The Bridge of Life

di TheRebelInk
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Capitolo 1
 
BET
 
Non ero stata costretta a sopportare la scena in cui mi tradiva con una di quelle sgualdrine che potevi comprarti per l’intervallo ogni giorno al liceo. Christian mi chiamò subito dopo pranzo e mi chiese di incontrarci al bar sotto casa sua. Non era strano, lo facevamo quasi tutti i giorni.
-Ciao amore! – Gli saltai letteralmente addosso e lo baciai con delicatezza.
-Ciao Bet.
Christian ricambiò il bacio con riluttanza e me ne accorsi.
-Qualcosa non va?
Si staccò da me, mi prese per mano e andammo verso il parco.
-Chris, che succede? – chiesi perplessa e ingenua.
Prese un respiro profondo e i suoi occhi si posarono oltre la mia spalla, sulla città.
-Quel qualcosa che non va, Bet… sei tu. No! Sono io, cioè… siamo noi! – Le sue mani si aprivano e si chiudevano, si agitavano come ogni muscolo del suo corpo e del viso, guizzavano intimorite e nervose come gli occhi della sfumatura più pura dell’acqua, e ora velati da un’ombra che non riuscivo a decifrare. Mi confondeva, ma soprattutto mi spaventava.
-Non riesco a capire Chris… - mormorai. Neanche la calura estiva riusciva a sciogliere il gelo che mi stava attanagliando.
-Bet, io… ascoltami ti prego – disse serio e mi prese le spalle – Sei una delle persone più importanti della mia vita e in questi due anni sono stato davvero felice con te. – Fece una pausa e respirò di nuovo, ancora più forte. – Sarai per sempre come una sorella per me e…
Mi riscossi e aggrottai le sopracciglia, smarrita in un turbinio di pensieri.
-Mi stai lasciando! – bisbigliai in preda al panico.
Chris strinse la presa sulle mie spalle e io mi scrollai le sue mani di dosso. Lo spintonai bruscamente e mi avviai furiosa verso l’uscita del parco.
-Bet, aspetta! Fermati!
Iniziai a correre e l’aria satura di calore mi punse gli occhi. Lasciai scorrere le lacrime mentre il vuoto si impadroniva del mio petto. Corsi senza vedere realmente la strada fino a che non mi trovai davanti proprio Chris, che mi abbracciò. O almeno tentò di farlo, perché io iniziai a gridare e ansimare.
-Calmati, Bet! Sono sempre io!
Mi divincolai con tutte le forze e afferrai la borsa di pelle marrone che avevo a tracolla. Lo colpii ad un fianco e lui, sorpreso, si allontanò.
-Lasciami in pace! Vattene! – urlai stravolta e senza fiato. Avevo gli occhi spalancati per lo stupore e il dolore e lanciai degli sguardi della serie “riprovaci-e-ti-faccio-a-pezzi” a tutti quei bambini che fissavano la scena pietrificati.
Ero allibita. Non potevo crederci. Solo tre ore prima eravamo in classe, seduti al nostro banco come sempre. Ora Chris mi fissava intensamente con timore, ma nei suoi occhi non c’era la minima traccia di senso di colpa. Aveva lo stesso odore, gli stessi abiti, lo stesso taglio di capelli, lo stesso cuore di quando mi aveva dato la buonanotte la sera precedente. Probabilmente aveva meno soldi in tasca e una storiella nel bagno della scuola in più da raccontare ai suoi amici.
Non ci vidi più. Gli lanciai la borsa contro e lo presi per la camicia, strattonandolo verso di me con violenza.
-Siete tutti uguali! Non siete capaci di resistere, voi uomini!
-Bet, non è come credi!
Tirai fuori il suo cellulare dalla tasca dei jeans che indossava e, digitando il PIN, scorsi i messaggi più recenti. Chris fissava il telefono e quando vide i miei occhi farsi ancora più scuri, tentò di liberarsi dalla mia presa ferrea.
-Bet, mi dispiace tanto. Sono stato uno stupido, credimi!
-Sei uno sporco bastardo, figlio di puttana! Ecco cosa sei!
Continuai a inveirgli contro, sputai sulle sue Nike nuove di zecca e per ultimo scagliai il cellulare nella fontana che gorgogliava tranquilla, cancellando così la prova del tradimento di Chris e di quanto avesse approfittato bene della mia influenza il mese prima per farsi più di una delle buone a nulla che gli ronzavano intorno da tempo. Poi scappai verso casa piangendo e il sudore mi fece rabbrividire mano a mano che mi rendevo conto di quanto era appena successo.
-Bet! Che hai? – chiese mia madre vedendomi entrare in corridoio come una furia.
- Niente! – urlai.
-Qualcuno ti ha fatto del male? – I suoi occhi opachi mi fissavano sconvolti mentre sbattevo violentemente la porta della mia camera.
-Nessuno. Ma se come male intendi qui – e strinsi la mano sul petto – allora sì!
Scaraventai le foto in cui compariva Chris contro il muro e aprii gli armadi gettando ogni capo sul pavimento e massacrando tutti i soprammobili. Resi la mia camera una specie di inferno. Dappertutto erano sparsi i ricordi della mia vita: cornici frantumate, magliette e jeans a brandelli, fogli pieni di parole inutili e cuori accartocciati come una vecchia che raggrinzisce. E soprattutto polvere.
Sospesa tra i raggi solari che filtravano dalle persiane, ammantava la stanza, la rendeva ancora più vuota e opaca del mio cuore. Era come se me lo avessero estirpato dal petto. Riuscivo a percepire solo un dolore sordo che si propagava in tutto il corpo, facendo rimbombare la testa; e le gambe, le braccia, perfino gli occhi erano appesantiti dalla consapevolezza che Chris era uscito per sempre dalla mia vita.
Ricordo solo di aver sbattuto le ginocchia sulle piastrelle e mia madre che mi metteva a letto come una bambina che è troppo stanca per reagire dopo aver giocato per molto tempo.
Sognai per la prima volta dopo due anni. Come se finalmente mi fossi svegliata dopo esser stata drogata con un sonnifero. La sua etichetta, mi resi conto, portava il nome di Chris.
Poi mi ritrovai con le lenzuola attorcigliate intorno alle caviglie e la pelle madida di sudore che scorreva salato su ogni centimetro di me, facendolo ardere del dolore che non sarebbe sparito neanche in cento anni. La mia ferita non si sarebbe mai rimarginata, avrebbe continuato a sanguinare, ma non mi avrebbe uccisa.
Ero un po’ come Prometeo: l’avvoltoio mi strappava il cuore e i sentimenti ne costruivano un altro ancora più grande e pesante che il rapace tornava a divorare. E potevo uscire da quel circolo insopportabile solo se, una volta per tutte, avessi trovato il coraggio di far cessare per sempre tutto quel dolore.
 
