Entropy di Nimue_ (/viewuser.php?uid=107423)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dicembre 1944 ***
Capitolo 2: *** L'imprevedibilità di una deviazione casuale ***
Capitolo 3: *** L'irreversibilità di una reazione di combustione ***
Capitolo 4: *** La radiazione assorbita da un corpo nero ***
Capitolo 5: *** La parabola descritta da un coltello che cala ***
Capitolo 6: *** L'epinefrina liberata dalla scoperta dell'attentatore ***
Capitolo 7: *** La sconfitta più grande dopo la Rivoluzione Copernicana ***
Capitolo 8: *** Febbraio 1945 ***
Capitolo 9: *** L'invasiva cura per una crisi d'astinenza da problemi ***
Capitolo 10: *** La cristallizzazione di un piano che non tende all'amorfismo ***
Capitolo 11: *** L'effetto catastrofico di una farfalla che viene liberata ***
Capitolo 1 *** Dicembre 1944 ***
fr
Aleggiava
un odore
dolciastro,
nell'aria. Il solito.
Nessuno lo definiva mai in quel
modo, perché nel Campo i nomi venivano perduti insieme a
tutto
il resto e ogni cosa prendeva a chiamarsi in modo diverso, ma lei non
avrebbe saputo in che altro modo descriverlo. Il lezzo di carne che
bruciava diventava insopportabile vicino ai Forni, ma non
c'era un solo
centimetro - nemmeno agli angoli estremi delle Recinzioni - dove si
riuscisse a respirare normalmente. Era diventato parte dell'aria
stessa, quell'effluvio di morte, sospeso nella cenere.
Il fumo aveva ripreso ad uscire da qualche ora, ormai, ma non la
stavano portando nelle
Camere. Lo aveva capito dopo che il terrore viscerale che le aveva
consumato le vene si era intirizzito di nuovo nello stomaco,
ritirandosi
dal cervello un po' per volta, mentre due soldati la costringevano ad
avanzare nella poltiglia di ghiaccio sciolto. Se ne prendevano tre o
quattro alla volta, avevi qualche speranza. Se volevano uccidere, ti
sparavano un colpo in testa all'istante, oppure ti prelevavano insieme
ad
altre cento persone; non appena il primo di loro aveva
messo piede nel dormitorio, però, lei si era resa conto che
qualcosa, negli schemi, era cambiato. Camice lindo, immacolato, una
mascherina di
stoffa sulla bocca. Non era una guardia, l'uomo che era
venuto a
prenderla, scegliendola personalmente insieme ad altre cinque ragazze
di cui nemmeno conosceva il nome. Aveva semplicemente fatto
correre lo sguardo sulla
carne del loro corpo scheletrico, poi aveva controllato i numeri che le
catalogavano e aveva annuito. Non una parola, nient'altro. Pochi
secondi
dopo erano fuori.
In quel momento si stavano dirigendo ai blocchi speciali, quelli che
tutti facevano finta non esistessero. Si vociferava che ci vivessero i Dottori,
lì dentro, ma pochi sapevano che cosa significasse.
Arrivati ad uno dei tanti edifici di mattoni, i soldati bussarono alla
porta una volta sola, scambiando
qualche parola con chi si trovava dall'altra parte.
Le costrinsero
ad entrare, e una delle ragazze si artigliò a un lembo della
sua
gonna sgualcita con le mani scorticate dal gelo. In alcuni punti
mancavano strati su strati di pelle.
Avrebbe voluto dirle di non avere paura, ma sapeva che nessuno ci
riusciva più dal primo giorno in cui avevano scorto i
cancelli
del Campo, tanto che la spaventava riuscire a sentire qualcos'altro, in
quel momento. La spaventava che oltre il panico e l'orrore, nel suo
cervello, si fosse acceso un barlume di curiosità.
- Silenzio!
Le altre ragazze smisero di piagnucolare all'istante. Quando l'ordine
arrivava, le lacrime non erano più un diritto.
Sbigottita dalla
sensazione dell'aria tiepida sulla pelle, ci mise un po' per capire
dove si trovasse. L'interno del blocco era lindo, quasi asettico,
con lunghi banconi pieni di fogli, strumenti e persone chine su di
essi. Dottori e
Dottoresse. C'erano davvero dei medici.
Respirando a fatica, con la paura che se si fosse guardata intorno
l'avrebbero punita, tentò di avanzare qualunque spiegazione
si
celasse dietro quella convocazione, ma l'ambiente la confondeva. Si era
appena accorta della fila di porte sulle pareti, quando le divisero,
parlando concisamente tra di loro. Le gemelle furono tenute nell'atrio
dell'edificio, mentre ad ognuna delle rimanenti veniva assegnata una
porta da
oltrepassare. Alcuni dei Dottori non si accorsero nemmeno del
loro arrivo, quasi fossero invisibili. Avrebbe voluto strappargli gli
occhi e puntarli su di sé.
Le guardie si sistemarono in coppia
per controllarle. Due a testa, ebbe la forza di contare. Più
la
pistola puntata al centro della schiena che premeva contro una
delle sue vertebre sporgenti come scogli aguzzi.
Scambiandosi un'ultima occhiata con la ragazza dai capelli rasati e
il labbro spaccato, si accorse di aver perso sensibilità
alla
parte destra del volto. Tentò di muovere le labbra per dirle
qualcosa, ma metà della sua faccia era ridotta a un
formicolio
insopportabile. La spinsero dentro prima ancora che avesse il tempo di
terrorizzarsi all'idea di cosa avrebbe potuto trovare oltre quella
parete.
Un corridoio.
Lungo, in
discesa, immacolato; di un bianco che feriva
gli occhi e dilatava
lo spazio fino a inghiottirla. Si sentiva sospesa in un nulla di follia
infinita come il bianco, quel bianco dappertutto. La
costrinsero a percorrerlo, svoltando di tanto in tanto come in un
labirinto incolore, ma fu certa che si stessero muovendo
solo quando scorse una donna alla fine del percorso. Al suo
fianco si stagliava un'altra porta, l'ennesima. Questa però
era
diversa: sembrava dovesse tenere a bada una bestia feroce.
La
donna con il
camice le fece cenno di avvicinarsi. C'era qualcosa di strano, in lei,
e nel
modo in cui le sue dita pallide artigliavano lo schedario, tendendosi
fino a stirarsi sulle giunture.
Con un ordine secco le guardie le comandarono di fermarsi, in attesa
che la donna finisse di leggere i documenti che stringeva
preziosamente.
- Che cosa mi volete fare?
Perché non mi
uccidete e
basta, perché non mi date fuoco e mi lasciate andare via una
volta per tutte? Perché non mi lasciate vedervi marcire
dall'alto? Perché era sicura che sarebbero
marciti. Se c'era ancora qualcosa di sensato, in quel Mondo,
sarebbe successo. Prima o poi quel cancro avrebbe cominciato a
consumarsi da solo.
La donna continuò a tenere lo sguardo fisso, lontano dal
suo,
come se non l'avesse sentita. Una delle guardie la spinse tanto forte
contro la porta da succhiarle via il respiro. Il candore delle pareti
si tinse di rosso. Le ossa sporgenti delle ginocchia cozzarono l'una
contro l'altra nello sforzo di tenerla in piedi.
- Per favore. Voglio
solo sapere.
Lo sussurrò senza nemmeno pensarci. Per favore. In
realtà
erano in pochi a pronunciare quelle parole, e lei aveva giurato a se
stessa di non
farlo mai, ma la morte, comprese infine, era la promessa più
antica del mondo, e trasformava in polvere tutte le altre.
Dietro gli occhiali a mezzaluna, degli occhi verdi si convinsero ad
incontrare i suoi. Erano passati sei mesi dall'ultima volta in cui
aveva scorto il
colore dell'erba di primavera.
- Per favore, - ripeté, mentre le lacrime e il muco le
bagnavano le labbra.
- Identify yourself.
Un singhiozzo sordo lottò per uscirle dalla gola,
mentre i soldati la tenevano stretta. La
donna non era della loro stessa nazionalità.
- Identify yourself.
Era americana.
Come gli Alleati che avrebbero dovuto seppellire il Campo e radere al
suolo quell'abominio. Come chi, si sussurrava nei sogni infranti,
sarebbe sicuramente venuto a salvarli, se avesse saputo quale orrore
prendeva vita in quel posto. Come chi, evidentemente, sapeva, e non
salvava nessuno.
- Figli di puttana, - disse ad alta voce.
La donna fermò il pugno della guardia prima che potesse
spaccarle la testa, poi scandì lentamente le sue parole,
stavolta in una lingua che potesse comprendere nonostante l'accento
insolito.
- Identificati.
Strinse i pugni, digrignando i denti per non piangere. Tenne la schiena
dritta, mentre qualcuno le sfrecciava di fianco per aprire la porta.
Aveva lo sguardo troppo annebbiato per vedere qualunque cosa, ma il
suono delle sicurezze che venivano sbloccate era distinto.
- Vittoria. Il mio nome è Vittoria.
Una smorfia storta attraversò il volto della donna, come se
avesse avuto labbra pesanti, di piombo.
- Il tuo numero.
Un suono lungo e grave echeggiò per il corridoio.
- Non sono un numero.
Fu l'ultima volta, quella, in cui si guardarono, prima che la donna
desse l'assenso. Bastò quello, un movimento del capo, e la
ragazza venne prelevata di peso, spinta nella Stanza e
chiusa dentro ermeticamente. Dai
muri cominciarono a vibrare le grida delle altre donne, spaccandole la
testa a
metà, come decine di pallottole tutte insieme. Le porte si
sigillarono di
nuovo e lei seppe che era finita.
Dietro una parete riflettente, nel frattempo, una fila di uomini in
camice bianco
osservava lo spettacolo. Qualcuno era eccitato, ma la maggior parte
aveva perso fiducia e sbadigliava con apatia.
- Cominciate.
Quando il Processo ebbe inizio, colse tutti di sorpresa. Erano abituati
alle urla e alle suppliche disperate, e con il tempo il divertimento e
l'euforia si
erano trasformati in noia
e mal di testa, ma quello spettacolo era insolito.
La ragazza gridava, e fino a quel punto non c'era niente di nuovo. La
classica perdita di tempo rumorosa, aveva imprecato uno dei Dottori.
Ma poi aveva cominciato farlo così forte da coprire il
suono delle macchine in funzione, e loro erano riusciti a cogliere
qualcosa di sensato nel delirio.
Gridava il suo nome.
Un uomo dai capelli corti e il sorriso bianco ammiccò alla
donna
dagli occhiali a mezzaluna che li aveva raggiunti nell'Osservatorio e
che continuava a scrivere ininterrottamente
sul suo taccuino.
- Questa è quella buona, - sussurrò a bassa voce,
in modo
che solo lei potesse sentirlo. Sembrava che non avesse mai visto niente
di più divertente.
- C'è solo il 2,4% delle possibilità che
funzioni, - rispose lei, senza tradire alcuna emozione.
- Da quanto tempo è arrivata?
- Sei mesi. Troppo poco. 2% delle possibilità.
L'uomo poggiò la fronte sulla parete riflettente,
invitandola a guardare l'interno della Stanza.
- Guarda come combatte per sopravvivere. Non ho mai visto niente del
genere, - sorrise.
- E' quella buona.
Angolo autrice:
c'è un momento, nella vita di una fanwriter, in cui
l'embrione
di una storia propria e originale comincia a prendere forma e non si
può far altro che provare a farlo crescere. E' un'impresa
folle, ma la
voglia di mettersi in gioco c'è tutta. Le tematiche non sono
semplici, come avrete capito dall'ambientazione del prologo, ma penso
di essere abbastanza matura da poter esprimere il
mio pensiero riguardo a certi aspetti dell'esistenza umana. Scrivere
una storia fantascientifica/young adult/distopica non è
semplice, ma perché non provarci? Spero che qualcuno
vorrà vivere quest'avventura con me, aiutarmi, consigliarmi
e
criticarmi quando serve. Spero che pubblicare il prologo mi
darà
l'imput per impegnarmi sul resto. Grazie a chiunque passerà
e a
tutti quelli che mi hanno tra gli autori preferiti. It means the World to me!
PS. Essendo una storia originale, il 98% dei personaggi mi appartiene
totalmente; la storia è protetta da copyright.
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Capitolo 2 *** L'imprevedibilità di una deviazione casuale ***
capitolo 1 nvu
ENTROPIA: graduale
degenerazione di un sistema verso il massimo disordine.
CAPITOLO 1.
Dicembre
2018
Mi sveglio
con l'assoluta certezza di stare per morire.
Non
appena spalanco gli occhi nel buio un colpo mi scuote con tale
violenza che il dolore, irradiandosi, raggiunge le costole con la
stessa potenza di un'onda d'urto. Istintivamente mi appiglio a tutto
ciò che possa identificarmi come persona ancora in vita. Lo
stomaco che pulsa per lo spavento, come se il cuore vi fosse scivolato
dentro; un sapore salato sulle labbra dischiuse; il sudore sotto i
palmi delle mani: sono tutte sensazioni reali, e questo può
significare una
cosa sola. Non sono morta. Sono viva. Maldestramente abbandonata sul
pavimento, con il naso premuto a terra e un attacco di panico che
combatte con gli artigli per prendere il sopravvento, ma viva.
M'impongo
di inspirare lentamente, espirare, inspirare di nuovo e
buttare fuori aria ad un ritmo regolare.
Nel
silenzio, prima ancora di sentire lo scricchiolio dei passi nel
corridoio, la percepisco arrivare.
Un attimo dopo Lilith sguscia nella
stanza, materializzandosi con sguardo distante, come se stesse pensando
troppe cose insieme e il mio capitombolo fosse solo una fastidiosa
interferenza.
-
Sono caduta, - mormoro, facendo leva sulle braccia per alzarmi, -
tutto qua.
Una
fitta mi attraversa lo sterno, ma cerco di ignorarla e
issarmi fino al materasso. Magari possiamo far finta che non sia
successo un'altra volta.
-
Tornatene a letto.
Afferro
la sveglia per non dover guardare in faccia mia sorella. E'
notte fonda, ma Lilith è
perfettamente vigile.
-
Dovresti accendere la luce. La probabilità di avere
un'altra crisi diminuirà di quattro venticinquesimi.
Le
faccio cenno di sparire. Sono stufa dei calcoli matematici che usa
per descrivermi, quasi volesse ridurmi a un problema di geometria,
quasi fossi nient'altro che una linea spezzata a formare angoli troppo
acuti.
Continuo
a concentrarmi sulla respirazione. Mr. S. ritiene che il
training autogeno possa aiutare, ma a me fa venire un gran mal di testa.
Lilith
si avvicina alla scrivania e preme un minuscolo interruttore: la
luce soffusa della lampada a forma di gufo le illumina il viso dalle
forme morbide, abbastanza da farmi cogliere l'estensione delle ombre
che le sfiorano gli zigomi. Occhiaie. Lilith non ne ha mai avute prima,
ma in questo periodo è solita rimanere a studiare fino a
tardi. Forse è per questo che mi ha sentita cadere.
Passo
le mani sulle lenzuola per asciugarle dal sudore e non apro
bocca. Lilith non accenna ad andare via.
-
Sai dove trovarmi, se hai bisogno di me.
Sono
così incredula che il mutismo mi sembra la replica
più efficace. Lilith è sempre gentile e
disponibile con tutti, ma non con me. I rapporti all'interno della
nostra famiglia si sono deteriorati da troppo tempo, e nemmeno ricordo
l'ultima volta in cui mi ha offerto il suo aiuto.
-
È che hai urlato per 3:12 secondi, - si giustifica.
Inarco
un sopracciglio come so fare io.
-
Descrivi il fenomeno.
Il
sarcasmo nella mia voce è palpabile, corrosivo. Detesto
quando Lilith deve analizzare la realtà come fosse un
insieme di numeri. E' una maniera disgustosamente fredda di
approcciarsi alle cose.
-
Quaranta decibel, direttamente proporzionale all'attacco di panico.
-
Grandioso, ho superato qualche genere di record?
-
No, per niente, - scuote debolmente la testa, con i capelli che le
dondolano sulle spalle in onde castane. La serietà con cui
lo spiega mi fa venire da ridere.
-
Un insegnante londinese ha emesso un urlo da 129 decibel, quindici
anni fa.
Interessante.
-
Bene. Grazie della lezione, ma adesso vattene. Chiudi la porta.
Indugia
come in attesa di qualcosa. Le do la schiena per farle capire
che ne ho avuto abbastanza per questa notte.
Alla
fine Lilith parla con un filo di voce.
-
Quando perdi il controllo i test si attivano.
-
Che?
La
porta viene chiusa di nuovo, e quando mi volto Lilith è
sparita. Al suo posto, vicino al letto, c'è un libro che non
ricordo di aver mai comprato.
"Selezione
Naturale."
Probabilmente
Lilith stava studiando questa roba prima di venire in
camera mia.
-
Maniaca.
Il
sonno non tornerà troppo presto, quindi tanto vale che
trovi qualcosa con cui ingannare il tempo. Scelgo una pagina
a caso
e faccio scorrere lo sguardo sui paragrafi. Il primo concetto biologico
di cui leggo il titolo basta a farmi dichiarare resa totale.
"Sopravvivenza
del più adatto."
Mi
chiedo se si possa definirmi una persona adatta, ma poi ci penso su
e cambio domanda. Che cosa vuol dire essere una persona adatta?
Lancio
il libro dall'altra parte della stanza per scaricare la rabbia e
finisco per rompere la lampada. Non c'è più luce.
***
Salgo
in macchina con l'assoluta certezza che qualcosa andrà
storto. Sono una ragazza piena di certezze, come la maggior parte dei
miei coetanei. E, come per la maggior parte dei miei coetanei, queste
certezze si rivelano ciarle inconsistenti rivestite da una buona dose
di fatalismo.
Poggio
la fronte sul finestrino umido, ritrovandomi a pensare allo
psicologo della scuola. E' un uomo sulla quarantina con la fronte
minuscola e lucida. Lilith ha confidato alla mamma che dopo sette anni
di risparmio assiduo si è sottoposto ad un trapianto di
capelli.
"Osserva
il tessuto epiteliale sull'attaccatura. E' elementare."
Fa
impressione che un uomo del genere mi abbia diagnosticato un
"disturbo ansioso cronico-e-generalizzato". Non sono sicura che una
patologia del genere esista davvero: sono una persona generalmente
ansiosa o la diagnosi in generale è generalizzata e incerta?
Niente diagnosi, niente cura. Lilith non fa che ripeterlo.
Il
fatto è che Mr. S. non è un grande
psicanalista, però è un bravo giocatore di
scacchi, e durante le sedute mi insegna qualche trucchetto. Quando si
tratta di affrontare il problema, però, la sua sentenza
è sempre la stessa: "la gioventù d'oggi
è oppressa dalla Rottura."
Lo
dicono tutti da quando il sistema è crollato e i
continenti hanno cominciato a separarsi. La crisi economica
è peggiorata, l'Europa ha dimezzato i Paesi membri, gli
Stati Uniti hanno violato la dichiarazione dei diritti dell'ONU e tutto
il resto è stato come giocare a domino. Insomma, la solita
storia di tre anni fa.
Sbadiglio
rumorosamente e chiudo gli occhi, anestetizzata dalla
stanchezza della notte insonne e dal parlare incessante di mia sorella.
E' fin troppo loquace, e infilarsi le cuffiette nelle orecchie non
basta a coprire la sua voce, ma oggi non m'importa. Se Lilith fa
abbastanza chiasso da distrarmi, riuscirò a scrollarmi di
dosso il presentimento sinistro che mi ronza dentro da stamattina.
Non
è la prima volta che succede, e Mr. S. ha detto che
è normale per una persona "con problemi". Come se i problemi
non li avessero tutti. Oggi, però, il senso di soffocamento
legato allo stato ansioso mi si è appeso addosso a peso
morto.
Qualcosa
andrà male, lo sento, e al diavolo il fatalismo.
Mi
sporgo sul sedile davanti per dare un'occhiata alla situazione.
Lilith, con il suo completo verde chiaro e una treccia ordinata che le
ricade sulla spalla, tiene stretto tra le mani un icosaedro di vetro.
So che è un icosacoso solo perché lo sta
spiegando nei minimi dettagli, aggiungendo decine di termini
incomprensibili di cui non conosco il significato. Le scienze
matematiche non sono il mio campo.
Faccio
per toccarlo con una mano, ma Lilith mi scansa come si fa con
una farfalla: usando delicatezza per mascherare l'irritazione.
Mi
pizzico una gamba per distogliermi dall’idea.
Mr.
S. ha dice che è essenziale smettere di pensare male di
chiunque. Devo avere fiducia nelle persone.
La
mamma annuisce impacciatamente, con l'aria di chi a stento riesce a
capire una parola su dieci. Ha le rughe intorno alle labbra, calchi di
stanchezza e rassegnazione, ma il peggio per lei è passato.
Finalmente la battaglia contro mio padre è diventata solo
legale.
-
Spero di vincere il concorso nazionale. Ci ho lavorato senza
interruzione per quattro mesi e sono pronta a farlo funzionare. La
commissione ne sarà entusiasta.
-
Vinci ogni anno, tesoro. Non sarà diverso dalle altre
volte.
Arriccio
il naso con disappunto: è scontato che Lilith porti
a casa qualunque premio venga messo in palio, ma sentirselo ricordare
tutti i giorni può diventare sfiancante, anche se nessuno
pare rendersene conto.
-
Non c'è niente che tu abbia compreso del mio progetto,
eppure trovi semplice minimizzare i miei meriti.
Una
frenata stridente.
Devo
puntare le ginocchia sul sedile anteriore per non volare via.
-
Merda!
-
SYBIL!
-
"Mannaggia", ho detto "mannaggia".
C'è
un breve istante di silenzio, poi mamma artiglia le mani
sul volante e tiene gli occhi fissi sulla strada fino a quando non
arriviamo davanti al cortile della scuola.
-
Sei troppo intelligente per tutti noi, tesoro, - mormora infine, con
una nota triste nella voce.
Emetto
un grugnito seccato e torno a guardare fuori, ma prima ancora di
scendere dall'auto riesco a sentire Lilith che sibila qualcosa tra
sé e sé.
-
Già.
I
nostri sguardi si incrociano per un istante attraverso il riflesso
dello specchietto, ma subito dopo Lilith scocca un bacio sulla guancia
della mamma e scende come se nulla fosse successo.
Già.
Prima
d'ora Lilith non si era mai vantata di quello che è
universalmente riconosciuto da tutti: mia sorella è un
genio. Le maestre di scuola sono state le prime a rendersene conto.
Erano solite consegnare una caramella a chi imparava nuove lettere
dell'alfabeto, rispondeva correttamente alle loro stupide domande o
memorizzava per primo le filastrocche. Ogni giorno Lilith tornava a
casa e svuotava lo zainetto pieno di dolciumi sul tavolo del soggiorno.
C'è
dell'altro, però, qualcosa che mi
è stato raccontato e di cui, troppo piccola, non potevo
accorgermi. Prima ancora di levarle il pannolino Lilith aveva
già compiuto prodigi: aveva cominciato a camminare due mesi
prima della norma, a parlare fluentemente con largo anticipo rispetto
ad un bambino considerato precoce e a leggere, scrivere e
fare di conto a tre anni.
Lilith
a dieci anni parlava quattro lingue, a tredici ne conosceva sei.
Lilith ha sempre costruito oggetti tra i più insoliti, e
adesso che di anni ne ha sedici dipinge, suona, e balla come se tutti i
talenti del mondo le fossero innati.
E'
un genio in qualunque campo si sia mai applicata.
Già.
Però
mai aveva guardato qualcuno dall'alto in basso. Per
lei, una ragazza dalle movenze eleganti e il parlare raffinato, nessuno
ha mai avuto meno dignità. E nonostante non scorra buon
sangue tra di noi, Lilith non si è mai definita superiore a
me. Si è perfino rifiutata di sottoporsi a test
per il calcolo del quoziente intellettivo o roba del genere.
Tutto
fino a oggi.
Invece
di seguire mia sorella oltre l'ingresso della scuola rimango
poggiata alla macchina e batto un dito sul finestrino ricoperto di
brina, nascondendomi tra le pieghe della sciarpa. Il vetro si abbassa,
svelando la tensione di mia madre.
-
Chiamami appena ti annunciano il verdetto, va bene?
Lei
sembra pensarci un po' su, ma so che sta prendendo tempo: la
campanella di inizio lezioni comincia a suonare, lasciando la risposta
sospesa nell’aria invernale.
Il
finestrino sale e sono costretta a farmi da parte.
-
Va bene? – insisto, cercando un assenso oltre i
microscopici cristalli di ghiaccio.
-
Non fare tardi, Sybil.
Mia
madre ingrana la prima e l’auto si allontana. La guardo
andare via senza sapere che cosa pensare: è diventato
così semplice sfuggire a una conversazione spiacevole, che
delle volte ho paura che questo sia solo il primo passo. Forse un
giorno non avremo più bisogno di parlare l’un con
l’altro grazie alla scusa di non avere mai abbastanza tempo.
Mi
sistemo lo zaino in spalla e strascico i piedi fino all'aula di
matematica, dove mi lascio cadere sulla sedia e nascosta dal
chiacchiericcio incessante dei miei compagni di scuola mi rintano a
leggere. Smetto di pensare a qualsiasi altra cosa, smetto di sentire,
di parlare, di preoccuparmi. Mi basta poco per far finta di essere da
un’altra parte.
***
-
Sei un disastro.
La
classe è deserta quando mi guardo intorno: ci sono
fazzoletti usati sui banchi e cartacce per terra. Lo sporco e la
maleducazione spiccano solo quando qualcuno rimane indietro a contarne
i danni.
-
Sybil, dico a te.
Il
professore arriccia la fronte solcata da ragnatele di rughe.
-
L’ho sentita.
-
Dopo due ore di lezione. Ti ho già detto centinaia di
volte che non ti è concesso leggere durante le mie
spiegazioni.
Infilo
i quaderni in borsa con gesti che tradiscono il nervosismo.
Solitamente è un gioco da ragazzi sfuggire alle sue
ramanzine, ma quando si è in branco come lupi è
più semplice sventare l’offesa di questa vecchia
volpe.
-
Vero. Però Sharpe può mandare stupidi sms a
quella tipa del quinto anno, e Green può smaltarsi le
unghie.
Mi
alzo di malavoglia e aspetto una risposta, sfoggiando una finta aria
strafottente.
-
Non possono, naturalmente. Ma almeno, se li richiamo, hanno la
decenza di improvvisarsi degli angioletti, rifilarmi il “non
stavo facendo nulla di male” e tornare ad ascoltare la
lezione.
-
Per dieci secondi.
Il
collo di D’hall si ricopre di chiazze rosse, segno che sta
perdendo la pazienza. Se dovesse venirgli un attacco di cuore a causa
mia, quasi sicuramente non potrei perdonarmelo.
-
Per avere la tua attenzione dovrei comprarmi un megafono, Sybil, e
questo è inaccettabile, considerata la tua media nelle mie
materie.
Abbassa
lo sguardo sulla sua cartella e ne estrae un foglio ricoperto
di linee rosse, ma non mi serve una delucidazione per capire di che
cosa si tratta, così mi rassegno e prendo in mano il mio
compito.
-
E’ una D?
-
E’ una F!
Firmo
la verifica con l’amaro in bocca e faccio per
filarmela. Avrò un bel po' da fare durante le vacanze di
Natale.
Ci
sono abituata e me la caverò, è solo che vado
forte nelle discipline umanistiche.
-
Buona giornata, professore.
-
Sybil, i tuoi problemi familiari non sono una giustificazione, lo sai?
-
Sì, certo che lo so.
-
Se chiedessi a tua sorella di darti una mano, le cose cambierebbero.
Possono sempre cambiare.
-
No.
-
L'avevo detto che eri un disastro.
-
No, - ripeto, ed esco dalla classe sbattendo la porta.
***
Il
resto della mattinata non passa abbastanza in fretta da evitarmi un
controllo ossessivo del display del telefono. All’ora di
pranzo provo a mandare giù un boccone con qualche amico, ma
lo stomaco si oppone. So che non riuscirò a mangiare fino a
quando mia madre non si sarà fatta sentire, così
comincio a cercare Lilith in giro per la scuola. Il processo dovrebbe
essersi concluso da un pezzo, e sicuramente lei è
più informata di me. Mia sorella è sempre la
prima a venire al corrente delle novità.
La
trovo sotto una quercia spoglia, in un’accesa discussione
con i suoi compagni di corso. Il tipo smilzo che le sta sempre addosso
è attraente, però si chiama Ranulph ed
è un tipo strano. Molto più strano di me,
intendo.
Cerco
di attirare la sua attenzione, sventolando un braccio per aria.
Lilith
non dà segno di essersene accorta, e sospetto che ignorarmi
le venga naturale.
Mi
mordo l'interno della guancia per scacciare l'idea. Devo
avere
fiducia nelle persone.
Tossicchio
parecchio e platealmente, ma niente.
Per
sicurezza controllo lo schermo del telefono un’ultima
volta, poi mi avvicino quel tanto che basta a farmi sentire e cerco di
mantenere un tono distaccato.
-
Hai dimenticato il tuo volume di biologia.
Svariate
paia di occhi mi inchiodano sul posto. Non li definirei
necessariamente ostili, quanto piuttosto sorpresi. Non mi meraviglierei
se alcuni di loro nemmeno conoscessero il mio nome: Lilith non parla
mai di me, né io di lei, ma la somiglianza tra noi due
è innegabile. Non potremmo far finta di non essere sorelle.
-
E’ nel mio armadietto, dovresti venire a riprenderlo prima
che me ne dimentichi.
Lilith
rivolge un cenno fin troppo eloquente al gruppo e sussurra un
“a dopo” dalla sua affabilità snervante.
Il lato positivo dell’averla come sorella è che
è maledettamente perspicace. Le basta ascoltarti un istante
per capire che c’è qualcosa che non va.
Nessuna
delle due dice niente fino a quando non troviamo un angolo
appartato del cortile. I suoi compagni hanno già distolto lo
sguardo, ma Alphy - quel Ranulph, il suo migliore amico - ci tiene
d’occhio.
-
Che ha detto mamma?
Sospira,
divertita.
- Il
volume di biologia.
Mi
agito con impazienza, dondolandomi sui piedi per scaricare l'ansia.
Scommetto che non ci sono buone notizie.
-
Non fare la finta tonta. Avrebbe dovuto chiamarmi
appena emanata la sentenza, ma deve essersene dimenticata.
Dimenticata,
certo.
-
Tu hai saputo niente?
-
L’udienza è stata rimandata. A quanto pare
c’è stata una violazione del principio del
contradditorio.
Lilith
lucida delicatamente il suo icosaedro di vetro.
Le
sue parole mi vorticano in testa senza controllo, e fanno vorticare
anche tutto ciò che ho dentro. Devo mantenere la calma.
-
Che cosa significa?
-
Non avresti dovuto farti illusioni.
Lo
dice come se provasse pietà di me.
-
Dimmi che significa!
La
tiro forte per un braccio, ma si divincola dalla mia presa quasi la
tenessi stretta con una striscia di carta. Sentire i suoi muscoli
contrarsi sotto il palmo della mano è inquietante: a vederla
non si direbbe che Lilith nasconda tanta forza. Mi rivolge un'occhiata
serena. Come fa a non scomporsi mai? Come ci riesce?
-
Significa
che a quanto pare è stato
negato a nostro padre il diritto di difendersi in tribunale. Significa
che dobbiamo ancora sfamarlo. Mi meraviglia che ti aspettassi qualcosa
di diverso.
Tento
malamente di incassare il colpo, ma dal calore del sangue che mi
brucia le guance capisco di aver toccato le sfumature più
impensabili di colore.
-
Conosci la parola "burocrazia", Sybil?
Pensavo
che le lezioni fossero finite, e invece mi tocca sorbirmene
un'altra.
-
Non ha importanza. Del resto le parole che conosciamo hanno sempre il
significato che ci fa più comodo attribuire loro. In
realtà la burocrazia è un gioco. Nonostante il
caso sia assolutamente essenziale e banale, l'avvocato di nostra madre
sta giocando con il difensore legale di nostro padre per allungare il
processo. Così fanno anche i giudici, del resto. Devo
spiegarti perché?
Denaro.
Semplice. Non so che cosa fosse la burocrazia un tempo, ma dopo
la Rottura deve essere diventata una macchina per
fare soldi.
Alzo
lo sguardo su di lei con gli occhi che pungono. La mia richiesta
suona così stupida e infantile che mi faccio tenerezza.
-
Parlaci tu.
Tiro
su con il naso. C'è che il raffreddore lo fa
gocciolare, nient'altro. E c'è che non posso sopportare un
altro mese di questo schifo. L'ho sopportato per sedici anni, e il solo
pensiero è una sferzata sul cuore. Mio padre deve sparire
dalla nostra vita, se non per dovere morale, per legge.
-
Per favore. Lo hai fatto altre volte. Con quel neurologo, quello
famoso, quando la mamma se la passava male. E poi con la preside, e con
il procuratore. Sappiamo entrambe che parlando con il giudice
troverai un modo, Lil.
Alphy,
che nel frattempo si è avvicinato, ha teso un
orecchio verso di noi. Anche se non vuole ammetterlo, so che Lilith si
vergogna della situazione almeno quanto me, per questo spero che
lo mandi via.
-
Allora?
-
No.
Ingoio
a vuoto.
-
Perché?
-
Perché ho sedici anni.
Sì,
ha sedici anni. E a sedici anni non si dovrebbe portare
certi pesi sul cuore, né certe responsabilità, ma
un rifiuto da parte di Lilith è impensabile.
-
Lo so, - dico a denti stretti.
So
che sarebbe ingiusto chiederlo a chiunque altro, però
Lilith ne è capace. Lei può sempre fare qualcosa.
-
Li ho anche io, sedici anni, ma a differenza tua non posso cambiare
le cose.
Mi
fissa con l'espressione impenetrabile della Gioconda. Forse scorge
l'invidia che da anni mi consuma nella consapevolezza di non essere
alla sua altezza. Ci ho provato e riprovato, ma ogni tentativo
è stato un buco nell'acqua.
Ironia
della sorte: una sorella è incredibilmente dotata e
già influente. L’altra, suo esatto riflesso
distorto, ne è solo una replica mal riuscita, troppo normale per
competere. Essere
costretta a chiedere il suo aiuto è solo l'ennesimo
fallimento, e mi fa sentire come se stessi calpestando la mia
dignità insieme al fango del cortile.
-
C'è una forza motrice più forte del vapore,
dell'elettricità e dell'energia atomica: la
volontà.¹
Un
suono gutturale mi esce dalla gola. Premo i palmi delle mani sugli
occhi fino quasi a sfondarmi la fronte. Devo mettercela tutta per non
cominciare ad urlare.
-
Allora usala, porca miseria. Se è una questione di
volontà, che ti costa? Dio, stiamo parlando della nostra
famiglia, e stanotte mi hai...
-
Ho detto di no.
La
guardo in cagnesco da dietro una gabbia di dita.
-
Perché?
Lilith
calcola l’ora attraverso la proiezione della sua ombra
sul terreno. Sembra colta di sorpresa, e indugia nella sua operazione
più del solito: vuole esserne assolutamente certa.
-
Non ho davvero tempo per queste stupidaggini. Non mi riguardano
più.
Non
mi muovo.
Rimango
immobile in uno stato di fissità catatonica che
sembra aver atrofizzato i polmoni per impedirmi di respirare e fare
troppo rumore. Non ho idea di che cosa sia la fissità
catatonica. Non mi interessa. Non mi muovo.
Alphy
e Lilith capiscono cosa sta per accadere prima ancora che sia io
a deciderlo. Lo fanno quando ancora non mi muovo. Non mi muovo. Poi,
però, i muscoli si contraggono senza un comando apparente.
Mi lancio su quel genio di mia sorella con l’istinto ferino
di spaccarle la testa a metà, ma all’ultimo
secondo cambio idea e faccio a pezzi qualcos’altro.
Non
riesco a credere di averlo fatto davvero. In un primo momento i
cocci aguzzi dell'icosaedro di vetro e le crepe spezzate che
attraversano quanto ne è rimasto mi inorridiscono. Poi,
però, l’ilarità generale mi contagia e
mi lascio trascinare dagli applausi. L'aria si riempie di risate
sguaiate.
- Ottipregono.
Alphy
accorre e si lascia cadere in ginocchio sul prato, armeggiando
con il congegno rotto di Lilith tra una parolaccia e l’altra.
Ciuffi disordinati gli sfuggono dalla fascia di pile che li tiene
lontani dalla fronte.
-
Che diavolo hai combinato?
-
L’ho lanciato. L’alternativa era la sua testa.
Ammicco
al marchingegno, ansimando per lo scatto furioso con cui l'ho
fracassato.
E’ con estrema spensieratezza che mi rivolgo a mia sorella,
che tiene ancora le mani sospese a stringere il nulla. Non provo
nemmeno a nascondere il piacere infantile di aver distrutto
un frutto del suo ingegno.
-
Aggiustalo. Puoi farlo, no? Tu, o uno dei tuoi amici da premio Nobel.
-
Non hai idea di quanto Lilith avesse lavorato a questo progetto.
C’era in ballo il riconoscimento per le alte tecnologie
più illustre della nazione!
Alphy
è più buffo del solito quando è
arrabbiato; qualcun altro lo
zittisce. Vogliono godersi la scena, è comprensibile.
-
Rimonta il tuo giocattolo, schifosa egoista. Questo ti riguarda
abbastanza, non è vero?
Altre
risate.
Chissà
se Lilith si sente in imbarazzo. Guarda il suo tesoro di microchip e
cavi, poi me. Di nuovo
l’icosaedro in pezzi, di nuovo me. Ed
è come vivere sulla propria pelle la deviazione casuale
di una goccia di pioggia in caduta libera. E’ l'unica
immagine che riesce a descrivere la sensazione che mi assale: un
momento prima mi sto vantando del mio futile trionfo, quello dopo mi
ritrovo senza fiato, in prenda allo smarrimento.
La
mia voce si incrina in un suono stonato, mentre sento il
sangue addensarsi nelle vene. La nausea mi travolge.
Maledizione,
che mi succede? Strabuzzo gli occhi per focalizzare ciò che
mi circonda, ma
ci riesco a malapena.
Non
ho altri dubbi. Il brutto presentimento si è trasformato in
un attacco di
panico.
Una
volta per tutte ho la prova inconfutabile di essere diventata pazza
prima del normale. Di solito, a meno che non stia
sognando, le crisi non mi assalgono senza una causa scatenante, e gli
sbalzi d’umore non sono mai tanto repentini da farmi sembrare
una squilibrata.
Non
adesso.
Non
adesso.
Lilith
dovrebbe essere quella che perde il controllo, a questo punto.
E’
scienza.
No,
non lo è. Perché dovrebbe esserlo?
Perché ci ho pensato? Niente pensieri sconnessi, devo
riuscire a tenerli fuori.
La
folla è confusa, ma scommetto che trova
l’evoluzione degli eventi un vero spasso.
-
Ripara la tua lampada. Potrebbe servirmi visto che stanotte ho fatto
fuori la mia. E' una lampada, vero?
Con
estrema, estrema lentezza Lilith si sistema i polsini della
camicia, e qualcosa nel suo intero essere si trasforma. E’
impercettibile e terribilmente chiaro allo stesso tempo: per la prima
volta in vita mia mi sembra di avere davanti un’estranea.
-
Non è una lampada. E' il primo previsore sismico della
storia, – mi rimprovera.
Il
poliedro scheggiato scatta. Alphy fa un balzo
all’indietro, con gli occhi sul punto di uscirgli fuori dalle
orbite.
-
Lilith, io non... Non ho attivato niente, pensavo fosse rotto!
Due
aste di metallo scuro escono dal marchingegno e si infilano nel
terreno umido, poi una luce flebile comincia a tremolare tra le facce
di vetro infranto.
Sta
lampeggiando.
Senza
spiegarmi come sia possibile, trovo in quella luce intermittente
la chiave della mia crisi di panico.
Sta
per succedere qualcosa di brutto e, nella mia testa, di inevitabile.
-
Di cosa hai detto che si tratta? – balbetta Alphy.
-
Previsore Sismico.
-
Non esistono macchine del genere, Lil. Il brevetto per
un’invenzione del genere ti renderebbe una delle
persone più ricche del pianeta. - Alphy si fa più
vicino con aria sospettosa. Essere al centro dell'attenzione
è un'agonia, per tipi come lui.
-
E’ impossibile prevedere un sisma, tantomeno con questo
scricciolo. Sarebbe come fare a gara con la Natura e arrivare un passo
davanti a lei, cacchio.
-
No che non si può! – mi ritrovo a gridare solo per
far uscire aria dal corpo e abbassare la pressione. Un
istinto vecchio come il mondo mi divora: mi urla di scappare, di
correre a perdifiato, perché qualcosa di orribile sta per
accadere. E’ così chiaro che sembra scritto nella
Terra stessa.
-
Ma lei adora giocare a fare Dio, - ringhio.
Ho
paura e non so di che cosa. Forse ho paura di tutto, ed è
questo che intendeva Mr. S. quando parlava di "disturbo generalizzato".
Improvvisamente, però, Lilith mi sembra il nemico peggiore
che abbia mai avuto, ed è lei ciò che mi spaventa
di più.
Sto
impazzendo.
Sono
andata.
Eppure
Lilith non batte ciglio. La sua espressione si fa calma e
concentrata. Mi esamina attentamente, come se il resto del mondo non
esistesse, come se le risate tutt'intorno facessero meno rumore di un
granello di polvere che cade. Annuisce con pacatezza, poi muove le
labbra in un bisbiglio.
-
Se attivi i test, prenderanno anche te.
Non
è reale. Ho già avuto sintomi del genere una
volta o due e dovrei avere imparato a riconoscere quando il mio
cervello si spegne. Niente di brutto sta per accadere. Scuoto forte la
testa per scacciare la follia.
Devo
avere fiducia che sia tutto qui
dentro. Dentro la mia mente.
Ho
solo bisogno di una partita a scacchi con Mr. S.
Lilith
sposta la sua attenzione sul terreno, e pare che riesca a
vedervi attraverso. Chissà quante cose vede, cose
che noi altri nemmeno immaginiamo.
-
Non è esattamente un sisma, - sospira, - ma il prototipo di
previsore
funziona.
C’è
una vibrazione sorda nel terreno.
E'
così che comincia.
E
mia sorella sorride, dolce come il miele.
Non
è reale, giusto? Non se l'ho percepito solo io.
Una
scossa più violenta fa gridare l'intera scuola e
pietrifica Alphy in una maschera d'orrore.
Quando
gli allarmi dell'Istituto scattano, prendo in considerazione l'idea che
non sia poi tutto qui
dentro.
Impossibile, mi rifiuto di crederci.
Mia
sorella invece non sembra farci troppo caso.
Irreale?
Fuori
i pensieri sconnessi.
Non
riesco a capire.
Ma
devo
avere fiducia.
Lilith si
porta le mani sulle orecchie come una bambina in attesa dei
fuochi d'artificio.
E
la scuola esplode.
1. Albert Einstein.
Angolo autrice: oh
dear, finalmente ho aggiornato. Sarà che questa storia mi
gira
in testa da anni ed è talmente complicata che ridurla per
iscritto è una sfida davvero ardua. Ci sono cose che
sicuramente
non vi sembreranno chiare, che vi lasceranno perplessi, o che vi
appariranno
scontate. Vi assicuro che avranno una spiegazione. Che cos'è
la Rottura, per esempio? Ogni cosa a suo tempo, vi basti sapere che amo
le distopie, ma trovo poco originale che tutti le riducano al post apocalisse,
quindi volevo qualcosa di diverso. Questo è un progetto
pazzo,
ma sono decisa portarlo avanti e spero che riuscirò ad
incuriosirvi. Btw, non ho altre note. Chiarisco solo che i personaggi
presentati fino a questo momento sono Americani. Per qualunque
chiarimento sono qui, chiedete pure.
Ringrazio Viola per i preziosi consigli che mi ha dato. Mi dispiace che
il primo capitolo non le sia piaciuto, ma prima o poi
rivedrò tutto ciò che stona,
promesso! Ringrazio anche le 46 persone che
mi hanno inserito tra gli autori preferiti e mando un bacio a Liz,
lettrice sempre entusiasta, a Charly (<3) e a coloro che
gentilmente vorrano
lasciare un commento alla mia prima storia originale.
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Capitolo 3 *** L'irreversibilità di una reazione di combustione ***
Capitolo 2
Irreversibilità:
una reazione chimica si dice irreversibile quando
non è possibile
recuperarne i reagenti una volta che questi si sono
trasformati in prodotti.
Le irreversibili sono reazioni di non-equilibrio.
C(g)
+ O2(g)
→ CO2(g)
CAPITOLO 2.
Il
disastro non ha suono.
C’è solo un innaturale silenzio qui intorno, qui
dentro, qui. Nel petto, dove non
riesco a sentire il soffio del mio respiro.
