Chiudi gli occhi.

di chos
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** -20 Febbraio 1942- ***
Capitolo 2: *** -5 Marzo 1942- ***
Capitolo 3: *** -7 Marzo 1942- ***
Capitolo 4: *** -13 Giugno 1942- ***
Capitolo 5: *** Poi più niente. ***



Capitolo 1
*** -20 Febbraio 1942- ***


Chiudi gli occhi

Echi nascosti di grida
e pianti gelati di sangue.
Noia.
Il dolore non raggiunge i salotti imporporati di lusso.
Silenzio.
Non v'è dio che ascolterà
le tue suppliche.

 

 

-20 Febbraio 1942-

Sono settimane che guardo e riguardo questa maledetta agenda che sembra richiamare la mia attenzione da sotto la sua copertura di pelle scura, come urlasse il mio nome, ed oggi, in data 20 Febbraio 1942, ho deciso di prestargli ascolto.
Non saprei spiegare il perché proprio oggi, forse ho solo bisogno di confidarmi con qualcuno -o qualcosa- che non possa giudicarmi negativamente per ciò che mi turba l'animo in questi giorni, tuttavia non ci girerò molto attorno: tutto questo è davvero necessario?
Continuo a ripetermi che non sono esseri umani, quelli che, a centinaia ogni giorno, sfilano svuotati di qualsiasi espressione davanti a me; mi faccio ragione con ciò che predicano i miei compagni, coloro che indossano fieramente e con un sorriso compiaciuto quella divisa che, stirata e profumata, adesso sta poggiata sulla sedia della mia bella stanza. Ogni mattino mi sta sempre più stretta.
“Loro non meritano di vivere”, talvolta dico carico di disprezzo davanti allo specchio mentre mi sistemo la giacca scura, nel disperato tentativo di convincermi che questo macello sia giustificato.
Eppure il mio tono mi contraddice, e voci, tantissime, a migliaia, mi sferzano il petto con la stessa violenza con cui ho visto massacrare donne e bambini, senza distinzione.
Nessuna pietà, non per coloro che non avevano più lacrime da piangere poiché anche quelle gli erano state strappate via con la forza bruta di chi non pensa.
Mi ero illuso che col tempo avrei perso l'umanità della quale avevamo spogliato quelle genti, mi ero illuso che l'avrei potuta gettare con noncuranza in quelle fosse che ospitano le montagne di cadaveri, i quali, dalle loro labbra scarne e smorte, sussurrano costantemente i miei sensi di colpa, ma non riesco a liberarmene.
La consapevolezza di star sbagliando non mi abbandona nemmeno quando chiudo le palpebre, presentandosi sotto le mentite spoglie di quegli incubi che stanno pian piano facendo incavare i miei occhi contornandoli dell'orrendo color della morte che soffia aria fredda contro il mio orecchio.
Vorrei scappare, ma per chi è invischiato in quest'orrore non v'è più via d'uscita, se non attraverso il fumo nero che pregna l'aria del campo, donandogli quell'odore che non fa scordare a nessuno, neanche per un attimo, non per un istante, dove si trova, né quale sia il destino di coloro i quali hanno le braccia segnate a fuoco da quei numeri che li contraddistingueranno nella mancata importanza data ai nomi, all'essenza di ogni individuo che cammina sulle ceneri dei propri cari.
Sbatto il pugno sul tavolo, guardo fisso la penna che scorre.
Loro non meritano di vivere.
Allora perché sto scrivendo?


 

N.B. I personaggi e gli avvenimenti rappresentati non mi appartengono e questo scritto non è stato realizzato a scopo di lucro.
N.B.2 Le espressioni crude e possibilmente razziste sono utilizzate solamente per rendere appieno il contesto, spero che nessuno si senta offeso o leso da esse.

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Capitolo 2
*** -5 Marzo 1942- ***


