La mercenaria

di Framboise
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


CAPITOLO 1:


Una ragazza camminava nella nebbia di quel freddo mattino di novembre, i suoi passi che risuonavano sull’acciottolato della strada, rimbalzando tra i muri delle case tanto vicine da essere quasi attaccate l’una all’altra. Si strinse addosso lo scialle di sua madre, mentre si dirigeva verso la bottega.
«Buongiorno, padre» salutò, facendo il suo ingresso nella macelleria. Vedendo che nessuno le rispondeva, andò nel retro, dove si tagliava la carne e la si ricopriva di spezie per conservarla. Lì vide suo padre, chino su quello che doveva essere un quarto di manzo. L’uomo, grassoccio e con due folti baffi neri, le fece un cenno senza distogliere gli occhi dalla fetta di carne, che stava tagliando con precisione certosina.
«Ciao, Eufemia. Preparati e aiutami a disporre la carne, tra poco cominceranno ad arrivare i clienti».
Lasciandosi sfuggire un sospiro soffocato, la ragazza si tolse lo scialle ed indossò un grembiule sul semplice vestito marrone che portava, poi si rimboccò le maniche e cominciò a disporre i vari tipi di carne sul bancone. Quando ebbe finito, afferrò un grosso coltello e cominciò a dividere alcuni polli: prima il petto da una parte, poi le cosce, le ali...
Ci voleva una certa resistenza di stomaco a lavorare in una macelleria, ma la vista del sangue non la disturbava: non era mai stata una ragazza impressionabile. Non come Violante, la sua amata sorella maggiore, che per staccarsi dalle vanità del mondo aveva preso i voti, andando in un convento a poche leghe dalla città dove aveva vissuto fino a sette anni prima, quando l’epidemia di Morte Nera se l’era portata via. O come Maria, sua sorella più piccola, che a quindici anni pensava solo ai ragazzi e a trovare un marito. Quella marmocchia era assolutamente insopportabile, anche se sembrava l’unica a pensarla così: tutte le persone che la conoscevano, a cominciare da loro padre, non facevano che prodursi in lodi sperticate sulla sua bellezza, mansuetudine e bontà d’animo. Certo, la bontà d’animo di una vipera! La gente si faceva ingannare dai grandi occhi perennemente sgranati e dai capelli color del miele, scambiando il suo bell’aspetto per amabilità.
Su Eufemia, invece, sarebbe stato difficile dire qualcosa di lusinghiero: lei per prima si sarebbe definita assolutamente insignificante, con i suoi lunghi capelli castani, gli occhi scuri ed indagatori in un viso piuttosto pallido e spigoloso dall’espressione perennemente seria e corrucciata. Decisamente in città non era conosciuta per il suo bell’aspetto, né per il suo buon carattere. “Se fosse più dolce, magari qualcuno prima o poi se la prenderebbe in moglie, ma è sempre acida e scostante!” spettegolavano tra di loro le comari passando davanti alla bottega, commentando le possibilità di matrimonio delle figlie di mastro Cavadecchi. “Con un carattere così, quella resterà zitella a vita! Ha già diciotto anni, se non si è ancora offerto nessuno non le resta che il convento, come sua sorella maggiore buonanima... davvero non ha preso nulla da sua madre. Tutta un’altra storia con la sorellina, che è tanto cara...”. Non era una persona molto malleabile e non si lasciava fregare facilmente quando trattava per i prezzi, in più aveva una lingua affilata assolutamente inadatta ad una donna, come si erano premurate di farle notare le benpensanti... così come era inadeguato il suo stato di ragazza che gestiva quasi da sola una bottega, d’altronde.
Sbuffando, cercò invano di soffiarsi via dagli occhi una ciocca di capelli che le era caduta davanti al viso. Vedendo che non otteneva alcun risultato, si pulì una mano nel grembiule, lasciandoci sopra delle lunghe strisce rossastra.
“Questo non migliora affatto l’insieme...” pensò, mentre sul suo viso sgraziato si faceva strada un sorrisetto ironico. Non aveva bisogno di essere bella. Le bastava la sua mente pronta e acuta, adatta a gestire la macelleria con pugno di ferro come e meglio di un uomo: persino i bambini che giocavano nella piazza davanti al negozio avevano imparato a temerla, quando usciva furibonda per qualche scherzo che le avevano fatto e li trascinava dalle rispettiva madri, gridando come un’aquila e assicurandosi che ricevessero una buona dose di scapaccioni. Era lei che aveva preso il posto del figlio maschio tanto desiderato dal padre, che però non era mai arrivato: nella famiglia Cavadecchi erano nate tre femmine in rapida successione. Dopo che l’epidemia di peste dell’ anno domini 1371 aveva ucciso sua madre e la sua sorella prediletta, Eufemia si era indurita ancora di più, con sommo scorno della cara Maria, che era costretta a convivere con il fardello di avere una parente scorbutica che le rovinava l’immagine. D’altronde, ogni famiglia per bene ha una pecora nera...

Dopo la sua giornata di lavoro, quando ormai il sole era già quasi tramontato, la ragazza poté finalmente rimettersi lo scialle e tornare a casa. Camminò lungo la stradina buia che costeggiava il lavatoio, poi svoltò tra i vicoli e prima di raggiungere la sua abitazione si fermò e guardò in una catapecchia di assi inchiodate alla bell’e meglio che alcuni anni prima era stata un pollaio. L’epidemia aveva colpito anche i proprietari di quella baracca: di quella famiglia non era rimasto nessuno. Non era stato un caso isolato, la peste aveva decimato tutta la popolazione: nel periodo del contagio le strade erano completamente deserte, tranne che per i becchini e per qualche raro medico.
«Balduino?» chiamò a bassa voce.
«Femia! Cosa mi porti di bello oggi?» le domandò un vecchio magro e zoppicante, con una lunga barba grigia, sbucando improvvisamente dall’oscurità.
«Eccoti... tieni, ti ho portato questi. Non è molto, ma se avessi preso di più mio padre se ne sarebbe accorto» gli rispose lei con aria di scusa, porgendogli alcuni soldi.
«Non importa, basteranno per comperarmi qualcosa da mangiare» la rassicurò l’anziano mendicante, prendendoli e stringendole brevemente una mano in segno di ringraziamento.
Il loro era un rapporto particolare. Il mendicante non era sempre stato povero: era stato un chierico amanuense in un monastero situato nei ressi del Comune vicino a quello della ragazza. Quando il governante della città aveva deciso di prendere possesso delle terre che appartenevano all’abbazia, lo aveva fatto con la violenza. I pochi monaci sopravvissuti si erano dispersi e Balduino, ferito ad una gamba nella fuga, si era rifugiato nel Comune di Eufemia, storico nemico di quello che aveva annesso a sé le terre del monastero. L’uomo era diventato un mendicante e la ragazza spesso gli portava di nascosto una piccola parte di ciò che guadagnava, per permettergli di sopravvivere. Lui, in cambio, le aveva insegnato a leggere e a scrivere. Questo non lo sapeva nessuno tranne loro due: il padre della ragazza non sarebbe stato contento di scoprirlo e tutti in città avrebbero cominciato a guardarla con sospetto... una donna istruita era qualcosa di assolutamente impensabile, quasi una strega. “Con tutti i problemi che ho, non mi serve altra cattiva fama” aveva pensato Femia, quindi aveva studiato di nascosto ed era diventata molto brava: non avrebbe avuto difficoltà a gestire la bottega quando sarebbe passata a lei, e di questo era molto orgogliosa.
Dopo aver salutato il mendicante, la ragazza raggiunse casa sua. Aprendo la porta, venne raggiunta da un profumo di carne bollita molto invitante: poteva dire molte cose negative su Maria, però sicuramente sapeva cucinare.
Dopo averle rivolto un vago saluto, la più giovane delle due sorelle ritornò alla sua occupazione iniziale. Mentre la vedeva affaccendarsi per preparare la cena, Eufemia si stupì a pensare che sua sorella era davvero carina, con il suo vestito azzurro chiaro su cui lei stessa aveva ricamato delle piccole rose... un’ altra occupazione femminile in cui Maria eccelleva e che lei invece aveva sempre trovato noiosa, se non assolutamente inutile. Non c’era da stupirsi se, nonostante avesse solo quindici anni, sua sorella avesse vari ammiratori e fosse già stata promessa ad un certo Lodovico, ragazzo di ottima famiglia, come le ragazze nobili che si sposavano in giovane età! Probabilmente sarebbe stato lo stesso per Violante, se a quattordici anni non avesse  già deciso di prendere i voti, precludendosi ogni possibilità in quell’ambito. Certo il signor Cavadecchi non era stato molto contento di quella scelta, ma siccome stravedeva per la figlia maggiore aveva acconsentito, seppur di malavoglia. Quando la peste aveva portato via quei gioielli di dolcezza e di remissività che erano sua moglie e la sua primogenita, l’uomo aveva riposto tutte le sue speranze nella sua ultima nata: con la sua bellezza avrebbe sicuramente potuto contrarre un matrimonio vantaggioso. Talvolta gli pareva di rivedere in lei qualcosa della sua defunta moglie: cosa che non si poteva dire della sua seconda figlia, che non poteva essere più diversa dalla madre sia nell’ aspetto sia nel carattere.

Quando anche il padre delle due ragazze fece ritorno dal negozio, i tre si sedettero e cenarono insieme, poi mentre Maria svolgeva i suoi compiti di donna di casa, Eufemia si concesse quei minuti di riposo che costituivano l’unico momento della giornata in cui era completamente sola. Seduta davanti alla piccola, stretta finestra della stanza che condivideva con la sorella, la ragazza fece vagare lo sguardo sul paesaggio. Oltre le mura si riusciva a distinguere quella pianura che ormai da anni era teatro di una sanguinosa guerra tra il suo Comune e quello vicino: a volte, aguzzando la vista, le pareva persino di scorgere dei cavalieri e dei fanti muoversi in lontananza, con le armature che scintillavano leggermente al sole. Ma in quei giorni, secondo le voci che correvano per la città sembrava che la guerra stesse finalmente volgendo al termine, dopo una vittoria contro i nemici conquistata a caro prezzo. Balduino sembrava dubbioso sull’ argomento: «Finita una guerra, ecco che subito ne comincia un’altra» erano state le sue parole, ma era così bello pensare a quello che sarebbe potuto succedere se fosse terminata...
Magari ci sarebbe stata una festa in città...
Eufemia, stanca dopo la lunga giornata di lavoro, si assopì, la testa appoggiata sulle braccia incrociate sul davanzale della finestra.





NOTE DELL'AUTRICE:
Questa è la prima storia che scrivo che è ambientata nel Medioevo. Spero che vi piaccia!

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


CAPITOLO 2:


La guerra, dopo molti anni che proseguiva tra brevi ed inutili tregue e battaglie tanto sanguinose che sembrava impossibile stabilire quale delle due parti avesse vinto, era finalmente finita. Il Comune di Eufemia aveva vinto e presto ci sarebbe stata una grande festa per celebrare l’evento: si vociferava che sarebbe stata così opulenta e magnifica da oscurare persino il Carnevale. La ragazza, che nei suoi diciotto anni di vita non aveva mai visto niente di più bello della celebrazione che precedeva la Quaresima, era piuttosto curiosa in proposito e non vedeva l’ora che arrivasse la domenica, data prevista per la festa. Naturalmente, niente di questa sua agitazione era trapelato nei suoi gesti o nelle sue espressioni: agli occhi di tutti la maggiore delle ragazze Cavadecchi si comportava come al solito, cioè in modo brusco e diretto. Mentre stava ripulendo la macelleria insieme al padre, quest’ultimo, in un inaspettato slancio di generosità, le aveva permesso di tornare a casa prima.
«Dai, vai... finisco io di mettere a posto qui» aveva borbottato, strofinandosi i baffi con una mano. Eufemia non si era fatta pregare, infatti si era subito inoltrata a passo svelto nel labirinto di vicoli bui che l’avrebbe condotta da Balduino con due monete d’argento ben nascoste nella tasca del grembiule.
Il signor Cavadecchi l’aveva guardata allontanarsi, poi aveva ricominciato a sistemare la bottega. Poco dopo, quando fuori ormai si era già fatto buio, una figura alta intabarrata in un lungo mantello nero bussò alla porta della macelleria. L’uomo guardò fuori, poi riconobbe mastro Malaspina, capo di una delle famiglie più ricche ed influenti della Corporazione dei Beccai, e lo fece entrare.
«Che cosa vi porta qui?» lo accolse, dopo i convenevoli di rito.
«L’uomo, che a volto scoperto mostrava un viso angoloso dal naso adunco, lo squadrò con gli occhi grigi e calcolatori e replicò: «Sono qui per proporvi un affare molto vantaggioso».
Mastro Cavadecchi gli si avvicinò, mentre il suo collega gli mormorava qualcosa all’orecchio.

Eufemia si svegliò bruscamente. Non capì subito quello che stava succedendo, poi si rese conto che sua sorella, con la quale condivideva il letto, si era già alzata e la stava scuotendo per una spalla.
«Alzati!»
La ragazza, sollevandosi di scatto, incenerì Maria con un’occhiataccia.
«Stupida, oggi non devo andare ad aprire il negozio... è venerdì e tocca a nostro padre» sbottò, cercando di allungarle uno scappellotto.
«Lo so, ma papà deve parlarti. Dice che è importante, quindi immagino che tu debba sbrigarti e andare da lui» replicò la più giovane delle due in tono sussiegoso, evitando abilmente lo schiaffo ed uscendo dalla stanza.
Femia scese dal letto e in poco tempo si vestì, grugnendo vaghe maledizioni all’indirizzo delle “notizie importanti”, quindi fece il suo ingresso nella cucina. Il padre era seduto al tavolo e stava mangiando del pane; quando vide la sua figlia maggiore le fece cenno di sedersi. Lei obbedì, accomodandosi davanti a lui.
Spero almeno che mi abbia svegliato per un buon motivo» pensò, puntandogli negli occhi il suo sguardo scrutatore.
«Eufemia, devo parlarti di una cosa molto importante. Ieri sera è venuto alla macelleria mastro Malaspina... sai chi è, vero?» cominciò l’uomo, lisciandosi i baffi con le dita, come di consueto.
«Sì, è il portavoce della nostra Corporazione» assentì lei. “E anche l’uomo più importante tra i beccai... che cosa vuole da mio padre?” si domandò.
«Esatto. Mi ha proposto un affare molto vantaggioso».
«Davvero? Che tipo di affare?»
«Un contratto di matrimonio tra te e suo figlio, Giangaleazzo. Io ho accettato».
«Che cosa?» esclamò la ragazza, spalancando gli occhi. Doveva aver capito male. Giangaleazzo Malaspina era un trentenne dagli occhi gelidi, che non si era mai sposato ma era uno degli scapoli più ambiti della città per le sue ricchezze. A lei non era mai piaciuto, forse per il suo sguardo ambiguo, oppure per l’aria di superiorità che assumeva verso chi non era nella sua stessa posizione sociale. Inoltre si diceva che avesse ucciso in duello un suo rivale, che era misteriosamente scomparso dalla città dopo aver fatto un’osservazione infelice sulla famiglia Malaspina.
«Un matrimonio, sì... sarebbe molto vantaggioso per noi. Sono una tra le famiglie più ricche della città, potresti fare una vita da signora, con lui» le spiegò il padre, evitando di guardarla negli occhi.
«Ma... e il nostro negozio? Che fine farà?»
«Semplice, si unirà al loro e quando io morirò, tuo marito prenderà il mio posto».
«Che cosa significa? La macelleria deve andare a me, sono stata io ad aiutarti a mandarla avanti, fin da quando la mamma è morta! Sempre io!»
«Che sciocchezza, una donna alla guida di una bottega? Non si è mai sentita una cosa del genere! Sarà tuo marito a gestirla».
«NON CHIAMARLO “MIO MARITO”! IO NON MI SPOSERÒ, E ANCHE SE DOVESSI NON MI SPOSEREI CON LUI! È VECCHIO E PROBABILMENTE ANCHE UN ASSASSINO!» gridò la ragazza, scattando in piedi e rovesciando la sedia.
«SMETTILA! LO SPOSERAI, QUESTO È QUANTO! ABBIAMO GIÀ SOTTOSCRITTO IL CONTRATTO E LA TUA APPROVAZIONE NON È RICHIESTA!» urlò in risposta suo padre, alzandosi a sua volta. Maria li guardava spaventata dalla soglia della camera, stringendo tra le mani il manico della scopa con cui fino a poco prima era intenta a spazzare il pavimento, tanto che le sue nocche erano completamente bianche.
Eufemia, furiosa, uscì di casa sbattendo la porta. Camminando tra i vicoli, sentiva montare la rabbia: non avrebbe sposato quell’uomo. Ma se il contratto di matrimonio era già stato firmato, non c’era niente da fare...
Certo, sapeva che i matrimoni combinati erano una cosa normale: anche sua madre e suo padre non si conoscevano quando si erano sposati. Nonostante ciò, non aveva mai pensato che una cosa del genere sarebbe capitata anche a lei. Si diede della stupida mentalmente: forse non erano ricchi come i Malaspina, ma gli affari andavano bene e la loro bottega era molto frequentata, era naturale che qualcuno potesse avere delle mire su di esso per potersi arricchire... e quale mezzo migliore di assicurarselo sposando la figlia scorbutica del proprietario, la cui totale assenza di pretendenti era ormai risaputa in tutto il Comune?
Finalmente giunse al macello, dove doveva assicurarsi i tagli migliori. Dopo una contrattazione lunga ed estenuante riuscì a far abbassare il prezzo di alcune once di carne due fiorini d’oro, cosa che le risollevò leggermente l’umore, poi li portò alla macelleria e cominciò a tagliarli a fette con violenza. Ad un tratto il coltello le sfuggì di mano, causandole un taglio non troppo profondo nella mano sinistra.
Calmati, adesso” si ingiunse, immergendo la mano in un secchio d’acqua fredda che teneva sempre nella bottega in caso di infortuni, poi avvolse il dito sanguinante in un asciugamano. In quel momento entrò suo padre, che si mise al lavoro senza degnarla di uno sguardo. La giornata passò. I clienti andavano e venivano, ma l’atmosfera che aleggiava nel negozio era molto tesa: padre e figlia si parlavano a monosillabi e solo per questioni di lavoro.
«Passami il coltello grande».
«Sì».
Quando chiusero la bottega, Eufemia era giunta ad una conclusione: cercando di imporsi non avrebbe ottenuto niente. Suo padre era una persona irascibile e collerica, pronta ad infuriarsi per qualsiasi motivo: avrebbe dovuto cercare di fargli cambiare idea in un altro modo. Nei giorni seguenti si comportò in modo gentile con lui, tanto che l’uomo sembrava essersi dimenticato del loro litigio; tuttavia affrontare l’argomento del matrimonio con lui cercando di controllarsi non sortì il risultato sperato, perché l’uomo era irremovibile. Femia ed il rampollo dei Malaspina si sarebbero sposati, la questione era chiusa. Di tanto in tanto la ragazza, mentre girava per la città per fare delle commissioni, incrociava per la strada il suo promesso sposo, che le sorrideva con aria ambigua e talvolta tentava di avvicinarla. Lei, per contro, cercava di evitarlo il più possibile, anche a costo di imboccare il vicolo laterale più vicino ed allungare il proprio tragitto.

Finalmente la domenica arrivò. La festa si preannunciava essere più allegra che mai: anche il cielo sembrava essere consapevole dell’importanza dell’evento, perché quel giorno il sole splendeva e scaldava con i suoi raggi l’aria autunnale, come in un ultimo stralcio d’estate. Eufemia si svegliò e si vestì in fretta, poi mise tutti i suoi risparmi in una tasca nascosta del suo vestito e si diresse verso la porta. Sua sorella sarebbe uscita di lì a poco, dopo aver rigovernato la casa. In quel momento suo padre la fermò e chiamò anche Maria.
«Ragazze, prendete con voi un coltello quando uscite. Sarà pieno di soldati mercenari, gente che non vede una donna da chissà quanto tempo: non si può mai essere abbastanza sicuri» borbottò. Femia estrasse dalla tasca il suo serramanico, che portava sempre con sé, mentre la più piccola delle due sorelle fece una smorfia.
«Le signorine per bene non dovrebbero andare in giro armate...»
«Tanto non lo saprà nessuno. Tu prendilo, non si sa mai!» le ingiunse seccamente la sorella maggiore, poi uscì: nonostante tutto l’astio che provava nei confronti di Maria, non voleva che le capitasse qualcosa di brutto.
Le strade della città erano più affollate che mai. La gente camminava avanti e indietro tra le innumerevoli bancarelle, tra il chiacchiericcio dei clienti ed i richiami dei mercanti. Si vedevano dovunque bancarelle ricche dei prodotti più svariati, dai cibi alle cotte di maglia, dal folendaro* allo scrivano. Eufemia camminava guardandosi intorno, con un sorriso appena accennato: si fermò dalla speziale, un’anziana vedova dai capelli grigi raccolti in una crocchia severa, per comprare alcune spezie che servivano nella bottega per conservare le carni, poi si diresse verso il banco dello spadaio, che mostrava la propria merce. Si soffermò a guardare delle lunghe spade scintillanti, con l’elsa decorata con delle incisioni: armi da nobili, da cavalieri.
Chissà che cosa si prova a tenere in mano qualcosa del genere...” si domandò, passando una mano sulla lama con tocco leggero. Dopo alcuni attimi in cui si sorprese a fantasticare di possederne una, si riscosse e si allontanò. Comprò un pane ai fichi da un venditore ambulante, i cui prodotti emanavano un profumo irresistibile, poi si incamminò di nuovo, ansiosa di godersi la festa. Quando arrivò in piazza si fermò ad ascoltare un menestrello, attorno al quale si era già raccolta una folla.
«Venite, signore e signori, venite ad ascoltare la storia della tragica storia d’amore tra la regina Isotta di Cornovaglia e Tristano, il prode cavaliere! Accorrete!»
La storia le piacque soprattutto perché era parlava di avventure e di luoghi lontani e perché la musica suonata dal cantastorie era davvero bellissima, mentre la storia d’amore tra i due protagonisti la lasciò piuttosto indifferente: non c’era gusto ad ascoltare la storia della passione tra i due, che peraltro alla fine morivano entrambi per la bugia raccontata dalla moglie di Tristano. Il resto degli ascoltatori, però, non sembrava pensarla come lei: molti di loro si asciugavano furtivamente gli occhi con gli angoli dei mantelli o dei fazzoletti. La ragazza lasciò cadere alcune monete nel cappello che il menestrello le tendeva, quindi si diresse verso il banco dello scrivano. Quest’ultimo era un uomo dai capelli neri, che la guardò sorridendo.
«Le interessa qualcosa in particolare, signorina?»
«No... vorrei solo dare un’occhiata» replicò in fretta lei, distogliendo lo sguardo e posandolo su alcuni codici. Li aprì, sfiorando le pagine con timore quasi reverenziale, decifrando le lettere arzigogolate che le aveva insegnato Balduino.
Ricordava ancora l’emozione della prima volta che era riuscita a tracciare il proprio nome nel terreno polveroso della strada...
Quando però scoprì i prezzi dei libri, la ragazza trasalì come se l’avessero schiaffeggiata: non sarebbe mai riuscita a permettersene uno. A malincuore si allontanò dalla bancarella, addentrandosi tra le strade. Nella via centrale si faceva festa grande: i cavalieri appena tornati dalla guerra sfilavano sui loro cavalli, muovendosi con fierezza tra due ali di folla acclamante. Sembravano quasi esseri ultraterreni, troppo gloriosi per essere persone normali, con le loro spade dall’elsa intarsiata e le loro armature scintillanti. Eufemia rimase per qualche minuto a guardarli, poi riprese il suo cammino: c’erano ancora molte cose da vedere. Di tanto in tanto incrociava per le strade degli uomini che indossavano rozze armature di metallo e cuoio: erano i mercenari, loschi figuri dall’aria feroce, con le barbe lunghe ed incolte e gli occhi cupi di chi ha visto troppe battaglie per poter dormire tranquillamente la notte. Sembrava che i passanti si scostassero nervosamente per far passare quei soldati con una mano sempre posata sulle loro armi e l’espressione guardinga: nessuno voleva avere contatti con loro, così ricchi di brutti ricordi tanto vicini da essere quasi tangibili e con i corpi monchi e distrutti dalla guerra.

Si era fatto buio ed i suoni dei festeggiamenti cominciavano a scemare. Alcune melodie, però, risuonavano ancora nell’aria fredda della sera, mentre Eufemia si dirigeva verso casa. Decise di prendere la strada più lunga, quella che costeggiava il lavatoio: era meno frequentata, avrebbe potuto attardarsi senza rischiare di incontrare il padre o la sorella. I vicoli erano completamente deserti ed immersi nella penombra: la ragazza camminava persa nei propri pensieri, quando udì dei passi dietro di lei. Inizialmente non ci fece caso, poi però vide una sagoma scura affiancarla. Alzando lo sguardo, si rese conto che si trattava proprio di Giangaleazzo Malaspina, che fino a quel momento era riuscita ad evitare.
«Buonasera, mia futura sposa. Vi siete goduta la festa?» le domandò ironicamente l’uomo, con un tono mellifluo che le fece venire i brividi. Strascicava le parole, segno che probabilmente aveva bevuto.
«Non sono la tua futura sposa e non lo sarò mai, grazie al cielo. Vattene» ribatté lei in tono piatto.
«Non sembra questa l’opinione di tuo padre, cara. Tra poco convoleremo felici a nozze, non dovresti evitarmi».
«Lasciami in pace!» esclamò Eufemia, accelerando il passo.
«Perché? In fondo dovremmo conoscerci meglio... perché non cominciare adesso?» le domandò, afferrandole un braccio. La ragazza cercò di liberarsi dalla presa, ma lui la strinse più forte e le afferrò anche l’altro polso, spingendola contro il muro di una casa. La ragazza sentì la propria schiena sbattere dolorosamente contro le pietre della parete, mentre Giangaleazzo avvicinava il proprio volto al suo. Il suo alito puzzava di vino e si mischiava all’odore di sudore, dandole la nausea.
«LASCIAMI! AIU...» gridò lei, ma l’uomo le tappò la bocca, mentre con l’altra mano le aveva preso un lembo del vestito e cercava di sollevarlo.
Eufemia, approfittando del fatto che aveva finalmente una mano libera, riuscì ad afferrare una forma a lei familiare: il manico del suo coltello. Lo impugnò e colpì Malaspina con tutte le sue forze: un fendente istintivo, rapido, preciso. Non ebbe bisogno nemmeno di pensare all’azione, il suo corpo sapeva già cosa fare.

Dopotutto lavorava in una macelleria, era sempre stata brava ad usare le lame...

Tutto ciò che seguì sembrò accadere molto in fretta: l’ubriaco gemette e lasciò la presa, allontanandosi di un passo, ma prima che si fosse reso conto di ciò che stava succedendo venne raggiunto da un altro fendente in pieno petto. Barcollò, poi cadde all’indietro, picchiando la testa contro lo spigolo del lavatoio. Femia lo vide scivolare a terra e giacere immobile, gli occhi grigi spalancati e fissi come quelli di un pesce su un banco del mercato. La ragazza lo guardò, inorridita ed ansimante, stringendo convulsamente in mano il coltello insanguinato. In quel momento udì un suono provenire dall’incrocio poco lontano: si voltò e vide un giovane che la fissava ad occhi spalancati, brandendo con entrambe le mani la propria spada, ancora sollevata. A giudicare dall’armatura arrugginita e malridotta, era certamente un mercenario...

 

 

 

 

NOTE DELL'AUTRICE:
Eccomo il nuovo capitolo, spero che vi piaccia! Devo avvisare che questa storia non avrà un aggiornamento regolare, perché ho molti impegni, soprattutto in questo periodo, ma cercherò di pubblicarne almeno due al mese.

