Quei Piccoli Incidenti

di teabox
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I Casi Eclatanti & Gente Bizzarra ***
Capitolo 2: *** I Capricci delle Signore & Consigli per Educande ***
Capitolo 3: *** Modi Sbrigativi & Blu Elettrico ***
Capitolo 4: *** Una Ragazza & Una Coppia Felice ***
Capitolo 5: *** Una Sciocca & Degli Aspetti ***
Capitolo 6: *** Da Molti Mesi & La Curiosità ***



Capitolo 1
*** I Casi Eclatanti & Gente Bizzarra ***


Nota: quello che segue è un tentativo che ho iniziato mesi fa di adattare il racconto “L’avventura dei Faggi Rossi”, da “Lxe avventure di Sherlock Holmes” di Doyle. Ve lo dico subito, è una cosa strana quella che ne è risultata. E anche se non è esclusivamente una sherlolly, c’è anche quello. Così lo sapete e potete decidere se vi va di leggerla oppure no.

Il titolo della storia e quelli dei singoli capitoli sono presi da frasi del racconto originale. Quindi, qui, di mio c’è solo un sacco di casino. 

Al solito, grazie a chi si ferma a leggere e sperando di non aver fatto troppi danni, buona lettura (spero).

(Oh. E ho una piccola, piccola, piccola sorpresa in mente per la fine della storia!) 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Violet Hunter aveva più di vent’anni ma meno di trenta, capelli di un colore indeciso tra il marrone e il rosso, una nebulosa di lentiggini sul viso e nemmeno la più pallida idea di quello a cui stava andando incontro, il giorno in cui mise piede nel 221b di Baker Street.

 

Era stata Mrs Turner dell’appartamento 3b a presentarle Mrs Hudson e a suggerire l’idea. 

«Per avere un secondo parere, Violet», aveva detto. 

Mrs Hudson aveva annuito sorridendo. «Fallo, cara», aveva detto. «A Sherlock non darà nessun fastidio darti la sua opinione.»

 

Saltò fuori, invece, che Mrs Hudson si sbagliava. Perché saltò fuori, invece, che a Sherlock Holmes dava fastidio. Molto fastidio.

 

*

 

Contrariamente all’opinione comunemente diffusa, Molly Hooper non regolava le sue giornate intorno a Sherlock e alle sue necessità. Soprattutto perché, anche avesse voluto, sarebbe stato impossibile. Le sue richieste erano strane, irregolari e spesso del tutto imprevedibili. Quindi, quando necessario, Molly si accontentava di avere obitorio, laboratorio e - a volte - vita temporaneamente invasi da Sherlock e il seguito di improbabilità che, generalmente, lo accompagnava.

«Molly», annunciò Sherlock entrando nel laboratorio, «se tu fossi un portafoglio, dove ti nasconderesti?»

Molly lo guardò per più di un attimo confusa, prima di replicare. «Che tipo di portafoglio?»

Che sarebbe potuto apparire come un modo quanto meno strano di rispondere alla domanda, ma Sherlock sembrò reputarlo perfettamente accettabile.

«Medie dimensioni, da uomo, di pelle», precisò lui.

Molly ci pensò, ignorando volutamente l’assurdità della domanda. «Nel cesto dei vestiti sporchi?»

Sherlock scartò la risposta con un cenno della mano.

«E’ per un caso?», chiese allora lei, tentando di tornare al suo lavoro.

«Sì», rispose lui sedendosi a qualche sgabello di distanza da lei.

«E sei venuto qui per questo?», domandò Molly confusa.

«A dire il vero, no. Speravo di trovare il fegato di un alcolizzato - è Londra, del resto, non dovrebbe essere così difficile - e sto evitando Mrs Hudson.»

Molly tornò a guardare Sherlock. «Cosa hai fatto?»

Lui le lanciò un’occhiata indispettita. «Perché pensi - perché tutti pensano che sia colpa mia?»

Molly lo guardò con sufficienza. 

«Non è colpa mia, Molly Hooper.» Agitò una mano nell’aria con fare nervoso. «Mrs Hudson vuole che accetti un caso. Un non-caso.»

«Ovvero?»

Sherlock sospirò raccogliendo una capsula di Petri vuota. «Una ragazza che non dovrebbe accettare un lavoro, ma che ha già deciso di farlo e non vuole sentirsi dire di non farlo.» Lanciò la capsula in aria, per riprenderla al volo. «Il lavoro prevede che si prenda cura di un bambino di otto anni. La pagherebbero diecimila sterline all’anno - che francamente è una cifra ridicolmente alta per la mansione da svolgere - ma il datore di lavoro ha imposto due condizioni. Che la ragazza si tagli i capelli e che indossi, quando richiesto, un vestito particolare.»

Molly accigliò la fronte. «Oh, certo. Suona assolutamente normale. Hai provato a farle cambiare idea?»

Sherlock lanciò di nuovo la capsula in aria. «No.»

«Come no?»

«Molly Hooper», disse Sherlock secco, «non sono qui per discutere casi che non mi interessano. Sono qui per un fegato.»

Molly incrociò le braccia. «Mai stato curioso di vedere il tuo?»

Sherlock raddrizzò le spalle e la guardò infastidito. «Vedo che la mia presenza qui non è gradita.»

«E non lo sarà», rispose Molly tornando al suo lavoro, «finché non deciderai di fare qualcosa per quella ragazza.»

Sherlock provò a lanciarle un’occhiata fredda, ma Molly lo stava ignorando - e lo stava  anche facendo particolarmente bene. Alzò il bavero del cappotto, allora, e lasciò il laboratorio senza una parola di più. 

Irragionevoli, pensò stizzito. Sembrava che quel giorno tutte le donne che in qualche modo facevano parte della sua vita fossero particolarmente ed assolutamente irragionevoli.

 

*

 

Violet Hunter forse aveva sbagliato. 

E lasciava quel “forse” lì a protezione perché, come tutte le ragazze intelligenti e (generalmente) di buon senso, non apprezzava quando qualcuno - perfino se stessa - le faceva notare di avere torto.

Tuttavia, Violet Hunter forse aveva sbagliato. 

Ad accettare il lavoro. A non ascoltare le remore di Mrs Turner del 3b. Ad ignorare gli indugi di Mrs Hudson di Baker Street.

Però, quanto meno, in tutto questo c’era un aspetto che la faceva sentire un po’ meglio. Apparentemente non era stata l’unica ad essersi sbagliata (senza forse). Apparentemente anche Sherlock Holmes si era sbagliato.

E l’aveva convocata a Baker Street per ridiscutere del caso. 

O almeno questo era quello che Mrs Turner del 3b aveva riferito che Mrs Hudson aveva detto che Sherlock Holmes aveva richiesto. 

Violet Hunter - a parte i momentanei errori di giudizio - non era una sciocca. Per quello si preoccupò.

Il primo incontro non era andato bene. Cinque minuti riassumibili in lei che aveva messo piede nell’appartamento e lui che le aveva detto quello che lei voleva sentirsi dire (“Ha già deciso di accettare la posizione, Miss Hunter. Quindi perché è qui è un mistero su cui non voglio sprecare il mio tempo né il suo”.)

Ma ora la situazione era cambiata. Ora c’era davvero un caso, anche agli occhi inesperti di Violet. E se anche solo un terzo di quello che aveva letto su Sherlock Holmes era vero, allora c’erano due cose in cui Violet sperava caldamente. Uno: che quel secondo incontro andasse meglio del primo. E due: che lei ne uscisse ancora viva, alla fine, da quella storia.

 

 

 


Sherlock, spalle dritte e mani dietro la schiena, osservava Baker Street dall’alto del suo appartamento. Ignorando con tutte le fibre del suo corpo il sorrisetto divertito sulle labbra di John Watson. E cercando, nel mentre, anche di ignorare quello che gli aveva detto. («Sappiamo entrambi perché stai facendo questo.»)

Indurì un po’ di più la stretta delle mani. John Watson era nuovamente in errore e la sua deduzione era quanto meno incompleta, come Sherlock non aveva mancato di fargli notare.

Non aveva richiesto di incontrare di nuovo Violet Hunter perché Molly Hooper era arrabbiata con lui (questa era l’assurda teoria di John Watson). Lo faceva perché aveva bisogno dell’accesso indiscriminato al laboratorio e all’obitorio del Barts e, francamente, era quasi impossibile senza l’intercessione di Molly. 

(«Come hai detto tu, quasi impossibile, Sherlock. Non impossibile del tutto», aveva commentato John prima di rifugiarsi dietro a quel sorrisetto divertito).

E Sherlock avrebbe potuto aggiungere “Mrs Hudson mi sta rendendo la vita un’inferno”, o “mi sto annoiando”, od un semplice ma efficace “fatti gli affari tuoi, John”. Invece non aveva controbattuto nulla. Aveva raccolto le mani dietro la schiena, si era avvicinato alla finestra e aveva aspettato in silenzio il ritorno di Violet Hunter.

 

*

 

La prima volta che era entrata nell’appartamento di Sherlock Holmes, Violet non aveva avuto modo né tempo per ammirarne l’incredibile assurdità. Quel posto era assolutamente caotico e pieno di cose - perché, davvero, non aveva la più pallida idea di cosa alcuni oggetti fossero - e per più di un attimo i suoi occhi non seppero dove posarsi.

John Watson le fece cenno di accomodarsi in una seggiola posizionata tra due poltrone diametralmente differenti e Violet non si stupì di vedere Sherlock Holmes accomodarsi in quella moderna delle due, tutta pelle e metallo e angoli freddi. John affondò, invece, in una poltrona imbottita, dall’aria usata e confortevole.

Violet accennò un sorriso teso, chiudendo le mani sulle ginocchia. «Beh, sì, eccomi qui. Di nuovo», disse con un trillo nervoso nella voce e una breve risata. 

John le sorrise. «Giusto. Vorresti riassumere i fatti un’altra volta?»

Violet socchiuse la bocca per parlare, ma Sherlock lo fece prima di lei.

«Non c’è ragione di farlo, John. Quello che è davvero interessante non è quello che già sappiamo, ma quello che è cambiato.»

John aggrottò la fronte e spostò lo sguardo da Sherlock a Violet. Lei ricambiò con un’espressione appena stupita.

«Lavora per Rucastle da una settimana», disse Sherlock lentamente.

Violet accennò un sì. 

«E come le sta piacendo l’esperienza?», domandò allora lui con l’accenno di un sorriso divertito.

Violet si prese un attimo, lasciando scorrere di nuovo lo sguardo lungo l’appartamento. «Ecco. Uno penserebbe che questo posto è strano, Mr Holmes. Ma quella casa…»

Sherlock alzò un sopracciglio, aspettando.

«Quella casa è sinistra», concluse Violet in un sussurro.

John si lasciò sfuggire una piccola risata incredula. «Cosa mai…?»

Sherlock alzò una mano e lasciò la poltrona, allacciandosi la giacca e spostandosi verso la finestra. «Sinistra.»

«Mr Holmes», riprese Violet con un tono di voce più sicuro. «Io in vita mia non le ho mai viste diecimila sterline tutte insieme. Ma, davvero, non credo che anche quella cifra sia abbastanza alta per giustificare lo stare lì.»

Sherlock indugiò in qualche istante di silenzio. «Temo proprio, Miss Hunter, che invece sarò costretto a chiederle di rimanere per un altro po’, se vuole che vada in fondo a questa storia.»

Violet, senza rendersene davvero conto, aveva spostato le mani dalle ginocchia e le aveva intrecciate in grembo. Abbassò lo sguardo e notò come sembrava che stessero pregando. Che lei stesse pregando. Fece un respiro profondo. «O…kay?»

