Con affetto, tua madre...

di Mary CM 93
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Rivelarsi ***
Capitolo 2: *** Colpi ovunque ***
Capitolo 3: *** Ti amo ***
Capitolo 4: *** Ancora no ***
Capitolo 5: *** Il signor Loyal ***
Capitolo 6: *** Anche io ***
Capitolo 7: *** La cena ***
Capitolo 8: *** Pauline ***
Capitolo 9: *** Dubbi ***
Capitolo 10: *** Il processo ***
Capitolo 11: *** La svolta ***
Capitolo 12: *** Simon ***
Capitolo 13: *** Il concerto ***
Capitolo 14: *** La prima volta ***
Capitolo 15: *** Baudelaire ***
Capitolo 16: *** Il gatto ***
Capitolo 17: *** Passato e Futuro ***
Capitolo 18: *** Serena ***
Capitolo 19: *** Maria ***
Capitolo 20: *** La proposta ***
Capitolo 21: *** Fotografie ***
Capitolo 22: *** Indovina chi ***
Capitolo 23: *** Amici ***



Capitolo 1
*** Rivelarsi ***


“Fermati” dissi all’improvviso con voce spezzata. Lui ubbidì perplesso. 

“C’è qualcosa che non va?” mi domandò quasi imbarazzato. Era il ragazzo più dolce che avessi mai incontrato, era sempre così gentile e posato, così delicato e sensibile. 

“Tu…stai facendo l’amore con me, vero?” gli chiesi guardandolo finalmente negli occhi. 

Lui s’ammutolì, non rispose, aveva l’aria colpevole. 

“Te l’avevo detto sin dall’inizio”- continuai io sicura, noncurante del suo dispiacere- “di non innamorarti di me, io non voglio nient’altro che sesso da te, così come l’ho voluto da tutti gli altri bei ragazzi con cui sono stata…”-scorsi nei suoi occhi uno sguardo d’amarezza, stava soffrendo ed io, per la prima volta, ero sinceramente rammaricata della cosa. 

“Ma…con te è diverso, tu sei diverso…non pensare che stia dicendo qualcosa di scontato, ti prego. Sei diverso dagli altri, sei innamorato e t’importa davvero d’esserlo, ed io non voglio trafiggere questo tuo sogno innocente con del sesso così lontano dai tuoi desideri. E soprattutto…”. 

Feci una pausa perché finalmente riuscii ad ammetterlo a me stessa. “Anche io sono innamorata, per davvero, ma non di te, sono sensazioni nuove e non riesco a tradirle, ma, come te, non sono l’oggetto del desiderio della persona che mi piace…e se questa persona mi volesse usare e poi abbandonare indifferente, credo starei terribilmente male, perciò…”. 

“Ho capito”- continuò lui secco, ma comprensivo come sempre. 
“Ti va se rimaniamo comunque qui sulla spiaggia a parlare? Solo parlare, voglio conoscerti, conoscerti davvero, sento di poterlo fare, anche se a te fa paura scoprirti, però…l’hai appena fatto, mi hai parlato dei tuoi sentimenti…perciò…”-lasciò in sospeso la frase ed ammiccò.

 Aveva un sorriso irresistibile. “E va bene”- cedetti scocciata alla sua richiesta -“Di che vorresti parlare? Hai detto di volermi conoscere, ma io non ho detto di voler conoscere te, quindi forza…parla, chiedi e ti dirò”- gli dissi ironica.

Non sembrò toccato dalla mia risposta acida, ma sferrò un colpo non da poco. 

“Parlami della tua famiglia, sono proprio curioso di capire che ti hanno fatto per renderti una stronzetta montata”- esclamò sghignazzando. 

Lo guardai fisso: “L’unica persona che sia mai riuscita a fermarmi in questa mia smania di schiacciare tutto e tutti è stata mia madre Lorain…ma ovviamente solo prima di risposarsi con Francois…quello schifoso e viscido “padre”, per quello che si definiva, ma io non l’ho mai considerato come tale, solo uno dei tanti che si innamoravano della stupefacente bellezza di Lorain…quella che appunto ho ereditato da lei.”- e sorrisi ammiccando, mentre Jean sbuffava scuotendo la testa. “Comunque prima di stare con Francois, beh c’era stato mio padre…l’aveva essenzialmente “rapita” per questo…anzi…lei aveva rapito lui legandolo stretto…o per lo meno era quello che credeva, ma quando restò, a sedici anni, incinta di me, le corde che gli stringevano forte i polsi si sciolsero e lui se ne andò senza dare mai più sue notizie…”. 

Jean mormorò: “Scusa, non volevo infierire, mi dispiace, se non vuoi continuare non preoccuparti…”. 

“Eh no, ora ho iniziato e ti senti il mio monologo sulle mie vicende familiari, dovessimo stare qui fino all’alba”- esclamai ridendo. 

Romantico ed impeccabile come sempre mi zittì con un “Anche fosse, sarebbe meraviglioso”. 

Ripresi in fretta il filo del discorso: “Francois aveva una figlia, Pauline, che divenne la mia sorellastra, ha quindici anni più di me…”. 

“Cazzo, allora questo Francois doveva avere già una certa età quando ha sposato tua madre”- m’interruppe  improvvisamente Jean. 

“Già, purtroppo…non mi piaceva anche per questo, non che fosse un brutt’uomo, ma mia madre era così giovanile e divertente che vederla con quel fossile stile antico Egitto non era certo il massimo, mi sembrava la frenasse in tutto e poi io non gli sono mai andata molto a genio, era evidente”- incalzai infastidita. 

“Capisco…ed ora? Vi piacete un po’ di più?”- mi domandò Jean. 

“A dire il vero…” –esitai-“ E’ morto, cioè sono morti…un incidente stradale”- vidi subito il volto di Jean cambiare espressione e non avevo proprio voglia delle solite moine o di essere compatita, perciò continuai senza dargli modo alcuno di manifestare il suo banale dispiacere- “Sì, ma non ti preoccupare, è successo sette anni fa, il tempo è passato ed ora ho superato il trauma”. 

“Quindi vivi con chi ora?”-domandò pragmaticamente Jean. “Nella casa di mia madre con Pauline, la mia sorellastra, ormai ha trentaquattro anni e da allora, anche se era più giovane, si è sempre presa cura di me”, risposi risoluta. 

“Beh, sono felice che nella tua vita tu abbia trovato qualcuno che ti sia stato vicino”- disse dolcemente Jean. 

Dio che fastidio queste patetiche frasi, non riuscii a trattenere i miei pensieri, che esplosero senza alcun freno: “Ma quale felicità, Pauline è

semplicemente ed indiscutibilmente insopportabile.”. 
Notai la faccia stupita di Jean e proseguii incalzante. “Pauline sa ogni cosa della mia vita, e non perché io le spifferi tutto come fosse la mia migliore amica, ma semplicemente perché lei è un di quelle persone profonde che cercano sempre di scovare in fondo all’anima di tutti, un po’ come te insomma!”-sbottai.

“Spero sia un complimento allora…”-disse lui. 

“Questa cosa in realtà m’irrita parecchio”- rincarai la dose. “Beh, direi che l’argomento “famiglia” è stato fin troppo affrontato, dai parliamo di qualcosa di peggiore…tipo…parlami di te!”- tentò di cambiare argomento Jean, forse un po’ offeso dalla mia ultima affermazione. 

Sorrisi impercettibilmente, ed in quell’istante, decisi che mi sarei aperta totalmente con lui, che sarei stata sincera: “E tanti credono che io sia solo una sciocca, ma non mi mostro per quello che sono…trasparente ed allo stesso tempo piena di sfumature, fin troppe…questo dipende interamente da come gli altri desiderano conoscermi.” 

Jean sembrava colpito: “E tu invece come ti vedi? Tu cosa desideri conoscere?”. 

Non dovetti riflettere a lungo: ”Io personalmente non desidero conoscermi… perché mi fermerei troppo a lungo e rimarrei distesa a terra piena di ferite, esanime, senza più tentare di rialzarmi.” 

L’avevo decisamente spiazzato, era visibile dall’espressione del suo volto, così decisi di buttarla sull’ironico per togliere quella malinconica espressione che lo avvolgeva in tutta la sua bellezza. 

“E queste cose io le so perché, oltre ad essere bellissima, sono anche particolarmente perspicace ed intelligente”. 

Rise, per fortuna, e comprese che non volevo rivelargli troppo di me stessa, non tanto da farmi del male, ma forse avevo voglia di continuare, di essere sincera e svelarmi completamente, non tanto a lui, quanto a me: “Ciò che sono l’ho creato io: un mostro a cui tutto scivola addosso, non esiste caldo o freddo, giusto o sbagliato. Sai cosa mi piace, cosa mi diverte? Farmi vedere splendente e dopo cessare di brillare per capriccio. Con il tempo ho imparato, infatti, a non ricercare degli svaghi, ma piuttosto crearli dalle paure, dalle passioni e dall’anima delle altre persone più fragili: è una sorta di allenamento per allettare il mio ego. Il fatto è che io voglio annullare tutto ciò che veramente provo perché tutti dipingano su di me in fretta quello che desiderano, sbagliando ed illudendosi. E forse non sono così bella, ma tutti raffigurano in me la passione, il desiderio, i pensieri, le parole, la musica e tutto ciò che può costituire la bellezza in quanto arte. Io faccio solo uso di queste qualità, spesso attribuitemi ingiustamente, e ne creo una vera e propria musa. Per questo inizialmente c’è affinità con i ragazzi, perché io sono una perfetta attrice, li faccio girare il loro film, mi presto, anche per una piccola parte all’interno della trama, ad essere la donna giusta…e quando manca la scena finale, il monotono lieto fine, io scappo ed abbandono il set per godermi la mia fama. Lascio tutti a bocca asciutta e li convinco, inoltre, che lo sbaglio sia solo loro che si sono illusi di essere qualcuno, di essere al mio livello, apprezzati e stimati allo stesso modo di quanto loro stimano me. Ma alla fine io non ho mai detto, e mai lo farò, di volere anche un minimo bene ad uno solo di loro…tutta fantasia, tutte stupende falsità che li fanno cadere in un circolo vizioso da cui difficilmente escono. E quando sono pronti a ripartire io, come la peste, busso alla porta del loro cuore, macchiandola e lasciando un segno del mio passaggio incancellabile.

Non è per cattiveria, ma è così che io stessa mi sono insegnata.”


Jean sembrava incantato dalle mie parole: “Signorina sermone buona sera”- esclamò, credo, per far cadere un po’ la pesantezza del mio discorso- “Beh, comunque lo so, li ho visti alcuni ragazzi della scuola, pazzi di te, disperati, però mi rincuora non essere tra quelli, cioè pazzo di te sì, ma sta sera è stato diverso, credo, mi hai detto quello che sei...e sappi che ti trovo fantastica anche così, in tutta la tua imperfezione da stronza con manie di protagonismo che…”- e si fermò. 

“Che cosa?”-incalzai io infastidita- “Stavi per dire qualcosa che mi avrebbe dato fastidio, vero?”.
 
“Che sono dovute alla tua pessima situazione famigliare e alla storia della tua vita, in particolare al fatto che tuo padre se ne sia andato”- disse freddo. 

Ci fu un attimo di silenzio, ma Jean riprese come nulla fosse accaduto: “E invece il ragazzo di cui sei innamorata? Che ha di speciale?”.


“Credo che lui non mi abbia veramente mai notata, non per disinteresse, perché non esiste realmente il disinteresse per qualcuno o qualcosa finché non lo si sperimenta, ed anche una volta che lo si è assaggiato è troppo tardi per riuscire a non provare più nulla. Forse non mi ha piuttosto notata perché…beh…non so. Mi sono affezionata a lui, quando ho scoperto che lui mai si sarebbe affezionato a me. E’ quel che è peggio è il fatto che non so come conquistarlo”- risposi come una quindicenne alle prese con la prima cotta. 

Jean sembrò infastidito e infatti mi disse secco “Beh è tardi, direi che potremmo andare, no?”. 

Rimasi perplessa, non volevo, mi piaceva essere ascoltata da lui, ma annuii e presi la mia roba. 
Arrivammo alle rispettive macchine e ci salutammo come due normalissimi conoscenti, come se tutti quei discorsi quella notte non fossero nemmeno avvenuti, ma prima che potesse salire in auto, tornai indietro: “E’ stata una delle serate più belle…passata con qualcuno…e non sarebbe stato male, in effetti, rimanere qui fino all’alba, grazie di tutto.”- gli dissi dolcemente. Mi schioccò un bacio delicato sulla fronte e mi augurò la buona notte. 

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Capitolo 2
*** Colpi ovunque ***


Quella sera feci un enorme sbaglio, che cambiò la mia intera vita, avrei dovuto restare sulla spiaggia fino all’alba a scoprire me stessa. Quel rumore della cintura che si slacciava, che cadeva sull’asfalto freddo della strada, il buio, il muro sporco, il suo odore fastidioso e l’alito nauseabondo che mi invadeva, quelle sue parole unte che sibilavano nelle mie orecchie. Stordita, confusa, costretta, trascinata e piegata, ma i ricordi non svaniscono, rimbombando nell’urlo muto di chi soffre. Quella pelle sudata e quel sapore orrendo mi penetravano e fu un colpo sicuro, colpi ovunque, il silenzio. Poi uno sparo nel cielo nero, perché avevo ancora un po’ di forza mentre sanguinavo da dentro. Corsi, così com’ero stata spezzata e distrutta, così come mi ero difesa. Corsi vero destra, verso casa di Jean, senza pensarci, veloce. Tutto di me era rimasto in quel vicolo, la mia mente, la mia paura, il mio coraggio, nonostante tutto. E arrivai, la vidi e mi diede un senso di sicurezza, sapevo dove mi trovavo finalmente, l’unico posto che mi avrebbe protetta in quel momento.
 
Suonai non so quante volte, insistentemente, urlai, piansi e Jean mi aprì preoccupato. Ma, una volta aperta la porta, mi mancarono completamente le forze. “Dov’è…il bagno?”-gli domandi flebilmente.
“In fondo a sinistra, ma sei venuta qui per…”- ma non terminò la frase vedendo che mi trascinavo nel semibuio del corridoio verso il bagno senza dire una parole.
Mi seguì. La luce della luna illuminava a sprazzi le piastrelle colorate della stanza, tanto da permettermi di vedere dove fosse lei.
L’unica cosa che desideravo in quell’istante, l’unica che avrebbe potuto far dimenticare per un istante al mio corpo lo strazio che aveva subito, che avrebbe sciacquato via le lacrime, lo sporco, il dolore.
Aprì l’acqua, poco importava che fosse bollente o gelida, la mia pelle non avrebbe saputo distinguere, voleva solo essere pulita da quelle urla, da quel terrore che l’avevano percorsa.
Le gocce scorrevano veloci su di me, accovacciata contro il muro, muta, complice con la mia memoria di quel segreto.
E poi Jean, forse non aveva capito, ma mi venne vicino e mi tolse i vestiti fradici. Mi fece una carezza e girò la manopola sul rosso, poi chiuse la tenda della doccia ed uscì dal bagno.
Non so dire quanto durò quello scrosciare di calore misto a lacrime, ma poi Jean tornò con degli asciugamani ed una tazza bollente. Mi alzò e mi asciugò, mi diede una delle sue tute da ginnastica, poi mi condusse su per delle scale e mi fece accomodare sul suo letto, mi porse la tazza di the.
Mi accarezzava senza pormi domande. Mi accoccolai tra le sue braccia, ricoperta da baci soffici e premurosi e calore umano.
 
La mattina seguente, quando Jean mi condusse in cucina, tutto appariva diverso dalla sera precedente: casa sua era piccola, ma allo stesso tempo particolarmente accogliente, arredata in modo etnico ed eccentrico, colori caldi e profumi di tranquillità predominavano. Tutto era in perfetta armonia ed equilibrio, sembrava d’essersi immersi in un’altra realtà, sicuramente più piacevole di quella quotidiana.
“Ho fame, davvero molta fame…io non so se sono pronta a raccontare quel che mi è successo, ancora no.”- furono le mie prime parole.
“I miei non ci saranno per un po’ di giorni…forse una settimana”- disse -“puoi restare qui quanto vuoi, non devi spiegarmi nulla”.
Per l’ora di pranzo tutto era sistemato ed ormai mi trovavo completamente a mio agio, molto più che a casa mia.
Capii che avrei dovuto rispondere alle insistenti telefonate di Pauline, alla quale non avevo più dato mie notizie. Mi feci portare da Jean fino alla macchina che era rimasta nel vicolo la sera prima. Arrivai a casa, Pauline stava mangiando sola, con l’aria assente e preoccupata, ma quando mi vide arrivare la sua espressione mutò in dissenso.
“Pauline ti prego, prima di arrabbiarti…ho bisogno di te, di parlare con te, e nessun altro”.
Iniziai a piangere, lei si alzò di scatto dalla sedia e mi abbracciò, fu un abbraccio sincero, perché, per quanto me ne lamentassi, era davvero l’unica persona che avevo accanto, Jean aveva ragione. Nell’abbraccio, guardando nel vuoto, colsi l’occasione per tirare fuori quelle pesantissime parole, forse perché non avrei dovuto fissarla negli occhi, non avrei davvero potuto reggere senza crollare completamente: “Ieri notte sono stata violentata”- Pauline fece per staccarsi di colpo, ma la trattenni, volevo che continuasse a stringermi, non volevo vedere la sua espressione, non volevo neppure immaginarla- “E’ stato un poliziotto, mentre tornavo mi ha fermata, ho pensato che stessi guidando troppo velocemente, così ho accostato, mi ha fatta scendere dall’auto e…non c’era nessuno, era tardi…e io, ma poi…poi ce l’ho fatta, ho sfilato la pistola dai pantaloni e gli ho sparato…gli ho sparato ad una gamba e sono scappata.”

Piangemmo in silenzio entrambe, abbracciate. Grazie Pauline, di tutto.

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Capitolo 3
*** Ti amo ***


Pauline era stata comprensiva, essermi confidata con lei mi era stato molto di conforto, ma non avrei sopportato di rimanere a casa mia, così Jean si offrì di ospitarmi, almeno sino a quando i suoi genitori non sarebbero tornati dal loro viaggio.
 
I giorni passavano ed era ormai una settimana che trascorrevo le mie giornate con Jean, senza dare mie notizie a Pauline, la quale tentava disperatamente di contattarmi, ma invano.
Il lunedì arrivarono i suoi genitori, con la sorellina più piccola: Margot.
Cloe e Pascal avevano trasmesso a Jean e a Margot tutta quella positività e gentilezza che per giorni mi avevano rallegrata. Era in complesso una famiglia cordiale e, per altro, avevamo subito trovato una certa affinità, tanto che mi avevano permesso di rimanere a casa loro sino a quando non mi sarei sentita pronta per tornare da Pauline.
 