*folendaro: uomo che vendeva le folende, cioè le pietre usate per accendere il fuoco.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


CAPITOLO 3:


Eufemia guardò negli occhi il soldato, che la fissava con sguardo allarmato, brandendo ancora la spada. Si accorse che era più giovane di quanto non le fosse sembrato in un primo momento: un accenno di barba corta e bionda gli copriva il viso, in cui spiccavano due occhi chiari di un colore indefinibile a causa della penombra. Era molto alto e robusto, con le spalle larghe ed una cotta di maglia arrugginita in alcuni punti. Lui la osservava di rimando: la ragazza stringeva ancora il coltello che aveva usato contro Malaspina ed aveva la mano sporca di sangue. Alcuni schizzi avevano raggiunto anche una manica del suo vestito, sporcandone l’orlo con delle macchie scure che si allargavano sul tessuto, ma a parte questo non c’era alcuna prova del delitto. Femia ebbe la vaga consapevolezza di sembrare una pazza, sporca di sangue e scarmigliata com’era.
«I-io non... lui voleva... ho dovuto ucciderlo!» balbettò. Soltanto in quel momento il pensiero di ciò che aveva fatto la colpì appieno: “Ho appena ucciso un uomo” pensò, senza il minimo rimorso o terrore. Aveva dovuto difendersi: lo aveva avvertito di non toccarla, di lasciarla in pace. Poteva incolpare soltanto se stesso per quello che gli era accaduto.
«Sì, ho... ho visto. Lui preso te, tu hai difeso» mormorò il nuovo arrivato, abbassando l’arma e rimettendola nel fodero. Aveva uno strano accento, secco e spigoloso, che Eufemia non aveva mai sentito prima, ma le sue parole smozzicate ed il fatto che non sembrava ritenerla colpevole la tranquillizzarono leggermente. Come se la situazione non la riguardasse più, la ragazza si avvicinò al lavatoio scavalcando il cadavere e pulì la lama del coltello, passandola più volte sotto l’acqua fredda. Mentre il getto gelido le colpiva le mani, ragionava: “Se lo straniero non parla, nessuno saprà che sono stata io. Oltre a noi non c’era nessuno in questa strada, inoltre tutti sanno che Giangaleazzo Malaspina finiva sempre coinvolto in qualche rissa: non indagheranno in modo approfondito. Durante le feste succedono sempre delitti del genere, perché dovrebbero curarsi proprio di questo omicidio in particolare?”. La ragazza abbassò lo sguardo sulle proprie mani. Non tremavano. Questo le fece sfuggire un sorriso di soddisfazione: anche nelle situazioni critiche poteva sempre contare sulla propria totale presenza di spirito.
«Non dire niente a nessuno. Non una parola!» ordinò allo sconosciuto quando ebbe finito di lavare il serramanico. Il ragazzo la guardò, perplesso.
«Non. Dire. Cosa. È. Successo» sillabò lei, sperando con tutto il cuore che capisse. Fortunatamente fu così.
«Io no visto nulla. Io in taverna stasera» replicò lui, porgendole una mano: uno strano gesto da compiere in una situazione del genere, ma sembrava quasi un segno di pace, il suggellamento di un accordo.
Inaspettatamente, la ragazza sorrise: lo straniero non avrebbe parlato, ma anche se lo avesse fatto, chi gli avrebbe creduto? Avrebbero pensato che l’avesse ucciso lui e che stesse cercando di coprire il fatto. D’altronde era uno straniero ed un mercenario, un capro espiatorio perfetto per le autorità cittadine...
«Grazie. Ora però devo andare » disse, stringendogliela, poi si allontanò in fretta, senza mai guardarsi indietro. Lungo la strada venne assalita da molti pensieri: paura per se stessa, per la sua famiglia e per quello che sarebbe potuto succedere se l’avessero scoperta, ma non il pentimento. Eufemia si sentiva leggermente in colpa per non provare nessun rimorso, ma non riusciva a imporsi di nutrire per Giangaleazzo un sentimento che non fosse un odio puro e pungente come una scheggia.  Mentre camminava, si arrotolò entrambe le maniche per nascondere le macchie di sangue, ma anche se qualcuno le avesse viste non gli sarebbe sembrato strano: lavorando in una macelleria è difficile non sporcarsi. Quando arrivò a casa, suo padre la salutò distrattamente, cosa che le permise di andare subito in camera sua senza dovergli fornire spiegazioni di qualunque genere. Sua sorella dormiva già, raggomitolata nelle coperte come un ghiro nella propria tana. La ragazza si svestì e si distese accanto a lei; poco dopo cadde in un sonno profondo e senza sogni.

I raggi del sole colpirono il viso di Eufemia, che si svegliò lentamente, sbattendo le palpebre e voltandosi nel letto per sfuggire alla luce improvvisa. Dopo un attimo in cui tutto le sembrò normale, i ricordi di ciò che era successo le tornarono alla mente, colpendola come un pugno nello stomaco. Spalancando gli occhi, la ragazza si sedette di scatto sul letto, scoprendo la sorella che dormiva ancora accanto a lei.
“Santo cielo. Ho ucciso Malaspina... il coltello, lo straniero...” ricordò, con il respiro affannoso ed il cuore che batteva forte, rimbombandole nella testa.
Dopo essersi vestita si diresse in cucina, dove si versò una tazza di latte, poi uscì di casa ed andò alla bottega. Era l’alba e le strade erano semideserte: per sapere se il delitto era già stato scoperto avrebbe dovuto aspettare il momento in cui le comari sarebbero passate in macelleria, diffondendo pettegolezzi sui festeggiamenti del giorno prima. Sospirando, la ragazza si scostò i capelli dal volto e cominciò a lavorare, affettando e dividendo la carne come ogni mattina, senza far trapelare nulla dei suoi sentimenti. Nonostante ciò, non poteva impedirsi di riflettere su ciò che aveva fatto e ai rischi che il suo gesto comportava.
“Che cosa potrebbe succedermi se mi scoprissero? Sicuramente mi condannerebbero al rogo, o a qualche altra pena orribile...” pensò rabbrividendo, poi scosse la testa, quasi a voler scacciare l’idea. No, impossibile, non l’avrebbero scoperta. Non c’erano testimoni a parte il mercenario, in più le autorità spesso chiudevano un occhio sui crimini compiuti in quelle circostanze, altrimenti non avrebbero mai avuto tregua: bastava pensare al Carnevale, in cui gli omicidi e le risse erano una regola!
Anche il padre dopo un po’ la raggiunse in bottega, ma non sembrava sapere nulla: le domandò soltanto, con un sorriso impacciato, se si era divertita il giorno prima. I due lavorarono tranquillamente per qualche ora, fino a quando non giunsero al negozio i primi clienti. La signora Scandolo, una donnina piccola e rugosa che conosceva i peccati e gli scheletri nell’armadio di ogni cittadino, non tardò ad arrivare.
«Avete sentito della disgrazia?» esordì, facendo il suo ingresso nel negozio con la consueta andatura lenta e malferma.
«Buongiorno, comare Scandolo. Di che disgrazia parlate?» la accolse il padre di Eufemia, aggiustandosi il grembiule.
«Come, non avete saputo? Eppure immaginavo che proprio voi, tra tutti, ne foste già a conoscenza... il figlio di mastro Malaspina, Giangaleazzo, è stato ucciso ieri notte!»
«Che cosa?» esclamò la ragazza nel sentirlo, assumendo l’aria più sconvolta che le riuscì.
«Già, che cosa terribile. Ho saputo che era il tuo promesso sposo, povera cara... chissà che dolore sarà per te!»
“Invece non hai idea di quanto la sua morte sia stata una liberazione per me, vecchia megera!” pensò lei, mantenendo però un’espressione impassibile. Quella donna non le era mai piaciuta: la considerava un vero e proprio avvoltoio, che si nutriva e si beava delle sventure altrui. Il sentimento era certamente reciproco, a giudicare dal leggero sorrisetto che aleggiava sul volto grinzoso della vecchia.
Mastro Cavadecchi domandò, pallido come un morto: «Qualcuno sa chi è stato?»
«No, nessuno ha visto niente. Dopotutto il ragazzo era un assiduo frequentatore delle peggiori bettole della città, spesso era coinvolto in zuffe... prima o poi sarebbe successa una cosa del genere» replicò la comare, con un malcelato ghigno.
Dopo aver espresso le sue più sentite condoglianze ed altre frasi di rito, la donna se ne andò: padre e figlia rimasero soli nel negozio. Per alcuni minuti rimasero in silenzio, poi Eufemia parlò.
«Santo cielo. Una cosa del genere... è terribile».
«È davvero tremendo. Una sciagura!» sospirò suo padre, apparentemente senza fare caso all’improvviso cambiamento dei sentimenti della figlia nei confronti del defunto fidanzato.
La ragazza, cercando di sembrare addolorata, si spostò nel retrobottega con la scusa di dover tagliare dei nuovi quarti di carne. Non appena scomparve alla vista del padre, si concesse un sogghigno di trionfo: non era stata scoperta!
Aspetta, non è ancora il momento di cantar vittoria... dovrai recitare la parte della fidanzata afflitta ancora per qualche giorno, poi finalmente sarai libera da ogni sospetto su di te” si disse, affettando soddisfatta un grosso pezzo di montone.

Il mattino seguente, il lavoro in bottega procedeva tranquillo come al solito. Suo padre era ancora taciturno e piuttosto irascibile per il mancato matrimonio, quindi Eufemia lavorava ancora più alacremente del solito, per evitare scontri e litigi. Mentre la ragazza stava servendo una cliente abituale, un uomo fece irruzione nella macelleria. Femia lo riconobbe subito: era un altro componente della Corporazione dei Beccai, un pescivendolo che lavorava in un negozio dalle parti del Mercato.
«Mastro Cavadecchi, deve subito venire all’assemblea!» gridò, ansimando.
«Che cosa succede? Qualcuno ha scoperto chi ha ucciso Malaspina?»
«No... è terribile, terribile! Siamo di nuovo in guerra, ci hanno attaccato stamane all’alba!» esclamò l’uomo. Il conflitto era ricominciato, dopo pochi giorni di tregua. Alcune truppe del Comune nemico avevano attaccato delle fattorie di contadini sul confine, devastandole ed uccidendo gli abitanti: per questo i Consoli avevano indetto un’assemblea alla quale dovevano partecipare tutti i maggiori rappresentanti delle Corporazioni, per decidere il da farsi. Il padre di Eufemia lo seguì subito, lasciando la gestione della bottega alla figlia.
La ragazza si sentiva sollevata: certo, essere di nuovo in guerra era tremendo, ma ciò significava che le autorità si sarebbero completamente dimenticate dell’omicidio di Malaspina. D’altronde, che cos’era un assassinio di fronte al pericolo di un’invasione? Femia continuò a lavorare, fischiettando allegramente. Approfittando dell’assenza del padre, intascò le solite due monete d’argento da portare a Balduino. All’ora di chiusura suo padre non era ancora tornato: evidentemente la situazione era molto grave. Mentre chiudeva il negozio, udì dei passi dietro di sé, ed una voce fredda come il ghiaccio mormorò: «Signorina Cavadecchi, buonasera».
Eufemia si girò di scatto. Dietro di lei c’era il padre di Giangaleazzo, avvolto nell’elegante mantello nero che indossava sempre.
«Signor Malaspina! Mi dispiace per vostro figlio... deve essere una perdita molto dolorosa per voi, come lo è per me. Avete dei sospetti su chi possa essere stato?» replicò, guardandolo negli occhi.
«Sì, sospettiamo di qualcuno, ma non abbiamo ancora prove certe. Naturalmente, adesso la questione della ripresa delle ostilità è la più importante, ma continueremo a indagare. Posso assicurarvi che il colpevole sarà presto... assicurato alla giustizia» replicò lui con impeccabile cortesia, senza mai distogliere lo sguardo glaciale dal volto della ragazza. Eufemia deglutì: era una sfumatura di minaccia quella che sentiva nella voce dell’uomo? Sapeva forse qualcosa su ciò che era successo la sera prima?
«Lo spero, signore. Ora però devo tornare a casa: arrivederci» lo congedò, mantenendo la voce ferma. L’uomo la salutò e si allontanò, con il mantello nero che si muoveva nel vento simile ad un’ala di corvo.
La ragazza corse a casa sua. Era nervosa ed agitata, tanto che quando entrò sua sorella le domandò, in uno slancio di preoccupazione sororale più unico che raro: «Tutto bene? Sei pallidissima, sembra che tu abbia visto un fantasma!»
«Non preoccuparti. Sto bene» le rispose seccamente lei, imponendosi di calmarsi. Durante la cena si comportò normalmente: fu solo quando si ritrovò nel buio della sua stanza, con Maria addormentata accanto a sé, che si abbandonò alla paura.
Se ci sono delle prove mi scopriranno. C’era qualcun altro per strada o lo straniero ha parlato? Oppure sono io che sto diventando paranoica ed ho solo immaginato che lui fosse minaccioso? No, questo no. Era un avvertimento, ne sono sicura. Devo andarmene, altrimenti tra qualche giorno verranno a prendermi e mi porteranno in tribunale... ma dove posso andare?
Eufemia ragionava, con gli occhi spalancati nell’oscurità. Come donna, non avrebbe potuto fuggire da sola in un’altra città, avrebbe attirato troppo l’attenzione. Inoltre, l’unico modo per una ragazza di mantenersi da sola era di andare a fare la prostituta, ma quello sicuramente non l’avrebbe mai fatto: decisamente il vestito giallo* non era il suo destino. Se si fosse finta un ragazzo il problema sarebbe stato evitato, ma ne sarebbero insorti di nuovi: “Non riuscirò mai a farmi assumere come apprendista in un’altra città, men che meno ad aprire un negozio. Le leggi delle Corporazioni sulla concorrenza sono spietate anche per i cittadini, per chi non è nato nel Comune sono ancora peggiori. Potrei soltanto diventare...”
La ragazza si interruppe di colpo. Un mercenario! Mastro Malaspina non l’avrebbe mai cercata nell’esercito e all’arruolamento nessuno le avrebbe fatto troppe domande: con una guerra in corso non ci si può permettere di fare gli schizzinosi. In più la paga era assicurata, perché il governo cittadino non voleva certo rischiare che i suoi temporanei alleati si trasformassero in nemici.
La decisione era presa. Femia si alzò e si diresse silenziosamente nella camera di suo padre, che russava disteso sul letto. Facendo attenzione a non svegliarlo, rubò alcuni suoi indumenti, poi uscì. Era un uomo piuttosto corpulento, quindi gli abiti le stavano larghi, ma non aveva tempo per pensarci: si vestì, poi prese il suo coltello e la piccola sacca di cuoio che conteneva tutti i suoi risparmi. Tornata nella propria stanza, raccolse in una coda i propri capelli castani, poi prese il suo serramanico e li tagliò alla bell’e meglio: li guardò per un attimo, passando le dita in mezzo alle ciocche lisce e folte, poi li gettò via con un gesto di stizza, quasi rimproverandosi per quell’inutile  sentimentalismo. Il risultato non era dei più ordinati, ma era passabile. Stava per andarsene, quando udì un rumore: era Maria che si era rigirata nel letto, scoprendosi. Eufemia le si avvicinò e le rimboccò le coperte, lanciandole una lunga occhiata. Avrebbe sentito la sua mancanza... era acida, vanitosa ed irritante, ma era pur sempre sua sorella. In quel momento le tornò alla mente un ricordo, seppellito da chissà quanto tempo.
L’epidemia di Morte Nera si era da poco placata. Eufemia aveva undici anni e si era ritrovata in poco tempo la maggiore delle figlie Cavadecchi, Maria ne aveva quasi otto e le si stringeva contro, in quello stesso letto, mormorando tra le lacrime: «Femia, voglio la mamma. Dove è andata?»
Lei non sapeva cosa rispondere: l’unica cosa a cui riusciva a pensare era il fatto che avrebbe voluto soltanto che Violante fosse lì con lei e la abbracciasse come quando erano piccole, ma sua sorella era stata la prima vittima della peste nella loro famiglia. Il dolore di quando era passata al convento per salutarla ed una monaca le aveva risposto che non poteva vederla perché non stava bene ritornò, forte come lo era stato quel giorno di poche settimane prima. A quel punto aveva stretto a sé la sorellina, cercando di calmarla e allo stesso tempo di tranquillizzare se stessa: «Andrà tutto bene, Maria. Ci sono qui io. Andrà tutto bene».

Il pensiero le strinse il cuore, facendola quasi pentire di ciò che stava facendo, ma ormai era troppo tardi per tornare indietro. Le fece una carezza leggera ed impacciata sui capelli, poi scrisse in fretta un biglietto e lasciò la casa. Per strada passò accanto alla baracca di Balduino, che però era vuota. Appoggiò sul pavimento nudo alcune monete, che gli sarebbero bastate per qualche tempo, accompagnate dallo stesso messaggio che aveva lasciato alla sua famiglia.

Devo andare, non cercatemi. Mi dispiace.

Avere i capelli corti le dava una sensazione strana, abituata com’era a portarli lunghi: l’aria fredda della mattina le pungeva la nuca, facendola rabbrividire. Camminando, si sentiva insicura. Non riusciva ad impedirsi di pensare che sarebbe stata scoperta, che l’avrebbero fermata, ma le poche persone che incontrava non sembravano degnarla di uno sguardo. Dirigendosi verso il porto, dove sapeva che avrebbe potuto unirsi ai mercenari, si fece sempre più calma al trascorrere del tempo: non la vedevano! Nessuno dei passanti poteva sospettare che sotto quella zazzera corta ed ispida e quei vestiti maschili troppo larghi si nascondesse una ragazza! Questa consapevolezza la riempì, facendola sentire più leggera. Arrivata al porto, vide che alcune persone si erano già radunate per l’arruolamento. Pochi erano originari del Comune, perché gli abitanti ritenevano più importanti i loro commerci della guerra e non volevano lasciare le loro botteghe e gli affari: erano perlopiù stranieri, molti di loro parlavano con fatica il dialetto della città. Qualcuno la urtò violentemente, facendola barcollare. Eufemia si girò di scatto, ritrovandosi a fissare il volto del soldato che aveva incontrato la sera dell’omicidio. Quest’ultimo la guardò socchiudendo gli occhi grigi, quasi cercando di capire dove l’avesse vista prima, poi ci rinunciò.
«È qui che ci si arruola?» gli domandò lei, grata di avere una voce più profonda di quella della maggior parte delle ragazze.

 

 

 

 

 

 

NOTE DELL'AUTRICE:
Ciao! Ecco il secondo aggiornamento del mese, come promesso. Spero che vi piaccia!
*Vestito giallo: nel Medioevo le prostitute dovevano portare un abito giallo, simbolo del loro "mestiere".

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


CAPITOLO 4:


Erano passati quattro giorni dal momento in cui Eufemia si era unita all’esercito mercenario. Con i pochi soldi che aveva portato con sé aveva comprato una spada ed una cotta di maglia per proteggersi. Entrambe erano leggermente arrugginite e non erano di qualità ottima, ma avevano comunque l’aria piuttosto resistente ed erano il meglio che si era potuta permettere dopo aver mercanteggiato per ore con l’armaiolo ed il cottaio. Era stata assegnata ad un gruppo di soldati sotto il comando di un certo Agilulf, ma era stato tutto così rapido e confuso che non si era resa completamente conto di tutto ciò che le era successo nelle ultime ore. Inoltre, lo scoprire che l’unico testimone dell’omicidio che aveva commesso era un suo commilitone e che in più faceva parte della sua stessa armata inizialmente l’aveva spaventata.
«Sì, ci si arruolare qui» le aveva risposto quattro giorni prima, quando gli aveva domandato se era nel posto giusto. Quando si era resa conto che si trattava del ragazzo della notte della festa, aveva avuto un attimo di esitazione: era combattuta tra l’istinto di fuggire subito via e di evitarlo per tutta la durata della guerra e quello di sguainare la spada e puntargliela alla gola per scoprire se era stato lui a denunciarla al padre di Giangaleazzo o no. Siccome il ragazzo non dava segno di averla riconosciuta, decise di non mettere in atto nessuno dei due propositi.
«Io sono Alois» si era presentato poco dopo, quando era stata assegnata al gruppo di Agilulf. «Io anche sono nel tuo reparto».
“Santo Cielo, dovrò combattere con lui! Quest’uomo è diventato la mia persecuzione!” pensò la ragazza, ma gli strinse brevemente la mano.
«Io mi chiamo Lodovico» replicò seccamente, usando il nome che si era scelta la notte della fuga. Ormai i suoi timori di venire scoperta erano quasi svaniti, perché fin da quando si era arruolata nei mercenari tutti gli uomini con cui era venuta a contatto la trattavano come uno di loro. Spesso le parlavano con supponenza, perché era uno tra i soldati più giovani, ma a parte questo nessuno la infastidiva particolarmente o mostrava di aver scoperto indizi compromettenti sulla sua identità.
«Ludwig» aveva detto Alois, dopo che si era presentata. «Da me, tu chiami “Ludwig”».
«Ah. Bene» aveva replicato lei, perplessa. Il ragazzo aveva cominciato a parlare nel suo stentato dialetto del Comune, mentre Eufemia cercava di seguire il discorso. Sembrava che per qualche motivo il ragazzo l’avesse presa in simpatia, perché in quei due giorni spesso le dava dei suggerimenti su chi evitare, su come comportarsi con determinate persone... piccoli avvertimenti che potevano sembrare di poco conto, ma che si erano rivelati utili.

«Oggi ti impareranno a usare armi. Tu sa già?» domandò Alois a Femia comparendole improvvisamente alle spalle, distraendola dai suoi pensieri. La ragazza era seduta su una pietra nella boscaglia, poco fuori dalle mura cittadine: si stavano incamminando verso il campo di battaglia. Siccome molti delle nuove reclute non erano soldati esperti (soprattutto coloro che venivano dal Comune, che erano soprattutto mercanti o artigiani completamente privi di esperienza in campo militare), qualcuno doveva insegnare loro come usare una spada, o qualunque arma avessero a disposizione.
«Si dice “ti insegneranno” e “tu sai”» puntualizzò lei, come aveva preso l’abitudine di fare da un po’ di tempo a quella parte. «Comunque no, non ho mai usato una spada. Però conosco le lame... sai, sono figlio di un macellaio».
«Davvero?»
«Sì, lo aiutavo in negozio, quindi sono piuttosto esperto al riguardo!» esclamò la ragazza. D’altronde, non c’era alcun bisogno di mentire su tutto. Inventarsi una nuova storia sarebbe stato controproducente, perché avrebbe reso più facile confondersi e tradirsi. I primi giorni aveva rischiato grosso, perché era capitato un paio di volte che la chiamassero e lei non rispondesse, non ricordando che tecnicamente da quel momento in poi il suo nome sarebbe stato Lodovico: per questo aveva deciso che non avrebbe cambiato molto la propria storia, tranne alcuni dettagli fondamentali.
«Sai già chi ci insegnerà? Il capitano?»
«No, lui importante. È un soldato che vi impa... vi insegnerà» rispose lui, correggendo repentinamente l’errore. La ragazza sorrise soddisfatta, ma in quel momento un uomo che passava di lì li chiamò a gran voce.
«Stanno cominciando ad insegnare come usare le armi! Muovetevi!»
I due lo seguirono e si unirono al loro gruppo. Tutti i soldati di Agilulf si erano disposti in un cerchio al cui centro c’era Ruggero, il luogotenente: un uomo basso e robusto sui cinquant’anni, dai capelli grigi, lo sguardo felino e la voce roca. Non era molto amato tra i suoi uomini: la sua ferocia era leggendaria, così come la sua abitudine di accanirsi sui novellini. Solitamente sceglieva i più giovani e timidi e li tiranneggiava in ogni modo, rendendo la loro vita un vero inferno. “Stai lontano da lui. È brutta persona, come nemici» aveva detto Alois in proposito, adombrandosi ed abbandonando per un attimo il suo abituale buonumore. Eufemia aveva obbedito, cercando di evitarlo il più possibile.
«Eccoli qui, i due ritardatari. Siete delle mezze cartucce!» gridò, vedendoli arrivare.
«Cos’è, ti sei già pentito di esserti arruolato?» domandò a Eufemia, avvicinandosi a lei ed avvicinando il volto rubizzo al suo.
«No, signore» replicò seccamente lei, guardandolo negli occhi. “Non sono venuta fino a qui per lasciarmi maltrattare dal primo idiota che incontro!”
«Ah, abbiamo qui un vero combattente, signori. Immagino che non avrai niente in contrario se comincio da te a mostrare a tutti i rudimenti della nobile arte della guerra» proseguì il luogotenente con un tono viscido.
Ignorando lo sguardo di avvertimento ed il mormorio agitato dell’amico (“Lodovico, no. Vuole provocare te, non ascoltare”) la ragazza si diresse verso il centro del circolo, stringendo la propria arma nella mano sudata ma perfettamente ferma.
«Hai mai preso in mano una spada?»
«No».
«Capisco. Ecco il tipico esempio di pivello che si crede un eroe...» replicò Ruggero, con una luce pericolosa negli occhi. «Adesso vedremo se sarai all’altezza delle tue aspettative».
Il mercenario sguainò la spada, che sibilò fendendo l’aria. Femia si posizionò davanti a lui, senza mai perderlo di vista e sollevando la propria davanti a sé. Ad un tratto l’uomo balzò verso di lei menando un forte fendente, ma lei lo schivò spostandosi indietro. Riuscì a parare anche i seguenti, infatti le due armi cozzavano l’una contro l’altra con un rumore stridente e metallico che le feriva le orecchie. Poteva vedere la furia del suo avversario: forse inizialmente il luogotenente aveva pensato che avrebbe conquistato una vittoria facile, una pura dimostrazione di superiorità nei suoi confronti... ma evidentemente aveva sbagliato a giudicarla. Ad un tratto notò che l’uomo, alzando la spada per colpirla, aveva lasciato senza difese lo sterno: tentò un affondo, ma fu subito bloccata dalla spada dell’altro, che scintillò al sole.
«Cosa credevi di fare? Era un colpo troppo debole e lento» ghignò l’altro, ansimando. I suoi colpi ricominciarono a fendere l’aria, sempre più rapidi e vicini.
“Finora sono riuscita a pararli, ma per quanto riuscirò a continuare così?” si chiese la ragazza, con il sudore che colava lungo la fronte. Attaccare era impossibile, perché il suo avversario era più forte ed esperto, in più le braccia cominciavano a dolerle per il peso della spada ed il sudore le entrava negli occhi, irritandoli ed arrossandoli. Nonostante ciò, sentiva su di sé gli sguardi dei suoi compagni d’arme e udiva i loro mormorii, anche se non avrebbe saputo dire se erano di approvazione o di scherno: non si sarebbe arresa facilmente, non di fronte a tutti loro! Impugnò più saldamente l’elsa con entrambe le mani e si preparò a parare gli attacchi successivi.
Mentre schivava l’ennesimo fendente, sentì gli spettatori zittirsi improvvisamente ed una voce esclamare: «Ben fatto, Geri... vedo che stai già insegnando ai nuovi arrivati a combattere».
Eufemia vide Ruggero voltarsi verso il punto in cui presumibilmente si trovava l’uomo che aveva parlato. Forse aveva una speranza di terminare quel duello con onore. Non perse tempo: approfittando di quell’attimo di distrazione, gli allungò un forte calcio sullo stinco, poi colpì con tutte le sue forze la spada dell’altro. L’uomo, stordito dal dolore, non riuscì a reagire abbastanza in fretta e la spada gli schizzò via di mano, cadendo rumorosamente a terra.