-5 Marzo 1942-

2212.
Questo numero mi perseguita da stamane, dopo averlo letto a stento sull'avambraccio tumefatto di uno degli altri.

E' entrato nella stanza con circospezione, il numero 2212, l'eleganza dei suoi tratti stona con tutto ciò che lo circonda, fa a pugni con i pochi stracci che coprono il suo corpo, ed i passi che ha fatto per raggiungere il tavolo dietro il quale rimango ogni giorno, mi sono sembrati lenti da far male, scanditi dolorosamente com'erano da quel suo sguardo di un ghiaccio che mi ha scottato permanentemente, e che come una sottile lama s'è insinuata nei meandri più oscuri del mio animo irrequieto.
E poi ha sorriso. Un sorriso furbo ed intelligente il suo, che mi ha fatto aggrottare le sopracciglia in un'espressione confusa.
Non è mai successo prima d'oggi, giorno maledetto più degli altri che l'hanno preceduto, di vedere qualcuno che caparbio si aggrappi a ciò che è stato e che non sarebbe stato mai più, non con quella sicurezza almeno, ed insieme ad i suoi riccioli neri come i corvi che gracchiano attorno alle canne fumarie instancabili, mi ha incuriosito fino a far scoprire la mia reale essenza per alcuni attimi che avrebbero potuto essermi fatali se solo i miei compagni avessero avuto un maggiore spirito di osservazione e non fossero stati tanto intenti a picchiare il soggetto che si ostinava a non pronunciare il proprio numero di identificazione.
“Comunica il numero”, gli ha ordinato il comandante dall'alto della sua autorità, con l'aiuto di un interprete pescato nel mucchio di malavoglia e con un disprezzo pungente che si manifestava nell'incapacità del soldato di ridurre il metro che lo divideva da esso e di guardarlo senza una smorfia d'odio sulle labbra severe.
“Sherlock”, ha ripetuto lui, più e più volte, nella lingua di chi non ha il consenso di respirare senza pentirsene l'istante dopo, pressato dal gravoso peso dei metodi più fantasiosi di tortura che l'essere umano avesse mai potuto ideare, ed io, come di norma, sono rimasto in silenzio, obbligandomi a non oscurare la mia vista girandomi per guardare altrove, ma imprimendo piuttosto nella memoria l'espressione risoluta che pur sotto gli ematomi ed i versamenti di sangue sottocutanei già visibili, è rimasta invariata e chiara.
Quando finalmente quei macellai, col viso di giustizieri preso in prestito, si sono stancati, hanno quindi afferrato la mano che riportava alla spalla che avevano lussato a quel tale a forza di pugni, e senza gentilezza alcuna l'hanno allungata verso il loro superiore, per mostrar lui ciò che stava marchiato sopra.
E così, 2212.
L'uomo dal petto riempito d'orgoglio nazista si è gonfiato per rilasciare uno sputo che si è andato a schiantare contro le gote livide del ragazzo. “Faccia le dovute analisi, dottor Watson, poi lo lasci morire insieme alle bestie sue simili”, mi ha detto, prima di lasciare la stanza seguito dal traduttore che ha implorato il perdono del malcapitato con lo sguardo.
A quel punto mi sono schiarito la voce, ed avvicinandomi al ribelle che era rimasto piegato in se stesso, sulle sue ginocchia, ho cominciato a prelevare alcune fiale del liquido rosso che comunque già era sgorgato a fiotti dalle sue ferite.
I suoi occhi però non erano carichi d'odio.
Tutto ciò che sono riuscito a scorgere era solo tanta, tanta energia, e la cosa mi ha dato i brividi, mentre catalogavo il tutto nelle fidate cartelle che stringevo al petto come se non avessi voluto far leggere a qualche essere superiore il suo contenuto.
Tutto d'un tratto, poi, alcune sue dita si sono aggrappate al mio braccio ripiegato, prendendomi totalmente alla sprovvista.
“Lei è un pessimo attore, dottor Watson. Dovrebbe dormire un po' di più per non dar ascolto ai sensi di colpa, ma non ci riesce, non è così?”, mi ha detto, facendomi crucciare ancor di più, soggiogato dalla pronuncia tedesca che avrebbe fatto invidia anche al miglior oratore di mia conoscenza.
Non ho assolutamente idea di come abbia fatto a notare tutte quelle cose dalla sua posizione, soprattutto dopo essere maturato con la convinzione -nemmeno tanto radicata- dell'inferiorità della sua specie, sta di fatto che non ho avuto nemmeno il tempo di chiedergli spiegazioni ché già gli altri gli erano addosso, per continuare il pestaggio e rasare i capelli, ormai di troppo.
Non capisco, non riesco a capire più davvero cosa ci sia di diverso tra noi e loro.

 

Note dell'autore: Scommetto che molti lo capiranno, ma giusto per essere chiari il numero 2212 non è casuale, ovviamente.
Ho fatto riferimento al 221B: la "B" finale, essendo la seconda lettera dell'alfabeto, è diventata un 2.
 

