessi sostenere una conversazione con loro due senza finire per apparire ridicola.
Lilith si sarebbe trovata bene in questo posto, circondata da persone tanto capaci, ma non posso dire lo stesso per me. Perfino Alphy è vicinissimo, eppure terribilmente distante.
- Cosa c'è dietro la porta?
Intervengo per dare tregua ai miei pensieri. Voglio interrompere il muto contatto visivo che mi lega al Battista, e farlo in fretta.
Leslie si fa vicina. Vicinissima.
Assottiglia gli occhi e poggia la mano sulle corone d'alloro incise sul legno. La sua espressione è solenne, e io trattengo il respiro.
- L'ascensoreee! - urla; poi fa trillare una risata delle sue.
Decido che odio i bambini.
Soprattutto quelli che possono vantare un QI più alto del mio.

***
L'ascensore può solo salire.
A detta di Leslie la Villa è costruita sopra dozzine di locali sotterranei che usano come laboratori di ricerca, ma non in questo punto. Nella parte più antica del complesso le fondamenta poggiano su terra e pietre, come dovrebbe essere.
Conto i piani, tre più un osservatorio. È normale per lei, tutto questo? Quest’unione forzata di vecchio e nuovo, di tradizione e innovazione tecnologica?
- Se non è un orfanatrofio è una specie di scuola, giusto?
- Più o meno. Non è mica noiosa come quelle normali.
- Non lo metto in dubbio, ma dove sono tutti, professori e studenti?
Mi meraviglio che non abbiamo incontrato nessuno, per adesso, anche se non mi dispiace. È che la struttura è gigantesca e fa strano che vederla vuota, dal momento in cui i genitori dei ragazzi che ci abitano hanno impieghi importanti e sono costretti a lasciare i figli nelle Ville più vicine. Nel continente ce ne sono otto, e questa non è nemmeno la più importante.
Registro le informazioni più utili e mi ripropongo di rifletterci su in un secondo momento. Per adesso cammino senza discutere - o quasi - perché Leslie ha fretta, e c'è ancora tanto da vedere.
Dopo aver fatto il giro completo di saloni e gallerie, dormitori e perfino una grande biblioteca, Leslie ci riporta al primo piano. Ha una sorpresa per noi, e a me non dispiace fare una pausa. Siamo in giro da un po', ormai, e Leslie non ha smesso di parlare un minuto.
Le porte dell'ascensore si riaprono su un corridoio ampio, dove le pareti di pietra e intonaco assorbono la luce che proviene dall'esterno. Non ho un orologio da polso e il mio telefono è mezzo rotto, ma il cielo fuori si sta scurendo. Mi sembra che sia notte da un'eternità, e che l'Inverno abbia consumato il giorno troppo presto. In realtà questa mattina ho dormito, e adesso mi sento stordita da una scansione così insolita della giornata.
Sbircio fuori dalle grandi vetrate sul lato sinistro del corridoio: non ho mai visto così tanti alberi in vita mia. Viene voglia di perdersi in mezzo ai boschi.
La Villa è incredibile, con le pietre chiare dei pavimenti e delle pareti, i mobili di vero legno e i lampadari che pendono. Mi mette in soggezione. Alphy ha detto che in Europa se ne trovavano molti, di posti come questo, con i soffitti alti e affrescati, le paraste scanalate, le esedre e le volte incrociate. Leslie conferma che l'architetto che ci ha lavorato sopra era austriaco.
Mi vergogno un po' a confessare che non conosco la metà delle parole che usano per descriverla, così tengo tante impressioni per me. Tocco le semicolonne addossate alle pareti, e faccio passare le dita sulle balaustre delle scale. Assaporo il freddo del marmo, l'odore delle resine e degli stucchi. Forse non è abbastanza per contemplare la sfarzosità del posto, ma è il mio modo di guardarmi intorno, e mi basta. Almeno fino a quando le spalle cominciano a curvarsi per la stanchezza.
- Ci possiamo fermare? Ho bisogno di una pausa.
Sono fuori allenamento. Da quando c’è stato l’attentato basta un piccolo sforzo fisico a farmi girare la testa. E il resto - l'attacco, il sequestro, la scoperta dell'attentatrice - non è stato d’aiuto. Appoggio le mani sulle ginocchia e faccio respiri regolari. Spero che non troppo lontano ci sia una sedia.
- Stai bene?
La faccia smorta di Alphy compare da sotto il mio naso. Ha le gambe piegate per potermi guardare meglio. Una fossetta profonda gli increspa la guancia, dove sono ancora visibili lividi a forma di polpastrelli. Sembra più piccolo di quanto non sia in realtà.
- Questo posto è così pazzesco da farmi venire le vertigini.
- Già, - dice solo, e si raddrizza senza aggiungere altro. Qualcosa mi dice che non sono l’unica ad aver avuto degli incubi, qui. Ammicco al fianco dove l’hanno quasi accoltellato. Ricordo di averlo tenuto stretto al petto come si fa con un giocattolo. Era inerte, con le braccia gelide e pesanti che cercavano il terreno, come a voler affondare nel catrame solido della strada. Alphy se ne stava andando come Lilith. Più di lei.
- Tu stai bene? – gli chiedo, e nel momento in cui lo dico mi accorgo che mi importa veramente.
Gli occhi di Alphy, polvere liquida e pallida, si fanno lucidi.
- No.
Sto per parlare quando Leslie mi strattona con insistenza.
- Ti sei riposata? Andiamo.
Mi affera per un braccio. Forte. Sopra le scottature.
- AHHH!
- Scusaaaa!
Scusa? Aaaaaaah.
Mi mordo il pugno con una mano. Fa male, ma non male come la pelle ustionata. E lei si scusa.
- Ti brucia ancora? DAI, a me passerebbe in un millisecondo!
Non so se a sconvolgermi di più sia quello che ha appena insinuato - e cioè che la mia capacità di guarigione è di serie B - o il fatto che lo abbia letteralmente urlato. Quando la sua eco si spegne decido che il giro turistico è finito. Stop. A-non-rivederci.
- Stai di nuovo parlando da sola, Leslie?
Io e Alphy ci scambiamo un'occhiata. Io non ho parlato. Lui non ha parlato. E a pochi metri da noi c'è una porta a due ante, di quelle con il chiavistello pesante d'ottone, dal cui interno si percepiscono risatine soffocate e tintinnii di tazze da tè.
Non mi servere chiedere il parere di Alphy per sapere che cosa suggerisce: ce ne andiamo. Subito. Nel giro di cinque secondi. Solo che dal primo al terzo quella maledetta peste ha già gridato alla sorpresa, e dal quarto al quinto si è già precipitata sulle maniglie, spalancando la porta con energia. Io non ho il tempo di defenestrarla. Ci provo quando mi sfreccia vicino, ma è veloce. Una scheggia.
Ho almeno il tempo di chiedermi se voglio conoscere qualcuno qui dentro, qualcuno di non-del-tutto-umano come la mia sorellina latitante-e-terrorista. Così, giusto per fare nuove amicizie. Quando dal sesto al decimo secondo vedo l'interno della stanza per la prima volta non mi sono ancora data una risposta. Mi distraggo facilmente.
Conto in fretta, a coppie di due, ma sbaglio poco dopo e sono costretta a ricominciare. Alla fine il totale è di ventiquattro teste. Ventiquattro Novi che mi guardano come se fossi una specie rara e, possibilmente, in via d'estinzione.
- Compagni, vi presento Sybil Crowford e Alphy Fleming!

***

Leslie batte le mani. Non si accorge che è l'unica a farlo, e continua fino a che non le dò un colpetto con la scarpa per smorzare il suo entusiasmo. Faccio un segno di saluto perché è la prima cosa che mi viene in mente e anche quella che richiede meno convinzione.
- Ciao.
Mi accoglie un coro di saluti. Alcuni sono più calorosi di quanto mi aspettassi, altri del tutto diffidenti, ma riescono a salvarmi dal silenzio imbarazzante che temevo di dover affrontare. Alphy mi sta dietro, rigido come un tronco, e si limita a un cenno della testa.
- Mmh, - borbotta, e io ho imparato che in certe situazioni è il massimo che gli si può chiedere. Vorrei ricordargli che negli ultimi giorni abbiamo affrontato sfide peggiori che un gruppo di adolescenti, ma servirebbe solo a convincere me stessa. Ci sono persone come incendi e altre che davanti a un respiro estraneo tremano come candele. Alphy è una di queste.
- Mmh anche a te.
Trovo l'unica persona che conosco abbandonata su una poltrona imbottita. Riconosco Reichenbach all'istante, anche solo per il modo in cui scimmiotta Alphy. Ora sì che mi pento di aver seguito Leslie fin qui.
- Mmh, mhh, - continua, - mhh.
Non mi stupisco del fatto che stia facendo l'idiota, ma del fastidio che mi provoca sapere perché lo fa: c'è una ragazza seduta sulle sue ginocchia, e lui sta cercando di divertirla. Banale? Comprensibile. Del resto si tratta della classica ragazza brava in cucina. Di quelle che tagliuzzano l'autostima di tutte le altre, la frullano per bene e la cuociono a fuoco lento per mangiarsela come dessert. Non che io abbia problemi con il mio aspetto, s'intende. Dico solo che se mi arrivassero per posta, non rispedirei indietro quella cascata soffice di ricci rossi, quelle lentigini sul naso, come spruzzi d'ambra, e quegli occhi azzurri dal taglio felino. Se solo non fossero intrecciate a quelle di Nicholas terrei perfino le sue gambe, ancor più lunghe delle mie.
Non devo essere invidiosa.
Mamma si arrabbia sempre, quando le sembra che sia invidiosa di Lilith. Distolgo lo sguardo per rispettare il proposito, e mi aiuto pizzicandomi la gamba.
A parte Reichenbach non conosco nessun altro. Tutti i Novi se ne stanno accoccolati attorno a un tavolino basso, giocando a scacchi o sfogliando un libro. Qualcuno si è raccolto vicino a un camino che scoppietta sul fondo della stanza, attizzando la legna. Se Leslie è la più piccola, nessuno deve avere più di diciotto anni.
- È la sorella di Lilith Crowford?
Una ragazza dà una gomitata al suo vicino, poi si copre la faccia con rassegnazione.
- Stupido!
Io non rispondo alle scuse mugugnate.
- Quando ci hanno detto che avevamo degli ospiti non riuscivamo a crederci.
Questa volta è un ragazzo a parlare: quasi due metri di muscoli ricoperti da una pelle così scura da sembrare nera.
- L'ultima volta che qualcuno si è unito a noi è stato l'anno scorso, con Annalise.
Il ragazzo sorride. Si fa avanti per stringermi la mano e io l'afferro subito per paura di scoprire che tremi. È calda, ferma. Sorrido di rimando.
- Sybil.
- Sam.
- Non sono Novi, - azzarda qualcuno, e tutti si girano a guardarlo. Ha toccato il tasto dolente.
- Non scherzare, Ren.
- Chol, digli se non sono serio.
Nicholas si arrotola una ciocca di capelli rossi attorno al dito.
- Xanders sostiene che sono dei Sapiens. Io ho miei dubbi anche su quello.
La frecciata mi centra in pieno. Non mi aspettavo la gratuità dell'attacco, e allora ingoio. Mi ordino che devo rispondergli per le rime, ma non sono abbastanza svelta nel formulare una risposta altrettanto caustica. Me lo lego al dito, che devo riparare, anche se qualcosa mi suggerisce che con lui è difficile.
Che problema ha?
- Allora perché sono qui?
La ragazza che si alza sembra tesa. Si guarda intorno in cerca di qualcuno che condivida la sua apprensione, ma tutti sono troppo interessati a me per darle corda. Ha la faccia pulita e le sopracciglia spesse che stonano un po' con il viso squadrato. Faccio per presentarmi anche a lei, ma la ragazza indietreggia.
Okay. Capito.
- Voglio dire, è la prima volta che qualcuno come loro entra nella Villa.
Leslie non sa come comportarsi. Non le hanno parlato di noi in quel senso e la cosa non mi sorprende: perché dovrebbero informare una ragazzina di dieci anni su quello che è successo? Sul suo faccino si intravede la delusione; si allontana da me e Alphy quasi si sentisse tradita, e a me cadono le braccia per il dispiacere.
- Non ti sei fatta spiegare nulla? Leslie, sei proprio una fessa.
La rossa reclina la testa all'indietro, sbuffando. La sua voce è stridula, mi dà sui nervi.
- Avete nominato mia sorella, quindi sapete perché ci troviamo qui, - sbotto.
- È sparita due settimane fa. Xanders ci ha letteralmente sequestrato, giustificandosi con la scusa che potevate aiutarci a ritrovarla. Mi ha parlato di questa specie di organizzazione segreta e di questi... questi psicopatici che hanno cercato di farci a fette. E anche di evoluzione della specie, sì.
- Ci ha chiesto di rimanere qui finché le cose non si saranno sistemate, quindi è con lui che dovete prendervela. Non con Leslie.
Lei tira su con il naso.
Cerco rinforzi. Alphy vorrebbe trovarsi in un altro posto, ma questo non vuol dire che non debba aiutarmi. Lilith è la sua migliore amica, dopotutto. Era. Non lo so, visto che ha ucciso quarantuno persone.
- Vero? - gli chiedo.
- S..sì.
Torno a guardare la ragazza e inclino la testa di lato.
- Piacere di conoscerti, comunque.
Le espressioni di tutti i ragazzi nella stanza si fanno serie, ad eccezione di quella della rossa. Lei sembra divertita, come se avessi appena detto la cosa più sciocca del mondo; non si preoccupa nemmeno di nasconderlo. Passa una mano sul petto di Nicholas e mi sfida con un sopracciglio alzato.
- Fammi capire: vi siete fidati di uno sconosciuto che vi ha parlato di esseri umani geneticamente superiori?
Nicholas ride. Aggiunge "Violando il Trattato".
- Beh, - comincio, perché adesso ne ho piene le tasche della coppietta felice, - a dire il vero quando ci ha indicato lui come essere umano superiore, abbiamo pensato di essere capitati in una candid-camera.
Un applauso impedisce a Nicholas di difendere il suo onore da Principe del dormitorio: è di un ragazzo dall’aria curiosa, con il viso seminascosto dai capelli neri che gli incorniciano la faccia. Era rimasto talmente silenzioso, prima, che l’avevo notato appena. Ora riesco a vederlo bene: ha dei lineamenti particolari, con il naso un po' troppo all’insù per i miei gusti. Gli occhi sono di un colore caldo, quasi dorato.
- Touché. – dice solo, ammiccando a Nicholas.
- Divertente, Armand, molto divertente.
Io indico Armand con due dita.
- Bella camicia.
Sexy, mi concedo il pensiero.
Lui mi fa l'occhiolino, ma con aria amichevole.
È il primo che vince del tutto la diffidenza e ci invita a sederci vicino al fuoco. Controlla che sia rimasto del tè e si offre di portarcene dell'altro quando scopre che è finito. Alphy ha la bocca serrata, figuriamoci lo stomaco, ma io mi accontento dei biscotti.
Mano a mano che parliamo gli altri ci si fanno attorno e si presentano uno a uno. Cerco di ricordare i loro nomi: Gregorie, Charles, Hellen e Maria, che promette che mi parlerà dell'Italia non appena le rivelo che mia nonna veniva da lì. I ricordi, però, la rendono un po' triste.
E poi c'è Toni, bella sotto i suoi occhiali finti che sembrano usciti da un mercatino delle pulci.
Infine Ivan, Ren e il ragazzo che mi ha stretto la mano, Sam. Gli altri non riesco proprio a tenerli in mente, e alcuni si rifiutano perfino di presentarsi. C'è la ragazza dai capelli rossi, tra di loro, ma Sam dice che il suo nome è scontato: Beatrice. Rimando a dopo il compito di afferrare il collegamento che c'è dietro.
- Non sappiamo di preciso cosa sia successo con tua sorella.
Hellen ci tiene subito a puntualizzarlo.
- Ma vedrai che andrà tutto bene. Nel frattempo prendi tutto come una vacanza; hai già visto i laboratori? Non sono come quelli che avevamo a Ginevra, ma non mi lamento.
- Sono sicura che ti piaceranno, - aggiunge Maria.
- Ti ci porto domani, piccola.
Ren filtra in maniera un po' ridicola, ma è simpatico.
Nel frattempo due delle ragazze coccolano Alphy in maniera un po' eccessiva, come fosse un coniglio da laboratorio che non hanno la forza di sezionare. A me viene in mente che forse ci considerano una variabile interessante della loro routine, ma per il resto non trovo niente che li possa rendere migliori di me. A livello genetico, intendo.
Qualcosa però mi dice che devo vederli all'opera: anche Lilith era solo una ragazzina, dopotutto, ma dietro quella fronte alta il suo cervello non stava mai fermo.
Trangugio gli ultimi biscotti.
- Avevi fame!
Annuisco.
Sai com'è, la tensione.
Era da un po' che non passavo del tempo senza rischiare di morire. Non mi sembra ancora vero.

