Pieces of Life

di LazySoul
(/viewuser.php?uid=126100)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo primo ***
Capitolo 2: *** Capitolo secondo ***
Capitolo 3: *** Capitolo terzo ***
Capitolo 4: *** Capitolo quarto ***
Capitolo 5: *** Capitolo quinto ***
Capitolo 6: *** Capitolo sesto ***
Capitolo 7: *** Capitolo settimo ***
Capitolo 8: *** Capitolo ottavo ***
Capitolo 9: *** Capitolo nono ***
Capitolo 10: *** Capitolo decimo ***



Capitolo 1
*** Capitolo primo ***


Ciao a tutti!

Questa storia fa parte della serie "Mai Scommettere col Nemico composta da: “Mai Scommettere col Nemico” (http://www.efpfanfic.net/viewstoryv.php?sid=1889480&i=1) e “Mai Fidarsi del Nemico” (http://www.efpfanfic.net/viewstoryv.php?sid=2361353&i=1), che vi consiglio vivamente di leggere. Questo capitolo infatti si colloca dopo il quinto capitolo di "Mai Fidarsi del Nemico". 
Spero che la storia vi piaccia e se avete voglia di lasciarmi una recensione sarò felice di rispondervi! ;3
Un abbraccio,
LazySoul

 

 

 
Capitolo primo
(Luna's point of view)

 

Cantare mi rendeva sempre di ottimo umore, era il mio talismano contro le ingiustizie della vita, contro le storie tristi, contro i desideri irrealizzabili...

Sì, quando cantavo era tutto migliore, vedevo ogni cosa da una prospettiva diversa e in un certo qual modo il mondo mi sembrava più luminosa.

Eppure quella volta era impossibile poter osservare la situazione da quel punto di vista totalmente anti-pessimista che di solito possedevo, quindi non provai neanche a cantare, certa che non sarebbe servito a nulla.

Era semplice fingere, non che fossi un’esperta in materia, ma quella volta mi riuscì molto meglio di quanto potessi mai immaginare.

Fu semplice voltarsi verso Hermione e rassicurarla con un sorriso, ma vedere la sua espressione preoccupata ed ignorarla lo fu un po’ di meno però.

Ignorai la voce tagliente e maleducata del Mangiamorte che rimase lì, impalato davanti a me ad insultarmi per quelle che mi parvero ore, mentre io abbassavo in modo impercettibile il capo, fingendomi sottomessa e contrita come avrei dovuto essere.

In realtà sentivo dentro una forte rabbia e delusione per me stessa.

Avrei voluto impedire che tutto ciò accadesse, anche se non avevo colpe, anche se avevo fatto il possibile, non era stato abbastanza e questo mi rendeva tremendamente critica nei miei confronti.

Continuai a lavorare, ignorando per quanto mi era possibile il tremito delle mie dita o il dolore in ogni singolo muscolo, soprattutto all’altezza dei lividi che avevo su braccia e gambe.

Lestrange quel giorno era parecchio di cattivo umore, lo avevo provato sulla mia stessa pelle e le cosa non mi entusiasmava particolarmente.

Vidi la piccola Elfa Domestica accanto a me passarmi alcuni calzini e sorrisi anche lei, ricevendo in cambio uno sguardo pieno di genuino stupore.

Possibile che fossi l’unica a combattere la tristezza coi sorrisi?

Ignorai un piccolo Gulippe che si arrampicava su per la mia gamba, sorridendo al pensiero che lì dentro ero l’unica a poterlo vedere.

Spesso mi faceva sentire sola la mia inusuale capacità di percepire e vedere quelle piccole creaturine che non rientravano in nessun libro sulle creature magiche.

Ma papà era stato chiaro: il mio era un dono, quindi non dovevo disprezzarlo, ma coltivarlo.

Agli inizi non avevo preso poi tanto bene la faccenda, anche perché tutti mi avevano sempre presa in giro per ciò che riuscivo a scorgere grazie alla “Vista”.

La prima volta che mi avevano chiamato “Lunatica Lovegood” avevo sorriso, non capendo a cosa si riferissero, la seconda anche, ma quando mi ero poi trovata da sola, avevo incominciato a piangere.

Di solito non mi lasciavo travolgere dalla tristezza, mi impegnavo in ogni modo di trovare qualcosa di positivo in ogni istante, ma quella volta avevo pianto per quelli che mi erano sembrati secoli, chiusa nel bagno di Mirtilla Malcontenta, chiunque fosse passato mi avrebbe scambiata per il fantasma di quella povera ragazza, quindi non mi ero preoccupata di nascondermi ulteriormente.

Ero stata per anni senza dei veri amici, certo ogni tanto chiacchieravo con qualcuno, spesso però erano più gli insulti che dovevo sopportare rispetto alle parole gentili.

Ma tutta quella solitudine non mi era mai pesata molto.

Ero sempre stata sola, quindi non sapevo come fosse avere qualcuno su cui contare.

Non potevo sentire la mancanza di qualcosa che non avevo mai avuto.

Quando sentii il Mangiamorte gridare pensai che ce l’avesse nuovamente con me, anche perché proprio in quell’istante mi cadde a terra un calzino e dovetti raccoglierlo, rischiando di far cadere la cesta colma di indumenti.

Ero stupida della mia goffaggine, ma fui ancora più sconvolta quando vidi che quell’uomo malvagio se la stava prendendo con un giovane Tassorosso.

Il Gulippe, che ormai si era sistemato comodamente sulla mia spalla, continuava ad emettere suoni simili a grida di disapprovazione, mentre muoveva le manine chiuse a pugno.

La sua specie era per natura pacifica e non sopportava le urla, di solito si trovavano lungo i corsi d’acqua, oppure nei boschi, ma non mi stupì trovarlo lì, forse perché in fondo Hogwarts sorgeva proprio accanto ad un lago ed una foresta...

Quel povero Tassorosso era davvero terrorizzato, tanto che tremava in continuazione e aveva ormai le lacrime agli occhi.

Sbarrai gli occhi quando vidi chiaramente una saponetta volare sulle teste di tutti i presenti e colpire con estrema precisione il Mangiamorte.

Sapevo chi aveva osato tanto anche senza aver bisogno di voltarmi e provai l’irresistibile desiderio di frappormi tra quell’uomo e l’unica amica che avessi mai avuto, ma rimasi immobile, con le braccia e le gambe che mi tremavano, i ricordi delle torture appena subite ancora troppo vivide nella mia mente e il desiderio di rimpicciolire e di non esser vista da nessuno che m’impediva di fare ciò che il mio cuore mi diceva.

Avevo sempre odiato questa mia duplicità, questo mio essere costantemente in lotta con me stessa, anche se non lo mostravo mai a nessuno.

Seguii i passi del Mangiamorte come se mi trovassi un un incubo e sapessi perfettamente di non potermi muovere e di non poter fare assolutamente nulla per aiutare Hermione.

La figura incappucciata cominciò ad urlarle contro, ma lei era impassibile, una lastra di ghiaccio fiera e coraggiosa.

Avrei dato qualsiasi cosa per essere come lei, per poter affrontare ogni cosa in quel modo così... regale.

Hermione sembrava una regina privata della corona, ma pronta a fare qualsiasi cosa pur di riprendersela ed era bella anche nelle terribili circostanze in cui ci trovavamo.

Sorrisi quando lei gli sputò sulla maschera, anche se la mia espressione cambiò radicalmente quando lui la cruciò.

Hermione non pronunciò parola, nemmeno un verso le uscì dalle labbra e quel suo comportamento spazientì l’uomo che la colpì con un calcio.

Feci qualche passo, senza rendermene veramente conto, verso di loro, dicendomi che dovevo fare qualcosa per aiutarla, ma la piccola Elfa Domestica mi si piantò davanti, spingendomi con le manine a tornare indietro.

La mia amica venne trascinata fuori dalla stanza e il Gulippe, che continuava a urlare maledizioni contro il Mangiamorte s’infervorò ulteriormente, balzando con goffaggine a terra per seguire l’uomo vestito di nero.

«Torni al lavoro, la prego», disse l’Elfa, provando a sospingermi verso i panni da lavare.

Mi lasciai guidare ignorando il forte senso di colpa, sperando che Hermione stesse bene e che il suo coraggio e la sua cocciutaggine non la mettessero in ulteriori problemi.

 

***

 

Quando il giorno dopo mi svegliai romasi sconvolta nel notare che nessuno mi aveva scaraventata giù dalla mia misera brandina come ogni mattina.

Che fosse ancora troppo presto era fuori questione, dato che potevo sentire chiaramente numerose voci e passi che ogni tanto percorrevano il corridoio davanti alla mia cella.

Cosa poteva esser successo? I Mangiamorte erano diventati di colpo magnanimi e gentili?

Davvero improbabile.

Mi sollevai a sedere, lisciandomi senza un apparente motivo i jeans sporchi che indossavo da poco più di una settimana, prima di sorridere ed iniziare a passarmi le dita tra i capelli come se fossero i denti di una spazzola.

Improvvisai una treccia veloce, ma non avendo nessun codino non potei fissarla, lasciando che si disfacesse lentamente.

Sospirai, prima i sentire chiaramente qualcuno girare le chiave nella toppa della porta della mia cella.

Entrò un Mangiamorte ma, invece di ordinarmi di uscire, entrò nella mia stanzetta e si richiuse la porta alle spalle.

Aggrottai le sopracciglia per un istante, prima di inorridire: voleva forse farmi del male?

Cercai di rimanere impassibile, sapendo perfettamente che mostrarsi deboli serviva solo ad aumentare il loro compiacimento, mentre lo vedevo avvicinarsi a me.

Quando il Mangiamorte si tolse la maschera, mostrandomi il volto di Blaise Zabini rimasi sconvolta a fissarlo.

Sembrava imbarazzato, lo si poteva vedere chiaramente da come torturava i bottoni del suo povero mantello.

«Cosa ci fai qui?», gli chiesi, ignorando il battito impazzito del mio cuore.

Quel ragazzo era bello, su questo non c’erano dubbi di alcun tipo, mi dispiaceva solo di essere solo una pazza neanche troppo carina ai suoi occhi.

Non avevo mai pensato ai ragazzi seriamente, non avendone mai avuto uno, ma quando Zabini mi aveva chiesto delucidazioni sulle Piastelle quella mattina di quelli che mi sembravano anni prima, qualcosa dentro di me si era incrinato, nell’illusa convinzione che forse qualcosa con cui attirare la sua attenzione ce l’avevo.

Ovviamente avevo aperto gli occhi quando lui aveva rifiutato categoricamente la mia mano e quindi il mio aiuto quando Harry lo avevo steso con un pugno.

Eppure la sua presenza smuoveva qualcosa che nemmeno io sapevo definire, qualcosa che mi spaventava terribilmente.

«Sono qui per aiutarti», disse e la sua voce bassa e calda mi avrebbe sciolta se non avessi avuto la prontezza di schermare i miei sentimenti.

Mai mostrarsi deboli, mi dissi, anche se sapevo di avere proprio il tipico aspetto da damigella in pericolo.

«Me?», chiesi sconvolta, passandomi una mano tra i capelli, disfando così gli ultimi residui di treccia che avevo: «Perché me?»

La mia domanda lo colse impreparato, forse non si aspettava che gli domandassi spiegazioni, anche se avrebbe dovuto immaginarlo, no?

«Senti, io sto semplicemente facendo un favore ad un amico, ok? Non so perché Malfoy vuole aiutarti, forse perché sei amica della Granger, forse perché spera di ammansire quella belva che si ritrova come ragazza... non lo so perché, ma io rimango suo amico e quindi...»

«Va bene», dissi alzandomi e sorridendogli: «Cosa devo fare? Seguirti?»

Sembrò stupito, mentre mi fissava con quei profondi e bellissimi occhi azzurri che mi piacevano tanto.

«Non ti opponi? Non ti ribelli?», chiese.

«Perché dovrei? Hai detto che vuoi aiutarmi», sussurrai, notando come dei piccoli Verilli che fluttuavano nell’aria si stessero colorando di un allegro color verde mela, dimostrandomi che non stava affatto mentendo e che mi potevo fidare di lui.

Dopo pochi istanti quelle creaturine sembrarono disperdersi nell’aria, come se la loro presenza fosse stata tutto un sogno.

«Giusto...», sembrò rimanere a soppesare la situazione per quelle che mi parvero ore interminabili, prima di tirare fuori dal mantello una fiala con all’interno un liquido trasparente.

«Che cos’è?», chiesi, avvicinandomi ed afferrando quel piccolo contenitore.

Ignorai il brivido che mi attraversò la pelle quando entrai in contatto con la sua pelle e non distolsi lo sguardo dai suoi occhi.

«Distillato della Morte Vivente», disse: «Ti addormenterà per diciotto ore all’incirca»

Annuii, ma non stappai la fiala: «E dove mi sveglierò?»

«Sembra brutto detto così, ma... beh... nel mio letto. Al momento siamo a corto di stanze per fuggiaschi», il suo tono sarcastico mi fece sorridere.

Tolsi il tappo al piccolo contenitore e lo sollevai: «Alla tua salute», sussurrai, prima di ingerirne il contenuto.

Due secondi dopo mi tremarono violentemente le gambe e sarei caduta, se lui non mi avesse afferrata.

Lo guardai negli occhi fino a quando non sentii le palpebre troppo pesanti per poter sopportare la loro pesantezza.

E poi mi persi in un dolce sogno dai colori del cielo terso in Primavera.

 

***

 

Sentivo la fastidiosa presenza di Mantrigli nell’aria, quegli esserini a forma di piccole falene nere erano davvero odiosi, non facevano altro che urlicchiare e disturbarmi coi loro continui battibecchi.

Di solito spuntavano solo nelle situazioni imbarazzanti, in quelle di profonda tensione tra due o più persone o poco prima che iniziassero dei litigi.

Sperai di poter evitare tutti e tre quei contesti, anche se qualcosa di indefinito mi diceva chiaramente di non contarci troppo.

Mi rigirai nel letto caldo ed accogliente, attorcigliandomi tra le coperte ed odorandone a fondo l’odore.

Provai ad ignorare ancora un po’ i Mantrigli, affondando il volto nel cuscino e provando a regolarizzare nuovamente il respiro per potermi rilassare abbastanza da poter tornare a dormire.

Dopo pochi secondi però mi rassegnai e stiracchiai pigramente, sentendo ogni singolo muscolo di braccia e gambe distendersi all’inverosimile, prima che li rilasciassi all’istante.

Solo allora aprii gli occhi, rimanendo momentaneamente accecata dalla luce nella stanza.

Mi trovavo in un letto verde e argento, non c’era quindi bisogno di porsi troppe domande su chi mi stesse gentilmente ospitando, ma ero comunque curiosa di studiare quel nuovo ambiente.

Fu sconvolgente rendersi conto che non indossavo i vestiti sporchi che avevo quando avevo bevuto la pozione di Zabini, ma una maglia scura e dei pantaloni da ginnastica. Quegli indumenti non erano proprio della mia taglia, anzi erano enormi e maschili.

Aggrottai le sopracciglia, mentre mi sollevavo dal letto, ignorando l’improvvisa vertigine e muovendo qualche passo.

La stanza era come un comune dormitorio della scuola, tranne per il fatto che non c’erano altri letti e i colori erano totalmente diversi da quelli che ero abituata a vedere nella mia camera.

Faceva meno freddo di quanto avessi immaginato e l’aria era satura di un odore maschile che non sapevo riconoscere, forse perché mio papà non era mai stato un’amante delle boccette di profumo...

«Finalmente ti sei svegliata... cominciavo a preoccuparmi»

Mi voltai verso la voce e rimasi imbambolata per qualche minuto, persa in due profondi occhi blu che mi scrutavano con attenzione.

Mi sentivo vagamente in imbarazzo, ma cercai di mostrarmi abbastanza sicura di me e accennai un sorriso, vedendo come i Mantrigli si agitavano alla ricerca di una via d’uscita da quella stanza.

Provai l’impulso di andare alla porta e di aprirla per loro, ma non volevo risultare più strana di quanto già non sembrassi.

«I vestiti maschili non ti donano. Sembri ancora più magra di quanto tu non sia in realtà», disse, alzandosi dalla poltroncina verde in cui si trovava.

Era davvero alto, soprattutto rispetto al mio metro e sessantadue scarso, ma riuscii a non farmi intimidire e scrollai le spalle: «Non mi da affatto fastidio indossare abiti maschili»

Ci fissammo a lungo, ma probabilmente il più imbarazzato era lui, anche se non avrei saputo dire cosa me lo faceva pensare.

Ad un tratto sembrò riscuotersi: «Hai fame?», chiese, facendo qualche passo verso un tavolino in legno che non avevo notato, sopra il quale si trovava un vassoio colmo di cibo.

«Per me?», chiesi, con gli occhi sognanti, mentre lo vedevo uscire dal suo stato d’imbarazzo ingiustificato.

Annuì, accennando un  inchino e scostando una sedia dal tavolo, come se volesse invitarmi a sedere.

Sorrisi, raggiante, sentendomi come la principessa che non ero mai stata, quando si mise a servirmi come un maggiordomo, parlando in falsetto e facendomi dimenticare per lunghi istanti tutte le barbarie che avevo subito.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo secondo ***


Capitolo secondo
(Pansy's point of view)

 

 

Mi mossi lentamente, stando attenta ad ogni rumore che sentivo provenire alla stanza del piano superiore della palazzina.

Avevo la bacchetta stretta nella mano destra che mi infondeva un po’ di calma, ma non abbastanza da fermare il tremito di nervosismo che mi scuoteva.

Non staccavo gli occhi dal mantello di Nott, che si trovava a pochi passi davanti a me. Lo seguivo senza pensare, pronta a tutto, allo stesso modo in cui i bambini piccoli si fidano ciecamente dei loro genitori, percorrendo i loro stessi passi.

Theodore era di spalle, la bacchetta alzata ad illuminare il corridoio buio e angusto in cui ci trovavamo.

«Stammi vicino», sussurrò, lanciandomi una veloce occhiata, come se avesse voluto accertarsi di essere ancora seguito.

Annuii, stringendomi nel mantello, mentre ignoravo i caldi brividi che la sua voce bassa e roca per il nervosismo mi avevano causato.

Salimmo piano i gradini che scricchiolavano sinistramente al nostro passaggio, fino a quando ci trovammo di fronte alla stanza n°17.

Ci disponemmo ai lati della porta, guardandoci negli occhi, prima di aprirla con un incantesimo ed entrare.

La stanza era deserta, colma di oggetti impolverati e rotti, come se anni prima ci fosse stata una battaglia dentro quelle quattro mura e nessuno fosse venuto a dare una pulita.

Al centro del pavimento un lampadario di vetro era totalmente distrutto, le finestre aperte permettevano ad un leggero venticello gelido di muover le tende color magenta lacerate, un pianoforte a coda era conciato davvero male, come se un taglialegna babbano impazzito fosse passato di lì e avesse deciso di sfogarsi sulla povera tastiera. Ma l’oggetto che più colpiva l’attenzione di tutti era una bambola di pezza con il vestitino strappato ed un occhio chiaro che le pendeva in modo inquietante dal viso color panna, mentre le labbra erano distorte in un sorriso che, a prima vista, sembrava malefico.

L’unico oggetto immacolato in tutta la stanza era una poltrona rivestita da federe color verde muschio con un paio di cuscini sui braccioli.

Aggrottai le sopracciglia mentre studiavo quell’oggetto che sembrava così fuori posto...

«La poltrona», sussurrai all’orecchio di Theodore, ignorando la morsa nello stomaco che lo stargli così vicino mi provocava.

Annuì pensieroso e mi lanciò una veloce occhiata d’intesa.

Ancora non capivo perché, tra tanti ragazzi ed adulti il Signore Oscuro aveva incaricato me, Theodore e Greyback di riportare a scuola, vivo, il professor Lumacorno. Lo trovavo uno spreco di tempo, forse perché quel professore mi era sempre sembrato un’inutile omuncolo senza spina dorsale che amava circondarsi di ragazzini adoranti altrettanto privi di spina dorsale.

L’unica cosa che mi era piaciuta di lui era il suo essere fin troppo ingenuo, così da permettermi ogni volta di copiare i compiti da Daphne e prendere ottimi voti. Oh sì, quello si che era un tratto del “professore-meno-interessante-di-sempre” da tener presente e di cui fare buon uso...

Mi ero distratta giusto il tempo di un battito di ciglia, ma era bastato a Theo per allungarsi con un gesto fulmineo e aggraziato, puntando la bacchetta contro la poltrona.

«Buonasera, professore», disse, spingendo maggiormente il legno contro la fodera dei cuscini: «Mi hanno mandato a prenderla»

Affiancai il mio amico, portandomi alla sua destra e puntando a mia volta la bacchetta verso la poltrona.

Ero pronta a combattere, ma sapevo dentro di me che non ce ne sarebbe stato bisogno: Horace Lumacorno non ci avrebbe attaccati, prima avrebbe provato a comprarci o a convincerci di essere dalla nostra parte e solo come ultima opzione avrebbe preso in considerazione uno scontro.

Al posto della poltrona comparve, rannicchiato a terra proprio l’uomo che stavamo cercando e i suoi occhietti acquosi, così simili a quelli di Minus, si fissarono nei nostri.

«Buonasera, non pensavo che avrei avuto visite, se no mi sarei preoccupato di mettere tutto a posto», il tono di voce acuto dimostrava quanto fosse nervoso e agitato, mentre osservava con preoccupazione le bacchette che gli stavamo ancora puntando contro.

«Certo», disse Theo, alzando gli occhi al cielo con fare scocciato; a quanto pare non ero l’unica a cui il professore non andava molto genio: «Ora la prego di seguirmi senza fare storie, se no sarò costretto ad usare le maniere forti»

Gli occhi piccoli dell’uomo si sbarrarono, raggiungendo quasi una grandezza normale, mentre notavo con disgusto il sudore formatosi come una patina bagnaticcia sulla sua fronte pelata cominciare a raccogliersi in gocce e a scendere lungo la sua tempia.

Avrei potuto vomitare.

«Prendigli la bacchetta», mi disse Theo, facendo un veloce gesto col capo verso di me.

Eseguii gli ordini, facendo attenzione a non farmi cogliere alla sprovvista da qualche trucco del vecchio professore e allungai la mano, sfilando dalla tasca interiore del mantello dell’uomo il suo legno.

Disarmato quell’uomo aveva un’aria ancora più misera.

«Vada avanti professore, noi la seguiamo fino all’esterno», disse Theo, puntando la bacchetta contro la spalla destra del professore, incitandolo ad avanzare.

Io seguivo entrambi a breve distanza, ignorando il prurito continuo che la maschera da Mangiamorte calcata sul mio viso mi causava.

Non ero adatta a quel tipo di cose, odiavo dovermi nascondere così e sperare che la gente non mi riconoscesse. Spesso utilizzavo un incantesimo che mi deformava la voce fino a renderla bassa come quella di un uomo per proteggere la mia identità, ma a volte pensavo che non bastasse per adempiere in modo corretto al mio lavoro.

I miei genitori erano fieri di me, fieri del mio essere una giovane Mangiamorte tra le giovani schiere predilette dal Signore Oscuro, mentre io non facevo altro che odiare me stessa.

Mi capitava con sempre più frequenza di chiedermi quando la mia vita aveva cominciato a diventare il groviglio che era ora. Insomma, fino a due anni fa era tutto maledettamente perfetto, o quasi. Ero fidanzata con il partito migliore che mi potesse mai capitare. Draco Malfoy era ricco, bello e stronzo, non mi illudevo certo che la mia vita sarebbe stata semplice con lui, ma non mi ponevo ancora domande a proposito. Ero convinta che un giorno, svegliandosi, lui si sarebbe reso conto di amarmi quanto io amavo lui, che sarebbe corso da me, inginocchiandosi di fronte a tutta la Sala Grande urlando i suoi sentimenti nei miei confronti. Ma quel giorno non era arrivato e io avevo capito presto che non sarebbe mai arrivato.

Era stato gentile da parte di Malfoy disilludermi dalla mia ferma convinzione di essere qualcosa in più di una amica per lui (e non solo per quanto riguardava il passare qualche notte insieme a fare sesso), anche se gli ci erano voluti quattro anni. Tutto il quinto anno era stato un Inferno, nel senso letterale della parola e questo grazie alla confessione spassionata di Malfoy che, dopo aver passato una delle nostre tante notti assieme, mi aveva guardata dritto negli occhi e detto chiaramente che non mi amava e che non ci sarebbe mai riuscito, che ci aveva provato per anni e che non ne era in grado. Gli avevo chiesto il motivo, in modo patetico mi ero letteralmente prostrata ai suoi piedi supplicandolo di dirmi come voleva che io fossi e io lo sarei stata per lui.

Le uniche parole che avevo ricevuto però mi avevano spezzato il cuore: «Tu non capisci, Pansy. Io non posso darti ciò che vuoi perché sono innamorato di un’altra»

Ovviamente avrei voluto comportarmi da persona matura e parlargli con calma, cercando di capire meglio, ma mi ero ritrovata invece ad urlargli contro e a battere i pugni contro il petto come un’isterica.

In quel momento avevo provato a distruggere il contratto di matrimonio che ci legava, perché non volevo stare con una persona che ne amava un’altra. Avevo scritto a mia madre una lettera, chiedendole un consiglio e lei mi aveva mandato un’imbarazzante strilettera dove mi diceva chiaro e tondo, anche se con diverse parole: «Continua a fare la puttana, l’importante è che tu ti sposi con Malfoy perché ormai sei compromessa»

Avevo pianto per giorni e, per quanto Daphne mi consolasse e Malfoy cercasse di fare il gentile per rimediare alla sua impossibilità di amarmi l’unico che mi era stato davvero utile era stato Theodore.