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Capitolo 3
*** -7 Marzo 1942- ***


-7 Marzo 1942-

Non avrei dovuto tenere d'occhio quell'uomo, lo so, ne sono consapevole, ma quei due pozzi ghiacciati mi hanno seguito ovunque ed io non ho potuto farne a meno, monitorando i suoi spostamenti e le sue azioni.
Le condizioni delle lesioni erano peggiorate, le ferite suppuranti dovevano dolergli da impazzire nonostante sgobbasse come tutti gli altri, seppur con un braccio solo visto che l'altro era rimasto slogato dal nostro primo incontro, e la curiosità in me è cresciuta fino alle estreme conseguenze: stamani infatti ho trascorso la mia pausa pranzo nel cortile, in compagnia di Heimefreid e Peeke, due gemelli che, potrei scommetterci, si definiscono in giro come “di stirpe ariana pura”, con i loro capelli dorati e gli occhi che pur essendo chiari non sostengono il minimo confronto con quelli di Sherlock del numero 2212.
Loro stavano di guardia, controllavano "quegli sporchi ebrei” con uno sguardo, che si intrecciava al minimo sgarro, al minimo pretesto per dare giù di pugni su chi lo meritasse, ma che si è posato su di me non appena ha percepito il mio strano interesse.

“Cosa ci fa davvero lei qui, dottor Watson?”, mi ha chiesto quindi il più tarchiato dei due con lingua di serpente pronta a stilettare le mie spalle, ed io cosa potevo fare, se non fingere?
Avevo precedentemente pensato che la scusa della vendetta personale fosse un buon motivo per prestare tanta attenzione a quella forma inferiore di vita, così ho fatto spallucce aggrottando le sopracciglia in un'espressione ostile rivolta al 2212.
“Quello -ho detto, accennando all'obiettivo- ha tentato di aggredirmi due giorni fa, nel mio studio. Non ne ha ricevute abbastanza, comprendi?”

Pessimo attore, tuona nella mia mente la sua voce profonda.
I due quindi si sono scambiati un'occhiata dubbiosa, poi complice, infine si sono messi a ridere di gusto, “Non sono mai abbastanza!”, e con il loro consenso tutto è stato più semplice, o quasi: muovere i passi pesanti contro di lui lo è stato, lo è stato anche afferrargli fermamente la spalla dolorante fingendo di bearmi dei suoi gemiti di sofferenza... ma non sostenere la tempesta che mi provocano quelle sue fiammelle blu di pura forza.
Gli sghignazzi dei fratelli miei colleghi saturavano l'aria, ma la dura e flebile voce che è uscita a stento dalle labbra rigate dal sangue coagulato dell'uomo che nel frattempo stavo trascinando via è riuscita a coprirle completamente.
Schlechte schauspieler1”, mi ha ripetuto con un mezzo ghigno, e l'attimo dopo eravamo in una delle poche stanze spoglie ed inutilizzate del campo.
L'ho sistemato su di uno sgabello di fortuna, e senza distogliere per nulla al mondo lo sguardo dalla sua figura, ho cominciato a curarlo in un silenzio che è stato interrotto di tanto in tanto da qualche suo grido che giurerei abbia emesso di proposito, per reggere il mio gioco.

“Tu sei diverso dagli altri della tua razza”, ho esordito infine, con un forzato tono di indignazione, concentrato nel disinfettare un taglio che, infetto, divideva in due in obliquo, il suo braccio destro, “perché non ti rassegni?”
“E tu perché mi stai curando?”.
“Già, perché lo sto facendo?”, e la mia domanda, rivolta più a me stesso che a chi stavo curando, è stata subito seguita da un urlo di finto dolore che mi ha aiutato, in un modo o nell'altro, ad accantonare tutte quelle stupide domande che non ha senso farsi senza potersi dare una risposta, e a lasciar spazio quindi a tutte le altre questioni che sono sorte subito dopo le sue rivelazioni sul mio conto, riguardo quella strana attenzione che aveva avuto nei miei confronti, ed ho aperto la bocca per parlare, ma come se gli stessi occhi che tanto mi fanno perdere il senno siano riusciti a captare i miei pensieri, mi ha anticipato.

“Deduzione”, si è limitato a bisbigliare, con un ghigno sul volto che non saprei dire se volesse comunicarmi l'orgoglio che provava per le proprie capacità, oppure una tale saccenteria da farmi sentire quasi a disagio, visto che quei fari, invece di rischiarire i miei pensieri, li avevano solo resi più confusi ed offuscati.
“Con un solo sguardo posso capire se la moglie del tuo grande e valoroso superiore dalla sovrabbondante salivazione si diverte in sua assenza e non di certo giocando a scacchi con la figlia”, ha detto ridendo lievemente, e tutt'ora non so se avrei dovuto schiaffeggiarlo come sono soliti fare i miei connazionali o rimanere stupito perché nessuno ha mai detto in sua presenza che quell'uomo sia sposato, né che abbia figli, invece che rimanere a guardarlo tentando di riuscire a venirne fuori da solo con pochi risultati.
“Come ci sei riuscito?”.
“Dottor Watson, lei guarda e non osserva, ma con mio grande stupore e giubilo lei è uno dei pochi che ha compreso che qui qualcosa non va”, ha detto, e che il mein Furher mi perdoni per ricordarmi persino le parole precise del suo discorso, “se solo usassi davvero il tuo cervello, o almeno il 60% di esso potresti persino causare una rivoluzione”.