La ragazza, ansante, fece in tempo a registrare alcuni commenti ammirati di alcuni mercenari.
“Però, il pivellino... che grinta!”
La voce parlò di nuovo: era quella di un uomo alto dai radi capelli rossicci. Non era propriamente imponente, ma irradiava calma e decisione. Aveva il ruolo di comandante scritto nelle rughe che cominciavano a segnargli il volto, nella gravità dello sguardo, nei gesti fermi: doveva essere il famoso Agilulf.
«Niente male, ragazzo. Certo, adesso hai avuto fortuna... ma con la pratica diventerai un ottimo soldato. Luogotenente, suggerirei di cominciare a mostrare alle reclute i colpi fondamentali. Resterò qui a vedere come se la cavano. Naturalmente, il vostro duello finisce qui. Intesi?» continuò. Aveva un accento particolare, simile a quello di Alois ma meno marcato.
«Signorsì» replicò Ruggero, tenendosi una mano sulla gamba, poi si raddrizzò e cominciò ad abbaiare agli uomini degli ordini.
Ritornando al proprio posto, Femia vide Alois rivolgerle un sorriso di incoraggiamento. Successivamente, quando si divisero in coppie per esercitarsi con i colpi, il ragazzo si complimentò con lei.
«Ben fatto, Lodovico: tu ha fatto vedere lui!»
«Si dice “gliel’hai fatta vedere”... comunque ho l’impressione di essere nei guai: hai visto come mi guarda?»
«Ha... no, hai ragione. Ora lui odia te, perché hai fatto sembrare lui principiante davanti a uomini» ammise lui, scuotendo preoccupato la testa.
“Ha ragione. Adesso Ruggero vorrà vendetta: dovrò guardarmi le spalle” ragionò la ragazza maledicendosi mentalmente per il proprio orgoglio, mentre cercava di eludere la guardia dell’amico con una finta, come aveva appena visto fare al luogotenente.
Era ormai sera quando Agilulf decise che poteva bastare e permise loro di allontanarsi.
Passandole accanto, Ruggero le lanciò un’occhiata minacciosa: «Me la pagherai, bastardo» sibilò, poi sputò per terra e si allontanò verso la propria tenda. Eufemia rabbrividì: la sua non era stata una mossa saggia, quell’individuo avrebbe potuto rivelarsi pericoloso. Non era pentita di ciò che aveva fatto, ma quello sarebbe stato un problema in più, che andava ad aggiungersi ai tanti che già aveva. Da quel momento in poi avrebbe dovuto stare ancora più attenta a non farsi scoprire.
Unendosi agli uomini, ricevette alcune pacche sulle spalle: decisamente il luogotenente non godeva di grande popolarità. Sedendosi tra l’erba accanto ad un bosco, udì uno di loro mormorare: «Speriamo che oggi ci sia qualcosa da mangiare».
«Non preoccuparti. Forse oggi saremo più fortunati con la caccia» replicò tranquillamente un altro, un soldato dalla pelle abbronzata con una lunga cicatrice che gli attraversava la faccia, partendo dalla tempia e perdendosi nell'ispida barba nera. Fece un fischio basso. Poco dopo una sagoma scura spuntò dal fogliame e volò verso di lui, che tese il braccio. Indossava uno spesso guanto di cuoio su una mano: poco dopo Eufemia capì perché. Su di esso si era appena posato un grosso falco dalle penne scure, che stringeva tra gli artigli quello che sembrava un fagiano.
«Non è molto grosso... dovremo accontentarci» mormorò il suo proprietario, liberando delicatamente la preda dalle grinfie del rapace e cominciando a spiumarlo, mentre l'animale lo fissava attento, socchiudendo il becco adunco. Terminata l’operazione, estrasse un coltello e cominciò a tagliare la carne.
«Aspetta, non si fa così» sbottò la ragazza. Tutti si voltarono a guardarla interrogativamente.
«È sbagliato, vedi? Così è più difficile dividere i vari pezzi, è impossibile che si formino delle parti uguali. Bisogna fare in questo modo». continuò, accigliata, prendendo il proprio serramanico mostrando agli uomini come fare. Lentamente, gli sguardi irritati dei suoi compagni d’arme si tramutarono in occhiate di approvazione, mentre dei pezzi di carne di grandezza più o meno simile cominciavano a prendere forma tra le mani della ragazza.
«Dove hai imparato?»
«Mio padre è un macellaio. Lo aiutavo in negozio, so quello che faccio» replicò lei, con un mezzo sorriso.
Poco dopo i pezzi di carne vennero arrostiti sul fuoco che qualcuno aveva appena acceso, emanando un profumo di selvaggina forte ma gradevole. Mentre cuocevano, Femia cominciò a parlare con Wiligelmo, il falconiere. Era una persona seria e pacata: probabilmente era il più rispettato tra i soldati semplici , per l’autorità che dimostrava senza bisogno di alzare la voce o di ricorrere alle maniere forti. Le raccontò che aveva imparato l'arte della caccia con i rapaci alla corte di un signore: era il figlio dell'addestratore dei rapaci dell'uomo.
Quando il fagiano fu cotto, cominciarono a mangiarlo in silenzio, con i volti rischiarati dalle fiamme che spiccavano nell’oscurità. La ragazza si guardò intorno, pensando che una notte come quella sarebbe stata una delle ultime: presto sarebbero andati in battaglia. Poco dopo i mercenari cominciarono a parlare tra di loro. Alcuni li conosceva di vista, evidentemente erano anche loro dei volontari provenienti dal Comune. Le pareva di ricordare che uno di loro fosse un fabbro, ma non ne era sicura. Naturalmente, ora non lo era più: era diventato un soldato, come tutti loro.
«Com’è? La guerra, intendo» mormorò, rivolta a Wiligelmo. Era la prima volta che osava formulare quella domanda, a cui aveva evitato di pensare fin dall’arruolamento.
«Immagino che lo scoprirai tra non molto» replicò lui, serio. «Di sicuro avrai sentito i cantastorie parlare di cavalleria e di gloria. Ecco, ora devi dimenticare queste parole e sostituirle con “sangue” e “situazioni disperate”. Questo per darti un’idea. In più nessuno ci ringrazierà mai: siamo mercenari, buoni per combattere quando nessun altro è disposto a farlo, ma indesiderabili non appena il conflitto finisce. Benvenuto fra noi!»
Eufemia fissò il fuoco con sguardo assente. In fondo se lo aspettava: era consapevole di ciò che comportava arruolarsi, quando era fuggita di casa.
“Sarà dura, certo, ma non importa. Affronterò anche questo. Ce la farò” si disse, guardando le fiamme guizzare nel buio.

 

 

 

 

 

ANGOLO DELL'AUTRICE:
...Ed è quando qualcuno (moi), che già ha dei tempi di aggiornamento vergognosi, non riesce a rispettare le scadenze che si è prefissato e pubblica un solo capitolo anziche è due promessi, che capisce di essere caduto davvero in basso. Chiedo scusa a chiunque legga la storia e prometto che mese prossimo rimedierò. Non ci saranno impegni, tifoni o invasioni aliene che tengano, ne scriverò due come promesso! ;)

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


CAPITOLO 5:


I mercenari camminavano lenti sul sentiero, dirigendosi verso il campo di battaglia. Trovare la strada era semplice: bastava dirigersi verso il luogo da cui vedevano allontanarsi i profughi. In quei giorni Eufemia ne aveva visti tanti, di quei fuggitivi. Alcuni si muovevano da soli, portando con sé le poche cose che erano riusciti a portare via dalle loro case prima di abbandonarle, ma erano perlopiù intere famiglie provenienti dalle fattorie del contado che andavano a cercare rifugio dalle razzie dei nemici nel Comune. La maggior parte di loro si spostava a piedi, con i vestiti sudati e sporchi della polvere che si alzava dalla strada ad ogni passo, mentre i più fortunati viaggiavano su dei carretti malandati sui quali avevano stipato i loro pochi averi ed i loro innumerevoli figli: aveva visto una giovane madre con uno scialle consunto di lana grigia che con un braccio stringeva a sé un bambino di pochi mesi, attorniata da almeno altri cinque marmocchi che le si erano avvicinati repentinamente quando avevano incrociato i soldati. Mentre passavano loro accanto, i piccoli li avevano guardati con occhi grandi e spaventati, atterriti dalla vista delle loro armature arrugginite e delle loro armi. Alcuni mercenari li avevano ignorati, altri avevano tentato di rivolgere loro dei sorrisi che però erano serviti solo a spaventarli di più. Wiligelmo aveva trovato nella sua bisaccia alcuni avanzi di carne che avevano cucinato il giorno prima e l’aveva offerta alla donna, nonostante le proteste non troppo velate di molti suoi commilitoni. Quest’ultima aveva mormorato un ringraziamento mentre il carro si allontanava, accompagnato dal cigolio delle ruote e dagli sbuffi del vecchio cavallo che lo trainava. In quell’istante la ragazza si era resa conto che quella contadina non sembrava molto più grande di lei, forse di tre o quattro anni al massimo.
«Santo cielo» si lasciò sfuggire, guardandoli scomparire all’orizzonte «Questo è già il terzo gruppo che vediamo oggi, senza contare quelli che abbiamo incontrato nei giorni scorsi. Finiranno tutti a chiedere l’elemosina per le strade della città!»
«Meglio vivi e mendicare che morti» replicò Alois con un sorriso sghembo.
«Questo è poco ma sicuro... anche se mi chiedo come faranno a sfamare tutti quei figli».
«Io invece mi chiedo come faremo a campare noi! Non avresti dovuto dare a quei pezzenti il nostro cibo!» sbottò all’improvviso uno dei soldati, un uomo grande e grosso senza un occhio. L’aveva perso durante un incendio, le aveva raccontato Wiligelmo pochi giorni prima: da ragazzo era rimasto intrappolato nella propria casa in fiamme, quando essa era stata attaccata dall’esercito nemico. Era riuscito a fuggire appena in tempo con i propri genitori, ma il fuoco gli aveva divorato gran parte del volto, sfigurandolo. Nonostante questa menomazione, era uno tra i mercenari più temuti: aveva imparato a combattere servendosi al meglio dell’unico occhio rimanente e di tutti gli altri sensi. I suoi compagni d'arme lo chiamavano "il Guercio", ma questo soprannome veniva usato con rispetto e persino con timore.
«Smettila. Erano rimasti pochi pezzi, non sarebbero comunque bastati a sfamarci tutti» replicò freddamente il falconiere.
«Forse, ma ora non abbiamo più niente ed il rancio non arriva da giorni!» gridò l’altro, ergendosi in tutta la sua altezza ed avvicinandosi minacciosamente al suo interlocutore.
Wiligelmo si mosse repentinamente, portando la mano all’elsa della spada. I suoi occhi, di solito fermi e decisi, si erano assottigliati ed avevano assunto una luce pericolosa. «Allora digiunerai, come faremo tutti! Ricordati che qui sono io che procuro il cibo, quindi posso farne ciò che voglio!» ruggì, in tono tanto minaccioso che il suo commilitone indietreggiò. Sul suo si disegnarono rabbia e disprezzo: la ragazza era sicura che da un momento all’altro avrebbe attaccato il falconiere e si preparò ad intervenire, ma ad un tratto l’uomo sputò per terra, si voltò e si allontanò imprecando. I mercenari che si erano riuniti attorno ai due ricominciarono a camminare, alcuni delusi dalla brusca conclusione della lite, ma altri sollevati che non fosse degenerata.
«Lodovico, non preoccupa tu. Lui fa spesso così, ma mai attacca Wiligelmo» mormorò in quel momento Alois, affiancando la ragazza.
«Perché?» sussurrò lei di rimando, incuriosita suo malgrado.
«Sa che lui è troppo forte e che non poter... no, non potrebbe vincere» replicò il ragazzo, alzando le spalle. I due proseguirono per un po’ in silenzio, poi ad un tratto lo straniero parlò.
«Hai paura?»
«Di che cosa?» gli domandò Femia, stupita.
«Noi stare andando in guerra... tu non ci sei mai stato. Sei s... s...» cercò di spiegarle lui, ma dopo alcuni tentennamenti rinunciò a terminare la frase.
«Spaventato?» gli venne in aiuto la ragazza. La frase la colpì: fino a quel momento non si era quasi posta il problema, era stata troppo occupata a tenere celata la sua vera identità agli altri soldati. “Ormai niente può più spaventarmi” pensò cupamente. “Il destino che mi aspetta se combatterò non è molto diverso da ciò che dovrei affrontare se scoprissero che sono una donna, o che ho ucciso il mio promesso sposo”. Cercò di pensare ad una risposta che non la facesse sembrare né una smargiassa, né una codarda: non voleva insospettire gli altri mercenari dimostrandosi troppo sfrontata o troppo pavida.
«Non lo so. Insomma, è come hai detto tu: non ho mai combattuto, posso solo immaginare come sia... ma in ogni caso lo scoprirò presto» replicò, forse più seccamente di quanto non fosse nelle sue intenzioni. Alois annuì, serio.
«Hai ragione. Presto toccare a noi».
«Si dice “toccherà”!» lo avvisò lei, nascondendo un sorriso.

La sera stessa si fermarono a riposare in una cascina abbandonata che incontrarono lungo la strada. Era una lunga costruzione di mattoni schiariti dal sole, con davanti un piccolo orto del tutto spoglio. Ad una prima occhiata sembrava che i proprietari l’avessero lasciata per rifugiarsi nel vicino Comune, come era successo alle altre che avevano visto, ma non appena entrarono, i soldati vennero assaliti dall’odore penetrante e metallico del sangue: un sentore che tutti loro conoscevano fin troppo bene. I primi ad entrare si arrestarono improvvisamente.
«Che cosa...» domandò Eufemia, ma subito la domanda le morì in gola: aveva visto qualcosa sul pavimento. Quando gli uomini che le stavano davanti si spostarono, vide che si trattava di un uomo riverso a terra, circondato da una pozza di sangue, con taglio lungo e slabbrato che gli attraversava la gola da parte a parte. Una rapida ispezione rivelò anche i corpi di una ragazza e di un bambino piccolo, che presentavano anch’essi delle profonde ferite. I pochi mobili della casa erano rovesciati e la dispensa era spalancata e vuota: era evidente che i proprietari dovevano essere stati sorpresi da una razzia dei nemici e che erano morti nel tentativo di difendere ciò che possedevano.
«Il sangue è ancora fresco, non è passato molto tempo da quando li hanno uccisi» mormorò in quel momento Agilulf. Femia lo osservò, stupita: non si era accorta della presenza del comandante.
«Fate attenzione, potrebbero essere ancora qui intorno».
In quel momento si udì un rumore provenire dalla stanza accanto e subito i mercenari sguainarono le loro armi, pronti ad attaccare. Visto che il suono si ripeté nuovamente, Alois e la ragazza, i più vicini, si avvicinarono silenziosamente alla porta e la spalancarono con violenza, rivelando il corpo di qualcuno che si trascinava sulle assi di legno del pavimento. Era una donna di forse quarant’anni. I capelli neri in cui si intravedevano dei fili argentati inizialmente dovevano essere stati raccolti in una crocchia dietro la testa, ma ora si erano sciolti e spiovevano in lunghe ciocche disordinate sul suo volto insanguinato. Aveva il respiro affannoso e rantolante e strisciava faticosamente verso di loro aiutandosi con le braccia. Eufemia istintivamente si precipitò verso di lei, lasciando cadere la spada. Solo vagamente consapevole del fatto che anche altri soldati erano entrati nella stanza, prese la donna tra le braccia e la strinse a sé.

“È la stessa cosa che facevo per tranquillizzare Maria, quando era piccola e mi svegliava in piena notte per un incubo...” le venne da pensare, ma il ricordo svanì subito: il liquido scuro che la ricopriva era fin troppo reale, così come i rantoli della sconosciuta, che le stringeva disperatamente una mano conficcandole le unghie nella carne.
«I soldati... nemici... sono stati loro...» mormorò quest’ultima, con voce roca e quasi inintelligibile.
«Lo so. Non preoccuparti, adesso qualcuno ti curerà. Starai bene» cercò di rassicurarla la ragazza, anche se sapeva che non era vero. Nel sentire queste parole, Alois scosse la testa e si indicò lo sterno, nel posto dove approssimativamente dovevano trovarsi i polmoni: si trattava di una ferita mortale.
«Mio... mio figlio» boccheggiò la donna, stringendo ancora di più la presa sulla mano della ragazza.
«Lui... è con noi» mentì Eufemia, ricordando il bimbo visto appena entrata nella cascina. «Non preoccuparti. Starà bene. Quando starai meglio ritornerà con te».
«Graz...» cercò di replicare l’altra, ma venne interrotta da un attacco di tosse che la scosse dalla testa ai piedi. Cercò di dire qualcosa, ma improvvisamente i suoi occhi si appannarono e si afflosciò a terra senza più muoversi, facendosi d’un tratto molto più pesante.
La ragazza non la lascò. Avrebbe voluto scuoterla, svegliarla, ma sapeva che sarebbe stato inutile.
«Lodovico, tu lascia lei. È morta».
Femia si voltò, trovandosi faccia a faccia con Alois. I suoi occhi verdi, di solito sorridenti, erano velati e lucidi.
«Almeno seppelliamoli. Non possiamo lasciarli così» replicò la ragazza, stupendosi della propria voce, roca e decisa. Nonostante il groppo che si sentiva in gola, non c’erano lacrime sul suo viso. Non avrebbe pianto, non davanti agli altri uomini.
«Certo» rispose in quel momento la voce di Agilulf, che nel frattempo si era avvicinato a loro e li fissava con sguardo duro. I suoi occhi sembravano la lama di una spada: erano freddi, penetranti ed erano animati da una luce pericolosa come lo scintillio del sole su una lama affilata. «Qualcuno cerchi qualcosa per scavare. Muoversi!»

Senza quasi rendersene conto, la ragazza si ritrovò sul retro della casa stringendo in mano una vanga che un suo compagno d’arme aveva trovato chissà dove. La spingeva con violenza nel terreno duro, rivoltando le zolle di terra. In breve le mani cominciarono a dolerle, ma non si fermò: scavava con accanimento, mentre continuava a vedersi davanti agli occhi la scena di poco prima. Accanto a lei, Wiligelmo scavava in silenzio, con lo sguardo perso nel vuoto ed il sudore che colava lungo il volto. Quando ebbero finito, alcuni uomini calarono i corpi nella fossa, poi li ricoprirono di terra. I mercenari rimasero per un attimo attorno alle tombe, in silenzio e a testa china. Nessuno di loro sapeva cosa dire. Erano quasi tutti uomini abituati alla violenza e alla morte, che avevano abbandonato da tempo la speranza che esistesse un qualsiasi Dio che in un’altra vita avrebbe ricompensato i deboli e gli innocenti: nella loro esperienza, le persone di questo tipo erano le prime a soccombere. Nessun Salvatore avrebbe permesso scempi come quelli che avevano visto e vissuto sulla propria pelle, ecco perché nessuno di loro accennò una preghiera davanti al tumulo. Semplicemente, pochi per volta, si allontanarono.
Aglilulf si incamminò insieme ad Eufemia.
«È la prima volta che vedi qualcosa del genere, vero?»
«Sì, signore».
«Ci farai l’abitudine, ragazzo. La guerra è così: vengono sempre coinvolte le persone che non possono difendersi. È per questo che ci siamo noi» replicò l’uomo. In quel momento sembrava più vecchio dell’età che inizialmente la ragazza gli aveva attribuito: le rughe sembravano più profonde, le guance più scavate. Nonostante ciò, sembrava emanare forza, come sempre. Forse era l’unica cosa stabile di quel mondo tanto violento e precario, pensò lei.
«Capitano... li fermeremo, vero? Non lasceremo che lo facciano di nuovo. Non li faremo arrivare alla città» gli domandò all’improvviso. Subito dopo si rimproverò per l’ingenuità di quella domanda: erano mercenari, combattevano per il miglior offerente. Nessuno di loro aveva legami con il Comune, tranne pochi; il loro unico signore era il denaro.
Il comandante non rispose subito. La guardò pensieroso per qualche secondo, poi gettò indietro la testa.
«Certo che no. Non li lasceremo entrare in città» disse, con un sorriso storto. «Anche a costo di dover resistere fino all’ultimo uomo».

Dopo alcuni giorni in cui avevano camminato ininterrottamente per miglia e miglia, arrivarono alle retrovie del campo di battaglia. Era il posto più affollato che Eufemia avesse mai visto: le ricordava la piazza del mercato nei giorni di festa, o un formicaio in piena attività. C’erano uomini che correvano in ogni direzione, soldati che trasportavano i loro commilitoni feriti, corpi a terra e cavalli che scalciavano per la paura, il tutto unito alla cacofonia di voci, grida di dolore, ordini e nitriti delle bestie.
La ragazza si guardò intorno. Gli uomini accoglievano i nuovi arrivati con gratitudine, mentre si addentravano in quella massa brulicante di persone.
«Finalmente! Adesso potranno darci il cambio!»
Vide Agilulf  e Ruggero parlare con un uomo dall’aria stanca e distrutta, con un braccio fasciato alla bell’e meglio con una benda sporca che sembrava essere stata strappata dalla sua stessa camicia. I tre parlarono per alcuni minuti, consultando una mappa sgualcita che il ferito stringeva tra le mani, indicando alcuni punti sul foglio e discutendo le modalità dell’attacco. Ad un certo punto, il capitano congedò il suo interlocutore e si diresse verso i mercenari, seguito a poca distanza dal luogotenente.
«Adesso tocca a noi. Geri guiderà metà di voi: il vostro compito sarà quello di accerchiarli ed attaccarli da dietro mentre il resto di noi li terrà impegnati in un combattimento frontale» spiegò in tono deciso e spiccio. In breve divise gli uomini in due gruppi: Alois ed Eufemia vennero assegnati entrambi a quello del luogotenente.
«Buona fortuna, Lodovico» le augurò Ruggero in tono viscido e minaccioso, ostentando un ghigno compiaciuto: adesso sì che il novellino avrebbe avuto ciò che si meritava.
Tutti gli altri mercenari trasalirono, guardando impensieriti la ragazza.
«Porta male augurare buona fortuna prima di uno scontro!»
«Non preoccupatevi» li rassicurò lei, cercando di sembrare più convinta di quanto in realtà non fosse, poi si voltò verso l’uomo.
«Anche a lei, signore» rispose, imprimendo il proprio disgusto in ogni lettera dell’ultima parola.
Geri la fulminò con lo sguardo, poi le voltò le spalle gridando:«Uomini! Seguitemi!» e si incamminò verso il campo di battaglia, seguito dai soldati.

 

 

 

 

 

 

NOTE DELL'AUTRICE:
Eccomi con il nuovo capitolo! Il prossimo dovrebbe arrivare (come promesso) entro la fine di maggio. Spero che questo vi sia piaciuto... :)
Fra

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


CAPITOLO 6:


Eufemia, Alois e gli altri mercenari, le armi in pugno, seguivano il luogotenente su per uno stretto sentiero che si inerpicava su per la collina che sovrastava il campo di battaglia e nascondeva i loro movimenti ai nemici. Ruggero aveva spiegato loro che cosa avrebbero dovuto fare: il loro compito era quello di attaccare da dietro il contingente nemico, già impegnato in uno scontro contro il gruppo guidato da Agilulf, che di lì a poco avrebbe sferrato la sua offensiva. Essa avrebbe richiesto agli avversari anche l’aiuto dei soldati che pattugliavano la cima del colle, cosa che avrebbe lasciato loro il campo libero.
«Combatteremo soltanto noi della fanteria?» domandò la ragazza all’amico.
«Credo di no. Nelle retr... retrostrade ci saranno gli arcieri, aiuteranno a rompere i ranghi avversari. In più ci saranno i picchieri, naturalmente».
«Si dice “retrovie”, non “retrostrade”» lo corresse automaticamente lei, pensierosa. Poco dopo lo chiamò di nuovo, sussurrando.
«Non interverrà la cavalleria?»
«Non adesso, il capitano ha detto che sarebbe un inutile spreco di forze. Non possiamo rischiare che i cavalieri vengano uccisi subito: se loro subissero troppe perdite, poi non potrebbero attaccare di nuovo. È difficile che riescano a farlo due volte di fila, quindi è meglio che intervengano più tardi» mormorò lui di rimando.
«Silenzio!» ringhiò in quel momento Ruggero, voltandosi verso di loro con uno sguardo di fuoco. I due obbedirono, proseguendo la marcia senza più parlare.
Gli uomini camminavano ordinatamente, già disposti nelle posizioni prefissate per l’assalto. La ragazza si guardò intorno di sottecchi, osservando le espressioni dei suoi commilitoni: alcuni sembravano tranquilli o ostentavano un’indifferenza forzata, mentre altri sembravano nervosi e spaventati. Un ragazzo di poco più grande di lei, anche lui alla sua prima battaglia –veniva dal suo stesso Comune, infatti le sembrava di averlo già visto da qualche parte e le pareva che si chiamasse Antonio– era molto pallido e sotto gli occhi aveva le occhiaie scure di chi non dorme da vari giorni. Cercava di mostrarsi calmo, ma non riusciva a celare un tremito alle mani. Il luogotenente lo squadrò con il suo consueto ghigno di scherno e disse, a voce abbastanza alta da farsi sentire anche da lui: «Quel ragazzo non ce la farà. Sarà già tanto se arriverà al campo di battaglia senza pisciarsi addosso!»
Antonio arrossì violentemente, le mani che tremavano in modo ancora più evidente. Eufemia incrociò il suo sguardo e tentò di indirizzargli un sorriso, a cui lui però non rispose. “Odio doverlo ammettere, ma quel bastardo ha ragione: questo ragazzo non sopravvivrà allo scontro” rifletté cupamente. Nonostante i suoi pensieri di pochi giorni prima, una spiacevole ansia stava cominciando a farsi strada anche in lei: si sentiva stringere lo stomaco e tendeva nervosa l’orecchio, cercando di udire i rumori della battaglia. Quando finalmente arrivarono sulla cima, la ragazza guardò in basso e vide un confuso agitarsi di uomini e bestie nella pianura sottostante: il reparto guidato da Agilulf aveva già cominciato a combattere, impegnando tutte le forze del Comune avversario in un furioso corpo a corpo. Femia fece appena in tempo a pensare che era una vista quasi grottesca, ma in quel momento il luogotenente gridò loro di attaccare. Con un unico grido, i mercenari si lanciarono alla carica.

La battaglia infuriava intorno a lei. Eufemia non avrebbe mai pensato che sarebbe stata un’esperienza del genere: nella sua immaginazione, gli scontri si svolgevano con ordine, con i due schieramenti che si affrontavano l’uno davanti all’altro. Naturalmente, la sua esperienza era limitata alle poche e fugaci visioni di uomini armati e di armature splendenti che talvolta scorgeva dalla finestra della sua stanza ed alle canzoni dei menestrelli che aveva udito in città durante le feste più importanti. Si rese subito conto che tutto ciò che fino a quel momento aveva immaginato era radicalmente sbagliato: la battaglia non era affatto ordinata, anzi, le ricordava piuttosto una rissa da taverna. Gli uomini combattevano a distanza ravvicinata, le lame che ruotavano nell’aria cozzando violentemente contro le armature. Il clangore delle armi le riempiva le orecchie, stordendola, mentre ovunque intorno a lei piovevano le frecce degli arcieri; tutto il resto era una confusione di corpi che si agitavano e di cotte di maglia che scintillavano.
“Non riesco nemmeno a capire quali sono i nemici e quali i miei compagni!”
 La ragazza strinse la propria spada, quando un uomo alto e grosso si voltò verso di lei impugnando a due mani uno spadone. I due ingaggiarono subito un combattimento: Eufemia parò i primi colpi, ma l’uomo era troppo forte ed in breve tempo sentì la sua stretta all’elsa della spada farsi meno salda. A quel punto decise di attaccare. La ragazza fece una finta verso sinistra, poi, come le era stato insegnato durante l’addestramento, si spostò di scatto verso la parte opposta e menò un fendente verso la gola dell’uomo, una delle parti del suo corpo meno protette dall’armatura. L’avversario parò il colpo, ma subito Femia cercò di nuovo di colpirlo. Dopo vari minuti di scontro, la ragazza si accorse che l’uomo, nonostante la sua considerevole mole,  faticava a sollevare lo spadone: era un’arma più scomoda da sollevare rispetto ad una spada o ad un coltello, poiché per farlo bisognava usare entrambe le mani. Inoltre era molto ingombrante in una situazione del genere, in cui gli uomini si urtavano tra di loro e si colpivano ininterrottamente a vicenda; la spada di Eufemia era più fragile, ma decisamente più maneggevole.
“Io sono più agile, ma lui è più forte” pensò la ragazza, respingendo i successivi attacchi dell’uomo. “Se riesce a disarmarmi sono morta. Non posso parare tutti i suoi colpi, devo cercare di evitarli”.
Cominciò a muoversi rapidamente, schivando i colpi dell’avversario. Dopo alcuni minuti che le sembrarono eterni, finalmente quest’ultimo cominciò a mostrare segni di cedimento: i suoi fendenti erano ancora potenti ma meno frequenti, in più i suoi movimenti si erano fatti più lenti. Anche lei, però, era stanca: doveva trovare il modo di colpirlo, altrimenti avrebbe perso il vantaggio che era riuscita a conquistare. L’occasione le si presentò poco dopo, quando l’uomo strinse con più forza lo spadone e lo sollevò, lasciando scoperta la base del collo. Eufemia approfittò di quell’attimo per colpirlo con tutta la forza che le restava. La punta della spada penetrò tra le maglie dell’usbergo raggiungendo il collo del rivale, che crollò a terra con un rantolo e lasciò la presa sulla sua arma. La ragazza non fece quasi in tempo a rallegrarsene, o a stupirsi del proprio successo, che subito si ritrovò davanti un altro uomo. I colpi ricominciarono, ancora più violenti dei precedenti. Mentre combattevano, il suo rivale  fu improvvisamente abbattuto da un colpo di mazza: interdetta, la ragazza alzò lo sguardo, incrociando quello di un soldato enorme dalla corazza ricoperta di sangue. Subito si mise in posizione d’attacco, pronta a scagliarsi contro di lui, ma quest’ultimo sollevò la visiera dell’elmo, rivelando un volto devastato da una bruciatura ed un occhio mancante: era l’uomo che poco tempo prima aveva avuto una discussione con Wiligelmo.
«Cosa fai? Pensa ad attaccare gli avversari!» ruggì il suo compagno d’arme, voltandosi di scatto ad affrontare un altro avversario.
«Grazie!» gridò Eufemia, ma la sua voce si perse nel fragore della battaglia. Subito dopo dovette ricominciare a combattere.
I nemici sembravano non finire mai: non appena uno di loro cadeva, ecco che un altro veniva a prendere il suo posto. I colpi provenivano da ogni parte, amici e nemici si confondevano in un unico mare di corpi. A terra si trovavano i caduti, che rendevano lo scontro ancora più duro perché intralciavano i passi dei soldati. La ragazza era dolorante per i colpi subiti e sanguinava da varie ferite, anche se nessuna di esse sembrava molto profonda. Dopo quelle che le sembrarono ore di combattimento, era esausta e faticava a schivare i ripetuti attacchi. Ad un certo punto inciampò in uno dei corpi a terra, cadendo in ginocchio. Il suo avversario ne approfittò per sollevare la spada e calarla violentemente verso di lei, ma Femia parò il colpo impugnando la propria con entrambe le mani. Il metallo stridette e la lama slittò di lato. L’uomo ghignò, pronto a colpire di nuovo, ma in quel momento si sentì un frastuono che superava persino quello della battaglia. Era rumore di zoccoli: la cavalleria stava arrivando. In pochi secondi i cavalieri sfondarono i ranghi, causando una dispersione delle forze nemiche. Per non rimanere schiacciati, i soldati di entrambi gli eserciti tentarono la fuga ed Eufemia, approfittando della confusione, riuscì a rialzarsi e a portarsi fuori tiro per pochi attimi. Gridando per farsi coraggio, si gettò nuovamente nella mischia. Ad un tratto le parve di scorgere Alois, impegnato in uno scontro con un avversario: sembrava in difficoltà, quindi si avvicinò al nemico e lo colpì da dietro. Quando incrociò lo sguardo dell’amico gli sorrise, anche se lui non poteva vederla per via dell’elmo. I due ricominciarono a il combattimento fianco a fianco, cercando di pararsi le spalle a vicenda, mentre tutto intorno i nemici erano ormai allo sbando: la tattica di Agilulf aveva funzionato e l’arrivo della cavalleria aveva deciso le sorti della battaglia.