Alzai lo sguardo, fissandolo contro il mantello del mio migliore amico.

Ricordavo il momento esatto in cui avevo incominciato ad amarlo; quel ricordo era impresso a fuoco nella mia mente ed ero certa che non se ne sarebbe mai andato.

Spesso ero convinta di aver semplicemente incanalato i sentimenti che avevo provato per Malfoy verso Theodore, in modo da soffrire di meno, ma dentro di me sapevo che non era affatto così. Era talmente diverso il modo in cui avevo amato Malfoy da quello in cui amavo tutt’ora Theo...

«Bravi, ragazzini», disse la voce tonante di Greyback, spuntando all’improvviso  e posando gli occhi folli sul viso pallido e sudaticcio per professor Lumacorno: «Andate a cercare gli altri che io mi occupo di portare questo qui dal Signore Oscuro»

Possibile che fosse sempre compito nostro fare il lavoro sporco mentre Greyback poi si prendeva il merito di tutte le catture?

L’istante dopo erano entrambi scomparsi grazie alla Materializzazione, lasciando me e Theo da soli.

Sospirai, sfilandomi dal capo la maschera da Mangiamorte, vedendo il mio amico fare lo stesso. Ci fissammo negli occhi e, automaticamente, provai il forte desiderio di gettargli le braccia intorno al collo, accarezzandogli i capelli scuri e mossi, per poi...

«Chi è il prossimo?», chiesi, sperando che la mia voce non fosse stata acuta quanto sembrava alle mie orecchie.

«Non lo so», disse, scrollando le spalle, prima di allungare una mano verso di me.

M’irrigidii, seguendo con gli occhi sbarrati il suo gesto, sentendo fin troppo bene le sue dita afferrare una ciocca di capelli per sistemarla dietro al mio orecchio.

Il batticuore era imbarazzante, allo stesso modo in cui lo era il mio viso paonazzo.

Com’era possibile che con un solo piccolo gesto di amicizia mi causasse una tachicardia?

«Andiamo di sopra mentre aspettiamo che Greyback torni»

Lo seguii nuovamente su per la scalinata scricchiolante ed entrammo nella stanza dove avevamo trovato il professor Lumacorno.

Ci fermammo sulla soglia, lanciandoci una veloce occhiata, prima che lui mi facesse l’occhiolino: «Pronta a pulire?»

Feci una smorfia, prima di tirargli per scherzo un pugno sul braccio e di sorridere: «Solo se mi dai una mano»

Con la magia fu davvero semplice rendere quella stanza come se fosse stata nuova.

Il lampadario tornò al suo posto e tutte le schegge di vetro si ricomposero, formando piccole ghirlande iridescenti che pendevano dai bracci in ottone. Le tende tornarono intere al loro posto come anche l’occhio della bambola di pezza.

Appena finimmo di sistemare ogni singolo oggetto ci sedemmo su un grande divano dello stesso colore delle tende, adagiandoci comodamente contro i cuscini e rilassando i nostri corpi tesi dal nervosismo provato poco prima.

Avevo paura di momenti simili, paura di dire qualcosa di sbagliato, rovinando tutto.

Era per questo che non volevo dirgli quanto l’amavo, per paura di rovinare la nostra amicizia. E, in tal caso, da chi sarei potuto andare dopo a farmi consolare?

Malfoy? O, meglio, la Mezzosangue Granger?

Non era proprio odio quello che provavo nei suoi confronti, forse rimpianto era la parola corretta per descrivere i miei sentimenti verso ciò che lei aveva e io no. Allo stesso tempo però avevo paura che quello stronzo la ferisse. Non avrei mai augurato a nessuno di soffrire ciò che avevo dovuto subire io, nemmeno ad una sporca babbana come lei.

Era così assurdo pensare che lui l’amasse, eppure la guardava in un modo così dolce e possessivo... a me non aveva mai guardato così. Mai.

«Perché pensi a Malfoy?»

Sussultai a quelle parole, voltandomi verso Theo, notando che anche lui mi stava guardando.

Da quanto mi osservava?

«Non pensavo a lui», mentii, accennando un sorriso tirato.

«Va bene. Allora dimmi che cosa ti rendeva così triste»

Tirò fuori dalla tasca dei pantaloni una confezione di gelatine Tuttigusti+1 e la sporse verso di me: «Vuoi?»

Allungai una mano e ne presi una di colore marrone chiaro, sperando che non fosse al gusto di vomito, la rigirai tra le dita un istante, prima di metterla in bocca.

La sensazione calda di star mangiando del pane tostato mi fece sorridere.

«Non stavo pensando a nulla di particolare in realtà», seconda bugia nel giro di due minuti. Non mi ero mai sentita così fuori posto in vita mia, tranne forse quando Malfoy mi aveva detto di amare un’altra. Possibile che la fortunata fosse la Mezzosangue Granger? Ancora faticavo a crederci.

«Non credevo che mi considerassi così stupido», disse, portando alla bocca una gelatina Tuttigusti+1.

Fece una piccola smorfia: «Trippa», si lamentò.

Avrei riso se non avessi saputo che la situazione era delicata: «Non credo che tu sia stupido»

«Non si direbbe», sussurrò, piano, avvicinando il viso al mio.

Probabilmente disse altro oltre quelle parole me, se lo fece, non lo sentii.

Ero distratta dai suoi zigomi alti che creavano ombre scure sulle sue guance, gli occhi color verde scuro tendente al marrone, la fronte ampia coperta in parte da ciocche scure e folte, quelle stesse ciocche che gli circondavano il viso e accarezzavano sensualmente il suo collo e il colletto della camicia bianca che indossava sotto il mantello nero.

Quei capelli neri così diversi rispetto a quelli biondissimi di Malfoy...

Scacciai quel pensiero, distogliendo per un istante lo sguardo, prima di posare di nuovo gli occhi su di lui, puntandoli all’altezza della sua bocca, dove il labbro inferiore era leggermente più carnoso rispetto a quello superiore.

Quanto avrei voluto mordere quel labbro.

Senza pensarci avvicinai ancora di più il viso al suo, sentendo l’odore della sua pelle e l’irrefrenabile desiderio di non fermarmi e di baciarlo.

La porta della stanza si aprì di colpo, facendomi sussultare ed allontanare di scatto da Theo.

«Hey, piccioncini, abbiamo del lavoro da fare, potete tornare alle smancerie più tardi», esclamò la voce tonante di Greyback che, comparso sulla soglia, ghignava mostrando in modo fin troppo inquietante i denti aguzzi.

Non mi capitava spesso di arrossire, ma in quell’istante sentii chiaramente le guance bollenti per il disagio.

Theo si alzò e mi porse la mano.

Non la afferrai, indossando la maschera da Mangiamorte e uscendo dalla stanza come se stessi fuggendo da un branco di mastini impazziti.

Non mi sarei dovuta esporre in quel modo, avvicinandomi così tanto alle sua labbra tentatrici.

E non avrei dovuto nemmeno ignorare l’aiuto che mi voleva dare per alzarmi.

Continuavo a sbagliare, ogni cosa che facevo finiva con lo spezzarsi tra le mie mani maldestre.

Fuori dalla palazzina mi voltai per aspettare gli altri due e, incontrando per un breve istante gli occhi di Theo, decisi che con lui non avrei fatto lo stesso; che sarei stata attenta a non rovinare il sentimento d’amicizia che ci legava.

E per farlo dovevo continuare a custodire il mio amore nei suoi confronti dove nessuno lo avrebbe potuto trovare, nemmeno io.
 

****************************************************************************************
 

Buonasera a tutti! :)

Che ne dite? Vorrei tanto sapere come vi sembra questa storia, se sto riuscendo a caratterizzare e a rendere verosimile Pansy e il suo amore nei confronti di Theo, quindi se avete un po' di tempo mi lasciate una veloce recensione? Anche solo per dirmi in due parole se vi piace o se fa schifo...

Voglio ringraziare di cuore Helena Prince e kelia per aver recensito il capitolo precedente, grazie ragazze ;-*

Spero di riuscire ad aggiornare la storia il prossimo week end con un nuovo capitolo su Luna! xD

Un bacione a tutti! :-*

LazySoul

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo terzo ***


Capitolo terzo

(Luna's point of view)


 

Non avevo mai mangiato tanto in vita mia.

Solitamente la mattina prendevo una tazza di tè, oppure un semplice succo di zucca, da accompagnare con qualche toast con marmellata, oppure dei biscotti al cioccolato.

Eppure quel giorno, seduta di fronte a Blaise Zabini mi ritrovai a mangiare praticamente tutto quello che riuscivo ad afferrare.

Sapevo che il motivo era uno solo: la prigionia mi aveva fatto soffrire la fame ed ora stavo combattendo il buco che sentivo nello stomaco con tutto il cibo che riuscivo ad assimilare.

Non m’importava cosa pensasse il mio nuovo amico di me, anche se una piccola vocina mi suggeriva che mi sarei dovuta sentire a disagio.

Il punto era che solitamente ignoravo tutto quello che suggeriva quella voce, quindi perché iniziare in quel momento?

Afferrai un muffin con dentro lamponi e sopra alcune praline al cioccolato bianco, percependo il mio stomaco brontolare per la fame, anche se ormai era il terzo che mangiavo.

Zabini continuava a guardarmi, lui aveva mangiato semplicemente una fetta di crostata di mele e bevuto un caffè nero senza neanche un po’ di zucchero. Quando avevo visto che portava la tazzina alle labbra avevo storto le labbra al suo posto, al pensiero di quanto la bevanda potesse essere amara.

Comunque non mi toglieva gli occhi di dosso e sembrava stupito da quanto mangiassi.

Una qualsiasi persona normale sarebbe arrossita, accampando qualche scusa ma, sfortunatamente per lui, io non ero affatto normale.

Quindi, mentre addentavo con gusto il mio terzo muffin, gli sorrisi semplicemente, anche se in realtà continuavo a chiedermi perché continuasse a guardarmi.

«Hai ancora fame?», chiese alla fine, spezzando il silenzio senza preavviso e facendomi quindi sussultare.

Non ricordavo che la sua voce fosse così bassa e mi ritrovai, senza rendermente pienamente conto, ad ammirare quel suo timbro profondo.

«Sono stata per una settimana senza cibo, a parte un pezzo di pane di cinquanta grammi al giorno», dissi semplicemente, affondando nuovamente i denti nel muffin.

Un lampo di... qualcosa, che assomigliava in modo impressionante a tristezza, gli attraversò il volto, prima di scomparire sostituito dalla compassione.

«Hai ragione, sono stato indelicato»

Aggrottai le sopracciglia, nascondendomi inconsciamente dietro al muffin, che avevo all’altezza del viso, mentre lo scrutavo.

Aveva ammesso di aver parlato a sproposito o era stato tutto frutto della mia fervida immaginazione?

Nel suo viso vidi quell’espressione, quella che mi aveva sciolto il cuore quando gli avevo parlato quel pomeriggio delle Piastelle. Era un misto di interesse e tenerezza.

Come se per lui fossi una scoperta; qualcosa da analizzare con gli occhi di un bambino.

«Non importa», sussurrai, dopo aver deciso che non era stato tutto frutto della mia fantasia e che, per mostrarmi almeno un po’ educata avrei dovuto rispondergli qualcosa.

«Ti piacciano tanto i muffin, eh?», disse, sorridendomi, ma sembrava in imbarazzo, come se non sapesse come intavolare una conversazione che non sembrasse troppo banale.

«In realtà non li avevo mai mangiati», ammisi, dedicandogli un vero sorriso, non come quello pieno di incertezza che lui aveva appena sfoggiato.

«Ah no? E come mai?», domandò, seguendo ogni mio movimento con occhi attenti.

«Mamma mi preparava i muffin ogni fine settimana, solitamente la Domenica. Li mangiavamo tutti insieme e poi uscivamo in giardino a giocare coi Gulippe», raccontai, sbriciolando tra le dita un pezzo del dolce per poi portarmelo alla bocca.

«Perché non te li prepara più?», chiese, aggrottando le sopracciglia e io sospirai, distogliendo lo sguardo, fissandolo sulla mia tazza di tè ormai vuota.

Lo vidi irrigidirsi, prima di dire: «Oggi sono davvero un pessimo conversatore. Questa è la mia seconda gaffe in meno di dieci minuti. Mi dispiace per tua madre»

«Oh, non dispiacerti. Di sicuro in questo momento è in posto migliore»

Lui sorrise tristemente: «Qualsiasi posto sarebbe migliore di Hogwarts in questo momento, in effetti»

Annuii appena, incerta su come avrei potuto continuare il discorso perché, per la prima volta in vita mia, non volevo che la conversazione s’interrompesse.

Di solito non m’interessava particolarmente parlare con le persone, anche perché spesso nessuno si sforzava abbastanza da cercare di capirmi.

Blaise Zabini invece, con a sua voce bassa e calda, mi stava facendo cambiare idea.

«Il...»

«Cosa...?»

Parlammo nello stesso istante e, senza rendermene conto, arrossi.

Non aveva senso il forte imbarazzo che sentivo, come se avessi voluto dire la cosa giusta ad ogni costo, ma non ci fossi riuscita.

«Scusa...»

«Scusa...»

Mi morsi il labbro inferiore.

Avevamo di nuovo parlato nello stesso momento!

Passarono pochi secondi, mentre noi due ci fissavamo negli occhi, prima che scoppiassimo entrambi a ridere.

Non riuscivo più a smettere, ma mi faceva piacere che anche lui sembrava esser stato colto dallo stesso incantesimo Ridens, soprattutto per il fatto che la sua risata era davvero bella e contagiosa.

Quando alla fine riuscimmo a tornare ad avere un minimo di contegno fu lui il primo a parlare: «Prima hai parlato dei Gullipet, giusto?»

Sorrisi, scuotendo la testa: «Gulippe», lo corressi.

«Beh, sì quelli... Cosa sono?»

«Sono delle piccole creaturine color pesca con il pelo corto che assomigliano molto a degli scoiattoli, ma sono leggermente più piccoli e poi non hanno la coda. Di solito vivono vicino a boschi o corsi d’acqua»

Lo vidi annuire e, anche se nei suoi occhi leggevo una punta di scetticismo, vedevo anche che c’era meraviglia; era affascinato da quello che gli avevo raccontato.

«Perché si chiamano Gulippe? Gliel’hai dato tu il nome?»

Abbassai gli occhi per solo un istante, cercando di contenere la tristezza, prima di tornare a sorridergli: «È stata mia mamma ad insegnarmi la maggior parte dei nomi delle creature che posso vedere, di molte altre so il nome grazie al suo diario»

«Terza gaffe», lo sentii sussurrare e, senza pensarci, allungai una mano e gli afferrai il braccio.

«No, non ti preoccupare. Non devi sentirti in colpa. È normale che pensare a lei mi faccia male, ma temo che non farlo sarebbe peggio. Non voglio dimenticarla e parlare di lei me la fa sentire vicina»

I suoi occhi blu scuro erano fissi sulle mie dita appoggiate sul suo braccio e, solo dopo un paio di minuti silenziosi, alzò lo sguardo e mi sorrise: «Allora sono solo due le gaffe?»

Sorrisi, sentendo la tensione allentarsi tra di noi: «No, non ne hai fatta neanche una»

«Sei troppo buona Lu... Lovegood»

Mi fece male sentire che usava il cognome e non il nome, me in fondo non ci conoscevamo poi molto e capivo il suo desiderio di mantenere le distanze da una ragazza stramba come me.

La mia autocritica mi fece davvero male, ma provai ad ignorare quell’offesa mentale e a sorridergli: «Grazie, Zabini»

L’istante dopo era in piedi, il suo braccio lontano dalla mia mano e le mie dita che sentivano già la mancanza del tepore piacevole della sua pelle.

«Vuoi che ti cerchi qualcos’altro da mettere? Qualcosa di più femminile magari?»

Scossi la testa: «Non ce n’è bisogno, grazie»

«Oh, ma non è un problema. Se vuoi rubo qualcosa dall’armadio di Pansy o di Daphne...»

«Non è necessario», ribadii, alzandomi a mia volta.

Il suo sguardo tornò nel mio, prima di studiare attentamente la mia mise.

Scrutando nei suoi occhi potei vedere vari sentimenti rincorrersi per poi scomparire con una velocità impressionante, sostituiti da uno sguardo deciso: «Non importa, voglio che tu ti senta a tuo agio, quindi vado a fare rifornimento di vestiti. Richieste particolari?»

Ero sorpresa: per quale motivo stava facendo tutte quelle cose per me?

«Preferirei dei pantaloni se possibile. Io e le gonne non andiamo molto d’accordo», ammisi, vedendolo sorridere in un modo davvero tenero che mi fece stringere il cuore.

«Sissignora! Tornerò in un baleno»

L’istante dopo era già uscito dalla stanza, lasciandomi sola.

 

***

 

«Ci ho messo un po’, scusa», disse, Zabini.

Era scomparso da meno di venti minuti e io nel frattempo non ero stata in grado di fare altro se non sedermi sul letto ed abbracciarmi le gambe strette al petto.

Avevo pensato di sbirciare un po’ in giro, per dare un’occhiata, ma poi mi ero sgridata da sola e avevo optato per stare buona.

«Non pensavo che cercare dei pantaloni negli armadi di Pansy e Daphne fosse come cercare un ago in un pagliaio, ma alla fine ce l’ho fatta»

Sfoggiò un sorriso pieno d’orgoglio che mi fece venir voglia di applaudirgli per l’impresa, ma per fortuna riuscii a trattenermi all’ultimo, evitando di mostrarmi più strano di quanto già non sembrassi.

«Ecco a lei», disse, facendo un breve inchino, prima di appoggiare sulle coperte del letto tre paia di pantaloni, alcune camicie e dei golfini di lana.

«Grazie», sorrisi, scendendo dal letto ed ammirando quegli indumenti di alta sartoria che probabilmente erano costati più di tutti i vestiti nel mio armadio messi insieme.

«Figurati»

Restammo qualche secondo in silenzio, poi lui batté le mani: «Coraggio! Ora ti tocca provarli»

Stavo per arrossire, quando riuscii a bloccarmi all’ultimo e gli lanciai un’occhiata indagatrice: «E dove?»

Sul suo volto comparve un ghigno malizioso che non gli avevo mai visto; quello sguardo mi fece contorcere qualcosa all’altezza dello stomaco, ma tentai di rimanere comunque impassibile.

«In bagno, ovviamente. A meno che tu non voglia cambiarti davanti a me»

Alzò un sopracciglio, guardandomi dritto negli occhi e, sorprendendo me stessa, riuscii a sostenere quello sguardo e a sorridere: «Preferisco il bagno»

Afferrai i vestiti e mi diressi verso a piccola porta accanto all’armadio del Serpeverde.

Mentre mi chiudevo in bagno, lo sentii chiaramente dire: «Peccato»

Mi appoggiai al legno chiaro della porta e rimasi sconvolta nell’osservare, dall’altra parte della stanza, il mio riflesso nello specchio.

Perché i miei occhi brillavano? E quel sorriso idiota sulla faccia quando era comparso precisamente?

Cercai di darmi un contegno e, con calma, cominciai a spogliarmi e ad indossare un paio di pantaloni scuri dal taglio raffinato ed una camicetta rosa pallido con sopra un golfino color grigio topo.

Uscendo dal bagno ricevetti un cenno d’assenso e un caloroso sorriso: «Ti sta molto bene»

Riuscii a non arrossire e a ricambiare il sorriso: «Grazie»

«Prossimo outfit!»

Si stava divertendo, lo leggevo dai suoi occhi pieni di emozioni che gli facevano brillare gli occhi e, malgrado sapessi che non avrei dovuto lasciarmi influenzare da lui, ero di riflesso contenta anche io.

Tornai in bagno e mi sfilai i vestiti, rimanendo in biancheria, prima di afferrare un paio di pantaloni grigio perla.

Stavo per metterli, quando sentii chiaramente qualcuno bussare alla porta.

Non a quella del bagno però, ma a quella che permetteva di entrare nella camera di Zabini.

L’istante dopo l’uscio del bagno era aperto e, gli occhi sbarrati del Serpeverde ne approfittarono per fissarmi dalla testa ai piedi, prima di parlare: «Rimani qui dentro e non fare assolutamente rumore. Io vado a vedere chi è»

La porta si richiuse e io, nel silenzio del bagno, ebbi l’opportunità di arrossire come non avevo mai fatto in vita mia.

Mi aveva appena visto con addosso sono un paio di mutande e il reggiseno, eppure nella mia mente sembrava tutto un terribile incubo.

Mi sentivo in imbarazzo per il modo in cui mi aveva guardata e per quell’espressione che mi aveva lanciato prima di parlare; quel modo languido in cui aveva seguito ogni centimetro di pelle esposto...

Indossai i pantaloni grigio perla e un maglioncino bianco il più in fretta possibile, prima di appoggiare l’orecchio alla porta nel disperato tentativo di sentir chi fosse arrivato.

«Mi hai fatto spaventare...», stava dicendo Blaise, la voce chiaramente sollevata: «Come va?»

Una seconda voce rispose: «Domanda di riserva?»

Ci mesi qualche istante a riconoscere chi stesse parlando e quando lo capii mi sentii più tranquilla anche io.

«La Granger non è cedevole come speravi?»

«Hermione non potrebbe mai essere “cedevole”. È un aggettivo che non le si addice nemmeno un po’»

Le parole di Draco Malfoy mi fecero sorridere, mentre pensavo al cipiglio orgoglioso e alle parole taglienti tipiche della mia amica Grifondoro.

«Ti ha graffiato?», chiese Zabini e non riuscii a non chiedermi se fosse una metafora o intendesse proprio ciò che aveva detto.

«No, peggio»

«Morso?»

«Non è divertente, Blaise», disse Malfoy con un tono scocciato: «Dov’è la Lovegood?»

«In bagno»

«In bagno?»

«Sì, in bagno...», la voce di Zabini aveva un tono che non capii, come se avesse voluto dire altro, ma si fosse fermato all’ultimo.

Ci fu un attimo di silenzio, prima che il moro Serpeverde tornasse all’attacco: «Ti ha respinto vero?»

Sentii chiaramente un sospiro e qualcuno sedersi, probabilmente era stato Malfoy.

«Non si fida più di me e io non so cosa fare. Mi manca, Blaise»

«Sei il re della seduzione, un Don Giovanni in piena regola. Sei riuscito a conquistarla una volta, ce la farai una seconda»

«Non sapevo che Don Giovanni alla fine perdesse seriamente la testa per qualcuna», disse Malfoy, usando un tono scherzoso pieno di tristezza.

Zabini rise: «Probabilmente se non fosse stato invitato a quel banchetto e non fosse stato ucciso, prima o poi avrebbe trovato qualcuna che gli avrebbe dato del filo da torcere»

«A proposito di banchetto: i miei genitori mi vogliono a mangiare da loro nelle stanze che il Signore Oscuro ha riservato a loro, mi hanno chiesto di invitarti»

«Va bene, così la Lovegood potrà avere un po’ di tempo per stare da sola, ambientarsi e magari sbirciare in ogni angolo della camera»

«Posso mandare Breedy a prenderla per portarla da Hermione, così possono passare del tempo assieme», propose Malfoy, facendomi sorridere all’istante: «Ma non subito, adesso sono troppo furioso per fare un regalo a quella piccola testarda Grifondoro»

Zabini rise con gusto: «L’amore ti sta rendendo troppo buono, amico mio»

«L’amore...», sussurrò Malfoy con un tono pieno di tristezza che non riuscii ad interpretare.

Ero sconvolta da tutto quello che avevo appreso da una semplice conversazione tra quei due.

Draco Malfoy era davvero innamorato della mia amica?

E lei lo sapeva?

E perché Zabini era così ansioso di lasciarmi sola?

E come facevano a sapere della leggenda di “Don Giovanni” se era un’opera babbana?

«Lovegood», disse la voce di Zabini troppo vicina, mentre lo sentivo bussare alla porta del bagno.

Mi allontanai dal legno e, quando entrò in bagno, finsi di star studiando il contenuto dell’armadietto accanto alla specchio, colmo di boccette e ampolle.

«Ora ho del lavoro da svolgere e poi mangio pranzo con Malfoy. Più tardi arriverà un elfo che ti porterà dalla Granger. Ci vediamo per cena, va bene?»

Annuii, guardandolo dritto negli occhi, imponendo a me stessa di non perdermi nel blu profondo del suo sguardo.

Appena se ne andò mi accorsi di aver fallito miseramente e di trovarmi in un mare di guai.

Blaise Zabini mi piaceva sempre di più e questo non era certo un bene.

 

****************************************************************************************
 

Ciao a tutti :)

Sono un po' di fretta quindi scrivo giusto due parole in croce. La prima è GRAZIE, grazie a tutti coloro che hanno inserito la storia tra le preferite, ricordate e seguite, grazie a chi ha recensito e grazie anche a chi ha semplicemente letto. La seconda parola... in realtà non esiste xD

Non so quando arriverà il prossimo capitolo, ma spero che questo vi sia piaciuto quanto è piaciuto a me e che abbiate tempo di scrivermi due righe per dirmi che ve ne pare! :)

Un abbraccio enorme,

LazySoul

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo quarto ***


Capitolo quarto
(Pansy's point of view)
 

 

«Continueremo domani mattina», disse Greyback, il tono di voce basso e pieno di fastidio e furia repressa.