1Pessimo attore.

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Capitolo 4
*** -13 Giugno 1942- ***


-14 Marzo 1942-

Il numero 2212 sta bene, grazie a me, e sono così felice che-


-26 Marzo 1942-


“La doccia”, così la chiamano, ma non rigenera.
“Entrate tutti dentro”, dicono, ma nessuno esce più fuori da quegli stanzoni affollati.
Ed oggi sono riuscito ad evitare che-


-2 Aprile 1942-

“John, sai perfettamente che sono l'uomo più intelligente che conosci, ed ero convinto di poter carpire tutto col mio occhio svelto, ma una cosa mi sfugge: perché lo fai? Perché io?”


-13 Giugno 1942-

Mi viene da sorridere pensando a quanto tempo sia passato dall'ultima volta che la mia penna ha solcato queste pagine sottili ed effimere, a quanto il mio cervello mi abbia ostacolato nello scrivere ciò per cui avevo bisogno di sfogarmi. Tanta acqua è passata sotto i ponti da allora, tanti gli avvenimenti che si sono presentati a me senza che li avessi realmente chiesti o desiderati e spaventavano oltremodo il sottoscritto poiché se messi su carta assumevano un'accezione troppo reale.
Ma analizzando la mia vita, io sono sempre stato uno nella media: altezza nella media, bellezza nella media, intelligenza nella media... non ho mai spiccato in nulla, mai sono stato importante per qualcuno al di fuori dei miei genitori, e questo più di tutto mi ha spinto ad intraprendere la carriera medica all'interno dell'esercito.
Lì potevo essere qualcuno, potevo fare la differenza e non passare inosservato come avevo sempre fatto, eppure non mi sarei mai immaginato che quella stessa differenza di cui avevo bisogno, l'avrei trovata in un ebreo dagli occhi di ghiaccio ed i riccioli scuri che avevano trovato asilo sul pavimento del mio studio, al campo.
Col passare dei giorni il mio interessamento nei confronti di quell'uomo, opportunamente camuffato da un'oscena finzione d'odio, è cresciuto, il nostro legame è diventato più forte, mi azzarderei a definirlo indistruttibile nonostante i suoi continui insulti nei miei confronti, ed attualmente non esito a dire che, se malauguratamente venisse a mancare -cosa che costantemente mi proibisco di pensare-, la mia esistenza si accartoccerebbe su se stessa fino a farmi scomparire, quasi come sta facendo la fame cieca su Sherlock.
A nulla servono le mie cure premurose, a nulla serve il cibo che gli passo in modo clandestino -come sono d'altronde i nostri continui incontri-, perché il campo ti sfinisce, il campo ti succhia via qualsiasi cosa e ti lascia vuoto; lui è forte però, nonostante le zuppe di bucce di patate lo stiano privando della vista, lui resiste e tiene per sé tutto ciò che ha di buono da offrire, lasciando alla crudeltà del mio popolo solo le briciole.
E il suo aspetto è cambiato, le guance scavate mettono ancora più in risalto quegli zigomi taglienti, il colorito pallido di carta accompagna ben volentieri le mani che prima sembravano essere nate per il piano, armoniose e lievi, ora sono ridotte all'osso come il resto del suo fisico smunto e privo di forze ma sovraccarico di voglia di vivere. Sembra quasi non tema la morte.
E mi sono chiesto come faccia, mi sono chiesto se appaia così tranquillo solo perché al suo fianco ha una figura che più di una volta gli ha evitato la doccia dalla quale nessuno torna più, o gli esperimenti che rischiavano di farlo soffrire per molto e molto tempo prima di stroncare la sua vita definitivamente, ma no, lui è semplicemente così e me ne sono fatto una ragione.
Un pomeriggio uggioso, ad una mia domanda ha risposto: “Sai John, in verità temo la morte più di chiunque altro. D'altronde immagino ci si senta così quando si ha qualcosa da perdere, no?”, ed io non ho potuto far altro che sorridere, leggendo in quelle poche parole tutto ciò che avevo bisogno di sentire.
Se solo qualcuno sapesse della nostra storia, potrebbe dire, convinto di non cadere in fallo, che quello ad essere stato salvato sia lui, ma quanto sbaglierebbe.
Sherlock, Sherlock Holmes, il numero 2212, il mio migliore amico, l'uomo che amo o che dir si voglia, è la persona a cui devo la mia stessa vita, ed io ho intenzione di ricambiare il favore.