Era ormai quasi un mese che abitavo a casa di Jean, e quel che più mi turbava era il fatto che la sua famiglia avesse fiducia in me…io non sarei riuscita a sopportarmi per così tanto tempo.
Un giorno eravamo a pranzo, stavo servendo, com’era diventato d’abitudine, il cibo da me cucinato, quand’ecco il cellulare: era Pauline.
Una delle tante volte in cui voleva sentirmi per avere mie notizie. Fino ad allora non avevo ma risposto, e la famiglia di Jean non mi faceva troppe pressioni per questo mio comportamento, anzi, erano soliti passare da Pauline per informarla della mia attuale situazione, ma lei non demordeva: voleva sapere da me che cosa accadeva.
Quella volta, però, fu diverso: risposi al cellulare.
“Ce ne hai messo di tempo per farti sentire, sappi che questa è l’ultima volta che ti chiamo, dimmi che stai bene e ti lascio in pace, ma voglio sentirlo da te!”.
” Sì, mi trovo benissimo…scusa Pauline, ma sto servendo a tavola, il cibo si fredda…ci sentiamo…ciao!”.
” Te l’ho detto: non ti chiamo più!”.
Non feci in tempo a risponderle che buttò giù, ma non avevo creduto neppure un secondo che non mi avrebbe più cercata.
Nessuno mi domandò nulla riguardo quella bizzarra conversazione, continuai a passare i piatti e mi sedetti. Non fiatai comunque per tutto il pranzo e non distolsi gli occhi dal cibo, assaporandolo lentamente.
Jean volontariamente o involontariamente stava calpestando la barriera che mi ero creata con il tempo, tutta la mia sicurezza, il mio menefreghismo…il mio mostro di donna perfetta stava lentamente andando in frantumi.
E più il tempo passava e più mi tormentava un dubbio: Jean mi amava ancora?
Per me aveva il valore affettivo di un fratello, seppur qualche volta non riuscivo a distogliere lo sguardo dai suoi occhi color castagna e rendermi conto che forse provavo qualcosa di più per lui.
Ma poi mi rendevo conto che non era vero: l’unico che m’interessava era Lui…il Lui che non conoscevo, quello che ancora non sapevo mi avrebbe fatto terribilmente soffrire.
 
Prima di conoscere Jean, terminata la scuola, ero solita andare a salutare Simon alla facoltà di Giurisprudenza, era un percorso che mi allungava la strada di almeno una quindicina di minuti, ma mi faceva piacere, sì, perché nell’aula accanto a quella di Simon c’era Lui, usciva alla stessa ora di Simon ed io ogni volta fingevo di non incrociare il suo sguardo, ma poi improvvisamente arrossivo e sorridevo come una scema.
Eppure ero sicura che non si fosse mai accorto di me, o almeno non aveva mai mostrato interesse. Simon lo sapeva, mi conosceva da quando eravamo all’asilo, era l’unico ragazzo che non ci aveva mai provato con me, per questo mi capiva quanto bastava per sapere perché lo andassi a trovare così frequentemente alla facoltà.
Ma da quando Jean era entrato nella mia vita mi recavo fin lì di rado, eppure un giorno, dopo essermi venuto a prendere all’uscita da scuola, fu Jean che mi ci portò, ma non mi spinse davanti all’aula di Simon…e lui uscì, lo incontrammo…lui…non riuscii a non sorridere, ma poi vidi lo sguardo di Jean, muto, ma al tempo stesso aveva parlato troppo, mi lasciò la mano e se ne andò. Non lo fermai, non ne ero in grado: un cuore si spezza senza parole, ma per ricostruirlo ce ne vogliono troppe e spesso sono quelle sbagliate.
Soprattutto non sapevo se mi fosse dispiaciuto, ero lì, con il ragazzo che amavo…Jean si doveva arrendere, avrei ottenuto quello che volevo, come sempre…ma se quello che desideravo fosse stato Jean?
Ritornando a casa non rividi Jean…ero preoccupata, sì, ma non per lui, ma piuttosto che non mi amasse più, l’avrei voluto ferire mille volte fortissimo al cuore, pur di avere il suo amore, e mi sentivo crudele per quello che pensavo, ma io avevo bisogno del suo amore.
Arrivato a casa mi fissò, ma non ebbi il coraggio di sostenere lo sguardo, mi faceva male saper di avere ferito Jean, non era un giocattolo, era un affetto…e si: provavo qualcosa per lui, ma non potevo cedere senza aver prima ottenuto Lui.
Gli domandai, facendo finta di aiutarlo in cucina: “Ma…ma come lo sapevi?”.
”Me l’ha detto Simon, ma prima che ci facesse conoscere, mi aveva premesso che c’era un bel tipo della sua facoltà che ti piaceva quindi…Scusa…scusa Angelique…mi dispiace…però credo che anche tu mi debba delle scuse…”.
Mi offese quella risposta: “Non ti devo chiedere scusa per i miei sentimenti…amo chi voglio!”.
Ci fu una pausa e Jean sembrava soffrire terribilmente, ma io ribadii il concetto: ”Jean…sì, lo amo da morire”.
Mi fissò: “Angelique…non sai neppure il suo nome…perché non vedi l’amore che sta ad un respiro dal tuo…”-mi risposte sconfortato.
“Io ho imparato a conoscerti meglio di chiunque altro…ed è questo che ti fa paura…ammettilo”.
Si avvicinò a me: “Angelique s’è vero quello che dici…ti amo quanto tu ami Lui…ti amo…Angelique ti amo…”.
Le nostre bocche erano quasi incollate…ancora bagnate di urla e lacrime…con le parole dell’altro…taglienti, pungenti…che avevano colpito dritto al cuore…

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Capitolo 4
*** Ancora no ***


Salutai con cordialità la famiglia di Jean, ma lui non c’era: io con la mia valigia in mano che me ne tornavo a casa e lui non c’era, perché avevo davvero passato il limite, ero fuori dalla soglia…dalla soglia del suo cuore…e lui non c’era. Già mi mancava…avevo sbagliato.
Ma forse Jean non era così arrabbiato, forse avrei dovuto dirgli che per me era stato importante, che provavo qualcosa anche per lui e che avrei voluto provare qualcosa solo per lui, sarebbe stato giusto.
 
Tornata a casa la mia vita aveva preso un ritmo ancor più monotono di prima, ma ora ero più sola che mai e, per la prima volta, me stessa non mi bastava, dopo che avevo scoperto il mondo esterno, quello reale, quello dove io non comandavo e non ero assolutamente nessuno, né tanto meno contavo qualcosa più degli altri, tutto era solitudine, imperterrita solitudine, che martella alla testa, quella solitudine che ti fa persino compagnia, quella solitudine che inizi ad apprezzare una volta assuefatta.
 
Non esisteva più nulla, il mio mondo mi era crollato addosso e quello che non era mio si prospettava più pesante del previsto, io non ero pronta, perché ero ancora una bambina, non ero una donna come credevo, e più di ogni altra cosa in quel momento avrei voluto ritornare bimba, priva di ogni preoccupazione, ingenua…volevo fare ciò che volevo…volevo Jean…e non potevo…volevo che miei errori non contassero nulla, ma purtroppo era proprio il momento in cui contavano di più.
 
Un giorno pioveva, ero andata in biblioteca per una ricerca, terminato il lavoro, uscii e sotto i portici incontrai Jean: era forse più mesto del cielo, ma si vedeva che nei suoi occhi c’era uno squarcio di contentezza nel ritrovarci finalmente soli, pronti a dirci qualcosa.
Abbassai lo sguardo e lo salutai, lui di tutta risposta mi alzò con delicatezza il viso e mi diede un bacio sulla guancia, me la sfiorò, e mi sembrò di volare: quelle labbra fini, pure ed allo stesso tempo tentabili e passionali, quelle che per la prima volta non erano un capriccio.
 
Mi prese la mano e mi portò sotto un immenso orologio che segnava le quattro ed un quarto…io assaggiai ancora il sapore del suo amore…un bacio…ancora un bacio…sotto quell’immenso orologio, mentre il tempo scorreva veloce sulla nostra pelle, sulla nostra bocca, attraverso i nostri baci…quei secondi che scoccavano veloci, quelli interminabili che scandivano ancora più il rumore della pioggia, che scandivano i nostri baci umidi ed innocenti.
 
Abbracciata a lui, ad ascoltare nel suo petto i battiti d’amore. Jean si voltò: “Ancora non mi ami eh?!”…scossi la testa…mi aspettavo che s’alzasse di scatto e mi ordinasse di vestirmi, invece mi strinse più forte a se e restammo per ore in quel letto caldo di una leggera confusione che ancora avvolgeva i nostro corpi.
 
Quando fu sera ci alzammo e sentimmo di nuovo il freddo, quello comune, che faceva male, ma c’era aria di quiete e questo mi rendeva finalmente felice.
Cenai da Jean e cucinai per lui, cosa che mi mancava parecchio, parlammo molto come ai vecchi tempi, poi fu ora di tornare a casa e sull’uscio lui mi salutò con due baci sulla guancia dicendomi sorridente: ”Di nuovo amici? Dai buona notte piccola ci vediamo domani!”.
 
Io annuii: Jean rimaneva un mistero, non c’era risposta, solo uno sguardo…buona notte Jean.
 

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Capitolo 5
*** Il signor Loyal ***


Nei quattro mesi passati avevamo fatto causa al poliziotto, la famiglia di Jean ci aveva consigliato un avvocato, uno tra i migliori della Francia, che speravamo mi facesse vincere la causa.
 
Il signor Loyal era un uomo sulla quarantina, alto, con dei lunghissimi baffi color castagna. Di bell’aspetto, si presentava sempre molto formale, di solito con dei completi dalle tonalità grigiastre, delle volte nere o marroni, che gli donavano un’aria fiera, semplice ed ordinata.
 
George Loyal era entrato in contatto con la famiglia Soiren da parecchi anni ormai, perché le figlie suonavano, da quando erano bambine, nella stessa orchestra di Jean. Loyal non si era dilungato molto riguardo la sua famiglia: aveva brevemente accennato alle due gemelle che avevano qualche anno più di me, ma che vedeva di rado, sottolineando che stessero con la madre, dalla quale aveva divorziato dopo pochi anni di matrimonio.
 
Raccontava e descriveva qualsiasi cosa di cui parlasse con un lessico forbito, ma con un atteggiamento sempre distaccato, quasi come se stesse osservando da spettatore ciò che accadeva, almeno così aveva riportato Pauline, la quale inizialmente aveva desiderato fare qualche colloquio privato con il signor Loyal, in modo da potergli raccontare con precisione tutti i miei trascorsi.
 
Loyal aveva apprezzato particolarmente il fatto di poter venire a conoscenza dei dettagli riguardo la mia vita: sosteneva che più si conosce il cliente, più si riesce a preparare una difesa eccellente, che faccia presa sul giudice. Dopo aver appreso che il mio passato era stato piuttosto complicato e psicologicamente faticoso, almeno così lo aveva descritto, disse di aver buone possibilità di impietosire il giudice, anche se, esordiva ogni volta che incontrava Pauline, non c’era motivo di perdere la causa, avremmo vinto con ogni certezza ed aggiungeva che, se avessimo vinto, il poliziotto avrebbe scontato dai sette ai quattordici anni di galera.
 
Iniziammo, così, a tenere incontri settimanali in modo da preparare un discorso eccellente; sentivo ormai ripetere costantemente alcuni articoli del codice penale e ricordavo a memoria frasi che Loyal utilizzava di frequente, come “la tua è stata legittima difesa, indubbiamente proporzionata all’offesa subita”.
 
Non so dire con esattezza se mi fidassi del mio avvocato difensore, indubbiamente ero certa della sua preparazione a livello tecnico, ma per quanto riguardava il lato umano sentivo un eccessivo distacco, non tanto da parte sua, che tentava di porsi quasi in maniera paterna nei miei confronti, quanto piuttosto da parte mia. Vedevo Loyal come un mero lavoratore, insomma, uno che si guadagna da vivere sulle disgrazie altrui, il classico avvocato senza un minimo di etica, che avrebbe potuto difendere me per questi mesi, e per i seguenti uno stupratore o un assassino.
 
Queste mie opinioni, sebbene non apertamente espresse, diametralmente opposte a quelle di Pauline, che tesseva giorno dopo giorno le lodi del signor Loyal, mitizzandolo e apprezzando con enfasi il suo impeccabile lessico, la sua elevata cultura, il suo amore smisurato per l’ambito sociale, insomma, Pauline descriveva in modo quasi iperbolico George, e forse era proprio questa sua ammirazione che mi portava a diffidare di Loyal, il quale, tuttavia, si dimostrava sempre molto cordiale e comprensivo.
 
Inoltre aveva preso a cuore il mio caso e spesso m’invitava a casa sua con Pauline per cenare e discutere del più e del meno. Le ultime sere, però, in quel suo distacco asettico ed apatico, avevo colto, mentre parlava che, dalle sue parole scoppiava, come una scintilla, la frenesia di comunicare, di avere un rapporto più profondo, che non quello professionale, che aveva tenuto per fin troppi anni. Pauline si era innamorata di casa sua e, a dirla tutta, era davvero piacevole anche dal mio punto di vista, dagli spazi ampissimi ed i soffitti a volta di mattoni.
 
Arrivate lì ci faceva sempre accomodare davanti al camino del suo enorme salotto rosso con arredamento in ciliegio. Era confortante ed io e Pauline andavamo stranamente d’accordo in presenza di Loyal.
 
Un giorno, con quei mille fogli in ordine, seduto sul bordo della fontana, Loyal mi guardò dritto negli occhi e, per un attimo, scomparve tutta la sua eccessiva formalità, prese vita un uomo, uno di quelli che ti comprende e ti legge nell’animo, a cui serve una frase per farti capire quanto tiene a te: “So che non ti fidi di me, che riesci a vedermi solo come un professionista che svolge il suo lavoro, ma quando andiamo in tribunale e ti difendo, è diverso, quando la seduta si scioglie e torno a casa, mi addormento soddisfatto del mio operato…ma voglio dirti una cosa: quando parli con me, non è solo mettere in prova un discorso, dovrebbe essere un macigno che smette di pesarti sul cuore, tutto ciò che mi dirai io lo custodirò, sei una mia cliente ed è una regola, perciò niente freni, ma soprattutto, smettila di sentirti in colpa, di provare vergogna per ciò che ti è accaduto, te lo si legge negli occhi, hai lo sguardo che sfugge, mentre dovresti guardare il mondo a testa alta, perché sei forte ed è il mostro che ti ha strappato la femminilità che dovrebbe provare vergogna, non tu, non sei debole e non hai colpe per quello che è successo, mettitelo in testa”.
 
Improvvisamente tutte le mie barriere erano state infrante, ma ero sollevata, perché le parole di Loyal mi avevano colpito, era come se qualcuno fosse entrato nei miei pensieri degli ultimi mesi e gli avesse dato vita. George non stava lavorando per me, ma con me, con tutto l’amore e l’impegno che potesse mettere in ciò che faceva.

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Capitolo 6
*** Anche io ***


Era il periodo natalizio ed improvvisamente sembrava che nella mia vita esageratamente soffocante, tutto avesse mutato forma, mi sentivo alleggerita da tutti quei pesi che negli ultimi mesi avevano tormentato i miei pensieri. Tutte le lacrime, le incomprensioni e lo stress che mi avevano schiacciata fino a qualche tempo prima, sembravano impercettibilmente svaniti. Ogni dettaglio che mi circondava pareva plasmato per darmi un senso di sollievo e di calma. Era tutto estremamente equilibrato, dalla neve bianca che fioccava veloce, al caldo del camino nel salone del signor Loyal, ai mille pacchetti luccicanti sotto l’albero di casa Soiren. Le insopportabili abitudini quotidiane erano terminate e tutto mi donava un senso di piacevolezza, che non percepivo da parecchio ormai. Le vacanze natalizie avevano consentito che mi rimettessi in pari con lo studio, che in quei mesi aveva dato esiti pessimi e le estenuanti ore passate in tribunale erano, almeno per ora, sospese. L’ultima seduta era stata sciolta e rinviata al mese di febbraio, perciò gli incontri con il signor Loyal erano diventati più radi e gli avevano dato la possibilità di concentrarsi su ciò che in quei mesi aveva bramato silenziosamente: Pauline.
 
Per quanto si sforzassero di mantenere un tono distaccato e professionale, era evidente che nutrivano, se non affetto, quanto meno interesse l’uno per l’altra, e così, almeno da quel poco che mi era stato concesso di sapere, Loyal aveva invitato Pauline per qualche giorno nella sua baita in montagna.
Per l’occasione ero rimasta a casa di Jean, i cui genitori erano sempre entusiasti di avermi sotto il loro tetto ed, in un certo senso, ormai mi sentivo parte del nucleo familiare, il che colmava un vuoto che era sempre stato presente in me, ma che certamente negli ultimi tempi era pesato come un macigno. Forse, per quanto non volessi ammetterlo a me stessa, ciò che mi faceva desiderare di avere accanto Jean, era anche la sua famiglia, quella che a me era sempre mancata, quella per cui, almeno un po’, lo invidiavo.
 
Con lui il rapporto negli ultimi mesi era diventato meno ovattato, più nitido e semplice, nei miei sentimenti non regnava più il caos di qualche tempo prima, non vaneggiavo più in inutili fantasie, che somigliavano più a capricci. Non sapevo esattamente se la nostra sarebbe potuta essere considerata una relazione, c’era sempre un velo d’incertezza ogni volta che i nostri sguardi s’incrociavano prima di un bacio o di una carezza, come a chiedersi se quella fosse stata l’ultima, o l’ultima da amici e la prima da fidanzati. Quando ci pensavo, quella parola mi sembrava strana, quasi impronunciabile, come se il suo suono sconvolgesse completamente il nostro rapporto, come se quasi volesse sancire una sorta di etichetta, che prevedeva delle regole, dei cambiamenti, qualcosa che un po’ mi atterriva, ma che sapevo avrebbe reso Jean felice.
 
L’ultimo pomeriggio che avrei passato da lui, eravamo usciti per una tazza di the nel nostro bar preferito: “Cafè-Cafè”, era un luogo dalle luci soffuse, le pareti ocra e musica jazz. Servivano i dolci più prelibati e almeno un centinaio di the diversi, ogni volta io ne assaggiavo uno nuovo, sceglievo gli ingredienti più svariati, mentre Jean, dal primo giorno che avevamo scoperto il bar, aveva sempre ordinato il classico the marocchino alla menta. Eravamo soliti dividere un dolce al gusto d’arancia e giocare a scacchi sul tavolino in noce.
 
“Uhm…questa volta non ti lascerò mangiare la mia torre, ho elaborato una tattica”- esclamai portandomi alla bocca una fetta di dolce.
Jean aveva un’espressione perplessa in viso, mentre muoveva l’alfiere in direzione della mia torre: ogni dannata volta il suo dannato alfiere mangiava la mia torre in un paio di mosse ad inizio partita.
 
Giocherellavo con un pedone, indecisa sul mio attacco- “Senti, ma non è contro il regolamento degli avvocati o una cosa del genere avere rapporti con i propri clienti?”
“Credo si chiami etica professionale, ma comunque chiedilo a Simon, è lui il futuro avvocato”- mi aveva risposto Jean mentre toglieva la mia amata torre dalla scacchiera.
 
Mugugnai qualcosa di poco comprensibile e sorseggiai un po’ di the al cocco e banana.
“In ogni caso, sei tu la cliente di Loyal, non certo tua sorella”- aveva proseguito lui fissandomi.
Guardai i miei pezzi- “Dici che vale solo con il cliente effettivo?”.
“Non lo so Angelique, suono il violoncello, non studio giurisprudenza, chiedi a Simon ti ripeto, ma in ogni caso, che t’importa, la causa è quasi terminata, concedi a George di godersi la vita, che ne sai di che significa essere un avvocato scapolo con lunghi baffi che veste sempre in grigio”.
 