Tento di schiudere le palpebre incollate, ma se apro gli occhi
ciò che
vedo è una miriade di punti cangianti che vorticano in un
moto
disordinato. La velocità strappa loro strati su strati di colore, e non passa molto
tempo prima che comincino a sbiadire. Quando
riesco a focalizzare la fanghiglia sotto di me sono ancora del tutto
sorda. Improvvisamente mi sento soffocare dalla paura irrazionale che
in questa
campana di vetro nella quale non c’è alcun rumore
l’aria finirà per
consumarsi.
Se non lo sentissi pulsare sottopelle non riuscirei a credere che il
mio cuore possa battere tanto affannosamente senza martellarmi i
timpani.
Delle braccia gracili mi tirano verso l’alto, ma le ginocchia
non
riescono a reggere il mio peso. Scivolo di nuovo, ancora e ancora.
Qualcuno mi scuote forte per convincermi ad alzarmi.
Non posso sentirti, chiunque tu sia. Non sento niente.
Una ragazza dai capelli corti muove la labbra spaccate in un muto
incitamento. La osservo, confusa. Carne viva le scivola lungo il mento
appuntito.
Vorrei poter c –
Uno strattone.
Il polso fa male quando lo artiglia per rimettermi in piedi, ma
ritrovato l’equilibrio il Mondo smette di dondolare e si
ferma ad aspettarmi.
Strabuzzo gli occhi per orientarmi. Tutto ciò che vedo
è –
Strattone.
La spingo lontano, mormorando un ringraziamento che non sono sicura di
aver detto ad alta voce. La ragazza si dilegua senza pensarci
due volte.
La seguo con lo sguardo, e alla confusione subentra il panico. Questa
volta non ho bisogno di soluzioni psicoanalitiche per capire che cosa
stia succedendo, né di una partita a scacchi con Mr. S.
La scuola in fiamme
è una spiegazione sufficiente.
Comincio a ricordare che cosa è successo, immobilizzata
dallo smarrimento e dal dolore delle contusioni. Io e Lilith stavamo
parlando - no, litigando, - quando il sensore ha
cominciato a brillare, e l’ala est (sud?) è
saltata in
aria.
Mi guardo intorno con la vista che trema: le pareti
dell’edificio
si stanno sbriciolando come gesso, e di Lilith, come del suo sensore,
non c'è traccia.
Ingoio la saliva per stapparmi le orecchie ovattate. Ci riprovo.
Spalanco
la bocca e la richiudo più volte, allontanandomi dalla
l'area in fiamme. Eco
indistinte riempiono il cortile, coperte dal ruggito del fuoco.
Attentato. E’ la prima
parola che riesco a sentire mentre cerco di infrangere la campana di
vetro una volta per
tutte, ma suona distante come il ritornello di un incubo.
Terroristi.
L’ultima volta che qualcuno ne ha parlato è stato
durante
la Rottura:
dopo quell’Inferno nessuno aveva più
avuto il coraggio di discuterne
pubblicamente. I Governi rimasti avevano giurato che niente del genere
sarebbe più accaduto, ma i governi ci hanno mentito
così
tante volte che perfino per Loro è diventato difficile
rintracciare il filo
connettore delle loro bugie.
Decine di studenti mi sfrecciano vicino, in preda al panico generale.
Un
campanello d’allarme mi scuote le interiora, costringendomi a
pensare. Non
posso rimanere qui. Non ho nessuna intenzione di diventare un arrosto.
Mi devo concentrare. Non ho tempo
di cercare una spiegazione, né di avere fiducia.
Seguo il coro delle voci terrorizzate,
instabile e ubriaca d'angoscia. Un piede dopo l’altro mi
avvicino alle classi ancora intatte. L’ala
nord (ovest?) non
è ancora crollata.
Non posso guardarmi indietro. Ciò che conta
è andare via e seguire il protocollo d’emergenza,
ma non me lo ricordo. Dio,
non lo ricordo. E sembra tutto così assurdo che forse potrei
lanciarmi nel fuoco e
scoprire che è tutto uno gioco, uno scherzo della mia mente.
Fuori i pensieri sconnessi, direbbe Mr. S.
Mr.S. che a quest'ora potrebbe essere ossa annerite e
polvere e carbone.
Niente distrazioni. Protocollo
d’emergenza.
Qualunque esso sia è chiaro che gli studenti non lo stiano
mettendo
in pratica: corrono, strillano, si sparpagliano e si spingono
l’uno con
l’altro. Quando mi accorgo di intralciare la loro fuga
disperata verso i
cancelli è tardi. Ho solo il tempo di accorgermi che se
c’è qualcosa di più pericoloso di un
incendio, è la paura. Poi mi sono addosso.
***
La
sensazione è quella di venire investita da una mandria
inferocita che mi assale
fino a farmi perdere la cognizione dello spazio tutto intorno. Sento
braccia
tirarmi da parte e spalle spingermi con violenza, e puzza di bruciato e
di
sudore e di sangue.
Il caldo emanato dai loro corpi che premono contro il mio
è soffocante.
- Emily!
C’è una ragazza per terra, la stessa che mi ha
aiutato ad alzarmi. Punto i piedi per terra e ammortizzo la
spinta seguente, cercando di riprendere il controllo della situazione
pur di
non pestarle la testa. Quasi riesco a immaginare lo scricchiolio delle
sue ossa
quando decine di persone le schiacciano le mani. Le faccio
scudo con la schiena, ma non sono abbastanza forte, e l’onda
mi trascina via senza che
possa opporre resistenza. Guardo i volti delle
persone che mi circondano senza riconoscerne alcuno. Questo
è il risultato di 10 anni di
esercitazioni eseguite con troppa leggerezza, quando erano
nient’altro che l’occasione
di stringere la mano di qualcuno che ci piaceva.
Una mano come quella che si allaccia alla mia, trascinandomi lontano
dal fiume in piena. Non c’è possibilità
di risalirlo, né di lasciarsi
travolgere dalla corrente: chi mi tiene stretta fende la marea di
studenti di
traverso, scivolando tra una persona e l’altra. Una gomitata
mi cozza contro le
costole, piegandomi in due, ma le dita mi stringono con disperazione e
non mollano la
presa fino a quando non siamo fuori. Braccia magre salgono a toccarmi
le spalle in un abbraccio timido e maldestro, ma
ricadono subito dopo. Basta questo a ricordarmi perché io e
Alphy non possiamo essere amici. Ne ora né mai.
***
- Tu.
- Io, - rispondo.
Entrambi abbiamo il respiro affannato. Io per il dolore al petto e la
fatica, lui per lo sforzo di averci tirato fuori dalla ressa e per lo
sconforto che gli si legge sul volto.
- Credevo che fossi…
- Lilith, sì. Deve essere scappata insieme a tutti gli altri.
E’ quello che continuo a ripetermi, almeno.
Pur di non guardarlo comincio a strusciare i polpastrelli vicino alle
orecchie per controllare i danni all'udito. L'ho visto fare in un
telefilm, qualche volta. Alphy stringe gli occhi grigi
per nascondere la delusione.
- Grazie per avermi tirata fuori di lì, - dico amaramente, e
allo stesso momento le
sue parole coprono le mie.
- Stai bene?
Ci penso su prima di rispondere.
- No, per niente. Che diavolo sta succedendo?
Ci siamo allontanati dall’edificio in fiamme abbastanza da
poterci
concedere una tregua: le fondamenta della parte vecchia della scuola,
quella
costruita prima della Rottura, rovinano su loro stesse in
un’esplosione
accecante, coprendo il suono degli allarmi. Qualcuno deve aver chiamato
i
soccorsi.
- Non lo so. Non c’è stato tempo di fare
supposizioni, ma di qualunque
cosa si tratti questo disastro non è la conseguenza di una
semplice fuga di
gas.
Mi appoggio alla sua spalla per combattere la nausea, sebbene tremi
più
di quanto non faccia io. E’ appuntita, dalle ossa sporgenti e
leggermente
curvata verso il torace, come se Alphy non facesse che cercare di
raggomitolarsi per cercare scomparire.
- Che intendi?
Quasi
mi stupisco di quanto la mia voce suoni distante. Decine di aule
vengono
evacuate, e alle nostre spalle ululano le sirene dei vigili del fuoco.
- Guarda, - risponde, - guarda il colore del fuoco.
E io non posso non guardare le
fiamme che danzano verso l’alto, come dita bellissime e
terribili che cercano di
catturare il fumo. Non posso non guardare
il modo in cui il rosso sfuma fino a brillare di un azzurro
fosforescente e
gelido, perché mai ho visto qualcosa di
così
innaturale in tutta la mia vita.
- No, non.. Non è possibile. Il fuoco non può
avere il colore del ghiaccio.
- Certo che può, - le sue labbra si schiudono appena quando
parla. Oltre gli occhiali nasconde quell'aria intellettuale
tipica dei lineamenti di Lilith.
- Sì, se siamo sul set del prossimo X-Men!
- Può, - sbotta a voce stridula - se brucia a 1400 gradi
centigradi e c'è qualcuno ad
alimentarlo!
Alphy mi rimprovera di aver nominato X-Men in un momento del genere, e
si rifiuta di scappare. E' tanto incuriosito quanto sicuro che il
fenomeno non possa durare oltre.
Non sono mai stata un scienziato, né potrei darmi alla
chimica in
un momento del genere, ma le sue parole basterebbero a spiegare
ciò che
succede subito dopo.
Le vampate, che in pochi minuti hanno inglobato una grossa fetta
dell’Istituto, perdono lucentezza, tornando dall'azzurro al
bianco e dal bianco
a tutte le gradazioni del rosso. E’ uno spettacolo surreale,
sospeso nel calore insopportabile dell'aria. Per
quanto mi sforzi di convincere Aplhy ad andare via, non riesco a
staccare gli occhi dalla striscia di morte che rincorre tutto
ciò che non sia ancora stato ridotto in cenere.
Ed è così che la vedo, a fare strada al fuoco,
addentrandosi in un
edificio che ancora resiste al crollo. Unica rimasta a sfidare la pira.
Gonna verde pastello e treccia castana.
Lilith.
***
Sono
un animale che segue l’istinto. Le mie gambe si muovono senza
altro
comando che quello inconscio di continuare a correre. E’
questo che fanno le sorelle quando una delle due
è in pericolo, anche quelle che, come noi, non riescono che
a detestarsi? Si
precipitano nel bel mezzo di un attentato? L’unica certezza
che tengo a mente è che non mi
posso fermare. Se questo è reale come l’odore di
fumo che impregna l’aria e
la scuola brucia e la gente muore, devo raggiungerla e dirle che il suo
stupido
sismografo funziona. Devo portarla via da lì, senza perdere
tempo a chiedermi perché abbia sviluppato manie suicide
negli ultimi dieci minuti. Può capitare e basta, immagino.
Alphy non è abbastanza veloce da raggiungermi. Mi sfilo la
giacca
sintetica, schivando un pericolo dopo l’altro con il rischio
di spezzarmi l'osso del collo: avvicinarsi all'edificio è
come schiantarsi contro un muro di nebbia
bollente.
Tossisco, ma non smetto di correre fino a quando non sono dentro. Se mi
fermassi adesso mi renderei conto di aver fatto quella che è
allo stesso tempo la scelta più coraggiosa e più
folle.
***
Mia
sorella se ne sta al centro di un corridoio saturo di fumo, come una
bambina che ha perso la strada di casa. Ha l’aria
febbricitante, ma non
è spaventata. Sembra piuttosto insicura, e si guarda intorno
senza quasi notarmi.
Dei neon precipitano da soffitto, crepitando in migliaia di scintille.
Non
riesco a trattenere un grido.
-
Lilith, che cavolo stai combinando? Dobbiamo andarcene da qui!
Allungo
un braccio per afferrarla, ma la corrente rischia di friggermi
la pelle. Così maledettamente vicina e allo stesso tempo
così lontana da lei,
cerco un modo per riportarla dal mio lato del corridoio.
-
Ti si è spento quel cervello da genio? Forza!
Lilith
non sembra dare peso alla nostra morte imminente. Non lo fa nemmeno
quando le scintille, alimentate dal calore insopportabile
dell’aria, sciolgono
i cavi della corrente e prendono fuoco. Fiamme alle sue spalle, fiamme
di fronte a lei. Lilith è bloccata.
Arretro
in un balzo, chiamando aiuto fino a quando la gola comincia a
gonfiarsi. Passano secondi
interminabili prima che Lilith si decida a reagire.
-
Non c’è niente che tu possa fare, - dice, ma nel
caos la sua voce è
ridotta a un sussurro.
-
C’era bisogno di questo, di una reazione irreversibile
come la combustione. Non si è mai disposti ad andare avanti
e a cambiare le cose
se c’è ancora la possibilità di tornare
indietro.
Lo
dice tutto d’un fiato, rovinando sulle ginocchia. Adesso
ricordo perfettamente ciò che è successo prima
dell'attentato, ricordo come Lilith mi fosse sembrata irrimediabilmente
diversa dalla
ragazza perfetta che tutti stimavano. Quell'ombra è di nuovo
su di lei, più buia quanto più arde il fuoco, e
io non
la riconosco più. Non è più Lilith
quella che
sembra in viso.
Nient’altro che cenere riesce
a raggiungere i mie polmoni, e troppo presto mi accorgo di non riuscire
a respirare. Non respiro.
Non -
Respiro.
Stordita, soffocata,
sono costretta ad allontanarmi. Un passo alla volta retrocedo tra le
macerie,
sempre più indietro, mentre il fuoco divora lo spazio che mi
separa da esso. E
improvvisamente il suo
petto si scontra con la mia schiena.
Non avevo mai pianto di gratitudine prima di vedere i soccorritori
materializzarsi tra le volute di fumo. Gemiti strozzati consumano il
poco
ossigeno che mi è rimasto. Mi avvinghio al primo uomo che
riesco
a toccare,
quello alle mie spalle: vorrei poterlo supplicare di portarmi fuori, ma
Lilith è ancora lì, senza
via di scampo, e le
sue ginocchia hanno ceduto.
- Mia sorella!
Posso solo pregare che l’abbiano
individuata. Tendo un braccio a indicarla; sembra assurdo che sia
ricoperto da
vesciche pulsanti, del colore vivo della carne. Perché non
provo dolore?
L’uomo mi indica una luce che filtra la cenere: vuole che
raggiunga
l’uscita.
- Dovete salvare mia sorella!
Il soccorritore mi mette da
parte con una spinta violenta. E’ interamente ricoperto da
una tuta gelida e perlacea
dalla strana consistenza, che scivola sotto la pelle.
Una squadra
bianca e silenziosa mi supera senza accorgersi della mia esistenza. Il
resto dei
soccorritori avanza tra le fiamme, come stesse attraversando dell'acqua
limpida; il
fuoco accarezza le loro uniformi mentre si fanno strada per
raggiungere Lilith. Non hanno un estintore, né un
idrante, nemmeno un briciolo di esitazione. Scivolano a passi
sincronizzati, quasi eseguendo una coreografia preparata con
cura, con
le maschere riflettenti a nascondere le loro espressioni.
Vedono il
fuoco come lo vedo io?
Sono
costretta a cedere spazio. Non ho il coraggio di guardare di nuovo le
mie
braccia: una sostanza appiccicosa scivola lungo le mani, colando dalle
dita. E
ancora non provo dolore.
L’uomo mi spinge di nuovo verso l’uscita, ma mi
rifiuto di scappare senza prima assicurarmi che portino Lilith al
sicuro.
Forse hanno una tuta anche per lei.
Raggiungono Lilith a piccoli gruppi. Prima due, poi tre, sei. Lei, con
i capelli bruciacchiati,
sorride di gratitudine quando l’avvolgono in un cerchio per
cercare di
proteggerla.
Sventolo le mani in aria per incitarli: non posso resistere oltre.
- Dobbiamo andarcene!
Il gruppo di soccorritori non mi guarda, ma deve avermi sentito.
Cominciano a camminare lentamente, poi sempre più veloce.
Ma lo fanno dalla parte opposta.
- Dove state andando?
Una trave si stacca dal
soffitto e si schianta
sul terreno. La temperatura all'interno dell'edificio è
così alta che sembra di stare precipitando nel centro della
Terra. E' stata Lilith a insegnarmi che la superficie rocciosa nasconde
un cuore di magma pronto ad esplodere. Fuori. I. Pensieri. Sconnessi.
- Dove la state portando? Lilith!
Il mio ultimo
grido di disperazione viene schiacciato dal fragore del
disastro: se tutto era iniziato del silenzio, adesso decine di
sirene squillano
ininterrottamente, le tubature si piegano e ogni cosa viene consumata
da
lingue ardenti.
Non riesco più a scorgere mia sorella, e non c'è
nulla che io possa fare. E'
troppo tardi, ed è tutto troppo grande per potere essere
affrontato. Se non lascio
andare Lilith, non avrò speranza.
La squadra in
bianco si dilegua nella direzione opposta e a me non resta
che andarmene prima di sciogliermi come cera. Mi copro il naso con la
maglietta e soffoco l'idea
che mi carbonizza più del fuoco: se riesco a sopravvivere,
questa potrebbe
essere stata l’ultima volta in cui ho visto mia sorella.
Ripercorro il corridoio, incrociando un altro gruppo
di soccorso.
Un uomo basso dalla corporatura robusta mi prende in braccio e
continua a
correre per me. Non sarei riuscita a fare un altro passo, da
sola.
L’uomo dice che sono
salva, che andrà tutto
bene, che non devo piangere, ma una volta fuori lo costringo a
lasciarmi
andare.
Tutto ciò che avevo nello stomaco esce fuori in un fiotto
acido,
e quando il pranzo è finito vomito bile e saliva.
E’
insieme a tutto il resto che si libera il
dolore, mentre sento la pelle staccarsi nei punti in cui le vesciche
sono scoppiate. L'uomo mi tiene la fronte con una mano e
continua a
parlare.
- E’ finita, - mormora.
Le lacrime sono una grande delusione: non bastano e non sono fredde
abbastanza.
Si asciugano sulla pelle bollente senza averla guarita, senza potermi
guarire.
Non voglio alzare lo sguardo e affrontare il numero dei
sopravvissuti.
Mi portano via su una barella, premendomi una maschera di
plastica sulla bocca riarsa. Sono costretti ad allontanare i
giornalisti
con spintoni e insulti. E’ questo ciò che vogliono
vedere in televisione, loro
che non conoscevano di persona quelli che forse sono morti?
- E’ finita, piccola.
La voce dell'uomo si addolcisce mano
a mano che ci allontaniamo dalla scuola. Continua a parlarmi fino a
quando un ago non mi perfora la base del collo, e un calore diverso,
piacevole,
mi riempie.
Non rispondo.
Torno sotto la mia campana di vetro, dimenticando come si fa a
parlare. Non gli dico che muoio di dolore, o che mia sorella era
bloccata tra le fiamme. Non gli dico che gli uomini
che l’hanno soccorsa non avevano la sua stessa uniforme.
Angolo Autrice: come
avrete capito sono molto veloce quando si tratta di aggiornare [insert
sarcasm here #]. Questo capitolo è stato complicato, se non
altro perché non sono abituata a scrivere scene d'azione.
Beh, immagino che dovrò imparare. Non ci sono osservazioni
particolari che volevo proporvi, a parte due. La prima riguarda il
personaggio principale, Sybil. Ciò che mi piacerebbe
delineare in lei, è una tendenza a pensare troppo (il flusso
dei suoi pensieri è molto...pomposo?) e a parlare, invece,
con grande difficoltà, o poco tatto. Spero di riuscire a
caratterizzarla sempre più chiaramente nel corso della
storia. La seconda osservazione è banale, ma importante. Se
vi state chiedendo "ma Mr.S. è un voluto riferimento al
Dottor S. di Svevo?" la risposta è sì. Se avete
qualche dubbio sulle nozioni scientifiche che ispirano questa originale
chiedete pure: vi assicuro che sono molto semplici, o non mi
permetterei a chiamarle in causa, non essendo particolarmente dotata in
questi campi.
Ringrazio le 49 persone che mi
hanno inserito tra gli autori preferiti, chi segue questa storia e
magari, gentilmente, la recensisce. Un bacio a Viola, Charly, Liz, Ania
e allo Stello.
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Capitolo 4 *** La radiazione assorbita da un corpo nero ***
CAP3
Corpo nero: in
fisica è un oggetto ideale che assorbe la luce
(e tutta la radiazione
elettromagnetica incidente)
e che, di conseguenza, né riflette né trasmette
alcuna energia.
CAPITOLO
3.
Premo
il tasto del telecomando.
Canale ventisei.
Canale ventisette.
Il canale ventotto è oscurato.
- Sybil, ti andrebbe di ricapitolare cosa è successo?
Il commissario si asciuga la fronte con un fazzoletto di cotone. Il
sudore gli imperla il contorno delle labbra in una patina lucida,
sebbene i riscaldamenti siano rimasti spenti negli ultimi mesi e in
soggiorno faccia quasi freddo.
Il signor Jean ha l’aria stanca e sconsolata, ma posso
capirlo: non c’è
stato alcun progresso nelle indagini, solo un rincorrersi di funerali,
articoli
di cronaca nera e giornalisti indiscreti.
Canale ventinove.
Canale trenta.
Canale trentuno.
- Sybil.
- Il vento deve aver storto l'antenna, - dico.
- Non importa, comunque. Parlano tutti della stessa cosa. Non
c’è un solo telegiornale
che non ne parli.
- Non succede tutti i giorni che ci sia un attentato, Sybil.
Alzo le spalle. D'improvviso mi ricordo che il
commissario aspetta una risposta: se non lo accontenterò la
specialista che si è
portato dietro penserà che c’è qualcosa
che non va in me. Cambio canale e
ricomincio da capo.
- Posso farlo se vuole. Raccontarle com’è andata,
intendo.
Di nuovo.
- Te la senti?
Affondo nel divano, avvolta da una felpa di due taglie più
grandi della mia. Non
sopporto di vedere la pelle delle mie braccia ridotta in strisce di
croste
ruvide. All’ospedale sembravano fiduciosi che la maggior
parte delle cicatrici
sparirà, ma non ne sono così sicura.
L’antidolorifico mi fa stare meglio, però, e il
dolore
è sopportabile. Quella
specie di macigno che sento sul torace invece rimane dove
l’ho lasciato due
settimane fa. Il primario dell'ospedale mi ha spiegato che i traumi
emotivi
non si
curano come le altre ferite, ma che delle gocce di calmanti potrebbero
aiutare.
Secondo lui starmene seduta e sedata su un letto li avrebbe nascosti
per un po'. Ho costretto mia madre
a firmare la dimissione dall'ospedale subito dopo: non ho intenzione di
giocare
a nascondino con i miei problemi, sebbene non riesca ancora ad
accendere un
fiammifero senza che la vista del fuoco non mi terrorizzi.
- La scuola è esplosa. Sono caduta. Quando ho riaperto gli
occhi l’ala sud era in fiamme. Forse era quella a est.
- Est, - conferma lui.
- Ho cominciato a correre verso i cancelli fino a quando non ho visto
mia
sorella. L’ho persa dopo un po’ per colpa del fumo,
tutto qua.
- Sei sicura?
Cambio canale.
Due.
Tre.
Annuisco. Se continuerò a ripetere questa versione dei fatti
finirò per
convincermene e riuscirò a dormire di nuovo. Dopotutto
omettere è più semplice
che mentire.
Mi alzo per accompagnarli alla porta con il telecomando ancora stretto
nella mano, senza attendere che mi facciano
altre domande. Mia madre non
uscirà dalla sua camera per un bel po’, e comunque
non sarebbe in grado di
rilasciare dichiarazioni in questo momento.
L’ispettore sospira e fa per seguirmi, riponendo il suo
taccuino in
tasca. Non ha appuntato niente di nuovo da quando è entrato.
- Se c’è qualcosa che devi dirmi, qualunque cosa,
dovrai farlo adesso.
Gli rivolgo un’occhiata interrogativa. L’ispettore
ha lavorato in questa
città per una vita, e mai l’avevo visto
così serio prima d’ora. Ha la faccia
gonfia e cerulea per la mancanza di sonno, e gli ultimi capelli che gli
erano
rimasti sono caduti.
- Hanno tolto il caso al nostro dipartimento, ragazzina. Da domani se
ne
occuperà la USD.
Il nuovo capo della
polizia è già arrivato in città.
La plastica scricchiola sotto la mia stretta.
La USD è il dipartimento
di difesa delle Nazioni rimaste in piedi dopo la Rottura, o qualcosa
del genere. Controlla pressoché tutti gli
apparati investigativi e armati dei Paesi che non sono ancora falliti,
ed è una
delle autorità più potenti al Mondo. Non
c’è alcun dubbio che si sia trattato di un
vero attentato se quelli della USD sono entrati in gioco.
Penso al numero dei morti, quarantuno, e a come la moglie di Mr. S. si
è
accasciata sul suo feretro il giorno del funerale. Penso alle persone
scomparse: quattro, inclusa mia sorella, e sento uno spillo
d’inquietudine salire in gola, appuntito, freddo.
Se
c’è qualcosa che devi dirmi,
dovrai farlo adesso.
Schiudo le labbra per parlare e faccio per richiudere la porta. Poi
però
ricordo l’espressione incredula e spaventata di Alphy Fleming
e la mia bocca si chiude
a chiave. Nessuno sa che Lilith è stata portata via, nessuno
a parte lui, il
suo migliore amico. Era lì quando ho ripreso conoscenza,
seduto nell’angolo
meno illuminato della stanza; tra le mani aveva un fumetto per me. Non
era ferito, ma terribilmente sconvolto dall’accaduto. Gli ho
detto di Lilith non
appena siamo rimasti soli, e tutto ciò che ha fatto è
stato guardarmi come se fossi
pazza, tornarsene a casa con il manga che avrebbe dovuto regalarmi e,
da quel momento, fare finta di non conoscermi.
- Non ho niente da dire, - mormoro, - mi dispiace.
***
Il
panino è dove l’ho lasciato, sul comò.
Mia madre non sembra aver
notato che le ho portato il pranzo. Sono giorni interi che non tocca
cibo, e la
faccenda ha cominciato a stancarmi.
- Devi mettere qualcosa sotto i denti.
La camera da letto è buia e puzza di chiuso. Le lunghe tende
sono spiegate a non far passare il minimo raggio di luce, e il
pavimento è
disseminato di vestiti. Non so come possa rimanere sotto le coperte
senza soffocare, tanto l’aria è consumata. La
scuoto debolmente, ma lei non
smette di singhiozzare. Da quando Lilith è sparita non ha
fatto che piangere,
riempiendo la casa di lamenti acuti e continui. Ogni lacrima pare
invecchiarla
di un anno, come se l’umore assorbito dai cuscini contenesse
tutta la forza
vitale di cui disponeva.
- Mamma, - dico, sforzandomi di rimanere tranquilla, - le famiglie dei
ragazzi scomparsi si stanno dando da fare per capire che cosa sia
successo.
Vogliono che ci uniamo alle ricerche.
- L’ispettore dice che potrebbero essersi allontanati in
stato confusionale.
Bugiarda. Non
è andata in
questo modo.
Ma sono sicura di quanto è successo agli altri, io? I tre
studenti che mancano all'appello potrebbero essersi dileguati per lo
shock. Non c’è niente che li
legasse a mia sorella, comunque, e quasi non si
conoscevano.
Lei, però, lei
è stata
presa. Lilith è stata portata via.
La mamma si scrolla di dosso il mio braccio, alzando la voce.
- E’ facile per te, non è vero? Sapere che tua
sorella non c’è più. Sei
sempre stata invidiosa di lei, e non hai fatto altro che detestarla per
tutti questi
anni! Se fosse morta tu –
Non aspetto che finisca la frase. Mi precipito giù dalle
scale,
tappandomi le orecchie, e inciampo sui primi gradini. Scivolo fino alla
base
della scala, dove rimango per quella che sembra
un’eternità.
Continuo a ripeterni che la mamma non lo pensa davvero. Lo dice
perché è distrutta e ferita, e perché
per
un genitore che perde la propria figlia non ci sono mai abbastanza
possibilità.
Poggio la schiena contro la ringhiera.
Egoista.
L’avevo
detto di Lilith poco prima che succedesse quel disastro di cui non
voglio
ricordare niente.
Forse, però, l’egoista sono io, e la mamma ha
ragione.
Perché c’è qualcosa che mi sforzo di
tenere a bada
da quando mi sono svegliata in quel letto
d’ospedale, senza fiori o biglietti d’auguri ai
piedi della
testata. È come
una bestia feroce che morde le sbarre della propria gabbia:
più
cerco di controllarla,
più la sento aizzarsi e ringhiare. E non è la
tristezza,
né la paura che mia
sorella sia persa per sempre; è quel senso di soddisfazione
sporca che provo nel non averla più
intorno, e insieme ad esso, una gelosia colpevole. Perfino con la sua
plateale uscita di
scena Lilith è rimasta la protagonista delle nostre vite.
Allungo il braccio per spegnere la luce. Al buio è
più facile far finta
che si possa avere fiducia.
****
Che
significato ha il tempo quando si è soli e non
c’è
nulla a riempire i secondi che si rincorrono? Delle
volte sembra solo una stupida convenzione con cui registriamo il
divenire. Ma quando intorno a noi tutto rimane uguale, quando si
percepiscono lo stesso vuoto e lo stesso malessere ancora e ancora, che
cosa
rimane nel ticchettio dell'orologio?
Tic-tac, tic-tac.
Sono passate ore intere, ma non c’è nessuna
notizia di mio
padre. La polizia è riuscita a contattarlo ieri sera,
mettendolo al corrente
della scomparsa di mia sorella. La conversazione è stata
breve, e da allora non si è più fatto vivo.
Finisco per appisolarmi sulle scale, gli occhi appiccicaticci che
fanno fatica a rimanere aperti.
Improvvisamente il mio cellulare comincia a
vibrare.
Rispondo con il fiato sospeso.
-
Sybil?
Non
è lui. Non è mio padre.
-
Sybil, sono Alphy Fleming. Ci sei?
-
Che cosa vuoi?
L’ultima
volta che l’ho sentito è stata due settimane fa.
Biascico con la consapevolezza
che potrei crollare da una parola all’altra, come se stessi
camminando sul filo
di un rasoio. Cadere vorrebbe dire vomitargli contro
tutta la mia frustrazione, perciò decido che sarò
concisa.
-
Ho bisogno di parlarti, - dice, ed è chiaro che sta
tormentando il filo del
telefono con le dita, - disturbo?
Disturba?
-
Cazzo, no, figurati. Mia sorella è stata rapita da un branco
di
Terroristi con
le tute da gelataio e io non posso dirlo a nessuno senza correre il
rischio di
venire rinchiusa in manicomio. Mia madre è fuori di testa e
il
commissario a cui ho raccontato un mare di stronzate
è
appena stato licenziato. Questo vuol dire che dovrò ripetere
il
mare di stronzate a un nuovo ispettore e alla strizzacervelli di turno,
che
scriverà su quella sua maledettissima agenda di pelle che
sono
una sedicenne
con stress post-traumatico di livello duemila. Non disturbi Alphy, ti
pare?
Dall’altra parte del telefono Alphy
non produce alcun suono: ho bisbigliato le parole con
un’amarezza tale da farle
suonare avvelenate. Considerando l’effetto che hanno avuto
è come se avessi
urlato. Se questo fosse un film sarei la prima a scusarmi per aver
esagerato,
ma la realtà non è abbastanza romantica e aspetto
solo che riattacchi.
- Fatti trovare davanti alla porta,
passo a prenderti tra venti minuti.
Per poco non ruzzolo giù dalle scale.
Lancio un’occhiata all’orologio sul muro e mi
asciugo le
guance. Ho un gran mal di testa e sono troppo confusa per capire se
stia
scherzando o no.
- Che
diavolo stai dicendo?
- Sto dicendo che non sei pazza, e che ti credo: Lilith
è stata rapita. Fuori
dalla porta, venti minuti. Andiamo dalla polizia. Se non crederanno a
te,
crederanno a noi.
***
Sbircio
dalla porta
semichiusa, accertandomi che il petto di mia madre si alzi e si abbassi
con
regolarità, segno che si è addormentata. Lo
prendo come
un semaforo su cui scatta il verde: non farà niente di
stupido,
sta bene. Posso andare.
Le lascio un biglietto
davanti alla porta, ma dubito che lo leggerà.
“Esco a prendere una
boccata d'aria con Alphy, un compagno di scuola. Ho il cellulare in
tasca.”
Se ti serve qualcosa
chiamami.
Questo non lo scrivo,
perché sono un’adolescente testarda e
scontata.
Alle otto e trentacinque, circa
mezz'ora dopo aver chiamato, Alphy si presenta davanti casa mia.
C’è il
rumore delle ruote di uno skate a precederlo. È vecchio,
scolorito e troppo
piccolo per lui, e Alphy è così goffo che rischia
di cadere ogni due metri.
- Sei in ritardo, - butto lì. Non so come cominciare.
- Non
trovavo un documento che non fosse l'abbonamento alla rivista
settimanale per
piccoli fisici.
- Perché ho l’impressione che tu non
stia scherzando?
Prima che possa rispondere tiro fuori
la carta d’identità senza la quale, probabilmente,
non accetterebbero di parlare
con noi della scomparsa di Lilith. Ci refilerebbero un “Solo familiari, ci dispiace,”
per poi mandarci via.
Mi
prendo qualche secondo per osservare Alphy: con quei capelli castani
tutti
scompigliati e gli occhi grigi che sfumano in tonalità
più
scure verso il centro dell’iride, resi
ancora più grandi dagli occhiali enormi, è un
perfetto genio strampalato.
Sulla
sua maglietta c'è scritto "la conoscenza è
potere".
Non posso presentarmi dalla polizia con un tipo del
genere, ma non ho altra scelta.
-
Andiamo, - sospiro, - ma chiuditi quella giacca. Per favore,
sì, grazie.
Lui
non fa discussioni.
***
La
centrale di polizia non è distante da casa mia, venti
minuti a piedi al
massimo. Ho convinto Alphy a lasciare lo skateboard in cortile prima
che si
spezzasse qualche osso. È appena sopravvissuto a un
attentato, sarebbe il colmo
che si facesse male in maniera tanto stupida. Aspetto prima di
rimproverarlo per
quello che è successo all’ospedale. Forse
è stata una reazione comprensibile,
la sua.
- Ce la
fai a raccontarmi tutto prima di entrare?
Lui
scuote la testa e si pulisce gli occhiali. Deve essere praticamente
cieco se
sbanda come un ubriaco ogni volta che li mette via.
- Voglio
prima allontanarmi dalla strada, se non ti dispiace. Dirò
tutto ciò che so alla
polizia.
Immagino
che dovrebbe dispiacermi, visto che c’è in ballo
la vita di mia sorella. Però
condivido il nervosismo di Alphy: non è rassicurante
girandolare di sera in questo periodo. Da due settimane le
strade sono deserte e le finestre delle abitazioni sbarrate.
Accelero il passo, ignorando il broncio triste di Alphy. Lilith sembra
mancare più a lui, che a me. Mi
tiro una ciocca di capelli per scacciare il senso di colpa con il
fastidio. È una soluzione stupida, ma funziona. La mia
bisnonna
lo faceva sempre.
Quasi
non me ne accorgo quando arriviamo davanti alla centrale.
L’edificio è vecchio
e quadrato, un unico blocco di cemento cavo. Le luci dentro sono
accese e dalla porta aperta esce un profumo invitante di
caffè.
Il primo
agente che incontriamo è indeciso sul da farsi.
Non sono brava a parole, e vorrei che Alphy si spiegasse per entrambi.
È
chiaro, però, che stare in mezzo agli altri lo mette a dura
prova. Credo che
sia sul punto di vomitare.
- Senta,
voglio solo parlare con l’Ispettore Jean.
- Mi
dispiace informarti che il Signor Jean è stato trasferito
nel pomeriggio.
Il commissario Jerome Ryars ha preso il suo posto da qualche ora.
Di già? La USD
non ha perso tempo. Se hanno così fretta di fare
chiarezza su quanto è accaduto, ascolteranno ciò
che ho da dire. Chiedo di poter incontrare
il nuovo capo della polizia, sfoggiando tutta la sicurezza che riesco
a improvvisare.
- Pensavo che non avessi più niente da dichiarare.
L’agente batte il piede sul pavimento. Lo riconosco,
è stato uno dei
primi a interrogarmi.
- Mi sono tornati alla mente nuovi particolari.
La porta sul fondo
della stanza si apre.
"Nuovi particolari"
è il mio “Apriti,
Sesamo”. Come con la formula magica di una
fiaba,
mi basta pronunciarla perché una testa bruna esca dalla
penombra e mi inviti ad
entrare.
- I ragazzi possono accomodarsi nel mio ufficio, Agente.
Guardo l’uomo dalla mano tesa in segno di benvenuto e serro i
denti. Provo a separarli per salutare, ma la mascella non risponde
più a
niente che non sia quello sguardo nero come un pozzo senza fondo. Sento
sulla
schiena le dita di Alphy che mi spingono verso l’ufficio, e
sul viso
gli occhi di Jerome Ryars che assorbono la luce.
Perché si tratta di Jerome Ryars.
Quando la porta si chiude dietro di me e l’Ispettore mi fa
cenno di
prendere posto, non ricordo di essere mai entrata, tanto i miei denti
tengono occupato il cervello.
- Nuovi particolari sono ciò
di cui abbiamo bisogno in questo momento, - mormora Ryars, mentre si
siede e
riempie un bicchiere d’acqua con stre cucchiaiate di zucchero.
Se il nuovo ispettore della USD mi ha sentito parlare
dall’altra parte
dell’edificio, deve avere un eccezionale senso dell'udito.
***
L’ufficio
del nuovo capo della polizia è tirato a lucido. Le pareti -
leggermente scrostate in alcuni punti - sono state smacchiate da poco:
qualcosa mi dice che
Jean non lavorava in questo studio. Ryars è rigidamente
seduto su una
poltroncina di pelle, e ci squadra senza lasciar trapelare alcuna
emozione.
Deve avere sì e no trentacinque anni, ma con i suoi capelli
corvini e il viso
spigoloso finisce per dimostrarne di più. La spilla a forma
di scudo della USD
spicca sul completo nero perfettamente stirato.
Non parla per un po’. Distolgo lo sguardo quando
l’ispettore mi osserva, incuriosita dall'ordine maniacale
della
stanza: una stilografica dalla linea
elegante, un foglio e un telefonino sono quanto è sistemato
sulla scrivania,
oltre al bicchiere, la zuccheriera e una bottiglia d’acqua di
vetro. Tutto è
disposto parallelamente.
Non posso fare a meno di fantasticare: sua madre deve averlo
traumatizzato da piccolo, costringendolo a tenere per bene la cameretta.
Alphy mi dà un calcio sotto la scrivania per riportarmi alla
realtà:
Ryars è passato alle presentazioni, composto come una statua
di
cera. La pelle sulle guance, pallida come carta sottile, si muove
appena.
- Scusi?
- Mi stavo accertando che fossi la sorella di Lilith Crowford, la
ragazza scomparsa tredici giorni fa.
Frugo nella borsa e apro il mio documento sulla scrivania. Per errore
tocco la sua stilografica, spostandola di qualche centimetro. Ritiro
subito la mano, ma Ryars controlla la mia carta
d’identità
solo dopo aver riallineato la penna. E’ annoiato.
- Lui è Ranulph Fl –
- Si è già presentato, - taglia corto
con voce
monotona, rauca. Io e Alphy ci scambiamo un’occhiata
impacciata:
gli viene
naturale essere così inquietante?
- Mi stupisce che non sia venuta con sua madre, Signorina Crowford.
Ryars torna a puntarmi quegli occhi di
pietra nera addosso. Sembra tutt’altro che stupito. Mi
schiarisco la gola.
- Ho portato Alphy perché
c’è qualcosa di importante che dobbiamo dire alla
polizia e lei, in questo
momento, è
la polizia.
- Riguarda Lilith.
- Ah, i giovani non si perdono mai d'animo. Avete la mia attenzione.
- Abbiamo ragione di credere che mia sorella sia stata rapita.
Fuori. L’ho detto. È stato più semplice
di quanto
pensassi. Il peso della verità che viene a galla mi
permette di alzare la testa e guardare in faccia il mio riflesso
sulla superficie della bottiglia. Aspetto la reazione del commissario,
ma non c’è nessuna maledettissima reazione. Ryars
è
totalmente inespressivo, e stento a credere che mi abbia
sentito.
Lo ripeto di
nuovo.
- Ipotesi
piuttosto fantasiosa. È più
probabile che sia fuggita in preda allo shock.
- L’avreste
trovata, allora.
- Un’ala della
scuola è ancora ridotta a un cumulo di macerie. Non
è escluso che sua sorella
sia ancora lì sotto.
No. Lilith non può
essere morta. Non è un’ipotesi da poter prendere
in considerazione.
- L’hanno portata
via.
- Impossibile.
- L’ho visto con i miei occhi!
Sbatto le mani
sulla scrivania di legno e la stilografica rotola via una volta per
tutte,
cadendo sul pavimento. Alphy emette un suono strozzato.
- C’erano degli
uomini con una tuta bianca dalla consistenza strana, nella scuola. Non
erano i
soccorritori che hanno spento l’incendio, eppure mia sorella
non ha opposto
alcuna resistenza!
Ho appena scolpito
un’espressione sul viso scarno dell’Ispettore
Jerome Ryars. Qualcosa mi dice
che sono la prima persona ad aver mai compiuto una simile impresa.
Ogni parte del suo corpo diventa rigida come ghiaccio secco. Il gelo
cala sul suo viso e ne contrae i lineamenti. Ryars cerca di
nascondere l’incredulità.
- Seduta, -
sussurra; stacco i palmi dalla scrivania, senza fiatare.
- Per favore,
-
aggiunge, e io ubbidisco non appena mi rendo conto di aver gridato. Mi
scuso.
Ryars recupera la
sua accurata apatia. Mi chiedo se creda anche solo a una parola di
quello che
ho detto. Cerco le dita di Alphy e le tiro forte in una muta richiesta
d’aiuto.
Lui prende un bel respiro e raccoglie la stilografica di Ryars per
parlare
senza dover affrontare un confronto diretto.
- Negli
ultimi tempi Lilith era sospettosa. Dormiva appena, non faceva che
studiare. Quasi
non mi parlava.
- Riceveva delle
strane telefonate, - confessa, ma lo fa con cautela. Mi guarda con i
suoi grandi occhi acquosi, come se volesse chiedermi il permesso di
continuare. Sono
troppo allibita per dire qualunque cosa.
Vorrei aver notato
qualche cambiamento nel modo di comportarsi di Lilith, ma la
verità è che prima dell'attentato non
l’ho fatto.
Alphy si dondola
sulla sedia, impaziente; è chiaro che vuole aggiungere
qualcosa.
- Chiunque fosse, Lilith rispondeva. Diciamo
che io potrei aver… Insomma, diciamo che potrei aver cercato
di rintracciare
l’intestatario del numero qualche tempo fa.
Le dita di Alphy
sono scivolose per il sudore. Le lascio andare non appena mi ricordo
che sono allacciate alle mie.
Non so perché arrossisco.
Ryars aggiunge due
cucchiai di zucchero alla sua bevanda e mescola con estrema calma.
- Potrebbe averlo
fatto o lo ha fatto,
signor Fleming?
Un silenzio tetro
cala nell’ufficio. Quanto realizzato da Alphy è
illegale,
ma ciò non toglie che
lo abbia fatto per Lilith. Si era accorto che qualcosa non andava, e
per questo ha sfidato la legge irremovibile della USD. Io, al
contrario, sono rimasta cieca e sorda davanti a quello
che stava succedendo. Mi ritrovo a guardare Alphy con una certa
ammirazione.
- L’ho fatto. Ho
hackerato il suo telefono.
- Notevole. Non è da tutti.
Ryars, ispettore dell'ente di giustizia più severo del
Mondo, rimane
impassibile e si concentra su Alphy.
- Non c’era
traccia delle telefonate. Tutte le chiamate in entrata e in uscita
erano per amici o familiari.
- La ritieneva
capace di manomettere un dispositivo di telecomunicazione?
Il
labbro inferiore di Alphy, livido, gli trema quando Ryars parla di mia
sorella al passato.
- Non c’è qualcosa
di cui Lilith non sia capace. Non mi fraintenda, ispettore, ma deve
essere
stato un gioco da ragazzi per lei. Lilith è un
genio.
Alphy si rianima. L’accenno di un
sorriso gli riempie le guance, e c’è una fierezza
dolce
nel
modo in cui il nome di Lilith suona quando è lui a
pronunciarlo.
Mi concentro su quello che ho scoperto. Lilith non
risponderebbe mai ad un numero anonimo. Se c’è una
certezza in
questo momento è che conosceva il mittente di quelle
chiamate. Ora capisco
perché Alphy non trovava il coraggio di parlare. Nemmeno lui
riesce a credere
alle proprie rivelazioni.