Quella notte, finiti gli scontri, Eufemia si sedette davanti al fuoco acceso, tra i suoi compagni. Avevano vinto, anche se a caro prezzo. Le sembrava incredibile pensarci, quelle due parole le sembravano così strane mentre le ripeteva tra sé e sé, ancora frastornata dopo i combattimenti... avevano vinto. I nemici che non erano riusciti a fuggire erano stati fatti prigionieri e nelle ore successive al conflitto lei e gli altri sopravvissuti avevano fatto la spola tra l’accampamento ed il campo di battaglia, trasportando i feriti. Gli uomini che conoscevano qualche rudimento di medicina avevano allestito una tenda in cui avevano cercato di organizzarsi per salvare i casi più gravi, mentre coloro le cui ferite non erano tanto pericolose avevano dovuto attendere ed aiutare i propri commilitoni, per quanto possibile. Le condizioni igieniche erano terribili, le bende (soprattutto quelle pulite) scarseggiavano e l’aria era piena delle grida e dei gemiti dei soldati. Alcuni suoi commilitoni erano tornati sul luogo del combattimento per saccheggiare gli averi dei caduti: li aveva visti affaccendarsi attorno ai corpi a terra. Molti di loro erano tornati indietro brandendo delle spade o dei pezzi di armatura che avrebbero poi rivenduto ai propri compagni d’arme. Femia li aveva osservati disgustata.
«Miserabili» aveva borbottato, afferrando sotto le ascelle l’ennesimo uomo e trasportandolo verso l’accampamento. Cercava di essere il più delicata possibile, ma era difficile camminare sul terreno accidentato e ad ogni scossone il poveretto si lamentava piano.
«È normale, Lodovico. Tutti fanno questo, tu sa?» le aveva risposto Alois, che reggeva le gambe del ferito.
«Questo non li giustifica. Anche se in effetti ai morti queste cose non servono più a granché» aveva ammesso lei.
Quando ebbero finito il loro compito, un uomo dall’aria stanca medicò i loro tagli con delle bende che avevano l’aria di essere già state usate da qualcun altro, quindi  poterono finalmente sedersi. Davanti alle fiamme che guizzavano scoppiettando, la ragazza si guardò intorno, cercando di capire chi dei suoi compagni fosse sopravvissuto. Wiligelmo stava aiutando i medici, il comandante girava per il campo insieme ad altri uomini del suo stesso grado per decidere le mosse successive, Ruggero era stato ferito ad una gamba ma era ancora vivo e vegeto. Ad un tratto la ragazza percepì un movimento accanto a lei. Si voltò rapida e vide che si trattava del ragazzo spaventato di quella mattina: inaspettatamente era sopravvissuto. Era pallido come un cencio ed aveva gli occhi spalancati e fissi su qualcosa che solo lui poteva vedere.
«Antonio!» lo chiamò, quasi sollevata. Lui la guardò spaesato e mormorò qualcosa che Eufemia non capì.
«Che cosa?»
«Un ragazzo» replicò lui, alzando leggermente la voce. «Lo avevo conosciuto qualche giorno fa, avevamo parlato qualche volta. Una brava persona, aveva due figli... è morto poco fa. Un colpo di spada alla testa. Non sapevo nemmeno come si chiamava. È morto accanto a me e io non sapevo nemmeno il suo nome...»
Eufemia ed Alois si scambiarono uno sguardo inquieto: nessuno dei due sapeva che cosa rispondere. In quel momento arrivò Wiligelmo, che aveva finito di curare i feriti. Doveva aver sentito il discorso di Antonio, perché si sedette accanto a lui, gli posò una mano sulla spalla e cominciò a parlargli a bassa voce, incalzante. Femia si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo: se c’era qualcuno che era adatto a gestire casi come quello, era il falconiere. Lui avrebbe saputo trovare le parole adatte a consolare il ragazzo. Nel frattempo anche gli altri mercenari avevano cominciato a parlare tra di loro: nonostante le perdite subìte erano piuttosto eccitati dalla vittoria ed il loro chiacchiericcio aveva qualcosa di allegro.
«Ce l’abbiamo fatta!»
«Certo! Cosa ti aspettavi? È difficile che le strategie di Agilulf si dimostrino sbagliate!»

La ragazza cercò di ascoltare le loro parole, ma la stanchezza la assalì di colpo. Non si era resa conto di essere così esausta. In pochi istanti, cullata dal mormorio dei soldati, si addormentò.

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTE DELL'AUTRICE:
Avevo detto che avrei aggiornato entro la fine di maggio anche se ci fossero stati cataclismi vari... purtroppo non avevo tenuto conto del moltiplicarsi degli impegni con la banda musicale: chiedo venia! Ora che è finita la scuola, però, dovrei riuscire a rispettare i due aggiornamenti al mese, come promesso. Spero che questo capitolo vi piaccia!

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


CAPITOLO 7:

 

Era passato quasi un mese da quando l’assedio era cominciato. Di fronte all’avanzata degli avversari, gli abitanti delle campagne avevano cercato rifugio dal signore della vicina fortezza, un uomo influente che era riuscito a mantenere il controllo di buona parte delle terre circostanti nonostante esse appartenessero formalmente al Comune. Le spesse mura del castello, che inizialmente erano sembrate agli assediati l’unica e la più sicura possibilità di salvarsi, si erano però lentamente trasformate nella loro prigione: i viveri cominciavano a scarseggiare e le persone da sfamare erano molte, inoltre le condizioni di vita dei rifugiati sembravano peggiorare a vista d’occhio e gli attacchi degli assedianti si intensificavano giorno dopo giorno. Il terrore delle malattie era sempre presente: se fosse scoppiata un’epidemia, la capitolazione sarebbe stata inevitabile. Forse le uniche persone la cui vita non aveva subito un cambiamento drastico erano il signore del castello ed i suoi famigliari, che dall’inizio dell’assedio vivevano rinchiusi nelle proprie stanze, attorno alle quali si affaccendavano i servitori; gli altri abitanti, invece, vivevano accampati nell’ampio cortile o nei saloni del maniero. Inizialmente gli avversari avevano tentato di negoziare una resa, ma i messaggeri che erano riusciti a tornare incolumi dalla città vicina avevano detto che l’ordine era quello di resistere a qualunque costo, perché poteva essere una battaglia di vitale importanza: entro breve tempo sarebbero stati mandati in loro aiuto dei contingenti di soldati. Quando seppero che gli abitanti intendevano combattere, i nemici avevano dichiarato che non ci sarebbe stata nessuna pietà quando il castello sarebbe stato espugnato. I loro attacchi erano sempre più difficili da respingere, in più dal Comune alleato non arrivava alcun soccorso, nonostante la promessa: sembrava che il mondo si fosse dimenticato della loro strenua battaglia per la sopravvivenza. Gli arcieri, appostati sulle mura o all’interno del castello, lanciavano frecce incendiarie contro le armate rivali che avanzavano riparandosi con gli scudi o usando il gatto* per proteggersi dai dardi o dall’acqua bollente che veniva scagliata loro addosso dai difensori della fortezza. Le mura in alcuni punti erano danneggiate dai proiettili della catapulta, ma sembravano in grado di reggere per qualche giorno ancora, inoltre fino a quel momento nessun nemico era ancora riuscito a penetrare nel castello ed ogni offensiva era stata respinta: potevano ancora resistere per un po’. Se solo l’aiuto militare promesso dal Comune fosse arrivato in fretta!

Eufemia, seduta su un albero dell’accampamento, guardava il castello che si ergeva in lontananza. Nonostante fosse avvolto dalla bruma del mattino e si vedessero solamente dei vaghi contorni, dava comunque un’impressione di solidità e sembrava inespugnabile. I mercenari cominciavano a pensare che lo fosse davvero: nonostante l’assedio procedesse ormai da lungo tempo, i suoi abitanti continuavano a resistere strenuamente. Certo, la parte dell’esercito che era stata mandata ad intercettare i possibili aiuti che la città avversaria poteva inviare in aiuto degli assediati era riuscita nel suo intento, ma nonostante ciò non erano ancora riusciti a conquistare la fortezza. Neppure le armi più sofisticate erano riuscite ad abbattere le mura, quindi Agilulf e gli altri comandanti delle varie armate avevano deciso di tentare una strategia diversa, quella delle mine: mentre alcuni reparti tenevano occupati gli arcieri e le sentinelle del castello tentando di superarle dall’alto, altri uomini avrebbero scavato delle gallerie fino ad arrivare al di sotto del muro di cinta, dove avrebbero dato fuoco alle fondamenta. Questa operazione avrebbe dovuto provocare il crollo di alcune torri. L’idea era buona, ma i difensori avevano previsto un simile tentativo e rispondevano con le contromine, cioè scavando a loro volta dei cunicoli in modo da sbucare in quelli degli avversari. Quando ciò accadeva, si ingaggiava un vero e proprio combattimento sotterraneo: fortunatamente non era successo quando lei ed il suo gruppo erano stati mandati a dare il cambio agli scavatori, ma aveva sentito raccontare da un sopravvissuto che durante uno di questi scontri l’intera galleria era crollata, sommergendo buona parte dei combattenti di entrambe le fazioni. Anche in quel momento alcuni soldati erano sottoterra, impegnati nell’ennesimo tentativo di distruggere le fondamenta.
La ragazza sospirò. Sapeva cosa significava essere sotto assedio: era successo anche a loro poco tempo prima. Fortunatamente la parte dell’esercito che non si era rifugiata dentro le mura era riuscita ad attaccare i nemici, riuscendo così a rompere l’accerchiamento. Ciò che ricordava meglio di quei giorni era l’angoscia che la perseguitava senza interruzione. Peggio degli attacchi, delle sconfitte subite e delle possibilità di una fine lenta dovuta alla fame o di una capitolazione e della conseguente prigionia, la cosa peggiore per lei era stata sopportare le ore che separavano gli assalti nemici senza poter fare niente: Femia aveva vagato tra le mura come un leone in gabbia, aspettando di udire i rumori che segnalavano l’inizio di una nuova battaglia. Nel castello la sua abilità con la spada era inutile: siccome non aveva una buona mira e non poteva essere di aiuto agli arcieri, si era appostata poco oltre le merlature, pronta ad intervenire in caso gli avversari fossero riusciti a scalare le mura con le loro torri, ma questo non era mia successo. Oltre a ciò, la paura che provavano i civili rifugiati lì si propagava negli animi come una pestilenza, riempiendo l’aria di una tensione quasi palpabile. Probabilmente anche i loro nemici adesso dovevano affrontare una situazione simile: le sarebbe piaciuto sentirsi dispiaciuta per loro, ma in realtà gli unici sentimenti che provava, o almeno i più forti, erano un rancore sordo contro quella maledetta fortezza che aveva provocato la morte di così tanti suoi commilitoni e la speranza che una delle loro strategie finalmente funzionasse, permettendo loro di conquistare il castello.

Immersa in questi pensieri, la ragazza trasalì quando udì il suono di una voce che la chiamava.
«Ragazzo! Smetti di fare il cuculo e scendi da quell’albero, tra poco toccherà a noi!» esclamò con voce tonante Agilulf, picchiando una mano sul tronco.
Eufemia obbedì e scese agilmente, afferrando il ramo sul quale era seduta e calandosi giù. Atterrò proprio davanti al comandante, che la guardò con un mezzo sorriso.
«A cosa stavi pensando?»
«All’assedio, signore. Spero che finirà presto... comincio a pensare che resteremo qui per sempre!» si lasciò sfuggire. Improvvisamente si rese conto che avrebbe potuto essergli sembrata impudente e si preparò a scusarsi, ma l’uomo non la rimproverò, anzi, rimase pensieroso per pochi secondi, con lo sguardo perso nel vuoto.
«Hai ragione, Lodovico, è stato un lungo assedio. Ma sento che non rimarremo qui ancora per molto: in qualche modo la situazione si risolverà. Dobbiamo solo cercare di fare in modo che lo faccia in modo a noi favorevole» replicò infine, fermamente.
La ragazza annuì, osservando il volto serio di Agilulf. In poco più di un anno di guerra, non lo aveva mai visto perdere la calma: sembrava sapere perfettamente cosa fare in ogni occasione, che si trattasse di un attacco a sorpresa o di una ritirata. Nonostante la sua tranquillità, però, era sempre all’erta. Lo sguardo attento ad ogni movimento e le orecchie che udivano ogni suono, pareva che niente di ciò che accadeva tra le truppe potesse rimanergli nascosto.
In quel momento l’uomo si incamminò, mormorando: «È ora».
Eufemia lo seguì, afferrando la sua spada. Ormai era abituata alle battaglie ed alla confusione che regnava durante gli scontri, quindi non perse la calma né si fece distrarre quando il combattimento cominciò. Nascosta sotto un gatto insieme ad altri soldati, si avvicinò alle mura nemiche. Le frecce incendiarie non riuscivano ad appiccare il fuoco alle pelli fresche ed al legno bagnato che lo costituivano, quindi riuscirono ad arrivare molto vicini alla fortezza. Accanto a loro degli uomini con una torre mobile tentarono di scalare le mura, ma la maggior parte di loro vennero abbattuti dai dardi scagliati dagli arcieri. Mentre i mercenari più vicini cominciarono ad accanirsi a colpi di piccone contro i ciottoli che le costituivano, Femia udì uno scroscio: poco lontano da loro era caduta della pece bollente che aveva colpito alcuni degli assalitori, che giacevano a terra contorcendosi dal dolore. Non avrebbe saputo dire quanto tempo era passato dall’inizio della battaglia, ma ad un tratto udì un rumore assordante e lei e tutti gli altri soldati vennero avvolti da una nube di polvere. Una parte delle mura vicino a dove si trovava lei era crollata: le mine avevano funzionato. Subito i soldati si riversarono all’interno della breccia che si era appena aperta come un fiume in piena, travolgendo i difensori del castello. Nella fortezza, i rifugiati fuggivano in preda al panico in tutte le direzioni. La ragazza attaccò un uomo armato che stava combattendo contro Antonio: in due riuscirono a sconfiggerlo in breve tempo. A lui ne seguirono altri, ma il morale delle truppe restava alto: dopo tanto tempo, il castello sarebbe stato conquistato.

Quando la battaglia terminò ed anche coloro che si erano rifugiati nel mastio furono catturati, Eufemia cominciò subito a trasportare i feriti attraverso il cortile, cercando con gli occhi se tra di loro si trovava qualcuno che conosceva. Notò alcuni volti conosciuti, ma fortunatamente non vide nessuno dei suoi amici. Quando si avvicinò al punto in cui i medici stavano medicando gli uomini, notò che davanti ad uno di loro si trovava un uomo dalla pelle abbronzata e dai capelli neri, che sanguinava copiosamente da una ferita su un fianco. Ad un tratto il ferito si voltò verso di lei ed i loro occhi si incrociarono.
«Wiligelmo!» gridò la ragazza, correndo verso di lui.
«Lodovico» mormorò l’altro, cercando di sorridere ma facendo subito una smorfia di dolore.
Il medico afferrò una spugna imbevuta in un liquido e la premette sul volto del falconiere, che tentò di spostarsi ma cessò di muoversi dopo alcuni secondi, quindi scostò la ragazza di malagrazia. Vedendo la sua espressione angosciata, sollevo per un attimo la testa, rivelando un volto teso e due occhi stanchi e segnati dalle occhiaie.
«Adesso dovrò ricucire la ferita, l’ho addormentato con la belladonna in modo che non senta dolore.  Quando avrò finito si risveglierà. Non preoccuparti» le spiegò, in tono sorprendentemente dolce, quindi tornò a chinarsi sul suo paziente.
Femia si allontanò, preoccupata. Ad un tratto, venne raggiunta da Alois.
«Ce l’abbiamo fatta!» esclamò il ragazzo, allegro.
«Già...»
«Tu viene con me?» le domandò improvvisamente lui.
«Dove?» replicò lei, stupita.
«Fuori, nei campi. Ora gius... giustizieranno i soldati nemici, non mi piace. Loro hanno combattuto, ma ora hanno perso. Non hanno armi... non è giusto, se uccidono uomini disarmati» mormorò Alois, abbassando lo sguardo ed arrossendo lievemente.
La ragazza lo osservò. Aveva ragione, di lì a poco coloro che avevano difeso il castello sarebbero stati giustiziati. Non era nuova a scene del genere, ma le esecuzioni capitali le trasmettevano sempre un senso di disagio, anche se sapeva che ogni combattente era consapevole che, in caso di sconfitta, il destino che lo attendeva era la morte. Non aveva mai fatto parola di questa sensazione con gli altri mercenari perché era qualcosa che nemmeno lei stessa riusciva a spiegarsi appieno: non aveva remore di questo tipo durante il combattimento ed aveva già ucciso un numero considerevole di uomini, l’idea di provare dispiacere per i prigionieri solo perché disarmati le sembrava una follia. Era strano, ma allo stesso tempo rassicurante, scoprire che anche qualcun altro provava lo stesso sentimento. Guardò l’amico, che la fissava di sottecchi, quindi sul suo volto si aprì un sorriso.
«Hai ragione, neanche io voglio vedere le esecuzioni. Andiamo!» esclamò, afferrandolo per un polso ed accelerando il passo.
I due uscirono dalle mura e si incamminarono lungo un sentiero che si allontanava dal castello. Aveva appena cominciato a piovigginare: delle gocce sottili cadevano su di loro, rimbalzando sulle armature e bagnando i campi spogli. Dalla fortezza alle loro spalle proveniva una cacofonia di voci concitate e la bandiera dei nemici che inizialmente sventolava sulla torre più alta era stata sostituita da quella del Comune di provenienza di Eufemia.
«Pensi che Wiligelmo se la caverà?» domandò ad un tratto la ragazza all’amico, mentre camminavano.
«Sì» replicò lui con decisione. «Si è salvato anche con ferite più gravi, starà bene».
Proseguirono il cammino in silenzio, godendosi la sensazione di felicità che la vittoria aveva portato con sé.
Quando tornarono indietro aveva smesso di piovere, il sole stava tramontando ed il castello in controluce risaltava massiccio contro il cielo rosso scuro. Non sembrava più minaccioso come era stato nei giorni precedenti alla sua conquista, ma pareva quasi accogliente. Non appena entrarono, un soldato che combatteva nel loro stesso contingente corse loro incontro, con un’espressione tra l’incredulità e la gioia.
«Ragazzi, avete sentito?» gridò, non appena si trovò davanti a loro.
«Che cosa?»
«I nemici hanno chiesto una tregua di un mese... da domani saremo in licenza!» esultò lui.
Femia spalancò gli occhi, sorpresa: dopo un anno di battaglie, sarebbe potuta tornare nella sua città.
“Ma... se mi riconosceranno?”

 

 

 

 

NOTE DELL'AUTRICE:
Come promesso, stavolta sono (finalmente) riuscita ad aggiornare in tempo! Spero che il capitolo vi piaccia...

*gatto: arma d'assedio munita di ruote e priva di pavimentazione, che poteva essere mossa dai soldati al suo interno. Essa serviva per consentire alle truppe di avvicinarsi il più possibile possibile alle mura, per poi consentire ai genieri e ai minatori di demolirle. Era costituito di legno di quercia bagnato e ricoperto di pelli fresche di animali per renderlo ignifugo.


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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


CAPITOLO 8:


Dopo alcuni giorni di viaggio, i mercenari entrarono finalmente nella città, che si aprì davanti a loro come un altro mondo. Le persone, dirette al mercato, camminavano tranquille per le strade e nell’aria risuonavano le loro voci: al posto del clangore delle armi a cui erano abituati, udivano i richiami dei venditori ambulanti, le esclamazioni concitate dei clienti che trattavano sul prezzo e gli strilli allegri dei bambini che giocavano nelle strade. Sembrava un mondo a parte, non contaminato dalla guerra: così vicino al campo di battaglia, eppure così lontano. Le mura spesse e l’esercito lo avevano protetto da ogni tentativo di incursione nemica, infatti la vita degli abitanti non era molto diversa da quella che vivevano in tempo di pace.
Durante il cammino, Eufemia aveva pensato molto alla sua città. Nonostante fosse piuttosto sicura che nessuno l’avrebbe scoperta, non voleva rischiare di venire riconosciuta, quindi aveva deciso che si sarebbe mantenuta lontana dalle zone che frequentava abitualmente, a meno che non fossero state molto affollate: d’altronde, chi avrebbe fatto caso all’ennesimo mercenario in licenza, tra tutte le altre persone? Nonostante ciò, voleva riuscire a rivedere la sua famiglia e Balduino, in un modo o nell’altro, perciò aveva deciso che li avrebbe seguiti di nascosto per vedere come se la cavavano senza di lei.
Appena arrivata in città, la ragazza si immerse nella folla del mercato, inebriandosi del senso di tranquillità che le infondeva uno scenario a lei tanto familiare. Inizialmente si teneva a distanza dalle bancarelle, ma poi si rese conto che anche lei godeva di quell’invisibilità che da sempre caratterizzava i mercenari: sembrava che gli abitanti della città, pur di non venire in contatto con quelle persone di cui avevano bisogno ma di cui non si fidavano, evitassero persino di incrociare il loro sguardo. A questo punto si allontanò dai suoi commilitoni e si avvicinò ad esse, osservando le merci esposte: ad un tratto si sorprese a valutare con aria critica i prezzi di alcuni tranci di carne in vendita ad un banco, “decisamente troppo alti per una carne di bassa qualità”. Era un gesto tanto consueto da non aver bisogno di essere pensato, ma al tempo stesso le sembrava incredibilmente fuori luogo rispetto alla realtà a cui si era abituata nell’ultimo anno. Nonostante l’iniziale impressione di familiarità, infatti, cominciava a farsi strada dentro di lei un profondo senso di estraneità verso ciò che un tempo le appariva normale, come la vita da mercante: ormai non apparteneva più a quel mondo e questa consapevolezza la colpì con una violenza quasi tangibile.
Femia vagò per la città fino al tramonto, parlando con i suoi compagni d’arme per supplire all’indifferenza delle altre persone. Ad un tratto, mentre stava camminando in una delle vie principali, da un vicolo laterale sbucò una giovane donna dall’aria familiare. Indossava un lungo vestito rosso dalla scollatura rotonda ed i suoi capelli color miele erano acconciati in una pettinatura dall’aria piuttosto elaborata. Quando la ragazza si voltò, per un attimo i suoi occhi incontrarono quelli di Eufemia, che trasalì e rimase per qualche attimo a guardarla allontanarsi a bocca aperta.
“Ma... è Maria! È mia sorella!”
Gli altri mercenari, notando la sua reazione, cominciarono a ridere sguaiatamente, canzonandola.
«Lodovico, hai trovato la tua bella?»
«Vola più in basso, ragazzo: quella è una signora, non è roba per te!»

Sentendoli, la ragazza si riscosse. Fece per avvicinarsi alla sorella ma Wiligelmo, che si stava lentamente riprendendo dalla ferita dell’ultima battaglia e le camminava accanto, la afferrò repentinamente per un braccio.
«Lasciami!» sibilò lei, divincolandosi, gli occhi sempre fissi sulla sagoma che si stava allontanando.
«Che cosa vuoi fare?» le domandò gravemente l’uomo, costringendola a voltarsi verso di lui. Era evidente che non credeva che un giovane mercenario potesse conoscere una donna di una classe sociale piuttosto elevata e temeva che potesse compiere qualche gesto sconsiderato.
«Devo... parlarle. Dopo ti spiegherò. Davvero» mormorò Femia, liberandosi dalla sua presa con uno strattone ed incamminandosi in fretta verso la direzione imboccata da Maria. Il falconiere cercò di fermarla di nuovo, ma il suo tono urgente ed il suo sguardo quasi disperato lo convinsero a lasciarla andare, infatti dopo pochi passi rinunciò e si unì nuovamente agli altri soldati, seguendola con sguardo preoccupato fino a quando non scomparve in una stradina laterale.