Avevamo cercato tutta la notte una donna di cui non avevo mai sentito parlare. Le poche informazioni che ci avevano fornito mi avevano fatto venire in mente una di quelle donnine basse, ma piene di coraggio, che combattevano fino all’ultimo respiro per ciò che credevano...

Insomma, una Hermione Granger di cinquantatré anni alta un metro e cinquantotto con i capelli neri e gli occhiali.

L’avevamo cercata in casa, ma quel luogo sembrava disabitato da anni, eravamo andati allora nel negozio di articoli babbani che aveva aperto nella Londra magica, ma avevamo trovato tutto chiuso ed impolverato.

Erano passate da poco le undici di sera ed erano all’incirca tra ore che giravamo tutta Londra, magica e non, alla ricerca di quella donnina, era ora che quell’ottuso di un lupo mannaro ci lasciasse andare a dormire!

Avevo le gambe che mi dolevano per le continue corse che avevo dovuto sostenere quando Greyback era convinto di aver avvistato la persona giusta e ci urlava di inseguirla. Per non parlare dei miei capelli completamente spettinati e per la povera unghia dell’indice sinistro che aveva pensato bene di spezzarsi.

Sapevo che lamentarsi di certe cose non avrebbe sortito nessun effetto soddisfacente, quindi ero rimasta zitta tutto il tempo, sorbendomi i continui monologhi di Greyback e i suoi falsi allarme.

L’unica rassicurazione era rappresentata da Theo e dalla sua calma infinita, ma soprattutto dalle veloci e fin troppo brevi occhiate che ci lanciavamo, ogni tanto, complici.

Se proprio dovevo essere sincera ero contenta di essere lì con lui, vicina eppure così lontana...

Scossi la testa, scacciando quei pensieri molesti dalla mia mente e concentrandomi.

Mi ero ripromessa che il rapporto tra me e Theo sarebbe stato solo e soltanto d’amicizia e dovevo rimanere coerente con me stessa.

«A che ora?», chiesi, certa che Greyback non mi avrebbe mai lasciato riposare le otto ore necessarie alle mie occhiaie per scomparire quasi del tutto e per il mio corpo di riposarsi abbastanza.

«Alle sei vi voglio in piedi, verrò comunque io a chiamarvi», disse, prima di afferrare entrambi per un braccio, in modo da materializzarci all’interno di una piccola stanzina.

Se era un hotel, doveva essere uno dei peggiori nella zona.

La camera era costituita da quattro pareti spoglie dove la carta da parati tendeva a lasciarsi condizionare troppo dalla forza di gravità, come anche il calcestruzzo del soffitto. La moquette era color cioccolato, ma in alcune zone era talmente sporca da raggiungere tonalità tendenti al nero carbone. Le tendine alla finestra erano ingiallite, come se non vedessero un po’ d’acqua e sapone da mesi. Per ultimo il mio sguardo si posò sul letto ad una piazza e mezza, su cui spiccavano le coperte giallo canarino in netto contrasto con i colori neutri del resto della stanza.

L’aria era stantia e l’odore di sudore che vi permeava era semplicemente disgustoso.

Prima che potessi chiedere a Greyback se stesse scherzando, era già scomparso grazie ad una materializzazione.

Strinsi forte le labbra per trattenermi dall’imprecare e mi voltai verso Theo, notando anche sul suo volto la mia stessa espressione, dove orrore, disgusto e rassegnazione si mescolavano.

«Non è uno scherzo, vero?», sussurrai, sapendo perfettamente di sembrare una bambina petulane, ma non potendone fare a meno.

«Temo di no», disse, mentre continuava a studiare l’ambiente microscopico in cui ci trovavamo.

All’improvviso realizzai una cosa che, fino a due secondi prima, non avevo intuito.

Avremmo dovuto dormire insieme, non solo nella stessa stanza, ma addirittura nello stesso letto.

Raggelai interamente, impedendomi di esultare a ciò che stava succedendo.

“Come farai ora a non saltargli addosso, Pansy?”, mi chiesi, sospirando piano, prima di portarmi le braccia intorno al corpo, abbracciandomi.

Mi avvicinai al letto, studiandolo appena, prima di sorridere appena.

Forse avevo trovato una soluzione.

«Dici che se duplicassi il letto sarebbe un problema? Così potremo dormire più tranquillamente», proposi, voltandomi di tre quarti verso di lui, certa che, se l’avessi guardato in faccia in quel momento, avrei finito per fare qualcosa di avvero stupido.

«Fatica già a starci questo di letto nella stanza, dove vai a dormire, eh? In corridoio?»

Abbassai di colpo lo sguardo e le spalle, sconsolata.

Possibile che non ci fosse un modo per non dormire con lui quella notte?

Sapevo quali erano i miei limiti e sapevo anche quanto ero disposta a soffrire.

Passare la notte a pochi centimetri da lui senza avere la possibilità di toccarlo sarebbe stata la tortura peggiore che avrei potuto affrontare e non ero certa di poterlo fare.

Mi superò, andandosi a sedere sul letto e rimbalzandoci sopra col sedere per un paio di volte.

«È più morbido di quanto sperassi», disse, sorridendomi, mentre si sfilava il mantello e lo lasciava su uno dei due piccoli comodini in legno chiaro ai lati del letto.

«Bene», riuscii a dire, ignorando il battito accelerato del mio cuore e le gambe che cominciavano a diventare gelatina.

Sapevo che non avrei mai e poi mai fatto il primo passo, ma il pensiero di mostrarmi troppo affettuosa nei suoi confronti continuava a tormentarmi.

Camminai fino all’altro lato del letto, togliendo a mia volta il mantello e sedendomi sulle coperte gialle.

Sprofondai piacevolmente sul materasso, concordando con Theo: quel letto sembrava davvero comodo e morbido.

Disfai la coda con cui avevo costretto i miei capelli per tutto il giorno e mi sfilai il maglioncino nero, rimanendo con addosso una semplice camicetta bianca.

Sfilai le scarpe e scostai le coperte, così da potermici sdraiare sotto.

Mi imposi di continuare a dare le spalle a Theo, nascondendogli così il mio imbarazzo e permettendo a me stessa di ignorare la vocina maliziosa che mi diceva di approfittare della situazione, mentre sentivo chiaramente il frusciare di vestiti contro la stoffa a pochi centimetri da me.

Chiusi forte gli occhi, dicendomi che dovevo essere forte ed ignorare il mio cuore che batteva come un forsennato, ripetendomi all’infinito che io e Theo eravamo solo amici, nient’altro.

«Pansy?»

Irrigidii istintivamente le spalle, prima di voltarmi appena dalla sua parte, notando come indossasse solo una camicia bianca che delineava fin troppo bene il suo corpo asciutto ma allenato e i pantaloni scuri.

«Sì?», chiesi, con il tono di voce più normale e neutro possibile.

«Ti dispiacerebbe se togliessi anche i pantaloni?», la sua voce era tranquilla e naturale, proprio la voce di una persona che non stava pensando in nessun modo al sesso.

Se lui riusciva a resistere all’attrazione, allora dovevo farcela anche io, no?

«Fai pure, non è un problema», dissi, riuscendo addirittura a sorridergli, lasciandogli intendere che andava tutto bene, quando in realtà rischiavo di andare in iperventilazione da un momento all’altro.

«Puoi toglierti anche tu i tuoi. Non mi dà fastidio e così starai anche tu più comoda»

Strinsi forte le mani a pugno e mi chiese se davvero non sentisse nemmeno un po’ di attrazione verso di me o se semplicemente si stesse divertendo a mettermi in difficoltà.

In entrambi i casi dovevo mostrarmi il più normale possibile.

«Hai ragione», gli sorrisi: «Seguirò il tuo consiglio»

Una volta tolti anche i pantaloni scuri, decisi di osare un po’ di più, riuscendo a sfilarmi il reggiseno da sotto la camicetta.

Quando tornai sotto le coperte che, per quanto non avessero un buon odore, erano almeno calde, sorrisi: in effetti senza la costrizione dei vestiti, che mi ero appena tolta, stavo molto meglio...

Appena sentii il materasso cedere sotto il peso di Theo m’innervosii, stringendo forte tra le dita alcuni lembi di coperta.

Non era la prima volta che dormivo con un uomo e non sarebbe stata nemmeno l’ultima, ma allora perché il mio cuore continuava a martellarmi nel petto come se volesse uscire?

Chiusi gli occhi, stringendo il più possibile le palpebre, mentre provavo a regolarizzare il mio respiro.

«Pan?»

La sua voce sembrava giungere da così vicino che sussultai, chiedendomi perché non potesse semplicemente voltarsi dall’altra parte e dormire, ignorandomi.

Feci una smorfia nel sentire che utilizzava ancora quello stupido nomignolo che avevo sempre odiato, anche se la sua voce riusciva a rendere quel soprannome stranamente dolce...

«Si?», sussurrai, sperando quasi che non mi sentisse.

«Questa guerra mi terrorizza»

La sua confessione mi fece sentire un calore caldo all’altezza del petto, mentre mi sentivo onorata della sua fiducia nei miei confronti.

«Anche a me Theo», ammisi, chiedendomi se mi dovessi voltare verso di lui o no.

«Ho sempre l’impressione che ogni giorno debba essere l’ultimo sempre»

Aggrotti le sopracciglia, chiedendomi dove volesse andare a parare.

«Penso che un po’ tutti si sentano così»

«Pan?»

Cercai di resistere alla tentazione, ma alla fine non ce la feci e mi voltai interamente verso di lui: «Dimmi»

A causa del buio non riuscivo a scorgere completamente la sua figura, ma mi accontentai del vago profilo del tuo viso che, vicinissimo al mio, mi sembrava quello di un peccaminoso angelo caduto.

Il suo profumo invase ogni anfratto del mio corpo, mandando in defibrillazione il mio povero cuore innamorato. Quella vaga fragranza di uomo e di spezie era ormai diventata la mia droga preferita, così ne approfittai per fare il pieno di quel profumo ormai indispensabile per il mio organismo.

«Ho bisogno del tuo aiuto»

Non registrai subito le sue parole, troppo persa nell’aura pacifica in cui la vicinanza di Theo mi catapultava: un mondo perfetto, dove non avevo bisogno di nulla se non respirare il suo profumo...

Oddio, stavo diventando così patetica! Possibile che mi fossi fumata il cervello senza nemmeno rendermene conto?

«Che tipo di aiuto?», chiesi, riuscendo a risultare abbastanza naturale, anche se dentro di me c’era un tornado di emozioni inespresse che combattevano per uscire dalle mie labbra.

«Temo di essermi innamorato», sussurrò piano, facendomi sussultare e sbarrare di colpo gli occhi.

Non era possibile.

No, non stava per confessarmi i suoi sentimenti, non poteva essere innamorato di me...

Ma per quanto continuassi a ripetermi mentalmente quelle parole continuavano ad esserci delle vocine dentro di me che mi illudevano, dicendomi quanto fosse perfetta la situazione; romantica anche... se non si teneva conto delle pessime condizioni in sui si trovava quella stanza, ovviamente...

Sorrisi, lasciandomi trasportare dalla speranza.

«Innamorato?», sussurrai, avvicinando appena il viso, sentendo ancora più chiaramente il suo profumo.

«Temo però di non essere ricambiato», mormorò.

Il mio cuore perse un battito e mi ritrovai un groppo in gola che faticai a sciogliere: «Non è detto», dissi, senza espormi troppo e resistendo alla forte tentazione che avevo di saltargli al collo e di baciarlo.

«Hai ragione, non so se sono ricambiato o no...»

Annuii, aspettando che continuasse.

Ero talmente agitata che i palmi delle mie mani erano completamente sudati, mentre la voce rischiava di andarsene da un momento all’altro a causa della troppa emozione.

Dillo, dillo, dillo...

Continuavo a pensare, spettando in ansia il momento in cui si sarebbe dichiarato.

«Ed è per questo che ne sto parlando con te...»

Avrei voluto ci fosse una luce nella stanza, in modo da poter vedere il suo volto in quel momento, capire se anche lui fosse emozionato quanto me...

«Pan...», sussurrò piano, sospirando appena: «Credo di essermi innamorato di Daphne»

Tutte le speranze che avevo costruito e nutrito si frantumarono in mille pezzi, lasciandomi senza fiato, vista e udito per un breve secondo, mentre mi sentivo precipitare.

Mi chiesi come avessi potuto permettere al mio cuore di soffrire di nuovo per amore, quando mi ero ripromessa che non sarebbe più successo.

Strinsi forte le labbra per qualche istante, imponendo alle lacrime di non bagnarmi il viso e al nodo di sentimenti inespressi che avevo in gola di rimanere tali.

«Perché non gliel’hai detto?», chiesi, stupendomi di quanto la mia voce fosse bassa e monotona.

«Avevo paura di rovinare la nostra amicizia...», ammise Theo, incrinando ulteriormente le crepe del mio cuore.

«Perché l’hai detto a me?»

Avrei voluto fuggire da quella stanza, correre fino a quando non avessi avuto più energia, urlare fino a quando non sarei rimasta senza fiato e piangere fino a quando non avessi prosciugato tutte le mie riserve d’acqua.

Invece non potevo, perché se l’avessi fatto avrei dovuto dare delle spiegazioni che non ero pronta a dare, soprattutto ora che Theo mi aveva rivelato i suoi sentimenti nei confronti della mia migliore amica.

Non sapevo se Daphne ricambiasse o no i sentimenti del moro, ma era diventata di colpo la mia peggiore nemica...

«Speravo che potessi fungere da intermediaria... ti dispiacerebbe?»

Sospirai, cercando di rilasciare con quel respiro tutto il dolore che sentivo opprimermi il petto.

«Cosa dovrei fare?», quella parole mi costarono molto.

Non saprei nemmeno dire come riuscii a non scoppiare a piangere subito dopo averle pronunciate.

Chiusi gli occhi, rendendomi conto che la forte gelosia provata fino a due istanti prima era stata sostituita dalla rassegnazione.

«Chiederle cosa prova per me»

Analizzai la situazione da un punto di vista razionale, imponendo al mio cuore di non interferire.

Avrei potuto benissimo dirgli di no, accampando la scusa che dovesse farlo lui, rischiando il tutto per tutto... ma con che coraggio avrei potuto costringerlo a fare ciò?

Io, la prima che si nascondeva dietro ad una maschera per impedirgli di vedere e capire quanto l’amavo, non sarei mai riuscita ad essere così ipocrita.

Soprattutto non con lui.

E poi aiutarlo sarebbe potuto risultare utile...

Nel caso Daphne non avesse ricambiato i suoi sentimenti io lo avrei potuto consolare da amica, sperando che anche lui un giorno si sarebbe innamorato di me...

«Va bene, posso provarci»

Il suo profumo si fece ancora più vicino e penetrante, mentre sentivo le sue braccia circondarmi in un abbraccio stritolatore.

Mi lasciai stringere da lui, anche se sapevo che poi, quando si sarebbe allontanato, mi avrebbe provocato un dolore fisico.

«Grazie, Pan. Sei la migliore»

Sorrisi appena, costringendomi a ricambiare l’abbraccio, ignorando la sensazione di calore che sentire il suo petto forte contro il mio mi dava.

«Come farei senza di te, mmh?»

«Temo che non lo saprai mai», sussurrai, nascondendo il viso contro il suo collo.

Inspirai a fondo e sentii chiaramente che dentro di me si spezzava quel poco di autocontrollo rimastomi, così mi allontanai, augurandogli la buona notte e voltandomi dall’altra parte, prima di lasciare che le calde lacrime della delusione mi rigassero il viso.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo quinto ***


Capitolo quinto
(Blaise's point of view)

 

Era pericoloso quello che stavamo combinando, troppo pericoloso.

Tradire il Signore Oscuro non ero una passeggiata e quasi mi pentivo di essermi lasciato coinvolgere in una situazione simile da quel folle di Malfoy.

Entrai in camera e chiusi la porta dietro Lunatica Lovegood, ringraziando Merlino che la camera di Malfoy era solo a pochi passi dalla mia.

Avrei voluto essere solo, così da potermi crogiolare nel mio dolore.

Odiavo quando Malfoy riusciva con poche parole a riaprire ferite da poco rimarginate e quelle lasciate da Soledad erano tutto fuorché guarite.

Lanciai un’occhiata veloce alla biondina e, senza che potessi fare qualcosa al riguardo, comparve nella mia mente malata l’immagine di quel corpo seminudo e coperto solo da biancheria bianca e semplice. I suoi occhi di un azzurro opaco non mi erano mai sembrati tanto luminosi come quando l’avevo interrotta durante il suo cambio di vestiti. E le sue guance? Erano diventate di un un rosa così acceso e dolce...

Avrei potuto continuare a chiamarla Lunatica nella mia mente e a vederla come una semplice ragazzina qualunque, ma in realtà continuava a stupirmi e ad interessarmi qualsiasi cosa facesse.

Il ricordo della sua pelle color panna e del reggiseno che avvolgeva quei piccoli seni... mi era sembrata così bianca e pura, immacolata come una bambina: priva di peccati.

Proprio il contrario di Soledad.

Fece male quel pensiero, tanto male che non riuscii a continuare a guardare la Lovegood, ma fui costretto a distogliere lo sguardo.

I suoi capelli chiari e lisci mi spingevano a far un confronto con quelli color ebano di Soledad: ricci e vaporosi come la chioma di un albero in piena Primavera.

E io odiavo fare confronti, soprattutto quando finivo col pensare a ciò che invece avrei preferito accantonare e nascondere a chiave in un piccolo cassetto nella mia mente.

«Com’è stato il pomeriggio?», le chiesi, per interrompere il silenzio imbarazzante che si era creato tra noi.

I suoi occhi opachi sembrava che stessero fissando qualcosa in continuo movimento nell’aria.

Aggrottai le sopracciglia mentre mi guardavo intorno, cercando di capire cosa stesse fissando con tanta insistenza, ma dovetti desistere: non c’era nulla, nulla che io potessi vedere.

«Cosa guardi?», le chiesi, facendo involontariamente un passo in avanti, verso di lei.

Quella ragazzina e le sue stranezze mi incuriosivano più di quanto mi sarei mai aspettato.

Stavo ancora cercando di capirne il motivo, ma ero propenso a credere che fosse perché mi ero sempre interessato, fin da piccolo, alle creature magiche. Fino a qualche anno prima Cura delle creature magiche era stata la mia materia preferita, tanto che avevo pensato seriamente di intraprendere in futuro la carriera di Veterimago (1).

Peccato che i miei genitori mi avessero riso in faccia quando avevo dato loro la notizia, così avevo desistito e avevo riposto il mio progetto per il futuro in un piccolo cantuccio della mia mente...

Accidenti! Possibile che quella ragazzina riuscisse soltanto a farmi ricordare i miei sogni infranti?

«La stanza è piena di Mantrigli, di nuovo...», disse con un tono di voce pacato e lontano, quasi facesse fatica a mettere a fuoco i veri contorni della stanza: «Ti darebbe fastidio se aprissi la porta per farli uscire? Sono piuttosto fastidiosi...»

Aggrottai la fronte e sospirai: «Fai pure, basta che non ti fai notare da nessuno».

Per un istante vidi i suoi occhi focalizzarsi sul mio viso, a quel punto mi sorrise: «Grazie, Zabini».

Ebbi un flash di lei, seminuda nel mio bagno e di tutti i pensieri maliziosi che avevo avuto in quel frangente. Era difficile da ammettere a se stessi, ma era inutile continuare a far finta di niente: per un breve, brevissimo, secondo avevo avuto l’impulso di entrare nel bagno con lei, di chiudermi la porta a chiave alle spalle e di vedere fin dove sarei riuscito ad arrivare prima che lei m’interrompesse.

Le diedi le spalle, nascondendole la mia espressione, che doveva essere allucinata a causa dei miei stessi pensieri.

Sganciai gli alamari del mantello e me lo sfilai, appoggiandolo sul baule ai piedi del letto.

Ero teso e infastidito, per non parlare del mal di testa che continuava a tormentarmi da quando mi ero alzato quella mattina.

Mi passai le mani sul viso, cercando di scacciare la stanchezza, ma non ottenni il risultato sperato.

«Stai bene?», mi chiese la Lovegood, appoggiando la mano suo mio avambraccio sinistro.

Sussultai al suo tocco e ritrassi l’arto, come se mi avesse punto con qualcosa di acuminato.

Non avessi avuto addosso il maglione non avrebbe mai e poi mai avuto il coraggio di toccare il mio avambraccio, non il sinistro, almeno.

Il Marchio Nero sotto la manica l’avrebbe tenuta lontana.

«Scusami», disse, facendo un paio di passi indietro, nascondendosi le mani dietro la schiena: «Sei pallido, pensavo che stessi male, ma non avrei dovuto invadere il tuo spazio. Mi dispiace.»

Il suo gesto non mi aveva propriamente dato fastidio: era bello averla accanto, era sempre così sorridente e positiva che si finiva coll’essere influenzati dalla sua spensieratezza. Semplicemente non mi ero aspettato un gesto del genere e per questo avevo reagito in modo alquanto scortese.

Sembrava così indifesa in quel momento, le mani dietro la schiena, gli occhi opachi fissi nei miei e le labbra color pesca atteggiate in una smorfia di preoccupazione.

«Mi hai colto di sorpresa, non volevo essere sgarbato», farfugliai, confuso dal sorriso sereno che le mie parole avevano dato vita sul suo viso color panna: «Non devi scusarti. Va tutto bene... io...»

Come faceva ad avere degli occhi così grandi ed espressivi?

Persi il filo del discorso e le sorrisi a mia volta: come avrei potuto non rispondere a tutta la sua dolcezza con altrettanta premura?

«Sicuro di stare bene? Non hai una bella cera, sai?»

Quando mi toccò questa volta non mi ritrassi, ma mi lasciai trascinare fino al letto, dove mi fece sedere.

«Magari è un calo i zuccheri: hai mangiato qualcosa a pranzo?», mi chiese preoccupata, mentre con la mano fresca e piccola come quella di una bambina di dieci anni mi tastava la fronte.

«Non ho la febbre», borbottai, confuso da tutta quella premura.

«Magari quando arriva Breedy con la cena gli chiediamo di prepararti qualcosa di caldo. Che ne dici di un tè verde?», propose.

«Non mi piace il tè verde, preferisco il caffè espresso».

Spostò la mano dalla mia fronte e, senza darmi il tempo di rendermi conto di quali fossero le sue intenzioni, appoggiò le labbra color pesca dove poco prima c’erano le sue dita.

I suoi capelli dorati mi sfioravano il viso, avvolgendomi nel profumo del mio Shampoo-Abbina-Odori (2) che su di lei acquisiva un’essenza floreale che conoscevo fin troppo bene: lavanda.

La sua gola era a pochi centimetri dalle mie labbra, invitante, ma non riuscivo a metterla a fuoco: continuavo ad immaginarmela con indosso un vestito bianco, corto e delicato – proprio come lei – che correva spensierata in un campo di lavanda della Provenza, mentre io la inseguivo, ridendo.

«No, non hai la febbre», disse, scostandosi da me.

Cosa? Non avevo la febbre? Ma se mi sentivo bruciare!

«Però non sembri comunque stare bene... il tè non ti piace... che ne diresti di una tisana o una camomilla?», mi propose, sorridendomi.

La camomilla mi piaceva.

Quando andavo a trovare la mia nonna paterna in Italia, ogni sera prendevamo insieme la camomilla, l’unica bevanda che riuscisse a farmi addormentare in un istante, l’unica bevanda che mi garantiva una notte priva di incubi.

«Vada per la camomilla», acconsentii, sforzandomi di non allungare le mani per assaggiare la curva lieve dei suoi fianchi.

Era così minuta e magra che sembrava una bambola di porcellana a grandezza naturale, le mancavano solo gli abitini floreali ricamati in pizzo, un cappellino di paglia e delle scarpette bianche e avrebbe potuto infiltrarsi senza problemi nella collezione di bambole di mia zia Lucilla.

«Bene», sorrise, prima di imporre una spinta sufficiente sulle mie spalle, in modo da farmi sdraiare sul letto: «Nel frattempo riposati».

Avrei voluto protestare e ribellarmi, ma la sua dolcezza mi ricordava mia madre quando ero piccolo, prima che mio padre, convinto che fossi abbastanza grande, la costringesse ad allontanarsi da me all’improvviso.

«Posso usare la tua bacchetta per accendere il camino? O riesci a farlo tu?», mi chiese, sorridendomi con la dolcezza tipica di una bambina innocente.

L’idea che usasse la mia bacchetta non mi faceva impazzire, ma mi sentivo spossato e volevo lasciarmi coccolare da lei ancora un po’, così le passai con premura il mio legno, sperando che non combinasse nessun pasticcio.

Si allontanò da me solo per occuparsi del fuoco che, con mia sorpresa, riuscì ad accendere abbastanza facilmente utilizzando la mia bacchetta, la quale poi posò sul comodino proprio accanto a me.

Tornata vicino a me, la Lovegood si guardò in torno, quasi alla ricerca di qualcosa da fare per tenersi occupata.

Prima che mi rendessi veramente conto di quello che stava facendo aveva già iniziato ad allentarmi le cinghie della scarpa destra e me la stava sfilando.