- Non le hai mai
chiesto con chi parlasse?
- Certo che l’ho
fatto, ma si limitava a definirli degli “Amici”,
e tutte le volte che provavo ad insistere si arrabbiava.
Lilith arrabbiata?
Arrabbiata con Alphy? Nessuno la contattava quando era a casa, ma
passavamo così poco tempo insieme che per quanto ne so,
negli
ultimi mesi,
avrebbe potuto pianificare la conquista del Mondo.
Mi prendo la testa tra le
mani. Mi sembra di avere davanti agli occhi un compito di matematica:
non ci
capisco niente.
- Tutto ciò è
davvero interessante.
Ryars.
Mi deprime che “interessante” sia l’unico
commento
che abbia da fare a riguardo, ma deve aver colto la delusione sul mio
viso, perché prende il cellulare e mi sorride,
gesto
alquanto insolito da parte sua. Guarda
l’orologio con eloquenza, come se volesse farci capire che ci
siamo trattenuti
abbastanza.
- Farò qualche
telefonata per riferire quanto mi avete detto, se non vi dispiace. Sono
sicuro
che le vostre dichiarazioni potrebbero rivelarsi utili, nonostante non
ci siano
prove sufficienti per dimostrarle.
Ricambio il
sorriso con tutta la gentilezza di cui sono capace: adesso è
la
sua smorfia forzata contro la mia, esageratamente cortese. Imito mia
sorella, per
quanto mi riesce.
- Sono sicura che
troverà lei le prove, Ispettore.
Con un cenno della
testa l’uomo ci liquida dal suo ufficio e compone un numero;
più mi allontano
da lui, più mi sento leggera. Alphy mi invita a darmi una
mossa,
ma rimane sempre alle mie spalle. L’ultima immagine che colgo
di
Ryars è quella di una teiera da zucchero che viene svuotata
nel
bicchiere,
mentre l’Ispettore sussurra a bassa voce.
Fuori è buio.
- Si può morire di
apatia?
Alphy si nasconde
sotto un cappello di lana e scuote la testa.
- Proprio no, o
Jerome Ryars sarebbe già nella tomba.
- Lo prendo come
un “non ci ha creduto”.
L’aria umida della
sera mi gonfia i capelli; li sento talmente crespi, quando ci passo
attraverso
le dita, che non mi stupirei se un uccellino decidesse di farci il nido
per
l’inverno.
- Prendila come
vuoi, ma Jerome Ryars non mi piace.
- Già, neanche a me. Non ho mai visto
due occhi così spenti. Forse la stanza non era abbastanza
illuminata, ma
non riuscivo a vedergli le pupille. Era spaventoso, - ridacchio, ma ho
ancora
la pelle d’oca.
Alphy si alza gli occhiali sul naso.
- Non ci sarà mai
abbastanza luce, immagino. Un corpo nero ne assorbe completamente la
radiazione: è scienza.
Alzo le braccia al cielo. Non ho idea di che cosa significhi.
- Grande, professore, ma non lo rende meno
spaventoso.
- No, - Alphy ci
pensa su. Sembra più smarrito del solito.
- Non lo fa.
Angolo Autrice: se
il capitolo vi sembra lungo, sappiate che in origine (è
stato pensato anni fa) comprendeva anche ciò che di
sconvolgente
succederà in quello seguente. Ho ritenuto opportuno
alternare
momenti di spannung
o di azione (l'attentato) a capitoli più
discorsivi e, magari, introspettivi. Non ci sono note particolari da
fare. La maglietta di Alphy è un tributo a una delle mie
t-shirts preferite. Avrete notato, forse, che ho cambiato un po' la sua
descrizione.
Ah, sì, darò un biscottino a chi
riconoscerà il nome dell'ispettore.
Se qualcuno è arrivato alla fine del capitolo e si sta
chiedendo
che cosa sia la USD, sappiate che la sigla sta per "Unbreakable Shield
Department", dove quell'infrangibile si
oppone alla Rottura. Vi ringrazio per i numerosi 'like' al capitolo 2; mi piacerebbe anche sapere cosa
ne pensate, ogni
tanto xD
Come al solito ringrazio chi segue silenziosamente (fatevi
sentire!) la storia, chi la recensisce e chi mi ha inserito tra gli
autori preferiti, sopratutto Charly e Viola.
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Capitolo 5 *** La parabola descritta da un coltello che cala ***
entropy 4
Parabola: in
matematica è il luogo geometrico dei punti equidistanti da una
retta chiamata "direttrice" e da un punto fisso detto "fuoco".
y = ax² + bx + c
Se a < 0, la concavità della parabola è
verso il basso.
CAPITOLO 4.
Nessuno dei due ha voglia di
parlare. Dopo
quello che ho scoperto
sembra un miracolo che riesca ancora a pensare.
Alphy tiene la testa china e conta le pozzanghere sulla strada; io
cammino poco
più
avanti, saltando su e giù dal marciapiede vinto dalle
erbacce. Approfitto del
silenzio per
controllare il telefono: mia madre non ha provato a
contattarmi da quando sono uscita. Alla
fine lo
spengo per salvare la batteria e smetto di preoccuparmene.
Il prurito alle braccia è incessante, ma l’aria
fredda della sera
aiuta, mi dà sollievo.
Cammino piano, facendo finta di non notare i mazzi di fiori finti alle
porte delle case in
lutto. Contemplo la povertà, quella vera, da periferia. Fino
a
qualche anno fa pareva distante come un miraggio sfuocato, ma
adesso è di una consistenza così implacabile da
non
lasciare spazio al
resto. La mia famiglia andava - va
-
avanti grazie alle borse di studio di Lilith, ma la maggior parte delle
persone che conosco non riesce ad arrivare a fine mese, e ormai tutta
la città è periferia. Gran parte del Mondo lo
è.
Eppure tutti
fanno finta
di niente. Pigrizia, rassegnazione? Sfinimento. Da tre
anni paghiamo i
danni di quello che è successo, e lo facciamo senza
discutere,
minacciati dai media: il sistema può crollare di nuovo da un
momento all'altro, affermano. E allora tutti tengono le proteste per
sé, soffocano il malcontento, e tirano avanti
nonostante le tasse, la corruzione, i numeri limitati delle
assicurazioni e la privatizzazione di tutte le
università; e poi ancora la
disoccupazione, la soppressione "momentanea" del diritto di voto, i
cambiamenti climatici.
La mia idea è che ci abbiano ammaestrati bene, come animali
di una fattoria.¹
Ogni tanto mi fermo per evitare piccoli gruppi di giornalisti. Non ho
fretta di arrivare a casa, comunque. Non c’è
nessuno
ad aspettarmi, e stare all’aperto mi piace. I guai si
ridimensionano
sotto un cielo infinitamente più grande di tutto il resto.
Si
spengono sotto le
stelle, si riducono a gocce nell’oceano della notte.
- Mi dispiace per quello che è successo
all’ospedale.
Alphy si avvicina e fa di nuovo quella
cosa con il cappello,
premendoselo sulle tempie. Le sue gambe fanno fatica a tenere il mio
passo,
perché è di qualche centimetro più
basso di me.
- Sono stato un vigliacco.
Sì, sei stato un vigliacco.
Per poco non lo dico. Poi però gli do un buffetto sulla
spalla e scuoto la
testa per lasciare cadere il discorso. Non sono nessuno per poterlo
chiamare
“codardo”. Alphy stava solo facendo i conti con
ciò che aveva scoperto, e
niente riportava. Calcoli su calcoli e nessun risultato.
- Credi che Lilith conoscesse gli attentatori?
Il mio respiro si condensa in volute di vapore, e le lenti di
Alphy si appannano. Si mette le mani in tasca e guarda le luci
fluorescenti dei
lampioni. Ha gli occhi cerchiati di viola, come se nemmeno ricordasse
l’ultima
volta in cui è riuscito a dormire.
- Sì.
La risposta non mi stupisce. È più facile
immaginare Lilith mentre è
a conoscenza di qualcosa. Pensarla all’oscuro di tutto
è inverosimile, e stona con il ricordo vivo che ho di mia
sorella.
- È che... Non avrebbe mai messo a repentaglio la vita di
tante persone.
- Lo so.
Rinuncio a trovare un senso alla faccenda per questa sera, ma riporto
alle mente un particolare che mi era sfuggito.
L’illuminazione delle strade è
terribile da queste parti: trema e si
spegne di continuo, come in un malfunzionamento ciclico. È snervante. Nel
quartiere
illuminato a
intermittenza io e Alphy sembriamo solo delle figure anonime che si
confondono
sulle mura
delle pareti fatiscenti.
Lui avverte sua zia che farà tardi, ma la chiamata dura
più del
previsto: a quanto pare Alphy
non
è capace di farsi
valere, tagliando corto.
Io faccio da guida silenziosa e metto le
distanze.
Averlo vicino è strano in un modo che non riesco a spiegarmi.
Svolto lungo qualche traversa, schivando cocci aguzzi di bottiglie, e
ripeto come un mantra ciò che Lilith mi ha bisbigliato il
giorno del disastro.
Quando perdi il
controllo i test si attivano. Se
attivi i test, prenderanno anche te.
-
Alphy, mi sono ricordata
di qualcosa, - comincio, e le parole rimangono sospese come la nebbia
tra le abitazioni.
Manca poco a casa mia quando mi accorgo che la strada è
chiusa. Alphy
è ancora a telefono, ma appena vede le transenne
rosse e bianche lo
mette via.
Scruto oltre i segnali di divieto.
- Non c’era prima, quando siamo passati di qua.
Un blocco stradale della polizia.
No, non della polizia. Della
USD.
Capisco subito che è impossibile
compiere qualche bravata e scavalcarlo. Il simbolo a forma di scudo
spicca al
centro
di un triangolo, e dei lampeggianti rimandano a un passaggio obbligato.
A dirla tutta ci sono più insegne al neon che nel piccolo Funfair in cui
andavo da bambina.
- Dobbiamo fare il giro lungo, - sbadiglio. Mi accorgo di essere
troppo stanca per cercare una scorciatoia, quindi mi limito a seguire
le
indicazioni della polizia e rimando a più tardi le
spiegazioni.
Finiamo qualche isolato più in là, dove le case
sono pericolanti e
disabitate a causa delle immigrazioni di massa. Dopo la Rottura le
autorità cittadine ne promisero la
demolizione, rimandandola a quando sarebbero spuntati i fondi necessari
per
buttarle
giù. Fondi che, stranamente, non sono mai saltati
fuori.
Ci fermiamo a un vecchio incrocio per fare il punto
della situazione.
- Sarà evaso qualche serial killer.
Faccio riferimento al blocco stradale e mi passo il pollice sotto la
gola.
Il colore abbandona le guance di Alphy, e gli occhi sbarrati gli
occupano l'intero viso.
Fifone.
- Sto scherzando, Ranulfo.
Si tratta di qualche ronda, secondo me. Non svenire qui,
okay?
- Avremmo dovuto chiamare un taxi. Le strade di sera sono pericolose,
e dopo quello che è successo…
- Di cosa hai paura? Di certo non verrai attaccato dai Nazgul,
Alphy, perché in effetti non esistono.
- Sai dove siamo? Sai almeno di cosa stai parlando?
- Credevo fossi un Nerd.
- Lo sono, infatti, - puntualizza, - E se
non facessi
parte di quel 99% di individui che fraintendono il significato del
termine "Nerd", lo sapresti.
- Tu e Lilith siete fatti l'uno per l'altra, - sospiro.
Aspetto che rida, che giri i tacchi per andarsene, o che al massimo si
arrabbi.
Alphy non lo fa. Guarda fisso
sopra
la mia spalla e viene scosso da un tremito, come se alla luce fredda
dei lampioni avesse visto la Morte incombere su di me.
- Che ti prende? - gli chiedo.
Lui apre la bocca per urlare. Incredibilmente il suono della sua voce
mi giunge distorto, niente di
più che un'eco vibrante, e viene coperto dallo
scricchiolio
delle mie ossa sull’asfalto quando un uomo mi prende per i
capelli, mi alza in
aria e mi lancia dall’altra parte della strada.
***
Sento
in bocca il sapore del ferro e dell’acqua sporca. La testa
non
mi gira, e nonostante l’urto non svengo. Tutto il resto
però fa male. A ogni
respiro sembra quasi che le costole stiano per bucarmi il torace come
spine di vetro. Con le braccia fasciate cerco di rialzarmi, ma le
ferite si sono
riaperte.
Bruciano.
Sanguinano.
Tingono le fasciature di nero. Quel nero che assorbe laradiazionedellaluceperchéèscienz
-
Alphy. Riapro gli occhi per lui che è il primo pensiero
non-sconnesso che riesco ad afferrare.
Non
lo so che cosa provo nel vederlo steso a terra. Per un
po’ non provo
niente, e basta. Per un po’ non sono disposta a credere che
stia succedendo
davvero.
Un uomo alto, vestito di nero, ha una mano stretta attorno al
suo
collo, e con l’altra sfila un aggeggio dalla forma allungata
dalla giacca. Mi
sembra di guardarli da un luogo estremamente lontano, dove posso
concentrarmi sui particolari senza fare rumore: le labbra di Alphy che
diventano blu, i capillari che scoppiano, iniettandogli
le
orbite di sangue, il coltello appeso alla cintura
dell’uomo.
L'arma mi
riaccende.
Il primo impulso mi suggerisce di chiedere aiuto. Quando provo a
parlare tossisco rosso e sono costretta a rinunciare. Prendo in
considerazione
l’idea di scappare mentre l’uomo è
ancora occupato a strangolare Alphy, ma
tutto quello a cui riesco a pensare è "Lilith".
Lilith che viene portata via, e
Io che
non riesco a salvarla e Io
che scappo
senza di Lei e Lei che mi guarda come se se lo aspettasse. Come se
fosse
scontato, per me, abbandonare le persone quando ho paura.
Mi alzo in piedi e mi pulisco il fango dalla faccia.
Non
abbandonerò
Alphy.
Mi sto muovendo prima ancora di averlo deciso, lanciandomi
sull’aggressore con tutta la forza di cui sono capace. Gli
stringo le braccia
attorno al collo come ho visto fare in qualche centinaio di film, e
tiro. Delle
volte i cliché sono
tutto ciò che ti
resta.
- Lascialo andare!
L’uomo non sembra notarmi, così appesa sulla sua
schiena. I miei
sessanta chili non sono una garanzia.
Affondo le unghie nella stoffa della sua giacca per tenermi.
Quest’uomo deve essere strafatto, o non mi spiegherei tanta
resistenza. Eroina, metanfetamina? I cristalli sono diventati il
business più produttivo dall'ex-New Messico al
Nebraska.
Ruggisco di frustrazione e faccio la prima cosa che mi passa per la
testa. Affondo i
denti nella sua spalla, serrando la mascella come un animale, ed
è come mordere un
pezzo di carne
congelata, o ricevere un pugno dritto in bocca.
La pelle dell’uomo è dura, resistente, e si lacera
solo quando rischio
di slogarmi la mandibola. Un’esplosione di liquido salato mi
provoca conati di vomito.
L’uomo, però, mugugna per il fastidio e lascia la
presa.
Alphy emette un suono
spaventoso, come un
risucchio, e il suo petto torna a rialzarsi. L’aggressore
mi scrolla via e con uno schiaffo mi spinge tra due
braccia magre.
La testa mi pulsa incessantemente. Non riesco a vederla, ma sento
l’alito fresco di una donna sull’orecchio. Una
complice. Siamo due contro due, adesso.
Alphy striscia per raggiungermi, con le unghie che graffiano
l’asfalto
umido. Sta pregando l’uomo con voce lamentosa e impastata, ma
ha la faccia così
gonfia che non riesce a parlare.
- Che cosa volete da noi? Non
abbiamo
denaro, né oggetti di valore.
La donna mi schiaccia un piede
con il tacco
del suo stivale, così appuntito da perforare
le sneakers. Sono scarpe
troppo costose per poter essere indossate dal membro di una gang di
strada.
- Sareste dovuti rimanere due anonimi
ragazzini annoiati, - sospira, - Scommetto che non era difficile vivere
la vostra
insulsa
vita da parassiti senza dare troppo nell'occhio.
La donna ha un
accento strano, tutto suoni duri e gutturali.
- Invece adesso ci tocca piantarvi due
rudimentali coltelli da cucina in gola.
Arrabbiata.
Realizzo
che sono
così furiosa che il
panico non trova spazio, questa
volta. Sono così piena d’ira che potrei scoppiare.
Prima l'attentato, adesso
questo.
Sono stufa della sfortuna sempre sopra la mia testa, della follia nella
quale mi sono persa, dell’uomo che riempie Alphy di calci.
Smetto di
combattere contro la presa della donna e mi giro a guardarla. Le
sputo
il sangue sul viso.
E funziona.
Mi scaraventa a
terra, puntandomi un coltello al centro della fronte. Adesso riesco a
vederla dritta
in faccia.
- Piccola bestiolina feroce!
La donna si pulisce la guancia come se fosse
contaminata. Le provo tutte per levarmela di dosso, senza risultato. Ho
sempre
pensato che i maniaci si riconoscessero dall'esaltazione febbrile negli
occhi, ma lei mi squadra
con assoluta professionalità. Ha un aspetto
strano, androgino. Se i lunghi
capelli biondi non le ricadessero sulle spalle, non sarei capace di
definirne
il sesso. L’uomo si concentra su di noi, e mi accorgo che la
somiglianza tra di
loro è inquietante. Sono fratelli.
- Avete preso le persone sbagliate!
L’uomo ride di gusto, ma sua sorella non
sembra altrettanto divertita. Fa scorrere la lama lungo la linea del
mio naso,
senza fare pressione. Il sudore che mi appiccica i vestiti al corpo
è gelido.
- Tu e Lei siete
talmente diverse che non c'era alcun rischio di commettere errori.
Adesso da
brava, lasciami lavorare. Quest’arma volgare è una
seccatura sufficiente.
Lei?
Lei chi?
Che stia parlando
di -
- Velocità di
ripresa del moccioso? – chiede, rivolta al fratello.
L’uomo arriccia
il naso per il disgusto.
- Nulla.
- Capacità di reazione?
Una risata
sarcastica.
- Facciamola
finita, allora. Uccidi anche lui.
Nello stesso istante in cui la donna
alza il coltello sopra la
mia testa, l’uomo estrae il suo e fa per calarlo su Alphy. Il
tragitto della
lama segue una linea particolare, armonica. Come una parabola dalla
curva
accentuata.
Lilith lo diceva degli aeroplanini di
carta che cercavamo di far
volare da piccole. I suoi volavano sempre più in alto,
sempre più a lungo, piroette su piroette.
Respiro piano.
Per lei era tutta una questione di coordinate e di accelerazione
verticale, per me di vento tra le ali.
Ma i suoi volavano
più in
alto.
Chiudo gli occhi e aspetto che sia finita, senza sapere perché
stia finendo davvero.
C'è un sibilo acuto.
Poi un colpo secco.
Il rumore
della carne che frigge.
Li riapro.
***
La
donna è in ginocchio e un ago sottile le
spunta dalla coscia destra. Trattiene a stento le imprecazioni mentre
prova a
portare a termine il lavoro nonostante tutto. La sua testa scatta in
spasmi
incontrollati e un lampo di delusione la fa fremere. Si accorge che la
mano che
muove non è quella che stringe il coltello, e ne sembra
sorpresa.
Ci guardiamo.
Io alzo il pugno per spaccarle la faccia, la testa, tutto. Alla fine
però apro le dita e le
richiudo
attorno al manico del coltello, scandendo un’unica parola con
solennità.
- Fottiti.
Balzo
in piedi per salvare Alphy e chiamo il suo nome.
L’arma
è pesante.
Pesantissima.
L’uomo lascia andare Alphy e si butta sulla
sorella per farle da scudo, senza preoccuparsi di
me. È un gesto strano, mi
lascia interdetta. Che succede?
Perché sta per succedere
qualcosa, o non ci
starebbero fissando tutti
con il fiato sospeso.
Me ne accorgo solo adesso,
quasi per istinto.
Tutti. Ogni
singola persona nascosta nell’ombra delle case disabitate,
dove prima
non
l'avevo notata.
Abbasso lo sguardo sulla miriade di puntini rossi che spiccano sul mio
corpo e vedo ciò che cercano le sagome nel buio. Un
bersaglio.
- O mio Dio, - soffio.
Intorno a noi scoppia il finimondo.
***
Due furgoni sfondano il recinto
abbandonato
e piombano in strada. Dalle finestra partono colpi di pistola a
silenziatore,
come fischi metallici. Colgo il bagliore dei proiettili sulla strada e
corro
alla cieca fino a quando non trovo Alphy.
Respira.
Rido istericamente nell’incavo del suo collo
insanguinato, e senza una precisa ragione penso al formaggio svizzero
pieno di
buchi. Rido
di quanto tutto questo sia grottesco. Grottesco, sì.
Potremmo finire come il
formaggio.
Ho una crisi di nervi che è l’ultimo dei
miei problemi in questo momento.
Alphy ha un taglio sul fianco, ed è pallido
come il sudario di un morto.
Delle figure sfrecciano al centro della via.
Potrebbero esserci decine di persone, qui.
- Qualcuno ci aiuti! – grido.
Non lascio
andare il coltello.
I proiettili sfondano i vetri delle case, ma
rimbalzano contro la carrozzeria dei furgoni. Mi dico che forse
possiamo
sopravvivere e vedere un’altra alba. Mi convinco che posso
trascinare Alphy e
chiamare la polizia.
Uno sparo mi sfreccia a pochi centimetri
dall’orecchio, poi vicino alla spalla.
Un piccolo disco autocomandato si alza dal
tettuccio di un furgone e vola sopra di noi. Ci disegna un cerchio
intorno,
chiudendoci in un cono di fumo.
Perdo di vista Alphy quando degli uomini mi caricano di peso, senza che
possa dire o fare qualunque cosa.
Uno di loro mi scaraventa
nel furgone più vicino e preme il suo corpo contro il mio
per tenermi ferma.
Cerco di piantargli il coltello nella schiena, ma riesce a disarmarmi
in un
secondo.
Il cappuccio gli scivola dalla testa e per poco non rimango
senza
fiato.
Un ragazzo dalle iridi come fili d’erba mi
soffia via i capelli dalla faccia.
- È così che ringrazi il principe che
è
venuto a salvarti?
Gli infilo il dito medio nell’occhio.
Il principe che è venuto a salvarmi mi mette
le manette e mi chiude un casco sofisticato intorno alla testa per
tapparmi
occhi e bocca.
- Homo sapiens, - sbuffa, - che razza di
animale.
1. Il riferimento
è ad "Animal Farm" di George Orwell.
Angolo delle ciance: capitolo
più corto, ma più movimentato. Il titolo in
principio era "Il moto
parabolico di un coltello che cala", in analogia a quello
compiuto dagli areoplanini di carta, but
quelli bravi in fisica mi avrebbero linciato, quindi l'ho cambiato. Ho
specificato quando la concavità di tale luogo geometrico
è rivolta verso il basso (come vedete nella figura),
perché il coltello che cala disegna una parabola del genere.
Also, finalmente entra in scena questo
importantissimissimo personaggio. Le parole che lo introducono saranno
essenziali per la sua caratterizzazione!
Ringrazio di cuore chiunque abbia letto questa storia, e mando un bacio
alle 52 persone che mi hanno inserito tra gli autori preferiti: siete
tanto belle <3
Ania, Charly, Chimera: grazie!
|
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Capitolo 6 *** L'epinefrina liberata dalla scoperta dell'attentatore ***
Entropy - Capitolo 5
Epinefrina: anche
conosciuta come adrenalina; si tratta di un neurotrasmettitore
coinvolto nelle reazioni di "fight or flight", "combatti o scappa".
I suoi effetti sono riscontrabili nei momenti di intensa
attività fisica, soprattutto in caso di scontro violento o
di
fuga.
CAPITOLO
5.
Tiro
una spallata contro la portiera del furgone.
Quanti traumi
deve superare il mio corpo prima di sviluppare una resistenza
sufficiente al
dolore? Continuo a sperare che succeda. Mi ripeto che la prossima
spinta
non farà così male, che posso sopportarla, ma
più provo a liberarmi,
più i colpi mi tolgono il respiro.
Il viaggio non finisce mai. Scalcio, tormentando i cilindri cavi delle
manette fino a quando l'agitazione febbrile che mi tiene vigile
non comincia a cedere alla stanchezza. Quando la rassegnazione prende
il
sopravvento, mi abbandono contro
il sedile e reclino la testa all’indietro.
All'inizio nessuno dei miei sequestratori dice una parola. Regna un
silenzio da
far accapponare la pelle, qui dentro.
Il sangue raggrumato mi fa prudere le labbra, ma il
casco mi impedisce di grattarmi la faccia, così penso fitto
per distrarmi, passare
il tempo, tenere a bada il panico. Rievoco quello che è
successo e scrivo
centinaia di possibili trame su quello che sta per accadere: provo a
immaginare che cosa mi faranno, perché
mi hanno aggredita e dove mi stanno portando.
Chi sono? Chi è il ragazzo dagli occhi verdi
che mi ha sollevato di
peso e chiuso nel furgone? A lui non
riesco a smettere di pensare. È seduto al mio fianco - con
la chiave delle
manette nascosta nelle tasche, probabilmente -, ma faccio attenzione a
non toccarlo.
- Qualcuno è a corto di C9H13NO3,
mi pare.
La sua è la prima voce che sento dopo ore intere di viaggio.
Non capisco
di cosa stia parlando, comunque. Le ferite sulle braccia strepitano,
coprendo la sua risata sprezzante per un po’. È
controllata: né
eccessiva, né forzata, come se si fosse esercitato a lungo
per
migliorarla.
- Epinefrina, se te lo stai
chiedendo, - aggiunge, - sebbene ne dubiti fortemente.
Parla con me? Dal momento in cui non posso rispondere, né ho
la minima
idea del significato delle sue parole, rimango zitta e ascolto. Non so
se a
sconvolgermi di più sia il suo tono scocciato o il fatto
che non possa avere più di diciotto anni. Un criminale precoce, il
ragazzo.
- Adrenalina, - sbotta, - ti suggerisce niente?
Lo ignoro. Fa strani discorsi per essere un rapitore.
Mi volto verso il finestrino per non dargliela vinta, nonostante il
casco mi
impedisca di vedere quello che c’è fuori. Lui
sospira con freddezza. Dopo il
nostro breve scambio – a dire il vero il ragazzo ha fatto
tutto da solo – il
tempo scorre con una lentezza ostinata. Mi rassegno a uno stato di
torpore che
rifiuta perfino la paura: ho le gambe rigide, pesanti, tradite dalla
circolazione, e i polsi gonfi che premono contro le manette.
Di tanto in tanto il ragazzo discute con i sequestratori seduti sui
sedili anteriori, ma non fa che confondermi le idee, quindi smetto di
farci caso. Almeno fino a quando non bisbiglia un ordine secco.
- Porta la velocità a 230 chilometri orari, sono stufo di
stare qui
dentro.
Istintivamente mi allontano dallo sportello del furgone. 230 cosa? Pensavo
fossimo su un’autovettura qualunque, non su un treno
superveloce. Se fosse vero e la portiera si aprisse per errore,
precipiterei
fuori e... Scaccio l'immagine per non vomitare.
Drizzo le orecchie: forse il casco attutisce i rumori, ma non
c’è alcun
suono che tradisca lo sfrecciare del furgone. Mi convinco di aver
capito male:
nessuna strada consente di marciare a una velocità del
genere, comunque.
- Jian dice che il ragazzo ha bisogno di cure. Sbrigatevi.
Alphy.
Il
migliore amico di mia sorella, da qualche parte in un altro furgone,
è in
pericolo di vita. Provo a sbirciare sotto la visiera del casco per
capire dove
siamo diretti, ma non c'è verso di riuscirci.
Mi viene un’idea.
Mi piego in avanti con il petto sulle ginocchia, e tossisco forte. Ho
la
bocca incollata dal casco e solo il naso libero, ma questo è
un punto a mio
vantaggio: dal rantolo che produce la mia gola sembra che stia per
soffocare.
Uno degli uomini sul sedile anteriore pare allarmato.
- C’è qualcosa che non va. Apra il casco fin sotto
gli occhi, per favore.
No, toglietemelo tutto,
toglietemi questa roba di dosso.
Il rifiuto del ragazzo è categorico.
- Sta solo bluffando. Il casco viene continuamente rifornito
d’ossigeno,
non c’è niente che possa andare storto.
Simulo un tremito e cerco di avvicinarmi le mani al collo. Nelle recite
scolastiche mi relegavano sempre sullo sfondo. Non sono mai stata una
brava attrice.
- Seymour ci ha dato delle precise direttive!
Colgo un movimento: l’uomo si stende oltre il
sedile e mi sfiora il retro della nuca con due dita, disegnando
qualcosa di
imprecisato sul casco. La visiera si alza di scatto, fino a
metà del naso.
Prendo un respiro profondo. Cominciavo a sentirmi in trappola.
- Stai bene, ragazzina?
- No, devo andare in bagno.
Lascio ricadere le braccia, delusa. Sono ancora cieca.
- Devo andare in bagno e voglio sapere che diavolo sta succedendo e che
ne è stato di Alphy.
Mi faranno del male per il brutto scherzo che gli ho tirato? Se
avessero voluto uccidermi avrebbero lasciato che quella donna mi
tagliasse
la gola, giusto?
- Posso chiudere il casco, adesso che avete avuto prova della
vostra stupidità?
- Comincia con il chiudere quella
maledetta bocca.
Lo bisbiglio a voce così bassa che io
stessa faccio fatica a sentirmi parlare, eppure una
canna cilindrica e fredda
mi preme sulle labbra prima ancora che abbia finito la frase,
mandandomi un
brivido lungo la schiena. C’è lo scocco appena
percettibile di una sicura che
viene rimossa. Sembra quella di una pistola.
- Fossi in te, rimarrei a cuccia.
Il respiro del ragazzo è sulla
mia guancia, a pizzicarmi la pelle. Gli altri sequestratori non osano
fiatare: il ragazzo è un pezzo grosso, molto più
grosso
di loro.
Mi costringo ad ubbidire. Accetto di rimanere in silenzio,
a patto che il casco resti semi-alzato.
Dopo un po’ il guidatore annuncia che
siamo quasi arrivati e il furgone prosegue su una lunga salita; quando
si ferma del tutto il ragazzo si tende sopra di me per aprire il
finestrino e cacciare fuori un braccio. Rimango
perfettamente immobile.
- Accesso consentito. Bentornato, Signor Reichenbach.
Il pavimento sotto le ruote si alza. Su, sempre più su, per
secondi
interminabili. Che posto è questo?
Per quanto la preghi di continuare a
muoversi, di non consegnarmi a quello che mi aspetta senza reagire, la
pedana
si ferma.
- Datele da bere, medicatela e fatele
trovare un bagno, ma non azzardatevi a toglierle il casco
nei corridoi.
Il tono del ragazzo non ammette discussioni.
- Seymour riceverà la creaturina tra un’ora
esatta: è una vostra
responsabilità, adesso.
Un passo leggero si allontana dal furgone, ma non riesco a distinguere
la
direzione verso cui si dirige. Due persone mi alzano dal sedile e mi
guidano
nel buio senza commentare: nessuno di loro è il ragazzo
dagli occhi verdi. Non
riesco a spiegarmi come sia possibile, ma so che riconoscerei il suo
tocco tra mille.
Reichenbach.
Il principe.
Se non mi uccidono prima, farò bene a ricordarmi il suo
sguardo di giada,
la pressione delle sue mani, il modo in cui tiene il mento leggermente
alzato in una posa fiera.
La prossima volta terrò più stretto quel
coltello.
***
La
prima cosa che vedo quando mi tolgono il casco è una fila di
alte vetrate sulla parete di un vecchio salotto. I
miei occhi, finora costretti al buio, rifuggono i raggi del sole che
rinasce:
combatto per tenere alzate le palpebre, e dopo un po’ riesco
ad
aprirle del tutto. La luce inonda la stanza di un colore acceso, rosso
vivo.
L’alba. La rincorsa della mattina sulle
ore della notte, la conquista di un altro giorno. Credevo che
non l'avrei più rivista, e invece mi ritrovo a sorridere
impercettibilmente. Sono qui, e respiro ancora.
- Sybil?
E anche lui respira. Così debolmente che non mi ero
accorta della sua presenza, ma respira. Mi
precipito da Alphy, lasciandomi cadere in ginocchio vicino al divano su
cui è
steso: le sue mani sottili e un po' sudaticce sono incrociate sopra il
ventre; una
camicia pulita, ben lontana dal ricordare la sua t-shirt, gli avvolge
il busto smilzo e spigoloso, lasciando intravedere le macchie
bluastre dei lividi sul petto.
- Pensavo che non fossimo arrivati in tempo per
salvarti. Dio, credevo che fossi morto!
Ammicca al fianco fasciato e mugugna che sta bene, che
non devo preoccuparmi. Vorrei riuscirci, ma mi sento in debito con lui:
è come
se ne fossi responsabile. Alphy porta il lutto per la scomparsa di
Lilith
quando non ce la faccio, e io in cambio lo proteggo. Solo questo,
nient’altro. Esiste una specie di patto tra noi due.
- La donna che me l'ha medicato ha detto che era un
taglio poco profondo.
Mi guardo intorno per assicurarmi che siamo soli:
gli uomini che mi hanno condotta fin qui se ne sono andati. Mi alzo le
maniche della felpa fin sopra i gomiti
per scoprire le fasciature e sapere che cosa ne pensa; dalle
braccia passo
alle ginocchia e al viso, dove la guancia destra si è
sgonfiata.
Alphy ha
perso gli occhiali, e per osservarmi deve avvicinarsi fin quasi a
toccarmi con il naso.
- Qualcuno ha medicato anche me, - annuisco, - ma non sono
riuscito a vederlo in faccia.
Lui non sembra sorpreso che gli abbiano risparmiato il
casco, visto che è praticamente cieco. Mi chiede di
descrivergli il salotto, e
all’inizio non so come iniziare. Non sono mai stata gli occhi
di qualcun altro:
richiede una fiducia che nessuno si è mai preso il rischio
di darmi.
Gli parlo della stanza circolare come la descriverei se stessi
scrivendo
un libro, partendo da lontano: le vetrate sconfinate, le teche di
cristallo
lungo i muri, piene di strumenti dall’aria costosa e antica;
solo
in un secondo momento mi avvicino,
mettendo a fuoco i particolari: il divano sulla quale siamo poggiati,
con le
zampe di leone che poggiano sul pavimento di marmo, e una singolare
scrivania al centro della stanza.
- Ha una forma strana, come una mezzaluna dalla
superficie liscia.
La maggior parte delle famiglie dalle nostre parti non
riesce ad arrivare a fine mese, figuriamoci a mantenere un posto del
genere.
Sento il portafoglio piangere non appena poso lo sguardo da qualche a
parte.
Ma non è detto che mi trovi ancora nei dintorni della mia
città, visto che il viaggio è durato fino
all’alba. Chissà dove siamo.
- Dove siamo capitati, Alphy?
Ho bisogno di una risposta più di quanto
non abbia bisogno di dormire e recuperare le energie. Una
singola certezza, una sola; è tutto quello che mi serve.
Lui però scuote la testa e si abbandona di nuovo sul divano.
Chiude gli
occhi dalle ciglia lunghissime.
Lilith lo ha mai visto
dormire?
- Non riesco a credere che tutto questo stia succedendo, –
sussurro, più a me stessa che a lui. Mi alzo per lasciarlo
riposare e giro il
salotto in lungo e in largo. Mi fermo su una teca
contenente un cannocchiale che ruota, posto su una pedana circolare.
Due “G”
sono incise sull’anello più
stretto dello strumento.
- C’è una sola spiegazione: siamo stati presi di
mira dalla Mafia.
Una risata. Ma non è quella di Alphy.
Entrambi ci voltiamo di scatto verso la porta di legno
intarsiato. Dove prima non c’era nessuno un giovane uomo si
piega in un
leggero inchino. Ogni centimetro del mio corpo si elettrizza alla
sua vista. Serro i pugni ben stretti per essere pronta ad attaccare, ma
lui alza le mani in
segno di pace. Raggiunge la scrivania a falce, invitandomi a prendere
posto
vicino ad Alphy.
Non smetto di tenerlo d’occhio.
- Qualcuno aveva puntato tutto sul fatto che mi
avreste aggredito non appena avessi messo piede qui dentro, - sorride.
Le sue
guance arrossiscono come quelle di un bambino imbarazzato.
- Sono felice di aver vinto questa scommessa.
Sei ancora in tempo per perderla, penso, ma a che
scopo? Saltargli addosso sarebbe un tentativo troppo avventato perfino
per me.
- Per farci sparare un colpo in testa?
L’uomo ha l’aria sconsolata, come se si sentisse
terribilmente in colpa. Non so che cosa mi aspettassi dai miei
sequestratori,
ma di certo non questo.
Provo a mantenere allerta il buon senso e ad avere paura
di lui, ma c’è qualcosa nel modo in cui si muove
che lo rende impossibile.
- No, grazie, abbiamo visto abbastanza proiettili per
una vita intera.
Per poco ad Alphy non prende un colpo. Lo rassicuro con una buona dose
di fatalismo. Potrebbero ucciderci in qualunque momento, se volessero;
tanto
vale scoprire perché.
- Non vi farei mai del male, - dice l’uomo, e il suo tono
è serio, - mai.
Quello che è successo
ieri sera è stato un errore irreparabile.
Quando rapiscono tua sorella c’è ancora la
possibilità che di errore si possa parlare, ma
quando fanno
per pronunciare il suo nome puntandoti un coltello alla gola,
non
c’è alcuna coincidenza che regga.
- Dov’è Lilith?
Alphy non perde tempo. Si muove piano, come se dovesse
ridursi in polvere da un momento all’altro, tirandosi su con
le
braccia. Niente
gli impedisce di chiedere di lei, anche se sarebbe stato più
logico pretendere delle spiegazioni riguardo l'aggressione. Aveva
centinaia di domande a disposizione, e ne ha scelta una sola.
L’uomo - deve essere Seymour - abbassa lo sguardo. Sfiora
le venature del legno con un dito e la superficie della scrivania
scivola via,
lasciando spazio a uno schermo illuminato. Una specie di proiezione
dalle
numerose interfacce si accende.
È...incredibile,
e viene voglia di toccarla. Dicevano che il progresso tecnologico si
fosse spezzato
come tutto il resto, tre
anni fa. Forse con il denaro si può aggiustare ogni cosa.
Seymour accarezza la proiezione, sfogliando i documenti
come pagine di un manuale di carta.
- Lilith Crowford, quasi diciassette anni. Sua
sorella, non è vero?
Il suo nome mi provoca una fitta acuta al petto.
Annuisco. Avevamo ragione a pensare che fosse tutto collegato.
- Lei sa che cosa le è accaduto, non è vero?
- Datemi del tu, per favore. Lo fanno tutti, anche chi
non dovrebbe. Il mio nome è Xanders Seymour, piacere di
conoscervi.
Ho la sensazione che non ci sia alcun bisogno di
presentarsi, quindi non ricambio la cortesia. Seymour fa di tutto per
metterci a nostro agio, ma i suoi modi educati non fanno che
confondermi.
- Che cosa le avete fatto?
Un sospiro. Xanders è dispiaciuto, ma non sembra
preoccuparsi di quello che potrebbe scatenare il rapimento di due
sedicenni; o
meglio, tre.
Le ricerche saranno cominciate da un pezzo e la USD potrebbe
già
essere sulle nostre tracce. Spero.
- Immagino che mentirvi a questo punto sia del tutto
inutile. So che cosa ne è stato di Lilith, - dice.
Ma c’è un ma, naturalmente.
- Ma non
ne sono responsabile, come non lo sono le
persone che rappresento in questo momento.
Fa una pausa in cui cerco di capire se stia scherzando
o no. Se sono sveglia o no. Se posso fidarmi di quello che sentono le
mie
orecchie oppure no.
Una parte di me viene attratta dalla verità come se fosse il
centro stesso della Terra, e vuole disperatamente crederci, per avere
la conferma che avevo
ragione sull'esistenza di quegli uomini dalle tute bianche.
L’altra rifiuta di accettare una realtà tanto
assurda.
- Mi sta confermando che mia sorella è viva?
- Certo.
- Che è stata rapita?
- Sì, e che l’attentato alla scuola che
frequentavate era solo un pretesto per portarla via.
Qualsiasi cosa Xanders abbia aggiunto, io non la
capisco. Per un po’ le parole mi scivolano di dosso come
acqua corrente,
altrettanto, gelide, sfuggenti. Poi però mi sommergono fino
a quando non riesco più a
risalire in superficie, e affogo, affogo, affogo in quello che Seymour
continua a ripetere.
- Sono morte quarantuno persone, - boccheggio, e quel
numero suona proibito.
- Chi rischierebbe tutto questo per sequestrare una ragazza?
- Qualcuno disposto a inscenare una rapina finita male solo per
togliervi di mezzo, perché sapete troppo.
Al solo ricordo mi viene la pelle d'oca.
- Voglio dire, perché sconvolgere quello che è
rimasto del Mondo per una persona
qualunque?
Gli occhi di Xanders, di un azzurro senza macchie,
tradiscono un guizzo.
- Non una persona qualunque.
- Sybil, immagino che se ne sia accorta da tempo, ormai. Lilith
è speciale.
Ovviamente.
È quello che mi ripetono da sempre.
Brillante, di un’intelligenza duttile e superiore; prestante,
gentile, geniale.
Lilith ha i riflettori di tutti puntati addosso fin dal giorno in cui
è nata.
Ma questo che vuol dire?
- Si spieghi meglio.
- Commetterei un crimine se lo facessi.
Gli mostro i palmi graffiati delle mani.
- Scusi? – sbotto, - Non è stato un crimine
l’averci
quasi ucciso ieri sera, l’averci portati qui?
Non sembra che se ne curi troppo, dopotutto.
Il suo viso giovane, coperto da un accenno di barba
rossiccia, si contrae per il dispiacere.
- Vi ho portati qui per proteggervi dalle persone
che hanno preso tua sorella, Sybil, e me ne assumo le conseguenze. Ma
né io, né i miei affiliati abbiamo infranto la
legge.
"Affiliazione" non è un termine che sento dire
tutti i giorni.
- Chi siete voi,
esattamente?
Mano a mano che il sole si alza la scrivania, come
una mezzaluna, riduce il proprio bagliore.
Vengo colpita
dall’indecisione
nell’espressione di Xanders, come se avesse paura di
rivelarci troppo.
Questo
potrebbe significare che non ha intenzione di farci fuori, a patto di
tenerci all’oscuro di
qualcosa.
Xanders ci riflette su. Nel frattempo una bambina dai capelli
cortissimi ci porta tre tazze di cioccolata speziata nel
salotto.
- Non avevo chiesto di te, Leslie.
La bambina ci guarda come se fossimo il giocattolo più
strambo che abbia mai visto e ridacchia di continuo.
- Ciaaaaaao!
Fa parte di un'organizzazione criminale anche
lei?
- Ciao, - rispondo, e Leslie sembra proprio soddisfatta. Almeno fino a
quando Xanders non la caccia dal salotto.
Lo stomaco mi brontola, e sono troppo affamata per pensare che la
bevanda calda potrebbe essere avvelenata. Mando giù un
sorso,
assaporandone il retrogusto esotico. Cannella, pepe nero, zafferano e
qualcos'altro che non riesco a riconoscere:
è deliziosa.
- Dicevamo, lei è della Mafia? Sa, per le armi da fuoco, le
auto blindate, e tutta questa roba costosa.
- No, certo che no! Mettiamola in questo modo: faccio parte di una
grande società
di uomini a cui sta a cuore il futuro del Pianeta. Una famiglia che ha
bisogno
di persone capaci, qualcuno come Lilith.
- Scopritori di talenti?
- Qualcosa del genere. Solitamente facciamo in modo
che questi talenti nascano nelle nostre cerchie, in modo da poterli
preservare
senza dover affrontare la USD e il codice della Rottura. Sapete che le
organizzazioni private sono state sciolte con la forza, non
è vero?
- A parte quelle criminali, - dice Alphy. Ha l’aria
attenta, concentrata; si slaccia e riallaccia i polsini della camicia
in continuazione.
- Noi non facciamo niente di sbagliato, Signor
Fleming. Utilizziamo le nostre abilità a favore del
progresso,
ecco tutto. Investiamo nelle nuove tecnologie e nella ricerca quasi
tutto il denaro di cui disponiamo.
Sposta lo sguardo da me ad Alphy.
- Un momento, - dice lui, - come fate a selezionare le persone
speciali fin dalla nascita?
- Sì, - gli faccio eco, - come fate?
A dire il vero non so che cosa stia insinuando, ma sembra
essere una questione importante. Xanders non si aspettava di avere a
che fare con qualcuno di sveglio, a quanto pare. Si massaggia le tempie
e
prende un respiro profondo.
- Genetica.