Rimasi a letto tutto il giorno seguente, immobile e vuota, a fissare il soffitto della mia camera. Cercavo di cogliere un barlume di volontà in me, ma non riuscivo neanche a muovere le dita delle mani, strette intorno al cuscino. E quando la settimana successiva tornai a scuola, non si faceva che parlare di Christian. Di come si fosse preso a botte con uno del quinto per difendere la sua ragazza. O meglio, quella nuova, mentre io ero l’ingenua di turno che si era fatta abbindolare dal suo fascino. Ma due anni… Possibile che in due anni fossi stata così cieca?
Il terzo giorno dal mio ritorno a quella che avrei voluto definire la normalità, fu quello in cui decisi di mettere fine a tutta quella storia orribile. Il mio banco era letteralmente coperto di post-it colorati e su ognuno di essi c’era scritta una semplice parola: puttana. Uno diceva perfino “500 euro tutto compreso” e un altro “Christian è passato (velocemente) qui”. Rimasi di fronte a quei biglietti di condanna come se la colpa fosse stata mia, per essermi innamorata di un coglione, mentre tutti gli altri studenti sghignazzavano e si fermavano sulla porta, ridendo della mia faccia sconvolta e rigata da lacrime di vergogna. Mollai lo zaino e corsi verso l’uscita, lasciandomi la scuola alle spalle. Continuavo a correre in mezzo alle vie come se scappare fosse la soluzione. Credevo che non ci fosse una soluzione, non vedevo la via di scampo, ma solo perché non c’era.
 
 
 
ETTORE
 
Avevo un nome sfigato.
Andavo vestito da sfigato.
A scuola ero uno sfigato.
In effetti ero tutto sfigato, da quei grandi occhiali scuri che mi facevano la testa grossa alle scarpe consumate di mio fratello maggiore a quel nome assurdo che mi avevano dato: Ettore.
Tornai a casa, in quel palazzo un po’cadente come tutti gli altri giorni, ma quella volta avevo in mano la cosa più importante di tutta la mia vita: era la borsa di studio che avevo giurato di prendere a tutti i costi. Facoltà di medicina per una specializzazione in oncologia. Credevo che aiutando gli altri avrei potuto portare per sempre con me anche una parte di mia madre. – Chiudi quella porta! – urlò mio padre dal salotto. Gli andai incontro gongolando e convinto che per una volta sarebbe stato contento di me. – Che hai in mano? – continuò, mentre il puzzo d’alcol del suo alito mi investiva in pieno. Lo raggiunsi nel soggiorno. Era sdraiato scompostamente sul divano con una gamba penzoloni e una bottiglia di birra nella mano, anch’essa abbandonata sul pavimento. Mi sforzai di superare il disgusto che provavo nei suoi confronti e gli porsi il foglio:- Ho ottenuto la borsa di studio per medicina, - dissi esitante – niente più tasse o libri da pagare.
Ci fissammo per un po’. A quel punto mio padre si mise a sedere, esaminò il foglio… e lo accartocciò e lo strappò. Poi lanciò i frammenti fuori dalla finestra e iniziò a urlarmi contro, a dirmi che ero una nullità, che una laurea in medicina era per sfigati e che non sarei riuscito a passare neanche il primo esame. – TU sei una nullit! – gridai esausto – TU non supererai mai niente nella vita! Sei l’uomo peggiore sulla faccia della Terra! La mamma non ti avrebbe mai amato, né tantomeno sposato se avesse saputo ciò che stai facendo!
Mi lanciò contro la bottiglia di birra che mi ricoprì il braccio di tagli e iniziò a riempirmi la faccia e lo stomaco di quei pugni che ormai riconoscevo come parte di me. Quando finì mi accasciai ai piedi del divano, incapace di muovermi fino a quando anche mio fratello rientrò e, appena mi vide, mi sputò addosso e mi sferrò lì ennesimo calcio nelle costole. Poi mi addormentai lì, sul pavimento appiccicoso d’alcol.
Il mattino dopo mi resi conto che la casa era vuota. Entrambi gli uomini di casa erano andati a puttane, ne ero certo. Riuscii a mettermi in piedi solo verso sera e allora decisi di andarmene. Non volevo rimanere un secondo di più in quell’inferno. Riempii lo zaino con i libri e le foto di mia madre, presi tutti i soldi che trovai e lanciai le chiavi le chiavi dell’appartamento dalla finestra. Poi sbarrai la porta dall’esterno e finalmente scesi zoppicante dalle scale. Non sentivo più il dolore dei calci e dei pugni, solo quello legato alla nuova consapevolezza di aver perso veramente tutto.
La mia vita non valeva niente. Aveva ragione mio padre, ero una nullità. Non mi sarei laureato, ero orfano di madre, mio padre e mio fratello bevevano come dannati ed ora non avevo più una casa. Non avevo più ricordi felici. Erano stati portati via a forza di calci e pugni non solo da mio padre, ma anche dai ragazzi che puntualmente mi picchiavano fuori dalla scuola.
 
 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2
 
BET
 
La testa pulsa e batte così tanto, come se mi gridasse di smetterla di correre. Ma io voglio correre, voglio crollare sull’asfalto e non rialzarmi più. Non voglio fermarmi, ma quando lo faccio perché non so più dove sono, ricomincio a piangere.
Nel mio girovagare disperato mi ritrovai su un viadotto poco trafficato al tramonto, bagnata di sudore, prosciugata di tutta la mia dignità e della forza. Mi tremavano le gambe così forte e non riuscivo a tener ferme le mani. Crollai a terra come una bambola di pezza e nonostante dal viadotto vedessi un’infinità di paesaggi e combinazioni di colori diversi, non c’era ancora niente che potesse aiutarmi. Poi i miei occhi gonfi di pianto scesero giù, seguirono i pilastri del viadotto sino a dove erano avvolti dagli alberi e dalle piante.
Era un salto enorme.
Era la mia soluzione.
 
 
ETTORE
 
-Guardate chi si vede! Ettore il Forzuto! – esclamò ridendo una voce che conoscevo fin troppo bene.
- Vattene! – risposi, cominciando a camminare verso il centro storico. Non feci in tempo a svoltare l’angolo che già Christian e il suo branco mi stavano bloccando contro il muro. Lui mi mise il gomito sul collo. Dopo poco non riuscivo più a respirare.
- Vediamo un po’ che hai nello zaino… - ridacchiò un altro. Prese le foto di mia madre e le passò a ogni membro del branco. Ci sputarono e ci saltarono sopra mentre io annaspavo disperatamente in cerca d’aria trattenendo le lacrime. Iniziai a piangere e allora, soddisfatti, mi lasciarono in pace. – Sei proprio un debole Ettoruccio!
- Vai a lamentarti dalla mamma!
Chiusi gli occhi e ripresi fiato. Poi mi alzai e chiamai un taxi. Il viadotto sulla statale andava più che bene.
Ero debole.
Ero una nullità.
La mia vita era un inferno e i suoi pezzi non sarebbero tornati a posto.
Mai più.
 