Eufemia seguiva sua sorella tra le vie strette della città, tenendosi sempre a distanza di sicurezza per non essere vista. Le persone che affollavano le strade diminuivano sempre di più man mano che si allontanavano dalla piazza, fino a quando in un vicolo stretto e deserto non rimasero soltanto loro due. Maria affrettò il passo e sua sorella, dimenticandosi di tutti i suoi precedenti propositi, accelerò a sua volta. Le sembrava che la sua mente fosse divisa a metà: una parte di lei sapeva che non doveva farsi notare, che doveva mantenersi nell’ombra e accontentarsi di averla vista, ma nonostante ciò un’altra voce nella sua testa la spingeva ad avvicinarsi, a verificare che sua sorella stesse bene. Era passato un anno da quando l’aveva vista per l’ultima volta: allora aveva quindici anni e sembrava ancora una ragazzina, con i capelli dorati che le cadevano in morbide onde sulle spalle. Ora ne aveva quasi diciassette ed era diventata una giovane donna dal portamento altero e dalle vesti eleganti, una vera bellezza. Aveva sempre saputo che sarebbe diventata così: fin da quando era piccola i ragazzi la notavano e si giravano a guardarla quando usciva di casa per raggiungere la sorella o il padre alla macelleria, infatti i pretendenti non le erano mai mancati.
Ad un tratto Maria si voltò di scatto verso di lei, lanciandole un’occhiata al contempo furiosa e spaventata.
«Smettila di seguirmi! Stammi lontano!» gridò, allungando una mano dietro di sé alla ricerca di un oggetto da usare come arma.
La ragazza si fermò per un attimo, interdetta, poi si lasciò sfuggire un sospiro: «Ti ho sempre detto di portare con te un coltello, quando esci».
La sorella la guardò senza capire.
«Cosa?»
«Maria... non mi riconosci?» le domandò Eufemia in tono sorprendentemente dolce, allungando una mano verso di lei.
L’altra la osservò più attentamente, perplessa, poi un lampo di comprensione le attraversò il viso e spalancò di colpo gli occhi.
«F... Femia
«Ciao, sorellina» la salutò la maggiore, con un sorriso storto.
«Non posso crederci. Sei... sei sparita senza una parola, hai lasciato solo un biglietto di due frasi! Nessuno di noi sapeva cosa pensare. Le comari del paese ne hanno parlato per mesi, dicevano che la morte “dell’unico uomo disposto a sposarti” ti aveva gettato nella disperazione, tanto da fuggire...  ma io e papà sapevamo che si sbagliavano» esalò Maria, sconvolta. «Un mercenario... non posso crederci. Ti sei unita all’esercito».
Eufemia annuì, senza parlare. Ora che se la trovava di fronte, notava ancora di più l’enorme differenza tra lei e sua sorella, tra le forme piene di Maria che sembravano invitare chi la guardava a toccarla ed il suo viso scavato e smagrito dalle battaglie e dalla fame. Il contrasto tra i begli abiti della sorella minore e la sua vecchia armatura sembrava grottesco, quasi ridicolo. Erano sempre state molto diverse sia nell’aspetto che nel carattere e crescendo si erano allontanate l’una dall’altra, ma adesso il distacco tra loro sembrava essere aumentato tanto da diventare incolmabile. Maria la fissava ad occhi spalancati, pallida come se avesse visto uno spettro: non le si era avvicinata, neanche dopo averla riconosciuta, ma si era appoggiata pesantemente al muro di una casa alle sue spalle.
«Ma perché l’hai fatto? Perché?» riprese. «Sapevamo che non poteva essere stata la morte di Giangaleazzo a farti fuggire, visto che lo odiavi. Ma allora cosa?»
Mentre sua sorella parlava, Femia ragionava velocemente. Se Maria diceva che nessuno aveva capito la ragione della sua scomparsa, allora significava che nessuno aveva collegato a lei l’omicidio. Ma allora, perché mastro Malaspina le aveva fatto capire che sospettava di lei? Si era immaginata tutto?
 Vedendo che l’altra aspettava una sua risposta, si schiarì la voce.
«È una storia lunga, lascia perdere. Me ne sono andata per non mettervi tutti in pericolo, è meglio che tu non sappia nulla. Tu... come stai? Cos’è successo mentre... mentre non c’ero?» borbottò.
«La tua scomparsa ha lasciato papà ad occuparsi da solo della macelleria, ma aveva bisogno di aiuto. Questo ha accelerato i preparativi per il mio matrimonio, quindi dopo pochi mesi ho sposato Lodovico. Ora le nostre botteghe si sono unite e lui gli dà una mano a gestirle. Siamo anche diventati più ricchi».
Sentendola parlare delle nozze, Eufemia restò per un attimo interdetta, poi ricordò che il nome che aveva scelto per sé era anche quello del promesso sposo di sua sorella.
«Capisco. Lui ti tratta bene?»
«Certo! È un ottimo marito, è dolce e...» Maria si interruppe, arrossendo, poi riprese.
«Sono incinta. Di quattro mesi, credo... lui lo sa già, è felice. » spiegò,
portandosi una mano alla pancia in un gesto strano, quasi protettivo, senza fare caso allo sguardo stupito della sorella maggiore. In effetti, notò quest’ultima, la ragazza sembrava più rotondetta dell’ultima volta che l’aveva vista, ma inizialmente non ci aveva fatto caso.
«Santo cielo» mormorò, guardandola. Poi si rimproverò: avrebbe dovuto mostrarsi felice, congratularsi con lei, o magari abbracciarla, ma nonostante questi pensieri non riuscì a muoversi.
«E nostro padre? Sta bene?» domandò invece.
«Sì. Era sconvolto quando sei scappata, sai? Ti ha cercato ovunque, ha chiesto tue notizie a tutti. A volte diceva che avrebbe preferito non avere mai firmato il tuo contratto di matrimonio» le rispose Maria, incamminandosi di nuovo, seguita dalla sorella. Dopo qualche minuto, arrivarono davanti alla bottega. Da una finestra illuminata Eufemia vide il padre, intento a pulire il bancone. Era tanto affaccendato che non le aveva notate avvicinarsi. In quel momento capì che non voleva entrare, non voleva parlargli. Certo, avrebbe potuto tornare a casa, l’avrebbero accolta... ma poi, cosa avrebbe fatto? Avrebbe dovuto sopportare i pettegolezzi degli altri cittadini, poi sarebbe venuto il momento di un nuovo matrimonio. E che cosa sarebbe successo, a quel punto?
«Ora devo andare» disse alla sorella minore. «Non dirgli che mi hai visto, che mi sono unita ai mercenari. Se vuoi, digli che qualcuno ti ha portato mie notizie, o che sai che sto bene, ma comportati come se non mi avessi mai incontrato».
«Ma...» protestò l’altra.
«Fai come ti dico. Per favore. E se vedi in giro quel mendicante che abita nel vecchio pollaio, quello anziano che zoppica, digli che lo saluto e dagli questi da parte mia, va bene?» continuò, porgendole alcune monete d’argento.
Maria annuì, prendendole. Fece per entrare nel negozio, ma appena prima di aprire la porta si fermò.
«Femia...»
«Sì?»
«Non voglio che un giorno sia mio figlio a dover andare a combattere. Per favore, vincete questa guerra» mormorò la ragazza, poi entrò nella macelleria e chiuse la porta dietro di sé.
Eufemia rimase per pochi secondi accanto alla finestra, guardandola salutare il padre e dirgli qualcosa che lo fece sorridere, poi voltò le spalle alla bottega e si allontanò nella notte.

Quando tornò sulla strada principale, incontrò un gruppo di suoi commilitoni, già piuttosto alticci.
«Lodovico, cosa ci fai lì? Vieni con noi!» esclamarono.
Uno di loro la prese sottobraccio, trascinandola verso i bassifondi della città. Dopo aver camminato per un po’ tra strette stradine buie infestate dai topi, ad un tratto si fermarono davanti ad una vecchia osteria da cui provenivano voci, canti rochi e risate. Riconoscendola, Eufemia sollevò un sopracciglio: era il bordello della Mara.
«Ti è andata male con la tua dama, eh? Non preoccupati, qui sì che ci sono le donne per noi!»
Naturalmente aveva sempre evitato quella zona, quando viveva in città, ma conosceva quel posto per la sua pessima fama. Ufficialmente era una taverna dove gli uomini si ritrovavano la sera per bere, ma tutti sapevano che in realtà chi pagava qualcosa in più vi poteva trovare il brivido del gioco d’azzardo e molte ragazze compiacenti. Nonostante nelle osterie fosse proibito praticare dedicarsi ad entrambi i piaceri e la legge prevedesse pene molto severe per i trasgressori, le autorità tolleravano quel posto: forse, come sussurravano le malelingue, anche loro talvolta avevano avuto occasione di godere dei servigi di Mara, la proprietaria. Quest’ultima era una donna la cui fama rasentava la leggenda. C’era chi diceva che in passato fosse stata la bellissima amante di un signore locale, altri pensavano che fosse esperta di filtri per legare a sé gli uomini; in realtà era una donnina bassa e tarchiata dall’umorismo pungente, la lingua svelta ed un innato senso degli affari. Ridendo, i mercenari entrarono nel locale.
Eufemia si guardò intorno. Si trovavano in una grande stanza buia, rischiarata da qualche torcia appesa al muro e da un grande camino. Al bancone sedevano uomini di tutte le età e di ogni condizione sociale: c’erano studenti, commercianti e contadini, tutti con davanti un bicchiere di vino o sidro. Alcuni erano coinvolti in accese discussioni, i volti arrossati dall’alcool contorti in smorfie, altri erano riuniti in gruppi rumorosi attorno ai tavoli dove erano in corso partite a carte o a dadi e scommettevano animatamente su chi avrebbe vinto la mano. Tra i tavoli si aggiravano ragazze che indossavano abiti gialli e scollati. A volte alcune di loro, seguite da un cliente, salivano al piano superiore sotto lo sguardo vigile di Mara, che serviva al bancone e chiacchierava con gli avventori.
La ragazza notò che poco lontano erano seduti alcuni soldati che combattevano nel suo plotone: tra loro vi erano anche Wiligelmo, Alois e Ruggero. Li raggiunse e si sedette accanto a loro, sentendosi leggermente a disagio per trovarsi in quel posto, uno dei peggiori covi di lussuria del Comune, contro il quale aveva più volte sentito inveire il padre. Qualcuno ordinò da bere per tutti, quindi poco dopo una ragazza le posò davanti un boccale di sidro. Ne bevve un sorso, poi lo vuotò tutto in una volta, asciugandosi la bocca con una mano. Cominciò a parlare con i suoi amici, mentre le veniva versato del vino, che bevve subito. Dopo qualche minuto l’atmosfera sembrò riscaldarsi: alcune ragazze erano andate a sedersi in braccio ai soldati, ridendo ed ammiccando.
«Avete scelto la compagnia migliore del locale, belle» disse loro un mercenario, con voce strascicata. «Abbiamo molti bei ragazzi, qui. Guardate che giovanotti» continuò ridendo, indicando con un cenno tutti i suoi compagni d’arme.
«Non c’è qualche tua amica che verrebbe qui con noi? Chiamane qualcuna, ci sono dei baldi giovani che le aspettano» esclamò un altro, seduto accanto a Femia.
«Vero, Lodovico, che ci piacerebbe conoscere qualcuna delle sue colleghe?» le domandò poi, assestandole una pacca sulla spalla. Senza aspettare la sua risposta, fece un cenno ad una ragazza, che si avvicinò. Era giovane, sui diciotto anni, con i capelli castano scuro scompigliati ed un sorriso sfacciato che esponeva denti bianchissimi. Il vestito dalla generosa scollatura le scivolò su una spalla, mentre si avvicinava a loro. Quando li raggiunse si guardò intorno, osservando uno per uno i volti degli uomini, poi, sembrando trovarla di suo gradimento, si sedette sulle ginocchia di Eufemia scatenando un coro di fischi ed esclamazioni.
«Io sono la Bice. Ci verresti di sopra con me, bello?» mormorò, passandole le mani attorno al collo.
«Io... veramente...» balbettò lei, arrossendo. Come poteva tirarsi fuori da quell’impiccio?
«Andiamo, mica ti mangio. Cos’è, non ti piaccio?» rise la prostituta, avvicinando un po’ di più il suo volto al suo.
«Forza, ragazzo, non fare il timido!» esclamò qualcuno.
«Avanti, Lodovico, hai una bella ragazza sulle ginocchia e fai il prezioso? Qualcuno potrebbe pensare male...» mormorò mellifluo Ruggero, schernendola.
«Non preoccuparti, tu non devi vergognare. Qui lo fanno tutti, a nessuno importa se anche tu vai» le disse Alois, rassicurante.
La ragazza ragionò velocemente. Se non avesse seguito la ragazza avrebbe destato dei sospetti. Sarebbe andata con lei in una stanza e l’avrebbe pagata per comprare il suo silenzio, oppure avrebbe approfittato di un suo momento di distrazione per uscire dalla finestra e andarsene... pensando a ciò che avrebbe fatto, si alzò dalla sedia e seguì Bice su per la scala accompagnata dalle risate degli altri soldati, con passo leggermente malfermo a causa dell’alcool. Fece in tempo a vedere uno di loro lanciarle un sorriso incoraggiante, poi si voltò e raggiunse la sua accompagnatrice, che la aspettava davanti ad una porta.

Entrarono in una camera buia, rischiarata solo da una candela consumata. Era piuttosto spoglia: al suo interno si trovavano solo un letto, un piccolo comò di legno scuro ed un armadio. In un angolo si trovava un catino, ed appeso al muro uno specchio sbeccato rifletteva il resto della stanza.
La ragazza si voltò verso Eufemia con un sorriso lascivo, poi si sfilò il vestito e lo lasciò cadere accanto a sé. Sotto non indossava nulla.
«Andiamo, come mai sei così imbarazzato? Sei il primo uomo che incontro che fa così» rise, poi le si avvicinò e cominciò a toglierle la tunica.
«No...» cercò di replicare lei, appoggiandole le mani sulle spalle per spingerla via e maledicendosi per i troppi bicchieri di vino bevuti in precedenza: avrebbe dovuto rimanere lucida. Ignorando le sue proteste, Bice le si avvicinò ancora di più, spingendola contro il muro e tappandole la bocca con un bacio.
Femia trasalì, arrossendo e dimenticando i suoi tentativi di respingere la prostituta. Non aveva mai baciato nessuno, prima, e si sorprese quando si accorse che le dava una sensazione davvero piacevole e che stava ricambiando il bacio. Le labbra di Bice, calde e morbide, sapevano vagamente di vino. Ad un tratto si rese conto che la ragazza le aveva tolto la camicia, rivelando così la fascia che aveva usato per bendarsi il seno, quindi la allontanò bruscamente da sé.
«Cosa succede?» domandò l’altra, perplessa. «Ti ho fatto male? Sei ferito?» le chiese, notando la benda.
«No, no... è che... non posso venire a letto con te. Sono una ragazza. Non dirlo a nessuno, altrimenti finirò in prigione. Ti pagherò lo stesso, ma tu non parlarne ad altri!» le confessò Eufemia, disperata.  
«Cosa?»
«Sono una ragazza. Mi sono unita ai mercenari perché ho avuto dei... problemi. Dovevo scomparire, quindi sono andata dove non mi avrebbero mai cercato» le spiegò in fretta l’altra.
La prostituta la guardò sconcertata, poi, con un gesto rapido ed inaspettato, afferrò la fasciatura sul petto della ragazza e la tirò verso il basso.
«Ma cosa fai?»
«Santo cielo! Sei davvero una donna... non l’avrei mai detto» esclamò, spalancando gli occhi.
“Se non altro, non sembra particolarmente scandalizzata” pensò Femia, ancora spaventata. “Adesso non mi resta che convincerla a stare zitta”.
«Non mi credevi?» borbottò imbarazzata, rivestendosi.
«Volevo solo esserne sicura. Non si sa mai, poteva essere solo un tentativo di distrarmi per poi derubarmi. A volte succede, sai? Anche se è Mara che tiene tutti i soldi, alcuni pensano che li abbiamo noi» spiegò l’altra. «Non preoccuparti, non dirò niente. Anzi, se i tuoi compagni mi chiederanno qualcosa, dirò che ti sei fatta... o meglio, fatto onore» aggiunse poi con un sorriso malizioso, notando l’espressione ansiosa della sua interlocutrice.
«Grazie. Ti pagherò lo stesso, non preoccuparti» sospirò Eufemia, porgendole alcune monete.
«Gentile da pare tua. Mentre aspettiamo, raccontami qualcosa di quello che hai visto là fuori: io non sono mai uscita da questa città, ho cominciato a lavorare qui a quattordici anni. Non possiamo andarcene subito, dovremo pur fingere di aver fatto qualcosa in questa stanza... tanto vale parlare un po’» rise Bice, accomodandosi sul letto e facendole segno di sedersi accanto a lei.
«Va bene. Allora, cosa posso dire? Devi sapere che tutto quello che hai sentito finora sulla guerra è assolutamente sbagliato, soprattutto se lo hanno raccontato i menestrelli...» incominciò a raccontare la ragazza, osservando distrattamente la sua ascoltatrice. Anche se non la conosceva, sentiva che poteva fidarsi di lei: dopotutto, perché avrebbe dovuto denunciarla? Farlo non le avrebbe fruttato alcun beneficio.
Scacciando questi pensieri, continuò a raccontare, ascoltando i rumori della taverna che giungevano ovattati dal piano di sotto.

 

 

 

 

 

 

ANGOLO DELL'AUTRICE:
Eccomi con il nuovo capitolo: è un po' più lungo del solito... spero che vi sia piaciuto!
Dovrei riuscire ad aggiornare prima della fine di luglio, ma credo che sarà verso gli ultimi giorni, causa vacanze.

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


CAPITOLO 9:


Eufemia era seduta sul vecchio muretto di mattoni di una cascina abbandonata poco fuori dalla città. Nonostante il vento freddo che a tratti soffiava, sollevando la polvere della strada, il sole splendeva nel cielo, illuminando i campi circostanti. Dal suo punto di osservazione, la ragazza poteva vedere i contadini che camminavano lentamente dietro all’aratro trascinato dai buoi. Le loro case erano scampate all’iniziale distruzione portata dai nemici quando avevano attaccato il Comune. A questo pensiero, Femia si morse il labbro inferiore, pensierosa. I primi giorni della licenza erano stati un sollievo, doveva ammetterlo: dopo un anno di combattimenti, trovarsi lontano dal campo di battaglia e non rischiare la vita ogni giorno avevano nettamente rialzato il morale delle truppe, sia nei veterani che nelle nuove reclute. Il cambiamento più radicale era senza dubbio quello di Antonio. Lontano dalla guerra, sembrava un’altra persona: quel ragazzo sempre impaurito, pallido e nervoso si era trasformato in una giovane tranquillo ed allegro, che talvolta sorprendeva i suoi commilitoni con un commento serio o con una battuta salace. Molti di loro, abituati a considerarlo quasi alla stregua di un bambino spaventato, sembravano rendersi conto per la prima volta che in realtà era un uomo. “Decisamente la vita del militare non fa per lui. Chissà perché si è unito ai mercenari... forse la sua famiglia era in cerca di onore, o magari immaginava un futuro di gloria e di ricchezza” ragionò lei, ricordando i suoi occhi stralunati dopo la prima battaglia. Certamente in breve tempo doveva aver capito che le sue speranze erano del tutto infondate...
Certo, quello non era il suo caso. Sapeva che avrebbe dovuto essere felice per la tregua. Il sollievo era l’unico sentimento ragionevole... d’altronde, la guerra comportava solo sangue e morte, se ne era resa conto da molto tempo. Nonostante l’iniziale gioia che aveva provato nei primi giorni del suo ritorno in città, però, cominciava a provare una strana sensazione, un’irrequietezza che non sapeva spiegarsi. Era come se avesse nostalgia della battaglia. Le sembrava assurdo, ma sentiva che il suo posto era lì, in mezzo ai combattimenti ed agli assedi. Sapeva che non sarebbe più tornata alla vita civile, dopo aver provato la libertà di poter decidere da sola cosa fare della sua vita, ma rendersi conto che le mancavano gli scontri la metteva a disagio. Era un pensiero che la tormentava da qualche tempo a quella parte: ogni volta che ci pensava, si sentiva irrimediabilmente sbagliata, crudele.

Mentre era immersa in questi pensieri, un uomo la raggiunse e si sedette accanto a lei.
«Ciao, Lodovico. Ecco dov’è che sparisci, la mattina...»
La ragazza sobbalzò e si voltò, trovandosi faccia a faccia con Wiligelmo. Nel vederlo, si tranquillizzò e gli sorrise.
«Sì, di solito vengo qui. Non c’è mai nessuno, a volte è bello stare da soli».
«Hai ragione, però sono preoccupato. Da quando hai seguito quella ragazza, quella sera in città, mi sembri strano. La conoscevi?»
«Sì. È mia sorella, volevo parlarle. Sai, non eravamo molto... uniti, quando vivevamo insieme, ma volevo sapere se lei e mio padre stavano bene. È stato strano rivederla, dopo tanto tempo. Come mai mi hai fermato, quando volevo seguirla?»
«A volte, quando sono in licenza, i soldati si lasciano andare ad azioni ignobili. Cerco sempre di evitare che finiscano nei guai, o che facciano qualcosa di male. La nostra reputazione non è delle migliori, non vorrei aggravare la situazione» replicò il falconiere, con espressione grave.
«Pensavi davvero che avrei fatto qualcosa del genere?» gli domandò la ragazza, sconvolta.
«In realtà no, so che non sei il tipo, ma non si sa mai. Un giorno un mio commilitone, una brav’uomo che non aveva mai dato problemi, nel tornare a casa in licenza scoprì che la sua fidanzata durante la guerra aveva sposato un altro. Quella notte stessa cercò di entrare in casa loro, armato. Se io ed un altro soldato ci fossimo accorti della sua assenza e non l’avessimo fermato in tempo, non so cosa avrebbe potuto fare... o forse lo so fin troppo bene» spiegò lui.
«Santo cielo. Non preoccuparti, io non ho promesse spose da cui tornare, quindi non rischio brutte sorprese. Anche la mia famiglia sta bene e gli affari vanno a gonfie vele, quindi non rischio di fare qualcosa di sconsiderato».
I due rimasero seduti per un po’ in silenzio, poi improvvisamente la ragazza parlò.
«Wiligelmo... posso chiederti una cosa?»
«Certo».
«Probabilmente penserai che sono impazzito e forse è così. Mi sembra quasi che la guerra mi manchi. Non so come spiegarlo... non è che mi piaccia uccidere o qualcosa di simile, ma è come se quello che facevo prima di arruolarmi, tutto ciò che mi sembrava importante, adesso non lo sia più così tanto. Com’è possibile? So che dovrei essere felice per la tregua, ma non so se riuscirò a tornare alla mia vita di prima, quando gli scontri finiranno» raccontò Eufemia in un fiato, confidandogli i suoi pensieri di quei giorni e ciò che provava. Le costava molto esporsi in quel modo, ma allo stesso tempo le sembrava di liberarsi di un peso che la opprimeva da qualche tempo. Il falconiere la ascoltò attentamente, poi le sorrise con dolcezza.
«Non stai impazzendo, Lodovico. Certo, tutti dicono che la guerra è terribile, ma chi non l’ha mai provata non può capire che è qualcosa che ti cambia e che ti resta dentro. C’è chi, durante i combattimenti, non vede l’ora di poter tornare a condurre una vita tranquilla e senza pericoli, tu invece evidentemente sei una di quelle persone nate per combattere. È normale che ciò di cui ti occupavi prima ora ti sembri insignificante: ora che hai trovato il tuo posto, riesci forse ad immaginare di tornare indietro, o di fare qualcosa di diverso?»
«No...»
«Capisci? È ciò che ti stavo spiegando. Semplicemente, ci sono uomini che non sono fatti per combattere ed altri che invece hanno la battaglia nel sangue: tu sei uno di questi ultimi. Questo non vuol dire che tu sia pazzo. Agilulf, per esempio, inizialmente non era questo tipo di persona: lo è diventato con il tempo. Ruggero invece sì, lo è» terminò Wiligelmo, dandogli una leggera pacca sulla spalla.
«Mi stai forse paragonando a lui?» domandò irritata la ragazza.
«No. So che lo odi e posso capirti, perché nemmeno a me piace particolarmente, ma devi ammettere che è un ottimo soldato e che il suo intervento spesso è stato decisivo per la vittoria».
Eufemia cercò di ribattere, ma alla fine rinunciò. Sapeva che l’uomo aveva ragione, anche se riconoscerlo la infastidiva. In quel momento, i due udirono un rumore di passi dietro di loro: era Alois, che li raggiunse e si lasciò cadere sul muretto.
«Disturbo voi?»
«Sembra che ormai abbiamo usurpato la tua tranquillità, Lodovico. Dovrai cercarti un altro posto per stare da solo, temo» rise il falconiere.
«Credo che tu abbia ragione. Non ci sono più posti in cui possa pensare in pace!» sospirò teatralmente lei, con un mezzo sorriso.

«Di che cosa stavate parlando tu e Wiligelmo, quando io arrivavo?» domandò Alois a Femia, mentre tornavano in città. Ormai stava facendo buio, e i due camminavano fianco a fianco sulla strada deserta. Il falconiere aveva fatto ritorno prima di loro, perché doveva discutere con il capitano di alcune faccende relative alla fine della tregua, che si avvicinava sempre di più.
«In realtà si dice “quando io sono arrivato”. Comunque mi aveva solamente chiesto chi è quella ragazza con cui ho parlato qualche giorno fa, quindi gli ho spiegato che è mia sorella Maria» replicò lei. Nonostante si fidasse dell’amico, preferiva non raccontargli il resto della conversazione: sentiva che era qualcosa di personale, che voleva tenere per sé.
«Capisco. Lei ti mancava, giusto?»
Sì... un po’. Ero preoccupato per lei e per mio padre, volevo sapere come se la passavano» rispose la ragazza, dopo pochi secondi di silenzio. «Tu invece hai una famiglia? Non me ne hai mai parlato» gli domandò poi. Si era improvvisamente resa conto che, nonostante avessero combattuto insieme per più di un anno, sapeva poco o niente del passato dell’amico. Le poche volte che avevano affrontato l’argomento con i propri compagni d’arme, c’erano alcuni di loro che sembravano non vedere l’ora di parlare della famiglia che avevano lasciato, invece lui spesso aveva borbottato qualcosa di inintelligibile e subito aveva cambiato argomento. Naturalmente non era l’unico e in questi casi gli altri non insistevano mai, perché sapevano che per alcuni uomini quello era un argomento delicato: c’era chi aveva perso tutti i propri famigliari a causa di una razzia dei nemici o di un’epidemia, chi era stato tradito dalla moglie, chi aveva visto un figlio morire di fame per le tasse troppo alte imposte da un signore desideroso di finanziare la propria guerra.
«Io... ho due sorelle, lontano da qui. Loro vivono nell’Impero» disse lentamente lui, facendo un vago cenno con la mano per indicare il nord. «Hanno marito, figli che sono miei... nipoti
«Sì, nipoti» confermò Femia, guardandolo interrogativa. Il ragazzo sembrava voler aggiungere dell’altro, ma doveva essere qualcosa di spiacevole, perché fece una smorfia ed abbassò lo sguardo.
«Avevo anche un fratello, lui si chiamava Karl. Nostro padre era morto e noi ci unimmo ai mercenari per portare soldi a nostra famiglia, ma lui... non voleva combattere. Ci provava, ma era come Antonio: le battaglie lo spaventavano. Un giorno scappò, ma lo ritrovarono. Venne giustiziato, perché era disertore. Non potevo fare niente... avevo detto lui di non farlo, ma non mi aveva ascoltato» raccontò, con voce spezzata.
La ragazza si morse il labbro. Non sapeva cosa fare: era Wiligelmo la persona adatta a consolare le persone, non lei. Le sembrava allo stesso tempo strano ed orribile vedere Alois, di solito allegro e tranquillo in modo rassicurante, lottare per trattenere le lacrime. Si avvicinò a lui e gli appoggiò goffamente le mani sulle spalle.
«Alois, ascoltami. Lo so che gli volevi bene, ma ciò che gli è successo è solo colpa sua e lo sai. Non potevi fare altro: anche se l’avessi fermato quella volta, ci avrebbe provato di nuovo. Era giovane e spaventato. Non era cattivo, ma ha fatto la sua scelta ed ha pagato» disse, scrollandolo leggermente. « Io avevo un’altra sorella, Violante. Era una monaca... da quando era andata in convento, la vedevo pochissime volte. Mi mancava molto. Un giorno, quando ero andato a trovarla, mi dissero che era malata e che non poteva vedere nessuno. Poco dopo morì... non sapevo cosa fare. Avevamo un rapporto molto stretto, le volevo molto bene. Anche Maria ha sofferto molto quando Violante è morta. Avrei voluto fare qualcosa per lei, ma non potevo certo prendere il posto di nostra sorella».
“Perché gli sto raccontando queste cose?” si chiese. Non le aveva mai confidate a nessuno, prima. Forse era solo per distoglierlo dal pensiero di suo fratello, per mostrargli che in qualche modo che poteva capirlo, anche se le loro esperienze non potevano essere più diverse. “E pensare che non volevo più confidarmi con nessuno... devo fare attenzione. Non devo rivelare troppo, rischio di farmi scoprire».
Il ragazzo la guardò, più tranquillo.
«Mi dispiace per tua sorella» mormorò.
«Grazie. Anche a me dispiace per Karl» replicò Eufemia con inconsueta dolcezza.
Poco dopo, i due si rimisero in cammino verso il centro della città, fianco a fianco.

La tregua era terminata. Gli eserciti di entrambi i Comuni da qualche tempo avevano cominciato a muoversi, elaborando nuove tattiche. L’armata guidata da Agilulf avanzava in silenzio in un bosco, costeggiando un fiume. I capitani dei vari plotoni avevano deciso che la strategia migliore per vincere la battaglia era quella di accerchiare i contingenti nemici, per questo molti gruppi di soldati erano in viaggio per raggiungere le posizioni concordate in precedenza. I mercenari si muovevano cauti, tendendo l’orecchio per udire eventuali suoni che tradissero la presenza dei nemici, ma non si sentiva niente se non il rumore dei loro passi e quello dell’acqua che scorreva poco distante. Sembrava tutto tranquillo, ma ad un tratto si udirono delle grida e dei soldati caddero a terra, colpiti da delle frecce. I mercenari impugnarono subito le armi per difendersi, ma all’improvviso i loro avversari uscirono dal folto del bosco, circondandoli completamente. Qualcuno doveva aver intuito i loro piani, o forse tra di loro c’era un traditore, ma non c’era tempo per pensare a ciò che poteva aver causato l’imboscata: bisognava rompere l’accerchiamento e tentare di chiamare dei rinforzi. Femia brandì la propria spada, abbattendola poi con forza addosso ad un uomo che la stava per colpire. I due ingaggiarono subito uno scontro. Combattere nel folto del bosco era difficile: i rami ed i cespugli ostacolavano i movimenti, rendendo lo scontro più duro. La ragazza impugnò l’arma con entrambe le mani per imprimere più forza al colpo, ma l’uomo lo parò con lo scudo e tentò un affondo. Femia riuscì a schivarlo, ma nell’indietreggiare inciampò in una radice, cadendo a terra. Riuscì a rialzarsi e a respingere i seguenti attacchi, ma doveva essersi slogata una caviglia nella caduta, perché non riusciva più ad appoggiare bene il piede.
Lo scontro continuava. A terra si vedevano già alcuni corpi, ma la ragazza non riuscì a capire a che esercito appartenessero perché non poteva permettersi di distrarsi: il suo rivale era un ottimo spadaccino. Si guardò intorno, sperando che qualcuno dei suoi commilitoni la aiutasse, ma tutti loro erano impegnati a duellare con altri nemici. La loro situazione era disperata: erano stati colti di sorpresa dall’attacco e si trovavano in una posizione di svantaggio. Ad un tratto cercò di colpire l’uomo al collo, ma nel farlo si appoggiò con tutto il proprio peso alla caviglia ferita. Il dolore sembrò saettarle lungo la gamba come una scarica elettrica, facendole mancare il respiro. Il suo avversario approfittò di quell’attimo per colpirla: la punta della spada ruppe la vecchia cotta di maglia arrugginita, penetrando in profondità nella carne. La ragazza cadde a terra, perdendo la presa sulla spada. L’uomo estrasse la propria arma dalla ferita e si allontanò, pronto ad attaccare qualcun altro, certo che in poco tempo sarebbe morta dissanguata. Eufemia tentò di alzarsi, ma il dolore al petto glielo impedì. Si portò una mano alla ferita, che sanguinava copiosamente, poi strinse i denti e cercò di muovo di sollevarsi. Tutto il paesaggio sembrava vorticarle intorno: non riusciva a trovare la sua spada e vedeva delle forme confuse muoversi attorno a lei, senza riuscire a distinguerne nessuna. Ricadde pesantemente a terra in preda alla nausea, respirando affannosamente. Chiuse gli occhi, ma subito li riaprì, sentendo qualcuno che le sollevava la testa. Mise faticosamente a fuoco due occhi verdi e preoccupati e dei capelli biondi: era Alois.
«Lodovico! Sei ferito... alzati. Devi venire via!» esclamò, afferrandola per un braccio e tentando di sollevarla. La ragazza si ritrovò in piedi, appoggiandosi pesantemente all’amico, ma dopo pochi passi barcollanti le gambe le cedettero di nuovo. Si rese vagamente conto che l’altro l’aveva afferrata e stava cercando di trascinarla via dal campo di battaglia, ma a quel punto tutto si fece nero.