Oh, è complicato; è la faccenda più
complicata che possiate immaginare. E non avrei dovuto dirvelo.
Non ci lascia prendere la parola.
- Le cose stanno così: sua sorella era troppo preziosa per
poterne sprecare le doti, - si affretta a spiegare.
Tossisco fino alle lacrime. Alphy mi
batte la schiena con una mano, lamentandosi per il dolore agli arti.
Siamo un
duo ridicolo.
- Lilith è stata rapita perché troppo
intelligente?
Vengo investita da migliaia di moventi orribili per cui potrebbero
averla
sequestrata. Non voglio che le facciano del male senza prima
essermi scusata per aver rotto il suo sismografo.
- Vogliono sezionarle il cervello?
Alphy mi guarda storto. Sul
serio?
- No, ma credono di avere il diritto di sfruttarne il potenziale.
Mi sporgo in avanti, sul bordo del
divano.
Chi può vantare il diritto di strappare Lilith alla sua
famiglia? Tutto
questo non ha alcun senso. E in ogni caso rimane l'incognita
dell'attentato: non bastava rapirla per strada, e farla sparire nel
nulla?
Xanders coglie il restio sul mio viso e si
schiarisce la gola.
- Come reagireste se vi confidassi che
c’è qualcosa nel DNA di Lilith, che la
rende più simile a me
che alla sua
stessa famiglia?
Come reagirei, vuol sapere.
Io -
Non -
DNA, cioè -
Faccio per posare la tazza vuota sul vassoio. Le dita mi tremano forte,
e
non le sento più mie. La tazza cade e si rompe in cocci
appiccicosi.
Xanders mi rassicura che manderà
qualcuno a pulire.
Mi chino lo stesso e comincio a raccoglierli.
- Sybil, so che è difficile da credere, - azzarda, ma un
pezzo aguzzo di
porcellana è finito sotto il divano e non ci arrivo e per
prenderlo devo abbassarmi.
C'è una bella macchia, qua sotto.
- Quattordici anni fa scoprimmo che tua sorella era un vero e proprio
miracolo, e
ne fummo colti alla sprovvista. Il suo fenotipo era
infinitamente
superiore a quello di un comune essere umano, e non riuscimmo a
spiegarcelo:
da sempre controlliamo che la nostra specie prosegua
secondo discendenze
monitorate, così da non perderne nessuno. Nessun bambino.
Il coccio è per metà sotto la scarpa slacciata di
Alphy. Mi piego sulle
ginocchia e gli spingo il piede. Lui non accenna a muoversi. Gli tiro i
lacci
delle scarpe e lui è immobile come pietra grezza e io
comincio a perdere la
pazienza. Come faccio a ripulire tutto se manca quel pezzo e Alphy non
si
sposta?
- E poi arriva Lilith, spuntando dal nulla. Una gemella eterozigote con
il
genotipo parzialmente diverso da quello della sorella e con due
genitori privi del suo potenziale allelico. I rischi che
qualcuno lo scoprisse
erano una
minaccia troppo grande per poter essere affrontata, e fummo costretti a
votare
sul da farsi. La maggioranza scelse di farle vivere la propria vita
senza
obbligarla nelle proprie scelte, ma tutti gli altri lo presero come un
affronto. Noi decidemmo di lasciarla libera, all’oscuro di
tutto,
e di non reclamarla mai. A quanto pare, però, qualcun altro
non era disposto a mantenere la promessa.
- Sposta il piede, - dico.
Basta un centimetro.
Alphy non mi considera affatto.
- Alphy, sposta il piede.
- Lei sta dicendo che Lilith non è figlia dei Crowford? -
chiede lui.
La porcellana mi apre il polpastrello da parte a parte, in superficie.
Il
taglio non è profondo, e sembra sbagliato che esca
così
tanto sangue a sporcare il pavimento. Sbagliato, è tutto
molto
sbagliato. Mi rialzo piano, con il coccio tra le dita, e
guardo Xanders: lo fisso in silenzio, perché sembra un
sogno,
questo. E nei
sogni, per quanto ti sforzi di parlare, la voce si perde sempre.
- Sì, - annuisce, - lo è. Generata per mezzo di
una
fecondazione assistita. Ed è questo il punto.
Fenotipo, genotipo, potenziale allelico. Specie.
Copro la voce di Alphy, ma non lo faccio apposta. Me ne accorgo a
stento.
- "La nostra specie", ha
detto. La vostra specie di scopritori di talenti? Di criminali, di
cantastorie?
Quale delle tre? O tutte insieme?
Lui mi guarda con infinita tenerezza. Povera piccola, povera stupida.
Proprio non ci arriva.
- La nostra specie, - dice solo, e io non capisco che cosa
c’entri quella
cosa in tutta questa storia. La genetica.
Prendo Alphy per un braccio e lo costringo ad alzarsi: si lascia tirare
come una bambola di pezza.
- Andiamo via, torniamo a casa. Vieni, Alphy.
Ma non so dove siamo, non so come raggiungere casa mia. E non mi
lasceranno uscire di qui.
Mi artiglio alla manica della sua camicia e giro sui tacchi.
- Andiamo via, - ripeto lo stesso.
- Ranulph, giusto? Sei un ragazzo intelligente, sai di che cosa sto
parlando?
- Eugenetica, - balbetta lui, - ed è contro qualunque
principio etico-morale.
Paroloni su paroloni su
paroloni su paroloni.
- Dimentica per sempre quel termine. È più di
questo, è Evoluzione. Le persone come Lilith non
sono speciali per caso, ma per un fattore scientifico e tangibile e...
Xanders fa il giro della scrivania e
gli prende le spalle. Sorride proprio come un poppante. A quel punto
Alphy si china verso di lui e sussurra.
- Lei è folle. Si faccia curare. Intanto noi andiamo dalla
polizia.
Mi segue verso la porta.
- Datemi qualche giorno! Mi occuperò personalmente di
rassicurare le
vostre famiglie, a patto che rimaniate qui e che mi diate
l’opportunità di
spiegare. Posso dimostrarvi che tutto questo è reale, e
posso riportare
indietro Lilith. A voi chiedo solo del tempo!
Gocce pesanti cadono dalla punta delle mie dita, scandendo i secondi.
Mancano pochi passi. Dieci, nove. Quanti prima che ci rimettano
le manette?
- Dovete solo avere fiducia!
Devo avere fiducia. Questo
è stato il mio credo per le ultime 52 settimane, ed ecco fin
dove mi ha portato.
- Come posso fidarmi di lei, dopo quello che è successo? La
sua combriccola ha rapito mia sorella!
- No, non la fazione a cui ho giurato fedeltà! La Rottura ha
cambiato
tutto: c’è stato uno spaccamento definitivo nella
nostra comunità, e molti di Noi hanno
deciso di agire per degli ideali discutibili. Sono gli stessi che
quattordici anni fa votarono contro la decisione di lasciar vivere la
propria vita a Lilith.
Troppe informazioni, tutte insieme. E io sono così stanca,
confusa, e il
dito mi pulsa senza sosta. Quando realizzo il significato delle parole
di
Xanders l’ultimo residuo di energia che mi tiene in piedi
rischia di spegnersi. Barcollo.
- Quindi non sa come riportarla indietro, - dico, e anche Alphy si
riscuote.
- Lei ci ha portati qui con la forza e ci ha raccontato tutto questo,
ma in verità
non c'è niente che possa fare. Se Lilith è in
mano ai
suoi nemici, o quello che è, - taglio corto il suo tentativo
di correggermi. Non mi interessa. So che cosa vuole dire: non sono dei
nemici, non proprio.
- Non può fare niente per lei.
- Sì che posso. Possiamo, è un dovere della mia
fazione. C’è solo bisogno
di tempo per chiarire la questione.
- La questione è semplice, - sbotta Alphy.
Improvvisamente i suoi
lineamenti si deformano in una maschera di rabbia che non gli si addice.
- Avete detto che secondo la vostra legge, nessuno avrebbe dovuto
torcerle
un solo capello, figuriamoci far saltare in aria quarantuno persone
innocenti. Tutto il Mondo ne parla. Non
potete, che ne so, sporgere denuncia?
Xanders si rassegna. Socchiude gli occhi limpidi e non trova
più il coraggio di guardarmi.
- Tutto quello che possiamo denunciare per ottenere un risultato
è l’aggressione ingiustificata ai
vostri danni, niente di più.
Che significa? E il rapimento, l’esplosione? Tutti quei
feretri calati nella
terra?
- L’unico motivo per cui i nostri oppositori
possono aver agito
in
maniera tanto drastica, è perché sapevano che la
legge,
per quanto dura, non li
avrebbe puniti. Sono sicuri che non ci siano prove tangibili per
dimostrare che da mesi comunicavano con Lilith, nonostante il divieto
che
era stato loro imposto. Posso solo immaginare cosa le abbiano inculcato
in testa.
- Ciò che gli mancava, - continua, - era un modo di portare
tua sorella dalla
loro parte, e
così è stata lei a trovarne uno. Di certo
sarà
questa la loro difesa. Ufficialmente loro l'hanno solo salvata da un
tentativo di...suicidio.
- Questa era l'unica parte del patto che ci
permetteva di reclamarla. Se Lilith è in pericolo di vita,
è nostro dovere proteggerla.
Alphy comincia a scuotere forte la testa. No, balbetta, no, no. Capisce
prima di
me, come sempre.
- Dica quello che deve dire una volta per tutte.
Xanders lo fa.
E io non dovrei piangere, perché è quello che ho
sempre voluto, non è
vero? Che Lilith fosse cattiva, per
riuscire ad odiarla senza sensi di colpa, né invidia,
né rimorsi. E allora da dove piovono
queste lacrime di vergogna?
- Abbiamo ragione di credere che in quanto minorenne,
e non perseguibile penalmente, sia stata Lilith a organizzare
l’attentato. Lei
ha fatto esplodere quella bomba, perché sapeva come
riuscirci. Era sicura che se avesse finto di volersi togliere la vita
qualcuno l'avrebbe portata al sicuro.
- Sybil,
l'ordigno che ha distrutto la scuola è stato costruito da
sua
sorella.
All’improvviso questa stanza diventa insopportabilmente
stretta. E
io non riesco a reggere più di quelle quarantuno famiglie
distrutte per sempre.
Raggiungo la porta troppo in fretta, e la spalanco con troppa violenza,
e spero
solo di trovare qualcuno, qui fuori, che mi dica che non è
vero. Che sono
davvero pazza, dopotutto.
E invece non riesco a fare due passi oltre la soglia
che lui mi
afferra la felpa per trattenermi. È sempre stato qui dietro,
a origliare. A spiare nel buco della serratura con quei suoi occhi
verdi. Gli
tiro uno schiaffo, ma blocca il mio gancio destro e mi inchioda contro
il muro.
Reichenbach.
Lo odio.
Lo odio come odio mia sorella.
E ho abbastanza epinefrina, adesso, da stringere il pezzo aguzzo di
porcellana e squarciargli il braccio che mi tiene ferma.
Lui mi disarma per la seconda volta in poche ore, ma non è
abbastanza rapido. Del sangue comincia a sgorgare dalla carne viva,
correndo giù per il polso.
Reichenbach si soffia una ciocca bionda dalla faccia,
furioso. All'inizio tutto in lui mi distrae, e quasi non me ne accorgo.
Quando
torno ad osservare la ferita -
l'ho fatta io sono stata io
sono capace di fare del male alle persone - il mio cuore
salta un
battito. Il taglio si rimargina come se a chiuderlo ci fosse una
cerniera. La pelle si ricuce, il sangue smette di uscirne fuori, e
mentre il mio polpastrello ancora piange rosso, la sua cicatrice
comincia a sbiadire.
Lui liquida tutto come se fosse
perfettamente normale, ma si arrabbia più di prima.
- Tu, - ringhia,
rivolto a Xanders, - tu
sei un povero idiota.
- E Tu.
Afferra la medaglietta che ho appesa al collo da quando sono piccola ed
emette una risata sarcastica alla vista della piccola scritta che vi
è incisa sopra.
Frei. Liberi.
- Tu non vai più da nessuna parte,
creaturina.
Angoletto:
aggiorno così tardi perché ho vissuto l'intero
mese di
Agosto a Londra, e a mia discolpa dico che questo capitolo è
stato il più difficile da buttare giù. Negli YA
le
rivelazioni centrali della trama vengono fatte tutte in una volta, ma a
me sembra sempre poco realistico, quindi ho deciso di introdurre le mie
un po' per volta. Se non capite tutto adesso non temete, ma sentitevi
liberissimi di fare domande. Non ci sono
note particolari, solo una: "frei" è una parola tedesca.
Spero
che il capitolo vi sia piaciuto, e che abbiate voglia di lasciare un
commento (positivo o negativo). Vi assicuro che la voce del lettore
sprona tantissimo! Ringrazio di cuore le 54 persone che mi hanno
inserito tra gli autori preferiti, e mando un bacio a chi
passerà di qui.
Forse non vi ho mai segnalato il "fic-trailer" della storia; in caso
eccolo qui.
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Capitolo 7 *** La sconfitta più grande dopo la Rivoluzione Copernicana ***
cap6
Rivoluzione Copernicana:
con il termine s'intende la nuova visione dell'universo elaborata da
Niccolò Copernico, autore della teoria eliocentrica, che
pone il
Sole al centro del sistema di orbite dei pianeti; essa si oppone a
quella
geocentrica, che prevedeva invece la Terra al centro del sistema solare.
CAPITOLO 6.
La ferita
continua a
rimarginarsi nella mia testa. È come quando si guarda una
fonte luminosa
troppo a lungo e si finisce per esserne tormentati anche al buio.
Aperta, chiusa, carne sanguinante,
cicatrice pallida. Apertachiusapertachiusa.
Reichenbach mi trascina nel salotto circolare per i capelli. Sembra
più grande, adesso, l'unico
adulto nella stanza, mentre Xanders si accartoccia in un silenzio
atterrito.
Le dita di Reichenbach tirano forte per tenermi immobile la
testa. Fanno male, ma non riesco a dirglielo. C'è
una
sicura a
serrarmi le labbra; un lucchetto, una porta blindata che permette al
panico di entrare, senza lasciarlo defluire.
No.
Non si tratta di
panico, stavolta, ma di atrofia.
Lilith ci aveva fatto una ricerca sopra a undici anni, non è
vero? È un'atrofia
totale, quella del mio cervello che si rinseccolisce sotto la pressione
della
sua mano e non vuole
funzionare più.
Reichenbach mi costringe a
sedere sul divano, allentando la presa.
- Sei appena diventata un fastidioso problema.
Sento i suoi polpastrelli che scivolano via quando si dirige a grandi
passi verso la scrivania a mezzaluna, ravviandosi i
capelli come se cercasse di mettere una parvenza d'ordine a questo
disastro. Xanders trasuda nervosismo da tutti i pori.
- Che stai facendo?
- Informo il Comizio del gravissimo malfunzionamento delle tue sinapsi,
Seymour.
Si
muore d'atrofia
cerebrale?
- No no no,
Si
muore di tutto questo?
- Tu,
- Stammi a sentire,
- No, tu stammi a sentire, - la voce di Reichenbach raggiunge il
monotono. C'è qualcosa di definitivo nel modo in cui
riesce a soverchiare quella di Xanders senza il minimo sforzo: gli
basta imporsi un'apparente calma piatta per fare in modo che Seymour
smetta di parlargli sopra.
Li fisso in silenzio.
- Se pensi di poterle rivelare tutto senza il consenso della Fazione,
ti sbagli. Hai parlato abbastanza, hai
agito abbastanza, e non hai alcun diritto di violare la
legge
se questo vuol dire metterci tutti in pericolo.
- L'unico diritto da difendere in questo momento è il suo.
Xanders tende un dito verso di me, incerto. Quell'espressione limpida,
impacciata, sembra compatirmi per un po'. Non riesco a immaginare cosa
veda, squadrando la mia. Confusione? Sgomento, forse, o un'apparente assenza
totale.
- I ragazzi meritano di conoscere la verità su quello che
sta succedendo. Sono quasi stati ammazzati, Gesù!
Prima che Reichenbach possa controbattere, una donna si precipita nella
stanza. Ha i capelli scuri attorno a un chignon sbilenco, e sembra aver
corso. Emette un gridolino quando si
accorge di Alphy, fermo vicino alla porta come un'ombra che ha perso il
corpo.
So che
è qui per rendere tutto più complicato, per
prendere
tempo e discutere su ciò che è giusto o
sbagliato. A me
non importa. Parlo senza staccare gli occhi dal braccio di Reichenbach.
Forse l'atrofia non è letale.
- Voglio solo che ci lasciate andare.
Scopro di non avere più il pianto inchiodato alla gola.
C'è uno scambio d'occhiate che potrebbe significare tutto o
niente, poi Xanders sposta la mano di Reichenbach dalla scrivania.
- Il Comizio deve essere informato in ogni caso, - dice lui, - La
nostra Fazione,
per lo meno.
- Non adesso.
- Infrangi il Trattato, allora! Raccontale di Noi. Fai crollare
tutto quello in cui ha sempre creduto.
- Bene.
I
pugni di Reichenbach si serrano, facendo schiumare i
residui
di sangue. All'inizio - quando un frammento di me riesce ancora a
cogliere quello che gli succede intorno - penso che sia sul punto di
strangolare Xanders. In questo momento non mi dispiacerebbe. Poi,
però, la
sua mascella si rilassa e il mento affilato
si
alza leggermente in una posa altezzosa. Come se si fosse rassegnato. O
come se avesse calcolato tutto, e avesse trovato qualcosa, nelle
conseguenze di quello che sta per succedere, che potrebbe tornargli
utile.
- Bene, -
dice.
Xanders
non mi era mai parso così a disagio;
un
rossore violento gli sale sulle guance mentre invita Alphy a
riprendere posto al mio fianco. La
donna lo prega di fermarsi
e aspettare ordini dall’Alto. Ma non c’è
nessun Alto, dice lui, non c’è una
piramide; solo un cerchio. Non ho idea di che cosa voglia dire. Io sono
una
marionetta a cui nessuno muove più gli arti. Un burattino a
cui
hanno tagliato i
fili. E la mia mente
scorre le stesse immagini in
continuazione, come un disco inceppato. Ferita aperta, ferita chiusa,
ferita aperta, ferita
chiusa.
- Che Dio ci aiuti, -
sussurra la donna, e Reichenbach sorride.
- Se è Lui
la nostra unica speranza, accogliamo la rovina.
***
Quando Xanders
comincia a parlare lo fa come un professore che spiega biologia ai
propri alunni; serio e
preparato, all'inizio. Invasato poi.
Gesticola
incessantemente con le mani, e sfoglia le pagine della proiezione sulla
proiezione a falce. Vuole che la sua "rivelazione" sia semplice, ed
è
per questo che inizia con un nome che mi ricorda mia sorella: Charles
Darwin. A volte Lilith ne parlava e io mi rifiutavo di starla a
sentire,
così
non so chi sia
quel tipo. La spiegazione si semplifica solo per Alphy.
- Quando vi ho parlato della nostra "specie", intendevo il
concetto letterale e scientifico del termine. Mi segui?
No. È tutto molto anormale, fin qui.
- Non fraintendetemi, non sto parlando di una specie aliena, o
sovrannaturale. Quelle stranezze non esistono, chiaramente.
C'è
qualcosa di ironico in quello che ha appena detto, ma l'atrofia si
ritira troppo lentamente per permettermi di cogliere certi giochetti.
- Quello che sto cercando di spiegarvi è che la
nostra Comunità è composta da esseri umani.
Non mi dire.
- Esseri umani con qualcosa di diverso, però.
Non me lo dire per
davvero. Non credo di voler sapere altro.
- Siamo stati scoperti
un’ottantina di anni fa, - si affretta ad
aggiungere.
- Non è chiaro chi per
primo si sia accorto che il genotipo della specie umana stava cambiando
da tempo, ormai, e che alcuni individui, chissà quando e
come,
si erano
allontanati dalla definizione di homo
sapiens. Quando si raccolsero
abbastanza
informazioni a riguardo, quando vennero compiuti studi e ricerche e
analisi,
si venne
a conoscenza del fatto che una minuscola percentuale della popolazione
terrestre aveva raggiunto
uno stadio superiore della specie. Che il corpo di tali individui era
perfezionato nella forma e nel proprio funzionamento. Che il loro
sistema
nervoso era una macchina quasi perfetta.
- Si realizzò che esistevano esseri umani Superiori.
Frutto
di una deriva genetica senza precedenti, forse. Effetto del fondatore,
collo di bottiglia? Non lo sappiamo. Ciò che è
certo
è che abbiamo sconvolto qualsiasi equilibrio Hardy e
Weinberg
avessero mai concepito.
Fa
una pausa, credo. A me sembra che parli, parli e non prenda il respiro,
in un fiume di parole senza senso e senza fine.
- Quello che hai visto, Sybil,
la capacità di intervento delle sue piastrine, - annuisce,
ammiccando a Reichenbach, - e il modo in cui la sua ferita
si è rimarginata, è solo una minima parte del
nostro potenziale. E di quello di
Lilith.
Cala un silenzio fitto nella stanza, tutto sulle spalle di Xanders.
- Come potete vedere, non c'è niente di cui avere paura, dal
momento in cui...
Ci sono talmente tante cose che non capisco che rischio di dimenticare
chi sono,
ma non che ci sono e
che posso ancora provare a parlare.
- Perché? - lo interrompo.
Non era quello che volevo chiedere. Però l’ho
fatto, e Xanders si
emoziona con poco.
- Perché è successo? Perché siete
diversi dal resto del Mondo?
- Te
l'ho detto, Sybil: non c'è alcuna
risposta a questa domanda, a parte, forse, una.
- Ti sei mai
chiesta del perché il Sole sorge da una distesa
d’acqua e tramonta fra le
montagne? Del perché un bambino comincia ad esistere nel
corpo di sua Madre? È la Natura, Sybil.
- Non esiste un
perché, ma un come. Esiste l’Evoluzione della
specie. Ed è incredibile che
tutto questo suoni assurdo e sovrannaturale e bizzarro, quando non
c’è niente di più reale della scienza.
Ma come puoi vedere gli esseri umani non sono
pronti per conoscere la
verità. Abbiamo passato quasi un secolo a cercare di
nascondere le tracce della
nostra presenza su questo Pianeta, perché siamo una
minoranza, una diversità. E
come tutte le diversità, saremmo considerati una minaccia.
Con la coda dell'occhio vedo Alphy che si stropiccia la camicia.
- L’uomo non accetterà
mai di perdere il proprio primato, - continua Xanders.
- A fatica, e solo dopo aver compiuto
deplorevoli stragi ha
accettato di non costituire il centro stesso dell’Universo, e
di
ruotare intorno a una Stella
come tutto il resto del sistema solare. Pensaci: da
creature elette a infinitesimali punti di niente nello spazio. La
Rivoluzione
Copernicana non è
forse stata la più grande sconfitta del genere umano? Non
siete
pronti per riceverne
un'altra. Questo, per lo meno, è quello che pensa la nostra
Fazione, ed è anche la ragione per cui confessare tutto
questo a
te e a Ranulph è un reato.
Mi caccio il dito in bocca senza nemmeno pensarci. Il sapore del sangue
è ferro e sale.
- Che cosa pensa la Fazione opposta alla vostra?
Xanders si stringe l'attaccatura del naso, come a voler schiacciare il
mal di testa.
- Il resto
della nostra specie, e cioè il partito opposto al nostro,
crede di avere il diritto di uscire allo scoperto e
di imporsi sui
Governi grazie alle nostre sorprendenti capacità. Ma non
è
questo lo
spirito con cui eravamo soliti vivere, te lo assicuro. La Rottura ha
portato a galla ambizioni che credevamo lontane dalla nostra natura.
Pare che voglia giustificarsi.
- Sai qual è la nominazione scientifica della nostra specie?
- sorride.
- Homo Superior? -
azzarda Alphy.
Se sapesse essere abbastanza polemico da fare del sarcasmo, questa
sarebbe la volta buona. Penso a tutti i libri che ho letto, alle serie
televisive
che ho
guardato, e ai fumetti che ho comprato nel corso degli anni; ricordo di
aver
sentito la storia dei super-uomini tante di quelle volte che sembra
impossibile che non finisca
tutto spegnendo la tv, o sfogliando l’ultima pagina di un
romanzo;
una
volta finiti i
soldi per le graphic novels.
Xanders sembra orgoglioso quando lo corregge.
- Homo Novus.
Non mi aspettavo
questo. Per un momento il mio rifiuto vacilla.
- Vi suggerisce
qualcosa?
Qualcosa, sì. Un
paragrafo in un libro di storia, di quelli che stampavano prima della
Rottura, quando della OC-Italia
si poteva ancora parlare.
- Nell’antica Roma gli
Uomini Nuovi erano quelli che plasmavano il proprio successo dal nulla.
Senza
un nome, senza nessuno a comprare loro un posto in Senato, si facevano
strada
grazie alle proprie capacità. Molti di loro furono uomini
magnifici.
Innovatori, intellettuali, generali che salvarono la Città
Eterna dalla caduta
con nient’altro che il loro valore.
Reichenbach parla per
la prima volta da quando Xanders ha preso parola. Guarda lontano, fuori
dalla
finestra, e la luce gli tinge di sfumature rossicce i capelli chiari.
- "Io non posso, per
conquistare la vostra
fiducia, vantare ritratti o trionfi o consolati dei miei antenati, ma
se
necessario posso mostrare le cicatrici che mi attraversano il
petto. Questi
sono i miei ritratti, questa è la mia nobiltà:
non mi è stata lasciata in
eredità come la loro, ma l'ho conquistata a prezzo di
innumerevoli fatiche e
pericoli.
La virtù
parla da sola."¹
Il mattino poggia una
corona ramata sulla sua testa. C’è
qualcosa, nella solennità con cui
tutti rimangono in silenzio, a suggerirmi che si tratta di una
citazione di cui
non riconosco la fonte.
Reichenbach la recita con tanta naturalezza che sembra portarla come
sigillo sulla mente, comandamento di quel cuore di pietra, e quando ne
pronuncia la chiusa una corrente sconosciuta mi attraversa il corpo. Mi
ritrovo
a ripeterla a fior
di labbra.
La virtù parla da sola.
- Il discorso di Mario, -
sussurra Xanders, - primo Uomo Nuovo di Roma.
Impiego più di quanto vorrei a staccare gli occhi da
Reichenbach.
- Abbiamo scelto il suo titolo perché sappiamo di che cosa
siamo capaci.
Sappiamo di poter servire l’Umanità più
preziosamente di chiunque altro, perché
c’è stato dato un dono, e non lo sprecheremo. Non
importa a quale Fazione dei
Novi apparteniamo. Tutti noi vogliamo essere qualcosa di
più, qualcosa
di nuovo.
Qualcuno che non
commetterà
gli errori degli uomini comuni, e che spenderà le proprie
doti in nome di un progresso
illuminato.
Qualcosa di nuovo, ha detto?
Nuovo.
Senza macchie, senza imperfezioni. Qualcosa che non ha ancora deluso
nessuno.
- Sono roba vecchia, le pistole. E gli attentati, e gli omicidi, e la
violenza.
Reichenbach si volta. Tutti lo fanno, ma io ho occhi solo
per
lui.
- Il pensare di essere migliori degli altri, - aggiungo.
E questa è per lui; per il suo broncio sprezzante, e il suo
squadrare
tutti dall’alto in basso.
- Non c’è niente di nuovo in tutto quello che vi
ho visto fare fino ad
ora.
- E Lilith non avrebbe mai combinato quello che ha combinato se non
avesse
avuto a che fare con Voi, - sussurra Alphy. Non riesco a guardarlo in
faccia, quando lo dice.
-
Ammettiamo che anche solo una minuscola parte
del mio cervello accetti
tutto questo, - continuo, per dimenticarmi dello strazio nella sua
voce, - e non lo fa, tra parentesi... Che cosa
dovrei fare?
Io,
sedicenne
con la famiglia che cade a pezzi, sopravvissuta a una strage provocata
dalla propria sorella. Quella sorella che tutti,
perfino
adesso, credono essere speciale. Lilith che, se tutto questo ha un
senso, è più che umana, e ha
ucciso quarantuno persone.
- Ditemelo. Che cosa dovrei fare?
Suona come una richiesta d’aiuto, la mia? Per un
po’ non riceve risposta,
e cresce il sospetto che sia come le altre volte, quando per una
dannata
parola di conforto grido in
silenzio per giorni e giorni, e nessuno riesce a sentirmi.
D’un tratto, però, Xanders
si avvicina, poggiandomi una mano sulla spalla.
- Devi fidarti di me, - dice.
- Questa storia dovrà risolversi con o senza
la tua
approvazione.
- E Lilith?
- Come ti ho già detto, tua sorella è una di Noi.
Solitamente un Novo sposa un altro Novo,
così da essere sicuri che il gene della nostra specie riesca
a
manifestarsi, ma non ci risulta che ci sia qualcun altro, nella vostra
famiglia che possa averlo trasmesso a tua sorella. Ho paura che
rimarrà un mistero.
- No, intendo...come la riporterete indietro?
- Pura e raffinatissima arte diplomatica. Vedrai che andrà
tutto bene, Sybil, ma tanto vale che
restiate qui, dove possiamo proteggervi. Ci
occuperemo personalmente delle vostre famiglie, promesso.
Reichenbach è incredulo. La sua approvazione non
c’è
di certo.
- Non hai idea di quello che stai facendo, Seymour. Adesso che gli hai
rivelato tutto vanno consegnati al Comizio!
Xanders fa fatica a mantenere il sorriso, come se la presenza del
ragazzo
lo intimorisse.
- Non sei quello che prende le decisioni in questo posto,
Nicholas.
Nicholas.
Pare folle che abbia un nome come tutti noi. Un nome
così
bello, per una persona così detestabile. Nicholas.
Nicholas. Nicholas
Reichenb -
- Non ancora, - puntualizza.
Infila la porta per andarsene, e appena lo fa lascio andare tutto
quello che non sapevo di stare trattenendo.
Espiro.
L'aria sembra solida e fa fatica a sgusciare dai polmoni.
Se è così che stanno le cose non
espirerò mai più. Mai mai mai più.
Cedo due secondi dopo, quando Alphy fa
scorrere il braccio sul divano.
Per un po' le nostre
mani rimangono a sfiorarsi senza mai cercarsi davvero, ma alla fine il
suo
indice si intreccia al mio, ed è incredibile quanto possa
fare anche solo un dito.
Mi ricordo che Alphy è una sorta di genio anche lui.
- Dimmi la verità. Da futuro scienziato, intendo.
C'è una
microscopica possibilità che non sia tutta una balla?
- Io resto, - dice solo.
E vale come un sì, immagino.
- Resto qui.
In cuor mio lo sapevo già, ma non accettavo che Lilith
potesse essere amata
così tanto,
nonostante tutto.
- Anche io.
Ancora una volta i miei occhi si riempiono di lacrime.
Ma scelgo di avere fiducia, e non ne verso nessuna.
***
Siamo ancora
nell'FC-nA-Minnesota,
il che
è più lungo a dirsi che altro. Parecchio a Nord,
a sentire Xanders, quasi al
confine con il GC-Canada.
Dalla finestra del dormitorio in cui mi hanno condotto
si vede un grande parco tutto intorno alla Villa - così l'ha
chiamata Seymour -, con un bosco di conifere che
si estende a perdita d’occhio e un lago che riflette il
grigio plumbeo del
cielo. E pensare che l’alba era stata serena.
Fuori non
c’è nessun'abitazione. Non ci
sono
strade con
l’asfalto pieno di buchi, né auto, né
edifici
fatiscenti; solo alberi e corsi d’acqua, a quanto pare. In
meno
di sei ore mi
sono allontanata da casa come solo una volta in vita mia, qualche anno
fa.
Osservo il paesaggio perché non riesco a dormire. Per
quanto mi sforzi di
riposare anche solo per un po’, continuo ad alzarmi dal letto
e a tornare alla
finestra. Il dormitorio è vuoto, e la porta è
chiusa a chiave. Questa volta non
mi hanno tappato gli occhi lungo i corridoi, ma non avevo voglia di
guardarmi
intorno, così adesso non saprei ricostruire il percorso che
hanno seguito.
Il cerotto sul dito mi pizzica. Poggio il polpastrello sul vetro freddo
per calmare il prurito e penso alla voce impastata di mia madre.
Xanders ha
insistito affinché la chiamassi, perché non ha
ancora avuto modo
di architettare un
piano per tenermi qui e gli serve più tempo per pensarci.
Lei non
sembrava essersi accorta della mia assenza,
quando le ho detto di aver passato la
notte a casa di un amico. Ci
ha
provato ad arrabbiarsi, ma poi ha lasciato perdere. Credo che non
voglia avermi
intorno in questo momento, e un po’ mi dispiace. So che non
lo fa apposta, però.
Alla
fine le ho strappato un altro giorno, e per stasera Xanders si
sarà inventato
qualcosa.
Convincere la zia di Alphy a fare lo stesso ha richiesto più
sforzi
del necessario, ma alla fine ce l’abbiamo fatta. Ci hanno
assegnato due stanze diverse, comunque.
Chiudo le tende e mi trascino di nuovo verso il letto morbido.
È costoso, lavorato, e profuma di
pulito; affondare tra le coperte è una bella sensazione, ma
il sonno non
arriva. Se chiudo gli occhi rivedo il lampo azzurro
dell’esplosione a scuola; ne
riascolto il boato, ne respiro il fumo. Conto
tutti i fili castani della treccia di Lilith fino a quando non mi
sembra di impazzire.
E allora provo a ricacciare indietro gli attacchi di
panico, saltando da un ricordo all’altro per non lasciare che
mi
inseguano. Quando alla fine mi addormento, sogno di principi che
perdono lembi di carne nel fuoco, e di capelli di un biondo chiaro,
quasi
bianchi sulle punte, che bruciano come paglia. E la carne ricresce, i
capelli
ricrescono, e bruciano di nuovo in una tortura senza fine.
Non so in quale parte del sogno qualcuno mi tocchi una spalla per
cercare
di calmarmi. Sento solo il cuore che striscia nella gola come un verme.
- Va tutto bene, era solo un incubo!
Cerco il luogo da cui proviene la voce, mentre il sudore mi cola lungo
le
tempie, sul petto, attaccandomi i vestiti addosso.
- Hai urlato.
Lilith. Sei Lilith? C'era lei in camera mia, la notte prima
dell'attentato. E io ho urlato, quella volta, per 3:12 secondi.
Appena vedo per la prima volta la ragazza china su di me,
però, caccio un grido così lungo che perdo il
conto del
tempo, perché magari se butto fuori tutto, svuotando la
testa, il cuore e i polmoni, questo essere dimezzato sparirà
dalla mia vista. Cerco di strapparmelo di dosso, ma le lenzuola non
fanno che attorcigliarsi di più intorno alle mie gambe.
Voglio
solo svegliarmi
prima di uscirne matta, perché
Non.
Posso.
Essere.
Sveglia.
Ma la ragazza che mi tiene la mano non fa parte dell’incubo,
né
dei
principi che sanguinano e rinascono dalle ceneri. Sì che
sei
sveglia, assicura, sì!
La mia reazione sembra ferirla nel profondo dell’anima.
Sono sveglia, e lei è reale. A lei mancano i pezzi per
davvero.
1. Sallustio,
"Bellum iugurthinum".
Angoletto:
ebbene sì, una delle tante rivelazioni della storia
è
stata fatta. Volevo renderla il più verosimile possibile,
quindi
troverete all'interno di essa delle teorie scientifiche realmente
esistenti, come per esempio quella della deriva genetica,
che deve essere letteralmente intesa come quel processo di evoluzione
della specie causato da fattori casuali. Uno di questi
è il collo
di bottiglia,
fenomeno che si ha quando un piccolo gruppo di individui sopravvive a
situazioni ambientali anormali e si adatta - migliorandosi - fino a
"evolversi". L'effetto
del fondatore si ha invece quando un individuo con "doti"
(se vogliamo dirlo in parole semplici, altrimenti si parla di geni)
particolari si stacca dalla popolazione e fonda un nuovo albero
genealogico in cui tutti hanno ereditato le sue caratteristiche,
formando appunto una nuova specie. L'equilibrio
di Hardy-Weinberg,
citato in questo capitolo è, per farvi capire, la teoria
contraria, ovvero quella che nega la possibilità di
"mutazioni"
frequenti nel corso del tempo, in quanto sostiene che venga sempre
mantenuto un equilibrio evolutivo. Ci sarebbero decine di cose da dire,
su Darwin, sul perché ho scelto la denominazione "Homo
Novus" e
non quella di "Homo Superior", oppure sulle sigle davanti ai nomi dei
paesi (quello lo spiegherò in seguito). Non avrebbe senso,
però, dirlo qui, se poi
magari non interessa. Per
qualunque domanda, qualunque, scrivetemi QUI.
Sarò ben lieta di rispondervi <3
Grazie alle persone che hanno recensito gli scorsi capitoli, e anche a
quelli che seguono in silenzio. Non smetterò mai di dirvelo:
fatevi sentire! Aiutatemi a migliorare! Vi mando un bacione,
lasciandovi con un'anticipazione. Il prossimo capitolo sarà
moooooolto particolare.
A presto!
|
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Capitolo 8 *** Febbraio 1945 ***
campo
Entropia,
II: ogni
processo economico inserito in un
contesto ecoistemico incrementa insesorabilmente il disordine del sistema-Terra.
Tanta più energia trasformiamo in uno stato indisponibile,
tanta
più ne sarà sottratta alle generazioni future, e
tanto
più caos sarà riversato su quello che ci circonda.
Febbraio 1945.
Ne arrivavano a migliaia.
La ragazza non poteva vederli sfilare sotto i cancelli di ferro del
Campo - né sapeva chi fossero o da dove venissero -, ma li
sentiva
marciare. Ascoltava i loro passi come vibrazioni telluriche della terra
che
calpestavano metro dopo metro; proprio lì, sopra la sua
testa, con
le catene che strascicavano sul ghiaccio, sempre.
In lontananza, da qualche parte, lo strillo dei treni che graffiavano
le rotaie scandiva il giorno, e
-
La porta blindata si aprì in uno sferragliare di meccanismi.
Un giovane uomo con il cappotto lungo
e la cintura di pelle stretta ai fianchi se ne stava ritto sulla
soglia, ma non era un Dottore. La ragazza spostò lo sguardo
dal
soffitto e lasciò che ricadesse su di lui: uno strato
sottile di
neve gli copriva le sowilo
sul cappello, facendolo sembrare sporco e consumato, ma la ragazza
sapeva che le due saette di stoffa erano lì; solo che non le
importava.
Ai soldati come lui non era permesso
entrare lì dentro, con le loro mani contaminate, la polvere
da
sparo sugli stivali e un'arma carica nella fondina, ma gli Infermieri
alle sue spalle avevano l'aria troppo atterrita per mettersi a
discutere.
Il soldato si avvicinò al bordo del letto con la mano tesa.
Parlava con calma, a frasi brevi e senza intonazione, ma la ragazza si
limitava a fissarlo senza alcuna espressione sul viso.
- Mi hai sentito?
Il
suo accento era privo della musicalità italiana che la
ragazza aveva tanto amato, un tempo. Quando di preciso,
non riusciva a ricordarlo.
Non
aveva detto a nessuno che riusciva a capire il tedesco, ormai, e
che dal giorno in cui era arrivata al Campo si era aggrappata a ogni
parola, a ogni sillaba o vocale, pur di restare in vita;
così i Dottori continuavano a ringhiare parole
nella sua vecchia lingua, storpiandone i suoni, i dolci accenti, la
poesia nascosta.
-
Parlo con te.
Con
Lei.
Delle
volte la ragazza non riusciva che a pensare a sé
stessa in terza persona. Era
in quei momenti che la presenza del proprio corpo nella camera da
letto in cui la costringevano arrivava a confonderla: doveva
passarsi le mani sui capelli bruni che le pizzicavano le guance, o
strizzarsi forte le labbra carnose, tirandole e stropicciandole, per
accertarsi che non fosse tutto un sogno visionario.
Il
soldato trattenne un'imprecazione e la prese da sotto
le braccia, facendole ricadere la testa a guardarsi il petto: la vista
di un seno bianco e morbido sotto la lana leggera le
ricordò che era tutta roba sua. Sue le
dita che si mangiava a piccoli morsi, i
polmoni con cui
respirava; suoi gli occhi, le curve, le spalle, e sua la
voce afonica che sentiva di tanto in tanto, come il
sussurro di un genio familiare. Uno dei Dottori aveva
provato a spiegarle perché fosse l'unica a sentirla parlare.
-
Non c'è nessun altra ragazza a parte te, qui dentro.
Quella voce sei tu. Sono i tuoi pensieri, la tua coscienza.
Tu
e Lei siete la stessa
cosa, e lo siete da sempre.
La
ragazza non ricordava di essere stata qualcuno in
particolare, così la sua unica risposta era stata anche
l'ultima che fossero mai riusciti a strapparle: "Io non sono
più."
Le
labbra del soldato erano strette in una linea dura.
Infermieri dal camice ben stirato gli correvano dietro tutti affannati,
con gli zoccoli delle scarpe linde che battevano sul corridoio
sotterraneo che collegava ogni ambiente della costruzione.
Ne
erano passati di giorni da quando l'avevano portata lì,
e ancora quella trama fitta e intricata di laboratori la
faceva
sentire prigioniera di un labirinto senza soluzione. C'era un mostro,
là, nascosto da qualche parte, ma la ragazza ne aveva
dimenticato le sembianze. Delle volte richiamava a sé quella
coscienza estranea che dicevano le appartenesse, e insieme si
sforzavano di riportare alla memoria quello che
le era successo tra le mura dell'edificio; che cosa le avevano fatto, e
perché. Ma tutto ciò che vedeva, se provava a
concentrarsi, era il bianco delle pareti e dei mobili, dei pavimenti e
delle vesti disinfettate dei Dottori: neve candida di intonaco e legno,
neve di cemento e cotone grezzo.
Il
soldato che la teneva sollevata da terra stonava, avvolto nella sua
divisa scura.
Camminava
spedito, quasi si fosse preoccupato di imparare la strada a
memoria. Le
gambe della ragazza, scoperte dove la veste chiara non arrivava a
coprirle,
dondolavano dalle sue braccia.
Si
fermarono di fronte a una porta anonima e senza colore come
tutte le altre, dove il soldato fece per lasciarla andare.
-
Dille di tenersi in piedi, - insistette uno degli Infermieri.
-
Si
lascerà cadere se non le dirai che deve tenersi in piedi.
I
suoi custodi sembravano sull'orlo di una crisi isterica; avevano
l'ordine di non
toccarla a meno che non vi fosse il permesso dei Dottori, e il contatto
con un membro dell'esercito costituiva una disastrosa violazione del
protocollo di sicurezza. Lui
le fece sfiorare il pavimento con la
punta dei piedi.
-
Veti di
non catere,
- sputò.
-
Capito?
La
ragazza non rispose. Era molto stanca, ma prese il controllo dei
propri arti e fece come
le veniva intimato.
Il
soldato bussò alla porta e attese fino a quando qualcuno,
dall'altra parte, non gli ordinò di farsi avanti. La ragazza
non aveva
voglia di entrare, ma il soldato la spinse dentro con un dito a
pungerle la schiena nello spazio tra due vertebre.
Di
colpo l'odore di medicinali e composti
chimici dei sotterranei scomparve del tutto e un lezzo immondo, come di
carne in cancrena, le riempì le narici fino a farle girare
la
testa.
La
stanza era calda, illuminata dal bagliore avvolgente di una stufa.
Quando i suoi occhi si schiusero sulle persone che la occupavano,
però, la
ragazza sentì il gelo del Nord annebbiarle
la vista e paralizzarle i muscoli, fino a ridurla a una statua
inanimata di cristalli di ghiaccio.
***
Una
donna dagli occhi verdi come l'erba di Maggio.
Un
Dottore alto, dai capelli diafani tirati indietro sulla testa.
Un
uomo incontrato sotto le insegne dei cancelli, quella volta che era
scesa
dal treno e aveva messo piede all'Inferno: il capo del Campo,
circondato
da cinque dei suoi cani più fedeli, comandante locale delle
Squadre di Protezione.
Erano
tutti lì.
E
insieme a loro, ritte contro una parete divenuta il muro del pianto -
scheletri ricoperti da uno strato friabile di pelle -, c'erano
ventuno persone.
Uomini
e donne, giovani e anziani, e cinquecentoquattro costole in
vista.
La
ragazza inchiodò lo sguardo sui prigionieri senza
produrre il minimo rumore.
-
Non dovrebbe essere qui.
Il
Dottore aveva l'aria sconvolta. Scuoteva nevroticamente la testa,
infuriato, puntando l'indice contro la schiera di detenuti di spalle.
La ragazza lo
conosceva bene, ormai, perché erano settimane che veniva a
trovarla ogni sera, ma in quello stato faceva fatica a
riconoscerlo.