E Sherlock sorrise.

 

*

 

Diversamente da quanto generalmente assunto, Sherlock era il tipo di persona che apprezzava il sentimentalismo legato a certi oggetti e, in egual misura, apprezzava riconoscerlo anche in altre persone. 

Ora, le scarpe di Violet Hunter - un paio di Converse vecchie almeno di dieci anni - di sicuro indicavano un certo valore sentimentale, ma segnalavano anche una piuttosto grave mancanza di soldi. Non gli era nemmeno sfuggito, però, che nonostante gli abiti della ragazza fossero di qualità mediocre, erano comunque ordinati e trattati con cura. 

Era ovvio che Miss Hunter avesse accettato il lavoro perché, per necessità, doveva accettarlo. Ma, come John gli aveva fatto una volta giustamente notare, solo una persona stupida accetterebbe un lavoro potenzialmente pericoloso in cambio di una ricompensa, in denaro o di altra natura.

In realtà, le parole esatte di John erano state: “Solo un idiota come te, Sherlock, accetterebbe di farsi quasi uccidere per provare di avere ragione e avere un orgasmo mentale.”

Ma tant’è. Il nocciolo era lo stesso.

E il nocciolo era, anche, che Violet Hunter era una stupida. Ma del genere di John, di Lestrade, di Mrs Hudson e di Molly. In altre parole, del tipo che Sherlock apprezzava.

Fu per quello, allora, che decise di accettare il caso. 

E sì, certo, anche per Molly Hooper.

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Capitolo 2
*** I Capricci delle Signore & Consigli per Educande ***


 

«Sinistra?»

«Esattamente», confermò Sherlock ispezionando il tallone di una donna deceduta. 

«E’ un termine abbastanza forte per una casa», fece presente Molly.

Sherlock estrasse la lente d’ingrandimento e osservò meglio due piccole punture quasi invisibili. «E’ come l’ha descritta.»

Era stato finalmente riammesso al laboratorio e all’obitorio, anche se il suo ritorno non era andato esattamente come l’aveva previsto. L’idea iniziale prevedeva presentarsi all’ospedale come se niente fosse, aspettare le proteste di Molly e rivelare solo allora di aver accettato il caso di Violet Hunter.

In realtà, quando era entrato nel laboratorio, Molly aveva a mala pena alzato gli occhi su di lui e lo aveva accolto come se lo avesse visto solo il giorno prima, e non da una settimana. Sherlock, risentito, si era seduto accanto a lei, occupando il computer, e aveva aspettato. Molly aveva continuato il gioco del silenzio. 

«Ho accettato il caso», aveva allora annunciato. 

Molly aveva nascosto - malamente - un sorriso. «Lo so.»

Sherlock aveva alzato un sopracciglio e Molly si era finalmente degnata di guardarlo. «John mi ha mandato un messaggio. Ha detto che potevo porre fine al tuo esilio», disse.

E lo disse con tono pericolosamente divertito che Sherlock non apprezzò in nessun modo. Ma prima di poter replicare, Molly riprese a parlare.

«C’è un cadavere con una storia davvero interessante in obitorio. Vuoi dare un’occhiata?»

Ecco. Quella era la ragione per cui Molly Hooper era necessaria nella sua vita. E perché - impossibile non ammetterlo - gli era mancata in quella settimana in castigo.

 

«Ha spiegato cosa volesse dire con “la casa è sinistra”?», chiese Molly osservando Sherlock e quello che stava facendo. Sembrava a tutti gli effetti che stesse annusando il tallone del cadavere. 

Sherlock si mosse attorno al corpo. «Ha detto che il terzo piano della casa è chiuso. In disuso, le hanno detto. Ma apparentemente provengono dei rumori, di tanto in tanto. E’ riuscita a capire da quale lato della casa arrivino e dal giardino ha notato che una delle finestre di quel piano è chiusa. Sbarrata con assi, per la precisione.»

Molly lo guardò esitante. «Topi? O qualche altro animale che è arrivato lassù?»

«Difficilmente», rispose Sherlock. Indicò il cadavere. «Hai detto che è stata trovata morta nel suo letto e che l’appartamento è nel centro di Londra?»

Molly accennò un sì.

Sherlock le rivolse un piccolo sorriso. «Esami tossicologici, Molly. A qualcuno questa donna non piaceva abbastanza da ucciderla con un serpente. I segni del morso sono sul tallone destro. Vipera, probabilmente della famiglia dei crotalini.»

«Oh. Okay», rispose Molly ancora incapace, anche dopo tutto quel tempo, di non stupirsi davanti alla meccanica del cervello di Sherlock.

«Ora», riprese a parlare lui con leggerezza. «Violet ha accettato di fermarsi per un altro po’ nella casa e cercare di ottenere qualche informazione in più. E prima che tu aggiunga qualcosa, no, Miss Hunter non dovrebbe essere in pericolo. Non ancora, per lo meno. Rucastle - il datore di lavoro - sembra una persona tutto sommato affabile e non troppo strana.»

«A parte la richiesta del taglio di capelli», fece presente Molly.

«A parte quello», concesse Sherlock.

«E la storia del vestito», aggiunse Molly.

«E quello», ammise Sherlock.

«E-»

«Molly Hooper», la bloccò Sherlock infastidito. «E’ fin troppo ovvio che ci sono molti elementi strani in questo caso. Non è necessario elencarli tutti, non trovi?»

Molly trattenne un sorriso. «Immagino di no.»

 

*

 

Violet era sempre stata brava con i bambini. Ed era anche una persona responsabile, la maggior parte delle volte.

Quindi, anche in quelle circostanze quanto meno sospette, cercò di non venire meno al suo impegno di tata, che era pur sempre la posizione per cui era stata assunta e per cui veniva pagata.

Ma la verità era che ai Faggi Rossi - il nome che era stato dato secoli prima alla villa in cui si trovava a lavorare - c’era ben poco da fare. Il bambino di cui si doveva prendere cura era per la maggior parte del tempo a scuola, da cui tornava solo nel tardo pomeriggio. Tre volte alla settimana aveva altre attività che lo tenevano occupato fino all’ora di cena e due volte alla settimana passava i pomeriggi e le sere dai nonni.

Detto in altre parole, Violet aveva ben poco da fare come tata e molto tempo libero per pensare per quale ragione i Rucastle l’avessero assunta. 

Certo, la moglie era una creatura fragile e nervosa, che parlava poco e si faceva vedere ancora di meno, preferendo auto-medicarsi con alcol e ansiolitici.

E certo, il marito era sempre occupato con qualcosa, quasi sempre chiuso nel suo studio al secondo piano della casa.

E certo, a parte loro due e Violet, non c’era nessun altro in quella casa in modo permanente. Un cuoco andava e veniva, così come un paio di donne delle pulizie. Qualcuno doveva pur prendersi cura del bambino, quando era da solo.

Eppure. 

Sapeva che c’era qualcosa che non tornava. Sapeva che c’era qualcosa di sbagliato.

E i suoi dubbi si trasformarono in sicurezze un pomeriggio di quella seconda settimana, quando fece la più incredibile delle scoperte.

 


 

 

«Sembra una ragazza sveglia», commentò Lestrade. 

«Troppo giovane per te», replicò distrattamente Sherlock.

Lestrade protestò imbarazzato. «Non stavo di certo pensando…»

Sherlock alzò un sopracciglio in risposta. «Comunque», disse chiudendo la parentesi, «il fatto è che Miss Hunter non ha trovato qualcosa di davvero incredibile, ma piuttosto di inusuale.»

Greg, seduto nella poltrona di John, prese quello che Sherlock gli stava passando. «Capelli?»

«Esatto.»

«E cosa vuoi che faccia?»

Sherlock si alzò dalla poltrona camminando lentamente per la stanza. «Portarli da Molly Hooper e chiederle di analizzarli.»

Greg lo guardò stupito. «E non puoi farlo tu?»

Una risata sarcastica arrivò dalla cucina e John li raggiunse con due tazze di tè. «Potevamo», disse porgendone una a Lestrade, «ma non possiamo più. Di nuovo.»

Greg rivolse un’occhiata confusa a John, prima di spostare lo sguardo su Sherlock. «Cosa hai fatto questa volta?»

«Assolutamente nulla», replicò secco Sherlock. 

John esclamò un “ah!” pieno di sarcasmo, prima di rivolgersi a Greg. «L’ultima volta che siamo passati dal Barts abbiamo incrociato Tom. E Sherlock ha pensato bene di commentare la cosa con Molly.»

«Non ho detto niente che non fosse vero», si difese Sherlock.

«Le hai detto-»

«Ad ogni modo», s’intromise Sherlock con un tono di voce troppo allegro, «il punto è che abbiamo bisogno della tua assistenza, Grant.»

«Greg», lo corresse Lestrade appena esasperato. «E non potresti semplicemente chiederle scusa?»

Un altro “ah!” di John bloccò la risposta di Sherlock. «Potrebbe. Certo che potrebbe. Ma quest’idiota pensa di non avere niente di cui scusarsi.»

«Perché non ho niente di cui scusarmi», rispose Sherlock stizzito. «Ora, possiamo gentilmente passare alle cose davvero importanti? Puoi far analizzare a Molly quei capelli?»

Greg guardò la busta e sospirò. «Certo che posso.» 

Sherlock sorrise. «Bene. Grazie, Lestrade. Finalmente qualcuno che fa qualcosa di utile.»

John alzò gli occhi al cielo.

 

*

 

Molly avrebbe volentieri detto a Greg dove esattamente Sherlock avrebbe potuto infilarsi quei campioni di capelli, ma Greg aveva insistito che il caso era davvero importante e quelle analisi davvero necessarie.

Quindi Molly aveva ceduto.

Era stato sulla soglia del laboratorio che Greg si era fermato e, con un sospiro, aveva posto la domanda. «Sherlock verrà mai riammesso qui? Perché sarei un detective, Molly, ma Sherlock sembra considerarmi un fattorino.»

Molly, nonostante tutto, si sentì dispiaciuta per Lestrade. «Presto», promise con una punta di esasperazione.

 

*

 

«I risultati dei test dovrebbero essere pronti a breve», disse Sherlock a Violet, di nuovo seduta nella seggiola tra le due poltrone dell’appartamento. Da fuori filtrava il rumore di una Londra che si preparava per un venerdì sera di uscite e bevute. «Ho mandato a Molly il tuo campione di capelli insieme a quello che hai trovato nella villa per il confronto e-»

«Chi è Molly?», domandò Violet accettando la birra che John le stava offrendo.

«La sua patologa», rispose John con un’alzata di spalle.

«Non è la mia patologa», precisò Sherlock.

Violet lo guardò un attimo, prima di ignorarlo e rivolgersi invece a John. «La sua patologa? Nel senso che puoi avere una patologa?»

Sherlock alzò gli occhi al cielo. «Ho detto che no-»

«Beh», s’intromise John parlando sopra Sherlock. «Non è letteralmente la sua patologa, ma quasi. Anche se ultimamente è meno “sua” del solito.»

«Oh, è per questo che è così», disse Violet annuendo.

«Se solo la piantaste-»

«Sì e no», rispose John sedendosi sulla sua poltrona. «E’ sempre così, ma ultimamente di più. E’ stato bandito dalla sua presenza.»

«Adesso basta. Molly Hooper non è la mia patologa», s’intromise secco Sherlock guardando Violet, prima di girarsi verso John. «Ed essere bandito dalla sua presenza non influenza il mio umore in nessuna maniera.»

John e Violet nascosero i loro sorrisi prendendo un sorso di birra.