Rimasi incantata a fissare il suo perfetto sorriso, le sue labbra dal sapore di…beh, di amore, ecco il sapore che aveva Jean, di amore, quello fiabesco e quasi irreale.
“Ti sei fatta ammaliare dal mio sorriso eh? Non sei la prima…tranquilla…”
 “Sì…è davvero irresistibile…”. Ero arrossita improvvisamente e non ero riuscita a trattenere un’espressione trasognata, ne ero certa.
 
Uno strano miscuglio di emozioni si era innescato nelle mie parole, sentivo il petto bruciare, il cuore battere, lo stomaco contorcersi e le orecchie surriscaldarsi.
Mi sembrava di avere taciuto per troppo tempo, di non avere dato la possibilità a Jean di svelare i miei sentimenti per lui.
 
Mi afferrò le mani: “Angelique…ti prego dimmi che cosa vuoi che io sia per te, questi baci io li attendo, ma appena li sento, essi fuggono con la tua bellezza…vorrei che questi baci e questi tuoi sguardi rimanessero fermi su di me…non m’importa che mi feriscano, che mi trapassino il cuore tradendomi ed illudendomi, ma ti prego…falli miei…perché questa è un’attesa logorante, e se questa non fosse un’attesa…allora vorrei fosse il dolore a logorarmi, ma non un altro tuo bacio fuggito, perché sai bene che innamorami di te…mi fa…Angelique…ti amo”.
 
Respiravo le sue emozioni, le sentivo attraverso, sentivo il ritmo frenetico scandito dalle sue parole, percepivo caldo stuzzicarmi la pelle, l’amore di Jean proiettarmisi lento sul corpo, un brivido mi fece tremare le labbra…mi avvicinai e gli sussurrai: “Anche io ti amo Jean”.
 
Veloce mi tirai indietro, prima che lui potesse baciarmi, avrei ripetuto quello che avevo appena asserito all’infinito, finché delle mie parole non sarebbe rimasto che un leggero respiro sul suo collo.
 
Un sorriso malizioso comparve sul suo viso “Meno male che mi ami…”- lasciò la frase in sospeso e mi prese dolcemente le mani- “Altrimenti potresti offenderti se ti dicessi che ho appena fatto scacco matto, principessa…ma hai mai vinto una partita? No, anzi, la domanda migliore dovrebbe essere se mi hai mai anche soltanto mangiato un pezzo!”.
 
“Vuoi essere il mio…ragazzo?” – le parole mi erano uscite di bocca all’improvviso, senza che ci avessi pensato, senza che le ponderassi, ma era così bello mentre rideva…
“Solo se prometterai di non farti più mangiare la torre”.
“Giuro, che non me la farò più mangiare dal tuo alfiere, dagli altri pezzi non lo so…dici che può essere un buon compromesso?”.
Mi baciò con quel suo bacio al profumo d’amore misto arancia e menta…e forse anche di vittoria, pensai, mentre mi metteva tra le mani l’alfiere bianco e prendeva tra le sue la mia torre nera.

Il mattino seguente mi svegliò una telefonata di Jean: “Mmm…pronto…”-riuscii a mugugnare con gli occhi ancora socchiusi, ma il mio interlocutore sembrava essere di buon umore come al solito. “Buon giorno signorina fidanzata! Dato il titolo che lei stessa si è arrogata ieri pomeriggio, mi permetto di invitarla ad una cena questa sera!”.
Feci una pausa: “Una di quelle romantiche solo io e te al lume di candela?”-domandai un po’ perplessa.
“Magari sarà anche al lume di candela, ma sicuramente non saremo soli…è la cena con il mio gruppo musicale, insomma le stesse persone che hai sentito suonare e cantare al concerto con Simon…mi farebbe piacere tu venissi..”-mi rispose lui.
Abbozzai un sorrisetto: “Quindi mi devo conciare da super figa, beh lo sono sempre in realtà…”
Ma dall’altra parte ci fu una risposta poco divertita: “No, non figa, elegante e raffinata, se ti riesce, non come sei venuta la scorsa volta al concerto, ecco!”.
Ma che stronzo, pensai: “Ma che stronzo!”-esclamai.
“Angelique ti passo a prendere alle sette e mezza a casa tua, ciao!”-Jean aveva agganciato incurante del mio insulto.
Quand’ecco che si spalancò la porta di camera mia: “Chi è che insulti già di prima mattina dolce angelo?”-commentò ironica Pauline, che evidentemente, come sempre, si era permessa di farsi i fatti miei.
Le lanciai uno dei miei sguardi peggiori: “Te tra poco se non chiudi subito la porta di camera mia”. Ma Pauline non demordeva: “Ah no, oggi la tua acidità non mi tocca minimamente…e sai perché?”-esclamò frizzante, ma ammazzai subito il suo tono entusiasta: “No e non m’interessa saperlo”.
Storse il naso e proseguì come nulla fosse: “Perché questa sera, quando tu andrai alla cena con Jean…”-non fece in tempo a concludere la frase, che la ripresi stizzita: “Ma origli proprio tutto eh, non ti sai fare i fatti tuoi…guarda me: non m’importa nulla di quello che farai tu oggi, e nemmeno domani, ne mai Pauline!”.
La sua espressione pareva sempre più irritata, ma quella mattina, in effetti, tutte le cattiverie di questo mondo non avrebbero fatto crollare la sua contentezza, certo non dopo le fantastiche giornate nella baita del signor Loyal, pensai.
“Questa sera, chissà cosa farai tu, ma io sono stata invitata per una cena romantica da Loyal, cioè da George”- e se ne andò sghignazzando come un’adolescente.
 

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Capitolo 7
*** La cena ***


Avevo rispettato il volere di Jean e quella sera indossavo un vestito nero, che mi arrivava alle ginocchia, aderente, ma non volgare, un po’ di tacco, ma nulla di eccessivo. Quando mi vide uscire di casa, il mio accompagnatore mi propose uno dei suoi sorrisi migliori.
“Sei stupenda”- mi disse dolcemente accarezzandomi la guancia.
“Lo so…”-risposi, passandomi una mano fra i capelli.
 
“Senti sta sera spero tu ti senta a tuo agio, tendenzialmente sono persone simpatiche, ma sono anche particolari ed umorali, per di più è un gruppo numeroso…spero che tu possa passare una bella serata”-  affermò Jean mentre guidava.
Feci spallucce: “Non mi preoccupano mai le persone”- ma Jean sbuffò, forse un po’ irritato dai miei toni sempre freddi e superiori.
Arrivati al ristorante, che era di gran lusso, erano già tutti al tavolo, vedendoci entrare si alzarono subito e ci vennero incontro.
 
Fu in quel momento che li distinsi chiaramente, come sul palco la prima volta che li avevo visti: il direttore d’orchestra, un uomo molto formale dall’espressione seria, ma pacata ed affianco a lui una donna, la pianista, dai tratti dell’est, bella e formosa, anche lei molto posata, capelli raccolti lisci e biondissimi e degli occhi azzurro cielo, poco più in là un’asiatica vestita in modo davvero eccentrico, piena di fiori colorati, lustrini e paillette che esibiva un sorriso simpatico e smagliante, accanto a lei una donna ed uomo parecchio in carne che si somigliavano, vicino a loro una coppia che si teneva per mano, lei era la violinista, una bellissima ragazza, slanciata con lunghi capelli scuri, mi somigliava perfino un po’, ma il suo fidanzato non lo ricordavo affatto, i tratti mediterranei, alto e muscoloso, e per ultimo, lo riconobbi subito, c’era  il trombettista, sicuramente straniero, un tipo piccino, buffo e sorridente.
 
“Signori, questa è la mia meravigliosa fidanzata, Angelique!”- Jean mi aveva presentata compiaciuto della mia presenza e tutti mi avevano stretto la mano.
“Oh sì, ti ho vista ad un concerto di qualche tempo fa ed ho pensato: cazzo Jean che se la fa con quella super gnocca, eh… il nostro violoncellista…” –esclamò entusiasta, con un accento totalmente assurdo ed un linguaggio che faceva a pugni con il luogo sfarzoso in cui ci trovavamo, la tizia asiatica tirando una gomitata di complicità all’uomo ciccione di fianco a lei, che, di contro, rimase una statua.
Jean ridacchiò: “Sei veramente pazza. Scusate, vado a posare un momento le giacche, torno subito, trattatemela bene”- e si allontanò verso il camerino.
 
Poi una voce acuta, vagamente sensuale, mielosa, ma pungente mi attaccò- “Anche io mi ricordo bene di te, ricordo di aver pensato che fossi totalmente fuori luogo e che io mai mi sarei vestita in quel modo succinto ed aggressivo per un concerto di musica classica…”- era la violinista che mi strizzò l’occhio e poi si morse il labbro in modo provocante.
Come mi stavano trattando bene, in effetti.
“Si? Invece pensa che io non mi ricordo affatto di te…suonavi per caso?” – risposi con aria di sufficienza, sorridendole.
Lei si limitò a fulminarmi con gli occhi e, nel contempo, Jean tornò: “Bene dai, sediamoci così facciamo le presentazioni ufficiali”.
 
Una volta a tavola Jean mi fece da cicerone: “Amore, sei seduta di fianco al nostro mentore, nonché direttore d’orchestra Leopold De Vincent, sappi che è un grande onore”.
Leopold arrossì leggermente e mi presentò il resto del gruppo: “Lei è la mia carissima moglie, Soraya, viene dalla Russia, ma vive in Francia da quando siamo sposati, è una pianista eccezionale ed è anche insegnante di piano, mentre loro sono i fratelli Belcart, Blanche e Maurice, sono due cantanti lirici, nonché miei ottimi amici dall’infanzia, lo scorso concerto purtroppo non hai avuto il piacere di ascoltarli perché erano in Olanda, con una compagnia ben più importante della nostra direi, invece lei è Kristine, si è aggiunta recentemente al gruppo, è la nostra costumista, scenografa e truccatrice, ah beh poi c’è Rebecca, la violinista del gruppo, insieme a Jean è una nostra pupilla, lei e Jean sono nostri allievi da quando erano ancora bambini” –disse compiaciuto Leopold, ma fu interrotto dal trombettista: “Infatti, Rebecca, è così tanto che sei qui…ci chiedevamo: perché non te ne vai?”-e scoppiò in una stramba risata accompagnato da quella di Jean e Kristine.
Rebecca mi rivolse la parola, questa volta in modo civile: “Lui è quell’idiota del ragazzo di mia sorella, Ernesto, viene dal Messico e ci sarebbe potuto restare, ma purtroppo è da poco entrato nella compagnia” –terminò acida fulminando il trombettista, il quale precisò: “Sua sorella gemella, ma sono eterozigote per fortuna, mica me lo sarei preso un manico di scopa come Becca. E’ la mia ragazza da un anno, è un angelo, suona il flauto traverso e quando lo fa è così sexy…purtroppo ora è in Italia per un viaggio…mi manca così tanto il mio dolce amore”- esclamò a metà tra lo spiritoso ed il romantico, poi sussurrò fintamente: “Purtroppo mi devo sorbire la gemella, che non è dolce e nemmeno sexy, anzi è una stronzetta acida, ma shhh non dirle che te l’ho detto”- poi si voltò verso Rebecca e le sorrise beffardamente.
 
Non riuscii a notare le espressioni degli altri durante quel battibecco, che subito mi parlò il ragazzo di fronte a me, il tizio super muscoloso: “Io invece sono Antonio, sono siciliano ma passo qui il Natale con Becca”. Mi limitai a sorridere, forse Antonio era il più normale della serata.
Poi fu Jean a parlare, mi prese la mano, la baciò ed esordì: “Io sono Jean, sono un violoncellista e penso di amarti, piacere”.
Pose fine a quella scena tremendamente imbarazzante e smielata, la voce squillante di Kristine: “Oddio, ma come sono teneri, non sono teneri?” –incitò il gesto di Jean cercando consenso da tutti.  Rebecca, però, zittì il suo entusiasmo: “Insomma, tutti qui suoniamo e abbiamo a che fare con l’arte, tu invece Angelique? Cos’è che fai? Jean parlava dell’ultimo anno di liceo…”- e scosse la testa in segno di disappunto, proponendo poi un sorrisetto beffardo.
“Antonio, cos’è che fai tu invece?” –sapevo che quel palestrato italiano con l’espressione da marpione non sarebbe mai potuto essere un artista.
Rebecca tentò di prendere la parola, ma il siciliano fu più veloce di lei: “Ah, io lavoro in un bar giù al mio paese, sapessi facciamo le granite migliori del mondo lì, mentre nel tempo libero mi dedico al mio corpo e vado in palestra, si vede?” –esordì fiero mostrando il bicipite che scoppiava dalla maglietta aderente.
“Forte! Io invece, oltre a studiare, con l’intento naturalmente di fare l’università il prossimo anno, nel tempo libero mi diletto suonando l’arpa” –ma questa risposta me la gustai guardando la faccia basita di Becca, che peggiorò quando Blanche mi prese le mani e finalmente aprì bocca durante la serata: “Oh l’arpa, anche io da giovane la suonavo, e lasciamelo dire, hai delle mani meravigliose, le dita così affusolate…guarda Soraya che meraviglia” –ed anche la russa mi afferrò le mani contemplandole ed aggiungendo: “Ma cara, sarebbero perfette anche per suonare il piano, perché non vieni a seguire qualche lezione da me?”-fu, però, Maurice a dare la batosta finale: “Scommetto che sai anche cantare bene, hai delle labbra così belle che da lì possono uscire solo suoni melodiosi”.
Non volevo fare l’arrogante ma: “Sì…a dire il vero so anche cantare un po’…”.
Ed Ernesto entusiasta: “Ma allora unisciti a noi no?”
Jean gongolava visibilmente, tuttavia non voleva darlo troppo a notare, perciò decise di interrompere quella serie di complimenti che stavano lentamente uccidendo l’ego di Rebecca: “Scusate, vado un secondo alla toilette, tanto direi che Angelique ha già conquistato tutti”- e si alzò.
 
Soraya mi porse allora una domanda: “E come mai tutta questa affinità con la musica?”.
Tutto, ma non questo, faticai a rispondere: “Mia madre me l’ha trasmessa, suonava anche lei l’arpa, il piano e cantava molto bene”.
Leopold andò in visibilio: “Ma allora voglio conoscerla, portala ad uno dei nostri concerti!”.
Sapevo che saremmo giunti a questo punto, ma non volevo mettere in imbarazzo la tavolata, così cercai di far uscire le parole nel modo più spontaneo possibile: “Veramente mia madre è morta anni fa…”.
Si creò il gelo per qualche secondo, ma fu Becca a spezzarlo, e non potevo credere alle mie orecchie quando aprì bocca: “Ah, è per questo tuo trauma, suppongo, che tu abbia abbandonato la musica…un vero peccato, ma, sai, non è cosa per chiunque, ci vuole determinazione…” –a quell’affermazione tutti erano visibilmente amareggiati per il poco tatto, tranne Antonio che probabilmente non aveva neppure capito il senso del discorso.
Tuttavia, prima che Leopold potesse riprenderla, io sfoderai le mie armi peggiori: “Chissà cosa fa la tua di mamma invece…”.
Ammazzò un po’ tutti la mai ironia di pessimo gusto, Jean nel frattempo era di ritorno dal bagno, così Antonio, forse un colpo di genio, pensò bene di rompere l’atmosfera pesantissima: “Oh, io mo’ me lo prenderei pure il dolce, magari le fanno pure qui le granite, no amò?”-esclamò aspettando un sorriso dalla fidanzata, che proprio non arrivò.
Gli sorridemmo e poi ordinammo il dessert. Il resto della serata si concluse piacevolmente.
 
In macchina, mentre mi riaccompagnava a casa, Jean volle sapere il resoconto della cena: “Allora? Mi sembra che sia filato tutto liscio, no? Sei piaciuta moltissimo”
Eravamo arrivati davanti al vialetto, aprii la portiera della macchina, scesi ed ebbi l’ultima parola: “Piaccio sempre moltissimo a tutti…l’unica persona, però, a cui m’importa davvero piacere, sei tu”.

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Capitolo 8
*** Pauline ***


Quando mi svegliai il giorno dopo, trovai la tavola riccamente apparecchiata, adornata di fiori coloratissimi, messi in bella vista all’interno di un enorme vaso. Pauline aveva cucinato mille prelibatezze ed era raggiante, come non la vedevo da anni.
“Buongiorno”- mi schioccò un bacio sulla fronte e fece cenno di sedermi per mangiare assieme.
Non potevo non mostrare un po’ di contentezza ipotizzando la sua serata con il signor Loyal: “Deduco che la tua cena romantica con Loyal sia andata bene”.
Pauline stava aspettando solo quella domanda: “A meraviglia”- esclamò indicandomi i fiori- “Non mi ha regalato delle banalissime rose rosse…” –proseguì con lo sguardo ancora sognante.
Tentai di riportarla con i piedi per terra: “E’ ancora il mio avvocato, ricordalo, e quello che avete è un rapporto che va oltre la sua professionalità…tra poco c’è il mio processo…” –dalle mie parole trapelava un’evidente preoccupazione.
Pauline la colse immediatamente: “Sta’ tranquilla, Loyal è un grande avvocato ed anche un grande uomo, sa che tu ora sei il suo primo pensiero, non preoccuparti, tutti i nostri progetti li porteremo avanti una volta terminato il processo, quando sapremo che la situazione sarà più stabile anche per te…poi non vorremmo correre, Loyal ha già un matrimonio alle spalle rovinato per la troppa fretta…è la persona giusta, credo di esserne certa, ma prima di tutto ora ci sei tu” – mi aveva rassicurato come una mamma, ma non ricevette risposta e, vedendo il mio sguardo completamente assente, approcciò con un argomento di conversazione più leggero: “E tu? Non mi hai raccontato nulla di ieri sera ancora…com’è andata?”.
Esitai a rispondere, avevo una tremenda voglia di dirle la verità e sfogarmi: “Mah…io l’ho fatto lo sforzo, l’ho accompagnato, ma non amo stare in compagnia, le persone mi sembrano sempre così stupide e superficiali…mi sono trovata in un posto di lusso, con mille sconosciuti che mi riempivano di domande e complimenti…”.
Pauline mi conosceva fin troppo bene: “Ti sono sempre piaciuti i complimenti, ed anche stare al centro dell’attenzione…so che non ami la compagnia, ma in questo momento svagarti un po’ non può che giovarti, cerca di divertirti, nulla di più…certo, se poi c’è dell’altro…”.
Inutile continuare a temporeggiare: “Quella stronza!” –esclami battendo i pugni sul tavolo e lasciandomi scappare qualche lacrima, ma non potevo più tenermi dentro tutta quella rabbia: “C’era una ragazza della sua compagnia che mi ha trattata male per tutto il tempo, anzi dal principio, mi ha subito attaccata come se mi odiasse da anni…ogni volta che apriva bocca l’atmosfera diventava pesante, era imbarazzante…ha persino utilizzato la morte di mia madre per mettermi in ridicolo…”-scoppiai definitivamente a piangere.
 