-
Qui, con
questi appestati. Abbiamo impiegato mesi interi per sterilizzare
l'ambiente e renderlo completamente asettico!
Il
comandante lanciò un'occhiata affamata alla ragazza. Non
la
disturbava l'essere praticamente nuda, sotto la vestaglia. L'avevano
infastidita così tante volte, al Campo, che lo sguardo di un
uomo
aveva perso di significato.
-
Quanti mesi?
-
Due, - disse la Dottoressa. Era rassegnata,
guardava per terra. Le ciocche bionde che le sfuggivano dalla treccia
erano crespe e spente, a riconrdare un fiore in appassimento.
-
Molto male Therese.
Il
comandante portò il labbro inferiore all'infuori come un
bambino.
-
Molto male.
-
Ce le avete
mandata in condizioni pessime. Abbiamo dovuto rimetterla in sesto, come
se l'operazione non fosse
già abbastanza delicata, - sbottò il
Dottore.
Scoccò
un dito verso le guardie, - Fateli uscire, adesso.
I
soldati rimasero immobili.
-
Ai piani alti ne saranno dispiaciuti, - brontolò il
Comandante.
-
Ai piani alti si preoccupino d'impugnare la armi, per Dio!
Qualcuno
tra i soldati sibilò per l'oltraggio. Loro che non
erano stati caricati su vagoni fatiscenti, che non avevano perduto
tutto, che erano ancora esseri umani.
Il
Dottore si fece piccolo piccolo.
- Il
loro lavoro
è vincere la guerra, giusto? Perché devono
giudicare il mio?
Il
Comandante con la fascia rossa al braccio si alzò molto
lentamente. Sistemò la poltrona sulla quale si era
sistemato,
tirò i guanti di pelle sul polso, per farli aderire meglio
alla dita, ed estrasse la pistola dalla fondina.
Fece
scattare la sicura.
Sparò
verso il
gruppo di prigionieri senza nemmeno guardare.
La
ragazza e il generale non batterono ciglio quando
un uomo dalle schiena piena di croste si accasciò sul
pavimento.
- Dio.
La
Dottoressa si coprì la bocca con una mano cianotica. La
ragazza indagò il suo viso tirato per un po', chiedendosi se
fosse normale non sentire niente, nemmeno
sé stessi.
I
corpi contro i muri tremavano, stretti l'uno
all'altro, come una catena di ossa e carne congelata.
-
Cosa ti passa per la testa? - il Dottore ammiccò alla
ragazza
ad occhi sbarrati.
-
Giocare a tiro al bersaglio davanti all'unico esperimento riuscito!
Vuoi farla morire di crepacuore?
Il
generale poggiò la canna della pistola sulla fronte del
Dottore,
premendola fino a farla scricchiolare. Tutti
trattennero il respiro.
-
Dottore, Dottore, tu lo sai che c'è la fuori?
-
No.
-
Non ho sentito bene.
- No.
Il
generale stuzzicò il grilletto, e il dottore
deglutì a fatica. La ragazza pensò che un altro
ingoio sarebbe bastato ad aprirgli la gola in due.
-
No? Te lo
dico io, allora. Ci sono quattro
treni che ogni
dannato giorno scaricano migliaia e migliaia e
migliaia di
sacchi di carne mangiata dal tifo e centinaia di
fottuti sovietici che
mi costringono a sprecare munizioni di fortuna pur di ristabilire
l'ordine.
Il
generale volse lo sguardo a uno dei suoi.
-
Ricordami quanti ne sono stati giustiziati oggi, soldato.
-
Novantadue, Signore.
- Novantadue.
- E
quanti ne arriveranno domani, Dottore, questo lo sai?
Silenzio.
Il comandante avvicinò le labbra al volto
dell'uomo, parlando a denti stretti.
-
Potrei ammazzarne
altri venti proprio adesso, e là fuori ne troverei altri
sessanta ad aspettarmi.
-
Da dove pensi che vengano?
L'uomo
scosse la testa senza parlare.
-
Da Majd**ek.
Compi**ne. E da
Auschw**z-Birk**au,
Dottore.
La
ragazza ebbe uno spasmo. I passi che sentiva risuonare sopra la propria
camera erano di quei detenuti. Dai binari alle baracche del Campo, di
giorno e di notte, quella marcia della morte era la loro.
-
C-cosa?
Il
generale tolse la pistola dalla fronte del Dottore, sparò un
altro colpo e la riportò sulla testa dell'uomo. Un altro
cadavere
si accasciò contro il muro.
Nessun
altro osava fiatare.
-
La stiamo perdendo, la guerra, ecco cosa. E tutte le bestie che mandano
qui sono quelle che non riusciamo a fare fuori in tempo, prima
che i nemici prendano tutti i Campi superstiti.
La
donna con gli occhiali a mezzaluna oscillava impercettibilmente,
come se fosse stata sul punto di svenire.
-
Auschw**z-Birk**au
è stato preso?
-
Qualche giorno fa.
-
Dai Sovietici?
-
Dai tuoi fratelli Americani.
Il
comandante sottolineò il concetto
con un
altro colpo di pistola. Il Dottore aveva le orbite iniettate di rosso.
-
Nei nostri
laboratori c'è in ballo la sorte dell'umanità,
non potete permettere
che -
-
Il caos è la sorte dell'umanità, -
tagliò corto
il comandante. Il sangue aveva raggiunto i
suoi stivali.
- E
io e te, sì, io e te, Dottore, abbiamo l'ordine di
resistergli
prima che quei figli di puttana rivelino al resto del Mondo qual
è il prezzo necessario per una giusta causa.
Una
giusta causa? La ragazza non capiva quale ideologia si realizzasse
nel rendere materiali gli incubi degli uomini.
-
Ora, - disse lui, - la scelta è tua. E anche tua, mia cara
Therese. Potete
lasciar fare tutto a me e alla mia compagna tubercolosi, fino a quando
io
ho munizioni e lei non comincia a decimare anche i miei
uomini. Oppure
potete prendervi una parte di questa palta e farne quello che volete in
nome della scienza.
Fece
una pausa.
-
Ma ricorda, Dottore. Ci hai promesso dei vaccini, delle grandi
scoperte. Ci hai
promesso di cambiare il Mondo, tu, e di farlo con
delle armi.
-
Capirai bene che me ne servono almeno un centinaio, e con loro il
procedimento esatto
per sfornarne un altro milione. A Sachs***ausen
ne hanno già tre
in arrivo.
Indicò
la ragazza.
-
Qui ne vedo solo
mezza.
Il
Dottore parlò con estrema lentezza. La canna della pistola
gli aveva lasciato un
solco profondo sull'attaccatura del naso.
-
Va bene. Portatemi tutti i soggetti dai quattro ai trentacinque anni, -
mormorò.
Il
comandante sorrise. Fece scivolare l'arma dal Dottore a Therese,
toccandole la spalla. Il Dottore si tese verso di lei, come per
proteggerla, ma il comandante passò oltre. La ragazza non si
mosse, quando lo vide arrivare.
-
Come ti chiami?
Quella
era una delle risposte che i prigionieri dovevano saper dare in
tedesco, ma lei non disse niente.
-
Come ti chiami?
La
ragazza non lo sapeva più.
-
111826, - disse il Dottore.
La
Donna dagli occhiali a mezzaluna parlò in un soffio.
-
Vittoria.
Si chiamava Vittoria.
-
Proprio un bel nome. Speriamo che porti bene.
Le
accarezzò la pancia, dove un leggero rigonfiamento aveva
cominciato a sbocciare. La ragazza non lo aveva mai notato prima.
Come
se le
avessero piantato un ago nel cervello, le
sembrò di morire e rinascere nel tempo d'un tocco.
D'improvviso
credette di ricordare qualcosa, tra la moltitudine di immagini chiuse
sotto i solchi delle sue cicatrici: un processo
di
tortura. Delle
siringhe. Cavi nel suo corpo. Provette ricoperte di brina. Forse,
pensò, il vero segreto era lì. Forse, dopo che
aveva perso il senno, il mostro del labirinto di
laboratori era stato nascosto dentro di lei.
Il
comandante fece un cenno con la testa ai suoi soldati,
affinché scaricassero le pistole sulla fila di prigionieri.
Prima che facessero fuoco, però, salutò il
Dottore con un leggero inchino.
-
Voglio che tutte le cave siano sane, - disse lui.
-
E io, Dottore, voglio il bambino che Vittoria porta in grembo. Prima
della caduta di Dachau.
Note: capitolo
brutto, per quello
che ricorda. Sì, questa
è un'opera di fantasia. La storia
di Vittoria è totalmente
inventata,
ma purtroppo alcune situazioni che vengono descritte s'ispirano a fatti
storici documentati..Gli esperimenti, le epidemie, le deportazioni nei
Campi di
Lavoro sono
stati incubi reali, e vanno
ricordati e condannati. Mi è stato consigliato
di spiegare in una prefazione qual è la mia posizione
riguardo a tematiche tanto complesse: com'è chiaro rifiuto e
maledico gli errori/orrori del passato, ma penso sia necessario
conoscerli,
perché l'umanità non può permettersi
di rifare gli stessi sbagli.
Ho
coperto i nomi dei Campi di
Sterminio con degli asterischi, per rispetto degli esseri umani che li
hanno visti e per rispetto dei lettori di questa storia.
Li
ho citati in un ordine preciso, ricercato e
storicamente
documentato, secondo il mese e l'anno di liberazione rispetto a quello
che non ho "censurato", ovvero Dachau. Sì, portarono
veramente
lì tutti i prigionieri che non riuscirono a far fuori negli
altri Campi e sì, proprio lì tentarono il tutto
per tutto
utilizzandoli come delle cavie. Certamente gli esperimenti
che io ho descritto sono frutto di pura finzione romanzesca.
Potrei
dilungarmi su cosa facessero veramente lì dentro, ma non ha
senso che sia io a parlarvene. Se siete interessati - e tutti
dovrebbero esserlo - vi chiedo di
informarvi, o di pormi tutte le domande che volete privatamente (qui).
Ringrazio chiunque sia passato per di qua, soprattutto Ania, fedele
consigliera. Vi mando un bacio, spero che vorrete continuare a seguire
"Entropy", aiutandomi a migliorare. A presto!
|
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Capitolo 9 *** L'invasiva cura per una crisi d'astinenza da problemi ***
capitolo 8
Crisi d'astinenza: è una sindrome,
caratterizzata da
segni e sintomi che cambiano da dipendenza a dipendenza; essi
appaiono alla sospensione
o alla riduzione dell'utilizzo di una sostanza assunta a dosi
elevate e per un lungo periodo di tempo.
CAPITOLO 7.
Le
macchine non possono sentire niente: né la pressione
schiacciante dell'impazienza, né quella insostenibile della
delusione che ti strappa via le parole e riduce al silenzio. Niente.
È quello che si è sempre raccontato, dopotutto:
non importa in che libro o in che canzone d'altri tempi. Chi canta un
corpo elettrico sa bene che le macchine non provano.
Sono solo
cavi di plastica legati a lamiere, chiodi stretti e metallo
freddo.
Come
le dita poggiate sulla mia spalla.
Le
mie grida s’interrompono per il tempo di uno spasmo. Poi
vengo
assalita da una repulsione così isterica da tentare di
scalciare
via le coperte, levarmi quelle cose di dosso e –
La
mano scende a chiudersi attorno al mio polso.
Piano.
Come a non voler
spaventare un animale sanguinante, braccato, smarrito.
Riprendo il controllo
di me stessa quel tanto che basta per fare una considerazione sullo
strano materiale che la ricopre: è rigido al tocco, ma
liscio
come una perla e
dalla stessa superficie perfettamente lattea che si arrampica lungo il
braccio, fino a un viso pieno e proporzionato. È quando
incontro
lo sguardo della cosa che
decido di darci un taglio
con questa scenata. Mi costringo a chiudere la bocca e istintivamente
porto le mani sul petto. Il cuore sembra sul punto di
mollarmi.
In
risposta la macchina con il corpo da ragazza
nasconde gli arti oltre il bordo del letto e abbassa la testa. Per poco
non mi lascio
andare a un sospiro di gratitudine: se non mi guarda, non
dovrò
preoccuparmi di camuffare l'incredulità che mi
paralizza. Non potrei riuscirci, comunque. Non quando quello che vedo
è un puzzle intricato di meccanica e anatomia che si
compenetrano fin dentro al suo corpo.
Il
lato sinistro, in particolare, è costituito da uno strato di
lamina bianca perfettamente modellata. Delle
articolazioni più scure collegano braccio e spalla, tradendo
un ronzio leggero quando la ragazza - l’androide? -
si
avvolge
in una stretta timida.
Mi pare di averla fissata per troppo tempo. Le macchine sono per
definizione insensibili,
è vero, ma lei sembra molto triste, come se non vedesse
l'ora di scomparire all’istante. Mi chiedo in
quanti l'abbiano squadrata come sto facendo io adesso.
Tanti.
Qualcosa suggerisce "tu
più di tutti".
Credo che a posto suo detesterei essere guardata in questo modo, e
androide o
no, non vorrei sapere che qualcuno ha paura di me.
-
Mi dispiace di aver gridato in quel modo, - dico.
La
gola si lamenta per il trattamento che le ho riservato nelle ultime due
settimane; la schiarisco prima di continuare.
-
Non sono sempre così imbarazzante.
Dì qualcosa.
Ma lei è immobile.
Dì qualcosa.
-
Solo qualche volta.
Finalmente la macchina alza la testa. Le scappa
un sorriso, e io faccio finta di non notare tutte le
diramazioni
metalliche impiantate sotto la sua pelle, che scorrono ad attraversarle
il collo,
le guance e la fronte, fino all'attaccatura di un orecchio finto.
La
pupilla di uno degli occhi si allarga e restringe fino a focalizzare la
mia immagine, senza che la palpebra accenni al minimo movimento.
L’altra però si chiude in uno scatto involontario.
E vivo, soprattutto.
Questo significa che tutti i componenti meccanici che la compongono
sono solo una protesi incredibilmente moderna: la
ragazza non è una macchina che ha rubato pezzi di pelle a
una
persona, ma un essere umano che qualcuno deve aver tentato di
distruggere, un corpo che qualcuno deve aver cercato di riparare. Mi
chiedo che cosa le sia successo, e come possa essere ancora in vita con
tante viti nella carne. Poi però ricordo dove mi trovo e che
cosa ho scoperto su Xanders e i suoi, finendo per accettarlo.
“Investiamo
quasi tutto il nostro denaro in nuove tecnologie, per il bene degli
altri."
È questo che ha detto.
-
Sybil Crowford.
Tendo
una mano calda e sudaticcia, la sinistra.
Lei
la stringe con la destra, quella sana. Il risultato è
impacciato, ma almeno sembra sollevata.
-
Sharazad Al-Bitruji, molto piacere.
Il
suo accento è forte. Aspira le vocali in un suono caldo e
musicale.
Credo sia araba o qualcosa del genere, e del resto il suo
aspetto parla chiaro. Il materiale perlaceo delle protesi sposa bene
sia la
pelle ambrata che i capelli corvini, rasati sopra l'orecchio
meccanico. Forse lì non crescono, ma il taglio –
come il
contrasto dei colori opposti - sembra fatto apposta. Minuscoli
campanellini sono intrecciati all'acconciatura complicata che tiene
strette le altre ciocche, lunghissime rispetto alle mie. Quando la
ragazza ruota il capo per coprire la
metà meccanica della sua faccia, produce un dolce tintinnio.
-
Sharazad è un nome che ho già sentito.
La
mia pronuncia è ridicola, ma lei annuisce.
- C’era un
libro, prima della Rottura, in cui una principessa raccontava fiabe per
mille e una notte. Si chiamava Sharazad anche lei.
Faccio
una smorfia buffa. Forse è uno di quei
libri che hanno misteriosamente smesso di stampare anni fa, dopo che
l’Oriente si è ribellato. Non lo conosco.
-
Non fa niente. Puoi chiamarmi Shad, se ti va.
Certo
che mi va. Non può immaginare quanto vorrei fingere che oggi
,
ad attendermi, ci sia solo una pagina bianca in cui copiare le stesse
righe della mia ripetitiva esistenza. Per un po', forse,
potrei riuscire a far finta che lei sia solo una nuova ragazza
conosciuta a scuola, e che non c'è niente di diverso
all'orizzonte se non la solita, vecchia sonata. Come
prima che Lilith -
Come
prima.
E
invece Shad azzarda un'unica domanda.
-
Ti hanno davvero parlato di Noi?
Lo
dice come se l'intera faccenda la spaventasse a morte, e io vengo
catapultata nella realtà dei fatti ancora una volta.
Sono
sveglia.
Lei è Shad, ed è una macchina a
metà.
È una di loro, dei Novi, di cui sono ospite e
collaboratrice.
O, a seconda dei punti di vista, ostaggio.
Mi soffio via i capelli dalla faccia.
-
Sì.
- Sì, - ripeto, - ma non ti preoccupare. Non credo a una
parola.
Lei
sembra sollevata da un attimo di breve illusione. Si sforza di
sorridere, dirigendosi dall'altra parte della stanza, dove un grosso
armadio dai motivi orientali è già aperto per me.
-
C'è un bagno, lì. Puoi usare tutto quello di cui
hai bisogno, mentre cerco dei vestiti adatti. Niente chadar¹,
promesso.
Tutto
qui? Non ci sono domande, per me? Niente più manette,
né
rivelazioni da togliermi il respiro? Shad indica una porta intarsiata e
mi invita ad entrare; in lei c'è una gentilezza estranea a
questo
posto, come quella di un fiore in un groviglio di rovi.
Mi guardo intorno, riempiendomi gli occhi
di tutta questa eleganza: siamo davvero nella sua camera da letto,
visto il tipo
d'arredamento così bizzarro, ma questa mattina non me ne ero
accorta. Adesso sembra di stare in una corte sospesa nel tempo.
Non si hanno più molte notizie sull'Oriente: le nuove
generazioni sanno che esiste, da qualche parte, e che la Rottura non ne
ha
lasciato che macerie. Qualcosa mi dice che questa stanza vi guarda
ancora con un certa nostalgia.
Indugio
sulla porta del bagno, respirando l'odore di resina e candele. Prima di
entrare mi volto verso Shad.
-
Ero seria. Non credo nei supereroi.
Lavorerò
con loro, forse,
ma per adesso non voglio credere che esistano esseri
umani superiori, né tantomeno che mia sorella sia una di
loro. Sarà solo
un'ipotesi da verificare, di quelle che Lilith scriveva a grandi
caratteri sulle pareti della propria cameretta prima di un'esperienza
di laboratorio. È
un punto di partenza, diceva, e allo
stesso tempo un
punto d'arrivo. Tutto torna, prima o poi, come le linee di un campo
magnetico. Bisogna solo trovare il percorso giusto da seguire.
Shad
apre un maglioncino morbido davanti a sé, come a prenderne
le
misure. Nel suo labbro inferiore - striato d'argento - affondano
denti bianchi e perfetti.
-
Meglio così, - sussurra.
Io
mi chiudo la porta alle spalle, entrando sotto la doccia con i
vestiti ancora addosso e l'acqua gelida che mi martella la testa.
Respiro a grandi boccate.
Di
tutte le risposte che Shad poteva darmi, questa è la
peggiore.
***
Guardarsi
allo specchio è come saltare fuori dal proprio corpo e
osservarlo dall'esterno. Mi passo le mani sulle guance,
cercandovi il segno di un rigonfiamento, ma le ferite vanno meglio di
quanto sperassi; i tagli hanno già cominciato a cicatrizzare
e
i lividi hanno perso colore. Lancio un'occhiata interrogativa a Shad,
che
si è offerta di acconciarmi i capelli in un chignon sopra la
testa. Lei ha l'aria colpevole.
-
Ho lavorato un po' sulle ferite, mentre dormivi. Le tue cellule hanno
reagito bene al trattamento e... Beh, hai delle piastrine niente male.
- Uhm, grazie?
Torno
a fissare il riflesso del mio viso ovale, soffermandomi sugli
occhi grandi, dove qualche pagliuzza schiarisce il castano; poi faccio
scorrere lo sguardo sulle labbra
piene e arriccio il naso contro gli incisivi superiori cresciuti
troppo. A un esame più attento trovo anche un piccolo neo
sullo zigomo sinistro, quello che mi distingue da Lilith.
Come se fosse possibile scambiarci l'una per l'altra.
Shad mi prende in giro.
- Controlli di essere veramente tu?
Prima che possa giustificarmi,
Shad mi riserva il risultato finale.
-
Tadà!
In
effetti con
i vestiti comodi che mi ha prestato, la faccia pulita e i capelli in
ordine, mi sembra di essere una persona diversa da quella che ero ieri
sera: una persona nuova.
Deglutisco
all'idea.
-
Grazie, - dico, e sono sincera.
-
Non ho mai avuto i capelli così apposto. Penso che ti
terrò con me per il prossimo quadrimestre a scuola.
La
scuola che mia sorella ha fatto saltare in aria.
Lei
fa finta di non capire. Comincio a sperare che non sappia tutto, a
proposito della ragione che mi trattiene in questo posto, ma in
realtà Shad è una persona così
tranquilla che non può fare a meno di mettere gli
altri a proprio agio.
Mi dà qualcosa da mangiare e chiede di me
come se le importasse davvero. Quanti anni ho, - lei ne ha quasi
compiuti venti, -
che cosa mi piace fare, come mi sento in questo momento. Solo alla fine
accenna al
resto.
-
Sai, Xanders mi ha chiesto di farti fare un giro del posto, mentre
pianifica qual è il prossimo passo.
Mi
prendo qualche secondo per pensare, rassegnandomi all'idea che
se
voglio ottenere qualcosa da questa storia, devo rimanere qui. Tanto
vale saperne di più sul luogo in cui mi trovo.
-
Okay, - annuisco.
I suoi vestiti mi stanno corti sulle maniche, ma
è bello avere qualcosa di pulito addosso. Shad è
stata
carina a prendersi cura di me. Mi piace.
Sto
per dirglielo quando qualcuno bussa alla porta. La mia prima
impressione è che si tratti di un picchio, tanto
è insistente.
E adesso?
chiedo a Shad con un'occhiata, ma lei si limita a
sospirare dolcemente,
sfiorando un pannello sul muro. La porta si spalanca e dietro
c'è -
-
Buongioooooooooorrrrrrno!
Lolly.
Levy?
-
Buon pomeriggio, Leslie.
Leslie.
La
bambina è una forza della Natura. Chissà se anche
lei
è diversa da me. Superiore a me. Più intelligente
e
sveglia e resistente. Più carina lo è di certo,
con quei
capelli corti da folletto e il nasino sottile.
-
Su su su, andiamo, Sybil! La Villa è enoooorme.
-
Non ti sei nemmeno presentata, Leslie.
Shad
si mette le mani sui fianchi e la rimprovera in maniera tenera, quasi
materna, ma Leslie è un fiume in piena. Mi
prende per mano, trascinandomi verso la porta senza una
spiegazione.
-
Ciao Sybil, sono Leslie, quella della cioccolata, e mi avrebbe fatto
taaanto
piacere se ti fossi
unita agli altri per pranzo. È che stamattina mi sei
sembrata un po' fuori
di testa e Shad ha pensato bene di renderti le cose più
semplici, portandoti qui la colazione. Shad pensa seeeempre a tutto.
Mi
aggrappo allo stipite della porta, puntando i piedi. Non ho intenzione
di andarmene da qui senza Shad.
-
Tu non vieni? - la supplico.
-
Leslie ha un talento per i giri turistici, - dice, - e io vi
rallenterei.
Ammicca
agli ingranaggi sofisticati che ha a posto delle gambe.
Oh.
Le sue dita
meccaniche si piegano per salutarci, emettendo un leggero stridio. La
ringrazio un'ultima volta prima di uscire, e lei risponde
indicandosi la metà sfigurata.
-
Grazie a te. Per non avermi chiesto di questo.
Anche
se avresti voluto farlo.
Seguo
Leslie per non dover aggiungere altro. Non voglio rischiare di ferire
l'unica persona della quale spero di potermi fidare.
Che
sia Nova o no, Shad è la più umana che abbia
incontrato fin ora.
***
Quando
recuperiamo Alphy - a cui hanno inspiegabilmente procurato degli
occhiali nuovi - ho già sviluppato:
A) Una lunga serie d'istinti
omicidi nei confronti di Leslie.
B) Una brama piuttosto egoistica di essere ricca come quelli che vivono
qui dentro.
D) Guardare la lettera
A per maggiori informazioni.
Quella che
la ragazzina definisce una Villa, è un complesso di immense
proporzioni. Non è il luogo in cui mi sarei aspettata di
trovare
delle persone come Xanders e i suoi, tutti progresso e ricerca
scientifica. La Villa sembra più una vecchia tenuta
aristocratica, abbellita da quadri, lampadari e decorazioni sui marmi
del pavimento. Alphy non ha abbastanza spazio nel cervello per
memorizzare tutto, e lo capisco: l'FC-nA
Minnesota è ancora
in buono stato, ma questo è troppo. Ci sono più
soldi qui di
quanti ne abbia mai immaginati in tutta la mia vita, e mette i brividi
pensare che fuori da qui manchino servizi, energie, e qualche volta
perfino del cibo.
-
Aaaaallora, mentre i grandi risolvono i vostri problemi, noi andiamo a
farci un giretto.
Mi avvicino ad Alphy più che posso,
dandogli una pacca sulla spalla. Ha la faccia gonfia, come se avesse
pianto.
- Che
facciamo quando è finita la gita, ci hai pensato?
Continua a
camminare, lasciandomi indietro, e io mi ricordo che non sono
l'amica con cui vorrebbe parlare.
Perfetto modo di iniziare la giornata.
Quasi preferivo svegliarmi presto per andare a lezione.
- Cos'è esattamente la Villa,
Leslie?
- Lo so a che pensi, amica, ma la Villa non è un
quartier generale. Quelli sono nelle grandi
città.
Non lo pensavo, ad essere sinceri.
- Questo per i Novi è solo un centro di ricerca, dove
cerchiamo
cose. Hai presente?
Mima il gesto di guardare attraverso una lente
d'ingrandimento e ride di gusto.
Leslie si diverte con poco.
- Ce ne sono centomilamiliardi
come
questa, nel Mondo. Forse un po' di meno, tipoooo...qualche centinaio.
- I bambini come me ci vanno per
imparare cose nuove, mentre
i genitori si concentrano sulle scienze applicate. Qui però
non
ci sono genitori.
- O dai, è uno scherzo.
Alphy si porta le
mani sui capelli, come se volesse strapparseli per lo sconforto. Lo
capisco, anche io stento a crederci.
- Sì, mi stai dicendo che
questo è un orfanatrofio per piccoli geni?
- No, non quello. Il
quadro sopra la porta.
Si allontana da noi di qualche passo.
Questa è la parte in cui comincia una lezione delle sue?
- È un falso, spero.
Mi chiedo come possa
importargli di un quadro proprio qui e proprio adesso, con tutti gli
oggetti che addobbano questo posto. All'inizio quasi non lo noto, tanto
i colori sono scuri e i lineamenti sfuocati dalle ombre. Poi un
sorriso malizioso mi dice che l'ho trovata: si tratta di una tavola di
all'incirca un metro quadrato, chiusa dentro una teca di vetro che
quasi non si nota.
Adesso so perché ad Alphy sia venuto un colpo.
- Noooo,
macché. Mica abbiamo falsi, qui. Ci è stato
donato dal
padre di uno dei nostri. Lo ha salvato dalle razzie
giù in
Europa.
- Se fosse vero, io non terrei il San
Giovanni di Leonardo in
un posto qualunque.
Leonardo? Quel Leonardo? Pensavo che anche lui fosse scomparso
anni fa.
La versione ufficiale è che i
capolavori dei più importanti artisti della storia sono
stati affidati all'USD e rinchiusi in caveau segreti. Questo dopo
essere stati sottratti a Stati Uniti e a
Gran parte dell'Europa per come si sono comportati durante la Rottura,
è chiaro.
Attualmente la polizia gestisce tutti i musei
ancora esistenti, ma l'ingresso è limitato, periodico
e così costoso che nessuno che conosco ci è mai
andato. Io trovo che
sia un'ingiustizia bella e buona, ma la USD non pensa che gli esseri
umani si meritino di coltivare la bellezza. L'abbiamo fatta marcire da
troppo tempo.
Comunque esistono ancora copie, stampe, cartoline e doppioni. Alla
gente basta questo: in una scala dei bisogni l'arte è
l'ultimo dei nostri problemi, purtroppo.
-
Uffa, non è mica un posto qualunque! La Villa è
stata costruita a partire dall'ala Est, e la prima pietra è
stata posta proprio in questo punto. Non vedete?
Io e Alphy ci guardiamo intorno.
- No.
C'è qualcosa di inquietante in questa tavola. Nonostante le
dimensioni di un comune ritratto non si può che rimanere di
stucco davanti alla smorfia appena accennata di Giovanni. Gli occhi
scuri del Battista mi fanno sentire praticamente nuda: dicono troppo,
senza lasciar
capire niente.
D'improvviso sento il bisogno di andarmene alla svelta.
- Forte il modo in cui sembra guardarti, vero? Eeeeh?
Leslie dondola
sui piedi, gesticolando. Si porta due dita sugli occhi e poi le
allontana, come a tracciare una linea immaginaria tra il suo sguardo e
quello del Santo.
- Si tratta di un effetto ottico mooolto complesso.
Puoi spostarti da una parte all'altra del corridoio, ma fino a quando
rimarrai davanti alla porta, San Giovanni ti vedrà.
Alphy non
sembra convinto.
- Perché quella mano alzata a indicare il
cielo? - gli chiedo.
Si tormenta gli occhiali nuovi come se li
sentisse estranei, troppo instabili sull'arcata un po' storta del
proprio naso. Ha
la bocca aperta per lo stupore.
-
Le interpretazioni sono tantissime. Secondo alcuni il dito puntato
verso l'alto è per ricordarci che c'è Dio
lassù.
Altre fonti, quelle più laiche, considerano che
sia Da Vinci stesso ad essersi rappresentato nella tela, e che il suo
gesto sia nient'altro che un codice per far riferimento alla...
-
Conoscenzaaaaa! Il dono più alto di tutti, - l'anticipa
Leslie.
- Il
bene superiore.
Chino la testa per sfuggire al giudizio del Battista.
Mi sento esclusa dai loro discorsi. Tagliata fuori. Ancora.
Leslie delle volte parla come se fosse un libro stampato. È
un tono che non si
addice a una bambina come lei, eppure non sembra farci caso. E
intanto io mi sento come se non potessi sostenere una conversazione con
loro
due senza finire per apparire ridicola.
Lilith si sarebbe trovata bene
in questo posto, circondata da persone tanto capaci, ma non posso dire
lo stesso per me. Perfino Alphy è vicinissimo, eppure
terribilmente distante.
-
Cosa c'è dietro la porta?
Intervengo
per dare tregua ai miei pensieri. Voglio interrompere il muto contatto
visivo che mi lega al Battista, e farlo in
fretta.
Leslie si fa vicina. Vicinissima.
Assottiglia gli occhi e
poggia la mano sulle corone d'alloro incise sul
legno. La sua espressione è solenne, e io trattengo il
respiro.
-
L'ascensoreee! - urla; poi fa trillare una risata delle sue.
Decido che odio i bambini.
Soprattutto quelli che possono vantare un QI più alto del
mio.
***
L'ascensore
può solo salire.
A detta di Leslie la Villa è costruita
sopra dozzine di locali sotterranei che usano come laboratori di
ricerca, ma non in questo punto. Nella parte più antica del
complesso le fondamenta
poggiano su terra e pietre, come dovrebbe essere.
Conto i piani, tre
più un osservatorio. È normale per lei, tutto
questo?
Quest’unione forzata di vecchio e nuovo, di tradizione e
innovazione tecnologica?
-
Se non è un orfanatrofio è una specie di scuola,
giusto?
-
Più o meno. Non è mica noiosa come quelle normali.
-
Non lo metto in dubbio, ma dove sono tutti, professori e studenti?
Mi
meraviglio che non abbiamo incontrato nessuno, per adesso, anche se non
mi dispiace. È che la
struttura è gigantesca e fa strano che vederla vuota, dal
momento in cui i
genitori dei
ragazzi che ci abitano hanno impieghi importanti e sono costretti a
lasciare i figli nelle Ville più vicine. Nel continente ce
ne
sono otto, e questa non è nemmeno la più
importante.
Registro le informazioni più utili e mi ripropongo di
rifletterci su in un secondo momento. Per adesso cammino senza
discutere - o quasi - perché Leslie ha fretta, e
c'è
ancora tanto da vedere.
Dopo aver fatto il giro completo di saloni e
gallerie, dormitori e perfino una grande biblioteca, Leslie ci riporta
al primo piano. Ha una sorpresa per noi, e a me non
dispiace fare una pausa. Siamo in giro da un po', ormai, e Leslie non
ha
smesso di parlare un minuto.
Le porte dell'ascensore si riaprono su un
corridoio ampio, dove le pareti di pietra e intonaco assorbono la luce
che proviene dall'esterno. Non ho un orologio da polso e il mio
telefono è mezzo rotto, ma il cielo fuori si sta scurendo.
Mi
sembra che sia notte da un'eternità, e che l'Inverno abbia
consumato il giorno troppo presto. In realtà questa mattina
ho
dormito, e adesso mi sento stordita da una scansione così
insolita della giornata.
Sbircio fuori dalle grandi vetrate sul lato
sinistro del corridoio: non ho mai visto così tanti alberi
in vita mia. Viene voglia di perdersi in mezzo ai boschi.
La
Villa
è incredibile, con le pietre chiare dei pavimenti e delle
pareti, i mobili di vero legno e i lampadari che pendono. Mi mette in
soggezione. Alphy ha detto che in Europa se ne trovavano
molti, di posti come questo, con i soffitti alti e affrescati, le
paraste scanalate, le esedre e le volte incrociate. Leslie conferma
che l'architetto che ci ha lavorato sopra era austriaco.
Mi vergogno un po' a
confessare che non conosco la metà delle parole che usano
per descriverla, così tengo tante impressioni per me.
Tocco le semicolonne addossate alle pareti, e faccio passare le dita
sulle balaustre delle scale. Assaporo il freddo del marmo, l'odore
delle resine e degli stucchi. Forse non è abbastanza per
contemplare la sfarzosità del posto, ma è il mio
modo di
guardarmi intorno, e mi basta. Almeno fino a quando le spalle
cominciano a curvarsi per la stanchezza.
- Ci possiamo fermare? Ho bisogno di una pausa.
Sono
fuori allenamento. Da quando c’è
stato l’attentato basta un piccolo sforzo fisico a farmi
girare
la testa. E il resto - l'attacco, il sequestro, la scoperta
dell'attentatrice - non è stato
d’aiuto. Appoggio le mani sulle ginocchia e faccio respiri
regolari. Spero che non troppo
lontano ci sia una sedia.
-
Stai bene?
La
faccia smorta di Alphy compare da sotto il mio naso. Ha le
gambe piegate per potermi guardare meglio. Una fossetta
profonda
gli increspa la guancia, dove sono ancora visibili lividi a forma di
polpastrelli. Sembra più piccolo di quanto non sia in
realtà.
-
Questo posto è così pazzesco da farmi venire le
vertigini.
-
Già,
- dice solo, e si raddrizza senza aggiungere altro. Qualcosa mi dice
che non sono l’unica ad aver avuto degli incubi, qui. Ammicco
al
fianco dove l’hanno quasi accoltellato. Ricordo di averlo
tenuto
stretto al petto come si fa con un giocattolo. Era inerte, con
le braccia gelide e pesanti che cercavano il terreno, come a voler
affondare nel catrame solido della strada. Alphy se ne stava andando
come Lilith. Più di lei.
-
Tu stai bene? – gli chiedo, e nel momento in cui lo dico mi
accorgo che mi importa veramente.
Gli
occhi di Alphy, polvere liquida e pallida, si fanno lucidi.
-
No.
Sto
per parlare quando Leslie mi strattona con insistenza.
-
Ti
sei riposata? Andiamo.
Mi affera per un braccio. Forte. Sopra le scottature.
- AHHH!
- Scusaaaa!
Scusa? Aaaaaaah.
Mi mordo il pugno con una mano. Fa male, ma non male come la pelle
ustionata. E lei si scusa.
- Ti brucia ancora? DAI, a me passerebbe in un millisecondo!
Non so se a sconvolgermi di più sia quello che ha appena
insinuato - e cioè che la mia capacità di
guarigione
è di serie B - o il fatto che lo abbia letteralmente urlato.
Quando la sua eco si spegne decido che il giro turistico è
finito. Stop. A-non-rivederci.
- Stai di nuovo parlando da sola, Leslie?
Io e Alphy ci scambiamo un'occhiata. Io non ho parlato. Lui non ha
parlato. E a pochi metri da noi c'è una porta a due ante, di
quelle con il chiavistello pesante d'ottone, dal cui interno si
percepiscono risatine soffocate e tintinnii di tazze da tè.
Non
mi servere chiedere il parere di Alphy per sapere che cosa suggerisce:
ce ne andiamo. Subito. Nel giro di cinque secondi. Solo che dal primo
al terzo quella maledetta peste ha già gridato alla
sorpresa, e
dal quarto al quinto si è già precipitata sulle
maniglie,
spalancando la porta con energia. Io non ho il tempo di defenestrarla.
Ci provo quando mi sfreccia vicino, ma è veloce. Una
scheggia.
Ho almeno il tempo di chiedermi se voglio conoscere qualcuno qui
dentro, qualcuno di non-del-tutto-umano come la mia sorellina
latitante-e-terrorista. Così, giusto per fare nuove
amicizie. Quando
dal sesto al decimo secondo vedo l'interno della stanza
per la prima volta non mi sono ancora data una risposta. Mi distraggo
facilmente.
Conto in fretta, a coppie di due, ma sbaglio
poco dopo e sono costretta a ricominciare. Alla fine il totale
è
di ventiquattro teste. Ventiquattro Novi che mi guardano come se fossi
una
specie rara e, possibilmente, in via d'estinzione.
- Compagni, vi presento Sybil Crowford e Alphy Fleming!
***
Leslie batte le mani. Non si accorge che
è l'unica a
farlo, e
continua fino a che non le dò un colpetto con la scarpa per
smorzare il suo entusiasmo. Faccio un segno di saluto perché
è la prima cosa che mi viene in mente e anche quella che
richiede meno convinzione.
- Ciao.
Mi accoglie un coro di saluti. Alcuni sono più calorosi
di quanto mi aspettassi, altri del tutto diffidenti, ma riescono a
salvarmi dal silenzio imbarazzante che temevo di dover affrontare.
Alphy mi sta dietro, rigido come un tronco, e si limita a un cenno
della testa.
- Mmh, - borbotta, e io ho imparato che in certe situazioni
è il
massimo che gli si può chiedere. Vorrei ricordargli che
negli
ultimi giorni abbiamo affrontato sfide peggiori che un gruppo di
adolescenti, ma servirebbe solo a convincere me stessa. Ci sono
persone come incendi e altre che davanti a un respiro estraneo
tremano come candele. Alphy è una di queste.
- Mmh anche a te.
Trovo l'unica persona che conosco abbandonata su una poltrona
imbottita. Riconosco Reichenbach all'istante, anche solo per il modo in
cui scimmiotta Alphy. Ora sì che mi pento di aver seguito
Leslie fin qui.
- Mmh, mhh,
- continua, - mhh.
Non mi
stupisco del fatto che stia facendo l'idiota, ma del fastidio che mi
provoca sapere perché lo
fa: c'è una ragazza seduta sulle sue
ginocchia, e lui sta cercando di divertirla. Banale? Comprensibile. Del
resto si
tratta della classica ragazza brava in cucina. Di quelle che
tagliuzzano l'autostima di tutte le altre, la frullano per bene e la
cuociono a fuoco lento per mangiarsela come dessert. Non che io abbia
problemi con il mio aspetto, s'intende. Dico solo che se mi arrivassero
per posta, non rispedirei indietro quella cascata soffice di ricci
rossi,
quelle lentigini sul naso, come spruzzi d'ambra, e quegli occhi azzurri
dal taglio felino. Se solo non fossero intrecciate a quelle di Nicholas
terrei perfino le sue gambe, ancor più lunghe delle mie.
Non devo essere invidiosa.
Mamma si arrabbia sempre, quando le
sembra che sia invidiosa di Lilith. Distolgo lo sguardo per rispettare
il proposito, e mi aiuto pizzicandomi la gamba.
A parte Reichenbach non conosco nessun altro. Tutti i Novi se ne stanno
accoccolati
attorno a un tavolino basso, giocando a scacchi o sfogliando un libro.
Qualcuno si è raccolto vicino a un camino che
scoppietta sul fondo della stanza, attizzando la legna. Se Leslie
è la più piccola, nessuno deve avere
più di
diciotto anni.
- È la sorella di Lilith Crowford?
Una ragazza dà una gomitata al suo vicino, poi si copre la
faccia con rassegnazione.
- Stupido!
Io non rispondo alle scuse mugugnate.
- Quando ci hanno detto che avevamo degli ospiti non riuscivamo a
crederci.
Questa volta è un ragazzo a parlare: quasi due metri di
muscoli
ricoperti da una pelle così scura da sembrare nera.
- L'ultima volta che qualcuno si è unito a noi è
stato l'anno scorso, con Annalise.
Il ragazzo sorride. Si fa avanti per stringermi la
mano e io l'afferro subito per paura di scoprire che tremi.
È
calda, ferma. Sorrido di rimando.
- Sybil.
- Sam.
- Non sono Novi, - azzarda qualcuno, e tutti si girano a guardarlo. Ha
toccato il tasto dolente.
- Non scherzare, Ren.
- Chol, digli se non sono serio.
Nicholas si arrotola una ciocca di capelli rossi attorno al dito.
- Xanders sostiene che sono dei Sapiens. Io ho miei dubbi
anche su quello.
La frecciata mi centra in pieno. Non mi aspettavo la
gratuità dell'attacco, e allora ingoio. Mi ordino che devo
rispondergli per
le rime, ma non sono abbastanza svelta nel formulare una risposta
altrettanto caustica. Me lo lego al dito, che devo riparare, anche se
qualcosa mi suggerisce che con lui è difficile.
Che problema ha?
- Allora perché sono qui?
La ragazza che si alza sembra tesa. Si guarda intorno in cerca di
qualcuno che condivida la sua apprensione, ma tutti sono troppo
interessati a me
per darle corda. Ha la faccia pulita e le sopracciglia spesse che
stonano un po' con il viso squadrato. Faccio per presentarmi anche a
lei, ma la ragazza indietreggia.
Okay. Capito.
- Voglio dire, è la prima volta che qualcuno come loro entra
nella Villa.
Leslie non sa come comportarsi. Non le
hanno parlato di noi in quel senso e la cosa non mi sorprende:
perché dovrebbero informare
una ragazzina di dieci anni su quello che è successo? Sul
suo faccino si intravede la delusione; si allontana da me
e Alphy quasi si sentisse tradita, e a me cadono le braccia
per il
dispiacere.
- Non ti sei fatta spiegare nulla? Leslie, sei
proprio una fessa.
La rossa reclina la testa all'indietro,
sbuffando. La sua voce è stridula, mi dà sui
nervi.
- Avete nominato mia sorella, quindi sapete perché ci
troviamo qui, - sbotto.
- È sparita due settimane fa. Xanders ci ha letteralmente
sequestrato,
giustificandosi con la scusa che potevate aiutarci a ritrovarla. Mi ha
parlato di questa
specie di organizzazione segreta e di questi... questi psicopatici che
hanno cercato di farci a fette. E anche di evoluzione della specie,
sì.
- Ci ha chiesto di rimanere qui finché le cose non si
saranno
sistemate, quindi è con lui che dovete prendervela. Non con
Leslie.
Lei tira su con il naso.
Cerco rinforzi. Alphy vorrebbe trovarsi in un altro posto, ma questo
non vuol dire che non debba aiutarmi. Lilith è la sua
migliore amica, dopotutto. Era. Non lo so, visto che ha ucciso
quarantuno persone.
- Vero? - gli chiedo.
- S..sì.
Torno a guardare la ragazza e inclino la testa di lato.
- Piacere di conoscerti, comunque.
Le espressioni di tutti i ragazzi nella stanza si
fanno serie, ad eccezione di quella della rossa. Lei sembra divertita,
come se
avessi appena detto la cosa più sciocca del mondo; non si
preoccupa nemmeno
di nasconderlo. Passa una mano sul petto di Nicholas e mi sfida con un
sopracciglio alzato.
- Fammi capire: vi siete fidati di uno sconosciuto che
vi ha parlato di esseri umani geneticamente superiori?
Nicholas ride. Aggiunge "Violando
il Trattato".
- Beh, - comincio, perché adesso ne ho piene le tasche della
coppietta felice, - a dire il vero quando ci ha indicato lui come
essere umano superiore,
abbiamo pensato di essere capitati in una candid-camera.