«Ora, come dicevo prima di essere interrotto», riprese a parlare Sherlock imponendosi un tono di voce calmo. «I campioni sono in laboratorio e tra un paio di giorni dovremmo ricevere i risultati. Non credo che scopriremo più di quello che già sospettiamo, ma le analisi potrebbero comunque portare qualche informazione significativa. Il fatto che assomiglino così tanto ai tuoi capelli è interessante, ma ho bisogno di più.»

 

Violet ripensò a quando aveva trovato per caso quella treccia di capelli in una delle camere dei Faggi Rossi e al brivido che le aveva dato la scoperta. La reazione era stata di certo stupida, ma quando aveva li aveva visti aveva pensato immediatamente che si fosse trattato dei suoi capelli. Ovvio, poi, che non aveva impiegato molto a convincersi che anche se della stessa strana sfumatura tra il castano e il rosso, quella treccia non era sua. Lei i suoi capelli li aveva lasciati sul pavimento di un parrucchiere nell’East End, non amorevolmente raccolti con un fiocco verde nel fondo di un cassetto di un armadio in una casa in cui non era mai stata prima. 

Ma la cosa era sembrata così strana che non aveva potuto fare a meno di prenderne una ciocca e portarla da Sherlock, sperando che apprezzasse.

 

«Bene.»

La voce di Sherlock riportò Violet nel 221b di Baker Street. Lei e John lo seguirono con lo sguardo muoversi per l’appartamento, prendere il cellulare e infilarsi il cappotto.

«Devo andare», annunciò sbrigativo, «ma ci risentiamo appena arrivano i risultati.»

John e Violet si alzarono e lo seguirono giù, fino al marciapiede, dove Sherlock fermò un taxi e vi salì velocemente, con appena l’accenno di un saluto ai due.

«Dove pensi che stia andando?», domandò Violet.

John guardò il taxi allontanarsi. «Temo che questa sia una domanda molto pericolosa da porre», rispose John accennando una risata.

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Capitolo 3
*** Modi Sbrigativi & Blu Elettrico ***


 

Di tutti i tradimenti che la vita e le sue relazioni sentimentali avrebbero potuto prepararla ad affrontare, quello per Molly Hooper non solo era il più inaspettato, ma anche il più irritante e incredibile da accettare.

Toby - il gatto che aveva salvato da una vita da randagio, il gatto che aveva amorevolmente curato quando ammalato, che nutriva ogni giorno con cibi selezionati con attenzione maniacale, che si assicurava di non disturbare quando decideva di dormire con lei sul suo cuscino o sulla tastiera del suo computer, che in sostanza copriva in maniera ridicola di attenzioni e affetto - quel gatto ora sedeva comodamente acciambellato sulle gambe di Sherlock Holmes. E faceva le fusa.

 

«Potresti dire al tuo gatto di scendere?», le chiese Sherlock dal divano in cui si era accomodato dopo essere entrato nell’appartamento di Molly. 

Molly si permise un sorrisetto divertito. Forse Toby era più intelligente di lei, pensò. Forse si era seduto su Sherlock perché sapeva che gli avrebbe dato fastidio. «E’ un gatto», gli fece allora presente lei, sedendosi accanto a lui e appoggiando la scatola del pronto soccorso sul tavolino del salotto. «Non gli puoi dire cosa fare, o se provi a dirglielo ti ignorerà comunque. Suona familiare?»

Sherlock non commentò ma a Molly non sfuggì l’espressione vagamente infastidita. Prese allora Toby e lo appoggiò per terra. « E ora», disse afferrando del cotone e dell’acqua ossigenata, «vediamo questa terribile ferita.»

 

Sherlock era arrivato inaspettato, lasciando Molly a chiedersi una volta di più come facesse sempre a sapere quando e dove lei si trovasse. 

Aveva suonato il campanello tre volte: alla prima lei aveva agganciato subito dopo aver riconosciuto la voce, alla seconda l’aveva sentito accennare ad un incidente, alla terza non aveva risposto e basta. Le aveva allora mandato sette messaggi, il sesto diceva che era stato assalito da un cane e il settimo diceva che stava sanguinando.

E Molly aveva ceduto. Aveva sospirato, aperto il portone all’ingresso del piano terra e aspettato Sherlock sulla soglia del suo appartamento.

«Non mi sembri in fin di vita», aveva commentato asciutta lasciandolo entrare.

Lui aveva avuto la decenza di non rispondere.

Era quindi andata in bagno a prendere la cassetta del pronto soccorso e quando era tornata in salotto, aveva trovato Sherlock seduto sul divano e Toby seduto su di lui. Il traditore.

 

Sherlock scostò la manica della camicia e rivelò una ferita abbastanza superficiale. Molly la guardò meglio, prima di alzare gli occhi su di lui. «E il cane come sta?»

«La prassi non prevederebbe che tu debba chiedere come sto io?»

Lei accennò un sorriso tamponando la ferita. «Mi sembri il tuo solito impossibile te stesso, quindi tu non puoi stare così male.»

«Il cane sta perfettamente bene», replicò allora Sherlock con voce piatta.

Molly lasciò passare qualche istante di silenzio. «Dovrei chiederti cos’è successo o sarebbe meglio evitare?»

Sherlock sembrò affondare un po’ di più nello schienale della poltrona e chiuse gli occhi. «Un errore di valutazione. Non mi aspettavo un cane da guardia nei giardini dei Faggi Rossi.»

Molly ci mise un istante per collegare i punti. «E’ per quel caso della ragazza? Sei entrato nel parco della villa? E’ violazione di proprietà privata e-»

«Molly», la fermò Sherlock irrigidendosi appena, «dovevo vedere. La casa, i giardini, tutto. Ho bisogno di informazioni. Più informazioni.»

Molly sospirò. «…e?»

Sherlock tornò ad appoggiarsi allo schienale della poltrona. «Il cane mi ha fermato prima.»

Molly cercò, nonostante tutto, di trattenere una risata. Coprì la ferita con una garza adesiva e picchiettò delicatamente il braccio di Sherlock. «Sono sicura che sopravviverai.» 

Si morse appena un labbro richiudendo la cassetta del pronto soccorso e lasciò il divano prima di decidere di porre la domanda. «Sherlock?»

«Sì?»

«Cosa sei venuto a fare qui?»

Sherlock lasciò scappare un breve sospiro. «John ha reso dolorosamente ovvio che ti devo chiedere scusa.» 

Lei lo guardò sorpresa per un istante, quindi aspettò.

«Non l’ho appena fatto?», domandò Sherlock con un tono piatto.

«Non esattamente», fece presente lei.

Sherlock si alzò dal divano quasi con irritazione. «Mi dispiace.»

Molly accennò un sorriso quasi stanco e scosse la testa, muovendosi verso il bagno. «Non possiamo… Non puoi sempre fare così, Sherlock. Non puoi offendermi e poi presentarti di punto in bianco con qualcosa che sembra una scusa e aspettarti che vada tutto bene. Questa è davvero l’ultima vol-»

Si voltò bloccandosi davanti all’evidenza del suo appartamento vuoto. Sherlock se n’era andato e probabilmente non aveva sentito o ascoltato una singola parola di quello che lei aveva detto. Molly si lasciò sfuggire un piccolo suono pieno di frustrazione, prima di sospirare l’ennesimo sospiro e scuotere ancora una volta la testa. 

Raggiunse una delle finestre del suo appartamento e l’aprì, affacciandosi sulla strada sotto di lei. 

«Sherlock?», chiamò.

Lungo il marciapiede un’ombra solo un po’ più scura delle altre si avvicinò alla luce di un lampione. 

«Le analisi sono pronte domani», disse Molly con una punta di rassegnazione nella voce. «Puoi venirle a prendere, se vuoi. Tu, dico.»

Non ne poteva essere certa - era troppo buio e la luce del lampione aveva gettato strane ombre sul viso di Sherlock - ma Molly pensò di aver visto un sorriso sul suo viso.

Scosse la testa, dandosi dell’idiota e chiudendo la finestra.

 

*

 

Seduta nel vagone della metropolitana che l’avrebbe portata nelle vicinanze di Baker Street, Violet si domandò non per la prima volta cosa esattamente Sherlock Holmes facesse alle persone. 

Aprì la borsa che portava con sé e diede l’ennesima occhiata al vestito blu che racchiudeva. Era quello che Rucastle le aveva chiesto di indossare solo il giorno prima e che aveva deciso di portare a Sherlock Holmes perché, aveva riflettuto Violet, la cosa era così strana che doveva essere significativa. O almeno sperava.

E quello riportava al punto iniziale. 

Violet aveva conosciuto John e aveva sentito parlare dell’ispettore Lestrade e di Molly. E francamente la cosa era così evidente che faceva quasi ridere. Sembrava che tutti - lei compresa - si affaccendassero attorno a Sherlock Holmes con l’unico interesse di soddisfarlo e ricevere una parola di lode. Sembrava che fossero tutti un po’ come dei cani fedeli, sempre volenterosi di riportare indietro il bastone che Sherlock lanciava e aspettare scodinzolanti un qualche premio. “Posso avere un biscotto adesso, padrone?”

L’immagine era così ridicolmente vera che non riuscì a soffocare una risata.

Nessuno nel vagone sembrò farci caso. Si vedeva di peggio a Londra, del resto.

 


 

 

Sherlock non aspettava mai le svolte nei casi che affrontava perché le prevedeva sempre. Quello che invece attendeva spesso e con impazienza erano i dettagli, i particolari che lo avrebbero messo sulla strada giusta.

Dove le analisi ai campioni di capelli non avevano portato nessun risultato imprevisto - simili, aveva concluso Molly, ma non gli stessi - sarebbe stato invece quel vestito blu appoggiato sulla sua poltrona a portare particolari, all’interno della storia, che sarebbero risultati vitali. 

 

«Non è un vestito nuovo», aveva detto Violet sedendosi sul bracciolo della poltrona di John, come se ritenesse inopportuno sedersi nella poltrona stessa. «Ma chiunque l’abbia indossato prima di me l’ha trattato con cura. Ed è della mia taglia, forse solo un pochino stretto per me, ma comunque non troppo.»

Sherlock si era avvicinato al caminetto prendendo il teschio tra le mani e osservandolo distrattamente. «E cosa pensi che indichi tutto questo?»

Violet lanciò un’occhiata all’abito blu elettrico. «Una allarmante mancanza di gusto nella scelta dei vestiti?»

«Miss Hunter», la rimproverò Sherlock secco, «dove l’ironia punta ad una certa agilità del cervello, bisogna anche sapere quando usarla.»

«Disse l’uomo che sa sempre quando usarla», commentò John sarcastico entrando nell’appartamento. 

Violet si alzò dal bracciolo della poltrona, ma John le fece cenno di risedersi. «Hai detto che è urgente?», domandò rivolgendosi a Sherlock.

«Miss Hunter ha delle novità interessanti», replicò lui ignorando il commento di John.

John spostò lo sguardo su Violet e attese.

«Sì, dunque», disse lei cercando di mettere ordine tra le informazioni. Indicò l’abito. «Ieri Rucastle mi ha fatto indossare quel vestito, come aveva richiesto quando mi ha assunta. Non credo che ci sia nulla di particolare da notare, se non che è costoso, della mia taglia e precedentemente usato. Dopo che l’ho indossato, Rucastle mi ha chiamata nel salotto e mi ha detto che per ringraziarmi di aver assecondato la sua richiesta voleva offrirmi una tazza di tè. E’ stato molto preciso su dove voleva che mi sedessi - una sedia che dava le spalle ad una delle finestre - ma lui, in generale, è stato molto gentile. Divertente, perfino. Ma…»

Fece un pausa, cercando di trovare il modo di spiegare quello che sentiva. «Vestito a parte, tutta la situazione era davvero strana. Non so, era come se volesse farmi ridere, come se fosse davvero importante che ridessi. Poi, poco prima che mi lasciasse andare, gli ho chiesto se poteva farmi una foto con il mio cellulare. Non so, ho pensato che potesse tornare utile a qualcosa. E dopo, quando sono andata a guardarla, ho visto questo.»