Pauline sapeva che in quei momenti non volevo essere toccata o sommersa di domande, perciò approcciò ancora in modo materno: “Capisco…e Jean? Non ha detto nulla a questa stronzetta?”.
Riuscì a farmi sorridere: “Hai detto una parolaccia, non ci posso credere”.
Mi porse un fazzoletto per asciugarmi le lacrime: “Per te questo ed altro…comunque scommetto che hai saputo tenerle perfettamente testa, non sei una debole. Dai, magari era soltanto un po’ nervosa, non ti preoccupare, non poteva certamente avercela con te per principio”.
 
Forse Pauline aveva ragione, anche io molte volte non mi ero comportata nel migliore dei modi: “Sì, in effetti ha battibeccato anche con il fidanzato della sorella…”.
“Visto? Senti…forse è il momento più azzeccato per parlartene, ieri ne abbiamo discusso a fondo con Loyal…era una mia idea già da diverso tempo, ma volevo un ulteriore parere, che non fosse il tuo, perché so già che non sarai d’accordo…si pensava che potresti andare da uno psicologo…”.
Sapeva che mi sarei arrabbiata, per questo aveva temporeggiato così tanto: “Però…il mio parere non è stato chiesto, ma poi cosa mai ne potrà sapere Loyal santo cielo, nemmeno fosse mio padre”.
Pauline fu schietta, come mai lo era stata in tutti quegli anni: “Insomma, non hai mai avuto un padre, tua madre si è risposata con un uomo che detestavi, poi è morta quando eri ancora piccola ed ora lo stupro, scusa non è per metterti davanti alla realtà, ma è normale che tu alcune volte abbia degli atteggiamenti, dei comportamenti, anche piccoli gesti dovuti alla tua storia, chiunque avrebbe bisogno di parlare con un esperto, non significa essere deboli, se è questo che pensi. Vogliamo tutti il tuo bene ed è per questo che a volte dobbiamo fare delle scelte al posto tuo, scelte che forse non prenderesti mai da sola…basta con questo muro indistruttibile, non ti chiediamo di aprirti con noi, ma con qualcuno che nelle tue parole riesca a cogliere i veri problemi e ti aiuti. E’ un medico, è il suo lavoro e tutto ciò che vi direte rimarrà in quella stanza, sarà il tuo segreto”.
 
Annuii: “Ma solo dopo il processo, questa è la mia condizione, è già un momento difficile, è tutto terribilmente complicato e non voglio altri pensieri per la testa adesso…non so nemmeno se riuscirò a fidarmi di uno psicologo, non so se riuscirò ad essere sincera con uno sconosciuto. Fatemi fare il processo, è tra poco, poi tenterò di fare quello che mi chiedete…”.
 
Pauline sorrise, mi fece una carezza e poi iniziò a pulire freneticamente, come suo solito, stavo uscendo dalla stanza, quando ebbi un pensiero: “Ah…però…non voglio che si sappia, so che non c’è nulla di cui vergognarsi, ma preferirei non ne parlaste, non voglio dirlo nemmeno a Jean, per altro vorrei informarmi e sceglierlo da sola.”-e mi voltai senza aspettare una sua risposta.

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Capitolo 9
*** Dubbi ***


Quando Pauline uscì per andare da Loyal decisi di mandare un messaggio a Jean chiedendogli di passare da me, ma, prendendo il telefono in mano, mi fermai a riflettere, mi venne in mente Lui: dio quant’era bello, quanto avrei voluto scrivere a lui e non a Jean…sì, per un attimo furono questi i pensieri che mi attraversarono la mente, ma poi li scacciai, colpevole della loro esistenza.
 
Forse, però, perfino Jean portava nel cuore qualcuno di speciale, qualcuno che non avrebbe mai dimenticato, il solo fatto che non me ne avesse mai parlato, certo non significava che prima di me non ci fosse stata una ragazza importante, magari più bella, o più intelligente e simpatica di me. Mi prese improvvisamente una morsa allo stomaco, una sensazione fastidiosa, quasi di rabbia. Avrei voluto essere l’unica speciale per lui, eppure sapevo che prima di me c’era stato qualcun altro.
 
Jean è il ragazzo che tutte desiderano e magari qualcuna aveva saputo amarlo molto meglio di come lo stavo amando io, non sapevo se esistesse un modo migliore o peggiore, ma certamente lui mi amava e più di quanto lo amassi io, e forse neppure lo amavo, gli avevo gettato addosso quasi per sbaglio quelle parole il pomeriggio che ci eravamo fidanzati, ma io volevo stare con lui, avevo bisogno di lui. Non feci in tempo a sentirmi in colpa che ricevetti un suo messaggio: mi diceva che sarebbe passato da me più tardi. Mi sentii di colpo euforica e andai a rimettermi in sesto. Una volta truccata e vestita, mi misi a cucinare il pranzo.
 
Jean arrivò verso l’una e mi riempì subito di baci, era così felice di avermi tutta per sé, ed io continuavo ad odiarmi per non riuscire ad essere altrettanto contenta, ma sorrisi, perché volevo davvero, per una volta, essere impeccabile con qualcuno che lo meritava.
 
Concluso il pranzo, decidemmo di guardare un film, ma mentre era intento a scegliere uno dei miei dvd, non riuscii più a trattenere i miei dubbi: “Jean, posso farti una domanda? Ma ti prego di essere sincero…”.
 
Si voltò e si sedette accanto a me sul divano. “Prima di me…” –proseguii timorosa per la sua possibile risposta- “c’è stata una ragazza, o magari più di una, importante, per cui tu abbia provato quello che provi per me?”.
“Mah, nulla di particolarmente serio, sono uscito con qualcuna, sono andato a letto con qualcun'altra, sai quello che hai sempre fatto anche tu…” –rispose così, ma non gli credetti, aveva lo sguardo malinconico, non riusciva proprio mai a mascherare ciò che provava.
 
Lo guardai torva, non era quella che risposta che avrei voluto, o meglio sì, era quella che mi avrebbe resa più serena, ma io volevo la verità.
 
“Sì, ho avuto una fidanzata con la quale sono stato un po’, però non vorrei che tu mi facessi il terzo grado, ci siamo lasciati parecchio tempo prima che mi mettessi con te e per lei non ho mai provato ciò che provo stando con te. A dire il vero, non mi va di parlarne perché mi è rimasto l’amaro in bocca…lei mi ha tradito, ha aspettato di partire per una vacanza e mi ha tradito quindi…” –si fermò, come se tutti i suoi ricordi fossero diventati concreti e poi lo notò, notò che ero un po’ rimasta ferita, che avrei voluto porgli mille domande e così aggiunse abbracciandomi: “Ma ora ci sei tu, sei diversa e so che non potresti mai farmi una cosa simile, perciò non pensiamoci, non voglio raccontarti i dettagli delle mie vecchie storie”.
 
No, non mi bastava, volevo sapere qualcosa di più, dovevo avere la certezza di essere davvero diversa per lui, così continuai, sentendomi una ragazzina gelosa: “Tu non avrai voglia di parlarne, ma io sì ed è giusto che io sappia, che io sappia cosa c’è stato esattamente tra voi, è giusto nei miei confronti, è poco che stiamo insieme, ma…” –avevo un tono spazientito che irritò terribilmente Jean: “Ma sei hai diciannove anni e sei andata a letto con mezza scuola, ed erano tutti bellissimi ragazzi…che cosa dovrei dire io? Ti chiedo forse di parlarmi di tutte le tue esperienze? Non sopporto queste scenate!”.
 
La sua frase mi aveva ferita così sbraitai: “Per me tutti quei ragazzi non erano nulla, nulla…ma se tu hai ancora l’amaro in bocca per quest’altra ragazza, nonostante sia passato del tempo, beh allora significa che è stata molto importante per riuscire a farti stare male…non mi raccontare bugie!”
 
Jean mi baciò dolcemente, ma non mi aveva convinta totalmente: “Non finisce qui, sappilo, scoprirò quello che voglio sapere, ogni principe azzurro ha qualche pecca!”.
Fu modesto come sempre: “Io ne ho infinite e non sono il principe azzurro, senti mi è passata la voglia di vedere un film…”.
 
Mi aveva un po’ spiazzata, forse gli avevo fatto passare la voglia di stare con me: “Ah…e che vorresti fare?”.
Mi guardò fisso negli occhi: “Vederti suonare…ieri sera a cena hai parlato dell’arpa, l’ho vista in camera tua, ma non ti ho mai…”.
Lo fermai subito: “No, dai Jean…non è proprio il momento…”.
Mi prese la mano e me l’accarezzò: “L’ho notato ieri sera…tu hai un’immensa voglia di riavvicinarti alla musica, hai solo paura che riporti a galla i ricordi di tua madre, ma anche fosse? La musica cura l’anima”.
 
Come sempre mi aveva stupita: “La mia è incurabile…”-abbassai gli occhi malinconica.
Jean mi alzò il viso: “Ma la mia sì…suona per me e curami, perché sono malato d’amore per te, mia dolce arpista”.
 
Quando infiocchettava le parole con tutta la sua premura, la sua delicatissima eleganza, era davvero impossibile resistere alle sue richieste. Forse, inoltre, aveva ragione, perché scappare dai ricordi, ma soprattutto perché scappare da quelli piacevoli? Con tutta la pressione degli ultimi tempi, concedere un po’ di tempo alla musica ed a mia madre mi avrebbe fatto bene.
 
Non dissi nulla e mi alzai, dirigendomi verso camera mia. Mi misi a sedere, poggiai le dita sulle corde…ogni volta che ne facevo tremare una, tremava anche la mia anima, più le sfioravo più le emozioni riaffioravano in me, ogni nota era una lacrima che mi rigava il viso, ma Jean mi lasciava suonare estasiato.
 
Quando ebbi terminato il pezzo di Debussy, Jean mi baciò, mi sembrò di assaporare le sue labbra per la prima volta: “Non sei mai stata così bella come in questo momento…voglio fare l’amore con te, ora e per sempre…ti amo”, continuò a baciarmi con foga e facemmo l’amore. Pensai che fosse così bello essere desiderata per dei piccoli gesti, essere bella per aver suonato e non per un abito provocante, era così meraviglioso avere qualcuno accanto che mi volesse vera.
Jean tornò a casa verso sera, lasciandomi addosso quel suo sapore, quel suo profumo d’amore con cui aveva impregnato ogni centimetro del letto.
 
Prima di cena, in attesa di Pauline, pensai di studiare un po’ per la verifica che mi avrebbe attesa una volta tornata a scuola, ma mentre le leggi del code Napoleon sfilavano sotto i miei occhi, ripensai alla frase di Pauline di quella mattina “E Jean? Non ha detto nulla a questa stronzetta?”.
 
No, non le aveva detto proprio nulla…e come avrebbe potuto? Ogni volta che mi aveva inflitto qualche cattiveria, lui non era presente…appena tornava, però, fingeva nulla e sorrideva…che bella ragazza, per altro, fosse almeno stata brutta…ma perché avrebbe dovuto avere quell’atteggiamento? Forse provava qualcosa per Jean, anche se il suo fidanzato, ad essere totalmente sinceri, di Jean ne faceva mille solo con un bicipite…forse avrei dovuto chiedere spiegazioni a Jean…ma no, la giornata era andata benissimo, era stato tutto meraviglioso, perché rovinarla? Inoltre, l’avevo già irritato con la mia scenata di gelosia riguardo il suo passato. Ripresi a leggere il libro di storia.

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Capitolo 10
*** Il processo ***


Era giunto il grande giorno, c’eravamo preparati per mesi con il signor Loyal, voleva che tutto fosse perfetto, ogni singolo dettaglio, doveva vincerla questa causa, perché c’era un legame speciale con me e Pauline, lo ripeteva sempre che era il suo caso più importante, quello per il quale si sarebbe finalmente sentito un grande avvocato che combatte per una grande causa.
 
Mi avevano obbligata a vestirmi diversamente dal solito: niente abiti neri, rossi o viola, attillati e succinti, niente capelli sciolti e fluenti, niente trucco colorato, insomma non sarei dovuta essere io in tutta la mia eccentricità.
 
Quella mattina indossavo una “meravigliosa” camicetta rosa pastello con scarpe abbinate e dei pantaloni grigio chiaro a vita alta. I capelli raccolti in un perfetto chignon che mi aveva acconciato Pauline ed un trucco leggero mi copriva le occhiaie che mi erano spuntate dopo tutte le nottate insonni passate a casa di Loyal a provare e riprovare ogni singolo passaggio.
 
C’erano tutti: Jean, per testimoniare ovviamente, ed i suoi, che mi erano sempre stati accanto nei mesi precedenti e, soprattutto, che mi avevano portata da Loyal, e Pauline, che fingeva di non essere in ansia per me.
 
Io, entrando in quell’aula, non udii più le voci di nessuno, mi sembravano tutti suoni ovattati, tutti i volti sfocati, tranne uno: il suo, finalmente lo rivedevo, anche se il suo volto e le sue mani mi visitavano in incubi terribili tutte le notti. Lo guardai per un momento negli occhi e la mia bocca, quasi spontaneamente, si piegò in una smorfia di disgusto.
 
Mentre mi sedevo accanto a Loyal, per un momento, tra le persone presenti, mi sembrò quasi di vedere il Suo viso: i suoi bellissimi occhi verdastri e la Sua pelle olivastra, ma fu solo una frazione di secondo, poi quel volto si dissolse nella mia immaginazione, mentre la realtà era ancora lì, di fronte ai miei occhi.
 
Non potevo avere tentennamenti, Loyal me l’aveva ripetuto più volte: nessuna incoerenza o incertezza, parole precise, discorsi sicuri e razionali e dovevo ricordarmi di aver comunque sparato ad un poliziotto, perciò dovevo dare una giusta impressione al giudice.
 
“Ogni atto sessuale abusivo commesso da un adulto su una persona che, secondo la legge, ha la capacità di prestare il proprio consenso all’atto sessuale, tuttavia non è consenziente, costituisce un abuso sessuale. – Loyal aveva iniziato pragmaticamente la mia difesa- “Ebbene, Signor giudice, questa è la definizione che il nostro codice penale dà degli abusi sessuali, ed è proprio questo uno dei casi che possono rientrare nella fattispecie di un abuso sessuale, volgarmente chiamato stupro! O qualcosa nella narrazione dei fatti della signorina Delore ci dà adito a pensare che si tratti di un episodio di tutt’altra portata?”.
 
“Signor Loyal” – ribatté immediatamente la controparte – “Si presume che in quest’aula, per lo meno tre di noi, conoscano perfettamente l’articolo da lei citato, ed indubbiamente la storia della sua cliente rientrerebbe nella casistica dello “stupro”, come da lei definito poco fa, se essa corrispondesse alla realtà dei fatti, ma, purtroppo, non vi sono testimoni riguardo gli avvenimenti di quella notte, considerando, per altro, che il mio cliente, visto il suo lavoro, agisce per conto della legge, non certo contro di essa. Queste mi sembrano illazioni quanto mai assurde.”
 
Il signor Loyal non tentennò neppure per un istante: “Temo, allora, di essermi espresso male, in quanto, in effetti, non si tratta propriamente di abuso sessuale: come lei sa, esistono ben tre forme dell’atto sopracitato. Senza elencarle tutte e tre, poiché, come da lei ricordato, in quest’aula abbiamo totale perizia tecnica, direi di soffermarci sulla peggiore: l’aggressione sessuale. Essa, entrando nel merito, presuppone la sussistenza di due elementi: un contatto fisico imposto alla vittima contro la sua volontà, con violenza, costrizione, minaccia, o sorpresa, che dovranno essere accertati dal giudice; ed un atto di naturale sessuale di ogni genere, con ciò intendo un atto la cui valutazione deve tener conto dello spirito della vittima e non di quello dell’autore. Perciò è quanto mai naturale che queste le paiano solo illazioni, ma, come appena spiegato, sta al giudice accertare i fatti. Per altro, appunto, non si fa fede sulla natura dell’autore, dunque è rilevante il mestiere che esercita il suo cliente, mi domando io? In realtà sì, ma non in merito alla circostanza da lei rilevata”.
 
Dall’altra, il signor Preder, non demordeva: “E quindi, vogliamo parlare della natura dei nostri due clienti? Signor Loyal, come si suol dire, lei si tira la zappa sui piedi, in quanto lo spirito della signorina Delore può semmai essere un punto a suo sfavore. Vogliamo ripercorrere le sue bravate dall’inizio del liceo? Schedata più volte dalla polizia per furto, risse…devo continuare? Inoltre quella notte, come dichiarato nelle sedute precedenti dal signor Soiren, la ragazza la sera stessa aveva avuto un rapporto sessuale…che, a quanto pare, era solo uno della lunga lista di quelli che aveva avuto dai quattordici anni in avanti. Credo che il temperamento di uomo ligio al dovere, buon marito e padre di famiglia, non possa neppure essere paragonato ai gesti sconsiderati di una ragazzina ribelle! Per altro, aggiungerei che se, come da lei citato, si parla di costrizione o minaccia, beh, non vedo dove essa sia, considerando che la stessa signorina Delore, ha ammesso di essere scesa volontariamente dalla sua auto per interagire col signor Clomard”.
 
Loyal fremeva, impaziente di proseguire l’arringa: “Obiezione Vostro Onore!” – tuonò con tutto il fiato che possedeva.
 
“Accolta” – esordì il giudice.
 
“Inizio col ribattere riguardo l’ultimo punto, che forse, a questo punto, diviene il meno rilevante: come da me citato, non si deve trattare solo di costrizione o minaccia, ma anche di sorpresa. Ed ecco perché la signorina Delore è scesa volontariamente dall’auto, perché non poteva certo immaginare che chi, come sostiene lei, lavora a favore della legge, l’avrebbe violata. La sorpresa, signor Preder. Ma veniamo alla parte in cui lei accusa la mia cliente di essere una ragazzina ribelle e ripercorre il suo complicato passato, ebbene, continuiamo pure: la mia cliente viene abbandonata alla nascita da un padre che non si assume le sue responsabilità, cresciuta da una madre adolescente che, più avanti, si risposa con un uomo più anziano di lei, con il quale la ragazza ha un pessimo rapporto, costretta a conviverci. Non basta, perché sette anni fa, la coppia muore in un tremendo incidente d’auto. Non giustifico gli atti commessi dalla mia cliente, vi trovo esclusivamente delle attenuanti, in quanto la giovane non ha mai avuto l’appoggio di uno specialista che l’aiutasse a superare i numerosi traumi subiti, perciò mi pare evidente che il temperamento ribelle, come da lei definito, oltre ad essere frutto di un’età, ovvero quella dell’adolescenza, estremamente complessa, è anche derivato da un passato assai difficoltoso, per l’appunto.”
 
Il signor Preder era un ottimo avvocato, indubbiamente: “Signor giudice, a questo punto, mi pare di aver compreso la vera problematica: è palese che, sin dalla tenera età, la signorina Delore abbia avuto un’immagine tremenda dell’uomo. A partire dall’abbandono del padre, per poi proseguire con l’odio per il patrigno. Ecco perché in questi anni la ragazza si è donata con tanta facilità ai suoi coetanei, ma, non contenta, ha voluto fare giustizia imputando un atto tremendo ad un uomo qualsiasi, ovvero il signor Clomard!”.
 