Un applauso impedisce a Nicholas di
difendere il suo onore da Principe del dormitorio: è di un
ragazzo dall’aria
curiosa, con il viso seminascosto dai capelli neri che gli incorniciano
la
faccia. Era rimasto talmente silenzioso, prima, che l’avevo
notato appena. Ora riesco a vederlo bene: ha dei lineamenti
particolari, con il
naso un po' troppo all’insù per i miei gusti. Gli
occhi sono di un colore caldo, quasi dorato.
- Touché.
– dice solo, ammiccando a Nicholas.
- Divertente, Armand, molto divertente.
Io indico Armand con due dita.
- Bella camicia.
Sexy, mi concedo il pensiero.
Lui mi fa l'occhiolino, ma con aria amichevole.
È il primo che vince del tutto la diffidenza e ci invita a
sederci vicino
al fuoco. Controlla che sia rimasto del tè e si
offre di portarcene dell'altro quando scopre che è
finito. Alphy ha la bocca serrata, figuriamoci lo stomaco, ma
io
mi accontento dei biscotti.
Mano a mano che parliamo gli altri ci si
fanno attorno e si presentano uno a uno. Cerco di ricordare i loro
nomi: Gregorie, Charles, Hellen e Maria, che promette che mi
parlerà dell'Italia non appena le rivelo che mia nonna
veniva da
lì. I ricordi, però, la rendono un po' triste.
E poi c'è Toni, bella
sotto i suoi occhiali finti che sembrano usciti da un
mercatino
delle pulci.
Infine Ivan, Ren e il ragazzo che mi ha stretto la mano, Sam. Gli
altri non riesco proprio a tenerli in mente, e alcuni si rifiutano
perfino di presentarsi. C'è la ragazza dai capelli rossi,
tra di
loro, ma Sam dice che il suo nome è scontato: Beatrice.
Rimando
a dopo il compito di afferrare il collegamento che c'è
dietro.
- Non sappiamo di preciso cosa sia successo con tua sorella.
Hellen ci tiene subito a puntualizzarlo.
- Ma vedrai che andrà tutto bene. Nel frattempo prendi tutto
come
una vacanza; hai già visto i laboratori? Non sono come
quelli
che avevamo a Ginevra, ma non mi lamento.
- Sono sicura che ti piaceranno, - aggiunge Maria.
- Ti ci porto domani, piccola.
Ren filtra in maniera un po' ridicola, ma è simpatico.
Nel frattempo due delle
ragazze coccolano Alphy in maniera un po' eccessiva,
come fosse un
coniglio da laboratorio che non hanno la forza di sezionare. A me
viene in mente che forse ci considerano una variabile interessante
della loro routine, ma per il
resto non trovo niente che li possa rendere migliori di me. A
livello genetico, intendo.
Qualcosa però mi dice che devo
vederli all'opera: anche Lilith era solo una ragazzina, dopotutto, ma
dietro
quella fronte alta il suo cervello non stava mai fermo.
Trangugio gli ultimi biscotti.
- Avevi fame!
Annuisco.
Sai com'è, la tensione.
Era da un po' che non passavo del tempo senza rischiare di morire. Non
mi sembra ancora vero.
***
Molti dei ragazzi vengono da lontano, e tutti hanno viaggiato molto.
Armand
dice che i Novi vanno dove possono realizzare qualcosa di buono, ma non
ne sono certa. Finora quello che hanno fatto non lo ha notato nessuno,
ma lui afferma che lo fanno apposta, ad essere praticamente invisibili.
Un po' come me. Se fossi senza consistenza non sarebbe poi
così
diverso, per
Reichenbach. Mi concedo occhiate brevi e furtive nella sua direzione:
ha la testa poggiata sulla spalla di Beatrice, e lei sembra
soddisfatta di sentire il suo respiro sulla pelle. Gli bisbiglia
qualcosa
di sfuggita, ma lui è più arrabbiato per la
nostra presenza che altro. Le stringe
le braccia attorno alla vita, e a quel punto distolgo lo sguardo. Non
so perché, ma mi pare di rubare qualcosa che non
mi appartiene. Lo trovo degradante.
Dopo un po' comincio a perdere il filo della conversazione. Mi ritrovo
ad annuire senza prestare ascolto, guardando fuori dalla finestra per
assistere alla ritirata della luce. Quando parlo non lo faccio a
nessuno in particolare.
- C'è un'altra Villa per quelli che hanno scelto una Fazione
opposta alla vostra?
Armand si tira indietro sul sofà, giocherellando con una
pedina
degli scacchi e Ren si abbassa i googles sul collo come se gli
stringessero troppo la testa.
Già, Seymour mi ha rivelato anche questo.
È Toni che si fa avanti per prima.
Si scosta i capelli arruffati dalla bocca e fa segno di sì.
- Ce ne sono diverse.
- Come questa?
- No.
Detesto quando le persone mi rispondono a monosillabi. Spesso
però lo faccio anche io, così mi sforzo di
suonare tranquilla.
- Perché no?
- Sono state costruite tutte dopo la Rottura. Non hanno una copertura
"architettonica" come la nostra.
- Sono moderne?
- Sì. Si trovano nelle grandi città, o poco
distanti.
- Chiedilo e basta! Tanto non sappiamo dove si è nascosta
tua sorella.
Prendo in considerazione l'idea di alzarmi e prendere a schiaffi
Beatrice. Non sarebbe la prima volta che le mani mi formicolano per il
bisogno irrefrenabile di picchiare qualcuno o di rompere qualcosa,
farlo a pezzi e continuare a pestarlo. Ci sono giorni, quando le cose
vanno male, in cui ciò che voglio è rovinare
tutto
per fare in modo che anche gli altri abbiano la propria parte. Ho
distrutto il sismografo di Lilith, poco prima dell'attentato. Adesso so
perché l'ho fatto. E so che è sbagliato, ma lo
voglio lo
stesso.
Però faccio finta di sbadigliare. Ignoro Beatrice e,
stirandomi le
braccia, faccio scrocchiare le dita. Mi rispondo da sola: Lilith
è lontano, e se non fosse per la mamma potrebbe restarci per
sempre. Beatrice invece posso ucciderla la
prossima volta.
- Quando se ne andranno?
Potrebbe almeno abbassare la voce!
- Non dovrebbero, non so, cancellargli la mem -
- Shhh. Lo sentite?
Tendo le orecchie insieme agli altri, ma ci vuole un po' prima che
riesca a sentire qualcosa.
- Che succede?
- A giudicare dalla frequenza dei passi, - comincia Gregorie, - sta
arrivando Shad.
A quanto pare la precede il rumore degli ammortizzatori delle sue finte
articolazioni.
Il modo in cui spalanca la porta, come se ci fosse andata a sbattere
contro e
qualcosa la inseguisse, lascia tutti di stucco. Io invece sono felice
di vederla, e salto
su prima ancora di salutarla.
- Shad!
Lei non fa caso a me.
Ansima forte, e dal suo petto si alza un rumore che ricorda un mantice
da fucina. Sono i
suoi...polmoni?
- Nicholas!
L'occhio meccanico si muove all'impazzata,
troppo veloce perché quello sano possa seguirlo. L'immagine
che mi si para davanti è mostruosa.
- Nicholas, Xanders sta tornando di corsa da Marshall.
Marshall. La mia città. Per poco Alphy non rovescia il
tavolo da tè. Tutti sembrano
pietrificati nell'esatto istante in cui Shad ha fatto irruzione nella
stanza.
- E allora?
- Devi - a...andare nella...
Shad afferra il primo appiglio che trova, come se facesse fatica a
stare in piedi.
- Sala circolare.
L'impronta della sua voce si perde parola dopo parola, sostituita da un
timbro meccanico,
come quello di un androide o di un un vecchio GPS. Rimango a fissarla
con gli occhi sbarrati.
- Ci stanno trasmettendo un messaggio da DC, e chiedono che in assenza
di Seymour sia tu a riceverlo.
Tutti cominciano a borbottare. Parlano, parlano, parlano.
Shad riesce a emettere un unico suono prima di scivolare ai piedi
della parete. Toni la soccorre in un battito di ciglia.
- Subito.
Shad singhiozza nella mia direzione. Una contrazione di dolore le
irrigidisce le venature di metallo nell'esatto istante in cui si
accorge che sono qui.
Anche Nicholas mi guarda, e io guardo lui.
Se è davvero come Lilith,
sa che cosa sta per succedere e non perderà altro tempo, ma
Beatrice è ancora sulle sue gambe quando io mi alzo e infilo
la porta.
Lo sento imprecare alle mie spalle. Armand cerca di riacciuffarmi,
afferrando un lembo della mia maglia. C'è il rumore di uno
strappo, ma non mi fermo.
Quando
Reichenbach mi sfreccia vicino, io giro su me stessa e colpisco alla
cieca il braccio che mi tiene stretta.
Corro come quando alle mie
spalle c'era il fuoco, e di nuovo il torace brucia come se i tessuti si
stessero sfaldando per staccarsi dalle ossa. Anche se lui
mi semina, perché è più veloce di
qualunque essere
umano abbia mai visto, la strada me la ricordo. Leslie è
stata
brava, in questo.
Corro, e i passi che stanno per raggiungermi sono solo una spinta ad
andare più forte. Riesco a prendere l'ascensore prima che
Armand riesca a intrufolarvisi, e tiro un pugno contro le porte per
scaricare la rabbia. So che Nicholas è già
arrivato. Scommetto che quelli come me se li lascia sempre alle spalle.
Quando arrivo a destinazione mi sento così male che mi viene
da
vomitare.
Eravamo troppo lontani dallo studio di Xanders, e io
ci ho messo troppo. Nicholas mi ha preceduto da un pezzo.
Lo posso
dire con certezza perché riesco a vederlo, adesso, oltre la
nebbia che per lo sforzo
mi offusca la vista.
Mi sta guardando.
Ha lasciato la porta aperta per me.
***
Entro facendo ben attenzione a dove metto i piedi. Reichenbach ordina a
tutti quelli che arrivano subito dopo di restare fuori, e a
quanto pare se hanno chiesto di lui è perché tra
i Novi ha una certa
influenza. Alcuni si lamentano e strepitano; Leslie
batte perfino i pugni sul muro, ma
Nicholas fa avanzare solo me. Digita un codice di quattro cifre sulla
fascia rigida che porta al polso e la stanza si fa tranquilla.
Insonorizzata, realizzo.
Cammino a debita distanza da lui, con il petto che si alza e si abbassa
come se non ne avesse mai abbastanza. Non riesco a dargli le spalle
senza farmi venire la pelle d'oca.
Reichenbach indica lo schermo a mezzaluna, alto sopra la scrivania.
- Il messaggio.
Ha
l’aria beffarda e le sopracciglia leggermente aggrottate. Nel
punto in cui gli ho squarciato il braccio con un pezzo di porcellana,
la
pelle è liscia e perfetta, tesa a modellare dei muscoli
asciutti.
-
Tutto
per te, creaturina.
Mi
guarda fisso l'incavo del collo e aspetta.
Di colpo mi sento come se ci fossero lunghe onde elettromagnetiche ad
attraversarmi, di quelle invisibili che Lilith temeva tanto. Non si
vedono, ma ci sono. Raggi gamma, raggi X o che so io, che uccidono
lentamente e modificano le cellule poco a poco, riuscendo a
perforare qualunque cosa senza lasciare traccia.
Ricordo che da piccola mia sorella mi aveva terrorizzato a tal punto,
con questa storia, che prima di andare a dormire passavo in rassegna
gli elettrodomestici uno
a uno. Staccavo le spine per impedire la formazione di campi magnetici,
proprio come mi aveva insegnato Lilith, e la mattina i miei
genitori mi davano sempre della psicotica.
Adesso
voglio solo che Nicholas smetta di guardarmi. Continuo a ripetermelo
fino a
quando non
mi ritrovo sotto lo schermo, senza sapere come ci sono arrivata.
All’inizio mi sembra che la voce dei Novi sia ancora
percettibile
oltre la porta, ma poi mi accorgo che si tratta del messaggio.
Più che altro si tratta di una telecronaca di quelle che
all'inizio scambi per un film del post-Rottura.
Ben presto diventa l’unica cosa che i miei sensi riescano a
registrare.
La
vista precipita nei colori delle immagini. Rosso, sabbia, nero e bianco
che si scontrano nel grigio del fumo.
L'udito
isola i suoni: le grida, i crepitii, le boccate d’aria dei
giornalisti senza fiato.
In
bocca invece torna il giusto amaro dei ricordi, e sa di bile che risale
in gola.
Alle
mie spalle
Reichenbach si porta un auricolare all'orecchio. Qualcuno dall'altra
parte comincia a litigare così forte che riconosco la voce
di
Xanders. Vedo il riflesso di Nicholas sulla superficie lucida
del legno: ha il mento poggiato sulla
mano come la statua di un pensatore e la stessa espressione attenta.
C'è una sorta di distacco che lo separa dal resto del Mondo,
come un'ironia tra l'insolente e l'intellettuale.
- Sam dice che è lì con te. Perché
l'hai lasciata entrare?
Per prendersi la rivincita, certo.
Xanders non vuole che sappia quello che sta succedendo là
fuori, come Reichenbach non voleva
che sapessi quello che succede qui dentro. Ecco perché la
porta
era aperta, quando sono arrivata. Nicholas non aspettava altro che
farmela pagare.
Mi chiedo se avesse previsto la possibilità di un'occasione
come questa. Questa
sequenza concisa di didascalie sullo schermo.
Scandisco una lettera alla volta, mentre Xanders minaccia che sta
già salendo sull'elicottero.
- Hai superato ogni limite, Nicholas.
Reichenbach riattacca, e mi pare che sulle sue labbra si formino delle
parole.
Non hai idea.
"Non hai idea di quello che posso fare." È questo che vuole
dire?
Forse. Che importa?
Non può essere peggio di quello che leggo sullo schermo.
Attacco
terroristico nella Capitale, il secondo dopo l'attentato che
due settimane fa ha sconvolto Marshall, nell'FC-nA Minnesota. Gli unici
due ospedali pubblici
della città sono stati disintegrati a distanza di due minuti
e ventisette secondi l'uno dall'altro.
Ancora incerte le dinamiche dell'accaduto.
- Sai, questo è ciò che chiamo un gran bel
problema.
Nicholas
si
allunga sulla scrivania e afferra un pezzetto di torrone. Lo scarta
piano, assaporando ogni secondo della mia reazione.
- Ed era ora, - sospira.
- Il mio cervello era sull'orlo di una crisi d'astinenza.
Si caccia il dolcetto tra i denti.
- Oh.
Lo
sento irrigidirsi, e so che non è più me che
osserva.
-
A quanto pare ce ne sono ottocentonovantasette, di problemi.
Non
capisco che
cosa voglia dire finché non trovo il contatore che
lampeggia all'angolo della schermata. A questo punto non ho domande da
fare, né voce per farlo, quindi mi siedo. Ho la bocca secca
come
terra bruciata
dal Sole, argilla e deserto arido.
Perché ottocentonovantasei è il numero delle
vittime.
E cresce.
A ottocentovantasette.
Ottocentonovatotto.
Ottocentonovantanove.
Note: non ci sono
note, yay! Semplicemente mi scuso per il ritardo; da qui in poi Entropyè
stata immaginata a pezzi, quindi collegarli si fa non dico
difficile, ma delicato. Non escludo che questo capitolo
potrà
essere modificato. Ringrazio le cinquantacinque persone che mi
hanno inserito tra i loro autori preferiti, in particolare chi segue
questa storia. Essere arrivata fino a qui è già
un
traguardo, per me. Mi scuso per un imprevisto che forse alcuni di voi
avranno notato. Qualcuno è entrato sul mio profilo e ha
inserito immagini poco eleganti nel secondo capitolo di Entropy. Adesso
le ho rimosse, ma ci tenevo a dirvi che mi dispiace per l'accaduto. Ah,
complimenti alla persona che mi ha giocato questo scherzo. Complimenti
per la maturità.
Detto questo spero che il capitolo vi sia piaciuto e vi auguro
un felice anno nuovo.
1.
Chadar: tipica veste orientale.
2. San
Giovanni Battista: olio su tavola di Leonardo Da Vinci.
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Capitolo 10 *** La cristallizzazione di un piano che non tende all'amorfismo ***
Cristallizzazione: è una transizione di
fase della
materia da stato liquido a solido,
nel quale composti disciolti in un solvente solidificano, disponendosi
secondo
strutture cristalline ordinate.
CAPITOLO 8.
Torno a Marshall solo per prendere quello che mi serve.
Ieri mattina Xanders ha fatto in modo che a mia zia venisse recapitata
una raccomandata dal medico curante della mamma. A quanto pare non
è in condizione di rimanere da sola in questo momento,
perciò è meglio che si trasferisca da lei per un
po', fuori città.
Quando la incontro sul ciglio della porta, la zia mi stringe a
sé e borbotta un "dove
sei stata?" umido e plateale. Inzuppa la maglia che Shad
mi ha prestato proprio all'altezza della spalla, marchiandola con i
segni inconfondibili del suo mascara scadente. Aspetto che l'abbraccio
sia finito, poi indico la ragazza che mia ha scortato fin qui.
- Lei è Maria, l'amica di cui ti parlavo per telefono.
Maria sventola la mano per salutare, come se ci conoscessimo da sempre.
Non può certo dire a mia zia che ci siamo incontrate due
giorni fa, quindi si limita ad offrirmi una mano per portare
giù le valige.
- Andrò a stare da lei.
- Ma tesoro, Minneapolis è così lontana! Sei
sicura di non voler venire da me?
Faccio finta di pensarci di nuovo, e di struggermi d'indecisione. Mi
tiro le maniche della maglia fino a coprire i pugni, poi annuisco. Lei
singhiozza con rassegnazione.
In realtà mi ha sempre detestato, ma alcune persone
pretendono di portare il minor carico possibile di dolore, e non
aspettano altro che condividerlo. Mia zia è una di queste.
- Sicura. Non sarei di alcun aiuto, comunque.
Indico l'interno della casa.
Mia zia si morde le labbra come se volesse controbattere, ma alla fine
si passa una mano tra i capelli sbiaditi e mi fa promettere che
chiamerò tutte le sere. Mette un indice sopra l'altro,
costringendomi a rompere la croce formata dalle sue dita: mia nonna -
quella paterna, però - ci diceva che era come dare la
propria parola d'onore. Io e Lilith abbiamo costretto tutta la famiglia
ad adottare questo rito.
Trovo la mamma seduta sul divano con una tazza di latte ancora caldo
tra le mani, e la speranza che stesse meglio si rinseccolisce fino a
svanire. Mi dico che una volta uscita da qui non dovrò
sopportare di vederla in questo stato per molto tempo, ma subito dopo
il senso di colpa mi rivolta lo stomaco fino alla nausea.
Perché non la vedrò e basta.
Non vedrò questa donna spezzata,
né il suo gonfiore da psicofarmaci, né le sue
crisi inaspettate.
Ma non vedrò la mia mamma.
Mi siedo al suo fianco, dandole un bacio sulla spalla. Lei mette via la
tazza e mi poggia una mano sulla coscia, ma è come se la sua
massa corporea fosse evaporata e niente di lei fosse rimasto a parte le
ossa. Perfino quando le ho mentito su quali sarebbero stati i miei
programmi per le prossime settimane mi è sembrata del tutto
disinteressata.
- Vi raggiungerò, - dico.
- Ho solo bisogno di un po' di tempo.
Lei stringe gli occhi e so che sta per piangere.
- Non voglio che ci raggiungi.
Anche le sue parole sono inconsistenti come la sua presenza. Un tempo
mi avrebbero ferito, ma adesso strascicano un carico diverso: credo che
mia madre voglia proteggermi da quel seme di follia che si sta facendo
strada nella sua disperazione. Lo so, voglio sperarlo.
Perché devo avere fiducia, giusto?
Rimaniamo a guardare la foto di me e Lilith che la mamma tiene in
grembo: io ho un graffio sulla faccia che dalla tempia arriva fino al
mento, regalo del gatto bisbetico della nonna, e Lilith ci soffia
sopra. Sembriamo felici, ma è un momento che non ricordo
nemmeno di aver vissuto.
Mamma si appiattisce la foto sul ventre come se si fosse pentita di
averci messo al Mondo.
So che cosa sta pensando.
Se fossimo rimaste al sicuro, sospese in una culla di liquido
amniotico, tutto questo non sarebbe mai successo.
***
Vestiti,
scarpe, spazzolino e caricabatterie; portafoglio (vuoto), quaderno di
matematica (per far chiudere il becco a mia zia), chiavi e pettine. Non
credo di aver bisogno d'altro per il momento, ma per sicurezza
controllo di aver preso tutto il necessario.
Camera mia è perfettamente identica a come l'ho lasciata:
stretta, disordinata e poco luminosa. Una mattonella da bagno della
Villa basterebbe a farla sfigurare, ma... ma niente. Siamo seri: terrei
comunque la mattonella. Almeno quella potrei rivenderla e comprare dei
mobili nuovi.
Mi metto lo zaino in spalla e sfreccio lungo il corridoio, pronta per
sfuggire all'atmosfera sfiorita della casa e tornare a pensare
lucidamente.
Prima di scendere le scale rimango qualche secondo davanti a una porta
pallida, dalla verniciatura meno intaccata della mia, ma pur sempre
scadente. La mia mano indugia sulla maniglia come se avesse paura di
scoprire che scotta, e rimane lì fino a quando Maria non si
affaccia dalla tromba delle scale. Dice che non vuole mettermi fretta,
ma che sarebbe meglio ripartire.
- Sybil, - mormora, e un tono grave scolpisce fastidiosamente il suo
accento spiccato.
- Dobbiamo andare.
Tiro giù la maniglia tutta in una volta, trattenendo il
respiro.
Mia madre ha chiuso la porta a chiave.
Sento i passi di Maria che si avvicinano con estrema delicatezza, ma
lascio la presa prima che lei mi raggiunga o mi rifili una parola
gentile. Vado di sotto e recupero le mie cose, poi saluto tutti e mi
assicuro che la zia abbia comunicato alla polizia il nuovo indirizzo
della mamma.
Mi infilo in macchina, stringendo tra i denti la catenella che porto al
collo, e aspetto che Maria rassicuri la mia famiglia come da manuale.
Quando sale in macchina la prima cosa che fa è offrirmi del
cioccolato.
Lo prendo volentieri.
- Era la camera di tua sorella?
Sigillata, con le spalle voltate al resto della casa e tutti gli
oggetti di Lilith assopiti sotto uno strato di polvere.
Chissà se, girando la chiave, la mamma credeva che almeno
una parte di lei sarebbe rimasta a casa.
- Sì, - rispondo, mentre Maria si allaccia la cintura e il
motore brontola che vuole andarsene.
Lo capisco, e non posso che dargli ragione.
***
Mi
stiracchio come un gatto, arcuando la schiena in uno scricchiolare
sonoro delle spalle. Ci abbiamo messo più che all'andata,
perché viaggiare in pieno giorno implica dei limiti di
velocità che i Novi, se possono, non rispettano. Non mi
aspettavo che mi coprissero gli occhi anche questa volta, ma Maria ha
insistito che tenessi il casco ben stretto, e io non me la sono sentita
di discutere con lei. Me lo sfila appena metto piede fuori dalla
macchina, così posso approfittarne per dare un'occhiata alla
rimessa.
- Portiamo tutto in camera di Shad?
Faccio di sì con la testa. Seymour aveva preparato una
stanza tutta per me, ma sono due notti che io e Shad rimaniamo a
chiacchierare fino a tardi. Alla fine ha insistito affinché
rimanessi con lei, e io ho accettato subito: stare ad ascoltare quello
che mi racconta sui Novi, sulla Villa e sull'Oriente mi aiuta a
rilassarmi, e poi non mi va di restare da sola in un posto che conosco
appena, soprattutto adesso che Alphy è tornato a casa.
Seymour ha bisogno di più tempo per convincere la sua
famiglia, visto che ai suoi cari importa sapere che sta bene.
Il problema è che importa un po' anche alla sottoscritta.
Forse.
O almeno credo.
Shad è ancora di sopra quando ringrazio Maria e trascino
dentro i miei bagagli.
- Hey, - ansimo. Immagino di avere le guance rosse per lo sforzo e la
faccia stravolta per il lungo viaggio. Se all'andata non avessi dormito
in macchina, non avrei nemmeno la forza di stare in piedi.
- Bentornata!
- Siete partiti a notte fonda, - osserva.
- Cavolo, mi dispiace di averti svegliato. È che dovevo
essere a casa per le otto di mattina.
E io che pensavo di essere stata discreta.
Shad mi chiede solo quello di cui ho voglia di parlare, senza mai
essere invadente o inopportuna. Due sere fa, dopo aver scoperto
dell'attentato di DC, sono corsa qui senza tappe intermedie. Se avessi
affrontato la gravità di quello che era appena successo,
sarei crollata una volta per tutte. Ho dovuto rigettare la folle idea
che Lilith fosse coinvolta anche in questa faccenda, aggrappandomi a
qualcosa con le mani, la testa e il cuore.
Mi sono aggrappata a Shad.
Quando sono entrata c'era solo lei nella stanza, con l'occhio finto sul
punto di spegnersi e delle parti del corpo smontate. Respirava con un
cavo inserito nella gola, proprio all'altezza di un inserto meccanico.
Mi è sembrata sorpresa di vedermi, come se non si aspettasse
che qualcuno si ricordasse di lei in un momento del genere.
Cos'è che mi ha detto quella sera?
"Scarica."
Sono scarica come una
pila, come una batteria vecchia.
Io avevo voglia di mettermi a gridare, eppure mi sono data un comando
preciso: "fatti forza per lei, oppure esci."
Sono rimasta tutta la notte.
- I tuoi capelli, - ridacchia.
Mh?
Ero così sovrappensiero che non stavo ascoltando.
Mi guardo allo specchio. Ho i capelli pieni di nodi, ritti sulla testa
come se avessi preso la scossa, ma faccio finta di rimanere impassibile.
- Che c'è? - chiedo quando Shad mi passa la spazzola, - non
sai che così vanno di moda?
Si offre di darmi una sistemata, ma dal modo in cui sbircia la porta
capisco che è di fretta. Mi rifiuto di farle perdere altro
tempo, anche se avrei voluto parlare dell'altra sera. Nessuno mi dice
niente, riguardo l'esplosione dei due ospedali a DC. Seymour sostiene
che non mi riguarda e che loro sono stati informati solo
perché nei loro compiti rientra la salvaguardia del Paese,
ma questo che vuol dire?
Mi passo il pettine tra le ciocche arruffate, stringendo gli occhi per
il fastidio di doverle districare, poi le chiedo che progetti ha per il
pomeriggio.
- Ho una faccenda da sbrigare nei laboratori, - sospira. Il pensiero
non sembra piacerle molto.
A me però piace parecchio.
- Ti prego.
- Cosa?
- Posso venire anche io? Tipregotipregotiprego.
Do sfoggio di tutti gli strumenti persuasivi che possiedo. Arriccio le
labbra all'infuori, facendo sbattere le ciglia umide, poi congiungo le
mani verso di lei. Giuro e spergiuro che non toccherò niente
e che non le darò fastidio; che mi renderò utile,
se necessario, purché mi porti là sotto. Da
quando Leslie mi ha confidato che i sotterranei della Villa ospitano
laboratori di ogni sorta, ho aspettato solo di trovare l'occasione
giusta per entrarci.
- Credevo che fossi esausta, o che volessi andarci con qualcun altro.
Con chi altro vorrei mai passare il mio tempo, qui? Altri ragazzi si
sono offerti di accompagnarmi, ma la presenza di Shad è
confortante, anche solo perché le sue esperienze passate -
qualunque esse siano - la rendono più simile a me che ai
Novi. Forse è per questo che passa molto tempo da sola.
Finisco di sistemare i capelli in una coda alta e stretta.
- Sono pronta.
Shad camuffa un sorriso, facendomi strada con il cigolio regolare dei
suoi arti meccanici che si piegano. Adesso sta molto meglio, ma
sospetto che abbia bisogno di distrarsi almeno quanto me.
***
-
I sotterranei vengono rinnovati quasi ogni anno, in modo che possano
restare al passo con le nuove scoperte in campo tecnologico.
Senza dare troppo nell'occhio, Shad si dà un colpetto
sull'orecchio sinistro. Oggi emette uno stridio piuttosto fastidioso.
- Stai per entrare nel cuore pulsante della Villa: quasi tutti i
laboratori si trovano qui, e anche la palestra e i simulatori.
L'ascensore scende silenziosamente, come se nemmeno si muovesse, e
pochi secondi dopo siamo al piano inferiore. Non ricordo
quand'è stata l'ultima volta che mi sono sentita
così euforica da non riuscire a stare ferma. È
una bella sensazione, almeno fino a quando non realizzo che l'ascensore
si è bloccato.
Adesso ho la testa leggera, le dita che sfrigolano per l'impazienza e i
denti che coprono il labbro inferiore.
- Perché le porte non si aprono?
Mi ricordo del motivo per cui preferisco le scale. Claustrofobia. Se
non usciamo nel giro di un secondo le alternative sono due: o muoio o
sfondo la porta a testate.
- Bisogna completare una semplice successione numerica prima di avere
accesso al piano.
Una lunga serie di cifre si rincorre sulle pareti dell'ascensore, come
se fossimo rinchiuse in un televisore. Per me non ha alcun senso, ma
suppongo che sia stato fatto per tenere fuori da qui chiunque non possa
vantare il patrimonio genetico dei Novi.
- Sono la prima non-super-ragazza
a entrare qui dentro?
Shad ticchetta una cifra senza pensarci troppo, e le porte scivolano
sui lati.
- Per adesso sì, ma non è detto che -
Shad continua a parlare, ma io ho smesso di registrare qualunque suono.
Mio Dio.
Ormai dovrei aver imparato ad aspettarmi di tutto, ma questo, questo
è surreale. I miei piedi si muovono da soli, allontanandosi
dal centro dell'enorme ambiente circolare che ci avvolge. Tutt'intorno
si stagliano grandi blocchi di metallo addossati contro le pareti, e a
romperne la curva quattro corridoi tagliano la circonferenza come due
colpi incrociati di spada. Sono nel cuore di un'immensa croce.
Mi accorgo che Shad si è portata al mio fianco. Apre le
braccia a indicare quello che ci circonda, e per la prima volta non
cerca di nascondere i suoi arti sfregiati stringendoseli al corpo. Si
sente nel posto giusto, qui. Qui dove sembra che tutto sia possibile.
- Anche a me ha fatto lo stesso effetto, la prima volta. Ti piace?
Vorrei dire qualcosa di sensato, ma so che se ci provassi,
ciò che riuscirei ad articolare non renderebbe onore a
quello che provo; quindi lo penso e basta.
Tanto c'è qualcun altro che parla a posto mio.
- Se i sotterranei non venissero sterilizzati tre volte alla settimana,
ti consiglierei di chiudere la bocca.
Serro la mascella. A questo punto l'unica cosa che sopravvive sulle mie
labbra sembra un insulto alla Villa intera.
Mio.
Dio.
Lui no.
***
Nicholas
si inchina con simulata riverenza.
Deve essersi abituato ai miei ridicoli tentativi di tenergli testa e
anzi, scommetto che lo divertono un mondo. Roteo gli occhi e mi rivolgo
a Shad.
Se c'è anche lui, sono disposta - sebbene a malincuore - a
posticipare l'esplorazione di qualche ora.
Reichenbach scocca un dito per richiamarmi all'attenzione.
- Batteri. Non hai idea di quanti procarioti aleggino nell'aria.
Faccio finta di non vederlo nemmeno, ma prima sparisce e meglio
è per tutti.
- Shad, che cosa sono quelle grandi scatole di metallo?
Shad fa ruotare le dita meccaniche di trecentosessanta gradi, prendendo
tempo. Mi dispiace che si senta in imbarazzo per colpa mia
però... Facciamo che la colpa è del terzo
incomodo.
Nicholas indica gli aggeggi disposti sui settori circolari che
stringono i corridoi.
- Quelli sono gli spogliatoi, non vedi?
Non posso fare a meno di assumere un’espressione indignata.
- Gli spogliatoi, certo. Come ho fatto a non pensarci prima? Hanno
proprio l’aria di essere dei camerini. E io stavo sicuramente
parlando con te, come no.
Reprimo l’impulso di dargli un pizzicotto solo
perché mi ero ripromessa che lo avrei ignorato.
- Sbaglio o Seymour ti ha dato l'ordine di lasciarmi in pace?
- Quelle "scatole" sono abitacoli personalizzati, - continua.
- Ognuno di noi ha il proprio e ci basta entrarci dentro per metterli
in funzione: registrano la nostra condizione psico-fisica e ci
consigliano l’attività giornaliera più
opportuna, fornendoci il materiale di base necessario, naturalmente
lucidato a nuovo o, nel caso si tratti di una divisa, lavato, stirato e
profumato. Mi dispiace che la tua molliccia materia grigia non riesca a
concepire qualcosa che vada oltre gli armadietti della scuola; in caso
contrario avresti apprezzato il genio di quelli che li hanno realizzati.
Immagino che tu sia tra
questi.
- E comunque mi chiedo se ci sia ancora qualcuno che ascolta Seymour.
Shad non è capace di arrabbiarsi, ma le parole di Nicholas
sembrano mandarla in corto circuito.
- Chol, smettila.
- Oh, sì, tu. A che punto sei?
TU?
Che c'è, si è dimenticato che Shad ha un nome?
Nemmeno Lilith era così insopportabile! Anzi, lei riusciva a
dissimularsi alla meraviglia.
Prima che possa farglielo notare una delle cabine si apre di scatto e
mi fa sobbalzare. Ne sbuca fuori un ragazzo orientale dai lineamenti
familiari: è alto per essere asiatico, e ha le braccia
ricoperte di tatuaggi dai colori accesi. Perfino il nero è
pieno come se non si fosse scaricato del tutto. Forse i Novi utilizzano
sostanze particolari per disegnare sulla pelle.
Il resto del suo corpo è fasciato da una tenuta
blu elettrico, con inserzioni rigide sulle giunture.
- Arrampicata, Ren?
- La cabina dice che sono un po' fuori forma. Devo scalare quattro
chilometri e diciassette metri in sei giorni. Niente di eclatante.
Niente, certo, è che io dopo due piani di scale desidero
solo di essere lasciata morire in pace.
Ren viene a darmi un bacio sulla guancia, poi fa per mettersi due
cuffie enormi sulle orecchie.
- Ci vediamo dopo!
Infila uno dei corridoi obliqui seguendo il ritmo di una canzone che da
qui non riesco ad afferrare.
Approfitto del momento per rivolgermi a Shad.
- Andiamo? Adesso. Ti prego.
- Aspetta. Sharazad non ha tempo di portarti a spasso, oggi.
- Scusami?
- Ha ragione, Sybil. Il lavoro di cui ti ho parlato...
C'è di mezzo lui. Questo si era dimenticata di dirmelo. O
forse se ne ricordava perfettamente, ma sperava che se fossi rimasta
con lei Nicholas avrebbe rimandato l'attività.
Gli angoli della bocca di Shad fanno fatica a restare sù,
nonostante le venature di metallo che le attraversano le labbra lottino
contro il broncio. È chiaro che non ha voglia di aiutarlo.
- Non puoi farlo un'altra volta?
- No, - dice Nicholas.
Mi chiedo come si possa approfittare della gentilezza di Shad fino a
questo punto, e ridurne la preziosità a debolezza. Ha
risposto lui perché Shad non direbbe di no a nessuno.
Mi strofino le mani sui jeans, cercando di nascondere che ci sono
rimasta male. Volevo che fosse lei a guidarmi nei sotterranei, e adesso
è andato tutto all'aria per colpa di Reichenbach.
Perché è scontato che non ho intenzione di andare
con loro, dopo quello che Nicholas ha escogitato per ferirmi. Sono
passati due giorni da quando abbiamo parlato per l'ultima volta, ma da
allora Xanders gli ha minacciato che se dovesse darmi fastidio un'altra
volta, lo farà cacciare.
- Okay, allora. Ceniamo insieme?
- Appena ho finito ti raggiungo, se hai voglia di aspettarmi.
Mi sforzo di annuire.
- Adorabili, - dice Nicholas.
Proprio non riesce a non guardare tutti dall'alto in basso!
Si tira indietro i capelli chiari, avvicinandosi ad una delle tante
cabine. Punta la mano sulla sua superficie lucida dell'oggetto e fa per
entrare, ma qualcosa lo convince a voltarsi. Sembra ricordarsi solo
adesso che sono ancora qui, e aspetta che sia io a dargli una
spiegazione, come se non volesse sprecare fiato.
- Che vuoi? - sbotto.
- Io? Niente. Nemmeno la pace nel Mondo, se è per questo. Tu?
- Sono qui per fare il giro del Laboratorio, non dello spogliatoio dei
Novi. Mi accompagnerete almeno all'entrata, spero.
Shad prova a rassicurarmi, ma per lui è fuori discussione.
- Non ho intenzione di scarrozzarti tutto il giorno, creaturina.
Abbiamo delle cose da fare, e a meno che tu non voglia entrare nella
cabina con me, cose che non ti dispiacerebbe, suppongo, credo che
dovrai seguire Ren finché è ancora in vista.
Tiene aperta la porta scorrevole e mi fa cenno di accompagnarlo dentro,
con un ghigno scolpito in faccia da un artista e gli occhi verdi che
brillano.
Distolgo lo sguardo dal suo appena mi sento arrossire.
- Sto aspettando. Potresti essere l’unico sapiens a vedere
la cabina che ripiega la mia maglietta e mi porge una divisa attillata.
Sapiens.
Quella parola è come un pugno nello stomaco, quando
è lui a pronunciarla. Spingo la coda dietro la spalla,
costringendomi a fronteggiarlo di nuovo.
- Sarebbe squallido, sai? Entrare lì con te, intendo.
- Già, - ride lui, - non dirlo a me.
- Sarebbe proprio squallido vedere che prendi ordini da una scatola di
latta che ti dice come vivere la tua vita.
Giro sui tacchi, soddisfatta, e seguo quanto di visibile rimane di Ren.
Questa volta cede prima lui.
***
-
A cosa stanno lavorando Shad e Reichenbach?
- Non lo so, tesoro. Nessuno lo sa.
Ren si pulisce i goggles sui pantaloni della tuta. Mi tengo alla sua
destra, cercando di stare al passo con i suoi saltelli di riscaldamento
anche se parlare e corrergli dietro mette a dura prova la mia
circolazione da pantofolaia.
- Chol è gelosissimo dei suoi progetti. Ma proprio
maniacale. Come se qualcuno qui dentro fosse così infame da
rubargli le idee!
Chissà che idee, considerando di chi stiamo parlando. Chiedo
cortesemente a Ren di farmi strada invece che di guardarmi il sedere, e
suo malgrado accetta di accompagnarmi fino al primo laboratorio. Mentre
chiacchieriamo osservo le superfici immacolate del corridoio, tutte o
quasi tendenti al bianco. Lilith diceva che i colori hanno un grande
potere sul nostro sistema nervoso, e che l'assenza di
tonalità l'aiutava a pensare. È evidente che non
abbia mai sofferto della sindrome da pagina bianca, lei.
Rivolgo un sorrisetto complice a Ren.
- Tanto dovrò capitarci nel loro laboratorio, giusto?
- Ti piacerebbe! Chol ha chiesto di poter usufruire di un laboratorio
tutto per sé. Te l'ho detto: ha una gran testa, ma ci tiene
troppo.
- E immagino che Shad non si lascerebbe sfuggire una parola riguardo
quello che combinano lì dentro.
- Scherzi? Se le chiedi di tenere il tuo segreto, se lo porta nella
tomba.
Quella ragazza mi piace sempre di più. Mi pento di averla
abbandonata nelle grinfie di Nicholas senza aver protestato abbastanza.
- Staranno costruendo una risonanza magnetica, o che so io, - dice Ren,
e io mi fermo all'istante.
- Perché?
- Shad è un ingegnere biomedico, - dice, e il suo tono
adesso è serio.
- Il suo corpo se l'è costruito da sola. Aveva
già realizzato un prototipo di modello prima di... insomma,
prima. Poi lo ha migliorato. Il problema è che per adesso
è sopravvissuta all'impianto solo lei. Tutti i sapiens su
cui abbiamo sperimentato gli inserti sono morti, e questo proprio non
le va giù.
È passato più di un minuto quando Ren si decide a
precisare che questo non rende il suo progetto meno valido. Io aggiungo
che valido è dire poco, ed entrambi annuiamo, ma devo
ammettere che è difficile credere che una ragazza
così giovane sia riuscita a costruirsi un corpo meccanico
tutta da sola.
Ren si sgranchisce le gambe, prima di entrare in palestra. Flette il
busto di lato e mette in mostra i muscoli, e io non riesco a trattenere
una smorfia buffa: Shad mi ha confidato che lo fa con tutte le ultime
arrivate.
- Ti va una scalata, solo io e te?
- Grazie Ren, ma in palestra passo dopo, e poi finirei per ammazzarmi.
Sarà per un'altra volta.
Come no.
- Privo tentativo di spezzarmi il cuore: riuscito.
- Il resto dei laboratori di quest’ala si trova lungo il
corridoio, ma la palestra occupa quasi tutto lo spazio.
Ren si mordicchia un dito.
- Vediamo, dov'è che puoi andare? Biologia è il
prossimo. Seguono fisica e medicina che però sono occupate
da brutti ceffi. Troverai degli ascensori, ma procedono tutti
lateralmente: servono a collegare le braccia della Villa, nel caso tu
voglia entrare da qualche altra parte.
- Le braccia? Intendi i corridoi?
- Manchi di spirito d’osservazione, tesoro. La pianta della
Villa è formata da quattro braccia oblique che si incrociano.
- Come una X, sì.
Questo lo avevo capito.
- Come un cromosoma X. Prima si pensava che il segreto della nostra
specie fosse nascosto lì, ma non abbiamo ancora trovato
niente che spieghi perché noi Novi esistiamo.
- E detto tra me e te, - sussurra, avvicinandosi un po' troppo, - a me
non importa un accidente.
***
Quando
qualcosa ha il potere di meravigliarmi, capita che cominci a ridere
senza riuscire a spiegare perché lo sto facendo. Toni porta
una mascherina sottile sulla bocca e degli occhiali a fascia per
proteggersi, ma l’espressione sul suo viso è
inequivocabile.
- Sei la prima a trovarlo divertente.
- Scusa, è l’emozione. Non avevo mai visto nessuno
sparare alle piante.
In realtà non avevo mai visto niente di quello che si trova
qui dentro.
Entrare nel laboratorio di biologia è stato come
risvegliarsi nella corolla di un fiore: al centro della stanza macchine
di ogni genere occupano un settore circolare grande come il mio
soggiorno. Se anche riuscissi a trovare le parole per descriverlo, non
basterebbero a dare un nome a tutti gli strumenti che riempiono
l'infiorescenza. Riconosco diversi microscopi, fiale di diversa
grandezza e cilindri che emanano il freddo secco di un congelatore; ma
non c’è utensile che riesca a togliermi il respiro
come quello che poggia sui petali del laboratorio: centinaia di piante
e minerali dentro teche di vetro sono disseminate tutt'intorno a noi,
insieme a vasche d’acqua in cui minuscoli organismi brillano
sotto la luce sinistra dei raggi UV. E non mancano costruzioni di
cellule sezionate, colonie di moscerini dagli occhi bianchi, e
–
- Vuoi provare? - chiede Toni.
- Non lo so, e se poi la uccido?
- È una pistola pneumatica, non una calibro 9. Punti la
canna sulla foglia e premi il grilletto: i proiettili sono
microscopiche foglie d’oro ricoperte di DNA: arrivano al
nucleo e nei mitocondri senza danneggiare le pareti cellulari.
È semplice.
Mitoche?
Lo strumento è ingombrante. Il coltello si adattava meglio alle mie dita. Il pensiero mi fa inorridire, e Toni sembra
capirlo. Forse realizza che il rumore degli spari mi ha tormentato
abbastanza, così si offre di riprenderla in mano.
- Il laboratorio di fisica è proprio qui affianco, -
azzarda, ma io scuoto la testa.
- È tutto okay, ci provo. Hai detto che se
l’esperimento riesce la pianta sarà più
resistente alla siccità, vero?
Potrebbe crescere dove il caldo soffoca tutto il resto; dove le persone
non hanno acqua sufficiente per bere, figuriamoci per annaffiare un
bocciolo nella polvere.
Toni annuisce e io premo il grilletto. L'unico suono che sento
è il gorgoglio dell’acqua nelle vasche, e ancora
quello della mia risata.
Chissà che mi aspettavo.
***
Mi
affaccio dalla porta del laboratorio di fisica cercando di non fare il
minimo rumore: dentro ci saranno almeno sei o sette persone concentrate
su misurazioni, calcoli di grandezze derivate e procedimenti
cervellotici.