Violet porse il cellulare a John, che lo prese e osservò la foto con un’aria appena confusa. «Cosa dovrei vedere?»

«Lo sfondo, John», suggerì Sherlock.

John allargò la foto e dopo un attimo trattenne un’esclamazione sorpresa. Sullo sfondo, le mani strette alla cancellata d’ingresso della villa, c’era un uomo che senza ombra di dubbio stava guardando nella direzione di Violet. «E questo chi è?»

«E’ quello che tenteremo di scoprire, John», commentò Sherlock. «Ma prima di tutto dobbiamo portare l’abito da Molly.»

John gli indirizzò uno sguardo indeciso tra la sorpresa e il compiacimento. 

Violet invece nascose un sorriso. «E’ stato riammesso», commentò a favore di John, cercando di contenere il divertimento. 

«Fino alla prossima volta», rispose John scettico.

 

*

 

A John Watson quella situazione non era piaciuta fin dall’inizio. Non gli era piaciuta quando la ragazza aveva accettato il lavoro e gli era piaciuta ancora di meno dopo le ultime rivelazioni. Poi Sherlock se n’era uscito con quella richiesta geniale (da notare il sarcasmo) e aveva chiesto a Violet di trovare il modo di accedere al terzo piano della villa. E John, a quel punto, era dovuto intervenire.

Aveva protestato. La situazione, aveva detto, era evidentemente già abbastanza inappropriata e senza dubbio potenzialmente pericolosa e Violet avrebbe fatto meglio a lasciare il lavoro e la casa immediatamente.

Violet, da parte sua, aveva incrociato le braccia come anche John sapeva di fare ogni tanto e aveva replicato con un “a questo punto non ci penso nemmeno”.

«La curiosità uccise il gatto, Miss Hunter», le aveva allora fatto presente John.

«Le sembro forse un gatto, dottor Watson?», aveva quindi replicato Violet.

Sherlock aveva accennato un sorriso, John aveva alzato gli occhi al cielo e la questione - insieme alle rimostranze di John - si era chiusa lì. 

«Se avete finito con questo», s’intromise Sherlock, «vorrei procedere. Miss Hunter, il terzo piano dei Faggi Rossi è suo. John, noi andiamo al Barts.»

«E cosa facciamo riguardo all’uomo della cancellata?», domandò Violet.

«Noi non facciamo nulla. Almeno non per ora. Ma ho già messo qualcuno a lavorarci sopra», replicò Sherlock criptico.


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Capitolo 4
*** Una Ragazza & Una Coppia Felice ***


Nota: grazie mille a chi continua a leggere e grazie mille di essere così gentili nei commenti! Ancora due capitoli dopo questo ed è fatta. Grazie per la pazienza!

 

 

 


 

 

Wiggins non aveva molte regole e ne seguiva ancora meno. Ma quando Sherlock Holmes gli aveva dato un cellulare e gli aveva detto di tenerlo, Wiggins aveva eseguito alla lettera la richiesta. Teneva il cellulare quando dormiva, teneva il cellulare quando era in giro per Londra, teneva il cellulare quando mangiava. E quando aveva voglia di farsi, teneva il cellulare anche più stretto, perché Sherlock Holmes gli aveva detto senza mezzi termini che sarebbe stato utile solo se lucido e presente. 

 

Le richieste arrivavano sempre attraverso messaggi brevi e perfettamente chiari, e anche quella volta non fu diverso. Wiggings non domandava mai perché - a volte lo deduceva, a volte non aveva importanza - e cercava sempre di fare quello che Sherlock chiedeva, tenendosi il più possibile lontano da guai. Ci provava. Ci provava davvero. Solo che certe volte era davvero impossibile. Perché certe volte erano i guai ad andare da lui.

 

Wiggins era seduto per terra, una giacca sporca buttata sulle spalle e un cappello mezzo rotto appoggiato sul marciapiede di fronte a lui. Una manciata di monete riflettevano la luce del sole in quella mattina invernale.

Non stava facendo molto, o almeno così dava impressione, perché in realtà stava aspettando l’arrivo dell’uomo che Sherlock gli aveva detto di tenere d’occhio. Ma, invece dell’uomo, furono un paio di Converse ad arrivare e fermarsi davanti a lui.

Le Converse erano attaccate ad un paio di gambe che erano a loro volta attaccate al corpo di una ragazza piuttosto carina.

«Ehi, dolcezza, qualche moneta da dare al povero Wiggy?»

Il paio di Converse e la ragazza piuttosto carina attaccata ad esse non risposero subito. Lei lo guardò per qualche istante con l’espressione di chi soppesa qualcosa, quindi si piegò sulle ginocchia per mettersi alla sua altezza. «Si può sapere cosa stai facendo?»

Wiggins si mise sulla difensiva. «E’ Londra, bella, e il marciapiede non è tuo. Se voglio stare qui e-»

«Sta zitto, Billy

Lui per un istante la guardò stupito, prima di sorriderle divertito. «Lavori anche tu per Mr Holmes?»

«Non esattamente.»

Wiggins rise. «Già. Immagino che nessuno lo faccia esattamente. A parte me, forse. Quindi qual è il tuo nome, dolcezza?»

«Violet», rispose lei alzandosi. «E tu, qui seduto così, stai attirando l’attenzione. E’ da tre giorni che ti aggiri da queste parti. L’hanno notato alla villa e volevano chiamare la polizia per farti allontanare. Mi sono offerta di venire a parlarti.»

«Mr Holmes mi ha detto di aspettare l’uomo della cancellata e di seguirlo», replicò Wiggins con un tono quasi offeso.

«E non puoi farlo in maniera più discreta?», domandò Violet con una punta di fastidio. «Io torno dentro, ma tu vedi di sparire. E non dico che te ne devi andare, dico solo che devi diventare invisibile.»

Wiggins alzò un sopracciglio. «E come, tesoro?»

Violet alzò le spalle iniziando ad allontanarsi. «Che ne so. Non sono mica io quella che lavora per Mr Holmes.»

Lui borbottò qualcosa che Violet non colse. «Cos’hai detto?», domandò allora lei, fermandosi e voltandosi a guardare Wiggins.

«Ho detto», rispose lui, «che a volte non sono sicuro se preferisco la mia vita di adesso o quella di prima con l’altro Mr Holmes.»

«L’altro Mr Holmes?», ripeté Violet.

Un sorriso storto comparve sulle labbra di Wiggins. «Beh, sì. Perché mica era Mr Holmes prima.»

Violet lo guardò confusa. «E chi era, allora?»

 

*

 

«Oi, Shezza.»

Sherlock alzò gli occhi dal messaggio che stava scrivendo sul cellulare e lo posò su Violet. «Vedo che hai avuto modo di conoscere Mr Wiggins.»

«Temo proprio di sì», rispose Violet ridendo. «Comunque, cosa ci facciamo qui?»

“Qui” era una panchina nei Kensington Gardens a pochi passi dalla Serpentine Gallery. 

«Aspettiamo l’arrivo di John e Wiggins», rispose Sherlock passandole una busta.

Violet vi trovò dentro il vestito blu. «Niente d’interessante dalle analisi?»

Sherlock valutò come rispondere alla domanda. Aveva contato sulla stupidità di Rucastle e in parte era stato premiato. Il vestito non era stato lavato di recente, ma l’unico elemento di rilievo che avevano trovato era stato solo qualche frammento di capelli. «Niente di particolare. Sappiamo solo che chi ha indossato quel vestito è anche la persona a cui appartengono i capelli che hai trovato nella villa. Molly ha detto che i campioni trovati sull’abito corrispondono perfettamente a quelli che hai trovato tu.»

Violet prese il suo cellulare e aggiunse quel particolare ad una lista che aveva iniziato a tenere poco dopo il secondo incontro con Sherlock Holmes. Il nuovo elemento finì subito dopo “terzo piano della casa da film horror”.

«Molly, tra l’altro, dice che devo dire “grazie”. Ma non chiedermi per quale ragione, perché non lo so», aggiunse Sherlock.

Violet trattenne a stento una risata. «Forse perché ho rubato un vestito per sottoporlo a delle analisi che potrebbero potenzialmente incriminare i miei datori di lavoro e lasciarmi senza soldi e con un sacco di guai?»

«E’ una possibilità», replicò lentamente Sherlock.

Violet alzò gli occhi al cielo, ma invece di rispondere salutò l’arrivo di John Watson.

«Cosa mi sono perso?», chiese lui sedendosi accanto a Sherlock.  

«Non molto», disse Sherlock. «La parte davvero interessante comincia ora.»

«’giorno», salutò Wiggins comparendo dal nulla.

John mormorò qualcosa che suonava come una parolaccia, ma Sherlock lo ignorò. «Bene. Ora che ci siamo tutti, possiamo iniziare.»

 


 

 

«Aspetta», disse Molly togliendosi gli occhiali protettivi. «Mi stai dicendo che hai davvero chiesto alla ragazza di esplorare il terzo piano della villa?»

«E’ esattamente quello che ho detto», replicò Sherlock. Non aveva nessuna ragione particolare per essere al laboratorio del Barts, se non che Molly aveva chiesto (ordinato, aveva fatto presente John) di tenerla informata sul caso. E lui, per motivi che non riteneva urgente o necessario indagare, lo stava facendo.

«Sherlock, non dovresti mettere a rischio così le persone», gli fece presente Molly.

«Gliel’ho chiesto e lei ha accettato.»

«Certo che ha accettato!», replicò Molly con una punta di esasperazione. «E’ una ragazza giovane, curiosa e con un mistero da scoprire. Chi direbbe di no? E comunque sappiamo tutti quanto tu possa essere convincente. Quello che non sappiamo è cosa stia succedendo in quella casa e finché non lo scoprirai, non dovresti… potrebbe essere pericoloso. Per lei.»

«Tu hai accettato», le rispose Sherlock lentamente, avvicinandosi a Molly di un passo.

«Scusa?»

«Quando ti ho chiesto di aiutarmi, sapevi che sarebbe stato pericoloso. Sapevi che sarebbero potute esserci delle ripercussioni nella tua vita e nel tuo lavoro. Hai accettato comunque.»

Molly abbassò le spalle e sospirò. «Ma io sapevo a cosa andavo incontro.»

Sherlock fece un altro passo verso di lei. «Non del tutto.»

Molly lo guardò. Le faceva sempre girare un po’ la testa quando era così vicino, come se ci fosse troppo da accogliere ed accettare tutto in una volta, senza sapere cosa aspettarsi per l’attimo successivo. Era un mondo di dettagli e difetti e insicurezze in cui lui la lasciava entrare ogni tanto e che riusciva sempre a frastornarla. «Ma io non conto. Io sono una sciocca.»

Sherlock accennò un sorriso. «Pensavo che avessimo già affrontato questo punto.»

Molly arrossì. Non avrebbe saputo dire se fosse stato per il modo quasi dolce con cui aveva pronunciato quelle parole, o per il ricordo che le parole avevano evocato. Si schiarì la voce, abbassò lo sguardo e fece un passo indietro. «Non mettere quella ragazza in guai più grossi di lei, Sherlock», disse forzando un tono ammonitorio. «E’ tutto quello che ti chiedo.»