Loyal era furente: “Ma obiezione, Vostro Onore!”.
 
“Respinta”- lo ammutolì il giudice- “Signor Preder, vi ho lasciati disquisire parecchio, per ora, su fatti non particolarmente rilevanti, in cui non mi avete portato neppure uno straccio di prova, tuttavia, per lo meno, il signor Loyal ha avuto la buona creanza di esporre i fatti con linguaggio tecnico, citare degli articoli. Illazioni, già, quelle che si permette di fare lei, signor Preder. La pregherei di restare nel suo ambito di studi, e non appigliarsi ad invenzioni da pseudo psicologo! Signor Loyal, a lei la parola, prego.”
 
Il signor Preder, però, sembrava estremamente irritato, perciò, noncurante del giudice proseguì: “Signor giudice, vuole le prove? Ebbene, nel caso di aggressione o violenza sessuale, si presume contatto fisico, il quale implica una penetrazione sessuale di ogni genere. E’ chiaro, perciò, che il difetto di consenso della vittima deve essere provato, ma anche riguardo la penetrazione devono essere fornite delle prove. Questa prova, tuttavia, non è mai stata portata in tribunale, forse anche perché, poco prima, la sua cliente stava già avendo un atto sessuale con il signor Soiren, atto indubbiamente volontario. Se vogliamo imputare al signor Clomard un qualche abuso, allora, semmai, lo potremmo definire un tentativo di abuso, vista l’inesistenza delle prove di penetrazione. E questo spiegherebbe anche la ferita che la signorina Delore avrebbe inflitto con un colpo di pistola, alla gamba del mio cliente: un tentativo di abuso, stroncato dall’arma.”.
 
Il giudice non aveva interrotto l’avvocato, anzi, sembrava persino essere persuaso dalle parole di quest’ultimo.
 
Loyal, però, non demordeva: “Ad ogni modo, nel momento in cui verrà provato che non si è trattato solo di un tentativo di abuso, io direi che aggiungeremo delle aggravanti dovute proprio al mestiere esercitato dal signor Clomard, inutile dire che tale aggravante sarà quella di abuso di potere connesso all’esercizio delle sue funzioni, se il giudice la riconoscerà, visto che lei stesso, signor Preder, teneva tanto a ricordare l’importanza della professione del suo cliente.”.
 
Si susseguirono una serie di botta e risposta tra Loyal e Preder, con qualche rado intervento del giudice. Poi furono fornite ulteriori prove, in seguito si passò alla testimonianza della moglie del signor Clomard, poi a quella di Jean, infine Loyal diede la stoccata finale, quella che consentì al giudice di pronunciarsi definitivamente.
 
“Io, qualunque sia l’esito del processo, vorrei fare appello all’etica, su una questione che riguarda esclusivamente la sensibilità e la morale delle persone cui mi sto rivolgendo: tutti gli anni è sconvolgente il numero di violenze, domestiche e non, stupri o aggressioni, che vengono subiti dalle donne. E quelli di cui parlo sono i casi certi, quelli denunciati, come quello della signorina Delore, ma ve ne sono molti altri taciuti, per paura, timore reverenziale, insicurezza, vergogna, per motivi che forse noi neppure possiamo comprendere. Diamo importanza a quelle donne che, nonostante, la vergogna ed il torto subito, hanno la forza ed il coraggio di esporre i fatti, di far conoscere la verità, di fare giustizia. Quest’ultima, chiaramente, seconda la legge, sta anche nel verificare i fatti e le circostanze, tuttavia non sta nel mettere in dubbio le parole di chi ha compiuto un grande gesto nel portarle davanti a tutti noi, non mettiamo a tacere chi sta dando sostegno a tutte quelle donne che invece rimangono nel loro silenzio di terrore. Non ci appigliamo a futili cavilli, perché la pena che deve scontare l’aggressore, proporzionata che sia al gesto, non sarà mai eguale a quella che ogni giorno ed ogni notte la vittima deve sopportare nella propria mente, sul proprio corpo. Il futuro dell’aggressore può variare da caso a caso, dai dettagli, dalle circostanze, da ciò che è già stato stabilito dalla legge, ma il passato della vittima non lo muta nessuno: è lì, anzi, ora è qui, davanti ai nostri occhi e chiedo semplicemente che tutti lo guardino e comprendano lo strazio che si cela, ma in questo momento, si palesa, dallo sguardo di chi è stato vittima e lo sarà per tutta la vita, con o senza giustizia.”.

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Capitolo 11
*** La svolta ***


“In base agli articoli 222, 223, 224, 225, 226 e 227 del codice penale, io dichiaro il convenuto Robert Clomard, colpevole di abuso sessuale nei confronti della signorina Angelique Delore, nella fattispecie della violenza con aggressione avvenuta per sorpresa da parte della vittima, con l’aggravante di abuso di potere connesso all’esercizio delle funzioni dell’aggressore, il quale esercita la professione dell’agente di polizia. E’ stata provata, attraverso valide prove, l’avvenuta penetrazione vaginale dissensuale su vittima adulta, la sera del 7 settembre 2011 e si stabilisce l’attenuante di legittima difesa per la signorina Angelique Delore, la quale ha ferito, volontariamente, con arma da fuoco un agente di polizia in servizio. Il signor Robert Clomard, dovrà scontare la pena detentiva di vent’anni di carcere. La seduta è sciolta.”. E sbatté forte il martelletto.
 
Avevamo vinto, ancora non ci potevo credere, Loyal era stato eccezionale in aula, come Pauline gli stava ripetendo da circa un’ora. Avevo le lacrime agli occhi, era un grande traguardo, finalmente il mio incubo era terminato: la paura di incontrare di nuovo quel mostro per strada, il dubbio che avesse fatto lo stesso con altre ragazze prima di me o che avrebbe potuto farlo successivamente, il timore di aver, tutto sommato, commesso un gesto imperdonabile, sparando a qualcuno…qualcuno, davvero poteva considerarsi una persona un essere capace di tanto? Me lo domandavo ogni giorno. Ero finalmente pronta per una svolta, volevo dimenticare, tentare di andare avanti, ora sapevo che non era una vergogna, sapevo che parlare di come fosse stato fatto scempio della mia femminilità mi sarebbe stato d’aiuto, sapevo che come me c’erano molte altre donne, ragazze, perfino bambine…era un’amara verità, ma ebbi la consapevolezza che qualcuno stava dalla parte delle vittime. Nessuno avrebbe mai cancellato quella notte dalla mia mente o dal mio corpo, ma avevo finalmente voglia di vivere, di comprendere quello che aveva mutato in me quella terribile esperienza, volevo scoprire la persona che mi aveva fatta diventare.
Scendendo dalla gradinata del tribunale accompagnata da Jean, la famiglia, Loyal e Pauline, mi accorsi che era una meravigliosa giornata di sole. Trassi un profondo respiro, mi levai d’impeto i tacchi color pastello, presi Jean per mano e lo trascinai con me in una corsa sfrenata giù per i gradini, mi sciolsi i capelli ed iniziai a volteggiare ridendo a più non posso. Mi fermai ed abbracciai forte Jean, lo baciai e cominciai a piangere, ma questa volta erano lacrime di gioia.
Gli sussurrai “Abbiamo vinto…”-ancora singhiozzando, quando lui sorrise, accarezzandomi le guance bagnate, mi voltai verso tutti gli altri, aprii le braccia e urlai a pieni polmoni: “Abbiamo vinto!”.
 
Andammo tutti da Loyal, ormai sentivo quel luogo come una seconda casa, c’era perfino una stanza che Loyal aveva ridipinto per me di celeste, nella quale passavo le mie giornate le settimane prima del processo. Bevemmo, cantammo e ridemmo, era tutto perfetto, finalmente amavo la compagnia, avevo voglia di parlare, di sorridere, ma più di ogni cosa, avevo voglia di amare Jean con tutta me stessa, di dedicarmi finalmente al mio amore per lui.
 
Eppure la sera, una volta arrivata a casa, con la testa poggiata sul cuscino, sola, come sempre i pensieri invasero la mia mente, facendo razzia di ogni mio sorriso, mutilando il mio amore per Jean, ed insinuarono i dubbi più atroci: ma perché prima del processo, mentre mi sedevo, l’unico volto che mi era apparso era stato quello di…di Lui, perché realmente non sapevo neppure il suo nome…ma il suo viso, i suoi meravigliosi occhi verdi ed i suoi capelli, il suo corpo perfetto…perché tra tutti coloro che in quel momento erano lì per me, io ho pensato a qualcuno che non c’era neppure mai stato, che non conosceva nulla di me. Mi tormentavo da sola con quelle domande orribili e mi detestavo per quanto fossi inadatta ad amare, per di più ad amare un ragazzo perfetto come Jean. Avevo bisogno di parlarne con qualcuno, con qualcuno che non mi giudicasse, che avesse voglia di ascoltare, ma questa persona, negli ultimi mesi, era diventata Jean…le palpebre scendevano lentamente e non riuscii ad afferrare i miei ultimi pensieri.

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Capitolo 12
*** Simon ***


Avrei chiamato Simon, era la cosa giusta da fare. Fu ciò che mi passò per la mente la mattina successiva. Non lo sentivo da un po’ ed era stato lui a farmi conoscere Jean, era il suo migliore amico, ma sapevo che mi sarei potuta fidare, che gli avrei potuto fare una confidenza senza timore, perché Simon, beh era semplicemente lui.
 
Io e Simon ci conoscevamo sin dai tempi dell’asilo, la nostra era una di quelle amicizie “storiche”, quelle che, nonostante i mille litigi, le incomprensioni, il tempo che passa, la lontananza ed i troppi difetti di entrambi, continuano ad essere di vitale importanza.
 
Lui era quella persona che non sentivo per mesi e poi, tutt’a un tratto, una mattina, mi presentavo in lacrime davanti a casa sua, quello che mi era venuto a recuperare nei posti peggiori, che mi aveva tirato fuori dalle situazioni assurde nelle quali mi andavo sempre a cacciare, quello che mi ospitava a casa sua per intere settimane quando decidevo di fuggire dalla mia. Quello che conosceva tutti i miei segreti, tutti i miei pensieri…ed io i suoi, per lui ero quella che arrivava davanti alla sua facoltà con una scatola piena di cioccolatini, quella che andava ad assisterlo a tutti gli esami, ma, soprattutto, ero la bambina che all’asilo gli prestava sempre i colori per i disegni, e lui era quello che copriva tutte le mie marachelle prendendosi la colpa al posto mio.
 
Simon era una sorta di mio alter ego, era l’uomo con il quale non ci sarebbe mai stato nulla di più che una semplice amicizia, perché, come me, era anche lui un incredibile seduttore, che usava a suo piacimento le donne, le affascinava, le ammaliava e le abbandonava. Con me, però, era un’altra persona, era dolce e sensibile, a tratti insopportabile ed arrogante, sfacciato ed impertinente, ma il tempo trascorso con lui era qualcosa che mai nessuno avrebbe potuto eguagliare.
 
La nostra era un’amicizia fatta di quei sorrisi, di quelle battute, quegli ammiccamenti, quei ricordi e quegli aneddoti infiniti sulle nostre follie adolescenziali, che potevamo comprendere solo io e lui.
 
E quando mi sorrideva dopo aver passato l’ennesimo esame con trenta, io rivedevo la sua faccia da bimbo paffuto che, compiaciuto, riceveva complimenti dalle maestre. Diciamo pure che era una sorta di mia “bella copia”, che tentava di portarmi sulla retta via, ma invano ed alla fine si limitava ad offrirmi un film, un divano e chili di popcorn nei momenti di disperazione.
 
Una sera, l’estate precedente, nel mezzo di una delle nostre solite sbronze, avevamo stipulato un accordo: avremmo dovuto cercare di trovare il partner ideale l’uno all’altra.
Il nostro gioco si era risolto in una serie di palestrati che sapevano a malapena spiccicare due parole, tizie con tette esplosive e capelli finti, trentenni single da anni, divorziati con figli ed altri soggetti assolutamente improbabili, beh…fino a Jean.
 
Simon aveva sempre cercato di non presentarmi ai suoi amici, forse per tutelarli dalla mia spietata conquista, ma quando aveva scelto Jean, che poi era quello tra tutti cui era più legato, credo avesse intravisto qualcosa di giusto, suppongo avesse notato qualcosa che io e lui non avremmo neppure lontanamente potuto immaginare.
 
Un pomeriggio, durante una delle nostre infinite passeggiate, aveva asserito convinto: “Ho l’uomo giusto per te, ma questo, credimi, è quello della tua vita!”.
 
L’avevo guardato con un'espressione perplessa: “Come lo era l’istruttore di palestra che mi strillava contro perché non facevo bene gli addominali, il barman che tentava di ubriacarmi in continuazione, il cassiere che mi spiegava la disposizione dei prodotti negli scaffali, il tuo professore di diritto privato o forse ti riferisci alla lesbica che mi hai presentato lo scorso mese?”.
 
“Ammeto di aver esagerato con la storia della lesbica, forse anche con il mio professore, però ricorda che l’ultima volta mi hai portato una che aveva la sesta di seno ed era alta un metro e cinquanta!”- aveva degnamente ribattuto.
 
“A parte che credevo di farti un favore, e poi mica sostengo che siano sempre quelle giuste, mi diverte solo portarti delle tipe assurde”- avevo ridacchiato, addentando un pezzo di brioches.
 
“Un favore? No, tu non sai che quel seno enorme è nei miei peggiori incubi…era una cosa spropositata, ma comunque concentriamoci sulla scelta giusta: Jean, un mio carissimo amico, lo conosco dal liceo, non stupendo, ma affascinante, suona il violoncello in un’orchestra, dolce e premuroso, single da un po’, liceo classico, abita non lontano da te, ottima famiglia. Ti ho convinta?” – aveva sproloquiato, rubando l’ultimo pezzo della mia merenda.
 
“Mah, non mi fido più molto di te, dimmi che non è come il bibliotecario di quest’estate, te ne prego” – avevo proseguito un po’ dubbiosa.
 
“Senti, mi dispiace, ma non potevo ipotizzare che quel tizio si mettesse le dita nel naso molto spesso, facciamo così: ti porto con me ad uno dei suoi concerti, dopo fanno sempre un rinfresco, tu ci parli un po’, ma se poi non ti convince, ce ne torniamo a casa, almeno non sei da sola con lui. Se, però, ti sta simpatico, giura che dirai alla tizia ninfomane che hai recuperato in discoteca, che ho problemi d’ impotenza, questo me lo devi!” –tentò di trovare un compromesso.
 
Scoppiai in una fragorosa risata: “Credevo di farti un favore anche con lei, comunque accetto.”
 
E proseguimmo fino a casa mia, ripercorrendo tutte le persone strampalate che ci eravamo presentati a vicenda. 

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Capitolo 13
*** Il concerto ***


E poi era arrivata la fatidica sera, quella in cui, secondo Simon, avrei dovuto incontrare l’uomo della mia vita. L’idea mi sembrava quanto mai assurda: io insieme al classico bravo ragazzo era un’immagine che proprio non poteva esistere nella mia mente.
 
L’unico che in quel momento avrei davvero desiderato era Lui, il tipo misterioso della facoltà di Simon, quello era il mio ragazzo ideale, era l’uomo di cui mi sarei potuta innamorare, così a pelle, me lo sentivo.
 
Mentre immaginavo scene romantiche nelle quali Lui mi baciava appassionatamente, sentii squillare il telefono. Era Simon: “Angelique guarda che sono vicino a casa tua, fatti trovare pronta, e per pronta intendo con un vestito adeguato alla situazione, ti prego, ti scongiuro, dimmi che non hai addosso quello rosso, stile Jessica Rabbit, ma più versione film porno”.
 
“Beh, diciamo che se vuoi posso aggiungere un foulard all’abbigliamento”- avevo tentato di sdrammatizzare io. E Simon aveva semplicemente agganciato.
 
Cinque minuti dopo eravamo diretti verso il teatro e Simon mi fissava accigliato: “Ricordami perché ti ho fatto comprare questo vestito”.
 
“Fammici pensare: ah sì, perché ti avevano bocciato ad un esame e tu avevi deciso che, per risollevarti il morale, avremmo dovuto ubriacarci bevendo tequila alle tre di pomeriggio, dopo di che siamo entrati in vari negozi e ci siamo comprati le cose che secondo il tuo parere erano più trasgressive” – gli risposti spazientita.
 
“Già, appunto, questa vicenda ti fa capire che è stata una spesa fatta senza un minimo di raziocinio, tanto è vero che tu mai mi hai visto aggirarmi con ciò che ho comprato quel pomeriggio!” – asserì lui gesticolando.
 
“E che ne hai fatto? Hai donato tutto alla Chiesa del paese? Sai che io quel perizoma che ti sei provato lo vedrei bene tra le mani del prete che seleziona i vestiti?!”- avevo azzardato io.
 
Simon scosse la testa: “Sei una cretina blasfema vestita in modo inadeguato, per non dire altro, cerca almeno di comportarti bene con Jean”.
 
Avevo sghignazzato: “Jean chi, scusa?”. Simon di tutta risposta aveva sbuffato, mentre parcheggiava.
 
Entrammo ed il teatro era meraviglioso come sempre, ricordo quando vi andavo con mia madre, mi sentivo una principessa che si aggirava per uno splendido palazzo. Amavamo vedere spettacoli di ogni genere, ma forse i concerti li preferivamo sopra ogni cosa. Erano ormai sette anni che non vi mettevo più piede e tornarvi aveva innestato in me uno strano miscuglio di emozioni, che mi distruggevano e mi facevano sorridere allo stesso tempo, eppure solo io potevo sapere l’amarezza che si celava dietro quell’espressione apparentemente estasiata. Simon sembrava aver afferrato i miei pensieri come fossero stati i suoi e mi aveva stretto la mano con vigore, come a dirmi che lui era lì per me.
 
Prendemmo posto e Simon ancora mi teneva per mano: “Questa sera è importante non solo per Jean, ho voluto farti una sorpresa e spero tu possa capire”. Mi passò il programma della serata ed io ebbi una morsa forte al petto quando lo lessi: Handel e Mozart.
 
Mi rassicurò: “E’ una replica di un concerto portato in scena sette anni fa, per arpa ed altri strumenti, suonano composizioni di Handel e Mozart…è l’ultimo che hai visto insieme a tua madre…se non vuoi stare qui ce ne andiamo subito, pensavo solo che…”.
 
Lo zittii ed appoggiai dolcemente la mia testa sulla sua spalla, sussurrando un timido “grazie”.
Quando iniziò la melodia ecco riaffiorare in me tutti i ricordi della nostra ultima sera passata insieme. Ecco, tra le note dell’arpa il sorriso di mia madre, tra le dita tremanti dei musicisti, ecco i suoi occhi commossi. I suoi baci delicati ed i suoi abbracci confortanti che mi sfioravano lenti insieme ai suoni di quella sera, la sera in cui mi era stata regalata la possibilità di farla rivivere attraverso il teatro, la musica, tutto il suo mondo concentrato in me in quell’istante magico. E le lacrime mi rigavano lente il volto, ed ancora ora non saprei descrivere che sapore avessero quella volta…sapore di mamma, sapore di musica, forse.
 