 

 

 

 

 

 

NOTE DELL'AUTRICE:
Anche se all'ultimo minuto, eccomi di ritorno con il nuovo capitolo! Spero che vi piaccia.

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


CAPITOLO 10:


Dopo la battaglia, Eufemia dormì un sonno febbricitante ed irrequieto. Di tanto in tanto si svegliava e riusciva a distinguere qualcosa nonostante la nebbia che le oscurava la vista: un cespuglio ricoperto di piccole bacche rosse, il volto stanco di un ragazzo che la fissava con aria preoccupata. Tutto questo, però, non durava che pochi istanti e subito la sua mente ricadeva nell’oblio. Non avrebbe saputo dire quanto tempo fosse passato da quando era stata ferita, quando aprì faticosamente gli occhi. Per un attimo credette di essere nella sua stanza, sdraiata sul letto accanto a Maria, poi riuscì finalmente a mettere a fuoco ciò che la circondava: si trovava distesa tra gli alberi di un bosco, sovrastata da rami contorti ricoperti di foglie attraverso le quali filtrava una debole luce. Era completamente sola: l’unico segno che testimoniava la presenza di qualcun altro erano le braci che ancora ardevano poco lontano da lei e alcune impronte nella terra. Per un attimo si guardò intorno, spaesata, poi improvvisamente le tornò alla mente tutto ciò che era successo.
“La battaglia... Alois mi ha portato via dopo che quell’uomo mi ha colpito... santo cielo, la ferita!”
La ragazza spalancò gli occhi, mettendosi a sedere di scatto, ma il movimento le causò un forte dolore al petto che la fece piegare in due. Istintivamente si portò una mano alla ferita: in un primo momento si sentì sollevata, sentendo sotto le dita lo spessore familiare della fasciatura che usava da oltre un anno per bendarsi il seno, ma quando abbassò lo sguardo su di essa trasalì. Il tessuto era diverso da quello bianco che ricordava: era una striscia di stoffa sfilacciata che in origine doveva essere stata beige e che sembrava essere stata strappata da una camicia. Sciogliendo il nodo con cautela, si rese conto che qualcuno aveva ricucito la ferita: probabilmente era stata la stessa persona che le aveva cambiato la fascia. Ma se qualcuno l’aveva curata, allora questo significava che...
“Sono stata scoperta” pensò Eufemia, impallidendo bruscamente. Ignorando le fitte che sentiva ogni volta che si muoveva, tentò di alzarsi, cercando con la mano la propria spada. L’arma era posata a terra a poca distanza da lei, ma percorrere i pochi passi che le separavano le sembrò un’impresa titanica. Quando finalmente la raggiunse strinse l’elsa tra le mani, appoggiandosi spossata al tronco di un albero, quando sentì un rumore di passi che si avvicinavano e sollevò la spada, pronta a colpire.
In quel momento Alois apparve tra gli alberi, stringendo tra le mani quello che aveva tutta l’aria di essere un coniglio.
«Lodovico! Finalmente tu sei sveglio, hai dormito per due giorni... ma perché hai preso la spada? Tu non devi alzarti, non devi fare sforzi: non sei ancora guarito» esclamò, posando la carcassa accanto al fuoco e avvicinandosi alla ragazza. Quest’ultima non accennò ad abbassare l’arma, ma la strinse tanto che le sue nocche sbiancarono.
«Ma tu... tu non ti chiami Lodovico, vero?» proseguì il ragazzo, allungando una mano verso di lei. «Non preoccupare, non dirò nulla a nessuno. Gli altri non sanno, durante l’attacco  i nemici ci hanno diviso e quando ti ho portato via dal campo di battaglia ho perso di vista gli altri. Volevo raggiungerli, ma tu perdevi troppo sangue: non potevi camminare in quelle condizioni. Non sono molto bravo in me... medizina, ma Wiligelmo mi ha insegnato a ricucire le ferite, quindi ho fatto quello che ho potuto. Quando ho scoperto che sei una ragazza, ho pensato che è meglio stato non avere raggiunto gli altri» spiegò, accennando un timido sorriso.
Femia lo osservò guardinga. Da quando si era unita all’esercito, aveva trovato in lui un amico ed un confidente. Si erano aiutati giorno dopo giorno e spesso si paravano le spalle a vicenda durante le battaglie: insieme a Wiligelmo, era una delle persone di cui si fidava di più... ma questo succedeva quando tutti pensavano che lei fosse un ragazzo. Ora che lui sapeva la verità, chi poteva garantire che non l’avrebbe denunciata? Tanto più che era anche l’unico testimone dell’omicidio di Giangaleazzo e che pochi giorni dopo il padre del suo promesso sposo sembrava averle fatto capire che sospettava di lei... forse il soldato aveva raccontato alle autorità l’accaduto.
“Posso ancora fidarmi di lui, adesso?”
«Non preoccuparti, non dirò nulla a nessuno. Lo prometto te» continuò Alois, serio.
La ragazza sospirò. Sembrava sincero, ma come poteva esserne sicura? In ogni caso, non poteva far altro che fidarsi. Non sarebbe mai riuscita a colpirlo, non in quel momento: riusciva a malapena a reggersi in piedi.
«Va bene, ti credo. Comunque si dice “te lo prometto”» mormorò, lasciandosi scivolare a terra. Le girava leggermente la testa. Il ragazzo si sedette accanto a lei e riattizzò il fuoco, poi cominciò a scuoiare il coniglio. Al momento di tagliare la carne, Eufemia gli tese una mano.
«Avanti, dammi il coltello. Faccio io, sono più esperta» borbottò, mentre lui soffocava una risata e le porgeva il serramanico.
«Non cambi mai, Lodovico... lo so che non è il tuo nome, ma non so qual è quello vero».
«Mi chiamo Eufemia» replicò lei con un ghigno, fingendo di fare una riverenza. «Felice di conoscervi, messere».

I due pranzarono in silenzio. Nonostante sentisse su di sé lo sguardo dell’amico, la ragazza non parlò, forse nel tentativo di ritardare il momento in cui avrebbe dovuto spiegare tutto, ma quando ebbero finito di mangiare sentì di non poterlo rimandare  oltre.
«Ero... o meglio, sono figlia di un macellaio. Su questo non ho mentito, sai? Ti ho detto la verità sulla maggior parte della mia vita: così è più facile, non rischi di dire qualcosa e di contraddirti pochi giorni dopo. Quello che ti ho raccontato sulle mie sorelle è vero, dalla prima all’ultima parola, così come il fatto che aiutavo mio padre nel negozio. Non era una brutta vita».
«Allora perché te ne sei andata? Avevi una famiglia, un lavoro, nessun problema di soldi...» le domandò il ragazzo, incredulo.
«Mio padre non aveva figli maschi, ma voleva un uomo che ereditasse il negozio e per questo aveva bisogno che io sposassi qualcuno. Per molto tempo ha pensato che non sarebbe mai successo: dopotutto, quale ragazzo avrebbe mai voluto per moglie una ragazza insignificante, acida e notoriamente insensibile come Eufemia Cavadecchi? Papà non ci dormiva la notte, ma io ero felice: non volevo sposarmi, l’unica cosa che desideravo davvero era poter gestire da sola sia la bottega che la mia vita. Ero sicura che prima o poi avrebbe rinunciato a trovarmi un marito, invece un giorno mi disse che aveva firmato un contratto di matrimonio. Il mio promesso sposo era Giangaleazzo Malaspina, probabilmente l’uomo più viscido e odioso di tutta la città. Pochi giorni dopo, il giorno della festa che i governanti avevano indetto per celebrare la tregua, il mio “adorato fidanzato” cercò di... beh, diciamo che non si comportò in modo esattamente galante nei miei confronti. Io mi difesi e lo accoltellai» raccontò, cercando di essere il più concisa possibile.
«Lui cadde all’indietro e colpì con la testa lo spigolo del lavatoio. La caduta uccise lui, vero?» la interruppe Alois, un’espressione di improvvisa consapevolezza dipinta sul volto.
«Esatto. Quella notte ti vidi per la prima volta» replicò lei.
«Ecco perché avevi un’aria familiare, quando ti ho visto all’arruolamento! In effetti, all’inizio ho pensato che tu fossi parente della ragazza che avevo visto quella notte... mai avrei pensato che fossi tu».
«Avevi promesso che non avresti detto niente a nessuno, invece alcuni giorni dopo il padre di Malaspina mi ha fatto capire che sospettava di me! Sono scappata per salvarmi la pelle e per non mettere la mia famiglia in pericolo... come posso fidarmi di te?» esclamò in quel momento Femia, rabbiosamente. Le sembrò che tutti i sospetti su di lui che in quell’anno aveva trattenuto, nascosto e tentato di dimenticare per non farsi scoprire venissero a galla senza preavviso, travolgendola come un fiume in piena.
Il ragazzo sobbalzò come se lo avesse schiaffeggiato. Sembrava davvero sorpreso e ferito.
«Ma... io non ho parlato. Non ho detto niente... davvero! Io giuro te!» rispose, con il suo accento del nord che si faceva più marcato per l’indignazione ed il turbamento.
«Eri l’unico testimone, chi altri può avere parlato?»
«Non lo so» mormorò lui, sconsolato. «Forse qualcuno vide lui entrare nel vicolo dopo di te. Forse qualcuno che era con lui sapeva che voleva seguirti. Non sono stato io».
L’ultima frase la disse senza esitare, in tono grave, guardando l’amica dritta negli occhi. Lei gli credette: sembrava davvero sincero. Non poteva esserne sicura, certo, ma in quel momento sentiva di aver bisogno di potersi fidare di qualcuno. Avrebbe voluto rispondergli per fargli capire che gli credeva, ma in quel momento un capogiro più forte degli altri la fece vacillare, quindi annuì semplicemente e si stese a terra. A quel cenno, Alois sembrò illuminarsi e le sorrise di rimando.

Il giorno dopo, Eufemia si sentiva meglio: riusciva a camminare senza sentirsi svenire e d i dolori Sembravano essere diminuiti. Alois si allontanò nel bosco per prendere dell’acqua al fiume e per permetterle di cambiarsi la fasciatura al petto, ormai piena di sangue.
«Ti è andata male, ora riesco a farlo da sola» aveva scherzato lei. In risposta, il ragazzo aveva borbottato qualcosa di incomprensibile ma indubbiamente poco lusinghiero ed era scomparso tra gli alberi.
Rimasta sola, la ragazza stava per slacciarsi la cotta di maglia, quando udì un fruscio  alle sue spalle. Voltandosi, vide Ruggero spuntare da alcuni cespugli, un braccio ed un fianco vistosamente fasciati.
“Da quanto tempo era nascosto lì?” si chiese, alzandosi in piedi ed afferrando la spada.
«Bene, bene... ecco qui la famosa mercenaria. E io che pensavo che fosse soltanto uno stupido pettegolezzo da puttane, quello che mi aveva raccontato una delle ragazze di Mara, in città!» esclamò mellifluo, con il suo solito ghigno storto e una luce pericolosa negli occhi.
«Hai sentito tutto». Non era una domanda, era un’affermazione: lui sapeva, era ovvio. Evidentemente Bice gli aveva raccontato la sua storia, ma senza rivelargli il suo nome... probabilmente il luogotenente era stato ferito durante la battaglia e non era riuscito a raggiungere gli altri, come loro, quindi si era nascosto lì ed aveva sentito tutto il loro discorso, facendo due più due. O forse li aveva seguiti fin dall’inizio, ascoltandoli ed aspettando il momento buono per uscire dal suo nascondiglio...
«Immagino che adesso lo dirai a tutti gli altri soldati: quale modo migliore per liberarti di me?»
«Oh, no...» replicò lui, strascicando le parole ed allargando ancora di più il sorriso. «Ti caccerebbero di certo e né io né te guadagneremmo niente da questo; non è vero, Lodovico? O forse dovrei dire Femia? Naturalmente, il mio silenzio dovrai meritarlo...»
«Che cosa vuoi?» domandò seccamente lei, stringendo i pugni ed impedendo al panico di farsi strada nella sua voce.
«Diciamo che metà della tua paga sarebbe un pagamento equo, non trovi?»
“È così, allora. Ricatto” pensò la ragazza.
«No, non penso affatto!» ringhiò, alzando la spada e gettandosi contro di lui.
L’uomo sembrava aspettarselo, infatti parò subito il suo attacco. Il duello cominciò: i due contendenti, entrambi decisi a vincere, si muovevano goffamente per colpa delle ferite, ma nonostante ciò i loro colpi erano letali. Ad certo punto la ragazza, troppo lenta a parare un affondo dell’avversario per colpa della slogatura al piede che poco prima le aveva fatto perdere l’equilibrio, venne colpita al braccio. Era solo una ferita lieve, ma Ruggero la guardò e scoppiò in una risata trionfante, brandendo la sua arma pronto a colpire di nuovo. Eufemia subito ricominciò a combattere: ormai non era più una nuova recluta e poteva contare su qualcosa di più della semplice fortuna per riuscire a batterlo. Il luogotenente riuscì a schivare il colpo: le spade cozzarono l’una contro l’altra, poi però la ragazza riuscì a disarmarlo con una torsione del braccio e subito dopo lo colpì alla gola. Per un attimo, sul volto dell’uomo comparve un’espressione di puro terrore, poi emise un rantolo e cadde a terra, dove si mosse convulsamente per pochi secondi per poi arrestarsi di colpo. In quel momento Alois arrivò di corsa, stringendo la sua arma. Si arrestò di colpo vedendo l’amica brandire la propria, la cui lama era ricoperta di sangue.
«Ho sentito dei rumori, che cosa... ma quello è Ruggero?»
«Ci aveva sentiti e voleva ricattarmi. Non potevo permetterlo, mi avrebbe avuto in pugno. Avrei passato la vita nel terrore che mi denunciasse».
«Volevo aiutarti, ma direi che te la sei cavata benissimo anche da sola. Penso che tu stia abbastanza bene per partire, ora: se non raggiungiamo presto gli altri, potremmo destare sospetti» replicò lui, rinfoderando la spada.
Poco dopo, i due partirono per ricongiungersi ai loro commilitoni.“O meglio, a quelli che sono sopravvissuti all’attacco” pensò la ragazza, mentre zoppicava di fianco all’amico appoggiandosi ad un bastone: aiutandosi con quel ramo, riusciva a camminare abbastanza bene, nonostante la caviglia le facesse ancora male e le foglie umide ed il terreno irregolare rallentassero la sua camminata.
Seguendo il sentiero, dopo più o meno un’ora uscirono dal bosco e raggiunsero un accampamento vicino, dove i soldati sopravvissuti della loro armata si erano uniti ad un altro contingente: tra di essi c’erano Wiligelmo ed il mercenario con il volto bruciato che faceva parte del loro gruppo, che parlavano a bassa voce tra di loro  seduti fuori da una tenda logora.
«Alois, Lodovico! Dove eravate? Ormai pensavamo tutti che foste morti...» esclamò il primo vedendoli, alzandosi in piedi.
«Lui è stato ferito al petto e alla caviglia. Sono riuscito a curare lui, ma non poteva camminare. Siamo partiti appena è riuscito a reggersi in piedi» spiegò il biondo.
«Capisco» rispose l’altro, notando il bastone a cui si appoggiava Eufemia. «Quell’attacco è stato una strage. Sono morti molti di noi, anche Antonio. Ruggero è scomparso: crediamo che sia morto anche lui, ma nessuno ne è sicuro».
«Sì, è morto, l’abbiamo visto» replicò la ragazza. «Povero Antonio... e dire che pensavamo di essere sopravvissuti al peggio. Agilulf è qui?»
«Sì, ma è ferito gravemente. Lo stanno operando proprio in questo momento, ma non sappiamo se se la caverà» replicò cupamente Wiligelmo, indicando con un cenno una delle molte tende all’interno delle quali si affaccendavano i cerusici. In quel momento si udì un grido agghiacciante provenire da una di esse, che sovrastò i rumori dell’accampamento e fece rabbrividire gli uomini.
«Questa sconfitta ci costerà cara» mormorò tra sé un soldato che stringeva in mano delle bende, affrettandosi verso il punto da cui proveniva il lamento.
Il mercenario senza un occhio annuì gravemente.

 

 

 

 

 

 

ANGOLO DELL'AUTRICE:
Eccomi di ritorno con il nuovo capitolo! Ho cercato di aggiornare presto... avrei dovuto pubblicarlo ieri, ma ho dovuto rimandare a causa di alcuni contrattempi. Spero che vi piaccia!
 

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


CAPITOLO 11:

 

Eufemia era distesa con gli occhi spalancati sul terreno freddo, sotto alla tenda logora che fungeva da infermeria nell’accampamento dei mercenari. Poteva udire i rumori della battaglia, leggermente attutiti dalla lontananza e sovrastati di tanto in tanto dai gemiti degli altri feriti, ma il non poter prendere parte ai combattimenti le procurava una sensazione simile al dolore. Queste fitte le sembravano più reali di quelle che di tanto in tanto la attraversavano, partendo dalla ferita al petto e propagandosi poi al resto del suo corpo, a causa delle quali era stata costretta a non partecipare allo scontro.

Tutto era cominciato pochi giorni prima. I superstiti dell’armata di Agilulf si erano uniti ad un altro plotone che era stato decimato in una battaglia precedente, sotto la guida di un comandante di dubbia fama. Non avevano mai avuto a che fare con lui ma, stando a ciò che avevano sentito dire dagli altri soldati, era famoso per non prendere quasi mai parte agli scontri in prima persona: spesso, infatti, affidava il comando al suo luogotenente e rimaneva nelle retrovie. Questo cambiamento non era piaciuto agli uomini, ma non si poteva fare altrimenti: Agilulf non si era ancora ripreso del tutto dalle ferite riportate nello scontro nel bosco. Non sembrava più in pericolo di vita ed aveva ripreso conoscenza, ma era molto debole e non era ancora in grado di reggersi in piedi o di rimanere seduto per più di pochi minuti.
Anche la ragazza era andata con loro, perché riteneva di essere abbastanza in forze per ricominciare a combattere, ma durante i giorni in cui i comandanti discutevano, decidendo nuove tattiche e strategie per ritornare in una posizione di vantaggio rispetto ai nemici, aveva cominciato a sentirsi sempre più debole e la ferita aveva ricominciato a dolerle. I primi giorni aveva cercato di ignorare il dolore, ma con il passare del tempo esso si era fatto sempre più insistente e non aveva più potuto fare finta di niente, inoltre si sentiva perennemente febbricitante e spesso le girava la testa. Nonostante avesse cercato di nasconderlo, la sera prima della battaglia anche Alois si era accorto del suo malessere.
«C’è un’infezione, ecco perché ti è venuta la febbre. Non puoi combattere in queste condizioni» le aveva detto dopo averla portata vicino al bosco, lontano dall’accampamento, per non rischiare di essere uditi dai loro commilitoni.
«Certo che posso!» aveva replicato lei, veemente.
«Assolutamente no! Non avresti i riflessi abbastanza pronti da poter combattere e verresti quasi sicuramente ferita, se non peggio... e se verrai ferita, stavolta scopriranno te».
«Mi scopriranno anche se andrò in infermeria!» esclamò Eufemia, sull’orlo della disperazione. Doveva ammettere che il suo amico aveva ragione, ma non voleva darsi per vinta. Il ragazzo tacque, pensoso, appoggiandosi una mano al mento e socchiudendo gli occhi.
«Non preoccuparti, loro non lo faranno. So che cosa fare» rispose improvvisamente, alzandosi di scatto. «Aspettami qui!» le gridò, mentre correva verso le tende dalle quali si erano allontanati poco prima.
Alois fece ritorno alcuni minuti dopo, mentre la ragazza, ancora seduta a terra, cominciava a chiedersi dove fosse andato. Stringeva in mano delle bende pulite e delle erbe medicinali.
«Devi cambiarti la fasciatura. Mentre tu fai questo, io andrò all’accampamento a preparare una medicina: un medico giovane mi ha dato le erbe che servono e ha mi spiegato cosa fare» spiegò, porgendole le strisce di stoffa.
«Va bene... ma sei sicuro che funzionerà?» rispose lei, prendendole.
«Penso di sì, ma naturalmente tu dovrai riposare, o non guarirai. Devi andare in infermeria».
«Ma se proveranno a curarmi verrò subito scoperta!»
«No: adesso ci sono molti casi più gravi di cui i dottori devono preoccuparsi e dopo la battaglia saranno ancora di più. I medici sono pochi e stanchi, accettano ogni aiuto che si propone loro... ho promesso all’uomo che mi ha spiegato come preparare il decotto che mi occuperò io dei casi meno gravi. Tu fai parte di questi ultimi, quindi non preoccupa... preoccuparti. Devi solo riposarti e soprattutto non venire a combattere» le disse lui, tranquillo.
«Caspita, hai pensato a tutto» mormorò lei. «In ogni caso, immagino di non avere molta scelta. Hai vinto tu, domani in battaglia dovrai cavartela da solo» continuò, con un mezzo sorriso.
Il ragazzo sospirò, tranquillizzato, poi si alzò. Eufemia lo imitò, anche se per un attimo venne colta da un capogiro, poi i due ritornarono verso l’accampamento. Dopo avere preparato il decotto che gli aveva consigliato il medico ed avere costretto l’amica a berlo, Alois la accompagnò alla tenda che fungeva da infermeria e si diresse verso il punto dove lo aspettavano gli altri mercenari.
«Aspetta!» lo chiamò in quel momento la ragazza. Lui si voltò, guardandola interrogativamente.
«Volevo solo ringraziarti per il tuo aiuto, per le medicine... non eri obbligato a farlo...» mormorò, maledicendosi mentalmente: le sembrava che non fosse un ringraziamento adeguato, ma come sempre non riusciva ad esprimere adeguatamente ciò che provava. Ciononostante, il ragazzo annuì, mostrando di capire ciò che intendeva dire.
«Non devi dire grazie a me, Lodovico. Siamo amici... giusto? Tu sei mio amico e io voglio che tu stai... no, stia bene» rispose, chiamandola con il suo falso nome per non insospettire i soldati che si muovevano attorno a loro.
Femia lo osservò per un attimo, come indecisa se aggiungere qualcosa o se tacere, poi sembrò prendere una decisione e scrollò le spalle.
«Fai attenzione domani, va bene? Non mi sento tranquillo, se penso che non ci sarò io a guardarti le spalle» gli disse, con un ghigno che cercava di mascherare il suo tono improvvisamente preoccupato.
«Starò attento, te lo prometto» replicò Alois, con uno dei suoi sorrisi disarmanti. Inaspettatamente le strinse una mano, quasi a suggellare un accordo, poi si allontanò e scomparve tra la folla di soldati che si camminavano in ogni direzione. La ragazza lo seguì per un po’ con lo sguardo, poi si voltò ed entrò nella tenda, stendendosi accanto ad Agilulf, che dormiva.