 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3
 
BET
 
Il sole stava scomparendo dietro le colline verdi punteggiate dai girasoli. Quel sole calava anche sulla mia vita, scendeva verso il basso e sembrava trascinare con sé una parte del cielo. Ero lì, seduta sul bordo del viadotto, con i piedi che dondolavano nel vuoto e le lacrime che, cadendo dalle mie guance, si perdevano in quel baratro. Ero vuota da star male, l’unica cosa che sentivo era un dolore sordo che si propagava in ogni parte di me e mi alzai in piedi, ad un passo dalla fine. Attesi il sole, piangendo ancora più forte.
Ancora un po’.
Un centimetro e sarei caduta.
Pochi secondi.
Un volo.
Il primo.
L’ultimo.
Uno schianto.
Poi…
Sentii un pianto frustrato, pieno di disperazione.
Ma non era il mio.
Improvvisamente avevo dimenticato per quale motivo mi trovassi lì e allora scesi con cautela e seguii i singhiozzi. C’era un ragazzo più o meno della mia età a pochi metri da me e aveva la seria intenzione di buttarsi. Ciò che accadde poi ancora non me lo so spiegare.
-Fermati! – urlai correndogli incontro – No! Fermo! Non lo fare! Aspetta!
Tremava come una foglia. – Lasciami in pace!
-No! Scendi per favore! Non sai quello che stai facendo!
- TU non sai quello che stai facendo! – e si alzò in piedi. Ero nel panico, disperata. Non sapevo come fermarlo e lui sembrava sempre più deciso.
- Come ti chiami? – gli chiesi.
Lui esitò poi, tra le lacrime, rispose:- Ettore.
-Ciao Ettore! Io sono Elisabetta, ma tutti mi chiamano Bet.
Si voltò a guardarmi per la prima volta. Aveva il viso tutto tumefatto.
-Mi piace il tuo nome. – continuai.
Lui scoppiò a ridere e a piangere insieme:- A nessuno piace il mio nome! E a me non piace il tuo! – puntualizzò.
-Ma è il nome di un eroe.
- Questo non rende ME, un eroe. – Si mise le mani tra i capelli scuri e iniziò a gridare nel vuoto:- Io sono un debole! Sono una nullità! La mia vita è un inferno! Non voglio più vivere!
- Ma chi ti credi di essere?! – gli urlai contro, disperata. – Chi credi di essere tu, per decidere una cosa del genre?! Sei un debole e un vigliacco se ora ti butti giù! Un vero uomo non cerca la morte e cercare la morte non è coraggio! Guarda Ettore di Troia: andò a combattere contro Achille sapendo che non sarebbe più tornato, abbandonò la moglie e il figlio nonostante le pubbliche e per cosa?! Per la gloria eterna? Per salvare la città? Non ebbe nessuna delle due cose, e se tu decidi di andare verso la morte sarai veramente una nullità! Non sarai migliore di Ettore di Troia…
Mi fissò intensamente.
-Sarai un uomo migliore se capirai che la tua storia non è ancora finita. Che il tuo libro deve essere ancora scritto…
Ci guardammo negli occhi per molti minuti, forse ore. Poi Ettore rimise i piedi sull’asfalto e crollò a terra piangendo.
 
 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Capitolo 4
 
 
Chiesi a Ettore se avesse bisogno di un’ambulanza ma non voleva farsi vedere in quello stato. Credo si vergognasse troppo di ciò che stava per fare. E anche io, ancora oggi, me ne vergogno terribilmente. Chiamai un taxi e fui così fortunata da trovarne uno in servizio alle dieci di sera. Il tassista non fece domande (cosa che apprezzai molto) e gli chiesi di portarci in ospedale. Ettore si addormentò durante il tragitto e la sua testa scivolò sulla mia spalla. Non so perché, ma lo scansai.
-Mi può aiutare a portarlo su? – chiesi al tassista, indicando la struttura imponente dell’ospedale.
- Dai qua.
Si caricò il ragazzo sulle spalle come fosse un bambino di sei anni ed io lo seguii verso il pronto soccorso. Ettore era messo piuttosto male e mi dissero che lo avrebbero ricoverato per qualche giorno. Aveva un polso fratturato e molti tagli profondi sullo stesso braccio e una costola rotta che non aveva perforato il polmone solo per miracolo. Per non parlare di tutti gli ematomi che rendevano il suo corpo esile una costellazione d’astri viola. Mi addormentai sulla sedia accanto al suo letto, su cui scorrevano metri di fili e flebo. Fu la prima notte senza incubi e in cui non pensai a Chris e ai post-it.
 
-Bet…
Mia madre era sulla soglia della camera di Ettore. Aveva gli occhi cerchiati e pieni di lacrime. Mi alzai piano e l’abbracciai forte.
-Che ci fai qui, tesoro? – chiese mio padre accarezzandomi le guance.
Non riuscii a spiegargli quello che stavo per fare. Lo avrei deluso e preoccupato inutilmente. In fondo la vita era comunque la mia.
-Si chiama Ettore – sussurrai ai miei genitori indicandolo – Stava per suicidarsi.
- Lo hai fermato tu? – chiese incredula mia madre.
- Si.
In realtà era stato lui ad aver fermato me. Ancora non sapevo se essergliene grata o meno.
-Posso restare con lui stanotte?
- Certo amore. Ma non scappare più così. – disse mio padre. Poi aggiunse:- Se ti fa piacere saperlo… hanno sospeso tutti quelli dei post-it.
Avrei voluto sorridergli e ringraziarlo, ma riuscii solo a piangere. Mi abbracciarono ancora, poi se ne andarono a casa. Io tornai a sedermi accanto al letto e rimasi a osservare Ettore, quello sconosciuto che sì, mi aveva salvato la vita e che, ne ero certa, aveva avuto più motivi di me per volersi buttare da quel viadotto.
 
 
 