A dire il vero preferirei non entrare: mi sento come se fossi un'ospite
ingombrante, qua sotto, e anche se la curiosità lotta per
divorare ogni cosa con lo sguardo non me la sento di interrompere il
lavoro di tutti quei ragazzi. Alcuni di loro nemmeno si sono
presentati, la scorsa volta.
Sgattaiolo via e appena fuori mi guardo intorno per decidere il da
farsi: potrei tornare indietro ed esplorare un'altra delle tre braccia
della Villa, visto che anche il laboratorio di medicina che ho appena
sorpassato era impegnato.
Sto per andarmene quando qualcosa attira la mia attenzione.
È là, sul fondo del corridoio a sinistra, dove
s'interrompe la fila di luci: una scala.
Eppure Ren non me ne aveva parlato.
Mi avvicino un po' per contare i gradini, con la schiena che si lamenta
per il trattamento che le ho riservato nelle ultime ore. Prima sempre
seduta, adesso sempre in piedi.
Ficcanasare in giro non è esattamente ciò che un
ospite dovrebbe fare, ma i gradini sono appena una decina e io non
ricordo quando ho visto l'ultimo ascensore.
Faccio finta di stare prendendo in considerazione l'idea di tornare
indietro, se non altro per mettere a tacere la mia coscienza. Alla fine
però scendo la scala con una mano stretta attorno ringhiera,
per evitare di scivolare e sfracellarmi sul pavimento. Sono
così concentrata su dove mettere i piedi che quasi non mi
accorgo della grande porta di metallo che mi ritrovo davanti.
È... vecchia?
Rispetto a tutto il resto, intendo. La manopola che la tiene serrata
è resa opaca da uno strato di sporco, e l'oblò
che dovrebbe permettermi di sbirciarci attraverso è
così rovinato che per scoprire che cosa nasconde sono
costretta ad entrare.
Forzo la manopola e scopro che ruggine a parte è meno rigida
di quanto pensassi. Mi bastano due giri, e prima che possa rendermene
conto sono già dentro, con la porta che si richiude alle mie
spalle. Faccio qualche passo in avanti.
All'inizio scambio il bagliore fioco proveniente dal fondo del
laboratorio per un fuoco fatuo, e rischio di cadere. Indietreggio di
scatto, andando a sbattere contro qualcosa di duro e gelido. Lo stomaco
mi si attorciglia per lo spavento. Metto le mani davanti. Mi sento
ansimare. Qualcosa cigola e la polvere mi chiude la gola e non avrei dovuto finire qui
dentro come si esce da dove sono entrata?
Ritrovo l'equilibro.
Pian piano i miei occhi si adattano ai giochi di ombre che si
rincorrono sulle pareti della stanza, e la sorgente di luce assume una
forma definita: una proiezione colorata ruota su sé stessa,
pulsando di tutte le sfumature del verde. Mi viene la tentazione
esasperata di passarci attraverso e scomporne la struttura ordinata,
anche solo per scoprire che cosa succede. Un taglio netto. Mi faccio
strada un po' alla volta, ripetendomi che non è come stare
al buio.
Muovo la mano così in fretta che la reazione della sagoma di
luce mi sfugge. Ci provo di nuovo, questa volta con più
cautela, e il risultato è stupefacente. Faccio scorrere le
dita attraverso i piccoli globi luminosi, sfiorandole il calore
iridescente. Come se cercassero di sfuggirmi, i ponti fosforescenti che
li uniscono si curvano e separano gli uni dagli altri, fino a quando
tutta la figura si deforma in un tremolio di vapori.
- Non si dovrebbe mai rompere un legame chimico se non si è
sicuri di quanta energia può liberare.
Strappo il braccio dalla proiezione. Un incrocio di sibili improvvisano
il suono della stoffa fatta a pezzi.
A quanti spaventi devo sopravvivere prima di cadere a terra stecchita?
- Mi dispiace, - comincio, e mi pento una volta per tutte di essere
entrata qui dentro. Ho messo le mani su qualcosa che potrebbe valere
migliaia di dollari; se l'ho rovinato, sono rovinata. Deglutisco.
Un uomo alto e dinoccolato se ne sta ritto al mio fianco, tenendo
un'ampolla tra due dita. Una spolverata appena accennata di grigio sul
suo gomitolo di capelli suggerisce che sia più vecchio di
Seymour, e anche meno curato. Il suo camice è pieno di
macchie.
L'uomo batte un pugno sul muro e la luce si accende.
- Le molecole proiettate si ricostruiscono da sole, - sbadiglia, - non
c'è di che preoccuparsi.
Per sicurezza costringo le mani nelle tasche.
- Sei la sorella di Lilith Crowford.
Perfetto, un altro membro del suo fan club.
- Purtroppo.
L'uomo pare rianimarsi. Mi raggiunge in un'unica, grande falcata, e mi
dà una pacca sulla spalla. E un'altra, e un'altra, e
un'altra ancora, fino a quando la mia mia espressione
imbarazzata non gli suggerisce che è ora di finirla.
- Mi chiamo Sybil.
- Ostwald Crichton! - esclama, ma non capisco quale dei due sia il nome
e quale il cognome. Sto riflettendo sulla sua stranezza quando
l'ampolla che tiene tra le dita scoppia. A me scappa una parolaccia.
Ancora?
- Gambe su! - grida lui, e io mi sollevo su uno dei banconi con i piedi
lontani dal pavimento.
Il pavimento che fuma come se il liquido dell'ampolla lo stesse
mangiando strato dopo strato.
Crichton è appeso a una cappa di metallo a forma d'imbuto,
ma guarda con sincero interesse il disastro che ha combinato.
- Che peccato, pensavo che fosse un po' più spiritoso di
così.
Mi allungo sul banco da lavoro e afferro una maschera sottile, con una
specie di inalatore sotto il mento. Da un gancio poco distante recupero
degli occhiali di protezione.
- Oh, no, no, no, non ce n'è bisogno! L'ho solo agitato
troppo.
Crichton mi chiede di farci gocciolare sopra un'altra soluzione e di
asciugare tutto con un pezzo di carta: lì, lì,
proprio quella provetta. Versala tutta, da brava. Io non ribatto, ma le
dita mi tremano così forte che per poco il liquido schiumoso
non mi cade addosso. Quando ho finito Crichton si lascia andare e corre
dall'altra parte della stanza per annotare delle formule su uno dei
fogli sparpagliati in giro.
Lancio un'occhiata alla porta.
- Forse è meglio che vada, - comincio, ma lui è
entusiasta della mia presenza.
- Sai, ho letto la tesi di tua sorella sull'anomalia proteica
dell'anemia falciforme. Brillante, semplicemente brillante!
Quella che conosceva Lilith meno di tutti a quanto pare sono io.
Un dispositivo prende a squillare rumorosamente, e Crichton corre verso
un altro aggeggio dalla forma irregolare.
Comincio a pensare che abbia qualche rotella fuori posto; si precipita
da un lato all'altro del laboratorio come se a contenderselo ci fossero
forze invisibili, e ogni tanto mi chiede di passargli questa o quella
siringa dal contenuto sospetto.
Mi parla del suo lavoro senza che gliel'abbia chiesto, così
sono costretta a rimanere: è uno dei pochi adulti, qui
dentro. Insegna chimica ai giovani Novi da ventidue anni, ma il
laboratorio non sembra molto frequentato. Gli vado vicino per sbirciare
il contenuto del miscuglio che sta preparando, ma lui si ritrae per
istinto. Alla luce fredda dei neon riesco a vedere chiazze di barba
ispida che gli spuntano sulle guance, come se si fosse rasato male.
Quando mi sfreccia vicino annuso il tanfo che emanano i suoi vestiti e
reprimo un conato di vomito.
Uova marce, ho sentito bene?
Mi chiedo da quanto non esca da questa stanza, e come mai non ci sia
nessuno a indagare i segreti della chimica insieme a lui.
- Mi aiuti? - chiede.
Crichton mi passa degli strumenti incrostati e pieni di aloni di
calcare. Una parte di me diffida dalle sostanze che mi chiede di
maneggiare, ma l'altra ne è così affascinata che
non riesco a rifiutare. Faccio reagire i materiali seguendo le sue
indicazioni confusionarie, e alla fine ci prendo gusto. Devo solo
evitare di respirare con il naso.
- Sai, - mormora, scrivendo in aria con il dito che si muove
a tracciare numeri invisibili.
- Anche il suo piano lo è.
Brillante, intendo.
Impiego qualche secondo a capire che sta di nuovo parlando di Lilith.
- Il suo piano è
stato crudele e criminale.
La soluzione vortica ancora quando smetto di mescolarne il contenuto
con una stecca di vetro. Adesso che la polvere si è sciolta,
assomiglia all'acqua con lo zucchero di Jerome Ryars, e viene voglia di
provarne un sorso.
- Forse, ma se la cristallizzazione di un composto avviene troppo
velocemente, il cristallo tende sempre all'amorfismo. Alcune cose
richiedono del tempo.
Crichton afferra una pinza e pesca un grumo squadrato che fa pensare al
ghiaccio secco. Lo osserva sotto un microscopio arrugginito,
borbottando a bassa voce, poi lo lascia precipitare sul fondo di un
intruglio puzzolente.
- Non so se è di una reazione chimica che stiamo parlando, o
di mia sorella, - intervengo.
Sono arrivata fino a questo punto, allora: vedo nemici dietro ogni
maschera di cortesia, scorgo minacce tra le parole che non capisco,
confido nella possibilità che c'è sempre qualcosa
che può andare peggio.
La risposta di Crichton sembra arrivare da lontano; come se stesse
divagando, e all'improvviso non mi volesse qui. Come se fosse stufo di
avere attorno qualcuno che proprio non capisce.
Non vedi?
- Beh, tua sorella è un'ottima chimica, - dice solo, e poi
torna a scarabocchiare linee dritte e punti che per me non hanno alcun
senso.
Controllo l'orologio che ho al polso senza dare troppo nell'occhio:
sono qui dentro da più di un'ora, e nessuno si è
fatto vivo. Faccio passare un dito sui tubi trasparenti del
distillatore, ma lo sporco è così vecchio che la
polvere non viene via del tutto. Ho la prova che qui dentro non
è entrata un'anima negli ultimi due mesi. Nessuna a parte me.
Perché del resto Ren non mi aveva parlato di un laboratorio
di chimica.
- Se quello che si dice in giro è vero, Lilith è
anche un'assassina, - boccheggio.
- La riporterò indietro, e dovrà vedersela con
l'USD.
Crichton non stacca gli occhi dai suoi segni incrociati nemmeno quando
il foglio finisce e la matita scivola sulla superficie lurida del
bancone.
Serviva molto meno a convincermi che ha mentito, che non insegna un bel
nulla ai ragazzi che vivono qui e che c'è qualcosa di
profondamente sbagliato in lui; qualcosa che non funziona come
dovrebbe.
Poggio i miei strumenti con cautela.
Che succede se me ne vado senza salutare? E se mi invento una scusa
qualunque? Sono libera di andarmene quando voglio. O forse no. Dipende
tutto Crichton.
- Tua sorella è davvero, davvero un'ottima chimica , -
sorride.
Poi la porta del laboratorio si spalanca.
Nicholas ha la fronte sudata e i capelli biondo freddo appiccicati alla
testa.
Appena mi vede mi raggiunge con l'aria di chi ha fretta di andarsene:
mi afferra per il polso da sopra la felpa e si accorge che la mia mano
è nuda, scoperta, leggermente arrossata sulla punta delle
dita. Non mi ero resa conto di quanto mi bruciasse.
Nicholas non degna Crichton di uno sguardo, ma la vista del becher con
cui ho lavorato lo acceca di rabbia.
- Andiamo, - bisbiglia, e questa volta non oppongo resistenza. Mi ero
ripromessa che se mi avesse messo le mani addosso un'altra volta gli
avrei aperto la gola con le unghie, ma adesso è diverso. La
sua presa è urgente e decisa. Scioccamente ringrazio che la
sua pelle stia toccando nient'altro che stoffa.
Siamo quasi fuori quando Crichton strepita una manciata di parole
insensate.
- Mancava ancora l'agente ossidante al suo preparato!
Nicholas sbatte la porta con un calcio.
***
La
mia politica prevede di non rivolgergli parola, soprattutto se
è in questo stato. Avanza a testa alta, scrollandosi la
spossatezza di dosso a ogni passo, come se la maglietta che si
è infilato non tradisse - oltre le forme asciutte e toniche
del suo corpo - un alone scuro di sudore alla base della schiena, dove
l'occhio mi è caduto solo perché se non ti
cammina davanti Reichenbach non è contento.
Ora che ci penso mi ricorda qualcuno.
Lo seguo in silenzio fino al punto s'incrociano le braccia della Villa,
segno che siamo arrivati, e appena ci fermiamo mi schiarisco la gola
per richiamare la sua attenzione.
- Che cos -
- Che ci facevi lì dentro?
Non l'avevo mai sentito alzare la voce in questo modo. Nicholas
schiaffa una mano contro la porta della sua cabina, dove un raggio
sottile gli scannerizza le impronte una ad una.
- Secondo te? Mi avevate detto che potevo farmi un gir -
- Non ci dovevi entrare. Era dannatamente matematico che dovevi
rimanere fuori! Ti è sembrato un laboratorio in uso, quello?
- Io non -
- No, certo che no, ma ci sei entrata comunque! Perfino un protozoo
avrebbe capito di doverne starne alla larga, e i protozoi non ce
l'hanno un cervello.
- Ma che stronzo!
Non riesco a credere che sia serio.
Le porte della cabina si aprono alle sue spalle, rivelando uno spazio
più ampio di quanto mi aspettassi. Dentro ci sono
scompartimenti ordinati con precisione quasi maniacale: delle cuffie
per ascoltare la musica, plichi ordinati di fogli e qualche libro. Non
c'è traccia della corona che crede di poter portare in testa.
- Hai finito di ricordarmi quanto sono inferiore a te oppure -
- Non stavo -
- E fammi spiegare! Ti sei accorto che non permetti alle persone di
parlare?
Faccio per premermi le mani sugli occhi, ma lui le prende prima che
riesca a portarmele al viso. Cerco di divincolarmi e spingerlo via; lui
mi tiene a debita distanza, ma non mi molla. Non oso immaginare quanto
dobbiamo apparire ridicoli in questo momento.
- Non farlo. Hai la pelle tutta irritata per colpa di quello che hai
toccato.
Sto toccando te.
Nicholas recupera una borraccia d'acqua dalla cabina. Imbeve un piccolo
asciugamano e me lo passa, liberandomi i polsi. Smetto di mordermi
l'incavo della guancia.
Lui sembra ancora infastidito: ha le labbra stirate, ma ha differenza
della sottoscritta ha ripreso il pieno controllo di sé.
- Chi è quel tipo? - sbuffo, tamponando le macchie che si
allargano sui palmi delle mie mani. Pizzicano, ma il prurito
è sopportabile.
- Crichton? Un menomato. Ha avuto un incidente durante un esperimento
piuttosto delicato, e da quel momento non si è
più ripreso. Seymour lo tiene qui perché
è stato il suo mentore per molti anni.
- Mi sembra che tu stia esagerando. A me è sembrato solo
strano.
Solo? Nicholas piega la testa di lato e fa una smorfia.
Non aggiungo altro per non dargliela vinta.
- C'era odore di acido fenico, nel laboratorio. Tu odori di acido
fenico. Ha lasciato che lo toccassi, e guarda qual è il
risultato, - dice, additando un gonfiore che cresce a vista d'occhio.
- Mi dispiace informarti che lui ha parlato di... fenolo?
- Sono la stessa cosa, creaturina...
- Senti, gli era caduto per terra! Non sapevo che fosse un acido,
quando mi ha chiesto di asciugarlo.
- Adesso lo sai, quindi ricordati di passare in infermeria.
Rimaniamo di sotto per un po': lui perché deve cambiarsi, io
perché aspetto delle scuse che non arrivano. Mi parla da
dentro la cabina, mentre io cammino intorno al centro dell'atrio per
scaricare il nervosismo. È come se mi aspettassi di veder
sbucare Crichton da un momento all'altro.
- C'è un nuovo laboratorio di chimica, nell'altro braccio
della Villa. La prossima volta va' lì, intesi?
Non rispondo. Mi piazzo davanti all'ascensore e aspetto che esca.
Quando mi raggiunge gli lancio un'occhiataccia: se l'è presa
comoda, il ragazzo, e sembra sorpreso di vedermi ancora qui dopo il
silenzio degli ultimi minuti.
Ci guardiamo attraverso il riflesso sulle porte dell'ascensore.
Nicholas è tornato quello di sempre: viso bianco e affilato,
dalle proporzioni squadrate e calcolate al millimetro, e sguardo
attento dalle sfumature di giada. Una ciocca di capelli gli sfugge da
dietro l'orecchio, ricadendo sullo zigomo destro. Glielo devo
riconoscere: qualcosa per cui è lecito vantarsi non gli
manca.
- Che stiamo aspettando?
Non lo so.
- Crichton mi ha parlato di Lilith, - confesso.
- E di un piano. Secondo lui mia sorella ha ancora qualcosa in mente, o
almeno questo è quanto google-translate è
riuscito a tradurre dall'aramaico.
Non so perché glielo dico. E in questo modo, anche.
Dopotutto lo detesto. Per come mi ha trattata, per come mi tratta, per
come tratta tutti quanti. Per l'avermi spinta in macchina con la forza,
la sera dell'attacco, e per avermi puntato contro una pistola. Lo
detesto perché sa troppe cose. Sa come usare le parole e
come usarle per fare male. Eppure sento di doverlo confidare proprio a
lui, perché se è intelligente come dice, forse
riuscirà a capire che cosa sta succedendo, e a tracciare la
direzione ha preso la mia vita, e a calcolare se tornerà mai
quella di prima.
Il suo sguardo guizza oltre le porte, e solo quando entriamo e si
chiudono alle sue spalle si decide a degnarmi di una risposta.
- Crichton è difettoso.
Gli si sono letteralmente denaturate le proteine del cervello, - dice,
e per la prima volta il suo profilo appare indurito da una leggera
tensione.
- Stagli alla larga, creaturina.
- Ma se avesse ragione? L'esplosione di quei due ospedali a DC...
- Non ha ragione. Io ce l'ho.
I suoi occhi si incupiscono.
C'è qualcosa di nuovo di cui non sono stata informata, e se
perfino Nicholas se lo lascia sfuggire dallo sguardo, deve essere grave.
Studio il pavimento.
Penso a quell'uomo con le mani sporche di polveri, lo zolfo sul camice
e una molecola raggomitolata a fargli compagnia. Nonostante il suo
isolamento eremitico Crichton conosceva mia sorella, le sue ricerche,
le sue doti. Mi chiedo se per qualche ragione conosca anche le sue
ambizioni. Ma non posso tornare in quel laboratorio per scoprirlo,
questo è certo. Shad non me lo permetterebbe;
perché è di sicuro Shad che ha chiesto a Nicholas
di venire a cercarmi.
Apro e chiudo le mani per camuffare l'imbarazzo con l'interesse per un
ponfo dolorante, ma Nicholas non si lascia sfuggire la mia indecisione.
- Non rimanere da sola con lui, - ordina, - mai.
Questo tono tra il saccente e il misterioso mi ha stancato parecchio.
Faccio un passo oltre la soglia non appena arriviamo, figurandomi che
ci separeremo in questo modo: lui dirigendosi impettito verso camera
sua, impaziente di ficcarsi sotto la doccia, e io dileguandomi dalla
parte opposta, impaziente di non doverlo sopportare oltre.
Ma Nicholas non sembra soddisfatto dalla trama che ho in mente.
- Provo a indovinare, - dice, - non hai idea di che cosa fosse il
composto che ti stava facendo preparare.
Oh, adesso "So-tutto-io" dà anche ripetizioni di chimica!
Alzo le mani in segno di resa. Ci provo a non farmi mettere i piedi in
testa da Reichenbach, ma trova sempre il modo di darmi scacco. Arriccia
le labbra, ma senza compiacimento: l'ultimo che mi rifila è
un sorrisetto forzato.
- Idrazina
Amminoftalica. Si capiva dal ferrocianuro di potassio che
avresti dovuto aggiungere se non fossi arrivato io.
Delle volte ho la grave impressione che certe persone - Lilith, Alphy,
e i Novi - siano venute al mondo solo per prendermi in giro.
Rimango a fissarlo con il sopracciglio cucito più in alto
possibile.
- Sembrava interessante, prima che gli dessi un nome per impressionarmi.
- Luminol, -
continua lui.
- Ne prepariamo una versione più potente per la USD. In una
scena del crimine serve a rilevare tracce di sangue. Come quello di cui
tua sorella si è sporcata le mani.
Ah.
Me ne vado perché non trovo nulla che possa competere per
cattiveria. Arrivo fin dietro l'angolo, poi faccio dietrofront e mi
ricordo che sto ancora stringendo il suo asciugamano bagnato.
È strano, ma credo di aver trovato la risposta adatta a lui,
e sono pronta a tirargliela dritta in faccia.
Sono sicura che sia già sulla strada dei dormitori, quindi
mi precipito indietro senza un attimo di esitazione.
Ma quando arrivo lui è ancora lì, questa volta
con l'aria stanca e gli occhi chiusi, tanto che nemmeno fa caso a me.
Preme il pulsante dell'ascensore prima che possa raggiungerlo,
così aspetto di vederlo salire fino al piano dei dormitori e
mi maledico di non aver pensato prima alla frustata sul muso.
Le porte fanno per richiudersi e Nicholas si lascia scappare un sospiro
lungo, muovendo appena le labbra, come se anche il minimo spostamento
d'aria potesse piegarlo.
Quello che accade nei secondi che seguono la sua ritirata mi confonde.
Faccio un passo avanti per controllare, scuoto la testa e mi dico di
aver capito male, ma l'autoconvincimento non basta a nasconderlo.
A nascondere che l'ascensore non
sale.
Scende di nuovo nei laboratori deserti.
Angolo autrice:è
strano come la scienza riesca a suggerire
profonde riflessioni. Per esempio, consideriamo il fenomeno che
dà il titolo al capitolo e concentriamoci sull'acqua. Se la
raffreddiamo, essa diventa ghiaccio solido organizzato in strutture
incredibilmente complesse e precise. Basta vedere il fiocco di
neve che ho scelto per il banner. Ebbene, se il passaggio di stato
avviene troppo velocemente, questo non accade. Il cristallo diventa
amorfo, senza forma, caotico e - diciamocelo - parecchio brutto. Ma
allora
è proprio vero che nella vita non bisogna avere troppa
fretta,
eh? Questo Lilith lo ha capito di certo. Facciamo che io uso la stessa
scusa per giustificarmi del ritardo con la quale arriva questo
capitolo. E' che non mi convincevano - e non mi convincono tutt'ora -
alcune scene.
Non ho molto
tempo da dedicare a questa storia, purtroppo, ma cerco sempre di
impegnarmi al massimo. Non ci sono note particolari, quindi vi
ringrazio se siete ancora qui a seguire "Entropy"; significa molto per
me! <3 Un bacio, a presto (seh,
speriamo!).
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Capitolo 11 *** L'effetto catastrofico di una farfalla che viene liberata ***
caos 3
Effetto
farfalla: locuzione
che racchiude in sé la nozione di "dipendenza sensibile alle
condizioni iniziali" presente nella teoria del caos.
L'idea è che
piccole
variazioni di tali condizioni producano grandi variazioni
nel
comportamento a lungo termine di un sistema.
CAPITOLO 9.
Mi
dispiace di averti lasciata da sola nei laboratori.
Mi dispiace di
non averti confessato che avevo già preso impegni con
Nicholas,
e di non poterti rivelare quello a cui stiamo lavorando là
sotto.
So che non andate d'accordo e mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace tanto, ma non l'ho
mandato io a cercarti:
Nicholas c'è venuto da solo.
Nicholas c'è venuto da solo.
Di
tutto quello che Shad continua a ripetere da quando sono tornata
nella sua stanza è a questo che non riesco a smettere di
pensare. Più che alle scottature, più che agli
esperimenti che ho visto fare, e più che alle inquietanti
parole
Crichton; almeno fino
a quando non mi ricordo perché mi trovo nella Villa,
aspettando
che Lilith torni a casa, senza sapere se è quello
che desidero davvero o se lo sto facendo solo perché sembra
il
comportamento più scontato da mantenere: non
abbandonare la propria sorella.
Mi siedo sul bordo del letto e lascio che Shad medichi le
mie mani
mangiucchiate dall'acido: le sue dita meccaniche sono come
soffi
freschi, mentre
puliscono le ulcerazioni e ci applicano sopra
una crema
lenitiva; danno più sollievo del panno bagnato che stringevo
fino a qualche minuto fa e di cui mi sono liberata in bagno.
- Ti faccio male?
La pazienza con la quale procede funziona da
anestetico.
- No, - dico piano, e accenno a un ringraziamento.
Shad scuote la testa, come se fare del bene, per lei, fosse
un'inclinazione del tutto naturale e spontanea. Non distoglie
lo sguardo dal suo lavoro.
Appena finisce di stringermi le bende attorno ai polsi mi
cambio i vestiti saturi di polveri e infilo una tuta più
comoda, lasciando la cerniera aperta sopra la maglietta. Ho ancora
addosso l'odore pungente del laboratorio di Crichton, ma
almeno sono presentabile.
- Sei arrabbiata con me, - osserva Shad.
Si slega la treccia bruna sulla schiena, districandosi un filo di
perline rosse dai capelli. Il suo occhio meccanico
trema in quel modo che è tutto nervosismo e interessamento,
come
se si aspettasse un rimprovero. Ma lo sono davvero, arrabbiata? Non con
lei. Con tutti gli altri o solo con me stessa: le
possibilità
si riducono a questo.
Shad non ha nulla a che vedere con la piega che ha preso il mio umore
questa sera.
- Figurati, - borbotto, poi mi abbandono
all'indietro, tra
le coperte del mio letto. Lo sfascio subito, perché vederlo
ordinato al millimetro mi ricorda l'ospedale e i pazienti che andavano
e venivano, e le lenzuola cambiate tutte le mattine per evitare i
contagi.
Perché dovrei avercela
con l'unica persona a cui importa davvero che io stia bene,
comunque? Non
sono così stupida da non averlo afferrato: Xanders mi ospita
qui solo per potermi tenere sotto controllo.
I Novi hanno paura di quello che accadrebbe se mi recassi dalla polizia
e
rivelassi
tutto quello di cui sono a conoscenza. O peggio, se mi succedesse
qualcosa e provassero di nuovo a uccidermi, sarebbero loro a doverne
pagare il prezzo. Due sorelle scomparse in meno
di un mese: niente male come scandalo da prima pagina. I Novi
finirebbero per ritrovarsi i riflettori dell'intero Continente puntati
addosso.
- Non dire più che ti dispiace, - sbadiglio, ma poi ci penso
su, e allora aggiungo: - Sono solo preoccupata.
Faccio passare le lenzuola tra le braccia e affondo il viso nel
cuscino: profuma di pulito, e di fiori e di qualcos'altro a cui non
saprei dare un nome. Non si direbbe che abbia assistito a
tanti sogni inquieti, senza impregnarsi dell'odore dei brutti pensieri.
Shad si accoccola in un angolo del materasso come
se temesse di darmi fastidio.
- Per Lilith? - chiede.
- Per tutto. Sono giorni che ho scoperto la verità, e ancora
Xanders non si decide a fare il primo passo.
Shad appoggia la testa contro il muro decorato di arabeschi dipinti. Le
venature perlacee che le risalgono lungo il collo emettono un bagliore
stanco, lo stesso che vedo riflesso nel suo sguardo. Mi chiedo se sia
questo il confine che separa un semplice conoscente da un amico vero:
riuscire a leggere tra le righe della sua espressione ed essere pronti
ad affrontarne le conseguenze.
- Tu sei convinta che questa storia non si risolverà troppo
presto, - azzardo. Tradurre la smorfia che cerca di nascondere
è giungere a questa
conclusione.
- Sybil, non è così semplice.
Certo che non lo è. Sono sempre i nodi che abbiamo il dovere
di sciogliere, quelli più intricati.
- Ti ricordi quando ci siamo presentate?
- Sì, - annuisco, - eri contenta che non credessi alla
faccenda degli esseri umani superiori.
Shad si stringe nelle spalle, e per un momento sembra solo una ragazza
rannicchiata in una stanza troppo grande per due persone che parlano di
argomenti tanto tristi.
- Non volevo che ti illudessi. Non volevo che credessi che i Novi sono
perfetti. Continueranno a ripetertelo, Sybil: che siamo migliori, che
abbiamo un codice genetico più prezioso del tuo e che
andiamo protetti a qualunque costo, ma non è
così che funziona.
Non l'avevo mai sentita così affranta, dalla voce quasi
gracchiante e appena percettibile, come se non volesse correre il
rischio che qualcun altro
possa sentirla. Mi tiro su un braccio alla volta.
- Xanders si è messo in contatto con i
rappresentati della
nostra Fazione non appena sei arrivata qui, solo che non ha trovato il
coraggio di dirti che è stato...ignorato.
Che cosa significa "ignorato"?
Mi sporgo verso di lei per chiederle spiegazioni, ma per la prima volta
Shad mi parla sopra, unendo le mani come a pregarmi di lasciarla finire.
- I rapporti tra
i Novi sono più tesi di quanto non sembri, Sybil, e Xanders,
questo,
non lo aveva calcolato.
- Ti avranno parlato
della frattura interna alla nostra
Comunità, - continua.
- Lo hanno fatto, ma non riesco a capire quale sia il problema: mia
sorella ha fatto saltare in
aria una scuola, giusto? È una terrorista: i suoi rapitori devono consegnarla
alla USD.
- No che non devono, e non lo faranno.
Adesso sono arrabbiata. Con tutti, con me stessa e con Shad. Da quando
ho messo piede nella Villa non c'è stato nessuno che abbia
condannato quello che è successo senza mezzi termini. A
forza di tenermi
buona a suon di non,
di se e di
ma,
finiranno per mandarci la sottoscritta, in prigione.
- Non ce l'avete un codice penale?
- La nostra legge afferma che dobbiamo difendere
la Specie
prima di ogni altra cosa, e questo è ciò che
è stato fatto. Lilith è stata
salvata da
morte certa, ricordi?
Salvata da un tentativo di suicidio messo a punto con meticolosa
precisione. E non le è importato che quarantuno persone
abbiano
perso la vita a causa sua. Non le è importato che il
Mondo sarebbe rimasto con il fiato sospeso per colpa di una ragazzina
di sedici anni. O forse è proprio questo
che voleva.
- Se è stata lei, deve pagarla.
Vederla finire in carcere sarebbe l'unico modo per
sistemare le cose, ma anche in quel caso niente tornerebbe
più
come prima. Resterebbero la vergogna e le minacce della gente, come
macchie indelebili sulla fedina della mia famiglia. E soprattutto
dovrei fare i conti con un segreto dal peso insopportabile: quello di
una sorella che non è semplicemente
umana.
Accartoccio le coperte. Devo smettere di pensare a quello che
accadrà dopo, o c'è il rischio che rinunci a
Lilith una volta per
tutte.
- Non sto dicendo che tua sorella non verrà
punita, - precisa Shad.
- Sto dicendo che verrà punita da un tribunale di
Novi come lei,
e che l'ultima cosa che loro
vogliono è allontanare ancor più le Fazioni per
colpa sua.
- Nessuno di noi lo vuole, - aggiunge, come se sentisse il
dovere
di scusare la propria specie.
L'ultima luce del giorno - di un blu assonnato e cupo - si ritira
verso la finestra. Nel buio del loro angolo le protesi di Shad
accennano
a una fluorescenza che serpeggia fino al mio ginocchio.
Sento la pressione delle sue dita.
- Se è una bugia che vuoi, cercherò di
inventarmene una.
Le tiro il cuscino, ma sbaglio mira.
- Vada per la verità: se il prezzo da pagare
affinché i
Novi rimangano uniti è assolvere Lilith e chi l'ha presa con
sé, il Comizio lo pagherà, almeno fino a quando
sarà possibile.
- Lo pagherà, perché la ferita che la Rottura ci
ha
inflitto è stata troppo grande: ci sono famiglie di Novi
spezzate a
metà, Sybil; amici da una parte e compagni dall'altra; figli
chiamati a scegliere uno solo dei loro genitori; nipoti che non hanno
mai conosciuto i loro nonni.
- Io sono stata fortunata, - continua.
- I miei hanno preso la decisione più
giusta, crescendomi nella Fazione a cui
apparterrò fino al giorno della mia morte, perché
credevano che se tra
dieci miliardi di possibiltà che il nostro codice genetico
subisse una
mutazione i Novi hanno cominciato ad esistere, questo non vuol
dire che siamo superiori agli altri esseri umani.
Si tocca la spalla, il collo, l'orecchio sintetico. Rabbrividisce, e io
so che sopporta a stento di guardarsi allo specchio ogni mattina, o di
vedersi riflessa nelle espressioni attonite degli altri.
- Guardami, - dice, e io non vorrei farlo, ma l'accontento.
- Ti sembro
forse un essere superiore? Nel mio corpo non ci sono che due organi
interamente miei; il
resto è stato più o meno danneggiato e riparato
artificialmente, con tessuti coltivati in vitro o inserzioni
inorganiche. Sono una macchina, un automa,
ma per molti dei Novi il mio
DNA sarebbe sufficiente a reclamare il diritto di mettervi da parte.
Te, e quelli come te.
- Adesso capisci quanto siano diverse le nostre opinioni? Riesci a
crederci?
Ci riesco, perché so quanto possano essere affilate le idee.
In
passato i Novi
dovevano costituire un nucleo compatto, ma un giorno quel nucleo
è stato tagliato a metà, senza prima stabilire
quali
conseguenze avrebbe avuto una soluzione così drastica.
Queste persone sono spezzate esattamente come tutto il resto.
- Non puoi chiederci di metterci di nuovo l'uno contro
l'altro.
Pensa ad Armand, che ha visto andarsene nell'altra Fazione la
persona che amava; a Nicholas, Ton-
- Che è successo a Nicholas?
Shad si preme una mano sulle labbra. Sembra pentita di aver fatto il
suo nome.
Troppo tardi.
- Non lo dirò a nessuno, promesso. Sai che puoi fidarti di
me.
Qualunque tentativo di dissimulare il mio interesse è
fallito
prima ancora di cominciare, ma devo saperlo. Adesso che ho la
certezza che Reichenbach stia nascondendo qualcosa, desistere
è impensabile.
Ogni fibra del mio corpo è allungata verso la
verità.
- Shad, terrò la bocca cucita.
- Non rivelo mai i segreti che mi vengono affidati, - sussurra, - ma
non ho mai fatto promesse su questo. Io e Nicholas non ne abbiamo mai
parlato.
- A dire il vero non ne abbiamo mai parlato con nessuno.
L'indecisione nel suo sguardo è palpabile, ma alla fine la
vedo
perdere terreno. Mi faccio più vicina a lei e incrocio le
gambe,
con la faccia tra le mani e la medaglietta di mia nonna tra i denti.
Assaporo l'argento rovinato, fino a quando la parola che ci
è
incisa sopra non mi sfiora le labbra, e aspetto.
Shad, lotta contro il bisogno di confidarsi.
- Avere un'amica è terrificante, - ammette.
Sorridiamo, e ma alla fine Shad mi racconta una storia.
La storia di Nicholas Reichenbach.
***
- I Novi sono chiamati alla conservazione della
loro Specie.
- È un dovere morale, più che un obbligo, ma le
famiglie
numerose sono quelle che più vengono tutelate dalla
Comunità. In un certo senso avere un figlio unico
è
come scegliere di non fare abbastanza: il valore genetico è
minimo e
a perdere. Due Novi per farne uno? La matematica non è
d'accordo. Però Nicholas è proprio questo: un
figlio
unico dalla massima
purezza genica. Tutti si aspettavano che i suoi genitori gli dessero
almeno un fratello o una sorella, ma si sbagliavano. Quasi non ne
ebbero il tempo.
- Quando i Novi si separarono, subito dopo la Rottura, la madre di
Nicholas lo
costrinse a compiere una scelta: andare con lei e parteggiare per la
Fazione massimalista o rimanere con suo padre e crescere tra di Noi.
Non so dirti se le divergenze di ideali tra di loro fossero
così
gravi da convincerli ad allontanarsi, ma come puoi immaginare Nicholas
si decise per la seconda opzione.
Nonostante tutto riuscì a superare l'abbandono di sua madre,
e
divenne uno dei
ricercatori più promettenti dell'intera Comunità.
Viveva a
Friburgo con suo padre, ma non ci rimaneva mai per molto. Gira voce che
tutte le Ambasciate della Fazione lo volessero. Lo vogliono ancora, in
effetti.
Shad fa una pausa e si stropiccia la guancia sana.
- Mi hanno detto
che è stato a Ginevra, a Cambridge e a Trieste, - sorride,
ma una lacrima silenziosa le scivola sul naso. L'occhio
meccanico invece è asciutto; il piccolo obbiettivo che
c'è dentro si sposta avanti e indietro, come una bolla
d'aria
che sta per risalire in superficie e all'improvviso si rituffa in
acqua.
Io sono ripiegata su me stessa, e non ho la forza di muovermi. Ma ogni
secondo che Shad si concede è un'agonia in cui la mia mente
si
arrovella e pensa a storie tutte sbagliate.
- Poi? - la incalzo, e subito mi pento di averlo fatto.
- Poi, due anni fa, suo padre si ammalò. Di cancro. Leucemia.
Cancro.
Cerco di sbarrare la strada al ricordo di mia nonna nel suo ultimo mese
di vita. La testa gonfia come se le tempie avessero dovuto scoppiarle,
gli occhi sporgenti, il corpo
appesantito. La bocca ferita e spoglia del suo vecchio sorriso. Un
sorriso lontano,
perduto, che ho cercato fino all'ultimo istante anche a costo di darle
il
mio. Di darlo alla persona che più amavo al Mondo, e che
più mi
sarebbe mancata al Mondo, e che lo avrebbe fatto sembrare vuoto senza
la sua presenza.
- Nessuno riusciva a crederci, sai? Quello che per voi è un
male
così comune, per i Novi è un caso talmente raro
che...
Shad si schiarisce la gola.
Una possibilità su sterminate altre alternative. Eppure
è successo.
- Il signor Reichenbach era un chimico molto stimato, ma i
suoi
esperimenti lo portavano ad assorbire radiazioni su radiazioni.
- È morto, - sussurro, - vero?
Shad annuisce, ma non cerca di nascondere che sta tremando.
- E Nicholas è rimasto da solo. Nonostante tutto, da quello
che
dicono, sua madre non ha più voluto sentir parlar di lui.
Se lo avessi saputo.
- Se lo avessi saputo, - comincio.
Ma se lo avessi saputo che cosa sarebbe cambiato? Che cosa
sarà
cambiato, quando ci incroceremo di nuovo nei corridoi? Io
saprò
che lui ha sofferto, nient'altro. Quando incontriamo qualcuno possiamo
essere sicuri che almeno una volta nel corso della sua vita ha pianto.
Questo non impedisce a nessuno dei due di fare del male all'altro,
perché il passato non è sempre una
giustificazione.
Eppure la mia pelle, sotto la gola, tira così forte che
potrebbe
strapparsi. E non ho voglia di respirare,
perché con l'aria uscirà anche il dispiacere che
provo in
questo momento, e Shad se ne accorgerà. Perché si
deve
morire per forza, se si soffoca?
- Lo sanno in pochi, - continua Shad.
- Io stessa ne sono entrata a conoscenza per puro caso. Quando suo
padre morì mi trovavo nello stesso quartier generale della
nostra Fazione, a Chicago. Ci portano là, se non possiamo
essere curati nelle Ambasciate.
- Io vi alloggiavo da quasi un anno, - continua.
- Dovevano ancora montarmi la gamba, ma dal giorno dell'incidente stavo
meglio. Il dolore era
sopportabile, così non dovevano sedarmi troppo spesso
e potevo rimanere cosciente.
- Tutto quello che ricordo, comunque, è di essere stata
svegliata da un
grosso baccano. Era come se qualcuno avesse fatto irruzione
nell'ospedale e
avesse deciso di buttarlo giù a calci. Chiesi a
mia sorella di spostare la tenda della mia stanza, e lui era
lì, dall'altra parte: un ragazzo furioso.
Il ragazzo più furioso
che abbia mai visto. Rompeva vetri riempendoli di pugni; faceva a pezzi
coperte,
fogli e vestiti. E urlava. Quanto
urlava, Sybil... come se avesse dovuto sradicarsi l'anima a suon di
grida.
Reichenbach? Per quanto mi sforzi di immaginarlo, non ci riesco.
-
Perché?
- Perché nell'esatto istante in cui suo padre si
spense,
lui non
c'era. Passava ore e ore seduto al suo capezzale, cercando di aiutare
i medici che si occupavano di lui, ma la Fazione non ammetteva ritardi
nella sua preparazione. Erano mesi che Nicholas studiava da
autodidatta, e quella volta, sebbene fosse andato fuori a
prendere una boccata d'aria, si era portato
dietro una mappa stellare che aveva cominciato a disegnare quando era
arrivato.
Shad si asciuga la guancia con una manica del pigiama.
- Successe e basta. Suo padre
morì, e lui non c'era. Era fuori a ricalcare le stelle per
ordine della Fazione.
- Non l'ho più rivisto fino al giorno
in cui è
arrivato nella Villa. L'alternativa per lui era quella di tornare a
studiare in Europa, da dove i suoi genitori si erano trasferiti, ma da
quelle parti la Rottura aveva avuto le conseguenze peggiori. Il nucleo
della Fazione scelse di tenerselo vicino, ma fu lui a chiedere di
essere ospitato in Minnesota: è un posto tranquillo, questo,
lontano dagli Istituti
troppo affollati. È stato un caso che anche io mi fossi
ritirata qui.
Quando riesco a riprendere il controllo della mia voce nella stanza
è sceso il freddo, e fuori è buio. Dubito che
Shad abbia
intenzione di andare a cena, e anche io sono disposta a
rimanere a digiuno. Nella mia testa guizzano immagini che in questo
momento non ho la forza di scacciare. C'è un principe che
esce
da una porta di vetro, e suo padre è vivo, e non si dicono
addio. C'è un principe che rientra dalla stessa porta di
vetro,
e suo padre è morto, e non si sono detti addio.
- Lui ti ha riconosciuto? - deglutisco.
- Abbiamo fatto finta di non conoscerci, - ammette, - ma Nicholas sa
che io l'ho visto. So che lo sa.
Ripiombo nel silenzio dentro e fuori. Adesso ce la metto tutta: mi
concedo pensieri brevi, stando
ben attenta che non siano sensati, almeno fino a quando Shad non mi
scuote con una mano.
- Stai bene?
- Sì, è solo che...
Mascella intorpidita per colpa dei denti serrati troppo a lungo. Vista
compromessa dal rifiuto di sbattere le palpebre. Il mio corpo
è
paralizzato dalla stanchezza e dallo sconforto.
- Ci si aspetta che le persone che
conoscono il dolore siano quelle decise a risparmiarlo agli altri.
Tu lo fai, e invece Nicholas no. Tu lo fai, e Lilith non lo ha fatto.
Shad fruga nel suo cassetto delle belle parole e della fiducia nelle
persone. Non so come, ma ci riesce.
- Io credo che gli esseri umani siano delle creature sociali. Che
abbiano bisogno di non sentirsi soli, per vivere. E credo anche che per
Nicholas, essere solo, voglia dire essere il solo
ad aver sofferto tanto. O almeno lui pensa di esserlo. Per sua madre,
per suo padre, e per le aspettative che entrambe le Fazioni avevano e
hanno su di lui.
- Non lo accetta, e vuole che
gli altri abbiano la loro parte di pena, ma allo stesso tempo si
sente migliore di chiunque altro per essere riuscito ad andare avanti.
Vuole capire perché è toccato a lui, e
non ad altre
persone, ma non ce la fa. Certi problemi la scienza non li risolve,
Sybil, e questo lui non riesce a sopportarlo.
- Ha senso quello che sto dicendo, secondo te?
Che importa se ha senso o no, questo mi chiedo. Continuo a farlo anche
quando mi stringo a Shad, e dico solo che non è niente,
davvero,
e che voglio solo un abbraccio. Non uno qualunque, ma una
stretta umana e artificiale insieme, perché sono una
creatura
sociale e non voglio sentirmi sola.
E allora forse un senso c'è, perché quello che
prova
Nicholas è quello che provo io ogni volta che mi arrabbio:
un
male banale,
egoista, che mi piacerebbe estirpare da me e abbandonare sulle persone.
Perché tra tutte le cose che vorrei fossero solo mie, non ci sono la
delusione, la paura di
quello che
sarà domani, di quello che è stato ieri e che si
è
perso, e quella di non avere la forza per non soffrirne. Tutto questo
vorrei che appartenesse ad altri. Tenetevelo, è
vostro.
Io ne ho avuto abbastanza. E forse anche Nicholas.
***
Oggi il
lago che si estende oltre l'ala Est della Villa è argento
fluido.