Lui la guardò quasi incuriosito. «Farò del mio meglio. Ma forse dovresti chiedere la stessa cosa anche per te stessa, Molly Hooper», le rispose prima di lasciare il laboratorio.

 

*

 

Se solo fosse stata meno sciocca, Molly Hooper si sarebbe chiesta perché stava facendo quello che stava facendo. Perché lo stava facendo davvero. 

Se lo sarebbe dovuto chiedere sulla soglia di casa con le chiavi dell’appartamento in mano e poi sulla metropolitana nella direzione generale di Westminster. Di sicuro se lo sarebbe dovuto chiedere davanti al 221b di Baker Street e, senza ombra di dubbio, quando si era trovata sull’ingresso dell’appartamento di Sherlock.

«Cosa ci fai qui, Molly?», l’aveva accolta Sherlock facendola entrare. 

Che era un’ottima domanda. Esattamente quella che si sarebbe dovuta fare lei.

«Non mi hai aggiornata», replicò allora Molly muovendosi nervosa nel salotto. «Voglio dire, quando sei venuto in laboratorio, oggi. Hai detto solo che avevi chiesto a Violet di entrare nel terzo piano della villa, ma poi…» Arrossì, sentendosi una stupida perché non c’era ragione di sentirsi imbarazzata.

«Posso aggiornarti», rispose Sherlock glissando il disagio di Molly. «Ma sono nel mezzo di un esperimento, quindi se vuoi puoi sederti nella poltrona di John. Ottima visuale sulla cucina e sul test che sto conducendo.»

Molly non fece domande. Qualsiasi cosa Sherlock stesse facendo, la stava facendo alle undici di sera sul tavolo di una cucina in un’abitazione privata. Difficilmente una qualsiasi domanda avrebbe potuto migliorare la situazione. 

Si accomodò allora nella poltrona di John e fu colpita dal relativo silenzio e la quasi quiete dell’appartamento. Londra filtrava un po’ attraverso le finestre chiuse, ma giusto un poco e in maniera piacevole. Non era la prima volta che si trovava nel salotto di Sherlock, né tanto meno era la prima volta che vi si trovava di sera, ma improvvisamente capì cosa l’aveva e la stava tuttora mettendo a disagio. 

Erano da soli, di sera, nel suo appartamento. E in un modo ridicolo e assurdo, quel momento - lei seduta in quella poltrona e lui in cucina a sperimentare chissà che cosa - aveva qualcosa di caldo e familiare. 

 

Scosse la testa cercando di cancellare il pensiero, la sensazione e tutto il resto. Fu, però, la voce di Sherlock la cosa più efficace per riportarla alla realtà. Molly era così assorta nelle sue riflessioni che quando lui prese a parlare, lei quasi sussultò.

«Miss Hunter», stava dicendo Sherlock, «è riuscita a procurarsi le chiavi del terzo piano. Rucastle lavora soprattutto da casa, ma ieri è dovuto andare a fare visita ad un dottore. La moglie è rimasta a casa, ma uno dei suoi vizi è tornato utile. Fa regolarmente abuso di ansiolitici e non ha mancato di usarli anche ieri. Quando si è addormentata, Violet ha sfruttato il momento per prendere le chiavi ed entrare nel terzo piano. L’ha descritto come un lungo corridoio buio pieno di porte socchiuse.»

Molly raccolse le gambe nella poltrona, mettendosi più comoda. «Ha trovato qualcosa?»

«Più o meno», rispose Sherlock alzando una fiala con del liquido scuro e scuotendola appena. «Una delle porte è bloccata. Sbarrata, apparentemente, e chiusa con un lucchetto. Violet ha provato le altre chiavi di Mrs Rucastle, ma nessuna ha funzionato. Però ha detto che qualcosa si è mosso, dentro la stanza.»

Molly s’irrigidì appena. «Qualcosa?»

Sherlock accennò un sorriso. «Qualcuno, più probabilmente.»

«Ma cosa…», sussurrò Molly tornando ad appoggiarsi alla poltrona.

«E non è tutto», riprese a parlare Sherlock. «Violet ha detto di essersi spaventata, a quel punto. E’ tornata indietro e ha rimesso le chiavi dove le aveva trovate, ma uscendo dalla camera da letto di Mrs Rucastle, si è imbattuta in Rucastle di ritorno dalla sua visita. Violet ha detto che le è sembrato che sospettasse qualcosa, ma pensa che potrebbe essere stata solo un’impressione dovuta dalla situazione. Ma ha anche detto che Rucastle ha scherzato dicendole che se non stava attenta a dove metteva i piedi, sarebbe potuta finire nelle fauci del cane da guardia.»

Molly lo guardò preoccupata. «Suona come una minaccia. Non sarebbe il caso che Violet lasciasse la casa?»

«Non può», rispose asciutto Sherlock. «Non ancora. Mi serve lì. E’ l’unico accesso che abbiamo, al momento.»

«E immagino che non sia finita qui», disse Molly con un mezzo sospiro. Affondò la testa nello schienale della poltrona di John e chiuse gli occhi per farli riposare. Il suo corpo si stava lentamente rilassando e la stanchezza della giornata iniziava a farsi sentire.

«Wiggins ha trovato l’uomo della cancellata.»

La voce di Sherlock sembrava impossibilmente morbida (e Molly sapeva che era un pensiero sciocco, perché una voce non può essere morbida). Accennò un sorriso comunque, ma tenne gli occhi chiusi. «E cosa si sa di lui?»

«Thomas Fowler, trent’anni, momentaneamente in tirocinio presso una clinica privata di Londra.»

Molly mormorò un suono assonnato e nascose uno sbadiglio dietro una mano, ma Sherlock sembrò non farci caso e continuò a parlare. «Il giovane Fowler è sulla strada per diventare un ginecologo. Detto questo, non sappiamo  ancora che collegamenti abbia con Rucastle o con la villa. Ma speriamo di scoprirlo presto, abbiamo già un’idea per avvicinarlo.»

«Ginecologo, eh?», commentò Molly quasi mormorando. La voce di Sherlock, profonda e pacata, sembrava agire su di lei come una ninna nanna. «Vi servirà una donna.»

«E’ quello che ha detto John. Violet si è offerta volontaria. Ha alzato la mano», rispose Sherlock con una nota divertita nel tono di voce. «Ha detto “io sono una donna, e anche piuttosto brava ad esserlo”. Wiggins ha avuto la sfortunata idea di ridere. Miss Hunter ha risposto con un pugno sul braccio.»

Molly, quasi addormentata, si lasciò sfuggire una piccola risata divertita. «Lezione imparata, spero.»

«Immagino di sì.»

 

Non sembrava che ci fosse altro da aggiungere, quindi si rifugiarono entrambi in due silenzi ben diversi. Quello di Sherlock era concentrato sull’esperimento che stava ancora conducendo, mentre quello di Molly era rilassato e assonnato. Una parte di lei si rese conto che si stava addormentando, lì nella poltrona di John nell’appartamento di Sherlock, ma le palpebre sembravano troppo pesanti da aprire e il corpo troppo difficile da muovere. Cinque minuti, si disse. Solo cinque minuti.


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Capitolo 5
*** Una Sciocca & Degli Aspetti ***


Nota: quasi alla fine! Yay! Domani ultima parte! Finalmente! Scusate! Un sacco di punti esclamativi!

 

 

 

 

 

Sherlock Holmes si trovava di fronte ad un problema.

Molly Hooper dormiva nella poltrona di John. 

Se n’era accorto con un certo ritardo - forse un’ora - quando, dopo aver concluso l’esperimento che stava conducendo, aveva alzato gli occhi e l’aveva vista lì. Addormentata. Nella poltrona di John. E per qualche assurda ragione la sua mente sembrava si fosse bloccata a quello. 

Non si era accorta di lei. Non che l’avesse fatto apposta. Non lo faceva mai apposta. Semplicemente quando chiudeva una parentesi, molto spesso ne apriva un’altra e si isolava, lasciando tutti fuori. 

E ora lei era lì e dormiva - e sì, il concetto è perfettamente chiaro, si rimproverò Sherlock infastidito dai suoi stessi pensieri - e lui doveva in qualche modo svegliarla. 

 

Quella era parte della ragione per cui la stava fissando. L’altra parte aveva a che fare con una certa curiosità. Che non avrebbe potuto dire “scientifica”, perché sapeva già tutto quello che c’era da sapere su quello che stava succedendo nel corpo di Molly - i movimenti degli occhi sotto le palpebre e quelli involontari delle dita, il respiro lento, la temperatura del corpo abbassata di qualche grado. 

L’interesse, invece, era più che altro legato al fatto che non si era mai trovato in una situazione del genere. Aveva visto John dormire, quando ancora vivevano insieme, ma solo in quei pochi istanti prima di svegliarlo per qualche ragione, e non aveva mai prestato troppa attenzione alla cosa. Le altre persone ad occhi chiusi che generalmente poteva osservare erano cadaveri e quelli rappresentavano tutto un altro genere di interesse.

E ora Molly Hooper era lì e lui la osservava. E si domandava come svegliarla.

 

Ripensò a sua madre e come, da bambino, lo svegliava quando capitava che fosse malato. Lo riempiva di baci sulla fronte e sulla testa finché Sherlock non era costretto ad aprire gli occhi e prendere le medicine o mangiare qualcosa. 

Ma Molly Hooper non era ammalata. Dormiva e basta.

Allungò una mano, allora, in una imitazione impacciata dell’altro modo in cui sua madre lo svegliava da piccolo. Sfiorò appena la testa di Molly in quello che si sarebbe potuto definire il tentativo di una carezza. Lei non si mosse, né si svegliò.

Sherlock tentò di nuovo, allora. Il gesto, forse, ancora più meccanico e goffo della prima volta, ma anche un po’ più sicuro. Mosse le dita e i capelli di Molly vi si intrecciarono e catturarono la sua mano. Cercò di ricordare cosa fare e come farlo - aveva ricevuto carezze nella sua vita, ma in quel momento per qualche assurda ragione non riusciva a richiamarle - e tuttavia per qualche istante tutto quello che riuscì a fare fu solo lasciare la mano lì, prigioniera dei capelli di Molly. Spostò le dita, poi, con l’intenzione di ritrarle e metterle al sicuro, e invece si trovò ad esitare un attimo e distenderle ancora.

 

Molly si mosse. Un accenno appena, ma la cosa incoraggiò Sherlock. Spostò un’altra volta la mano e lei - finalmente e lentamente - aprì gli occhi. Si guardò attorno appena confusa, prima di alzare il viso su Sherlock.

«Ti sei addormentata», disse lui con la mano ancora sulla sua testa. «Ti ho svegliata.»

Che era una cosa abbastanza ovvia da sottolineare, ma Sherlock non sapeva esattamente cos’altro dire. In passato, quando si era trovato a dover svegliare qualcuno (generalmente John) era perché c’era qualcosa di importante da fare o da dire. Non gli era mai capitato prima di doverlo fare solo perché qualcuno dormiva dove non avrebbe dovuto dormire.

Spostò la mano dalla testa di Molly e fece un passo indietro, lasciandole spazio per alzarsi dalla poltrona.

«Grazie», mormorò lei in risposta, il viso stanco e l’aria ancora un po’ spaesata.

«Puoi dormire qui, se vuoi. Io ho delle cose da fare e non credo-»

Non finì la frase, perplesso dall’espressione di Molly. Non era tanto l’imbarazzo o la sorpresa che erano affiorati in qualche misura sul suo volto, quanto piuttosto la tensione che nascondevano. Come se l’idea di passare la notte lì la spaventasse. Sensazione che venne rafforzata quando Sherlock la vide fare un passo indietro.