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Capitolo 5
 
Mi svegliai di soprassalto da un sonno agitato e stropicciai gli occhi. Era l’alba. La finestra della camera si affacciava proprio di fronte ad una chiesa e le campane riflettevano la luce dorata sulle piastrelle del pavimento.
-Mi passi gli antidolorifici?
Mi accorsi di Ettore solo in quel momento. Ed era stato proprio lui, facendo cadere due scatole di medicine, a svegliarmi. Mi concentrai sul suo viso violaceo e sul braccio che sarebbe potuto essere uno scolapasta con tutti i buchi delle flebo.
-Certo. – e mi alzai per raggiungere il comodino. Poi mi sporsi verso di lui e gli passai un paio di dischetti azzurri. Li inghiottì con una smorfia e dopo alcuni minuti si rilassò e sprofondò i capelli scuri nei cuscini.
- Elisabetta?
- Solo Bet.
- Allora non farlo neanche tu. Non chiamarmi più con il mio nome vero.
Mi sedetti di nuovo e avvicinai la sedia al bordo del suo letto. Lui girò la testa e mi fissò. Sembrava arrabbiato.
-Perché, non ti piace?
Sorrise debolmente:- Odio chi me l’ha dato.
-Tuo padre?
Voltò la testa dall’altra parte. – Perspicace.
Guardammo il sole sorgere per un po’, fino a quando lui non ruppe il silenzio:- Tu sei del IV C, no?
Mi immobilizzai.
-Perché?
- Dì a Christian di lasciarmi almeno un po’di dignità la prossima volta.
Silenzio.
In corridoio passarono una decina di dottori che sfrecciarono con una barella gridando:- Resisti! Ci sei! Spostatevi!
Ettore si voltò ancora e scrutò il mio viso. Mi aveva riconosciuta.
-Sei la sua ragazza… - bisbigliò aggrottando le sopracciglia. Sentii il calore delle lacrime prima sulle ciglia e poi sulle guance e giù sul collo.
- Scusa, non volevo…
- Non fa niente. – lo interruppi passandomi le mani sul viso nel tentativo di asciugarlo. Riuscii solo a piangere di più. Ettore aspettò in silenzio, sopportando i miei singhiozzi. Quando mi calmai, chiese:- Ti volevi buttare a causa sua?
Fissai il vuoto, ricordai il vento che mi aveva sfiorata sul viadotto e i piedi pronti a lasciare il cemento. Pronti a saltare verso il nulla. E per cosa? Avevo fermato uno sconosciuto senza pensarci due volte, ma se non ci fosse stato Ettore io sarei morta. Io sarei stata debole, una nullità. Io stavo per suicidarmi a causa di un ragazzo e avevo tutta la vita davanti. Ripensandoci, mi resi conto di quanto assurdo fosse quel pensiero. Davvero mi ero quasi tolta la vita per Christian e per gli scherzi del suo branco?
-Lo so, non riesco neanche a capire come posso essere stata tanto stupida.
Ettore scoppiò a ridere, ma dovette subito smettere per via della costola rotta. Quando il dolore gli passò, continuò a ridacchiare sotto i baffi. Gli avrei volentieri spaccato la testa in quel momento. Quindi lo presi in contropiede:- E tu ti stavi per suicidare a causa di tuo padre?
Lo guardai negli occhi. I suoi, marroni e scuri, si velarono di lacrime e s’incupirono ancora di più.
-Come ti ho già detto Bet, sei molto perspicace. – rispose flebile. Gli esposi le mie riflessioni, sperando che mi desse più informazioni:- Christian – e mi inceppai sul suo nome – non ne sarebbe capace. Di picchiarti in quel modo intendo. E so che non hai altri nemici oltre al suo branco. – Mi fermai, cercando di ricordare tutto ciò che potevo sul genio della scuola:- So che hai amici solo nel gruppo di matematica avanzata, quindi…
- Quasi che mi conosci meglio di me stesso. – bisbigliò.
Aspettai ancora.
-Mio padre e mio fratello. – disse infine mentre i lividi sui suoi zigomi luccicavano di lacrime.     
 
 

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Capitolo 6
 
Mio padre passò in ospedale qualche ora dopo, prima di andare a lavoro e a metà mattina iniziarono i pellegrinaggi di tutti quei presunti amici di Ettore. Lui li salutava ma non rispondeva a nessuna delle loro domande, oppure faceva finta di addormentarsi e a quel punto ero io a mandarli via.
- Saltano fuori come funghi – fu l’unico commento di Ettore.
Io gli sorrisi e gli porsi il vassoio del pranzo.
- Dovresti tornare a casa, Bet.
- Anche tu.
- Ma io non posso.
- E allora nemmeno io.
- No, è diverso. Tu non vuoi dare spiegazioni ai tuoi o che gli altri scoprano quello che hai fatto. Io se torno posso solo aspettarmi una gamba o un’altra costola spezzata come minimo.
Mi ammutolì e allora mangiammo in silenzio, lui con la schiena appoggiata ai cuscini ed io sulla mia sedia. Dopo pranzo si addormentò immediatamente, forse per via di tutti gli antidolorifici che gli avevano iniettato. Finii le mie patate lesse e tolsi il vassoio dalle ginocchia di Ettore. Sistemai i cuscini e uscii in corridoio in cerca di un’infermiera che potesse dargli un’occhiata mentre tornavo in mensa. Non appena chiusi la porta della camera mi venne incontro un ragazzo biondo: Christian. Affrettai il passo mentre i bicchieri sui vassoi minacciavano di rotolare per terra.
- Dai qua, ci penso io – mi disse un’infermiera completamente vestita di azzurro.
- Bet, ti devo parlare. – Christian mi afferrò per il polso da dietro ed io ne approfittai per girarmi verso di lui e dargli uno schiaffo con l’altra mano.
- Non abbiamo niente da dirci – risposi freddamente, e mi incamminai lungo il corridoio.
- Spiegami almeno che ci facevi da sola, di notte, su un viadotto!
Mi fermai. Decisi di affrontarlo e lo raggiunsi di nuovo.
- È vero, io sono stata una cretina. Volevo buttarmi e sai perché? Per colpa tua e di quegli altri leccapiedi che ti stanno dietro – sibilai puntandogli l’indice contro il petto – Ma questo non ti deve far star male. Sentiti un verme per cosa hai fatto a quel ragazzo! Buttati tu da più di ottanta metri, perché oltre che un vigliacco, sei anche invidioso di Ettore! E non dire di no, ti conosco.
Mi allontanai da quella faccia ripugnante. I suoi occhi riflettevano tutta la sua paura.
- Se ti azzardi a toccarlo di nuovo, giuro su Dio che ti spacco quel bel visino.
 

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Capitolo 7
 
Avevo bisogno di prendere una boccata d’aria. Il dolore stava risalendo ogni mia cellula e percepivo il mio corpo come qualcosa che non mi apparteneva. Oltrepassai il cancello d’entrata e iniziai a camminare verso la pista ciclabile che tagliava i campi intorno alla città. Aumentai il ritmo dei passi. Le scarpe da tennis aggredivano la stradina sconnessa imitando prima i battiti del mio cuore, e poi il tumulto di tutti quei pensieri che mi affollavano la mente, e crescevano, crescevano confondendosi, c’erano voci che gridavano sempre di più…
E mi accorsi che stavo correndo e che ormai ero senza fiato. Mi fermai in mezzo alla pista, ansimando. La città era scomparsa dietro le fronde dei pioppi e dai rami cadeva fluttuando una pioggia di batuffoli candidi. Nel silenzio della campagna chiusi gli occhi.
Regolai il respiro.
Rallentai il battito.
I fiori dei pioppi frusciavano nella calura estiva e mi accarezzavano il viso come tante piccole mani, e allora riuscii a svuotare la mente. Tornai indietro lentamente, godendomi quel nuovo tipo di vuoto che mi invadeva il petto. Era un vuoto… pacifico, placido e leggero.
Ettore dormiva ancora e decisi di lasciargli un biglietto.
 