***

Molti dei ragazzi vengono da lontano, e tutti hanno viaggiato molto. Armand dice che i Novi vanno dove possono realizzare qualcosa di buono, ma non ne sono certa. Finora quello che hanno fatto non lo ha notato nessuno, ma lui afferma che lo fanno apposta, ad essere praticamente invisibili.
Un po' come me. Se fossi senza consistenza non sarebbe poi così diverso, per Reichenbach. Mi concedo occhiate brevi e furtive nella sua direzione: ha la testa poggiata sulla spalla di Beatrice, e lei sembra soddisfatta di sentire il suo respiro sulla pelle. Gli bisbiglia qualcosa di sfuggita, ma lui è più arrabbiato per la nostra presenza che altro. Le stringe le braccia attorno alla vita, e a quel punto distolgo lo sguardo. Non so perché, ma mi pare di rubare qualcosa che non mi appartiene. Lo trovo degradante.
Dopo un po' comincio a perdere il filo della conversazione. Mi ritrovo ad annuire senza prestare ascolto, guardando fuori dalla finestra per assistere alla ritirata della luce. Quando parlo non lo faccio a nessuno in particolare.
- C'è un'altra Villa per quelli che hanno scelto una Fazione opposta alla vostra?
Armand si tira indietro sul sofà, giocherellando con una pedina degli scacchi e Ren si abbassa i googles sul collo come se gli stringessero troppo la testa.
Già, Seymour mi ha rivelato anche questo.
È Toni che si fa avanti per prima.
Si scosta i capelli arruffati dalla bocca e fa segno di sì.
- Ce ne sono diverse.
- Come questa?
- No.
Detesto quando le persone mi rispondono a monosillabi. Spesso però lo faccio anche io, così mi sforzo di suonare tranquilla.
- Perché no?
- Sono state costruite tutte dopo la Rottura. Non hanno una copertura "architettonica" come la nostra.
- Sono moderne?
- Sì. Si trovano nelle grandi città, o poco distanti.
- Chiedilo e basta! Tanto non sappiamo dove si è nascosta tua sorella.
Prendo in considerazione l'idea di alzarmi e prendere a schiaffi Beatrice. Non sarebbe la prima volta che le mani mi formicolano per il bisogno irrefrenabile di picchiare qualcuno o di rompere qualcosa, farlo a pezzi e continuare a pestarlo. Ci sono giorni, quando le cose vanno male, in cui ciò che voglio è rovinare tutto per fare in modo che anche gli altri abbiano la propria parte. Ho distrutto il sismografo di Lilith, poco prima dell'attentato. Adesso so perché l'ho fatto. E so che è sbagliato, ma lo voglio lo stesso.
Però faccio finta di sbadigliare. Ignoro Beatrice e, stirandomi le braccia, faccio scrocchiare le dita. Mi rispondo da sola: Lilith è lontano, e se non fosse per la mamma potrebbe restarci per sempre. Beatrice invece posso ucciderla la prossima volta.
- Quando se ne andranno?
Potrebbe almeno abbassare la voce!
- Non dovrebbero, non so, cancellargli la mem -
- Shhh. Lo sentite?
Tendo le orecchie insieme agli altri, ma ci vuole un po' prima che riesca a sentire qualcosa.
- Che succede?
- A giudicare dalla frequenza dei passi, - comincia Gregorie, - sta arrivando Shad.
A quanto pare la precede il rumore degli ammortizzatori delle sue finte articolazioni.
Il modo in cui spalanca la porta, come se ci fosse andata a sbattere contro e qualcosa la inseguisse, lascia tutti di stucco. Io invece sono felice di vederla, e salto su prima ancora di salutarla.
- Shad!
Lei non fa caso a me.
Ansima forte, e dal suo petto si alza un rumore che ricorda un mantice da fucina. Sono i suoi...polmoni?
- Nicholas!
L'occhio meccanico si muove all'impazzata, troppo veloce perché quello sano possa seguirlo. L'immagine che mi si para davanti è mostruosa.
- Nicholas, Xanders sta tornando di corsa da Marshall.
Marshall. La mia città. Per poco Alphy non rovescia il tavolo da tè. Tutti sembrano pietrificati nell'esatto istante in cui Shad ha fatto irruzione nella stanza.
- E allora?
- Devi - a...andare nella...
Shad afferra il primo appiglio che trova, come se facesse fatica a stare in piedi.
- Sala circolare.
L'impronta della sua voce si perde parola dopo parola, sostituita da un timbro meccanico, come quello di un androide o di un un vecchio GPS. Rimango a fissarla con gli occhi sbarrati.
- Ci stanno trasmettendo un messaggio da DC, e chiedono che in assenza di Seymour sia tu a riceverlo.
Tutti cominciano a borbottare. Parlano, parlano, parlano.
Shad riesce a emettere un unico suono prima di scivolare ai piedi della parete. Toni la soccorre in un battito di ciglia.
- Subito.
Shad singhiozza nella mia direzione. Una contrazione di dolore le irrigidisce le venature di metallo nell'esatto istante in cui si accorge che sono qui.
Anche Nicholas mi guarda, e io guardo lui.
Se è davvero come Lilith, sa che cosa sta per succedere e non perderà altro tempo, ma Beatrice è ancora sulle sue gambe quando io mi alzo e infilo la porta.
Lo sento imprecare alle mie spalle. Armand cerca di riacciuffarmi, afferrando un lembo della mia maglia. C'è il rumore di uno strappo, ma non mi fermo.
Quando Reichenbach mi sfreccia vicino, io giro su me stessa e colpisco alla cieca il braccio che mi tiene stretta.
Corro come quando alle mie spalle c'era il fuoco, e di nuovo il torace brucia come se i tessuti si stessero sfaldando per staccarsi dalle ossa. Anche se lui mi semina, perché è più veloce di qualunque essere umano abbia mai visto, la strada me la ricordo. Leslie è stata brava, in questo.
Corro, e i passi che stanno per raggiungermi sono solo una spinta ad andare più forte. Riesco a prendere l'ascensore prima che Armand riesca a intrufolarvisi, e tiro un pugno contro le porte per scaricare la rabbia. So che Nicholas è già arrivato. Scommetto che quelli come me se li lascia sempre alle spalle.
Quando arrivo a destinazione mi sento così male che mi viene da vomitare.
Eravamo troppo lontani dallo studio di Xanders, e io ci ho messo troppo. Nicholas mi ha preceduto da un pezzo.
Lo posso dire con certezza perché riesco a vederlo, adesso, oltre la nebbia che per lo sforzo mi offusca la vista.
Mi sta guardando.
Ha lasciato la porta aperta per me.

***

Entro facendo ben attenzione a dove metto i piedi. Reichenbach ordina a tutti quelli che arrivano subito dopo di restare fuori, e a quanto pare se hanno chiesto di lui è perché tra i Novi ha una certa influenza. Alcuni si lamentano e strepitano; Leslie batte perfino i pugni sul muro, ma Nicholas fa avanzare solo me. Digita un codice di quattro cifre sulla fascia rigida che porta al polso e la stanza si fa tranquilla. Insonorizzata, realizzo.
Cammino a debita distanza da lui, con il petto che si alza e si abbassa come se non ne avesse mai abbastanza. Non riesco a dargli le spalle senza farmi venire la pelle d'oca.
Reichenbach indica lo schermo a mezzaluna, alto sopra la scrivania.
- Il messaggio.
Ha l’aria beffarda e le sopracciglia leggermente aggrottate. Nel punto in cui gli ho squarciato il braccio con un pezzo di porcellana, la pelle è liscia e perfetta, tesa a modellare dei muscoli asciutti.
- Tutto per te, creaturina.
Mi guarda fisso l'incavo del collo e aspetta.
Di colpo mi sento come se ci fossero lunghe onde elettromagnetiche ad attraversarmi, di quelle invisibili che Lilith temeva tanto. Non si vedono, ma ci sono. Raggi gamma, raggi X o che so io, che uccidono lentamente e modificano le cellule poco a poco, riuscendo a perforare qualunque cosa senza lasciare traccia.
Ricordo che da piccola mia sorella mi aveva terrorizzato a tal punto, con questa storia, che prima di andare a dormire passavo in rassegna gli elettrodomestici uno a uno. Staccavo le spine per impedire la formazione di campi magnetici, proprio come mi aveva insegnato Lilith, e la mattina i miei genitori mi davano sempre della psicotica.
Adesso voglio solo che Nicholas smetta di guardarmi. Continuo a ripetermelo fino a quando non mi ritrovo sotto lo schermo, senza sapere come ci sono arrivata. All’inizio mi sembra che la voce dei Novi sia ancora percettibile oltre la porta, ma poi mi accorgo che si tratta del messaggio. Più che altro si tratta di una telecronaca di quelle che all'inizio scambi per un film del post-Rottura.
Ben presto diventa l’unica cosa che i miei sensi riescano a registrare.
La vista precipita nei colori delle immagini. Rosso, sabbia, nero e bianco che si scontrano nel grigio del fumo.
L'udito isola i suoni: le grida, i crepitii, le boccate d’aria dei giornalisti senza fiato.
In bocca invece torna il giusto amaro dei ricordi, e sa di bile che risale in gola.
Alle mie spalle Reichenbach si porta un auricolare all'orecchio. Qualcuno dall'altra parte comincia a litigare così forte che riconosco la voce di Xanders. Vedo il riflesso di Nicholas sulla superficie lucida del legno: ha il mento poggiato sulla mano come la statua di un pensatore e la stessa espressione attenta. C'è una sorta di distacco che lo separa dal resto del Mondo, come un'ironia tra l'insolente e l'intellettuale.
- Sam dice che è lì con te. Perché l'hai lasciata entrare?
Per prendersi la rivincita, certo.
Xanders non vuole che sappia quello che sta succedendo là fuori, come Reichenbach non voleva che sapessi quello che succede qui dentro. Ecco perché la porta era aperta, quando sono arrivata. Nicholas non aspettava altro che farmela pagare.
Mi chiedo se avesse previsto la possibilità di un'occasione come questa. Questa sequenza concisa di didascalie sullo schermo.
Scandisco una lettera alla volta, mentre Xanders minaccia che sta già salendo sull'elicottero.
- Hai superato ogni limite, Nicholas.
Reichenbach riattacca, e mi pare che sulle sue labbra si formino delle parole.
Non hai idea.
"Non hai idea di quello che posso fare." È questo che vuole dire?
Forse. Che importa?
Non può essere peggio di quello che leggo sullo schermo.
Attacco terroristico nella Capitale, il secondo dopo l'attentato che due settimane fa ha sconvolto Marshall, nell'FC-nA Minnesota. Gli unici due ospedali pubblici della città sono stati disintegrati a distanza di due minuti e ventisette secondi l'uno dall'altro. Ancora incerte le dinamiche dell'accaduto.
- Sai, questo è ciò che chiamo un gran bel problema.
Nicholas si allunga sulla scrivania e afferra un pezzetto di torrone. Lo scarta piano, assaporando ogni secondo della mia reazione.
- Ed era ora, - sospira.
- Il mio cervello era sull'orlo di una crisi d'astinenza.
Si caccia il dolcetto tra i denti.
- Oh.
Lo sento irrigidirsi, e so che non è più me che osserva.
- A quanto pare ce ne sono ottocentonovantasette, di problemi.
Non capisco che cosa voglia dire finché non trovo il contatore che lampeggia all'angolo della schermata. A questo punto non ho domande da fare, né voce per farlo, quindi mi siedo. Ho la bocca secca come terra bruciata dal Sole, argilla e deserto arido.
Perché ottocentonovantasei è il numero delle vittime.
E cresce.
A ottocentovantasette.
Ottocentonovatotto.
Ottocentonovantanove.



Note: non ci sono note, yay! Semplicemente mi scuso per il ritardo; da qui in poi Entropyè stata immaginata a pezzi, quindi collegarli si fa non dico difficile, ma delicato. Non escludo che questo capitolo potrà essere modificato. Ringrazio le cinquantacinque persone che mi hanno inserito tra i loro autori preferiti, in particolare chi segue questa storia. Essere arrivata fino a qui è già un traguardo, per me. Mi scuso per un imprevisto che forse alcuni di voi avranno notato. Qualcuno è entrato sul mio profilo e ha inserito immagini poco eleganti nel secondo capitolo di Entropy. Adesso le ho rimosse, ma ci tenevo a dirvi che mi dispiace per l'accaduto. Ah, complimenti alla persona che mi ha giocato questo scherzo. Complimenti per la maturità.
Detto questo spero che il capitolo vi sia piaciuto e vi auguro un felice anno nuovo.

1. Chadar: tipica veste orientale.
2. San Giovanni Battista: olio su tavola di Leonardo Da Vinci.


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Capitolo 10
*** La cristallizzazione di un piano che non tende all'amorfismo ***


 

Cristallizzazione: è una transizione di fase della materia da stato liquido a solido,
nel quale composti disciolti in un solvente solidificano, disponendosi secondo strutture cristalline ordinate.

CAPITOLO 8.

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Torno a Marshall solo per prendere quello che mi serve.
Ieri mattina Xanders ha fatto in modo che a mia zia venisse recapitata una raccomandata dal medico curante della mamma. A quanto pare non è in condizione di rimanere da sola in questo momento, perciò è meglio che si trasferisca da lei per un po', fuori città.
Quando la incontro sul ciglio della porta, la zia mi stringe a sé e borbotta un "dove sei stata?" umido e plateale. Inzuppa la maglia che Shad mi ha prestato proprio all'altezza della spalla, marchiandola con i segni inconfondibili del suo mascara scadente. Aspetto che l'abbraccio sia finito, poi indico la ragazza che mia ha scortato fin qui.
- Lei è Maria, l'amica di cui ti parlavo per telefono.
Maria sventola la mano per salutare, come se ci conoscessimo da sempre. Non può certo dire a mia zia che ci siamo incontrate due giorni fa, quindi si limita ad offrirmi una mano per portare giù le valige.
- Andrò a stare da lei.
- Ma tesoro, Minneapolis è così lontana! Sei sicura di non voler venire da me?
Faccio finta di pensarci di nuovo, e di struggermi d'indecisione. Mi tiro le maniche della maglia fino a coprire i pugni, poi annuisco. Lei singhiozza con rassegnazione.
In realtà mi ha sempre detestato, ma alcune persone pretendono di portare il minor carico possibile di dolore, e non aspettano altro che condividerlo. Mia zia è una di queste.
- Sicura. Non sarei di alcun aiuto, comunque.
Indico l'interno della casa.
Mia zia si morde le labbra come se volesse controbattere, ma alla fine si passa una mano tra i capelli sbiaditi e mi fa promettere che chiamerò tutte le sere. Mette un indice sopra l'altro, costringendomi a rompere la croce formata dalle sue dita: mia nonna - quella paterna, però - ci diceva che era come dare la propria parola d'onore. Io e Lilith abbiamo costretto tutta la famiglia ad adottare questo rito.
Trovo la mamma seduta sul divano con una tazza di latte ancora caldo tra le mani, e la speranza che stesse meglio si rinseccolisce fino a svanire. Mi dico che una volta uscita da qui non dovrò sopportare di vederla in questo stato per molto tempo, ma subito dopo il senso di colpa mi rivolta lo stomaco fino alla nausea.
Perché non la vedrò e basta.
Non vedrò questa donna spezzata, né il suo gonfiore da psicofarmaci, né le sue crisi inaspettate.
Ma non vedrò la mia mamma.
Mi siedo al suo fianco, dandole un bacio sulla spalla. Lei mette via la tazza e mi poggia una mano sulla coscia, ma è come se la sua massa corporea fosse evaporata e niente di lei fosse rimasto a parte le ossa. Perfino quando le ho mentito su quali sarebbero stati i miei programmi per le prossime settimane mi è sembrata del tutto disinteressata.
- Vi raggiungerò, - dico.
- Ho solo bisogno di un po' di tempo.
Lei stringe gli occhi e so che sta per piangere.
- Non voglio che ci raggiungi.
Anche le sue parole sono inconsistenti come la sua presenza. Un tempo mi avrebbero ferito, ma adesso strascicano un carico diverso: credo che mia madre voglia proteggermi da quel seme di follia che si sta facendo strada nella sua disperazione. Lo so, voglio sperarlo. Perché devo avere fiducia, giusto?
Rimaniamo a guardare la foto di me e Lilith che la mamma tiene in grembo: io ho un graffio sulla faccia che dalla tempia arriva fino al mento, regalo del gatto bisbetico della nonna, e Lilith ci soffia sopra. Sembriamo felici, ma è un momento che non ricordo nemmeno di aver vissuto.
Mamma si appiattisce la foto sul ventre come se si fosse pentita di averci messo al Mondo.
So che cosa sta pensando.
Se fossimo rimaste al sicuro, sospese in una culla di liquido amniotico, tutto questo non sarebbe mai successo.

***

Vestiti, scarpe, spazzolino e caricabatterie; portafoglio (vuoto), quaderno di matematica (per far chiudere il becco a mia zia), chiavi e pettine. Non credo di aver bisogno d'altro per il momento, ma per sicurezza controllo di aver preso tutto il necessario.
Camera mia è perfettamente identica a come l'ho lasciata: stretta, disordinata e poco luminosa. Una mattonella da bagno della Villa basterebbe a farla sfigurare, ma... ma niente. Siamo seri: terrei comunque la mattonella. Almeno quella potrei rivenderla e comprare dei mobili nuovi.
Mi metto lo zaino in spalla e sfreccio lungo il corridoio, pronta per sfuggire all'atmosfera sfiorita della casa e tornare a pensare lucidamente.
Prima di scendere le scale rimango qualche secondo davanti a una porta pallida, dalla verniciatura meno intaccata della mia, ma pur sempre scadente. La mia mano indugia sulla maniglia come se avesse paura di scoprire che scotta, e rimane lì fino a quando Maria non si affaccia dalla tromba delle scale. Dice che non vuole mettermi fretta, ma che sarebbe meglio ripartire.
- Sybil, - mormora, e un tono grave scolpisce fastidiosamente il suo accento spiccato.
- Dobbiamo andare.
Tiro giù la maniglia tutta in una volta, trattenendo il respiro.
Mia madre ha chiuso la porta a chiave.
Sento i passi di Maria che si avvicinano con estrema delicatezza, ma lascio la presa prima che lei mi raggiunga o mi rifili una parola gentile. Vado di sotto e recupero le mie cose, poi saluto tutti e mi assicuro che la zia abbia comunicato alla polizia il nuovo indirizzo della mamma.
Mi infilo in macchina, stringendo tra i denti la catenella che porto al collo, e aspetto che Maria rassicuri la mia famiglia come da manuale. Quando sale in macchina la prima cosa che fa è offrirmi del cioccolato.
Lo prendo volentieri.
- Era la camera di tua sorella?
Sigillata, con le spalle voltate al resto della casa e tutti gli oggetti di Lilith assopiti sotto uno strato di polvere. Chissà se, girando la chiave, la mamma credeva che almeno una parte di lei sarebbe rimasta a casa.
- Sì, - rispondo, mentre Maria si allaccia la cintura e il motore brontola che vuole andarsene.
Lo capisco, e non posso che dargli ragione.

