Storia d'inverno

di Alex Wolf
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Libro primo - l'arrivo dell'inverno e l'inizio della guerra. ***
Capitolo 2: *** Il tempo passa. ***
Capitolo 3: *** Ritorno alla Terra di Mezzo. ***
Capitolo 4: *** L'Ombra incombe. ***
Capitolo 5: *** Verità celate. ***
Capitolo 6: *** La profezia di Cuinië, la ragazza cervo. ***
Capitolo 7: *** Draghi. ***
Capitolo 8: *** Ruggiti. ***
Capitolo 9: *** This is war. ***
Capitolo 10: *** A carte scoperte. ***
Capitolo 11: *** Spettri. ***
Capitolo 12: *** Aiuto. ***
Capitolo 13: *** Stratega. ***
Capitolo 14: *** She's gone. ***
Capitolo 15: *** Di dolore e sangue freddo. ***
Capitolo 16: *** Secondo Libro - Fiumi di sangue e ombre di cenere. ***
Capitolo 17: *** Ombre. ***
Capitolo 18: *** Di viaggi e draghi verdi. ***
Capitolo 19: *** L'ultimo ballo. ***



Capitolo 1
*** Libro primo - l'arrivo dell'inverno e l'inizio della guerra. ***


Libro Primo: l'arrivo dell'inverno e l'inizio della guerra.
Ci tengo a precisare che i primi quattro capitoli di questa FF saranno passeggieri, perché introdurranno le storie che i vari personaggi hanno intrapreso alla fine della battaglia contro Sauron.  Preciso anche che, saranno molto corti perché sono come dei piccoli prologhi per ognuno di loro ;)


Trailer:  http://www.youtube.com/watch?v=rvYAQP6Cygg
 


Storia d’inverno.
 


''Il passato torna da te proprio quando pensi di averlo dimenticato.''
 


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Nubi grigie iniziavano ad addensarsi in cielo, mentre aliti di vento cominciavano a scuotere le fronde degli alberi sotto di loro. Rumori tempestosi si dilagavano nell’aria pesante d’umidità, che prometteva poggia. I capelli biondi di Fanie schioccavano nel vento come fruste e le possenti ali di Arme tagliavano la coltre temporalesca in due. L’alito caldo del drago, di tanto in tanto, arrivava alle braccia della giovane che si permetteva di assaporarlo per riscaldarsi, mentre la sua mente correva a ricordi lontani. Erano passati venticinque anni dall’assassinio di suo fratello Sauron e la distruzione dell’anello e altrettanti dall’ultima volta che aveva rivisto i suoi vecchi amici; tranne i Baggins e Gandalf, che erano partiti per le terre immortali. Si domandava spesso che facevano nei paradisi terrestri quei due piccoli hobbit e, con ancora più frequenza, quanto fosse cresciuto il piccolo Haldir, che lei stessa aveva aiutato a far nascere. Ricordava ancora il dolore sul viso dell’amica, le dita di El strette attorno al suo braccio con tanta forza da lasciarle lividi e il pianto del neonato. I suoi occhia azzurri, quando l’aveva guardata per la prima volta, l’avevano l’asciata di stucco. In un certo senso, era curiosa di sapere com’era cresciuto e quanto quegli occhi fossero cambiati negli anni.
Ti mancano? Le domandò Armë a un tratto, cogliendo alla sprovvista. L’elfa sbatté le palpebre e si allungò sul collo dell’animale, poggiando le mani sulle squame doro.
Ogni tanto penso ancora a loro e non posso fare a meno di pensare a quanto saranno cambiati, affermò con disinvoltura. Era riuscita ad avere accesso alla mente di Arme solo da qualche anno, quando durante in un incontro un po’ troppo ravvicinato con dei muta pelle del Nord che le avevano quasi cavato l’occhio sinistro. Quel momento aveva aperto le porte di comunicazione delle loro menti e Fanie si era sentita come trasportare in quella di Armë: era riuscita a sentire le emozioni che provava e i pensieri che le frullavano in testa. Si era alzata e aveva sorriso al drago doro poi, però, le feirte al volto avevano iniziato a bruciarle. Allora, la sua dragonessa era intervenuta e aveva allontanato quegli esseri, portandola poi nel regno più vicino: Erebor. Fanie si era rifiutata, dopo svariati giorni di cura, di tornare a Bosco Atro circondata dalla tranquillità come le aveva consigliato Armë e assieme erano ripartite per il lungo viaggio. Ora, erano passati 25 anni e l’elfa bionda non vedeva l’ora di tornare a casa e godersi il meritato riposo, assieme alla sua compagna d’avventure.
A un tratto, un forte vento gelido soffiò talmente forte che persino Armë si trovò a gettare il collo di lato senza riuscire a contrastare la corrente fredda. Turbini di nebbia e neve nacquero attorno a loro e soffi di vento presero a gridare; un urlo acuto e lamentoso che fece rizzare i capelli sulla nuca alla ragazza.
Atterriamo. Atterriamo! Ordinó alla cavalcatura che già aveva preso a scendere verso il basso; ma sotto di loro c’era il vuoto. Un mare di grigio denso e umido che copriva le foreste delle Lande del Nord. Era come se tutto fosse stato inghiottito dalla desolazione; la nebbia assomigliava al fumo che sale da ciò che resta dopo il passaggio del fuoco dei draghi. Un insolito malanimo sorse nel petto della guerriera che, dopo aver guardato in ogni direzione, si ritrovò a fissare una cosa in lontananza: era piccola e nera, e si muoveva veloce nella loro direzione. Un corvo. L’uccello le passò affianco e alla ragazza parve di venir osservata da quello. Non sapeva perché ma, appena il volatile le era passato vicino, i suoi occhi piccoli e scuri le erano parsi incendiarle l’anima e poi pietrificarla; si convinse che fosse solo un’idea e tornò a preoccuparsi del tempo che andava a peggiorarsi.
« Non capisco », gridò Fanie ad Armë, stufa di usare la mente per comunicare con lei, « non siamo sulle Colline Vento, non dovrebbe esserci questo tempo in primavera. » Le sue parole si persero nelle raffiche di vento.
« Infatti non dovrebbe. » Rispose una voce profonda e roca, sovrastando il frastuono della tempesta. I capelli sulla testa di Fanie si rizzarono come la sua schiena e tutti i sensi si misero all’erta. Erano secoli che non udiva quel tono vocale, ma mai se lo sarebbe potuta dimenticare. Mai avrebbe scordato gli occhi grigi e i capelli d’argento di Turion, suo fratello maggiore. Erano decenni che non pensava più a lui, o se lo faceva se n’era dimenticata e ora udiva la sua voce disinvolta parlarle attraverso la tempesta.
« Avrei dovuto aspettarmi che ci fossi tu dietro tutto questo, fratello. » Commentò acidamente, mentre vento, nubi e nebbia e si placavano e lasciavano spazio a un pallido sole primaverile. Le montagne comparvero sotto le zampe di Arma e tutto tornò alla normalità. Una figura fluttuava d’innanzi a loro, studiandosi le unghie con un accentuato interesse. Corti capelli biondo-argentei rilucevano contro il sole, catturandone i raggi e rendendoli freddi; la pelle pallida brillava sotto di essi e i vestiti azzurri che indossavano si confondevano con l’orizzonte celeste del cielo.
« Non sei contenta di vedermi, sorella? » Con uno scatto, le braccia del giovane elfo si poggiarono sul collo di Arma e la sua testa si piegò leggermente a destra. Le labbra sottili si aprirono in un sorriso smagliante, lasciando veder i denti perfettamente bianchi e perfetti.
« No. » Rispose secca la giovane gettando lei, questa volta, la testa nella direzione del fratello e alzando le sopracciglia. Il ragazzo mise il broncio e si diede uno slancio accomodandosi sul piccolo spazio lasciato fra la sella e il collo del drago. I suoi occhi grigi catturarono quelli della sorella e non li liberarono per molto tempo, studiandoli con attenzione.
« Perché? » Chiese fintamente sorpreso, mentre il drago ricominciava a volare.
« Perché,Turion, ovunque i Valar ti spediscono ci sono guai e io non voglio guai. Ho deciso che è tempo di tranquillità e… »
« Non vuoi guai? » Turion proruppe in una risata che, però, di felice non aveva nulla: era fredda e distaccata, come il suo modo di parlare. « Tu sei nata dentro i guai, Fanie, come me a causa di nostro fratello maggiore. A proposito di Sauron: è vero che l’hai ucciso tu? »
« Si. » Rispose secca la giovane, senza pensarci due volte. Se si fosse fermata a ragionare su quella cosa sarebbe esplosa a piangere per il rimorso di quel gesto e il ricordo del corpo di Rìnon steso a terra. Non riusciva a levarsi dalla testa quelle immagini nemmeno dopo 25 anni; ogni sera la perseguitavano. E ogni notte sembravano diventare più vivi e al contempo più lontani: si era sempre domandata si fosse lei la causa di tutto questo, se lei volesse dimenticare ma il suo subconscio no. Come se all’interno del suo corpo ci fosse stata una battaglia.
« Ha… sofferto? » Si premurò di domandare il biondo, passandosi una mano fra i capelli corti.
« L’ho pugnalato al cuore con una spada più e più volte. Non so quanto abbia sofferto, ma spero abbastanza da sentire tutto il dolore che ho provato io a causa sua. » Ringhiò la bionda, bucando i pantaloni nel tentativo di conficcarsi le unghie nella carne per provare qualcosa di reale, concreto come il dolore. « Ma ora non importa più, è morto e questo è quello che conta. »
« Sei così diversa da quando hai lasciato Valinor. Hai scelto di seguire nostro fratello quando eri praticamente una bambina ed ora sei… sei così diversa. »
« Si, bhe, sai com’è fratello: la rabbia e il dolore sono un mix pericoloso, ma se gestiti bene possono aiutare a crescere. » Fanie gettò un’occhiata inquisitrice al viso del fratello e sospirò. Dopo tutto le era mancato e se ne rendeva conto, perché dentro di lei qualcosa le stava gridando di abbandonare la maschera dell’orgogliosità e gettargli le braccia al collo ma qualcos’altro le ordinava di restare fredda e distaccata e scoprire il motivo della sua discesa sulla Terra di Mezzo. « In ogni modo, Turion, perché sei qui? Cosa c’è di tanto importante da far si che i Valar mandino qualcuno? »
« Per ora mi hanno solo chiesto di trovare una certa Isil. Dovrebbe vivere a Bosco Atro e, così, durante il tragitto ti ho intercettato e sono venuto da te. » Ora nel suo tono di voce c’era una briciola di divertimento nascosta dal costante tono d’orgoglio. « Credo che viaggeremo assieme, come ai vecchi tempi. » Le strizzò l’occhiolino e saltò in alto, affiancando in volo il possente drago che gli rivolse un’occhiata di sottecchi.
« Oh, ma che meraviglia. » Sborbottò Fanie, ripensando a tutte le gite che da bambina aveva fatto con i suoi due fratelli che, costantemente, la lasciavano indietro.
 
 
I’m back, bitcheeeeesssss.
Sono tornata, stronzeee. E sono anche più fusa di prima! Allora, come state? Che ne pensate di questo breve prologo sulla nostra Fanien e l’entrata in scena di suo fratello, Turion?
Oppp, vi spiego perché la scelta di questo nome (che in italiano sarebbe Daminano):
Turion: Dal nome greco Damianons che deriva dal greco daman, "domare, soggiogare, sottomettere"; non esiste la parola, ma si potrebbe tradurre con "controllare, dominare", da cui si avrebbe il Quenya Turion.
 
Io lo vedo come una persona autoritaria e molto riservata, questo carattere verrà fuori man mano nella vicenda, e che si apre solo con la sorella, per quel poco che decide di fare.
Ora corro che inizia Harry Potter e la pietra filosofale (ogni volta non posso fare a meno di Pensare a Piton che insegna a ballare ai Serpeverde. Buahahahah ).
 
Baci
 
Isil.
 
P.s: si, quello nella foto è Turion.

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Capitolo 2
*** Il tempo passa. ***


OCCHI A ME: in questo viene usata una parola elfica “Naneth” che sta a significare “mamma” e a’maelamin che sta a significare "amore mio".
 

 
 Storia d’inverno.
 
 
Now don't you understand, I'm never changing who I am.

Imagine Dragons

 
 
 
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3 anni dopo la distruzione dell’anello, quarta era, inverno.
 




« Un arco, Legolas? Un arco? » Sbraitai, mentre stringevo in mano l’arma che fino a poco prima aveva sfiorato le dita di mio figlio, di soli tre anni. Il mio compagno mi lanciò un occhiata di scuse e sospirò, per poi poggiare un braccio sopra l’enorme camino della sala da pranzo. Il fuco scoppiettava, divorando la legna, e da esso si espandeva un caldo tepore che riempiva la stanza. Le ombre delle fiamme danzavano sul viso millenario dell’elfo quando mi sedetti ad una delle quattro sedie, che presto sarebbero divenute cinque, che adornavano il lungo tavolo di mogano al centro della stanza. Le lunghe maniche del mio vestito rosso si alzarono leggermente quando sfiorarono il tavolo ed io rabbrividii a contatto con il legno freddo; poggiai la fronte sui palmi, cogliendo respiri brevi e leggeri. Sarei impazzita, lo sapevo. Ultimamente Legolas e suo padre avevano portato spesso a spasso Haldir e io avevo creduto lo facessero per aiutarmi, lasciarmi qualche ora di riposo visto il mio stato di gravidanza, quando invece non era così: lo portavano a passeggiare per Bosco Atro finché non arrivavano dove le reclute si addestravano e gli insegnavano a tirare con l’arco, o ci provavano. Aveva solo 3 anni e già sapeva impugnare un’arma: quella cosa mi terrorizzava. A tre anni un bambino, non importa se sia un principe o un comune elfo, dovrebbe giocare e imparare a parlare non a tirar frecce.
Ero infuriata, stressata e delusa dal comportamento di Legolas, per non parlare di quello del padre. Come avevano anche solo potuto pensare di mettere in mano al mio bambino un arco?
« Tesoro… » La voce dell’elfo rimbombò sulle pareti bianche abbellite, sul lato est, da una grande vetrata oscurata da delle tende verdi.
« Sta zitto Legolas, sta zitto. » Sibilai, sentendo le braccia tremarmi quasi. Chiusi gli occhi, accarezzandomi le tempie, quando piccoli passi leggeri attirarono la mia attenzione. Allora voltai il capo verso destra, dove l’enorme porta che conduceva al salone era aperto e sorrisi al bambino biondo che correva verso di me. Allargai le braccia, lo feci sedere sulle mie gambe e gli baciai la fronte, accarezzandogli i corti capelli biondi con le mani. Haldir sorrise, poggiando le mani sul mio pancione e i suoi occhi azzurri corsero in cerca di quelli del padre. Lanciai uno sguardo veloce a Legolas e poi tornai al nostro bambino, stringendo leggermente la presa su di lui. Gli occhi azzurri di suo padre mi cercarono, ma li ignorai intenzionalmente.
« Naneth, perché sei arrabbiata con Ada? E’ colpa mia? » La sua vocina era così fievole in confronto alla mia e di Legolas che faceva quasi impressione sentirla rimbombare fra le pareti. Puntai i miei occhi scuri nei suoi e sorrisi, togliendogli dal viso un ricciolo.
« No, a’maelamin, certo che no. Ada è solo uno sprovveduto, cocciuto; tu non c’entri nulla.  » Lo rassicurai, baciandogli la punta del naso. Lui sorrise, poggiandosi alla mia pancia per poi chiudere gli occhi. Alzai allora lo sguardo e incontrai gli occhi grigi di Legolas, che ancora stava appoggiato col braccio al camino.
« Naneth, perché la tua pancia è così grande? » Domandò sbadigliando. Sorrisi e gettai leggermente la testa indietro, alzando gli occhi al soffitto.
« Perché… perché alla mamma piace mangiare. » Sussurrai, senza trovare nulla di meglio da usare. La risata trattenuta di Legolas si spanse per l’aria, lacerando il silenzio precario che si era creato. Scossi il capo lanciando un’occhiata alla parete est, dove la luce del sole era svanita e il buio della notte era sorto.  «    Ma, sai cosa piace di più alla mamma, Haldir? » Chiesi, tenendolo in braccio mentre mi alzavo. Lui alzò il viso e sbatté le palpebre, sbadigliando.
« Dormire. » Rispose, sbadigliando nuovamente e poggiando il visetto sul mio petto.
« Esatto, e credo che sia ora anche per te di andare a riposare. » M’incamminai in corridoio, lasciando Legolas da solo nella sala da pranzo. C’era ancora qualche domestico e qualche ancella in giro, intento a pulire o servire i capricci notturni di Re Thranduil, che s’inchinava al mio passaggio. Dopo tre anni dal mio arrivo a Bosco Atro, non mi ero ancora abituata a tutto questo. Era così strano vedere la gente inchinarsi d’innanzi a me e chiamarmi “vostra grazia”. Ed era ancora più strano dover indossare vestiti e sedere su un trono di fianco a Thranduil; dare ordini, invece, non mi riusciva male. Anzi, oserei dire che ci avevo persino preso gusto.
Svoltai l’angolo ed entrai nella camera del piccolo principe, la luce della luna entrava dalle finestre e s’infrangeva al suolo come la schiuma delle onde del mare. Il mare che non vedevo più da quattro anni e di cui, sebbene non mi fosse mai piaciuto molto, sentivo la mancanza. Lo rivedevo negli occhi di mio figlio ogni volta che mi guardava, in quelli del mio compagno ogni volta che mi sorrideva. Sentivo ancora i gabbiani strepitare e il profumo salato della salsedine inondarmi le narici, la sabbia calda incollarsi alle dita. Scuotendo il capo mi avvicinai al letto di Haldir e scostai le coperte, per poi adagiarlo sopra il materasso. Lui già dormiva quando lo coprii. Sbadigliai io, questa volta, e mi voltai tornando in corridoio e socchiudendo la porta. Mi passai una mano sul volto e l’altra l’appoggiai dietro la schiena, riprendendo a camminare. Non mi ero accorta di quanto fossi stanca finché non avevo visto il viso rilassato di Haldir e il suo respiro regolare. Strofinai il palmo della mano libera sugli occhi e sbadigliai ancora.
« Dovresti riposare. » Mi riprese una voce e, colta di sorpresa, mi voltai di scatto. Thranduil era infondo al corridoio, la luce della luna gli colpiva i capelli rendendoli fili argentei. Indossava una camicia bianca e larga, aperta sul petto tonico, le maniche arrotolate fino ai gomiti, e dei pantaloni grigi.
« E tu a insegnare a tuo nipote a leggere, non a tirare con l’arco.  » Risposi acidamente, passandomi una mano fra i capelli. Lo vidi alzare gli occhi al cielo e scuotere il capo, mentre sentivo la pancia contrarsi un poco. Strinsi i denti e mi convinsi che fosse un calcio del bambino, ma il dolore riprese più forte e io mi ritrovai a sfiorare il pavimento. Le mie gambe non lo toccarono per poco, perché con uno scatto il Re degli elfi mi caricò fra le braccia e lanciò un grido: poco tempo dopo stava camminando velocemente verso la mia stanza, gridando un “aiuto” che si espandeva per il palazzo come l’aria nel vento. Stufa di sentire quel grido, allungai una mano e gli tirai una ciocca di capelli; lui ringhiò contrariato.
« Se urli ancora ti strozzo. Haldir dorme e io sto solo per partorire, non è nulla di grave, ok?! Ci siamo già passati tre anni fa e… », questa volta fui io a gridare, sia per rabbia sia per una fitta di dolore acuta. Gettai un braccio attorno al collo del re e mi sorressi a lui, mentre apriva la porta della mia camera con un calcio e vi entrava, depositandomi sulle lenzuola. Poco tempo dopo un gran vociare arrivò da dietro la porta e le levatrici fecero il loro ingresso, seguite da Legolas. Voltai la testa in direzione del mio compagno e irrigidii la mascella per non gridare; lui mi strinse la mano. Era ancora infuriata nei suoi confronti ma, tuttavia, non potevo dire di non amarlo e apprezzare la sua presenza li, al mio fianco.
« Naneth? » La voce di Haldir rimbombò come un tuono nella stanza; sorrisi a Legolas mormorandogli di occuparsi del bambino e lui annuì, voltandosi e correndo verso la porta. Prese in braccio il bambino, che si era messo a piangere non capendo cosa succedesse, e scomparve nel corridoio. Gettai la testa fra i cuscini e mi morsi le guance, strinsi forte le lenzuola fra le mani. Questa volta non ci sarebbe stata Fanie ad aiutarmi, come tre anni fa, non ci sarebbe stata lei ad aiutare le levatrici e battibeccare con loro per poi spingerle via e incitarmi. Non sarebbe stata lei la prima a prendere in braccio il mio secondo figlio e a sorridergli, per poi porgerlo alla balia.
Sarei stata sola.
« Oh, andiamo, c’è la puoi fare. » M’incitò una voce, della quale mi ero del tutto dimenticata. Della dita s’intrecciarono alle mie e una mano mi accarezzò la fronte. Socchiusi le labbra quando la pelle fresca del sovrano mi sfiorò e gli rivolsi uno sguardo pieno di gratitudine, prima di stringergli la mano e gridare.
Cinque ore dopo – dietro le quali erano seguiti urli, grida e borbottii rivolti alle levatrici da parte del Re- tenevo finalmente fra le braccia mia figlia. Fuori dal palazzo infuriava un forte temporale ma la piccola non sembrava farci caso. Agitava le braccia in aria e già sorrideva, scalciando appassionatamente. Aveva gli occhi blu, di molte tonalità più scure rispetto a quelle del fratello: talmente tanto da sembrare quasi neri al buio. Thranduil, che aveva la braccia muscolose segnate da lividi che io gli avevo inferto, le sorrideva e accarezzava i piedini. Non credevo che avrei mai visto lui, re di Bosco Atro, il signore dal cuore di ghiaccio, sorridere così apertamente ad una bambina appena nata. Le accarezzai la testa, pettinando i radi capelli castani e mi abbandonai al tepore e il profumo delle coperte pulite. Voltai la testa verso il re e sorrisi, ricevendo in cambio la stessa cosa.
« Legolas sarà con Haldir, tenterà di calmarlo. Forse…forse dovrei andare a fargli vedere che sto bene e rassicurarlo. » Mormorai, flettendo il braccio libero per alzarmi. Subito il re mi fermò e mi ripoggiò sui cuscini, accarezzandomi il braccio sinistro, quello libero.
« Andrò io da mio figlio e resterò con mio nipote. Scommetto che sarà impaziente di vedere la sua nuova erede. » Si alzò e i capelli gli svolazzarono sulle spalle, come una corona argentea. « Ora riposa, sei stanca e sfinita, e la piccola ha bisogno di riposare. » Lanciai uno sguardo ad Elanor, che nel frattempo si era rannicchiata sul mio petto e annuii, chiudendo gli occhi.
Quando li riaprii era mattina e delle nubi invernali solcavano il cielo plumbeo. Un dolce canto elfico riecheggiava fra le pareti e tentava di cullarmi nuovamente verso il sonno, ma riuscii comunque a voltare il capo e osservare Legolas con la bambina in braccio. Dalla coperta rosa, che la scaldava, sorgevano due braccine chiare che andavano a tirare i capelli dell’elfo e, sotto la dolce canzone, si udiva una risata divertita.
 
 

6 anni dopo la distruzione dell’anello, quarta era, autunno.
 


Cariai in braccio Rìnon, uno dei miei gemelli di un anno, mentre Legolas caricò Leron fra le braccia. Baciai il capo al mio bambino, cominciando a camminare per il corridoio e lanciai un’occhiata a Legolas.
« E’ colpa tua. Se avessi impiegato meno tempo a prepararti ora saremmo in orario. » Sborbottò lui, quando intuì cosa pensavo. Leron, fra le sue braccia, poggiò il capo nell’incavo della sua spalla, i corti capelli scuri si scompigliarono contro la casacca verde del padre, e sbadigliò chiudendo gli occhi chiari. Rìnon, invece, prese a osservare ogni cosa a cui passavamo accanto: dal panorama autunnale colorato di rosso, giallo e arancio, alle tende verdi, i muri bianchi abbelliti d’arazzi e quadri e molto altro.
« Almeno io non ho messo in mano di mio figlio di 3 anni un arco. » Ribattei acida, svoltando un corridoio. Lo sentii sbuffare e affrettare il passo per starmi dietro, mentre le braccia del mio bambino si stringevano al mio collo.
« Amore, è successo sei anni fa. » Brontolò in risposta. Arricciai il naso e scossi il capo, entrando nella sala grande dove Thranduil ci attendeva. Era il grande giorno per le reclute dell’esercito reale, e tutta la famiglia reale doveva essere radunata per assistere alla cerimonia. Haldir e Elanor erano stati preparati dai sarti di corte, su richiesta del re, mentre i gemelli avevo insistito per tenerli con me. Non che non apprezzassi i sarti e i loro lavori, ma avevo già preparato due completi per i gemelli, inviatici da Arwen e Aragorn in ricorrenza del loro primo compleanno (qualche giorno prima), e non avrei desiderato niente di meglio per loro. Indossavano due semplici casacce blu notte, dalle rifiniture doro e dei pantaloni bianchi: sembravano due piccoli, adorabili, marinai. I miei adorabili marinai.
 Arrivata davanti al trono mi chinai, accarezzai la guancia ad Haldir e baciai El sulla fronte; quando mi rialzai li studiai: El indossava un vestito rosso argilla, come le foglie autunnali e i capelli scuri erano liberi sulle sue spalle, con qualche treccina qua e la. Haldir, a contrario, indossava una tunica d’argento e dei pantaloni verdi scuro; i capelli biondi stavano crescendo e ormai gli arrivavano alle spalle.
« Siete in ritardo, ormai le guardie stavano arrivando. » Brontolò il Re, lanciandoci occhiate fulminanti. Poggiai il pugno destro sul medesimo fianco e socchiusi le palpebre.
« E tu devi essere… », lanciai uno sguardo ai bambini e mi morsi la lingua, tornando a guardare l’immenso portone verde che conduceva al trono. Stitico, visto come parli, battibeccai  con me stessa, tenendo le labbra serrate. « Su bambini, venite qui davanti. » Poggiai una mano sulla spalla di Haldir e li condussi davanti a noi.
« Naneth », il mio piccolo principe biondo alzò gli occhi chiari verso di me e, allungando una mano, strinse le sue dita attorno alle mie. « Quanto durerà? »
« Finirà presto, se tuo nonno deciderà di sbrigarsi. » Lo rassicurai e lui lanciò un’occhiata a Thranduil, che mi fulminò con lo sguardo. Sorrisi divertita e accarezzai il capo ad Haldir che abbandonò la schiena contro il mio corpo. A nessuno di noi piaceva risiedere a quelle cerimonie, a me specialmente: mi mancavano le avventure, i voli con Turon.
Turon.
Il mio dragone era andato via ormai da qualche mese, in cerca di una fonte di cibo di cui non mi aveva voluto rivelare nulla e così a me non restava altro da fare se non aspettarlo; poi, magari, forse  al suo ritorno avrei potuto portare i miei figli a fare un giro sulla sua groppa. A pensarci bene avrei atteso che crescessero per faro.
 
 
 
Ciao piepeeee
Allurs, com’è? Che ne pensate di questo prologo della vita di El e Legolas? E i loro quattro figli? Haldir, Elanor e i gemelli Rìnon (Lorenzo) e Leron (Francesco) ? Spero che vi siano piaciuti e non so più che dire, perciò ora vado a fangirlare per Supernatural e poi a nanna. Notte :3

Baci,

Isil.

 

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Capitolo 3
*** Ritorno alla Terra di Mezzo. ***


Storia d’inverno.

 
“A volte succedono cose che non si è preparati ad affrontare.”
 
— Hunger Games

 
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Catene.

L’unico rumore presente era quello, da giorni e giorni non si sentiva altro. Erano ormai passati anni dalla sua distruzione a Mordor, e mesi dalla sua reincarnazione; c’era voluto più del previsto, perché dentro la sua memoria ancora brillavano gli occhi scuri della guerriera. Sentiva ancora il rimorso nascergli dentro quando ricordava la pressione che aveva fatto con la lama sul  braccio di lei. Ricordava il suo viso, sporco di sangue e lividi, i capelli scompigliati, l’armatura distrutta a terra. Portò le mani al volto e gridò; gridò reprimendo l’istinto di alzarsi e tirare pugni al muro: le sue nocche non avrebbero resistito ad altra violenza. Perciò, si limitò a gettare la testa all’indietro, contro il muro.

Sbarre che scorrono.

Sauron abbassò lo sguardo sull’entrata della cella d’orata di Valinor e osservò una guardia entrare: l’armatura doro splendeva persino laggiù, nei meandri più nascosti della terra. Si, perché lui si trovava sotto terra adesso, celato al mondo di superfice, ai suoi abitanti eterni.
« Alzati », gli ordinò l’elfo, « i Valar richiedono la tua presenza. » E così dicendo, lo issò lui stesso in piedi e gli legò un collare d’oro al collo, da cui partivano delle catene che si stringevano attorno ai polsi.
« Cordiali come sempre voi elfi. » Sborbottò l’Oscuro Signore, facendosi trascinare fuori dalla cella. Per ben venticinque anni vi era stato rinchiuso, metà dei quali aveva impiegato per rinascere e tornare com’era stato nella Terra di Mezzo, e ora si ritrovava fuori per la prima volta. Da quando si era risvegliato, già rinchiuso in quei meandri di Valinor di cui nemmeno lui conosceva l’esistenza, aveva rifiutato ogni incontro con Manwë.
 
 
« Io non mi arrabbio spesso, mai, ma tu », Manwë gli puntò un dito contro, infuriato, « riesci sempre a farmi uscire di senno. Ci sei riuscito anni orsono quando ti alleasti con mio fratello, Melkor, e ora che ti sto chiedendo spiegazioni delle tue azioni. »
« Mio caro, non vale la pena arrabbiarsi per le cose che ormai sono state fatte. » Varda, la signora delle Valier, sua moglie, gli poggiò una mano sul braccio e gli sorrise tranquillizzandolo. « Pensiamo al futuro, a come i danni da lui fatti possano essere rimediati. » La sua voce era così melodiosa che pareva essere il vento d’estate e il canto degli uccelli. Le onde del mare che si scontrano tranquille sulla battigia.
« Miei signori », intervenne ad un tratto una voce, meno melodiosa ma pur sempre splendida, che attirò l’attenzione di tutti. Nienna aveva parlato, per la prima volta da quando il concilio era iniziato. Sauron le rivolse uno sguardo in tralice, quando i loro occhi s’incontrarono; sapeva quanto essa aveva sofferto per le ferite da lui recate alla Terra di Mezzo, e quelle di Melokor. Sapeva quanto lei aveva pianto per il sangue versato sulla terra e i morti che invocavano la sua pietà quando passava per Mandos. La Valier fece un passo avanti, allontanandosi da tutti gli altri che, muti, la osservavano curiosi. « La terra ha sofferto a causa del male da lui recatole, io ho pianto con essa. Moltitudini di morti sono arrivati nelle terre di Mandos e, quando sono passata d’innanzi a loro, hanno invocato la mia pietà. Come possiamo restare impassibili a tanto dolore? A tante vittime mietute per… per un capriccio? » I suoi occhi erano pieni di rabbia, dolore e supplica, mentre si apprestava a guardare Varda e Manwë.
« Cosa suggerisci allora? » Domandò quest’ultimo, allungandosi leggermente in avanti con la schiena. La sua compagnia lanciò uno sguardo a Sauron e, poi, tornò alla Valier.
« Turion è partito in cerca di quella ragazza, per avvertirla del male che incombe nuovamente sulla Terra. Mandiamo anche lui su essa, a combattere come un mortale questa volta. I suoi poteri sono svaniti, quando la sorella l’ha ucciso. » La donna unì le braccia al petto e fulminò Sauron con un’altra occhiata, mentre lui tratteneva il respiro. « Questa è una giusta punizione. »
« Lo penso anche io, mie signori », intervenne la voce possente di Aulë, seguito da un coro di approvazioni. L’Oscuro Signore chiuse gli occhi, ingoiò un fiotto di saliva e respirò a fondo. Tutto calò nel silenzio per svariati minuti, mentre il signore dei Valar s’apprestava ad alzarsi e dirigersi con lentezza verso il prigioniero. I loro occhi s’incontrarono per qualche istante, quando Sauron li aprì.
« Così sia fatto. » Affermò freddamente Manwë, poggiando le proprie mani sulle guance del prigioniero. Il calore che la sua pelle sprigionava portò Sauron ad urlare e cadere in ginocchio, mentre attorno a lui tutto diveniva sfocato e confuso. « Sauron, su approvazione del concilio dei Valar e della Valier ti costringo a ritornare nella terra che tu hai ucciso, da mortale. Che possa trovare la pace e il rispetto e, che un giorno, possa fare ritorno nelle nostre terre con un nuovo spirito: fino ad allora, sei bandito da Valinor. »
 « Che cosa? No, miei signori, vi prego: non privatemi dei miei poteri, laggiù saranno l’unica cosa che potrà proteggermi! » Ma tutto divenne buio e la sua voce si disperse nell’aria.
 
 



Visto che sei arrivato fino qui:

Spreca 2 minuti del tuo tempo a recensire,
 Sauron l'apprezzerà.


Holaaaaa.
Sauron is back, bitcheeeessssssssssssss.
Che ne dite di questi Valar “severi”? Se la merita Sauron una fine così?

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Capitolo 4
*** L'Ombra incombe. ***


Storia d’inverno
 


Ciò che non uccide ti fa più stronzo, più acido e più figlio di puttana.
 
— romanticismoamodomio

 


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Era una bella notte quella: il vento tirava lieve fra le fronde degli alberi e la luna splendeva alta nel cielo blu, come il velluto. Le stelle brillavano, riflettendosi nelle acque di uno dei tanti fiumi della Terra di Mezzo; Sauron era stato sconfitto ormai da quasi vent’anni e tutto era tornato al suo equilibrio naturale. Le terre si erano ripopolate di verde e animali, gli elfi se n’erano andati – tranne quelli sotto il dominio di Re Thranduil – nelle terre immortali e gli uomini regnavano con tranquillità, dividendo il regno con i nani.
Fra le ceneri di Mordor, intanto, si stava però rigenerando un male di cui nessuno aveva memoria. Un male solo, che sarebbe stato in grado di sbaragliare un intero esercito col potere che stava accumulando. Gring, il cui spirito aveva vagato dal giorno della sua morte fra le lande di quel luogo indisturbatamente, stava rinascendo più forte che mai. La sua reincarnazione non era diversa dal corpo che aveva prima: alto, capelli grigi e occhi scuri, e tanto meno erano diverse le idee che gli frullavano nel cervello. Erano poche e precise: riaccumulare potere, trovarsi un esercito e uccidere una volta per tutte quella ragazza mezzo-demone. Lei e il suo dragone blu sarebbero periti sotto i suoi nuovo poteri, e la Terra di Mezzo sarebbe stata sua una volta per tutte. Ora che, poi, Gandalf non c’era più, perché era partito per le Terre Immortali, nessuno avrebbe potuto ostacolarlo.
Come un ombra si erse dalle ceneri, tetro e indistruttibile; i capelli grigi frustarono il vento, depositandosi anche sul suo volto e gli occhi scuri scrutarono il cielo. Nemmeno una nube lo solcava, ma qualcosa di tetro si muoveva la, dove nessun’uomo era mai potuto arrivare. Una figura lunga, con grandi ali traslucide – ornate da tagli e seghettature negli angoli – e un lungo collo che terminava con una grossa testa ricca d’aculei. L’ombra di Gring si fuse con quella dell’essere, quando questo poggiò le zampe artigliate a terra. L’uomo socchiuse le palpebre e sorrise, allungando una mano sotto il muso dello strano drago nero; l’animale annusò il suo palmo per qualche secondo, facendo infrangere il suo fiato caldo contro la pelle di Gring e poi alzò lo sguardo incontrando il suo. Occhi neri in occhi viola, squame fredde contro pelle calda. Ora che gli stava vicino, Gring s’accorse che quegli aculei che aveva visto dall’alto non erano altro che due grandi e corte corna ai lati della testa nera e massiccia dell’animale. Lo strano drago aprì la bocca quando l’ombra gli accarezzò il mento, mettendo in risalto le molteplici file di piccoli denti aguzzi sotto i raggi della luna.
« Non sei solo, non è così? C’è ne sono altri come te. » Affermò Gring, la sua voce roca e profonda si disperse nel vento estivo. « Dove sono? » Chiese, voltando il capo in molteplici direzioni, studiando l’ambiente che lo circondava; vent’anni prima li risiedeva Sauron, l’Oscuro Signore, mentre ora non restava altro che un’immensa distesa di terra desolata e secca, dove nulla cresceva. In lontananza restava la conca del Monte Fato, con ancora del magma incandescente che bolliva al suo interno. Nessuno aveva più messo piede in quei domini da quando l’anello era stato distrutto, ma ora sarebbe tutto cambiato. Ora che lui era tornato nella sua forma vitale, con nuovi poteri e più forte di prima avrebbe preso dominio di quei territori, avrebbe ricreato un esercito, ma non un esercito qualsiasi: un esercito di draghi, e avrebbe mosso guerra contro Bosco Atro dove sapeva risiedere Eleonora con la sua famiglia. Sarebbe voltato sopra l’immenso bosco di Re Thranduil e gli avrebbe dato fuoco, costringendo tutti gli elfi presenti nei suoi domini a fuggire e, successivamente, li avrebbe sterminati tutti – specialmente la famiglia reale -. Avrebbe distrutto la pace creatasi nella Terra di Mezzo, avrebbe distrutto la ragazza – ora donna – che l’aveva ucciso. Tutti l’avrebbero temuto, tutti l’avrebbero servito. Tutti sarebbero caduti sotto il dominio dell’Ombra.
« Andiamo a prendere i tuoi amichetti, che ne dici? » Sussurrò con calma agghiacciante e un sorriso malefico sul viso al dragone.
 
 

Gring is back, bitcheeeees.

Hello everyone! Whatsupp (?) ? (Il mio inglese fa schifo, chiedo venia. )
Allurs, questo è l’ultimo prologo che ne pensate? Da adesso in poi comincia la storia, quella vera. Conosceremo meglio Turion, Haldir, Elanor e i gemelli Rìnon e Leron. Approfondiremo i legami che si sono creati nella trilogia e si creeranno in questa storia fra i personaggi e rivedremo il nostro amato Sauronno all’opera, dalla parte dei buoni stavolta (°W°). Anche perché il suo posto l’ha preso Gring aka l’Ombra.
Ahhh, i cattivi e i loro soprannomi, bah.
Anyway: DRAGHIIII! Nuovi, potenti, grossi, feroci, giganti alati che non aspettano altro che scannarsi fra loro sono arrivati nella Middle Earth, e nessuna se n’è reso conto. Ma che succederà? Lo sapremo nella prossima puntata.
 
Ci sentiamo presto,
 
Isil.
 
P.s: Don’t worry. Isil non torna (l’Isil cattiva, non io: io torno per forza). E si, Gring pensa che Titano sia ancora in vita, perciò non conosce l’esistenza di Turon.

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Capitolo 5
*** Verità celate. ***


Storia d’inverno
 


La felicità l’ha colpita come un treno su un binario, arriva verso di lei che è ancora bloccato, ancora non si gira; si nascondeva sotto gli angoli e dietro il letto. Lo uccise con baci e poi fuggì, con ogni bolla nel suo drink e lavò tutto nel lavandino della cucina.
I giorni duri sono finiti.
I giorni duri sono passati.

Florence + The Machine - Dog Days Are Over

 


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« Haldir, Rìnon! » La mia voce rimbombò più volte fra i tronchi degli alberi, disperdendosi nella foresta. La luce del sole d’autunno si abbatté con prepotenza sul mio volto e l’aria mi accarezzò le braccia facendomi rabbrividire. Il mio vestito rosso, come le foglie che ancora stavano appese agli alberi, ondeggiò nel vento, le mie mani si strinsero attorno alla lunga gonna e l’alzarono agevolandomi nello scendere le scale che portavano al parco sottostante il palazzo, dove i miei figli erano intenti ad allenarsi con le spade. Attorno a me si estendeva l’immensa foresta di Bosco Atro, e questo significava alti alberi dalle fronde folte, ora dipinte di rosso, giallo e arancio che facevano passare i raggi di sole per miracolo, l’aria  costantemente fredda e d’inverno neppure un fiocco di neve che riuscisse a oltrepassare i fitti rami. Però, nonostante tutto, amavo quel posto che da ben venticinque anni era divenuta la mia casa. Li avevo una famiglia e, sebbene avessimo i nostri alti e bassi, ci stavamo bene.
« Madre. » Un giovane mezz’elfo dai lunghi capelli d’ossidiana si voltò a guardarmi. Rìnon sorrise nel vedermi arrivare e, distraendosi dall’allenamento col fratello maggiore, sostenne il mio sguardo con quei suoi occhi azzurri e trasparenti come il ghiaccio. Al contrario suo, Haldir, che ancora era concentrato sull’allenamento, lo colpì sul fondoschiena con il piatto della spada, facendolo balzare in avanti colto alla sprovvista. « Ehi, non vale ero distratto!  » Protestò Rìnon verso il fratello, che si era appoggiato sull’elsa della propria spada e rideva divertito. Mi piaceva vederli così sorridenti, sebbene a volte ero costretta a levar loro quella smorfia divertita dal viso a causa di qualche scherzo non troppo gradito a loro nonno, Re Thranduil.
« Ti distrai troppo spesso, fratellino. » Lo riprese il maggiore dei due, passandosi una mano fra i lunghi capelli biondi. Ogni volta che lo faceva mi ricordava Legolas, sebbene la maggior parte del tempo era più simile a Thranduil e ammetto che questa cosa mi preoccupava leggermente. Il Re era sempre così chiuso e schivo, tetro oserei dire, persino con noi che eravamo i suoi famigliari; l’unica con cui un tempo si era aperto realmente era stata Fanie, ma se n’era andata da tanti anni e non avevamo più avuto sue notizie. Ogni tanto mi domandavo che fine avesse fatto, che piega avesse preso il suo viaggio oppure se avesse deciso di partire per le terre immortali. Mi trovavo anche a chiedermi se fosse ancora viva e ogni volta rimanevo in bilico, fra la paura che potesse essere realmente successa l’ultima cosa e la consapevolezza che non l’avrei potuta fermare o fargli cambiare idea nel caso avesse scelto le terre immortali. Ora, mi accingevo a poggiare i piedi sul prato colorato di foglie del palazzo e lanciare occhiate veloci agli alberi in cerca di Elanor e Leron, che non dovevano essere molto lontani.
« Taci. Arriverà un giorno in cui ti batterò, lo giuro. » Sibilò il moro al biondo, senza però dimenticarsi di sorridergli mentre lo faceva.
« Si e quel giorno la smetterete di allenarvi, finalmente. » Alzai gli occhi al cielo e li raggiunsi, congiungendo le braccia al petto; due paia d’occhi si posarono su di me, per poi abbassarsi dispiaciuti. Il vento scompigliò ad entrambi i ragazzi i capelli di seta e fece alzare le foglie da terra. « Quando imparerete ad allenarvi con vostro padre e basta, mh? Potreste ferirvi. » Li ripresi. Mi dispiaceva dirgli queste cose, ma era la verità: una spada in mano faceva sentire forti ma non rendeva invulnerabili e io lo sapevo bene. C’ero cascata così tante volte, in quel tranello, che avevo rischiato di perdere più di un arto e ne portavo ancora le cicatrici.
« Ma madre », Rìnon alzò il viso e mi guardo tristemente, mentre un raggio di sole trapelava dalle fronde autunnali. La luce illuminò il suo viso mettendone in risalto gli zigomi eleganti e non troppo marcati, e facendo risplendere i suoi occhi di cristallo. « Se non mi alleno come potrò andare in guerra quando… »
« Guerra? Non ci sarà nessuna guerra, Rìnon. » Lo bloccai subito io freddamente, alzando una mano nella sua direzione. « Il nemico è stato sconfitto anni fa, prima della nascita di Haldir. I grandi elfi se non sono andati, gli uomini hanno preso il potere e noi ci siamo ritirati nella foresta. I nani sono tornati nelle miniere e i branchi di muta-forma nel Nord. La guerra è finita anni fa e non si presenterà mai più. » Ed ero convinta delle mie parole, di tutto quello che dicevo. Nessuna guerra si sarebbe più combattuta, nessuna goccia di sangue sarebbe stata versata sul campo di battaglia. Mordor era stata rasa al suolo e tutto era tornato alla normalità: niente sarebbe dovuto cambiare.
« Ma madre, tu non capisci. Se una guerra dovesse incombere io non sarei pronto. » Ribatté, stringendo la mano attorno all’elsa della spada. Lanciai un’occhiata alle sue dita strette con tanta forza sul ferro dell’arma da essere divenute bianche e poi tornai ai suoi occhi, sostenendone lo sguardo con freddezza. Sapevo come ci si sentiva a stringere una spada: ti sembrava di essere imbattibile, indistruttibile ma non era così. Una spada può aiutarti ma non ti può salvare da un attacco per sempre, e questo l’avevo imparato a mie spesa anni orsono quando l’Oscuro Signore aveva impugnato la mia stessa lama contro di me. Ne portavo ancora i segni, coperti sempre dalle lunghe maniche dei miei vestiti. Avevo abbandonato da tempo la guerriera che ero stata, Isil era sepolta sotto anni di reggenza e maternità; non sarebbe dovuta riemergere.
« Basta, Rìnon. » Haldir poggiò un braccio sopra la spalla del fratello e lo fece voltare nella sua direzione, incatenandolo ai suoi occhi azzurri cerchiati di nero. La mascella del più piccolo si tese, così come i suoi muscoli, e la mano che reggeva la spada iniziò a tremare leggermente per lo sforzo. Sapevo che mio figlio, al contrario del fratello gemello Leron, possedeva una grande passione per le armi e questo mi spaventava a morte: avrebbe potuto ferirsi o peggio uccidersi solo a causa della troppa foga che metteva negli allenamenti. E, adesso, con questa storia di un guerra aveva confermato le mie paura: era troppo fissato con le armi, avrei dovuto allontanarlo dalla lotta sebbene questo significava essere odiata.
« No, basta niente Haldir. Smettila di darmi ordini! » Sbottò il giovane principe, spintonando il fratello con tanta forza da farlo quasi cadere a terra. « Solo perché sei il più grande pensi di doverci comandare, così come nostra madre », e mi rifilò un’occhiata veloce, « ma non è così. Tu non sei nessuno per poter dare ordini a me e tantomeno voi, madre. » Tornò ad osservarmi, con quegli occhi freddi caratteristici del re. Erano vuoti in quel momento, lande desolate del Polo Nord della mia adorata Terra. « Voi non avete mai visto la guerra ed i suoi orrori. Voi non sapete nulla dei campi di battaglia e del dolore delle ferite inferte dai nemici. » L’eco della sua voce si disperdeva fra i tronchi alti e bruni, riecheggiando più volte con meno forza fino a svanire. « Voi non sapete del disonore che ha un guerriero che non sa combattere, voi… » La mia mano si scontrò con la sua guancia tanto velocemente che non ebbe il tempo di finire la frase. Il suo viso si girò prepotentemente, mentre riabbassavo la mano e tentavo di regolarizzare il respiro; la spada stretta fra le dita del giovane cadde a terra, finendo sul tappeto di foglie rosse e brune. Non avevo mai alzato un dito sui miei figli così violentemente, non li avevo mai picchiati: questa era stata la prima volta e già sentivo il rimorso nascermi dentro. Non avrei dovuto farlo e lo sapevo bene, ma non avrei lasciato che un ragazzino di appena vent’anni mi venisse a dire cos’era la guerra accusandomi di non averla mai vissuta, quando io ero stata la guerra. Sebbene avessi infangato tutto il mio passato e avessi fatto credere ai miei figli che avevo incontrato Legolas durante i soccorsi che avevo prestato ai feriti di Gondor – avendo dovuto eliminare la parte dei Draghi, delle gemelle d’ombra, Sauron e il guardiano dentro me dopo la morte di Titano – faceva ancora male, era una ferita aperta persino dopo tutto questo tempo.
Cogliendo un bel respiro, mi passai una mano fra i capelli scostandoli all’indietro e lanciai uno sguardo a Haldir: i suoi occhi erano spalancati, stupiti dalla mia reazione innaturale e le labbra erano socchiuse; tuttavia sapeva come doveva comportarsi in questi casi, sapeva di dover mantenere il controllo. Lui era dedito alle regole impostegli dal re sin da quando era bambino e alle mie parole, come quelle del padre e del nonno, al contrario di Rìnon che era un cocciuto, come me.
« Madre. » La voce roca del giovane principe biondo mi portò ad osservarlo con più attenzione, mentre con cautela si avvicinava a noi. Il passo leggero lo faceva sembrare un angelo, i suoi piedi parevano non toccare terra; lo stesso raggio di luce che aveva colpito il viso di Rìnon ora risplendeva sui suoi capelli doro. « Rìnon non intendeva realmente quello che ha detto, non voleva mancarti di rispetto. Lui… »
« Oh, sta zitto Haldir. » Prese la parola il ragazzo moro, gonfiando il petto infuriato. « E non dire stupidaggini, era esattamente quello che intendevo e lo sai », si massaggiò la mascella dolorante e ci sorpassò senza degnarci di uno sguardo in più salendo le scale con velocità e sparendo all’interno della reggia. Lo guardai scomparire e, improvvisamente, mi accorsi che sulle scale era spuntato Thrandui: il fisico tonico fasciato da una lunga veste verde e argento, i capelli d’argento liberi sulle spalle e la corona autunnale poggiata sul capo; le braccia unite dietro la schiena gli facevano apparire le sue spalle più larghe e la pelle diafana risplendeva contro i pochi raggi di sole. Sostenni il suo sguardo di ghiaccio per un po’, prima di tornare al mio palmo che aveva iniziato a bruciare eccessivamente. Allora, gettai la mano lungo un fianco e mi avviai verso le scale salendole con velocità, prima che la mano del re si poggiasse sulla mia pancia per fermarmi.
« Dobbiamo parlare », mi disse sottovoce prima.
« Si, lo penso anche io », affermai prima che mi liberasse e si dirigersi verso Haldir. L’osservai scendere le scale con calma e raccogliere la spada di Rìnon da terra, prima di togliersi la tunica e poggiarla sul ramo di un albero, restando in camicia. Sospirando tornai suoi miei passi ed entrai a palazzo, incamminandomi in uno dei tanti corridoi. I miei passi rimbombavano fra le alte pareti, era sempre stato triste passeggiare per il palazzo senza i bambini attorno che correvano felici; ma ora i miei bambini erano grandi: Haldir aveva già venticinque anni, Elanor ventitré e i gemelli venti. Non ero neanche più sicura di poterli chiamare “bambini”, sebbene fossero elfi e per quegli esseri immortali venticinque anni erano neppure un battito di ciglia.
 