Terminato il concerto, Simon si era alzato per salutare qualche sua conoscenza, poi era andato a congratularsi con i musicisti e mi aveva detto di iniziare a prendere qualcosa da bere anche per lui, mentre cercava Jean. Una volta riempiti due bicchieri, mi diressi verso di lui, il quale stava chiacchierando con il ragazzo che suonava il violoncello e che, supponevo, essere Jean.
 
Mi avvicinai, ma, nella folla, nessuno dei due si rese conto della mia presenza:
 
“E allora chi è l’escort che ti sei portato appresso sta sera, Simon? L’ho vista prima, dai, questa volta hai proprio sbagliato il tiro!” – lo aveva schernito il violoncellista.
 
“Veramente…” – aveva asserito titubante Simon- “l’escort, come l’hai definita, è per te…”.
 
Jean aveva strabuzzato gli occhi: “E da quando mi odi? Dai, Simon, ma cosa mi proponi! Assomiglia terribilmente alla Delore, te la ricordi quella del liceo? Tremenda!”.
 
Simon sembrava irritato: “E’ proprio lei veramente, e non me la ricordo soltanto, è una mia carissima amica, Jean!”.
 
“Senti, con quella lì io non ci esco manco morto, l’ha data al mondo…” – aveva continuato Jean, incurante della reazione dell’amico.
 
Simon gli si era avvicinato in modo tutt’altro che amichevole: “Intanto quella lì ha un nome, poi è una persona stupenda, quindi vedi di trattarla come una principessa questa sera e non ti permettere mai più di dare giudizi su di lei, perché non ne sai nulla!”.
 
Jean non si era scomposto: “E chi vuole saperne di più, Simon, tienitela stretta, io sarò gentile con lei questa sera, ma di certo non m’innamorerò mai di una così”.
 
Quelle parole le avevo già sentite troppe volte sul mio conto, non mi avevano certo ferito particolarmente, anzi, piuttosto, mi aveva commosso il modo in cui Simon aveva preso le mie difese.
 
Così avanzai verso di loro con fare deciso, porsi un bicchiere di vino bianco a Jean, lo guardai intensamente negli occhi, mi feci sempre più vicino, ad un millimetro dalle sue labbra, gli sussurrai, con tono suadente: “Lo vedremo se non ti innamorerai mai di me…”. E sfilai via col mio abito rosso, ripensando a quanto la sua voce fosse calda e profonda. Desideravo sentirla ancora.

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Capitolo 14
*** La prima volta ***


Poi, poi ricordai quando finalmente risentii la sua voce avvolgente. Capii improvvisamente che non avrei cercato Simon, non avrei parlato dei timori che mi tormentavano, ma che, piuttosto, li avrei seppelliti insieme ai Suoi travolgenti occhi verdi. Avevo la consapevolezza che Jean avrebbe dovuto ricevere tutte le mie più intime attenzioni, e ne ero stata certa dalla prima volta che si era presentato a casa mia.
 
Una mattina, circa una settimana dopo il nostro primo incontro, sentii bussare alla porta, la aprii, stropicciandomi gli occhi, ancora assonnata. Jean, davanti a me. Jean sulla soglia di casa mia che teneva tra le mani una splendida e profumatissima orchidea.
 
“Non…non è una rosa quella…” – furono le prime parole che riuscii a pronunciare.
 
Sorrideva ed era, era un sorriso di quelli galanti, uno di quelli che pochi ragazzi riescono a concedere: “Beh, direi che, nonostante sia mattina presto, hai ottime facoltà visive o, per lo meno, sai distinguere i fiori”.
 
Mi porse l’orchidea e poi ecco ancora la sua voce intrigante: “Volevo chiederti scusa per quello che hai sentito al concerto…io…non pensavo ciò che ho detto…”
 
Lo interruppi: “Invece lo pensavi eccome, e non sei l’unico, perciò non rimangiarti quello che hai detto, non faccio proprio nulla per dare un’impressione diversa da quella che ho dato a te”.
 
Mi guardò ridacchiando: “Oh, no…credimi che questa mattina ho decisamente cambiato opinione sul tuo conto, dopo averti vista con questo pigiama dieci taglie in più delle tua”.
 
Diventai paonazza, ne ero certa, indossavo un pigiama color celeste con due orsetti enormi che si abbracciavano: “Beh…essere sexy tutti i giorni è faticoso, uomini, concedetemi un po’ di tregua!”.
 
Jean sembrava divertito: “Va beh, tu con un pigiama orribile, mi fai entrare o speri che stando sulla porta, tutti i passanti notino la tua splendida miss?”.
 
Mi scostai e gli permisi di entrare. Mentre si guardava attorno ed esplorava il salotto esclamò: “Mi ha detto Simon che le orchidee sono il tuo fiore preferito, le rose le odi perché sono troppo banali, giusto?”.
 
Sistemai il fiore all’interno di un vaso, che posizionai al centro del tavolo. Jean era una persona davvero a modo, e lo sguardo con cui scrutava l’infinità di libri riposti sugli scaffali, lo rendeva piacevolmente interessante.
 
“Dai, perché ti presenti qui come un perfetto principe azzurro, quando una settimana fa sembrava che volessi stare il più lontano possibile da me?”.
 
Sorrise, ed era maledettamente affascinante: “Tento solo di starti simpatico, così scriverai alla pazza ninfomane reclutata in discoteca, di smetterla di assillare il povero Simon”.
 
Era spiritoso, mi piaceva il modo in cui riusciva a stupirmi: “Non ho parole riguardo quel ragazzo…”.
 
Mi venne vicino: “Nemmeno io, per colpa sua mi ritrovo a casa di una con una pessima nomea, che indossa un pigiama che fa spavento, tuttavia ormai sono qui quindi…ho intenzione di passare la mattinata con te ed i tuoi orsacchiotti!”.
 
Sbuffai, scuotendo la testa, ma Jean mi guardò dolcemente: “Sei bellissima anche così…ad ogni modo, Simon mi ha accennato ad una tua imminente verifica di fisica, materia della quale pare tu non capisca molto, mentre io, beh, ero l’allievo preferito della professoressa Minouche!”.
 
“Hai avuto anche tu quella pazza isterica? Io credo di essere la sua allieva spreferita, si dice?” – abbozzai un sorrisetto innocente.
 
“Principessa, apri il libro di fisica e magari anche un vocabolario” - furono le sue ultime parole prima di tre stancanti ore piene di formule e calcoli.
 
Terminato l’incubo “fisica”, era ormai ora di pranzo: Pauline sarebbe rientrata e, per evitare le mille domande che mi avrebbe posto quell’impicciona nel caso mi avesse trovata sola a casa con un ragazzo, fui costretta a congedare il romantico Jean.
 
“Facciamo così, io ti lascio il mio numero di telefono, non certo perché tu sia incantevole oltre che intelligente e spiritosa e avrei voglia di passare ancora del tempo con te nonostante l’idea sbagliata che mi ero fatto sul tuo conto, ma piuttosto perché ho il desiderio irrefrenabile di sapere se le mie doti da insegnante sono impeccabili, quindi, quando saprai il voto della verifica, scrivimi” – e mi schioccò un delicatissimo bacio sulla guancia.
 
Jean, tu sei tutto impeccabile, ma non t’innamorare di me, ti prego, pensai, mentre le sue labbra sfiorarono la mia pelle.

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Capitolo 15
*** Baudelaire ***


Era stata la chiamata di Jean a riportarmi al presente: mi aveva cercata, proponendomi di passare il week end nella sua casa al mare in Provenza. Avevo subito accettato, in fondo non avevo molto da studiare, per di più, negli ultimi mesi, tra i suoi concerti, la scuola, il processo e lo stress, io e lui avevamo avuto pochi momenti d’intimità, momenti un po’ speciali, quelli semplici e piacevoli, quelli passati tra una coccola ed una moltitudine di baci, quei momenti in cui ti senti precipitata in una favola, dalla quale speri di non uscire mai. E Jean aveva lo straordinario potere di riuscire a far diventare tutta questa quotidianità, naturale, quasi necessaria, faceva nascere in me il desiderio di condividere ogni giorno qualcosa di nuovo e straordinario, di cercare spasmodicamente cento di quegli istanti da conservare con cura, nonostante il tempo che passa. Ogni qual volta mi baciava o mi stringeva forte a sé, pareva fosse la prima volta, l’abbraccio del giorno successivo sembrava più speciale di quello precedente, solo il suo odore rimaneva lo stesso, quello famigliare, che sapeva di lui, che mi rimaneva impregnato sulla pelle, quando finivamo di fare l’amore.
 
Inoltre il posto non mi era nuovo, anzi vi ero stata ancora prima che diventasse il mio fidanzato, era il luogo nel quale c’eravamo scambiati il primo bacio, precisamente al nostro terzo incontro, quello in cui fu chiaro ad entrambi che ve ne sarebbero stati molti altri.
 
Non ero solita cercare i ragazzi, ma il mio otto in fisica ero certa fosse dovuto ad una sola persona: Jean. Inoltre, non volevo ammetterlo, ma non vedevo l’ora di poterlo rivedere, perché c’era qualcosa in lui che mi faceva sentire protetta, amata e non solo desiderata.
Agguantai il telefono non appena fui fuori dall’aula e gli scrissi un messaggio nel quale gli comunicavo il mio fantastico voto, lo ringraziavo ed aggiungevo che mi sarei voluta sdebitare per l’enorme favore che mi aveva fatto, pur non conoscendomi quasi.
 
Non aveva risposto. Avevo atteso l’intervallo per ricontrollare se il display indicasse qualche nuovo messaggio, ma nulla, non da lui almeno.
 
Arrivata a casa, il pomeriggio, tra un libro e l’altro, mi attaccavo allo schermo del telefono attendendo una vibrazione, uno squillo, una sua chiamata, un suo qualsiasi segno di vita. Iniziai a torturarmi le mani per l’attesa, poi pensai di aver segnato il numero errato, allora mi dissi di telefonare a Simon per averne o meno la conferma, ma in seguito mi decisi a non farlo, perché altrimenti avrei dimostrato troppo interesse nei confronti di uno che avevo visto solo un paio di volte.
 
Il mio orgoglio stava cadendo a pezzi, si stava sgretolando ogni mia certezza sulla donna insensibile e fredda che volevo dimostrarmi d’essere, rimanevo una ragazzina che attendeva disperatamente uno stupido messaggio, che non si concentrava sullo studio, ripercorrendo nella mente il suo sorriso accattivante. Era già conclusa la magia? Non meritavo neppure una risposta? Ma, soprattutto, perché tenevo tanto a riceverla?
 
Il mio flusso di pensieri stile Joyce, non fu interrotto per i tre giorni seguenti. Jean non si era fatto sentire, avevo perso le speranze e mi ero imposta di dimenticare quel pomeriggio con lui, quando il venerdì una sua chiamata aveva sospeso il mio studio: “Angelique, sono Jean, scusa se non ho risposto al tuo messaggio, sono stato parecchio impegnato, comunque complimenti per il voto di fisica!”.
 
Ero rimasta ammutolita, quasi incredula, il cuore batteva all’impazzata e sentivo delle vampate di calore percorrermi tutto il viso. La sua voce era perfetta anche al telefono, ma dovevo darmi un tono: “Grazie, comunque tranquillo, non ci avevo quasi fatto caso, in fondo non mi aspettavo nemmeno una tua risposta, anzi…guarda, mi chiami nel momento sbagliato perché stavo studiando Baudelaire per un’interrogazione”.
 
La parte della sostenuta mi riusciva in ogni situazione, ma Jean aveva deciso di stupirmi, ancora una volta: “Un éclair… puis la nuit ! – Fugitive beauté.Dont le regard m’a fait soudainement renaître. Ne te verrai-je plus que dans l’éternité”
 
Ero allibita, il ragazzo con il quale stavo parlando, mi aveva appena declamato a memoria dei versi di Baudelaire, i quali mi beavano di non so quale piacere pronunciati dalla sua bocca, con quella sua voce suadente.
 
“Ad una passante, se non erro…giusto?” – mi sentivo davvero stupida rispetto a lui.
 
“Ottimo signorina, vedo che sa tutto, perciò può anche smettere di studiare ed ascoltarmi: domani sera organizzo una festa nella mia casa al mare in Provenza, qualche amico, nulla di più…volevo invitarti, ci sarà anche Simon, puoi arrivare con lui e poi fermarti a dormire, se ti va!”- aveva esclamato entusiasta Jean.

La mattina successiva mi ritrovavo a riempire uno zaino con spazzolino, pigiama e qualche libro, speranzosa che la mia coscienza mi avrebbe consentito di studiare la domenica mattina e, dunque, mi avrebbe impedito di ubriacarmi il sabato sera. Poi ricordai la presenza di Simon, ed ebbi la certezza che mi sarei svegliata con i postumi di una sbronza tremenda.

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Capitolo 16
*** Il gatto ***


Arrivati alla casa al mare di Jean c’erano luci soffuse, parecchie persone a me sconosciute, musica a tutto volume e troppi alcolici per la mia ipotetica sobrietà. Simon mi abbandonò quasi subito per andare a conquistare qualche fanciulla che aveva adocchiato non appena entrato in casa. Ero, quindi, rimasta in balia di alcuni amici di Jean, i quali avevano iniziato ad offrirmi da bere.
 
“Signori, scusate” – grazie al cielo la sua voce – “Ma questa splendida ragazza non berrà nulla di più, perché mi è stato comunicato che domani mattina deve essere sobria e studiare parecchio”.
 
Jean mi aveva trascinato via da quella marmaglia di marpioni, dimostrando, ancora una volta, quanto tenesse a me come persona: “Ah, se sapessero che razza di pigiami indossi, nessuno di loro ti farebbe più la corte!” – aveva sghignazzato una volta arrivati sulla spiaggia.
 
“Guarda che sta sera i miei orsetti li ho lasciati a casa! Comunque grazie per avermi sottratto agli alcolici, ti sei aggiudicato l’onore di essere la mia parte razionale!”.
 
Avevamo camminato sulla spiaggia tutta la sera, chiacchierando, ridendo, ci eravamo persino coccolati ed ora, in riva al mare, ci bagnavamo i piedi nell’acqua fredda, ci tenevamo per mano e ci facevamo sempre più vicini l’uno all’altra.
 
“Comunque ci stai riuscendo benissimo, e mai l’avrei creduto” – Jean aveva interrotto i nostri respiri che si confondevano.
 
“A fare cosa?” – avevo domandato incerta io.
 
“A farmi innamorare di te, proprio come avevi promesso”.
 
La sua voce s’era fatta più roca e le sue mani mi accarezzavano lente il viso, mi guardava dolcemente e si stringeva a me. Le sue labbra sfiorarono il mio collo, poi il mio orecchio, i miei zigomi ed infine si erano si erano spinte, temerarie, sino alla bocca.
 
Un respiro, un battito, un fremito…e poi lui, lui che prendeva il sopravvento sui miei sentimenti, che mi travolgeva di passione con un bacio, uno di quelli perfetti. Il bacio, quello di Jean, il primo. E ne desideravo altri mille, tutti per me, volevo ancora il suo sapore tra le mie labbra.
 
La mattina successiva mi ero risvegliata accanto a lui, in un letto di una stanza nella quale non ricordavo neppure di essere entrata con le mie gambe. Un terribile mal di testa ed un senso di nausea mi pervadevano. Poi ricordai: maledetto Simon che mi aveva fatto bere quando ero rientrata in casa.
 
“Noi…non…” – balbettai un po’ confusa.
 
“No decisamente no, altrimenti te lo ricorderesti eccome!”- aveva ammiccato Jean.
 
“Mmh, non ti facevo così sfrontato…” – mugugnai – dov’è quell’idiota di Simon? Voglio strangolarlo con le mie mani per avermi fatta ubriacare!”.
 
Jean sembrava volermi rimproverare: “Guarda che tu hai il libero arbitrio, sarebbe bastato rifiutare tutta quella vodka che ti veniva rifilata da Simon, che, per altro, è sparito con una biondina e non s’è ancora fatto vivo!”.
 
Mi stiracchiai e Jean mi accarezzo: “ Lorsque mes doigts caressent à loisir Ta tête et ton dos élastique, Et que ma main s'enivre du plaisir De palper ton corps électrique, je vois ma femme en esprit.”.
 
Ancora la sua melodiosa voce che decantava splendidi versi, il suono che emettevano le sue morbide labbra era quasi magico, era travolgente: “Di che poesia è?” – domandai.
 
“E’ di Baudelaire, s’ intitola “Le Chat” e te la dedico”. E mi baciò.
 
Baciami ancora Jean, ma non innamorarti di me, non meriti di soffrire, pensai per la seconda volta da quando lo conoscevo.

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Capitolo 17
*** Passato e Futuro ***


“Sono veramente felice di passare questo week end solo io e te, sai?” – esclamai sorridente, sistemando la valigia nella camera da letto.
 
Jean di tutta risposta mi baciò dolcemente, facendomi sdraiare sul letto – “Ho voglia di te!”.
 
Sapeva essere romantico ed intrigante nello stesso momento e questo mi spingeva a desiderarlo ogni istante di più, il suo amore sembrava non bastarmi mai: “Pensavo che quest’estate potremmo fermarci un mese intero qui al mare, se ai tuoi la cosa non dà fastidio!”.
 
Lo sguardo di Jean improvvisamente si fece sfuggente: “Sì, beh a dire il vero volevo approfittare di questi giorni anche per parlarti dei progetti futuri…”.
 
Indugiò, attendendo una mia risposta che non arrivò, così proseguì un po’ insicuro: “Quest’estate dovrò partire…”.
 
Non riuscì a terminare la frase, che, di scatto, mi tirai su e lo fissai: “Partire? E dove? per quanto?”.
 
Jean mi accarezzò nel tentativo di tranquillizzarmi: “Siamo riusciti a vendere parecchie repliche del nostro concerto e così faremo un tour di un mesetto, a luglio…viaggeremo parecchio: Olanda, Belgio, Svizzera, Spagna…insomma, è una bella occasione!”.
 
Abbassai lo sguardo: era indubbiamente una notizia sorprendente, sarei dovuta essere felice per lui e per la sua brillante carriera, tuttavia improvvisamente mi sentii abbandonata: “Sono felice per te, davvero, ma credevo avremmo potuto passare l’estate tranquillamente…io finalmente avrò terminato il liceo ed avrò un paio di mesi di totale vacanza prima d’iniziare l’università, ma se tu parti…”.
 
Jean mi strinse la mano: “Proprio per questo, ho già chiesto se puoi venire anche tu e mi è stato risposto di sì, ovviamente penserei io a pagarti tutto quel che posso!”.
 
“Non lo so…insomma, io non c’entro nulla nella vostra compagnia, mi sentirei un pesce fuor d’acqua!” – Jean era stato premuroso nei miei riguardi, ma non ero pronta a passare un mese con dei semi sconosciuti, intervallando i miei pomeriggi tra una loro prova e qualche insulto infondato della sua amica Rebecca…forse era proprio questo il problema, ma non volevo raccontare a Jean delle battutine acide che ci eravamo scambiate. Non desideravo mettere zizania tra di loro che, a quanto sapevo, si conoscevano da quando ci conoscevamo io e Simon.
Jean, però, non demorse: “Un pesce fuor d’acqua? Dopo la cena, tutti si sono complimentati con me, elogiandoti in ogni modo, sarebbero felici di averti con noi durante il tour!”.
 