Tentai di protestare, ma lei fece un veloce gesto con la mano per zittirmi: «Non è un problema»

Mi imbarazzava da morire l’idea che i miei piedi potessero puzzare e che quindi lei ne sentisse l’odore sgradevole, ma lei non sembrava farci caso e, posata a terra una scarpa, passò a quella successiva senza battere ciglio.

Non mi sentivo tanto malato da farmi servire in quel modo da una povera ragazzina, certo avevo un po’ di mal di testa, ma quello era dovuto probabilmente alla stanchezza accumulata negli ultimi giorni e non a una qualche forma di malanno...

Oppure no?

La Lovegood recuperò una coperta di lana dal mio armadio e con una gentilezza e una premura che andavano al di là di ogni mia aspettativa mi copri con essa, facendo attenzione che ogni singolo centimetro di pelle dal collo in giù fosse ben coperto e al caldo.

Quando finì di arrotolarmi come un salame nella coperta andò in bagno, lasciandomi solo.

Mi ritrovai a fissare la porta del bagno per un lungo istante, ricordando con chiarezza e malizia quando l’avevo aperta quella mattina...

Dovevo smetterla di pensare a certe cose.

Sentii un sonoro “pop” alla mia destra e vidi comparire Breedy con in mano un vassoio d’argento colmo di cibarie di ogni tipo.

Appena l’elfo vide dove mi trovavo e in che situazione appoggiò di fretta ciò che trasportava e mi si avvicinò con aria preoccupata.

«Sta bene, signor Zabini?», mi chiese, scrutandomi con i suoi occhietti acquosi: «E la signorina? Dov’è?»

Stavo elaborando una risposta, quando la Lovegood uscì dal bagno, sorridendo con calore all’elfo: «Buona sera, Breedy! Zabini non aveva una bella cera così l’ho messo a letto. Ti dispiacerebbe preparargli una camomilla calda? Dovrebbe aiutarlo a rilassarsi e a passare una buona notte senza incubi...»

«Certo, signorina. Breedy provvede subito».

Nel giro di due secondi l’elfo era già scomparso.

Seguii con lo sguardo la Lovegood che, avvicinatasi al vassoio colmo di cibo, cominciò a fare una selezione tra le portate, prima di tornare da me con un piatto colmo di minestrina.

Appoggiò quello che doveva essere la mia cena sul comodino, accanto alla mia bacchetta, e mi aiutò a mettermi seduto, sprimacciando per bene i cuscini contro la mia schiena.

«Grazie», le dissi, cercando di mostrarle con sincerità la mia gratitudine per tutta la sua premura disinteressata.

E pensare che non stavo nemmeno davvero male... nel caso avessi avuto qualche malanno, cosa avrebbe fatto? Mi avrebbe imboccato?

Per fortuna avevo abbastanza forze per sostenere con una mano il piatto e con l’altra il cucchiaio, così potei mangiare autonomamente.

Lei si prese un piatto per sé di minestrina e poi qualche carota d sgranocchiare mentre vegliava su di me, come un angelo.

Nel frattempo tornò Breedy con un piccolo vassoio con due tazze di camomilla, quando la Lovegood lo ringraziò per aver pensato anche a lei, vidi con chiarezza le orecchie grosse e goffe dell’elfo colorarsi di un rosa acceso per l’imbarazzo.

Dopo aver augurato la buona notte Breedy se ne andò con il vassoio di cibo praticamente intatto, mentre la Lovegood zuccherava la sua camomilla e la rigirava piano, quasi avesse paura di fare del male alla tazza.

«Vuoi anche tu dello zucchero?», mi chiese.

«Sì, grazie», risposi, posando il mio piatto vuoto di minestrina sul comodino per ricevere in cambio la mia tazza di camomilla ben zuccherata.

Il calore della bevanda mi scaldava le dita delle mani attraverso la porcellana, mentre soffiavo piano, creando piccole creste sulla superficie altrimenti liscia della camomilla.

Bevemmo in silenzio, ognuno perso nei propri pensieri o angoscie, a seconda dei momenti, anche se mi sforzavo in tutti i modi di non mostrare in nessuno modo la natura delle mie riflessioni.

Quando finii la camomilla pescai con i cucchiaino i residui di zucchero sul fondo della tazza, godendomi la sensazione granulosa e dolce dello zucchero che si scioglie contro il palato.

Senza apparente motivo mi chiesi se, assaggiando la pelle e le labbra della Lovegood avrei potuto sentire un sapore simile.

Ovviamente l’istante dopo che avevo formulato un tale pensiero, lo bandii dalla mia mente, ordinandomi un po’ di contegno.

Luna prese dalle mia mani la tazzina vuota che posò accanto alla sua sul tavolino.

«Direi che è ora di dormire», disse, facendo il giro del letto per coricarsi accanto a me.

Ma, prima di lasciarsi scivolare sotto le coperte si fermò, guardandomi per alcuni secondi, come se all’improvviso si fosse ricordata ti qualcosa d’importante.

«Vuoi una mano per cambiarti? O sei comodo a dormire vestito così?»

Era per la centesima volta una situazione tremendamente imbarazzante, ma mi piaceva vedere quel dolce rossore sulle sue guance, mi faceva sentire potente e io amavo sentirmi tale.

Avrei voluto chiederle di aiutarmi per vedere la sua reazione e scoprire se le sue guance potessero diventare ancora più rosse, ma non volevo farla sentire troppo a disagio, in fondo era una mia ospite e dovevo trattarla con riguardo.

«Penso di potercela fare da solo», le garantii, scostando la calda coperta in cui mi aveva avvolto per prendere il mio pigiama e andare in bagno.

Una volta solo mi cambiai con calma, infastidito dal continuo e insopportabile mal di testa. Presi una pastiglia Sorriso Smagliante 24h e mi sfuggì una smorfia quando il dolce sapore dello zucchero scomparve, sostituito dalla menta.

Tornai in camera e ravvivai il fuoco, prima di lasciarmi scivolare sul letto, accanto alla Lovegood che, ancora sveglia, guardava fuori dalla piccola finestrella della mia stanza.

«Non vieni a dormire?», le chiesi, infastidito di poterle vedere solo la schiena, anche se dovevo ammettere che la vista del suo lato B non era niente male.

La Lovegood si voltò verso di me e mi sorrise, prima di raggiungermi.

Cominciai a pensare che per lei piangere fosse un evento tanto raro quanto impossibile.

Mi rimboccò nuovamente le coperte, poi spense la luce e si coricò accanto a me.

Rimanemmo in silenzio per qualche istante.

Stavo giusto per augurarle la buona notte, quando lei mi precedette: «Questa mattina non ho potuto fare a meno di sentire la conversazione tra te e Malfoy».

Quelle parole mi resero immediatamente nervoso: cos’avevo detto a Draco quella mattina? Avevamo parlato della Granger, del pranzo organizzato dai signori Malfoy... ma cos’altro? Ci doveva essere qualcos’altro che aveva attirato tanto l’attenzione della Lovegood, ma non riuscivo a ricordare cosa...

«Mi ha stupito che tu e Malfoy conosceste la storia del “Don Giovanni”, essendo Babbana ed essendo voi degli orgogliosi purosangue...»

Ecco cosa della nostra conversazione l’aveva tanto impressionata...

Sorrisi appena, poi il ricordo di come io e Draco fossimo giunti a conoscenza della leggenda spazzò via il sorriso, sostituendolo con una smorfia di rimpianto.

Avrei voluto risponderle in modo brusco, dirle di farsi i fatti suoi e dormire, ma il ricordo di come mi aveva coccolato per tutta la sera mi fece cambiare idea.

«Ce l’ha raccontata una persona due anni fa, quando eravamo in vacanza in Spagna».

Sperai che le domande finissero lì. Faceva male ricordare Soledad e il modo in cui mi aveva lasciato, come se quei due mesi per lei non avessero significato nulla...

«Chi?», chiese, voltandosi verso di me.

In fondo era una Corvonero, curiosa e desiderosa di ottenere una conoscenza infinita: era ovvio che le domande non si sarebbero esaurite presto.

Bastava dirle l’essenziale senza lasciar trapelare quanto era doloroso ricordare certe cose.

«Una ragazza che abbiamo conosciuto a Granada, si chiama Soledad».

Vidi comparire sul suo viso una smorfia: «Una ragazza, eh?»

«Sì», dissi semplicemente, rimanendo impassibile.

Sembrava che volesse chiedermi altro, ma si interruppe e, con aria pensosa tornò a guardare il baldacchino sopra alle nostre teste.

«E cos’altro vi ha raccontato, Soledad?»

«Molte cose, principalmente ci ha parlato della letteratura spagnola...», le risposi, chiedendomi dove volesse arrivare con tutte le sue domande.

«Sei innamorato di lei?»

Mi ritrassi di scatto, sussultando alle sue parole: «Come scusa?», dissi, con un tono che, malgrado i miei sforzi, ricordava quella di un animale in trappola.

«Il modo in cui hai detto il suo nome mi ricorda il modo il cui Malfoy chiama Hermione», sussurrò, guardandomi di sfuggita, prima di ammirare nuovamente il baldacchino: «Comunque non sono fatti miei, scusa, sono stata maleducata».

Se avesse insistito per conoscere la verità probabilmente le avrei urlato contro, per poi voltarmi dall’altra parte, offeso.

Ancora una volta aveva detto le parole giuste per farmi parlare anche di cose che avrei preferito mettere da parte e dimenticare.

«Lo sono stato, poi lei mi ha lasciato per un altro», ammisi, facendo di tutto per non fare incontrare i nostri sguardi: «Ora, se non ti dispiace, sono stanco e vorrei dormire».

«Certo, scusa», sussurrò, muovendosi nervosamente nel letto.

Sapevo che l’interrogatorio era solo rimandato e che presto sarebbe tornata all’attacco, ma diversamente da quanto mi sarei aspettato non mi dava troppo fastidio.

Forse perché sapevo che lei voleva aiutarmi...

«Buona notte», disse, prima di darmi le spalle.

«Buona notte».

Avrei voluto stringerla tra le braccia, così da sentirla vicina, ma riuscii chissà come a trattenermi e, l’istante dopo, la camomilla aveva già fatto effetto, facendomi sprofondare in un dolce dormiveglia.

 

 

(1) Ho pensato che se esiste il Medimago come professione, perché non può esistere anche il Veterimago?

(2) È uno shampoo che mi sono spudoratamente inventata e che a seconda del carattere della persona che lo usa cambia odore, per questo su Luna assume il profumo della lavanda... xD

 

 

*********************************************************************************

 

Ciao!
Eccomi tornata anche qua con un nuovo capitolo :)
Ho voluto mettermi alla prova e provare ad analizzare per una volta i pensieri del nostro misterioso Zabini, che ancora non ci ha detto molto sulla cara Soledad, ma farò in modo che a poco a poco si apra, sia con Malfoy sia con Luna...
Spero che il capitolo sia venuto bene e che non ci siano troppi errori.
Se avete voglia di lasciarmi una recensione mi fareste davvero piacere, così mi dite se il pov Blaise è venuto decentemente e se per il prossimo capitolo preferite un pov Pansy o un pov Theodore! xD
Baci e abbracci,
 
LazySoul
 
p.s. Il prossimo capitolo cercherò di scriverlo intorno alle prime due settimane di Maggio, ma non sono del tutto sicura di riuscirci quindi nel caso non ce la faccia vi imploro di portare pazienza. Grazie :)

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo sesto ***


Capitolo sesto
(Pansy's point of view)
 

 

Quando venni malamente scaraventata giù dal letto alle sei del mattino ebbi la certezza che Merlino ce l’aveva a morte con me.

Non solo non avevo dormito per gran parte della notte e per le restanti ore mi ero rigirata nel letto tormentata dagli incubi, ma avevo dovuto anche sopportare in silenzio quando Theo mi aveva stretta durante la notte sussurrando il nome di Daphne.

Ed ora quello stupito e sadico di un lupo mannaro aveva anche il coraggio di buttarmi giù dal mio caldo giaciglio senza il minimo rispetto?

Mi sfregai il sedere e la schiena doloranti, prima di alzarmi da terra e di lanciare un’occhiata assassina in direzione del mio “gentile datore di lavoro”.

Il sorrisetto sornione di Greyback venne sostituito da una smorfia maliziosa mentre mi faceva l’occhiolino, studiandomi dalla testa ai piedi.

Ero ancora semi incosciente per la stanchezza, quindi ci misi parecchi minuti prima di rendermi conto di indossare solo una camicia semi-trasparente e delle mutandine di pizzo.

Appena il mio cervello registrò la situazione imbarazzante mi affrettai a rivestirmi, ignorando gli ululati inquietanti di quell’essere non del tutto umano e chiedendomi dove cavolo fosse finito Theo.

Theo…

Il solo pensiero di quello che era successo la sera prima mi faceva sentire male.

Perché poi proprio Daphne? Perché non una brutta ragazzina che non avrebbe potuto avere speranze rispetto a me?

«Ti aspetto in strada, non metterci una vita».

Con quelle parole mezze ringhiate a mezze pronunciate in modo umano, Greyback se ne andò; probabilmente si era reso conto che ormai tutto quello che c’era da vedere l’aveva visto e che non valeva la pena restare in stanza ad aspettarmi…

Mi sedetti sul letto, sospirando a fondo, mentre cercavo di rilassarmi e ritrovare un po’ di quella freddezza che mi aveva sempre caratterizzata o, come l’avrebbe definita Zabini: “la tipica stronzaggine alla Pansy Parkinson”.

Individuai sulla parete accanto alla porta uno specchio e mi ci fiondai, sperando di non avere l’aspetto da zombie che temevo di avere. Studiai le occhiaie, constatando di malumore la loro presenza, poi analizzai i miei capelli che, malgrado sembrassero normali, ero certa fossero pieni di nodi, cosa che constatai quando ci passai le dita per separare tra loro le ciocche e temetti di diventare presto calva a causa di tutti i capelli che mi rimasero in mano. Avevo un colorito più pallido del solito, gli occhi erano arrossati e sulla fronte, vicino al sopracciglio sinistro mi si era creato un piccolo brufoletto, di sicuro causato dallo stress.

Mi portai le mani sul volto, cercando di trattenere in ogni modo la disperazione. Pensare che ero orribile e che Theo non si sarebbe mai potuto innamorare di me non era utile per la mia autostima, che aveva già ricevuto un duro colpo quando Malfoy mi aveva lasciato.

“Basta!”, pensai, dandomi una leggera botta sulla fronte: “Basta pensare sempre a Malfoy! Possibile che tu non riesca a togliertelo dalla mente?!”

Affondai le dita tra i capelli e abbassai il capo, cercando di respirare a fondo. Dovevo solo calmarmi, nient’altro, calmarmi e ritrovare la mia tipica espressione indifferente, quella che mandava fuori di testa Malfoy quando stavamo insieme e che Blaise considerava “da vera regina di ghiaccio”. La vecchia Pansy, quella sicura di sé, frivola coi ragazzi e amante dei pettegolezzi, doveva tornare e me ne sarei occupata personalmente e con tutta la poca forza che avevo in corpo.

Non mi sarei lasciata schiacciare in questo modo da un storia andata male, mai più! Ero una Serpeverde per un motivo: ero ambiziosa e pronta a fare qualsiasi cosa per ottenere ciò che volevo.

E ciò che volevo al momento era Theodore Nott.

Mi alzai, agguerrita come non mai, e presi dalle tasche incantate dei miei pantaloni scuri i pochi cosmetici che ero riuscita ad afferrare prima di partire in missione: il Rossetto-bacio-perfetto, il Togli-occhiaie a lunga durata della Mag, una boccettina di profumo Mrs. Troll che, malgrado il nome, era davvero una buona fragranza e l’immancabile Pettine-Incantato 2 in 1, che poteva arricciare o lisciare alla perfezione i capelli nel giro di qualche secondo. 1)

Nel giro di due minuti ero pronta: profumata, imbellettata e pettinata. Rispetto al mio aspetto da zombie di poco prima ero migliorata parecchio, anche se non ero bella come lo sarei stata se avessi avuto tutti i miei cosmetici e non solo quei pochi che mi ero portata in missione.

Indossai il mantello, sistemando gli alamari e mi diressi verso la porta che, con mia sorpresa, si aprì di scatto e ne entrò uno scocciato Theo.

«Sei pronta? No perché Greyback non la smetteva più di sbuffare, fare commenti stupidi o offensivi nei confronti della lentezza delle donne nel prepararsi, eccetera, eccetera e io non ce la facevo più ad ascoltarlo!»

Feci una smorfia a quelle parole, mentre notavo con un certo orgoglio che Theo non riusciva a staccare gli occhi dalle mie labbra. Significava forse che c’era speranza?

«Prontissima», dissi, superandolo per uscire in corridoio e scendere poi la rampa di scale. Lo sentivo dietro di me che mi seguiva e dentro di me non potevo fare altro che esultare.

Certo, mi ero ripromessa che non avrei rovinato in nessun modo la nostra amicizia, aspettando che fosse lui a fare la prima mossa perché non volevo rendermi ridicola, ma questo non voleva dire che non potessi dargli qualche imbeccata qua e là per fargli capire che ero anche io una donna e, per dirla tutta, non ero poi meno bella di Daphne.

«Finalmen...!», Greyback si strozzò con la sua stessa saliva, non riuscendo a terminare la frase ed incominciando a tossire per non soffocare... possibile che i lupi mannari fossero così idioti?

«Cosa ci tocca fare oggi?», chiesi, guardandomi le unghie con fare disinteressato e congratulandomi con me stessa per la mia bravura nel fingere; malgrado sentissi il cuore in gola per la vicinanza di Theo e il disgusto per gli occhi di Grayback puntati su di me, non lasciavo trasparire nulla.

«Dobbiamo trovare quella traditrice del suo sangue», disse il lupo mannaro, passandosi una mano tra i capelli, quasi volesse sistemarseli per fare colpo.

“Ma per piacere!”, pensai, fulminandolo con lo sguardo, quando lo beccai a controllarsi l’alito.

«Andiamo», disse Theo con voce scocciata, superandomi per avvicinarsi a Greyback, che ci avrebbe smaterializzati come al solito in giro per il mondo magico alla ricerca della preda del giorno.

Feci anche io qualche passo avanti, appoggiando la mano sull’avambraccio dell’uomo-lupo, che mi sorrise in modo inquietante.

Sentii un forte strappo e l’immancabile senso di nausea che caratterizza ogni smaterializzazione, poi, una volta che riaprii gli occhi, mi ritrovai di nuovo tutta intera in una piccola stradina di quello che sembrava un minuscolo paesino di campagna, quel genere di posto dove tutti conoscono tutti, tutti spettegolano di tutti e non c’è nemmeno un goccio di privacy.

«Per di qua», disse il “capo”, con un ringhio quasi animalesco, mentre ci portava davanti ad una delle tante casette di mattoni: «Miss Greenjoy è stata avvistata in questo paese questa notte, ho interrogato personalmente alcuni cittadini e hanno detto che si è nascosta in questa casa, fate attenzione ragazzi».

Fu imbarazzante lo sguardo che mi lanciò prima che entrassi, dietro a Theo, attraverso la porta; sembrava che volesse spogliarmi con lo sguardo. Maniaco.

Tirai fuori la bacchetta e prestai molta attenzione a tutto quello che mi circondava.

Il pavimento era in legno e le pareti erano bianche ed immacolate, come se recentemente qualcuno avesse lanciato un incantesimo di pulizia a tutta la casa. Sull’appendiabiti era appeso un mantello scuro, sotto di esso erano appoggiate delle scarpe che avevano una foggia davvero strana, che riconobbi solo quando mi ricordai di una lezione di moda babbana il primo anno a Hogwarts: erano scarpe da ginnastica Mike, o qualcosa di simile. Sul mobiletto all’ingresso vi era una ciotola con all’interno un mazzo di chiavi, un paio di occhiali scuri davvero buffi (molto probabilmente anch’essi di origine babbana) e una piccola statuina raffigurante un troll addormentato mentre abbracciava una clava.

Nell’ingresso non c’era altro, così passammo al secondo ambiente, dove il salotto e la cucina erano comunicanti grazie ad un’apertura ad arco larga tre metri. Tutto era in perfetto ordine; il tappeto a terra era pulito, il divano aveva i cuscini lindi e ben sprimacciati, sui mobili si trovavano numerosi libri e altri oggetti sconosciuti, contro la parete c’era anche una grossa lastra nera babbana di cui non ricordavo il nome, ma sapevo essere l’equivalente di una radio, solo che grazie alla lastra si potevano anche vedere immagini e non solo sentire notizie. 2)

L’arco era in mattoni e oltre ad esso la cucina era a malapena illuminata dalla luce che proveniva da una piccola finestrella dove le imposte erano solo socchiuse. Sopra i vari ripiani c’erano oggetti tipicamente babbani, come per esempio la macchina per il caffè, l’unica stregoneria babbana che mi sarebbe piaciuto avere per potermi godere il caffè bollente ad ogni ora della giornata.

Dopo un’attenta analisi di entrambi gli ambienti constatammo che al loro interno non c’era anima viva, così ci spostammo verso la piccola rampa di scale in legno che portava al piano superiore.

Ad ogni gradino sentivo un sinistro scricchiolio sotto i miei piedi e non potevo fare altro che maledire la proprietaria di casa e la sua stupida decisione di mettere parquet ovunque. Certo, era elegante e dava un tocco di classe alla casa, ma i continui scricchiolii erano snervanti e fastidiosi.

Mancavano ancora due stanze, una alla destra delle scale e una alla sinistra. Nott mi fece segno che avrebbe ispezionato quella a destra, l’asciando per me l’altra. Annuii e mi posizionai davanti alla soglia, facendo un profondo respiro, prima di abbassare la maniglia e compiere un paio di passi all’interno della stanza.

Era una camera da letto piccola e accogliente, anche se avrei voluto dire al proprietario di sostituire i mobili chiari perché stonavano troppo col letto in ottone. Non mi persi ad osservare molto l’ambiente, anche perché venni distratta dalla figura raggomitolata nel letto. Mi avvicinai ad essa in punta dei piedi e ringraziai che almeno in quella camera ci fosse il linoleum, così non produssi alcun suono mentre mi accostavo al letto e puntavo la bacchetta contro le coperte.

«Miss Greenjoy?», provai a chiamarla, sperando che non opponesse resistenza. Per precauzione usai l’incantesimo “Pietrificus Totalus” contro la figura addormentata e, scostai la coperte che avvolgevano quel corpo, esponendo alla mia vista una donna minuta e mingherlina avvolta in una semplice camicia da notte bianca. Aveva gli occhi verdi sbarrati che esprimevano paura e stupore e, anche se la “regina di ghiaccio” era tornata alla carica, non potei non sentirmi in colpa.

Certo, quella donna era una traditrice del suo sangue e per giunta neanche poi tanto bella, ma questi non mi sembravano dei validi motivi per volerla incarcerare o qualsiasi altra cosa il Signore Oscuro avesse in mente!

Sentii un rumore accanto a me e, voltandomi, vidi nella penombra il viso di Nott.

«È lei?», chiese, fissando a sua volta il volto terrorizzato della donna.

«Non lo so, Greyback non ci ha fornito molti dettagli... dovresti andarlo a chiamare, sperando che lui sappia se è lei o no», gli dissi, guardandomi intorno, alla ricerca di qualsiasi indizio che ci potesse dire se fosse lei o no la donna che stavamo cercando.

Le pareti però erano spoglie, tranne che per un piccolo specchio vicino al comò e un quadretto che raffigurava una doma dell’ottocento addormentata.

Sul comodino della donna c’erano degli occhiali e una borsetta; frugai dentro quest’ultima, ma non trovai nulla di utile o compromettente. Poi, osservando meglio, notai una bacchetta di legno chiaro adagiata accanto agli occhiali.

Un rumore di passi mi fece voltare verso l’ingresso della stanza, dove vidi comparire Theo, seguito da Greyback, che aveva una strana luce negli occhi.

L’uomo-lupo fissò la donna in volto e sorrise: «Presa!», esclamò, prima di voltarsi verso di me: «Brava, bambolina», mi disse, facendomi l’occhiolino, prima di afferrare la bacchetta della donna e rigirarsela tra le mani.

«Lestrange sarà contenta, presto avrà un nuovo giocattolo con cui divertirsi», disse Greyback e gli occhi della donna, se possibile, divennero ancora più terrorizzati.

«Porto la signorina ad Hogwarts, voi fate qualche incantesimo per riordinare il letto, vi aspetto poi qui fuori».

Nel giro di due secondi i pochi effetti personali della donna, Greyback e Miss Greenjoy erano svaniti nel nulla.

Sbuffai: «Se mi chiama bambolina ancora una volta, giuro che lo castro!», esclamai, scocciata, incrociando le braccia al petto.

«Lo sai che scherza, non ti farebbe mai del male...», disse Theo, con un tono di voce nient’affatto rassicurante, mentre sistemava il letto.

«Ma davvero? E chi o che cosa glielo impedirebbe?», chiesi, seguendolo infastidita oltre la porta e giù per le scale.

Avrei voluto sentirgli dire che lui avrebbe fatto di tutto per proteggermi, che lui avrebbe impedito a quel mostro di torcermi anche solo un capello perché mi amava più di ogni altra cosa al mondo... poi magari avrebbe potuto voltarsi, accarezzarmi la guancia e sussurrarmi conto le labbra: «Ti amo da una vita», prima di baciarmi dolcemente sulla bocca, proprio come...