 


°     °
 




« Tesoro, stai bene? » La voce di Legolas riecheggiò fra le pareti della nostra camera, attirando la mia attenzione.
« Mh? Si, si tutto bene. » Mi voltai verso di lui con sguardo indagatore per qualche secondo, prima di tornare alla fasciatura che mi stavo facendo al palmo. Fermata la benda con del nastro provai a muovere le dita, in modo da testarne la resistenza.
« Che stai facendo? » Sussurrò l’elfo, chiudendosi la porta alle spalle e togliendosi gli stivali per poterli gettare da qualche parte nella stanza. Sospirai dandogli le spalle e mi sedetti davanti allo specchio, dove avevo riposto tutti i medicinali e le creme che usavo per disinfettarmi le ferite.
« Legolas », mormorai osservando attentamente il mio riflesso allo specchio, « secondo te abbiamo fatto bene a nascondere il mio passato? Si, insomma intendo… », con un giro mi voltai verso di lui e lo trovai intento a guardarmi seduto sul materasso. I lunghi capelli biondi gli scivolavano dietro la schiena, mentre il petto era scoperto e lasciava intravedere i muscoli tesi e tonici; i pantaloni verdi che indossava gli fasciavano le lunghe gambe, facendole sembrare simili a due fili d’erba. I suoi occhi azzurri erano fissi nei miei castani, e non davano segno di volersi spostare nemmeno di un centimetro. « … secondo te avremmo dovuto raccontare tutto ai ragazzi? »
« Perché questa domanda? » Chiese curioso.
« Perché no? » Risposi prontamente, tornando ad osservarmi allo specchio. Con un gesto fluido tolsi la camicia che indossavo e la prima cosa che mi saltò agli occhi fu la profonda cicatrice sul braccio destro: un lungo taglio verticale che andava a deturparmi la pelle. La stessa cosa successe quando posai gli occhi sul petto fasciato: riuscivo ad intravedere l’inizio della cicatrice che avevo proprio sopra il cuore, e ancora quando le mie iridi si soffermarono sulla spalla sinistra, dove Legolas mi aveva perforato la carne al nostro primo incontro con una delle sue frecce. Il mio corpo era segnato e ogni marchio era una storia diversa che mi avrebbe accompagnato per sempre, a discapito di tutti i miei tentavi di eliminarli con creme e unguenti.
« El », mi riprese lui, serio. Allungai una mano verso una crema e l’aprii, pensando bene a come formulare la frase. Era dannatamente difficile spiegarlo, sebbene avessi in mente uno schema preciso.
« Ecco, io mi sto pentendo di aver infangato tutto, Legolas. Credo… » respirai profondamente adagiando la pomata sulla cicatrice, con tutta la delicatezza che possedevo, « penso anzi, che sarebbe stato meglio se i ragazzi avessero saputo tutto, subito. »
« Ti stai pentendo di una tua decisione, El? Di quella decisione? » Parve sorpreso; di certo l’evevo colto alla sprovvista. « Perché proprio ora? » La sua domanda mi arrivò dritta alle orecchie, senza distorsioni o echi vari: una freccia secca alla mia mente. Mi ammutolii per un po’ prima di rispondere, e quando lo feci la mia voce uscì tagliente come il ghiaccio e, al tempo stesso, malinconica come il mare d’inverno.
« Qualche ora fa sono scesa in giardino Haldir e Rìnon si stavano allenando con la spada e io li ho fermati, ordinandogli di lasciar perdere per oggi con gli allenamenti. Rìnon mi ha fatto un discorso sulla guerra: che se ne esplodesse una lui non sarebbe pronto, che io non so nulla di guerra ecc…  Mi sono sentita davvero ferita, Legolas. » Ammisi, pulendomi le mani su uno straccio li vicino. Alzai gli occhi sullo specchio e osservai la figura di Legolas riflessaci. Era serio e aveva la mascella tesa: lui già sapeva cos’era accaduto, probabilmente aveva parlato col padre poco prima di entrare in camera nostra. « Gli ho tirato uno schiaffo, Legolas. Ho tirato uno schiaffo a mio figlio perché mi ha detto che non saprò mai cos’è la guerra e cosa si prova a venire feriti. » Abbandonai il mio lavoro con le creme e mi alzai in piedi, facendo strusciare la sedia su cui ero seduta contro il pavimento. Presi a camminare avanti e indietro per la grande stanza, accarezzandomi il collo e il viso mentre lanciavo occhiate in tralice alla grossa finestra che conduceva al terrazzo, con la paura che qualcuno potesse sentirci. « E in più mi manca Turon. Ci siamo dovuti separare a causa di questa bugia e ci vediamo così poco, e in segreto! Sono stanca di tirare avanti con questa falsa, Leg. » Ancora incontrai i suoi occhi e quasi non mi lasciai cadere a terra per la demoralizzazione che avevo in corpo. Mi sentivo distrutta, troppe bugie gravavano sulle mie spalle e dopo venticinque anni stavo per crollare.
« Ascolta », mormorò dolcemente lui venendomi incontro e poggiando le sue mani sulle mie spalle con delicatezza, « Rìnon è giovane, forte e ha il testosterone a mille: è logico che si comporti così, non prenderla troppo sul personale, tesoro. Sicuramente, poi, lo schiaffo che gli hai dato gli avrà rinfrescato le idee. » Mi accarezzò una guancia e avvicinò il suo volto al mio, facendomi sorridere non appena i suoi capelli mi solleticarono le guance. Era bello sentire il calore confortante del suo corpo contro il mio in quei momenti, perciò mi lasciai andare contro il suo petto e sospirai per l’ennesima volta, chiudendo gli occhi.
« Sono una cattiva madre. » Affermai.
« Hai cresciuto quattro figli, El, e porti su di te i segni della guerra e delle verità celate: non sei una cattiva madre, sei una donna forte e coraggiosa. » Mi allontanò leggermente da se per potermi guardare dritta negli occhi. « E sei mia. » Aggiunse, con un sorriso che gli solcava il bel viso etereo.
« Mi verrà il diabete », ammisi ridendo, dopo che lui mi lasciò un bacio casto a fior di labbra. L’elfo, che si era diretto verso il letto, si voltò pronto ad obbiettare ma qualcuno lo precedette e bussò alla porta. In fretta e furia corsi verso la sedia su cui avevo gettato il mio vestito e l’infilai con velocità, mentre Legolas rindossava la tunica verde smeraldo.
« Vostra grazia, c’è una visita per voi. »
 
 
Visto che sei arrivata/o fin qui

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Thranduil l'apprezzerà.

Ehi gente!
Sono tornata con un nuovo capitolo di El! Che ne dite? Ve gusta? Ora corro a letto che è tardi baci :*

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Capitolo 6
*** La profezia di Cuinië, la ragazza cervo. ***


In questo capitolo farò uso di frasi in elfico, tradotte nell S.d.A



Storia d’inverno

 
 

Dove c'è molta luce, l'ombra è più nera.

— Johann Wolfgang Goethe, Götz von Berlichingen, 1773
 

 


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Un lampo di luce bastò ad Elanor per chiudere gli occhi, portarsi un braccio davanti al volto e tenere strette le redini di Aranel, che tutto era fuorché calmo. La giovane ragazza digrignò i denti e voltò lo stallone baio di lato, in modo da avere il cervo appena colpito di fianco. Quando la luce scomparve e le fronde degli alberi furono tornate al proprio posto, la ragazza poté aprire le palpebre e osservare ogni cosa con i propri occhi blu. Ci mise un po’ ad abituarsi nuovamente al buio della foresta, ma bastò; non le avevano mai dato fastidio le ombre e il freddo che si stanziavano sotto le immense fronde dei suoi boschi.
« Buono Aranel, buono. » Sussurrò all’orecchio dell’animale che, come per magia, parve calmarsi e riprendere a respirare con regolarità, senza più sbuffare a fiato corto dalle grosse narici; i grossi zoccoli possenti, però, raspavano ancora il terreno. La giovane principessa voltò il capo verso la scorta che il Re le aveva affidato e sorrise trionfante, felice di aver abbattuto l’animale che sarebbe stata la cena di quella stessa sera.
« Ottimo lavoro, mia signora » si congratulò con lei Aràton, il capo delle guardie. L’elfa gli rivolse un generoso sorriso, lusingata dalle sue parole. Le era sempre piaciuto quel ragazzo, aveva un bel carattere e non sembrava molto vanitoso a dispetto della maggior parte delle giovani reclute che ogni giorno si allenavano nel cortile sotto la sua camera. A contrario loro Aràton era sempre molto sorridente e riusciva ad imporsi persino sugli altri allenatori. E poi, c’era da dire che era persino molto bello, non “bello” come tutti gli altri, che parevano fatti con gli stampini, ma proprio bello: aveva lunghi capelli castani, che nel regno possedevano, oltre lui, solo Elanor e sua madre. Gli occhi di un profondo nero, quasi fossero fatti dello stesso inchiostro di cui erano formati i libri del fratello della principessa, Leron; e il suo fisico pareva scolpito nella pietra. Persino ora, sotto la corta tunica verde e marrone da caccia, Elanor poteva vedere chiaramente la forma collinare dei muscoli sul suo braccio e i pettorali ben delineanti.
Sbattendo le palpebre, la principessa si affrettò a scendere dalla sella  e avviarsi verso la carcassa del cervo che aveva abbattuto; sapeva che il proprio cavallo non si sarebbe mosso da dove l’aveva lasciato, non lo faceva più da quando lei aveva compiuto diciott’anni. Passandosi una mano fra i lunghi capelli nocciola, s’inginocchiò di fianco al cervo e strinse la presa sul corpo della sottile freccia che aveva scoccato poco prima; nel punto in cui la testa della freccia si era incastrata nel manto candido dell’animale usciva un rivolo di sangue rosso rubino, che scendeva velocemente fino al terreno costellato di foglie secce. Le lunghe dita pallide della giovane accerchiarono il corpo della freccia e, stringendola con forza, l’estrassero dalla carne. Puntò la testa dell’arma verso l’alto e piccole gocce di sangue caddero sulla sua pelle, macchiandola ripetutamente di rosso.
« Qualcuno può aiutarmi, branco d’incompetenti, oppure devo fare tutto da sola? » Ululò Elanor, alzandosi in piedi e voltandosi verso gli elfi che attendevano ordini. « Insomma, da quando una donna deve sporcarsi le mani e degli uomini devo stare a guardare? »
Qualcuno di loro scattò sull’attenti, rizzando le spalle come presi alla sprovvista, altri l’osservarono e solo uno le comparve davanti, con un asciugamano: Aràton.  La principessa gli cavò il telo dalle mani, asciugandosi il sangue che le striò la pelle e poi arrotolandoci dentro la freccia, prima di tornare a guardare il cervo. In un certo senso le dispiaceva aver ucciso un così bell’animale, dal manto candido e le corna lunghe e potenti, ma gli aveva dato la caccia per così tanto che alla fine era stata una soddisfazione ucciderlo; ed era da tenere in conto che suo nonno ne sarebbe stato felice. La testa di un animale così bello avrebbe adornato il suo muro i trofei nella sala da pranzo.
« Incompetenti. » Sibilò la giovane, quando tornò a rivolgere lo sguardo ai sette elfi che ancora stavano a cavallo. Sinceramente, Elanor non aveva mai capito perché suo padre continuasse a mandarne così tanti ogni volta che usciva per la caccia, non era più una bambina che si spaventava per ogni cosa eppure Legolas ostentava a non volerla lasciare senza una scorta numerosa. Questa cosa non le era mai andata a genio, ma si era sempre astenuta dal ribattere visto che il padre e la madre non le avevano mai fatto mancare nulla, sebbene quest’ultima fosse costantemente riluttante e contraria nel lasciarle usare le armi.
Molto spesso, però, capitava che la principessa si domandasse se era stata la guerra a rendere la madre tanto distante dal mondo delle armi; ogni tanto le capitava persino di domandarsi se quelle piccole cicatrici che aveva sulle mani non se le fosse causata a Gondor, prima di incontrare Legolas. Chissà com’era stata la sua vita prima di incontrare il principe di Bosco Atro, chissà com’erano stati i suoi genitori; quei nonni che non aveva mai conosciuto.
« Mi dispiace per il ritardo, mia signora, ma a quanto pare qualcuno », Aràton lasciò vagare lo sguardo su un giovanissimo elfo poco lontano dal proprio cavallo, risvegliandola dai propri pensieri « aveva dimenticato di portare gli asciugamani. »
« Beh, allora ricorda… » ma un rumore improvviso la distrasse, facendole voltare la testa di scatto. Con le zampe tremanti il cervo si era alzato, e se ne stava in piedi davanti a loro. Le orecchie che si muovevano a scatti e i muscoli tesi; il sangue che ancora colava dalla ferita.
La principessa sbarrò le palpebre e le labbra, mentre i suoi occhi incontravano quelli  azzurri ghiaccio del cervo. L’aria le accarezzò i capelli, spingendogli sulle guance roventi d’affanno, per la corsa di poco prima, e stupore dovuto alla pellaccia dura dell’animale.
Ma com’è possibile?, si domandò Elanor, mentre poggiava la mano sulla freccia chiusa dentro l’asciugamano e afferrava, con cautela, l’arco da dietro le spalle. Purtroppo, però, l’animale scartò con velocità di lato e prese a correre, superando la scorta di cavalieri.
« Dannazione! » Ringhiò la ragazza, ripoggiandosi l’arco sulle spalle e correndo verso il proprio cavallo. Montò in sella con facilità, afferrando le redini con forza e si lanciò all’inseguimento del cervo bianco, seguita da tutti gli altri. Poteva ancora vedere la selvaggina correre pochi metri davanti a lei, arrancando ogni tanto a causa della ferita. Era intenzionata a uccidere quell’animale una volta per tutte, giusto per levarsi lo sfizio di aver ucciso un cervo bianco; sebbene suo nonno adorasse i cervi e ucciderne uno significava essere privata sicuramente di qualcosa a lei caro.  Poco le interessava in quel momento, voleva solo uccidere quel bastardo una volta per tutte.
Spronando Aranel con la voce, incoccò la freccia insanguinata nell’arco e rizzò le spalle, tirando la corda dell’arco finché la mano non le sfiorò la guancia. Allora, prese la mira e scoccò… l’arma sfiorò l’animale e si conficcò in un tronco poco più avanti, subito dopo che l’animale ebbe virato.  La principessa serrò la mascella e imprecò sottovoce, mentre riprendeva le redini e faceva voltare, non molto carinamente, Aranel nella direzione in cui il cervo era scomparso. I soldati della sua scorta faticavano a starle dietro.
Man mano che il cavallo correva, e la cacciatrice scoccava frecce contro il cervo bianco, gli alberi avevano iniziato a diramarsi e il poco sole a fare breccia fra le chiome brune e gialle. I capelli di El schioccavano nel vento come fruste e i suoi occhi di ghiaccio azzurro non smettevano nemmeno per un istante di prendere la mira sull’animale. Eppure, lei conosceva quella strada. L’aveva già percorsa centinaia di volte prima di allora: il cervo stava correndo verso il palazzo. Con il cuore che batteva all’impazzata e un sorriso che si apriva sulle labbra candide e piene della giovane, il cervo attraversò le porte principali della reggia e corse dentro il palazzo seguito a ruota dalla cacciatrice. Attraversarono il corridoio principale, quello diretto alla sala del trono, mentre al loro passaggio servi e guardie si scostavano spaventati. Poi accadde tutto in fretta: l’animale selvatico scivolò a pochi passi dalle scale che portavano al trono, macchiando il pavimento pulito e brillante con una lunga scia rossa di sangue. Il cavallo della cacciatrice si fermò all’inizio di essa e lei scese: l’arco stretto fra le mani e una freccia incoccata sulla corda; Elanor non si era nemmeno accorta che suo nonno e due dei suoi fratelli, che fino a poco prima erano stati appartati a parlare, ora l’osservavano sconcertati.
Muori, finalmente! Si ritrovò a pensare la giovane quando arrivò davanti alla testa cornuta del cervo, e tese la corda dell’arma. Il braccio le tremava a causa dell’adrenalina che scorreva nelle sue vene e uno strato di sudore le imperlava la fronte; non aveva mai sudato tanto durante una caccia, più che altro perché le prede erano morte subito.
Tese ancora un poco la corda dell’arco e socchiuse le labbra, carezzò le piume alla fine della freccia e… una voce autoritaria e ferma la bloccò.
« Elanor! N’ndenginata! » Thranduil, con passo svelto e regale, la raggiunse. Gli occhi azzurri di Elanor seguirono i movimenti del nonno, mentre con velocità si abbassava sull’animale e gli alzava la testa osservandone lo sguardo. Il cervo sbatté le palpebre e scosse il capo, facendo allontanare il re di scatto. Con fare protettivo Thranduil poggiò un braccio sulle spalle della nipote e le fece fare qualche altro passo indietro, mente una strana luce accerchiava il corpo dell’animale selvatico. Aranel nitrì spaventato e Leron, che fino a poco prima era rimasto accanto ad Haldir in disparse, corse a prendergli le redini e calmarlo senza però togliere gli occhi blu dall’intensa luce bianca. Un lampo e un grido dopo, la luce scomparve nel nulla e con essa anche lo splendido cervo bianco che Elanor non vedeva l’ora di uccidere dopo l’inferno che le aveva fatto scappare. Al posto dell’animale stava una giovane ragazza, dai lunghi capelli rossicci scuro e la pelle pallida come la neve. Quando aprì gli occhi essi erano come ghiaccio scheggiato, con molte sfumature di verde pallido e smeraldo, e sembravano vuoti e lontani. Con una smorfia si portò la maso sulle costole, dalle quali usciva un rivolo di sangue che le si riversava fra le dita e per terra.
Elanor trattene il fiato: che diamine era successo al cervo? Chi era quella ragazza e perché era li? Poteva davvero essere un muta-forma? Come dannazione aveva fatto ad entrare nelle loro terre se… spaventata lanciò uno sguardo a Haldir, che ancora se ne stava nell’ombra a osservare la scena stupito tanto quanto lei.
« Tieni, copriti con questo. » Leron era corso in aiuto della ragazza, poggiandole l’asciugamano, che aveva trovato sulla sella, contro ferita e coprendole il corpo con la sua tunica. Ora, che era a metto a nudo e le dita erano striate di sangue, sospirò.
« Perché eri nel nostro regno? » Domandò freddamente Thranduil, ignorando il nipote più piccolo che lo pregava di lasciare stare la giovane, che aveva bisogno d’aiuto. « Perché sei entrata nel mio regno senza il mio permesso, cambia-pelle? Cosa volevi rubare: oro, gioielli, gemme? »
« Mio re » intervenne Haldir, guadagnandosi un’occhiataccia dal nonno, « Thranduil… questa giovane è ferita. Dobbiamo aiutarla. »
Elanor assisteva alla scena con le labbra socchiuse e il cuore fermo. Aveva quasi ucciso una ragazza senza saperlo e la cosa la turbava: quante altre volte aveva ucciso animali che in realtà erano persone? Lo stomaco le sembrò attorcigliarsi su se stesso fino a creare un nodo e uno strano senso di nausea le avvolse la gola, costringendola a portarsi la mano sulle labbra per rigettare indietro i conati di vomito. Si sentiva sporca di assassinio, le strisce rosse sulle sue mani le parvero diventare più evidenti che prima e le sembrò che la mandassero a fuoco. Indietreggiò ancora quando gli occhi della ragazza cervo le si posarono addosso, senza più lasciarla andare.
« Chiamate mio figlio e la sua compagna », ordinò freddamente il Re ad un servo, che senza farselo ripetere corse via sparendo nei corridoi. Poi, tornò a osservare la giovane donna che si era appoggiata e Leron. Elanor l’osservava con un nodo alla gola, sentendo il cuore batter nelle orecchie. « Insomma, ragazza, come ti chiami? »
« Mio signore, per favore lascia che la porti dalle guaritrici », lo implorò ancora Leron, gettando occhiate veloci alla sorella e il fratello. I lunghi capelli neri gli ricaddero sui pettorali, mentre la giovane donna tentava d’issarsi sulle gambe, invano.
« Mi chiamo Cuinië e sono entrata nel… tuo regno » la ragazza parlava a scatti, col fiatone e smorfie di dolore che di tanto in tanto le oscuravano il volto, « mio signore, por portarti la profezia di Aldëa. » Nel sentire quell’ultimo nome Thranduil s’irrigidì. Gli occhi freddi del sovrano si gettarono sui tre nipoti che stavano nella stanza; come se avesse paura che qualcosa venisse rivelato, pensò Elanor.
« Di quale profezia parli, ragazza? » Tagliò corto il re di Bosco Tetro, avvicinandosi alla giovane cambia-pelle. Thranduil l’osservò prendere fiato, mentre Haldir levava l’arco dalle mani della sorella, ancora traumatizzata. La giovane principessa lasciò ricadere persino la freccia e si avvicinò al fratello maggiore, senza però abbracciarlo. Non sarebbe crollata ne davanti a lui, ne davanti agli altri. Il terrore e il senso di colpa che le scorrevano nelle vene sarebbero fuoriusciti solo quando si sarebbe richiusa la porta delle proprie camere alle spalle; non una lacrima sarebbe sorsa prima sul suo viso rigato si sangue, depostovi dalle mani che si andavano a poggiare sulle guance.
Cuinië sostenne lo sguardo del re, mentre socchiudeva le labbra piene e si preparava a parlare:
 
« "La guerra incombe, e

divampa il fuoco.

Esplode il ghiaccio, e

la terra trema.

Il vento oscura il sole,

l'Ombra risorge.

La guerra incombe,

i guardiani ritornano.

Il sangue cola sul terreno,

i sigilli si spezzano.

La guerra incombe." »

Fu Thranduil, questa volta, a socchiudere le labbra e restare in silenzio. Poco prima che qualcuno si decidesse a parlare le porte principali della sala del trono si spalancarono ed Eleonora e Legolas fecero il loro ingresso in scena.
 
 

 


°     °
 
 




« Ci mancava solo qualche altro problema. » Sborbottai, gettando i capelli su una delle mie spalle. Legolas ridacchiò e, trattenendo una vera e propria risata, agganciò tutti i bottoni che stavano sul retro del mio lungo vestito. Le sue dita fredde sfioravano la mia pelle con gentilezza e velocità, come una delle tante carezze infuocate che lasciava la sera su di me; era una cosa confortante. Per qualche secondo pensai di lasciarmi cadere contro il suo petto ampio e aspettare che mi allontanasse, sebbene sapevo non l’avrebbe fatto, ma quel dannato servitore continuava a battere incessantemente e cominciava seriamente a infastidirmi. « Giuro sui Valar che, se non la pianta lo incenerisco », sibilai.
 « Arriviamo! Annuncialo pure a mio padre. » Disse a voce alta Legolas, in modo che il “bussatore di porte” potesse smetterla e ritirarsi nei corridoi, a disturbare qualcun altro magari. Cogliendo un profondo respiro, mi allontanai dal mio compagno e mi diressi alla porta, spalancandola; la luce proveniente dal corridoio mi accecò per qualche secondo. Uno strado odore aleggiava nell’aria: un aroma che sapeva di bosco, animale selvatico e terreno bagnato; misto ad aghi di pino e rosmarino. Non sapevo bene “il perché” di tutta quella faccenda ma i miei sensi non si erano mai accesi così tanto dall’ultima volta in cui avevo parlato con Turon e, secondo le mie fonti, in questo periodo lui era in volo per tornare da me, ma non ancora troppo vicino per poterli alterare. Scuotendo il capo, rizzai le spalle e uscii seguita da Legolas. Le pareti sembravano brillare più intensamente di quanto ricordassi, i colori dei dipinti e degli arazzi parevano più accesi del solito; iniziavo a distinguere persino gli svariati odori che si aggiravano per il palazzo, riconoscendoli ad uno ad uno. Storsi il naso e mi passai una mano sul ventre, guadagnandomi un’occhiata di traverso da parte del principe di Bosco Atro. Scostai lo sguardo su di lui e inarcai le sopracciglia, osservando i suoi lineamenti marcati ed eleganti. I due lapislazzuli che teneva al posto degli occhi mi sorrisero: Legolas era allegro quel giorno, sebbene la sua postura rigida infondeva un altro messaggio. Camminammo ancora un poco per i corridoi lindi e luminosi, svoltando a qualche angolo di tanto in tanto e parlando del più e del meno; dei nostri figli e delle loro passioni. Quando arrivammo innanzi al grande portone che ci divideva dalla sala del trono ci bloccammo, controllandoci per l’ultima volta.
« Sei perfetta », mi disse l’elfo, non appena si accorse che mi stavo gettando i capelli oltre le spalle. Sorrisi leggermente, schiarendomi la voce con silenzio accurato.
« Lo so », ribattei frettolosamente. « Tu sei… ehm, stai bene si. » Mormorai analizzandolo da capo a piedi. Il principe alzò gli occhi al cielo e si grattò una guancia imbarazzato, lasciando che un filo d’aria solcasse le sue labbra rosa e sottili. Era tremendamente bello, troppo bello ed era mio. La sua pelle bianca splendeva contro la poca luce argentea, che si rifletteva su un’anfora d’argento, e sembrava porcellana perfetta, senza nessuna venatura; calda e confortevole al tatto. Con il palmo della mano sfiorai il suo e un piccolo brivido corse sul mio braccio, prima che mi ricordassi quanto stava per accadere e il forte odore di selvaggina di prima mi tornasse prepotentemente al naso; tutta via, era rincuorante sapere che dopo tutti quegli anni ancora rabbrividivo al suo tocco.
« Sei la solita, » mi riprese lui « non ti sbilanci mai sul mio vestiario. »
« Tesoro, se tu non ti vestissi con i soliti colori ogni giorno magari… » ma un odore insistente mi fece mettere sull’attenti e poggiare i palmi sulla porta. Respirai profondamente ed entrambi rimanemmo muti, ascoltando quello che potevamo udire proveniente dall’altra parte, sebbene fosse poco. Sentii i palmi bruciare al risveglio improvviso dei miei sensi da guardiano e le staccai immediatamente dall’uscio, stringendo i pugni.
« Perché ho come la brutta impressione che siano i guai ad aspettarci oltre questa porta e non un vecchio amico? » Sospirò l’elfo, guardando dritto davanti a se.
« Forse, perché ci sono realmente dei guai li dietro. »
« Come lo sai? »
« Ne sento la puzza. » E spalancai le porte con forza, quasi gettandole contro i muri opposti ai cardini.
Quando le porte sbatterono con forza contro i muri opposti, Aranel nitrì. Sbattei le palpebre confusa: che diamine ci faceva il cavallo di mia figlia a palazzo, o meglio dentro il palazzo? Aggirai l’animale e con fare deciso raggiunsi Haldir, lanciandogli un’occhiata interrogativa  prima che i miei occhi si posassero su Elanor. Mia figlia aveva la faccia arrossata, gli occhi lucidi e le guance rigate di sangue secco. Sulle dita e il dorso delle mani lunghe striature rosse s’arrampicavano fino ai palmi; sentii il sangue gelarmi nelle vene.
« A’maelamin, mani marte?  » Esclamai, prendendole il volto fra le mani e cominciando ad analizzarlo. Elanor mi osservò con i suoi grandi occhi blu e sorrise leggermente, abbassando poi lo sguardo verso il basso. I miei occhi rimasero fissi sulla sua pelle in cerca di qualche taglio, persino il più piccolo. « Elanor, perché sei ricoperta di sangue? » Tentai di nuovo, con la voce che tremava leggermente. Non ero abituata a vedere mia figlia ridotta così, e mai avrei voluto accadesse una cosa simile; eppure, doveva esserci una spiegazione.
« El, abbiamo visite », la voce di Legolas mi portò a guardare nella sua direzione; aveva parlato con così tanta freddezza.
« Ah, dunque lei è la guardiana! » Esclamò un terza voce graffiante, a scatti. Le mie iridi si posarono sulla figura magra di una giovane ragazza, dai lunghi capelli rossicci e gli occhi di un intenso azzurro/ verde. La pelle diafana era macchiata di rosso all’altezza delle costole, e le dita che premevano sul punto ferito erano grondanti di sangue. Leron, accanto a lei, le aveva poggiato la propria tunica sulle spalle per coprirla. Un intenso odore di selvaggina era sprigionato dal suo corpo, lo stesso che avevo avvertito in corridoio, solo che questa volta era più intenso. Socchiusi le palpebre e mi voltai  completamente, congiungendo le mani al ventre: dovevo mostrarmi sicura davanti a colei che sapeva cos’ero. « Sei bella come dicevano, solo non profumi molto. »
« Neanche tu odori come un campo fiorito. » Sibilai, raggiungendola con lentezza. Con il cuore che batteva a mille, lanciai un occhiata a Leron e gli intimai di spostarsi, senza ammissione di repliche
« Madre, cosa intende questa ragazza dicendo che sei la guardiana? » Haldir fece un passo in avanti, ma Legolas lo bloccò poggiandogli una mano sul petto. Gli occhi dei due s’incontrarono, e Haldir lesse in quelli del padre freddezza e vuoto.
« Tutti fuori », ordinai frettolosamente, con un cenno della mano. Leron fece un passo nella mia direzione, ma gli rivolsi uno sguardo di fuoco e lui abbassò il capo sorpassandomi.
« Madre… » questa volta fu Elanor a parlare, tentando di strapparmi qualche risposta dalle labbra.
« Ho detto: tutti fuori, ora! » Alzai la voce per farmi capire meglio, ma non osai voltarmi perché sentivo qualcosa nascermi dentro dal petto: i miei sensi erano più accesi che mai. « E portate via quel maledetto cavallo da qui e tu, Leron, mettiti qualcosa addosso: non vorrei ti prendesse un accidente. » Mentre i miei occhi si venavano di rosso, e sapevo che era così, le porte della sala del trono si chiusero con un tonfo e tutto ricadde nel silenzio più tetro. L’unico rumore era rotto dai battiti del mio cuore, quello dei due regnanti di Bosco Atro e della strana ragazza ferita a terra. Il mio primo  pensiero era stato andare da lei e tentare di fermare l’emorragia che aveva sul fianco, ma ero troppo rigida anche solo per muovermi in questo momento. Avevo le spalle tese e la mascella contratta, i palmi delle mani che ustionavano e la vista che si appannava di rosso, rivelandomi tutti i movimenti di calore che avevo attorno.
« Ebbene, parla. » Ordinò con fare severo Thranduil, accostandomisi e sovrastandomi con la sua altezza.
« Parlerò, ma solo con la guardiana. » Sputò acidamente fuori la giovane, alzandosi in piedi e stringendosi la casacca di Leron attorno al corpo nudo.
« Chi sei, e perché sei entrata nella mia cosa pensando di potermi chiamare così? »
« Io sono Cuinië, una delle ultime cambia-pelle cervo rimaste nella Terra di Mezzo. Yavanna mi manda a chiamarti, per avvertirti del pericolo che incombe su di te, ancora una volta. » 
Trattenni il respiro, mentre Legolas faceva un passo avanti e mi poggiava delicatamente una mano sulla schiena, curioso quanto me di saperne di più. Gli occhi della ragazza cervo scivolarono su di noi e le sue labbra si alzarono impercettibili, poi tornò seria.
« L’Ombra è risorta dalle ceneri, un nuovo male sta per colpire le terre che Yavanna ama mettendoci tutti a rischio. »
« Cosa stai dicendo? Sauron è stato sconfitto tempo fa », ammisi con una nota grave nella voce. D’istinto mi portai una mano al braccio dove svettava la lunga cicatrice da lui inferitami e non potei fare a meno che chiudere gli occhi qualche secondo; le immagini di quel giorno scaturirono nella mia mente come un fiume in piena, una cascata di dolori ricordi.
« L’Ombra risorge. La guerra incombe e i guardiani ritornano. » Recitò la giovane, prima di chiudere gli occhi e accasciarsi a terra priva di sensi.
« Aiutatela, veloci », intimai ai due uomini al mio fianco, mentre mi voltavo e ripercorrevo la strada che mi avrebbe portata alla mia camera. « Ho bisogno che si rimetta in fretta, Thranduil, sai cosa intendo. » Mi rivolsi poi al sovrano, guardandolo dall’alto della mia spalla. L’elfo mi riservò un occhiataccia e tornò alla giovane che respirava a stento. 




Ciao dolci pulzelle!
Allurs, com'è? Io tutto bene, non posso lamentarmi.
Anyway: che ne dite del capitolo? Abbiamo conosciuto
 Cuinië, che significa Viviana - in onore di quella santa ragazza che mi fa tutte quelle splendide Manip per la FF (che userò a breve nei prossi capitoli) - ed è stata nominata persino Aldëa, che significa Laura - in onore di una delle mie lettrici veterane :3 - . Ricordatevi di quest'ultima, perché sarà molto importante per la FF. 
In questo capitolo ho usato due frasi in elfico:

-
 N’ndenginata - "Non ucciderlo" - Lo grida Thranduil a Eleanor quando lei sta per uccidere il cervo.
A’maelamin, mani marte?  - "Amore mio, cos'è successo?" - Lo domanda El alla figlia quando la trova insanguinata. 



 

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Capitolo 7
*** Draghi. ***


Storia d’inverno. 
 


“Ma chi ha iniziato a morire non smette mai di farlo.”
 
Alessandro Baricco; Emmaus.



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« Mamma… » La voce che mi chiama è lontana, come in un sogno. « Mamma. » La voce continua imperterrita, costringendomi a voltarmi sulla pancia e lasciar vagare il mio sguardo nell’oscurità della stanza, finché non mi trovo difronte a due occhi chiari cerchiati di nero. Sbadiglio portandomi una mano alla bocca, mi stropiccio gli occhi e infine indietreggio finché la mia schiena non sbatte contro la testiera del letto.
Sbatto velocemente le palpebre e mi passo le mani sul viso, facendole salire verso i capelli scompigliati. Il volto di mio figlio, ancora poggiato sul bordo del materasso, mi osserva curioso. Lancio un’occhiata alle finestre; il cielo e limpido e numerose stelle brillano in cielo. La primavera è alle porte, ormai. Sbadiglio ancora e allungo le braccia verso Haldir, sollevandolo da terra come se non pesasse nulla. Invece pesa, ormai ha due anni e non è più una piuma. Sta crescendo. Il piccolo mezz’elfo mi sorride, poggia le mani sulla mia pancia gonfia e si volta a osservare il padre. Sappiamo entrambi che Legolas non dorme mai, essendo un elfo, ma che cade in dormiveglia. Stanotte pare proprio che il dormiveglia sia profondo… molto. Le sue labbra fini sono socchiuse e il suo petto si alza e si abbassa regolarmente. Russa. Trattenendo un sorriso scuoto il capo e allungo una mano per accarezzare quello di mio figlio.
« Qualcosa non va, amore? E’ tardi dovresti dormire già da un po’. » Sussurro, mentre lui si rannicchia contro il mio petto. Prova ad abbracciarmi ma ho la pancia gonfia e, perciò, non riesce.
E’ bello sentire il suo calore, il suo profumo. Lo stringo a me e sorrido, baciandogli la fonte. E’ caldo, ma non mi preoccupo più di tanto; ultimamente i miei poteri sono come cresciuti, ogni cosa si duplica. Turon dice che è normale che dopo un po’ di tempo un guardiano riesca a sentirli così vivi dentro di se, a controllarli persino quando il suo drago è lontano. E’ strano, ma devo farci l’abitudine.
« Non riesco a dormire. Il nonno, nella camera accanto, si è svegliato e ha iniziato a piangere. Ho sentito i suoi singhiozzi. » Gioca con i miei capelli mentre lo dice, e poi passa a osservare Legolas.
Seguo il suo sguardo e un piccolo sorriso affiora sulle mie labbra. L’elfo si volta nella nostra direzione, con gli occhi chiusi e la bocca aperta, e russa un po’. I lunghi capelli biondi gli cadono sulle spalle e sul cuscino formando un’aureola lucente. Poi penso… Thranduil sa piangere? Thranduil può piangere? Allarmata da questa, strana, affermazione mi alzo dal letto con leggerezza, per non svegliare Legolas; poggio Haldir accanto al padre e mi raccomando con lui di non svegliarlo e soprattutto di non dirgli dove sto andando. Poi lo bacio sulla fronte e aspetto che si addormenti, successivamente mi inoltro nei corridoi fuori dalla porta.
 
E’ buio nella reggia di Bosco Atro, ma la fiamma che tremola nella mia mano sinistra emana una luce fioca che mi aiuta a non inciampare in giro, oppure finire addosso a dei muri. Stranamente, non ho paura delle ombre che vedo riflesse sul muro, che danzano come spettri. Quegli spettri che potrebbero fare parte del mio passato. Rabbrividisco al solo pensiero di quanti io ne potrei avere, di spettri, e sospiro. Una lista infinita comincia a scriversi nella mia mente, mentre procedo verso il corridoio nord-est. Sopra di me si apre un intero soffitto a cupola sostenuto dai rami di alcuni alberi centenari; la luce delle stelle che brillano nel cielo primaverile si riflette su di esso, ma non è nulla a confronto con quella che potrei scatenare io. Ultimamente non riesco più a pensare alle stelle come a qualcosa di materiale: un ammasso di gas che fluttua nel cielo in attesa di esplodere; penso a loro come alle persone che ho perso. Quelle persone che non rivedrò più. Mi torna in mente mia madre quando è stata uccisa, nella visione in cui Sauron mi aveva intrappolata. Mi mordo un labbro e distolgo lo sguardo dal cielo, tornando a guarda dritta davanti a me. Buio, ombre, porte chiuse, arazzi e silenzio è questo che mi avvolge ora. L’unico rumore esistente è quello dei miei passi e il battito del mio cuore. E’ strano sentirlo, ancora non mi sono abituata ad averne uno. Uno nuovo almeno, che mi lega in tutto e per tutto al mio guardiano. Se Turon morisse, questa volta e per sempre, morirei con lui. Non devo pensare a queste cose, non c’è più una minaccia che io debba combattere e per cui debba sacrificarmi. Sauron è sconfitto, la Terra di Mezzo è salva. La vita è tornata quella di una volta, tranquilla. Prima che possa pensare a qualcos’altro che mi possa aiutare nella mia autodistruzione improvvisata, mi ritrovo davanti alla porta di Thranduil. Senza bussare, stringo le dita attorno alla maniglia e la spingo verso il basso. Una leggera corrente soffia dall’apertura, la fiamma trema nelle mie mani. Prendo un bel respiro e m’intrufolo all’interno, richiudendomi l’uscio alle spalle. La grande stanza del re è buia, ma le tende non sono state tirate e, dalla finestra aperta, entra una corrente fredda che mi fa rabbrividire. Avanzo nonostante tutto e mi ritrovo a evitare qualche vestito per terra. Alzando gli occhi al cielo mi piego e li raccolgo, posandoli da qualche parte. Tale padre tale figlio, mi dico. Anche Legolas è molto disordinato, adesso so da chi ha preso. Una folata di vento, però, mi ripercuote dai miei pensieri e mi costringe a surriscaldarmi. Sento il fuoco divampare nelle vene mentre mi avvio verso il terrazzo adiacente alla camera. Le tende sono mosse da un leggero venticello freddo, che a contatto con la mia pelle sfrigola. E’ uno strano suono, ma dopo poco tempo non ci faccio nemmeno più caso. Appoggio una mano al vetro e, attorno a essa, si forma un alone di condensa. Non lo guardo neanche, perché i miei occhi sono fissi sul corpo imponente poco distante da me. Ha il torso nudo, ed è come se i lunghi capelli biondi gli fluttuassero attorno. La pelle pallida sotto la luce della luna brilla, mentre i muscoli si tendono. Deve aver percepito la mia presenza. Stacco la mano dal vetro e faccio qualche passo in avanti, chiudendo le dita a pugno attorno alla fiamma, che muore silenziosamente. Faccio qualche passo in avanti stringendomi nella vestaglia, più per abitudine che per comodità, e resto silenziosa. Non sento singhiozzi di alcun genere, probabilmente Haldir ha sbagliato. Thranduil non può piangere, non ne è capace.  Il suo cuore è stato trascinato nelle profondità più oscure che lui stesso ha scavato, e vi è marcito dentro. Probabilmente, forse, non ne l’ha mai nemmeno avuto uno di cuore… Questo significa che, per qualche tempo, abbiamo avuto qualcosa in comune. Scuoto le spalle per non pensarci e mi blocco al fianco del sovrano, poggiando le mani sul pancione. La foresta di fronte a noi brilla di luce stellare. Le foglie nuove, appena nate sugli alberi, sono di un verde brillante che riflette la luce splendidamente. Mi sembra di star osservando un pezzo di paradiso, perché è così che me lo immagino. Non un posto fra le nuvole dove tutto è bianco e perfetto, ma un posto molto simile alla terra. A casa, per esempio.
« Non dovresti stare fuori con questo freddo. » La voce del re mi risveglia dai miei pensieri all’improvviso.
Sbatto le palpebre e sposto la testa nella sua direzione. Purtroppo, avrei preferito non farlo. La parte sinistra del suo viso, quella rivolta verso di me, è come squagliata. Riesco a vedere i tendini, le ossa e quel che rimane dei muscoli. L’occhio, ora ceco, che osserva tutto senza vedere nulla. E’ raccapricciante; ma non posso mettermi a gridare. Ho visto di peggio. Ho visto la luna di sangue. Mi passo una mano fra i capelli per alleviare la tensione e sorriso, sebbene non so quanto gli possa sembrare vero. Lui non mi guarda neanche, ma mi sento comunque addosso il suo sguardo.
« Non ho freddo. Sa… con il fatto del controllo del guardiano e tutto il resto, riesco a mantenere una temperatura costante. » Sto parlando a vanvera, devo andare dritta al punto. Ora. Subito. « Haldir mi ha detto che vi ha sentito piangere. » Sputo fuori quelle parole talmente veloce che non sono sicura che lui abbia capito.
Ma è strano chiederglielo; quanto lo è starsene l’uno accanto all’altra così, come se fosse normale. Ma non lo è. La normalità, per noi, è ignorarsi completamente per la maggior parte della giornata, scambiarsi due parole a tavola e litigare sulle condanne che vuole affliggere ai carcerati o a chi sgarra persino di poco. E’ troppo severo, anche con Haldir. Sebbene mio figlio abbia due anni lo tratta come se già ne avesse diciotto e questo mi spaventa. Il suo comportamento mi porta persino a litigare con Legolas qualche volta. Ma adesso non è a questo che devo pensare; perché sebbene sia un egoista, egocentrico, stupido e severo re, stasera non mi sembra normale. In tutti i sensi: a partire dalla faccia. 
Di colpo Thranduil s’irrigidisce e volta il viso completamente verso di me. L’occhio cieco che mi osserva curioso e stupito. Poi la noto, una scia leggermente più brillante della pelle sulla guancia destra; l’occhio di ghiaccio lucido. Allora lui un cuore ce l’ha, mi dico stupita. Fa uno strano effetto vederlo così. Senza pensarci allungo una mano e la poggio sul suo braccio. La sua temperatura corporea è alta, ma io la percepisco fredda. E’ freddo in confronto a me. Sento i suoi muscoli tendersi al mio tocco, e in pochi secondi il suo volto torna normale. Adesso, entrambi gli occhi azzurri che possiede mi osservano stupiti, e le orecchie a punta sono ben aperte.
« Vostra maestà, stavate piangendo? » Sussurro cautamente.
Lui ingoia un fiotto di saliva, il pomo d’Adamo che sale e scende. Poi, all’improvviso, si allontana da me e torna a guardare il bosco. No, non il bosco ma più lontano ancora. Sembra che le sue pupille stiano tentando di trovare qualcosa che non riesce a vedere. Qualcosa di lontano e bramato. Qualcosa di perso.
« Non… stavo piangendo. » Risponde con la voce fievole il re. « Stavo pensando. Ricordando. »
L’osservo incuriosita e noto che ha la mascella tesa e lo sguardo vacuo, adesso. Sta mentendo, e lui lo sa. Mi passo una mano fra i capelli per alleviare la tensione e scrocchio le dita, ripoggiando poi le mani sul pancione. Un alito di vento mi accarezza la pelle sfrigolando.
« E, se mi è permesso chiedere, vostra maestà, a cosa stavate pensando? » E’ incredibile come il tono della mia voce sia calmo rispetto a due anni prima. Me ne stupisco da sola. In questi anni passati a crescere mio figlio, ho perso quel tono arrogante che mi portavo sempre dietro all’inizio. Ho imparato a dosare le parole e moderare il linguaggio, sebbene ogni tanto accada che la “vecchia” me torni nella mia vita.
« Persone. » Si limita a rispondermi, nello sguardo un lampo di fredda nostalgia.
Chissà da quanto non si libera del peso che porta sulle spalle? Chissà se si accorge che sta iniziando a crollare? Chissà se si aprirà mai? Ma non ho una risposta a queste domande, non ancora almeno. Improvvisamente, la luna sembra una calamita per i miei occhi e così l’osservo. E’ alta nel cielo, e sembra una perla splendente e preziosa. Inspiro profondamente. Forse sono io che devo fare il primo passo.
« Sa, sire, ogni tanto capita anche a me di crollare. Insomma, è una cosa normale, tutti hanno dei sentimenti. Poi ci sono quelli come noi: quelli che se li tengono dentro finché non vanno a male e solo dopo capiscono che avrebbero potuto lasciarli uscire invece di farli morire, e se ne pentono. Ecco, io credo, vostra maestà, che sebbene questi sentimenti facciano male –e mi creda quando le dico che io di dolore me ne intendo- andrebbero lasciati andare. » Gli rivolgo uno sguardo veloce, per poi tornare a osservare il cielo primaverile. Lui non ha ancora detto una parola, non mi ha ancora fermata, non mi ha ancora guardata male. Perciò continuo. « Ogni tanto mi manca mia madre e, anche se so che non la rivedrò più, io guardo il cielo e ci parlo. L’ho fatto anche stanotte, prima che Legolas mi raggiungesse », ammetto e noto un sorrisetto sfiorare le labbra del mio re. « E’ così che mi sfogo, io. Perché non ci prova anche lei? Sa », mi avvicino un po’ a lui e mi alzo sulle punte, « sono ottime ascoltatrici. » E ripoggio i piedi a terra, avviandomi alla porta che conduce alla stanza. Credo sia meglio lasciarlo solo, e non forzare troppo la mano per questa sera. Non faccio in tempo a poggiare un piede sul pavimento che la voce calda del re mi richiama. Voltandomi, rimango in ascolto.
« I-io stavo pensando a una ragazza », confessa. « Si chiamava Ringil, ed era una cambia-pelle. L’ho conosciuta dopo che tu eri scappata con Thorin e la sua compagnia, probabilmente non l’hai mai vista. O non te lo ricordi. Era davvero bella… » E’ la prima volta che sento la sua voce abbassarsi così tanto quando parla di qualcuno. Quella Ringil doveva essere molto importante per lui; ne parla come se l’avesse persa all’improvviso. Poi capisco: lei deve essere morta anni fa, e lui non ha potuto fare nulla per salvarla. « Lei era forte e potente, e sicura di se. Era a capo dei muta-forma del nord, era la loro regina e non ha esitato nemmeno per un attimo quando ha saputo della guerra. Ha combattuto al nost… mio fianco, poi però è caduta. Io non ho mai visto il suo corpo, perché è scomparsa a un tratto fra i soldati. » Le sue dita si stringono a pugno e la mascella s’irrigidisce. I muscoli gli si tendono sul petto e sulle braccia, e gli occhi diventano freddi e lontani. Due ghiacciai spaventosi. « Suo fratello mi ha detto che è morta per salvare i principi e il re di Erebor, invano. Sono tutti morti, e i lupi hanno portato via il suo corpo prima che potessi dirle addio. » Trattengo il fiato per qualche secondo, spaventata dalle molteplici reazioni che potrebbe avere.
« Io credo, se mi è permesso dirlo, vostra maestà, che il passato debba restare tale. Guardatevi, vi state distruggendo per una donna che vi ha amato e che non ha esitato ad aiutarvi. Scommetto che, se è realmente come dite voi, lei non vorrebbe vedervi piangere. » E mentre lo dico il mio pensiero va a Fanie. Va all’elfa per cui credevo che il nostro re fosse pazzo. Va ai suoi capelli biondi, il viso delicato e gli occhi di cristallo. E poi penso: l’ha mai amata veramente? O meglio: l’ha mai amata come ha amato Ringil? Stringo istintivamente le mani sulla pancia sorridendo brevemente al re, quando un calcetto mi ripercuote. Sollevo le sopracciglia e abbasso lo sguardo. Un altro calcio, un altro ancora e prima che me ne possa rendere conto un’altra mano è sulla mia. Sento le guance surriscaldarsi e tengo la testa bassa, mentre scosto delicatamente la mano e lascio che il re tenga le mani sul mio ventre. Lo vedo sorridere, sembra felice; come se si fosse dimenticato all’improvviso del dolore che provava poco fa. O meglio, come se l’avesse messo da parte. Ma so che non è così, perché provo lo stesso. Ogni tanto tornano in mente gli occhi di Sauron, il suono della sua voce… la punta della sua spada sulla mia spalla. Però, non posso fare a meno di ripensare anche alle sue labbra sulle mie, al suo sguardo rosso… a lui. Mi ripercuoto velocemente, so che il re potrebbe leggermi nella mente da un momento all’altro, e torno a sorridere al mio ventre che si sta calmando. Il re raddrizza la schiena e mi sorride, poggiandomi le mani sulle guance. Si avvicina a me e poggia le labbra sottili, come quelle di Legolas, sulla mia fronte. La mia temperatura si abbasso di botto, e le sue labbra sembrano roventi adesso a contatto con la mia pelle.
« Forse hai ragione », sussurra ancora contro la mia fronte, « forse il passato dovrebbe rimanere passato. »