Vado a casa. Passo a trovarti all’ora di cena. Se hai bisogno di chiamarmi trovi il numero sulla scatola degli antidolorifici.    Bet
 
Trovai solo mio fratello in casa che ripeteva le tabelline con quella sua vocetta acuta. Osservandolo, mi vergognai ancora di più di me stessa. Percorsi il corridoio fino alla mia camera. Non ricordavo di averla rivoltata in quel modo, ma da qualche parte avrei pur dovuto cominciare. Ammucchiai tutti i vestiti sparsi sul pavimento, li spolverai e li riposi nell’armadio. Ringraziai mia madre per aver lasciato la stanza così come l’avevo ridotta io il giorno prima. Raccogliendo le foto stropicciate da terra, mi fermavo ogni volta a ricordare dove le avessi scattate e restavo lì, a fissare quei volti che ora sembravano lontani anni luce. Come se fossi stata separata dal mondo reale per secoli e avessi viaggiato in luoghi immortali.
Era quello il punto, infatti: ero stata sul punto di morire e per questo, ora, mi credevo quasi imortale. Credevo che dopo aver tentato il suicidio sarei stata più forte. In realtà, ero più fragile di un granello di polvere nel vento.
 
 

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Capitolo 8
 
- Raffaele, Ettore. Ettore, Raffaele.
- Ciao – disse timidamente mio fratello porgendogli la mano. Era un bambino paffuto, con un bel po’ di pancetta e una massa disordinata di capelli castani. Non erano né ricci né mossi. È che lui sosteneva di non saper usare un pettine.
Non mi somigliava affatto, eravamo come il giorno e la notte. Ciò che più invidiavo di lui erano i suoi occhi azzurri e limpidi, a differenza dei miei, semplicemente marroni.
 – Hai un nome… strano.
- Anche tu – gli rispose Ettore sorridendo.
- Allora dovremo trovarci dei soprannomi.
Raffy aggrottò le sopracciglia. – Ok – disse guardingo.
- Quindi… in cosa sei bravo?
- Uhm.. puoi iniziare tu?
Ettore si sistemò contro i cuscini e incrociò le braccia esili dietro la testa. – Allora, mi piace la matematica…
- Zero? – propose Raffy.
- Direi di no… Adoro la saga di Harry Potter.
- Felpato? – azzardai.
Lui posò gli occhi su di me. Ero in piedi in fondo al suo letto e mi rivolse un sorrisetto complice che ricambiai.
- No, e in ogni caso avrei preferito Norberto. In effetti adoro anche i draghi – aggiunse.
- Furia-Buia? – disse Raffy. I suoi cartoni preferiti dovevano avere almeno un drago, altrimenti li considerava tristi e banali.
- Troppo… forzuto – rispose Ettore – A quanto pare non sono un tipo da soprannome.
- Raffy, andiamo? – chiese mia madre, affacciata alla porta. Mio fratello si alzò sbuffando , ci salutò e uscì.
- Tu resti qui? – mi chiese.
- Solo un altro po’. Tranquilla, torno a casa prima delle nove – risposi rivolta a mia madre. Lei chiuse piano la porta e per un po’calò il silenzio. I respiri di Ettore si mescolavano al ronzio dei neon.
Lo guardai mentre si stropicciava gli occhi e decisi che quello poteva essere comunque un buon momento:
- Ettore… senti, vorrei solo dirti grazie. Per tutto ciò che hai fatto per me.
Le pupille iniziarono a pizzicarmi mentre lui piegava la testa e mi rivolgeva uno sguardo interrogativo.
- E cosa avrei fatto io?
- Mi hai salvato la vita. Se non ti avessi sentito mi sarei buttata. Quindi tecnicamente mi hai fermata tu…
- Si, ma la stessa cosa vale anche per me, perciò grazie Bet.
- Fammi finire per favore. – Chiusi gli occhi, concentrandomi sulle parole da dire:– Grazie per avermi fatto capire che devo affrontare i miei genitori e gli amici, soprattutto Christian.
Ci fissammo ancora un po’, finché lui, sorridendo stancamente, disse:- Mi piace aiutare gli amici.
Spostai lo sguardo sulle ombre che si allungavano fuori dalla finestra. – Tu non sei né un libro di matematica, né un numero, né un personaggio di Harry Potter. Tu sei Ettore, e il tuo nome dice chi sei, non uno stupido soprannome.
Lo abbracciai per la prima volta e poi tornai a casa.
 

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


Capitolo 9
 
La mattina dopo ritornai a scuola e mi alzai un po’ prima per poter andare a piedi. Avevo molto su cui riflettere, soprattutto su come, la sera prima, avevo affrontato i miei. Mia madre aveva iniziato a piangere e si era chiusa in camera. Mio padre, invece, mi aveva detto che avevano sospettato che anche io mi volessi suicidare. Solo non erano riusciti a crederci. Poi eravamo andati tutti a dormire ma io ne ero certa, anche mio padre stava piangendo. A me restava solo quel vuoto oscuro e profondo nel petto. Quell’immenso buco nero che risucchiava tutte le lacrime che avrei voluto versare per aver rovinato la mia famiglia.
Non mi interessava di avere le occhiaie, di essere senza trucco e di aver lasciato liberi quei capelli lisci e chiari che assomigliavano agli spaghetti, né di indossare una maglietta larga e grigia con un boccino d’oro al centro e la scritta “Mi apro alla chiusura” che lasciava intravedere le lentiggini sulle spalle.
Varcai il cancello della scuola e abbassai lo sguardo. Il vuoto mi aveva resa solo più fredda e non mi permetteva di piangere, ma avrei voluto sotterrarmi. Tutti mi lanciavano occhiate spaventate e piene di preoccupazione, come se pensassero che mi sarei uccisa da un momento all’altro, proprio in mezzo ai corridoi.
Entrai in classe. Il mio banco era stato liberato da tutti i post-it colorati. Dopo il suono della campanella le lezioni proseguirono come sempre. Qualcuno mi chiese come mi sentissi ed io liquidai tutti con cenni e sorrisi. In realtà mi sentivo estranea, quasi fuori posto, ed era come ritornare tra i vivi. Verso mezzogiorno, però, entrò la preside.
- Elisabetta, - esordì cercando di sembrare dolce e comprensiva – potresti seguirmi un momento, per favore?
Mi alzai facendo stridere la sedia sulle piastrelle, mentre i miei compagni iniziavano a mormorare tra loro. La preside mi guidò in un ufficio che non conoscevo e in cui c’era anche un’altra persona. Non avevo mai visto quella donna: aveva uno chignon alto da cui sfuggivano ciocche di capelli biondi tinti e indossava un paio di normali jeans, tacchi alti e una leggera camicetta a fiori.
- Sono la dottoressa Paola D’Angelo – disse sorridendo. Io mi avvicinai sospettosa e le strinsi la mano senza alcun cenno di simpatia. – Sarò la tua psicologa per i prossimi mesi.
Silenzio.
Feci scorrere lo sguardo, confusa, tra le due donne che mi stavano sorridendo falsamente.
– Ho parlato con i tuoi genitori e abbiamo deciso che la presenza di un’esperta potrebbe aiutarti a superare questo brutto momento – spiegò la preside.
Silenzio.
Non volevo una psicologa. Non avevo proprio bisogno di una psicologa.
Come lo sapevo? Non avevo alcuna intenzione di ritentare il suicidio! E poi, pensandoci bene, si trattava solo di una stupida delusione amorosa. Insomma… avevo tutta la vita davanti! No, no e poi no!
L’unica cosa di cui avevo bisogno in quel momento era qualcuno che mi capisse e che mi avrebbe trattata per quella che ero: una ragazzina rimasta abbagliata da Christian e cieca a tutto ciò che la circondava. Mi serviva qualcuno capace di riportarmi in carreggiata.
Guardai l’orologio sulla parete di fondo. Le lezioni sarebbero finite in non più di mezz’ora.
Uscii senza salutare e iniziai a camminare verso l’ospedale.
 