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Capitolo 5
*** Poi più niente. ***


Il dottor John Watson aveva organizzato tutto, o almeno aveva convinto l'amico ad aiutarlo ad architettare un piano di fuga nonostante il suo cinismo a riguardo.
“Va bene”, aveva acconsentito risoluto nella sua decisione ma con voce flebile e la vista offuscata dalla fame,“ma dovrai essere pronto a morire insieme a me”.
Il tedesco allora storse il muso ed arricciò il naso, come se fosse scontata una simile verità, e gli accarezzò il capo con un mezzo sorriso. “Lo sono da quando ci siamo incontrati”.

Il giorno prestabilito si presentò con un manto caldo disciolto dal sole che sembrava volerli prendere in giro con la propria tranquillità, e correvano, a perdifiato, lungo la retta tracciata dal più portato dei due.
Tum.
Un passo falso e Sherlock però fu a terra, privo delle forze necessarie per proseguire.
Tum.
John sentì mancare la stretta dell'altro, si voltò e lo vide sulle sue ginocchia sanguinanti. Un presagio di morte gli colpì lo sterno, mentre con lo sguardo esaminava le loro possibilità.
“Mi dispiace, John”.
Tum.
Il nazista pentito si ripiegò sull'altro, come a proteggerlo sotto le ali divenute candide per merito di un amore puro e potente, mentre i soldati si avvicinavano sempre di più, da tutte le direzioni.
Tum.
“Dovevo salvarti, e guardaci”, disse John con la voce rotta che tentò rovinosamente di fronteggiare l'arrivo imminente del nemico. Sherlock alzò il viso dal giaciglio costituito dal petto del medico: ancora una volta, per l'ultima volta, quelle due stalattiti che si ritrovava per occhi infilzarono il cuore del biondo.
Tum.
“In questi mesi ho vissuto più di tutta la mia vita al di fuori del campo”, le sue mani si alzarono debolmente per aggrapparsi ai fianchi del suo salvatore, pur non perdendo la solita circospezione che lo contraddistingueva, “Certo, sarebbe stato meglio conoscerti in circostanze migliori”.
Tum.
Il mortal suono dei loro passi si fece più forte, assordanti quasi quanto lo erano i battiti irrequieti di John, a cui sembrava non essere permesso di respirare normalmente.
Le possibilità di sopravvivere erano pari a zero, ed entrambi ne erano consapevoli.
“Sherlock, tu dovresti vivere, tu non puoi-”, l'ebreo fermò quel preludio di pianto con un sussurro non appena la marcia si arrestò tutta intorno ai due.
La loro ora era giunta.
“John, chiudi gli occhi”.
Tum.
Le labbra di quello che aveva parlato per ultimo, si posarono su quelle dell'unica persona che avesse mai amato: il tedesco dal cuore buono che aveva ascoltato l'ordine e non poteva credere di aver raggiunto la felicità solamente alla fine di tutto. I due sorrisi si mischiarono, pronti per andare a fondo insieme, e John non se ne capacitava:
Sherlock l'aveva salvato ancora.
Tum.
Uno sparo.
Il biondo strinse le palpebre in una smorfia nell'avvertire il dolore lancinante causato dal proiettile che senza molta gentilezza aveva trapassato prima il suo amato, poi se stesso. Non voleva vedere la fine, non voleva vedere l'altro privato del soffio vitale: gli occhi che tanto lo avevano ammaliato non sarebbero stati gli stessi, e lui aveva intenzione di ricordarseli come il primo giorno, dunque risparmiò tutte le forze che gli rimanevano per stringersi all'altro, del quale si erano impossessati anche della vita, ma non di quell'amore che in barba a tutto e a tutti, era sopravvissuto.
Bang.


Poi più niente.


P.S. Ed ecco che qui si conclude la nostra storia.
Purtroppo non ho potuto mettere, per ragioni di coerenza, un lieto fine come alcuni si sarebbero aspettati o mi avevano chiesto: questo però, secondo me, lo è quasi quanto un "vissero felici e contenti", semplicemente perché hanno concluso questa loro avventura insieme
Ringrazio allora di cuore tutti quelli che mi hanno seguito, perché senza di voi, scoraggiata, non sarei andata avanti, quindi consideratevi veramente importanti, e spero di poter tornare presto con qualche altro mio vaneggio da proporvi.
Ancora grazie a tutti.

Chos.

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