 
 

*    *
 
 

« Elanor! Oh, dannazione El, smettila! » Rìnon strinse il polso della sorella fra le dita e allontanò la sua mano dall’impugnatura della spada.
Le mani del ragazzo erano gelide, come sempre, e gli occhi azzurri parevano un faro brillante a contatto con la pelle pallida. I capelli, tanto castani da sembrare neri, rilucevano a contatto con la luce. La giovane ragazza strinse le palpebre e si divincolò, riuscendo a liberarsi. Nelle ultime settimane, dopo l’arrivo di quella ragazza cervo, le era parso che il fratello, Rìnon, si comportasse in modo strano. Era agitato, quasi avesse scoperto qualcosa che lo turbava. E adesso, ogni volta che la trovava con delle armi in mano, la esortava a lasciarle andare. Ma cosa poteva mai aver scoperto di così scioccante? Leron alzò velocemente il volto dal libro che stava leggendo e puntò lo guardo sul fratello gemello. Le sopracciglia inarcate erano più esplicite di qualsiasi altra parola: Leron non approvava il comportamento del fratello. Con velocità il giovane mezz’elfo poggiò il libro sul comodino al suo fianco e poi si alzò, prendendo il gemello per le spalle.
« Adesso basta, Rìnon. » Mormorò, la voce roca e tagliente.
Elanor si strinse il polso fra le dita, dolorante a causa della stretta di poco fa. Sulla pelle chiara già si stavano creando degli aloni violacei. La principessa non capiva, non riusciva a spiegarsi quei comportamenti. Leron spinse indietro Rìnon, finché inciampando il fratello cadde sulla sedia. I lunghi capelli castani gli ricaddero sulle spalle, e il volto prese un colore simile al rosso. Gli occhi, di un blu più scuro rispetto a quelli di Leron, parevano disorientati mentre il viso gli diventava cinereo. Il principe si passò le mani sul volto e sospirò, accasciandosi sulla sedia. La tunica che indossa gli salì sul ventre, lasciando scoperti gli addominali. La sorella l’osservò un poco: era il suo fratellino, la stupiva vedere quanto fosse cresciuto senza che lei se ne accorgesse. Elanor si passò una mano fra i capelli e sospirò a sua volta, avvicinandosi alla poltrona e sedendosi su uno dei preziosi braccioli. La luce fioca, grigia, che entrava dalla finestra si riversava dalla grossa vetrata sul pavimento prezioso della sala da pranzo; gli occhi di vetro degli animali imbalsamati attaccati alle pareti osservavano i tre principi. Il fuoco nel camino scoppiettava, mentre la legna veniva divorata dalle sue fiamme. L’inverno era alle porte, e si preannunciava il più freddo di tutti quelli che la giovane principessa avesse mai vissuto. Non sapeva perché ma, se lo sentiva nella pelle, nelle ossa. C’era qualcosa, qualcosa di strano, che le sembrava provenire dalla terra. Una terra lontana da Bosco Atro, una terra sofferente che era stata la casa di mille battaglie. Ma non poteva essere vero, lei non aveva mai visto questa terra. Ultimamente anche per lei era tutto molto strano. Si sentiva scombussolata e, quando toccava una foglia, le sembrava di poter sentire la vita scorrerle all’interno. Scosse il capo e poggiò una mano sul capo del fratello Rìnon, iniziando ad accarezzarlo come faceva quando erano piccoli. Leron, intanto, era andato a prendere un’altra sedia e vi si era seduto davanti a loro.
« Cosa ti turba, fratellino? » Domandò lei, continuando a far passare le dita fra i capelli del ragazzo.
« Ho scoperto una cosa… Qualche pomeriggio fa, Cuinië mi ha detto delle cose… » 
Nella mente della giovane tornò l’immagine della giovane cerva bianca stesa a terra, sanguinante. Rivide i suoi occhi pallidi, la pelle di porcellana, i capelli rossicci e la mano che si teneva premuta sulle costole dove poco prima lei l’aveva ferita. Scrocchiò le nocche per alleviare la tensione e si beccò uno sguardo d’ammonimento da Leron. Sapeva che non sopportava quando lo faceva, ma lui non poteva darle ordini, come non poteva nessun’altro.
« Illuminaci con questa scoperta, allora, fratello. » Ironizzò Leron, poggiando il mento su una mano conf are annoiato. Gli occhi chiari fissi sul gemello che pareva essere stato congelato sul posto.
« Leron. » Lo riprese la sorella usando un tono severo. Purtroppo, però, adorava quando i fratelli si punzecchiavano fra loro e perciò non poté fare a meno di sorridergli.
« Ah ah ah, sei la simpatia fatta a persona, fratello », sibilò di rimando Rìnon, staccandosi la mano della sorella dalla nuca. « Comunque parlo sul serio. Non avete notato che, ultimamente, mamma è più… schiva? Parla di meno e evita tutti. Ogni tanto, la segue e noto che si chiude in questa stanza con la cerva e il nonno, e papà. Ho origliato… »
« Hai origliato una conversazione privata? » Leron sembrava sconvolto. Sin da piccoli il nonno e i genitori avevano insegnato a tutti loro che ascoltare discorsi privati era segno di mancanza di rispetto. E Haldir, loro fratello maggiore, glielo ripeteva sempre. Sinceramente, Leron era d’accordo con loro. Non gli andava a genio l’idea che, tutto d’un tratto, il fratello gemello iniziasse a spiare i genitori. Insomma, che cosa avrebbero mai potuto nascondere loro? Che tipo di anestetico usava la madre quando curava i malati a Gondor, prima di incontrare papà? Oppure, come si comportava quando qualcuno le diceva che c’erano altri morti da sotterrare? Proprio non capiva cosa potesse importare a Rìnon di queste cose.
« Mi immagino di cosa avranno parlato, anzi su cosa avranno litigato, mamma e nonno. » Intervenne Elanor osservandosi le unghie. I bracciali di metallo sul suo polso sinistro tintinnarono e brillarono contro la luce delle fiamme. « Quei due hanno sempre da battibeccare; neanche ci fosse sposato. » Una leggera risata soffiata lasciò le sue labbra piene.
« Ma no, non è questo di cui parlavano… e poi, litigano sempre perché, alla fine, si divertono. » Rispose Rìnon, spintonando leggermente la sorella. Poi, si fece cupo in volto e poggiò un gomito sul bracciolo d’oro della sedia, sostenendo la fronte con le dita. « Parlavano di un’ombra, e mamma sembrava alquanto preoccupata. Non ho mai sentito la sua voce così… così strana. Sembrava avesse paura di dover far riemergere cose dall’oscurità. »
« “Far riemergere cose dall’oscurità”, sul serio? » Leron alzò le sopracciglia. Il fuoco danzava sul suo viso, creando ombre sui suoi zigomi alti e ben definiti.
« Si. L’ho sentita parlare dei “guardiani” e poi se l’è presa, inveendo, con Cuinië e una certa donna di nome Aldëa. » Il giovane principe si passò una mano fra i capelli, scompigliandoseli.
Guardiani, ho già sentito questo termine prima d’ora, si disse Elanor. Poi una lampadina si accese nella sua mente e scattò in piedi; gli occhi aperti come due fanali. I due fratelli minori l’osservavano incuriositi e spaventati da quella strana reazione, in attesa che parlasse.
« Abbiamo già sentito questo termine, Leron. Quando la cerva si è trasformata e ha guardato il nonno. Lei… lei aveva detto qualcosa riguardo a un certo oracolo e dei guardiani, e un’ombra. Come faceva quella dannata cosa… » La principessa si poggiò una mano sul volto e strizzò le palpebre, come se quel gesto potesse aiutarla a ricordare. « Ah si, ecco: “La guerra incombe e divampa il fuoco. Esplode il ghiaccio e la terra trema. Il vento oscura il sole e l’Ombra risorge. La guerra incombe, i guardiani ritornano. Il sangue cola sul terreno, i sigilli si spezzano. La guerra incombe”. »
« La poesia di Cuinië, e allora? »  Domandò scombussolato Leron. Non capiva cosa quella poesia c’entrasse con tutta la storia. Si grattò una guancia e attese che la sorella, che in quel momento lo guardava torvo, gli rispondesse.
« E tu dovresti essere quello intelligente, vero? » Chiese retoricamente lei, avvicinandosi al fuoco del camino. I lunghi capelli castani le ricaddero in morbide ciocche su viso e collo, regalandole un aspetto più giovane di quello che già aveva. Elanor era più grande dei due gemelli, ma a volte la sua innocenza, quella che trapelava nei momenti passati fra loro come quelli, usciva fuori. « E se non fosse stata una poesia, ma una profezia? Se la ragazza cervo non intendeva spaventare il nonno ma avvisarlo…? »
« Avvisarlo di cosa? » Sussurrò catturato Rìnon.
« Avvisarlo che qualcosa di pericoloso sta tornando. » Ora lo sguardo di Elanor era duro, freddo e indistruttibile come il diamante. Non c’era più niente che poteva ricondurre all’innocenza di poco fa.
« Ma questo è… » ridicolo. Leron non poté completare la frase perché, prima che le sue labbra iniziassero a scandire una parola, un ruggito fece tremare l’intero palazzo. Elanor poggiò le mani alla mensola del camino, rovente, e si scottò. Con un urlo si staccò da essa e indietreggiò fino alla finestra dove si fermò a osservare il bosco. In lontananza due grosse sagome si avvicinavano. Le grandi ali che fendevano l’aria e i ruggiti che smuovevano il terreno.
« Cos’è stato? » Domandarono all’unisono i due gemelli.
« Draghi. » Rispose freddamente la sorella.
 
Eccomi, scusatemi il ritardo ma ho avuto molto da fare e il computer non voleva salvarmi il capitolo (le ragazze su whatsupp lo sanno bene, visto le volte che ho inveito contro il mio computer).  Ora corro via, ho da fare.
I hope you like it.
Baci,
 
Isil.

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Capitolo 8
*** Ruggiti. ***


Storia d’inverno.
 


Così lontana, per così tanto tempo.
 
Nickelback.

 


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Spostai lo sguardo oltre le tende, facendolo vagare sulla foresta ormai spoglia. Grandi tronchi d’albero s’intrecciavano fra loro e i molteplici rami creavano nodi così intricati che la luce passava a malapena nelle strade sottostanti, rendendo l’aria soffocante. Lo sapevo bene, perché c’ero stata poco prima per una passeggiata. Avevo deciso di uscire per schiarirmi le idee, ma l’inverno imminente e il freddo avevano solo peggiorato le cose. I miei pensieri si erano congelati su poche e semplici cose: Fanie e il suo viaggio, Turon, e il loro ritorno… e Sauron. Negli ultimi giorni mi capitava spesso di pensare a lui, sebbene sapessi che era sbagliato e privo di senso. Non avrei dovuto più ricordarlo, ma non riuscivo a farne a meno. Era come se, dentro di me, stesse rinascendo quella sensazione provata tempo fa; quei sentimenti morti con lui iniziavano a tornare a galla. Mi sembrava stessero crescendo insidiandomisi all’interno. Ma il perché non riuscivo proprio a capirlo. Ero bloccata su di lui, e non riuscivo a togliermelo dalla testa. Scuotendo il capo, allontanai gli occhi dalla finestra tornai a specchiarmi; le mie dita si avvolsero attorno a una delle tante spazzole che avevo. Iniziai ad strigarmi i capelli lunghi, troppo lunghi rispetto agli anni passati; mi arrivavano alle cosce adesso, quasi fossero quelli di un elfo. Avevo capito da tempo, ormai, che la vecchia me e le sue avventure –quelle dove poteva non pensare alle conseguenze e agire- era scomparsa, e che tutto era cambiato. Ogni cosa era divenuta così… statica. Noiosa. Monotona. Mi mancava correre a cavallo, impugnare una lama e sentire il calore del fuoco che si diramava dentro le vene; mi mancava non dovere nascondere il mio vero “io”. Avrei voluto che tutto tornasse come allora, solo per riuscire a ricordare cosa si provava a essere me; quella me libera da ogni costrizione famigliare, o regale. Quella giovane ragazza di diciotto anni che correva senza tregua, teneva testa agli uomini e lottava con l’astuzia invece che la forza. Mi mancava ogni cosa della mia vita passata… persino i momenti brutti. Poggiai con furia la spazzola sulla cassettiera e, con sorpresa, constatai che il manico era bruciato e annerito. Se fossi andata avanti così avrei perso il controllo, e incendiato ogni cosa. Dovevo trovare il modo di scaricarmi, lontano da occhi indiscreti e senza creare danni. Lanciando uno sguardo alla porta, per accertarmi che fosse chiusa a chiave, mi alzai e corsi a chiudere le tende. La stanza da letto cadde in uno stato di semioscurità; le coperte verde smeraldo brillavano un poco contro i raggi del sole che riusciva a sorpassare la tenda; i vestiti gettati sulle sedie, invece, erano bui e scuri. Chiusi gli occhi e rilassai i muscoli, mentre una patina rossa andava a coprire il buio sotto le mie palpebre. Tutto era silenzioso, tranne il fuoco che scoppiettava nel camino. Dilatai la mia mente e mi concentrai sul sangue dentro le mie vene, caldo e denso. Poco dopo, il calore divenne tale che sentii i palmi bruciare e, inconsciamente, sorrisi. Sentivo il fuoco crescermi dentro, espandersi come una falò e scaldarmi. La legna nel camino smise di scoppiettare; e quando aprii gli occhi vidi che era perché il fuoco fluttuava in un circolo difronte a me. le fiamme rosse, gialle e arancioni brillavano nel buio rischiarando ogni cosa; gettando ombre eleganti sui mobili e i vestiti. Allungai una mano a toccarle e loro si arrotolarono fra le mie dita, risalendo per il braccio fino a che non raggiunsero il collo. Stavano su di me come una sciarpa morbida e famigliare. Una leggera risata mi scappò dalle labbra quando una fiamma mi solleticò l’orecchio; poi portai una mano sulla clavicola ed ecco che queste presero a volteggiare sulle dita, allontanandosi dal mio collo. Le feci volteggiare elegantemente su entrambe le mani, godendomi il loro calore e la loro carezza. Sentivo finalmente che qualcosa stava cambiando; dentro di me era come se un macigno si stesse spezzando per poi scomparire. Nemmeno venti minuti che avevo ricominciato a usare i miei poteri e già mi sentivo meglio. Quando poi capii che era arrivato il tempo di tornare alla mia monotona vita, allungai di scatto il braccio destro verso il camino e le fiamme volarono velocemente lontane da me; erano ormai a pochi metri dalla cappa e la legna quando si bloccarono a metà strada, esplodendo in un fungo di luce, scintille e fumo. Mi riparai il viso con le braccia, mentre coriandoli di fuoco ardente scivolavano ovunque, iniziando a turbinare difronte a me con velocità tale da creare raffiche di vento. Arretrai di qualche passo, finché la cassapanca ai piedi del letto non mi costrinse a bloccarmi. Una voce potente si alzò nell’aria, rimbombando e svanendo di tanto in tanto.
« L’ombra non avrà pietà di te, guardiana. La tua vita è appesa a un filo. » Le parole mi colpirono dritta al cuore, ferendomi come aveva fatto la lama di una spada venticinque anni fa. Il cuore mi correva nel petto come un cavallo impazzito; il sangue pulsava nelle mie orecchie; e mani pallide tremavano mentre sentivo uno strano peso al cuore. « La tua gloria sarà la tua rovina. Molti cadranno a causa tua, guardiana. Ti mostrerai per quello che sei veramente. Ucciderai tutti quelli per cui hai combattuto. » La voce si ridusse a un sussurro, finché non svanì nel nulla e le fiamme si gettarono nel camino, taciturne.
Poggiai una mano sul cuore, sedendomi sulla cassapanca di legno liscia e fredda. Sbattei più volte le palpebre, dandomi pizzicotti con la mano libera per accertarmi che quello non fosse un sogno. Ma doveva esserlo. Le fiamme non parlavano, non potevano. Mi ero immaginata tutto, sicuramente; stavo impazzendo. Era l’unica risposta. Poggiai i palmi sugli occhi e spinsi finché svariate macchie colorate iniziarono a crearsi davanti ai miei occhi; passai, poi, le dita fra i capelli e tirai leggermente gettandomi all’indietro, sul letto. Il materasso si piegò sotto il mio peso, accogliendomi fra le sue braccia morbide e calde. Sospirai. Sto impazzendo, è tutto quello che riuscii a pensare prima che la porta si aprisse. Togliendomi le mani dai capelli, voltai il viso verso l’uscio e osservai Legolas entrare silenziosamente in camera, richiudendo la porta come se fosse fatta di ceramica. Aggrottai le sopracciglia e alzai il busto, tirandomi indietro finché anche le gambe non furono sul materasso; le incrociai.
« Qualcosa non va, caro? » Le spalle dell’elfo ebbero un sussulto. I capelli biondi frusciarono contro la tunica verde quando si voltò a guardarmi; gli occhi azzurri spenti. Mi accigliai un poco e con uno scatto fui subito al suo fianco. Poggiai le mani sul suo viso pallido, più del solito –come se avesse visto un fantasma- e gli accarezzai le guance. La pelle era fredda, congelata al tatto, e le labbra rosse. Riuscivo a sentire il suo cuore battere forte. « Legolas. »
« Non è nulla, tesoro. Solo un po’ di stanchezza. » Mi sorrise solamente, nascondendo le mie mani sotto le sue e mi baciò con leggerezza, prima di allontanarsi. Rimasi ferma accanto all’entrata, con i piedi nudi che toccavano il pavimento di legno freddo; i miei occhi scuri che lo seguivano in ogni punto andasse.
« E’ stato tuo padre, vero? Avete litigato ancora, non è così? » Udii la mia voce alzarsi di varie ottave mentre gli rivolgevo tutte quelle domande. I suoi occhi trovarono i miei; vi lessi ogni cosa. Non c’era bisogno che mi rispondesse per affermarmi che era così; che aveva litigato per le condanne troppo dure emanate da Thranduil e il modo in cui si comportava ultimamente col nostro… loro popolo; per il modo in cui gli ordinava di allenare i soldati della guardia (giorno e notte); per come aveva praticamente deciso –tagliandoci fuori da tutto- di educare Haldir. Era troppo. Scossi il capo contrariata e mi avvicinai all’armadio, aprendolo con forza. Il profumo di lavanda che vi era dentro mi colpì come una ventata d’aria fresca d’estate, facendomi tossire. Arricciai il naso e iniziai a frugare fra i vari vestiti che avevo, alla ricerca di quello giusto. Volevo tornare ad allenarmi? A essere la guerriera che aveva tenuto testa a Sauron, signore di Mordor? Perfetto. Questa era il momento di farlo.
« El, tesoro, che hai intenzione di fare? » Legolas comparve al mio fianco, gli occhi socchiusi e le labbra semiaperte.
Non gli rivolsi nemmeno un’occhiata, impegnata com’ero nella ricerca dei miei abiti. L’adrenalina già scorreva nelle mie vene; la sentivo irradiarsi in tutto il corpo. La stoffa pregiata degli abiti strusciava contro la mia pelle, facendomi solletico di tanto in tanto; ma non potevo deconcentrarmi. Quando finalmente qualcosa brillò contro la luce del sole – le tende erano state riaperte da Legolas - sorrisi. Allungandomi verso il fondo dell’armadio, raccolsi fra le braccia i vestiti “da combattimento” e li gettai sul letto. L’elfo biondo ancora mi osservava, ma sembrava aver capito cosa avessi in mente perché si gettò in avanti e strinse fra le braccia la pila di abiti. Lo fulminai con lo sguardo e allungai una mano per prenderli, ma lui si ritrasse.
« Tesro… El, lascia stare mio padre, ok? E’ solo… »
« Un egocentrico vecchiaccio, che crede di poter fare quello che vuole solo perché ha una corna stile la “la principessa e il ranocchio” e “Raperonzolo”, messe assieme, in testa? » Sibilai furiosa, riuscendo finalmente ad afferrare un paio di pantaloni neri; li infilai da sotto il vestito e lasciai che aderissero alle mie gambe come una seconda pelle. La loro comodità, pensai. Avevo dimenticato quanto fossero comodi.
« Tu sai che io non ho idea di che diavolo tu stia parlando, si? » Rassegnatosi all’idea di tenermi lontana dal vestiario, mi prose una camicia e si passò la mano libera sul volto, mentre con l’altra sosteneva ancora il corpetto di pelle morbida. Gli rivolsi un’occhiata interrogativa, che tratteneva tutte le domande e le affermazioni sarcastiche che avrei voluto fargli. Così, prima che potessi realmente parlare, lui aggiunse: « Non credo che dovresti farlo, El. Insomma: mio padre è il re e, per quanto possa sembrarti severo, ha tutte le ragioni per esserlo. Ne ha passate tante e…  tu non potresti capire. » Oh, lo so cos’ha passato, credimi.
« Anche tu ne hai passate tante, Leg; ma non mi pare che tu sia diventato come lui. » La mia voce era tagliente e non ammetteva repliche.
« Sei mai scappata dal male facendoti del male, El? » Mi sussurrò a un tratto lui, con la voce leggera come una piuma.
Sbattei le palpebre sorpresa e mi voltai a guardarlo: gli occhi azzurri erano lontani, freddi come il ghiaccio del Polo Nord. Socchiusi le labbra e, proprio mentre ero in procinto di rispondere, ammutolii. Si, avrei voluto dirgli. Si, sono scappata dal male facendomi del male. Ho lasciato andare, ho lasciato che uccidessero, l’uomo che mi ha ferita ma che in qualche modo mi ha saputa confortare. L’ho visto spegnersi davanti a me, con lo sguardo che mi implorava di perdonarlo. So che sono stata il suo ultimo peccato; un peccato che l’ha ripudiato, e mi sento in colpa ogni giorno per non avergli almeno stretto la mano mentre la vita l’abbandonava; per non avergli detto che io avrei potuto perdonarlo, nonostante tutto il male che mi aveva fatto. Nonostante tutto. Io l’avrei perdonato… Perciò, la risposta alla tua domanda è si. Sono scappata dal male facendomi del male.
« Io… Hai ragione, scusami. » Slegai i lacci che tenevano fermo il vestito e lasciai che questo ricadesse a terra; in una pozza di stoffa rossa ai miei piedi, simile a sangue. Indossai velocemente la blusa bianca dandogli la schiena; Legolas sospirò, e quel sospiro mi fece tremare dentro. Dio, se solo avessi potuto dirgli tutto quello che mi passava per la testa; come mi sentivo; la voce che avevo udito poco prima che lui entrasse.  Senza mai distogliere lo sguardo da lui, passandomi le mani fra i capelli, allungai una mano e strinsi la blusa fra e dita; era fredda al tatto e odorava di lavanda. La infilai con velocità e scossi le spalle. La stoffa morbida ondeggiò sulla mia pelle risvegliando in me ricordi passati. Presi un bel respiro. « Allora, sto ancora bene con questa… divisa? »
« Sei bellissima oggi, come allora. » Mi accarezzò una guancia con dolcezza, e io mi beai di quel gesto d’affetto. Gli sorrisi, gettandogli le braccia al collo prima di baciarlo. Le sue labbra sottili sfiorarono le mie, e un fremito mi percorse la schiena. Una delle mani di Legolas si spostò sul mio collo, tirandomi più vicina, mentre l’altra si bloccò poco sopra il mio fondoschiena. Sorrisi nel bacio, poi ci allontanammo.
« Quarantatré anni e non sentirli » sdrammatizzai divertita, dopo che ebbi infilato Orcrist nel fodero. L’avevo recuperata poco prima che io e Fanie riuscissimo a scappare da Mordor, durante la sua caduta, e ora riluceva come non mai. L’impugnatura brillava contro la luce del sole, mettendo in risalto i disegni e le pietre preziose sulla lama e sull’elsa.
« Bhe, io ne ho mill… »
« Infatti sei vecchio. » Lo bloccai subito, dirigendomi verso la porta. « Un vecchio decrepito », e gli feci la linguaccia.
« Sei impossibile », sospirò, alzando gli occhi al cielo. Nel mentre, avevo stretto ai piedi gli stivali alti e ne stavo tastando la suola, sbattendoli ripetutamente sul pavimento di legno che faceva rimbombare tutto.
« E’ per questo che mia ami » gli ricordai; poi aprii la porta.
Una leggera folata d’aria fresca mi solleticò il collo, facendomi venire la pelle d’oca. Inspirai profondamente, ricordandomi cosa stessi indossando e rientrai. Non potevo farmi vedere dai miei figli vestita così. Dovevo proteggerli dal mio passato, non dovevano sospettare nulla di me. richiudendomi la porta alle spalle, sfilai Orcrist dal fodero e la riposi con cura sulla poltrona; mi svestii, piegando con attenzione gli abiti, e li riposi tutti nell’armadio. Legolas mi aiutò successivamente a indossare un lungo abito di seta rossa, dalle maniche larghe in fondo e le decorazioni in filo d’argento.
« Prima o poi dovremmo dirglielo, sai?  » Mi chiese a un tratto l’elfo, mentre finiva di allacciare i bottoni sulla mia schiena.
Non potevo nemmeno immaginare che l’avesse pensato; riesumare il nostro passato era troppo pericoloso. Conoscevo i miei figli, sapevo che avrebbero voluto sapere sempre di più e che poi si sarebbero cacciati in ogni genere d’avventura possibile rinfacciandomi la mia vecchia vita ogni volta che c’è ne sarebbe stato bisogno. No. Non se ne parlava proprio di raccontargli tutto, meglio se fossero rimasti all’oscuro di goni cosa; come Legolas sarebbe dovuto rimanere all’oscuro riguardo la voce di poco prima.
« Meglio che non sappiano nulla; sono più al sicuro, se non scopriranno niente. » Mi allontanai da lui dirigendomi ancora una volta alla porta.
« Ma, El: non potremo nasconderglielo per sempre. »
« Allora, lo nasconderemo fin quando sarà possibile. Non intendo mettere al corrente i miei figli di quanto accadde venticinque anni fa, Legolas. » E uscii dalla stanza con velocità; in testa un unico obbiettivo: trovare Cuinië.
 
 

*   *
 
 


Il vento le sferzava il volto, facendole finire i capelli argentei sugli occhi e nella cicatrice. L’aria la sferzava, accarezzando i quattro tagli seghettati che le percorrevano il volto dalla fronte fino alla fine della guancia destra. All’inizio, quando la cicatrice stava iniziando a rimarginarsi, Fanie non si era nemmeno voluta guardare per paura di spaventarsi alla sua stessa vista; aveva paura di se. Ma, dopo tanti anni ormai non ci faceva più caso, quei tagli erano parte di lei. Ovunque andasse la gente la osservava curiosa: sia per le orecchie a punta ornate da molteplici orecchini, sia a causa della sua dragonessa, sia per la cicatrice. Quando qualcuno, dopo essersi fatto coraggio, le si avvicinava per chiederle come le era stata procurata lei l’osservava dall’alto in basso rispondendo, semplicemente: « I cani selvatici del Nord sono dei bastardi. » e poi se n’è andava. L’elfa bianca accarezzò il collo di Armë, beandosi della freschezza delle sue squame, prima di voltare il capo verso il fratello che volava al loro fianco.
« E così, tu saresti uno dei guardiani dei Valar? Ma… com’è possibile? » Gridò, per sovrastare gli schiocchi del vento, che lassù tirava alto, e le frustate che creavano le ali di Turon e la dragonessa muovendo le ali. Turion si voltò verso la sorella, gli occhi di ghiaccio brillavano come diamanti preziosi; i capelli, tanto biondi da sembrare argentei, danzavano nell’aria creando un groviglio luccicante. Per un attimo, lo sguardo felino di Turion balenò contro le nubi del cielo grigie, poi si disperse; tornò a voltare la testa in avanti e sorridere, come per prendersi beffe di Fanie. « Ti puoi degnare di rispondere, oppure devo estorcerti le informazioni con la forza? »
« Oh, sorellina. » Con una nube alle calcagna, Turion si avvicinò a Turon e si sdraiò sul suo dorso. « E’ tutto molto complicato, ne parleremo con calma quando avremo tempo. » Fanie gli lanciò un’occhiataccia, prima di tornare a guardare il collo dorato della sua dragonessa.
Sapeva che Turion non gli avrebbe mai detto nulla; perché gli piaceva l’idea di apparire come “il tipo misterioso” della situazione. Era sempre stato così, e sempre sarebbe rimasto tale. Ripensandoci, le riaffiorarono nella mente le immagini di un Turion bambino, con i capelli bianchi e gli occhi di un azzurro tendente al viola; il sorriso sempre presente sulle labbra rosee; qualche lentiggine su naso e guance. Ricordò la sua risata cristallina, alta e giocosa. Sorrise, ricordandosi del fratello che metteva in atto tutte gli scherzi più ridicoli per farla ridere. Sorrise, dopo tanto tempo.
Ma… ricordò anche Sauron.
Sauron, con i suoi occhi azzurri/verdi e i capelli di un biondo oro; Sauron, che la portava a cavalluccio ovunque lei volesse andare; Sauron, che assieme a Turion, la faceva ridere e la difendeva dagli altri. Sauron… che si alleava con Morgoth. Sauron, che dichiarava guerra all’intera Terra di Mezzo. Sauron, che moriva, per colpa sua. Ingoiò un fiotto di saliva e scacciò quelle immagini dalla mente, il più velocemente possibile. 
« Allora, sorella, parlami di questa Isil. Da quello che siamo riusciti a sapere dai piani alti, tu e lei eravate amiche. »
L’elfa si voltò a guardare il fratello e sbuffò. Lei doveva dirgli ogni cosa e lui no, questa cosa non le stava bene. Ma rispose ugualmente, perché infondo era ansiosa di sapere che cosa si ricordava di El dopo tutti quegli anni passati lontani. « Lei era - è - strana. Ogni tanto capitava che parlasse con il gergo mondano della sua terra natia –lascia che ti dica che alcune parole e alcuni oggetti sono davvero strani-, ma era una brava ragazza. Aveva qualche problema a contenere la rabbia…forse più di uno. Una volta, ricordo, è stata soggetta ai raggi della luna rossa e c’è mancato poco che uccidesse quello che ora è il padre dei suoi figli », una risata abbandonò le sue labbra piene, disperdendosi nel vento gelido dei primi giorni invernali. « Per quanto mi ricordo di lei, ha un gran cuore ed è cocciuta; e quando si arrabbia preferirei non essere nelle vicinanze. Oh, ecco la Bosco Atro. » Una strana gioia si insinuò nel suo petto. Stava tornando a casa e questo la rendeva inesorabilmente felice.  Si adagiò sul collo di Armë, circondandolo, per quanto le era possibile, con le sue braccia. La ferita sull’occhio sinistro entrò in contatto con le scaglie dorate e il bruciore, che fino a poco prima aveva pizzicato la faccia della giovane elfa, si attenuò. Stava andando a casa.
Era a casa.
Sotto i due possenti draghi si estendeva l’immensa foresta di Bosco Atro, resa spoglia dall’inverno imminente. Ciò nonostante, dagli alberi ancora saliva il consueto profumo di vita, sottobosco e bacche. Le era tutto così famigliare, tutto così… confortevole. In lontananza riusciva già a vedere il grande albero dove sorgeva la sala del trono di Thranduil; dietro c’era una diramazione lunga e lucente del palazzo, dove stavano le varie stanze da letto, le biblioteche, la sala da pranzo. Si domandò se Thranduil tenesse ancora quelle orrende teste impagliate attaccate ai muri di quella sala; di cui ora riusciva a vedere le vetrate dove le nuvole si riflettevano, come inchiostro sulla tela di un pittore. Inspirò l’aria fredda che si levava in alto e rise, per liberarsi dal peso che fino a quel momento non si era accorta di avere sullo stomaco. I draghi le fecero eco con i potenti ruggiti.
 



Eccoci qui, bellezze :3
Tutti tornano a casa, evvai (?) Che ne dite di questo capitolo?
Colgo l'occasione per ringraziare VIVIANA, che mi sopporta da ben 2 anni, per aver fatto queste splendide manip (le prossime le metterò negli altri capitoli). E ringrazio tutte le altre (Giulia, Laura, Paola & Chiara) che come lei sopportano i miei scleri ^-^
E a te, che stai leggendo: GRAZIE. Anche se sei un lettore silenzioso, apprezzo il fatto che visualizzi ^-^

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Capitolo 9
*** This is war. ***


Storia d’inverno.
 


“Stai diventando quello che hai sempre odiato.”
 



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“Oh no, Dio. Non farmi questo ora Signore, ti prego.”, era tutto quello che riuscivo a pensare. 
Difronte a me, due grosse figure alate volavano sopra la foresta di Bosco Atro ruggendo; facendo tremare la terra e oscurando il sole già nascosto fra le nubi grigie. I cani al mio fianco abbaiavano e ringhiavano, inutilmente. Nulla avrebbe spaventato le due macchine da guerra che si muovevano nella nostra direzione. Mi passai una mano sul viso e rabbrividii, non mi ero accorta di quanto fossi fredda.
Tùron, questo sarà il tuo ultimo giorno di vita. Parola mia! Sibilai mentalmente al drago.
Non mi giunse risposta, ma sentii la sua risata soffiata rimbombarmi nella mente. Per ben venticinque anni ero riuscita a nascondere la verità ai miei figli e ora lui era arrivato così senza nascondersi, senza prendere precauzioni com’era nei nostri accordi. Aveva rovinato ogni cosa. Il sangue del mio sangue mi avrebbe marchiato come bugiarda. La cocciutaggine dei miei figli li avrebbe portati ad allontanarsi da me, ripudiandomi come madre ed etichettandomi come traditrice. Per anni gli avevo fatto credere di non essere stata altro che una semplice ragazza che curava i feriti prima di incontrare Legolas. Un’innocua, fragile ragazzina che non sapeva impugnare un’arma; e invece avevo combattuto contro Sauron ed ero arrivata a ucciderlo, e avevo anche delle cicatrici come prova. Mi avevano sempre vista come la donna che aveva fatto di tutto perché Elanor, la cocciuta e impulsiva figlia, non toccasse una arma. E, sebbene ci fossi riuscita, lei aveva imparato a usare solo l’arco; in parte perché avevo minacciato gli allenatori. « Una sola arma che assomigli alla spada, o sia una spada. Una sola arma che possa fargli un graffio come questo, una sola cicatrice», gli avevo detto, mentre mostravo le mie cicatrici, « e la vostra vita finisce qui. Vi taglierò la gola, come se fosse fatta di burro. » E me n’ero andata.
Elanor non aveva mai impugnato una spada, a contrario dei suoi fratelli.
« Mia signora! Mia signora, Isil! Si allontani, è pericoloso! » Una guardia mi serrò la mano attorno al braccio e mi spinse indietro, facendomi inciampare e cadere su una delle povere bestie da caccia di Elanor. Altre due mi aiutarono a rimettermi in piedi, ma io le allontanai con uno strattone furioso.
Spazzolandomi le maniche del vestito, sporche di polvere e terra, mi feci avanti colpendo di proposito la guardia che mi aveva gettata a terra. L’elfo ricadde all’indietro, nel fango, sporcandosi la corazza d’orata . Il cuore mi batteva forte nel petto, probabilmente per l’adrenalina e la foga del momento, mentre mi allontanavo dall’entrata del palazzo. Tùron, con quel suo colore nero rossastro riluceva persino ora, che le nuvole se n’erano andate, e, sebbene lo stessi odiando, non potevo fare a meno di pensare a quanto mi fosse mancato. Due anni erano passati dal nostro ultimo incontro. Due anni che mi erano parsi un’eternità. Alle mie spalle potevo udire i tintinnamenti delle corazze delle guardie e dei passi più veloci, probabilmente quelli di Legolas e la cerva. Thranduil e… i miei figli. Presi un profondo respiro e continuai ad avanzare a testa alta, mentre una folata di polvere si alzava dal suolo. L’onda, provocata dalle ali dei draghi che stavano atterrando, m’investì in pieno costringendomi a chiudere gli occhi e porre una mano sul viso per non respirarla.
Contenta di vedermi?, domandò una voce a un tratto. Repressi un sorriso e mi piazzai di fronte a Tùron e Armë che, da quando non l’avevo più vista, aveva assunto delle tonalità biancastre sopra l’oro delle squame. Congiunsi le mani al ventre e piegai leggermente la testa verso destra, in attesa che qualcuno si facesse vivo. Fanie.
« Madre! Madre, è pericoloso, allontanati da quelle bestie! » Le urla spaventate di Elanor rimbombarono nella foresta, nascondendosi e correndo fra gli alberi.
Alzai una mano per fermare Haldir che, sapevo, stava correndo verso di me; mentre Legolas e Thranduil trattenevano i gemelli. Tutt’attorno, l’aria era divenuta elettrica e carica di tensione, mentre un vento freddo aveva cominciato a levarsi da nord. Lasciai che mi accarezzasse la pelle esposta, che facesse volare i miei capelli serpenti. Poi, ripresi a camminare e mi fermai proprio di fronte al drago nero, sorridendogli con il cuore colmo di gioia.
« Mai stata più felice. » Risposi a Tùron, e lasciai che il suo alito caldo mi avvolgesse mentre provavo ad abbracciargli il muso. « Due anni. Due anni dal tuo ultimo arrivo. Si può sapere he fine avevi fatto?  »
Sono stato impegnato. Arda aveva bisogno di me più di quanto tu creda, guardiana.
« Dunque, tutti gli occhi ai draghi e nessuno per me? » La voce vellutata di una donna danzò nell’aria, cullata dal vento.
Dovetti attendere qualche secondo per percepirla, prima di voltarmi e socchiudere le palpebre. Le nubi ancora oscuravano il sole, gettando su ogni cosa colori scuri, grigi; le foglie degli alberi fremevano contro il vento, sibilando.  C’era aria di tempesta. Una di quelle tempeste che si abbattevano su Arda con fragore, con piogge fitte e temporali maestosi; con tuoni e fulmini che illuminavano il cielo nero e facevano tremare la terra. Ma lei non veniva sminuita da tutto questo. Fanie se ne stava con la schiena ritta e i capelli argentei che volavano oltre le sue spalle, come illuminati dalla luce delle stelle assenti. Quella luce che, però, lei odiava. La pelle bianca brillava, gli occhi di ghiaccio allegri e la bocca piegata in un sorriso. Piegò leggermente la testa di lato e, una ciocca di capelli che prima le era ricaduta sul volto volò via, mostrandomi una cicatrice. Quattro grossi tagli si estendevano sul lato destro della sua faccia:  partivano dalla tempia e scendevano giù, lugubri e seghettati, fino alla fine della guancia. Mi stupii che non fosse divenuta ceca da un occhio mentre le andavo incontro, sempre più veloce con il vestito stretto fra le mani per non inciampare. Quando la strinsi fra le mie braccia e lei contraccambiò, tutto parve scomparire. Che importanza potevano avere quei dettagli? Lei rimaneva Fanie, la ragazza che aveva ucciso il fratello per salvare Arda. La donna che mi aveva aiutato a partorire Haldir.
Una mia amica.
« Mi sei mancata così tanto! » Esclamai, allontanandomi leggermente per guardarla meglio.
I muscoli asciutti delle sue braccia erano ancora ben allenati, a contrario dei miei che avevano perso forza da anni. Fare la madre aveva reso il mio carattere più forte e attento, ma il mio copro ne aveva risentito. Le accarezzai la guancia sana e ancora la tirai a me, stringendola forte. Profumava di rose e violette, e vento. Di libertà; quella a cui avevo rinunciato quando avevo dato alla luce Haldir. Non che lui mi avesse reso infelice, era mio figlio e come tale lo amavo, come amavo El e i gemelli; ma questo non significava che, di tanto in tanto, non avessi il desiderio di lasciare tutto e tornare a impugnare una spada, o usare il fuoco che avevo a disposizione dentro di me. Eppure, li amavo troppo per lasciarli. Tutti loro.
« Guardati, non sei cambiata di una virgola. » Sussurrai, più a me stessa che a lei.
« Si, beh, a parte questa », rise indicando la cicatrice. Poi, mi analizzò con occhio critico e qualcosa si spense nei suoi occhi, per riaccendersi un attimo dopo. « Tu, invece, indossi abiti da corte ora, eh? Sei uguale ad allora, El. »
« Sono più debole e più cocciuta. » Affermai, guardandola dritta negli occhi.
« Debole, pff. » Rise leggermente, poggiando una mano sulla mia spalla destra, quella dove suo fratello aveva lasciato la cicatrice. « Basterà che tu riprende in mano una spada e la forza tornerà. E poi, il tuo guardiano è qui. » lanciò un’occhiata a Turon che, assieme alla dragonessa, aveva assunto una posa regale che lo rendeva più imponente. « Quando siamo assieme, guardiani e custodi, si è più forti, non è così? » Si passò una mano fra i capelli e li risistemò sulle spalle, come uno scialle d’argento. Non aveva mai perso il sorriso.
« Hai ragione, Fanie. » Mi passai una mano sul viso, mentre con la testa ero tutt’altro che in quel luogo. Stavo pensando alle facce dei miei figli, di Legolas e Thranduil.
Già, Thranduil. Chissà come aveva preso il ritorno di Fanie? Con quale spirito, questa volta, avrebbero iniziato a battibeccare fra loro? Pensandoci mi scappò un sorriso sincero; poi, tornai seria quando intravidi, ancora una volta, quella scintilla negli occhi dell’elfa spegnersi. Ingoiai un fiotto di saliva, sperando che le immagini nella mia mente si acquetassero. Fanie non aveva mai perso il sorriso, ma qualcosa la tormentava dentro.
« Non sei qui per una visita di cortesia, vero? » Mi ritrovai a domandare.
Lei sospirò, come se gli avessi tolto un peso dalle spalle e si morse il labbro. Ai miei occhi apparì più vecchia di quanto il suo aspetto ingannasse.
« Io si, ma mio fratello Turion no. » E così dicendo, indicò il dorso di Tùron che ospitava un giovane uomo dai capelli d’argento e la pelle albina.
Chiusi gli occhi per qualche istante e, quando li riaprii, due pozzi di gelido ghiaccio nordico mi stavano osservando, splendidi e letali come i grandi felini africani.
 
*    *
 
 
Il cielo era nero nelle lande di cenere a Mordor. I detriti della fortezza di Sauron erano ancora sparsi, distrutti, a terra; il Monte Fato, in lontananza, non faceva rumore ne faceva risalire i tanto noti fumi neri verso le nubi colorandole di tenebre.  Amdir, colui che veglia, il drago nero violaceo di Gring teneva i suoi occhi scuri ben aperti. Poteva vedere lontano e sentire ogni cosa, proprio come stava scritto nella leggenda che parlava di lui. Ce n’erano molte a ovest, oltre il mare, che parlavano di lui in realtà ma alla fine tutte ripetevano le stesse parole, solo messe in ordine diverso: lui era colui che vedeva e udiva cose che altri non potevano. Colui che, dopo molti anni passati in solitudine, era partito in cerca del proprio guardiano e sarebbe stato testimone di guerre e distruzione. Gring, indaffarato a gioirsi per l’ultima conquista da lui fatta, si gettò a terra alzando una nube di fumo. Amdir l’osservò per svariati minuti, frustando l’aria secca con la potente coda e affilò lo sguardo: in lontananza Aldëa, l’oracolo dei cambia pelle cervi, sedeva con la schiena dritta; i lunghi capelli neri raccolti sulla nuca; il viso mortalmente pallido contornato da pesanti e spesse strisce blu: due su ogni guancia, una sul mento e un punto sulla fronte. Le orecchie a punta da cervo spuntavano sotto la cascata nera, tenute da qualche ciocca. Probabilmente, pensò Amdir, doveva essersi trasformata così tante volte che ormai era divenuta davvero un cervo.
Perché attendere, padrone? Perché non attaccare subito? Abbiamo l’oracolo, possiamo parlare con i Valar e…
« Perché no, amico mio. » Sibilò Gring. Gli occhi neri baluginarono nel buio come quelli di un serpente. « Ora che abbiamo l’oracolo, possiamo mandare messaggi a chi vogliamo, come abbiamo fatto con la nostra cara… guardiana. » Sogghignò. « Siamo invincibili! La paura ti corrode dentro. La paura è l’arma più letale che dobbiamo usare in questo momento. »
Amdir si issò in piedi e socchiusi le palpebre, osservando con occhio vigile il proprio custode. C’era qualcosa in Gring, si disse, che lo spingeva a fidarsi dei suoi piani. Evidentemente tutti quegli anni passati a rigenerarsi, come nulla di più di un’ombra, l’avevano spinto a studiare la propria vendetta con il minimo particolare. Amdir non sapeva il perché di quell’odio nei confronti di Isil, ma avrebbe voluto saperlo volentieri. Tutta via, sapeva quando era il momento di chiedere e quando quello di tacere, e questo era il momento di non domandare. Gring era troppo assorto nei suoi piani, nel suo riuscito tentativo di far profetizzare qualcosa alla cerva anziana che nulla avrebbe potuto farlo distrarre dai suoi gloriosi piani, specialmente una domanda come questa.
Amdir avrebbe atteso. Dopo tutto il tempo, per un drago, era solo una bazzecola.  
 