Eufemia rimase sveglia a lungo, nel buio della tenda. Si sentiva nervosa, come non era mai stata nemmeno prima di battaglie in cui sapeva di avere poche possibilità
di sopravvivenza. Non sopportava l’idea di non poter combattere insieme ai suoi compagni. Sapeva che era una preoccupazione inutile: anche se avesse potuto partecipare allo scontro, non avrebbe certo potuto aiutarli tutti, né guardargli costantemente le spalle.
“Detesto non sapere che cosa sta succedendo loro. Almeno lì potrei fare qualcosa, dare una mano, ma qui... sono completamente inutile. Mi sento come quando eravamo stati assediati!” pensò, cercando di ignorare i gemiti degli uomini ed i passi dei medici che di tanto in tanto passavano tra i feriti, controllando le ferite e cambiando bende. Si rendeva conto che tutti loro erano combattenti esperti ed erano perfettamente in grado di cavarsela, ma questo non le impediva di angosciarsi, soprattutto per il suo amico. Al pensiero di Alois, ripensò anche al suo gesto di poco prima e sorrise involontariamente, anche se l’ansia si fece ancora più forte. “Sarà meglio che tu faccia ritorno intero, ricordatelo” pensò, quasi che lui potesse sentirla. “Ma... che cosa significava esattamente, quella stretta di mano?”
Dopo un po’, senza accorgersene, scivolò nel sonno.
La mattina dopo cercò di tenersi occupata in tutti i modi possibili, per dimenticare il senso di impotenza che la pervadeva: cercò di rendersi utile aiutando i pochi medici rimasti per qualche ora. Di tanto in tanto, nei rari momenti di calma, qualcuno di loro le rivolgeva la parola, oppure dei soldati che passavano di lì per controllare le condizioni dei compagni raccontavano loro ciò che accadeva al di fuori dell’infermeria.
«Sapete che i comandanti stamattina presto hanno ricevuto uno straniero nella loro tenda?» aveva raccontato uno di loro, rivolto a tutti i presenti. Subito gli uomini si voltarono verso di lui, interessati.
«Sul serio? Che tipo di straniero?» gli domandò il cerusico più esperto, un uomo alto e completamente calvo in perenne movimento, sempre affaccendato attorno a questo o a quell’altro paziente.
«Non ne sono sicuro, ma gira voce che sia un messaggero dei nemici. Ciò che è certo  è che deve avere molte cose da dire, perché nessuno è ancora uscito dalla tenda» spiegò il mercenario inarcando le sopracciglia, allusivo, con il tono di chi la sa lunga. Un giovane medico poco distante da lui alzò gli occhi al cielo, imitato da altre persone: evidentemente, il nuovo arrivato non era una fonte di informazioni affidabile.
«Smettila di darti delle arie... sappiamo tutti che non hai la più pallida idea di ciò che si stanno dicendo e lo sai anche tu, quindi non c’è bisogno di tentare di farcelo credere. Sei un pessimo bugiardo!» gli gridò in quel momento un altro soldato, con un ghigno di scherno sul volto mal rasato. L’uomo gli lanciò un’occhiata di fuoco ed uscì dall’infermeria, bestemmiando sonoramente.
Eufemia scosse la testa, continuando ad armeggiare con le bende di un uomo che aveva perso una mano in combattimento e giaceva supino, guardandosi di tanto in tanto il braccio con occhi sconvolti.
Continuò ad occuparsi dei casi meno gravi fino a quando il dolore ed i capogiri non si fecero troppo forti. A quel punto, ritornò a stendersi al suo posto, accanto al comandante. L’uomo aveva dormito un sonno irrequieto per tutta la mattinata, senza svegliarsi nonostante le voci di medici e soldati, le grida dei moribondi ed i rumori provenienti dalle retrovie del campo di battaglia. “Sembra invecchiato di anni in pochi giorni... quella sconfitta è stata davvero un brutto colpo per tutti, ma per lui è stata persino peggio” pensò, guardandolo distrattamente. Era ancora più pallido del solito ed i suoi occhi erano circondati da due occhiaie profonde. Quando Femia si sedette accanto a lui, girò la testa verso di lei e socchiuse gli occhi.
«L-Lodovico... cosa ci fai qui?» domandò, con evidente sforzo. La sua voce, di solito forte, era ridotta ad un sussurro, tanto che la ragazza dovette avvicinarsi per capire ciò che stava dicendo.
«Infezione ad una ferita, signore. Avrei voluto andare a combattere lo stesso, ma...»
«Per cosa? Per farti ammazzare? Hanno fatto bene ad impedirtelo» replicò Agilulf, riacquistando con poche parole la sua autorità. «Non fare quella faccia. So come ti senti... pensi che non vorrei essere là anche io? Se la caveranno, non preoccuparti» continuò, poi si interruppe all’improvviso e si portò la mano alla ferita con un gemito.
«Tutto bene, signore?» gli chiese la ragazza, allungando istintivamente una mano verso di lui.
«Certo, è tutto a posto» replicò l’altro, nonostante entrambi sapessero che stava mentendo. «Piuttosto, cosa è successo stamattina? Prima mi è sembrato di sentire i medici parlare di uno straniero...»
«Sì. Un uomo è stato ricevuto dai comandanti questa mattina e qualcuno ha messo in giro la voce che si tratti di un messaggero nemico, ma nessuno ne è sicuro... anche perché, a quanto pare, nessuno è ancora uscito dalla tenda» gli spiegò lei.
Il capitano chiuse per un attimo gli occhi, come se si sentisse troppo affaticato per continuare la conversazione, ma quando li riaprì, Femia notò che erano pieni della ferrea determinazione che lo aveva sempre caratterizzato.
«Devo ascoltare anche io quello che lo straniero ha da dire. Anche con queste ferite, sono pur sempre un comandante!»
«Non può! Deve riposare... non riesce neanche a reggersi in piedi!» si lasciò sfuggire lei. L’uomo la ignorò e si mise faticosamente a sedere.
«Aiutami, per favore...» mormorò, passandole un braccio attorno alle spalle e cercando di alzarsi.
«Ma signore...»
«Niente ma, Lodovico. Aiutami ad arrivare alla tenda dei comandanti. È un ordine!» ribatté seccamente Agilulf.
Eufemia non poté far altro che obbedire: passando una mano dietro la schiena dell’uomo, riuscì ad aiutarlo a sollevarsi, quindi i due si incamminarono barcollando.
“Un uomo con un piede nella fossa ed una ragazza febbricitante... quantomeno, in due formiamo una persona normale” pensò mentre si avvicinavano alla tenda dei capitani, presidiata da due soldati. Inizialmente questi ultimi bloccarono loro il passo, ma quando riconobbero Agilulf li lasciarono passare. Femia sollevò il lembo di stoffa che chiudeva la tenda, quindi entrarono, stringendo gli occhi per l’improvvisa penombra che li avvolse.
All’interno si trovavano i comandanti di tutti i plotoni, seduti attorno ad un tavolino basso ricoperto di fogli di pergamena sparpagliati. Tra di loro, a capotavola, sedeva il messaggero. Era un uomo muscoloso e di media statura, anche se l’autorità che emanava lo faceva sembrare più alto. Sul suo volto abbronzato spiccava un naso lungo ed aquilino e gli occhi piccoli e penetranti scintillavano. Tutti gli sguardi si concentrarono sui nuovi arrivati.
«Agilulf! Cosa ci fai qui? Dovresti essere in infermeria!» esclamò stupito un soldato. «Infatti vengo proprio da lì, ma ora sto abbastanza bene per partecipare alla riunione. Lodovico resterà con noi, in caso mi serva aiuto» replicò l’altro, che non si appoggiava più ad Eufemia, ma fronteggiava gli uomini dritto come un fuso. «Non vi preoccupate, è degno della massima fiducia. Garantisco io per lui» continuò, interrompendo sul nascere qualsiasi obiezione e prendendo posto davanti al tavolo, mentre due suoi commilitoni si spostavano per fargli spazio.
Lo straniero, dopo averlo squadrato attentamente, riprese il suo discorso dal punto in cui si era interrotto.
«Come vi stavo dicendo, signori, è ormai noto a tutti che il Comune che state servendo presto potrebbe cominciare ad avere grosse difficoltà a garantirvi il compenso che vi è stato accordato; è per questo che i governatori della nostra città mi hanno mandato a proporvi un accordo».
«Questo ce l’ha già fatto capire. In cosa consisterebbe questo... accordo?» domandò un comandante basso e robusto dal volto rubizzo, sporgendosi verso l’uomo. Quest’ultimo raddrizzò la schiena. Tutti gli sguardi seguirono i suoi movimenti, come ipnotizzati, mentre il silenzio sembrava farsi sempre più pesante ogni secondo che passava: l’uomo si lasciò sfuggire un sorriso a labbra strette, che non si estese agli occhi, poi appoggiò entrambe le mani sul piano del tavolo.
«I consoli della mia città vi propongono di passare al nostro servizio, naturalmente in cambio di uno stipendio maggiore di quello che ricevete adesso. Vista la situazione economica in cui presto verserà la “vostra” città, sarebbe un affare davvero vantaggioso per voi».
«Sempre parlando per ipotesi, di quanto esattamente aumenterebbe il nostro soldo?» chiese uno dei suoi interlocutori. La sua voce, sgradevolmente melliflua, ricordò alla ragazza quella di Ruggero. Rabbrividì istintivamente, osservando il volto del suo comandante: sembrava scolpito nella pietra, osservava guardingo il messo senza lasciar trapelare alcuna emozione.
In effetti, il compenso sarebbe... vediamo... sarebbe superiore a quello che percepite ora del trenta per cento circa» replicò quest’ultimo, con finta noncuranza.
Eufemia spalancò gli occhi, sconvolta, osservando attonita gli sguardi della maggior parte dei comandanti farsi improvvisamente avidi e calcolatori, quasi rapaci.
«Trenta per cento... non male» mormorò l’uomo dalla voce untuosa, fregandosi inconsapevolmente le mani. «La vostra è un’offerta che vale certamente la pena di considerare».

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTE DELL'AUTRICE:
Ecco (anche se all'ultimo minuto... di nuovo!) il secondo capitolo del mese! Spero che vi piaccia...
 

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


CAPITOLO 12:


Dopo aver sentito l’offerta del messaggero, tutti i comandanti sembrarono valutarla attentamente.
«Un aumento del trenta per cento...»
Queste parole si formavano sulle labbra di tutti i presenti, mormorate, soppesate con la fronte corrugata o sillabate lentamente, come per gustarne il sapore. Le implicazioni di una tale cifra subito si fecero strada nella mente di Eufemia: certo, una tale quantità di denaro era difficile da rifiutare, soprattutto considerando che la fiducia che gli uomini nutrivano nella città per cui combattevano era stata minata da ciò che il messo aveva detto loro prima che lei ed il capitano li raggiungessero.
“Non possono farlo... pensò istintivamente, poi però dovette ricredersi. I soldati come lei, che erano cittadini che si erano uniti volontariamente all’esercito, erano pochissimi. La maggior parte dei mercenari non avevano alcun legame con il Comune e non avrebbero esitato a passare dalla parte dei nemici appena questi avessero offerto loro abbastanza denaro. “Ma io? Come posso tradire la mia città? Ho promesso che avrei vinto questa guerra!”
La ragazza lanciò uno sguardo stralunato ad Agilulf. Quest’ultimo la guardò negli occhi a sua volta: il suo volto non tradì alcuna emozione, rimanendo impenetrabile, ma per un attimo la sua mascella parve irrigidirsi impercettibilmente.
«Propongo di discutere la proposta tra di noi, prima di dare una risposta definitiva» disse in quel momento, con voce ferma e sicura nonostante il dolore che gli procuravano le ferite, tradito solo dal sudore che gli imperlava il volto. «Penso che voi possiate capirmi: abbiamo bisogno di valutare attentamente la vostra offerta» proseguì poi, rivolgendosi al messaggero in tono cortese ma freddo.
L’uomo sembrò sul punto di ribattere, poi però parve decidere che non sarebbe stata  una mossa saggia ed accettò la sconfitta, replicando altrettanto educatamente: «Naturalmente. Comprendo che è una decisione che richiede un consulto. Prendetevi pure tutto il tempo di cui avete bisogno, vi attenderò fuori». Detto ciò, chinò leggermente la testa in segno di saluto ed uscì dalla tenda.
«Agilulf!» esclamò l’uomo dalla voce melliflua, non appena lo straniero non scomparve  dalla loro vista. «Perché gli hai chiesto di andarsene? Non credo che ci sia molto da decidere...»
«A me invece pare di sì. Se dobbiamo davvero voltare le spalle ad una città che ci ha chiesto il suo aiuto, trovo che sia una decisione che merita una discussione» replicò bruscamente il capitano, con un tono tagliente che fece ritrarre istintivamente il suo interlocutore. I mormorii degli altri comandanti erano improvvisamente svaniti, sostituiti da un silenzio carico di tensione.
«Andiamo, Agilulf...» intervenne un soldato robusto dal volto arrossato e glabro. «Non puoi prendere sul personale ogni cambiamento di fronte. Siamo mercenari! Combattiamo fino a quando ci pagano, ma se i soldi finiscono niente ci impedisce di andarcene, lo sai anche tu. Stando a ciò che ci ha detto quell’uomo, i soldi della città cominciano a scarseggiare...»
«Quelle di cui vi ha parlato sono soltanto delle voci, che potrebbero rivelarsi false, oppure sono menzogne che ci hanno propinato per indurci ad accettare l’accordo. Fino a quando non saranno confermate, è nostro dovere rimanere!» ribatté l’altro.
«Insomma, ragazzo, hai il cuore troppo tenero. E pensare che non sei un novellino! Non puoi pensare che dovremmo rinunciare ad un’occasione del genere solo perché tu non vuoi lasciare indifesa questa città. È la vita, rassegnati. Le persone tradiscono sempre ed i mercenari non sono da meno!» sibilò in quel momento un anziano militare.
«Non potete!» mormorò in quel momento Femia, senza riuscire a trattenersi. Si sentiva frastornata: certo, quando si era unita all’esercito si era resa conto che il  cambiamento di fronte era una possibilità da mettere in conto. Dopo una vita passata gestendo una bottega sapeva che, quando si trattava di denaro, gli uomini più insospettabili potevano buttare alle ortiche la legge, l’onore e gli affetti, eppure non riusciva a non sentirsi tradita. Forse era per le vittorie che avevano riportato contro i nemici, o per la furia che sembrava animare tanto lei stessa quanto i suoi commilitoni che non avevano nulla a che fare con il suo Comune, ma nonostante ciò non riusciva ad accettare che potessero abbandonare a cuor leggero tante persone che contavano sulla loro protezione. Forse era per le parole che le aveva rivolto il capitano, quel giorno di vari mesi prima...

«Capitano... li fermeremo, vero? Non lasceremo che lo facciano di nuovo. Non li faremo arrivare alla città».
«Certo che no. Non li lasceremo entrare in città. Anche a costo di dover resistere fino all’ultimo uomo».

«Sei un ingenuo, ragazzino» la schernì il vecchio, guardandola con disprezzo e distogliendola dai ricordi. «Devi mettere da parte l’idealismo. L’onore, la morale... sono tutte parole: qui contano i soldi, non i buoni sentimenti. Avresti dovuto pensarci due volte, prima di arruolarti!»
Furiosa, la ragazza per un attimo fu sul punto di alzarsi in piedi ed insultarlo, poi però riuscì a impedirselo mordendosi le labbra, tanto forte che sentì il sapore del sangue sulla lingua.
«Lodovico, grazie per il tuo aiuto. Ora però esci, per piacere» le disse Agilulf, posandole una mano sul braccio.
«Ma signore, voi avevate detto...» tentò di ribattere lei.
«Avevo detto che saresti rimasto in caso avessi avuto bisogno di aiuto, lo so, ma  posso cavarmela da solo. Adesso vai» la interruppe l’uomo, passandosi le dita tra i sottili capelli rossicci. Era un gesto lento che sembrava riunire in sé tutta la stanchezza ed il senso di impotenza che il comandante doveva provare, ma i suoi occhi chiari erano decisi come sempre, mentre la osservavano. Avevano un’espressione  intensa, come se Agilulf stesse cercando di comunicarle qualcosa. Sembravano scusarsi, ma allo stesso tempo erano attraversati dal lampo fiero di chi non si arrenderà senza prima combattere. Quello sguardo era una promessa.
«Sissignore» replicò Eufemia, poi si alzò ed uscì dalla tenda.

Non appena scostò il lembo di stoffa che fungeva da porta, venne accecata dalla luce del sole che le colpì il viso. In quel momento, la ferita al petto incominciò a pulsare: era stata tanto impegnata a seguire la discussione che si era dimenticata del dolore, ma ora che aveva lasciato la tenda esso tornava prepotentemente a farsi sentire. Non appena i suoi occhi si furono nuovamente abituati alla luce, andò a sedersi sull’erba secca e giallastra che ancora spuntava dal terreno. Poco lontano da lei era seduto il messaggero, che la osservò con la coda dell’occhio con uno sguardo penetrante ma indecifrabile; vedendolo, la ragazza si sentì invadere da una vampata di odio profondo.
“Se non fosse stato per lui, adesso non saremmo in questa situazione” rifletté, strappando con un gesto involontario un ciuffo d’erba e riducendolo poi in piccoli pezzi, che gettò davanti a sé. Mentre li vedeva fluttuare nell’aria e cadere per terra, ripensò alla sera in cui aveva rivisto Maria, quando era tornata in città durante la licenza.
«Per favore, vincete questa guerra» le aveva detto, carezzandosi la pancia come per proteggere suo figlio. Chissà se il bambino era già nato... forse sì, oppure mancavano poche settimane. Femia sperava che sua sorella stesse bene. Erano così tante le cose che avrebbero potuto andare storte, durante un parto. Sicuramente avrebbero chiamato la levatrice: tutti nel borgo la apprezzavano e di tanto in tanto lodavano il suo lavoro. La ragazza ricordava dialoghi del genere, che si svolgevano al mercato, al lavatoio o in qualunque posto le donne si incontrassero.
«Non preoccuparti» diceva una di loro, mostrando il corpo sformato dai molti parti ad una giovane intimidita. «Giuseppina mi ha aiutato a far nascere cinque dei miei figli e sono tutti usciti sani come pesci!» continuava poi, accennando ai tre o quattro marmocchi che giocavano gridando poco lontano da lei, in un confuso guazzabuglio di mani, gambe e strilli eccitati.
«Sì, anche due dei miei» si univa un’altra comare. «Uno però è morto, ma questo è successo un anno dopo. Dissenteria» spiegava, una smorfia triste sul volto.
«Una volta ha aiutato una ragazza durante un parto difficile ed ha salvato sia lei che il bambino! Sarai in buone mani, figliola» concludeva una terza, con un sorriso incoraggiante che le increspava il volto invecchiato precocemente.

Questi ricordi ne portarono altri, uniti tra di loro da un filo invisibile. Nomi, volti e gesti di persone che conosceva, o che aveva visto qualche volta in città. Lo zoppo che vendeva i cesti di paglia al mercato, l’apprendista del panettiere, le vecchie signore che spettegolavano in piazza... non aveva più niente a che fare con loro. Di molti non sapeva neppure il nome e certi non le piacevano particolarmente, ma non poteva abbandonarli: tutte quelle persone contavano sui mercenari per continuare a vivere. La maggior parte di loro non sapeva nemmeno prendere in mano una spada, certo non sarebbero stati in grado di difendersi da un attacco nemico. Andarsene sarebbe equivalso a condannarli a morte. Sapeva di che cosa fossero capaci gli uomini del Comune rivale e non riusciva a sopportare l’idea di lasciare i suoi concittadini in balia degli avversari.
Le parole della sorella le rimbombavano nella testa. Quella sera, che le sembrava lontana secoli, non le aveva risposto, ma nel profondo sapeva che in quel momento aveva giurato a sé stessa che non avrebbe lasciato che i nemici invadessero la città.
“Mai fare promesse che non si è in grado di mantenere” pensò amaramente.
Che cosa avrebbe fatto, se i comandanti avessero deciso di tradire? Dove sarebbe potuta andare? Forse in un’altra città... magari avrebbe persino trovato un altro esercito in cui arruolarsi, in un modo o nell’altro i Comuni trovavano sempre un motivo per scontrarsi. Lasciare coloro che ormai poteva chiamare amici le sarebbe dispiaciuto, certo, ma non era la prima volta che si lasciava tutto alle spalle. Sapeva che ce l’avrebbe fatta. Anche la certezza che sarebbe stata etichettata come una codarda la infastidiva, ma avrebbe sopportato anche il peso dell’infamia. Poteva quasi sentire le voci dei suoi compagni: “Hai sentito di Lodovico? Ha disertato... e pensare che non sembrava il genere di persona che scappa...”
La ragazza sospirò, dando una rapida occhiata alla tenda. Quando le voci al suo interno di tanto in tanto si alzavano di tono riusciva a cogliere alcune parole, ma il resto della conversazione non era che un mormorio incomprensibile. Notò che anche il messo stava tendendo le orecchie, tentando di udire la discussione, ma dopo pochi secondi rinunciò, scuotendo la testa e tornando a fissare un punto indefinito davanti a sé.

Era ancora immersa nei propri pensieri, quando d’un tratto udì un fruscio di stoffa: i comandanti stavano uscendo dalla tenda. Alcuni di loro sembravano indispettiti, altri assolutamente furiosi. Uno di loro si diresse verso lo straniero per comunicargli le decisioni prese e poco dopo Eufemia venne raggiunta da Agilulf. L’uomo era molto pallido, i suoi occhi erano lucidi di febbre ed i movimenti erano rigidi per il dolore causato dagli sforzi.
«Lodovico» disse in fretta, prima che lei riuscisse a fargli anche solo una delle domande che premevano per uscirle dalla bocca. «Abbiamo due giorni, non un minuto di più. Sono riuscito a convincerli a mandare qualcuno al Comune per dare ai governanti un ultimatum: se vorranno che continuiamo a combattere per loro, dovranno dimostrarci che hanno ancora del denaro a disposizione. Andrei io, ma non posso cavalcare in queste condizioni, per questo ho proposto il tuo nome. Gli altri comandanti hanno accettato. Dovrai consegnare questo ai Consoli, poi fornire loro una spiegazione» continuò, porgendole un rotolo di pergamena sigillato ed una bisaccia in cui riporlo.
La ragazza annuì con determinazione: non aveva bisogno di altre informazioni per decidere cosa fare.
«Accetto» rispose, prendendo i due oggetti. “Non che io stia molto meglio di lui, ma almeno ho il vantaggio di conoscere la città. Impiegherò meno tempo di quanto non ne servirebbe a loro” pensò.
«Partirai subito, qualcuno ti porterà un cavallo. So che non hai alcuna esperienza di missioni diplomatiche, ma ormai sai che in guerra bisogna imparare tutto in fretta: finora ce l’hai fatta ed ho fiducia nel fatto che riuscirai anche in questo».
Il capitano aveva appena finito di parlare, quando uno degli altri comandanti si avvicinò a loro, accompagnato da un soldato che stringeva in mano le briglie di un cavallo baio. Era un bell’animale che emise un nitrito basso non appena si affiancò a loro. Il suo pelo lucido era color castagna, tranne che per una macchia bianca su una delle zampe anteriori.
 «Ecco il cavallo. Immagino che Agilulf ti abbia già spiegato tutto...» disse acido l’ufficiale, rivolto a Femia.
Quest’ultima annuì, avvicinandosi lentamente al baio. Infilò un piede nella staffa, per poi issarsi sulla sua groppa con uno scatto. Il movimento era risultato piuttosto goffo, ma efficace: non era la prima volta che cavalcava. Quando ancora viveva con la sua famiglia, infatti, talvolta doveva accompagnare suo padre fuori città per alcuni affari. In quei casi, mastro Cavadecchi noleggiava dei cavalli, per questo ricordava ancora i movimenti necessari ed i comandi. La ragazza strinse le briglie in una mano, mentre con l’altra si aggiustò la bisaccia attorno alla cintura.
«In bocca al lupo» le augurò Agilulf, guardandola dal basso con un sorriso sghembo. Alle sue spalle, l’altro capitano sbuffò, ma lei non ci fece caso.
«Crepi. Grazie di tutto, signore» replicò, cercando di dimostrare in quelle poche parole tutta la sua gratitudine per l’uomo.
Il comandante annuì, poi le voltò e si incamminò verso l’infermeria con passo leggermente malfermo. Eufemia spronò il cavallo, che partì al galoppo.

Cavalcò per tutto il giorno, percorrendo a tutta velocità distanze che a piedi avevano richiesto giorni di cammino. Di tanto in tanto rallentava o si fermava, per permettere al cavallo di riposare, ma queste soste duravano solo lo stretto necessario: non appena quest’ultimo era abbastanza riposato, subito ripartivano. La ragazza si rendeva conto che si trattava di un ritmo massacrante per entrambi e le dispiaceva per il povero animale, ma voleva arrivare il prima possibile al Comune.
“Solo due giorni... fai presto! Corri!” si diceva, stringendo più forte le briglie tra le dita, tanto da imprimersi nella pelle i segni  a mezzaluna delle unghie. Non riusciva a pensare ad altro che a quella frase, o forse non voleva: ogni volta che le veniva in mente tutto ciò che durante il viaggio poteva andare storto, infatti, scuoteva la testa come a cacciare via il pensiero.
Quando calò il buio era arrivata nei pressi di una delle fattorie abbandonate dagli abitanti in fuga dai nemici, perciò decise che per quella notte avrebbe dormito lì. Proseguire di notte sarebbe stato pericoloso, inoltre lei era stanca ed assetata ed il cavallo non sarebbe mai riuscito a proseguire: aveva gli occhi fuori dalle orbite per la fatica e la bava alla bocca, il manto scuro ricoperto di sudore dall’odore pungente. Dolorante, Femia scivolò a fatica dalla groppa della sua cavalcatura e si diresse con movimenti impacciati verso il pozzo in pietra che si trovava fuori dalla cascina. Il secchio era ancora attaccato alla catena arrugginita, che la ragazza cominciò a calare: quando udì il tonfo che esso produsse toccando l’acqua, sorrise involontariamente. Dopo che lo ebbe issato sul bordo del pozzo, bevve avidamente, quindi lo riempì di nuovo e fece bere anche il cavallo. Quando anche lui ebbe finito di dissetarsi, legò le sue briglie ad un albero che spuntava nel cortile e per qualche secondo lo guardò brucare l’erba circostante, dopodiché entrò nella casa abbandonata e si distese a terra, con l’elsa della spada stretta nel pugno in caso di un attacco a sorpresa. Il sonno non tardò ad arrivare, infatti le servirono solo pochi secondi per addormentarsi.
Il giorno seguente Eufemia si svegliò alle prime luci dell’alba. Alzandosi, fece una smorfia: al dolore che le procurava la ferita si era aggiunto quello causato dalla lunga cavalcata del giorno prima.
“Non sono abituata a stare a cavallo tanto a lungo... ma adesso devo ripartire. Devo arrivare il prima possibile!” si disse, stringendo i denti e dirigendosi verso l’albero a cui aveva legato l’animale: quest’ultimo dormiva, ma aprì di scatto gli occhi sentendola arrivare. La ragazza lo accarezzò sul muso, con aria di scusa.
«Mi dispiace, bello, dobbiamo andare. Lo so, anche io vorrei fermarmi...» disse, montando sulla sua groppa, quindi lo colpì leggermente sui fianchi con i talloni e subito il baio partì.
Quando finalmente arrivò in vista della città, era ormai mezzogiorno inoltrato: non appena scorse le prime case, la ragazza spronò il cavallo. Entrò nel Comune al trotto, gli zoccoli dell’animale che rimbombavano colpendo il selciato delle strade deserte, dirigendosi verso la casa di Francesco Pellegrino, il console ritenuto da tutti i cittadini  il più rispettabile. Ricordava che, quando era piccola, un giorno stava passeggiando con suo padre quando quest’ultimo aveva salutato con deferenza un uomo piuttosto anziano dalla barba grigia e curata. Quando gli aveva domandato chi fosse quel vecchio, lui le aveva risposto che era una persona molto importante in città e che meritava rispetto.
Non appena arrivò a destinazione, bussò alla porta. Le aprì il padrone di casa in persona. Era più vecchio e più curvo di quanto ricordasse, ma conservava un portamento altero ed uno sguardo acuto. Se fu stupito di trovarsi davanti un ragazzo sudato e scarmigliato che reggeva in mano un foglio di pergamena, non lo diede a vedere.
«Signor Pellegrino, porto una comunicazione urgente da parte dei capitani dell’esercito mercenario! Bisogna convocare l’assemblea!» gridò Femia non appena lo vide, estraendo dalla bisaccia la pergamena sigillata.
«Che cosa? Calmati, ragazzo!» replicò l’uomo.
«Hanno ricevuto una proposta dai nemici... vogliono che noi soldati combattiamo per loro! Dicono che non potete più pagarci. Se è davvero così, nulla impedirà all’esercito di rivoltarsi contro la città. Avete tempo fino a domani per comunicare la decisione agli ufficiali!» spiegò lei, porgendogli il rotolo.
Il console parve comprendere la gravità della situazione, perché afferrò la pergamena e chiamò a gran voce: «Domenico! Vieni qui, presto!»
A quelle parole si sentirono dei passi affrettati provenire dall’interno della casa e poco dopo apparve un ragazzino di forse tredici anni.
«Sì, nonno?»
«Corri ad avvertire gli altri consoli che devono trovarsi il prima possibile al palazzo della Ragione e che bisogna riunire l’assemblea: siamo in pericolo!»
Il bambino spalancò gli occhi e sembrò sul punto di chiedere una spiegazione, ma nell’udire l’urgenza nel tono dell’uomo obbedì e corse via. Francesco lo guardò allontanarsi, poi si voltò verso Eufemia.
«Seguimi, ragazzo. Dovrai spiegare ai reggenti ciò che sta succedendo. Come ti chiami? Come facevi a sapere dove vivo?»
«Mi chiamo Lodovico, signore. Sono nato in questa città, è per questo che sapevo dove trovarvi» rispose la ragazza, incamminandosi dietro di lui verso il palazzo della ragione. L’edificio, nel quale si tenevano le assemblee per discutere le decisioni più importanti per il Comune, era un’imponente costruzione di mattoni rossi priva di fronzoli o decorazioni: incombeva sulla piazza principale proiettandovi la sua lunga ombra e la sua austerità incuteva rispetto ed un certo timore agli osservatori. Pellegrino armeggiò un po’ con un mazzo di chiavi, poi finalmente trovò quella che cercava ed aprì il pesante portone di quercia. Eufemia, sentendosi vagamente intimidita, fece un profondo respiro e varcò la soglia.

Un’ora dopo, la sala dove doveva tenersi la riunione era gremita. Oltre ai sette consoli, erano presenti tutte le personalità più importanti della città ed i rappresentanti delle Corporazioni: guardandosi intorno, Femia riconobbe alcuni volti a lei noti. Tra di essi c’era anche suo padre, che sembrava invecchiato dall’ultima volta che l’aveva visto. Il suo sguardo vagava inquieto dai consoli ai suoi colleghi, con i quali stava discutendo a mezza voce. Di tanto in tanto i suoi occhi si posavano anche su di lei, ma non si soffermavano mai ad esaminarla e passavano subito oltre.
“In fondo, sono soltanto l’ennesimo soldato di ventura sporco ed inaffidabile. Non ho nulla di speciale” constatò lei, sollevata, anche se la cosa le procurava una punta di tristezza.
Ad un tratto, la voce tonante di uno dei Consoli sovrastò il brusio circostante.
«Concittadini, ascoltatemi. Siamo in pericolo: le truppe mercenarie a cui ci siamo affidati hanno ricevuto una proposta molto allettante dai nostri nemici e rischiamo di trovarci senza difesa contro i loro attacchi».
Non appena terminò la frase, che era stata accolta da un silenzio profondo, molti uomini ricominciarono a parlare.
«Hanno mandato un messaggero per spiegarci la situazione. Silenzio!» gridò a quel punto Pellegrino, facendoli tacere per la seconda volta. Tutti gli sguardi si spostarono verso Eufemia, che poteva leggervi rabbia, dolore, paura.
«Allora, che parli!» esclamò qualcuno con veemenza.
A quel punto la ragazza si mosse, in modo da fronteggiare tutti i suoi interlocutori. Ogni movimento le procurava dolore, ma strinse i denti ed alzò la testa in un gesto quasi di sfida.
«Sono Lodovico e sono stato mandato qui come portavoce dei miei commilitoni» cominciò. Inizialmente parlava a bassa voce, sentendosi intimidita, ma man mano che proseguiva il discorso acquistava sicurezza. «Ieri un messo della città avversaria è venuto ed offrirci un... accordo. Ha proposto ai nostri comandanti un aumento di stipendio del trenta per cento: se lo accettassimo, dovremmo combattere dalla loro parte. Li ha informati che sembra risaputo che tra poco voi non potrete più pagarci, per questo hanno pensato di prendere in considerazione l’offerta... ma prima vogliono sapere se ciò che ci hanno riferito è vero».
«Cosa?» domandò Francesco Pellegrino, incredulo.
«Il messaggero ha detto che la vostra situazione economica non è delle migliori».
«Questa informazione è falsa!» gridò uno dei consoli. In effetti, la notizia sembrava essere stata accolta da tutti i presenti da autentico stupore. Eufemia non poté fare a meno di sentirsi sollevata.
«In questo caso, dovrete dimostrarlo... ma soprattutto, dovrete farci un’offerta ancora più alta: i nostri comandanti non sono persone particolarmente propense a combattere per pura bontà d’animo, se capite cosa intendo» replicò. Si rendeva conto che la sua proposta sarebbe risultata molto sgradita agli uomini e che avrebbe dovuto formularla con più tatto, ma sapeva che era quello l’unico modo per assicurarsi davvero la lealtà dei mercenari ed il tempo stringeva: non poteva perdersi in fronzoli inutili.
Tutti i presenti ricominciarono a parlare, stavolta quasi gridando. Si udivano alcuni insulti, molti dei quali erano rivolti a lei.
«È inammissibile!»
«Non se ne parla, sarebbe un furto...»