«I tuoi genitori poi gli farebbero fare dal Signore Oscuro il sedere a strisce! Fidati che sa qual è il suo posto», mi rassicurò, sorridendomi e facendomi l’occhiolino.

Il sogno che avevo creato nella mia mente evaporò e fu davvero difficile continuare a mantenere la mia maschera di fredda indifferenza, quando in realtà, tutto quello che avrei voluto fare era piangere.

«Già, speriamo», dissi solamente, uscendo dalla casa con lui.

Erano a malapena le nove del mattino, ma io ero stanca come se fossero state le dieci di sera. Sperai che Bellatrix Lestrange non avesse in programma altre missioni pericolose per i sottoscritti e mi accomodai sui gradini di fronte all’uscio della casetta da cui eravamo appena usciti, in attesa dell’arrivo di Greyback.

Theo si sedette accanto a me e, voltando il viso verso di me, mi disse: «Pensi che finalmente torneremo ad Hogwarts? Mi sono stancato di dover sottostare agli ordini di un lupo mannaro pazzo».

Feci una smorfia: «A chi lo dici», sospirai.

Aspettammo in quella stradina per parecchi minuti, prima di sentire un forte strappo e vedere comparire di fronte a noi Greyback accompagnato da Bellatrix Lestrange in persona.

Ci alzammo entrambi in piedi e facemmo un breve inchino in segno di rispetto: «Signora Lestrange», disse Theo, mentre la zia di Draco faceva un breve cenno con il capo ad entrambi.

«Ho bisogno di andare alla Grincott per ritirare un oggetto molto importante, Greyback mi ha assicurato che siete due ragazzi svegli e che potreste farmi senza problemi da guardie del corpo», disse lei, con un tono di voce petulante, rigirandosi la bacchetta tra le mani: «Pensate di esserne in grado?»

E io che speravo che le avventure per quel giorno fossero finite!

«Sarebbe un onore», risposi, mentendo, grata alla maschera da Mangiamorte che nascondeva l’espressione contrariata del mio volto.

La strega di fronte a me mi sorrise, mostrando i denti ingialliti; il soggiorno ad Azkaban non era stato clemente con lei: «Bene. E tu?», chiese, voltandosi impercettibilmente verso Theo.

«Ne sarei onorato anche io», rispose il mio amico, in modo parimenti servile.

Bellatrix Lestrange cominciò a ridere di gusto, muovendo il busto in avanti, prima di puntarmi contro la bacchetta: «Mostrami il tuo volto».

Da altezzosa Serpeverde avrei voluto farle notare il modo maleducato in cui mi stava minacciando, ma avevo troppa paura di beccarmi una maledizione Crociatus, così mi limitai a scostarmi la maschera da Mangiamorte.

«Oh, ma guarda chi abbiamo qui...  la piccola Parkinson», disse, con una vocetta davvero fastidiosa, prima di fare una smorfia divertita: «Ho sentito dire che ti sei lasciata sfuggire mio nipote. Pessimo amante?»

Lestrange e Greyback si scambiarono un’occhiata maliziosa, prima di scoppiare entrambi a ridere.

Che situazione di cacca di Schiopodo! Ed era tutta colpa dei miei genitori e delle loro manie. Se mi avessero lasciato essere una normale ragazza non avrei mai dovuto intavolare una conversazione simile con una pazza, affiancata da un altro pazzo!

«Qualcosa di simile», dissi, mantenendo un tono neutrale e accennando un misero sorrisino.

Fui sorpresa quando la mano di Theo afferrò la mia. Il gesto venne nascosto dai nostri mantelli vicini e nessun altro se ne accorse, ma io sentii chiaramente il mio cuore singhiozzare in modo irregolare per brevi istanti prima che potesse ritrovare un ritmo costante, anche se eccessivamente veloce rispetto al normale.

«Saresti stata un’ottima nipotina acquisita, peccato che quando i Malfoy s’impuntano su qualcosa è praticamente impossibile far cambiare loro idea...», disse, arricciando le labbra, prima di sorridere a Nott: «È il tuo turno, mostrami il volto».

Theo non ebbe tentennamenti e scostò subito la sua maschera.

«Oooh, ma che bel bocconcino che sei... fossi in te, Parkinson, mi farei consolare dal giovane Nott», scoppiò nuovamente a ridere, prima di smettere di colpo e voltarsi verso Greyback: «Sono solo dei ragazzini, dici che andranno bene lo stesso?», arricciò nuovamente le labbra con fare pensieroso.

«Potrei fare anche io parte della scorta, se questi due non vi sembrano abbastanza...», iniziò l’uomo-lupo, ma Bellatrix lo interruppe: «Non voglio attirare troppo l’attenzione», disse con voce petulante, mettendo il muso.

Una volta tornata al castello avrei detto grazie a Malfoy per aver distrutto quel contratto. Io, nipotina acquisita di questa psicopatica? Grazie, ma no grazie.

Dopo un paio di secondi di silenzio, lei sbuffò: «Prendo solo i ragazzi, tu vai al castello e dì a Lucius di non preoccuparsi, che ho tutto sotto controllo e che presto tornerò con la coppa», Greyback accennò un inchino e scomparve, poi la strega si voltò verso di noi: «Voi, avvicinatevi, così ci smaterializziamo vicino alla Gringott».

Ebbi qualche secondo di esitazione, come anche Nott vicino a me e Lestrange ci guardò scocciata: «Non ho mica tutta la giornata!»

L’istante dopo la mano calda di Theo aveva lasciato la mia, privandomi della sensazione di sicurezza che mi dava. Cercai di non mostrare il mio disappunto e mi affrettai per appoggiare la mano sul braccio della strega.

Ci smaterializzammo proprio di fronte alla Gringott, dove feci per rimettermi la maschera, ma Lestrange mi bloccò: «Non è necessario».

La zia di Draco entrò nella banca come se la possedesse o, meglio, come se fosse la regina del mondo intero: sguardo alto e fiero, occhi fissi di fronte a sé e le spalle dritte e alte.

Si fermò davanti ad uno dei folletti – che come sempre scrivevano, pesavano oro o si occupavano di altre incombenze che sembravano sempre importantissime – e si schiarì semplicemente la voce nel tentativo di attirare l’attenzione.

Il folletto sollevò lo sguardo: «Cosa possiamo fare per voi, Signora Lestrange?»

«Vorrei accedere alla mia camera blindata», disse lei, con la sua vocetta stridula.

«Certo e la signora Lestrange ha con sé la sua chiave?», chiese il folletto, che aveva i capelli bianchi piuttosto radi e i soliti occhietti acquosi e avidi tipici di ogni folletto.

«Ovvio», disse la strega, mostrando una piccola chiave dorata.

«Mi segua, signora», Bellatrix seguì il folletto e io e Theo seguimmo lei oltre una porta laterale.

Il funzionario della banca ci fece accomodare sulle solite carrucole arrugginite dal tempo, che in pochi secondi acquisì una velocità assolutamente non necessaria che mi fece scompigliare tutti i capelli.

Per non parlare della Cascata del Ladro, conosciuta per spezzare ogni incanto o magia, che fece svanire il poco trucco che avevo messo poche ore prima, facendomi sembrare un mostro, per fortuna eravamo al buio e nessuno sembrò accorgersene.

Ad un certo punto, dopo quelle che parvero ore intere, la carrucola si fermò e ci ritrovammo in un ampio spazio, dove si trovava...

«Merlino!», esclamai, sconvolta alla vista di un drago che sembrava sbarrare la strana ad una manciata di camere blindate. La bestia aveva le squame sbiadite, gli occhi rosati e le ali spinate lungo il corpo. Pesanti ceppi gli imprigionavano le zampe posteriori, ma questo non gl’impedì di ruggire nella nostra direzione, sputando un abbondante getto di fuoco.

Il folletto afferrò un  piccolo strumento di metallo per mano e iniziò a scuoterli entrambi, producendo un rumore forte e squillante che fece indietreggiare all’istante il drago. Il folletto ci fissò uno ad uno: «Vi consiglio di prenderne un paio anche voi».

Non me lo feci ripetere due volte, per quanto fossi orripilata dalla vista di quella povera bestia rinchiusa in quella buia grotta da chissà quanti anni, non avevo intenzione di venire bruciata viva, così afferrai a mia volta un paio di quei... cosi e cominciai a scuoterli.

Il suono, amplificato dalla grotta in cui ci trovavamo, fece indietreggiare con qualche ruggito di sofferenza il drago in un angolo.

«È abituato ad essere colpito e provare dolore quando sente questo suono», disse Lestrange, che a differenza di me e Theo non aveva afferrato nessun “sonaglio”.

Noi annuimmo, come se fossimo interessanti, ma in realtà tutto quello che riuscivo a provare era orrore. Povera bestia!

Ci fermammo davanti ad una camera e il folletto vi appoggiò sopra la mano, il legno scomparve all’istante e vedemmo davanti a noi una camera stipata di monete d’oro, coppe, calici, boccette impreziosite da diamanti, diademi, collane, gioielli di ogni tipo e ogni fattura, pellicce e tanti altri oggetti di valore.

Lestrange si voltò verso di noi: «Voi restate qui, io torno subito».

Entrò e la porta si richiuse dietro di lei.

Scambiai uno sguardo con Theo, notando come anche lui fosse sorpreso dall’assurda situazione in cui eravamo finiti. Guardammo entrambi verso il drago, con un’espressione di orrore mista a meraviglia. Perché per quanto fosse barbarico quello che gli era toccato e gli toccava vivere, era comunque una bellissima bestia che, se avesse spiegato le ali, avrebbe potuto riempire l’intera stanza con la sua possanza fisica.

Dopo pochi istanti Lestrange uscì dalla sua camera blindata, con in mano un piccolo bauletto chiuso.

Strano, dato che aveva parlato con Greyback di una coppa, mi ero aspettata che uscisse con una specie di trofeo, magari simile a quello in palio durante la Coppa Tremaghi.

O il bauletto era stato incantato per contenere un oggetto molto più grande o la coppa era più piccola di quanto pensassi.

Tornammo al nostro mezzo di trasporto, continuando a suonare quegli aggeggi che tenevano lontano il drago e in una decina di minuti eravamo di nuovo fuori dalla Gringott.

La cosa più assurde di tutte era che, da quando era uscita dalla sua camera blindata, Bellatrix Lestrange non smetteva di sorridere da orecchio a orecchio.

«Bene, direi che giunto il momento di tornare al castello, ora che ho preso ciò che mi serviva...», disse la strega, lasciandosi afferrare il braccio da Theo e me.

Sentii nuovamente un forte strappo e il familiare senso di nausea, prima di aprire gli occhi e ritrovarmi ad Hogsmeade.

«Come premio per la vostra lealtà vi concedo il resto della giornata libero, io ho altro da fare ora», disse la zia di Draco sbrigativa, dirigendosi a passo spedito verso il castello.

Non sapevo perché ma qualcosa mi diceva che dovevo parlare con la Granger o con Malfoy delle manovre di Bellatrix Lestrange, di sicuro uno dei due sapeva cosa c’era sotto e di che diavolo di coppa stesse parlando la strega.

«Ti va una Burrobirra?», propose Theo, indicandomi il locale di Madama Rosmerta.

Gli sorrisi, mordendomi il labbro inferiore, prima di annuire: «Con molto piacere».

Mi prese per mano, facendomi finire il cuore in gola.

Oh, Theo, quand’è che la smetterai di farmi quest’effetto?

 

 

 

----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

 

1) Forse mi sono lasciata un po’ prendere la mano con tutti questi cosmetici inventati sul momento, ma dovete ammettere che hanno dei nomi simpatici e poi, chi non vorrebbe il pettine-incantato 2 in 1 o il correttore della Mag? (avete notato che assomiglia alla marca MAC? Coincidenze? Io non credo...)

2) Non penso che fosse difficile da capire cosa fosse, ma meglio specificare (non si sa mai) che la lastra descritta da Pansy è un televisore.

 

*********************************************************************************
 

Ta-dan! Finalmente sono riuscita a scrivere un nuovo capitolo, pieno di colpi di scena e anche piuttosto lunghetto rispetto al solito, quindi non potete lamentarvi! ;)

Pansy ha deciso di tornare ad essere la fredda regina di Serpeverde, anche se non abbandona il suo progetto di far innamorare Theo di sé e Bellatrix va a fare un “prelievo” in banca. Chissà cosa avrà preso... xD

Vorrei ringraziare tutti voi che state leggendo questa mia storia, soprattutto coloro che hanno lasciato recensioni, l’hanno aggiunta alle seguite, preferite o ricordate, ma anche coloro che hanno anche solo letto in silenzio... Grazie!

Ora, se avete voglia di dedicarmi qualche secondo o minuto del vostro tempo per commentare, mi rendereste davvero felici! ^-^

Love,

LazySoul

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Capitolo settimo ***


Capitolo settimo

(Blaise's point of view)



«Te quiero, bésame, ahora».

Il respiro di Soledad contro la pelle sensibile del collo mi faceva il solletico, ma non abbastanza da farmi scostare. Non avrei aumentato la distanza che separava i nostri corpi per nulla al mondo. Aumentai la stretta del mio braccio intorno alla sua vita, facendo scontrare i suoi seni contro il mio petto. Sul momento notai che c'era qualcosa che non andava, Soledad non era mai stata così minuta e fragile, ma non ci prestai molta attenzione, troppo concentrato sulla morbida consistenza di quei piccoli seni sodi - che non vedevo l'ora di baciare - premuti contro di me.

«Blaìs», mi chiamò, appoggiando la sua mano, più piccola di quanto ricordassi, sulla mia spalla, per avvicinarmi maggiormente a sé. Non amavo particolarmente il modo in cui storpiava il mio nome, ma non avevo intenzione di lamentarmi; odiavo quando mi faceva il muso.

«Tócame, ahora, por favor».

Non me lo feci ripetere due volte e affondai le dita nella tenera carne dei suoi fianchi, che ricordavo essere più larghi e abbondanti, prima di lasciar scivolare le mani più in basso, stringendo le sode colline del suo fondoschiena e avvicinando il mio bacino al suo, per farle sentire la portata del mio desiderio.

Un gemito basso fuoriuscì dalle mie labbra, mentre mi rendevo conto di essere più eccitato di quanto avessi pensato. Probabilmente avrei finito col durare cinque miseri minuti se non mi fossi dato una calmata. E subito.

«Pensavo avresti lottato per me, pensavo che non mi avresti mai lasciata andare».

Ed ecco il momento in cui il sogno da erotico ed intrigante diventava un incubo colmo di rimpianti e dolore. Sapevo di aver sbagliato, sapevo perfettamente che mi ero comportato da codardo, sapevo che avevo commesso un tremendo errore quando l'avevo semplicemente guardata mentre se ne andava via con un altro. Non l'avevo seguita, non le avevo chiesto spiegazioni, non ero andato a riprendermela, anche se una piccola parte di me avrebbe voluto farlo e così, semplicemente, l'avevo persa.

«Tu non dovevi andartene», dissi, spostando le mani, in modo da poterle afferrare le braccia e costringerla a sdraiarsi sulla schiena e lasciarsi sovrastare dal mio corpo.

«Pensavo che non tenessi abbastanza a me. E, indovina un po', cabrón, avevo ragione».

L'astio che traspariva dalla sua voce, solitamente calda e sensuale, mi fece sentire una stretta di rammarico all'altezza del cuore. Io, con le mie azioni e le mie parole, l'avevo resa fredda e distaccata, allontanandola irrimediabilmente.

«Io ti amavo», sussurrai, sentendo le sue mani irrigidirsi ad un tratto contro il mio petto e un suono strozzato provenire dalle sue labbra dischiuse.

«Blaise», quella voce non era quella di Soledad, era più dolce e lieve, come una carezza sul viso, un bacio sulla fronte, un timido sorriso.

Perché la Lovegood era sotto di me? Perché mi sorrideva in quel modo? Come se... come se avesse voluto baciarmi?

«Lascerai che ti portino via anche lei, o questa l'amerai davvero?», chiese al mio orecchio la voce roca - a causa delle troppe sigarette - della mia nonna paterna.

Confuso, mi voltai, cercando di capire da dove fosse spuntata nonna Anna.

«Blaise», mi chiamò nuovamente la voce dolce di Luna, prima che le sue piccole e fredde mani cominciassero ad accarezzarmi le guance e la sua gamba destra si avvinghiasse intorno alla mia coscia, così da far scontrare le nostre intimità.

«Ci sono qua io», mi rassicurò, facendomi dimenticare ogni altra cosa al mondo.

Con una frenesia incontrollata afferrai i bordi della maglia che indossava e la sollevai, infastidito da quel leggero strato di stoffa che mi impediva di sentire il calore della sua pelle contro le mie dita.

Affondai poi il viso contro i suoi seni ed inspirai a fondo il suo odore di lavanda, sentendomi al sicuro e protetto dalle sue fragili braccia che mi circondavano le spalle, come se avessero voluto essere il mio scudo contro la tristezza e le brutture del mondo.

«Va tutto bene», continuò a sussurrare al mio orecchio, accarezzandomi lievemente i capelli, mi sentivo così bene e in pace che pensai, senza volerlo, alle braccia di mia madre e al modo in cui mi stringeva forte a sé prima di darmi il bacio della buona notte.

«Non mi lasciare», farfugliai nel dormiveglia, prima di abbandonare ogni resistenza e permettere al dolce profumo di lavanda e camomilla della Lovegood di cullarmi in un profondo sonno.

Sognai mia zia Lucilla e la sua inquietante collezione di bambole, dove quand'ero piccolo giocavo a nascondino con i miei cugini e la balia, e il gatto persiano di mio zio Flavio che era morto ormai da anni, ma che quando ero un bambino mi divertivo a torturare tirandogli la coda ad ogni occasione. Ogni volta che quel gatto mi vedeva correva a rifugiarsi tra le fronde dell'albero più vicino, se invece ci trovavamo in casa si gettava a capofitto sotto alla stufa, che era rialzata otto centimetri da terra. Zeus, il gatto persiano, era il preferito di zio Flavio, per questo - quando il felino era morto - lo zio gli aveva organizzato un vero e proprio funerale; con fiori, bara, rinfresco e rosario. Zio Flavio era stato lo zimbello del paese per mesi, prima che la sua vicina di casa, la Signora Domenica, organizzasse un evento molto simile per il decesso del suo barboncino; da quel giorno iniziò ad andare di moda organizzare il funerale per gli animali da compagnia e lo zio Flavio venne acclamato come un eroe per mesi.

Nel sogno la Lovegood giocava con me a nascondino ed era impossibile scovarla tra le bambole disposte su scaffali e ripiani, riusciva chissà come a scomparire letteralmente tra i visi pallidi dagli occhi in vetro, forse perché anche Luna assomigliava ad una bambola di porcellana, tanto che - alla fine del sogno - era diventata lei stessa un semplice viso bianco con occhi in vetro e labbra rosse a cuore.

Mi svegliai con un sussulto e rimasi, disorientato, a fissare il viso rilassato della Lovegood - dove spiccavano i grossi occhi azzurri - a pochi centimetri dal mio.

«Buongiorno», sussurrò, sorridendomi.

«'Giorno», bofonchiai, mentre trattenevo a stento uno sbadiglio.

In quel momento mi resi conto di avere il braccio sinistro sotto la nuca della Corvonero, ecco che si spiegava il solletico che sentivo sulla pelle, mentre l'altra mano era...

Mi scostai di scatto, con gli occhi sbarrati, se la mia pelle fosse stata chiara si sarebbe potuto vedere chiaramente il mio imbarazzo sulle mie guance colorate di rosa.

«Scusa», sussurrai con voce strozzata, prima di riprovarci una volta schiarita la voce: «Scusa, non mi sono reso conto che...».

"... che la mia mano destra era stretta - anzi, forse sarebbe meglio dire aggrappata - intorno al tuo seno sinistro?"

Mi andò di traverso la saliva e iniziai a tossire, facendo la figura dell'imbranato patentato, mentre Luna mi sorrideva dolcemente, le guance soffuse da un tenue rossore e gli occhi accesi da una punta di... delusione?

"No, impossibile, ti stai immaginando tutto", pensai, infatti due istanti dopo nei suoi occhi potevo leggere solo un dolce imbarazzo.

«Non preoccuparti», disse, semplicemente.

"Non preoccuparti"? Come facevo a non preoccuparmi quando avevo un'erezione da primato e la mano che mi bruciava al ricordo della forma del suo seno morbido e sodo premuto contro la mia pelle?

Domanda da un milione di dollari: perché la Lovegood era senza maglietta?

«Avevi caldo?», le chiesi, senza utilizzare il filtro cervello-bocca di cui solitamente facevo buon uso e lasciando che quelle parole creassero ulteriore imbarazzo tra noi.

Ora le guance della Corvonero erano incandescenti.

«Non so perché sono senza m-maglietta», balbettò, coprendosi il petto esposto - del quale riuscii a scorgere l'areola più scura del capezzolo sinistro - con le coperte, mentre mi scrutava il viso con i suoi timidi occhi azzurri: «Ricordo che hai fatto un brutto sogno, che continuavi ad agitarti, così ho provato a svegliarti, e mi hai abbracciato, borbottando cose senza senso per un po', poi sei tornato a dormire e anche io... non riesco a ricordare altro...», distolse lo sguardo e lo lasciò vagare per la stanza, quasi alla ricerca di una via di fuga.

"Non puoi toglierle la coperta e toccarla, no, anche se il suo odore non ti permette di pensare ad altro! Quel capezzolo, non ho mai visto nulla di può sensuale ed innocente allo stesso tempo. Devo stringerlo tra le dita, sentire la sua consistenza tra le mie labbra. Ora!"

«Vado in bagno», sussurrò la Lovegood, prima di alzarsi, afferrare da terra la sua maglietta e stringersela sul seno.

Nel giro di due secondi era scomparsa oltre la porta, lasciandomi solo, perso nei miei pensieri nient'affatto casti.

La fuga della Corvonero era stata un bene, se fosse rimasta una manciata di secondi in più accanto a me, avrei finito per fare qualcosa di cui molto probabilmente poi mi sarei pentito. Come per esempio fare sesso con lei.

Chiusi gli occhi, feci un profondo respiro e mi portai le mani a coprirmi il viso, mentre cercavo di pensare a qualcosa, qualsiasi cosa che potesse sedare l'eccitazione ben visibile che avevo tra le gambe. Inizialmente provai a pensare a mia cugina Sofia, unica figlia di zio Flavio, che aveva un problema di linea e pesava il triplo di quanto avrebbe dovuto, quando non funzionò provai ad immaginarmi la McGranitt e la Sprite nude. Un brivido di raccapriccio mi attraversò il corpo e la mia evidente erezione si afflosciò in pochi secondi. La McGranitt e la Sprite non deludevano mai.

Mi sollevai a sedere e un ricordo inaspettato mi fece gemere e sbarrare gli occhi dalla sorpresa: all'improvviso ricordai di aver sognato, tra un incubo e l'altro, di togliere la maglietta alla Lovegood per poter sentire la morbidezza della sue pelle contro il mio viso.

Quello che avevo pensato essere frutto della mia immaginazione si era rivelato essere la realtà; avevo davvero sentito i caldi seni di Luna contro le mie guance e baciato quella pelle lattea.

L'erezione che ero riuscito a debellare era tornata più potente che mai e, stretta nei miei boxer, pulsava in modo terribilmente doloroso.

Afferrai i primi vestiti che mi capitarono a tiro e li strinsi all'altezza della mia intimità cosicché, quando la Lovegood uscì dal bagno pochi secondi dopo, potei entrare nella stanza e chiudermici dentro senza che lei vedesse quanto la nottata trascorsa con lei mi avesse colpito e non in un modo del tutto positivo.

«Ti senti meglio?», chiese lei, prima che chiudessi la porta tra noi.

Non avevo la più pallida idea di cosa interessa dire, ma al momento non avevo tempo da perdere.

«Sì», dissi con voce strozzata e tono frettoloso, prima di sbarrare il legno alle mie spalle e lasciar cadere a terra i vestiti.

Con la mano sinistra aprii il getto della doccia, mentre con la destra sfiorai la mia povera erezione, rabbrividendo dalla testa ai piedi all'improvvisa scarica di piacere che m'invase mentre cominciavo a toccarmi.

Era da tempo che non ricorrevo alla masturbazione, quando si ha un fisico come il mio e il mio fascino da 'latin lover' si tende a sfruttarli i più possibile, in modo da non ritrovarsi da soli a dover scaldare il letto la notte. Era da quando era iniziata l'occupazione di Hogwarts che mi ero reso conto di quanto scarseggiassero esseri di sesso femminile decenti - e con decenti intendevo scopabili - dettaglio che mi aveva allarmato all'istante.

C'era da dire che Luna Lovegood era molto più che scopabile e, in questi due giorni a stretto contatto, mi ero reso conto di quanto fossi attratto da lei in un modo totalmente inaspettato. Volevo conoscerla meglio, sfiorare la sua pelle di porcellana ed immergermi nel suo odore di lavanda. Volevo proteggerla, lei era così piccola e fragile...

Mi bastò pensare ai suoi seni piccoli e sodi e alla sensazione di caldo benessere che mi aveva trasmesso svegliarmi con la mano destra stretta al suo seno sinistro, per venire nelle mutande come un ragazzino privo di esperienza.

Cosa mi stava succedendo?

Misi nel cesto della biancheria sporca - quello che ritiravano una volta a settimana gli elfi domestici per fare il bucato - le mutande e il pigiama, prima di entrare nella doccia e lasciare che l'acqua ghiacciata raffreddasse i miei bollenti spiriti.