*   *
 

Turion fece un salto e, con l’agilità di un felino, atterrò a terra. Il vento gelido che si era alzato strisciava fra gli alberi arrivando fino a lui, accarezzandogli la stoffa dei vestiti e scompigliandoli i corti capelli d’argento che gli solleticavano il collo.
Difronte a lui, una giovane donna dallo sguardo freddo e scuro teneva la schiena dritta e le mani congiunte sul ventre; il vestito rosso dai ricami d’oro che le avvolgeva il corpo snello metteva in risalto le sue curve non troppo prominenti, mentre i capelli castani le volavano oltre le spalle, simili a code di serpente; la pelle pallida come la neve spiccava in mezzo a tutta quella stoffa rossa e quel castano. Dunque era quello l’aspetto della letale Isil, la guerriera che aveva amato e combattuto il signore oscuro; che aveva affrontato la luna di sangue e ne era uscita viva; e che aveva dato alla luce i nipoti di Thranduil. Ma più importante: era a donna che i Valar avevano mandato a cercare. Sorridendole come meglio sapeva fare, Turion s’incamminò verso lei e la sorella e quando le raggiunse s’inchinò per qualche secondo. Quando rialzò il busto gli occhi di Isil lo osservavano ancora con circospezione, distanti anni luce dal volergli rivelare i suoi pensieri. Per la prima volta dopo anni e anni, Turion non seppe che approccio usare con una donna. Non seppe cosa dire, come iniziare una conversazione sebbene avesse ben impressa nella memoria ogni parola che Manwe gli aveva detto. Così, si limitò a rivolgere uno sguardo veloce alla sorella e poi uno più lento all’intera corte che si era fermata, curiosa e impaurita a causa dei draghi, alle spalle della guerriera umana. Occhi li scrutavano austeri, elettrizzati, circospetti e curiosi. Sorrisi gli venivano mostrati, a volte smorfie. E occhi ricercavano i suoi, come lui ricercava quelli di una giovane che aveva notato appena poco prima. Lei se ne stava accanto a una giovane elfo alto e allenato che, con la sua mole, metteva in ombra il corpo ben lavorato di lei. Lunghi capelli castani scuro le scendevano sulla tunica azzurra, in tinta con il colore degli occhi, e il volto dai lineamenti dolci aveva un non so che di dolce e temibile al tempo stesso. Stringeva il braccio del giovane elfo biondo fra le mani, come fosse l’unico appiglio a cui poggiarsi. Turion le sorrise, ammiccando persino; poi, quando fece per tornare alle due donne di fronte a lui, i suoi occhi si posarono su un’altra sagoma.  Un giovane elfo dai lunghi capelli castani, talmente scuri da apparire quasi neri; gli occhi di un blu intenso, tendenti al viola e al nero. Era molto fiero, o almeno era quello che il suo portamento trasudava Fierezza. Orgoglio. Voglia di combattere. I loro occhi si incontrarono per più di qualche secondo, poi Turion si voltò verso la sorella e la guerriera. Isil aveva seguito il suo sguardo e quando tornò a fissarlo si accigliò. Gli occhi scuri sotto le sopracciglia fini lo pietrificarono sul posto. C’era qualcosa, in quegli occhi, che lo rendeva tremendamente a disagio.
« Mia figlia soddisfa la tua vista, elfo? » Sibilò debolmente Isil; una frase decisa e corta, con un retrogusto che a Turion sapeva tanto di minaccia.
La giovane guardia dei Valar le sorrise, inchinando nuovamente il capo colto alla sprovvista. Perché le donne devono essere sempre così attente ai dettagli?, si domandò.
« Ti ho sentito », sentenziò la principessa di Bosco Atro. O la regina. Turion non aveva ancora capito quale ruolo avesse la guerriera in quel posto che per sua sorella era “casa”.
Poco gli importava in questo momento carico di imbarazzo. Si era dimenticato che lei, come il principe di Bosco Atro e la sorella potevano leggere nella mente. Non sapeva nulla sugli altri, sulla corte e su Thranduil. Si domandò se anche loro potevano leggere nei meandri dei pensieri altrui e rabbrividì all’istante: come potevano quegli elfi leggere nella mente altrui e non avere risentimenti? Anche lui poteva farlo, come poteva fare milioni di altre cose che quegli esseri non potevano nemmeno immaginare, ma non le aveva mai usate se non per necessità.  
« Mi scusi mia signora. » Sussurrò il ragazzo biondo.
« Mio fratello tende a essere spesso… inopportuno El. Spero riuscirai a sopportarlo per il tempo che resteremo. » S’intromise Fanie, rivolgendo un’occhiata di fuoco a Turion e un sorriso di scuse alla donna.
« A te perdonerei ogni cosa, Fanie, e lo sai. Ora, se volete seguirmi sarebbe opportuno andare a parlare in un posto meno… affollato. »
« Si, hai ragione. » Sorrise la bionda.
« Io ho sempre ragione, no? » Scherzò Isil, prima di lasciare una carezza sul muso del drago che le si era avvicinato. Sussurrò qualcosa all’orecchio dell’animale e lui annuì, guardandola con fierezza e gioia; poi spiccò il volo, seguito dall’altro guardiano. « Allora, vogliamo andare? » 
 

*   *
 
 
Elanor seguì con lo sguardo i due draghi che avevano appena spiccato il volo e poi si concentrò sui nuovi ospiti. Entrambi biondi, con la pelle chiara e gli occhi di un azzurro disarmante, trasparente. Due lame affilate, che non lasciavano nulla al caso. Li studiò mentre seguivano sua madre su per le scale e inorridì nell’osservare che lunghe e cicatrici seghettate correvano sul volto della giovane donna, che pareva molto amica di sua madre. In ogni modo, quei graffi conferivano qualcosa di pericoloso al viso dell’elfa, rendendola temibile e curiosa al tempo stesso; bella, nonostante tutto, grazie ai suoi lineamenti delicati e gli zigomi alti; le labbra rosse che spiccavano sulla pelle diafana. I loro occhi, mare e ghiaccio, si trovarono per qualche istante prima che la giovane scomparisse all’interno del palazzo. Elanor non si perse però l’occhiata che Thranduil mandò alla donna dei draghi, seguendola per tutto il suo percorso. Poi, le passò accanto il giovane. Era un ragazzo alto dalle spalle non troppo larghe, i muscoli lavorati e la pelle pallida; gli occhi simili a schegge di vetro appuntito avevano delle leggere sfumature argentee, del tutto diverse da quelle violacee di sua sorella. O almeno, El pensava fossero parenti. Erano così simili e… belli. Trasudavano sicurezza e forza da tutti i pori e, poi, erano arrivati a cavallo di draghi. Quando anche il ragazzo fu passato, Haldir le lasciò la mano che le aveva serrato fra le proprie per trattenerla dal correre in aiuto della madre. La principessa guardò il fratello e, sorridendogli leggermente per non fargli capire quanto quell’apparizione improvvisa l’avesse confusa, voltò il capo verso il padre. Legolas era ancora sulla soglia e dava ordini a tutte le guardie ammassate innanzi a lui; comandava alle serve di rientrare e rimettersi al lavoro e, quando ebbe finito, si avvicinò ai propri figli riunendoli tutti assieme. Sembrava più sicuro di se che mai prima d’allora, pensò El. I lunghi capelli biondi gli ricadevano oltre e sulle spalle; la casacca verde e marrone era come spenta solo il cielo plumbeo; gli occhi, però, erano accesi come due fiamme vive.
« Chi sono quei due, padre? Perché avevano dei draghi? » Rìnon non riuscì a tenere a freno la lingua, come sempre. I muscoli delle sue braccia ebbero un guizzo quando Legolas vi poggiò sopra la mano, sospirando sotto voce. Tutta via, l’elfo non mostrò la preoccupazione. « Come facevano a comandare dei draghi, padre? »
« Rìnon », lo riprese Haldir. La sua voce era più roca di quella dei gemelli, e la sua stazza più grossa; li superava entrambi di una testa buona.
Elanor, invece, era più bassa di loro e più minuta. Aveva “un corpo simile a quello di una musa”, le diceva sempre sua madre, sebbene lei non sapesse nemmeno cosa fosse, una musa. Ma sua madre era strana, usava termini, quando si arrabbiava, di cui nessuno faceva mai uso, come: internet o diavolo, e molti altri. Thranduil le aveva detto che sua madre poteva vedere tutto e niente, e aveva dei modi suoi per raccontarlo. Le aveva anche detto che era cocciuta e testarda quando l’aveva incontrata la prima volta, e poi l’aveva paragonata a lei.
Tutti quelli che la conoscevano – ed Elanor conosceva tutti a palazzo- le dicevano che era troppo avventata, curiosa e impulsiva, come sua madre. Ma alla giovane principessa non sembrava che sua madre fosse tutte queste cose; era sempre pacata con tutti, studiava ogni cosa, ogni situazione prima di rispondere e non era persino buona a tendere un arco. Figuriamoci tenere in mano una spada. Eppure… come aveva fatto a rivolgersi a quel drago, poco prima che spiccasse il volo? La giovane principessa sbatté le palpebre velocemente e ingoiò un fiotto di saliva. Un giramento di testa improvviso la costrinse ad appoggiarsi a Haldir, che le rifilò un’occhiata veloce prima di tornare al padre. La mano del fratello scovò il suo fianco e la sorresse; lei gli sorrise grata. Haldir sapeva quanto El odiava sentirsi debole e farsi vedere tale alla vista degli altri, chiunque essi fossero.
« Vi spiegherò… spiegheremo tutto più tardi ragazzi. Ora Haldir, per favore, accompagna i tuoi fratelli in biblioteca; quello sarà l’unico posto calmo della reggia, oggi. » Legolas si passò una mano sulla fronte e si voltò, ripercorrendo la strada che la loro madre aveva fatto poco prima.
I quattro fratelli rimasero gli unici nel parco che si estendeva davanti all’ingresso di Bosco Atro. Tutti e quattro si scambiarono occhiate veloci e cariche di domande, ma solo Rìnon parlò durante il viaggio per arrivare in biblioteca, e Elanor si staccò da Haldir dopo aver riacquistato le forze.  I due gemelli camminavano innanzi a lei, Rìnon  facendo ipotesi su chi potessero essere quegli strani tipi arrivati quel giorno e Leron rispondendogli; Haldir le camminava affianco, ascoltando come lei il discorso dei due fratelli. Finalmente entrarono in biblioteca e, come collegati a un unico cervello, tutti e quattro si mossero verso il salotto centrale.  Ad attenderli stavano due grandi poltrone e un divano lungo, tutti quanti imbottiti di piume e ricoperti di stoffa verde con ricami d’oro. Nel camino di fronte a loro ardeva un fuco caldo. Fuori il tempo andava a rannuvolarsi sempre di più.
« Cosa ne sai tu di questa storia, Haldir? » Rìnon si sdraiò sul divano, poggiando le lunghe gambe sopra quelle del gemello. Leron gli rivolse un’occhiata in tralice e in risposta ottenne un semplice “che c’è? Che ho fatto?” mimato con le labbra.
« Perché dovrei saperne qualcosa? » Borbottò il maggiore, senza distogliere lo sguardo dal fuoco. Le fiamme gli danzavano sul volto ormai adulto, gettando ombre scure sugli zigomi alti e sugli occhi grigi/azzurri contornati di nero.
Fra tutti loro, aveva sempre pensato El, Haldir era quello che aveva gli occhi più belli e strani al tempo stesso. Perché: non erano blu oceano come quelli di Rìnon, ne blu cobalto come quelli di Leron, e nemmeno azzurri come i suoi. Erano di un intenso colore grigio, somigliante agli occhi di Thranduil, che racchiudeva in se, attorno all’iride, un cerchio nero simile al colore degli occhi della loro madre e poi possedevano svariate sfumature azzurro cielo, come gli occhi di Legolas. Fra i quattro, era anche il più calmo e calcolatore. Non si lasciava mai andare troppo; teneva tutto e tutti sotto controllo e eseguiva ogni ordine, al contrario suo, che gli veniva assegnato. Era un ottimo studioso e un abile spadaccino e arciere. Sapeva farsi rispettare.
Sarebbe stato un buon re.
« Sei il più grande, il preferito di nostro nonno, e a te dice sempre tutto… »
« Io non sono il preferito di nostro nonno. »
« Si lo sei, non mentire anche a te stesso. » Intervenne allora Leron. « Tu pendi dalle sue labbra, come un bambino pende dalle braccia della madre, e a lui questo piace. » Il giovane uomo si guardò attorno, contento di aver colto l’attenzione di tutti e tre i fratelli. « Lo sappiamo tutti che Thranduil è un egocentrico », El non poteva dargli torto, Thranduil era davvero pieno di se. « Tutta via, è un gran re e tu diventerai come lui, dopo papà. »
« E questo cosa c’entra? » Borbottò Haldir, la voce roca che andava crescendo d’intensità.
Elanor poggiò le mani sulle tempie e cominciò a massaggiarsi la pelle, le faceva male la testa. Molto male ,troppo. Respirò a fondo e si concentrò sullo scoppiettio del fuoco, sul rumore che faceva la legna quando cadeva, carbonizzata, nel camino. Ma, le voci dei suoi fratelli sormontavano ogni cosa. Elanor si sentiva la testa scoppiare, pulsare talmente tanto da essere insopportabile; ma non disse nulla, perché parlare avrebbe voluto dire essere debole e lei non voleva essere vista come una debole. Non poteva essere vista come una debole. Già, ogni tanto le capitava di vivere all’ombra di tutti i suoi fratelli: all’ombra di Haldir perché era il primogenito perfetto, a quella di Leron perché era lo studente ideale e a quella di Rìnon perché era l’apprendista spadaccino migliore del regno. Se si fosse fatta vedere debole, la gente l’avrebbe ricordata come tale, così come ricordava i suoi fratelli per quelle cose. Si limitò solo a prendere lunghi respiri e socchiudere le palpebre. Tutti gli eventi della giornata le piombarono sulle spalle rendendola incredibilmente stanca e frastornata. Troppa roba in troppo poco tempo.
« … Haldir è questo, Haldir è quello. Non ti stufi mai di essere usato come esempio, fratello? E smettila di dire che non sai nulla su chi sono quei due, perché te lo si legge in faccia che li avevi già visti.»
« Rìnon, sei un totale deficiente. » Proclamò Haldir, tornando a guardare il fuoco.
 
 
 
*    *
 
 
« E così, adesso sei praticamente la regina di Bosco Atro, eh? » Fanie rise mentre entravamo nella sala da pranzo.
Ad attenderci c’erano tutte quelle orrende teste imbalsamante, che ci osservavano con i loro occhi finti dal soffitto e parevano non volerci perder d’occhio. La luce era poca, a causa delle nubi grigie che oscuravano il cielo e l’unica fonte vera e propria di calore, qual era il camino, era stata spenta. Mi avviai verso la cappa con velocità, mentre il fratello di Fanie, Thranduil e la cerva si gettavano dentro la stanza.
« No. » Rispose il re.
« Non ci tengo », affermai io nello stesso momento.
 Alzai il polso e lo volsi verso la legna nel camino –era stato spento da poco, perché alcune braci ancora ardevano iridescenti- e una fiammata partì dal mio palmo, lacerandomi la pelle che si ricompose subito dopo. Un’alta fiamma si levò in alto, verso la cappa, e poi si addolcì, limitandosi a uccidere il legno. Quando mi voltai, tutti mi osservavano dai posti che si erano presi al tavolo. Thranduil stava seduto a capo tavola, davanti al camino con le corna di cervo messe a decorazione; Fanie si trovava ben lontana da lui, sul lato destro del tavolo e accanto a lei stava suo fratello, Turìon; Cuinië, invece, sedeva più al centro rispetto a loro. Aveva lo sguardo verde-grigio congelato mentre studiava Turion, e lui pareva avere la stessa reazione. Scrocchiai le nocche per allentare la tensione e mi accomodai accanto a Thranduil, alla sua sinistra.
« Sono felice che tu sia tornata », stava dicendo il re. I suoi occhi azzurri mi sembra stessero per sciogliersi; non lo vedevo così da tempo. Da quando lei se n’era andata. « Alle mura di questo palazzo è mancata la tua presenza. »
« E a me è mancato questo palazzo. Tu non sei incluso. » Fanie lanciò uno sguardo veloce alla porta dalla quale era appena entrato Legolas. Si sorrisero, e poi lui si accomodò alla destra del re; difronte a me.
La cerva, al mio fianco, si muoveva irrequieta. I lunghi capelli rossicci rilucevano contro il grigio delle nubi, e lo sguardo era gelido e fermo. Quando si accorse che l’osservavo, poggiò entrambe le mani sul tavolo e incrociò le dita; accavallando le gambe. Scossi leggermente il capo e tornai a guardare Fanie, che stava lanciando occhiate al fratello mentre gli sussurrava “smettila”.  Forse gli rifilò persino un calcio sotto banco, ma non riuscii a capire se l’avesse fatto davvero o no. Poggiai il mento su un palmo e rimasi a osservare Turion. Era così uguale a Fanie e così diverso da… Sauron.
Oh, Sauron. Solo a pensare a lui mi sembrò di venire svuotata, corrosa dal tempo che avevo passato in quella terra. Gli anni sembrarono cadermi addosso in un batter d’occhio e dovetti faticare per non mostrare agli altri quello che provavo, come mi sentivo in quell’istante. Perciò, mi limitai a raddrizzare la schiena e ascoltare.
« Mia signora, i Valar mi mandano qui per aiutarti. » Cominciò Turion, serio.
“ I Valar ti mandano qui per maledirci.” Mormorò la cerva. Mi limitai a ignorarla e ripresi a osservare l’elfo. Tutti avevamo le orecchie ben aperte, in attesa che continuasse. Dopo che ebbe lanciato un’occhiata di sfida alla rossa, mi sorse spontanea una domanda.
« Ti hanno mandato qui per aiutarmi in cosa? »
« Oh, ma per la guerra imminente, mi sembra ovvio. » Mi sorrise.
Per la seconda volta, il mondo mi crollò sul collo, sulle spalle, sulla schiena spingendomi verso il basso fino a schiacciarmi. Socchiusi le labbra e scostai con delicatezza la sedia dal tavolo, poggiando le mani sul viso.
No.
Non poteva esserci un’altra guerra, NO. Non ero pronta per affrontare ancora una volta quell’orrore; non ero pronta per vedere bambini diventare orfani e mogli vedove prima del tempo. Non volevo rivedere il sangue colare sul terreno e amici morire in battaglia. Serrai le palpebre con forza ma il passato sembrò venirmi a cercare con insistenza. Disegnò dentro i miei occhi l’immagine di un elfo dall’armatura rossa, i capelli biondi e gli occhi azzurri che si accasciava a terra, fra le braccia di Aragorn. Haldir. Repressi un singhiozzo, dopo tutto ero una guerriera.
 Piangere era da deboli.
Io non ero debole.
“Io non sono debole” pensai. “Fatti forza El, sei forte. Gli orrori della guerra non ti toccano più”, e aprii gli occhi. Tutti mi stavano fissando; probabilmente dovevo avere gli occhi lucidi o le guance rosse.
« Chi devo uccidere stavolta? » Chiesi con fermezza.
Sul viso di Turion affiorò un sorriso. « Si fa chiamare: l’Ombra. »
« Ombra? Come il nome nella tua profezia? » Thranduil prese parola per la prima volta, rivolgendosi a Cuinië. La voce sicura e calma, rigida e fredda. Il portamento di un re e gli occhi di un uomo dal cuore spezzato.
« Esattamente, elfo. » Sputò fuori la cerva; probabilmente gliela voleva fargliela pagare per il modo in cui il re l’aveva trattata. « E’ quello che cercavo di dirvi da quando sono arrivata qui: guerra. La guerra incombe, di nuovo; ma questa volta, non è per la terra di mezzo, è per vendetta. » Cuinië si voltò a guardarmi. Sostenni lo sguardo finché non riprese a parlare: « Vendetta corrosiva, che l’animo umano conosce troppo bene. » La cerva tornò a guardare Turion.
« Beh, qualunque vendetta voglia quest’”Ombra”, io… noi, saremmo pronti ad accoglierla. Di certo non gli permetterò di avvicinarsi ai miei ragazzi. »
« Nostri », intervenne Legolas. Gli sorrisi brevemente, felice che avesse deciso di correggermi su una cosa così. Amava i nostri figli tanto quanto me. « E chiunque proverà a toccarli passerà prima sul mio cadavere. »

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Capitolo 10
*** A carte scoperte. ***


Storia d’inverno
 


“Al posto della pelle aveva una corazza di ferro.
La sua pelle era fuggita via.”

 
 
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Leron sfogliò per l’ennesima volta le pagine del libro “La Guerra della Terza Era”, annusò l’odore della pergamena con cui erano composte le pagine, sorrise e ritornò al capitolo che aveva lasciato in sospeso. Ormai era alla fine e, sebbene conoscesse tutta la storia a memoria –visto che se l’era fatta raccontare da suo padre milioni di volte-, non stava più nella pelle. Inoltre, le parole, i racconti e le descrizioni di quel libro esaltavano il tragitto della compagnia e la battaglia contro Sauron e le sue armate come le parole di suo padre non erano mai riuscite a farlo. Era la prima volta che lo leggeva; ne aveva letti molti altri prima, la biblioteca di suo nonno era stracolma di libri e racconti, specialmente sulla terza era, ma quel tomo l’aveva preso come nessun’altro prima d’ora. Raccontava così bene le vicende, quasi fino a trasportartici dentro. Leron, si era sempre chiesto che fine avessero fatto i personaggi dopo la guerra –era sempre stato curioso e voglioso di sapere i particolari della vita dei membri della compagnia dopo la guerra. Doveva saperlo, sennò la curiosità gli avrebbe corrotto l’anima. A parte suo padre, il giovane principe non aveva conosciuto mai nessun membro restante della compagnia, ma era intenzionato a scopre che fine avessero fatto –specialmente quelle due guerriere di cui non si faceva mai il nome- e quel libro aveva un piccolo epilogo per ogni personaggio a discapito di tutti gli altri.
“ Il sole era alto in cielo, quando l’esercito del nuovo re di Gondor era avanzato verso Mordor. Davanti a loro si innalzava, in tutta la sua gloria cupa e la sua maestosità, il Cancello Nero. Nessun uomo presente li, quel giorno, aveva mai pensato che vi sarebbe stato così vicino, neppure Aragorn stesso, ma adesso vi erano davanti. Lo vedevano gettare la propria ombra sul suolo secco, oscurarli con la sua aura nera. Tutti, nessuno escluso, sentivano il cuore battere all’impazzata e avevano il fiato corto. Però, nemmeno un uomo che sia sopravvissuto a quel giorno sa cosa provassero le due guerriere che volavano alte sopra l’esercito del bene, essendo che nessuno riusciva a vederle. Quelle due donne la cui faccia era l’essenza stessa del gelo e del fuoco, della lontananza e della freddezza. Nemmeno un uomo poteva sapere cosa quelle due giovani, a cavallo dei loro destrieri alati, avevano in mente finché non si diressero verso l’interno di Mordor poco prima che i cancelli si aprissero, e tutto il marciume della Terra di Mezzo vi si riversasse fuori…” il libro gli venne strappato malamente dalle mani, lasciando il giovane principe a osservare il nulla. Leron inarcò le sopracciglia e si voltò a guardare Cuinië. Gli occhi della giovane, di un azzurro così chiaro da sembrare vetro, stavano analizzando ogni parola della pagina, il sorriso non mancava sul suo volto delicato. Leron non poté fare a meno di piegare gli angoli della bocca verso l’alto, a sua volta, e darle una leggera spinta sul braccio che la fece spostare di poco.
« Stavo leggendo », le disse incontrando i suoi occhi. La cerva alzò le spalle e vi gettò il libro oltre con noncuranza. Leron osservò il tomo volare come se non pesasse nulla e ricadere pochi metri più indietro, dentro il palazzo. Le pagine delicate si accartocciarono e sembrarono gridare di un dolore muto. Il principe represse una smorfia di dolore, lui amava i libri, e si morse le guance. Cuinië rise della sua reazione e saltò giù dagli scalini con un agile balzo, scuotendo il capo per aggiustarsi i capelli arruffati. Al sole invernale, freddo, distante e nascosto dalle nubi i suoi capelli rossi parevano sangue. Così vivi e lucidi da far invidia a Elanor, a cui la cerva non era mai andata a genio da quando aveva deciso di non perire per mano del suo arco.  Sinceramente, a Elanor non era mai piaciuta nessuna delle ragazze presenti a corte o fuori; lei voleva essere l’unica ape regina nell’alveare –oltra a loro madre- e non avrebbe accettato nessun’altra. Voleva essere l’unico punto di riferimento per  i suoi tre fratelli, l’unica che contasse realmente per loro. Era sicura, troppo, calcolatrice e perfida come una vipera e questo Leron lo sapeva, ma non si capacitava del fatto che non si sarebbe mai fatta problemi a uccidere una come… Cuinië . Non riusciva a credere che per poco sarebbe morta se non avesse corso fino al castello e si fosse fatta salvare da loro madre, che tutta via restava restia a parlarle. Perché le uniche due donne della sua vita, per ora, odiavano tutte le altre o non si fidavano? Che aveva fatto di male ai Valar per meritarsi questo? Si domandò quali altri problemi avessero quelle due api regine nel momento stesso in cui la cerbiatta si era allungata verso di lui e gli aveva preso il viso tra le mani. Erano così morbide, calde e delicate e…
« Mi ascolti? » Rise la rossa, piegando leggermente il capo verso sinistra. Leron sbatté gli occhi e scosse il capo, allontanando le mani della cerva con velocità e dirigendosi a recuperare il libro. Sentii i tacchi degli stivali della ragazza raggiungerlo e poi udì la sua voce: « Potresti, per favore, interagire con qualche essere umano per qualche istante? » La voce di Cuinië suonò vellutata alle orecchie del ragazzo, quasi come una carezza.
« E sentiamo: dove lo potrei trovare un essere umano qui? Insomma, oltre mia madre ci sono solo elfi e… tu. Una cambia pelle cervo che oggi mi sembra molto allegra. » Constatò con un sorriso beffardo. Adorava avere ragione, erano il suo più grande peccato: la conoscenza e la consapevolezza.
« Pignolo », si limitò a rispondere annoiata lei sorpassandolo.
Ecco, l’aveva fatto un’altra volta: si era dimostrato troppo rigido e saputo nelle cose da farle èerdere l’interesse nei suoi confronti. Ma lei gli piaceva e avrebbe fatto di tutto per non lasciar andare sprecata una giornata  in sua compagnia. Maledicendosi, poggiò il tomo su un tavolinetto e corse per i corridoi dove lei aveva svoltato poco prima, tentando di raggiungerla. Ma, quando la vide, Rìnon era già con lei e ridevano. Un classico, suo fratello spuntava sempre nei momenti meno giusti, e gli riusciva a rovinargli ogni cosa. Leron trattenne il fiato, rosso in volto, e tornò suo propri passi. Raccolse il libro e si diresse in camera sua dove, sapeva, sarebbe stato tranquillo di distruggere tutti i cuscini che più detestava. Tanto nessuno avrebbe notato la mancanza di qualche pezzo di stoffa. Mentre camminava, sentiva crescere dentro di se il mostro verde della gelosia. Rìnon era sempre stato più bravo con la spada e l’arco, lui, invece, aveva sempre preferito i libri e lo studio. Rìnon era sempre emerso con il coraggio, lui con la mente. Rìnon aveva sempre le battute pronte, riusciva a fare ridere tutti, Leron scoraggiava ogni persona con la sua consapevolezza della realtà. Rìnon aveva sempre avuto successo con le ragazze, con Cuinië… invece, l’unica cosa che il principe sapeva fare era annoiarle a morte con lunghe chiacchierate sui libri.
« Problemi in paradiso, pivello? » Lo canzonò El, spuntando all’improvviso da un corridoio. Indossava un vestito lungo e grigio, dai ricami d’argento, e i lunghi capelli scuri le ricadevano ondulati sulle spalle.
« Non sono affari tuoi », borbottò il principe.
La sorella maggiore sbuffò e alzò gli occhi al cielo, dipingendosi un sorriso sconfortato sul viso. El era più bassa di Leron, sebbene avesse qualche anno di più, però con quel suo portamento fiero –che aveva ereditato da loro madre- faceva sentire piccolo persino lui.
« Tutto quello che riguarda te, Haldir o quell’altro coglione di Rìnon sono affari miei. Sei sangue del mio sangue, perciò non hai possibilità: o mi dici cos’hai, o te lo estorcerò con la forza. » Si voltò immediatamente a guardarlo: « E sai che posso farlo. » Lo minacciò, seguendolo dentro la propria stanza.
Leron la ignorò e poggiò il libro sulla scrivania, legandosi i capelli in una coda bassa. Poi iniziò a togliersi la casacca, stanco e sfinito, mentre El si buttava sul letto e nascondeva il viso fra i cuscini.
« Allora, stavamo dicendo? Ah, si: problemi in paradiso, pivellino? »
« Non mi chiamavi “pivellino” da quando avevo dieci anni, e ora addirittura due volte nell’arco di qualche minuto?  » Osservò Leron, voltandosi per guardarla. Sua sorella sorrideva, mentre poggiava la schiena allo schienale del letto e univa le braccia dietro il collo. El non era mai stata una ragazza molto femminile, e lui l’aveva constatato più di una volta quando stavano assieme, ma aveva quel carattere tipico delle donne: predominante e aggressivo. Strano però, perché loro madre non era così. C’è sempre un’eccezione alla regola.
« Nulla di che. Nessun problema in “paradiso”, se questo scempio che è la terra si può definire tale. In ogni modo, le solite cose: Rìnon ci prova con la cerva e… »
« Quella stronza! Ero a tanto così da conficcarle la mia freccia nella testa! » Sbottò la principessa. Ah, già: El era anche sanguinaria. « Se solo Thranduil non si fosse messo in mezzo… lui e quel suo amore per i cervi! »
Leron rise e s’infilò una maglia pulita, che gli ricadde morbidamente sul petto accarezzando ogni muscolo. Slegò i capelli castani, si accarezzò il viso stancamente e raggiunse la sorella nel letto; lei non lo degnò di uno sguardo, intenta com’era a pensare alla caccia ai cervi. Ultimamente El era strana, Leron l’aveva constatato già da qualche tempo, e le avrebbe chiesto cosa avesse, che cosa la tormentava ma a un tratto lei raddrizzò la schiena e scrocchiò le nocche. Il ragazzo si accigliò e dimenticò Cuinië; aspettò che la sorella si voltasse nella sua direzione e lesse l’indecisione.
Gli nascondeva qualcosa. Qualcosa di grosso.
« Posso rivelarti un segreto? » Sussurrò lei, allungandosi nella sua direzione per stringergli le spalle nella sua presa di ferro. Leron represse una smorfia di dolore e annuì. « Però non devi dirlo a nessuno, giuralo. Giuralo, pivello! »
« Ahi! Lo giuro, lo giuro! Ora staccati da me », sibilò allontanandola.
El rise della sua reazione e poi scese dal letto, uscì in terrazza a prendere una pianta morta e rientrò gettandosi sul materasso. Suo fratello sollevò velocemente il piccolo vado dalle coperte e la guardò stranito. Come aveva potuto portare quella roba morta sulle sue coperte, macchiandogliele? Cosa aveva in mente quell’assassina di animali innocenti.
« Ti sento. Sento i tuoi pensieri, e io non sono un’assassina, stupido. » Lo schernì la giovane, lasciandolo senza parole.
Il ragazzo sbatté le palpebre sorpreso: nessuno che conoscesse, a parte loro nonno e i loro genitori, era in grado di leggere nella mente. E il fatto che anche sua sorella sapesse farlo gli dava fastidio; la sua privacy sarebbe stata compromessa del tutto ora. Già era in una brutta situazione quando i suoi genitori lo facevano, gli rovistavano nella mente quando lui non se ne accorgeva ma era come sentire un tentacolo viscido e invisibile scavare dentro di lui… ora che anche Elanor era in grado di farlo, nessuno sarebbe più scappato alla sua mira. I suoi fratelli specialmente. 
« Stai zitto, Leron. Mamma mia, non userò i miei poteri su di te… non ancora almeno. »
« Lo stai già facendo! »
« Particolari. » La ragazza alzò una mano e giocò con le dita, in segno di noncuranza. « Ora zitto, e guarda la pianta. »
Il giovane castano fece come le aveva ordinato la sorella, ma vide solo una pianta morta e rinsecchita, dalle foglie secce e color avorio a causa della sua poca cura. Non aveva mai avuto il pollice verde, ma nemmeno un miracolo avrebbe riportato vita in quegli steli, fra quelle foglie. « Cosa intendi fare, sentiamo. » La canzonò.
« Farò rinascere questa pianta, mi pare ovvio. » C’era determinazione nella voce della ragazza. Fredda e tagliente convinzione.
« Si, certo, come no. E io sono… una delle due donne che ha partecipato alla guerra contro Sauron che nessuno a mai visto a cavallo di destrieri alati. »
« Ti ci vedrei con un vestito lungo addosso, il trucco e in sella a un magico unicorno alato. Vorrei davvero vedertici, » Elanor sorrise all’idea « ma, per tua sfortuna, non credo che questi abiti ti farebbero un fisico bello come il mio. In ogni modo, pivello, io posso farlo. » Affermò.
« Va bene, se lo dici tu. » Un idea balenò nella mente del giovane, che non riuscì a tenere la bocca chiusa. « Facciamo così: se io ho ragione tu dovrai mettere quell’orrendo vestito che Thranduil ti ha regalato per il tuo compleanno dell’anno scorso, e ci dovrai andare a cavallo. » La ragazza fu attraversata da un brivido: odiava quell’abito. Era giallo, con qualche ricamo di fiori e foglie e ricco di pizzo bianco; non si intonava per nulla a El, che infatti non l’aveva mai messo, e questo Leron lo sapeva. « Se perdo io, invece, lo metterò a cena. »
« E anche il pomeriggio, e non potrai startene chiuso in camera! » Ringhiò la sorella.
« Affare fatto. » Si strinsero la mano, ognuno con un sorriso maligno in volto.
« Hai già perso, pivello. »
Leron si rifiutò di rispondere, convinto della sua vittoria, e allungò le braccia verso la pianta che li divideva con un sorriso di sfida. Elanor sfregò le mani per riscaldare e poi le pose davanti alla piantina. Chiuse gli occhi e Leron la vide rilassarsi. Il respiro si fece calmo e regolare, i muscoli si distesero e le labbra assunsero una leggera linea orizzontale inclinata verso l’alto. Poi accadde una cosa che il giovane non si sarebbe mai aspettato: le foglie della pianta si sollevarono e corsero nella direzione del sole, per quanto questo fosse sfumato dalle nubi; gli steli lunghi si ricolorarono di un intenso verde vivo e i fiori di orchidea sbocciarono per la prima volta dopo la morte. Erano bianchi, con qualche macchia a dalmata rosa, e brillavano come di luce propria.
Gli occhi dei due fratelli si incontrarono. Quelli di lei sorridevano vittoriosi, quelli di lui ardevano di vergogna. « Domani mattina vieni in camera mia, sorellina. » Rise di gusto la principessa. « Voglio regalarti un vestito che ti donerà moltissimo! »
 


*   *
 


« Beh, sei cresciuto davvero bene. Quando ti vidi per la prima volta non eri altro che un cosino tutto rosa con due polmoni belli attivi; non facevi che piangere, finché non ti ho dato a tua madre. » Fanie si voltò verso di me sorridente, gli occhi lucidi di ricordi felici e emozione.
Da quando avevamo finito la riunione la prima cosa che mi aveva chiesto era stata quella di conoscere Haldir, il bambino che aveva fatto nascere. Quando si era incontrati Haldir era intento a leggere in biblioteca e lei si eun tipra bloccata a guardarlo con un lieve sorriso sulle labbra. Aveva portato una mano al petto, aveva sorriso ancora e poi era avanzata. Io ero rimasta poco dietro di lei, con Turion al mio fianco e i suoi occhi che volavano ovunque; alla fine gli dissi che poteva fare quello che voleva e il ragazzo scomparve fra gli scaffali. Avevo scosso il capo e, poi, mi ero avvicinata a mio figlio. Gli avevo poggiato una mano sulla spalla e presentato Fanie, che sembrava entusiasta di conoscerlo –ancora una volta-.
« Mi ricordo di te », le mormorò il biondo, con quel suo tono neutrale. « Sei andata via quando avevo un anno, forse meno, ma mi ricordo di te. » Haldir scrocchiò le nocche, e mi rivolse uno sguardo. Il mio bambino, che mi superava in altezza di dieci centimetri buoni, aveva la mia stessa brutta abitudine quando era stressato: riversare l’ansia sulle sue povere nocche, schioccandole. « Ricordo i tuoi occhi: sono stata la prima cosa che ho visto quando ho aperto i miei. » Nella voce di Haldir non c’erano nessuna nota strana; era tornata rigida, lontana e distaccata come quella di suo nonno. Odiavo quando lo faceva, detestavo l’impegno con il quale mio figlio tentava di assomigliare al nonno, così realista da sembrare la sua fotocopia da giovane.
« Oh, buono a sapersi. Almeno so che ti ricordi di me », sussurrò Fanie, rivolgendomi un’occhiata stranita. Mi limitai ad alzare le spalle e scuotere il capo. « In ogni modo, vedo che sei cresciuto bene e forte, mi fa piacere. Scommetto che non ti mancano le ragazze, mh? »
« No, a dire il vero. Spetta ai miei genitori il compito di trovarmi una ragazza da sposare. » Riferì, sempre senza tono o emozione alcuna. Unì le mani dietro la schiena e rizzò le spalle, ombreggiando Fanie con la sua ombra nera. « Non credo nell’amore. E, comunque, è un lusso che noi di corte non possiamo permetterci, visto che i nostri matrimoni servono solo a generare figli e cerare alleanze. »
« Tu. Sei. Strano. » Turion spuntò al fianco della sorella, con un tomo stretto sotto il braccio. « Ma hai un bel colore di capelli, e una carnagione per cui ucciderei, perciò rimani un “tipo interessante”. »
« Come, scusa? » Haldir sbatté le palpebre confuso mentre Turion gli girava intorno, con un angolo delle labbra leggermente piegato verso l’alto e il libro ancora in pugno. Si passò una mano fra i capelli corti, che frusciarono silenziosamente e brillarono di bianco, e poi si fermò di fronte a mio figlio.
« Bene. Si, c’è materiale a cui potrei affidarmi, qui. » Gli tastò le braccia, poi diede un calcio con il tacco dello stivale alle gambe del ragazzo difronte a lui. « Ho bisogno di una guida per questo regno… Se così si può definire una foresta malaticcia. »
« Ehi! Non offendere casa mia », lo rimbeccò Fanie, tirandogli uno scappellotto sulla nuca.
« Tecnicamente non è casa tua, sorellina. Ma non importa, errare è umano. » Poi tornò ad Haldir: « Che ne dici, bel tenebroso », rise sommessamente scuotendosi tutto, e Fanie si imbarazzò, « mi porti a fare un giro per questo… tempio di natura antica e malaticcia? », guardò la sorella che aveva poggiato la mano sugli occhi e scuoteva prepotentemente la testa.
Sinceramente non ne capivo il motivo, io trovavo simpatico l’approccio che Turion tentava di usare con mio figlio. Stava solo cercando di fargli provare qualche emozione –sebbene fosse la vergogna- e staccarlo da quel guscio freddo e lontano. In un certo senso, sarei dovuta essergli grata. Repressi una risata divertita, accarezzai la schiena al mio bambino e gli diedi una pacca sulla spalla. Haldir mi rivolse un’occhiata stralunata e poi sospirò.
Quando Fanie alzò gli occhi, constatai, era più imbarazzata che mai. « Spero tu voglia scusarlo, Haldir. Mio fratello ha più di cinquemila anni ma ne dimostra solo sette in quanto maturità. » Rifilò al biondo uno scappellotto, poi lo folgorò con lo sguardo.
« Fanie, » le sorrisi intervenendo « credo che Haldir sarà bene contento di accompagna Turion nella foresta malaticcia per una visita. Non è così, tesoro? »
« Come desideri madre », sorrise velocemente il ragazzo prima di congedarsi e ordinare al fratello della ragazza di seguirlo.
“Fallo ridere, ti prego. Sono anni che non lo vedo sorridere più come faceva da bambino.” Mormorai mentalmente a Turion, prima che scomparissero dalla mia vista. Dopo la loro uscita, la biblioteca cadde in un silenzio pesante, illuminata dal sole grigio e freddo.  Congiunsi le mani al petto e mi andai ad accomodare su una delle tante poltrone presenti nella stanza, accarezzandomi poi le sopracciglia con le dita. Il viso di Fanie si fece cereo quando staccò gli occhi dalla porta chiusa, gli occhi divennero ghiaccio e le labbra una sottile linea rossa. Vidi i muscoli della faccia guizzare, l’orrenda cicatrice frastagliata e lucida avere un balzo.
« Quando ha iniziato a comportarsi così? » Chiese seria, accomodandosi difronte a me.
« All’età di tredici anni. Thranduil l’ha educato come… » Le parole non riusciva a uscirmi dalla gola; rimanevano incastrate li, bloccate dal senso di amaro disgusto che provavo per il padre di Legolas.
« Haldir non è un elfo, non è nemmeno umano. E’ diventato una macchina di ghiaccio, come suo nonno. El, come hai potuto lasciare che accadesse una cosa simile, tu che sei sempre stata la prima a contrariare e vivere come desideravi? » Mi accusò senza ritegno.
Le schioccai un’occhiata fredda, carica d’odio per quelle parole dette con così tanta cattiveria e poi osservai la sua cicatrice. Anche io ne avevo molte, pensai, ma avevo imparato a nasconderle, cosa che lei non poteva fare, non più. Serrai le palpebre e poi le riaprii, dopo aver tratto un lungo respiro: « Credi che non abbia combattuto per la sua educazione? Pensi che non sia andata contro il volere di Thranduil? E poi, credi sia davvero questa la vita che vorrei, sul serio? » La testa mi girò lievemente, ma non ci feci molto caso e andai avanti: « Credi che fosse nei miei piani accasarmi in un palazzo-caverna, scavato nella terra e in un albero secolare? Credi che non mi venga mai la voglia di tornare a casa mia, quella vera? » Tentai di frenare l’impulso di rabbia che mi diceva di incendiarla all’istante, senza pensare alle conseguenze. « Se potessi prenderei Turon e me ne andrei subito (in cerca d’avventure, vita e libertà, come durante la guerra) ma non posso. Ho una famiglia a cui badare, io. » Sibilai, alzandomi in piedi. Poggiai una mano sul ventre e con l’altra mi tenni allo schienale della poltrona, senza mai lasciar trasparire la mia stanchezza, che era davvero molta.
« Cazzate! » Si alzò con impeto, facendo crollare la sedia all’indietro e congelandola prima che toccasse terra. Mi morsi l’interno delle guance per non gridarle contro: in casa mia non si doveva usare la magia, specialmente la nostra. I guardiani e i loro poteri, per me, erano scomparsi nel momento in cui avevo partorito Haldir per la sua protezione e quella dei miei altri figli.  Strinsi forte le nocche, facendole diventare rosse. « Con i poteri che hai potresti tenerlo in pungo, come uno scacco! Perché non l’hai mai fatto, eh? Perché non vuoi. E’ questa la verità! », Fanie mi lanciò un’occhiata carica d’odio. La luce grigia baluginò sul suo occhio presente nella parte ferita del volto, facendolo brillare di bianco. Un incantesimo, mi dissi subito. Un incantesimo per proteggere una ferita grave, come quella di Thranduil.
Affilai lo sguardo e socchiusi le labbra, sconvolta. « Quando credevi di dirmelo? » Sibilai.
« Dirti cosa? »
« Che sei diventata ceca, da quell’occhio. » Affermai indicando la pupilla grigia. Come avevo fatto a non rendermene conto prima? Come avevo potuto ignorare il fatto che Fanie fosse ceca. Lei che con la sua vista da falco riusciva a incoccare frecce e trapassare la gola del nemico da parte a parte.
« E tu, quando pensavi di dirmelo? »
Scossi il capo contrariata. « Non cambiare discorso. E, poi, non ho idea di cosa tu parli. » Il mio cuore prese a battere forte, per una paura che non sapevo potessi provare di nuovo.
« Bugiarda. Da quanto tempo sei incinta? » Il mio cuore perse un battito, si fermò, ripartì cigolando, si bloccò e si rimise in moto di nuovo. Mi accarezzai un braccio e scossi il capo, socchiudendo le palpebre.
« Quale delle ultime tre gravidanze vuoi che ti racconti? » Mormorai acidamente, tristemente. Le labbra di Fanie ebbero un sussulto. Non si aspettava quella risposta, e io avrei voluto tanto tenermela per me.
« T-tre? » Balbettò scossa. Annuii, stancamente.
Mi accarezzai la fronte con una mano, veloce, e poi mi avviai verso la vetrata che si apriva sul retro del palazzo, verso Erebor. Mi faceva male parlarne ed ero arrabbiata con Fanie, ma non avrei potuto nasconderle tutto in eterno. In più, le volevo bene ed era la cosa più vicina a una sorella che mi rimanesse. « La prima è stata circa sette anni fa, quando i gemelli avevano tredici anni. Finii la gravidanza, ma il bambino nacque morto… qualcuno mi aveva avvelenata. » Mi girai verso la bionda, che ascoltava tutto silenziosamente. « Io non sapevo nemmeno come, o perché l’avessero fatto. O quando. », sussurrai con voce spezzata. « Legolas non me lo lasciò nemmeno vedere, mi disse solo che era una femmina. L’avremmo chiamata Menelyë, Celeste. » Tenni gli occhi fissi sulla montagna solitaria, così lontana e fredda da riuscire a distrarmi dal mio dolore. «La seconda volta fu cinque anni fa, il bambino nacque prematuro di tre mesi ed era troppo debole per questa vita, Nàmo ha preferito portarlo con se nel regno dei morti. Quella volta era un maschio, e riuscii a tenerlo in braccio per qualche ora prima che morisse. L’avevo chiamato Lavindil; e continuo a pensare che sarebbe stato un grande guerriero, e che i suoi fratelli l’avrebbero amato. Era così piccolo. » Trattenni a sento le lacrime, senza mai staccare gli occhi dalla patria dei nani. « L’ultimo è stato qualche settimana fa, per questo mi vedi ancora un po’ gonfia. Ero arrivata a otto mesi, poi ho avuto un aborto spontaneo. Era femmina. Legolas avrebbe voluto chiamarla Rìnë, ma non ha potuto. Thranduil li ha presi tutti e tre e li ha bruciati, senza ascoltare le mie grida di disperazione. » Mi asciugai velocemente le lacrime traditrici che avevano iniziato a solcarmi le guance, poggiando una mano al vetro.  « Vada in malora lui e il suo dannato cuore di ghiaccio! Dannazione! »
« E-el, mi dispiace io non credevo… » Sentii la mano gelida dell’elfa sulla spalla, la sua presa leggera così famigliare era come un macigno che calava dentro di me. la sua presa, lei e i draghi avevano scavato dentro di me e riaperto ferite che credevo ormai chiuse.
Con un colpo di spalla secco, feci ricadere il suo braccio lungo il proprio fianco e scossi il capo. « E’ tardi per dirlo e, comunque, le scuse non mi riporteranno indietro i miei figli morti. Per questo, ho deciso di non usare i miei poteri, capisci? Meno poteri, meno possibilità di incidenti mortali. » La sorpassai dirigendomi verso la porta, mentre asciugavo le lacrime che cadevano sul mio volto con velocità impressionante. Ero sempre stata brava a nascondere il mio dolore, ma non a Fanie. Lei aveva sempre visto in me tutto; persino la parte più fragile e nascosta. « Ora, se mi permetti devo andare a sbrigare delle faccende da regnate. » Lanciai uno sguardo alle sedia congelata e vi sparai contro una palla di fuoco incandescente. Il ghiaccio frisse, scoppiettò, si spezzò e infine di sciolse riversando a terra la sedia pesante con un tonfo. « Ci vediamo dopo, a cena. Vai dove vuoi, tanto il palazzo lo conosci. Ma NON usare i tuoi dannati poteri ancora una volta o me la pagherai cara. » Sibilai con chiarezza, accurandomi di far rimbombar ogni parola in quella stanza piena di scaffali e libri. « A stasera. » Mi congedai e lasciai Fanie nella biblioteca, mentre il mio stomaco si contorceva su se stesso e le lacrime minacciavano ancora una volta di uscire e bruciare sul mio viso.




N.d.a

Ciao ragazzeeeee!
Scusssate il ritardo, tessssori. Ho avuto parecchio da fare utltimante, ma sono qui. Che ne dite del capitolo, l'approccio di Turion a Haldir vi è piaciuto? Non sapevo come farli socializzare, così ho deciso di mettere tutto in mano a Turion e di lasciarlo a redini libere; e di El e la sua storia? Povara EL T.T. E.... Elanor che comincia a scoprire i suoi poteri? Eheh, mie care, ho grandi cose in mente per questa FF, ma prima è con felicità che  vi presento un'altro capolavoro della nostra Viviana (la foto inziale) #applausi#. BRAVA,BRAVAAAAA :3

Ora corro via, devo.
Un bacione a tutte,

Isil.

 

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Capitolo 11
*** Spettri. ***


Storia d’inverno



Ho guardato negli occhi chi mi ha uccisa, e non ho sentito nulla.
 
-La ragazza che amava leggere on tumblr.
 