Mi lasciai sfuggire un “non tutti”, che Jean colse immediatamente: “Credevo fossi stata bene quella sera, ma se c’è stato qualche problema del quale non sono a conoscenza, parlamene!”.
 
Si ostinava a prendere le sembianze del principe azzurro, temerario e protettivo, ma non capiva che alcune volte non desideravo essere compresa, volevo esclusivamente essere lasciata in pace, tuttavia non riuscii a trattenere le mie emozioni: “Sì, un problema c’è ed è una ragazzina arrogante e vanitosa che mi ha fatto battute velenose tutta la sera, quando tu non potevi sentire ed è evidente che io l’abbia infastidita per motivi a me ignoti, ma non voglio passare un secondo di più con chi usa la morte di mia madre per schernirmi!”.
 
Jean sembrò non capire: “Angelique, ma a che ti riferisci? Perché con te è sempre tutto un mistero? Improvvisamente te ne esci con un paio di frasi che mi lasciano spiazzato, eppure non ho idea di cosa tu stia parlando”.
 
Quel discorso mi spazientii, così feci per alzarmi, ma Jean mi afferrò per un polso e mi costrinse a raccontargli tutto: “Si tratta di Rebecca, ha passato il tempo a punzecchiarmi, a farmi sentire fuori situazione, a dirmi cattiverie, ma tu non hai potuto assistere alla scena, perché faceva tutto questo non appena tu ti alzavi da tavola!”.
 
“Mi dispiace, Rebecca ha un pessimo carattere, si comporta così con molte altre persone, non farti spaventare o infastidire da lei, conta meno di zero. Ha un ego spropositato e si sarà sentita minacciata perché tu sei più bella, più intelligente e più simpatica di lei. In ogni caso le parlerò e le farò capire che deve smetterla e che dovrà avere un altro atteggiamento quest’estate, quando tu verrai un mese intero con noi” – Jean mi fece l’occhiolino e mi sorrise come solo lui sapeva fare. Capii che desiderava fare l’amore e passare due giorni senza pensieri superflui, così lo attirai a me ed iniziai a baciarlo con passione.
 
Eppure, per tutta la giornata, mi tormentò l’idea di quel viaggio, della gelosia di Rebecca e così a cena, a costo di irritare la pazienza di Jean, tornai sull’argomento: “Scusa se te lo domando, ma perché mai Rebecca dovrebbe essere gelosa di me?”.
 
Jean mi versò dell’acqua: “Te l’ho detto: sa di essere inferiore e così diventa aggressiva per dimostrare di essere migliore di te, ma rimane una ragazza superficiale e presuntuosa!”.
 
“Io di Simon non parlo così male, vi conoscete da una vita, perché la detesti tanto?” – domandai curiosa, afferrando un pezzo di pane.
 
Jean mutò tono e mi parve più freddo: “Io e lei non siamo amici e mai lo saremo, suoniamo insieme da quando siamo bambini e questo è tutto, ma conoscere una persona da molto tempo non significa necessariamente esserci legati!”.
 
Colsi l’occasione per porre la domanda che speravo avrebbe lenito i miei dubbi: “Magari non siete amici, perché siete stati qualcosa di più e così lei è indispettita dalla mia presenza perché è gelosa di te!”.
 
“Gelosa di me? Ma se sta con quell’adone italiano! Per quanto vogliamo continuare con questi discorsi inutili?” – i modi di Jean divennero più bruschi e nelle sue parole lessi una vena di polemica.
“Non hai detto se c’è stato o meno qualcosa tra voi …” – proseguii sicura di me, ma non ero certa di voler conoscere la risposta.
 
“Visto che insisti, sì, c’è stato qualcosa, insomma, ci conosciamo da una vita ed abbiamo passato molto tempo insieme…nulla di che, è una bella ragazza e questo è innegabile, perciò ammetto che abbiamo avuto qualche storiella in questi anni, dopo qualche serata passata a bere un po’ troppo…contenta ora?”- Jean mi sputò addosso quelle parole che mi travolsero e mi fecero bruciare il petto d’odio e di gelosia.
 
Gli gridai contro: “Prima era brutta, antipatica e stupida ed adesso è una con cui andare a letto?”.
 
Jean si fece serio e volle concludere la questione: “Abbiamo già fatto questo discorso e si è detto di non parlare del rispettivo passato di entrambi, per evitare gelosie infondate. Vorrei continuare con il mio metodo, vista la tua rabbia improvvisa. Io non ti faccio il terzo grado, non ti domando e soprattutto non mi domando se provi ancora qualcosa per il tizio della facoltà di Simon, del quale sostenevi di essere innamorata, e sai perché? Perché so che non ci pensi più, il passato è passato, non ho dubbi sui tuoi sentimenti per me e non sono queste le cose che possono allontanarci, quindi smettiamola e godiamoci la vacanza”.
 
Come si dice: touché. 

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Capitolo 18
*** Serena ***


“Il passato è di tutti e di nessuno, scegliamo noi se desiderarlo accanto o se accantonarlo in un flebile ricordo, lui, però, è sempre lì, davanti ai nostri occhi ad ogni risveglio, o relegato in un vecchio gesto, in un odore conosciuto, in un luogo abbandonato. Il passato muta, ma la sua forma la plasmiamo noi inconsapevolmente e può apparirci come un mostro che visita i nostri peggiori incubi, quando avremmo solo desiderato farci cullare da un velo di tiepida malinconia. Ricorda: ogni esperienza vissuta, ogni trascorso condizionerà inevitabilmente la persona che saremo in futuro, ma non deve imporsi su ogni istante della nostra vita, perché se così fosse trascorreremmo un tempo che ormai è antico, attanagliato dalle paure, imbrigliato nel già vissuto, incatenato a momenti che non possono tornare. Rievocare il passato, sì, ma non abusare dei tuoi ricordi, non stancarli, non consumarli, perché essi ormai non possono più essere diversi, ma tu sì, non tormentarli faticosamente. Il tempo scorre veloce, ma nella nostra mente, spesso, è incastonato come un meraviglioso susseguirsi di attimi che tentiamo, invano, di afferrare. Viviti completamente, abbandonati a te stessa, a quella che sei per il tuo intero trascorso, ma non cospargere i tuoi pensieri di ciò che è stato. Il passato e il futuro, inebrianti e spaventosi, sono qui, tra tutti noi, come entità astratte che si concretizzano improvvisamente, ma, se non lo si coglie appieno, il presente è già fuggito.”
 
Fissai dritto negli occhi quella donna dai tratti mediterranei e pensai a quanto diversa fosse ora rispetto alla prima volta che l’avevo incontrata. Adesso, a tratti, appariva quasi materna nei miei confronti, mi spingeva a darle fiducia, quasi a confidarmi con lei, nonostante fossi consapevole che mi ascoltasse esclusivamente per lavoro, tuttavia era meno austera e fredda rispetto agli incontri iniziali.
 
Serena Tangelli era la psicologa dalla quale andai per qualche mese tutte le settimane, il suo studio si trovava ad una ventina di minuti da casa mia ed ogni mercoledì mi recavo al terzo piano di quel maestoso palazzo situato di fronte al Comune.
 
L’unica ad essere a conoscenza delle mie sedute era Pauline, alla quale avevo promesso che avrei trovato uno specialista dal quale andare, una volta terminato il processo, a patto che nessuno fosse venuto a sapere dei miei incontri.
 
Fu, forse, una questione d’orgoglio personale a spingermi a tenere segreto il mio mercoledì pomeriggio, non volli essere giudicata come una persona fragile e bisognosa d’aiuto, nonostante, per quanto non me ne accorgessi, dai miei gesti non trapelava altro che insicurezza.
 
Ebbi timore di tutte quelle cose che per anni mai avevano costituito un problema: paura di perdere il ragazzo di cui ero innamorata, di fallire in ambito scolastico, di prendere le scelte sbagliate, ogni mia certezza si frantumava contro lo scoglio della realtà quotidiana.
 
Subito pensai che una psicologa non avrebbe risolto alcuno dei miei problemi e ne ebbi conferma dalla prima seduta con Serena, fu lei stessa a dirmi che quello che avremmo dovuto fare, come con tutti i pazienti, sarebbe stato un percorso di anni, nel quale avrei attraversato svariate fasi e avrei dovuto riflettere molto, sfogarmi, essere sincera, soprattutto con me stessa.
 
Così, iniziammo: Serena che giocherellava con la sua penna nera ed io sdraiata su quel maledetto lettino che tentavo di espormi il meno possibile. Lei che annotava qualche frase su un blocchetto di carta, io che sbuffavo, lei che mi poneva mille interrogativi e pretendeva che fossi io a trovare una risposta. In seguito mi domandai a cosa servisse essere lì se dovevo risolvere da sola i miei dubbi. A cosa fosse utile parlare con un’estranea che metodicamente si appuntava ciò che dicevo e mi richiamava all’ordine una volta terminata l’ora.
 
Con il passare delle settimane, però, il mio nervosismo si affievolì, il ticchettio della penna di Serena mi parve meno fastidioso, lei smise di figurarsi come una sconosciuta e la mia accettazione mi portò finalmente ad aprirmi con me stessa e a permetterle di cogliere appieno tutte le mie incertezze, ad analizzare il mio passato e le difficoltà imminenti. Non sapevo dove mi avrebbe portato quell’ora settimanale, e non ero sicura che Serena avesse in mano la situazione, tuttavia riponevo in lei totale fiducia, in quanto, uscita da quella stanza dalle pareti color ocra, mi sentivo pronta ad affrontare tutto e tutti con più beh…con più serenità, ecco, non poteva esistere termine più adeguato per descrivere come la mia sensazione.
 
E poi, poi ci fu lei: la biondina bassa e mingherlina dallo sguardo stralunato, le labbra carnose, l’abbigliamento colorato ed eccentrico, seduta su quella poltrona rossa, fuori dalla sala di Serena, ogni mercoledì era lì prima che io entrassi e la ritrovavo un’ora dopo, lì a masticare gomma, facendo scoppiare delle enormi bolle rosa e a farfugliare parole nel tentativo di concludere le parole crociate. Ipotizzai per settimane che si trattasse di una paziente che amava essere in anticipo.
Mi fissò spesso, mi scrutò come a volermi comprendere dai movimenti, tuttavia non scambiammo mai una parola, mai sino a quel piovoso mercoledì pomeriggio.

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Capitolo 19
*** Maria ***


“Fammi indovinare: adolescente arrogante, ma fragile, con un passato tormentato…giusto?”.
 
Mi ritrovai a fissare, con un’espressione incredula stampata sul volto, la biondina seduta sulla poltrona della sala d’aspetto, la quale, con quella vocina stridula e fastidiosa, mi aveva finalmente rivolto la parola, abbozzando un’analisi tutt’altro che errata, ma sentenziata con fare impertinente.
 
Mi avvicinai a lei: “Stronzetta impicciona…giusto?”.
 
E le porsi la mano per stringere la sua.
 
Mi sorrise sfacciatamente, mentre si accingeva a ricambiare il saluto: “Beh, anche in effetti, ma per gli amici sono Maria, piacere!”.
 
“Angelique…e non posso dire che sia stato proprio un piacere sentirmi dare dell’arrogante da una perfetta sconosciuta” –le risposi inacidita.
 
“Ah, perdonami, deformazione professionale, chiamiamola così: sono la figlia di Serena, ormai è quasi un gioco tentare di indovinare, anche solo dai piccoli movimenti, i problemi dei suoi pazienti!”.
 
Quella notizia mi spiazzò e Maria riprese velocemente la parola: “Sì, non ci somigliamo affatto, lo so, me lo dicono tutti, io ho i tratti ed i colori di mio padre, sono Francese all’esterno, ma Italiana nell’animo!”.
 
“Sei italiana?” –domandai io stupidamente, ignorando il cognome della mia psicologa.
 
“Beh, dai nomi ipotizzavi fossimo Sloveni?” –ridacchiò la biondina, riponendo nella borsa il giornale con le parole crociate.
 
“Gomma?” – mi chiese sventolandomi davanti agli occhi un pacchetto di chewingum, ed io accennai un “no” con la testa.
 
Silenzio. Fece scoppiare una bolla che le si appiccicò inevitabilmente sulle labbra. Non so dire esattamente cosa mi affascinasse di Maria, forse i suoi vestiti stravaganti, o i suoi modi irruenti, i suoi toni divertiti e divertenti o il suo viso da bambola di porcellana ricoperto di gomma da masticare, ma qualcosa in lei mi piacque.
 
“Una vera noia questo studio, no? Ti va di andare a prenderci un gelato in centro?” – propose, alzandosi in piedi in quel suo metro e sessanta, a dir tanto, e mostrando quella sua gonna a balze rosa opaco.
 
Maria mi piacque così tanto, che non seppi dirle di no.
 
 
“Facciamo un gioco divertente?” –mi domandò, con un’espressione furbetta, Maria, mentre assaggiava il suo gelato alla fragola.
 
Era così diversa da me, era così incredibilmente spontanea e sicura di sé, era una bambolina di porcellana senza peli sulla lingua che trasmetteva un’immensa “joie de vivre”.
 
Perciò, io annuii semplicemente, e lei afferrò i fazzolettini all’interno del porta tovaglioli, mentre mi ordinò di prendere una biro dalla sua borsa: “Ora scriveremo su ognuno di questi una frase compromettente, tipo “tuo marito ti tradisce”, e poi ovviamente li rimetteremo tutti all’interno e beh, qualcuno prima o poi lo prenderà e leggerà la frase incriminante!”.
 
La fissai perplessa: “E’ una cosa stupida ed insensata”.
 
Mi prese con foga la penna dalle mani: “Lo so, ed è per questo che la faremo! Dai…io scrivo: “mi sbatto tua sorella”…tu?”.
 
Il suo entusiasmo per ogni piccola cavolata era così travolgente, che decisi di stare al gioco: “Ti puzza l’alito!”.
 
Mi passò la penna, scuotendo la testa: “Va beh, ma trova qualcosa di un po’ più divertente…qualcosa di più volgare, dai non fare la perfettina!”.
 
Osservai i suoi vivaci occhi azzurri e le sorrisi, agguantai la penna ed iniziai a scrivere le peggio idiozie insieme a quella sconosciuta bizzarra, che, solo qualche ora prima, mi aveva quasi insultata, nel tentativo di presentarmisi.
 
Mi piacque, amai tutto di quel pomeriggio, della sua compagnia, ma se solo avessi saputo che da quel fatidico incontro la mia vita sarebbe stata completamente stravolta, più di quello che già era accaduto negli ultimi anni, beh l’avrei odiata sin dal primo istante. La sua presenza fu solo una delle tante tremende coincidenze e dei pessimi incontri che avrebbero intersecato ogni istante della mia futura esistenza, rendendola amara ed assurda.

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Capitolo 20
*** La proposta ***


I mesi trascorsero più velocemente di quanto avessi potuto prevedere e così la mia media scolastica si alzò notevolmente, grazie specialmente all’aiuto di Jean, che trascorreva più tempo da me che a casa sua.
 
Questo accadeva perché ormai Pauline mi lasciava sempre sola: inizialmente usciva la mattina presto e tornava di soppiatto a notte fonda, quasi come un’adolescente che tramava segrete fughe d’amore. Più avanti, però, si munì di spazzolino da denti e di tutto l’occorrente necessario per dormire un paio di giorni a casa di Loyal. Con il passare delle settimane, invece, i suoi cassetti si svuotarono lentamente e la biancheria andò a finire dritta nella camera del suo amato George, dal quale, inutile dirlo, soggiornava abitualmente. Spuntava di rado con il suo nuovo fidanzato, per chiedermi se avessi bisogno di una mano con le faccende domestiche, o, semplicemente, per portarmi un dolce, come a scusarsi della sua ingiustificata assenza.
 
Come di routine, il mercoledì mi defilavo con qualche bugia inventata al momento, in modo da poter fare la mia seduta da Serena ed, in seguito, riuscire a trascorrere il pomeriggio con Maria. Alcune volte chiedevo persino a Simon, il quale, oltre a Pauline e Loyal, era l’unico ad essere a conoscenza del fatto che mi recassi da una psicologa, di intrattenere in qualche modo Jean, che negli ultimi tempi aveva cominciato ad insospettirsi e fare un po’ troppe domande.
 
Se si fosse trattato esclusivamente dell’ora trascorsa da Serena, sarei riuscita a cavarmela con qualche banale scusa, ma mi risultò ben più difficoltoso coprire i lunghi pomeriggi passati con Maria, la quale spesso mi costringeva a girovagare per la città fino alla sera, proponendomi ogni settimana un ristorante differente, dal messicano, al cinese, per poi passare al giapponese ed infine, il suo preferito, l’italiano.
 
Tutti i mercoledì la biondina s’inventava qualche stravagante piano per compiere qualche azione sconsiderata o farsi prendere per matta da ogni singolo passate: aveva iniziato con il suonare il flauto per strada, chiedendo di mettere una monetina all’interno di un vecchio cappello, ed aveva proseguito con l’appendersi alle orecchie un paio di ciliegie, come fossero monili.
 
Su di lei avevo scoperto che, appunto, suonava il flauto sin dall’infanzia, che aveva una sorella, un fidanzato di due anni più giovane di lei con il quale conviveva, che aveva iniziato la facoltà di filosofia per poi abbandonarla, che desiderava tornare in Italia il prima possibile ed, infine, che Serena aveva divorziato dall’ex marito dopo pochi anni dalla nascita delle figlie, in quanto entrambi i genitori si erano resi conto di essersi sposati non tanto per amore, quanto più a causa della gravidanza della ragazza, che, all’epoca, era rimasta incinta durante un erasmus e si era, in seguito, trasferita in Francia, coniugandosi in breve tempo e separandosi altrettanto in fretta.
 
Infine continuava a promettermi che mi avrebbe mostrato casa sua e che mi avrebbe trascinata in Italia con lei non appena le fosse stato possibile, tutto questo naturalmente mentre masticava in modo poco elegante il suo chewingum.
 
Alcuni sabati sera, poi, erano dedicati esclusivamente a Simon, che ormai non riuscivo quasi più a frequentare, tra i suoi esami, il mio studio, Jean, Maria e Serena. Tuttavia, appena possibile, folleggiavamo fino a tarda notte, prendendoci le sbronze più divertenti della nostra vita.
 
Una sera, mentre guardavamo una commedia sul mio divano, muniti di popcorn e coca-cola, Jean mi stupì, ancora non so dire se positivamente, forse, più che altro, mi spaventò: “Che progetti hai per il prossimo anno? Inteso come anno scolastico, cioè, una volta conclusa l’estate, che pensi di fare?”.
 
Non seppi cosa rispondere, in quanto, all’epoca, non avevo ancora le idee chiare sul mio futuro: “Ci ho pensato parecchie volte, sai? Non so, credo indubbiamente che m’iscriverò all’università, ma non ho certezze”.
 
“In ogni caso, pensavi di restare in zona, o fare qualcosa in modo da stravolgere la tua vita?” – domandò lui con fare indagatore.
 