***

Mi stiracchio come un gatto, arcuando la schiena in uno scricchiolare sonoro delle spalle. Ci abbiamo messo più che all'andata, perché viaggiare in pieno giorno implica dei limiti di velocità che i Novi, se possono, non rispettano. Non mi aspettavo che mi coprissero gli occhi anche questa volta, ma Maria ha insistito che tenessi il casco ben stretto, e io non me la sono sentita di discutere con lei. Me lo sfila appena metto piede fuori dalla macchina, così posso approfittarne per dare un'occhiata alla rimessa.
- Portiamo tutto in camera di Shad?
Faccio di sì con la testa. Seymour aveva preparato una stanza tutta per me, ma sono due notti che io e Shad rimaniamo a chiacchierare fino a tardi. Alla fine ha insistito affinché rimanessi con lei, e io ho accettato subito: stare ad ascoltare quello che mi racconta sui Novi, sulla Villa e sull'Oriente mi aiuta a rilassarmi, e poi non mi va di restare da sola in un posto che conosco appena, soprattutto adesso che Alphy è tornato a casa. Seymour ha bisogno di più tempo per convincere la sua famiglia, visto che ai suoi cari importa sapere che sta bene.
Il problema è che importa un po' anche alla sottoscritta.
Forse.
O almeno credo.
Shad è ancora di sopra quando ringrazio Maria e trascino dentro i miei bagagli.
- Hey, - ansimo. Immagino di avere le guance rosse per lo sforzo e la faccia stravolta per il lungo viaggio. Se all'andata non avessi dormito in macchina, non avrei nemmeno la forza di stare in piedi.
- Bentornata!
- Siete partiti a notte fonda, - osserva.
- Cavolo, mi dispiace di averti svegliato. È che dovevo essere a casa per le otto di mattina.
E io che pensavo di essere stata discreta.
Shad mi chiede solo quello di cui ho voglia di parlare, senza mai essere invadente o inopportuna. Due sere fa, dopo aver scoperto dell'attentato di DC, sono corsa qui senza tappe intermedie. Se avessi affrontato la gravità di quello che era appena successo, sarei crollata una volta per tutte. Ho dovuto rigettare la folle idea che Lilith fosse coinvolta anche in questa faccenda, aggrappandomi a qualcosa con le mani, la testa e il cuore.
Mi sono aggrappata a Shad.
Quando sono entrata c'era solo lei nella stanza, con l'occhio finto sul punto di spegnersi e delle parti del corpo smontate. Respirava con un cavo inserito nella gola, proprio all'altezza di un inserto meccanico.
Mi è sembrata sorpresa di vedermi, come se non si aspettasse che qualcuno si ricordasse di lei in un momento del genere.
Cos'è che mi ha detto quella sera?
"Scarica."
Sono scarica come una pila, come una batteria vecchia.
Io avevo voglia di mettermi a gridare, eppure mi sono data un comando preciso: "fatti forza per lei, oppure esci."
Sono rimasta tutta la notte.
- I tuoi capelli, - ridacchia.
Mh?
Ero così sovrappensiero che non stavo ascoltando.
Mi guardo allo specchio. Ho i capelli pieni di nodi, ritti sulla testa come se avessi preso la scossa, ma faccio finta di rimanere impassibile.
- Che c'è? - chiedo quando Shad mi passa la spazzola, - non sai che così vanno di moda?
Si offre di darmi una sistemata, ma dal modo in cui sbircia la porta capisco che è di fretta. Mi rifiuto di farle perdere altro tempo, anche se avrei voluto parlare dell'altra sera. Nessuno mi dice niente, riguardo l'esplosione dei due ospedali a DC. Seymour sostiene che non mi riguarda e che loro sono stati informati solo perché nei loro compiti rientra la salvaguardia del Paese, ma questo che vuol dire?
Mi passo il pettine tra le ciocche arruffate, stringendo gli occhi per il fastidio di doverle districare, poi le chiedo che progetti ha per il pomeriggio.
- Ho una faccenda da sbrigare nei laboratori, - sospira. Il pensiero non sembra piacerle molto.
A me però piace parecchio.
- Ti prego.
- Cosa?
- Posso venire anche io? Tipregotipregotiprego.
Do sfoggio di tutti gli strumenti persuasivi che possiedo. Arriccio le labbra all'infuori, facendo sbattere le ciglia umide, poi congiungo le mani verso di lei. Giuro e spergiuro che non toccherò niente e che non le darò fastidio; che mi renderò utile, se necessario, purché mi porti là sotto. Da quando Leslie mi ha confidato che i sotterranei della Villa ospitano laboratori di ogni sorta, ho aspettato solo di trovare l'occasione giusta per entrarci.
- Credevo che fossi esausta, o che volessi andarci con qualcun altro.
Con chi altro vorrei mai passare il mio tempo, qui? Altri ragazzi si sono offerti di accompagnarmi, ma la presenza di Shad è confortante, anche solo perché le sue esperienze passate - qualunque esse siano - la rendono più simile a me che ai Novi. Forse è per questo che passa molto tempo da sola.
Finisco di sistemare i capelli in una coda alta e stretta.
- Sono pronta.
Shad camuffa un sorriso, facendomi strada con il cigolio regolare dei suoi arti meccanici che si piegano. Adesso sta molto meglio, ma sospetto che abbia bisogno di distrarsi almeno quanto me.

***

- I sotterranei vengono rinnovati quasi ogni anno, in modo che possano restare al passo con le nuove scoperte in campo tecnologico.
Senza dare troppo nell'occhio, Shad si dà un colpetto sull'orecchio sinistro. Oggi emette uno stridio piuttosto fastidioso.
- Stai per entrare nel cuore pulsante della Villa: quasi tutti i laboratori si trovano qui, e anche la palestra e i simulatori.
L'ascensore scende silenziosamente, come se nemmeno si muovesse, e pochi secondi dopo siamo al piano inferiore. Non ricordo quand'è stata l'ultima volta che mi sono sentita così euforica da non riuscire a stare ferma. È una bella sensazione, almeno fino a quando non realizzo che l'ascensore si è bloccato.
Adesso ho la testa leggera, le dita che sfrigolano per l'impazienza e i denti che coprono il labbro inferiore.
- Perché le porte non si aprono?
Mi ricordo del motivo per cui preferisco le scale. Claustrofobia. Se non usciamo nel giro di un secondo le alternative sono due: o muoio o sfondo la porta a testate.
- Bisogna completare una semplice successione numerica prima di avere accesso al piano.
Una lunga serie di cifre si rincorre sulle pareti dell'ascensore, come se fossimo rinchiuse in un televisore. Per me non ha alcun senso, ma suppongo che sia stato fatto per tenere fuori da qui chiunque non possa vantare il patrimonio genetico dei Novi.
- Sono la prima non-super-ragazza a entrare qui dentro?
Shad ticchetta una cifra senza pensarci troppo, e le porte scivolano sui lati.
- Per adesso sì, ma non è detto che -
Shad continua a parlare, ma io ho smesso di registrare qualunque suono.
Mio Dio.
Ormai dovrei aver imparato ad aspettarmi di tutto, ma questo, questo è surreale. I miei piedi si muovono da soli, allontanandosi dal centro dell'enorme ambiente circolare che ci avvolge. Tutt'intorno si stagliano grandi blocchi di metallo addossati contro le pareti, e a romperne la curva quattro corridoi tagliano la circonferenza come due colpi incrociati di spada. Sono nel cuore di un'immensa croce.
Mi accorgo che Shad si è portata al mio fianco. Apre le braccia a indicare quello che ci circonda, e per la prima volta non cerca di nascondere i suoi arti sfregiati stringendoseli al corpo. Si sente nel posto giusto, qui. Qui dove sembra che tutto sia possibile.
- Anche a me ha fatto lo stesso effetto, la prima volta. Ti piace?
Vorrei dire qualcosa di sensato, ma so che se ci provassi, ciò che riuscirei ad articolare non renderebbe onore a quello che provo; quindi lo penso e basta.
Tanto c'è qualcun altro che parla a posto mio.
- Se i sotterranei non venissero sterilizzati tre volte alla settimana, ti consiglierei di chiudere la bocca.
Serro la mascella. A questo punto l'unica cosa che sopravvive sulle mie labbra sembra un insulto alla Villa intera.
Mio.
Dio.
Lui no.

***

Nicholas si inchina con simulata riverenza.
Deve essersi abituato ai miei ridicoli tentativi di tenergli testa e anzi, scommetto che lo divertono un mondo. Roteo gli occhi e mi rivolgo a Shad.
Se c'è anche lui, sono disposta - sebbene a malincuore - a posticipare l'esplorazione di qualche ora.
Reichenbach scocca un dito per richiamarmi all'attenzione.
- Batteri. Non hai idea di quanti procarioti aleggino nell'aria.
Faccio finta di non vederlo nemmeno, ma prima sparisce e meglio è per tutti.
- Shad, che cosa sono quelle grandi scatole di metallo?
Shad fa ruotare le dita meccaniche di trecentosessanta gradi, prendendo tempo. Mi dispiace che si senta in imbarazzo per colpa mia però... Facciamo che la colpa è del terzo incomodo.
Nicholas indica gli aggeggi disposti sui settori circolari che stringono i corridoi.
- Quelli sono gli spogliatoi, non vedi?
Non posso fare a meno di assumere un’espressione indignata.
- Gli spogliatoi, certo. Come ho fatto a non pensarci prima? Hanno proprio l’aria di essere dei camerini. E io stavo sicuramente parlando con te, come no.
Reprimo l’impulso di dargli un pizzicotto solo perché mi ero ripromessa che lo avrei ignorato.
- Sbaglio o Seymour ti ha dato l'ordine di lasciarmi in pace?
- Quelle "scatole" sono abitacoli personalizzati, - continua.
- Ognuno di noi ha il proprio e ci basta entrarci dentro per metterli in funzione: registrano la nostra condizione psico-fisica e ci consigliano l’attività giornaliera più opportuna, fornendoci il materiale di base necessario, naturalmente lucidato a nuovo o, nel caso si tratti di una divisa, lavato, stirato e profumato. Mi dispiace che la tua molliccia materia grigia non riesca a concepire qualcosa che vada oltre gli armadietti della scuola; in caso contrario avresti apprezzato il genio di quelli che li hanno realizzati.
Immagino che tu sia tra questi.
- E comunque mi chiedo se ci sia ancora qualcuno che ascolta Seymour.
Shad non è capace di arrabbiarsi, ma le parole di Nicholas sembrano mandarla in corto circuito.
- Chol, smettila.
- Oh, sì, tu. A che punto sei?
TU?
Che c'è, si è dimenticato che Shad ha un nome? Nemmeno Lilith era così insopportabile! Anzi, lei riusciva a dissimularsi alla meraviglia.
Prima che possa farglielo notare una delle cabine si apre di scatto e mi fa sobbalzare. Ne sbuca fuori un ragazzo orientale dai lineamenti familiari: è alto per essere asiatico, e ha le braccia ricoperte di tatuaggi dai colori accesi. Perfino il nero è pieno come se non si fosse scaricato del tutto. Forse i Novi utilizzano sostanze particolari per disegnare sulla pelle.
Il resto del suo corpo è fasciato da una tenuta  blu elettrico, con inserzioni rigide sulle giunture.
- Arrampicata, Ren?
- La cabina dice che sono un po' fuori forma. Devo scalare quattro chilometri e diciassette metri in sei giorni. Niente di eclatante.
Niente, certo, è che io dopo due piani di scale desidero solo di essere lasciata morire in pace.
Ren viene a darmi un bacio sulla guancia, poi fa per mettersi due cuffie enormi sulle orecchie.
- Ci vediamo dopo!
Infila uno dei corridoi obliqui seguendo il ritmo di una canzone che da qui non riesco ad afferrare.
Approfitto del momento per rivolgermi a Shad.
- Andiamo? Adesso. Ti prego.
- Aspetta. Sharazad non ha tempo di portarti a spasso, oggi.
- Scusami?
- Ha ragione, Sybil. Il lavoro di cui ti ho parlato...
C'è di mezzo lui. Questo si era dimenticata di dirmelo. O forse se ne ricordava perfettamente, ma sperava che se fossi rimasta con lei Nicholas avrebbe rimandato l'attività.
Gli angoli della bocca di Shad fanno fatica a restare sù, nonostante le venature di metallo che le attraversano le labbra lottino contro il broncio. È chiaro che non ha voglia di aiutarlo.
- Non puoi farlo un'altra volta?
- No, - dice Nicholas.
Mi chiedo come si possa approfittare della gentilezza di Shad fino a questo punto, e ridurne la preziosità a debolezza. Ha risposto lui perché Shad non direbbe di no a nessuno.
Mi strofino le mani sui jeans, cercando di nascondere che ci sono rimasta male. Volevo che fosse lei a guidarmi nei sotterranei, e adesso è andato tutto all'aria per colpa di Reichenbach. Perché è scontato che non ho intenzione di andare con loro, dopo quello che Nicholas ha escogitato per ferirmi. Sono passati due giorni da quando abbiamo parlato per l'ultima volta, ma da allora Xanders gli ha minacciato che se dovesse darmi fastidio un'altra volta, lo farà cacciare.
- Okay, allora. Ceniamo insieme?
- Appena ho finito ti raggiungo, se hai voglia di aspettarmi.
Mi sforzo di annuire.
- Adorabili, - dice Nicholas.
Proprio non riesce a non guardare tutti dall'alto in basso!
Si tira indietro i capelli chiari, avvicinandosi ad una delle tante cabine. Punta la mano sulla sua superficie lucida dell'oggetto e fa per entrare, ma qualcosa lo convince a voltarsi. Sembra ricordarsi solo adesso che sono ancora qui, e aspetta che sia io a dargli una spiegazione, come se non volesse sprecare fiato.
- Che vuoi? - sbotto.
- Io? Niente. Nemmeno la pace nel Mondo, se è per questo. Tu?
- Sono qui per fare il giro del Laboratorio, non dello spogliatoio dei Novi. Mi accompagnerete almeno all'entrata, spero.
Shad prova a rassicurarmi, ma per lui è fuori discussione.
- Non ho intenzione di scarrozzarti tutto il giorno, creaturina. Abbiamo delle cose da fare, e a meno che tu non voglia entrare nella cabina con me, cose che non ti dispiacerebbe, suppongo, credo che dovrai seguire Ren finché è ancora in vista.
Tiene aperta la porta scorrevole e mi fa cenno di accompagnarlo dentro, con un ghigno scolpito in faccia da un artista e gli occhi verdi che brillano.
 Distolgo lo sguardo dal suo appena mi sento arrossire.
- Sto aspettando. Potresti essere l’unico sapiens a vedere la cabina che ripiega la mia maglietta e mi porge una divisa attillata.
Sapiens. Quella parola è come un pugno nello stomaco, quando è lui a pronunciarla. Spingo la coda dietro la spalla, costringendomi a fronteggiarlo di nuovo.
- Sarebbe squallido, sai? Entrare lì con te, intendo.
- Già, - ride lui, - non dirlo a me.
- Sarebbe proprio squallido vedere che prendi ordini da una scatola di latta che ti dice come vivere la tua vita.
Giro sui tacchi, soddisfatta, e seguo quanto di visibile rimane di Ren.
Questa volta cede prima lui.

***

- A cosa stanno lavorando Shad e Reichenbach?
- Non lo so, tesoro. Nessuno lo sa.
Ren si pulisce i goggles sui pantaloni della tuta. Mi tengo alla sua destra, cercando di stare al passo con i suoi saltelli di riscaldamento anche se parlare e corrergli dietro mette a dura prova la mia circolazione da pantofolaia.
- Chol è gelosissimo dei suoi progetti. Ma proprio maniacale. Come se qualcuno qui dentro fosse così infame da rubargli le idee!
Chissà che idee, considerando di chi stiamo parlando. Chiedo cortesemente a Ren di farmi strada invece che di guardarmi il sedere, e suo malgrado accetta di accompagnarmi fino al primo laboratorio. Mentre chiacchieriamo osservo le superfici immacolate del corridoio, tutte o quasi tendenti al bianco. Lilith diceva che i colori hanno un grande potere sul nostro sistema nervoso, e che l'assenza di tonalità l'aiutava a pensare. È evidente che non abbia mai sofferto della sindrome da pagina bianca, lei.
Rivolgo un sorrisetto complice a Ren.
- Tanto dovrò capitarci nel loro laboratorio, giusto?
- Ti piacerebbe! Chol ha chiesto di poter usufruire di un laboratorio tutto per sé. Te l'ho detto: ha una gran testa, ma ci tiene troppo.
- E immagino che Shad non si lascerebbe sfuggire una parola riguardo quello che combinano lì dentro.
- Scherzi? Se le chiedi di tenere il tuo segreto, se lo porta nella tomba.
Quella ragazza mi piace sempre di più. Mi pento di averla abbandonata nelle grinfie di Nicholas senza aver protestato abbastanza.
- Staranno costruendo una risonanza magnetica, o che so io, - dice Ren, e io mi fermo all'istante.
- Perché?
- Shad è un ingegnere biomedico, - dice, e il suo tono adesso è serio.
- Il suo corpo se l'è costruito da sola. Aveva già realizzato un prototipo di modello prima di... insomma, prima. Poi lo ha migliorato. Il problema è che per adesso è sopravvissuta all'impianto solo lei. Tutti i sapiens su cui abbiamo sperimentato gli inserti sono morti, e questo proprio non le va giù.
È passato più di un minuto quando Ren si decide a precisare che questo non rende il suo progetto meno valido. Io aggiungo che valido è dire poco, ed entrambi annuiamo, ma devo ammettere che è difficile credere che una ragazza così giovane sia riuscita a costruirsi un corpo meccanico tutta da sola.
Ren si sgranchisce le gambe, prima di entrare in palestra. Flette il busto di lato e mette in mostra i muscoli, e io non riesco a trattenere una smorfia buffa: Shad mi ha confidato che lo fa con tutte le ultime arrivate.
- Ti va una scalata, solo io e te?
- Grazie Ren, ma in palestra passo dopo, e poi finirei per ammazzarmi. Sarà per un'altra volta.
Come no.
- Privo tentativo di spezzarmi il cuore: riuscito.
- Il resto dei laboratori di quest’ala si trova lungo il corridoio, ma la palestra occupa quasi tutto lo spazio.
Ren si mordicchia un dito.
- Vediamo, dov'è che puoi andare? Biologia è il prossimo. Seguono fisica e medicina che però sono occupate da brutti ceffi. Troverai degli ascensori, ma procedono tutti lateralmente: servono a collegare le braccia della Villa, nel caso tu voglia entrare da qualche altra parte.
- Le braccia? Intendi i corridoi?
- Manchi di spirito d’osservazione, tesoro. La pianta della Villa è formata da quattro braccia oblique che si incrociano.
- Come una X, sì.
Questo lo avevo capito.
- Come un cromosoma X. Prima si pensava che il segreto della nostra specie fosse nascosto lì, ma non abbiamo ancora trovato niente che spieghi perché noi Novi esistiamo.
- E detto tra me e te, - sussurra, avvicinandosi un po' troppo, - a me non importa un accidente.