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La foresta era come una gabbia. Non aveva fatto in tempo a uscire da una cella che si era ritrovato catapultato in un’altra. Più grande, certo, ma pur sempre una prigione.
 Le fitte fronde di foglie secce, o semplicemente di rami neri erano così appiccicate e folte che l’aria sembrava non poterci passare attraverso. Non era una prigione, era l’inferno. L’uomo si guardò attorno e socchiuse le palpebre. Gli occhi verdi scrutarono ogni angolo di quell’immensa foresta nera, persa in uno dei tanti angoli di Arda e lasciata al disfacimento ora che gli elfi se n’erano andati.  Si passò una mano fra i corti capelli neri, si massaggiò le tempie e riprese a camminare. Tutto era maledettamente uguale in quella dannatissima foresta! Ogni cosa era identica a un'altra, persino gli animali parevano assomigliarsi tutti. Si fermò a osservare un grosso masso dal profilo appuntito e frastagliato. L’aveva già visto da qualche parte. Aveva già osservato quelle linee seghettate, irregolari… ma dove? Quando? Poi, un immagine gli illuminò la mente: certo che le aveva già viste. Le aveva studiate un’ora prima, per la seconda volta, dopo l’ennesimo giro in tondo. E ora era di nuovo li, al punto di partenza e non poteva fare altro che gridare e bestemmiare contro i Valar che l’avevano privato dei poteri. Sauron sapeva che loro potevano udirlo, ma poco gl’importava. Lui non si era mai affidato alle regole, non le aveva mai seguite e non avrebbe di erto iniziato ora che non aveva più la sua arma preferita e forte: se stesso. Tutta l’energia che gli era corsa nelle vene sin dalla nascita si era come dissolta, spazzata via da un gesto di mano di Manwë. E ora eccolo li, a vagare per una terra morta da solo. Avrebbe mai trovato la via d’uscita per quell’odioso labirinto naturale? Sarebbe mai riuscito a rivedere la luce del sole? Doveva. Non aveva intenzione di morire da solo, mortale e senza aver almeno rivisto gli occhi di El. Chissà se era cambiata nel corso degli anni. Si era chiesto più volte durante quei giorni di nulla e buio come doveva essere cambiata, come il suo carattere dovesse essere mutato, come la maternità le avesse reso la vita. Si era domandato tante volte anche com’era diventato Haldir. Da quello che aveva saputo ai piani alti era un bel ragazzo, forte e ben allenato con lo stesso temperamento freddo di Thranduil. Un abile arciere dagli occhi di ghiaccio.
Passandosi una mano fra i capelli per l’ennesima volta, imprecò vivacemente con il viso rivolto verso l’alto.  “Maledetto questo mondo mortale” si disse, mentre saliva sul grande masso appuntito e vi si sedeva sopra. L’immobilità della foresta l’avvolse fra le braccia ossee e fredde, tanto diverse da quelle roventi e tenebrose che aveva imparato a conoscere a Mordor. Mordor… chissà com’era adesso casa sua; quale tipo di esseri ci vivevano? Avrebbe tanto voluto rivedere la sua torre e il Monte Fato, ma non poteva. Non più. Poi, un qualcosa di grande e nero gli saltò davanti agli occhi. Aveva otto zame, dieci occhi ed era peloso. Un ragno bello grosso sbatté tutte le palpebre contemporaneamente,  mostrò le zanne bianche e velenose e si preparò a saltare. L’oscuro signore balzò in piedi e prese a correre, ricorrendo alla prima regola che aveva imparato non appena divenuto mortale: sopravvivere.
Saltò un tronco caduta a terra, aggirò svariati alberi e non guardò mai indietro. Sentiva bene il respiro del ragno, le sue otto zampe sui rami sopra la sua testa e le tenaglie che schioccavano ogni secondo secernendo veleno tossico e micidiale. Ma lui non poteva morire, non voleva morire. Dannata punizione dei Valar, a quest’ora, se avesse ancora avuto i suoi poteri, sarebbe scomparso e riapparso dove voleva. Sarebbe riapparso davanti a El, davanti a Legolas ma chi se ne importava. Sarebbe stato al sicuro e al diavolo l’orgoglio!
Mentre correva, qualcosa gli afferrò una gamba spingendolo verso il basso e successivamente verso l’alto. Sauron urlò, colto alla sprovvista e alzò gli occhi a quella che pensava essere una ragnatela ma che, alla fine, si rivelò un ramo. L’oscuro signore di Mordor spalancò le palpebre sorpreso, diede un colpo di reni e tentò di afferrare il tentacolo di corteccia… nulla. Era più debole di quanto pensasse, o ricordasse di essere stato.
Mentre il ramo lo tirava verso l’alto, la grossa sagoma del ragno si stava avvicinando troppo velocemente. Riusciva a vedere tutti gli occhi, piccoli e lucenti, dell’essere che lo scrutavano famelici. Poi, proprio mentre il predatore si gettò su di lui un groviglio di rami neri e secchi esplose dalle fronte e inghiottì l’animale in una prigione eterna nella sua morsa. Sauron vide il ragno venire trasportato in alto, tutte e otto le zampe tenute ferme da qualche ramo serpentino, essere sbattuto contro varie cortecce e restare chiuso fra i rami secchi. Per un istante solo, il tempo necessario per tentare di pensare, l’Oscuro pensò che la sua magia fosse tornata ma poi una sagoma gli si parò difronte, a molti piedi da terra. Era quella di una fanciulla, alta e slanciata in sella al suo cavallo baio. Aveva qualcosa di estremamente famigliare con quei lunghi capelli castani che le scendevano sulle spalle pallide, coperte da un gilet di pelle nera e la spada lunga che le penzolava da una cintola di cuoio scuro. La osservò a lungo, ne seguì i movimenti, la studiò con il cuore che batteva forte e all’impazzata. Era così bella e famigliare. La prima cosa che riuscì a pensare fu: “Lei mi ha salvato”, la seconda: “El.”
Con tutto il fiato che riuscì a prende, si portò le mani alle labbra e gridò: « Eleonora! »
Colta la sprovvista, la ragazza lasciò andare le redini del cavallo e impugnò l’arco scoccando una freccia nella direzione di Sauron. La punta dell’arma tagliò di netto la lunga liana che l’aveva tirato verso l’alto e si conficcò nel ventre del ragno, ancora intrappolato nella gabbia di rami sopra la testa dell’uomo. L’animale si contorse nel tentativo di togliersi la freccia dalla carne, ma si ritrovò preda di se stesso: affondò le zanne nel torace e tirò verso l’alto strappando la sua stessa carne. Sauron toccò terra prima di poter vomitare. O meglio, si ritrovò a terra sormontato da una montagna di elfo con tanto di armatura e spada contro il collo. L’uomo, che doveva essere il capo della guardia a giudicare dal fermaglio che gli teneva fermo il mantello verde smeraldo, gli premette il filo della propria arma contro il collo e, quando Sauron provò a muoversi, sibilò: « Starei fermo fossi in te, straniero. » E, ancora, dopo aver lanciato uno sguardo alla fanciulla a cavallo aggiunse:  « Hai provato ad attaccare la nostra principessa, la pena è la morte.  »
Ecco fatto, si disse l’oscuro, esco da una situazione critica e mi ritrovo catapultato in un’altra.
Con molta cautela poggiò un palmo sul piatto della spada e tentò, con gentilezza, di spostarla di lato in modo che il filo non gli tagliasse la pelle. Il giovane elfo dai capelli neri spinse l’arma ancora più vicina alla pelle. Sauron poteva sentire il freddo che il metallo elfico emanava, poteva provare la paura che non l’aveva assalito mai così tante volte in un giorno. Si sentiva un fifone, ma sapeva che El l’avrebbe salvato nonostante tutto. Lei l’amava ancora, lo sapeva e non aveva mai smesso di crederci. E adesso lei era li e…
« Aràton, lascialo andare. » Con ribrezzo, il giovane dai capelli d’ossidiana si allontanò.
Per un attimo il cuore di Sauron smise di battere. La voce non era quella di El, non era il tono che aveva lei. Quella sfumatura vivace non apparteneva alla donna che amava. Tutto in quella voce era sbagliato: la voce di El avrebbe dovuto essere più roca, fluttuante e coinvolgente, strafottente persino. Come poteva aver scambiato un’altra donna per Eleonora? Come aveva potuto?
La ragazza, che aveva creduto essere la guerriera, gli si parò davanti. Gli occhi dell’Oscuro seguirono la linea delle gambe magre, i contorni ben delineati del corpo e si soffermarono sul viso. Ora che la vedeva da così vicino, senza una spada alla gola che gli bloccava la visuale, notò come assomigliasse a El, in un certo senso. La giovane aveva lunghi capelli castani ondulati, pelle pallida, labbra rosse e fini, e occhi blu. Di un blu così intenso da sembrare quasi neri. Sauron si sentì in colpa per aver scambiato la sua El con un’altra… un’altra così simile a lei nei movimenti che stava compiendo –perché la giovane ragazza stava incrociando le braccia al petto come aveva visto fare alla guerriera milioni di volte-, nei tratti del viso.
« Qual è il tuo nome? » Domandò con sicurezza la giovane, senza staccare gli occhi dai suoi. Avevano lo stesso colore del mare in tempesta, lo stesso colore di Legolas.
Sauron riflettè: non poteva dirgli il proprio vero nome, sarebbe finito deriso o ucciso per tradimento. Perciò, optò per un nome poco comune… lo stesso nome dell’amante di sua sorella che lui stesso aveva ucciso anni prima. « Rìnon, mia signora. »  Rispose, e facendo leva sulle braccia si alzò.
Dieci spade gli vennero puntate contro, trattenute da un gesto repentino della cacciatrice; o almeno doveva esserlo, a giudicare dagli abiti schizzati di sangue che indossava e la carcassa di un grosso cinghiale sul dorso di uno dei cavalli. « Rìnon… bene. Perché prima mi hai chiamato con il nome di mia madre? »
 
 
*    *
 
 




« La tua strada è buia, mio signore. Stai intraprendendo le vie dove solo gli dei posso camminare. »
« Ho sempre voluto essere un dio. » Affermò Gring, lanciando ad Aldea uno sguardo di fuoco, carico di pazzia e avidità. « Ma per ora sono solo un re… non per molto, spero.  » L’uomo lanciò un’occhiata ai troll che gli camminavano attorno, ai draghi che volavano sulla sua testa. Erano come una nube multicolore, ce n’erano rossi, verdi, grigi, bianchi, neri e azzurri. Una nube di sputafuoco al suo servizio.
Non appena avrebbe ritenuto che il momento sarebbe stato opportuno avrebbe attaccato e distrutto la regina del fuco rivoltandogli contro il suo stesso elemento. Gring riusciva già a vederla, se la immaginava mentre indossava quell’armatura rossa e argentea che le aveva visto addosso per molte battaglie. Ricordava ancora i movimenti veloci delle dita mentre si legava i capelli scuri, oppure mentre irrigidiva la mascella; se la immaginò con la spada in mano, a gridare ordini e alzarsi in volo con il suo dragone azzurro Titano. Ah, avrebbe ucciso anche quella bestia pur di vedere la ragazza crollare nel vuoto più totale.
 « Perché essere un re quando si può essere un dio? » Mormorò retoricamente alla cerva d’innanzi a lui.
L’oracolo l’osservò con le sopracciglia arcuate e scosse il capo. « Io non vedo altro che buio, nel tuo futuro mio signore. » I suoi occhi cangianti si staccarono da quelli neri di Gring, non appena la cerva si portò una mano al viso per coprire il livido che sapeva il suo rapitore stava guardando.
Gring, in un certo senso, si sentiva in colpa per quel che aveva fatto ma in guerra non ci poteva essere pietà. In guerra chi tradiva la propria parte veniva punito, e Aldea si era meritata quelle botte. Interagire col nemico era stato il suo sbaglio, e probabilmente sarebbe potuta morire se non si fosse trasformata in un cervo nero e avesse quasi infilzato il ventre dell’Ombra.
 A un tratto, vide l’oracolo rizzò la schiena e gettò la testa indietro: le iridi divennero bianche come latte, senza segno di pupilla, e la pelle del viso si venò di complicate ramificazioni blu. Dalle labbra socchiuse della donna iniziarono a uscire parole: « Le strade che stai percorrendo sono destinate solo agli dei. » La voce che stava uscendo dalla gola di Aldea non era la sua, era roca e rimbombante. Quasi troppo per essere quella di un comune mortale. Incuriosito, Gring fece un passo in avanti esitante. Allora, l’oracolo riprese: « Nessuno salverà tua anima. Gli elementi sono contro di te e la strada che stai percorrendo è un paradiso oscuro. » Sul collo della cerva le vene pulsavano pesantemente, colorandole la pelle diafana di blu. Sembrava fatta di porcellana, e si stava crepando. « Ricorda, signore dell’aria: l’inverno non tarderà ad arrivare, non quest’anno. » La cerva ebbe un fremito e poi chiuse le palpebre.
« Chi sei? » La voce dell’Ombra risuonò potente e debole al tempo stesso, quasi fosse spaventato. A dire la verità, lo era eccome.
« Io sono colui che le anime veglia. Io sono colui che tu non hai mai voluto vedere. »
Quando riaprì gli occhi, le sue iridi erano diverse: una era nera come la cenere, l’altra azzurra come il ghiaccio. Colta da un’improvvisa scossa, le sue orecchie da cervo nero si mossero sotto la cascata di capelli dell’ennesimo colore, e gli occhi diversi scrutarono ogni cosa. La donna si passò una mano sul viso, passandosi le dita sul cerchio tatuato sulla fronte, le linee nelle guance e quella sul mento, fino ad accarezzarsi gli angoli della bocca e imbrattarsi la mascella di sangue. Per un attimo, solo per un secondo, Gring credette che l’oracolo sarebbe morto ma, poi, Aldea si alzò in piedi e si voltò verso di lui. Gli occhi dai colori differenti che l’osservavano con odio e un qualcosa che, per Gring, non aveva nome.
« Hai sfidato gli dei, sciocco. E adesso loro ti distruggeranno. » Uno spettro di risata uscì dalle labbra della donna, rosse di sangue scarlatto che le colava dagli angoli della bocca. « Hai risvegliato un potere talmente grande, Gring, che ti si ritorcerà contro », con velocità lei lanciò un’occhiata al cielo, alla nube di draghi enormi che sputavano fuoco e si azzannavano fra loro. Poi tornò a lui: « Le tenebre sono sulla sua strada. I morti sono sulla tua via. »
 
 



*   *
 


« Andiamo, respira dannazione! »
Aprii gli occhi all’improvviso, ritrovandomi col il viso premuto sul torace di qualcuno. La testa mi girava, pulsando come mai prima d’ora e il profumo di menta e muschio dell’uomo che mi teneva non faceva altro che peggiorare la situazione.
« Oh, sparisci! » Esclamai dando una spinta potente con le mani, riuscendo ad allontanarmi quel tanto che bastava per mettermi seduta. Passai le mani sugli occhi e stropicciai le palpebre, poggiando poi i palmi a terra. La roccia del pavimento mi tagliò la pelle, infliggendomi piccole ferite, e il freddo che emanava mi procurò sollievo. Voltai il capo verso l’uomo che avevo spinto.
Turion se ne stava seduto a pochi passi da me, il viso rosso di fatica. I corti capelli argentei gli ricadevano sulla fronte pallida come schiuma marina, gli occhi grigio ghiaccio brillavano come quelli di un gatto. C’era qualcosa in quel ragazzo che mi diceva di avvicinarmi e stringerlo a me con maternità. Nei suoi occhi potevo leggere tutta la tristezza e la desolazione che doveva aver passato dopo che suo fratello aveva scelto il lato oscuro, dopo che Fanie se n’era andata perché voleva far ragionare Sauron, dopo che, passati anni e anni, aveva  trovato sua sorella sfregiata e cieca da un occhio. In un certo senso, ero attratta dal comportamento chiuso ma tutta via premuroso di Turion. In qualche modo, nei reconditi della mia mente, non potevo fare a meno che paragonarlo a me. Infondo, tutto quello che avevamo passato ci aveva costruito attorno una corazza di ghiaccio spessa e resistente, mentre all’interno bruciava una fiamma inestinguibile di dolore.
Mi passai una mano sul volto, sentendo i piccoli tagli briciare lontani dal freddo della pietra, e ingoiai un fiotto di saliva a vuoto. « Scusa, non sono abituata a svegliarmi tra le braccia di qualcuno che non conosco. L’ultimo che l’ha fatto era… »
« Mio fratello, lo so. » Turion scostò i capelli dal viso e si alzò, porgendomi una mano. L’accettai senza esitazione e mi eressi in piedi.
Prima di ritrovarmi a guardarlo negli occhi ancora, distolsi lo sguardo e mi strinsi nelle braccia con fare protettivo. Valar, mi ero dimenticata quanto la mia corazza si fosse crepata col tempo, quanta della mia forza e del mio carattere fossero andati a farsi benedire. Non avevo più sentito pronunciare, e non avevo mai pronunciato il nome di “Sauron” da quando la guerra era finita. Faceva un così strano effetto udire ancora quella parola… Non era altro che un nome, un identità, una vita che si era spenta. Allora perché faceva così male? Perché non mi ero perdonata la sua morte dopo così tanti anni? Perché non ero riuscita ancora a farmi entrare in testa che lui non era stato altro che una passeggiata, un innamoramento sbagliato e contro la logica. Lui mi aveva uccisa, sentimentalmente e concretamente, ma io non l’avevo mai dimenticato. Ero persino tornata a Mordor, tentando di fargli cambiare idea e di gettare al vento i suoi piani. L’avevo visto morire davanti ai miei occhi, lui era morto con la mia immagine nelle sue pupille. Senza volerlo, percorsi con le dita la cicatrice sul mio braccio destro e strinsi i denti: non aveva mai fatto così male. Un formicolio prese a infastidirmi dietro la testa, portandomi poi a poggiarci la mano sopra. Strinsi le palpebre e poggiai entrambe le mani alle tempie, trattenendo un urlo.
Era come se qualcosa tentasse di entrare nei miei pensieri, o qualcuno non riuscivo a capirlo. Ma io non volevo. La mia mente era stata violata per troppo tempo durante la guerra dell’anello e non avrei permesso a nessuno, se non a Turon, di entrarvi. Eppure, nonostante tutto l’esercizio che avevo fatto per tenere Legolas e suo padre lontani dal mio cervello –e ci ero riuscita-, sembrava che questa forza fosse più potente della loro messa assieme. Sentii le gambe abbandonarmi e non riuscii a restare in piedi. Caddi in ginocchio, graffiandomi la pelle delle ginocchia con quella dannata roccia che fungeva da pavimento nelle stalle, e mi piegai su me stessa.
« Non di nuovo, mia signora, ti prego! » Esclamò Turion, gettandosi in ginocchio accanto a me.
Sbarrai gli occhi e mi voltai a guardarlo, il dolore che diventava insopportabile. « “Non di nuovo”? Mi è già successo prima?!  » Esclamai, stringendo un lembo della sua casacca fra le dita. Il dolore stava diventando lancinante, come se qualcuno stesse tentando di aprirmi il cranio in due e far uscire tutti i miei demoni.
« Prima che svenissi e successa la stessa cosa. » M’informò, poggiando le sue mani sulla mia per allentare la presa. L’unica osa che ottenne fu una scottatura dovuta al mio troppo calore corporeo. Represse una smorfia di dolore e, con pochi gesti, freddò la mano con quel suo potere tanto simile a Fanie.
Scossi il capo e tornai al dolore. Dovevo stare calma, il trucco era questo no?
Poi, una voce prese a urlare nella mia testa. Era roca, forte e dannatamente famigliare:  « L’oscurità! L’oscurità sta arrivando, nascondi i tuoi segreti guardiana! Nascondi i tuoi segreti! »
« S-segreti? » Balbettai a quella stessa voce.
« Nascondili! Nascondi i segreti, o l’Oscurità saprà come rubarli! » Un ultimo grido acuto e tutto scomparve.
Questa volta non svenni, ma in compenso i miei occhi catturarono figure lontane e famigliari che rientravano a casa… seguite da un’altra che non riuscivo a individuare bene.
 
 
« Tu, brutto figlio di puttana! » Fanie alzò le braccia al cielo e le riabbassò con velocità, facendo nascere dal terreno spunzoni di ghiaccio tagliente che si diressero verso l’uomo.
L’uomo saltò di lato e li evitò, rotolando sul prato davanti all’entrata di Bosco Atro. Non ricordavo di averla mai vista così arrabbiata in vita mia. Spinsi delle guardie per riuscire a passare, ad avere una buona visuale ma quando finalmente arrivai in prima fila desiderai non avercela mai fatta. Sauron si alzò da terra e gettò le mani al cielo, i corti capelli neri gli volteggiarono sul viso, la pelle chiara risplendette contro quella bianca delle nubi e gli occhi…verdi parvero riempirsi di una paura e una malinconia che non vi avevo mai visto dentro. Il suo pomo d’Adamo si mosse verso l’alto, quando la sorella fece un passo in avanti e gli puntò una mano contro.
« Io ti avevo ucciso, stronzo! » Strillò la bionda, ed ecco una cascata di ghiaccio diretta sul fratello. E l’avrebbe ucciso, se una coltre di liane nere non avesse fermato il ghiaccio.
Repressi l’urlo che stava per uscire dalle mie labbra e le socchiusi, il respiro mozzato a metà. Da dove diamine erano spuntati quei rami? Come aveva fatto Sauron a farli uscire dal terreno per crearsi un gazebo protettivo?
« Ehi, biondina vacci piano. Rìnon non ha fatto nulla di male ne a te ne a nessuno di noi. »
Il mio cuore smise di battere, mentre le mie gambe avanzavano da sole verso Elanor. I miei occhi rimasero puntati su mia figlia, mentre dietro di lei vedevo l’ombra di Sauron farsi avanti. I suoi occhi, non più rossi come ricordavo ma verdi, incatenarono la mia figura.
« Elanor, allontanati da lui. » Le ordinai, fermandomi vicina a Fanie. 



N.d.a

Ciao ragazze,
scusatemi il ritardo, è che  ho le idee ma non so perché non escono. E' così stressante.
Anyway: scusatemi per queste orride sei pagine, ci vediamo presto.
Baci,

Isil.

 

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Capitolo 12
*** Aiuto. ***


Wait. Give me your attention (?) please! Ho deciso che scriverò dal pov. di Elanor in prima persona –d’ora in avanti, quando ne avrò bisogno. Il perché è complicato da spiegare, ma avrei dovuto farlo già da prima. Ora vi lascio al capitolo.
 
( Chiara in bocca al lupo pergli esami )


Storia d’inverno.
 


“Tu non l’hai mai saputo
Realmente com’è andata
Quanto dolore ho provato a nascondere
Sempre
Dietro a ogni risata.”
 
— Mostro
 

 



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Quel giorno il cielo era limpido, nonostante l’inverno fosse alle porte, e l’aria era una fresca carezza sulla pelle. Il sole invernale accennava già a raffreddare ogni cosa con i suoi raggi caldi e, allo stesso tempo, freddi. Nella piazza del palazzo di Gondor l’Albero dei Re era ancora in fiore, ogni tanto qualche petalo si staccava dai rami e volteggiava attorno ad Arwen, Arya –la secondogenita di Aragorn- e Afrodite – l’ultima figlia del Re, chiamata così dopo un consiglio ricevuto da una vecchia amica di Sua Maestà. Aragorn sorrise vedendole ridere fra loro, osservando la moglie intrecciare i capelli castani della più piccola figlia e guardando Afrodite giocare con i suoi neri. Poco lontano da lui Varno, un soldato semplice scelto dal figlio del sovrano, si stava allenando con il futuro erede al trono. Il cozzare delle lame arrivava ad Aragorn che, distraendosi ogni tanto dalla conversione che stava tenendo con il capitano delle sue guardie,  si voltava a guardarli con un leggero sorriso sulle labbra.
« Maestà! Maestà! » L’urlo di una delle guardie reali di Gondor che correva  per la cittadella si spanse nell’aria.
Persino dall’altitudine a cui si trovava, Aragorn udì le sue grida. Senza degnare nessuno di spiegazioni, lasciando la moglie e le due figlie a osservarlo stranite, e il capo delle guardie  a metà discorso corse verso la fine della piazza, sorpassò l’Albero dei Re e si affacciò al cornicione. Eldarion, un giovane mezzelfo dai lunghi capelli neri e gli occhi azzurri come il cielo che li sovrastava, lo seguì ignorando i richiami di Varno.
« Padre, che succede? Perché ve ne siete andato così improvvisamente? » Il re fece un brusco gesto con la mano, zittendo il figlio. Si sporse ancora un poco.
Con lo sguardo il re riuscì a distinguere la guardia che saliva la ripida strada che portava al castello, sorpassando e scostando la gente; la sua armatura che luccicava contro i raggi del sole era come uno specchio di fuoco. Fuoco. Quella parola lo riportava sempre indietro nel tempo, quando era sui campi di battaglia a fianco della Compagnia dell’Anello e di Eleonora. Lo riportava ai draghi. Oh, splendide creature che aveva avuto l’occasione di vedere da vicino. Come avrebbe voluto rivederne uno. Come avrebbe voluto tornare sui campi di battaglia, nonostante i suoi centododici anni.
« Padre, per tutti i Valar, che ti prende? Che succede? » Eldarion scosse leggermente il padre, ricevendo in cambio un’occhiata di fuoco.
« Notizie importanti, ecco cosa succede figliolo. » Rispose Aragorn, tornando sui suoi passi col ragazzo alle calcagna. Certo, quando una delle guardie correva così, gridando il suo titolo come se fosse questione di vita o morte dovevano essere per forza notizie importanti. Ma da chi potevano provenire? Gimli? No, assolutamente no. Il nano aveva eretto il suo impero poco distante da Gondor e ormai andava a far visita al Re e a tutta la sua famiglia quasi ogni seconda settimana del mese. I piccoli Hobbit della contea? Probabile, ma non certo. Quando i piccoli amici gli scrivevano era per sapere sue notizie, o il loro imminente arrivo. Di solito, quando qualcuno correva con tanta foga erano notizie di… guerra. E se Aragorn conosceva qualcuno dedito alla guerra e i guai quella era Eleonora.
Stranamente sorridente, il Re affiancò la sua regina e attese che la guardia li raggiungesse. Arwen si voltò verso di lui inarcando le sopracciglia e dopo si schiarì la voce. Aragorn la guardò, sorrise e le lasciò un lieve bacio sulla tempia sinistra.
« Niente. Cose. Stupide. » Sillabò la regina, non appena la guardia li raggiunse. Il re le sorrise e poi si voltò verso l’uomo, congiungendo le mani davanti a se.
« Mio Signore, mia Signora », annaspò la guardia, inchinandosi innanzi ai due regnanti. « Notizie importanti da Bosco Atro. »
« Alzati, e porgici queste nuove. » Gli sorrise la regina, facendogli gesto di mettersi in piedi. La guardia s’issò in piedi, si asciugò il sudore dalla fronte e ingoiò un fiotto di saliva. Aragorn notò che non reggeva nulla fra le mani, e che aveva le gambe tremanti. Questa cosa non andava affatto bene.
« Mio Re, mai Regina purtroppo non ho con me le informazioni. »
« Perché? » Eldarion apparve all’improvviso, affiancando il padre e la madre. Aveva una postura fiera, degli zigomi alti e ben definiti e la carnagione chiara della madre. Era un bravo spadaccino, un ottimo studente –a detta dei suoi rettori- ma era troppo curioso. Per un futuro re la curiosità che scorreva nelle vene era come veleno. I giovani, per quanto diligenti con Eldarion, non sapevano e non potevano mantenere a lungo un segreto –prima o poi l’avrebbero detto a qualcuno, e quella scelta sarebbe stata la loro rovina.
« Perché, mio principe, il messaggio è conservato fra le fauci di un… »
« Drago! » Arya si alzò in piedi, ignorando le proteste della sorella maggiore, e indicò con mano tremante il cielo.
Aragorn sorrise senza accorgersene e si diresse correndo giù dalla ripida discesa che conduceva al palazzo, attraversò le serpentine strade di Gondor e arrivò –affannato- ai cancelli. Quando questi si aprirono, davanti a lui si estese, in tutta la sua grandezza, la vallata che troneggiava su Gondor ma non fu quello spettacolo a togliergli il fiato. Tutto il contrario, ormai era abituato a quella vista. Invece, a bloccare il suo respiro fu l’avvicinarsi poderoso di Turon, il drago di Eleonora. L’animale si avvicinava con lentezza, quasi non ne avesse voglia,  con un passo sicuro e maestoso che si adattava alla sua grande figura. In alcuni punti del suo corpo si estendevano piccole cicatrici, e si notavano soltanto quando le squame che lo ricoprivano erano contro sole. Quei tagli, rimarginati da anni, erano la prova che anche lui aveva partecipato alla battaglia contro Sauron. Il dragone aprì le ali, bloccandosi un istante, per scuotersi di dosso la sabbia che gli era rimasta addosso dopo l’atterraggio. Riprese a camminare.
« Amico mio. Anni sono passati dall’ultimo nostro incontro, è molto bello rivederti. » Aragorn allargò le braccia sorridendo e attese che il drago si posizionasse di fronte a lui. Turon, se si alzava sulle zampe posteriori, poteva arrivare quasi alla cima del castello di Gondor. Era cresciuto molto negli anni.
Gli occhi neri del grosso rettile passarono più volte sulle mura di Gondor, dove le guardie cittadine capitanate da Eldarion stavano puntando le frecce contro di lui. Sbuffando un ventata d’aria calda dalle narici, Turon si sdraiò a terra e poggiò la grossa mandibola sul terreno in modo che Aragorn potesse prelevare la pergamena dalla sua bocca. Il re fece un passo in avanti, allungò una mano ed estrasse il messaggio dalle fauci del drago. La pergamena ingiallita dal tempo scivolò fra le dita del re, bagnata di saliva calda e viscosa, che la osservò per qualche istante. Il sigillo in ceralacca verde a forma di corna di cervo dava fondamento a tutte le sue idee. Lanciando un’occhiata di traverso alla cittadella, accortosi degli arcieri in posizione, Aragorn fece loro segno di abbassare le armi.
« E’ un drago » razza di incompetenti « non riuscireste ad ucciderlo con quelle frecce nemmeno pregando i Valar in Sindarin. E, in più, è un amico! » Urlò, e le guardie ubbidirono. « Perdonali », si scusò con Turon.
« Non scusarti per loro, amico mio. » Si affrettò a dire Turon. La voce forte e fiera che solo il re poteva udire. « Se anche avessero provato a uccidermi, non avrei esitato a ridurre al suolo la tua città. Distruggi ciò che ti distrugge.  L’ho imparato anni fa. »
« Capisco. Ma, entrambi sappiamo che non c’è bisogno di questa spiegazione. Nessuno dei miei uomini ti avrebbe attaccato. » Confermò il re, nel mentre rompeva il sigillo in ceralacca verde e apriva la lettera.
Sulla pergamena vi era scritto questo:
 
Caro Aragorn,
 
sono passati mesi dal nostro ultimo scambio di lettere. Ammetto che non mi aspettavo ti dimenticassi di rispondermi. Mi hai delusa. Vergogna, non si dovrebbe far aspettare una donna, specialmente una regnante. Se fossi stata un’altra regina, magari una stile Thranduil, probabilmente mi sarei offesa e ti avrei dichiarato guerra. Guerraaaaa! Fortunatamente per te, io non sono così. Lo so, ho saltato i convenevoli ( come sta Arwen? I tuoi figli sono cresciuti bene? Eldarion sarà un buon re? ) e me ne rammarico ma, come forse avrai già capito, amico mio, che questa lettera non è una delle corrispondenze che siamo soliti scambiarci. Aragorn, due settimane fa è giunta da me una mutaforma di nome Cuinië e la cosa strana non era che, appunto, potesse trasformarsi in un cervo bianco ma che a quanto riportava il più aggiornato tomo a mia disposizione a Bosco Atro – lasciati dire che Thranduil non bada a spese riguardo libri, e di questo gliene sono grata- l’ultimo mutaforma di mia conoscenza era Beorn, l’uomo orso. Adesso, mio caro amico, mi sono aggiornata e ho scoperto che esistono altre due razze di cambia-pelle: i clan del nord, che si trasformano in grossi lupi e risiedono sulle montagne azzurre, e i cervi del sud. Una domanda mi ha dunque  tormenta nel sonno Aragorn: perché una delle cerve di Aldëa, che noi tutti conosciamo come l’unico Oracolo della Terra di Mezzo, si è spinta fino a Bosco Atro? Semplice. Cuinië ha portato con se una profezia del suo capo clan. E’ stata una fortuna che Elanor non l’abbia uccisa –storia lunga, che sarò lieta di raccontarti quando ci incontreremo. In ogni modo, la profezia è un insieme confuso di metafore credo, che ne io ne gli altri riusciamo a comprendere a pieno. Spero che leggendola almeno tu sappia darmi una risposta, amico mio. Te la trascrivo in modo che tu abbia l’opportunità di comprenderla:


 "La guerra incombe, e
 
divampa il fuoco.
 
Esplode il ghiaccio, e
 
la terra trema.
 
Il vento oscura il sole,
 
l'Ombra risorge.
 
La guerra incombe,
 
i guardiani ritornano.
 
Il sangue cola sul terreno,
 
i sigilli si spezzano.
 
La guerra incombe."
 

L’unica cosa che sono riuscita a comprendere, Aragorn, è che ci sarà una guerra e lo so che sto per chiederti molto, che sto per frapporti ancora una volta tra l’amore e la pace e la guerra. Ma, Aragorn siamo in guerra. SIAMO IN GUERRA.
Caro amico ti scrivo perché ho assoluto bisogno di te. Di te, della tua saggezza e del tuo esercito. Purtroppo a causa di alcuni contrattempi non sono potuta venire io stessa, ma ho inviato Turon perché è l’unico di cui mi fidi realmente. Lui è parte di me come io sono parte di lui. Siamo un’unica cosa. Guardiano e Custode. Perciò Aragorn, ti chiedo di fidarti di me. (Qui a Bosco Atro sono pochi quelli che hanno guadagnato la mia fiducia. Come sai, dopo che qualcuno ha tentato di avvelenarmi anni fa sono divenuta molto diffidente Sella il tuo cavallo Aragorn, mettiti l’armatura e impugna la spada come un tempo. Ritrova quella determinazione mai perduta –di cui noi abbiamo un gran bisogno adesso. Lo sai che io non sono adatta a comandare un esercito –troppo impulsiva e avventata- e vorrei che fossi tu a farlo per me. Perché vedi, fratello, questa battaglia mi porterà a un sacrificio.  Che cosa?, ti starai chiedendo tu. Beh,  ho il presentimento che l’Ombra citata nella profezia della cerva sia qualcuno che io ho conosciuto e amato come un padre, e per avere risposte concrete dovrò pagare con la mia stessa vita.
Dovrò morire, Aragorn. 
 Cuinië mi accompagnerà nel viaggio, in quanto lei è una cerva bianca. ( Non so se ne sei al corrente, ma i cambia-pelle albini sono, per uno strano tipo di mitologia, fantasmi concreti che camminano fra noi. Perciò, non solo lei mi dovrà uccidere e far si che io incontri Nàmo alle Porte dei Morti ma verrà con me. ) Perché ti ho chiesto di raggiungerci credo che ormai sia chiaro: senza la mia cocciutaggine Legolas seguirebbe soltanto il suo istinto primordiale, la rabbia e l’odio (per quanto gli Elfi Silvani possano provare qualcosa come questi grandi sentimenti. Thranduil di sicuro ci riesce), e so che i miei figli non reggerebbero la mia morte. Per quanto io sia riuscita a tenergli nascosta tutta la verità sulla battaglia contro Sauron, sento che dentro di me si muove qualcosa. Un’antica sensazione che pensavo morta da tempo ha ricominciato a serpeggiarmi nel corpo, a svegliarmi la notte, a farmi sognare  la torre di Mordor mentre cadeva. Continuo a sognare Sauron. Ho paura che non sia morto. Ho il presentimento che qualcosa di più grande di tutti noi stia per scatenarsi.
Ho bisogno di te, così come i miei figli e il mio compagno. Noi ti stiamo aspettando. Io ti sto aspettando, fratello mio.
Ho bisogno di te.
 
Con affetto,
 
Eleonora.
 
 
P.s: se ti ostini a rimandare l’invio della tua lettera di risposta, giuro sui Valar, ti crucio! (Ti spiegherò cosa significa questa parola solo e solamente quando arriverai a Bosco Atro.)
P.p.s: potresti avvertire anche Gimli e i suoi nani? Grazie. (Turon si è rifiutato di portare un’altra pergamena.)
P.p.p.s: Non so con quanto ritardo ti sia arrivata questa lettera, ma ti prego MUOVITI!

 

 
Aragorn arrotolò la pergamena e osservò Turon. Gli occhi azzurri del re scrutarono il grande drago con aria assente. Eleonora e le sue strane parole. Eleonora e le sue richieste. Eleonora e la sua guerra. Con un sorriso tirato, Aragorn batté la pergamena sul palmo della mano libera e rimase a pensare pochi istanti.
« Vai ad avvertire El che suo fratello sta arrivando. Dille che Gondor e i suoi uomini stanno arrivando. »  
 
 
 
*    *
 
 



« Era morto! » Fanie si attaccò al tavolino e l’alzò come se non pesasse nulla, spedendolo a gambe all’aria. Il legnò si frantumò contro il pavimento, e il rombo che ne uscì fuori mi parve simile a quello di ossa rotte.
Deviai il mio sguardo dalle fiamme e lo concentrai su di lei, che si torturava con quella frase “Era morto! L’ho ucciso io!” da quasi un’ora. Passai una mano fra i capelli, presi un bel respiro e mi voltai verso Turion che se ne stava tranquillo in un angolo. La ricomparsa del fratello maggiore non sembrava averlo toccato minimamente. Anzi, lui se ne restava a guardare fuori dalla grande vetrata la foresta morta di cui ero regina. Beh, non proprio regina. Non ancora. Gli occhi grigi del giovane analizzavano ogni albero, ogni fronda secca e nera, mentre il riflesso che le nubi poggiavano sui suoi capelli li faceva apparire bianchi. Era un bel ragazzo, mi ritrovai a pensare, così simile a Fanie e così diverso da Sauron. Ma, a quanto ne sapevo, una volta anche il Signore di Mordor aveva avuto corti capelli pallidi e occhi grigi come il ghiaccio. Tutto questo prima che ascendesse al potere e lasciasse i Valar.
Scrocchiando le nocche, mi allontanai dal fuoco e mi diressi dal ragazzo. Fanie ancora se la prendeva col tavolino, lanciandolo e colpendolo ripetutamente. Sospirai e mi fermai accanto al fratello, restando come lui a osservare la foresta.
« Non sembri minimamente preoccupato dal fatto che tuo fratello morto sia allegramente vivo fra noi » sussurrai, gli occhi fissi sulla morte vegetale che si estendeva dinnanzi a essi.
« Non mi stupisco di molte cose, mia signora. E, per quanto riguarda Sauron è un dono dei Valar. » Dichiarò, e io non potei fare a meno che socchiudere le labbra allibita.
Sauron un dono dei Valar? Più che altro doveva essere un incubo! Però, negli ultimi mesi l’avevo sognato molte e molte volte. Avevo rivisto la torre che cadeva, lui morto, i suoi occhi marchiati a fuoco dentro di me.
« Vedi, mia signora, i Valar sanno cos’è in arrivo. Sanno che da soli non ci riuscirete mai, e sanno che tu hai intenzione di raggiungere Nàmo alle Porte dei Morti per avere spiegazioni sui tuoi presentimenti. » Ingoiai un fiotto di saliva ma non lo guardai. Come faceva a sapere quelle cose? « Yavanna mi ha pregato di dirti di non fare nulla di tutto ciò, ma che se proprio volevi –lei sapeva che non ti saresti tirata indietro, come sapeva che tua figlia aveva il dono della terra (che Yavanna stessa le ha regalato alla nascita)- avrebbe mandato qualcuno che un tempo era stato corroso dalla crudeltà per aiutarti. Sauron non ha più poteri Eleonora, per questo non si è difeso quando Fanie l’ha attaccato, e, sebbene tu l’abbia fatto rinchiudere nelle celle della tua… della reggia di Thranduil, io ti consiglierei di utilizzarlo come stratega. E’ sempre stato molto bravo con queste cose sin da bambino. »
« Beh, la sua bravura l’ha portato alla sconfitta. » Replicai acidamente, scossa da tutte quelle informazioni ricevute in così poco tempo. Sapevo dei poteri di Elanor da qualche tempo, Leron mi aveva documentata su tutto e devo ammettere che questa cosa mi aveva scossa e non poco. Tutta via, ero riuscita a nascondere tutto fino a questo pomeriggio ma a un certo punto BOOM! la bomba era esplosa. Tutti quegli anni che avevo speso a nascondere i poteri che avevo andati in frantumi: Fanie che gettava sul fratello morto riapparso all’improvviso stalattiti di ghiaccio; Elanor che difendeva l’Oscuro con quei suoi strani poteri!
« Avrebbe vinto, e tu lo sai. Ma i sentimenti sono l’arma migliore da usare contro un nemico non è così? » Mi schioccò un’occhiata di fuoco, elargente e si poggiò con una spalla al vetro. Repressi una smorfia frustrata e mi voltai a mia volta a osservarlo. Nei suoi occhi chiari non c’era un briciolo di rammarico, constatai, ma solo tanta curiosità. « Dimmi, qual è stata l’ultima cosa che gli hai detto prima che morisse? Mh? »
« Non gli ho detto niente. L’ho guardato andarsene dopo che lui aveva provato a uccidermi » e per dare più enfasi alla mia frase, tirai su la manica del mio vestito e gli mostrai la lunga cicatrice che correva sul mio braccio. Non fece nessuna smorfia, nessuna faccia strana, si limitò soltanto ad accarezzarsi il collo.
« E’ sempre stato uno di quei tipi che non accetta le sconfitte, questo però non ti ha mai dato il dovere di ucciderlo. » Ribatté. « Eri il suo unico punto debole, l’unica che fosse mai riuscita ad amare e l’hai distrutto, tradito e ucciso. »
« Fanie l’ha ucciso. »
« No. Fanie l’ha privato della vita all’ultimo, tu l’avevi ucciso già molto tempo prima. Pensi che non vi guardassi da dove mi trovavo? Pensi che i Valar non vi guardassero? »



N.d.a

Ciao ragazze, eccomi quà con l'ennesimo, stupidissimo capitolo! (Cit. Leonardo De Carli - storipiata. ) Anyway, pochi giri:
- Grazie Viviana per avermi prestato il nome Arya -che so che per te è molto importante.
- Ne approfito anche per pubblicizzare 
Haryalculië ( https://www.facebook.com/elentales?ref=ts&fref=ts ) sempre della mia nostra Viviana. 
- Ringrazio anche le ragazze del mio gruppo di Whatsupp, perché sono pucciose, malefiche e adorabili :3 

 

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Capitolo 13
*** Stratega. ***


Storia d’inverno
 
“L’amavo molto, più di quello che avessi il coraggio di dire, più di quello che le parole potessero esprimere.”
 
— Charlotte Brontë

 



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« El, tesoro. » Le mani di Legolas si strinsero attorno al mio bacino, mentre io tentavo di nascondere il tremolio delle mie mani. Come potevo fargli questo? 
Più volte in quella settimana avevo pensato di ignorare, declassare l’idea di andare nel regno dei morti per avere la certezza che le mie supposizioni fossero errate ma non potevo più rinunciarci. Cuinië aveva già parlato con gli spiriti, in quanto lei era una delle discendenti dell’Oracolo, e loro le aveva risposto che già erano venuti al corrente della nostra venuta. Le avevano detto che ci aspettavano, che Nàmo ci aspettava. Ma come potevo dirlo a Legolas? E come potevo lasciare i miei figli? Non potevo, non volevo ma dovevo. Se fossi riuscita a dare un fondamento ai miei incubi, ai miei pensieri, se fossi riuscita ad avere delle risposte concrete alle mie domande allora non sarebbe stato tutto inutile. E poi… poi la ragazza cervo mi aveva assicurato che saremmo tornate indietro. Saremmo tornate.
Chiusi le palpebre e respirai a fondo, ingoiai un fiotto di saliva e mi voltai poggiando le mani sul petto di Legolas. I suoi muscoli caldi riscaldarono le mie dita fredde, il battito del suo cuore era ben percepibile oltre la stoffa leggera della sua blusa bianca. Mi concentrai su quella frequenza che aumentava di poco a ogni battito, che andava sempre più veloce come le ali di un colibrì mentre le mani dell’elfo mi accarezzavano la schiena, si insinuavano sotto la maglia e iniziavano a disegnare piccoli cerchi sulla pelle. Mi morsi il labbro e gli accarezzai il collo. Fremette. Adoravo fargli quell’effetto anche dopo così tanti anni che stavamo assieme, significava che mi amava. Significava che mi sarebbe mancato, perché l’amavo anche io. Una volta messo piede nel regno dei morti non l’avrei più avuto accanto, non avrei più potuto vederlo sorridere o sentirlo ridere. Non avrei più rivisto i suoi occhi e, se per qualche spregiudicata ragione, io fossi rimasta nel regno di Nàmo io ne sarei stata distrutta.
 Ero spaventata, talmente tanto che in quegli occhi azzurri che mi trovavo davanti riuscii a leggere la preoccupazione. Perciò sorrisi tentando di tranquillizzare Legolas, dandogli un buffetto alla guancia e baciandolo leggermente alzandomi sulle punte. « Ti amo. » Sussurrai, staccandomi dalle sue labbra.
« Anche io… » Mi passò una mano fra i capelli, studiando una ciocca più chiara delle altre. Isil, l’unico ricordo che mi era rimasto della mia gemella era quella ciocca.
« Ma? Cosa c’è che ti tormenta Legolas? » Domandai, allontanandomi da lui più di prima. Quei suoi occhi chiari erano così limpidi da far paura, così simili a quelli del padre. Gli occhi della persona che amava erano tristi, tormentati da una domanda che ancora non aveva ricevuto risposta.
« Io, El, ultimamente ti vedo strana e questa cosa mi disturba. In più, adesso che è tornato anche quel… quel mostro sei ancora più sull’attenti e, sfortunatamente, conosco questi sintomi. Non li ho dimenticati. » Sfiorò la mia fronte con la sua e mi osservò. Mi sentii nuda mentre lo guardavo. « Tesoro, cosa c’è che non va? Ti prego dimmelo, perché mi sento così impotente a vederti andare in giro come uno zombie. »
« L-Legolas, tu mi ami? » Sentivo una strana sensazione salire sulla mia pelle, attorcigliarmi la gola e iniziare a farmi tremare. Perché, improvvisamente, avevo tanta paura di lasciarlo andare? Perché mi sentivo così debole e indifesa? Era questo l’effetto che mi faceva la morte, in fine?
« Cosa? Certo che si! El, che domande mi fai? » Si allontanò di un passo, poggiando le mani sulle mie spalle. Mi asciugai le lacrime, che non c’erano, e strinsi le mani attorno al mio ventre.
« Allora perché non mi hai mai chiesto di sposarti? P-perché non mi hai mai portata in q-qualche posto carino, non hai mai fatto nulla di tremendamente stupido e smielato –nonostante sapessi che io detesto le cose dolci-, ti sei inginocchiato e mi hai chiesto di sposarti? I-io… » Oddio, ma com’era possibile che tutta la mia preoccupazione e la frustrazione fossero sfociate in una domanda del genere? Ma perché gliel’avevo chiesto? Signore, mi sentivo ridicola e debole.
L’elfo sgranò gli occhi e, successivamente, sbatté le palpebre sorpreso. « Tesoro, era questo che ti tormentava? Sposarci? Tesoro… » Sul suo viso apparve un sorrisetto sorpreso mentre si avvicinava a me e mi baciava forte. Fece passare le sue mani dietro il mio collo, cogliendomi di sorpresa, riuscendo a farmi dimenticare tutte le paure e le preoccupazioni. Il suo profumo di bosco mi penetrò nelle narici, calmandomi, le sue mani calde passarono alla mia schiena attirandomi verso il suo corpo. Era così bello stare tra le sue braccia; mi sentivo così felice nel sapere che, persino dopo tutti questi anni, lui mi voleva così tanto. Sorrisi sulla sua bocca, coprendogli le guance con le mie mani. Le sue labbra, morbide e sottili, sapevano di pino e fresco e casa.  
A un tratto,  la porta della sala da pranzo – ormai divenuta la Sala delle Riunioni- si aprì con un tonfo. Mi allontanai dalle labbra di Legolas e osservai l’uomo che stava sulla soglia della stanza. I corti capelli gli ricadevano disordinatamente sulla fronte pallida, gli occhi verdi brillavano di un riflesso sinistro. Sauron. Era lui, un po’ diverso da come avevo ormai imparato a conoscerlo ma pur sempre uguale. Per un secondo mi sentii in totale imbarazzo, prigioniera di sentimenti ormai sbiaditi. Sepolti forse era il termine più adatto. Ma non dovevo più provare niente per lui. Gli sorrisi. In quanto a Legolas, quando si voltò, i muscoli del suo petto si contrassero e quelli delle braccia si gonfiarono in modo minaccioso.
Mi passai una mano fra i capelli, beandomi della freschezza che la camicia mi dava, e feci qualche passo in avanti verso Sauron. I suoi occhi verdi mi seguirono attenti.
« Chi non muore si rivede. » La battuta più squallida del secolo, ma restava un buon modo per rompere comunque il ghiaccio. La tensione era così palpabile in quella stanza che, per quanto suonasse strano e impossibile, si poteva tagliare con il coltello.
« La tua presenza è come una calamite per me, lo sai anche tu. » Le labbra sottili di Sauron si alzarono leggermente verso l’alto, in un sorriso malizioso che non andava per niente bene. Alzai gli occhi al cielo e gli diedi le spalle, dirigendomi verso il lungo tavolo sul quale erano state poggiate le mappe di Arda. « E’ bello vedere che la divisa da combattimento ti sta ancora a pennello. Mi immagino come sia facile togliertela. » Che fosse un complimento calcolato o meno, Legolas non la prese bene. Io, di rimando, lo fulminai con un’accurata occhiata.
Per mia fortuna, o di un Sauron senza più poteri, prima che il principe di Bosco Atro potesse stringergli il collo fra le mani, dall’entrata si fiondò nella stanza –come un uragano appena sguinzagliato da qualche, potente dio- Fanie. Sotto gli occhi azzurri aveva profonde occhiaie nere, le nocche dell’ennesimo colore a causa dei ripetuti allenamenti. Probabilmente si allenava tanto perché, sennò, al posto dei suoi bersagli ci sarebbe stato suo fratello “morto” a prendersi le botte. Lo stesso fratello che adesso la guardava con gli occhi colmi di rammarico, per quello che aveva fatto. Dietro di lei veniva Turion. I corti capelli biondi scompigliati, gli occhi grigi allegri e calcolatori al tempo stesso.
Sebbene ormai avessi imparato che Turion non era un tipo loquace, non molto almeno, ancora speravo che un giorno avesse tirato in ballo qualche battuta per migliorare il nostro umore, che al momento stava sotto le suole degli stivali. Inutile a dirsi che l’unica cosa che riusciva bene a Turion fossero le frecciatine al fratello.
« Fanie. » Sauron si avvicinò a Fanie e le poggiò una mano sulla spalla. La giovane si voltò a guardarlo, occhi freddi e distanti. « Possiamo parlare? »
« Parlerete quando avremmo capito come muoverci », lo interruppi io. La strategia prima di tutto, se volevo salvare i miei figli. « Non siamo qui per giocare a  battaglia navale. E si, Legolas, ti spiegherò dopo cos’è. » Mi voltai verso l’elfo che stava al mio fianco, bloccando la sua domanda sul nascere. Con velocità, Fanie mi si affiancò e i suoi fratelli presero posto davanti alla mappa.
« Ma, che fine hanno fatto tutti i vostri amichetti? » Sauron fece vagare lo sguardo sui presenti della sala. Le labbra sempre piegate leggermente verso l’alto. « Si, insomma, il vostro caro e simpaticissimo sovrano e quella cerva? Non dovrebbero essere qui con noi, adesso? »
« Arriveranno. Ora taci. » La voce di Fanie suonò fredda tanto quanto il suo sguardo.  
 