«Credo che sia meglio che torni a casa mia», replicò Molly nervosamente. Raccolse la sua borsa accennando un sorriso. «Ho cose da fare anch’io. E c’è Toby, sai. Mi aspetta. Quindi. Niente. Vado. Grazie, comunque.» 

Sherlock si fece da parte per lasciarla passare e la seguì fino all’ingresso dell’appartamento.

«Grazie di nuovo», ripeté alzando impacciata una mano.

Sherlock la studiò per un attimo. «Ho fatto qualcosa di sbagliato?»

«No, assolutamente no», rispose lei immediatamente. «Io. Sono io che… Niente. Vado. Buona notte.»

Lui la osservò avvicinarsi alle scale e sul primo gradino la chiamò, costringendola a fermarsi. «Molly?»

Lei si girò a guardarlo.

«Ho fatto bene quella cosa?»

Molly accigliò appena la fronte. «Quale cosa?»

«Come ti ho svegliata. Andava bene?»

Lei lo fissò per un attimo sorpresa, prima di accennare un sorriso. «Certo. Andava benissimo.»

Sembrò voler aggiungere qualcos’altro, poi cambiò idea. Gli fece di nuovo un cenno di saluto e poi si mise a scendere di corsa le scale.

Sherlock rimase per un attimo nel pianerottolo ad ascoltare il rumore di Molly che lasciava il 221b. Tornò quindi nell’appartamento e per un attimo fissò il palmo della mano con cui le aveva accarezzato la testa, come se cercasse una traccia o l’indizio di qualcosa.

 

*

 

La medaglietta di San Patrizio che Violet portava al collo era l’unico legame con un passato che non aveva mai avuto, l’unica prova che anni prima - forse per un minuto o due - era stata qualcosa per qualcuno. Quando le persone scoprivano che era orfana, una delle prime domande che spesso le facevano era “ti sono mai mancati i tuoi genitori?”. 

Violet generalmente scuoteva le spalle e chiedeva di rimando se ti può davvero mancare qualcuno che non hai mai avuto comunque. E al collo, la medaglietta di San Patrizio - regalo d’addio di sua madre o suo padre, Violet non lo sapeva - sembrava pesare un po’ di più.

 

Sherlock non aveva mai detto nulla. Non che ci fosse granché da dire, ad ogni modo. Ma Violet apprezzava come quel particolare della sua vita non fosse stato trasformato - per una volta - in una specie di assurda caratteristica per descriverla. “Femmina, altezza media, capelli rosso-castani, lentiggini, orfana”. 

 

Portò involontariamente una mano alla medaglietta e intrecciò le dita nella catenina. Non che cercasse coraggio, era solo un gesto che era abituata a fare ogni volta che faceva il primo passo verso qualcosa di sconosciuto. Nel caso specifico era la clinica privata in cui, secondo le ultime informazioni di Wiggins, Violet avrebbe dovuto trovare Thomas Fowler - anche noto come “l’uomo della cancellata”. 

 

E se le speranze erano state di ricavare qualche informazione o qualche risposta dall’incontro, in verità l’unica cosa che Violet riuscì ad ottenere fu solo un ulteriore livello di confusione. Almeno per lei.

Perché - come avrebbe spiegato in seguito a Sherlock e John - non ci fu nessun incontro nella clinica. Anzi, Violet non riuscì nemmeno a metterci piede dentro, a dirla tutta. 

Perché, prima che potesse entrare, una mano si era appoggiata sulla sua spalla e l’aveva fatta voltare. E l’uomo che si era trovato davanti l’aveva guardata con l’aria di chi vede uno spettro e aveva sussurrato una parola sola. Qualcosa che non aveva senso.

«Alice?», aveva chiesto.

 

 

 

«E chi sarebbe Alice, comunque?», chiese Lestrade guardando le tre persone sedute di fronte a lui.

Sherlock, John e Violet Hunter erano arrivati - non annunciati - nel suo ufficio in Scotland Yard e lo avevano invaso senza neanche chiedere se disturbassero. Era ovvio, a quel punto, quanto Sherlock Holmes fosse una cattiva influenza su chiunque. 

«Alice è la figlia della prima moglie di Rucastle», rispose Sherlock pacatamente. «La moglie è morta anni fa in un incidente stradale.»

«Thomas Fowler», s’intromise Violet, «era il fidanzato di Alice. Quando ieri mi ha visto di spalle, ha pensato che fossi lei. Apparentemente ci assomigliamo abbastanza.» Prese il suo cellulare aperto su di una foto e lo passò a Lestrade. «Questa è lei con Thomas, quasi un anno fa. Ho chiesto a Thomas se poteva mandarmene una copia.»

Greg osservò lo scatto che ritraeva una ragazza giovane in uno sgargiante vestito blu elettrico, sorridente al braccio di un ragazzo di bell’aspetto. Alzò lo sguardo su Violet e notò una certa somiglianza. Il colore dei capelli, le lentiggini, alcuni lineamenti e una certa bellezza non celebrata erano decisamente presenti in entrambe le ragazze.

«Troppo giovane», disse Sherlock dal nulla. John ridacchiò.

Lestrade, imbarazzato, lanciò un’occhiata irritata ai due uomini, prima di restituire il cellulare a Violet. Non valeva neanche la pena cercare di ribattere qualcosa. 

«E quindi?», chiese allora intrecciando le mani sulla scrivania.

«Erano fidanzati, lei e Thomas», riprese a parlare Violet. «Dovevano sposarsi il mese scorso, o almeno quelli erano i piani. Poi lei è…» Violet esitò, muovendo appena le mani, cercando una parola.

«Sparita?», suggerì Greg.

«Non esattamente», rispose John, una nota incerta nella voce.

«E’ un po’ più complicato di così», disse Violet, il viso pieno d’incertezza. «Forse dovremmo cominciare dall’inizio.»

 

*

 

Molly guardò Sherlock prendere un sorso di caffè. «Dovresti davvero mangiare qualcosa», gli fece presente.

«Grazie, ma no grazie», rispose lui con un tono di voce piatto. «So come cucinano il cibo qui in ospedale.»

Molly scosse appena la testa e tornò al suo piatto. Erano ancora pochi i tavoli occupati nella caffetteria del Barts e c’era solo un vago bisbiglio di sottofondo ad avvolgerli. Lei giocherellò per un attimo con il cibo nel suo piatto, spostandolo di lato. «Allora Thomas Fowler e Alice Rucastle erano fidanzati e decisi a sposarsi, finché lei ha avuto un collasso nervoso?»

«Esatto», rispose Sherlock tamburellando le dita lungo il bicchiere di plastica del caffè. «A quanto pare qualcosa che Alice avrebbe ereditato dalla madre, o quanto meno questo è quello che è stato detto a Fowler. Alice non gli aveva mai accennato nulla, ma dopo il fatto - quando Thomas è andato a trovarla ai Faggi Rossi - Rucastle gli avrebbe detto così.»

«E Alice cosa disse?»

«Questo è il punto», rispose Sherlock con l’accenno di un sorriso. «Thomas Fowler non lo sa, perché non ha mai potuto incontrare Alice, né parlare con lei subito dopo l’incidente. Non gliel’hanno permesso. C’era sempre qualche scusa. Alice era sedata, Alice era stanca, Alice dormiva. E poi, quando si è ripresa-»

Molly infilzò una carota con la forchetta e la puntò contro Sherlock. «Suo padre ha detto a Thomas Fowler che Alice aveva cambiato idea e non voleva più sposarlo.»

«Esattamente», replicò Sherlock compiaciuto. «Hai fatto attenzione.»

«Faccio sempre attenzione», disse Molly mangiando la carota. 

Sherlock alzò appena un sopracciglio, ma non commentò. «Poi, dato che il nostro Thomas non si arrendeva facilmente e si presentava quasi tutti i giorni alla villa chiedendo di poter parlare con Alice o almeno vederla, Rucastle ha deciso di illuminarlo sullo stato della situazione.»

«Ovvero?», domandò Molly catturando un’altra carota.

«Schizofrenia», rispose lentamente Sherlock. «Alice Rucastle sarebbe in realtà schizofrenica e al tempo dei fatti il padre, nel tentativo di proteggerla, l’avrebbe tenuta lontana da persone che avrebbero potuto disturbarla o innescare episodi possibilmente pericolosi. Thomas la vide un’ultima volta quel giorno, parliamo di un paio di mesi fa, ma non ebbe modo di parlarle. Apparentemente in un momento di distrazione la ragazza avrebbe afferrato un paio di forbici e si sarebbe tagliata i capelli. L’hanno fermata prima che potesse farsi del male, ma è stato abbastanza per Rucastle per decidere che la figlia non venisse più disturbata finché non si fosse trovata in condizioni migliori. E una volta in condizioni migliori, Alice Rucastle avrebbe cambiato idea su Thomas e sul matrimonio.»

Molly aveva un’aria dubbiosa. «Perché tutto questo suona strano?»

Sherlock le rivolse un piccolo sorriso. «Perché, Molly Hooper», rispose alzandosi dal tavolo della caffetteria, «hai un buon intuito. Come Thomas Fowler, del resto. Ha continuato ad andare ai Faggi Rossi, sperando di vedere Alice e riuscire a parlarle. Ha pensato fin dall’inizio che la situazione non fosse del tutto normale. Ma non l’hanno mai fatto entrare, è sempre stato lasciato fuori dalla cancellata. E ora, Molly, ho bisogno di tutte le informazioni che puoi trovare riguardo ad Alice Rucastle e sua madre.»

Molly lanciò un’occhiata all’orologio al suo polso. Un’altra pausa pranzo che se ne andava. «Okay», rispose spostando il vassoio ancora pieno e alzandosi dal tavolo. «Ti avviso appena ho quello che ti serve.»

 

*

 

Molly la vedeva in tutti. La convinzione che qualunque cosa lei facesse fosse dettata dalla speranza di ottenere qualcosa da Sherlock. Era nei sorrisi divertiti dei colleghi e in quelli con una punta di compassione, era in chi scuoteva appena la testa davanti alle sue richieste più strane o nelle pacche sulla schiena quando se ne andava.

Ma non aveva importanza, davvero. Probabilmente non ci sarebbe comunque stato un numero sufficiente di volte in cui avrebbe potuto ripetere che le cose non stavano così. Nessuno le avrebbe dato retta. Nessuno avrebbe davvero creduto alla realtà, ovvero che per quanto geniale e infallibile potesse essere, Sherlock non poteva comunque salvare la vita di una persona (o il Regno Unito) da solo. Aveva necessariamente bisogno, prima o poi, dell’aiuto di qualcuno. Che era esattamente quello a cui provvedevano le persone attorno a lui.

Molly non si credeva diversa da John o Greg o Mary o chiunque altro. Erano gli altri che la vedevano sotto una luce che c’era stata, una volta, e da cui stava cercando di allontanarsi, ora. Forse. In qualche misura. 

Si domandò cosa avrebbero pensato tutti se avesse detto loro che Sherlock l’aveva invitata a dormire da lui e lei aveva rifiutato. Probabilmente avrebbero pensato ad uno scherzo. E le ragioni dietro quella scelta - necessità di proteggersi, paura di ricascare, timore di non essere abbastanza forte, ancora troppo affetto per lui - sarebbero state accolte come la battuta dell’anno.

Sospirò, raccogliendo le informazioni che aveva raccolto per Sherlock in una cartelletta sottile. Era ancora innamorata di lui? Sì, no, non sapeva. Probabilmente. Ma in modo diverso. Intendeva interrogarsi sulla questione all’infinito? Credeva proprio di no.