***

Quando qualcosa ha il potere di meravigliarmi, capita che cominci a ridere senza riuscire a spiegare perché lo sto facendo. Toni porta una mascherina sottile sulla bocca e degli occhiali a fascia per proteggersi, ma l’espressione sul suo viso è inequivocabile.
- Sei la prima a trovarlo divertente.
- Scusa, è l’emozione. Non avevo mai visto nessuno sparare alle piante.
In realtà non avevo mai visto niente di quello che si trova qui dentro.
Entrare nel laboratorio di biologia è stato come risvegliarsi nella corolla di un fiore: al centro della stanza macchine di ogni genere occupano un settore circolare grande come il mio soggiorno. Se anche riuscissi a trovare le parole per descriverlo, non basterebbero a dare un nome a tutti gli strumenti che riempiono l'infiorescenza. Riconosco diversi microscopi, fiale di diversa grandezza e cilindri che emanano il freddo secco di un congelatore; ma non c’è utensile che riesca a togliermi il respiro come quello che poggia sui petali del laboratorio: centinaia di piante e minerali dentro teche di vetro sono disseminate tutt'intorno a noi, insieme a vasche d’acqua in cui minuscoli organismi brillano sotto la luce sinistra dei raggi UV. E non mancano costruzioni di cellule sezionate, colonie di moscerini dagli occhi bianchi, e –
- Vuoi provare? - chiede Toni.
- Non lo so, e se poi la uccido?
- È una pistola pneumatica, non una calibro 9. Punti la canna sulla foglia e premi il grilletto: i proiettili sono microscopiche foglie d’oro ricoperte di DNA: arrivano al nucleo e nei mitocondri senza danneggiare le pareti cellulari. È semplice.
Mitoche?
Lo strumento è ingombrante. Il coltello si adattava meglio alle mie dita. Il pensiero mi fa inorridire, e Toni sembra capirlo. Forse realizza che il rumore degli spari mi ha tormentato abbastanza, così si offre di riprenderla in mano.
- Il laboratorio di fisica è proprio qui affianco, - azzarda, ma io scuoto la testa.
- È tutto okay, ci provo. Hai detto che se l’esperimento riesce la pianta sarà più resistente alla siccità, vero?
Potrebbe crescere dove il caldo soffoca tutto il resto; dove le persone non hanno acqua sufficiente per bere, figuriamoci per annaffiare un bocciolo nella polvere.
Toni annuisce e io premo il grilletto. L'unico suono che sento è il gorgoglio dell’acqua nelle vasche, e ancora quello della mia risata.
Chissà che mi aspettavo.

***

Mi affaccio dalla porta del laboratorio di fisica cercando di non fare il minimo rumore: dentro ci saranno almeno sei o sette persone concentrate su misurazioni, calcoli di grandezze derivate e procedimenti cervellotici.
A dire il vero preferirei non entrare: mi sento come se fossi un'ospite ingombrante, qua sotto, e anche se la curiosità lotta per divorare ogni cosa con lo sguardo non me la sento di interrompere il lavoro di tutti quei ragazzi. Alcuni di loro nemmeno si sono presentati, la scorsa volta.
Sgattaiolo via e appena fuori mi guardo intorno per decidere il da farsi: potrei tornare indietro ed esplorare un'altra delle tre braccia della Villa, visto che anche il laboratorio di medicina che ho appena sorpassato era impegnato.
Sto per andarmene quando qualcosa attira la mia attenzione. È là, sul fondo del corridoio a sinistra, dove s'interrompe la fila di luci: una scala.
Eppure Ren non me ne aveva parlato.
Mi avvicino un po' per contare i gradini, con la schiena che si lamenta per il trattamento che le ho riservato nelle ultime ore. Prima sempre seduta, adesso sempre in piedi.
Ficcanasare in giro non è esattamente ciò che un ospite dovrebbe fare, ma i gradini sono appena una decina e io non ricordo quando ho visto l'ultimo ascensore.
Faccio finta di stare prendendo in considerazione l'idea di tornare indietro, se non altro per mettere a tacere la mia coscienza. Alla fine però scendo la scala con una mano stretta attorno ringhiera, per evitare di scivolare e sfracellarmi sul pavimento. Sono così concentrata su dove mettere i piedi che quasi non mi accorgo della grande porta di metallo che mi ritrovo davanti.
È... vecchia? Rispetto a tutto il resto, intendo. La manopola che la tiene serrata è resa opaca da uno strato di sporco, e l'oblò che dovrebbe permettermi di sbirciarci attraverso è così rovinato che per scoprire che cosa nasconde sono costretta ad entrare.
Forzo la manopola e scopro che ruggine a parte è meno rigida di quanto pensassi. Mi bastano due giri, e prima che possa rendermene conto sono già dentro, con la porta che si richiude alle mie spalle. Faccio qualche passo in avanti.
All'inizio scambio il bagliore fioco proveniente dal fondo del laboratorio per un fuoco fatuo, e rischio di cadere. Indietreggio di scatto, andando a sbattere contro qualcosa di duro e gelido. Lo stomaco mi si attorciglia per lo spavento. Metto le mani davanti. Mi sento ansimare. Qualcosa cigola e la polvere mi chiude la gola e non avrei dovuto finire qui dentro come si esce da dove sono entrata?
Ritrovo l'equilibro.
Pian piano i miei occhi si adattano ai giochi di ombre che si rincorrono sulle pareti della stanza, e la sorgente di luce assume una forma definita: una proiezione colorata ruota su sé stessa, pulsando di tutte le sfumature del verde. Mi viene la tentazione esasperata di passarci attraverso e scomporne la struttura ordinata, anche solo per scoprire che cosa succede. Un taglio netto. Mi faccio strada un po' alla volta, ripetendomi che non è come stare al buio.
Muovo la mano così in fretta che la reazione della sagoma di luce mi sfugge. Ci provo di nuovo, questa volta con più cautela, e il risultato è stupefacente. Faccio scorrere le dita attraverso i piccoli globi luminosi, sfiorandole il calore iridescente. Come se cercassero di sfuggirmi, i ponti fosforescenti che li uniscono si curvano e separano gli uni dagli altri, fino a quando tutta la figura si deforma in un tremolio di vapori.
- Non si dovrebbe mai rompere un legame chimico se non si è sicuri di quanta energia può liberare.
Strappo il braccio dalla proiezione. Un incrocio di sibili improvvisano il suono della stoffa fatta a pezzi.
A quanti spaventi devo sopravvivere prima di cadere a terra stecchita?
- Mi dispiace, - comincio, e mi pento una volta per tutte di essere entrata qui dentro. Ho messo le mani su qualcosa che potrebbe valere migliaia di dollari; se l'ho rovinato, sono rovinata. Deglutisco.
Un uomo alto e dinoccolato se ne sta ritto al mio fianco, tenendo un'ampolla tra due dita. Una spolverata appena accennata di grigio sul suo gomitolo di capelli suggerisce che sia più vecchio di Seymour, e anche meno curato. Il suo camice è pieno di macchie.
L'uomo batte un pugno sul muro e la luce si accende.
- Le molecole proiettate si ricostruiscono da sole, - sbadiglia, - non c'è di che preoccuparsi.
Per sicurezza costringo le mani nelle tasche.
- Sei la sorella di Lilith Crowford.
Perfetto, un altro membro del suo fan club.
- Purtroppo.
L'uomo pare rianimarsi. Mi raggiunge in un'unica, grande falcata, e mi dà una pacca sulla spalla. E un'altra, e un'altra, e un'altra ancora, fino a quando la mia mia espressione
imbarazzata non gli suggerisce che è ora di finirla.
- Mi chiamo Sybil.
- Ostwald Crichton! - esclama, ma non capisco quale dei due sia il nome e quale il cognome. Sto riflettendo sulla sua stranezza quando l'ampolla che tiene tra le dita scoppia. A me scappa una parolaccia.
Ancora?
- Gambe su! - grida lui, e io mi sollevo su uno dei banconi con i piedi lontani dal pavimento.
Il pavimento che fuma come se il liquido dell'ampolla lo stesse mangiando strato dopo strato.
Crichton è appeso a una cappa di metallo a forma d'imbuto, ma guarda con sincero interesse il disastro che ha combinato.
- Che peccato, pensavo che fosse un po' più spiritoso di così.
Mi allungo sul banco da lavoro e afferro una maschera sottile, con una specie di inalatore sotto il mento. Da un gancio poco distante recupero degli occhiali di protezione.
- Oh, no, no, no, non ce n'è bisogno! L'ho solo agitato troppo.
Crichton mi chiede di farci gocciolare sopra un'altra soluzione e di asciugare tutto con un pezzo di carta: lì, lì, proprio quella provetta. Versala tutta, da brava. Io non ribatto, ma le dita mi tremano così forte che per poco il liquido schiumoso non mi cade addosso. Quando ho finito Crichton si lascia andare e corre dall'altra parte della stanza per annotare delle formule su uno dei fogli sparpagliati in giro.
Lancio un'occhiata alla porta.
- Forse è meglio che vada, - comincio, ma lui è entusiasta della mia presenza.
- Sai, ho letto la tesi di tua sorella sull'anomalia proteica dell'anemia falciforme. Brillante, semplicemente brillante!
Quella che conosceva Lilith meno di tutti a quanto pare sono io.
Un dispositivo prende a squillare rumorosamente, e Crichton corre verso un altro aggeggio dalla forma irregolare.
Comincio a pensare che abbia qualche rotella fuori posto; si precipita da un lato all'altro del laboratorio come se a contenderselo ci fossero forze invisibili, e ogni tanto mi chiede di passargli questa o quella siringa dal contenuto sospetto.
Mi parla del suo lavoro senza che gliel'abbia chiesto, così sono costretta a rimanere: è uno dei pochi adulti, qui dentro. Insegna chimica ai giovani Novi da ventidue anni, ma il laboratorio non sembra molto frequentato. Gli vado vicino per sbirciare il contenuto del miscuglio che sta preparando, ma lui si ritrae per istinto. Alla luce fredda dei neon riesco a vedere chiazze di barba ispida che gli spuntano sulle guance, come se si fosse rasato male.
Quando mi sfreccia vicino annuso il tanfo che emanano i suoi vestiti e reprimo un conato di vomito.
Uova marce, ho sentito bene?
Mi chiedo da quanto non esca da questa stanza, e come mai non ci sia nessuno a indagare i segreti della chimica insieme a lui.
- Mi aiuti? - chiede.
Crichton mi passa degli strumenti incrostati e pieni di aloni di calcare. Una parte di me diffida dalle sostanze che mi chiede di maneggiare, ma l'altra ne è così affascinata che non riesco a rifiutare. Faccio reagire i materiali seguendo le sue indicazioni confusionarie, e alla fine ci prendo gusto. Devo solo evitare di respirare con il naso.
-  Sai, - mormora, scrivendo in aria con il dito che si muove a  tracciare numeri invisibili.
- Anche il suo piano lo è. Brillante, intendo.
Impiego qualche secondo a capire che sta di nuovo parlando di Lilith.
- Il suo piano è stato crudele e criminale.
La soluzione vortica ancora quando smetto di mescolarne il contenuto con una stecca di vetro. Adesso che la polvere si è sciolta, assomiglia all'acqua con lo zucchero di Jerome Ryars, e viene voglia di provarne un sorso.
- Forse, ma se la cristallizzazione di un composto avviene troppo velocemente, il cristallo tende sempre all'amorfismo. Alcune cose richiedono del tempo.
Crichton afferra una pinza e pesca un grumo squadrato che fa pensare al ghiaccio secco. Lo osserva sotto un microscopio arrugginito, borbottando a bassa voce, poi lo lascia precipitare sul fondo di un intruglio puzzolente.
- Non so se è di una reazione chimica che stiamo parlando, o di mia sorella, - intervengo.
Sono arrivata fino a questo punto, allora: vedo nemici dietro ogni maschera di cortesia, scorgo minacce tra le parole che non capisco, confido nella possibilità che c'è sempre qualcosa che può andare peggio.
La risposta di Crichton sembra arrivare da lontano; come se stesse divagando, e all'improvviso non mi volesse qui. Come se fosse stufo di avere attorno qualcuno che proprio non capisce.
Non vedi?
- Beh, tua sorella è un'ottima chimica, - dice solo, e poi torna a scarabocchiare linee dritte e punti che per me non hanno alcun senso.
Controllo l'orologio che ho al polso senza dare troppo nell'occhio: sono qui dentro da più di un'ora, e nessuno si è fatto vivo. Faccio passare un dito sui tubi trasparenti del distillatore, ma lo sporco è così vecchio che la polvere non viene via del tutto. Ho la prova che qui dentro non è entrata un'anima negli ultimi due mesi. Nessuna a parte me.
Perché del resto Ren non mi aveva parlato di un laboratorio di chimica.
- Se quello che si dice in giro è vero, Lilith è anche un'assassina, - boccheggio.
- La riporterò indietro, e dovrà vedersela con l'USD.
Crichton non stacca gli occhi dai suoi segni incrociati nemmeno quando il foglio finisce e la matita scivola sulla superficie lurida del bancone.
Serviva molto meno a convincermi che ha mentito, che non insegna un bel nulla ai ragazzi che vivono qui e che c'è qualcosa di profondamente sbagliato in lui; qualcosa che non funziona come dovrebbe.
Poggio i miei strumenti con cautela.
Che succede se me ne vado senza salutare? E se mi invento una scusa qualunque? Sono libera di andarmene quando voglio. O forse no. Dipende tutto Crichton.
- Tua sorella è davvero, davvero un'ottima chimica , - sorride.
Poi la porta del laboratorio si spalanca.
Nicholas ha la fronte sudata e i capelli biondo freddo appiccicati alla testa.
Appena mi vede mi raggiunge con l'aria di chi ha fretta di andarsene: mi afferra per il polso da sopra la felpa e si accorge che la mia mano è nuda, scoperta, leggermente arrossata sulla punta delle dita. Non mi ero resa conto di quanto mi bruciasse.
Nicholas non degna Crichton di uno sguardo, ma la vista del becher con cui ho lavorato lo acceca di rabbia.
- Andiamo, - bisbiglia, e questa volta non oppongo resistenza. Mi ero ripromessa che se mi avesse messo le mani addosso un'altra volta gli avrei aperto la gola con le unghie, ma adesso è diverso. La sua presa è urgente e decisa. Scioccamente ringrazio che la sua pelle stia toccando nient'altro che stoffa.
Siamo quasi fuori quando Crichton strepita una manciata di parole insensate.
- Mancava ancora l'agente ossidante al suo preparato!
Nicholas sbatte la porta con un calcio.