Solo dopo essermi asciugato, evitando come ogni volta di guardare più a lungo del dovuto il Marchio Nero impresso sul mio avambraccio sinistro, fissai il mio riflesso allo specchio e realizzai che i sentimenti che provavo nei confronti di Luna Lovegood erano più semplici e innocui di quanto pensassi. Era solo attrazione fisica, nient'altro... certo, era una ragazza particolare, quindi mi incuriosiva il suo strano modo di pensare, ma questo non significava nulla. Tutto quello che dovevo fare era sedurla, portarmela a letto e dimenticarmi della sua esistenza. Nient'altro.

Sorrisi al mio riflesso nello specchio ed ignorai categoricamente quella piccola parte della mia mente che voleva soffermarsi ad analizzare l'infinita tenerezza che provavo nei confronti della Corvonero che si trovava in camera mia; mi imposi di lasciare ad un altro momento considerazione più approfondite sulla situazione.

Ora dovevo prepararmi per andare a svolgere le mie mansioni da Mangiamorte, poi avrei accompagnato la Lovegood dalla Granger e dopo avrei raggiunto Draco per parlare, avevo bisogno del consiglio di un amico.

Misi gli abiti che mi ero portato in bagno e ringraziai Merlino che erano puliti.

In pochi istanti ero pronto e avevo lasciato aperta sulla camicia solo la cravatta, accessorio che odiavo profondamente. Non ero mai riuscito a farmi al primo colpo il nodo e mai sarei riuscito a farmelo: la cravatta apparteneva semplicemente ad un altro universo, del quale non facevo parte e che mai avrei capito. Un po' come il genere femminile, solo che per quanto riguardava le donne ero affascinato e attratto da loro, e ciò non valeva per l'arcano mondo delle cravatte.

Una volta uscito dal bagno, ringraziai Breedy che aveva appena appoggiato la colazione sulla scrivania della stanza e studiai l'aspetto della Lovegood; aveva indossato il paio di pantaloni color della pece di Pansy e il maglioncino celeste che avevo trafugato dall'armadio di Daphne, aveva i piedi scalzi e i capelli raccolti in una treccia, fermata all'estremità da quello che sembrava il laccio di una scarpa.

«Chiederò a Daphne un paio di elastici per i capelli, così potrai legarteli più facilmente», le dissi, sedendomi a tavola davanti a lei: «Dove hai trovato quel laccio?»

Un tenue rossore si diffuse sulle sue guance: «Scusa, avrei dovuto chiederti il permesso prima di prenderlo, non ci ho proprio pensato. Comunque grazie, un codino farebbe comodo».

Annuii e iniziai a sorseggiare una tazzina di caffè nero, apprezzandone il sapore amaro, totalmente in contrasto rispetto all'odore di lavanda della Lovegood nel quale mi ero ritrovato immerso per tutta la notte.

"Basta", m'imposi mentalmente, distogliendo lo sguardo dalla lieve scollatura del maglioncino celeste: "Smettila di fare il maniaco, il fatto che tu voglia scopartela non vuol dire che lo farai. Ci devi convivere almeno fino a quando torna Pansy e poi..."

Chissà perché ma l'idea di dovermi separare dalla dolce compagnia della bionda Corvonero non mi faceva piacere, ma mi lasciava una pungente sensazione di fastidio al petto.

Improbabile che il dispiacere fosse causato solo dal fatto che avrei voluto portarmela a letto, molto probabilmente ne era responsabile anche la tranquilla routine con lei a cui ormai mi ero abituato e al costante e totalizzante desiderio di stringerla.

Era così piccola, magra e fragile che volevo proteggerla ad ogni costo, anche da me stesso.

«Sei sicuro di stare meglio?», chiese con un filo di voce la Lovegood, lanciandomi una veloce occhiata da dietro la sua tazza di tè caldo con latte.

Aggrottai le sopracciglia all'istante, non capendo a cosa si riferisse: «Sì, perché?», chiesi, forse con un tono un po' troppo freddo e scostante rispetto al solito. Involontariamente avevo cominciato ad allontanarla da me per non rischiare di ferirla.

«Ieri sera avevi mal di testa, volevo solo accertarmi che...»

Non le lasciai finire la frase, sentendomi all'istante uno stupido coglione. Come avevo potuto dimenticare la sua infinita dolcezza nell'aiutarmi anche se non ne avevo avuto veramente bisogno, dato che il mio male era marginale?

"Sei proprio uno stupido coglione e non meriti di respirare la sua stessa aria".

Le sorrisi appena, per cercare di rassicurarla ulteriormente: «Sì, sto benissimo, il mal di testa per fortuna è passato ed ora mi sento come rinato. Grazie per a-avermi aiutato», mi sentii il viso in fiamme per il tono balbettante con cui avevo detto l'ultima frase.

"Cosa c'è che non va in me, accidenti?", mi chiesi, sistemandomi nervosamente il colletto della camicia bianca che indossavo.

Ringraziai la mia pelle scura e il fatto che lei non potesse vedere le mie guance tingersi di porpora per l'imbarazzo, prima di posizionarmi davanti ad uno specchio ed iniziare l'usuale litigio con la cravatta.

Con le dita che mi tremavano appena per il nervoso provai e riprovai a legarmi la cravatta al collo; tirai prima un'estremità poi l'altra e ancora una volta sbagliai qualcosa.

Sbuffai infastidito e riprovai.

«Hai bisogno di una mano?», chiese Luna Lovegood, facendomi perdere la concentrazione per due miseri secondi che furono fatali e dovetti ricominciare da capo la mia impresa.

«No, grazie», risposi, con un sorriso trionfale quando riuscii a fare il nodo: «Ce l'ho fatta da solo».

Mi voltai e rimasi per pochi secondi a sistemarmi i vestiti, prima di afferrare la bacchetta, il mantello e la maschera da Mangiamorte, pronto ad andare a dare il cambio a Tiger.

«Torno tra un'oretta, ti accompagno poi io dalla Granger», dissi alla Lovegood, sorridendole e -ignorando la sensazione di pace che scrutare i suoi grandi occhi azzurri mi trasmetteva - uscii dalla stanza a passo veloce, per non cedere ai miei istinti e baciare le sue labbra color pesca.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Capitolo ottavo ***


Capitolo ottavo
(Luna's point of view)

 

Blaise lasciò andare la mia mano il preciso istante in cui entrammo in camera sua e la porta si chiuse alle nostre spalle.

Aveva un’espressione in viso che non lasciava spazio a dubbi: era nervoso e infastidito, ma da cosa non avrei saputo dirlo.

Il pranzo era già sul tavolino; i vassoi ancora coperti celavano le pietanze e nessun odore suggeriva cosa ci sarebbe potuto essere al loro interno.

Blaise andò in bagno senza dire una parola e vi si chiuse dentro.

Rimasi davanti alla porta d’ingresso per qualche secondo, a giocare con l’orlo della maglia e ad asciugarmi le mani umide di sudore contro i pantaloni.

Il nervosismo malcelato del Serpeverde aveva contagiato anche me; non sapevo come comportarmi, cosa dire…

Le mie parole avrebbero potuto aiutarlo a calmarsi? O forse sarebbe stato meglio tacere e aspettare?

Mi spostai verso il tavolo, sedendomi su una delle due sedie - quella che fino a quel momento era stata designata a me - e iniziai a sistemarmi il tovagliolo sulle gambe e a spostare le posate, giusto per passare un po’ il tempo, mentre aspettavo che il mio ospite uscisse dal bagno.

Non mi sembrava educato iniziare a pranzare senza di lui.

Mi chiesi se parlargli dal piano abbozzato poco prima con Hermione sarebbe stata una buona idea. Avrebbe considerato seriamente la nostra idea?

Ricordai improvvisamente di avere ancora con me il foglio che avevamo stilato io ed Hermione poco prima, così lo tirai fuori dalla tasca dei pantaloni e lo dispiegai davanti a me.

La scrittura nervosa e disordinata di Hermione portò un sorriso sulle mie labbra.

Lessi velocemente le righe, muovendo appena il capo su e giù e muovendo appena le labbra; per scandire le parole chiave o quelle che faticavo maggiormente a decifrare.

Piegai il foglio e lasciai che mi si adagiasse sul grembo, lo sguardo focalizzato sulla saliera al centro del tavolo, la fronte aggrottata e le dita irrequiete a giocare con il bordo del foglio.

Fu così che mi trovò Blaise quando riemerse dal bagno: intrappolata nei miei pensieri, lo sguardo vacuo; tanto che ci misi venti secondi buoni prima di rendermi conto della sua presenta nella stanza.

«Lovegood? Lovegood? Stai bene?»

Sbattei le palpebre e alzai lo sguardo verso il serpeverde a due passi da me. Aveva uno sguardo preoccupato, una mano protesa appena verso di me e le labbra strette in una linea sottile.

«Sì, sto bene», mormorai, sorridendo.

Quando portai lo sguardo sulle mie mani, mi ricordai del foglio che stavo torturando e nella fretta di rimetterlo in tasca, mi tagliai lievemente il polpastrello del pollice destro, dal quale stillarono poche gocce di sangue.

«Oh», sussurrai, avvicinando la parte offesa al mio viso.

«Devi fare attenzione, ti sei fatta tanto male?», chiese lui, sedendosi nel posto a tavola libero vicino a me.

«No, è solo un taglio, passerà subito», lo rassicurai, prima di portarmi il dito alla bocca.

Il sapore del sangue mi fece storcere il naso, ma non demorsi; quello era il modo più facile e veloce per disinfettare la “ferita”.

«Mangiamo?», gli proposi, ma la sua attenzione si era focalizzata sul foglio che la mano sinistra ancora reggeva e sembrò non udire le mia parole.

Sembrava curioso e non particolarmente intenzionato a lasciar perdere: «Cos’è?», chiese, avvicinandosi, quasi volesse prendermi il foglio di mano.

«Niente», dissi, mettendo l’oggetto del suo interesse in tasca, prima di avvicinare ulteriormente la sedia al tavolo e nascondere le mie gambe alla sua vista. Speravo che così facendo si sarebbe presto scordato dell’esistenza dell’elenco scritto dalla Granger, il quale per uno strano concatenamento di eventi era rimasto a me e non alla proprietaria.

Gli occhi di Zabini mi scrutarono indagatori. Dopo poco apparentemente decise che non ne valeva la pena e che, in fondo, non era poi così interessato al foglio che aveva nascosto nella tasca dei pantaloni. Sorrise, si sistemò meglio sulla sedia e sollevò i coperchi dei vassoi disposti di fronte a noi.

«Gradisci delle frittele?»

Sembrava di umore migliore rispetto a quando eravamo entrati nella stanza; più disteso e loquace.

«Sì, grazie», risposi, approfittando del silenzio per considerare la stranezza della mattina appena vissuta. Ero stata chiusa in bagno a lungo, ma l’intrattenimento non era mancato e avevo avuto modo di udire chiaramente, anche se non era propriamente mia intenzione origliare conversazioni private, le parole che si erano dette Narcissa Malfoy ed Hermione.

La mia amica se l’era cavata egregiamente e non aveva permesso alla donna di metterle i piedi in testa, ma non avevo mai avuto dubbi in proposito. Mettere i piedi in testa a Hermione, c’era qualcuno che ne era in grado? Ne dubitavo.

Senza rendermene conto smisi di mangiare le frittelle con cui Blaise mi aveva generosamente riempito il piatto e rimasi incantata a guardare il ragazzo seduto accanto a me; il suo modo di servirsi e gustarsi le pietanze era semplicemente impeccabile.

Tutto calcolato, ogni gesto ed esitazione.

Sollevai appena lo sguardo, per osservare il suo volto e avvampai quando mi resi conto che mi stava guardando a sua volta con un’espressione indecifrabile.

«Un galeone per i tuoi pensieri», disse, sfoggiando un sorrisetto impertinente che mi mise ulteriormente in imbarazzo.

«Oh, non stavo pensando a niente di interessante, temo», ribattei, nella speranza che lasciasse perdere e tornasse al pranzo, dimenticandosi tutto.

Speranza vana.

«Lascia che sia io a valutare», il suo sorrisetto era quasi un ghigno compiaciuto ormai.

“Non puoi dirgli che lo stavi ammirando per la sua eleganza nel mangiare, pensa a qualcos’altro Luna, qualsiasi altra cosa!”

«Mi chiedevo se anche questo pomeriggio mi potrò incontrare con Hermione».

Era palese anche al piatto di frittelle davanti a me che non avevo affatto detto la verità, quindi non mi stupii più di tanto quando Blaise alzò un sopracciglio e mi dedicò l’espressione più scettica che avesse nel suo repertorio di espressioni scettiche.

«Penso di sì», disse, tornando a fissare il suo piatto.

Il resto del pranzo trascorse tranquillamente, Blaise non tentò di carpirmi la verità in alcun modo, preferendo erigere un muro d’indifferenza intorno a sé.

Mi chiese se avessi trascorso una piacevole mattinata e io gli raccontai della visita della signora Malfoy, della prontezza di Hermione nel nascondere entrambe nel bagno e di come se l’era cavata egregiamente durante la conversazione con la donna, malgrado Narcissa Malfoy non si fosse minimamente risparmiata commenti e frecciatine.

«La Granger è un osso duro», commentò, posando le posate nel suo modo impeccabile: «Ma anche Narcissa Malfoy è una donna altrettanto forte».

Annuii, incerta su come continuare la conversazione; non volevo che si creassero ulteriori silenzi tra di noi, mi piaceva parlare con lui.

«Mi ricorda mia nonna», mormorò, accennando un breve e timido sorriso.

Era la prima volta che nominava un membro della sua famiglia davanti a me. Avrei voluto chiedergli ulteriori informazioni, ma il timore di porre la domanda sbagliata e di portarlo a cambiare discorso, mi fece desistere.

«La mia nonna paterna, ovviamente, nonna Rosa», specificò: «Non ho mai conosciuto nonna Pearl e mia madre non ama parlare di lei. Nonna Rosa è l’unica nonna che ho».

Posai le mani in grembo, ero sazia e pronta ad ascoltare tutto ciò che Blaise era disposto a condividere con me.

Avevo la netta sensazione che per lui non fosse semplice parlarmi così a cuore aperto e la cosa non mi stupiva più di tanto; in fin dei conti ci conoscevamo appena e io ero solo Lunatica Lovegood, la pazza ragazzina che vede esseri che non esistono.

Abbassai lo sguardo e mi chiesi come mai stesse raccontando quelle cose a me.

“Forse gli piaci”.

Quel pensiero mi fece avvampare e sentii chiaramente la pelle d’oca farsi strada lungo le mie braccia.

“Non essere sciocca, forse gli fai solo pena”.

«La vado a trovare tutte le estati, passo più tempo in Italia da nonna Rosa che in Inghilterra con i miei genitori. Papà è sempre sommerso di lavoro, mamma ha l’agenda piena di balli, ricevimenti e convegni a cui deve assolutamente partecipare, così io passo le estati a casa della nonna».

Blaise si fermò e mi guardò a lungo, facendomi arrossire ulteriormente.

Provai a schiarirmi la voce per dare il mio contributo alla conversazione, ma la mia voce sembrava il gracidio di una rana e optai per un po’ d’acqua per cercare di darmi una calmata.

«Com’è l’Italia?», gli chiesi, una volta che sgolai l’intero contenuto del bicchiere: «Non ho mai avuto l’occasione di viaggiare all’estero».

«L’Italia ha un fascino tutto suo; difficile spiegarlo senza sembrare banale e finire col cadere nei soliti luoghi comuni», rispose, sorridendomi.

Non mi era sfuggito lo sguardo divertito che mi aveva lanciato al mio gracidare poco prima, ma avevo deciso di non offendermi; aveva tutto il diritto di ridere se tutto quello che riuscivo a fare era rendermi ridicola ai suoi occhi.

«Le estati dalla nonna sono piene di luce e vita. La maggior parte del tempo lo passo con i miei cugini, andiamo in barca, a visitare città e a spendere il nostro patrimonio in giro per locali. Ma non mancano i ricevimenti a cui sono costretto a partecipare per fare un piacere a mia nonna, in questi casi mi diverto un po’ meno».

Ci furono alcuni secondi di silenzio, in cui io provai a immaginarmi come dovessero essere le sue estati in Italia, a immaginarmi le risate, i colori e i profumi.

«Tu come trascorri le estati?», mi chiese, con uno sguardo colmo di curiosità e le labbra distese in un sorriso.

Sorrisi a mia volta: «Faccio i compiti, mi occupo della casa e dò una mano a papà col giornale. Spesso vado a trovare mia zia e passo qualche giorno da lei in Cornovaglia. La maggior parte del tempo mi dedico al giardinaggio e…» un groppo in gola mi impedì di continuare la frase.

Probabilmente se gli avessi detto che passavo le estati a studiare creature che solo io potevo vedere mi avrebbe presa per pazza. Molto più di quanto già non facesse.

I suoi occhi blu mi scrutarono a lungo, un sopracciglio alzato in modo interrogativo e la fronte aggrottata.

«E leggo», aggiunsi alla fine, optando per una verità meno compromettente.

Zabini si alzò in piedi e si stiracchiò appena, prima di tornare a guardarmi: «Che genere di letture ti interessano? Volendo posso andare in biblioteca e prenderti qualche volume da leggere, per far passare il tempo quando io non ci sono e non sei dalla Granger».

La sua proposta mi fece sorridere: «Sei molto gentile, grazie. Non ho particolari preferenze, sono interessata a qualsiasi ambito».

«Non per nulla il cappello ti ha smistato in Corvonero».

La sua osservazione mi colpì, lasciandomi per qualche secondo senza parole.

Era forse un complimento? Era sbagliato considerarlo tale? Era giusto avere voglia di ringraziarlo?

In quel momento, senza che qualcuno lo chiamasse, spuntò Breedy, che porse a Blaise un biglietto da parte di Draco Malfoy. L’elfo scomparve con i piatti sporchi del pranzo e le orecchie rosse per i miei complimenti e ringraziamenti.

«Draco ci chiede di raggiungere lui ed Hermione dopo pranzo, a quanto pare dobbiamo discutere di qualcosa d’importante», mi disse Blaise dopo aver letto la missiva.

Annuii: «Andiamo subito?», chiesi, alzandomi da tavola.

«Perché no», rispose, afferrando il mantello: «Aspetta qua un istante», disse prima di uscire dalla porta e di controllare che il corridoio fosse vuoto.

Mi fece gesto di raggiungerlo dalla porta socchiusa e io lo seguii senza fare storie, affiancandolo in quei pochi metri che ci separavano dalla porta della camera di Malfoy.

Eravamo quasi arrivati che dalla porta del biondo sempreverde uscì Pansy Parkinson, il mantello ad avvolgere la sua elegante figura e la maschera da Mangiamorte stretta nella mano destra.

Io e Blaise ci fermammo in mezzo al passaggio.

Avevo il cuore che batteva forte nel petto; vedere qualcuno uscire dalla camera di Malfoy mi aveva portato a rendermi conto di quanto tutta quella faccenda fosse pericolosa e a convincermi una volta per tutte che dovessimo fare il possibile per trovare una soluzione.

«Blaise», salutò la mora, facendo un veloce gesto col capo, prima di voltare lo sguardo verso di me: «Lovegood», mi apostrofò con una smorfia.

«Sei tornata», fu tutto quello che uscì dalle labbra di Blaise che, con un’espressione corrucciata, continuava a fissare la serpeverde: «Com’è andata la missione?»

«Non mi sembra il luogo adatto per discorrerne, un’altra volta», fece un gesto sbrigativo con la mano, quasi stesse scacciando una mosca fastidiosa e ci superò con passo nervoso, dirigendosi verso un corridoio laterale che doveva, quasi sicuramente, condurre alle stanze del dormitorio femminile.

Lanciai una veloce occhiata a Blaise accanto a me, che sembrava corrucciato; forse la risposta sbrigativa della mora lo aveva deluso in qualche modo.

Non rimanemmo in corridoio ancora a lungo, entrambi ci affrettammo verso la porta della stanza di Malfoy. Ero preoccupata che qualcuno potesse vederci e Zabini sembrava esser stato colpito dal mio stesso timore.

Bussò lievemente alla porta e la aprì.

La scena che si presentò ai nostri occhi, una volta messo piede nella stanza, ci mostrò un corrucciato Draco Malfoy che si massaggiava una spalla, mentre Hermione era seduta sul letto, con le braccia conserte e uno sguardo indispettito.

Il volto della mia amica si illuminò appena mi vide entrare.

«Oh, Luna!», esclamò la Grifondoro, alzandosi in piedi e raggiungendomi in pochi passi.

Ci abbracciammo brevemente, mentre Zabini si chiudeva la porta alle spalle e ci lanciava un’occhiata divertita: «Da quanto tempo, eh?», ci prese in giro, cercando con gli occhi il supporto di Malfoy. Il biondo scosse la testa e alzò gli occhi al cielo.

«Zabini, nessuno ha chiesto il tuo parere», s’indispettì Hermione, prima di raggiungere nuovamente il letto e sedersi, facendomi segno di raggiungerla.

«Ora che ci siamo tutti dobbiamo decidere il da farsi», disse Malfoy, sedendosi al tavolino: «Hermione?»

La riccia alzò lo sguardo verso il biondo, alzando un sopracciglio, incuriosita: «Sì?»

«Esponi il piano», la incitò il Serpeverde, facendo segno al moro di sedersi a tavola con lui.

A Hermione brillarono gli occhi di fierezza per qualche istante.

Ero contenta che fosse riuscita convincere Malfoy ad ascoltarla e ad appoggiarla.

Ora dovevamo solo parlare dei nostri progetti con Blaise e vedere la sua reazione, nella speranza che approvasse.

Hermione espose tutto con estrema maestria, senza tralasciare nulla: parlò degli horcrux, della Bacchetta di Sambuco, della Coppa, del Medaglione e del Basilisco.

Mentre parlava osservai le espressioni dei due serpeverde e rimasi colpita dal profondo orgoglio che traspariva dal volto di Malfoy. Zabini invece rimase impassibile la maggior parte del tempo, quasi fosse troppo sorpreso per poter reagire in qualsiasi modo.

«In poche parole, propongo di dividerci. Luna sperava di poter parlare con la Dama Grigia e chiederle informazioni a proposito del medaglione di sua madre, Zabini potresti accompagnarla per accertarti che non le accada nulla. Io e Malfoy invece potremmo dedicarci alla ricerca della zanna di Basilisco. Per quanto riguarda la Coppa, avete qualche idea? Draco, tuo padre o tua madre potrebbero chiedere a Bellatrix informazioni senza destare troppi sospetti? O dici che è troppo pericoloso?»

«Posso chiedere», rispose il biondo, sorridendo alla riccia.

Per qualche secondo cadde un pesante silenzio.

Blaise continuava a fissare Hermione, pareva pensieroso. Poi i suoi occhi si spostarono su di me e vidi un lampo di disappunto arricciargli la fronte.

«Questo è un suicidio», disse alla fine il moro, guardando Malfoy dritto negli occhi: «Non sono sicuro di approvare, ma ormai sembra che abbiate tutti deciso, quindi non ho intenzione di mettervi i bastoni tra le ruote. Vi aiuterò».

Un sorriso soddisfatto comparve sulle mie labbra. Non ci aveva detto di no e questo per me era molto importante.

«Grazie, Blaise», disse Malfoy: «Sapevo di poter contare su di te».

Zabini annuì e tornò a fissare Hermione: «Da dove cominciamo?», le chiese con tono rassegnato.

La riccia si alzò subito in piedi e raggiunse il comodino, dove si trovavano uno spesso volume impolverato, una boccetta contenente un liquido color fango e il galeone incantato.

«Questa è la pozione polisco che utilizzeremo per non essere riconosciute io e Luna. Ovviamente indosseremo mantelli e maschere la mangiamorte, ma per essere ulteriormente sicure questa mi sembra la soluzione migliore. Questo è un libro sul serpentese, questo pomeriggio leggerò se ci può tornare utile, altrimenti mi metterò in contatto con Harry e proverò a chiedergli se ci può fornire la parola in serpentese necessaria per aprire la camera dei segreti. Domande?»

«Quand’è che hai cominciato ad avere lo stesso tono di voce della McGranitt?», chiese Malfoy.

Hermione assottigliò lo sguardo e irrigidì le spalle: «Ci sono altre domande? Magari pertinenti?»

Draco sorrise sotto i baffi, sembrava compiaciuto di se stesso.

Si divertiva così tanto a vederla arrabbiata?

Osservai il profilo di Blaise, che sembrava essersi perso a fissare il muro alle spalle di Malfoy.

Sembrava realmente preoccupato. Come dargli torto? Anche io lo ero e non solo per me.

«Bene, allora suggerirei di metterci all’opera», concluse Hermione, posando il volume della biblioteca sul grembo di Malfoy in modo brusco e, osservando il volto paonazzo di Malfoy, immaginai doloroso.

Blaise si alzò in piedi e mi fece gesto di seguirlo. Abbandonai il morbido materasso e mi alzai a mia volta, ma le parole di Malfoy mi fecero gelare sul posto: «Non so se lo sapete, ma è tornata Pansy. Volendo la Lovegood può andare a dormire da lei, così tu starai più comodo. Che ne pensi, Blaise?»

Il moro aggrottò la fronte, fissando il biondo con fastidio. La sue espressione contrariato mi fece sperare che mi volesse con sé.