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Capitolo 6
*** Da Molti Mesi & La Curiosità ***


 

Non aveva mangiato. Aveva saltato il pranzo per trovare le informazioni che lui le aveva chiesto e sapeva di essere arrivato al suo appartamento prima che lei potesse avere qualcosa per cena. Quella era la ragione per cui Sherlock si era presentato da Molly con un pacchetto di pesce e patatine. Lei lo aveva accolto sorpresa, ma dopo averlo ringraziato non aveva chiesto spiegazioni. 

Sherlock era tuttora incerto se le cose tra di loro fossero in equilibrio. Quelli erano i dettagli che gli sfuggivano sempre, quella parte di umanità che non riusciva mai a catturare del tutto. 

 

Ma Molly sembrava ragionevolmente contenta. Abbastanza rilassata, seduta di fronte a lui al tavolo del salotto, intenta a mangiare. Aveva alzato una gamba sulla sedia e appoggiato il mento sul ginocchio cercando di decidere da quale patatina incominciare.

«Sono tutte uguali, Molly. Non fa differenza quale mangi per prima», le fece presente lui senza alzare gli occhi dai documenti che stava leggendo.

Molly ne prese due - una corta e una lunga - e le alzò per fargliele vedere. «Ti sembrano uguali?»

Sherlock sospirò spostando per un istante gli occhi su di lei. «No, quello che intendevo-»

La risata di Molly lo fermò. «Ti stavo prendendo in giro.»

S’infilò entrambe le patatine in bocca e le mangiò divertita. 

Sherlock tornò ai documenti, tamburellando le dita sul tavolo. «Ah», commentò dopo poco, interrompendo il movimento. «Interessante. A quanto pare-»

«La madre di Alice soffriva davvero di disturbi mentali», s’intromise Molly prendendo un pezzo di pesce. «Ed è stata ricoverata un paio di volte.»

Sherlock osservò Molly per un istante, prima di ritornare alla lettura. Le dita ripresero a tamburellare finché non le fermò di nuovo con un secondo “ah”. «Alice Rucastle ha-»

«Davvero avuto un collasso nervoso. Qualche mese fa. Già», lo anticipò Molly ancora una volta. 

Sherlock la guardò alzando un sopracciglio. 

«Cosa?», domandò Molly con un tono appena difensivo. «Li ho letti anch’io, quei documenti. So quali sono le parti importanti. E, ancora meglio, ho capito come anticipare i punti che troverai interessanti. O almeno credo.»

«Stanno così le cose?», chiese Sherlock vagamente scettico.

Molly accennò un sorriso divertito e tamburellò velocemente le dita sul tavolo. «Niente, niente, niente», recitò al ritmo delle dita, per poi fermarle di colpo. «Ah

Sherlock si guardò la mano. Sapeva di fare quel gesto - e di farlo esattamente come Molly aveva appena dimostrato - ma non aveva mai pensato che qualcuno gli potesse prestare tanta attenzione da accorgersene. Si schiarì la voce, non tanto imbarazzato quanto piuttosto a disagio. «Dato che li hai letti, vorresti allora illuminarmi sul contenuto delle informazioni?»

«Non che ci sia tanto altro da dire», replicò Molly prendendo un altro pezzo di pesce. «Alice ha ventotto anni e la madre è morta quando ne aveva sedici. Sappiamo che Rucastle non ha mentito, almeno non sulla morte della prima moglie, sulla sua salute mentale e sul collasso nervoso della figlia. Però, riguardo a quello ci sono un paio di cose strane. Apparentemente quando Alice è stata ricoverata, delirava qualcosa riguardo a dei soldi - il referto medico non va oltre a questo - ed appena è stato possibile, il padre l’ha riportata a casa, contro l’opinione dei medici. Non è strano? Si preoccupa tanto per la figlia, ma allo stesso tempo la allontana dai professionisti che potrebbero aiutarla.»

Sherlock non commentò. Un’idea si stava lentamente formando nella sua testa. Scrisse velocemente un messaggio sul cellulare, quindi si alzò dal tavolo. «Devo andare. Credo… ci siamo quasi, Molly.»

Lei lo guardò incuriosita. «Davvero?»

«Davvero», replicò lui passandole accanto e lasciando l’appartamento senza una parola di più. 

 

Molly rimase ferma al tavolo - totalmente immobile - per qualche istante. Sorpresa. Incerta. Domandandosi se fosse successo davvero o se era stata solo la sua immaginazione. Forse aveva sentito male. Forse era stato solo il passaggio veloce di Sherlock, un movimento d’aria. 

Ma avrebbe giurato che lui le aveva sfiorato la testa con una mano, quando le era passato accanto. 

Si scosse e rise appena di se stessa. Non era possibile. No, davvero.

 

*

 

Violet non aveva mai avuto paura del buio o di quello che vi si poteva nascondere dentro. Ma il giorno in cui rimise piede nel corridoio del terzo piano dei Faggi Rossi, non poté fare a meno di rabbrividire in attesa di quello che immaginava l’aspettasse lì, oltre la soglia.

 

La porta chiusa, la sbarra di metallo, il lucchetto. C’era qualcosa di così sbagliato, di così orrorifico in quell’immagine. Violet alzò la mano lentamente, esitando prima di bussare piano. Non ci fu nessuna risposta immediata. Aspettò un attimo prima di bussare di nuovo. 

«C’è qualcuno?», domandò poi con voce incerta.

Il silenzio si allungò per qualche istante, prima di venire interrotto da un fruscio dall’altra parte della porta. Poi qualcosa o qualcuno si appoggiò al battente interno e una voce sottile, troppo debole disse qualcosa. 

«Come? Mi dispiace, non ho capito. Chi sei?», disse Violet cercando di far tacere il rumore dei battiti del suo cuore, che sembrava riempirle le orecchie.

La voce tornò a parlare, una nota appena più sicura nel tono. 

E quando Violet sentì la risposta, si portò una mano alla bocca. 

Perché era quello che si era aspettata di sentirsi dire, ma non per quello le faceva meno paura.

 

«Alice», aveva detto la voce. «Sono Alice.»

 

*

 

Wiggins aveva dovuto aspettare due giorni prima di poter dare una risposta al messaggio che Sherlock gli aveva mandato. Ma appena era stato possibile, aveva digitato velocemente due parole - “psichiatra” e “avvocato” - e due indirizzi, e aveva inviato il tutto.

E quando Sherlock aveva ricevuto il messaggio, non aveva sprecato attimi preziosi scrivendo a Lestrade. Lo aveva chiamato immediatamente e gli aveva spiegato la situazione. Non aveva però dovuto dirgli cosa fare. Era ovvio anche per Greg, a quel punto.

 

 

 

 

«Questa non può diventare un’abitudine», disse Molly lasciando entrare Sherlock per l’ennesima volta nel suo appartamento quasi nel mezzo della notte. 

Sherlock si sfilò il cappotto e lo abbandonò su di una sedia, prima di andarsi ad accomodare sul divano di Molly. «Abbiamo chiuso il caso», annunciò quasi con stanchezza.

Molly lo raggiunse e aspettò che lui riprendesse a parlare.

«Questo pomeriggio Rucastle ha lasciato la casa per qualche ora. Violet ha avuto modo di appurare che, come sospettavamo, Alice Rucastle era a tutti gli effetti richiusa in una delle camere del terzo piano. Non ha potuto liberare la ragazza perché l’unico in possesso della chiave del lucchetto era Rucastle stesso, quindi è rimasta seduta davanti alla camera finché non siamo arrivati Lestrade, John ed io. Voleva fare compagnia ad Alice, ha detto. Quando Rucastle è tornato, deve aver notato qualcosa di strano o forse l’ingresso del terzo piano aperto, perché si è affrettato a salire, e lì ha trovato noi ad aspettarlo.»

Molly si era portata una mano alla bocca, soffocando un’espressione scossa. «Cosa avete…?»

«Rucastle ha tentato di protestare», rispose Sherlock lentamente, «ma come fai a giustificare il fatto di aver chiuso tua figlia in una stanza per almeno due mesi? Quando, comunque, non hai prove per dimostrare che la ragazza sia davvero schizofrenica, o un pericolo per se stessa o altri. Inoltre, avevo messo Wiggins sulle tracce di Rucastle e abbiamo scoperto che si era messo in contatto con uno psichiatra e un avvocato che avrebbero dovuto aiutarlo con le pratiche per renderlo tutore legale della figlia.»

«Ma perché?», aveva chiesto Molly in un sussurro.

«Soldi», aveva risposto Sherlock con un tono freddo, quasi disgustato. «Con la tutela della figlia, sarebbe arrivata anche la tutela del suo patrimonio. La prima moglie di Rucastle era estremamente ricca, ma dato che aveva iniziato a nutrire sospetti nei confronti del marito, si era assicurata che in caso di decesso tutta la sua fortuna andasse alla figlia e non a lui. Almeno questo è quello che la moglie attuale ha detto quando l’hanno interrogata.»

«Lei…sapeva?», domandò Molly stupita.

Sherlock alzò le spalle. «Non tutto, ma abbastanza. Non sapeva che Alice non è davvero schizofrenica, per esempio. E non sapeva che Rucastle avesse metodicamente cercato di convincere tutti che invece lo fosse. A partire da Alice stessa.»

«E come?»

«Cose semplici. Faceva sparire quadri, per poi farli riapparire in altri posti. Nascondeva oggetti, le diceva che li aveva presi lei e poi glieli faceva trovare in camera. Le comprava un vestito di un colore e poi lo sostituiva con un altro identico, ma di un colore diverso. Faceva-»

Molly alzò una mano nauseata. «Credo che basti così.»

«E durante tutto questo, Thomas Fowler non si è arreso. Ha detto che ha sempre pensato che c’era qualcosa di strano nel padre di Alice. Non era mai stato contento del fatto che la figlia uscisse con Thomas e non aveva preso bene la notizia del matrimonio.»

«Perché», chiese Molly, «se la figlia si sposava e lasciava la casa, allora la sua fortuna se ne andava con lei?»

«Esattamente», replicò Sherlock con l’ombra di un sorriso. «Anche dopo che è stato allontanato, anche dopo che gli dissero che Alice aveva cambiato idea su di lui e sul matrimonio, Thomas non ha voluto arrendersi. Passava dai Faggi Rossi ogni volta che ne aveva opportunità, ma dato che gli era vietato l’ingresso, si fermava al cancello della villa sperando di avere un’occasione di vedere o parlare con Alice.»

«E lei ora come sta?»

«Difficile dirlo», rispose cautamente Sherlock. «John l’ha visitata immediatamente, appena abbiamo aperto la stanza. Non presentava segni di malnutrizione o maltrattamento fisico. Ma gli abusi psicologici hanno lasciato tracce profonde, come potrai immaginare.»

Molly accennò un sì, raccogliendo le gambe e chiudendo le mani attorno alle caviglie. Il viso, appoggiato sulle ginocchia, era una sfumatura di tristezza e incredulità. E paura e orrore, in qualche misura.

 

Sherlock avrebbe potuto analizzare tutto, ma non si permise di farlo. Non c’era nulla nelle sue parole o nelle sue deduzioni che avrebbe aiutato quell’insieme di cose fragili che era Molly Hooper in quel momento. Aveva bisogno di conforto, lo capiva persino lui, ma Sherlock non era sicuro di sapere come darlo. I toni di voce, le carezze sulle mani, gli sguardi compassionevoli erano elementi che aveva studiato e sapeva ricreare. Ma non erano mai reali e Molly non si meritava qualcosa di falso. Esitò un istante, prima di muoversi lungo il divano. Si avvicinò a lei silenziosamente, fino a sfiorarla - gamba, braccio, spalla - e aspettò.