***

La mia politica prevede di non rivolgergli parola, soprattutto se è in questo stato. Avanza a testa alta, scrollandosi la spossatezza di dosso a ogni passo, come se la maglietta che si è infilato non tradisse - oltre le forme asciutte e toniche del suo corpo - un alone scuro di sudore alla base della schiena, dove l'occhio mi è caduto solo perché se non ti cammina davanti Reichenbach non è contento.
Ora che ci penso mi ricorda qualcuno.
Lo seguo in silenzio fino al punto s'incrociano le braccia della Villa, segno che siamo arrivati, e appena ci fermiamo mi schiarisco la gola per richiamare la sua attenzione.
- Che cos -
- Che ci facevi lì dentro?
Non l'avevo mai sentito alzare la voce in questo modo. Nicholas schiaffa una mano contro la porta della sua cabina, dove un raggio sottile gli scannerizza le impronte una ad una.
- Secondo te? Mi avevate detto che potevo farmi un gir -
- Non ci dovevi entrare. Era dannatamente matematico che dovevi rimanere fuori! Ti è sembrato un laboratorio in uso, quello?
- Io non -
- No, certo che no, ma ci sei entrata comunque! Perfino un protozoo avrebbe capito di doverne starne alla larga, e i protozoi non ce l'hanno un cervello.
- Ma che stronzo!
Non riesco a credere che sia serio.
Le porte della cabina si aprono alle sue spalle, rivelando uno spazio più ampio di quanto mi aspettassi. Dentro ci sono scompartimenti ordinati con precisione quasi maniacale: delle cuffie per ascoltare la musica, plichi ordinati di fogli e qualche libro. Non c'è traccia della corona che crede di poter portare in testa.
- Hai finito di ricordarmi quanto sono inferiore a te oppure -
- Non stavo -
- E fammi spiegare! Ti sei accorto che non permetti alle persone di parlare?
Faccio per premermi le mani sugli occhi, ma lui le prende prima che riesca a portarmele al viso. Cerco di divincolarmi e spingerlo via; lui mi tiene a debita distanza, ma non mi molla. Non oso immaginare quanto dobbiamo apparire ridicoli in questo momento.
- Non farlo. Hai la pelle tutta irritata per colpa di quello che hai toccato.
Sto toccando te.
Nicholas recupera una borraccia d'acqua dalla cabina. Imbeve un piccolo asciugamano e me lo passa, liberandomi i polsi. Smetto di mordermi l'incavo della guancia.
Lui sembra ancora infastidito: ha le labbra stirate, ma ha differenza della sottoscritta ha ripreso il pieno controllo di sé.
- Chi è quel tipo? - sbuffo, tamponando le macchie che si allargano sui palmi delle mie mani. Pizzicano, ma il prurito è sopportabile.
- Crichton? Un menomato. Ha avuto un incidente durante un esperimento piuttosto delicato, e da quel momento non si è più ripreso. Seymour lo tiene qui perché è stato il suo mentore per molti anni.
- Mi sembra che tu stia esagerando. A me è sembrato solo strano.
Solo? Nicholas piega la testa di lato e fa una smorfia.
Non aggiungo altro per non dargliela vinta.
- C'era odore di acido fenico, nel laboratorio. Tu odori di acido fenico. Ha lasciato che lo toccassi, e guarda qual è il risultato, - dice, additando un gonfiore che cresce a vista d'occhio.
- Mi dispiace informarti che lui ha parlato di... fenolo?
- Sono la stessa cosa, creaturina...
- Senti, gli era caduto per terra! Non sapevo che fosse un acido, quando mi ha chiesto di asciugarlo.
- Adesso lo sai, quindi ricordati di passare in infermeria.
Rimaniamo di sotto per un po': lui perché deve cambiarsi, io perché aspetto delle scuse che non arrivano. Mi parla da dentro la cabina, mentre io cammino intorno al centro dell'atrio per scaricare il nervosismo. È come se mi aspettassi di veder sbucare Crichton da un momento all'altro.
- C'è un nuovo laboratorio di chimica, nell'altro braccio della Villa. La prossima volta va' lì, intesi?
Non rispondo. Mi piazzo davanti all'ascensore e aspetto che esca. Quando mi raggiunge gli lancio un'occhiataccia: se l'è presa comoda, il ragazzo, e sembra sorpreso di vedermi ancora qui dopo il silenzio degli ultimi minuti.
Ci guardiamo attraverso il riflesso sulle porte dell'ascensore. Nicholas è tornato quello di sempre: viso bianco e affilato, dalle proporzioni squadrate e calcolate al millimetro, e sguardo attento dalle sfumature di giada. Una ciocca di capelli gli sfugge da dietro l'orecchio, ricadendo sullo zigomo destro. Glielo devo riconoscere: qualcosa per cui è lecito vantarsi non gli manca.
- Che stiamo aspettando?
Non lo so.
- Crichton mi ha parlato di Lilith, - confesso.
- E di un piano. Secondo lui mia sorella ha ancora qualcosa in mente, o almeno questo è quanto google-translate è riuscito a tradurre dall'aramaico.
Non so perché glielo dico. E in questo modo, anche. Dopotutto lo detesto. Per come mi ha trattata, per come mi tratta, per come tratta tutti quanti. Per l'avermi spinta in macchina con la forza, la sera dell'attacco, e per avermi puntato contro una pistola. Lo detesto perché sa troppe cose. Sa come usare le parole e come usarle per fare male. Eppure sento di doverlo confidare proprio a lui, perché se è intelligente come dice, forse riuscirà a capire che cosa sta succedendo, e a tracciare la direzione ha preso la mia vita, e a calcolare se tornerà mai quella di prima.
Il suo sguardo guizza oltre le porte, e solo quando entriamo e si chiudono alle sue spalle si decide a degnarmi di una risposta.
- Crichton è difettoso. Gli si sono letteralmente denaturate le proteine del cervello, - dice, e per la prima volta il suo profilo appare indurito da una leggera tensione.
- Stagli alla larga, creaturina.
- Ma se avesse ragione? L'esplosione di quei due ospedali a DC...
- Non ha ragione. Io ce l'ho.
I suoi occhi si incupiscono.
C'è qualcosa di nuovo di cui non sono stata informata, e se perfino Nicholas se lo lascia sfuggire dallo sguardo, deve essere grave.
Studio il pavimento.
Penso a quell'uomo con le mani sporche di polveri, lo zolfo sul camice e una molecola raggomitolata a fargli compagnia. Nonostante il suo isolamento eremitico Crichton conosceva mia sorella, le sue ricerche, le sue doti. Mi chiedo se per qualche ragione conosca anche le sue ambizioni. Ma non posso tornare in quel laboratorio per scoprirlo, questo è certo. Shad non me lo permetterebbe; perché è di sicuro Shad che ha chiesto a Nicholas di venire a cercarmi.
Apro e chiudo le mani per camuffare l'imbarazzo con l'interesse per un ponfo dolorante, ma Nicholas non si lascia sfuggire la mia indecisione.
- Non rimanere da sola con lui, - ordina, - mai.
Questo tono tra il saccente e il misterioso mi ha stancato parecchio. Faccio un passo oltre la soglia non appena arriviamo, figurandomi che ci separeremo in questo modo: lui dirigendosi impettito verso camera sua, impaziente di ficcarsi sotto la doccia, e io dileguandomi dalla parte opposta, impaziente di non doverlo sopportare oltre.
Ma Nicholas non sembra soddisfatto dalla trama che ho in mente.
- Provo a indovinare, - dice, - non hai idea di che cosa fosse il composto che ti stava facendo preparare.
Oh, adesso "So-tutto-io" dà anche ripetizioni di chimica!
Alzo le mani in segno di resa. Ci provo a non farmi mettere i piedi in testa da Reichenbach, ma trova sempre il modo di darmi scacco. Arriccia le labbra, ma senza compiacimento: l'ultimo che mi rifila è un sorrisetto forzato.
- Idrazina Amminoftalica. Si capiva dal ferrocianuro di potassio che avresti dovuto aggiungere se non fossi arrivato io.
Delle volte ho la grave impressione che certe persone - Lilith, Alphy, e i Novi - siano venute al mondo solo per prendermi in giro.
Rimango a fissarlo con il sopracciglio cucito più in alto possibile.
- Sembrava interessante, prima che gli dessi un nome per impressionarmi.
- Luminol, - continua lui.
- Ne prepariamo una versione più potente per la USD. In una scena del crimine serve a rilevare tracce di sangue. Come quello di cui tua sorella si è sporcata le mani.
Ah.
Me ne vado perché non trovo nulla che possa competere per cattiveria. Arrivo fin dietro l'angolo, poi faccio dietrofront e mi ricordo che sto ancora stringendo il suo asciugamano bagnato. È strano, ma credo di aver trovato la risposta adatta a lui, e sono pronta a tirargliela dritta in faccia.
Sono sicura che sia già sulla strada dei dormitori, quindi mi precipito indietro senza un attimo di esitazione.
Ma quando arrivo lui è ancora lì, questa volta con l'aria stanca e gli occhi chiusi, tanto che nemmeno fa caso a me. Preme il pulsante dell'ascensore prima che possa raggiungerlo, così aspetto di vederlo salire fino al piano dei dormitori e mi maledico di non aver pensato prima alla frustata sul muso.
Le porte fanno per richiudersi e Nicholas si lascia scappare un sospiro lungo, muovendo appena le labbra, come se anche il minimo spostamento d'aria potesse piegarlo.
Quello che accade nei secondi che seguono la sua ritirata mi confonde.
Faccio un passo avanti per controllare, scuoto la testa e mi dico di aver capito male, ma l'autoconvincimento non basta a nasconderlo.
A nascondere che l'ascensore non sale.
Scende di nuovo nei laboratori deserti.



Angolo autrice:è strano come la scienza riesca a suggerire profonde riflessioni. Per esempio, consideriamo il fenomeno che dà il titolo al capitolo e concentriamoci sull'acqua. Se la raffreddiamo, essa diventa ghiaccio solido organizzato in strutture incredibilmente complesse e precise. Basta vedere il fiocco di neve che ho scelto per il banner. Ebbene, se il passaggio di stato avviene troppo velocemente, questo non accade. Il cristallo diventa amorfo, senza forma, caotico e - diciamocelo - parecchio brutto. Ma allora è proprio vero che nella vita non bisogna avere troppa fretta, eh? Questo Lilith lo ha capito di certo. Facciamo che io uso la stessa scusa per giustificarmi del ritardo con la quale arriva questo capitolo. E' che non mi convincevano - e non mi convincono tutt'ora - alcune scene.
Non ho molto tempo da dedicare a questa storia, purtroppo, ma cerco sempre di impegnarmi al massimo. Non ci sono note particolari, quindi vi ringrazio se siete ancora qui a seguire "Entropy"; significa molto per me! <3 Un bacio, a presto (seh, speriamo!).


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Capitolo 11
*** L'effetto catastrofico di una farfalla che viene liberata ***


caos 3

Effetto farfalla: locuzione che racchiude in sé la nozione di "dipendenza sensibile alle condizioni iniziali" presente nella teoria del caos. L'idea è che piccole variazioni di tali condizioni producano grandi variazioni nel comportamento a lungo termine di un sistema.

CAPITOLO 9.
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Mi dispiace di averti lasciata da sola nei laboratori.
Mi dispiace di non averti confessato che avevo già preso impegni con Nicholas, e di non poterti rivelare quello a cui stiamo lavorando là sotto.
So che non andate d'accordo e mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace tanto, ma non l'ho mandato io a cercarti: Nicholas c'è venuto da solo.


Nicholas c'è venuto da solo.

Di tutto quello che Shad continua a ripetere da quando sono tornata nella sua stanza è a questo che non riesco a smettere di pensare. Più che alle scottature, più che agli esperimenti che ho visto fare, e più che alle inquietanti parole Crichton; almeno fino a quando non mi ricordo perché mi trovo nella Villa, aspettando che Lilith torni a casa, senza sapere se è quello che desidero davvero o se lo sto facendo solo perché sembra il comportamento più scontato da mantenere: non abbandonare la propria sorella.
Mi siedo sul bordo del letto e lascio che Shad medichi le mie mani mangiucchiate dall'acido: le sue dita meccaniche sono come soffi freschi, mentre puliscono le ulcerazioni e ci applicano sopra una crema lenitiva; danno più sollievo del panno bagnato che stringevo fino a qualche minuto fa e di cui mi sono liberata in bagno.
- Ti faccio male?
La pazienza con la quale procede funziona da anestetico. 
- No, - dico piano, e accenno a un ringraziamento.
Shad scuote la testa, come se fare del bene, per lei, fosse un'inclinazione del tutto naturale e spontanea. Non distoglie lo sguardo dal suo lavoro.
Appena finisce di stringermi le bende attorno ai polsi mi cambio i vestiti saturi di polveri e infilo una tuta più comoda, lasciando la cerniera aperta sopra la maglietta. Ho ancora addosso l'odore pungente del laboratorio di Crichton, ma almeno sono presentabile.

- Sei arrabbiata con me, - osserva Shad.
Si slega la treccia bruna sulla schiena, districandosi un filo di perline rosse dai capelli. Il suo occhio meccanico trema in quel modo che è tutto nervosismo e interessamento, come se si aspettasse un rimprovero. Ma lo sono davvero, arrabbiata? Non con lei. Con tutti gli altri o solo con me stessa: le possibilità si riducono a questo.
Shad non ha nulla a che vedere con la piega che ha preso il mio umore questa sera.
- Figurati, - borbotto, poi mi abbandono all'indietro, tra le coperte del mio letto. Lo sfascio subito, perché vederlo ordinato al millimetro mi ricorda l'ospedale e i pazienti che andavano e venivano, e le lenzuola cambiate tutte le mattine per evitare i contagi.
Perché dovrei avercela con l'unica persona a cui importa davvero che io stia bene, comunque? Non sono così stupida da non averlo afferrato: Xanders mi ospita qui solo per potermi tenere sotto controllo. I Novi hanno paura di quello che accadrebbe se mi recassi dalla polizia e rivelassi tutto quello di cui sono a conoscenza. O peggio, se mi succedesse qualcosa e provassero di nuovo a uccidermi, sarebbero loro a doverne pagare il prezzo. Due sorelle scomparse in meno di un mese: niente male come scandalo da prima pagina. I Novi finirebbero per ritrovarsi i riflettori dell'intero Continente puntati addosso.

- Non dire più che ti dispiace, - sbadiglio, ma poi ci penso su, e allora aggiungo: - Sono solo preoccupata.
Faccio passare le lenzuola tra le braccia e affondo il viso nel cuscino: profuma di pulito, e di fiori e di qualcos'altro a cui non saprei dare un nome. Non si direbbe che abbia assistito a tanti sogni inquieti, senza impregnarsi dell'odore dei brutti pensieri.
Shad si accoccola in un angolo del materasso come se temesse di darmi fastidio.
- Per Lilith? - chiede.
- Per tutto. Sono giorni che ho scoperto la verità, e ancora Xanders non si decide a fare il primo passo.
Shad appoggia la testa contro il muro decorato di arabeschi dipinti. Le venature perlacee che le risalgono lungo il collo emettono un bagliore stanco, lo stesso che vedo riflesso nel suo sguardo. Mi chiedo se sia questo il confine che separa un semplice conoscente da un amico vero: riuscire a leggere tra le righe della sua espressione ed essere pronti ad affrontarne le conseguenze.
- Tu sei convinta che questa storia non si risolverà troppo presto, - azzardo. Tradurre la smorfia che cerca di nascondere è giungere a questa conclusione.
- Sybil, non è così semplice.
Certo che non lo è. Sono sempre i nodi che abbiamo il dovere di sciogliere, quelli più intricati.
- Ti ricordi quando ci siamo presentate?
- Sì, - annuisco, - eri contenta che non credessi alla faccenda degli esseri umani superiori.
Shad si stringe nelle spalle, e per un momento sembra solo una ragazza rannicchiata in una stanza troppo grande per due persone che parlano di argomenti tanto tristi.
- Non volevo che ti illudessi. Non volevo che credessi che i Novi sono perfetti. Continueranno a ripetertelo, Sybil: che siamo migliori, che abbiamo un codice genetico più prezioso del tuo e che andiamo protetti a qualunque costo, ma non è così che funziona.
Non l'avevo mai sentita così affranta, dalla voce quasi gracchiante e appena percettibile, come se non volesse correre il rischio che qualcun altro possa sentirla. Mi tiro su un braccio alla volta.
- Xanders si è messo in contatto con i rappresentati della nostra Fazione non appena sei arrivata qui, solo che non ha trovato il coraggio di dirti che è stato...ignorato.
Che cosa significa "ignorato"? Mi sporgo verso di lei per chiederle spiegazioni, ma per la prima volta Shad mi parla sopra, unendo le mani come a pregarmi di lasciarla finire.
- I rapporti tra i Novi sono più tesi di quanto non sembri, Sybil, e Xanders, questo, non lo aveva calcolato.
- Ti avranno parlato della frattura interna alla nostra Comunità, - continua.

- Lo hanno fatto, ma non riesco a capire quale sia il problema: mia sorella ha fatto saltare in aria una scuola, giusto? È una terrorista: i suoi rapitori devono consegnarla alla USD.

- No che non devono, e non lo faranno.
Adesso sono arrabbiata. Con tutti, con me stessa e con Shad. Da quando ho messo piede nella Villa non c'è stato nessuno che abbia condannato quello che è successo senza mezzi termini. A forza di tenermi buona a suon di non, di se e di ma, finiranno per mandarci la sottoscritta, in prigione.
- Non ce l'avete un codice penale?
- La nostra legge afferma che dobbiamo difendere la Specie prima di ogni altra cosa, e questo è ciò che è stato fatto. Lilith è stata salvata da morte certa, ricordi?
Salvata da un tentativo di suicidio messo a punto con meticolosa precisione. E non le è importato che quarantuno persone abbiano perso la vita a causa sua. Non le è importato che il Mondo sarebbe rimasto con il fiato sospeso per colpa di una ragazzina di sedici anni. O forse è proprio questo che voleva.
- Se è stata lei, deve pagarla.
Vederla finire in carcere sarebbe l'unico modo per sistemare le cose, ma anche in quel caso niente tornerebbe più come prima. Resterebbero la vergogna e le minacce della gente, come macchie indelebili sulla fedina della mia famiglia. E soprattutto dovrei fare i conti con un segreto dal peso insopportabile: quello di una sorella che non è semplicemente umana.
Accartoccio le coperte. Devo smettere di pensare a quello che accadrà dopo, o c'è il rischio che rinunci a Lilith una volta per tutte.
- Non sto dicendo che tua sorella non verrà punita, - precisa Shad.
- Sto dicendo che verrà punita da un tribunale di Novi come lei, e che l'ultima cosa che loro vogliono è allontanare ancor più le Fazioni per colpa sua.

- Nessuno di noi lo vuole, - aggiunge, come se sentisse il dovere di scusare la propria specie.
L'ultima luce del giorno - di un blu assonnato e cupo - si ritira verso la finestra. Nel buio del loro angolo le protesi di Shad accennano a una fluorescenza che serpeggia fino al mio ginocchio.
Sento la pressione delle sue dita.
- Se è una bugia che vuoi, cercherò di inventarmene una.
Le tiro il cuscino, ma sbaglio mira.
- Vada per la verità: se il prezzo da pagare affinché i Novi rimangano uniti è assolvere Lilith e chi l'ha presa con sé, il Comizio lo pagherà, almeno fino a quando sarà possibile.
- Lo pagherà, perché la ferita che la Rottura ci ha inflitto è stata troppo grande: ci sono famiglie di Novi spezzate a metà, Sybil; amici da una parte e compagni dall'altra; figli chiamati a scegliere uno solo dei loro genitori; nipoti che non hanno mai conosciuto i loro nonni.