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


Capitolo 10
 
- Ciao.
- Ciao, Bet! – esclamò Ettore. Vederlo sorridere mentre entravo mi procurò una scossa, come se mi avesse svegliata. Mi lasciai cadere sulla sedia accanto a lui e con le dita cercai la sua mano, stringendola forte.
- Bet, perché non sei a scuola? – mi chiese preoccupato. Le sue sopracciglia scure avevano formato una linea quasi perfetta e la fronte aggrottata conferiva al suo viso ancora chiazzato di viola un’espressione che suggeriva al tempo stesso dolcezza e freddezza d’animo. E sapevo che anche per lui, quest’ultima era scaturita dal rimorso di ciò che aveva fatto.
Lo guardai negli occhi per un po’ e allora cominciai a raccontargli della dottoressa D’Angelo e di quell’idea assurda della psicologa. Ettore non staccò mai il suo sguardo dal mio. C’era un filo che legava i nostri tormenti e le nostre emozioni e per questo riuscivamo a capirci, sia con le parole che con i silenzi.
- Insomma, entro nell’ufficio e mi ritrovo davanti una perfetta sconosciuta che pretende di conoscermi completamente e vuole che io mi sieda davanti a lei e le sbatta in faccia anche i pensieri più personali e profondi! – conclusi.
Ettore mi stava studiando divertito. Mi strinse la mano ancora più forte, se la portò alle labbra e vi posò un lieve bacio. Non potei far altro che sorridere, perché mi ricordava quando mi facevo male da bambina e mio padre mi baciava le ginocchia sbucciate.
La bua non c’è più, è passata.
Ed era proprio ciò che aveva fatto Ettore per me: stava guarendo le mie ferite.
- Stasera verranno i carabinieri – disse piano – e mi faranno delle domande su mio padre…
Aspettai che continuasse e nel frattempo mi sporsi un po’in avanti, come per sentire meglio le sue parole.
- Puoi venire anche tu, Bet? Cioè… vorrei che tu ascoltassi…
Ero commossa dalla sua richiesta. Ero commossa dal fatto che desiderasse condividere i suoi segreti con me e che si fidasse di me.
- Okay – risposi. Non avevo voglia di piangere, ma dentro di me non c’era più tanto vuoto.
Lo abbracciai forte e restammo intrecciati per un po’. Anche quello era un discorso per noi. Era un discorso tra le nostre anime, ed era fatto di sospiri e di lacrime non versate e della luce intermittente del neon che gettava ombre e punti luminosi rendendo la stanza simile a una discoteca silenziosa.
Io ed Ettore ci eravamo salvati a vicenda. E da allora, non avevamo mai smesso di farlo.
 

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


Capitolo 11
 
Prima di tornare all’ospedale quella sera, feci una doccia veloce e mi pettinai per bene. Non so perché, ma i carabinieri mi mettevano soggezione e forse se mi fossi resa presentabile non avrebbero fatto domande o sospettato nulla. Probabilmente era solo la mia timidezza.
Ettore mi venne incontro non appena uscii dall’ascensore. Si spingeva impacciato su una sedia a rotelle. Sembrava una persona diversa, nuova. Era cambiato da quando lo avevo conosciuto. Le occhiaie erano sparite e così i suoi occhi scuri brillavano ancora di più. Aveva fatto la doccia anche lui. Non portava più il pigiama dell’ospedale, ma i pantaloni di una tuta grigia e una maglietta bianca. Lo salutai e gli corsi incontro, facendo tintinnare le chiavi nella borsa a tracolla. Lui mi studiò da capo a piedi.
- Avrei preferito la maglietta con il boccino d’oro, ma così va bene lo stesso. – Fece spallucce e fissò per un po’ le mie ballerine nere, sorridendo con un angolo della bocca.
Mi sporsi un po’ e gli scompigliai le ciocche scure. – La prossima volta metto quella con la faccia di Silente! Aspetta, faccio io. – Spinsi la sedia a rotelle fino alla sua stanza e poi aspettammo in silenzio.
L’espressione di Ettore si incupiva sempre di più ogni minuto che passava. Sembrava molto preoccupato, troppo per alcune domande dei carabinieri. Neanche mi accorsi che stavolta era stato lui a cercare la mia mano e a stringerla forte. Poi Ettore spinse la sedia a rotelle di fronte a me. Improvvisamente sembrava più calmo.
- Sono nato il 10 ottobre 1995 in questo ospedale – mormorò fissando il vuoto. – Rimasi in incubatrice due settimane. Ero piuttosto gracile anche allora – disse. – La mia prima parola è stata “giù”, perché quell’anno si era trasferita da noi mia cugina Giulia. Con Marco, mio fratello, ci torturavamo fin da piccoli e lui, quando avevo tre anni, mi fece uno sgambetto epico! – Sorrise ancora, poi piegò la testa è scoprì una cicatrice orizzontale sulla nuca. – Adoravo la scuola. Mi piaceva, e soprattutto ero soddisfatto dei risultati. – Alzò lo sguardo su di me e mi fissò intensamente. – Leggevo solo classici. I miei preferiti erano quelli di Salgari. Sandokan! Volevo viaggiare, girare il mondo…
Silenzio.
- Mia madre è morta quattro anni fa. E ci è crollato tutto addosso. – Sorrise. – Abbiamo venduto casa e ci siamo trasferiti in periferia. E mio padre ha iniziato a bere e ha perso il lavoro. Mio fratello e io ci siamo trovati soli. Lavoravamo nei week-end, poi anche lui non resse più.
Ho iniziato a odiare tutto e tutti. – Gli sfuggì un singhiozzo. – Mi sono impegnato al massimo. Poi torno a casa con una borsa di studio in Medicina e mio padre la strappa e mi picchia ancora più forte delle sere prima. 
Le sue lacrime erano silenziose, come le mie.
- Il giorno dopo esco, decido di andarmene una volta per tutte con le foto di mia madre e i miei risparmi. Ho incontrato Christian, e lui ha sputato sulle foto e… mi ha ucciso… - sussurrò distrutto. – E mi dispiace, io non volevo! Non volevo buttarmi! – continuò scuotendo i capelli scuri bagnati di lacrime.
Mi inginocchiai accanto alla sedia a rotelle e lo strinsi forte a me. Lui mise le mani sulle mie braccia e piangemmo a lungo, ignorando tutto ciò che ci circondava. In Silenzio.
Ettore mi aveva regalato una parte di sé, il suo passato. E aveva voluto dirmelo in faccia, mostrarmi tutte le sue fragilità. Aveva voluto fidarsi di me.
Quando due carabinieri in uniforme apparvero sulla porta ci staccammo piano, sudati e scompigliati. Guardai Ettore. Lui mi sorrise commosso e mi portò una ciocca bionda dietro l’orecchio. Capii che mi stava salutando, che voleva superare questa cosa da solo.
Lo baciai lievemente sulla guancia umida, incurante dei due uomini che ci stavano guardando, e me ne andai.
 