«Se Pansy è d’accordo…», disse Zabini, facendo spallucce: «Magari ti ci vorrà un po’ per convincerla, nel mentre posso continuare ad ospitarla io».

«Va bene, ti farò sapere presto», annuì Malfoy, le mani strette intorno al volume che aveva in grembo, mentre Hermione in piedi, a pochi passi da lui, osservava la scena con un sopracciglio sollevato.

«Ci vediamo presto», mi salutò la mia amica, regalandomi un dolce sorriso.

«Certo, nel frattempo potrei fare alcune ricerche, per trovare il modo di far entrare ad Hogwarts la resistenza», proposi, affiancando l’alta figura di Zabini.

«Ottima idea», disse Hermione, schiaffeggiando la mano di Malfoy che aveva provato ad afferrarla per un fianco e avvicinarla ulteriormente a sé.

Sorrisi della scena e, alzando lo sguardo, notai che Blaise stava a sua volta ridacchiando.

Uscimmo nel corridoio e percorremmo i pochi passi verso la stanza di Zabini in pochi secondi, riuscendo (nuovamente) a non farci scoprire.

Una volta nella sua camera, il moro mi lanciò un’occhiata contrariata: «Perché vuoi parlare a tutti i costi con la Dama Grigia? Non me ne potrei occupare io? O qualcun altro?»

«Non preoccuparti, andrà tutto bene», lo rassicurai: «E poi ci sarai tu con me, non ci andrò da sola».

I suoi occhi blu rimasero a lungo chiusi; la bocca stretta in una linea sottile non lasciava presagire nulla di buono.

«Non sono invincibile e non lo sei neanche tu. Possibile che non tu non abbia paura?», mi chiese, aprendo gli occhi, che colmi di dolore, sembravano supplicarmi di ripensarci.

«Certo che ho paura, ma non abbiamo scelta. Prima porteremo a termine la missione, prima sarà tutto finito e potremmo tornare alla normalità», gli risposi.

I miei piedi fecero di testa loro e mi ritrovai a pochi centimetri da lui, le mani appoggiate alle sue spalle e il volto pericolosamente vicino al suo. La fragranza della sua pelle mi provocò una forte fitta allo stomaco.

«Normalità?», sussurrò: «Come potrei tornare alla normalità dopo tutto ciò che è successo?»

«Le guerre cambiano molto le persone», gli diedi ragione e, colma di un coraggio che non pensavo di avere, lasciai che una mano gli si appoggiasse sulla guancia, saggiando la morbidezza della sua pelle. Dopo quello che era successo la notte prima, dopo tutti gli sguardi e le frasi interrotte; dopo quel poco immenso che c’era stato mi sembrava così naturale toccarlo. Come se conoscessi la consistenza della sua pelle da sempre.

«Non mi riferivo alla guerra».

Le sue mani avvolsero il mio viso e un timido sorriso distese le sue labbra: «Ma a te».

Il bacio che mi diede fu dolce, delicato. Un breve sfiorarsi di labbra.

Non chiusi gli occhi; erano sbarrati dall’emozione. Le mani mi tremavano mentre stringevo la mia presa sulle sue guance per tenerlo vicino e poter prolungare quel bacio.

Quando ci scostammo, sorrisi: «Questo bacio non cambia niente, non mi impedirai di andare a parlare con la Dama Grigia».

Blaise rise di gusto e mi diede un altro bacio a fior di labbra: «Lo so».

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Capitolo nono ***


Capitolo nono
(Pansy's point of view)


 

Erano passati solo cinque minuti da quando la Granger e Malfoy mi avevano abbandonato nella camera di quest'ultimo per andare a fare i coraggiosi Grifondoro in giro per il castello.

Solo cinque minuti e già mi annoiavo a morte.

Averlo saputo, che avrei dovuto giocare a nascondino per almeno un'ora, mi sarei premurata di portarmi qualcosa da fare. Qualcosa come il kit per la manicure.

Al pensiero mi osservai le unghie e feci una smorfia; erano orribili, la gita con Theo e Greyback non aveva giovato al loro aspetto. Lo smalto rosa pallido era rovinato in più punti, per non parlare dell'indice destro, dove l'unghia si era irreparabilmente spezzata.

Sbuffai e mi guardai intorno, colpendo ripetutamente il pavimento col piede destro, a causa del nervosismo.

Odiavo stare con le mani in mano, dovevo fare qualcosa, qualcosa anche di futile, l'importante era impedire al mio cervello di pensare troppo.

Perché sapevo che avere tutto quel tempo libero poteva portare la mia mente a pensieri sgradevoli e dolorosi. Come Theo, per esempio. Theo, innamorato di Daphne Greengrass. Theo, il ragazzo che sognavo nella mia vita e accanto al quale avrei voluto svegliarmi ogni giorno della mia vita. Theo.

Oppure avrei potuto pensare a Draco. Mi faceva ancora male stare nella stessa stanza con lui. Era stato il mio sogno, il mio primo amore e il mio apparente destino per troppo tempo e, lo sapevo, cambiare dall'oggi al domani non sarebbe stato facile. Avevo pensato che sarebbe stato meglio così. Draco non mi voleva? Pazienza, c'erano molti altri ragazzi che...

Ecco, era successo di nuovo: avevo pensato troppo.

Raccolsi con l'indice sinistro la solitaria lacrima che aveva deciso di sfuggire al mio autocontrollo e solcare la mia guancia.

Prima o poi sarei stata felice anche io. Felice come lo erano le persone innamorate. Felice come Hermione Granger e Draco Malfoy.

Un triste sorriso mi stirò le labbra.

Era bello vedere Draco felice, mi infondeva speranza sapere che lui era riuscito a trovare il modo di sfuggire alla solitaria monotonia della vita. Peccato che mi avesse lasciata, precludendomi la stessa gioia.

Cominciavo a pensare di non essere veramente innamorata di Theo, magari me l'ero solo immaginata - la passione, il desiderio - o magari era stata solo attrazione fisica.

Mi sedetti sul letto di Malfoy, sfiorando con le dita il copriletto.

Forse semplicemente non ero degna di essere felice.

Un pensiero improvviso mi instillò abbastanza speranza da farmi sorridere: "Chi aveva detto che per essere felice bisognava per forza essere fidanzate o ammogliate?"

Conoscevo fin troppe coppie sposate infelici, tra le quali rientravano anche i miei genitori.

Non dovevo avere fretta e, nel frattempo, dedicarmi a me stessa. Provare cose nuove, viaggiare, essere quello che non ero mai stata: libera.

Quella rivelazione, come una molla, mi fece alzare in piedi. Cercai tra le cose di Malfoy pergamena e piuma, decisa più che mai a scrivermi una lista di tutte le cose che non avrei mai più fatto.

Avevo intenzione di scrivere al primo posto: "Commiserare te stessa".

Recuperai il necessario, mi sedetti al tavolo e intinsi la piuma nell'inchiostro, facendo attenzione a non macchiare il legno. Fu in quel momento che bussarono alla porta.

Lasciai la piuma e mi alzai in piedi.

La porta si aprì in quell'istante, mostrando la testa e il mezzo busto dell'ultima persona che mi sarei mai aspettata di vedere in quel momento: Theodore Nott.

Con gli occhi sbarrati per la sorpresa, gli dissi di entrare.

«Draco non c'è?», mi chiese, chiudendosi l'uscio alle spalle e guardandosi intorno.

«No, aveva da fare», omisi di sciorinare i dettagli, cercando di rimanere il più impassibile possibile.

«Cosa ci fai in camera sua?»

Aprii bocca, poi la richiusi.

Theo sembrava genuinamente sorpreso, non c'era nemmeno un filo di gelosia nel suo sguardo o nel suo tono di voce. Se anche io avessi deciso di tornare tra le bracci di Malfoy o tra quelle di chiunque altro, a lui non sarebbe importato.

«Ho finito le pergamene, sapevo che lui ne ha sempre di scorta e ho pensato di prendergliene una in prestito. Gliela restituisco appena i miei genitori mi inviano nuovo materiale scolastico», mentii, indicando la pergamena e la piuma sul tavolo, davanti a me.

Theo sembrò credermi, dato che smise di fare domande e si sedette accanto a me.

Il batticuore mi confermò che, malgrado prima ne avessi dubitato, qualcosa c'era tra me e Theo; che fosse solo attrazione fisica, non potevo saperlo, il mio cuore era troppo confuso, ma qualcosa c'era.

«Non crederai mai a cosa mi è successo questo pomeriggio», iniziò a parlare, passandosi una mano tra i capelli: «Bellatrix Lestrange mi ha chiesto di essere il suo braccio destro e di aiutarla nelle sue mansioni giornaliere».

Quelle parole mi colpirono allo stomaco come uno schiantesimo. Theo era entrato nelle grazie di una pazza psicopatica? Avevo sentito bene?

E poi con "mansioni giornaliere" cosa intendeva? Torturare i prigionieri?

«L'ho anche aiutata a incantare il bauletto che ha prelevato alla Grincott, te lo ricordi? Ora è nelle sue stanze sotto un paio di incantesimi protettivi», si vantò, sorridendo a trentadue denti.

«Non aveva lasciato la giornata libera anche a te?», chiesi, decisa a farlo parlare il più possibile. Sapevo che quel bauletto era importante, ne ero certa.

«Sì, ci siamo però incrociati per i corridoi e mi ha chiesto se potevo aiutarla», spiegò storcendo il naso: «Ho pensato che dire di no a Bellatrix Lestrange non fosse saggio».

«Hai fatto bene», annuii, capendo perfettamente cosa intendesse: «E quali incantesimi di protezione avete utilizzato?», chiesi, giocando con la piuma di Malfoy.

Ero nervosa, mi sudavano le mani, ma dovevo scoprire più cose possibili.

«Abbiamo usato un incantesimo di disillusione e un Flagramus», ammise, la voce colma di orgoglio.

«Sono proprio contenta, sai? Essere il braccio destro di Lestrange... devi esserne fiero».

Non pensavo davvero ciò che dicevo, mi sentivo in colpa per avergli carpito le informazioni a me necessarie per tradirlo. Il minimo che potevo fare era fingere di essere contenta per lui, anche se mi sentivo sporca e miserabile.

«Meglio averla come amica che come nemica, questo è certo», disse, fissandomi con uno sguardo orgoglioso e dolce, troppo dolce per il mio povero cuore confuso.

«Beato te che hai avuto un pomeriggio interessante, il mio è stato monotono».

Se monotono si poteva definire, calcolando la crisi di pianto in piena regola, la chiacchierata con Hermione Granger e andare in soccorso di quest'ultima... ah, per non parlare della questione "Pozione Polisucco".

«Volevi scrivere una lettera?», mi chiese, indicando la pergamena bianca di fronte a me.

«Oh, sì, ai miei genitori», mentii, sentendomi a disagio.

Avevo sempre cercato di dire tutto a Theo, allo stesso modo in cui avevo sempre optato per la sincerità con Draco; eppure ultimamente mi era difficile rispettare i miei principi.

Una linea sottile divideva Theo e me. Lui stava da una parte e io dall'altra.

Questo non voleva dire che lui fosse cattivo e io buona, o l'opposto. Avevamo scelto fazioni diverse. Io avevo deciso che uccidere centinaia di innocenti non rientrava nelle mie aspirazioni per il futuro, che la pace era meglio della guerra e che infondo Silente non era poi tanto male come preside, sempre meglio del Signore Oscuro.

Lui invece era stato scelto per uccidere Silente, per essere un eroe tra i Mangiamorte, per essere il braccio destro di Bellatrix Lestrange. Ed era entrato nella parte senza fare storie, i genitori non si erano opposti in nessun modo; erano stati fieri dell'opportunità che veniva data a loro figlio.

Theo si guardò intorno: «Hai per caso incrociato Daphne questo pomeriggio?»

Gradii molto il fatto che non mi stesse guardando negli occhi, non mentre mi chiedeva informazioni su un'altra ragazza.

«Sfortunatamente no, ho sentito che sta portando avanti una ricerca per conto di Piton», o almeno così mi aveva detto Tiger, quando gli avevo chiesto se avesse visto la Greengrass.

«Fa niente, c'è tempo per...», la sua voce si affievolì e gli occhi gli si sbarrarono, mentre fissava la perte alle mie spalle: «Oddio, ma è tardi! Scusa, Pansy, ma devo andare, Bellatrix mi aspetta, dobbiamo interrogare i prigionieri», esclamò, dirigendosi alla porta alla velocità della luce.

«In bocca al mannaro», lo salutai, prima di richiamarlo: «Theo!»

Era già alla porta, ma si fermò e voltò verso di me.

Lo raggiunsi con quattro passati veloci e gli sistemai il colletto del mantello, stringendogli poi le spalle: «Falle vedere chi sei», gli feci l'occhiolino e lasciai la presa, tenendo i pugni chiusi.

Annuì, sorridendomi, poi scomparve oltre la porta, lasciandomi sola.

Osservai la parete alle mie spalle, dove un orologio faceva bella mostra di sé, doveva essere molto antico, probabilmente apparteneva alla famiglia Malfoy e non al mobilio di Hogwarts. Io un orologio simile non ce l'avevo nella mia stanza. Segnava le sette di sera.

Sapevo con assoluta certezza che gli interrogatori duravano dalle due alle tre ore, la signora Lestrange era molto meticolosa e non permetteva a nessun prigioniero di passare la giornata senza essere interrogato e torturato da lei. Interrogava metà dei prigionieri la mattina, l'altra metà la sera.

Fissai la pergamena di fronte a me, bianca e leggermente ruvida al tatto.

Aprii i pugni e sentii un tuffo al cuore quando mi resi conto che, malgrado avessi pensato di non farcela, ce l'avevo fatta.

Quando avevo sistemato il mantello di Theo, un capello lungo, scuro e riccio, mi era rimasto incastrato tra le dita della mano destra. Di chi poteva essere quel capello? Se non di Bellatrix Lestrange?

Il mio sguardo si focalizzò sulla bottiglietta di pozione polisco che occupava il comodino di Malfoy.

Tornai a guardare il capello e mi resi conto che ero stanca di essere trattata come la principessina fragile che non era in grado di prendere le proprie decisioni.

Avevo deciso di essere libera, di scoprire nuove sfaccettature di me stessa.

Quale modo migliore? Avevo un'occasione con la O maiuscola servita su un piatto d'argento e non avevo intenzione di lasciarmela sfuggire.

Una parte della mia mente mi suggerì di non farlo, di non essere avventata, di pensarci su. Che non valeva la pena di essere uccisa per aiutare Draco nella sua missione suicida contro il Signore Oscuro.

"Cosa credi? Che Draco cadrà ai tuoi piedi quando scoprirà la tua impresa?"

Sentii un forte nodo stringermi alla gola e realizzai che quello che avevo sempre provato per Malfoy non si era istinto nell'arco di due settimane, come avrebbe potuto? E anche se Theo mi piaceva, Draco era ancora troppo importante per me, anche se ero consapevole di non avere più speranze. Lui era innamorato di un'altra, lo era sempre stato e io ero stupida, ma non così tanto da illudermi inutilmente.

Tornai al tavolo, dove posai il capello scuro accanto alla pergamena.

Sollevai la piuma dal calamaio e scrissi un veloce biglietto per Draco: "Torno presto, P.", trasfigurai la piuma in un bicchiere, recuperai il capello e mi diressi poi verso il comodino.

Bevvi la Pozione Polisucco con all'interno il cappello di Bellatrix Lestrange e gemetti di dolore, alla sensazione di bruciore. Sentire il proprio corpo cambiare, fu un'esperienza particolarmente spaventosa.

Quando il processo terminò non persi tempo e trasfigurai i miei vestiti, trasformandoli in un abito nero, dal corpetto decorato d'argento e le gonne non troppo ampie e ricoperte da uno strato sottile di tulle nero. Era lo stesso vestito che avevo visto più volte indossare alla signora Lestrange.

Uscii dalla camera di Draco, facendo attenzione che non ci fosse nessuno a vedermi. Per il corridoio del dormitorio maschile non trovai nessuno, ma non fui così fortunata una volta raggiunta la sala comune, dove numerosi occhi si puntarono su di me.

Non degnai nessuno di uno sguardo, sollevando il naso al soffitto e deformando la mia espressione in una smorfia di fastidio e ribrezzo.

Non fu difficile, un paio di Mangiamorte mi fecero un breve inchino di sottomissione mentre passavo e ciò mi rassicurò.

Nessuno dubitava che non fossi la vera Bellatrix Lestrange, tutto procedeva egregiamente.

Quei pochi Mangiamorte che incontrai lungo i corridoi si premurarono di fare inchini o salutarmi con fin troppo garbo e io li ricambiai con occhiate sprezzanti, mentre mi dirigevo alle stanze della signora Lestrange.

Girato l'angolo mi trovai a pochi metri dalla porta che dovevo varcare, accanto alla quale Lucius Malfoy chiacchierava animatamente che un Mangiamorte dal volto coperto.

Non mi aspettavo ci fosse così tanta gente ad attendere Bellatrix Lestrange. Sperai fosse un caso che si trovassero proprio dove non dovevano e mi chiesi se dovessi fare un passo indietro e nascondermi per un po', in attesa che se ne andassero, ma poi il buon senso ebbe la meglio sulla codardia: l'effetto della pozione polisucco non sarebbe durato in eterno, aveva una missione suicida da compiere e tentennare non mi donava affatto, soprattutto se avevo l'aspetto di Bellatrix Lestrange.

Presi un profondo respiro, drizzai le spalle e sollevai il naso in aria.

"Si va in scena!", mi incitai mentalmente, mentre muovevo piccoli passi nervosi verso Lucius Malfoy e il suo interlocutore.

Il primo a rendersi conto di me fu il padre di Draco, che interruppe bruscamente la conversazione che stava intrattenendo (un noioso monologo sulla grandezza del casato Malfoy) per accogliermi con un sorriso fin troppo caloroso.

Fu in quel momento che mi resi conto di quanto la situazione fosse delicata.

Non ero la vera Bellatrix Lestrange, non possedevo i suoi pensieri e i suoi ricordi, non sapevo cosa volesse Lucius da me e chi fosse l'altro Mangiamorte.

"Complimenti, Pansy, sei fottuta".

Guardai gli uomini dall'alto in basso e feci un cenno di saluto col capo ad entrambi, poi, come se niente fosse, aprii la porta della stanza e cercai di introdurmi.

«Bellatrix, avrei bisogno di parlarti a proposito...», gli chiusi la porta in faccia e mi ci appoggiai sopra, prendendo un profondo respiro. Avevo sempre sognato di zittire il padre di Draco, lui e le sue frasi costruite in modo impeccabile, lui e la sua superbia. Ringraziai il mio ex per aver sciolto il fidanzamento, un suocero simile non sarei riuscita a sopportarlo.

Entrare nella stanza di Bellatrix Lestrange era stato relativamente facile, ora dovevo solo riuscire a trovare la coppa. Non me la cavavo male in incantesimi, non era mai stata la mia materia preferita e non ero mai riuscita a prendere un voto superiore ad un Oltre Ogni Previsione, ma non ero del tutto un disastro. Su una scala da Millicent Bulstrode a Hermione Granger, mi sarei posizionata più vicina a quest'ultima, che alla prima.

Non mi fu quindi difficile trovare il nascondiglio del bauletto ed eliminare le maledizioni che Theo mi aveva detto esser state poste su di esso.

La parte facile fu quindi impossessarsene, quella difficile fu trasfigurare una mia forcina in bauletto, in modo da sostituirlo all'originale.

Dovetti provarci a lungo, questo perché in Trasfigurazioni ero una completa Millicent Bulstrode, ma dopo vari tentativi fui abbastanza soddisfatta del risultato, da disporre la forcina trasfigurata sulla cassettiera su cui avevo trovato il baule, imposi su di essa l'incanto di disillusione e il Flagramus, mettendoci tutta la potenza possibile, nel tentativo di eguagliare quelli precedenti.

Pensandoci bene era strano che la signora Lestrange non avesse posto il bauletto sotto maggiori protezioni, ma doveva aver pensato di trovarsi in un luogo abbastanza sicuro da non dover necessitare ulteriori difese. Aveva sottovalutato il pericolo e questo non poteva che andare a mio vantaggio.

Rimpicciolii il bauletto, ma non avevo tasche in cui riporlo, così lo nascosi nell'unico posto che lo scomodo vestito che indossavo permetteva: nella scollatura.

Ero a metà della mia missione suicida, il cuore mi batteva forte nel petto e le dita mi tremavano per l'agitazione. Non mi ero mai sentita così viva in tutta la mia vita.

Mi guardai un'ultima volta intorno, per accertarmi di non aver lasciato nulla in disordine.

Presi un profondo respiro e mi avviai verso la porta.

Aprii l'uscio e uscii con passo di marcia, andando a sbattere contro il petto di Lucius Malfoy, del quale mi ero completamente scordata.

Aprii la bocca per chiedergli scusa, quando mi ricordai di avere l'aspetto di Bellatrix Lestrange e di dovermi comportare come tale. Così feci un paio di passi indietro, fissai con sguardo truce mio "cognato" (ex futuro suocero) e borbottai tra i denti una specie di saluto o insulto a seconda dei punti di vista.

Lucius ricambiò con un cenno della testa pieno di algida superiorità che mi fece sollevare gli occhi al cielo e allontanare con andatura nervosa.

«Chi sei?», mi chiese alle spalle Lucius Malfoy, facendomi bloccare nel bel mezzo del corridoio.

Fino a cinque minuti prima andava tutto bene, mi sentivo viva, pensavo di essere un genio ed ero pronta a saltellare per la felicità, ora, dopo la domanda che mi era stata rivolta, mi sentivo congelare dall'insicurezza, la paura e il rimpianto.

«Non sei Bellatrix, l'ho capito appena ti ho visto, ma davanti a Tiger non volevo fare una scenata», proseguì il biondo: «Chi sei e cosa sei andato a fare nella stanza di Lestrange?»

Presi un profondo respiro e mi girai, constatando che Malfoy si era avvicinato ed ora era a mezzo metro da me.

Mi schiarii la gola, sperando di riuscire ad imitare abbastanza bene la voce di Bellatrix Lestrange al primo tentativo: «Non so di cosa tu stia parla...», la voce mi s'incastrò in gola quando Malfoy mi puntò contro la sua bacchetta.

«Incanto revelio». (1)

Il getto di luce color prugna mi colpì in pieno petto, facendomi barcollare all'indietro.

Con il fiato corto mi resi conto di essere tornata me stessa, di avere addosso i miei vestiti e di essere in un mare di guai.

Il tonfo del bauletto caduto a terra, mi gelò il sangue nelle vene e, senza pensarci due volte, mi accovacciai a raccoglierlo, tenendolo stretto contro l'addome.

«Signorina Parkinson, devo ammettere di essere sorpreso», le parole di Malfoy mi giungevano in modo ovattato, come se provenissero da un'altra stanza. L'incantesimo di rivelazione che mi aveva lanciato contro continuava a farmi fischiare in modo fastidioso le orecchie.

«Sa, mi sarei aspettato un comportamento simile da mio figlio, sempre in cerca di guai, ma non da lei», fece una breve pausa, avvicinandosi ulteriormente a me: «Mi dica la verità, è stato mio figlio a chiederle di entrare nella stanza di mia cognata e rubare quell'oggetto?»

Non sapevo come comportarmi, ero ancora intontita dall'incantesimo e terrorizzata dalle conseguenze che mi aspettavano (prigionia e torture), perciò ci impiegai qualche secondo per raccogliere la poca adrenalina rimastami e reagire: «Non so di cosa stia parlando», la voce mi uscì in modo debole, ma era comprensibile; in fondo mi ero appena beccata un incantesimo allo stomaco.

«Venga con me», ordinò la voce ferma dell'uomo, che mosse qualche passo lungo il corridoio, prima di fermarsi e farmi un gesto col capo.

Merlino, che situazione orribile!

Avevo due opzioni: potevo seguirlo e sperare che tutto andasse per il meglio; oppure attaccarlo, pregare di riuscire a rallentarlo e poi correre verso i sotterranei.

Optai per la prima opzione, decidendo di precederlo lungo il corridoio e intanto pensare a come comportarmi.

Dovevo inventarmi una scusa, qualcosa di credibile, ma la mia mente era annebbiata dal panico.

Era tutta colpa mia, avevo avuto una pessima idea e ora dovevo affrontarne le conseguenze. Che cosa mi era saltato in mente? Volevo fare l'eroina? Volevo dimostrare a tutti cosa? Di non essere la ragazza superficiale e vanitosa che ero?

Volevo dimostrare a Draco che la Granger non era poi così tanto speciale? Volevo che Theo si rendesse conto di avere a portata di mano una come me e di aver invece scelto Daphne?

Quanto faceva male la verità; rendersi conto di essere la ragazzina stupida che tutti pensavano.

«Destra», la voce di Lucius Malfoy mi riscosse appena dai miei pensieri, ma non abbastanza da impedirmi di continuare ad accanirmi contro la mia ingenuità.

Seguii le poche indicazioni che mi venivano impartite dal mago alle mie spalle, mentre mi chiedevo cosa avrei dovuto fare di diverso per portare a compimento la missione senza fallire.

Non incontrammo nessuno lungo i corridoi e in pochi minuti arrivammo alle stanze dei Malfoy.