- Io sono stata fortunata, - continua.
 - I miei hanno preso la decisione più giusta, crescendomi nella Fazione a cui apparterrò fino al giorno della mia morte, perché credevano che se tra dieci miliardi di possibiltà che il nostro codice genetico subisse una mutazione i Novi hanno cominciato ad esistere, questo non vuol dire che siamo superiori agli altri esseri umani.
Si tocca la spalla, il collo, l'orecchio sintetico. Rabbrividisce, e io so che sopporta a stento di guardarsi allo specchio ogni mattina, o di vedersi riflessa nelle espressioni attonite degli altri.
- Guardami, - dice, e io non vorrei farlo, ma l'accontento.
- Ti sembro forse un essere superiore? Nel mio corpo non ci sono che due organi interamente miei; il resto è stato più o meno danneggiato e riparato artificialmente, con tessuti coltivati in vitro o inserzioni inorganiche. Sono una macchina, un automa, ma per molti dei Novi il mio DNA sarebbe sufficiente a reclamare il diritto di mettervi da parte. Te, e quelli come te.
- Adesso capisci quanto siano diverse le nostre opinioni? Riesci a crederci?
Ci riesco, perché so quanto possano essere affilate le idee. In passato i Novi dovevano costituire un nucleo compatto, ma un giorno quel nucleo è stato tagliato a metà, senza prima stabilire quali conseguenze avrebbe avuto una soluzione così drastica. Queste persone sono spezzate esattamente come tutto il resto.
- Non puoi chiederci di metterci di nuovo l'uno contro l'altro. Pensa ad Armand, che ha visto andarsene nell'altra Fazione la persona che amava; a Nicholas, Ton-
- Che è successo a Nicholas?
Shad si preme una mano sulle labbra. Sembra pentita di aver fatto il suo nome.
Troppo tardi.
- Non lo dirò a nessuno, promesso. Sai che puoi fidarti di me.
Qualunque tentativo di dissimulare il mio interesse è fallito prima ancora di cominciare, ma devo saperlo. Adesso che ho la certezza che Reichenbach stia nascondendo qualcosa, desistere è impensabile. Ogni fibra del mio corpo è allungata verso la verità.
- Shad, terrò la bocca cucita.
- Non rivelo mai i segreti che mi vengono affidati, - sussurra, - ma non ho mai fatto promesse su questo. Io e Nicholas non ne abbiamo mai parlato.
- A dire il vero non ne abbiamo mai parlato con nessuno.
L'indecisione nel suo sguardo è palpabile, ma alla fine la vedo perdere terreno. Mi faccio più vicina a lei e incrocio le gambe, con la faccia tra le mani e la medaglietta di mia nonna tra i denti. Assaporo l'argento rovinato, fino a quando la parola che ci è incisa sopra non mi sfiora le labbra, e aspetto.
Shad, lotta contro il bisogno di confidarsi.
- Avere un'amica è terrificante, - ammette.
Sorridiamo, e  ma alla fine Shad mi racconta una storia.
La storia di Nicholas Reichenbach.
***

- I Novi sono chiamati alla conservazione della loro Specie.
- È un dovere morale, più che un obbligo, ma le famiglie numerose sono quelle che più vengono tutelate dalla Comunità. In un certo senso avere un figlio unico è come scegliere di non fare abbastanza: il valore genetico è minimo e a perdere. Due Novi per farne uno? La matematica non è d'accordo. Però Nicholas è proprio questo: un figlio unico dalla massima purezza genica. Tutti si aspettavano che i suoi genitori gli dessero almeno un fratello o una sorella, ma si sbagliavano. Quasi non ne ebbero il tempo.
- Quando i Novi si separarono, subito dopo la Rottura, la madre di Nicholas lo costrinse a compiere una scelta: andare con lei e parteggiare per la Fazione massimalista o rimanere con suo padre e crescere tra di Noi. Non so dirti se le divergenze di ideali tra di loro fossero così gravi da convincerli ad allontanarsi, ma come puoi immaginare Nicholas si decise per la seconda opzione. Nonostante tutto riuscì a superare l'abbandono di sua madre, e divenne uno dei ricercatori più promettenti dell'intera Comunità. Viveva a Friburgo con suo padre, ma non ci rimaneva mai per molto. Gira voce che tutte le Ambasciate della Fazione lo volessero. Lo vogliono ancora, in effetti.
Shad fa una pausa e si stropiccia la guancia sana.
- Mi hanno detto che è stato a Ginevra, a Cambridge e a Trieste, - sorride, ma una lacrima silenziosa le scivola sul naso. L'occhio meccanico invece è asciutto; il piccolo obbiettivo che c'è dentro si sposta avanti e indietro, come una bolla d'aria che sta per risalire in superficie e all'improvviso si rituffa in acqua.
Io sono ripiegata su me stessa, e non ho la forza di muovermi. Ma ogni secondo che Shad si concede è un'agonia in cui la mia mente si arrovella e pensa a storie tutte sbagliate.
- Poi? - la incalzo, e subito mi pento di averlo fatto.
- Poi, due anni fa, suo padre si ammalò. Di cancro. Leucemia.
Cancro.
Cerco di sbarrare la strada al ricordo di mia nonna nel suo ultimo mese di vita. La testa gonfia come se le tempie avessero dovuto scoppiarle, gli occhi sporgenti, il corpo appesantito. La bocca ferita e spoglia del suo vecchio sorriso. Un sorriso lontano, perduto, che ho cercato fino all'ultimo istante anche a costo di darle il mio. Di darlo alla persona che più amavo al Mondo, e che più mi sarebbe mancata al Mondo, e che lo avrebbe fatto sembrare vuoto senza la sua presenza.
- Nessuno riusciva a crederci, sai? Quello che per voi è un male così comune, per i Novi è un caso talmente raro che...
Shad si schiarisce la gola.
Una possibilità su sterminate altre alternative. Eppure è successo.
- Il signor Reichenbach era un chimico molto stimato, ma i suoi esperimenti lo portavano ad assorbire radiazioni su radiazioni.
- È morto, - sussurro, - vero?
Shad annuisce, ma non cerca di nascondere che sta tremando.
- E Nicholas è rimasto da solo. Nonostante tutto, da quello che dicono, sua madre non ha più voluto sentir parlar di lui.
Se lo avessi saputo.
- Se lo avessi saputo, - comincio.
Ma se lo avessi saputo che cosa sarebbe cambiato? Che cosa sarà cambiato, quando ci incroceremo di nuovo nei corridoi? Io saprò che lui ha sofferto, nient'altro. Quando incontriamo qualcuno possiamo essere sicuri che almeno una volta nel corso della sua vita ha pianto. Questo non impedisce a nessuno dei due di fare del male all'altro, perché il passato non è sempre una giustificazione.
Eppure la mia pelle, sotto la gola, tira così forte che potrebbe strapparsi. E non ho voglia di respirare, perché con l'aria uscirà anche il dispiacere che provo in questo momento, e Shad se ne accorgerà. Perché si deve morire per forza, se si soffoca? 
- Lo sanno in pochi, - continua Shad.
- Io stessa ne sono entrata a conoscenza per puro caso. Quando suo padre morì mi trovavo nello stesso quartier generale della nostra Fazione, a Chicago. Ci portano là, se non possiamo essere curati nelle Ambasciate.

- Io vi alloggiavo da quasi un anno, - continua.
- Dovevano ancora montarmi la gamba, ma dal giorno dell'incidente stavo meglio. Il dolore era sopportabile, così non dovevano sedarmi troppo spesso e potevo rimanere cosciente.
- Tutto quello che ricordo, comunque, è di essere stata svegliata da un grosso baccano. Era come se qualcuno avesse fatto irruzione nell'ospedale e avesse deciso di buttarlo giù a calci. Chiesi
a mia sorella di spostare la tenda della mia stanza, e lui era lì, dall'altra parte: un ragazzo furioso. Il ragazzo più furioso che abbia mai visto. Rompeva vetri riempendoli di pugni; faceva a pezzi coperte, fogli e vestiti. E urlava. Quanto urlava, Sybil... come se avesse dovuto sradicarsi l'anima a suon di grida.
Reichenbach? Per quanto mi sforzi di immaginarlo, non ci riesco.
- Perché?
- Perché nell'esatto istante in cui suo padre si spense, lui non c'era. Passava ore e ore seduto al suo capezzale, cercando di aiutare i medici che si occupavano di lui, ma la Fazione non ammetteva ritardi nella sua preparazione. Erano mesi che Nicholas studiava da autodidatta, e quella volta, sebbene fosse andato fuori a prendere una boccata d'aria, si era portato dietro una mappa stellare che aveva cominciato a disegnare quando era arrivato.
Shad si asciuga la guancia con una manica del pigiama.
- Successe e basta. Suo padre morì, e lui non c'era. Era fuori a ricalcare le stelle per ordine della Fazione.
- Non l'ho più rivisto fino al giorno in cui è arrivato nella Villa. L'alternativa per lui era quella di tornare a studiare in Europa, da dove i suoi genitori si erano trasferiti, ma da quelle parti la Rottura aveva avuto le conseguenze peggiori. Il nucleo della Fazione scelse di tenerselo vicino, ma fu lui a chiedere di essere ospitato in Minnesota: è un posto tranquillo, questo, lontano dagli Istituti troppo affollati. È stato un caso che anche io mi fossi ritirata qui.
Quando riesco a riprendere il controllo della mia voce nella stanza è sceso il freddo, e fuori è buio. Dubito che Shad abbia intenzione di andare a cena, e anche io sono disposta a rimanere a digiuno. Nella mia testa guizzano immagini che in questo momento non ho la forza di scacciare. C'è un principe che esce da una porta di vetro, e suo padre è vivo, e non si dicono addio. C'è un principe che rientra dalla stessa porta di vetro, e suo padre è morto, e non si sono detti addio.
- Lui ti ha riconosciuto? - deglutisco.
- Abbiamo fatto finta di non conoscerci, - ammette, - ma Nicholas sa che io l'ho visto. So che lo sa.
Ripiombo nel silenzio dentro e fuori. Adesso ce la metto tutta: mi concedo pensieri brevi, stando ben attenta che non siano sensati, almeno fino a quando Shad non mi scuote con una mano.
- Stai bene?
- Sì, è solo che...
Mascella intorpidita per colpa dei denti serrati troppo a lungo. Vista compromessa dal rifiuto di sbattere le palpebre. Il mio corpo è paralizzato dalla stanchezza e dallo sconforto.
- Ci si aspetta che le persone che conoscono il dolore siano quelle decise a risparmiarlo agli altri.
Tu lo fai, e invece Nicholas no. Tu lo fai, e Lilith non lo ha fatto.
Shad fruga nel suo cassetto delle belle parole e della fiducia nelle persone. Non so come, ma ci riesce.
- Io credo che gli esseri umani siano delle creature sociali. Che abbiano bisogno di non sentirsi soli, per vivere. E credo anche che per Nicholas, essere solo, voglia dire essere il solo ad aver sofferto tanto. O almeno lui pensa di esserlo. Per sua madre, per suo padre, e per le aspettative che entrambe le Fazioni avevano e hanno su di lui.
- Non lo accetta, e vuole che gli altri abbiano la loro parte di pena, ma allo stesso tempo si sente migliore di chiunque altro per essere riuscito ad andare avanti. Vuole capire perché è toccato a lui, e non ad altre persone, ma non ce la fa. Certi problemi la scienza non li risolve, Sybil, e questo lui non riesce a sopportarlo.
- Ha senso quello che sto dicendo, secondo te?
Che importa se ha senso o no, questo mi chiedo. Continuo a farlo anche quando mi stringo a Shad, e dico solo che non è niente, davvero, e che voglio solo un abbraccio. Non uno qualunque, ma una stretta umana e artificiale insieme, perché sono una creatura sociale e non voglio sentirmi sola.
E allora forse un senso c'è, perché quello che prova Nicholas è quello che provo io ogni volta che mi arrabbio: un male banale, egoista, che mi piacerebbe estirpare da me e abbandonare sulle persone. Perché tra tutte le cose che vorrei fossero solo mie, non ci sono la delusione, la paura di quello che sarà domani, di quello che è stato ieri e che si è perso, e quella di non avere la forza per non soffrirne. Tutto questo vorrei che appartenesse ad altri. Tenetevelo, è vostro.
Io ne ho avuto abbastanza. E forse anche Nicholas.

***
Oggi il lago che si estende oltre l'ala Est della Villa è argento fluido.
Del colore del mercurio, a detta di Leslie, che mi scarica tra le braccia una valigetta di plastica lucida e sbuffa per la fatica.
- Fai pure! - strepito, ma l'unico risultato che ottengo è una linguaccia.
Leslie è così eccitata da non accorgersi che l'aria sta cambiando; insisto affinché torni dentro e si metta un cappotto, ma il vento gelido che ci scortica la faccia non ha effetto sul suo entusiasmo. Intorno a noi un gruppo di sei o sette bambini si rincorre tra gli alberi in cerca di campioni da prelevare e osservare in laboratorio. Riconosco uno dei fratellini di Armand, Grégorie, dallo stesso faccino appuntito e le labbra come due ciliegie a cui viene voglia di rubare il colore. Dalle sue tasche cadono vetrini e provette, ma quando faccio per raccoglierle è già scomparso nella distesa di conifere che separa l'edificio da qualunque cosa vi sia aldilà del bosco.
- Potrebbe essere pericoloso, - osservo. Forse dovrei tenere d'occhio i più piccoli, ma Leslie sembra un po' troppo divertita all'idea.
- Che t'importa di loro? Al lavorooooo!
Ho ottenuto il permesso di uscire dalla Villa in qualità di "assistente" di Leslie, ma questo vuol dire che devo correrle dietro per due o tre ore ogni pomeriggio. Il mio compito è quello di trascrivere i dati che mi vengono dettati tra un prelievo e l'altro, sebbene il più delle volte il paesaggio finisca per distrarmi. Sono giorni che cerco di localizzare questo posto, ma il telefono che mi hanno prestato funziona solo per ricevere o fare delle telefonate. Il mio - lo schermo rotto, i tasti mancanti - non era al sicuro da intercettazioni estranee, così Xanders se n'è liberato.
- Concentrazione salin -
C'è un colpo di tosse smorzato dal fruscio degli aghi di pino, dal loro profumo fresco, dalla loro immagine che si specchia sulla superficie del lago.
- Mi stai ascoltando? Qual è la concentrazione salina della fonte?
- Non mi stai ascoltando.
Leslie tira uno schiaffo sull'acqua e uno schizzo mi raggiunge in piena faccia.
È ghiacciato. S'intrufola giù per il collo e sulla schiena, fino alla cucitura dei pantaloni. E io lascio cadere la valigetta.
Contagocce, microscopi portabili, guanti impermeabili e decine di strumenti senza nome ruzzolano lungo le sponde del Lago, ma io ne afferro uno al volo e glielo tiro.
- Ahiaaaaa! Sybil Crowford, sei licenziataaaa!
Recupero un altro utensile - un disco di plastica dallo spessore di due dita - e la centro sulla testa. Non aspettavo altro che di dare le dimissioni, ma a quanto pare Leslie mi ha preceduto. Tira su con il naso, quel naso che è appena un apostrofo roseo e sottile, e se ne va con il broncio di una bambina che mi arriva al petto.
- Avevano ragione su di te, - singhiozza, e corre via.
Chi avesse ragione su cosa, però, non se lo lascia sfuggire.
Nemmeno perdo tempo a seguirla con lo sguardo: poggio le ginocchia sul prato, raccogliendo quello che è rimasto del kit di prelievo più lentamente che posso, visto che non ho intenzione di rientrare fino a quando Leslie non ci avrà dato un taglio. E poi qui mi piace. Fuori.
L'erba è umida a contatto con i miei vestiti, ma soffice, e sottoterra riesco quasi a percepire le radici degli alberi che s'intrecciano in una catena resistente che protegge i boschi intorno alla Villa. Sopra di me i rami si aprono come braccia spalancate a un altro respiro, e non c'è niente che ricordi le piante malate della mia città, dai fusti rachitici e la corteccia che si sfalda. Non ci sono strade d'asfalto spaccato, ma sentieri ordinati che si immergono nel verde. Non ci sono isole di plastica nell'acqua, ma animali vivi, alghe colorate, e superfici che riflettono il cielo. I cervi non devono avere paura di essere cacciati.
Dopo aver rimesso ogni strumento a suo posto faccio scattare la sicura della valigetta e torno in piedi; le ginocchia tirano un sospiro di sollievo, ma ho le dita congelate e faccio fatica a muovermi.
Perché a Marshall non c'è niente di tutto questo? Perché gli anni della Rottura ci hanno portato via cose che qui esistono ancora, e come noi non le abbiamo mai viste?
In lontananza riesco ancora a scorgere i bambini. Giocano nel prato, ma non pestano i fiori dell'Inverno; catturano rane e girini, li osservano con obiettivi d'ingrandimento, ma poi li ributtano in acqua senza fargli del male.
Potrebbe essere questa, al risposta. Forse i Novi hanno avuto di più perché lo meritavano. Perché non hanno divorato l'ozono, né perso il controllo di armi chimiche, né sfruttato illegalmente Paesi che non gli appartenevano.
E forse, forse, se il Mondo fosse stato loro, niente sarebbe andato in pezzi.
È il pensiero di un istante, prima che mi tornino in mente le parole di Shad: i Novi vogliono far credere di essere perfetti, ma non è detto che lo siano davvero.
Un leggero solletico sulla guancia mi riporta alla realtà. Con la coda dell'occhio mi accorgo che sulla mia spalla si è posata una farfalla.
Trattengo il respiro. Colgo un'iridescenza azzurra che sfuma dal nero al bianco, ma non oso girare la testa per studiarla meglio. Ho paura che voli via, e io non vedevo una farfalla da secoli. La valigetta pesa e le braccia mi fanno male; penso a un modo per cambiare posizione senza lasciarla scappare.
Ma non ho bisogno di trovarlo, perché qualcun altro agisce a posto mio.
Con una mano sulla mia spalla, rovinata e squamosa, e la pelle che sa di zolfo.
Mi sottraggo al suo tocco con una piroetta e in un gesto rapido, quando mi volto, un uomo sporco di fango mi mostra la sua preda.
- Guarda, - sorride Crichton, - Limenitis Arthemis.
- Una farfalla.
***
 
Non ho bisogno di Nicholas per capire che Crichton non dovrebbe trovarsi qui. L'uomo del laboratorio, il chimico eremita che non lascia mai i sotterranei della Villa a meno che non sia Xanders a richiedere la sua presenza, non dovrebbe girovagare per i boschi mentre lo fa la sottoscritta. E scommetto che prima d'ora non era mai successo.
Seguo l'insetto prigioniero delle sue dita: dieci centimetri di colore racchiusi in una gabbia smunta che le vibrazioni spaventate delle antenne sembrano aver paura di toccare.
- Ciao, Crichton.
- È così raro trovarne una in questo periodo dell'anno, - osserva.
- Questa specie vive fino ad Ottobre.
- Ormai non fa più così freddo, d'Inverno, - rispondo, ma allora perché mi è venuta la pelle d'oca?
- Non mi aspettavo di incontrarti qui, - continuo.
- Ci vivo.
Faccio scoccare la lingua. Risposta stupida ad affermazione ancora più stupida.
Approfitto di una folata di vento per alzarmi il cappuccio sulla testa e poterlo osservare meglio senza risultare inquietante. Crichton indossa il solito camice macchiato, ma questa volta le tasche sono piene di terra bagnata; la stessa incrostata sotto le sue unghie.
- Non sei più venuta a trovarmi da quando Nicholas è venuto a prenderti. Stai con lui, adesso?
- Cos- cosa? No! No, è che... ci sono tante cose da vedere in questo posto.
- Se ti ho spaventata, ti chiedo scusa.
La sua voce è tranquilla e i suoi occhi sono sinceri.
- Vuoi che la liberi? - chiede, e sulle sue labbra scorticate si apre una smorfia gentile. Io sopprimo un ghigno inorridito: che altro potrebbe fare, schiacciarla?
- Sì. Lasciala andare, Crichton.
Dall'altra parte del lago Leslie mi grida di tornare dentro, sbracciandosi fino a quando la maglia non si alza a scoprirle la pancia: Xanders mi vuole nel suo studio.
Torno a guardare Crichton e mi sforzo di essere educata. Non posso avercela con lui perché è un tipo strano, ma l'ammonimento di Nicholas è stato fin troppo chiaro.
- Dico sul serio: liberala.
Crichton apre le dita di scatto.
La farfalla non fugge immediatamente: muove le alucce per tastare l'aria, come se non riuscisse a credere di essere ancora viva; come se avesse dimenticato come si vola. Poi, all'improvviso, si libra in alto, e io e Crichton la seguiamo con lo sguardo mentre se ne va.
- Ecco fatto, - dice lui, e io lo saluto.
- Ci vediamo dentro, allora. E non preoccuparti, non mi hai spaventata.
Sto mentendo.