“Beh, ti ripeto non ne ho idea, vedrò cosa accadrà con il tempo, non amo pianificare le cose…lascio che accadano e decido all’ultimo, mi conosci!”.
 
Jean si avvicinò e mi diede un bacio sul collo: “Stavo pensando che potremmo prenderci una casa assieme, sì, insomma, andare a convivere, tanto, in pratica, già adesso lo stiamo facendo e direi che le cose tra noi procedono parecchio bene, no?”.
 
Trangugiai un pop-corn e sgranai gli occhi: “Beh…ecco, non offenderti, ma io non vorrei correre, non è neppure un anno che stiamo insieme, a settembre, diciamo, che lo sarà, e potrebbe succedere di tutto in quest’arco di tempo, sto bene con te, ma sei il mio primo ragazzo, la mia prima relazione seria e non vorrei rovinare tutto per qualche stupido errore, inoltre non ho un lavoro e non saprei come pagare l’affitto di una casa. Scusa se sono realistica, ma preferisco non costruire castelli di sabbia, per poi vederli sgretolarsi sotto i miei occhi.”.
 
Jean sembrava aver compreso il mio discorso: “Hai ragione piccola, tutto ciò che hai detto è vero e sensato, ma di una cosa sono certo, e cioè che ci amiamo, ti amo da impazzire ed in questi mesi il nostro rapporto non potrà che migliorare, a settembre saremo insieme, pronti ad iniziare un altro anno insieme, felici!”.
 
Mi strinse forte a sé. Non avesse mai detto quelle maledette parole con tanta sicurezza.

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Capitolo 21
*** Fotografie ***


Mi ritrovai a guardarmi attorno completamente esterrefatta nell’osservare la miriade di colori con i quali erano state dipinte le pareti dell’appartamento. Quadri appesi su ogni muro, fotografie, fogli sparsi ovunque, poesie e spariti appesi al frigo, al forno, persino sullo specchio del bagno. Regnava il caos più totale in ogni camera. Ognuna di queste presentava un arredamento completamente contrastante con quello della stanza precedente.
 
“So che ti sembra un po’ strana come casa, ma ti assicuro che tutte le scelte fatte hanno un senso!” – esordì Maria, mentre mi faceva da Cicerone durante il tour della sua sconvolgente dimora.
 
“In sostanza, abbiamo voluto dare ad ogni ambiente un tema preciso: il bagno è la stanza dell’oceano, come vedi, c’è un enorme acquario, le pareti blu e azzurre, boccette con la sabbia…insomma, cose così, la nostra stanza da letto, invece, ha per tematica la tempesta, cioè il caos, e siamo riusciti a crearlo molto facilmente, il salotto rappresenta la camera del leopardo e difatti è tutto terribilmente leopardato e la cucina è stile giapponese, forte, vero?”.
 
Non avrei saputo definire con un solo aggettivo il delirio che regnava in casa di Maria e del suo fidanzato misterioso che, a quanto mi aveva riferito, era solito sparire di tanto in tanto senza dare sue notizie per giorni, così mi limitai a porre una domanda: “E quando l’avete comprata com’era?”.
 
“Ah, dire il vero non l’abbiamo esattamente comprata, cioè questa è la casa dove hanno vissuto mia sorella ed il suo ex fidanzato per qualche mese, poi si sono lasciati. L’ha pagata mio padre, ma venderla dopo poco non avrebbe avuto senso, perciò mi ci sono trasferita io da subito. Ad ogni modo, era parecchio triste, avevano scelto un arredamento noioso e banale, ma erano agli sgoccioli della relazione, non mi sarei aspettata diversamente! Comunque vieni, ti offro una tisana!”.
 
Ci dirigemmo nella sua cucina in stile nipponico e Maria tirò fuori una tisana al cioccolato, che mai avevo assaggiato sino ad allora: “Sai cosa ho scoperto ieri? Che mio padre ha un’altra donna, cioè ce l’ha raccontato dicendo che la ama tanto e che quando si sentirà pronto ce la presenterà!”.
 
Sorseggiai la bevanda e posai la tazza sul tavolo: “E tu che ne pensi? Cioè sei felice o la cosa t’ irrita?”.
 
“Oh no, sono felice se mio padre fa sesso quotidianamente, beh almeno settimanalmente, diciamo! Io ne faccio un sacco e ti assicuro che sono sempre molto allegra!”- esclamò la biondina, mentre agitava in aria il cucchiaio.
 
Mi andò di traverso la tisana, ogni qual volta che Maria apriva bocca mi lasciava inizialmente sempre un po’ interdetta: “Sì…anche io, cioè ne ho sempre fatto tanto per fortuna…”.
 
“Hai mai fatto una cosa a tre?” – mi domandò d’improvviso ed io annuii semplicemente con il capo: “Lo sapevo, sei una che ne sa, grande! Sappi che quando vorrò fare una cosa a tre, ti chiamerò, perché sei una gran figa!”.
 
Non riuscii a rimanere sconvolta dal suo discorso disinibito, che qualcos’altro rapì la mia attenzione e mi lasciò completamente a bocca aperta, così mi alzai di scatto e mi avvicinai alla fotografia incorniciata e riposta sulla mensola. Ritraeva una bambina sorridente con l’aria birichina ed un aitante ragazzo che doveva presumibilmente esserne il padre.
 
Eppure, nonostante gli anni trascorsi, i tratti rimanevano inconfondibili: “E’ questo tuo padre? Quello che ora ha una nuova fidanzata?”.
Questa volta era Maria che sembrava essere perplessa dalla mia reazione, così mi prese la cornice di mano e disse: “Sì, si chiama George…”.
 
“Loyal, George Loyal, avvocato penalista!” – fui io, sconvolta, a proseguire la sua frase.
 
“E tu come lo sai?” – mi domandò, senza esitare, Maria.
 
“E’ stato il mio avvocato difensore, abbiamo vinto il processo poco prima che iniziassi ad andare da tua madre ed è stato lui a consigliarmi uno specialista!”. –spiegai, io, ancora incredula del fatto di trovarmi a casa della figlia di George, mentre questa qualche minuto prima aveva esordito dicendo che suo padre facesse sesso settimanalmente con quella che era la mia sorellastra.
 
“Lo sapevo! Lo avevo detto che avevi avuto un passato difficile! I clienti di mio padre hanno sempre qualche storia tremenda! Quindi ti ha mandato lui da mia madre?”- continuò, curiosa, la biondina.
 
“No, a dire il vero ho cercato io da sola uno psicologo che mi potesse ispirare in qualche modo, ma direi che, a questo punto, ci può essere uno scambio di foto, tu me ne hai mostrata una, ed io te ne faccio vedere un’altra!” – dissi, estraendo dalla tasca dei jeans il mio cellulare.
 
“Ecco, qui – esclamai, mostrandole un’immagine – questa è la nuova fidanzata di tuo padre, nonché mia sorellastra, Pauline!”.
 
Maria non riuscì a contenere un’espressione davvero buffa: “Questa storia è al limite dell’assurdo! Devo raccontarla al mondo intero, che forza! Comunque, lasciatelo dire, questa Pauline, decisamente scopabile! E bravo papà!”.
 
“Che stupida che sei!”- ridacchiai, mentre riponevo il telefono.
 
“Dai, ma ora voglio farti vedere altre foto di mio padre, ne ho una marea, ti faccio vedere quelle della vacanza in Italia, così ti fai un’idea anche del luogo! Siamo andati in Sicilia l’ultima estate!” – proferì, saltellando verso il salotto del leopardo, la padrona di casa.
 
Accese il computer e poi aprì una cartella, le immagini di Loyal, del mare, dell’Italia, di Maria scorrevano veloci, fino a che, eccola. Non potevo credere ai miei occhi. Sentii il cuore scoppiarmi e mi venne da rimettere. Emisi un rantolo e Maria si voltò a fissarmi con aria interrogativa. La prima volta che mi si spezzò il cuore. Quello scambio di foto, sarebbe dovuto terminare qualche minuto prima, perché da quel momento in avanti tutto sarebbe cambiato.

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Capitolo 22
*** Indovina chi ***


 
“Quello è…” – mormorai quasi incredula, davanti a quel bacio languido e passionale che stavo osservando, nella speranza che fosse una visione.
 
“L’ex di mia sorella, quello di cui ti parlavo prima…” – proseguì noncurante la biondina, cliccando sul tasto sinistro del mouse.
 
“Jean…” – sussurrai flebilmente.
 
Maria sembrava divertita: “Adesso mi spieghi perché conosci chiunque!”.
 
Ma io, non sorrisi affatto: “E quella è Rebecca…”.
 
Maria si voltò ed, improvvisamente, comprese ciò che stava accadendo: “Aspetta…sei sconvolta, quindi sei tu la ragazza della cena che Jean ha presentato come sua fidanzata…e perciò deduco che tu abbia conosciuto anche il mio fidanzato!”.
 
“Ernesto” – dissi io, mentre una lacrima mi solcò il viso.
 
Maria tentò di sollevarmi il morale, ma invano: “Sembra di giocare ad indovina chi! Ora comunque capisco perché mia sorella Rebecca ti detesti tanto: sei bella, intelligente e simpatica, sarà stata folle di gelosia!”.
 
“E perché mai dovrebbe detestarmi? Ha un ragazzo che sembra un adone ed, inoltre, è stata lei a tradire Jean, non sono certo io ad averglielo portato via!” – affermai convinta.
 
Eppure Maria parve perplessa: “E’ questo che ti ha raccontato lui? Sì, è vero, Rebecca l’ha tradito, le foto che ti stavo mostrando sono quelle della loro ultima vacanza insieme, in Sicilia, dove lei ha incontrato Antonio, ma prima di tutto questo Jean l’aveva cornificata e scaricata parecchie volte…a quanto pare, però, tu non ne sai nulla!”.
 
Io, in effetti, ero all’oscuro di tutto quello che avevo sentito e capii in fretta che c’era dell’altro da scoprire: “La loro ultima vacanza, dici? Quante ne hanno fatte? Per quanto sono stati insieme?”.
 
“Tre anni, tra tira e molla…mi dispiace che tu lo venga a scoprire così…”.
 
“Ma Jean mi ha detto di aver sofferto a causa di Rebecca e del suo tradimento…” – provai a spiegarmi, io, che iniziavo ad essere sempre più confusa.
 
“Davvero afflitto, sì, così afflitto che un paio di mesi dopo aver lasciato mia sorella, era già fidanzato con un’altra!” – disse ironicamente la biondina, ma, dal mio silenzio, evinse che avrebbe dovuto proseguire con ulteriori dettagli riguardo quella faccenda- “Sono stati buoni amici per anni, poi hanno deciso di fidanzarsi quando frequentavano l’ultimo anno di superiori, era una relazione seria: cene di famiglia, feste e vacanze sempre insieme, regali…insomma, le cose che fanno le coppie. Dopo il primo anno, però, sono iniziati i problemi, litigate furibonde, incomprensioni, eppure ogni volta riuscivano, in qualche modo, a chiarirsi, o, almeno, a riprovarci. Si dicevano sempre che sarebbe stato l’ultimo tentativo, ma nessuno sapeva mai quale delle tante volte sarebbe stata veramente quella definitiva. Da un lato, ci auguravamo un po’ tutti che il loro rapporto terminasse, perché negli ultimi tempi era parecchio tormentato. In ogni caso, durante l’ultima vacanza c’è stato l’ennesimo screzio e Jean non ha aspettato più di tanto per farsi le valigie e tornare in Francia. Mia sorella, così, ha trascorso il tempo rimanente con Antonio, credendo si sarebbe trattata di una storiella estiva, mentre Jean, era certa che si stesse dando da fare, una volta tornato a casa, se capisci cosa intendo…poi beh, ecco l’ennesima folle decisione: andare a convivere per sistemare le cose, nonostante tutto quello che era appena accaduto. Inutile dire che sono durati qualche mese, in quanto, realmente, mia sorella pensava ancora ad Antonio e Jean…beh, a tutte e nessuna in particolare, forse era semplicemente stanco della situazione sfinente…e questo è tutto!”
 
Quelle parole, dette con tale naturalezza, mi erano rimaste impresse, incise nella mente, bruciavano tremende e risuonavano forti, colme di rabbia e di dolore: “Scusa…io devo andare via…”.
 
Maria sembrava sinceramente dispiaciuta: “Ma avevi promesso che ti saresti fermata anche a cena…”.
 
Non risposi, riuscii esclusivamente a pensare che la persona della quale avevo scelto di fidarmi, con la quale avevo passato dei momenti che reputavo speciali, non era altro che un bugiardo, un traditore, e proprio non potevo contenere le lacrime che fioccavano lente e mi rigavano le guance, ormai umide.
 
Afferrai frettolosamente la tracolla e mi diressi celermente verso la porta, che aprii, sicura, uscendo da quella casa infernale, ma Maria mi corse dietro e, sul pianerottolo, mi afferrò per un polso, facendomi voltare, per la prima volta la vidi seria, fissarmi dritto negli occhi: “Angelique, io non so perché Jean ti abbia mentito o perché abbia omesso alcuni fatti, e mi dispiace che tu sia venuta a sapere tutta la storia in questo modo, da me soprattutto, che forse non riuscirò mai a dare una visione oggettiva della vicenda, in quanto sorella di Rebecca, ma proprio perché la conosco, posso dirti con certezza di non essere troppo dura con lui, perché, dopo quella sera, Rebi si è tormentata, domandandosi per quale motivo, in tre anni, mai Jean l’abbia guardata nel modo in cui quella sera ti amava teneramente, anche solo osservandoti con lo sguardo che traboccava d’affetto…”.

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Capitolo 23
*** Amici ***


“Che ci fai già qui? Avevi detto che saresti tornata dopo cena!”. Simon mi aprì la porta di casa sua con un’espressione visibilmente perplessa.
 
“Ci sono i tuoi in casa?” - gli domandai, io, risoluta.
 
“No, c’è solo il fidanzato che mi hai chiesto di intrattenere settimanalmente!” – esclamò ironicamente lui, ma lo scansai ed entrai: “Bene, così posso urlare liberamente! Dov’è quell’idiota del tuo amico?”.
 
Simon, con un gesto, m’indicò le scale, che portavano alla sua camera da letto e poi mi seguì mentre io le percorrevo in fretta e furia.
 
Quando Jean mi vide spuntare dal nulla, fu sorpreso: “Amore, ma dove sei stata tutto questo tempo?”.
 
“A trovare dei validi motivi per lasciarti!” – gridai, senza esitare un istante.
 
Jean e Simon si scambiarono uno sguardo accigliato, così decisi d’iniziare quello che sarebbe stato un discorso fin troppo lungo: “Ci sei solo andato a letto qualche volta con Rebecca, vero? Tre anni, tre maledetti anni di fidanzamento! Mi merito di essere presa in giro in questo modo, forse?”.
 
Jean si rivolse immediatamente all’amico: “Gliel’hai detto?”.
 
Tuttavia, prima che Simon potesse rispondere, fui io ad aggredirlo: “Lo sapevi e non me ne hai mai parlato?”.
 
“Non me l’hai mai domandato Angelique” – tentò di difendersi Simon, ma diede decisamente la risposta errata.
 
“Ah, quindi te lo avesse esplicitamente chiesto, tu le avresti spiattellato tutto, anche quando avevi promesso che avresti taciuto? Bell’amico…” – Jean lo aveva appena trattato come se Simon avesse commesso uno dei peggiori reati, così presi le sue parti.
 
“Non è stato lui a dirmelo, Jean! L’ho scoperto da sola!”.
 
“Ti avevo detto di non indagare sul mio passato, ne avevamo parlato più volte, anche ultimamente!” – Mi rispose severamente Jean, nel vano tentativo di farmi sentire colpevole.
 
“Infatti, non sono andata in cerca d’informazioni, mi sono arrivate casualmente, per una serie di eventi ed incontri che non so se definire fortunati o meno!”.
 
Ci fu un secondo di silenzio, poi Jean riprese la parola: “E questi eventi riguardano il mercoledì? Non sono stupido, Angelique, tutti i pomeriggi in cui sparisci e ti fai sentire quando ormai è notte fonda…mi vuoi dire che fai?”.
 
Trassi un profondo respiro: “Vado da una stramaledetta psicologa, di certo non ti tradisco, non come tu facevi con Rebecca, e magari fai anche con me!”.
 
Jean rimase inizialmente senza parole, ma poi si voltò nuovamente verso Simon: “Tu lo sapevi! Per questo ogni mercoledì mi proponi qualche giornata “solo uomini”, non è certo perché hai piacere di stare con me, no, è perché sei occupato a coprire le bugie di qualcun altro. Ma poi si può sapere perché tenermi all’oscuro di una cosa del genere? E soprattutto, perché dirlo a Simon, ma non a me! Credevo di essere importante per te, Angelique! Faccio i miei complimenti ad entrambi, ad un migliore amico ed una fidanzata che si divertono a mentirmi!”.
 
Prima che io potessi urlargli contro, Simon alzò la voce: “Adesso basta! Andate fuori da casa mia a discutere dei vostri problemi di coppia, sembrate due adolescenti isterici, ma soprattutto, non provate mai più ad accusarmi di essere un bugiardo o un pessimo amico, perché se voi non sapete gestire la vostra relazione ed essere sinceri l’uno con l’altra, io non ho colpe, anzi, direi che potete ritenervi fortunati del fatto che io copra sempre tutte le vostre cazzate!”.
 
E fu così che Simon, furente come mai l’avevo visto prima d’allora, ci accompagnò alla porta e ci congedò bruscamente.
 
Io e Jean, invece, avremmo dovuto fare i conti con le nostre menzogne, con le nostre paure, la fragilità, la rabbia ed il rancore, i troppi dubbi mai leniti. Un passato inaspettato, un presente taciuto ed un futuro incerto, dopo la bomba ad orologeria che Maria aveva involontariamente fatto scoppiare. Avrei voluto avere delle risposte, desiderai che si trattasse tutto di un enorme equivoco, ma sapevo con certezza che così non poteva essere. Guardando negli occhi Jean, non potevo far altro che pensare alle sue labbra che si posavano per tre anni su quelle di Rebecca, a tutti i “ti amo”, che parevamo così sinceri nei miei riguardi, ma che, a quanto pare, erano solo alcuni della lunga serie che aveva già pronunciato, veri o meno che fossero. Mi sentii persa, tradita, ferita, persino umiliata e, quel ch’era peggio, fu che a procurarmi queste sensazioni era stata la persona che amavo, e che, nonostante tutto, non potevo smettere di volere accanto a me, neppure per un istante. Tuttavia avevo perso fiducia, mi era bastata qualche fotografia, un breve racconto, e tutto il mondo sembrava essermi crollato addosso. Sentivo il peso di ogni momento passato con Jean, farsi sempre più insopportabile, ipotizzando che ne avesse trascorsi di altrettanto speciali, con qualcuno che non fossi io. Ero gelosa del suo passato o forse mi sentivo delusa dalle sue omissioni, nonostante le domande che più volte gli avevo rivolto. Capii che l’amore è tutto questo, che spesso dietro una tenera carezza si cela una bugia, tra i baci passionali si nasconde un segreto, che quando le sue dita intrecciate alle tue, sembrano appartenersi, tra quel calore, tra quell’affetto, c’è qualche insidia, qualche errore, che non sai se potrai perdonare o perdonarti.

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