E quando Molly appoggiò la testa sulla sua spalla, Sherlock si trovò a pensare che a volte, anche senza parole o spiegazioni, bastava semplicemente esserci per qualcuno. E forse quello era il tipo di consolazione di cui lei aveva esattamente bisogno in quel momento.

 

*

 

La storia aveva coperto le prime pagine dei giornali per due settimane. I notiziari televisivi ne avevano parlato anche più a lungo. 

Lestrade si era preso il merito - Sherlock aveva insistito, dicendo di non aver fatto abbastanza, né abbastanza velocemente - e pur cercando di proteggere certi dettagli del caso, molti dei particolari erano trapelati comunque. 

 

Quello che non aveva mai raggiunto i media era stato il ruolo di Violet in quella storia. Il fatto che Rucastle l’avesse assunta perché assomigliava alla figlia e volesse usare quel particolare per allontanare Thomas Fowler una volta per tutte. 

«L’ultima volta che Thomas aveva visto Alice, lei si era tagliata i capelli», stava spiegando Sherlock a Lestrade, nel suo ufficio di Scotland Yard.

«Per questo», s’intromise Violet, «Rucastle aveva espressamente richiesto che anch’io mi tagliassi i capelli. E il vestito blu era di sua figlia. Ha sempre insistito che lo indossassi e mi mettessi vicino alla finestra ogni volta che Thomas era nei pressi della villa. Poi mi faceva ridere, solo per dare l’impressione che io - che Alice stesse bene. Per far credere a Thomas che non c’era nulla di strano e che Alice avesse davvero solo cambiato idea su di lui e sul matrimonio.»

Lestrade scosse la testa con un’aria disgustata. «E’ tutto così assurdo. E solo per dei soldi.»

Chiuse il fascicolo del caso con aria rassegnata e si alzò, accompagnando Violet e Sherlock all’uscita. 

 

Camminando accanto a lui, Violet notò come Sherlock sembrasse come sempre imperturbabile e imperturbato. Lei invece si sentiva nauseata e con un grosso peso sullo stomaco. Certo, erano riusciti a salvare Alice, ma a quale prezzo comunque per la ragazza. 

«Hai fatto bene», le disse Sherlock dal nulla. Lui era diretto verso un taxi, ma Violet aveva bisogno di camminare. Aveva bisogno che il freddo di quella giornata le congelasse il cervello.

«Ti direi di considerare una carriera in Scotland Yard, se non fosse che l’istituzione francamente è ridicola.»

Violet ridacchiò, nonostante tutto. «Il detective Lestrade non è poi tanto male.»

Sherlock alzò un sopracciglio. «Sei troppo giovane per lui. E dovresti saperlo, gliel’ho fatto notare più di una volta.»

Violet gli diede una spinta, piano e senza reale intenzione. «Non intendevo in quel senso. E’ bravo nel suo lavoro, sembra che sappia quello che fa.»

«Ogni tanto», concesse Sherlock.

«E comunque», continuò Violet alzando lo sguardo sulle nuvole grigie che coprivano il cielo di Londra, «non credo di essere tagliata per questo genere di cose. Ho fatto applicazione per un posto in una scuola privata dalle parti di Kensington. Qualche tempo fa, quando è diventato chiaro che la mia posizione ai Faggi Rossi non sarebbe durata tanto. Mi hanno presa. Non mi danno diecimila sterline l’anno, ma l’ambiente lavorativo è decisamente più normale.»

Sherlock sorrise e si avvicinò ad un taxi. Si voltò, la mano sulla maniglia della portiera, e le fece un cenno di saluto. «In bocca al lupo, Miss Hunter.»

Violet sorrise di rimando. «In bocca a lupo a lei, Mr Holmes. Non con la sua occupazione, ovviamente. Ma con la sua patologa.»

Sherlock le rivolse uno sguardo appena esasperato, prima di aprire la portiera e sedersi dentro il taxi. «Come ho già precisato, Molly Hooper non è la mia patologa. Non è la “mia” niente, ad essere precisi. John dice un sacco di idiozie. Sembra che ci si diverta.»

Lei rise e poi, un attimo prima che Sherlock chiudesse la portiera e dicesse al taxi di partire, Violet lo fermò. Si tolse velocemente dal collo la catenina con la medaglietta di San Patrizio e la passò a Sherlock.

Lui la guardò perplesso. «Non credo a questo genere di cose.»

Violet sorrise. «Non può far male, no? Io non ne ho più bisogno. Credo di non averne mai davvero avuto, a dire il vero. E ho come l’impressione che potrebbe essere più utile a lei che a me.»

Chiuse poi la portiera per Sherlock e fece un cenno di saluto. Guardò per qualche istante il taxi allontanarsi nel traffico della città e, divertita, si domandò se Sherlock Holmes sarebbe mai riuscito a dedurre per quale ragione lei avesse deciso di dargli la collana.

 

*

 

«San Patrizio», constatò Molly guardando la medaglietta sotto la luce di una delle lampade del laboratorio del Barts. 

Sherlock era arrivato senza essere atteso, ma con richieste, informazioni e - piuttosto stranamente - con un santo. 

Senza una parola aveva appoggiato la collana nella postazione dove sedeva Molly e lei l’aveva presa con una certa curiosità.

«Fa parte di un caso?», chiese guardando Sherlock.

«Più o meno», rispose lui. «Effetti collaterali di un caso, se vogliamo metterla così.»

«E’ carina», disse lei indicando la medaglietta.

Sherlock non sembrava interessato. «Puoi tenerla, se vuoi. Come sai, quello non è il mio settore. Non so nemmeno cosa dovrebbe fare.»

«San Patrizio», recitò Molly con prontezza, «patrono dell’Irlanda, di New York, Boston e degli ingegneri. Protegge dai serpenti.»

Sherlock la guardò sorpreso e Molly alzò appena le spalle. «Scuola cattolica.»

«Comunque sia, non ho idea perché Violet Hunter abbia insistito tanto perché l’avessi.»

Molly gli lanciò un’occhiata divertita, ma non disse nulla.

Sherlock si girò verso il computer del laboratorio ignorandola. «Ha detto che potrebbe essere più utile a me che a lei.»

Fu con perplessità che accolse, poco dopo, la risata di Molly. «Qualcosa che vorresti condividere con la classe, Molly Hooper?»

«San Patrizio», rispose lei cercando di non ridere troppo. 

«Sì. Pensavo avessimo già appurato questo dettaglio.»

Molly gli passò la collanina. «Sai come dicono. Patrono dei ladri e dei bugiardi. Ma non dirlo ad un irlandese.»

Scoppiò di nuovo a ridere, prima di tornare a dedicarsi alle analisi su cui stava lavorando prima dell’arrivo di Sherlock.

Lui la guardò appena confuso. «Non capisco. Perché il patrono dei ladri e dei bugiardi dovrebbe essermi util-»

Si bloccò, ripensando a quello che aveva detto a Violet.

 

«Molly Hooper non è la mia patologa. Non è la “mia” niente, ad essere precisi.»

 

«Tutto bene?»

La voce di Molly lo riportò alla realtà. Sherlock la guardò per qualche istante, prima di voltarsi verso il computer. «Tutto bene.»

«Allora cosa le avresti detto?»

«Come?»

«A Violet Hunter», precisò Molly. «So che non sei un ladro. Quindi temo che ti consideri un bugiardo.»

Sherlock esitò prima di rispondere. «Niente di particolare.»

Molly lo osservò per un attimo, appena perplessa, prima di tornare al suo lavoro. 

E Sherlock, da parte sua, tenne per sé quello che aveva pensato. Ovvero, che dove Violet Hunter si sbagliava (Molly Hooper non era la sua patologa - del resto non potevi avere una patologa), forse non era del tutto in errore sull’altra parte. 

Perché forse Molly era la “sua” qualche cosa, dopo tutto.

Non sapeva ancora cosa, però.

E per sicurezza prese la medaglietta di San Patrizio e la lasciò scivolare nella tasca della sua giacca.

 

Fin

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RISULTATO

 

Grazie mille a tutti per i bellissimi pensieri e riflessioni che avete condiviso con me. Vorrei avere un regalo per ciascuno di voi! 

Ma per questa volta, con i poteri a me conferiti da un iPad e un'app per estrarre a caso (perché era davvero impossibile per me scegliere solo uno di voi), la vincitrice di questo piccolo gioco è:

 

 

Congratulazioni!

Sperando che non le dispiaccia, pubblico le bellissime osservazioni che ha scritto:


"Ho scelto John per svariati motivi e so che forse sto andando fuori tema, ma prima mi sembra doveroso scrivere il motivo per cui non ho scelto altri personaggi. Quando ho visto in cosa consisteva il tuo gioco ho subito pensato a Molly, perché Molly è una novità targata BBC e in qualche modo già questo la rende speciale. Inoltre lei è normale, così normale che viene istintivo identificarsi in lei, una timida ragazza innamorata del grande e brillante detective che però non la ricambia. Però Molly ha troppo poco spazio nel telefilm per essere veramente apprezzata, forse è per questo che adoro scrivere e leggere storie su di lei: perché in qualche modo le nostre storie le danno ciò che la BBC non le può dare.
Sherlock sarebbe davvero una scelta troppo elementare (perdona il gioco di parole) perché è bello, intelligente, arrogante, ma anche fragile e sentimentale. È fin troppo evidente che tutti, pubblico compreso, sono innamorati di lui.
In seguito mi sono passati per la testa - in ordine - Mycroft (la caratterizzazione che gli ha dato Mark Gatiss è un capolavoro già di per sé), Moriarty (il fascino del bad guy, un cattivo che fa davvero concorrenza a Loki) e il tenero Lestrade.
Alla fine la mia scelta è ricaduta su John. Per citare lo stesso Sherlock "It's always you, John Watson" perché, davvero, John c'è e c'è sempre.
È un'ombra rassicurante che veglia su Sherlock Holmes.
John è umano, più umano di chiunque altro perché sbaglia, comprende i propri limiti, persiste, fa di tutto per essere d'aiuto.
Capisce Sherlock -non sempre, non quando fa andare il suo cervello veloce come un'elica- ma lo capisce (o almeno cerca di capirlo) quando conta veramente. Quando soffre per la perdita di Irene Adler, quando è spaventato prima del matrimonio, quando scopre la sua relazione con Janine.
John è più che umano perché perdona. Ha bisogno di tempo, di sfogarsi, di riflettere ma alla fine perdona. Perdona Sherlock, perdona Mary (in una delle scene più commuoventi del telefilm) lo fa perché vuole loro bene. Perché può sembrare terribilmente banale ma l'amore vince su tutto, anche sull'orgoglio anche sul dolore anche sulla fiducia tradita.
Ed è proprio l'amore platonico (e sottolineo platonico perché non c'è ragione -e volontà da parte mia- di credere altro) fra Sherlock e John che rende entusiasmante, struggente, divertente e appassionante questo telefilm.
Il loro rapporto è semplice e allo stesso tempo complesso. Semplice perché basta uno sguardo, una frase, un gesto perché si intendano; complesso perché ci sono segreti, cose non dette e che non c'è bisogno che siano dette.
Ho scelto John perché è un soldato e un dottore - cosa che già per sé sembra una contraddizione - e riesce a portare queste due realtà nella vita quotidiana. Ferisce e cura, combatte e si rilassa, uccide e salva vite.
Ho scelto lui perché senza John Watson non ci sarebbe nessun Sherlock Holmes, non lo Sherlock Holmes che noi tutti amiamo e conosciamo."



E di nuovo, ancora mille grazie a tutti!

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