 


*   *
 
 


« Oh, ma fai sul serio? Persino una gallina senza una zampa saprebbe mirare meglio di così! » Elanor si mise dietro il fratello, Leron, e aggiustò la postura che aveva assunto.  « Non contrare troppo i muscoli, non devi sembrare un manichino d’addestramento! » Sebbene fosse tutta la mattina che si allenavano, Leron ancora non aveva capito che per impugnare un arco non serviva restare rigidi. Ed Elanor era stufa di doverglielo ripetere.
Il cielo era grigio, il vento soffiava leggermente e i loro fratelli erano seduti sulla scalinata che conduceva al giardino dove si stavano allenando. Per un attimo, il vento portò alle orecchie di Elanor una risata soffiata e leggera che lei sperò con tutto il cuore appartenesse a Haldir, ma quando si voltò si rese conto che il volto del fratello non aveva nessuna espressione. Il cuore della giovane ebbe un sussulto. Haldir non rideva mai. Non era mai più riuscito a ridere da quando loro nonno l’aveva portato con se in un viaggio. Era partito col sorriso sulle labbra, un bambino innocente di appena quindici anni, era tornato con lo sguardo freddo e distante e uno strano modo di porsi alla gente. Persino ai suoi famigliari. Niente più sorrisi, niente più battute, niente di niente. Come se gli fosse stata strappata via la voglia di vivere. E non c’era nulla, niente che ferisse Elanor più di questa sua mancanza di vita. Ogni giorno lottava contro la voglia di gridargli contro che rivoleva indietro il suo fratellone, e non quella specie di pupazzo a grandezza naturale. Le mancava Haldir, sebbene l’avesse accanto ogni giorno.
« Lascia perdere, El. Leron è una causa persa! » Rìnon si alzò, si spazzolò la tunica blu e argentea con le mani e fece qualche passo nella loro direzione. I lunghi capelli castani, talmente scuri da sembrare neri, gli volarono oltre le spalle come un mantello. Da ogni fibra del suo corpo usciva fierezza e sicurezza.
Sbruffone, fu tutto quello che El riuscì a pensare prima di poggiargli una mano sul petto per fermare la sua avanzata.
« Ehi, tesoro. » La voce della mezz’elfo si fece largo nel nuovo silenzio. « Nemmeno tu sei nato imparato, perciò torna seduto e fai il bravo prima che io riduca il tuo bel didietro a un ammasso di strisce rosse. »
Rìnon esitò ma, poi, con velocità sfilò la spada della sorella dal fodero. La lama, piatta e abbastanza sottile, di un intenso color argenteo rifletté il colore delle nubi. « Fatti sotto, tesoro. » Il fratello roteò l’elsa d’oro fra le dita con facilità, aspettando che Elanor accettasse la sfida.
Povero ragazzino, si ritrovò a pensare El, mentre gli andava incontro. Sebbene fosse disarmata, aveva l’arma più potente di tutte: l’intelligenza. Non a caso lei era quella tattica, quando si trattava di combattere.
Con un unico, fluente gesto disarmò il fratello e gli puntò la lama alla gola, stringendogli il  petto con un braccio e spingendogli la schiena contro la propria cassa toracica. Rìnon non si era nemmeno accorto che lei gli era rutata attorno.
El posò un bacio sul collo al fratello, prima di lasciarlo libero dalla sua presa. « Contento adesso, tesoro? » Lo stuzzicò, poggiandosi il piatto della spada su una spalla. Rìnon alzò gli occhi al cielo, sebbene stentasse a trattenere un sorriso divertito. « Ora eclissati, ho una lezione da finire. »
Con calma, strascicando leggermente i piedi il ragazzo tornò a sedersi accanto al fratello maggiore che stava facendo il filo alla propria spada. El restò a osservare per qualche secondo Haldir, finché lui non alzò il viso e i loro occhi s’incrociarono. La giovane non seppe mai spiegarsi come il suo cuore perse un battito quando il fratello le rivolse un piccolo sorriso. Un guizzo delle sue labbra rosee che durò un secondo. Chiudendo le palpebre si voltò e tornò all’altro fratello.
« Ti ho già detto che non devi sforzare troppo i muscoli, pivello! » Da lontano, Rìnon rise.



 
*   *
 




« Rispondi alla mia domanda, cervo! » Le grida di Gring rimbombarono nella valle di Mordor. Di fronte a lui Aldëa continuò a osservare i draghi che le si paravano difronte; gli occhi, dello stesso colore del mare in tempesta, freddi e muti. Per quanto Gring ci provasse, e ci provava da tanto ormai, sapeva che l’oracolo non avrebbe rivelato più nulla. Ma lui voleva sapere. Lui aveva bisogno di sapere cosa accadeva nella reggia di Thranduil. Voleva saperlo. « Ok, molto bene allora. » L’uomo rizzò la schiena e si voltò verso il proprio drago.
Amdir osservò il proprio padrone, si alzò sulle zampe posteriori e spiccò il volo. Una folata di cenere e polvere investì la cerva e il guardiano e, quando tutto si acquietò, il dragone viola e nero era scomparso nel grigio delle nubi.
« Dove l’hai mandato? » Pe la prima volta da giorni, l’Oracolo parlò. La sua voce uscì roca, tagliente come la lama di un coltello.
« Tu non mi hai voluto dire cosa combinano i nostri amici a Bosco Atro. Ti sei rifiutata di mandare messaggi per me. » Gring fece schioccare le nocche, sorridente. « Così ho provveduto da solo a recapitare un messaggio. »
« Quello che stai per fare, mio signore, porterà a una tua più veloce dipartita da questo mondo. »
« Oh, tesoro, una dipartita ci sarà. Ma non sarà la mia. Sarà quella di qualcuno molto vicino alla nostra guerriera; sangue del suo sangue, magari. »
« Sei un mostro! E ricorda le mie parole, mio signore, i mostri non vivono tanto a lungo. »
« Nemmeno le persone che si rifiutano di aiutarmi, vivono molto. » Sentenziò Gring, prima di darle le spalle e sparire fra i draghi.
 


Ciao love, sono tornata e scusatemi il ritardo. Allora, questo capitolo di appena 5 pagine è un’oscenità –e mi scuso per questo- ma l’ho scritto velocemente. Ora devo correre.
Un bacione,
 
Isil. 

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Capitolo 14
*** She's gone. ***


Storia d’inverno.
 
 
Siamo tutti stelle destinate a cadere.
 
-La ragazza che amava leggere. Tumblr
 

 

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« Ma immagino che una fiamma che brucia con tanta intensità non sia destinata a durare. » Le parole della guerriera si espansero per tutta la stanza, silenziose e al tempo stesso più rumorose delle cascate in piena. Rimbombarono fra le pareti verdi e argento, scontrarono la pelle di Cuinië e si dissolsero nell’aria.
Così, vista di spalle, Eleonora sembrava più vecchia di quanto in realtà non fosse. La cerva se n’era accorta subito, appena lei aveva messo piede nella sua stanza dopo che la riunione riguardante la guerra imminente si era sciolta. Era come se tutto il peso della battaglia, quella nuova e imminente e quelle passate, le fossero ricadute sulle spalle e avessero cercato di trascinarla giù negli abissi più profondi. Cuinië non voleva nemmeno immaginare cosa volesse dire aver assistito a tante battaglie così giovane. Non voleva immaginare, non voleva sapere e, specialmente, non voleva provare ad affrontarne una. Ma sapeva che quest’ultimo desiderio era impossibile. Persino lei, la nipote dell’Oracolo, aveva paura di camminare fra i morti – magari più paura della stessa donna che le stava davanti, che fra i morti ci aveva davvero camminato più volte durante il corso della sua vita.
Ma non potevo nascere con il dono di mia nonna? Perché sono dovuta nascere come portatrice d’anime?
« Non trovi che sia una splendida, triste affermazione? » Gli occhi scuri di Eleonora si voltarono a osservarla, e la cerva si ritrovò ad annuire. Un sorriso appena accennato solcò le labbra della guerriera, prima di scomparir mentre questa tornava sui suoi passi e si avvicinava al letto dove Cuinië se ne stava sdraiata. « Io l’adoro. »
« Da dove viene? Si, insomma, perché me l’hai detta? » S’incuriosì la ragazza, dimenticandosi per un momento di dover morire e risorgere come se lo facesse tutti i giorni.
« Proviene da uno, dei tanti, libri che possedevo dove abitavo prima. E’ una frase che mi ha sempre affascinato. » Poi, dopo essersi passata una mano fra i lisci capelli scuri, sospirò. « E non so perché te l’ho appena citata, forse perché è quello che ho paura di diventare presumo. Una fiamma che brucia con troppa intensità e si spegnerà presto. » Per un attimo davanti agli occhi di Cuinië si presentò l’immagine di una giovane ragazza costretta a crescere troppo in fretta, le mani sporche di sangue –il suo-, una freccia conficcata nel petto e due occhi azzurri che la osservavano con apprensione, poi tutto scomparve più velocemente di quanto fosse apparso. La cerva sbatté le palpebre.
« Hai paura. E’ normale averne, specialmente se si va incontro alla morte. » La ragazza si passò una mano fra i capelli rossicci e rimase a osservare la donna dinnanzi a lei accarezzarsi un braccio, per poi stringere la presa.
« Io non ho paura di morire, ho paura di non tornare. Ho paura di abbandonare i miei figli e non rivedere il viso del mio compagno. Questo è tutto. » Nei suoi occhi lampeggiò una fiamma, che si sollevò poi fra le dita pallide e prese a corrervi attorno. « La morte non è mai stata una cosa che mi spaventa. Non sono immortale, ma… »
« Non… sei immortale? Io pensavo che lo fossi. » Gli occhi di Cuinië si aprirono di stupore. La guerriera era mortale, la sua vita aveva avuto un inizio e, nonostante lei avesse pensato che mai sarebbe successo, avrebbe avuto una fine. Ma come poteva una presenza tanto grande avere una fine?
« Vivrò fino a quando il mio Guardiano avrà vita, e lui vivrà fin quando io avrò vita. » Le spiegò con calma El, la voce calma che potrebbe avere una madre. Poi la verità colpì in faccia la cerva: El era davvero una madre, e se qualcosa fosse andato storto –anche la più piccola cosa- i suoi figli sarebbero rimasti orfani. La paura che provava nello scendere nel regno di Nàmo crebbe. Trattenne il respiro.
« I draghi vivono centinaia di anni, El, e nessuno può ucciderne uno. In un certo senso, sei immortale. » Gli occhi cangianti di Cuinie si poggiarono sulle sue mani ben curate, mentre un’altra immagine veloce le attraversava la mente. Una prigione, dei nani, una ragazza che sveniva.
« Già, nessuno potrà uccidere Turon, ma tutti possono provare a uccidere me. » La fiammella si estinse fra le sue dita, e le ombre che fino a poco prima le erano danzate sul viso creando strane immagini svanirono. La donna alzò gli occhi e osservò la cerva. « Ho bisogno che tu faccia una cosa per me Cuinië, prima che scendiamo nel mondo dei morti. » La voce di Eleonora si era fatta tesa, ansiosa. Prese un bel respiro e si sporse verso la cerva, le nocche che scroccavano. « Devi spezzare il legame che ho con Turon. Devi farlo, oppure quando morirò per viaggiare con te nel regno dei morti morirà anche lui. E non voglio che lui muoia, capisci? E’ un tassello troppo importante nella mia esistenza. »
Cuinië sentì il sangue raggelarsi nelle vene, il cuore smettere di battere e il respiro smorzarsi a metà. « Spezzare il legame? » Adesso la sua voce aveva assunto un tono allarmato. Tutto si aspettava meno che quella richiesta. « Sai cosa significa “spezzare il legame”, mia signora? Significa: addio Turon, addio poteri, addio anima… significa che tu moriresti. E non solo fisicamente, ma anche emotivamente. E poi non pensi al tuo dragone? Gli ricadrebbero sulle spalle il senso di abbandono e »
« Lo so. E so anche che il legame può essere sigillato con un’altra persona. » El si appoggiò a una delle colonne di legno che reggevano il baldacchino della cerva, si sporse in avanti. Negli occhi le era tornata quella scintilla calcolatrice che non piaceva per nulla a Cuinië. « Devi farlo, ho bisogno che tu lo faccia. »
« Ma El, potrebbe essere davvero pericoloso. Davvero, davvero, davveeeeero pericoloso. »
« Più pericoloso di far morire il mio Guardiano? Non credo proprio. E poi, hai detto che Nàmo ti ha permesso di far scendere solo due persone laggiù (te compresa); perciò se Turon morisse non potrebbe tornare in vita e, di conseguenza, nemmeno io. » Il ragionamento non faceva una piega, sfortunatamente. « Facciamo così, sarà uno scambio temporaneo, ok? Lega Turon a Elanor, e quando saremo tornate indietro dal regno di Nàmo riallaccerò il legame. Va bene? » Quel tono di voce non sembrava gradire un no, quindi la cerva si trovo ad annuire senza rendersene conto.
Un leggero senso di colpa le salì per la gola, minacciando di uscirle come un urlo frustrato. Ma si trattenne. Non poteva scoppiare come una mina, solo perché non ragionava prima di pensare. Stupida Cuinië, si disse.
« Perfetto. » El rialzò il busto e sorrise, facendo ardere nuovamente una fiammella tra le dita. Prima di andarsene si voltò a osservare la ragazza sul letto e le sorrise. « Questa cosa, quello che stiamo per fare –il legame spezzato, il viaggio nel regno dei morti- lo so che è più di quello che avresti fatto per qualunque altra persona. Chi che sia, Thranduil compreso. E ti ringrazio. » Si chiuse la porta alle spalle con leggerezza, mentre il rumore dei tacchi dei suoi stivali svaniva nel corridoio.
La cerva chiuse gli occhi, si gettò di schiena sul letto e chiuse gli occhi.
 « Ma immagino che una fiamma che brucia con così tanta intensità non si destinata a durate. »
La verità, è che tu hai paura di essere quella fiamma.
 

 
*    *
 
 


Ci sono due cose da imparare nella propria vita. La prima è non fidarti di nessuno tranne te, la seconda è che se vedi qualcosa come una nube di grossi animali che si dirigono verso di te, invece di osservarli stranito, devi correre ad avvertire tua madre che, guarda caso, è stata una delle donne guerriero più spaventose degli ultimi quarantacinque anni (se non di più). Sfortunatamente, questo Elanor lo capì solo dopo che una vampata di fuoco le oscurasse la vista.
Sobbalzò colta alla sprovvista e si voltò, correndo verso l’entrata del palazzo. Saltò i due fratelli intenti a parlare, che quando la videro correre come un’ossessa si abbassarono spaventati, ed entrò nella reggia. Voltò verso la sala del trono, scivolando a causa della rugiada lasciatale sotto le scarpe dall’erba del prato. Alcuni domestici si voltarono a guardarla stupiti di vederla correre così, altri –come la sua insegnante di lingue- le gridarono dietro che non stava bene per una principessa correre così, con il viso rosso dallo sforzo e gli stivali sporchi di fango. El non le diede importanza e continuò a correre.
L’aria fresca dei corridoio le si riversava addosso mentre svoltava ancora una volta ad un incrocio. Tutto nella sua casa era un incrocio di strade, vite e pensieri. E lei li conosceva tutti. Sforzando le sue gambe per l’ultimo, veloce scatto si gettò contro il portone della sala degli accordi e per poco non cadde, se due braccia velate d’azzurro non l’avessero presa. Con un sorriso, Turion la sollevo come se non pesasse nulla e la osservò.
« Ehi, principessina, stai attenta. »  I suoi occhi azzurri, quasi bianchi le sorrisero. El notò che erano in perfetta sintonia con i capelli candidi e la pelle pallida. Gli occhi blu della ragazza caddero sulle sue spalle larghe, sul fisico ben visibile da sotto la tunica azzurra e argentea. I loro occhi s’incontrarono di nuovo, e a El parve di scorgervi una scintilla fredda. Ghiaccio più azzurro dei suoi occhi grigi.
Era bello, Turion. Una di quelle bellezze che ti colpiscono al primo sguardo, nemmeno il tempo di pensarci. E poi, sapeva di buono. Sapeva di muschio e menta e… e non era il momento di pensarci.
Improvvisamente, la fatica della corsa tornò a caderle sulle spalle, le gambe tremolarono un poco per gli sforzi che i muscoli avevano dovuto subire e la faccia si accaldò, diventando sicuramente rossa.
« Mia madre, dov’è? » Stranamente, la sua voce uscì forte e ben sorretta. Evidentemente era più in forma di quanto si aspettasse.
« Non ne ho la minima idea, principessina. La riunione è finita poc… »
« Lascia perdere. Non mi sei d’aiuto. »
« Che cattiveria, tzé. » Turion socchiuse le labbra, quelle labbra ne troppo piene ne troppo sottili, portandosi una mano fra i capelli che, El immaginò, dovevano essere morbidi come seta. Valar, ma perché le faceva quest’effetto?
« Mi dispiace, ma devo trovarla subito. Ci sono delle cose, grandi e con le ali e che sputano fuoco, che si stanno avvicinando pericolosamente!  » Il cuore le batté forte quando, con un gesto veloce, Turion le fu addosso e la spinse a terra. Ci fu uno scoppio di vetri infranti e poi il caos.
Elanor cadde sul pavimento di roccia fredda, le si graffiarono le braccia e la guancia sinistra. Un dolore lancinante le si propagò su per la gamba, e quando tentò di capire a causa di cosa fosse gridò. Aveva un vetro, un pezzo della vetrata che si affacciava sulla parte nor di Bosco Atro, infilzato nel polpaccio. Un fiotto di sangue le colava giù dalla gamba, rosso contro il marroni dei suoi calzoni, e si allargava in una pozzanghera attorno a lei. Turion si voltò un secondo, tenendo sempre le mani con i palmi rivolti in avanti dalle quali scaturivano scintille azzurre. I suoi occhi percorsero il corpo di El fino ad arrivare alla gamba, lui si rabbuiò. Sulle sue labbra comparve una smorfia ma non si mosse. E come poteva? La principessa non si era mai sentita più indifesa di così. Le sembrò che le sue difese crollassero, che tutto il sarcasmo e la forza con cui era cresciuta cadessero a terra e si sgretolassero come gesso. Era impotente, mentre il ragazzo ergeva uno scudo di ghiaccio attorno a loro.
Dannazione, svegliati El!, si disse la ragazza.
Stringendo i denti, si alzò a sedere e strinse la lama di vetro fra le mani. I bordi scheggiati le tagliarono i palmi, ma represse l’urlo di dolore con una smorfia. Tirò. Sotto la sua presa sentì la lama estrarsi dalla carne, che faceva uno strano rumore raccapricciante, e vide il sangue sgorgare più intensamente. Faceva male, dannazione. Diede un ultimo tiro e la lama trasparente, orlata da scie di sangue, brillò contro il grigio delle nubi. Elanor la gettò lontano, poco prima che Turion completasse la barriera e li escludesse da altri vetri infranti. Sopra la testa di El si chiudeva una cupola che pareva cristallo, mentre fuori lei riusciva a vedere grosse sagome –distorte dal ghiaccio- che si poggiavano ai bordi del palazzo o sul prato e incendiavano ogni cosa. Gridò, un grido acuto e carico di dolore, quando Turion strinse la sua tunica attorno alla ferita. Lo incenerì con uno sguardo.
« Che diavolo succede?! » Strillò, tentando di sovrastare il rumore di ringhi, ordini e ruggiti che emergeva da fuori.
Il biondo la osservò per un istante, poi si passò una mano sulla fronte per asciugarsi il sudore. « Il nemico ha fatto la prima mossa. »
Per un secondo, un’istante solo, El parve sentire qualcosa rimbombargli nel petto. Sembrava un ringhio più forte di ogni cosa, che le fece tremare le ossa e socchiudere le labbra. Forse Turion pensò che si fosse spaventata perché la caricò in fretta fra le braccia e ruppe la cupola, che cadde a terra in milioni di scintille luminose. D’istinto, la principessa nascose il viso contro il petto del ragazzo. Rimase in ascolto del suo cuore che batteva calmo e stabile e si concesse un attimo per scaldarsi contro di lui. Aveva freddo, si accorse, e la vista iniziava a offuscarsi. Aveva letto da qualche parte che questi erano i primi sintomi di uno svenimento causato da una ferita grave. Ma lei non voleva svenire. Elanor voleva aiutare, combattere a fianco della guardia del palazzo e di suo padre. E voleva vedere sua madre impugnare una spada e abbattere i nemici. E…
La sua mano si mosse come il collo di un serpente, veloce e invisibile, e una cascata di liane sfrecciò verso di loro e si attorcigliò sul collo di un grande dragone grigio che li stava puntando. L’animale fermò il suo volo, mentre le liane continuavano a stringerlo nella loro presa d’acciaio. Sembravano serpenti affamati, nulla avrebbe potuto fermarli. Turion si fermò all’improvviso, voltandosi verso il dragone. Imprecò fece qualche passo indietro; non poteva usare i suoi poteri, non con Elanor che gli impediva di usare le mani. Così, lei agì. Prima che l’animale avesse tempo di aprire la bocca un fascio di rami la circondò e la stritolò con tanta forza che, persino da dove El e Turion si trovavano, si sentì il rumore agghiacciante che producono le ossa quando si spaccano. La ragazza non distolse lo sguardo, troppo scioccata e, al tempo stesso, ammaliata dal potere che aveva.
« Bel colpo, principessina. » Turion si mosse veloce, correndo per i corridoi come un’antilope.
« Avevi qualche dubbio? I miei sono sempre bei colpi. » Scherzò El, ma poi fu costretta a mordersi il labbro inferiore. Si era dimenticata della profonda ferita che aveva sulla gamba, ma quella non si era preso di certo la cura di smettere di dolerle. Ore le pulsava tutto e sentiva il sangue caldo, che aveva impregnato la tunica usata da Turion per fasciarle la gamba, scivolare più velocemente a terra lasciando una scia infuocata sul pavimento. Si portò una mano davanti agli occhi, scoprendo con rammarico che si stava indebolendo e che il suo campo visivo si copriva di macchie nere, rosse e blu. Dannazione, si disse.
« No, ragazzina. » La voce di Turion le rimbombò nelle orecchie. « Non chiudere gli occhi, non ora. Ragazzina resta con me. Parlami avanti, ma non chiudere gli occhi. Non azzardarti! » Fecero una svolta e per poco il ragazzo non cadde.
Quando El non disse nulla, Turion le rivolse un’occhiata preoccupata. Ma lei avrebbe voluto parlare. Avrebbe voluto dirgli che stava bene, che ce la faceva a stare in piedi e non aveva nulla ma sarebbe stata una bugia. Si concesse di socchiudere le palpebre. Era così stanca. Così debole. Stava perdendo molto sangue.
« Tuo fratello mi farà fuori. » Sentì sibilare al biondo, che strinse la presa su di lei mentre aumentava il ritmo della corsa.
Una risata soffiata le uscì dalla bocca. « Quale dei tre? »
« Il biondo. Quello carino. » Cazzo. El non fu nemmeno sicura che Turion avesse pronunciato quell’ultima parola, ma si ritrovò a sorridere contro il suo petto ampio. 
 
 


*    *
 
 


« Tutti dietro di me, e nessuno provi a contraddirmi!  Qualunque cosa succeda mirate al collo, è il loro punto debole – le scaglie li sono più morbide.» La mia voce si udì persino sopra l’imponente schiocco delle ali dei draghi che stavano planando su di noi.
Il cielo era divenuto nero a causa di quelle sagome imponenti che lo coprivano, e l‘aria satura di zolfo e fumo a causa delle loro fiammate. Purtroppo per loro, però, anche io ero capace di usare qualche trucchetto che impiegasse il fuoco come arma. Puntai i palmi verso l’alto e allargai leggermente le gambe, per essere più ancorata al suolo. Non avevo mai usato tanto fuoco di quanto ne avevo bisogno adesso, perciò non sapevo come il mio corpo avrebbe reagito. Feci una smorfia e lanciai un grido carico di frustrazione che fu coperto dal fuoco che mi ricoprì le mani, letteralmente.
Fu come se una teiera bollente mi si riversasse sulle mani, o come se qualcuno mi avesse costretto a tenere in mano dei carboni ardenti. Quella vampata di calore andava ben oltre quello che potevo permettermi di fare, capii. La forza fu tale che venni spostata di parecchi metri indietro, i miei stivali scavarono un solco nella terra umida di pioggia. In alto, non furono solo i draghi a ruggire.
« Non abbiate nessuna pietà! » Sentii gridare e mi voltai. Thranduil stava scendendo le scale che conducevano allo spiazzo erboso davanti alla reggia. Indossava una blusa bianca e dei pantaloni verdi, una spada lunga gli brillava fra le dita lunghe e pallide. « Perché loro non ne avranno.» La lama della spada brillò contro il mio fuoco, che non aveva smesso di ardere nemmeno per un secondo.
 E poi fu il caos.
Vidi Fanie correre verso un gruppo di guardie, impegnato a tenere a debita distanza un drago con una cascata di frecce, alzare le mani e congelare l’animale prima che incenerisse ogni cosa. La sentii imprecare quando, per poco, una delle frecce scoccate non le ricadde addosso. Lasciai uscire il fiato, che nemmeno mi ero accorta di trattenere, e mi guardai in giro preoccupata. Non c’era traccia dei miei figli, questo significava che erano al sicuro. Poi, una cascata di capelli biondi scoccò una freccia e due occhi azzurri s’impossessarono di me. Legolas. Mi abbassai velocemente, mentre la freccia sibilava sopra la mia testa e colpiva l’occhio di un grosso lucertolone verde alle mie spalle. Mi voltai e gli incenerii il muso, prima di correre verso il mio compagno.
Nel frattempo, un grosso drago grigio si andò a schiantare contro una delle vetrate nord della sala degli accordi.
« La mia sala da pranzo! Quelle vetrate le ho sudate! » Gridai, pronta a colpire la bestia ma le liane furono più veloci di me. Gli si strinsero attorno al collo e spaccarono la mandibola dell’animale con un sonoro CRACK! Sorrisi e al tempo stesso fui scossa da un pensiero concreto e trasparente come l’acqua: era stata Elanor a fare quella cosa con i rami. Sperai solo che non le venisse in mente l’idea di uscire e combattere.
Feci ancora qualche passo verso Legolas e lanciai qualche aiuto fiammeggiante alle guardie. Davanti a me c’erano già tanti morti e draghi congelati, o bruciati a metà. Sull’erba verde si scivolava non solo per il fango ma anche per il sangue, che imbrattava le armature dei caduti. Occhi erano rivolti al cielo senza che vedessero. Bocche erano socchiuse senza che parlassero. Così tanti morti per una guerra appena iniziata. Stranamente, pensai, non c’era nessuna testa dai capelli fulvi in campo. Probabilmente Cuinië stava arrivando, ma non tutti godono di una corsa veloce su due gambe e, a quanto ne sapevo io, lei preferiva corre su quattro zampe. Sperai solo che facesse presto, un guerriero in più non sarebbe stato male.
Un grido. Un grido di rabbia e sforzo inondò l’aria del campo di battaglia. Ma parvi sentirlo solo io, forse perché quella voce la conoscevo meglio di chiunque altro. Mio figlio. Era la voce di Haldir. Come potevo non essermi accorta prima che il mio bambino era li? Che madre ero? E poi, eccomi li. Presi a correre quando mi accorsi che avevo temporeggiato a osservare la morte, quando la morte si stava creando attorno a me, e a pensare risposte a quelle domande che mi ero posta. Se tuo figlio muore, è solo colpa tua.
 Sentii il sangue gelarsi nelle mie vene prima che potessi solo gridare, fare qualcosa di giusto. L’unica cosa che mi riuscii fu gettarmi in avanti, spingere via Haldir dalla battaglia e sentire qualcosa che mi trapassava da parte a parte. Gridai, mentre un grosso artiglio veniva tolto dal mio corpo e il drago volava via. Il fiato mi si mozzò in gola, gli occhi si allargarono in un disperato tentativo di vedere qualcos’altro che non fosse nero ma non ci riuscirono.
No, non potevo morire così. Non avevo ancora sciolto il legame con Turon; non avevo ancora insegnato a El a usare i suoi poteri; non mi ero ancora sposata. A un certo punto ebbi paura di morire.
« Ma immagino che una fiamma che brucia con così tanta intensità non sia destinata a durare. » Io ero quella fiamma, ma l’avevo capito troppo tardi.
Sentii solo un mucchio di cori che festeggiavano, i draghi erano battuti, e poi nient’altro.
Il mio corpo cadde a terra privo di vita, sanguinante e con gli occhi aperti e vuoti.
 
 


 *    *
 



Cuinië accorse velocemente nella direzione in cui aveva sentito l’urlo e quando arrivò a destinazione le si gelò il sangue.  La testa di El era appoggiata alle gambe del figlio maggiore, che aveva le mani e i vestiti sporchi di terra e sangue, e il suo corpo era… non era più classificabile come tale, in un certo senso. C’era una brutta ferita larga e rotonda che lasciava intravedere il terreno sottostante. Il sangue colava ancora giù da essa, e dagli angoli della bocca. Gli occhi scuri erano rivolti verso l’alto in una muta preghiera. Non doveva morire così, pensò la cerva. La ferita è troppo grave per essere curata.
« Madre. Madre vi prego rispondete. » Le parole erano un sussurro cullato dal vento che sapeva di sangue e morte, ed erano così flebili che parevano solo un pensiero. Invece erano fin troppo reali, come il ragazzo piegato sulla donna a terra.
« Oddio. » Fanie si bloccò accanto a Cuinië, il respiro fermo. Per un attimo pensò che sarebbe esplosa, piangendo e gridando e scalciando ma lei non era così. Si limitò a fare qualche passo avanti, inginocchiarsi accanto a Haldir e abbracciarlo come una sorella. Nascose il viso fra i suoi capelli e aumentò la presa su di lui, sena dire una parola.
E poi ci fu un fiume di gente, che investì la ragazza rossa sena curarsene, tagliandola fuori dal cerchio che si era appena creato attorno alla regina. Voci, grida, pianti. Non c’era nient’altro nell’aria solo quei suoni tristi e pieni di dolore. Lei era morta. Morta davvero, come può esserlo un insetto dopo che lo schiacci o una persona dopo che l’intervento è andato male.
Eleonora era morta, e nessuno l’avrebbe più potuta seguire e nessuno l’avrebbe più potuta far tornare indietro. Nemmeno Cuinië con la sua magia.
El non sarebbe tornata indietro, mai più.
 
 
 
Ciao ragazze,
come va? Ok, ammetto che questo capitolo è decisamente, beh, sadico visto che abbiamo appena lasciato morire chi… la protagonista? [ A proposito, ci tengo a dirvi che mentre lo facevo –la uccidevo- ho pensato più volte se farle dire qualcosa o no e alla fine ho optato per il NO. Perché boh. Troppo dolore anche per me (Just kidding) ]

Quando una mia amica ha letto della morte di El è rimasta così. (Se quella che sta per seguire sarà anche la vostra reazione, saltate l’ultima fase e ignoratela. Vi supplico.)

( Promettimi che starai con me anche dopo la fine!)
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Poi è passata a:
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E, infine, è passata alla terza fase (prendiamocela con la scrittrice)
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Ora, ci tengo a dirvi che è un periodo in cui io vedo le cose in questo modo (guardate sotto) e che non dovete odiarmi se inizierò a essere più violenta.
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Cooomunque, spero che il capitolo sia stato di vostro gradimento e blablabla. E’ tardi, devo dormire che domani vado a lavorare.
Un bacio,
 
Isil.
 
P.s: Don’t kill meee!

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Capitolo 15
*** Di dolore e sangue freddo. ***


Ehi ragazze, ciao. Allora, comincio col dirvi che inizierò a scrivere in prima persona dalla parte di Elanor da questo capitolo. Perciò, spero vi piaccia.
 


Storia d’inverno
 


“Il desiderio di te era più forte di qualsiasi felicità.”
 




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C’è un senso di vuoto che opprime tutte le persone che perdono qualcuno che hanno amato da un momento all’altro. C’è questo peso che sembra crollarti sulle spalle e spingerti verso il basso, giù, giù finché non crolli e lasci che il dolore ti abbracci come un vecchio amico. Lo lasci cullarti la notte, lasci che le lacrime cadano sul cuscino e che i tuoi singhiozzi vengano trattenuti dalle coperte. E’ tutto così strano. Ricordi la persona che non c’è più e solo allora ti accorgi di quanto era importante per te, di quando sentirai la sua mancanza ora che non c’è più.  Ma perché?
Già. Perché? E’ una cosa che mi ero chiesta più volte quella mattina grigia, mentre vagavo in camicia da notte tra i corridoi di casa sperando di sentire mia madre urlarmi dietro di andare a vestirmi. Con vestiti femminili che non comprendessero arco e frecce, possibilmente. E invece non era arrivato nessuno a mandarmi in camera, a impartirmi quegli ordini con nella voce l’accenno di una risata da mamma.
Dov’è la mia mamma? Non c’è più. Ora che ho bisogno di lei, che voglio uno di quegli abbracci che ho sempre rifiutato o dato di fretta, ora che vorrei sentire il suo profumo, il calore del suo corpo lei non c’è. E non ci sarà mai più.
Perché è successo tutto questo? Mi domandai mentre restavo ferma in mezzo a uno dei tanti corridoi bui. Perché siamo in guerra e in guerra la gente muore, mi rispose una vocina nella testa. Perché è morta proprio lei? A questo non mi risposi, perché la risposta avrebbe potuto farmi molto male.
Perché combatteva per i suoi figli. Perché combatteva per tenerti al sicuro. Mi ritrovai a dire, con il cuore che martellava forte nel petto e il corpo che iniziava a tremare. Sono una masochista, conclusi.
Ingoiai un fiotto di saliva e tornai sui miei passi. Perché pensavo ancora a lei? Era passata una settimana ma il dolore che sentivo al petto non era diminuito. Si attenuava solo la mattina quando aprivo gli occhi, e la luce grigia delle nuvole che annunciavano l’arrivo imminente dell’inverno mi si rivolgeva contro. Solo in quegli attimi di dormiveglia nessun tipo di dolore calava su di me, e io ero in pace con il mondo. Poi la verità mi veniva schiaffeggiata in faccia quando in sala da pranzo il posto di mamma restava vuoto e accanto a lei quello di papà. E questo rendeva le cose ancora più difficili. Perché era come se lei fosse li, una presenza conosciuta, sicura e confortante, ma al tempo stesso fuggevole e invisibile. Perché non passava tutto questo? Perché non potevo svegliarmi una mattina e scoprire di aver sognato? Perché la vita è dura e ti mette alla prova, e non gli frega niente se stai male. Lei non cambia, devi cambiare tu. Non ero abituata a provare dolore, i miei genitori gli avevano sempre vietato di attanagliarmi fra le sue grinfie, ma adesso era come se mi ci fossi buttata io contro, con tanto di braccia aperte. Era tutto così strano.
Mio padre non si era fatto vedere per una settimana. E se era stata dura senza mia madre, che non sarebbe tornata mai più, senza mio padre era un’agonia. Non avevo avuto nessun sostegno a cui aggrapparmi, se non i miei fratelli che avevano fatto quello che potevano. Ma anche loro erano umani, fatti di carne ossa e sentimenti e non erano di ghiaccio. In quei giorni avevamo fatto un po’ a turno per sostenerci. C’erano quei momenti in cui tutto sembrava normale, in cui facevamo ogni cosa quotidiana senza esitare. E poi c’erano quei momenti in cui qualcuno ricordava e allora iniziava a piangere e, sebbene provasse a nasconderlo, rendeva solo le cose più difficili a tutti. Persino il nonno aveva versato una lacrima. Una, ma era meglio di nulla. Significava che la mamma era stata qualcosa anche per lui dopotutto.
Mi strinsi nell’accappatoio di seta bianco che portavo e mi gettai in una stanza a caso. Il buio mi avvolse di nuovo, mentre mi avventuravo vero il letto a tentoni. Da fuori riuscivo a vedere la luna che brillava nonostante le nubi grigie glielo volessero impedire. Mi chiesi se mamma si trovava su una di quelle. Pensiero sbagliato. Calde lacrime salate iniziarono a precipitarsi giù dalle mie guance, ignorando ogni mio tentativo di farle cessare. Odiavo questa debolezza. La detestavo. In momenti come questi avrei voluto essere come mamma, ma come avrei potuto se era per lei che ero ridotta così? Se solo avessi avuto un po’ più di sangue freddo come Haldir. Haldir, che in una settimana non avevo mai visto piangere sebbene i suoi occhi dicessero il contrario quando lo incontravo a colazione. Haldir, che mi dava una pacca sulla spalla e un bacio in fronte prima di congedarsi e sparire per l’intera giornata, per poi tornare la sera in camera mia a farmi addormentare. Haldir dal cuore di ghiaccio più caldo di qualunque altra persona. Mio fratello. Quanto vorrei che non lasciasse fuori tutti da quel muro solido che si è eretto attorno. Ma non lo fa. Aiuta tutti ma non si fa aiutare.
« Ciao principessa. » Una voce si insinuò nei miei timpani, melodiosa e distante. Poco lontano, due candele si accesero all’improvviso rivelandomi due grandi occhi verdi da serpente.
Feci un passo indietro, asciugando le lacrime con la manica della vestaglia. La lunga treccia che pendeva sulla mia spalla dondolò un poco per i movimenti, come un pendolo che segna incessabile i rintocchi di una vita.
« Ciao. » Sussurrai a Sauron, osservandolo bene. Aveva indosso una tunica verde smeraldo, ricamata di nero. Era la stessa persona che avevo salvato nei boschi, ma sembrava così diverso da allora. Non aveva più le occhiaie scure sotto gli occhi, ne le mani rovinate o i capelli intrigati. Sembrava un dio, come era stato un tempo.
Era bello, ma quale semidio caduto non lo era? Magari, pensai, nei giorni della sua dittatura a Mordor lo era ancora di più. Oppure era ancora meglio quando stava fra i Valar. Ma chi può dirlo?
« Oh, stai piangendo principessa. » Si alzò di scatto e aprì il cassetto del so comodino, frugando in cerca di qualcosa da usare come fazzoletto. Passai ancora una volta le maniche sotto gli occhi e il naso, scuotendo vivacemente la testa.
« Non sto piangendo. Ok, forse un po’, ma poi mi passa. » Gli assicurai, non accettando il piccolo riquadro di stoffa che mi aveva offerto. Ora che era più vicino potevo vedere che non aveva occhiaie, ne occhi rossi di pianto. Sembrava fresco come una rosa, come se la morte di mia madre non l’avesse toccato. E poi mi tornò in mente che in tutta quella settimana non gli avevo mai visto gli occhi rossi di pianto.
Sorrise un poco, cacciando il fazzoletto in una tasca della tunica. « Si, immagino di si. »
« Ma come fai? » Mi scappò dalle labbra. Lui inarcò un sopracciglio. « Come fai a non piangere? Tu, che dicevi di amarla. »
« Ah. Ti hanno raccontato allora; scommetto solo quello che faceva loro comodo che conoscessi » sussurrò quasi divertito Sauron, passandosi una mano fra i capelli neri. Un lampo guizzò attraverso gli occhi verdi, ora più vuoti di prima.  « Comunque è semplice, sai, non piangere. Basta non pensare a quella persona che non c’è più. »
« E come fai a non pensarci? »
« Non posso. E’ troppo forte il dolore per la perdita che sto provando, così tento, tendo a ignorarlo. Ogni tanto funziona, ogni tanto invece no. Non posso controllarlo sempre, anche se ci provo. »
« Allora devi avere una qualche specie di potere speciale per non piangere. Ti invidio davvero tanto. » Sussurrai, alzando gli occhi al cielo. Lui rise leggermente, e gli angoli delle labbra gli si alzarono di poco.  
Tale quale a lei, mi parve di sentirgli dire. Ma non lo fece, non vocalmente almeno. Al contrario invece disse: « Anche tu hai un potere niente male, principessa. Se mi acconsenti, ti insegnerò a usarlo. »
Accettare o no? Che importanza aveva?  Avrei fatto di tutto pur di non tornare in quel mondo fasullo che era fatto dei sogni, delle cose, delle persone che più bramavo. In quel mondo finto dove tutto era rimasto invariato e i rimproveri di mia madre che mi scovava a gironzolare nel periodo che precedeva l’alba e mi costringeva a cambiarmi. Avrei fatto di tutto per non dormire; per non provare dolore al mio risveglio. Così acconsentii e passai la notte a imparare, con un uomo che avrebbe potuto essere mio padre se mamma non avesse scelto papà.
 


*    *
 



Ci sono tanti modi per superare una perdita, e ognuno lo fa a modo suo. C’è chi si rifugia in se stesso, chi grida, chi si nasconde e chi rifiuta di credere che la persona che amava se ne sia andata. C’è chi trasforma il dolore in rabbia, chi piange fino ad addormentarsi nel buio della sua stanza, chi aggredisce gli altri perché non vuole credere a quello che è successo, chi conforta gli altri tentando di dimenticare se stesso, chi non mostra alcuna emozione e finge che non sia successo niente per poi crollare dentro.
Legolas ancora non ci poteva credere. Se ne stava seduto sopra il suo letto matrimoniale con lo sguardo perso nel vuoto, in quella che era stata la loro stanza per venticinque anni. Ora, che la luce grigia del cielo entrava dalla porta-finestra aperta e le tende di velluto volteggiavano nell’aria, l’elfo non riusciva a sentire niente. Non sentiva freddo, caldo, amarezza, solitudine. Solo tanto, tanto dolore. Un dolore così grande che sembrava aprirgli il petto, squarciarlo a metà e torturarlo con tutti i ricordi che gli venivano in mente.
Rimase seduto su quel materasso, mentre qualcuno bussava alla porta e tentava di fargliela aprire. I suoni rimbombavano fra le mura pallide per poi disperdersi e ricominciare. Si immaginò la sua compagna che gridava qualcosa come « Arrivo! Dannazione arrivo, calmate i bollori. Lo so che sono richiesta ma, cavolo, anche io ho una vita! » e ingoiò un fiotto di saliva a vuoto.
Aveva perso El molte volte nel corso degli anni, in svariati modi, ma poi l’aveva sempre ritrovata. Lei l’aveva sempre ritrovato. Nonostante tutto. Ma adesso, adesso non si sarebbero più rivisti e l’ultima cosa che gli aveva promesso era stata che l’amava nonostante non fossero sposati. Solo ora si accorgeva di quanto aveva rimandato quel momento. Di quanto, in tutti gli anni passati assieme, lei si fosse sentita in dubbio, preoccupata, impaurita del fatto che lui avrebbe potuto lasciarla come se niente fosse –anche se sapevano entrambi che Legolas non l’avrebbe mai fatto.
« Ora mi hai stufato Legolas! Io entro! » La voce ruggente di Fanie si percosse contro la porta che, dopo un violento strattone e una serie di spallate si staccò dai cardini e ricadde a terra ai piedi dell’elfa.
Gli occhi cercarono Legolas, sebbene lui sapesse che solo uno era funzionante. La ragazza aveva stretto i lunghi capelli in una treccia che le ricadeva sulla schiena, e che lasciava più libero il viso cereo e contornato da pesanti occhiaie nere e occhi rossi di un pianto passato. Tutta via, Fanie manteneva quel suo portamento eretto che nemmeno il dolore era riuscito a scalfire.
Si parò davanti al principe e poggiò le mani sui fianchi, incrociando i suoi occhi. Tutti e due li avevano azzurri, lei più tendenti al grigio, ed entrambi potevano leggervi milioni di sentimenti contrastanti all’interno. Nessuno parlò per qualche minuto. Poi, a un tratto, Fanie si abbassò e prese dalle mani dell’elfo una catenella di fine argento. Se la rigirò fra le dita e accarezzò con un polpastrello il ciondolo rotondo che vi era appeso. In basso rilievo, aggirato da quelle che sembravano fiamme, stava una semplice frase: la discesa all’inferno è semplice, la risalita è più difficile.
La ragazza ingoiò un fiotto di saliva e porse nuovamente la catenella al suo principe, prima di tirarsi in piedi e passarsi una mano sulla cicatrice dell’occhio. L’aveva fatto d’istinto, senza pensarci minimamente. Era una cosa naturale.
« Era sua », disse Legolas, con la voce roca causata da un recente pianto. Fanie avrebbe voluto dirgli che lo sapeva, perché gliel’aveva regalata lei anni prima quando se n’era andata da Bosco Atro. Che quello era il motto che usava lei stessa per darsi forza, che l’aveva usato anche quando le era stata fatta la cicatrice. Ma non lo fece. Rimase immobile, mentre osservava le dita aggraziate di un uomo che correvano sull’ultimo ricordo dell’amata. « La tirava fuori dalla cassettiera ogni notte, quando pensava che non la vedessi oppure che dormissi. Ogni tanto ci piangeva sopra, per poi rimetterla a posto. Non le ho mai chiesto il perché, ma immagino che ora non abbia importanza. Non credi anche tu? »
« Non piangerti addosso, principe. Tutti soffriamo Legolas, non solo tu. El era amica mia, e non credere che persino Haldir non abbia versato qualche lacrime. Certo, è più forte di te e dei suoi fratelli, ma le ha versate. » Si sforzò di dire Fanie. Perché comunque, in un certo senso, sebbene sapesse che poteva rispondere alla sua domanda lui non l’avrebbe accettata perché non aveva la voce di El, non aveva le sue sfumature, o il modo in cui si muovevano le labbra quando parlava. Non l’avrebbe accettata perché non era lei. Semplice. « Avrai tempo per farlo questa notte, adesso devi alzarti e andare dai tuoi figli. Perché anche loro meritano le tue attenzioni, e non perché siano deboli ma perché, come te, hanno perso una madre. Un punto di riferimento. » Le costava essere così realmente cruda con lui in un momento come questo, ma senza la dura verità di El non rimaneva che la sua. Non avrebbe permesso a Legolas di lasciarsi andare al dolore, di morire piano piano. Non gli avrebbe permesso neppure di diventare come Thranduil. Avrebbe provato a riportarlo a quello che era stato, sebbene sapesse che una parte di lui era irrecuperabile. « Ora devi diventare tu il loro punto di riferimento, mi hai capito? » Alzò leggermente il tono, richiamando all’ordine l’elfo biondo.
« Si. » La voce roca di Legolas suonò come un sibilo, affogato ancora in quel mare di dolore che lo tormentava.
Vedendo che l’elfo non attingeva ad alzarsi, Fanie sospirò e si sedette accanto a lui sul materasso. « Non odiarmi per come mi pongo a te oggi, Legolas. Sto solo facendo quello che ritengo giusto per i tuoi figli e per te. » Si voltò a osservare il principe, che se ne stava con quella catenella fra le mani e l’accarezzava avidamente. Cercò di ignorarla, e si schiarì la voce prima di riprendere.« Anche io ho subito una brutta perdita e, nonostante tutto, ho cercato di andare avanti. El è morta da una settimana, e tu hai deciso di rintanarti qui dentro e sparire dalla circolazione. Come se non esistessero altro che il dolore e la solitudine che ti circondano. Ma non è così. » La catenina tintinnò quando il biondo la fece passare fra le dita.Ancora una volta, Fanie la ignorò. « Io e tuo padre siamo preoccupati. I tuoi figli stanno annegando nel dolore, Haldir più di tutti, anche se non vuole ammetterlo. Perché è per lui che sua madre è morta. Perché voleva salvarlo. Non lasciare che s’incolpi ancora. Si sta distruggendo a poco a poco, da solo, senza nessuno che lo fermi. »
L’ennesimo ticchettio.
Fanie digrignò i denti e strappò di mano la catenella a Legolas. Si alzò, la congelò con i suoi poteri finché non fu inglobata da una sfera di ghiaccio solido e trasparente e freddo al tatto, si avvicinò alla finestra e la lanciò lontana. Osservò la piccola palla brillare dei grigi raggi trasmessi dalle nubi e sparire nella foresta. Scomparve fra i rami neri e morti di Bosco Atro. Si pentì subito di quel gesto, guidato dalla rabbia, dal dolore della perdita di un'amica e il ramamrico del ricordo di quel momento in cui gliel'aveva consegnato; dall’istinto di conservare intatto il ricordo di un vecchio amico forte e sicuro di se invece di qualcuno amorfo e distrutto seduto su un letto. Quando di voltò, Legolas era in piedi difronte alla porta e gli occhi erano più taglienti di schegge di ghiaccio affilato. Strinse il pomello della porta con forza, tanto che il pallore della pelle sembrò fluire via dalle nocche diventate rosse di sangue.
« E’ già qualcosa. » Commentò glaciale Fanie, mentre lui apriva l’uscio e l’aspettava per dirigersi assieme nella sala da pranzo.  
 