«Come ti permetti di venire a chiederci altri soldi? Combattere è il vostro lavoro!» esclamò una voce che sovrastò le altre. La ragazza la riconobbe subito: era quella di suo padre. Riuscì a scorgerlo nel mare di facce che vedeva davanti a sé, rosso in volto e con un’espressione di odio puro negli occhi che la scrutavano dall’alto in basso. Femia fece un respiro profondo, cercando di reprimere la rabbia che quello sguardo le aveva fatto crescere dentro. Era preda di sentimenti contrastanti: da un lato sapeva che non sarebbe mai riuscita a combattere contro i suoi stessi concittadini, dall’altro però non se la sentiva di addossare tutta la colpa ai mercenari. Sapeva che molti di loro erano stati costretti ad arruolarsi dalle circostanze o dalla povertà e contavano sullo stipendio garantito per mantenere se stessi e le loro famiglie.
«Signori, l’avete ammesso anche voi: si tratta di un lavoro e come tale deve essere retribuito. Credetemi, non tutti noi mercenari siamo tanto indifferenti alla vostra sorte come potreste credere. Se fosse stato davvero così, non sarei stato mandato qui a comunicarvi ciò che ci è stato proposto. So che tradire la città per la quale si è combattuto fino a poco tempo prima per denaro è immorale, ma la maggior parte di noi ha dovuto scegliere se unirsi all’esercito o morire di fame. Di fronte alla paura di non riuscire a vedere la prossima alba, gli scrupoli scompaiono...»
Inaspettatamente, nella sala era calato il silenzio.
«Se davvero non siete in difficoltà economiche, non sfidate la sorte e pagateci. So che si tratta di un vero e proprio ricatto, ma sapete anche voi che è l’unico modo per convincere i capitani a rimanervi fedeli. Sono nato in questa città: vi prego, non costringetemi a combattere contro di voi».
Per un attimo, tutti i presenti la osservarono senza parlare, poi uno dei Consoli prese la parola.
«Ora dobbiamo discutere tra di noi, ragazzo. Potresti aspettare fuori? Ti faremo chiamare quando avremo deciso».
Eufemia obbedì, incamminandosi fuori. La scena le sembrava irreale, tanto le ricordava quella avvenuta il giorno precedente all’accampamento. Un giorno... le sembravano passati secoli. Appena uscita dalla stanza, si sedette accanto alla porta, appoggiando la schiena contro il muro. Poco dopo, nonostante l’ansia che provava, la stanchezza causata dalla mancanza di sonno cominciò a farsi sentire e la ragazza si addormentò.
Non avrebbe saputo dire quanto tempo era passato, quando sentì qualcuno scuoterla. Svegliandosi di soprassalto, si trovò davanti il volto di un anziano mercante che la scrutava con simpatia.
“È il fruttivendolo... ha una bottega vicino alla chiesa. Un giorno, quando ero bambina, mi aveva regalato una mela”  pensò confusamente, prima di alzarsi in piedi.
«Vieni, ragazzo. Adesso i Consoli ti comunicheranno la nostra decisione. C’è voluto del bello e del buono per mettere tutti d’accordo, ma alla fine ce l’hanno fatta...» le disse, spingendola gentilmente nella sala delle assemblee.
«Dopo esserci consultati a lungo ed aver esaminato la situazione, abbiamo deciso che la vostra paga verrà aumentata del quaranta per cento. Questa è la cifra più alta che possiamo permetterci. Dovrai accompagnare un nostro messo dai comandanti dell’esercito, per portare loro un accordo da sottoscrivere in cui garantiamo il pagamento a voi soldati. Questo è quanto abbiamo deciso» le spiegò senza preamboli Pellegrino, mentre imprimeva il proprio sigillo sulla ceralacca calda che chiudeva un rotolo di pergamena.
La ragazza impiegò qualche secondo prima di comprendere appieno ciò che le aveva appena detto, quindi un sorriso si fece strada sulle sue labbra.
«Grazie» mormorò, senza rivolgersi a nessuno in particolare. «Dovremo affrettarci: abbiamo tempo solo fino a domani mattina».
L’anziano annuì gravemente. «Lo sappiamo. Il messaggero arriverà tra poco».

Quando, dopo una lunga ed estenuante cavalcata, arrivarono all’accampamento, Eufemia guidò il suo concittadino fino alla tenda dei comandanti. All’interno scorse Agilulf, che aveva l’aria stanca ma le rivolse un sorriso non appena la vide comparire, seguita dal messo. Non poté presenziare alle trattative, perché, secondo gli altri comandanti, “era già stata coinvolta fin troppo”, perciò si incamminò faticosamente verso l’infermeria: doveva assolutamente sostituire la fasciatura della sua ferita, inoltre voleva controllare se il suo plotone aveva già fatto ritorno. Appena entrata, tutti gli occhi si voltarono verso di lei: in qualche modo dovevano essere venuti a sapere della sua missione, ma nessuno le fece domande.
“Devo avere l’aria davvero distrutta...” pensò, mentre si avvicinava ad un medico per domandargli di spiegarle ciò che era successo in sua assenza. In quel momento, udì una voce nota che la chiamava.
«Lodovico!»
Un ragazzo alto e biondo correva verso di lei, con un braccio al collo ed un tono tra il sollevato e l’indignato.
«Alois! Ero preoccupato, per fortuna stai bene... e gli altri? Avete avuto molte perdite? » gli domandò.
«Tu avevi promesso me che saresti stato qui, che avresti riposato te...» esclamò lui, ignorando le sue domande. «Quando sono arrivato non eri qui ed un uomo ha detto me che eri scomparso e che girava voce che ti avessero mandato in città a portare un messaggio, ma conosco lui e so che non c’è da fidarsi. Dov’eri?»
Sentendo queste parole, la ragazza lo guardò stupita e scoppiò a ridere, tanto che ad un tratto si sentì girare la testa.
«Lodovico, perché ridi? Ti senti bene? Lodovico!» la chiamò l’amico, preoccupato.
Femia annuì, sedendosi a terra e facendogli cenno perché la imitasse.
«Sto bene, davvero» mormorò, mentre lui si accomodava accanto a lei. «Sapessi quante cose devo raccontarti...»

 

 

 

 

 

 

 

NOTE DELL'AUTRICE:
Avevo in programma di pubblicare prima questo capitolo, ma tutti i miei impegni sono ricominciati e me l'hanno impedito, scuola in primis: mi dispiace! Ormai la storia è quasi finita: il prossimo capitolo, infatti, sarà anche l'ultimo (mi sembra così strano dire una cosa del genere...).
Dovrei riuscire a pubblicarlo entro la fine del mese, rispettando i due aggiornamenti previsti per settembre, ma se non dovessi riuscire arriverà comunque nei primi giorni di ottore.

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


CAPITOLO 13:


In una stanza spoglia e buia, illuminata solo dalla luce tremolante di una candela, una figura sedeva davanti ad un vecchio tavolo di legno scuro e pesante, china su alcuni fogli di pergamena. La penna che stringeva tra le dita danzava sopra uno di essi, lasciando dietro di sé una scia nera d’inchiostro, lo stesso liquido che macchiava le dita della donna che scriveva. Sì, si trattava di una donna, nonostante i vestiti da uomo, i corti capelli castani ormai striati di fili grigi ed il volto angoloso e sgraziato, attraversato da una lunga cicatrice che andava dalla fronte allo zigomo sinistro, potessero far pensare il contrario. La sua scrittura nitida e precisa riempiva la pergamena, estendendosi risoluta da un lato all’altro del foglio.

... Dopo un lungo consulto, i capitani accettarono l’offerta e restarono fedeli alla mia città. Un anno dopo, vincemmo finalmente la guerra: grazie ai mercenari, il Comune era salvo. Ci fu una festa... fu un vero trionfo. La gente era in strada, i menestrelli cantavano ed i bambini ridevano, mimando combattimenti brandendo dei rametti secchi. Noi soldati, come sempre, eravamo isolati ed osservati con la coda dell’occhio. Uomini e donne parlavano alle nostre spalle, coprendosi la bocca con una mano ed avvicinandosi impercettibilmente per non farsi udire. Nonostante tutte queste precauzioni, tutti noi udivamo le frasi malevole bisbigliate non appena ci allontanavamo dai piccoli gruppi di persone.
«Hai visto? Abbiamo vinto!»
«Guarda i mercenari, non sembrano nemmeno felici che sia finita».
«Certo, se la guerra fosse continuata loro avrebbero guadagnato di più... il tutto sulla nostra pelle!»
«Comunque, tutti sanno che non c’è da fidarsi. Mio cognato mi ha detto che suo fratello, che è amico di uno dei consoli, gli ha raccontato che ad un certo punto  stavano per tradirci!»
Molti di noi si limitavamo a scrollare le spalle, a scuotere la testa, a imprecare a mezza voce rivolti a loro. In certi momenti, avrei voluto impugnare la spada e minacciare tutti coloro che dicevano cose del genere. “Che cosa ne sapete?” avrei voluto gridare loro. “Voi eravate qui. Avevate paura, certo, eravate in pericolo, ma non stavate combattendo. Era il nostro sangue che scorreva, eravamo noi che cadevamo uno dopo l’altro per salvarvi la pelle!”
Naturalmente, non lo feci mai. Sarebbe stato inutile: non avrebbero capito e certamente non sarebbe servito a conquistarci la loro gratitudine. Siccome eravamo in licenza per alcuni giorni, li passai camminando inquieta per le strade della città; a volte lo facevo parlando con alcuni dei miei commilitoni, di solito Wiligelmo e Alois, ma spesso girovagavo da sola. Ad un certo punto passai lentamente davanti alla bottega della mia famiglia. Al bancone si affaccendavano mio padre e Lodovico, lo sposo di mia sorella. Erano piuttosto impegnati, infatti nessuno dei due alzò lo sguardo verso di me, ma continuarono a servire i clienti, spostando rapidamente pezzi di carne ed  ascoltando gli ultimi pettegolezzi delle comari. Poco lontano da loro c’era Maria, bella come sempre, con i capelli biondi raccolti in una treccia avvolta attorno al capo. Sembrava pensierosa e stringeva in braccio un paffuto bambino addormentato. Stavo per andarmene, quando ad un tratto alzò lo sguardo, forse sentendosi osservata: i nostri occhi si incontrarono e le sue labbra si arricciarono per un istante in un sorriso indirizzato a me. Mi parve persino che le sue labbra articolassero un “grazie”, ma probabilmente l’ho solo immaginato.

Naturalmente, quella non fu la mia ultima guerra. Rimasi nell’esercito e poco dopo ci spostammo più a nord, chiamati da un signore che voleva impadronirsi di un territorio vicino. Ho visto fare cose che non avrei mai voluto vedere, ma non ci si può aspettare altro da un conflitto, questo lo avevo già imparato da tempo. Spesso ho tradito le città per cui combattevo, cambiando fronte per denaro. Non sono un’eroina: talvolta i capitani non acconsentivano alle richieste di Agilulf, che cercava di essere sempre corretto e di pensare a coloro che difendevamo; non sempre i governanti erano disposti ad aumentare la paga di noi soldati, o ad accettare di abbassarsi a dichiarare una resa incondizionata. So che è terribile dirlo, ma è molto più facile abbandonare persone a cui non sei legato: mi è dispiaciuto, certo, ma nonostante ciò non ho mai abbandonato l’esercito. A volte ho fatto parte di missioni diplomatiche, ho dovuto dare fondo alle mie capacità di prendere decisioni difficili e di immedesimarmi in entrambe le parti di un accordo... non è stato facile, ma deve pur esserci qualcuno che si prenda la responsabilità di fare il lavoro sporco. È come lavorare in una macelleria, posso garantirlo: tutti amano mangiare la carne la domenica, ma sono pochi quelli che accettano di disossare, tagliare i quarti e gettare via ciò che è commestibile. Ho sempre cercato di trovare la soluzione migliore per tutti e non sempre ci sono riuscita. Ci sono stati dei momenti in cui mi sono chiesta perché rimanevo nell’esercito, perché non mi decidevo una volta per tutte a cercarmi un posto dove stare e un mestiere meno pericoloso, o che almeno non comportasse il rischio costante di venire scoperta.
Una volta ho quasi ceduto a questo desiderio. Successe dopo una delle innumerevoli battaglie alle quali ho preso parte. Io e Alois eravamo usciti dall’accampamento ed avevamo camminato per alcuni minuti, fino a quando non eravamo stati completamente soli. A quel punto lui parlò, arrossendo ma andando dritto al punto.
«Sai... io ho pensato molto ad una cosa. Insomma... tu e io... potremmo lasciare l’esercito. Andare ad abitare da qualche parte, vivere una vita in cui non rischiamo di morire ogni giorno. Non sposarci» rettificò subito, conoscendo l’avversione che nutrivo nei confronti del clero. «Potremmo semplicemente dire che siamo già sposati, nessuno importerebbe di controllare questo. Sarebbe... bello». Era così nervoso che nel parlare non aveva mai incrociato il mio sguardo, ma non appena terminò il suo discorso mi guardò negli occhi con uno dei suoi sorrisi disarmanti e gli occhi azzurri che brillavano.
Le sue parole non mi stupirono troppo: nonostante non me ne avesse mai parlato prima, avevo intuito ciò che provava per me. Per un attimo, quella possibilità mi attraversò la mente. Certo, avremmo potuto fare ciò che diceva: se avessi coperto i capelli con un fazzoletto nessuno si sarebbe accorto del fatto che erano corti. Con il tempo avremmo potuto avere una casa, un lavoro, sicurezza, forse persino dei figli. Sicuramente lui non avrebbe mai cercato di prendere decisioni sulla mia vita, o di trattarmi come molti uomini facevano con le loro mogli...
Questa visione durò per qualche secondo, ma ad un tratto la verità mi colpì come un fendente e capii che non avrei mai potuto accettare. Forse Alois non mi avrebbe fatto sentire inferiore, ma agli occhi di tutti gli altri cittadini lo sarei stata. Non avrei potuto prendere parte alle decisioni politiche, non avrei potuto combattere, sarei stata relegata a crescere i miei figli e sarei stata additata con un misto di pietà e disprezzo se non ne avessi avuti: sarei stata lo stesso una schiava, non di mio marito, ma della società. Non potevo accettare un’eventualità del genere: una volta provata l’ebbrezza della libertà, come si può rinunciarvi e tornare volontariamente in gabbia? Inoltre, non riuscivo a pensare di tornare alla vita civile: come mi aveva detto Wiligelmo tempo prima, io ero nata per combattere. Sapevo che non era una vita sicura, ma era quella che cercavo e non volevo lasciarla... o almeno, non ancora.
Lo guardai mentre mi osservava speranzoso, mordendosi le labbra. Gli volevo bene, ma non potevo acconsentire.
«Alois... mi dispiace, davvero, ma non posso».
Nel sentire quelle parole, il suo sorriso crollò e mi rivolse uno sguardo stupito e ferito.
«Ma... p-perché?»
A quel punto gli spiegai tutto ciò a cui avevo pensato. Mano a mano che lo facevo, lo vidi arrossire e poi impallidire bruscamente.
«Capisco. Tu non preoccupare te, non importa. Non posso non darti ragione» disse alla fine, in tono serio. Non stava mentendo, lui non mentiva mai. Cercava davvero di vedere le cose dal mio punto di vista... forse era per questo che in quel momento mi sentivo tanto meschina.
«Per quello che vale, mi dispiace. Ma non posso fingermi una sposa timorosa e remissiva, non dopo essere stata un soldato».
Lui mi sorrise, ma con tristezza. In quel momento lo abbracciai goffamente: fu un gesto spontaneo, non ebbi bisogno di pensarci. Lo strinsi per un attimo, poi ci separammo e ci incamminammo in silenzio verso l’accampamento. Da quel giorno, nessuno dei due fece più parola della proposta: entrambi ci comportavamo come se non fosse successo nulla. Cominciavo a sentirmi sollevata, ma un giorno, dopo essermi svegliata, non riuscii a trovarlo da nessuna parte. Inizialmente pensai che fosse in infermeria, visto che i feriti richiedevano spesso delle cure e lui di solito aiutava i medici, ma quando andai a cercarlo vidi che non era là. Domandai a vari soldati, ma nessuno sembrava averlo visto, perciò cominciai a preoccuparmi. Ad un tratto, mentre camminavo per l’accampamento, mi imbattei in Wiligelmo, che passava delicatamente un dito sulle piume del falcone posato sul suo braccio. L’animale, che ghermiva saldamente con gli artigli il guanto di cuoio che proteggeva la pelle, stridette sentendomi arrivare ed il falconiere alzò lo sguardo verso di me.
«Lodovico!» mi salutò con un sorriso, poi cambiò espressione notando la mia angoscia.
«Tutto bene? Sembri preoccupato».
«Non riesco a trovare Alois da nessuna parte. Sai dov’è?» replicai, cercando di mantenere un tono neutrale, nonostante un brutto presentimento cominciasse a farsi largo nella mia mente.
Wiligelmo sembrava stupito. «Alois? Ha lasciato l’esercito, voleva andare a vivere in una città poco lontano da qui. Mi aveva detto che sarebbe partito stamattina presto... pensavo che lo sapessi».
A quelle parole, barcollai come se mi avessero colpito.
«No... non lo sapevo. Non mi aveva detto nulla» mormorai, sconvolta. Gli occhi mi pizzicavano, ma ricacciai indietro le lacrime e mi sforzai di riprendere il controllo.
Il mio amico mi guardò dolcemente.
«Avevate avuto una discussione?»
«Sì...» mentii. «Alcuni giorni fa avevamo litigato, ma poi ci eravamo chiariti. Non sapevo che avesse in programma di andarsene. Pensavo che, se mai avesse voluto fare qualcosa del genere, me ne avrebbe parlato».
Lui non disse nulla, non ne aveva bisogno. Mi fece segno di sedermi accanto a lui ed io obbedii. In quel momento, il suo falcone si alzò in volo e lo guardammo allontanarsi fino a quando non scomparve.

Nonostante conoscessi il vero motivo per cui Alois se ne era andato e sapessi che era colpa mia, non riuscivo a non sentirmi tradita. Confesso che in quei giorni lo odiai e disprezzai anche me stessa. Continuavo a ripetermi che avrei dovuto accorgermene, che forse avrei potuto rifiutare meno recisamente la sua proposta. Forse un modo per accontentarci entrambi esisteva...
Mi mancava molto, ma riuscii ad andare avanti. Non era la prima volta che dovevo fare fronte alla perdita di qualcuno che mi stava a cuore e sapevo che avrei superato quella sensazione di abbandono, per questo strinsi i denti e continuai a combattere.
Si susseguirono nuove guerre: noi mercenari fummo chiamati a combattere per una città molto più a sud, poi fummo ingaggiati per proteggere un Comune dalle invasioni di una vicina signoria. Ho continuato a combattere per anni ed anni. Vidi molti dei miei compagni cadere. Vidi Wiligelmo venire colpito da una freccia in pieno petto e morire ancora prima di toccare terra. Vidi l’uomo che diffondeva notizie poco attendibili, di cui non seppi mai il nome, venire preso prigioniero e poi decapitato dai nemici. Vidi i miei compagni rendersi complici di azioni orribili: il non essere riuscita a fermarli mi perseguita ancora oggi. Durante una battaglia, venni colpita in pieno volto da un fendente: nonostante il dolore, in qualche modo riuscii a resistere fino alla fine dello scontro e a trascinarmi in infermeria, dove mi dissero che per il mio occhio sinistro non c’era più nulla da fare. Combattere senza riuscire a vedere bene quanto prima mi sembrava impossibile, poi però ci feci l’abitudine: mi aiutò anche un mio compagno d’arme che un tempo aveva dovuto affrontare lo stesso problema.
In tutti quegli anni, nessuno scoprì mai la mia vera identità. Non mi pentii di avere scelto di rimanere nei mercenari, anche se sentivo la mancanza di qualcuno con cui potermi confidare. Rimasi sotto la guida di Agilulf per molto tempo, fino a quando anche lui non decise di lasciare l’esercito. Ho saputo che si è sposato, ma è da un po’ di tempo che non ho più sue notizie. Fu il comandante più competente ed uno degli uomini migliori che abbia mai conosciuto. In seguito, combattei agli ordini di altri capitani, ma nessuno era abile quanto lui, o tanto capace di conquistarsi l’ammirazione dei propri uomini.
Anche io ormai ho smesso di combattere. Nonostante un giorno abbia rinunciato a vivere una vita tranquilla per continuare a farlo, sentivo di non poter più continuare: ormai ho quarantadue anni, sono vecchia. Non sono più agile come una volta: negli scontri schivare i colpi diventava sempre più difficile, inoltre molti dei miei compagni erano morti da tempo, oppure avevano già lasciato l’esercito. Nonostante in cuor mio sapessi di non poter trovare un altro posto in cui sentirmi totalmente me stessa (anche se, in effetti, nessuno dei miei compagni mi conosceva davvero), non volevo finire la mia vita come una vecchia grottesca che rifiuta di capire che è giunta l’ora di andarsene. Ho visto tante volte quella scena, il lampo di follia suicida negli occhi dei governanti di una città già sconfitta che rifiutavano di arrendersi, condannando tutti i cittadini per il loro sciocco rifiuto di accettare la realtà...non era quella la fine che volevo per me.
Una volta lasciata l’armata, non abbandonai la mia falsa identità. Seguendo un impulso assurdo, decisi di tornare nella città dove Alois era andato a vivere tanti anni prima. “Certamente avrà una famiglia, una moglie... probabilmente anche dei nipoti. Forse non si ricorderà più chi sei. Potrebbe essere morto” mi dicevo, ma non potevo impedirmi di sentirmi speranzosa. Non sapevo esattamente cosa volevo da lui. Da un lato ero ancora infuriata con lui per essersene andato in quel modo, visto che non ero mai riuscita a perdonarlo, ma dall’altro avrei voluto semplicemente dirgli che mi era mancato. Domandai alla prima persona che incontrai se conosceva un certo Alois, ma mi guardò scuotendo la testa. Dopo alcuni tentativi inutili, finalmente un passante annuì con convinzione.
«Ma certo! Il fabbro... abita poco lontano da qui. Lo conoscete?»
«Sì. Era un amico, ma ci siamo persi di vista».
L’uomo annuì comprensivo, poi mi diede le indicazioni per raggiungere la sua bottega. Quando la raggiunsi, lui era all’interno. Il volto era invecchiato, i capelli ingrigiti ed i suoi vestiti erano sporchi di fuliggine, ma lo riconobbi subito. Quando alzò lo sguardo su di me, vidi che i suoi occhi non erano cambiati, ma erano azzurri e limpidi come sempre.
«Buongiorno, signore. Desidera?» mi domandò.
Rimasi muta, guardandolo con gli occhi spalancati senza riuscire a trovare la voce. Per un attimo, lui mi osservò perplesso, ma d’un tratto sorrise ed i suoi occhi si illuminarono.
«M-ma... Eufemia!» esclamò, avvicinandosi a me ed abbracciandomi.
«Non avresti dovuto andartene così» mormorai, non appena fui di nuovo in grado di parlare. Subito dopo averlo detto, mi rimproverai, ma prima che potessi scusarmi lui mi interruppe.
«Lo so. Me ne pentii presto, ma ero troppo orgoglioso per tornare indietro. Ormai il danno era fatto. Cosa ci fai qui?» replicò.
«Niente. Volevo solo vederti... come stai? Hai una famiglia?» gli domandai.
«Ero sposato, ma mia moglie è morta cinque anni fa. Nostro figlio abita in un paese poco lontano da qui... e tu? Hai notizie di Agilulf, Wiligelmo e degli altri?»
Gli raccontai ciò che sapevo, osservandolo illuminarsi, sorridere o contrarre le labbra in smorfie addolorate a seconda di ciò che gli dicevo.
«Che cosa farai, adesso?» mi chiese infine, dopo che ebbi terminato di raccontare.
«Non lo so. Andrò ad abitare da qualche parte, forse aprirò una macelleria... all’inizio sarà difficile, ma ci riuscirò».
«Potresti.. potresti aprirla in questa città. Tu sei mancata me» mormorò, guardandomi di sottecchi.
«Si dice “mi sei mancata”.  Sai, mi sei mancato molto anche tu e forse... forse potrei davvero restare» risposi, correggendolo come facevo tanto tempo prima. Nel sentirmi, lui scoppiò a ridere ed in pochi secondi contagiò anche me.

Alois mi ospitò per qualche tempo, prima che mi trasferissi nella mia nuova casa. Nessuno fece domande, anche perché due vecchi soldati che si ritrovano dopo molti anni non offrono molti spunti per i pettegolezzi. Naturalmente, se qualcuno avesse saputo che uno dei due in realtà era una donna, le voci sarebbero passate di bocca in bocca nel giro di pochi giorni... ma questo non accadde: dopo anni passati a celare la mia vera identità, non correvo il rischio di compiere mosse imprudenti. Poco tempo dopo aprii una macelleria: nonostante fossero passati molti anni da quando aiutavo mio padre, ricordavo ancora alla perfezione tutto ciò che dovevo fare. In breve mi feci conoscere nella città. «Lodovico è un ottimo beccaio, dovresti servirti da lui» dicono oggi le anziane comari, quando parlano tra di loro. Come uomo, mi sono guadagnata il rispetto di tutti i cittadini e non ho mai rinunciato alla mia libertà.
Poco tempo fa ho assunto due apprendisti. Talvolta possono essere piuttosto fannulloni, ma nel complesso sono dei bravi ragazzi. Mi accusano spesso di essere molto autoritaria, tanto che a volte, quando ordino loro di fare qualcosa, rispondono esclamando: «Sissignore!»
Quando Alois è venuto a saperlo ha detto loro che, se avessero continuato a portarmi tanto rispetto, forse un giorno, oltre a insegnare loro ad usare i coltelli da macellaio, avrei potuto mostrargli come usare una spada... da quel momento quei due mocciosi non mi danno più tregua. In effetti, conservo ancora la mia arma, nascosta in una cassapanca. Non ho più avuto occasione di usarla da quando ho lasciato i mercenari, anche perché pensavo di essere ormai troppo vecchia per farlo ed in questi anni il Comune in cui vivo sta attraversando un lungo periodo di pace, certo... ma ora so che, se un giorno dovessi scendere in battaglia per difendere ciò che è mio, non esiterei ad impugnarla di nuovo.
D’altronde, combattere è ciò per cui sono nata.

Eufemia posò la penna e guardò fuori dalla finestra. Si era fatto tardi, il cielo era scuro ed Alois la stava aspettando. Sorridendo, si alzò, soffiò sulla fiamma della candela ed uscì di casa, l'eco dei suoi passi che svaniva nella notte.


Fine

 

 

 

 

 

NOTE DELL'AUTRICE:
Ed eccoci alla fine. Mi sembra così strano, dirlo! In effetti, non l'ho ancora pienamente realizzato. Ormai ero affezionata alla storia ed ai personaggi... come farò senza?
Vorrei ringraziare chiunque abbia letto questa storia o l'abbia inserita
nelle seguite/preferite/ricordate, ma soprattutto, grazie mille a chi ha recensito. Davvero. Grazie a tutti. Meritereste un monumento, anche solo per la pazienza!
Fra

PS: Oddio, è davvero finita!
PPS: Prima o poi (ma, conoscendomi, sarà più prima che poi) ritornerò nel fandom storico... Framboise 2 - la vendetta!

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