Il cielo si è fatto più pesante, e sento sempre più freddo. Crichton rimane al suo posto fino a quando la farfalla non scompare e le prime gocce di pioggia non gli bagnano la faccia.
- Ecco fatto, - ripete.
- Arriva un uragano.

***

Raggiungo l'ingresso quando è ormai troppo tardi: sono fradicia di pioggia, con i capelli appiccicati al collo e le scarpe zuppe che spumano ad ogni passo. Restituisco la valigetta a Leslie che con un singhiozzo mi addita a sua "ex-dipendente", poi mi allontano dal coro di bambini urlanti dell'ascensore e salgo su per le scale.
Sogno una doccia calda, dei vestiti asciutti, qualcosa da mangiare; qualunque distrazione possa levarmi di dosso la pressione della mano di Crichton dalla spalla. 
Apro la cerniera del cappotto e ne scivolo fuori tra uno scalino e l'altro, trascinandomi un piede alla volta. È a quel punto che me li ritrovo di fronte, mano nella mano come due bambini sul punto di attraversare la strada, più che come due innamorati: Nicholas e Beatrice.

- Oh.
Sussulto.
Sulle alte vetrate della scala piovono proiettili d'acqua e foglie portate dal vento, ma l'interno della Villa è protetto dalle temperature ostili di Dicembre.

- Scusate, - mugugno, e abbasso gli occhi per non incrociare quelli di Nicholas. Non ho fatto altro che evitarli da quando Shad mi ha raccontato di quello che gli è successo, ma Beatrice non ha intenzione di scansarsi e lasciarmi passare.
- Ti hanno chiuso fuori?
Anche Nicholas tenta di imitare la sua espressione divertita, ma non ci riesce. Credo che abbia fretta.
- Ho solo cercato di andarmene da questo posto, ma mi hanno riacciuffata, - dico. Se non avessi il fiatone, riuscirei a batterla per scortesia.
Entrambi si scoccano un'occhiata atterrita. Potrei essermelo immaginato, ma le dita di Beatrice si artigliano attorno alla mano di Nicholas.
- Sta scherzando, - sottolinea lui, affrettandosi a nascondere il disagio. Fa per tirarsela dietro.
- Dovresti sbrigarti, Xanders ci ha convocato di sotto.
Giusto.
- Ditegli che sto arrivando, okay?
Non lo faranno: la mia entrata in scena sarà ancora più spassosa, con un contorno di ritardo.
- Ah, e...Nicholas!
Lui non si ferma nemmeno quando lo raggiungo di nuovo. È Beatrice a voltarsi prima ancora che lo faccia lui, così ingoio l'impulso di spingerli giù dalle scale e mi asciugo gli occhi con la manica della felpa.
- C'è una cosa di cui ti devo parlare, - ansimo.
- In privato, se possibile.

La novità è questa: lui sussurra a Beatrice un "ti raggiungo subito" piuttosto svogliato, e perfino insiste quando lei si rifiuta di lasciarci. Sinceramente non capisco che cosa abbia da temere una come lei, che riesce a convincere il proprio ragazzo a indossare pantaloni coordinati ai suoi, ma alla fine ignoro con successo le sue battute velenose.
- Sappi che non lascio che ragazze così carine rimangano da sole con lui, - sorride.
Ma guarda, adesso sarei carina: eppure fino a ieri ero una sottospecie di essere umano. Le sorrido anche io.
- E per fortuna. La voglia di strozzarlo quando non ci sono testimoni in giro è insopportabile.
Adesso smamma.
Nicholas sbuffa amaramente, ma Beatrice si alza sulle punte dei piedi per baciarlo. È un bacio affamato, di denti che stringono le sue labbra, e braccia attorno alla vita e seta che struscia contro della stoffa costosa. Io guardo fuori: non ho intenzione di giocare a un gioco così infantile.
Alla fine Beatrice se ne va, portandosi dietro il suono di tacchi spessi contro il marmo, e Nicholas alza gli occhi su di me come se non vedesse l'ora di andarsene.
- Hai più o meno venti secondi prima di annoiarmi del tutto.
- Tanto di più non ti sopporto: Crichton mi ha seguito giù al lago.
Credo di aver fatto centro.
- Impossibile, non esce mai dal suo appartamento.
- Me lo sono ritrovato dietro, Nicholas!
Scendo qualche gradino più in basso, disseminando orme frastagliate d'acqua sporca, ma lui non si muove. Trattiene il mento leggermente alzato, come fa sempre: essere quello che viene guardato dall'alto in basso deve consumargli il fegato.
- Gli
hai detto qualcosa che possa averlo spinto a interessarsi a me?
- Mi pare che ci fossi anche tu, quando sono entrato nel suo laboratorio, - dice.
- Ti sembra che gli abbia anche solo rivolto la parola?

- Intendo dopo. Quando sei tornato di sotto. Perché sì, - alzo le mani, - ti ho visto.
Lo vedo calcolare la situazione. Impiega due secondi a superare l'esitazione.
- Avevo dimenticato degli appunti nella mia cabina, motivo per cui sono sceso e li ho recuperati. Non devo darti altre spiegazioni.
Questa volta è lui ad andarsene per primo, ma sono decisa a non permetterglielo.
- Scusami se almeno qui dentro vorrei sentirmi al sicuro! - grido, e la mia voce viene trasportata lungo tutta la lunghezza delle scale, e Nicholas non può non tornare a guardarmi, anche se è in ritardo, ed è atteso da qualche altra parte. Anche se lo siamo tutti e due.
Le sue guance s'incavano come se le stesse mordendo, e io, per riflesso, faccio lo stesso.
- Sei al sicuro, - mormora, e io non ho idea dei pensieri che si camuffino dietro le sue parole. Le sensazioni, se ci sono, le bugie, le verità: Nicholas mi taglia fuori. Stringo il cappotto bagnato al petto.
- Gli dirò di lasciarti in pace, qualunque sia il motivo per cui è interessato a te.
Non lo dice piano, né ad alta voce. Piuttosto modula con estrema attenzione ogni accento o forma d'intonazione. Per adesso è abbastanza, e io annuisco.
Grazie.
È così semplice da dire: sei lettere tutte d'un fiato per due sillabe. Ma in verità non lo è per niente, o riuscirei a farlo e a smettere di litigare con il ragazzo che disegnava le stelle mentre suo padre moriva di cancro.

- È meglio se ci sbrighiamo, - dico invece. Ventuno lettere tutte d'un fiato per otto sillabe, e nonostante tutto meno complicato.

***
La riunione è già cominciata da un pezzo quando con una scusa imbarazzata e sotto lo sguardo curioso dei Novi prendo posto sul fondo della stanza.
Shad si alza sulle punte per bisbigliarmi qualcosa nell'orecchio: - Ci sono novità.
Mi tiro di lato di scatto per cercare la traccia di uno scherzo nella sua espressione, ma qualcosa mi suggerisce che è seria. Rilasso i pugni e cerco di recuperare il filo del discorso di Xanders, finendo di sistemarmi una camicetta spiegazzata sulla pancia. Individuo Nicholas e Beatrice su uno dei divani che guardano alla scrivania, stretti tra Armand e una ragazza dai capelli cortissimi.
- Come stavo dicendo, - riprende Xanders, - tra tre giorni, a Chicago, avrà luogo l'edizione annuale dell'esposizione promossa dalla nostra Fazione.
Le sue guance sono più arrossate del solito, ma resta da chiedersi se questo sia il risultato del caldo del salotto o dell'eccitazione. La linea di barba ramata che si è lasciato crescere non aiuta a dargli un'aria più matura, e perfino il ricciolo sapientemente acconciato sulla sua fronte pare quello di una caricatura.
- Senza contare quelli di voi che avranno un ruolo attivo all'interno dell'evento, ogni singola persona presente in questa stanza è stata invitata.
Ad eccezione della sottoscritta, è chiaro.
- Non siete obbligati a partecipare, ma gradirei che alcuni di voi fossero presenti, soprattutto coloro che l'anno scorso hanno declinato l'offerta.
Passa in rassegna i ragazzi stipati nell'ufficio, indicandoli con un dito.
- Toni, Ren, Shad, Armand e naturalmente Beatrice: avete già confermato la vostra adesione.
- Charles, Hellen, Faraa - non dirmi di no anche questa volta, signorina, - Louis e Dave: mi auguro che vorrete accompagnarci.
- Ci siamo anche io e Kira.
Una figura si alza dal centro del salotto, alta e piazzata. Riconosco Sam, dal viso troppo dolce per un corpo così robusto, che fa apparire piccoli tutti gli altri.
- A dire il vero, Sam, avrei un favore da chiedere a voi due, visto che siete i più grandi.
- Sia io che Amelia vi accompagneremo all'esposizione, quest'anno, e con noi verrà anche Daemon. Ho bisogno che qualcuno rimanga a guardia della Villa mentre saremo via, prendendosi cura dei bambini.
Nello studio si alzano decine di voci tutte insieme. Qualcuno si guarda intorno con aria interrogativa.
- Ragazzi, ragazzi! Per favore, silenzio. C'è stato un cambio di programma: sarà Amelia a coordinarvi durante l'esposizione. Io sarò comunque presente, ma in qualità di rappresentate di Sybil Crowford.
- Okay, aspettate un momento, - sventolo un braccio, - cosa?
- Sybil, l'evento a cui parteciperemo è un convegno su scala mondiale, dove verranno esposte ricerche e progetti alla quale i Novi di tutto il Pianeta stanno partecipando.
- Shad mi ha fatto notare che potrebbe essere un'occasione importante per portare all'attenzione generale il caso di tua sorella, visto che il Comizio non si è ancora espresso compiutamente a riguardo. Non sarà come convocarlo per via ufficuale, ma saranno presenti alcuni dei Novi più influenti di entrambe le Fazioni, persone che potrebbero spendere una buona parola per il tuo caso.
Non credo di aver capito bene.
- Ci saranno le persone che hanno sequestrato mia sorella?
- Non sappiamo quale particella della Fazione opposta stia effettivamente ospitando Lilith, se quella centrale o quella di un'unica delle loro Accademie. Del resto anche i membri di questa Villa sono solo una minuscola parte della nostra comunità. Siamo intervenuti perché eravamo i più vicini a Marshall, e quindi gli unici che tenevano d'occhio tua sorella periodicamente.
Quindi ho capito bene.
- Va bene lo stesso, - annuisco, - è già qualcosa. Quando partiamo?
- Noi partiamo dall'aeroporto di Minneapolis tra due giorni. Tu resti qui.
- Xanders, non era questo il patto. Avevi promesso che sarebbe venuta anche lei, - dice Shad.
Avrei dovuto aspettarmi che l'idea non fosse merito di Xanders. Delle volte dubito del fatto che riesca anche solo a organizzare i propri pensieri.
- Shad ha ragione. Dovrebbe venire con noi.
Beatrice liscia la camicia di Nicholas con gesti delicati; l'ombra di un sorriso vibra nel suo sguardo quando tutti prendono a fissarla. Sospetto che fosse l'ultima cosa al mondo che ci saremmo aspettati di sentirle dire.
- Via, non vorrete lasciarla qui! Avete davvero paura che le facciano del male davanti a tutte quelle persone?
Stringo le labbra. Sento ancora il sapore del cioccolato che ho arraffato in camera, ma il retrogusto adesso è amaro.
Colgo un imbarazzato incrocio di sguardi dall'altra parte della sala circolare, poi Xanders si alza in piedi e comincia a passeggiare avanti e indietro per la stanza.
- Quando partiamo? - gli chiedo di nuovo.
- Preferirei che rimanessi qui, se sei d'accordo.
- Non sono d'accordo. Shad ha avuto un'idea brillante. Quando partiamo?
- Non otterrai niente che non possa ottenere io confrontandomi con chi dell'altra fazione sarà presente. I miei superiori hanno già convocato un incontro per discuterne: se davanti alle nostre accuse i Novi confesseranno che Lilith è colpevole di quell'attentato, avrà inizio il processo a suo carico e noi entreremo in scena per riportarla a casa.
- Perfetto, ma vengo anche io. Sono una testimone oculare e sono quasi stata uccisa da quelle persone.
- Discuteremo anche dei danni a tuo carico, ma...
- Xanders, ho il diritto di incontrarli, - dico. Non accetterò che vengano prese decisioni alle mie spalle, questa volta: se Xanders sta per commettere un errore, voglio poterne fare parte. Almeno il colpo arriverà con un minimo di preavviso, questa volta.
- So che me ne pentirò.
Accetta.
- Siete pazzi, - mormora Nicholas.
- Sì, pazzi. Tutti quanti, - concorda qualcuno.
Guardo Nicholas da sopra la spalla di Shad, tirandomi indietro, fino a sfiorare la teca contenente il telescopio: Nicholas, le gambe mollemente incrociate e il mento poggiato sulla mano, continua a guardare un punto fisso sul pavimento. La sua espressione si riduce a un'unica increspatura sopra l'attaccatura del naso, dove la concentrazione ha lasciato il graffio di una ruga che quasi non si nota e che una ciocca pallida tenta di coprire.
- Nicholas, Ivan, Maria: farete riferimento ad Amelia per la presentazione dei vostri progetti, - li rassicura Xanders: - Non c'è nulla di cui dobbiate preoccuparvi, ve lo assicuro.
Sfioro la spalla di Shad e avvicino le labbra al suo orecchio meccanico, piegando le ginocchia per raggiungere la sua altezza.
- A cosa si riferisce?
Shad mi risponde con un filo di voce, i capelli neri a coprire la nostra conversazione come una tenda di seta.
- Alcuni dei ragazzi si sono guadagnati l'opportunità di tenere delle conferenze all'esposizione di Chicago. Per Maria e Ivan è il primo anno, ma sono sicura che Amelia si prenderà cura di loro.
Scommetto che Amelia è la donna che ho incontrato la notte che sono arrivata qui, e che adesso mi sembra di scorgere al fianco di Xanders: una donna matura, con i capelli luminosi costretti in un chignon; una dei pochi adulti a vivere qui. Penso che sia  la vicedirettrice della Villa, o qualcosa del genere.
- E Nicholas?
- Lui terrà almeno tre conferenze, - sorride, e piega la testa come se la divertisse, sapermi tanto interessata.
- Ormai è uno degli ospiti più attesi.
- Ti pareva. Non so nemmeno perché te l'ho chiesto.
Amelia - o la donna che credo sia Amelia - richiama l'attenzione di Xanders con un colpetto sulla schiena, poi torna a sedersi al posto che a lui spetterebbe, dietro la scrivania.
- Sono arrivate le ultime adesioni, Xanders; vuoi controllare chi parteciperà all'esposizione?
- Sì, certo. Grazie, Amelia.
Avevo ragione a pensare che si trattasse di lei.
La donna digita un lungo codice e fa proiettare un'immagine a mezz'aria, con la stessa forma a falce che aveva la prima volta che ho visto lo schermo nascosto nella scrivania. Dietro l'intricato gioco di luci riesco ancora a intravedere la sua espressione contrita, forse effetto della magrezza estrema che la contraddistingue e degli occhi rotondi e sporgenti. Afferro un luccichio sul suo petto, e rimango sorpresa del fatto che il ciondolo della sua collana sia una minuscola croce d'argento, appena sopra la cucitura del maglione.
Legge i nomi dei partecipanti selezionando quelli che trova più interessanti, ma il labbro inferiore stretto tra i denti ne storpia la pronuncia. Alcuni spogliano la lista come se fossero sulle spine, così alla fine sbircio lo schermo anche io:

Accesso Consentito al visitatore Amelia. G. Baggins (N) - codice 192100kjoth

 ESPOSIZIONE DI SCIENZA E TECNOLOGIA DI CHICAGO
Crystal Palace in Cam.
(21th ed.)