*    *
 
 


Quando entrai nella sala da pranzo notai subito qualcosa di diverso. Non era nelle pareti ancora addobbate di trofei di caccia, o nel camino col fuoco che ardeva di fiamme rosse, verdi e azzurre. Lo percepii subito come una qualche minaccia.
Avanzai cauta fino al tavolo, dove i miei famigliari erano già radunati. Quando mi sedetti e puntai gli occhi sul posto di mia madre lo trovai occupato. C’era una donna al suo posto, a quello che era stato almeno. Aveva lunghi capelli mossi, quasi neri, e occhi lucenti color ossidiana. Indossava una specie di blusa marrone corta, che non le copriva neppure l’ombelico. Al collo le pendeva un ciondolo d’avorio lungo e ricurvo. Probabilmente l’artiglio di qualche animale. Strinsi le mani ai braccioli della mia sedia, mentre i nostri sguardi si incontravano.
« Ma guardati, sei la sua copia sputata. » La donna si sporse un poco in avanti, poggiando il mento su un pugno. Aveva quella strana luce negli occhi che mi spaventava, ma non mi sarei tirata indietro. « Tranne gli occhi. Quelli sono un regalo di papà, non è così? » Sorrise mostrandomi i canini affilati.
Rabbrividii, prima di allungare una mano e prendere a giocare con il coltello. Se avessi provato a tirarglielo, l’avrebbe preso al volo o le si sarebbe conficcato in un occhio? Perché non tentare? Strinsi l’impugnatura della posata fra le dita, l’alzai leggermente dal tavolo e una mano fredda mi costrinse a rimetterla a posto.
Alzai lo sguardo colta alla sprovvista, mentre mio padre non si degnò neppure di guardarmi. I suoi occhi azzurri rimasero bloccati sulla donna, che si alzò dal suo posto rivelandomi il resto del vestiario: dei pantaloni di pelle verde e un paio di stivali alti dell’ennesimo colore. Sentivo qualcosa di più nella stretta che mio padre teneva sulla mia mano: tensione. Evidentemente non ero l’unica che non voleva che quella donna sedesse al posto di mia madre, o che respirasse sul posto di mia madre o che si aggirasse con quell’aria di superiorità che sembrava aggirarsi attorno alla sua figura.
 « Ah, ecco qui il donatore degli occhi di questa splendida fanciulla. » La donna aveva una voce così fragile e tagliente che sembrava calcolata. E forse lo era, ma sembrava troppo naturale. Quasi che lei stessa fosse tagliente e pericolosa come il vetro.
« Ben arrivata Ringil » si limitò a dire mio padre. La sua mano si spostò sulla mia spalla e li rimase, sempre tesa ma più calda.
« E’ un peccato che tu non mi accolga più come un tempo, o che tuo padre non si faccia vivo per ricevermi. Con gli anni avete perso le buone maniere? » Le dita di Ringil ticchettarono sul tavolo di legno, mentre osservava i commensali seduti al tavolo: i miei tre fratelli, la cerva e me.
« Evidentemente la tua presenza non è gradita » le dissi, guardandola negli occhi senza mai abbassare i miei.
Lei non soffocò la risata che le uscì dalle labbra sottili e si portò una mano al cuore, come se fosse stata colpita da una freccia. « E’ identica alla madre. Questo vorrà dire che mi toccherà metterla in riga. » Fece una smorfia e aggirò il tavolo, senza smettere di ridere sommessamente.
« Cosa vuol dire? Padre, che intende? » Rìnon saltò sull’attenti, ora il coltello che aveva stretto nella mano destra sembrava un pugnale, lucente nel grigio delle nubi.
« Non ne ho idea. » Sussurrò Legolas, stringendo di poco la presa sulla mia spalla. Ingoiai un fiotto di saliva e mi alzai, abbandonando il coltello sul tavolo per poggiare le mani sulla mia camicia da notte.  Non mi ero cambiata quella mattina, non me n’ero ricordata persa com’ero dal mio stato confusionale dovuto al poco sonno, alle lezioni di Sauron e il dolore causato dalla perdita di mia madre.
Haldir mi scoccò un’occhiata di traverso, prima di pulirsi gli angoli della bocca con un tovagliolo e incrociare le braccia al petto. Alzò le spalle quando vide che non distoglievo lo sguardo. Feci una smorfia.
« El l’aveva invitata a palazzo, Legolas, e io avevo approvato. » Fanie si affiancò a Ringil, strappandole di mano la lettere di pergamena che aveva appena estratto da quella strana tenuta che le copriva il petto. Gli occhi azzurri dell’elfa esaminarono la carta, prima che le sue dita riducessero il tutto a una palla che volò nel centro del camino. « I Lupi del Nord sono validi alleati, forti e veloci e senza pietà. E in più, El sapeva delle doti d’allenatrice di Ringil e così l’ha convocata qui perché insegnasse ai tuoi figli come si combatte senza troppi fronzoli. »
 « I miei figli non combatteranno! Non li metterò in pericolo! » Ruggì mio padre, spingendomi dietro di lui con fare protettivo. Ci mise talmente tanta forza che per poco non caddi se il braccio di Leron non mi avesse afferrato in tempo. Lo guardai e sorrisi in modo che capisse che stavo bene, poi mi lasciò andare sgusciando fuori dalla sua postazione.
« Li metti in pericolo non consentendogli di imparare a difendersi! » La mano di Fanie ebbe un guizzo, ma lei strinse le dita contro il palmo impedendo alle schegge di ghiaccio di uscire dai polpastrelli. Mi chiesi se anche io, se mai un giorno mi sarei arrabbiata, sarei stata costretta a fare così per non ferire le persone che amavo.
« Io darei ascolto a lei, fossi in te principe. » Ringil indicò Fanie con un cenno della testa, senza mai abbandonare il sorrisetto poggiato sulle sue labbra.
Giurai di aver visto una vena del collo di mio padre pulsare, prima che Turion facesse il suo ingresso in un trionfo di seta azzurra e argentea. « Ascolta Fanie, mio signore. » Aveva un tono di voce pacato, che lo faceva sembrare meno pericoloso di quello che in realtà era. Perché l’avevo visto in azione, quel giorno quando mi aveva salvata, ed era stato come vedere un predatore che uccide la sua preda. Il drago era più grosso di lui, ma l’ha abbattuto  come se non fosse altro che una grande oca.
La gamba in via di guarigione mi formicolò un poco quando il ragazzo mi passò davanti, forse a causa del ricordo appena evocato. Mi appoggiai allo schienale della sedia di mio fratello, sorreggendomi finché il formicolio passò.
« La guerra ha già causato troppi morti. Non lasciare che i tuoi figli non siano in grado di difendersi, mio signore. Ringil è un’ottima insegnante e guerriera, i Valar me l’hanno fatta osservare dall’alto per molti anni dopo che era salita al potere come suo padre Magnus. Possiamo fidarci di lei. » Tentò ancora Turion, stringendo di nascosto la mano – solo allora mi accorsi essere sanguinante- di Fanie.
« Padre, trovo che abbiano tutti ragione. Io stessa mi sono trovata in pericolo perché non sapevo difendermi. Mi sono salvata solo perché Turion è accorso in mio aiuto. » Questa volta fui io ad appoggiare la mano sulla spalla dell’elfo. I nostri occhi si incontrarono e, per una frazione di secondo, colsi la mia immagine riflessa nelle sue pupille: una giovane donna in vestaglia, dai capelli ora sciolti sulle spalle e la pelle tanto pallida. Ero uguale a lei, mi convinsi, se non fosse stato per i miei occhi.
« Elanor » la sua voce cadde leggermente sulle ultime lettere. Quanto gli costava esporre i suoi figli così? Non volevo saperlo. E in quel momento, decisi, non l’avrei mai saputo perché non avrei mai avuto figli. Non avrei lasciato che altri provassero il mio stesso dolore, il dolore di mio padre.
« Abbiamo bisogno di imparare, e se la mamma aveva deciso di  convocare il capo Clan dei Lupi del Nord perché ci insegnasse, evidentemente, la riteneva adeguata. » Lanciai uno sguardo a Ringil, che adesso aveva stretto le braccia al petto. La pelle abbronzata splendeva di linee nere e punti che davano vita a tatuaggi elaborati e, per lei, sicuramente significativi. « Anche se a me non piace » ci guardammo per qualche secondo, tenebra e luce che si scontravano nel nostro scambio di sguardi, « non dubito che non ci allenerebbe a dovere. »



N.d.a

Ciao ragazze,

allora vi è piaciuto il capitolo? Che ne pensate di El, della reazione di Legolas a Ringil e di quella di Fanie con la collana? E' un capitolo un pò andante, questo, dove ho introdotto il primo di alcuni nuovi personaggi, e che spero vi sia piaciuto ^-^ (devo ancora finire la sua FF, ma ci arriverò presto). 
Ora corro, recensite è :3

Baci,

Isil.

 

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Capitolo 16
*** Secondo Libro - Fiumi di sangue e ombre di cenere. ***


Libro secondo: fiumi di sangue e ombre di cenere.
 

Storia d’Inverno.
 


“Arriverà il tuo momento se resti ad aspettare”
 
— Imagine Dragons





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Quando aprii gli occhi attorno a me c’era solo un’infinita distesa di cenere nera. Vampate di fumo salivano verso l’alto accompagnate da sbuffi improvvisi di gaiser e odori pungenti, e non c’era cielo in cui si potessero disperdere ne aria che purificasse ogni cosa. Quei vapori salivano verso l’alto e si scontravano con una cupola nera che, di tanto in tanto, scricchiolava e si sgretolava.
Dov’ero finita? Che posto era? Perché ero li?
Mi alzai con cautela, tastando il terreno con le punte degli stivali con la paura che si sgretolasse. Era tutto così strano. Feci un passo avanti incerta, poi un altro e quando mi apprestai a fare l’ennesimo venni trattenuta da qualcosa. Socchiusi le labbra e mi voltai, i pugni alzati verso l’alto pronta a difendermi. Ma non c’era nessuno dietro di me. Abbassai le difese e provai a fare un altro passo: ancora qualcosa me lo impedì. Cos’era? Poi capii. Abbassai lo sguardo e trovai uno spesso anello di metallo saldato attorno alla mia caviglia destra; una catena color pece era stretta alla sua estremità e scompariva nelle tenebre.
Che posto era quello? Perché ero incatenata?
Tossii a causa dell’aria irrespirabile, i polmoni mi dolevano nel petto. Tentai di tirare con tutte le mie forze quegli anelli, ma questi si sgretolavano fra le mie mani per poi andare a riformarsi in un batter d’occhio. Erano fatti realmente di cenere spessa, dura e tal volta granulosa che tingeva la mie pelle di sfumature carbone.
« Ma dove sono? » Mi sfuggì dalle labbra, e qualcosa si mosse oltre una delle pareti.
« Ssssi è sssssvegliata! Ssssi è ssssvegliata! Siiiii! » Una creatura avanzò nella mia direzione, la voce acuta e sibilante che faceva tremare la stanza. Persino nel buio di quel luogo si riusciva a scorgere la sua sagoma: tozza, con una testa troppo grossa per quel corpo così magro ma, sicuramente, pesante visto come si trascinava dietro le lunghe braccia scheletriche. Camminava dondolandosi maggiormente da una parte, con gli occhi che brillavano cangianti.
Quando si fece ancora più vicino, notai che una delle sue gambe era più corta rispetto all’altra e che la sua pelle aveva un orribile color muschio/ruggine. Occhi rotondo e sporgenti, grigi come le nubi temporalesche mi osservarono per un lungo tempo, poi si posarono sulla catena e sorrisero, come la sua bocca rugosa e piena di denti storti e aguzzi.
« Ahhh! Ha provato a liberrrrssssiii tessssoro! Ha provato ma non è riussssscita! » Saltellò attorno alle catene ridendo. Rabbrividii al solo pensiero di averlo così vicino.
Che essere era quella… cosa?!
Prima che l’essere riuscisse ad avvicinarsi di più, una seconda figura si fece avanti. Attorno ad essa splendeva una specie di aura biancastra che illuminava quel posto tetro di un calore ben accetto. Era un uomo, constatai quando si fece più vicino, un giovane uomo dalla pelle di porcellana, gli occhi d’oro e i capelli di un rosso acceso, tendente all’arancio. Indossava una tunica lunga e nera, ricamata da cuciture rosse e arancio e indossava orecchini cilindrici con incastonati rubini. Teneva fra le mani un lungo bastone, con incastonata sulla sommità una grossa sfera trasparente e lucida dalla quale scaturiva la luce.
Mi portai una mano sopra gli occhi per proteggermi da quell’illuminazione improvvisa e tossii nuovamente. Una piccola nube di fumo scaturì fuori dalle mie labbra, lasciandomi disorientata mentre la osservavo sparire nel nero che ci circondava.
«Mh.» L’uomo si piegò sulle ginocchia per arrivare alla mia altezza. I capelli gli ricaddero in avanti sul viso, incorniciandolo come se fosse uno splendido ritratto. Allungò una mano e mi scostò i capelli dal viso.
Mi ritrassi immediatamente, sconcertata e spaventata al tempo stesso.
Lui sbatté le palpebre e si issò, porgendomi una mano per alzarmi. « Mia signora » sussurrò, mentre mi alzavo guardinga senza il suo aiuto. « E’ un tale onore conoscerti. »
« Ceerto » borbottai, mentre studiavo l’uomo con un certo nervosismo e mi spazzavo via la cenere dai vestiti.
Qualcosa mi si aggrappò alla gamba facendomi sussultare.  Guardai in basso e scorsi l’essere di prima avvinghiato ai miei pantaloni, e non potei fare a meno di provare un moto di disgusto. Gridai, più per lo schifo che per la paura, e iniziai a muovere la gamba velocemente per staccarlo. Quello non mollava la presa, così fui costretta ad assestargli un calcio con la gamba libera. L’essere volò per qualche metro, gridando con la sua voce strana e acuta poi capitolò a terra in una nube di cenere nera.
L’uomo dai capelli rossi aveva assistito alla scena senza fiatare, ma con un sorriso divertito che gli aleggiava ancora sulle labbra.
« Perdona i modi bruschi del mio aiutante » si rivolse a me, sorridendomi gentilmente. « Nella sua vita precedente non era abituato alle buone maniere. Tutta via, adesso sta tentando di imparare. Perdona anche le catene, mia Signora, ma non sapevamo come avresti reagito al tuo risveglio. » L’uomo dai capelli arancioni rivolse uno sguardo torvo all’essere che gli si era attaccato alla tunica.
Ridussi gli occhi a due fessure, mentre la luce emanata da quella sfera si faceva più intensa e andava a occupare uno spazio più ampio. I raggi incanalarono nelle loro spire il freddo nero che ci circondava, dando vita alle mie idee: dovevamo essere per forza sotto terra, in una qualche prigione. In una qualche prigione che sembrava infinita a causa delle tenere, sebbene ora fosse molto più luminosa.
« Smeagoool voleva solo avvertire il paddddrone » sibilò la creatura, saltellando attorno all’uomo.
Il respiro mi si mozzò in gola. Gollum. Quella creatura era davvero Gollum? La morte di certo non gli aveva reso la pace eterna come avevamo sperato tutti, allora. Un velo di pelle d’oca andò a coprirmi le braccia, costringendomi a muovere le spalle per farla andare via. Che cosa rivoltante e, al tempo stesso, ingiusta. E io che pensavo che dopo la morte ci fosse il risposo eterno.
« Oddio. » La verità mi colpì in faccia con uno schiaffo. Se Gollum era li –ovunque si trovasse “LI”- ed era morto anni fa allora io… dovevo essere morta.
Che posto era questo? L’inferno. Perché ero li? Perché ero morta per salvare Haldir. Perché avevo ucciso troppe persone innocenti per salvare le persone che amavo.
Mi portai le mani sulle labbra e soffocai un singhiozzo, prima che le gambe mi cedessero e cadessi nuovamente fra la coltre di cenere che si era alzata. Il fianco destro prese a farmi male e, poco dopo, rivoli di sangue scarlatto cominciarono a scendere verso terra imbrattandomi i vestiti, creando grumi a contatto con il terreno farinoso. Un lacrima scese lungo le mie guance, calda e più densa di quanto mi aspettassi. Quando cadde andò a creare un’ennesima macchia rossa sui miei vestiti sgualciti.
Piangevo sangue. Perché?
Gli occhi d’ambra dell’uomo si poggiarono su di me per l’ennesima volta, mentre lui camminava fra la cenere depositatasi sul pavimento che si ergeva in ampie volute nere attorno alla sua figura. Fletté e ginocchia in modo da arrivare alla mia altezza e strinse dolcemente i miei polsi fra le sue mani, allontanandoli dalle labbra. L’osservai stranita, mentre con gentilezza si alzava portandomi con lui. Che cosa strana, pensai. Perché mi faccio aiutare così facilmente? Perché lo lascio toccarmi?
« Mia Signora » sussurrò con voce dolce « questo non è il luogo per piangere. Venite. » Senza lasciarmi i polsi prese a camminare, illuminando la strada con quel suo strano bastone luccicante. Provai ad avvertirlo delle catene che ancora mi tenevano prigioniera, ma quando abbassai lo sguardo notai che si erano sganciate da sole.
In lontananza, udii un ruggito che mi fece accapponare la pelle.
 
 
*    *
 
 
 
« Alza il braccio Leron! Di questo passo sei già morto tre volte! » Ringil ringhiò forte, mentre il principe tentava di sparare una palla di fuoco. Purtroppo, neppure stavolta il risultato fu buono. Anzi, ci mancò poco che la scintilla fuggita al controllo  del giovane non bruciasse i capelli del fratello gemello, accorso curiosamente a vedere gli allenamenti suoi e della sorella.
Turion sbuffò una nuvola di fumo e abbassò la testa, poggiandola oziosamente tra le grandi ali nere e rosse. Accanto a lui, Arme se ne stava tranquillamente a osservare la scena con quegli occhi d’oro che si ritrovava.
Era cambiata molto in quegli anni in cui i due non si erano visti. Turon e lei erano cresciuti assieme, e per quanto si ricordava il drago la sua amica aveva sempre avuto un colore ambrato che ricordava l’oro; ora invece tendeva al bianco perla e lasciava al colore precedente solo poche sfumature sulle ali e agli occhi. Era così diversa.
Come ti senti? La domanda lo ridestò dal turbine di pensieri che l’aveva accolto fra le proprie braccia, facendogli sbattere le palpebre con velocità e alzare il muso verso l’amica.
Abbastanza bene. Si limitò a rispondere. Dopo tutto, era la verità. Non stava male ma neppure bene. Essere riuscito a scampare alla morte era stata proprio una cosa inattesa, figurarsi ritrovarsi legato a un marmocchio che non era neppure in grado di governare una singola palla di fuoco. Le mancava El, ma le era grato del fatto che l’avesse lasciato in vita.
Mi dispiace per quanto successo alla tua guardiana.
Anche a me. Ma se ha deciso di lasciarmi in vita e legarmi a uno dei suoi figli avrà avuto sicuramente un buon motivo.
Stai dicendo che aveva già pianificato tutto? Arme l’osservò di sottecchi, assottigliando le palpebre fino a ridurle a due fessure.
Turon spostò lo sguardo da lei al principe, piegando leggermente la testa di lato per osservarlo meglio. Arme lo seguì. Rìnon non era certo quello che si sarebbe aspettato Turon, lui avrebbe preferito che Haldir avesse preso in consegna i poteri della madre, ma se El l’aveva scelto un motivo doveva esserci stato.
Sono sicuro che qualcosa aveva pensato, quella piccola canaglia. Ammise.
Allora non ci resta che aspettare la guerra e vedere che succede. La dragonessa poggiò ancora una volta la testa fra le zampe e chiuse gli occhi.
Non possiamo fare altro.
 
 
*   *
 

« Volevate vedermi, vostra maestà? » Fanie si chiuse la porta della sala del trono alle spalle e rivolse uno sguardo di ghiaccio a Thranduil che, seduto sul suo vistoso trono, osservava ogni suo più lieve spostamento.
L’elfo annuì, alzandosi in piedi e iniziando a scendere la scalinata che l’avrebbe condotto da lei immerso in un tripudio di stoffa argentea e rossa.  Era bello, pensò Fanie incrociando le braccia al petto nel tentativo di apparire annoiata. Bello e crudele, con gli occhi di ghiaccio e il sorriso di un demone. In effetti Thranduil ricordava proprio un demone in quei suoi momenti di pazzia, in cui si divertiva a tormentare i suoi prigionieri mostrando loro il suo vero volto, quel suo occhio ceco. D’istinto l’elfa si portò una mano alle cicatrici che aveva in volto, facendo scorrere le dita sulla pelle seghettata finché non raggiunse l’occhio da cui non vedeva niente. Lo toccò con leggerezza e sospirò, riabbassando la mano prima che il re la raggiungesse.
« Io, volevo parlarti. » Con un sorriso appena accennato Thranduil le si avvicinò di più, facendola indietreggiare. « Mi sei mancata così tanto.»
Che cosa ha in mente?, si chiese la ragazza. Milioni di idee le passarono per l’anticamera del cervello, miliardi di emozioni contrastanti le fecero battere il cuore. Era sempre così difficile stare vicino a quell’uomo che le aveva rovinato la vita ma che, nonostante tutto, gliel’aveva resa anche bella. Eppure... per ogni cosa bella che lui aveva fatto ce n’erano tre da far accapponare la pelle.
« Fanie » il suo nome suonò così dolce quando lascò le labbra del re, quasi fosse una morbida carezza. La ragazza batté le palpebre e rimase a osservare la mano del suo padrone alzarsi verso il proprio viso, finché le dita pallide e fredde non finirono per sfiorarle la cicatrice e poggiarsi sulla guancia malandata.
« Q Le meluvan úne ar alye lúmessen tenna nurucilie. »   Ti amerò nel bene o nel male, finché morte non ci separi le aveva detto una volta Rìnon, catturandola con i suoi occhi verdi smeraldo. Poi le aveva sorriso e avvicinandosi con molta calma, quasi avesse paura di spaventarla, aveva poggiato le proprie labbra su quelle dell’elfa. Le sue mani calde si erano poggiate sui suoi fianchi, attirandola verso di se, e così lei aveva potuto gettargli le braccia al collo e attirarlo verso di se ancora di più.
Rìnon. Lo stesso Rìnon che aveva dato la sua vita nel tentativo di ritrovarla. Lo stesso elfo, lo stesso e unico vero amore che Thranduil le aveva strappato dalle braccia perché geloso.
Non se ne rese neppure conto, Fanie. Prima che qualcuna delle guardie presenti potesse reagire lei alzò il braccio e colpì la mano del re per cacciarla dalla sua guancia. Il contatto freddo con a pelle di lui cessò all’istante, mentre quello di ghiaccio fra i loro occhi continuò a esistere. Non si sarebbe più fatta toccare da quel serpente viscido, che le aveva rovinato la vita.
« Tua nuora è morta, due dei tuoi nipoti sono diventati all’improvviso guardiani, mio fratello Sauron e la cerva stanno escogitando qualcosa, l’altro mio fratello Turion sta escogitando un piano d’attacco, l’arrivo di Aragorn è imminente e, come finale, la guerra incombe e tu volevi vedermi. » Quella frase sembrava, era un’accusa bella e buona. « Tutta la Terra di Mezzo sta per essere distrutta e tu volevi vedermi!? Va al diavolo stupido, pomposo, razza di rovina vita che non sei altro! » La guardiana alzò un braccio e con velocità colpì il sovrano sul viso, facendogli voltare la testa da una parte. Lo schiocco riecheggiò nell’atrio più e più volte, mentre Thranduil si portava una mano alla guancia e l’accarezzava per lenire il dolore.
I suoi occhi parevano fuoco liquido.
« Come hai osa… »
« Non dire nulla! » Sbraitò Fanie, su tutte le furie. « Tutte le tue parole, tutte le tue azioni sono spregevoli! Se tu fossi stato sul campo di battaglia quel giorno, se avessi combattuto anche tu magari El sarebbe viva! E se tu non fossi stato così spregevole da promettermi in sposa a tuo figlio, anni fa, forse Rìnon sarebbe ancora vivo! Tu mi hai rovinato la vita, e ora stai per rovinare quella dei tuoi famigliari, razza di codardo! »
 
Quelle parole arrivarono dritte al cuore di Thranduil e lo bloccarono. Il respiro gli si mozzò in gola mentre osservava lo sguardo glaciale ma, tutta via, infuocato della donna che aveva difronte.
Mi hai rovinato la vita. Codardo. Rìnon sarebbe ancora vivo.
Con un moto di stizza il re si portò una mano sopra il cuore e strinse leggermente le stoffa della tunica fra le mani, come se una freccia l’avesse colpito proprio li. Si sentiva stordito dalla crudeltà con cui Fanie gli si era rivolta, distrutto dalle parole che gli aveva gridato contro.
Codardo. Mi hai rovinato la vita.
« Fanie » sussurrò, incapace di dire altro.
Negli occhi della giovane ardeva un fuoco così vivo che, pensò il re, se avesse nuovamente provato a toccarla l’avrebbe bruciato. « Ti odio » sibilò lei « con tutta me stessa. » E se ne andò lasciandolo li. Solo.


N.d.a

Sono tornata, stronze ( love you all ). Che ne dite di questo inizio capitolo/secondo libro? Vi è piaciuto? Spero vivamente di si. 
El è tornata, Rìnon ha dei poteri tutti suoi e Fanie detesta Thranduil. Che accadrà nei prossimi capitoli sta a voi scoprirlo, continuando a leggere :3
Bene, ora è tardi quindi io vado.

Un bacione

Isil.

P.s: ho deciso di continuare se (solo SEEEE) i nuovi capitoli della mia sotria arriveranno ad almeno tre recensioni l'uno. No, non sono una stronza (forse si), ma amatemi lo stesso :3 
http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2824303&i=1



 

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Capitolo 17
*** Ombre. ***


Leggere note d’autore per traduzioni elfiche.
 
Storia d’Inverno.
 


“Sai qual è il tuo problema?
E’ che non la smetti mai di pensare”
 
— Il castello errante di Howl - Diana W. Jones
 


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Elanor.

Iniziamo la nostra vita con un pianto. Cominciamo a respirare davvero dopo che qualcuno ci ha tirato uno schiaffo e ci ha fatto aprire la gola con un urlo. Iniziamo la nostra esistenza provocando dolore a qualcun altro, a noi stessi. Allora perché il continuo dovrebbe essere diverso?
Più viviamo, più andiamo avanti più la vita ci pone davanti a situazioni peggiori della nascita. Ci mette difronte a indovinelli, ostacoli talvolta insuperabili e ci impone di trovarvi una soluzione. La vita è una stronza, fatta e finita.
Quindi, la mia prima domanda è: perché nasciamo contro la nostra volontà? A me cosa me ne poteva fregare di venire al mondo in una terra carica di incomprensioni e regole, e per di più con un padre iperprotettivo, una madre che aspira all’eccellenza, un fratello maggiore perennemente imbronciato e due minori che sono come palle al piede, e un nonno che sembra il capo di un esercito?
La seconda domanda, invece: che diamine ho fatto di male ai Valar per meritarmi tutto questo?
Ma forse è meglio che specifichi “tutto questo.”
Non capitava spesso che a Bosco Atro avessero accesso degli stranieri, tutta via c’erano occasioni speciali in cui erano autorizzati a entrare nel reame degli elfi. Occasioni che comprendevano festoni e ricchi arredamenti, banchetti e intrattenimento. Occasioni che pretendevano abiti eleganti e buone maniere. Tutte cose a cui ero sempre stata abituata, ma che non ero mai riuscita a seguire alla lettera.
Con il vento che mi fischiava nelle orecchie, e i capelli che schioccavano come fruste nel tramonto nascosto dai grandi alberi del mio regno spronai il mio cavallo. Una goccia di sudore mi colò dalla tempia, correndo fredda sul collo.
Era tardi.
Tardi, solo quella parola bastava a farmi tremare. Dietro di me sentivo il carico dei corpi morti degli animali che avevo cacciato appesantire il cavallo, davanti il respiro pesante di Aranel che si disperdeva nell’aria in nuvolette di condensa.
Tardi, mia madre mi avrebbe rivoltato come un calzino. Tardi, mio padre avrebbe cominciato a diventare paranoico. Tardi, mio fratello Haldir mi avrebbe squadrato come se fossi stata un’appestata. Tradi, Leron lo avrebbe annotato sul suo libro, mentre Rìnon mi avrebbe deriso di soppiatto mentre lei mi romanzava la paternale.
«Dai bello, siamo quasi arrivati» spronai il cavallo, dandogli due pacche sul possente collo baio. Lui sbuffò più forte, come a mostrarmi che aveva capito.
Con un ultimo scatto, Aranel entrò nel terreno del palazzo, fermandosi davanti all’entrata della servitù. L’entrata posteriore del castello della Casata Verdefoglia era stato costruita dentro il tronco del più grande e possente albero della foresta buia, nascosto comunque a occhi indiscreti. Passata quella porta dall’interno sembrava di entrare in una di quelle tranquille fattorie umane: c’erano stalle, una capanno per gli attrezzi e una casa (formata solo da quattro pali alti e un tetto di legno e rampicanti) dove le serve andavano a riposarsi durante i momenti di calma, oppure a lavorare i cesti o cucire. Vice versa, se da fuori si entrava dentro si veniva inghiottiti dal fremito delle cucine. Almeno un dozzina di cuochi e aiutanti, senza contare i lava piatti e i camerieri a cui piaceva sgattaiolare nella cantina alla ricerca di qualche vino pregiato dimenticato da mio nonno. Subito dopo, loro si dimenticavano del lavoro. Più tardi ancora, il nonno li cacciava dal reame. Poteva sembrare un uomo rigido e austero, Thranduil, ma la verità era che non era solo quello ma molto, molto di più. Definirlo con quei due soli aggettivi era un complimento, lo faceva sembrar docile come un cucciolo di cane da compagnia. La verità era che mio nonno era un reale avvizzito, solito litigare con il vero comandante di tutta la casata: mia madre.
Lei, con il suo carattere forte e severo, ligia alla disciplina e contraria all’uso delle armi per una giovane, era la donna più cocciuta, convinta e autoritaria che avessi mai avuto la sfortuna di conoscere. Mi imponeva continuamente di indossare abiti femminili, di smettere di andare a caccia e di imparare le buone maniere. In un certo senso la capivo, non doveva essere facile fare la madre a quattro figli, la moglie a un principe e al contempo tenere testa ad un re –che altrimenti gliel’avrebbe tagliata- eppure… perché non riusciva a capire che la vita a corte non era fatta per me?
«Principessa, svolti a sinistra!» Assorta dai miei pensieri non mi ero accorta di aver camminato fra i banconi con naturalezza, ed essere tornata al punto di partenza: la porta che dava sul retro.
Scuotendo il capo mi voltai, sorridendo grata a uno dei cuochi. «Fuori c’è della selvaggina. Prendetela e poi fate portare il mio cavallo nelle stalle: ha bisogno di una strigliata» avvisai a voce alta.
Due degli aiutanti annuirono, precipitandosi alle mie spalle. Attorno a me c’erano odori di tutti i tipi, fragranze prelibate che facevano venire l’acquolina in bocca.
Tenendo gli occhi fissi sulle scale che conducevano al piano superiore, allungai la mano su ogni bancone e iniziai a spizzicare qualsiasi tipo di cibo che avessi fra le mani. Poi incontrai i suoi occhi. Se ne stava fermo sulla soglia dell’entrata, le spalle larghe evidenziate dalle braccia incrociate e i lunghi capelli mori a farvi da coperta. Gli occhi azzurri, simili a ruscelli, mi fissarono sconfitti.
«Tre anni di differenza e ancora ti ostini a fuggire di nascosto per cacciare?» Leron mi diede la schiena mentre ci apprestavamo a salire agli alloggi. «Sei incredibile, sorella.»
«Tre anni di differenza e ancora ti ostini a non voler venire con me, perché non sei in gradi di impugnare un’arma. Non trovi sia preoccupante, fratello?» Risposi io, togliendomi da un’onda mora qualche erbaccia. Nota per me: legarsi i capelli quando si va a caccia. Me lo ripetevo sempre, non lo facevo mai.
Il più piccolo dei gemelli scosse il capo, sicuramente alzando gli occhi verso il cielo. Era un brutto vizio di famiglia che noi fratelli c’eravamo tramandati a vicenda. Una specie di cosa che ci accomunava tutti.
«Per questo genere di cose puoi chiedere benissimo a Rìnon. Lo sai che è lui il guerriero dei due; e poi tu nemmeno dovresti saperlo impugnare un arco» borbottò l’elfo, silenziosamente. Le luci delle torce si riflettevano sui suoi vestiti rossi (si era già cambiato per la cerimonia) creando ombre inquietanti. L’elsa d’oro della spada legata al suo fianco brillava sinistra.
Mi astenni dal rispondergli, perché sapevo che non avrei fatto altro che assecondarlo e non mi andava di dargli ragione. Io ero la più grande, io dovevo avere ragione.
Leron si fermò dietro alla porta che conduceva al piano superiore, e io mi ritrovai nascosta dalle sue spalle. Fui costretta ad alzarmi sulla punta dei piedi, perché sebbene fosse il minore dei quattro restava comunque più alto di me, così tutti gli altri due. Quando le gambe iniziarono a farmi male poggiai le mani sulle sue spalle e lo tirai giù, facendolo cadere sulle ginocchia. Lui imprecò sottovoce, alzando gli occhi nella mia direzione. Per ingraziarmelo sorrisi, alzando le spalle.
«Un principe non dovrebbe dire parolacce» lo ripresi, togliendomi dai capelli qualche foglia. Lui non rispose, limitandosi a scuotere con violenza il capo. Sospirai: non c’era gusto a pizzicarlo, tanto non avrebbe abboccato com’era solito fare Rìnon. «Okay, ho capito. Da qui continuo da sola, grazie mammoletta.» Gli carezzai i capelli, scompigliandoli malamente.
Senza attendere risposta lo sorpassai, entrando nella sala dei ricevimenti. La maggior parte degli ospiti era già arrivata, stava brindando oppure assaporando il cibo elfico; altri erano intenti a conversare, e non mi sfuggì il modo in cui le loro voci cadevano basse, oppure troppo acute per appartenere a dei simili mortali. Era un effetto collaterale della maggior parte delle feste organizzate a palazzo: il vino del Bosco Fronzuto non era di certo male, al contrario, ma dava assuefazione troppo in fretta a chi non vi era abituato. Cosa che di certo Re Thranduil non avrebbe mai provato; lui beveva quella roba da quando aveva l’età di Leron e perciò riusciva a buttarne giù persino dieci calici, cosa che raramente accadeva. Gli esseri umani, invece, non avrebbero dovuto toccarne più di un boccale. Ma la gola è una brutta bestia a cui creature così effimere non sanno resistere.
Mischiandomi alla servitù, rubando di tanto in tanto cibo da qualche vassoio mi risultò facile attraversare la grande sala senza essere notata. Il corridoio che conduceva alle mie stanze, invece, fu tutt’altra cosa. La servitù che mi incrociava scuoteva vividamente il capo e iniziava a seguirmi, intenzionata a riportarmi nelle mie camere il più velocemente possibile. Sembravano un’orda di orchi che tenta d’afferrare la preda. Spaventosi.
Quando, finalmente, li chiusi tutti fuori dalla mia vista la solitudine mi avvolse in un caloroso abbraccio. Mi concessi di sdraiarmi sul letto, testando la sua morbidezza infinita e il profumo dell’autunno che andava a scemare. Ero così stanca. Uscire di nascosto per andare a caccia era stancante, per non parlare di come quei dannati animali mi avevano tenuto testa. Nessuno di loro voleva morire, perciò ogni qual volta che li colpivo si rimettevano in piedi e, annaspando, tornavano a scappare. Inutile dire che non arrivavamo mai troppo lontano.
I miei occhi chiari andarono alla ricerca della luce che entrava dalle grande finestre, come il velo di una sposa si posava morbidamente sulle tende e il pavimento che erano il suo corpo. Ricopriva la stanza con un’aura dolce, portando ogni cosa alla tranquillità. Quel colore tanto puro da fare quasi male agli occhi di tanto in tanto si armonizzava perfettamente con l’interno della camera, che possedeva colori vivaci come il verde e l’argento. L’inverno sembrava lontano anni luce.
Strinsi il cuscino al viso e mi lasciai andare a un sospiro. Ogni tanto mi domandavo perché fossi nata nobile; perché la vita mi avesse tirato un destro talmente malevolo da rinchiudermi fra le rigide regole dell’etichetta e i balli. Costringendomi a fuggire di nascosto dalla mia stessa casa, in cui ero vista come una fragile ragazza e non come quella che mi sentivo: una donna in grado di affrontare qualsiasi cosa. Ah! Se solo fossi nata anni prima e avessi combattuto a fianco di quelle due donne dei draghi di cui Rìnon mi parlava sempre, oppure con i Lupi del Nord che avevano preso parte alla Battaglia dei Cinque Eserciti allora si che tutti mi avrebbero preso meno alla leggera! Le gesta di quelle donne, che avevano sfidato il pericolo, gli uomini e persino il Signore Oscuro erano talmente grandi da offuscare quelle di altri eroi della Terra di Mezzo. Ero affascinata specialmente dalle due innominate de il libro “Leggende della Terra di Mezzo”, di cui Rìnon era praticamente il proprietario. Certo, c’erano centinai di racconti li dentro ma mai si parlava di un uomo che avesse cavalcato draghi. Nessuno mai aveva cavalcato draghi a prescindere, ne tanto meno li aveva piegati ai propri voleri. Nessuno, tranne quelle due sfuggevoli donne di cui si sapeva solo il colore dei capelli: biondo argento e castano scuro. Quando raccontavano di loro usavano sempre quelli per riconoscerle. Le Guardiane della Terra di Mezzo, era un altro termine. Erano modelli avvolti dal mistero: fuoco e acqua, due dei principali elementi terreni, insinuatisi nei corpi di due donne che riuscivano a comandare draghi, a parlarci. Due delle macchine assassine più letali che la mia terra era mai riuscita a partorire.
Se solo le avessi conosciute avrei fatto vedere a mia madre che tipo di donna volevo diventare! Altro che una regina anonima di un qualche re destinato alla morte, oppure alla pazzia causata dall’avarizia, mentre il tempo gli consuma la vita e lui neppure se né accorge. Le avrei fatto capire come mi sarebbe piaciuto vivere, fra mille avventure e combattimenti, dimostrando quella che ero realmente. Al diavolo la corte e viva la libertà. Poter fare quello che volevo, senza dover dar di conto a nessuno sarebbe stato qualcosa di meraviglioso, intrigante. E invece… Invece mi ritrovavo chiusa nella mia stessa stanza, fra quelle mura che mi tenevano prigioniera da ventitré anni e che ancora non si decidevano a lasciarmi andare.
Ventitré anni, una misera età per un elfo ma, al contrario, già cospicua per un essere umano.
Con foga alzai il petto dal materasso e battei la mano sul cuscino, che attutì il colpo con un leggero sbuffo. Nei miei occhi, ne ero sicura, s’impresse uno sguardo di sfida. E fu allora che i servi smisero di battere contro l’uscio e questo si aprì da solo, come guidato da una mano invisibile e leggera.
Mi voltai, sbattendo le palpebre e lei rispose inarcando le sopracciglia. Il lungo abito rosso, abbellito da ricami d’oro che s’intonavano alla corona semplice che indossava sui folti capelli scuri, le ornava il corpo su misura. Le lunghe maniche, larghe in fondo, le coprivano le braccia. I suoi occhi castani mi trafissero con uno sguardo. Come avevo solo potuto pensare di tenerle testa?
«M-mamma» balbettai presa in contropiede. Non mi aspettavo proprio la sua entrata in scena, non così presto.
«Sei andata a caccia, non è così?» Ecco una delle cose che più detestavo di mia madre: il tono freddo con cui si rivolgeva a chiunque quando era adirata. La linea marcata della mascella, le labbra tese in un sottile filo pallido. Lo sguardo… assassino.
«Quel che faccio io, non è affar tuo» ammisi, incrociando le braccia al petto. Qualche foglia rimasta impigliata ai vestiti cadde a terra, coprendo il tappeto che sostava sotto e di fianco il letto.
Non mi piaceva che mi si rivolgesse in quel modo, tanto meno se era mia madre a farlo. Nelle storie le mamme –specialmente le nobili- venivano dipinte come esseri dolci e dal cuore tenero che avrebbero fatto di tutto per salvare e accontentare i propri figli. La mia, al contrario, sembrava uscita come una specie di matrigna. Arida e austera, dal continuo desiderio di voler fare di me e i miei fratelli ottimi reali e non guerrieri. Sin dall’infanzia, specialmente a me, aveva vietato persino di prendere in mano un arco –che per un elfo silvano equivaleva all’importanza un respiro per qualsiasi essere umano; e quando mi ero opposta, lei non aveva cambiato idea. Per fortuna c’era mio padre che di nascosto mi aveva aiutato a fare pratica.
«Tutto quello che fai è affar mio, signorinella» brontolò con caparbia lei, unendo le mani dentro le rispettive maniche così da crearne un cerchio, nascondendole ai miei occhi. «Non per altro sono tua madre, e farai bene a ricordarlo sempre.»

E mi svegliai. Immersa sotto uno strato di coperte, con accanto un Haldir cullato dal sonno. Dalle palpebre abbassate potevo intuire che stava riposando davvero bene, sebbene ogni tanto i suoi occhi correvano in qualche direzione. Era probabile che stesse sognando. Noi non eravamo elfi di sangue puro, e questo l’avevamo sempre saputo, perciò erano normale che dormissimo e sognassimo come gli esseri umano però… Però adesso avrei preferito non sognare più. Non avrei voluto più ricordare, a essere onesti. La ferita che mia madre aveva inferto con la sua dipartita al mio povero cuore sanguinante non accennava a un ben che minimo miglioramento, e lo stesso valeva per i miei fratelli che tentavano di non farmelo notare. Ma io non ero cieca. Riuscivo a leggere nei loro sguardi persi la tristezza, in quelle mattine in cui ci ritrovavamo tutti a fare colazione e nessuno parlava. Nei primi tempi era stato strano sentire il silenzio che aleggiava sovrano in quella stanza, quando invece nel passato non si riusciva neppure a capirsi tanto baccano creavamo. Da una settimana a quella parte avevamo solo le forze per guardarci, sorridere falsamente e allenarci con Ringil. Poi ognuno per la sua strada. Alla fine, la donna dei draghi aveva preso in mano la situazione. Penso di non essere mai stata così grata a qualcuno come in quel momento.
Erano bastate poche ore. Fanie aveva stretto le redini della situazione fra le lunghe dita snelle e le aveva tirate con così tanta forza da ribaltarne l’esito, che altrimenti ci avrebbe portati –oltre che ha un totle disfacimento famigliare- alla perdita in battaglia. Aveva escogitato con il fratello, mio padre e Aragorn, Re di Gondor, un piano d’attacco ben dettagliato; tenendo conto persino di noi giovani principi. Aveva preso Haldir e Leron sotto la sua ala, letteralmente, insegnandoli come uccidere un drago senza usare poteri magici. Poi si era unita a Ringil nella preparazione di Rìnon che, a quanto dava a vedere, non era minimamente portato per essere un Guardiano. La cosa buffa era che neppure noi lo vedevamo come tale, eppure continuavamo a spronarlo perché si applicasse e ridere delle sue figuracce. Penso sia questo che faceva di noi un bel quartetto di fratelli così uniti: nonostante la perdita di nostra madre e la guerra imminente, avevamo trovato un piccolo spiraglio che ci permetteva di distrarci. Allontanarci dalla verità della vita per qualche ora, farci sentire più leggeri.
Poi, arrivava la sera e con essa i sogni. Ed eccoci al punto di partenza.
Stringendo le lenzuola al petto mi lasciai ricadere sul materasso come fossi morta. Il freddo e la consapevolezza di aver ricordato momenti in cui odiavo mia madre mi avevano portato a mordermi le labbra, tentando di non piangere. Di fretta allontanai una lacrima solitaria, poi mi voltai a osservare mio fratello. Mi ero infilata nel suo letto di nascosto, mentre lui già dormiva. Era una cosa che facevamo spesso da piccoli, già da prima che arrivassero i gemelli; poi era cambiato, e da allora non aveva più fatto avvicinare nessuno alla sua stanza se non i nostri genitori e il nonno.  Ma poco me ne importava in questo momento. Il fatto era che, sin da bambina l’avevo sempre pensato, su Haldir gravava quell’aura austera e al contempo magnificamente lucente che sembrava poter allontanare tutti i demoni e perciò mi ero sempre sentita al sicuro standogli vicino. E poi profumava.
Gli carezzai una lunga ciocca bionda, spingendomi più vicino a lui sfidando la sorte. Sapevo che se si fosse svegliato mi avrebbe cacciata, intimandomi che una Guardiana doveva avere il coraggio di superare gli incubi della notte da sola ma… al contrario di quel ricordo pervenutomi sotto mentite spoglie, dove credevo di poter sopportare ogni cosa perché più forte degli ostacoli impostimi, avevo bisogno di qualcuno che mi desse sostegno. E chi meglio poteva farlo di mio fratello maggiore? Nessuno.
«Mi manchi così tanto, Mith’quessir.»
 


*     *
 


«Man presta le, mellon nîn?»
Sotto il chiarore delle stelle invernali, i capelli di Legolas parevano fili di giada intrecciati con maestria. La pelle diafana splendeva, riluceva di quella luce che i Varda aveva donato agli elfi silvani. Con gli occhi azzurri lui andò a ricercare chi gli avesse posto la domanda. Trovò l’interlocutore nascosto dal semibuio, come un serpente pronto ad azzannare la propria preda. Subito, rizzò la schiena e la voltò alla ringhiera trovandosi faccia a faccia con Sauron. Era strano guardarlo negli occhi e trovarvi solo due pozze verdi, e non quegli infermi di sangue che aveva conosciuto in passato. Ma il principe lo sapeva bene che un serpente rimane tale anche se muta la propria pelle.
«Andiamo, mio signore, perché non rispondete?» S’incupì il moro, congiungendo le braccia al petto con fare cocciuto.
«A te non devo spiegazioni» fu la risposta spiccia del biondo. «Solo perché ora sei privo dei tuoi poteri e risiedi nella mia casa come un intruso, protetto dalla sua stessa sorella, non credere che non abbia dimenticato ciò che causasti in passato.»
Il moro alzò gli occhi verdi al cielo, prima di affilare lo sguardo verde. Le labbra si piegarono leggermente verso l’angolo destro, formando un mezzo sorriso divertito. Sauron non aveva parlato, ma il linguaggio del suo corpo era arrivato forte e chiaro agli occhi di Legolas.
Che cos’aveva fatto si che El si trovasse indecisa fra lui e quell’uomo? Cos’era che l’aveva attirata tanto da far si di allontanarsi da lui? Questo Legolas se l’era chiesto per anni, ogni notte, mentre osservava la donna dormire al suo fianco. E persino ora, che lei non c’era più e il suo rivale lo fronteggiava, non poteva fare a meno di pensarci.
«So cosa stai pensando, principe» soffiò l’essere, assestando con tranquillità qualche passo in avanti. «Lo capisco da come mi guardi, dal risentimento che serpeggia in quel tuo sguardo freddo e assassino. Stai pensando a lei e me, insieme.» Sorrise. «Ti stai chiedendo perché lei mi voleva, non è così?, e ti ostini a cercare una risposta che sai ti lascerà la bocca arida.»
«Stai superando il limite, serpente» lo avvisò il biondo.
Ma il Signore Oscuro continuò imperterrito, divertito dalla sua reazione. «Ti domandi cosa succederà quando anche io scenderò negli inferi con l’aiuto della cerva, non è così? Ti stai chiedendo se sarà felice di rivedermi…»
«E’ inutile che tu tenti di mandarmi fuori di senno, Sauron. Sappiamo entrambi che lei non ha nulla a che fare con l’inferno.»
«E allora perché Cuinië vorrebbe inviarmi laggiù?»
«Bada bene alle tue parole, mortale. Non hai davanti un elfo di Gran Burrone bensì un elfo silvano, e come ben saprai noi non siamo così dediti al mantenimento della pace.» Legolas poteva ben sentirlo, il flusso continuo del sangue che gli inondava le orecchie e provava a farlo impazzire. O forse era Sauron, che con le sue parole stava insinuando dentro di lui il seme del dubbio.
Se El fosse davvero stata reclusa all’inferno? No. No. NO NO NO NO.
Scuotendo vigorosamente il capo, l’elfo tornò in se. Non l’avrebbe data vinta a quel lurido essere; non gli avrebbe permesso di minare i pensieri su quella donna che aveva amato e ancora amava. Quella di Sauron era solo invidia, gelosia per un amore che lei gli aveva negato. L’odio che gli corrompeva l’anima non l’aveva mai abbandonato del tutto, e questo Legolas lo capì solo dopo essersi calmato.
Rimasero ad osservarsi, il cigno e il serpente, nel buio della notte luminosa di Varda finché il primo non si mosse verso la reggia abbandonando la postazione.
«Non provo pietà per te, Sauron, ma bensì per la tua anima brava che anela odio e sofferenza altrui. Neppure nella morte hai saputo riscattarti.»
 