Entrammo in un grazioso salottino con il camino acceso, dove la signora Malfoy stava leggendo un libro. Vidi un'ombra di sorpresa nel suo sguardo alla mia vista, sorpresa che venne sostituita da disapprovazione quando si rese conto della bacchetta dl marito puntata contro la mia schiena.

«Cosa succede?», chiese Narcissa Malfoy, chiudendo il volume e alzandosi in piedi, senza abbandonare lo sguardo del marito.

«L'ho beccata sgattaiolare fuori dalla camera di tua sorella con quel bauletto», spiegò con tono pacato il signor Malfoy, facendomi cenno con la bacchetta di sedermi sulla poltroncina accanto al camino.

Seguii l'ordine senza oppormi, spostando lo sguardo da uno all'altra.

Non sembravano particolarmente allarmati o infastiditi dalla questione, ma piuttosto piacevolmente sorpresi.

Non riuscivo a capire.

«E nel bauletto...?», iniziò la signora Malfoy, prima di venire interrotta dal marito: «Sì, cara».

«Oh, Merlino», esclamò la donna con un misto di nervosismo e stupore: «É stato Draco a chiederti di rubare quel bauletto?»

Aggrottai le sopracciglia. Ero infastidita dal modo in cui i signori Malfoy sembravano convinti che non potessi prendere delle decisioni da sola.

Certo, effettivamente avevo rubato quel bauletto perché volevo dimostrare a Draco di essere utile alla causa; volevo che mi vedesse sotto una luce migliore, come un alleata e non come una ex troppo stupida per poter ragionare da sola; ma infondo avevo fatto tutto da sola, senza chiedere prima il permesso a Draco o alla Granger.

Rimasi zitta; non avevo intenzione di rispondere alla domanda della signora Malfoy.

«Sei una traditrice, Parkinson?», mi chiese Lucius Malfoy, assottigliando lo sguardo.

Ecco, era arrivato il momento di pregare Merlino e Morgana di farmi uscire viva dalla situazione di cacca di Schiopodo in cui mi trovavo.

Sarebbe stato bello essere ascoltata per una volta.

 

 

________________________________________________________________________________

(1) Mi sono presa la libertà di inventare questo incantesimo che funziona un po' come la Cascata del Ladro che si trova in "Harry Potter e i Doni della Morte", fa cessare quindi l'effetto della Pozione Polisucco.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Capitolo decimo ***


Capitolo decimo
(Blaise's point of view)



Luna era seduta a gambe incrociate sul mio letto, in mezzo alle ginocchia aveva un volume antico e polveroso che avevo recuperato in biblioteca, il quale avrebbe dovuto suggerirle alcuni dei più antichi passaggi segreti di Hogwarts. In realtà, dall'espressione scocciata sul suo viso delicato, intuivo che erano ben poche le informazioni utili che stava ricavando dalla lettura.

Avevamo finito di cenare da poco e lei si era intestardita sul voler cercare ancora un po' prima di andare a dormire. Non ero riuscito a dirle di no e avevo deciso di intrattenermi sfogliando "Storia di Hogwarts", nella speranza di trovare qualcosa di utile a mia volta.

In realtà non stavo propriamente leggendo il volume che avevo in grembo, continuavo a perdermi tra le righe e il mio sguardo virava sovente verso il centro del mio letto, verso una invitante cascata di capelli biondi fini e una bocca dalle labbra imbronciate che avrei voluto far distendere in uno dei suoi dolci sorrisi, magari con un bacio.

Mi morsi il labbro inferiore, ideando un piano nella mia mente.

"Ok, ti alzi, senza farla insospettire, ti avvicini al letto con nonchalance e poi, quando meno se l'aspetta, la placchi e..."

Toc. Toc.

Aggrottai le sopracciglia e mi voltai verso la porta. Chi diavolo...?

L'uscio si aprì, rivelando la chioma bionda e il naso aristocratico del mio migliore amico.

«Blaise, Lovegood», salutò, richiudendosi la porta alle spalle e passandosi una mano sui pantaloni; sembrava volesse togliere un'imperfezione inesistente.

Ci eravamo visti prima di cena per parlare della bellissima missione suicida in cui eravamo invischiati fin sopra i capelli. Cosa voleva ancora?

«Potter attaccherà il castello col suo branco di amici sfigati questa notte, dovete parlare con la Dama Grigia al più presto, abbiamo bisogno del diadema», annunciò Draco, mentre si rimirava le unghie come se niente fosse.

Rimasi per qualche secondo immobile a fissare la porta scura alle spalle del mio amico, cercando di comprendere ciò che aveva appena detto.

Luna si alzò, abbandonando il volume che stava leggendo sul mio letto e si fece più vicina a Malfoy: «Harry ha deciso di attaccare questa notte?»

Mi portai una mano tra i capelli, la frustrazione ben visibile sul mio volto.

E io che stavo programmando di saltare addosso alla Lovegood e passare il resto della serata a farla arrossire in quel suo modo dolce e affascinante.

«Potter si deve trovare un hobby», borbottai, lanciando un'occhiata furiosa al mio amico.

Malfoy sollevò un sopracciglio e sfoderò il suo ghigno migliore: «Sono d'accordo, Blaise».

Luna rise del nostro scambio di battute e mi guardò di sottecchi: «É sicuro andare fino alla torre di Corvonero a quest'ora?», chiese.

Era nervosa, lo vedevo chiaramente dal modo che aveva di giocherellare con i suoi lunghi capelli biondi, che le sfioravano la vita. Mi sarebbe piaciuto spogliarla e vederla con solo l'oro della sua chioma a coprirle la pelle bianca come il latte.

Presi un profondo respiro e distolsi lo sguardo; quello non era proprio il momento per fare certi pensieri.

«Con la maschera da Mangiamorte non vi riconoscerà nessuno, dovreste cavarvela senza problemi», disse Malfoy: «In bocca al mannaro».

Draco fece dietrofront, diretto verso la porta, quando si bloccò di colpo, guardando la Lovegood negli occhi: «Suggerimenti su come domare una belva feroce?»

Dall'espressione sul volto del mio amico intuii che con "belva feroce" intendesse "Hermione Granger" e non potei trattenermi dal sorridere sotto i baffi.

Luna sembrava spaesata: «Come scusa?»

Draco sbuffò e fece un gesto con la mano, come a voler dire "fa niente" e scosse la testa con rassegnazione: «Vado».

Dopo cinque secondi era scomparso oltre la porta, lasciando nuovamente me e Luna da soli.

«Temo di non aver capito a cosa facesse riferimento Malfoy con la domanda a proposito della "belva feroce"», disse, mostrandomi la sua espressione confusa.

«Probabilmente ha litigato con la Granger», dissi, dirigendomi verso l'armadio per recuperare due mantelli pesanti e la maschera da Mangiamorte, che duplicai con un semplice incantesimo.

La comprensione modificò l'espressione precedentemente persa della Lovegood: «Ooh», disse semplicemente, con un sorriso sulle labbra.

Non mi trattenni e le rubai un bacio, facendo scontrare in modo impacciato i nostri nasi.

Il profumo di lavanda, misto all'odore della sua pelle, mi fece irrimediabilmente sorridere.

Ora ero pronto ad affrontare qualsiasi cosa, anche un fantasma donna che si diceva non fosse particolarmente cordiale con gli studenti di Serpeverde.

Allontanai il viso dal suo e le porsi un mantello e una maschera. Aveva il volto arrossato e i suoi occhi mi scrutavano con dolcezza; non disse niente, limitandosi ad afferrare ciò che le tendevo.

Nel giro di due minuti eravamo fuori da camera mia, entrambi nascosti dietro alle maschere e coperti dai mantelli. Essendo notte e il castello poco illuminato riuscivamo facilmente a confonderci nelle ombre ed eravamo riusciti a passare inosservati un paio di volte, incrociando altre figure scure. Lasciai che fosse Luna a guidarmi lungo i corridoi; di sicuro era più esperta di me su dove si trovasse la torre di Corvonero e non volevo rischiare di sbagliare strada.

Fingevamo cenni di saluto agli altri Mangiamorte, camminavamo rasenti al muro e non emettevamo suono. Cominciai a pensare che forse sarebbe stato meglio chiedere a Draco parte della pozione polisco che aveva rubato alle scorte di Piton; in modo tale da non avere nulla di cui preoccuparsi, nemmeno se avessimo incontrato Bellatrix Lestrange o Colui-Che-Non-Deve-Essere-Nominato in persona.

Coperto dello spesso mantello, avevo una mano stretta fortemente intorno alla mia bacchetta, l'altra invece era leggermente sollevata, pronta ad afferrare Luna e trascinarla alle mie spalle in caso di pericolo.

La tensione a cui era sottoposto il mio corpo diminuì solo quando, percorrendo un corridoio con una serie di logge che davano sul cortile interno di Hogwarts, scorsi una figura perlacea che lievitava a pochi passi dagli archi.

Non avevo mai avuto l'onore di discorrere con la Dama Grigia e di persona dovevo averlo scorta in sei anni di scuola solo un paio di volte, probabilmente perché non era solita frequentare i sotterranei; eppure non ebbi dubbi di trovarmi in sua presenza.

Luna appena la scorse si voltò verso di me, indicandola col capo, confermando ulteriormente la mia supposizione.

Senza che potessi fermarla, la Lovegood si tolse la maschera da Mangiamorte e si diresse con passo leggero verso il fantasma. Rimasi un istante basito, a chiedermi per quale motivo avesse deciso di scoprire il suo volto in un corridoio illuminato dai raggi della luna, dove avrebbe potuto comparire da un momento all'altro chiunque e scoprirla.

Mi sfilai anche io la maschera e la seguii con passo deciso, intenzionato a farla ragionare, quando il fantasma si voltò verso di noi. Inizialmente sembrò sulla difensiva e intenzionato ad andarsene al più presto, quando però i suoi occhi si posarono sul viso di Luna, i suoi lineamenti sembrarono addolcirsi in modo impercettibile.

«Buonasera», disse la Dama Grigia, scrutandomi con diffidenza.

Luna sorrideva, a pochi passi dalla figura perlacea e mi faceva segno di raggiungerla.

«Buonasera», dissi in modo impacciato, fermandomi alle spalle della Lovegood che con voce rilassata e sicura la salutò a sua volta: «Buonasera, Helena Corvonero».

Sentire il nome della Dama Grigia mi fece sussultare. Non mi ero mai informato su chi fosse da viva, ma di sicuro non avevo mai pensato fosse la figlia di Priscilla Corvonero, una delle fondatrici di Hogwarts. Inoltre quel nome, "Helena", mi ricordava qualcosa, ma non sapevo cosa.

«Avremmo bisogno di sapere se sa dove si trova il diadema di sua madre», disse Luna, con tono di voce basso e gentile.

Il fantasma fluttuò all'indietro, sembrava stupita e indignata dalla domanda: «Non pensavo fossi come tutti gli altri», disse la Dama Grigia: «Volere il diadema per acquisire la conoscenza assoluta... In molti mi hanno tormentata per metterci le mani sopra, ma da te, non me lo sarei aspettato!»

Luna sussultò, portandosi le mani al petto: «Oh, no! Ha frainteso, non mi serve per quello, ho bisogno di sapere dove si trova per sconfiggere Colui-Che-Non-Deve-Essere-Nominato».

La spiegazione della bionda non sembrò convincere la figura perlacea a pochi passi da noi, che con freddo contegno ci guardava con sospetto e scherno: «E pensate che diventando più saggi sarete in grado di sconfiggere l'uomo che si fa chiamare...»

Stanco del teatrino davanti a me che non sembrava portare a nulla, mi feci avanti, attirando l'attenzione del fantasma, che lasciò la frase in sospeso: «Non vogliamo indossare il diadema, ci serve sapere dove si trova perché pensiamo sia importante, è un'informazione che ci serve per vincere la guerra contro Colui-Che-Non-Deve-Essere-Nominato. Può dirci tutto quello che sa sul diadema di sua madre?».

Lei rimase sospesa a mezz'aria, immobile. Aveva uno sguardo indecifrabile in viso, tanto che temetti per qualche secondo che non ci avrebbe detto nulla.

«Tutto quello che so?», chiese con un filo di voce, fluttuando in modo nervoso: «Volevo diventare più intelligente di mia madre, così le ho rubato il diadema e sono fuggita».

Mi sarei aspettato di tutto, tranne quelle parole; rimasi letteralmente a bocca aperta e Luna, al mio fianco, era altrettanto stupita.

«Mia madre nascose il furto, non voleva che si sapesse, non voleva che fossi additata come una ladra. Quando si ammalò chiese di vedermi un'ultima volta e mandò a cercarmi un uomo che aveva più volte provato a conquistare la mia mano, ma che io avevo sempre rifiutato. Lui mi trovò e, quando mi rifiutai di tornare al castello con lui...»

La Dama Grigia lasciò la frase in sospeso, scostando i lembi del suo mantello e percorrendo con le dita evanescenti la scura ferita che le sporcava il petto bianco.

«Lui era geloso della mia libertà, furioso per il mio rifiuto. Il Barone mi pugnalò e quando si rese conto di ciò che aveva fatto, si tolse la vita con lo stesso pugnale con cui mi aveva uccisa».

Con gli occhi sbarrati dalla sorpresa mi resi conto che la Dama Grigia stava parlando del Barone Sanguinario, il fantasma di Serpeverde. Ecco spiegato anche dove avessi già sentito il nome Helena, ogni tanto il Barone lo farfugliava con così tanto rimorso e sentimento da farti domandare se in fondo non avesse avuto anche lui un cuore. Era sconvolgente rendersi conto che sì, il Barone aveva amato talmente tanto nella sua vita da uccidere e uccidersi per quel sentimento.

Fu Luna a spezzare il silenzio, i grandi occhi azzurri pieni di tristezza: «Cosa ne fu del diadema?»

La Dama Grigia si riscosse: «Rimase nella foresta, all'interno di un albero cavo, dove l'avevo nascosto».

«La Foresta Poibita?», chiesi, sperando vivamente di sbagliare.

Il fantasma rise, la sua era una risata di scherno: «Certo che no, mi ero nascosta in una foresta in Albania».

Non andava bene, come avremmo fatto ad andare in Albania a cercare quel diadema?

Potter avrebbe attaccato il castello quella notte stessa, probabilmente nell'arco di qualche minuto o di qualche ora al massimo, come avremmo fatto a distruggere il diadema prima che arrivasse?

«Aveva raccontato questa storia anche a Colui-Che-Non-Deve-Essere-Nominato?», chiese Luna.

La Dama Grigia sembrava a disagio e con tono titubante mormorò: «Io non sapevo... pensavo che capisse, che potesse comprendere come mi ero sentita...»

Luna annuì, lo sguardo colmo di compassione: «Sa dov'è nascosto? É qua nel castello?»

Helena Corvonero annuì, debolmente: «É qui, nel castello, nel posto in cui tutto è nascosto. Se devi chiedere non lo saprai mai. Se lo sai, devi solo chiedere».

La figura perlacea della Dama Grigia si fece sempre più sbiadita, fino a quando non scomparve oltre la parete del corridoio, lasciandoci soli.

Luna si voltò verso di me, gli occhi illuminati dalla speranza: «Tu hai idea di cosa intendesse con "il posto in cui tutto è nascosto?"»

Avrei voluto dirle di sì, ma al momento non riuscivo a ricordare dove avessi già sentito quel nome.

Sentii rumore di passi in avvicinamento e mi affrettai a indossare la maschera da Mangiamorte, coprendo con la mia stazza Luna mentre faceva lo stesso.

Alle mie spalle comparve un'ombra uguale a noi, con mantello e maschera a coprirne qualsiasi caratteristica corporea che avremmo potuto usare per identificarlo. Feci un gesto con il capo a Luna, iniziando a camminare incontro allo sconosciuto, con lei alle mie spalle.

A parte un generico cenno del capo, non fummo trattenuti o interpellati, così riuscimmo a sgusciare verso la porta di un'aula vuota e a chiuderci al suo interno.

«Lumos», la punta della mia bacchetta si illuminò permettendomi di assicurarmi di essere effettivamente finiti in una stanza inutilizzata, poi puntai la luce su Luna, che si era già tolta la maschera da Mangiamorte e mi sorrideva con le guance arrossate: «Per un pelo!», sussurrò, appoggiandosi di schiena alla parete.

«Rimetti la maschera!», le ordinai a bassa voce, preoccupato che qualcuno potesse irrompere nell'aula e scoprirci.

Luna sussultò ed eseguì la mia imposizione senza fiatare.

Mi pentii subito per aver usato un tono di voce tanto brusco; lei non si meritava un trattamento simile: «Scusa, ma non voglio che qualcuno ti veda. Se succedesse saremmo in un mare di guai».

Il volto coperto di Luna annuì, ma avrei voluto che non indossasse quella maschera lugubre, così da poter vedere sul suo viso il perdono.

«Dove pensi che possa trovarsi il diadema?», le chiesi, appoggiandomi al banco più vicino a lei, la punta della bacchetta verso il basso, ad illuminare il pavimento sporco di polvere e gli orli dei nostri mantelli scuri.

«Non ne ho proprio idea, non ho mai dovuto nascondere qualcosa», disse con tono di voce dispiaciuto.

La Dama Grigia avrebbe potuto fare uno sforzo e indicarci la strada, invece di fare indovinelli e supporre che noi li avremmo risolti.

Guardando Luna di fronte a me mi sentii travolgere dalla rassegnazione. Come avremmo potuto farcela? Noi, un piccolo gruppo di ragazzi, ad aiutare il Bambino Sopravvissuto a sopravvivere ancora? Rimanevo dell'opinione che Potter dovesse trovarsi, al più presto, un hobby. Come quando Theo era tornato in stanza con quella scacchiera magica truccata che faceva vincere sempre e solo i neri. Nott si era divertito a giocarci per guadagnare spiccioli e aveva smesso di lamentarsi dell'indifferenza di Daphne nei suoi confronti, preferendo trastullarsi con qualcosa di più...

«La Stanza delle Necessità!», esclamai, scostandomi dal banco e facendo un paio di passi avanti, verso Luna: «Nott mi ha raccontato di aver scoperto una stanza dove si trovano centinaia di migliaia di oggetti abbandonati e dove lui ha trovato parecchie cose interessanti e a sua volta nascosto qualcosa».

Il capo di Luna, basso, si alzò di colpo: «Dici che il diadema è nascosto lì?»

«Vale la pena tentare», dissi: «Nox».

Uscimmo dall'aula, percorrendo i freddi e bui corridoi di Hogwarts con apparente calma. Avremmo voluto correre, ma non volevamo destare sospetti e sapevamo che l'unico modo per farlo era mantenere un passo controllato.

Arrivammo al settimo piano senza incontrare nessuno e, una volta di fronte all'arazzo di Barnaba il Babbeo bastonato dai Troll, pensai "Ho bisogno del luogo dove si nasconde tutto" passando davanti alla parete per tre volta, prima di veder materializzarsi una porta.

Una volta varcato l'uscio mi trovai ad ammirare un luogo ampio come una cattedrale e somigliante a una cittadina, con pareti alte fino al soffitto e costituite da oggetti impilati, negli anni, gli uni sopra gli altri.

«Non ci posso credere», sussurrai, sconvolto alla vista che mi si presentava di fronte a da ciò che significava: non saremmo mai riusciti a trovare il diadema di Corvonero in quel mare di oggetti, era impossibile.

Luna si sfilò la maschera da Mangiamorte e si guardò intorno con gli occhi sbarrati dalla sorpresa e dalla meraviglia.

Rimanemmo in silenzio per qualche istante, poi Luna parlò: «Prova a richiamare il diadema con un Accio».

La sua proposta mi diede un po' di speranza, ma quando provai l'incantesimo e mi resi conto che non funzionava, tornai nello sconforto più totale: «Non ce la faremo mai», diedi voce ai miei pensieri, sfilandomi a mia volta la maschera da Mangiamorte.

«Non dire così, dobbiamo provarci», disse Luna, appoggiando la mano sul mio braccio infondendomi con quel semplice e timido gesto un po' della sua positività: «Tu vai a sinistra, io cerco a destra».

Dividersi in effetti sembrava l'unica cosa intelligente che potessimo fare per ottimizzare i tempi e, anche se l'idea di abbandonarla non mi andava particolarmente a genio, decisi di fare come mi aveva detto, iniziando a percorrere il corridoio di sinistra.

C'erano oggetti di qualsiasi tipo e bisognava fare attenzione a dove si mettevano i piedi per non rischiare di inciampare o rompere qualcosa.

Libri, vestiti, bauli, specchi, armi, bambole, sedie, lampade, tavoli.

Quella cacofonia di oggetti faceva venire il mal di testa e per non rischiare di perdermi nessun dettaglio ero costretto a muovermi molto lentamente.

Quando mi trovai di fronte ad un bivio decisi di prendere il corridoio di cianfrusaglie sulla destra, inoltrandomi verso quello che sembrava essere il centro della stanza.

Un paio di volte mi fermai alla vista di qualcosa che brillava, spiccando rispetto agli oggetti intorno; la prima volta trovai un braccialetto d'oro bianco impreziosito da diamanti, la seconda una collana tempestata di rubini.

Non avevo idea di che aspetto avesse il diadema, forse avremmo dovuto chiedere alla Dama Grigia una veloce descrizione, ma ormai era troppo tardi.

«Luna, trovato qualcosa?», gridai, sperando che la Corvonero mi udisse e riuscisse a rispondermi.

«Ancora niente!», urlò lei di rimando, facendomi sbuffare.

Cominciavo a perdere le speranze e a darmi per vinto, percorrendo i corridoi senza prestare attenzione a dove stessi andando; ormai mi ero abituato a vagliare le mura di oggetti in pochi secondi, così da procedere più in fretta.

Sospirai e mi appoggiai ad un busto bianco, guardandomi intorno per decidere quale strada prendere, quando notai, incastrato tra un volume spesso e rilegato in pelle e una parrucca d'altri tempi color grigio topo un diadema dall'aspetto fragile e inestimabile valore.

«Luna!», la chiamai, sporgendomi per recuperare l'oggetto che era grande come il palmo della mia mano: «Penso di averlo trovato!»

Ci impiegammo parecchi minuti per trovarci, era difficile capire la posizione l'uno dell'altra all'interno di quella specie di cattedrale, le voci rimbombavano ed era difficile capirne l'origine.

Quando le mostrai la tiara, gli occhi azzurri di Luna si riempirono di stupore e gioia: «L'abbiamo trovato, Blaise! Il diadema!»

Tenendolo tra le mani era impossibile non sentire il potere oscuro che era rinchiuso al suo interno e mi chiesi se il piano di Draco e la Granger avrebbe davvero funzionato. Saremmo davvero riusciti a distruggere un oggetto all'apparenza tanto potente?

Luna mi gettò le braccia al collo e mi stampò un semplice bacio sulle labbra.

«Dobbiamo subito portarlo a Hermione e Malfoy!», esclamò, prima di regalarmi un altro bacio e un dolce e timido sorriso, accompagnato dal soffuso rossore sulle sue guance.

Lasciai scivolare il diadema nella tasca nel mio mantello, poi presi il volto della ragazza che avevo di fronte e la baciai a mia volta, approfondendo il contatto.

Le sue gote erano rosso fuoco, le sentivo bruciare sotto le mie dita e le sue mani, piccole e delicate, si immersero tra i miei capelli scuri, tenendo il mio viso vicino al suo.

Quando aprii gli occhi mi immersi nell'azzurro torbido delle sue iridi e nel dolce sorriso sulle sue labbra.

Avevo intenzione di continuare a baciare quella bocca per il resto della mia vita.

Con Soledad non ci ero riuscito, avevo permesso che mi venisse portata via, senza combattere, senza oppormi.

Non avevo intenzione di commettere lo stesso errore, non avrei permesso alla guerra di portarmela via; l'avrei tenuta al sicuro e mi sarei assicurato che nulla di brutto le accadesse.

«Andiamo», dissi, porgendole la mano.

Quando le nostre dita s'intrecciarono in uno stretto abbraccio, iniziai a dirigermi verso dove ricordavo essere la porta d'ingresso della stanza dove tutto era nascosto.

Prima avremmo portato il diadema a Draco ed Hermione, prima saremmo riusciti ad avere un po' di tempo solo per noi nella mia camera da letto. Avevo bisogno di godermi qualche ultimo minuto con lei, in un luogo sicuro, senza rischiare di essere interrotti da qualcuno.

Avevo bisogno di assaggiare le sue labbra ancora un po', così da memorizzarne il sapore e combattere con la certezza dentro di me di farlo anche per lei e non solo per me.

Avrei fatto di tutto pur di vincere la guerra e tornare tra le sue braccia.

Qualsiasi cosa.




 

*************

Ciao a tutti! :D

Eccovi il nuovo capitolo, perdonatemi se ci ho messo un po' a scriverlo, ma ho avuto l'esame (che ho passato! Yay!) e inoltre, non sapevo se basarmi sul libro o sul film per la scena con la Dama Grigia (decidendo infine di prendere spunto da entrambi).

Luna e Blaise hanno trovato il diadema, ormai gli Horcrux sono quasi tutti distrutti o sul punto di esserlo, Harry a breve sarà a Hogwarts e tutto quello che vuole Blaise è poter baciare ancora per qualche minuto la nostra fortunata Luna. Non so voi, ma io lo trovo molto dolce *-*

Bene, spero che il capitolo vi sia piaciuto e che abbiate tempo e voglia di lasciarmi recensioni per farmi sapere la vostra opinione :)

Un bacio,

LazySoul

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2466706