Ultimi iscritti al registro dei partecipanti:

Peter Gloone        (h)
Virginia Fermi       (p)
Grant Malcom      (p)
Delphine Navier    (h)
Edmond Navier     (h)
Catrina Joja           (h)
Peter Butler           (h)
Rosalind Gilbert     (h)
Thomas Edge         (h)
Wolfgang Brack      (h)




e al resto della lista limito nient'altro che un'occhiata. Potrei rimanere ore ed ore a fissarla, ma non saprò mai se lì in mezzo si nascondono le persone che hanno permesso a mia sorella di far esplodere una scuola. Mai, a meno che non mi decida a salire su quell'aereo per scoprirlo.
Toni sembra sul punto di svenire a causa della presenza del Grant Malcom che occupa il terzo posto, ma non specifica il significato della lettera "p" vicino al suo nome. Dopo qualche minuto di riflessione Xanders prende il posto di Amelia dietro la scrivania.
- Molto bene, dunque. La partenza è fissata per le dieci di mattina di Giovedì, con destinazione Chicago. Saremo di ritorno, se tutto va come previsto, nel giro di quattro giorni. Vi prego di comunicarmi la vostra eventuale adesione entro questa sera, in modo da fornire alla Fazione i nominativi dei partecipanti.
Un coro di risposte affermative convince Xanders a lasciarci andare, ma non prima di avermi assicurato che domani metteremo a punto un piano diplomatico che comprenda la mia presenza. Mi sento in dovere di ringraziarlo per aver colto al volo questa opportunità, anche se è il minimo che i Novi possano fare per riscattare il debito che hanno nei miei confronti. Quando mi metto in fila per uscire, strusciando i piedi su un tappeto dalle trame arricciate, mi accorgo che Shad è impegnata in una discussione insolitamente accesa, per una come lei. In un impianto del suo torace lampeggia una spia rossa, a un ritmo crescente mano a mano che si agita. Tiene le braccia incrociate in quel modo che ricorda il tentativo di coprirsi dallo sguardo degli altri, ma è affranta. Sta inseguendo Nicholas, ma lui fa finta di ignorarla. Alcune persone vengono a congratularsi con me, e io mi sforzo di dispensare sorrisi e strette di mano, senza riuscire a raggiungere la mia amica. Ren e Toni mi mettono un braccio a testa sulle spalle, trascinandomi fuori.
Poi, però, Xanders alza una mano verso la coda della fila e si schiarisce la voce. Farsi rispettare gli costa un certo sforzo, come se nessuno lo considerasse davvero per il ruolo che ricopre.
- Nicholas, potresti trattenerti per qualche minuto? C'è qualcosa di cui vorrei parlarti.
Questo ottiene l'effetto sperato.
Ci fermiamo tutti sul ciglio della porta, lasciando che i non interessati ci sfilino di fianco per uscire. Perfino Shad rimane in attesa, con gli occhi felini, marcati dall'eyeliner nero.
Nicholas non sembra porsi alcun dubbio; si volta giusto il tempo che basta per accorgersi che la lista di partecipanti è ancora proiettata a mezz'aria. 
- No, - sibila, e il silenzio che viene dopo sembra amplificare le frustate della pioggia che picchia sui vetri. Armand prova a stargli dietro, ma Nicholas non si ferma ad aspettare nessuno: né Armand, né Shad, né Beatrice, che scocca un'occhiata sfacciata verso la scrivania.
- Lascialo in pace, Seymour. Non far finta che sia lui ad aver bisogno di te.
Beatrice si piazza una maschera sulla faccia e mi sorride come se fossimo migliori amiche. Appena Ren e Toni se ne vanno, poggia le mani sulle mie spalle e inclina la testa di lato: io mi lascio sfuggire una mezza smorfia alla vista dell'anello dorato che porta al dito, dove un rubino intagliato sboccia in una rosa di pietra. Potrei pagare la mia retta universitaria con un oggetto del genere.
- Indovina chi aveva già scommesso che saresti venuta?
- Tu?
- Sì. E ho dovuto fare carte false per prenderti un posto alle conferenze di Chol, ma alla fine ci sono riuscita. Sarà un'esperienza indimenticabile, vedrai.
- Uhm, grazie?
- Lo so, lo so: sono stata parecchio sgarbata con te. Non sono brava a fidarmi delle persone, ma allo stesso tempo odio non essere brava in qualcosa.

- Tregua?
Alzo lo sguardo dalla sua mano ingioiellata fino allo spruzzo di lentiggini che le punteggiano la faccia, come se ci avessero soffiato sopra dello zucchero di canna. Mia nonna era solita raccontare che nel paese in cui era nata, fino a qualche decennio prima della sua nascita, le persone con i capelli rossi venivano emarginate con un certo sospetto, quasi vi si intravedesse il colore di una certa malizia.
Credevo di non aver mai sentito nulla di più stupido, e invece eccomi qua: pronta a trovare mille scuse del fatto che non mi fido di lei. Disposta a incolparla di avere una chioma fulva, piuttosto che abbassare la guardia.
- Lo prendo come un sì, - civetta.
- Prendilo come vuoi, Beatrice.
- Ah, quando torni nella tua stanza da' un'occhiata all'armadio: c'è un regalo per te.
Beatrice sgambetta verso il resto del gruppo e non si volta indietro. Io sono l'ultima a lasciare la stanza, accorgendomi che fino a questo momento non ho fatto che premere le unghie contro l'interno dei palmi: mi chiedo se Xanders se ne sia accorto, visto che non aveva nessuno con cui parlare.
Aspetto che cominci a lamentarsi, o che mi inviti a togliere il disturbo. Invece fa finta di sorridere, e per me è anche peggio: come si sdrammatizza l'immagine di un Direttore che viene zittito da uno dei suoi pupilli davanti a un gruppo di persone attonite?

- Nicholas ha ancora tanto da imparare, - sospira, la voce roca, - ma non vuole che gli si insegni niente.
Rimango ferma contro il legno rosso della porta fino a quando Xanders non spegne la proiezione della lista per farmi capire che è ora di andarsene. Colgo un ultimo stralcio di nomi, prima che la mezzaluna tramonti di nuovo e i partecipanti all'esposizione si dissolvano del tutto.
Prima di andarmene mi concedo un ultimo pensiero a Reichenbach, prima di raggiungere il limite massimo che precede un rigetto alla sua immagine.
Chissà dove, in mezzo a quella lista, Nicholas ha letto il nome di sua madre.


***
- Il piano è quello di costringerli a confessare, credo.
Mi infilo una maglietta pulita tra le labbra, mentre le mani sono occupate a schiacciare i vestiti in valigia. La voce di Alphy trema contro l'incavo del mio collo da quando il tentativo di tenere il telefono poggiato tra l'orecchio e la spalla è fallito, e la parte dell'auricolare è finita per farmi il solletico. Esamino i residui di vestiario sul mio letto e roteo gli occhi. Quando ho frugato nell'armadio di casa mia non avrei mai pensato di partecipare a un'esposizione di nuove tecnologie e scoperte scientifiche. Io, alla scienza, non ci penso e basta.
- Poteva andarci peggio, - dice, - visto che sono giorni che aspettiamo a vuoto.
Sappiamo entrambi che per adesso questo evento rappresenta l'opportunità migliore che ci sia capitata dalla scomparsa di mia sorella a questa parte, e che non possiamo tirarci indietro. Non starò qui a ripetere che vorrei vederlo salire su quell'aereo insieme a me, ma è così che stanno le cose: lui avrebbe il cervello per capire, e io la faccia tosta per agire. Senza Alphy non basteranno tutte le valige del Mondo.
- Non sto più nella pelle, sai? Chicago, FC-nA-Illinois, la città più ricca degli Stati Uniti! - esclamo, ma le mie labbra non sono abbastanza sicure da trattenere la maglietta. Mi chino a raccoglierla e rimango per terra, contro il materasso morbido, e Alphy non risponde. Lo ascolto chiudersi una porta alle spalle e sedersi alla scrivania.
- Alphy, sei ancora lì?
- No.
-
Voglio dire, sì, ma ti dispiace rimanere in linea?

- Figurati, tanto sto preparando la valigia.
La valigia l'ho quasi finita, ma non importa. Dall'altra parte del telefono sento Alphy armeggiare con uno strano aggeggio di ferro, come se stesse cercando di smontare un pannello rigido, o che so io. Quasi riesco a immaginare la fascia di pile che gli scosta i capelli dalla faccia, gli occhiali che gli scivolano sul naso per il sudore, e la punta della lingua serrata tra i denti. Mi viene da sorridere.
- Ti ricordi di Beatrice? Mi ha fatto recapitare tre completi eleganti da indossare alla conferenza, visto che ci sarà una festa di Natale, - mormoro.
- Credi che dovrei farci un falò? A casa mia non si festeggia, il Natale.

- Non lo so, sono...
Alzo gli occhi sulla scatola infiocchettata che ho trovato in camera ad aspettarmi, e cerco di immaginarmi con addosso una blusa bianca riccamente ricamata e dei costosi pantaloni di seta color indaco, sospirando.
- Meravigliosi, purtroppo. E io non ho nient'altro da mettere, a meno che non si possano indossare jeans e sneakers. 
- Ah.
- Se il mese scorso mi avessero annunciato che avrei partecipato a un convegno continentale sulla scienza, mi sarei sentita presa in giro. E comunque, se fosse successo, sarebbe stato perché mi avrebbero scambiata per Lilith.
- Penso di sì, - dice, ma è chiaro che sto parlando a me stessa, e che lui è distante, distratto, senza voce. Mi mordo le unghie della mano destra e prendo tempo, ma potrei girarci intorno tutta la sera, e ancora non saprei come spiegargli che Xanders si è rifiutato di portarlo con noi. E allora ci scherzo su, come si fa quando non c'è niente da perdere.
- Alphy, so che ti sarebbe piaciuto venire a Chicago, ma se non ti decidi a tornare io che posso farci?
Passano sette secondi prima che si ricordi di rispondere.
- Dovrei essere lì per il vostro ritorno.

- Ma?
Nessuna risposta. Dall'altra parte del telefono si sentono nell'ordine: un ululo del vento, la pioggia che tormenta le finestre, il rumore della carta che sfruscia, un singhiozzo.
- Alphy, che stai facendo?
Delle scartoffie violentate e delle viti cadono per terra. Mi rialzo piano, un ginocchio alla volta, e stavolta il telefono lo tengo ben saldo con la mano, perché quando qualcosa sta per andare storto, semplicemente lo si sente. Lo si sente al centro della testa, e da lì con un'eco fino alla punta delle dita che sfrigolano, come se sotto vi avessero nascosto un intero formicaio.
Brutto presentimento. Era questa la sensazione che avevo provato prima dell'attentato, ed era quasi la stessa.
- Alphy, - scandisco piano, - che succede?
E aspetto che risponda: "niente".
"Non è successo niente."
E invece la sua voce esce fuori come se Alphy avesse visto un fantasma.
- Qualcuno è entrato in camera mia.
- Cosa?
- C-credo che una figura estranea si sia introdotta nella mia camera da letto.
- Gesù Alphy, calmati. Senti come parli!
- No no no, non posso calmarmi: qualcuno è entrato in casa mia, Sybil!
Busso nervosamente contro la porta del bagno. Nessuna risposta, Shad non c'è. Infilo le prime scarpe che trovo: sono umide, e ricoperte di fango. Sono quelle che ho indossato per andare al lago, che entrano a fatica e mi bagnano i calzini.
- Come fai a saperlo,- ansimo, - Hanno forzato la serratura?
- No, la serratura era intatta.
- E allora? Hai perso il portafoglio?
- Mancano dei documenti. C'erano dei documenti nascosti dentro a una batteria che stavo costruendo.
Il tono di Alphy tradisce che sta perdendo il controllo della situazione. Sfreccio verso la porta e giuro a me stessa che se questo è uno stupido tentativo di convincere Xanders che a casa non si sente al sicuro e che dovrebbe lasciarlo venire con noi, gli caverò i denti uno a uno.
- Ne sei assolutamente sicuro? Li avrai messi da qualche altra parte, Alphy.
- Li ho consultati ieri sera e li ho rimessi apposto di persona, quindi sì. Direi proprio di sì.
Faccio un ultimo tentativo per capire se sta bluffando. Adesso sono immobile nel mezzo di un lungo corridoio di porte di legno.
- Lì avrà scoperti tua madre.
- Sybil, - dice lui, e io capisco che sta dicendo la verità.
- Alcuni documenti nella batteria ci sono ancora, m
a non tutti. Non quelli che cercavo.
- E quali sarebbero i documenti spariti?
Ricordo il sorriso di Lilith prima dell'esplosione. Quel sorriso di distacco che sembrava disegnato con un petalo di fiore, e il panico che mi aveva assalito senza un motivo apparente prima del disastro, e so che è lei. So che c'entra di nuovo lei.
Ed è Alphy a confermarlo.
- Sono i quaderni di Lilith. Tutti, dal primo all'ultimo. Tutti gli appunti che mi aveva chiesto di tenerle prima dell'attentato si sono volatilizzati.
- Che c'era scritto? Alphy, devi dirmi che c'era scritto là dentro.
- Non lo so. Erano incomprensibili. Porca miseria, non lo so. Mi disse che avrebbe avuto bisogno di me per rimetterli in ordine, e così me li ha affidati.
Sto per gridargli contro, ma c'è un tonfo.
Secco.
Sento il respiro di Alphy che diventa un fischio, e mi tappo la bocca con una mano. Poi la scosto piano.

- Alphy. Che. Diavolo. Sta. Succedendo.
- C'è qualcuno di sotto.
- O mio Dio, smettila di prendermi in giro.
- Ho s-sentito qualcosa muoversi di sotto.
Sono come pietrificata, contro il muro. Penso a sua zia, che lavora fino a tardi, e ai suoi genitori che tornano solo due volte alla settimana e solo di venerdì e al fatto che sia strano che sappia queste cose,
- Rimani immobile.
- Non ti muovere.
- Alphy, non ti muovere, - dico, e comincio a camminare, e lui non parla. Penso a dove potrebbe nascondersi se avesse ragione: letto, armadio, tetto, scrivania.
- Devo trovare Shad. Alphy, -
- E se è lei? Se è Lilith?
Adesso sto correndo verso l'ascensore, ma l'ascensore è occupato e allora corro verso le scale. La pioggia fa così chiasso che lo farà scoprire. Ecco che ricominciano i pensieri sconnessi.
- Non dire stronzate e chiuditi dentro.
Deve chiamare la polizia, e io devo chiamare Xanders. Se è qualcuno dei Novi, qualcuno della Fazione sbagliata, è lì per finire quello che era stato iniziato.
Vogliono ucciderlo.

- Devo solo sapere se è lei, - sussurra.
E' terrorizzato e fiducioso allo stesso tempo.
Non so se i passi che sento sono quelli di Alphy o i miei, che rimbombano contro il marmo quando mi precipito di sotto, tre gradini alla volta.
Riesco quasi sentire le parole sussurrate dai battiti dei nostri cuori.
Alphy, non lo fare.
Arrivo quasi al primo piano quando Alphy apre la porta di camera sua ed emette un suono strozzato.
È a quel punto che scivolo.

***
Scarpe bagnate e sporche di fango, quelle di stamattina. Reagiscono con il pavimento liscio.
Prima si fracassano contro un gradino le mani, poi le ginocchia, poi - quando ruzzolo fino alla base delle scale - tutto il resto. Il pavimento oscilla avanti e indietro, come se qualcuno ci stesse giocando, e volesse farmi cadere. Troppo tardi, comunque. Sono già per terra, e non parlo. Se parlo adesso, sarebbe solo per piangere del dolore insopportabile alle braccia. È come quando si battono i gomiti sulla sedia, e i nervi urlano tutti insieme e tutti insieme si ritraggono e tu puoi solo contare i secondi prima che passi. Solo dieci volte più forte. Apro gli occhi a filo della pietra chiara del pavimento, e inspiro dal naso. Espiro. Il movimento cessa del tutto, e il dolore diminuisce.
Spero che non mi abbia visto nessuno, almeno fino a quando non inquadro il telefono ancora intatto, scivolato a pochi metri da me. Mi ricordo perché stavo correndo, e rantolo.
Poi delle mani si chinano su di me - bianche e sottili, da musicista - e io faccio segno di no con la testa.
- Il telefono.
Dico solo questo, ma Armand esegue.
Raccoglie il telefono e se lo porta all'orecchio, poi torna verso di me e mi tiene ferma la testa.
- Allo
Le mie braccia sfregano contro il tappeto. Punto una mano, poi l'altra, aspettando che l'adrenalina polverizzi definitivamente il dolore e il fiato corto, ma ancora non lo fa.
- È Alphy, - tossisco.
Per favore, dobbiamo fare qualcosa.
Ma Armand non sembra convinto. Mi guarda con occhi aggrottati, dritto in faccia.
- Alphy, allo?
C'è un vociare sottile dall'altra parte del telefono.
- Vous n'etes pas Alphy.
Armand piega la testa, come se fosse troppo confuso per guardare il mondo per dritto.
- Pardon, à qui ai-je l'honneur?
- Je suis Armand Nevier, mais à qui ai-je l'honneur?
La mia voce fa meno rumore di una goccia di pioggia. Mi tiro su un po' alla volta, ma non ho il coraggio di intervenire.
- Armand, con chi stai parlando?
Le bocca di Armand rimane aperta a formare una parola, poi il silenzio. Lui mi lancia un'occhiata seria.
- È caduta la linea.
- Che significa?
Gli strappo il telefono di mano, ma a lui non sembra importare. 
- Alphy sta bene? Dimmi che sta bene.
- Non era Alphy, - dice, e ha ancora quell'espressione sospettosa sul viso.
- C'era una ragazza dall'altra parte.
Un gruppo di persone si avvicina, attirato dalla macchia di fango che ho lasciato per terra. Non penso che si rendano conto di quello che sta succedendo, perché non ci riesco neanche io. Ma loro sono più intelligenti, proprio come lei. Proprio come Lilith.
- C'era Alphy, - insisto.
- Hai detto che c'era qualcun altro in casa sua, - osserva.
Un ladro. Un sicario. Qualcuno.
Ricompongo il numero e non smetto di fissare Armand, aspettando che si decida a darmi una spiegazione. Il telefono non squilla.
Poi Armand mi trascina via dal resto dei Novi, dietro il primo muro abbastanza distante da non essere sentiti, e parla sottovoce, come se non fosse sicuro che le sue parole abbiano un senso.
- Sybil, tua sorella sa parlare il francese?
Oops, quel gâchis. Lilith est la première classe.
C'era una ragazza, dall'altra parte. E se è lei? Devo solo sapere se è lei.
-
Sybil.
- Sì, - dico.
Il francese lo parla bene.
- Sì.


Angolo Autrice: capitolo di transizione, direi. Alcune persone mi hanno fatto notare che forse avrei dovuto lineare meglio i personaggi che orbitavano attorno alla protagonista, so here we are. Povero Nicholas, però, quanta sofferenza ho in mente per lui. Immagino che tutti voi abbiate sentito parlare dell'effetto farfalla, che comunque verrà ripreso nei capitoli successivi: "se una farfalla batte le ali a Rio, a New York si scatena un uragano". Almeno la teoria del caos, quella dei se, dei forse, delle possibilità, dice questo. Profondamente inquietante, non trovate? Le battute in francese sono state letteralmente tradotte su internet, e quindi sono sbagliate. E niente, so che su efp avete rinunciato alla lettura di Entropy, ma posto lo stesso perché mi dà tanta giuoia *w* Vi mando un bacio: grazie alle persone che passeranno di qui!












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