*     *
 
 
Isil.
 

«Ennyn o angren a duir said a myrn eryn ú methed, mornie utulie ned i taur linnad ú nîr. Ù dartha estel.» Mi voltai ad osservare Namò, colui che mi aveva salvata dalla cupola di cenere.
I lunghi capelli rossi brillavano alla luce del sole che ricadevano a terra attraverso gli spiragli lasciati dalle colonne della su sala del trono. Illuminavano il prezioso pavimento di marmo nero e bianco, rifinito del medesimo materiale rosa. I topazi e i rubini ai lati della Rosa dei Venti, dipinta a terra con un oro brillante, splendevano come piccoli soli a se.
Presi un bel respiro, rivolgendo il mio sguardo al mare che si diradava a perdita d’occhio intrecciandosi con il cielo all’orizzonte. «Ú manen i nauth lîn. Gerim ad lû. Ennas ad estel» affermai convinta, mentre davanti ai miei occhi passavano i visi di tutti i miei cari. «Han iston.»
«E allora non mi rimane altro che confidare nella tua fiducia, mio Generale.» Namò si alzò dal proprio trono e mi raggiunse. La sua voce continuò ad echeggiare nonostante gli spazi aperti. «Morwen.»
Aggrottai le sopracciglia, fissandolo con cipiglio eloquente. Morwen? Che nome era mai questo? E soprattutto, perché l’aveva usato rivolgendosi a me?
«Prego, mio Signore?» chiesi incuriosita, poggiando una mano sull’elsa d’argento della mia spada. Era più un’abitudine che una necessità; l’avevo acquisita negli anni addietro, quando infuriava la battaglia contro il Signore Oscuro, e da allora –sebbene fossero passati già venticinque anni- non l’avevo mai persa.
«Eleonora. Isil. Hai perso i tuoi nomi non appena sei morta e sei caduta qui, nelle mie lande» spiegò placidamente lui, giocando con un grosso anello in cui vi era incastonata un’ambra. Dello stesso, identico colore dei suoi occhi. «Hai rinunciato a loro per sempre nell’esatto momento in cui hai accettato di divenire mio Generale. Perciò, era mio dovere sceglierti un nome, e quale più si adirebbe a una donna della tua fama –che ha cavalcato draghi; vinto battaglie; ucciso uomini e sedotto il Signore di Mordor- più che Morwen? La Dama Oscura?»
Arricciai le labbra. Non è che mi piacesse così tanto quel nome, però lui era il capo e lui faceva le regole li e io non avrei potuto ringhiargli contro com’ero solita fare a corte con il Re. Thranduil era un conto, un Valar un altro.  Perciò mi limitai ad annuire, prima di tornare ad osservare il mare.
 


Note di autore.

Tradizioni frasi elfiche del capitolo:
  • Elfo d’argento
  • Cosa ti turba, amico mio?
  • Cancelli di ferro e luoghi oscuri e boschi cupi senza fine, l’oscurità è arrivata nella foresta cantando senza dolore. Non rimane speranza.
  • Non è come credi. Abbiamo ancora tempo. C’è ancora speranza.
  • Abbi fiducia.
E così, dopo tanta voglia di cambiare il ritmo della FF mi sono arresa (l’altra mi si è cancellata…) e ho continuato questa. Mi scuso per i disagi che vi ho creato. Spero che il capitolo vi sia piaciuto.
 
Baci
 
Isil.
 

 

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Capitolo 18
*** Di viaggi e draghi verdi. ***



Storia d'Inverno.
 


“L’uomo è ombra, l’ombra è il confine tra luce e tenebre.”
 
— Erasmo da Rotterdam



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Eleanor.
 
«Si, così. Muoviti più velocemente. Esattamente così, stai andando benissimo.» Non sapevo se le parole di Sauron fossero più un incoraggiamento rivolto a me o a lui, fatto sta che solo sentire la sua voce lodarmi riusciva a far si che sorridessi. Mi piaceva stare in sua compagnia. Era un uomo che - nonostante le brutte voci che avevo sentito sul suo conto- mi divertiva, riusciva a mettermi a mio agio.
Sarà perché era stato una specie di stregone. Sarà che capiva come mi sentivo. Sarà che riusciva ad aiutarmi più di Ringil o chiunque altro. Mi ci trovavo bene.
«Allunga leggermente il braccio, e lascia il polso più morbido» sussurrò al mio orecchio, poggiando la mano   sulla mia spalla. Le lunghe dita affusolate di quella libera corsero sul mio arto, posizionandolo nella giusta maniera, poi andarono a tastare leggermente il polso.
«Così?» la voce uscì leggera dalle mie labbra, come non succedeva durante gli allenamenti con la lupa.
No. E come avrebbe anche solo potuto essere così’? Quella donna proprio non potevo buttarla giù. Il solo pensarla era un affronto alla mia mente. Un affronto a mia madre. Continuavo a rievocare nella mia mente l’immagine di quel giorno, in cui aveva preso il suo posto e si era comportata come se nulla fosse successo. Come se lei sapesse quello che provavamo ma non se n’è preoccupasse minimamente. Ripensando ai suoi occhi scrutatori, mi veniva la pelle d’oca. La rabbia ribolliva in me come l’acqua in una pentola. Senza rendermene conto avevo digrignato i denti, e la liana su cui mi stavo esercitando era andata a contorcersi su se stessa. Sembrava un povero animale agonizzante. Cigolò, il legno, finché non andò a strozzarsi da solo e si ruppe cadendo a terra simile a tanti corpi viperini morti.
Sospirai. «Scusami tanto.» Il mio volto girò di due quarti, andando incontro agli occhi verdi del mio insegnante. Pareva sorpreso da quella mia improvvisa uscita, ma come dargli torto? Mi accarezzai le tempie, scuotendo il capo. «Ci riprov-»
«Credo che per oggi sia meglio concludere qui la nostra lezione, principessa», con un leggero sorriso, Sauron s’inchinò con grazia. « Vogliate scusarmi, ma ho da aiutare i miei fratelli, vostro padre e il resto del consiglio per la nuova strategia. Continueremo domani, siete d’accordo?» S’issò in tutta la sua altezza, prendendomi gentilmente la mano. Era calda, morbida e liscia. La mano di un nobile che non aveva mai lavorato in vita sua. E anche i suoi occhi, talmente verdi da ricordare la tormalina brillante, non sembrano altro che quelli di un uomo perbene. Non potevo pensare che lui, un tempo, avesse tentato di conquistare la Terra di Mezzo.
«Mia signora, siete d’accordo?» Risvegliatami dai pensieri e, a malincuore annuii congedandolo con un segno impercettibile del mento.
Lo osservai scomparire all’interno del palazzo, diventare nulla più che un ricordo. Una sagoma d’ombra che s’inabissava nelle tenebre. Prima che qualche domanda o pensiero potesse irradiarsi nella mia mente, mi guardai attorno improvvisamente annoiata. Ero rimasta sola al limitare del bosco, e stranamente, per la prima volta dopo tanto, quella verità non mi fece paura. Nei giorni successivi alla perdita di mia madre avevo sempre cercato di non restare sola –in quanto il silenzio trasformava tutto in realtà, e mi faceva paura. Ero spaventata dalla consapevolezza che lei non sarebbe più venuta a svegliarmi la mattina; che non avrei più udito le sue paternali la sera, quando mi trovava a zonzo per i corridoi; che non avrei più potuto abbracciarla o gridarle contro, o porgerle quesiti (persino i più elementari). Eppure, se adesso ripensavo a tutte quelle cose, invece che un pianto ininterrotto riuscivo solo a sorridere. Perché, passata la fase del dolore acuto non mi era rimasto null’altro che il sorriso. La pena era passata, era ora di pensare solo alle cose belle che erano state. E poi, lo sapevo, lei aveva sempre odiato vedermi piangere, perciò perché renderla triste adesso che mi osservava dall’alto delle stelle?
Consciamente alzai il viso verso i nuvoloni grigi che oscuravano il cielo, riuscendo a resistere all’impulso di chiudere gli occhi. Restai a osservare le nuvole macchiarsi di nero, bianco e argento, finché una voce non catturò la mia attenzione. Scattai con lo sguardo verso il campo d’addestramento, dove sagome indistinte si allenavano in lontananza. Una, in particolare, attirò la mia attenzione. Si muoveva con rigida fermezza fra i soldati, abbaiando contro chi errava per poi continuare. Persino sotto quella luce nivea, praticamente inesistente, i suoi capelli sembravano brillare dei raggi della luna. Correndo, lo raggiunsi, affiancandolo con velocità. Le mie vesti lunghe frusciavano contro l’erbetta del loro medesimo colore, creando un rumore appena percettibile. Ero così bassa in confronto a lui, ma non mi feci problemi a tirargli una bianca ciocca di capelli per attirare la sua attenzione. E, come avevo pensato, lo sguardò che mi riservò successivamente avrebbe fatto congelare il sangue nelle vene a chiunque. Ma non a me. Noi della famiglia c’eravamo abituati, perciò non mi scandalizzai più di tanto. Gli sorrisi, tirando per l’ennesima volta una treccina morbida.
«Eleanor» borbottò Haldir, con la voce più bassa che gli avevo mai sentito -che stesse male?- «che diamine ci fai qui?»
M’imbronciai. «La mia lezione è finita, così ho pensato di passare un po’ di tempo con te» ammisi, rigirandomi i pollici dietro la schiena. Ed era vero. Era tanto tempo che io e lui non stavamo assieme, come da bambini. Respirando l’aria frizzantina d’inizio inverno, aggiunsi: «Che ne pensi, fratellone?»
Lui si voltò dall’altra parte, sbraitando dietro una manovra mal eseguita di un giovane uomo. «Da quando l’esercito degli uomini è arrivato, ho molto più lavoro da fare Elanor. Non posso venire con te, cercati qualcun altro con cui bighellonare. Non sono tutti liberi di fare quello che vogliono.»
BANG!, la crudeltà di quella frase mi colpì dritta al cuore come una freccia. Sbattei velocemente le palpebre, gonfiando le guance per impedire alle lacrime di uscire. Piangere sarebbe stato inutile, non avrebbe aiutato a nulla se non a rendermi ridicola davanti all’esercito alleato. Perciò, strinsi i pugni e mi voltai amareggiata, allontanandomi da lui il più possibile. Non ne ero sicura, ma mi parve di sentire una specie di peso sul retro della nuca, come se quello sguardo glaciale mi stesse seguendo, minuziosamente. Ma era più probabile che mi sbagliassi, visto che mio fratello era talmente preso dai nuovi soldati da non avere tempo neppure per la famiglia. Al diavolo.
Che rabbia! Prima andavo male a lezione, poi venivo paccata da mio fratello e che altro mi dovevo aspettare? Furiosamente calpestai l’erba del prato, inconscia del fatto di essere arrivata nel luogo di lancio. Me ne accorsi solo quando una freccia sfiorò il mio petto, portandomi a indietreggiare e caracollare a terra come un sacco di patate. La rugiada mattutina mi bagnò le vesti, insinuandosi attraverso essi e arrestandosi contro la mia pelle, provocandomi brividi di freddo. Senza contare che, poi, un dolore lancinante aveva iniziato a farsi strada dal fondo schiena fin su, alle spalle. Probabilmente, anzi sicuramente, non era la mia giornata.
«Che male» mugolai, carezzandomi la schiena come se così il dolore potesse sparire. Non mi accorsi neppure dell’uomo che mi stava raggiungendo, con la calma di un gatto.
«Ehi, tu» alzai gli occhi verso l’alto, attirata dalla voce. «Perché non stai attenta a dove cammini, eh?» E subito mi ritrovai in piedi, con il bracco stretto in una morsa ferrea e decisa, per nulla delicata. La ruvidità dei calli sotto le dita mi fece capire che quell’uomo straniero era un combattente, e alcune cicatrici datate me lo confermarono.
Innaffiai il mio sguardo con il suo, di un azzurro tendente al verde. Acquamarina, appartenente a occhi severi, brillanti, pronti a scattare in qualunque direzione in qualsiasi momento. Per ora, però, sembrava si accontentasse di osservare me. Quando mi capacitai della cosa, strattonai il braccio per liberarmi e lo portai al petto, cullandolo con l’altro. Era così strano, quel mio gesto repentino. Non ero solita farne, al massimo gridavo contro chi si frapponeva tra me e la mia strada, successivamente ritiravo il braccio. Socchiusi le labbra, pronta a borbottare qualcosa –che poi, mi domandai, sarei riuscita a dire qualcosa, qualsiasi cosa sorpresa da me stessa com’ero?- ma qualcuno mi fermò, poggiandomi una mano sulla spalla. «Mia Signora, state bene?» Che voce dolce che aveva quel nuovo interlocutore. Talmente calma e suadente che, in un secondo, calmò il mio cuore palpitante. Comunque, ancora non riuscivo a spiegarmi il perché della corsa sfrenata del mio cuore. Che cosa strana.
Voltandomi, riconobbi solo dopo qualche secondo il nuovo arrivato e sorrisi. «Si. Tutto bene, Eldarion.» Incontrai i suoi occhi azzurri. Erano così splendenti che ne ero quasi invidiosa. «Grazie della preoccupazione.»
«Ne sei sicura, principessa? Ti ho vista cadere con non molta grazia» azzardò.
Mi parve di vedere sogghignare l’uomo che mi aveva colpita, mentre dalle mie orecchie usciva del fumo. Che vergogna! «C-COSA!? Ho già detto che sto benissimo!» borbottai, trattenendomi da battere un piede a terra. Era così degradante pensare che persino il Principe di Gondor mi avesse visto cadere. E che mi avesse trovata “poco graziosa nei movimenti”. Era così… frustrante.
«Come minimo ti sei ammaccata la testa, più di quanto già non è.» Rìnon comparve dal gruppo di cavalieri che ancora si stavano allenando. Una lunga spada gli pendeva sul fianco, mentre gli occhi sorridevano. Assomigliava molto a Eldarion.
Entrambi avevano occhi azzurri e capelli neri, pelle diafana e bel portamento, eppure erano molto diversi. Il principe di Gondor, come ci si aspettava da un essere umano, con i suoi tratti effimeri dava un’impressione più adulta, quasi simile a quella di Haldir.
«Guarda, credo che ti verrà un bernoccolo» rise mio fratello, toccandomi il retro della fronte.
Lo spinsi via, con poca grazia fanciullesca. «Oh, andate al diavolo rimbecilliti!» Una principessa non avrebbe dovuto dire quelle parole, non avrebbe nemmeno dovuto conoscerle. Ma non me ne importava nulla. «E adesso scusatemi, ho di meglio da fare che restare a ciarlare con delle comare da combattimento» e così dicendo, dopo aver dato una spinta a quell’umano dai corti capelli biondicci, mi avviai verso il castello sbattendo ovunque capitasse i bersagli del tiro con l’arco con le mie liane. Gli uomini mortali gridavano spaventati, mentre io rifacevo rinascere il mio sorriso sulle disgrazie altrui. Qualche volta i bersagli atterravano nel campo adibito alla spada, altre volavano lontano, dentro la foresta.
«ELEANOR, PIANTALA!» Sentì urlare in lontananza, dalla voce severa di Haldir. Involontariamente mi ritrovai a sorridere con più felicità mentre facevo spiccare il volo all’ultimo bersaglio, che atterrò con un tonfo accanto ai tre uomini che poco prima mi avevano deriso.
 
 
«Ma come ti viene in mente di far volare quella roba contro i nostri alleati?» Non avevo mai visto mio padre diventare rosso di rabbia, perciò era una novità. Con la mascella contratta, i pungi serrati sul tavolo e gli occhi lucidi di frustrazione il futuro Re di Bosco Atro trattenne l’ennesimo urlo. Le vene sul collo pulsavano, ingrossate.
All’inizio non avevo pensato molto alla conseguenza di quelle azioni repentine –nella mia testa c’era stato solo il desiderio di sfogarmi- e così ero finita dritta fra le grinfie del Generale. Non avevo fatto tempo a mettere piede in casa che quella dannata lupa era li, con le braccia conserte al petto e il piede tamburellante sul pavimento. Mi aveva caricata di peso e gettata, letteralmente, sulla mia solita sedia da pranzo. Tutti gli occhi dei nostri alleati si erano rivolti a noi, interdetti da quel comportamento. Poi Ringil aveva spiegato tutto.
«Insomma, Legolas, io non la trovo una cosa tanto sbagliata» intervenne Fanie, che tamburellava tranquillamente le dita sul legno scuro. La luce pallida conferiva ai suoi capelli bianchi un che di sinistro. Gli occhi grigi sorrisero quando incontrarono quelli del principe.
«Avrebbe potuto colpire degli alleati! E, per di più, ha quasi decapitato il soldato messo a protezione del principe con la sua ultima mossa. Ringrazio i Valar che Aragorn sia uscito a caccia con mio padre, perché non so bene come reagirà a queste notizie.»
«Ma non è successo. Quell’idiota la testa ce l’ha ancora» borbottai, incrociando le braccia al petto. Peccato.
«Sarebbe potuto succedere! E modera le parole!» ribatté prontamente lui, con acidità. Mi rifiutai di continuare il discorso, voltando il capo da tutt’altra parte in segno di dissenso. Era incredibile come mio  padre fosse tanto ostinato a battibeccare su una cosa del genere, quando non si curava neppure del perché l’avessi fatto.
Stufa di sentirmi sgridare, mi concentrai sul panorama che si diramava oltre le imponenti vetrate della sala in cui stavamo. Oltre il nostro riflesso, si estendeva l’immensa foresta del Reame Boscoso ormai interamente secca. I rami degli alberi formavano una fitta rete, simile alla tela di un ragno, che non avrebbe permesso a nessuno di sorpassarla. Aveva tutto un’aria così desolata, così morta. Mi ritrovai a chiedermi se era davvero quello il luogo in cui avrei voluto vivere per l’eternità, far crescere i miei figli, se mai ne avessi avuti. E poi pensai che, alla fine erano gli esseri umani a essere fortunati. Vivevano poco, ma in quel lasso di tempo potevano esplorare e non si annoiavano. Certo, le ore per loro erano come secondi per noi, ma nessuno se ne preoccupava mai. Mi domandai se anche io, se mai avessi deciso di diventare mortale a tutti gli effetti, avrei potuto girare il mondo e non annoiarmi mai. Non restare rinchiusa li. Non più.
«Io non la trovo una cosa giusta da fare» intervenne una voce chiara, gentile. Ci voltammo tutti, sorpresi, verso la parte destra del tavolo dove Cuinië aveva deciso di ritirarsi ad ascoltare. Era raro che intervenisse in dei litigi, pensai. Chissà cosa l’aveva spinta a intromettersi, lei che era come una macchia bianca di purezza in quell’insieme di inchiostri neri e ombrosi. «Ma non la trovo pure una cosa scorretta.» Si accarezzò i capelli mossi, esaminandone una ciocca con gli occhi cangianti. Le dita lunghe, la pelle diafana in netto contrasto con il rosso ramato di quei fili sottilissimi. «A dire la verità, trovo che questo sia un episodio da tenere da conto. Trovo che sia ora che i due guardiani intraprendano un viaggio. Non credo che restando qui abbiano le possibilità di imparare a dovere come controllare sia i loro poteri che le loro emozioni, e oggi ne abbiamo avuto la prova non credete anche voi?»
«Mh» Ringil scrocchiò le nocche, inarcando le sopracciglia. Negli occhi canini aveva una scintilla che faceva intuire il suo assenso all’idea.
«Lo penso anche io.» Passandosi una mano fra i corti capelli, Turion levò lo sguardo al cielo. Le labbra piegate in una linea sottile.
«Sono d’accordo» affermarono Sauron e la sorella, prima che lei lo fulminasse con uno sguardo felino. Fra di loro sembrò calare un sipario, perché lei voltò immediatamente la testa verso l’altro biondo vestito d’azzurro.
«Se la pensi così, Oracolo, credo che dovrò fidarmi» asserì mio padre infine, prima di alzarsi e dirigersi al fuoco. Lo seguii con gli occhi, poi analizzai tutti gli altri ma non trovai una solo scintilla che indicasse il loro dissenso all’idea. Quando giunsi agli occhi cristallini della rossa, lei mi attanagliò in una presa ferrea che mi congelò.
Fu come se il mio cuore avesse deciso di lasciarmi indietro. Smise di battere all’improvviso non appena metabolizzai appieno quelle parole, quello sguardo. Intraprendere un viaggio. Controllare le emozioni. Controllare i poteri. Sembravano frasi normali, giornaliere, ma stranamente riuscii a cogliervi il messaggio nascosto dietro. E mi face paura, sinceramente. Gettava su me e mio fratello un peso alto. Troppo alto. Ora, forse, potevo dire di riuscire a capire il motivo per cui la rossa se ne stava sempre in silenzio. Ogni qual volta che apriva bocca l’oracolo bianco prediceva solo sventure o ti affidava compiti talmente pesanti che le spalle si spaccavano dopo appena due minuti.
Ma potevo rifiutarmi? Potevo… Sospirai, chiudendo gli occhi e abbassando il capo per qualche minuto. Cosa avrebbe fatto la mamma? Lei, che alla fine di tutto si era dimostrata quella donna che sarei voluta divenire io stessa. Lei che aveva cavalcato draghi. Lei che ci aveva ripreso ogni giorno con l’amore negli occhi, senza che noi ce ne accorgessimo. Lei che era stata forte, che non aveva ceduto davanti alla morte che l’aveva invitata a seguirla se non per salvare Haldir? Lei, cosa avrebbe fatto?
Che cosa farebbe? Lo sapevo bene quale sarebbe stata la sua scelta. Perciò, dopo aver preso un bel respiro silenzioso rizzai le spalle e la schiena, e gettai sulla cerva uno sguardo deciso che lei ricambiò. «Trovo che sia giusto, quello che Cuinië ha detto. A quando la partenza?»
La giovane donna ignorò i borbottii di sottofondo dovuti a discorsi privati derivanti dai presenti, e accavallando le gambe mi sorrise, poi disse: «Domani all’alba. Riferiscilo anche a tuo fratello.»
 
◊  ◊  ◊  ◊  ◊
 
Volute di fumo nero e fuoco rosso si spandevano per il deserto di cenere, somiglianti a gaiser. S’innalzavano leggeri, creando danze mortali e tossiche. Alcuni fuochi erano velenosi, altri curativi, entrambi dolorosi. Gring li osservava compiaciuto, mentre vicino a lui l’oracolo si copriva il volto magro con il mantello. Per lei era sempre più difficile resistere in quel luogo di morte e desolazione, persino dopo settimane che vi si trovava. Le mancavano le sue montagne, il suo branco, sua nipote e la sua libertà. Sapeva, l’aveva visto chiaramente, che se fosse rimasta li ancora a lungo quel mondo d’odio l’avrebbe trasformata in cenere.
«Osserva» le stava ordinando l’uomo «ora che lei è morta non mi ci vorrà molto a schiacciare il mondo e i suoi abitanti, partendo dalla sua famiglia.» Aveva una luce assassina negli occhi scuri, faceva paura.
«Questo rimorso che provi nei suoi confronti, e in quelli dei suoi figli, è dovuto alla donna che sarebbe dovuta vivere al suo posto?» Era la prima volta che Aldëa si concedeva il lusso di parlargli così schiettamente, e poco le importava a dirla tutta. Avrebbe volentieri passato il tempo a sorseggiare succo di mela con la nipote nel loro frutteto, ma la situazione rendeva ciò solo un lontano e amabile desiderio. Per cui, tanto valeva aspettare la morte venendo a conoscenza di qualcosa di nuovo.
«Lei era così bella» iniziò Gring. «M’innamorai solo guardandola, e quando vidi e capii come funzionava la sua mente non feci altro che cadere di più per lei. Più lei sorrideva, macchinava e pianificava più io cadevo schiavo di quel sentimento tanto umano. Poi me l’ha portata via. Quell’assassina, l’ha uccisa davanti ai miei occhi e poi mi ha tolto la vita» la voce era rigida, graffiante come una roccia. Sul suo viso dalla barba incolta era calata un’ombra ben peggiore di quelle precedenti. «Quella donna. Quella dannata guerriera ha voluto sopravvivere fino alla fine! Dannazione!» L’uomo si voltò, furioso, a osservare la cerva nera e prima che lei potesse allontanarsi le strinse le spalle in una presa ferrea. «Con quella sua pellaccia dura, sono sicuro che non è ancora morta.» C’era pazzia nei suoi occhi neri. Pazzia e convinzione, un mix letale. «Lei non muore tanto facilmente, io lo so. Lei sta aspettando nell’ombra il momento giusto per attaccare di nuovo, come un serpente velenoso. Ma questa volta…» la strinse di più, portandola a mordersi le guance «questa volta sarò io il primo ad attaccare, e lei capirà cosa vuol dire perdere qualcuno che si ama.» Con forza la spinse lontano, poi alzò il viso al cielo e allargò le mani. « MI HAI SENTITO, GUARDIANA?! QUESTA VOLTA LA VITTORIA E’ MIA!» un coro di ruggiti accompagnò quel grido di guerra, con talmente tanta foga da far tremare la terra cosparsa di cenere.
«Tutto questo odio, condurrà alla morte» sussurrò Aldëa, voltandosi per ritornarsene al suo giaciglio. Mentre camminava osservò i draghi che la circondavano, ne esaminò i colori e le forme. Li guardò tutti negli occhi, sostenendo i loro sguardi vipereschi con forza e fegato. Quei lucertoloni erano grandi, grossi e pericolosi ma lei poteva prevedere ogni cosa, perciò sapevano bene di non poterla attaccare di sorpresa. In più, si trovava sotto la protezione di quello che era il loro capo padrone.
Tutto questo, è sbagliato. Si voltò nella direzione da cui era arrivata la voce e annuì a un giovane drago dagli occhi più pallidi della neve.

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Capitolo 19
*** L'ultimo ballo. ***


Libro secondo – parte seconda (penultima)


 ☾ Storia d’Inverno


“Chissà se è proprio scritto che debba far male così”
 
— Alessandro Baricco



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Isil.
 

Il mare brillava degli intensi colori del tramonto. L’arancio, il giallo e il rosso si fondevano tutti assieme creando giochi di luce, brillando sulle scaglie serpentine delle onde. Sembravano così lontani, così tranquilli e immensi immersi nella tranquillità più profonda. Non chiusi gli occhi, continuando a osservare quello che avevo davanti. Come avrei voluto che lo vedessero anche i miei figli. Li avrei guardati battibeccare un poco, avrei riso sommessamente e poi sarei intervenuta. E loro avrebbero smesso, per poi ricominciare. E io li avrei lasciati fare.
Sospirai, poggiando il mento contro una mano guantata dalla mia nuova armatura. Questa tintinnò nel muoversi, riflettendo la luce d’orata del sole. Le lame colorate andarono a far brillare i ricami argentei e rossi che s’insinuavano sopra la rigida corazza nero ossidiana. Borbottai contrariata da tutto quel clangore metallico, passando dalla visione del bel mare caldo  a quella del mio nuovo elmo. Era un cupola metallica, a forma di testa di drago, i cui occhi erano evidenziati da due brillanti zaffiri.
Arricciai le labbra, guardandolo di traverso. Sembrava non volesse perdermi di vista neppure per un secondo. «Beh, che hai da guardare? Sei inquietante.»
E’ probabile che ammiri la tua bellezza.
Rizzai le spalle, scattando in piedi e voltandomi. La mano corse alla nuova spada che Nàmo mi aveva consegnato quello stesso giorno. Il pomo –ennesima testa di drago dagli occhi blu- scivolò fra le mie dita con facilità, uscendo dal fodero con un sibilo.
«Muoviti, fatti vedere chiunque tu sia» sibilai, facendo ruotare il manico sul polso per poi riprenderlo. Il freddo del metallo che accarezzava la pelle accaldata –nuda dai guanti abbandonati a terra.
Non sono passati che venticinque anni e tu, piccoletta, mi hai dimenticato? Mi sento alquanto offeso.
Corrucciai le sopracciglia, poggiando la punta dell’arma sul pavimento della casa del Valar. Un’ombra gigantesca si fuse alla mia. «Che diavolo…?» Mi accucciai, tentando di capire se quello non fosse che un gioco creato dalle strane luci del mondo dei morti, ma non era così. Perciò decisi di alzarmi, voltarmi; l’armatura che cigolava in continuazione a ogni urto.
Un’onda d’aria mi spinse a cadere a terra. La spada volò lontano, tintinnando contro il marmo rosa finché non si fermò ai piedi di una colonna. Tentai di rialzarmi, ma un’altra folata mi fece restare ferma dov’ero. Che diavolo stava succedendo?
Neppure venticinque anni!
Rimasi ferma, ad ascoltare un respiro talmente possente e pesante da scompigliarmi i capelli e, al tempo stesso, riscaldarmi la pelle. Chiusi gli occhi, mentre le mie orecchie udivano il battito di un cuore che si muoveva in sincronia perfetta col mio. Strinsi le palpebre, trattenni le lacrime invano, ne asciugai qualcuna di nascosto.
«Pensavo che non ti avrei più rivisto» mormorai, quando finalmente la grande zampa della creatura abbandonò il mio corpo.
Lo credevo anche io, sussurrò lui.
Nel voltarmi scorsi immediatamente l’alone grigio che sostava in prossimità di quella che era stata la sua ferita mortale. Le squame di pallido celeste, tutta via, brillavano alla luce del tramonto come fiamme fuggite da un focolare e gli occhi, due pozze azzurre luminose, mi osservavano dolcemente. Deglutii, portandomi le mani sopra le labbra per trattenere un gemito.
«Pensavo di non vederti mai più!» singhiozzai, gettandomi contro di lui.
Il serpentino collo dell’animale si allungò a sua volta verso di me, e il suo viso andò a scontrarsi contro il mio corpo. A malapena riuscivo a circondarlo del tutto con le braccia, in quanto era talmente grosso che la sola lunghezza superava la mia altezza di tre teste buone.
Aveva le squame fredde al tatto, ma l’aria che usciva dalle sue narici sembrava brezza estiva. Mi sollevò un poco dal pavimento per poi rimettermi giù. Mi staccai. «Diamine, sei identico a quando ti ho conosciuto» mi ritrovai a mormorare, sfiorando il profilo della sua pelle marina.
Lui socchiuse gli occhi, nascondendo le pupille appuntite, e sbuffò un po’ più forte, investendomi con un vento tiepido. «Tu, invece, sembri più adulta.»
«Ho avuto quattro figli, sai com’è» ridacchiai, massaggiandomi la pancia coperta dall’armatura nera. «Ma sono forte come un tempo; un po’ arrugginita nei movimenti, ma ci so ancora fare.»
«Non ne dubito» sorrise. «Ad ogni modo, ho molte cose di cui parlarti, Guardiana. Preparati a una lunga chiacchierata.»
L’entusiasmo che avevo provato fino a quell’istante scemò di colpo, subito dopo aver udito quelle parole. Mi feci seria, ravvivando i capelli con una mano. «Ti ascolterò, amico mio. Molto attentamente.»
 

Elanor.
 
Mi piaceva il modo in cui i veli cadevano a terra: setosi, colorati, morbidi. Mi ricordavano le onde dei laghi, che vanno a incresparsi fra i gentili soffi di vento. Aspettai gentilmente che la serva mi poggiasse sulle spalle una mantella lunga, di un bel verde scuro abbellito dallo stemma d’orato di Bosco Atro, prima di specchiarmi completamente: feci allontanare lo specchio e mi guadai sorridente. Ero ben consapevole della mia bellezza, come ogni ragazza giovane e viziata, coccolata fin dalla tenera età, ma quella sera mi sentivo in qualche modo più bella che mai. Adoravo le varie sfumature di verde e argento sovrapposte le une alle altre, rifinite da splendidi ricami d’oro che andavano a creare disegni leggiadri sul corsetto stretto. E mi piacevano i miei capelli mossi, intrecciati in una maniera così perfetta e curata da sembrare essere dipinta.
«Vëannë.» La giovane elfa si fece avanti, lo sguardo leggermente puntato verso il basso come si richiedeva. Mi voltai verso di lei e sorrisi, poggiandole una mano sulla spalla. «Sei stata bravissima» mormorai, facendo scivolare le dita sotto il suo mento per alzarlo.
I suoi occhi grigi mi guardarono felici, mentre sulla sua bocca fine spuntava un sorriso. Aveva l’aspetto del perfetto elfo silvano, a contrario mio, e non avrei potuto immaginarmela in maniera diversa. La conoscevo dall’infanzia, era cresciuta con me e i miei fratelli nel palazzo, da sempre al mio fianco e ai miei servigi. Forse, potevo azzardarmi a definirla nel modo più pericoloso di sempre: un’amica. Perciò, che male c’era nel lodarla?
«Grazie, mia Signora.» Si allontanò un poco, avvicinandosi all’inserviente che le sostava alle spalle. Con le dita snelle prese la tiara donatami dal nonno e si avvicinò.
Il gioiello rotondo brillava alla flebile luce arancione del tramonto, che trapassava le tende immergendosi nelle mie gonne. Le piccole foglie d’oro che l’abbellivano erano curate nei minimi dettagli, poggiate con cura fra quelli che dovevano essere rami.
Con cura, la giovane la poggiò con dolcezza sul mio capo. «Siete bellissima.»
La tiara luccicava attirando il mio sguardo. Catturando l’attenzione dei miei occhi pallidi, quasi fossi una gazza con l’intento di rubarla. Mi domandai cosa ne avrebbe pensato la mamma di me, del mio aspetto tanto regale. Mi chiesi come si sarebbe vestita lei, ma la domanda la conoscevo già: di rosso. Quel rosso scuro pieno di ricami d’argento lunare, con le gonne bianche che attenuavano quel colore così appariscente; e in testa avrebbe poggiato la corona autunnale che papà le aveva regalato alla mia nascita. E probabilmente avrebbe sorriso, come solo una mamma sa fare, e mi avrebbe baciata sulla fronte.
«Credo sia ora di scendere» decretò Vëannë, avvicinandosi alla porta d’ingresso per poi aprirla. «Tutti vi staranno aspettando impazienti.»
«Esattamente.» Rìnon entrò con baldanza nella mia stanza, sorridendo sornione alle due elfe imbambolate a fissarlo.
Li osservai tutti e tre per qualche minuto: gli occhi delle serve non lasciarono mai la schiena del principe. Erano come catturate, ammaliate dalla sua presenza. Certo, ero consapevole della bellezza dei miei fratelli ma sapere che attiravano l’attenzione di tutte quelle ragazze mi dava fastidio. Forse perché, nella mia mente, loro erano solo miei. I miei fratelli, la mia famiglia.  
Così, attesi qualche secondo ancora prima di inspirare e dire: «Penso che il vostro lavoro qui sia concluso, andate pure signore.» Le due serve sbatterono le palpebre, mi guardarono e arrossirono, poi uscirono con il capo abbassato.
«Che ape regina» sospirò Rìnon, prendendomi una mano fra le sue. Aveva la pelle calda, morbida. «Sei bellissima, sorella mia.»
Inarcai un sopracciglio, incatenando i suoi occhi blu cobalto ai miei. «Che vuoi da me? Sputa il rospo.»
«Perché dovrei volere qualcosa dalla mia dolc-»
«Rìnon?»
«C’è una dama al ballo di questa sera, sorella. E’ bella e la osservo da tempo, ma a quanto pare lei non è interessata a me.» Circondai  il suo bicipite con un braccio e uscimmo in corridoio. I passi lenti, le voci appena un sussurro. «Mi domandavo se, magari, la principessa potesse provare a mettere una buona parola per me.»
Non risposi immediatamente. Mi limitai a continuare a camminare, mentre i corridoi passavano al nostro fianco calati in una silenzio che sembrava non volesse finire mai. Il tramonto esalò l’ultimo respiro e cedette il passo alla sera. Mi fermai per osservare la luna fare capolino e così fece mio fratello. I raggi pallidi di quella sfera di luce si poggiarono sopra di noi, illuminando le rifiniture d’argento dei nostri vestiti.
«Qual è il nome di questa dama, fratello?» mormorai.
«Earinë.»   La sua voce pareva essersi colorata di una sfumatura che non avevo mai sentito prima.
Gli lanciai uno sguardo veloce, allontanandomi dalla luna. Rìnon splendeva meraviglioso nel suo abito blu e argento, con la lunga spada dal pomo elaborato che gli pendeva su un fianco. Sembrava realmente un principe. Oh almeno, più delle altre volte.
«Se me la indicherai, proverò a parlarle.» L’elfo s’illuminò in viso, sorridendo radioso. Sembrava felice.
E per quanto non sopportassi l’idea che uno dei miei fratelli si allontanasse da me, fui felice di vedere come –quando gli ripresi il braccio- lui poggiò la sua mano sopra la mia e la strinse.
 
La festa era un tripudio di vestiti colorati e musica. Dame elfiche e cavalieri danzavano con leggiadria; alcune ragazze parlavano fra loro, in piccoli gruppi, alcuni uomini discutevano allegramente con bicchieri di vino in mano. Dall’entrata della sala, potevo scorgere ogni persona.
«Eccola, sorella, lei è la dama di cui ti ho parlato.» Rìnon attirò la mia attenzione, indicandomi con un cenno del mento un gruppetto di giovani ragazze.
«Vorrei che tu me la indicassi con più precisione, fratello. Non sono un’indovina, non posso leggere la mente delle donne, scoprire il loro aspetto solo tramite il nome, all’improvviso.»
L’elfo sorrise, ignorando la mia accidia, e si avvicinò al mio orecchio fino a sfiorarlo con le labbra. I miei occhi ancora fissi sul gruppo di dame. «Indossa il vestito rosa pallido, ha i capelli di un biondo lucente e», intanto avevo già incontrato gli occhi di una delle donne.
Mi stava sorridendo, probabilmente si sentiva lusingata e esaltata. La famiglia reale, specialmente le donne che ne facevano parte, tendevano a non dare molta confidenza a nessuno.  
«Si si, ho capito di chi parli» borbottai, allontanando l’elfo con un gesto leggero. «Ora vedo cosa posso fare, ma tu non aspettarti nulla. Siamo intesi?» 
«Grazie, sorella» mormorò lui, baciandomi veloce fra i capelli. Poggiò la sua mano sulla mia e si avvicinò alle scale che portavano alla festa. Sul primo gradino si fermò e sorrise raggiante, mentre Leron si metteva alla mia sinistra.
«Stai sorridendo troppo sfarzosamente, fratello» lo rimbeccò con la solita pacatezza. «Sembri un’ebete.»
«Magari lo è» ridacchiai io, agganciando il mio braccio libero al suo.
«Antipatici» borbottò Rìnon, senza però smettere di sorridere.
 
«Siete incantevole questa sera, Mia Signora.» Le parole degli uomini presenti a corte mi scivolavano contro. All’inizio ero stata incantata da tutte quelle frasi lusinghiere, mi ero fermata ad ascoltare con vanità quei complimenti che mi facevano sentire meravigliosa ma, dopo qualche tempo, mi ero ritrovata ad annoiarmi. Tutte uguali quelle parole dette da bocche diverse. Tutte così… monotone.
Scivolando leggiadra fra gli ospiti, con le mani poggiate sul ventre nascoste dalle lunghe maniche del vestito, mi avvicinai al gruppo di dame indicatemi prima.
La donna con cui avevo avuto un contatto visivo fino a poco prima si portò una mano alle labbra, sorpresa, prima di sorridere sorniona. I suoi occhi verdi, da gatta, mi seguirono finché non decise di muoversi nella mia direzione attirando l’attenzione delle altre interlocutrici.
«Quale onore, Mia Signora» s’inchinò leggiadra. I lisci capelli pallidi le scivolarono oltre le spalle, sfiorando la leggiadra veste azzurra.
Un’altra lady si avvicinò, tenendo ben saldo fra le dita un calice colmo di vino. «Cosa vi porta ad unirvi al nostro piccolo gruppo?» Un suo braccio s’incastrò al mio, con confidenza. La stoffa verde pisello del suo vestito non era nemmeno paragonabile a quella del mio.
Feci scivolare gli occhi nella direzione della donna indicatami da mio fratello. «A dire il vero, mie signore, stavo cercando una dama da compagnia e mi sono giunte voci che fra voi risiede una lady alquanto silenziosa. Io adoro le persone silenziose, che sanno stare al loro posto.» Fulminai con un’occhiata l’elfa, che subito si allontanò. «Perciò, volevo conoscerla.» Avanzai ignorando le occhiate delle giovani che speravano di essere le prescelte. Venire ricercate da una principessa era una cosa –oltre che molto rara, in quanto la famiglia reale aveva servi che andavano da generazione a generazione- che apportava alla reputazione un qualcosa in più.
Le ignorai tutte, non ne guardai nemmeno una se non la prescelta. «Earinë, è un onore conoscervi.»
La bionda sgranò gli occhi, quando capì che le stavo sorridendo. «M-mia signora?» Aveva la voce fragile, quasi avesse paura di parlare. I suoi occhi chiari come il ghiaccio mi scrutarono spaventati. «E’ mio l’onore», s’inchinò con leggiadria.
«Vi prego, Dama Earinë, venite a farmi compagnia per una passeggiata. Questa festa è troppo chiassosa per me.» Le porsi la mia mano, che strinse gentilmente. Sorrisi.
Attraversammo la pista da ballo sotto occhi di tutte le sfumature, fermandoci a fare inchini di cortesia a chi ci recava saluti, come il galateo richiedeva. Finalmente attraversammo la porta finestra e uscimmo.
L’aria fresca mi colpì in viso con una carezza, facendo danzare le mie vesti in un turbine di stoffe. Mi poggiai alla ringhiera che mi divideva dall’erba fresca e il bosco.
«Perché mi avete portata qui, Vostra Grazia?» La voce della bionda trillò nell’aria, dolce e soave.
Mi voltai nella sua direzione e sorrisi nel vederla composta. Con le mani giunte sul ventre e le enormi tende candide alle sue spalle a farle da sfondo sembrava una reale. «Suvvia, non essere così formale. Chiamami Elanor, dopo tutto sei la mia nuova dama da compagnia. E vieni pure più vicino: non ti mangio.»
Lei sospirò, prima di raggiugermi. «Posso sapere il reale motivo per cui mi avete chiamata qui?»
«Oh», sospirai sorpresa, «Rìnon mi aveva detto che eri bella, certo, ma non anche intelligente. Questa cosa di te… mi piace.» Rizzai le spalle, prendendo un bel respiro. «Allora, cominciamo a parlare di cose serie, ti va?»
 


Haldir.
 
Non gli piacevano gli eventi di questo tipo, lo sapevano tutti. Erano rumorosi, affollati e inutili. Che ci trovava sua sorella in tutto questo? Da quando era tornata dalla sua “boccata d’aria fresca” con una dama e gli aveva lanciato uno sguardo di traverso, si era gettata nelle danze senza fare mai una pausa. Sembrava divertirsi come mai. Sorrideva splendente, bellissima e lui era… geloso. Non gli andava a genio che tutti quegli uomini –a discapito di qualunque rango potessero gravare sul loro nome- le mettessero le mani addosso. Non lo accettava. Certo, era consapevole del fatto che la teneva continuamente a distanza ma era per il suo bene: non voleva farla avvicinare a quello che era diventato. Sapeva anche che, però, se l’ennesimo uomo avesse toccato la sua sorellina sarebbe impazzito.
Rifiutò le avance di una donna, l’ennesima, e si avvicinò alla pista da ballo. I ballerini danzavano leggiadri, sorridendosi fra loro. Sembrava di stare dentro uno di quei racconti con cui la mamma faceva addormentare El da bambina. Li aveva sentiti tante volte, da dietro la porta socchiusa della camera di El, curioso di sapere cosa spaventasse tanto la sorella da portarla nella sua camera la notte. Non aveva mai trovato il “Mostro” di cui gli aveva parlato, ma si era sempre ricordato degli scenari di quei racconti.
Fece in tempo a entrare all’interno della pista, che la sorella gli volteggiò davanti ridendo fra le braccia del servo dei Valar: Turion. Si stringeva a lui, e giravano come trottole.
Lo afferrò per una spalla, fermandolo, e quando gli occhi di lui si voltarono il suo cuore perse un battito. «Vorrei danzare con mia sorella» ammise, senza staccare gli occhi da lui.
«Certamente.» Con grazia gli pose la mano della principessa. «Questa, dolce creatura» lanciò uno sguardo al viso di El, «è molto leggiadra. State attento a non romperla con la vostra presa d’acciaio, Mio Signore.» E li lasciò.
Gli occhi di Haldir seguirono Turion finché non scomparve fra la folla, poi andarono al volto della sorella. Lo stava guardando con le sopracciglia alzate, incuriosita e sorpresa al tempo stesso. Non poteva darle torto.
Iniziarono a ballare, silenziosi in mezzo a tutte quelle risate felici.
«Tutto questo è così strano» la sentì  sussurrare, mentre volgeva i propri occhi blu verso un punto imprecisato.
«Perché?» le chiese, sentendosi stranamente ridicolo nel momento in cui passarono affianco a un gruppo di dame che gli sorrisero.
Elanor lo guardò, affilando lo sguardo. «Da quando sei partito col nonno, quel giorno, sei cambiato. Non mi hai mai più rivolto la parola come facevi prima e ti sei allontanato. Perciò, per me adesso è difficile immaginare, credere, che tutto questo stia accadendo. Non ballavamo assieme da quando eravamo piccoli.» Sospirò e dopo una pausa aggiunse: «Ormai mi ero abituata a starti lontana, e tu vieni a cambiare le carte in gioco. Non ti sembra un po’ meschino da parte tua?»
Haldir sentì il petto dolergli. Avrebbe voluto dirle tutto quello che poteva, raccontarle cos’era successo quella volta di tanto tempo fa ma non poteva. Non ci riusciva, per paura di essere ripudiato come fratello. «El», mormorò soltanto avvicinando le proprie labbra al suo orecchio, «mi spiace tanto se ti ho fatto stare male. Prometto che d’ora in avanti i-»
«E’ un po’ tardi, Haldir.» Lei smise di danzare, così come il cuore del fratello cessò per qualche secondo di battere. Li, in mezzo a tutti i ballerini il principe di Bosco Atro si sentì piccolo e incredulo davanti allo sguardo freddo e rassegnato della sorella. Provò amarezza per quelle parole dette con tanto distacco.
Lei lasciò le sue mani, gettando le braccia lungo i fianchi coperti dalla stoffa verde. «Io sto per andarmene, Haldir. I tuoi buoni propositi, ormai non servirebbero più a nulla.»
«Che significa che “stai per andartene”?» Lei non distolse lo sguardo, restando impassibile.
«Sta diventando più difficile del previsto controllare questa cose dei… “poteri” da Guardiana» asserì. «E’ difficile e pericoloso averci a che fare, perciò io e Leron partiamo domani. Abbiamo destinazioni diverse, ma lo scopo è lo stesso: essere pronti per questa guerra imminente.»
«Mi prendi in giro, vero?» Sentiva la testa dolergli, pulsare fino a scoppiare. Non poteva lasciarla andare via, era la sua sorellina non se la sarebbe cavata da sola la fuori. No, non…
«Sarebbe stato bello, se tu ti fossi accorto di come mi sentivo molto prima di questa sera.» Gli accarezzò una guancia, sorridendo. I lunghi capelli castani scivolarono oltre una spalla. «Purtroppo, adesso, è troppo tardi.» Gli baciò una guancia e lo lasciò solo, avvicinandosi al principe umano che l’aspettava a bordo pista.
Non si era mai sentito più ferito di così. Non avrebbe mai pensato che sua sorella avrebbe potuto gettarlo a terra in quel modo, ma non avrebbe mai nemmeno pensato di riuscire a ferirla in quel modo. Per tutti gli anni passati El aveva incassato la sua “non curanza” ed era rimasta in silenzio. Si chiese quanta forza le avesse richiesto tutto quel sopportare. E si sentì un verme, sia fuori che dentro, per aver fatto star male la persona che più amava: sua sorella.
 
 
 
 
 
 

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