 
 
Pardon,  scusate tanto se il capitolo è arrivato un po’ in ritardo ma questo Carnevale mi sta proprio stressando!!! Tra i preparativi per il costume, lo studio e i libri (Il Lato Positivo, ve lo consiglio caldamente ;) ho davvero i minuti contati!
A presto,
TheRevelInk
 

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


Capitolo 12
 
Ettore venne dimesso la settimana dopo, giusto in tempo per gli ultimi giorni di scuola. Non erano ancora le setta e mezza quando spinse la sedia a rotelle fuori dall’ospedale ed io ero lì ad aspettarlo.
- Bet!
- Giorno.
Alzò un sopracciglio, osservando divertito la mia euforia. – Come mai sei così agitata?
Sinceramente, ci restai un po’ male. Era vero che nell’ultima settimana avevo ritrovato me stessa, la Bet che sorrideva e si meravigliava di tutto ciò che aveva intorno, ma…
- E’ il nostro, soprattutto il tuo, ultimo giorno di liceo! – dissi fremendo di gioia.
Ettore mi fissò per qualche istante, poi rispose:- Mi spingi tu?
Gli presi la testa fra le mani e gli baciai la fronte. – Grazie! – mormorai – Sarà il più bel giorno di scuola di sempre.
Finalmente mi sentivo viva. Io ed Ettore eravamo tornati a vivere.
Mi destreggiai con la sua sedia a rotelle nel traffico mattutino e lungo i viali brulicanti. Avevo la sensazione di essere in uno di quei film a lieto fine in cui la musica è suonata da una chitarra: allegra, vibrante e soprattutto viva. Poi un pensiero mi fulminò.
- Dove andrai a vivere? – chiesi a Ettore. Rallentai il passo e lentamente attraversai la piazza.
- Non lo so – rispose facendo spallucce – Ovvio, non torno a casa. Potrei sentire un mio amico. Se non ricordo male condivideva un appartamento con un ragazzo di Milano. Altre idee? – esclamò alzando quella massa di capelli mossi verso il mio viso. Eravamo tornati un po’ bambini, pensai.
- Perché non vieni da me?
- Da te?!
- Cioè, non proprio da me! – esclamai fermando bruscamente la sedia a rotelle – Uno degli appartamenti del mio palazzo, l’ultimo. Voglio dire, possiamo affittarlo…
- Non ho abbastanza soldi, Bet.
- Il sessanta per cento lo pago io!
- Non puoi, Bet!
- Si, visto che starò a romperti le scatole tutti i pomeriggi. – Lo guardai speranzosa. E sì, anche i suoi occhi brillavano.
- Okay… - sospirò sconfitto.
Gli abbracciai le spalle e spinsi la sua sedia a rotelle oltre il cancello d’entrata della scuola.
Oggi non avevo più paura di tutti quegli sguardi.
 
 

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


Capitolo 13
 
Accompagnai Ettore fino alla porta della sua classe e lo salutai, augurandogli buona fortuna. Già nei corridoi avevamo sentito i mormorii e i commenti mordaci degli altri. Avevamo anche incontrato Christian e il suo branco: Ettore si era voltato dall’altra parte, ma io avevo fulminato il mio ex come a ricordargli la nostra ultima conversazione, se la si poteva chiamare così.
Quando la campanella sancì la fine dell’anno scolastico mi catapultai fuori dalla classe e aspettai Ettore sul marciapiede di fronte al cancello d’entrata. Lui uscì spingendo la sedia a rotelle come se lo stesse inseguendo il cane a tre teste di Harry Potter. I ricci castani erano spinti indietro a causa della corsa e scoprivano i suoi occhi, febbrili e lucidi per la felicità. Quando fu di fronte a me, mi porse un foglio perfettamente teso e pulito.
- Avanti, leggi! – disse con la voce incrinata dall’emozione.
Era la sua borsa di studio, Oncologia.
Lessi quella parola e lo guardai negli occhi. Era come se in quel momento avvertissimo tutti gli altri suoni che ci circondavano come un’eco distorta.
- Sai, Bet… - sussurrò Ettore – questo è il sorriso più bello che io abbia mai visto sul tuo volto. – Mi sorrise con dolcezza. – Che hai?
- Vederti felice è… - scossi la testa piano – è meraviglioso.
- Ed è merito tuo, Bet.
- E’ merito di entrambi.
- Senza di te non ce l’avrei mai fatta. Non mi sarei mai rialzato senza una mano tesa ad aiutarmi. Grazie, per esserci stata quando brancolavo nel buio.
- Mi piace aiutare gli amici – risposi facendo spallucce.
Ettore rimase a guardarmi per un po’ finché io non iniziai a spingere la sua sedia a rotelle lungo il viale.
- Vorrei ricordarti – dissi ridendo – che d’ora in poi starai da me. Quindi… preparati!
 