Del colore del mercurio, a detta di Leslie, che mi scarica tra le
braccia una valigetta di plastica lucida e sbuffa per la fatica.
- Fai pure! - strepito, ma l'unico risultato che ottengo è
una linguaccia.
Leslie è così eccitata da non accorgersi che
l'aria sta
cambiando; insisto affinché torni dentro e si metta un
cappotto,
ma il vento gelido che ci scortica la faccia non ha effetto sul suo
entusiasmo. Intorno a noi un gruppo di sei o sette bambini si rincorre
tra gli
alberi in cerca di campioni da prelevare e osservare in laboratorio.
Riconosco uno dei fratellini di Armand, Grégorie, dallo
stesso
faccino appuntito e le labbra come due ciliegie a cui viene voglia di
rubare il colore. Dalle sue tasche cadono vetrini e
provette, ma quando faccio
per raccoglierle è già scomparso nella
distesa di conifere
che separa l'edificio da qualunque cosa vi sia aldilà del
bosco.
- Potrebbe essere pericoloso, - osservo. Forse dovrei tenere
d'occhio i più piccoli, ma Leslie sembra un po' troppo
divertita all'idea.
- Che t'importa di loro? Al lavorooooo!
Ho ottenuto il permesso di uscire
dalla Villa in qualità di "assistente"
di Leslie, ma questo vuol dire che devo correrle dietro per due o tre
ore ogni pomeriggio. Il
mio compito è quello di trascrivere i dati che mi vengono
dettati tra
un prelievo e l'altro, sebbene il più delle volte il
paesaggio finisca
per distrarmi. Sono giorni che cerco di localizzare questo posto, ma il
telefono che mi hanno prestato funziona solo per ricevere o fare delle
telefonate. Il mio - lo schermo rotto, i tasti mancanti - non era al
sicuro da intercettazioni estranee, così Xanders se
n'è liberato.
- Concentrazione salin -
C'è un colpo di tosse smorzato dal fruscio
degli aghi di pino, dal
loro profumo fresco, dalla loro immagine che si specchia sulla
superficie
del lago.
- Mi stai ascoltando? Qual è la concentrazione salina della
fonte?
- Non mi stai ascoltando.
Leslie tira uno schiaffo sull'acqua e uno schizzo mi raggiunge in piena
faccia.
È ghiacciato. S'intrufola giù per il collo e
sulla
schiena, fino alla cucitura dei pantaloni. E io lascio cadere la
valigetta.
Contagocce, microscopi portabili, guanti impermeabili e decine di
strumenti senza nome ruzzolano lungo le sponde del Lago, ma io ne
afferro uno al
volo e glielo tiro.
- Ahiaaaaa! Sybil
Crowford, sei licenziataaaa!
Recupero un altro utensile - un disco di plastica dallo spessore di
due dita - e la centro sulla testa. Non aspettavo altro che di dare le
dimissioni, ma a quanto pare Leslie mi ha preceduto. Tira su con il
naso, quel naso che è appena un apostrofo roseo e sottile, e
se
ne va con il broncio di una bambina che mi arriva al petto.
- Avevano ragione su di te, - singhiozza, e corre via.
Chi avesse ragione su cosa, però, non se lo lascia sfuggire.
Nemmeno perdo tempo a seguirla con lo sguardo: poggio le ginocchia sul
prato, raccogliendo quello che è rimasto del kit di prelievo
più lentamente che posso, visto che non ho intenzione di
rientrare fino a quando Leslie non ci avrà dato un taglio. E
poi
qui mi piace. Fuori.
L'erba
è umida a contatto con i miei vestiti, ma soffice, e
sottoterra riesco quasi a percepire le radici degli
alberi che s'intrecciano in una catena resistente che protegge i
boschi intorno alla Villa. Sopra di me i rami si aprono come braccia
spalancate a
un altro respiro, e non c'è niente che ricordi le piante
malate della mia
città, dai fusti rachitici e la corteccia che si sfalda. Non
ci sono
strade d'asfalto spaccato, ma sentieri ordinati che si
immergono nel
verde. Non ci sono isole di plastica nell'acqua, ma animali vivi, alghe
colorate, e superfici che riflettono il cielo. I cervi non devono avere
paura di essere cacciati.
Dopo aver rimesso ogni strumento a suo posto faccio scattare
la
sicura della valigetta e torno in piedi; le ginocchia tirano un sospiro
di sollievo, ma ho le dita congelate e faccio fatica a muovermi.
Perché a Marshall non c'è niente di
tutto questo? Perché gli anni della Rottura ci hanno portato
via cose che qui esistono ancora, e come noi non le abbiamo mai viste?
In
lontananza riesco ancora a scorgere i bambini. Giocano nel prato, ma
non pestano i fiori dell'Inverno; catturano rane e girini, li osservano
con
obiettivi d'ingrandimento, ma poi li ributtano in acqua senza fargli
del male.
Potrebbe essere questa, al
risposta. Forse i Novi hanno avuto di più perché
lo meritavano. Perché
non hanno divorato l'ozono, né perso il controllo di armi
chimiche, né
sfruttato illegalmente Paesi che non gli appartenevano.
E forse, forse,
se il Mondo fosse stato loro, niente sarebbe andato in pezzi.
È il pensiero di un istante, prima che
mi
tornino in mente le parole di Shad: i Novi vogliono far credere di
essere perfetti, ma non è detto che lo siano davvero.
Un
leggero solletico sulla guancia mi
riporta alla realtà. Con la coda dell'occhio mi accorgo che
sulla mia
spalla si è posata una farfalla.
Trattengo il respiro. Colgo
un'iridescenza azzurra che sfuma dal nero al bianco, ma non oso girare
la testa per studiarla meglio. Ho paura che voli via, e io non vedevo
una
farfalla da secoli. La valigetta pesa e le braccia mi fanno male;
penso a un modo per cambiare posizione senza lasciarla scappare.
Ma non
ho bisogno di trovarlo, perché qualcun altro agisce a posto
mio.
Con una mano sulla mia spalla, rovinata e squamosa, e la pelle che sa
di zolfo.
Mi sottraggo al suo tocco con una piroetta e in un gesto rapido, quando
mi volto, un uomo sporco di fango mi mostra la sua preda.
- Guarda, - sorride Crichton, - Limenitis
Arthemis.
- Una farfalla.
***
Non
ho bisogno di Nicholas per capire che Crichton non dovrebbe trovarsi
qui. L'uomo del laboratorio, il chimico eremita che non lascia mai i
sotterranei della Villa a meno che non sia Xanders a richiedere la sua
presenza, non dovrebbe girovagare per i boschi mentre lo fa la
sottoscritta. E scommetto che prima d'ora non era mai successo.
Seguo
l'insetto prigioniero delle sue dita: dieci centimetri di colore
racchiusi in una gabbia smunta che le vibrazioni spaventate delle
antenne sembrano aver paura di toccare.
- Ciao, Crichton.
- È così raro trovarne una in questo periodo
dell'anno, - osserva.
- Questa specie vive fino ad Ottobre.
- Ormai non fa più così freddo, d'Inverno, -
rispondo, ma allora perché mi è venuta la pelle
d'oca?
- Non mi aspettavo di incontrarti qui, - continuo.
- Ci vivo.
Faccio scoccare la lingua. Risposta stupida ad affermazione ancora
più stupida.
Approfitto
di una folata di vento per alzarmi il cappuccio sulla testa e poterlo
osservare meglio senza risultare inquietante. Crichton indossa il
solito camice macchiato, ma questa volta le tasche sono piene di terra
bagnata; la stessa incrostata sotto le sue unghie.
- Non sei più venuta a trovarmi da quando Nicholas
è venuto a prenderti. Stai con lui, adesso?
- Cos-
cosa? No! No, è che... ci sono tante cose da vedere in
questo posto.
- Se ti ho spaventata, ti chiedo scusa.
La sua voce è tranquilla e i suoi occhi sono sinceri.
-
Vuoi che la liberi? - chiede, e sulle sue labbra scorticate si apre una
smorfia gentile. Io sopprimo un ghigno inorridito: che altro potrebbe
fare, schiacciarla?
- Sì. Lasciala andare, Crichton.
Dall'altra
parte del lago Leslie mi grida di tornare dentro, sbracciandosi fino a
quando la maglia non si alza a scoprirle la pancia: Xanders mi vuole
nel
suo studio.
Torno a guardare Crichton e mi sforzo di essere educata.
Non posso avercela con lui perché è un tipo
strano, ma l'ammonimento di Nicholas è stato fin troppo
chiaro.
- Dico sul serio: liberala.
Crichton apre le dita di scatto.
La
farfalla non fugge immediatamente: muove le alucce per tastare l'aria,
come se non riuscisse a credere di essere ancora viva; come se avesse
dimenticato come si vola. Poi, all'improvviso, si libra in alto, e io e
Crichton la seguiamo con lo sguardo mentre se ne va.
- Ecco fatto, - dice lui, e io lo saluto.
- Ci
vediamo dentro, allora. E non preoccuparti, non mi hai spaventata.
Sto mentendo.
Il cielo si è fatto più pesante, e sento
sempre più freddo. Crichton rimane al suo posto fino a
quando
la farfalla non scompare e le prime gocce di pioggia non gli bagnano la
faccia.
- Ecco fatto, - ripete.
- Arriva un uragano.
***
Raggiungo
l'ingresso quando è ormai troppo tardi: sono fradicia di
pioggia, con i
capelli appiccicati al collo e le scarpe zuppe che spumano ad ogni
passo. Restituisco la valigetta a Leslie che con un singhiozzo mi
addita a sua "ex-dipendente", poi mi allontano dal coro di bambini
urlanti dell'ascensore e salgo su per le scale.
Sogno una doccia calda, dei vestiti
asciutti, qualcosa da mangiare;
qualunque distrazione possa levarmi di dosso la pressione della mano di
Crichton dalla spalla.
Apro
la cerniera del cappotto e ne scivolo fuori tra uno scalino e
l'altro, trascinandomi un piede alla volta. È a quel punto
che
me li ritrovo di fronte, mano nella mano come due bambini sul punto di
attraversare la strada, più che come due innamorati:
Nicholas e
Beatrice.
- Oh.
Sussulto.
Sulle alte vetrate
della scala piovono proiettili d'acqua e foglie portate dal vento, ma
l'interno della Villa è protetto dalle temperature ostili di
Dicembre.
- Scusate, - mugugno, e abbasso gli
occhi per non incrociare quelli di Nicholas. Non ho fatto altro che
evitarli da quando
Shad mi ha raccontato di quello che gli è successo, ma
Beatrice
non ha intenzione di scansarsi e lasciarmi passare.
- Ti hanno chiuso fuori?
Anche Nicholas tenta di imitare la sua espressione
divertita, ma non ci riesce. Credo che abbia fretta.
- Ho solo cercato di andarmene da questo posto, ma mi hanno
riacciuffata, - dico. Se non avessi il fiatone, riuscirei a
batterla per scortesia.
Entrambi si scoccano un'occhiata atterrita. Potrei essermelo
immaginato, ma le dita di Beatrice si artigliano attorno alla mano di
Nicholas.
- Sta scherzando, - sottolinea lui, affrettandosi a
nascondere il disagio. Fa per tirarsela dietro.
- Dovresti sbrigarti, Xanders ci ha convocato di sotto.
Giusto.
- Ditegli che sto arrivando, okay?
Non lo faranno: la mia entrata in scena sarà ancora
più spassosa, con un contorno di ritardo.
- Ah,
e...Nicholas!
Lui
non si ferma nemmeno quando lo raggiungo di nuovo. È
Beatrice a voltarsi prima ancora che lo faccia
lui, così ingoio l'impulso di spingerli giù dalle
scale e
mi asciugo gli occhi
con la manica della felpa.
- C'è una cosa di cui ti devo parlare, - ansimo.
- In privato, se possibile.
La
novità è questa: lui sussurra a Beatrice un "ti raggiungo subito" piuttosto
svogliato, e perfino insiste quando lei si rifiuta di lasciarci.
Sinceramente non capisco che cosa abbia da temere una come lei,
che riesce a convincere il proprio ragazzo a indossare pantaloni
coordinati ai suoi, ma alla fine ignoro con successo le
sue battute
velenose.
- Sappi che non lascio che ragazze così carine
rimangano da sole con lui, - sorride.
Ma guarda, adesso sarei carina: eppure fino a ieri ero una
sottospecie di essere umano. Le sorrido anche io.
- E per fortuna. La voglia di strozzarlo quando non ci sono
testimoni in giro è insopportabile.
Adesso smamma.
Nicholas sbuffa amaramente, ma Beatrice si alza sulle punte
dei piedi per
baciarlo. È un bacio affamato, di denti che stringono le sue
labbra, e braccia attorno alla vita e seta che struscia contro
della stoffa costosa. Io guardo fuori: non
ho intenzione di giocare a un gioco così infantile.
Alla fine Beatrice
se ne va, portandosi dietro il suono di tacchi spessi contro il marmo,
e Nicholas alza gli occhi su di me come se non vedesse l'ora di
andarsene.
- Hai più o meno venti secondi prima di annoiarmi
del tutto.
- Tanto di più non ti sopporto: Crichton mi ha
seguito giù al lago.
Credo di aver fatto centro.
- Impossibile, non esce mai dal suo appartamento.
- Me lo sono ritrovato dietro, Nicholas!
Scendo qualche gradino più in basso, disseminando orme
frastagliate d'acqua sporca, ma lui non si muove. Trattiene il mento
leggermente alzato, come fa sempre: essere quello che viene guardato
dall'alto in basso deve consumargli il fegato.
- Gli hai detto qualcosa che possa averlo
spinto a interessarsi a me?
- Mi pare che ci fossi anche tu, quando sono entrato nel suo
laboratorio, - dice.
- Ti sembra che gli abbia anche solo rivolto la parola?
- Intendo dopo.
Quando sei tornato di sotto. Perché
sì, - alzo le mani, - ti ho visto.
Lo vedo calcolare la situazione. Impiega due secondi a superare
l'esitazione.
- Avevo dimenticato degli appunti nella mia cabina, motivo
per cui
sono sceso e li ho recuperati. Non devo darti altre spiegazioni.
Questa volta è lui ad andarsene per primo, ma sono decisa a
non permetterglielo.
- Scusami se almeno qui dentro vorrei sentirmi al sicuro! -
grido,
e la mia voce viene trasportata lungo tutta la lunghezza delle scale, e
Nicholas non può non tornare a guardarmi, anche se
è in
ritardo, ed è atteso da qualche altra parte. Anche se lo
siamo
tutti e due.
Le sue guance s'incavano come se le stesse mordendo, e io, per
riflesso, faccio lo stesso.
- Sei al sicuro, - mormora, e io non ho idea dei pensieri
che si
camuffino dietro le sue parole. Le sensazioni, se ci sono, le bugie, le
verità: Nicholas mi taglia fuori.
Stringo il cappotto bagnato al petto.
- Gli dirò di lasciarti in pace, qualunque sia il
motivo per cui è interessato a te.
Non lo dice piano, né ad alta voce. Piuttosto modula con
estrema
attenzione ogni accento o forma d'intonazione. Per adesso è
abbastanza, e io annuisco.
Grazie.
È così semplice da dire: sei lettere tutte d'un
fiato per due sillabe.
Ma in verità non lo è per niente, o riuscirei a
farlo e a smettere
di litigare con il ragazzo che disegnava le stelle mentre suo padre
moriva di cancro.
- È meglio se ci sbrighiamo, - dico invece.
Ventuno lettere tutte
d'un fiato per otto sillabe, e nonostante tutto meno complicato.
***
La riunione
è già
cominciata da un pezzo quando con una scusa imbarazzata e sotto lo
sguardo curioso dei Novi prendo posto sul fondo della stanza.
Shad si alza sulle punte per bisbigliarmi qualcosa nell'orecchio: - Ci
sono novità.
Mi tiro di lato di scatto per cercare la traccia di uno scherzo nella
sua espressione, ma qualcosa mi suggerisce che è seria.
Rilasso
i pugni e cerco di recuperare
il filo del discorso di Xanders, finendo di sistemarmi una camicetta
spiegazzata sulla pancia. Individuo Nicholas e Beatrice su uno dei
divani che guardano alla scrivania, stretti tra Armand e una ragazza
dai capelli cortissimi.
- Come stavo dicendo, - riprende Xanders, - tra tre giorni, a Chicago,
avrà luogo l'edizione
annuale dell'esposizione promossa dalla nostra Fazione.
Le sue guance sono più arrossate del solito, ma resta da
chiedersi se questo sia il risultato del caldo del salotto o
dell'eccitazione. La linea di barba ramata che si è lasciato
crescere non aiuta a dargli un'aria più matura, e perfino il
ricciolo sapientemente acconciato sulla sua fronte pare quello di una
caricatura.
- Senza contare quelli di voi che avranno un ruolo attivo all'interno
dell'evento, ogni singola persona presente in questa stanza
è
stata invitata.
Ad eccezione della
sottoscritta, è chiaro.
- Non siete obbligati a partecipare, ma gradirei che
alcuni di voi fossero presenti, soprattutto coloro che l'anno scorso
hanno declinato l'offerta.
Passa in rassegna i ragazzi stipati nell'ufficio, indicandoli con un
dito.
- Toni, Ren, Shad, Armand e naturalmente
Beatrice: avete già confermato la vostra adesione.
- Charles, Hellen, Faraa - non dirmi di no anche questa volta,
signorina, - Louis e Dave: mi auguro che vorrete accompagnarci.
- Ci siamo anche io e Kira.
Una figura si alza dal centro del salotto, alta e piazzata. Riconosco
Sam, dal viso troppo dolce per un corpo così robusto, che fa
apparire piccoli tutti gli altri.
- A dire il vero, Sam, avrei un favore da chiedere a voi due, visto che
siete i più grandi.
- Sia io che Amelia vi accompagneremo all'esposizione, quest'anno, e
con noi verrà anche Daemon. Ho bisogno che qualcuno
rimanga a guardia della Villa mentre saremo via, prendendosi cura dei
bambini.
Nello studio si alzano decine di voci tutte insieme. Qualcuno si guarda
intorno con aria interrogativa.
- Ragazzi, ragazzi! Per favore, silenzio. C'è stato un
cambio di programma:
sarà Amelia a coordinarvi durante l'esposizione. Io
sarò
comunque presente, ma in qualità di rappresentate di Sybil
Crowford.
- Okay, aspettate un momento, - sventolo un braccio, - cosa?
- Sybil, l'evento a cui parteciperemo è un convegno su scala
mondiale, dove verranno esposte ricerche e progetti alla quale i Novi
di tutto il Pianeta stanno partecipando.
- Shad mi ha fatto notare che potrebbe essere un'occasione importante
per portare all'attenzione generale il caso di tua sorella, visto che
il Comizio non si è ancora espresso compiutamente a
riguardo. Non sarà
come convocarlo per via ufficuale, ma saranno presenti alcuni dei Novi
più influenti di entrambe le Fazioni, persone che potrebbero
spendere una buona parola per il tuo caso.
Non credo di aver capito bene.
- Ci saranno le persone che hanno sequestrato mia sorella?
- Non sappiamo quale particella della Fazione opposta stia
effettivamente ospitando Lilith, se quella centrale o quella di
un'unica delle loro Accademie. Del resto anche i membri di questa Villa
sono solo una minuscola parte della nostra comunità. Siamo
intervenuti perché eravamo i più vicini a
Marshall, e
quindi gli unici che tenevano d'occhio tua sorella periodicamente.
Quindi ho capito bene.
- Va bene lo stesso, - annuisco, - è già
qualcosa. Quando partiamo?
- Noi partiamo dall'aeroporto di Minneapolis tra due giorni. Tu resti
qui.
- Xanders, non era questo il patto. Avevi promesso che sarebbe venuta
anche lei, - dice Shad.
Avrei dovuto aspettarmi che l'idea non fosse merito di Xanders. Delle
volte dubito del fatto che riesca anche solo a organizzare i propri
pensieri.
-
Shad ha ragione. Dovrebbe venire con noi.
Beatrice
liscia la camicia di Nicholas con gesti delicati; l'ombra di un sorriso
vibra nel suo sguardo quando tutti prendono a fissarla. Sospetto che
fosse l'ultima cosa al mondo che ci saremmo aspettati di sentirle dire.
- Via, non vorrete
lasciarla qui! Avete davvero paura che le facciano del male davanti a
tutte quelle persone?
Stringo
le labbra. Sento ancora il sapore del cioccolato che ho arraffato in
camera, ma il retrogusto adesso è amaro.
Colgo
un imbarazzato incrocio di sguardi dall'altra parte della sala
circolare, poi Xanders si alza in piedi e comincia a passeggiare avanti
e indietro per la stanza.
- Quando partiamo? - gli chiedo di nuovo.
- Preferirei che rimanessi qui, se sei d'accordo.
- Non sono d'accordo. Shad ha avuto un'idea brillante. Quando partiamo?
- Non otterrai niente che non possa ottenere io confrontandomi
con chi dell'altra fazione sarà presente. I miei superiori
hanno già convocato un incontro per discuterne: se davanti
alle nostre accuse i Novi
confesseranno che Lilith è colpevole di quell'attentato,
avrà inizio il processo a suo carico e noi entreremo in
scena
per riportarla a casa.
- Perfetto, ma vengo anche io. Sono una testimone oculare e sono quasi
stata uccisa da quelle persone.
- Discuteremo anche dei danni a tuo carico, ma...
- Xanders, ho il diritto di incontrarli, - dico. Non
accetterò che
vengano prese decisioni alle mie spalle, questa volta: se Xanders sta
per commettere un errore, voglio poterne fare parte. Almeno il colpo
arriverà con un minimo di preavviso, questa volta.
- So che me ne pentirò.
Accetta.
- Siete pazzi, - mormora Nicholas.
- Sì, pazzi. Tutti quanti, - concorda qualcuno.
Guardo Nicholas da sopra la spalla di
Shad, tirandomi indietro, fino a sfiorare la teca contenente il
telescopio:
Nicholas, le gambe mollemente incrociate e il mento poggiato sulla
mano, continua a guardare un punto fisso sul pavimento. La sua
espressione si riduce a un'unica increspatura sopra l'attaccatura del
naso, dove la concentrazione ha lasciato il graffio di una ruga che
quasi non si nota e che una ciocca pallida tenta di coprire.
- Nicholas, Ivan, Maria: farete riferimento ad Amelia per la
presentazione dei vostri progetti, - li rassicura Xanders: - Non
c'è nulla di cui dobbiate preoccuparvi, ve lo assicuro.
Sfioro la spalla di Shad e avvicino le labbra al suo orecchio
meccanico, piegando le ginocchia per raggiungere la sua altezza.
- A cosa si riferisce?
Shad mi risponde con un filo di voce, i capelli neri a coprire
la nostra conversazione come una tenda di seta.
- Alcuni dei ragazzi si sono guadagnati l'opportunità di
tenere
delle conferenze all'esposizione di Chicago. Per Maria e Ivan
è
il primo anno, ma sono sicura che Amelia si prenderà cura di
loro.
Scommetto che Amelia è la donna che ho incontrato la notte
che sono arrivata qui, e che adesso mi sembra di
scorgere al fianco di Xanders: una donna matura, con i capelli
luminosi costretti in un chignon; una dei pochi adulti a vivere qui.
Penso che sia la vicedirettrice della Villa, o qualcosa del
genere.
- E Nicholas?
- Lui terrà almeno tre conferenze, - sorride, e piega la
testa come se la divertisse, sapermi tanto interessata.
- Ormai è uno degli ospiti più attesi.
- Ti pareva. Non so nemmeno perché te l'ho chiesto.
Amelia - o la donna che credo sia Amelia - richiama l'attenzione di
Xanders con un colpetto sulla schiena, poi torna a sedersi al posto che
a lui spetterebbe, dietro la scrivania.
- Sono arrivate le ultime adesioni, Xanders; vuoi controllare chi
parteciperà all'esposizione?
-
Sì, certo. Grazie, Amelia.
Avevo ragione a pensare che si trattasse di lei.
La donna digita un lungo codice e fa proiettare un'immagine a
mezz'aria, con la stessa forma a falce che
aveva la prima volta che ho visto lo schermo nascosto nella scrivania.
Dietro l'intricato gioco di luci
riesco ancora a intravedere la sua espressione contrita, forse effetto
della magrezza estrema che la contraddistingue e degli occhi rotondi e
sporgenti. Afferro un luccichio sul suo petto, e rimango sorpresa del
fatto che il ciondolo della sua collana sia una minuscola croce
d'argento, appena sopra la cucitura del maglione.
Legge i nomi dei partecipanti
selezionando quelli che trova più interessanti, ma il labbro
inferiore stretto tra i denti ne storpia la pronuncia. Alcuni spogliano
la lista come se fossero sulle spine, così alla fine sbircio
lo
schermo anche io:
Accesso
Consentito al visitatore Amelia. G. Baggins (N) - codice 192100kjoth
ESPOSIZIONE DI SCIENZA E TECNOLOGIA DI CHICAGO
Crystal
Palace in Cam.
(21th ed.)
Ultimi iscritti al registro dei partecipanti:
Peter Gloone
(h)
Virginia Fermi (p)
Grant Malcom (p)
Delphine Navier (h)
Edmond Navier (h)
Catrina Joja (h)
Peter Butler (h)
Rosalind Gilbert (h)
Thomas Edge (h)
Wolfgang Brack (h)
e al resto della lista
limito nient'altro che un'occhiata. Potrei rimanere ore ed ore a
fissarla, ma non saprò mai se lì in mezzo si
nascondono
le persone che hanno permesso a mia sorella di far esplodere una
scuola. Mai, a meno che non mi decida a salire su quell'aereo per
scoprirlo.
Toni sembra sul punto di svenire a causa della presenza del Grant
Malcom che occupa il terzo posto, ma non specifica il
significato della lettera "p" vicino al suo nome. Dopo qualche minuto
di riflessione Xanders prende il posto di Amelia dietro la scrivania.
- Molto bene, dunque. La partenza è fissata per le dieci di
mattina di Giovedì, con destinazione Chicago. Saremo di
ritorno,
se tutto va come previsto, nel giro di quattro giorni. Vi prego di
comunicarmi la vostra eventuale adesione entro questa sera, in modo da
fornire alla Fazione i nominativi dei partecipanti.
Un coro di risposte affermative convince Xanders a lasciarci andare, ma
non prima di avermi assicurato che domani metteremo a punto un piano
diplomatico che comprenda la mia presenza. Mi sento in dovere di
ringraziarlo per aver colto al volo questa opportunità,
anche se
è il minimo che i Novi possano fare per riscattare il debito
che
hanno nei miei confronti. Quando mi metto in fila per uscire,
strusciando i piedi su un tappeto dalle trame arricciate, mi accorgo
che Shad è impegnata in una
discussione insolitamente accesa, per una come lei. In un impianto del
suo torace lampeggia una spia rossa, a un ritmo crescente mano a mano
che si agita. Tiene le braccia incrociate in quel modo che ricorda il
tentativo di coprirsi dallo sguardo degli altri, ma è
affranta.
Sta inseguendo Nicholas, ma lui fa finta di ignorarla. Alcune persone
vengono a congratularsi con me, e io mi sforzo di dispensare sorrisi e
strette di mano, senza riuscire a raggiungere la mia amica. Ren e Toni
mi mettono un braccio a testa sulle spalle, trascinandomi fuori.
Poi, però, Xanders alza una mano verso la coda della fila e
si
schiarisce la voce. Farsi rispettare gli costa un certo sforzo, come
se nessuno lo considerasse davvero per il ruolo che ricopre.
- Nicholas, potresti trattenerti per qualche minuto? C'è
qualcosa di cui vorrei parlarti.
Questo ottiene l'effetto sperato.
Ci fermiamo tutti sul ciglio della porta, lasciando che i non
interessati ci
sfilino di fianco per uscire. Perfino Shad rimane in attesa, con gli
occhi felini, marcati dall'eyeliner nero.
Nicholas non sembra porsi alcun dubbio; si volta giusto il tempo che
basta per
accorgersi che la lista di partecipanti è ancora proiettata
a
mezz'aria.
- No, - sibila, e il silenzio che viene dopo sembra amplificare le
frustate della pioggia che picchia sui vetri. Armand prova a stargli
dietro, ma Nicholas non si ferma ad aspettare nessuno: né
Armand, né Shad, né Beatrice, che scocca
un'occhiata sfacciata verso la scrivania.
- Lascialo in pace, Seymour.
Non far finta che sia lui ad aver bisogno di te.
Beatrice si piazza una maschera sulla faccia e mi sorride come se
fossimo migliori amiche. Appena Ren e Toni se ne vanno, poggia le mani
sulle mie spalle e inclina la
testa di lato: io mi lascio sfuggire una mezza smorfia alla vista
dell'anello dorato che porta al dito, dove un rubino intagliato sboccia
in una rosa di pietra. Potrei pagare la mia retta universitaria
con un oggetto del genere.
- Indovina chi aveva già scommesso che saresti venuta?
- Tu?
- Sì. E ho dovuto fare carte false per prenderti un posto
alle
conferenze di Chol, ma alla fine ci sono riuscita. Sarà
un'esperienza indimenticabile, vedrai.
- Uhm,
grazie?
- Lo so, lo so: sono stata parecchio sgarbata con te. Non sono brava a
fidarmi delle persone, ma allo stesso tempo odio non essere
brava in qualcosa.
- Tregua?
Alzo lo sguardo dalla sua mano ingioiellata fino allo spruzzo di
lentiggini
che le punteggiano la faccia, come se ci avessero soffiato sopra dello
zucchero di canna. Mia nonna era solita raccontare che nel paese in cui
era nata, fino a qualche decennio prima della sua nascita, le persone
con i capelli rossi venivano emarginate con un certo sospetto, quasi vi
si
intravedesse il colore di una certa
malizia.
Credevo di non aver mai sentito nulla di più stupido, e
invece eccomi qua: pronta a trovare mille scuse del fatto che non mi
fido di lei. Disposta a incolparla di avere una chioma fulva, piuttosto
che abbassare la guardia.
- Lo prendo come un sì, - civetta.
- Prendilo come vuoi, Beatrice.
- Ah, quando torni nella tua stanza da' un'occhiata
all'armadio: c'è un regalo per te.
Beatrice sgambetta verso il resto del gruppo e
non si volta
indietro. Io sono l'ultima a lasciare
la stanza, accorgendomi che fino a questo momento non ho fatto che
premere le unghie contro l'interno dei palmi: mi chiedo se Xanders se
ne sia accorto, visto che non aveva nessuno con cui parlare.
Aspetto che cominci a lamentarsi, o che mi inviti a togliere
il disturbo. Invece fa finta di sorridere, e per me è
anche peggio: come si sdrammatizza l'immagine di un Direttore che
viene zittito da uno dei suoi pupilli davanti a un gruppo di persone
attonite?
- Nicholas ha ancora tanto da imparare, - sospira, la voce
roca, - ma non vuole che gli si insegni niente.
Rimango
ferma contro il legno rosso della porta fino a quando Xanders non
spegne la proiezione della lista per farmi capire che è ora
di
andarsene. Colgo un ultimo stralcio di nomi, prima che la mezzaluna
tramonti di nuovo e i partecipanti all'esposizione si
dissolvano del tutto.
Prima di andarmene mi concedo un ultimo pensiero a
Reichenbach,
prima di raggiungere il limite massimo che precede un rigetto alla sua
immagine.
Chissà dove, in mezzo a quella lista, Nicholas ha letto il
nome di sua madre.
***
- Il piano è quello di costringerli a confessare,
credo.
Mi infilo una maglietta pulita tra le labbra, mentre le mani sono
occupate a schiacciare i vestiti in valigia. La voce di Alphy
trema
contro l'incavo del mio collo da quando il tentativo di tenere il
telefono poggiato tra l'orecchio e la spalla è fallito, e la
parte dell'auricolare è finita per farmi il solletico.
Esamino i
residui di vestiario sul mio letto e roteo gli occhi. Quando ho frugato
nell'armadio di casa mia non avrei mai pensato di partecipare a
un'esposizione di nuove tecnologie e scoperte scientifiche. Io, alla
scienza, non ci penso e basta.
- Poteva andarci peggio, - dice, - visto che sono giorni che aspettiamo
a vuoto.
Sappiamo entrambi che per adesso questo evento rappresenta
l'opportunità migliore che ci sia capitata dalla scomparsa
di
mia sorella a questa parte, e che non possiamo tirarci indietro. Non
starò qui a ripetere che vorrei vederlo salire su
quell'aereo
insieme a me, ma è così che stanno le cose: lui
avrebbe
il cervello per capire, e io la faccia tosta per agire. Senza Alphy non
basteranno tutte le valige del Mondo.
- Non sto più nella pelle, sai? Chicago, FC-nA-Illinois, la
città più ricca degli Stati Uniti! - esclamo, ma
le mie
labbra non sono abbastanza sicure da trattenere la maglietta. Mi chino
a raccoglierla e rimango per terra, contro il materasso morbido, e
Alphy non risponde. Lo ascolto chiudersi una porta alle spalle e
sedersi alla scrivania.
- Alphy, sei ancora lì?
- No.
- Voglio dire, sì, ma ti dispiace rimanere in
linea?
-
Figurati, tanto sto preparando la valigia.
La valigia l'ho quasi finita, ma non importa. Dall'altra parte del
telefono sento Alphy armeggiare con uno strano aggeggio di ferro, come
se stesse cercando di smontare un pannello rigido, o che so io.
Quasi riesco a immaginare la fascia di pile che gli scosta i capelli
dalla faccia, gli occhiali che gli scivolano sul naso per il sudore, e
la punta della lingua serrata tra i denti. Mi viene da sorridere.
- Ti ricordi di Beatrice? Mi ha
fatto recapitare tre completi eleganti da indossare alla conferenza,
visto che ci sarà una festa di Natale, - mormoro.
- Credi che dovrei farci un falò? A casa mia non si
festeggia, il Natale.
- Non lo so, sono...
Alzo gli occhi sulla scatola infiocchettata che ho trovato in camera ad
aspettarmi, e cerco di immaginarmi con addosso una blusa bianca
riccamente ricamata e dei costosi pantaloni di seta color indaco,
sospirando.
- Meravigliosi, purtroppo. E io non ho nient'altro da
mettere, a meno che non si possano indossare jeans e sneakers.
- Ah.
-
Se il mese scorso mi avessero annunciato che avrei partecipato a un
convegno
continentale sulla scienza, mi sarei sentita presa in
giro. E comunque, se fosse successo, sarebbe stato perché mi
avrebbero scambiata per Lilith.
- Penso di sì, - dice, ma è chiaro che
sto parlando
a me stessa, e che lui è distante, distratto, senza voce. Mi
mordo le unghie della mano destra e prendo tempo, ma potrei girarci
intorno tutta la sera, e ancora non saprei come spiegargli che Xanders
si è rifiutato di portarlo con noi. E allora ci scherzo su,
come
si fa quando non c'è niente da perdere.
- Alphy, so che ti sarebbe piaciuto venire a Chicago, ma se
non ti decidi a tornare io che posso farci?
Passano sette secondi prima che si ricordi di rispondere.
- Dovrei essere lì per il vostro ritorno.
- Ma?
Nessuna risposta. Dall'altra parte del telefono si sentono
nell'ordine: un ululo del vento, la pioggia che tormenta le finestre,
il rumore della carta che sfruscia, un singhiozzo.
- Alphy, che stai facendo?
Delle scartoffie violentate e delle viti cadono per
terra. Mi
rialzo piano, un ginocchio alla volta, e stavolta il telefono lo tengo
ben saldo con la mano, perché quando qualcosa sta per andare
storto, semplicemente lo si sente. Lo si sente al centro della testa, e
da lì con un'eco fino alla punta delle dita che sfrigolano,
come
se sotto vi avessero nascosto un intero formicaio.
Brutto presentimento. Era questa la sensazione che avevo provato prima
dell'attentato, ed era quasi la stessa.
- Alphy, - scandisco piano, - che succede?
E aspetto che risponda: "niente".
"Non è
successo niente."
E invece la sua voce esce fuori come se Alphy avesse visto
un fantasma.
- Qualcuno è entrato in camera mia.
- Cosa?
- C-credo che una figura estranea si sia introdotta nella
mia camera da letto.
- Gesù Alphy, calmati. Senti come parli!
- No no no, non posso calmarmi: qualcuno è
entrato in casa mia, Sybil!
Busso nervosamente contro la porta del bagno. Nessuna risposta, Shad
non c'è. Infilo le prime scarpe che trovo: sono umide, e
ricoperte di fango. Sono quelle che ho indossato per andare al lago,
che entrano a fatica e mi bagnano i calzini.
- Come fai a saperlo,- ansimo, - Hanno forzato la serratura?
- No, la serratura era intatta.
- E allora? Hai perso il portafoglio?
- Mancano dei documenti. C'erano dei documenti nascosti
dentro a una batteria che stavo costruendo.
Il tono di Alphy tradisce che sta perdendo il controllo della
situazione. Sfreccio verso la porta e giuro a me stessa che se questo
è uno stupido tentativo di convincere Xanders che a casa non
si
sente al sicuro e che dovrebbe lasciarlo venire con noi, gli
caverò i denti uno a uno.
- Ne sei assolutamente sicuro? Li avrai messi da qualche
altra parte, Alphy.
- Li ho consultati ieri sera e li ho rimessi apposto di
persona, quindi sì. Direi proprio di sì.
Faccio un ultimo tentativo per capire se sta bluffando. Adesso sono
immobile nel mezzo di un lungo corridoio di porte di legno.
- Lì avrà scoperti tua madre.
- Sybil, - dice lui, e io capisco che sta dicendo la
verità.
- Alcuni documenti nella batteria ci sono ancora, ma
non tutti. Non quelli che cercavo.
- E quali sarebbero i documenti spariti?
Ricordo il sorriso di Lilith prima dell'esplosione. Quel sorriso di
distacco che sembrava disegnato con un petalo di fiore, e il panico che
mi aveva assalito senza un motivo apparente prima del disastro, e so
che è lei. So che c'entra di nuovo lei.
Ed è Alphy a confermarlo.
- Sono i quaderni di Lilith. Tutti, dal primo all'ultimo.
Tutti
gli appunti che mi aveva chiesto di tenerle prima dell'attentato si
sono volatilizzati.
- Che c'era scritto? Alphy, devi dirmi che c'era scritto
là dentro.
- Non lo so. Erano incomprensibili. Porca miseria, non lo
so. Mi
disse che avrebbe avuto bisogno di me per rimetterli in ordine, e
così me li ha affidati.
Sto per gridargli contro, ma c'è un tonfo.
Secco.
Sento il respiro di Alphy che diventa un fischio, e mi tappo la bocca
con una mano. Poi la scosto piano.
- Alphy. Che.
Diavolo. Sta. Succedendo.
- C'è qualcuno di sotto.
- O mio Dio, smettila di prendermi in giro.
- Ho s-sentito qualcosa muoversi di sotto.
Sono come pietrificata, contro il muro. Penso a sua zia, che lavora
fino a tardi, e ai suoi genitori che tornano solo due volte alla
settimana e solo di venerdì e al fatto che sia strano che
sappia
queste cose,
- Rimani immobile.
- Non ti muovere.
- Alphy, non ti muovere, - dico, e comincio a camminare, e lui
non
parla. Penso a dove potrebbe nascondersi se avesse ragione: letto,
armadio, tetto, scrivania.
- Devo trovare Shad. Alphy,
-
- E se è lei? Se
è Lilith?
Adesso sto correndo verso l'ascensore, ma l'ascensore è
occupato
e allora corro verso le scale. La pioggia fa così chiasso
che lo
farà scoprire. Ecco che ricominciano i pensieri sconnessi.
- Non dire stronzate e chiuditi dentro.
Deve chiamare la polizia, e io devo chiamare Xanders. Se è
qualcuno dei Novi, qualcuno della Fazione sbagliata, è
lì
per finire quello che era stato iniziato.
Vogliono ucciderlo.
- Devo solo sapere se è lei, - sussurra.
E' terrorizzato e fiducioso allo stesso tempo.
Non so se i passi che sento sono quelli di Alphy o i miei,
che
rimbombano contro il marmo quando mi precipito di sotto, tre gradini
alla volta.
Riesco quasi sentire le parole sussurrate dai battiti dei nostri cuori.
Alphy, non lo fare.
Arrivo quasi al primo piano quando Alphy apre la porta di
camera sua ed emette un suono strozzato.
È a quel punto che scivolo.
***
Scarpe bagnate e sporche di fango, quelle di stamattina.
Reagiscono con il pavimento liscio.
Prima si fracassano contro un gradino le mani, poi le ginocchia, poi -
quando ruzzolo fino alla base delle scale - tutto il resto. Il
pavimento oscilla avanti e indietro, come se qualcuno ci stesse
giocando, e volesse farmi cadere. Troppo tardi, comunque. Sono
già per terra, e non parlo. Se parlo adesso, sarebbe solo
per
piangere del dolore insopportabile alle braccia. È come
quando
si battono i gomiti sulla sedia, e i nervi urlano tutti insieme e tutti
insieme si ritraggono e tu puoi solo contare i secondi prima che passi.
Solo dieci volte più forte. Apro gli occhi a filo della
pietra
chiara del pavimento, e inspiro dal naso. Espiro. Il movimento cessa
del tutto, e il dolore diminuisce.
Spero che non mi abbia visto nessuno,
almeno fino a quando non inquadro il telefono ancora intatto, scivolato
a pochi metri da me. Mi ricordo perché stavo correndo, e
rantolo.
Poi delle mani si chinano su di me - bianche e sottili, da musicista -
e io faccio segno di no con la testa.
- Il telefono.
Dico solo questo, ma Armand esegue.
Raccoglie il telefono e se lo porta all'orecchio, poi torna
verso di me e mi tiene ferma la testa.
- Allo?
Le
mie braccia sfregano contro il tappeto. Punto una mano, poi l'altra,
aspettando che l'adrenalina polverizzi definitivamente il dolore e il
fiato corto, ma
ancora non lo fa.
- È Alphy, - tossisco.
Per favore, dobbiamo
fare qualcosa.
Ma Armand non sembra convinto. Mi guarda con occhi
aggrottati, dritto in faccia.
- Alphy, allo?
C'è un vociare sottile dall'altra parte del telefono.
- Vous n'etes pas Alphy.
Armand piega la testa, come se fosse troppo confuso per guardare il
mondo per dritto.
- Pardon, à qui ai-je l'honneur?
- Je suis Armand Nevier, mais à
qui ai-je l'honneur?
La mia voce fa meno rumore di una goccia di pioggia. Mi tiro
su un po' alla volta, ma non ho il coraggio di intervenire.
- Armand, con chi stai parlando?
Le bocca di Armand rimane aperta a formare una parola, poi
il silenzio. Lui mi lancia un'occhiata seria.
- È caduta la linea.
- Che significa?
Gli strappo il telefono di mano, ma a lui non sembra
importare.
- Alphy sta bene? Dimmi che sta bene.
- Non era Alphy, - dice, e ha ancora quell'espressione
sospettosa sul viso.
- C'era una ragazza dall'altra parte.
Un gruppo di persone si avvicina, attirato dalla macchia di fango che
ho lasciato per terra. Non penso che si rendano conto di quello che sta
succedendo,
perché non ci riesco neanche io. Ma loro sono più
intelligenti, proprio come lei. Proprio come Lilith.
- C'era Alphy, - insisto.
- Hai detto che c'era qualcun altro in casa sua, - osserva.
Un ladro. Un sicario. Qualcuno.
Ricompongo il numero e non smetto di fissare Armand, aspettando che si
decida a darmi una spiegazione. Il telefono non squilla.
Poi Armand mi trascina via dal resto dei Novi, dietro il primo muro
abbastanza distante da non essere sentiti, e parla sottovoce, come se
non fosse sicuro che le sue parole abbiano un senso.
- Sybil, tua sorella sa parlare il francese?
Oops, quel
gâchis. Lilith est la première classe.
C'era una ragazza, dall'altra parte. E se è lei? Devo solo
sapere se è lei.
- Sybil.
- Sì, - dico.
Il francese lo parla bene.
- Sì.
Angolo Autrice:
capitolo di transizione, direi. Alcune persone mi hanno fatto notare
che forse avrei dovuto lineare meglio i personaggi che orbitavano
attorno alla protagonista, so here we are. Povero Nicholas,
però, quanta sofferenza ho in mente per lui. Immagino che
tutti
voi abbiate sentito parlare dell'effetto farfalla, che comunque
verrà ripreso nei capitoli successivi: "se una farfalla
batte le
ali a Rio, a New York si scatena un uragano". Almeno la teoria del
caos, quella dei se, dei forse, delle possibilità, dice
questo.
Profondamente inquietante, non trovate? Le battute in francese sono
state letteralmente tradotte su internet, e quindi sono sbagliate. E
niente, so che su efp
avete
rinunciato alla lettura di Entropy, ma posto lo stesso
perché mi
dà tanta giuoia *w* Vi mando un bacio: grazie alle persone
che passeranno di qui!
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