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***


Capitolo 14
 
Il proprietario dell’appartamento dell’ultimo piano aveva lasciato le chiavi sotto lo zerbino.
- Proprio della serie “anti sgamo” – commentò Ettore.
Dopo tre giri e un calcio alla porta entrammo in una stanza ampia con i mobili coperti da teli bianchi che sembravano fantasmi. Ettore varcò la soglia e si aggirò per un po’ nelle stanze, mentre io aprivo le serrande lasciando entrare la luce e il calore ad illuminare ogni angolo polveroso. Nel complesso però, era un appartamento ben tenuto, non troppo sporco (né eccessivamente pulito comunque) e c’era solo una macchia sulla parete, dietro a un vecchio ventilatore. Oltre a due camere, un bagno e una cucina minuscola c’erano le strette scale a chiocciola che portavano direttamente alla terrazza sul tetto.
Trovai Ettore nella camera matrimoniale. Era spoglia, tranne che per un grande letto al centro, una cassapanca sotto il davanzale della finestra e una cassettiera di legno. Sopra di essa c’erano ancora un posacenere e delle foto incorniciate. Ettore ne stava esaminando una in cui era ritratta una donna sorridente sulla quarantina. Mi assomigliava moltissimo: avevamo gli stessi capelli biondi, la stessa fronte alta e lo stesso mento sottile.
- Penso che dovremmo lasciarla qui – disse Ettore riponendo la cornice al suo posto – E poi sembri tu in versione anni Cinquanta – aggiunse piegando un angolo della bocca.
- Bet! È pronto! – gridò mia madre due piani sotto di noi, ma la sua voce era amplificata dalla tromba delle scale. Corsi alla porta dell’appartamento e chiamai mio padre, che mi aiutò con la sedia a Rotelle di Ettore.
A tavola parlammo di matematica, di suicidi di giovani ragazze e ragazze, di politica, di Harry Potter e di draghi. Raffy si esibì con gli spaghetti, Ettore se ne uscì dicendo che avevo un piede piatto.
- Solo uno – aggiunse prendendo un altro cucchiaio di gelato – Il destro.
Controllai sotto il tavolo e lo fissai divertita:- Devo ancora capire come fai!
- Non so, ma da seduto ti accorgi di tante cose. Delle cicche per terra, di quanto sia grande l’universo, dei tuoi piedi anche, e soprattutto della vita che non avevi notato prima. Ora vedo meglio le formiche per esempio – disse gesticolando con il cucchiaio.
- Beh… anche stando in piedi impari a conoscere tante cose nuove e meravigliose – risposi riflettendo – Per esempio vedo te.
I miei non parlavano. C’eravamo solo io e il ragazzo sulla sedia a rotelle che giocavamo a fare i filosofi con le nostre nuove emozioni.
 

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Capitolo 15
*** Capitolo 15 ***


Capitolo 15
 
Dopo un’altra settimana Ettore era di nuovo in piedi. Per modo di dire comunque: restava quasi tutto il giorno chiuso in casa a studiare per gli esami ed io rimanevo seduta al tavolo rotondo del soggiorno di fronte a lui. Osservavo soprattutto i suoi movimenti, non più impacciati e goffi, ma fluidi e pieni di vitalità. Era diventato sicuro di sé: l’autostima che aveva acquisito, ora lo spingeva non solo a dare il massimo ma anche a tirare fuori il meglio, il lato migliore di quella sua personalità così complessa e piena di ombre.
Dopo cena scendevo al suo appartamento e cercavamo di arredare le stanze come meglio potevamo.
Quella sera arrivai con due barattoli di vernice in mano e un paio di tele. Suonai il campanello con il naso e quando Ettore venne ad aprire, gli franai addosso. Dopo avermi rimessa in piedi, scoppiò a ridere e mi prese dalle mani la vernice con un’espressione tra il divertito e il dubbioso.
Aveva tappezzato di plastica, giornali e nastro adesivo tutta la sua stanza, anche se questa aveva le dimensioni di un ripostiglio in pratica. Entrai appoggiando le tele con cautela e rimasi a fissare quelle pareti così vuote.
- Ho pensato che un po’ di colore non farebbe male – sentenziò Ettore. La porta e circa altri dieci barattoli di vernice diversa incorniciavano il suo corpo esile. Spalancai la bocca, poi sventolai il pennello davanti a me.
- Allora, via ai lavori! – dissi con aria di sfida.
- Vediamo che sai fare… - insinuò maliziosamente.
- Ma io prendo questa! – replicai indicando la parete contro cui era appoggiata la testiera del letto.
Afferrai il pennello e lo intinsi in un barattolo a caso, poi restai ad osservare tutto quel bianco.
Era come se il mio corpo agisse da solo. Avevo la sensazione che la mia mente fosse vuota. Gli occhi non vedevano le linee e le macchie di colore: erano sfocate, qualcosa che solo la parte più profonda e tormentata di me stava tirando fuori, come se, per una volta, volesse emergere da tutta quella tranquillità in cui credevo di averla riposta.
Era come un’onda: cresceva e cresceva sempre di più, finché la spiaggia non la spezzava improvvisamente. Non mi accorsi di quanto stessi dipingendo febbrilmente fino a che, da qualche parte nella mia mente, mi resi conto che avevo ricoperto la parete di strati e strati di vernice grigia, verde e rossa. Mi allontanai esausta, lasciando gocciolare il pennello. 
Avevo dipinto degli alberi.
Una lunga linea grigia.
Il sole che tramontava.
I girasoli.
Avevo dipinto ciò che avevo visto dal viadotto.
Quando mi riscossi, mi voltai verso Ettore che stava fissando quelle immagini a bocca aperta. Scosse piano le ciocche macchiate di vernice bianca e mormorò:- Non sapevo fossi così brava…
- Non… - trattenni il fiato – Non sei… arrabbiato?
Sorrise. – No. – Piegò la testa, come se stesse studiando la nuova parete e poi aggiunse:- Vieni, guarda.
Lasciò cadere il pennello su un giornale e mi prese la mano. – Sali – disse indicandomi il letto. Ancora attonita, mi ritrovai in piedi sul materasso. Eravamo fianco a fianco, a un palmo dalla parete.
Ettore sollevò le nostre mani intrecciate e le posò sulla vernice ancora fresca. Lo fissai in cerca di una spiegazione e lui chiuse gli occhi.
- Sono su questo viadotto – sussurrò – Vedo gli alberi e i fiori a più di cinquanta metri sotto di me. Vedo il rosso del sole, ogni sua sfumatura tra le nuvole. Vedo i pilastri che reggono il viadotto, vedo il cemento nascondersi tra le foglie. Giù, più in basso. Vedo il grano ondeggiare, come tante piccole creature che liberano al vento le loro trecce bionde.
Ettore strinse le palpebre per un momento e poi le aprì. Staccò la sua mano dalla mia e iniziò a tracciare un volto nella vernice con le dita.
- Ora sento una voce. E penso sia un Angelo, penso di essermi già buttato e che tutto sia finito. Sono felice. E poi mi accorgo che in realtà c’è una ragazza disperata che mi chiama, che grida con quanto fiato ha in gola. Mi chiede come mi chiamo. Ed io le dico quel nome ridicolo che pronunciato da lei sembra molto meglio. Ora la voglio conoscere e capisco che mi ha appena salvato la vita.
Le dita di Ettore si allontanarono e si posarono sulle mie guance. La vernice non mi dava fastidio.
- Ho imparato a conoscere colei che mi ha visto e che ha voluto ascoltarmi – bisbigliò avvicinando il suo viso al mio – Ma soprattutto, ho imparato ad amarla.
E mi baciò piano, con quella sua timidezza che mi piaceva tanto.
E in quel momento, mentre Ettore mi stringeva forte a sé, capii che anche io lo amavo.
 
 

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