Fuggire

di Anbu Scream
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Fuggire - capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Fuggire - capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Fuggire - capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Fuggire - capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Fuggire - capitolo 5 ***



Capitolo 1
*** Fuggire - capitolo 1 ***


Hnnn ...
Era sdraiato sulla branda nella sua cella e si stava lentamente e altrettanto dolorosamente risvegliando da chissà quale droga. Sentiva un dolore lancinante alla testa, quasi l’avesse battuta più e più volte contro un muro. Non riusciva a pensare a nulla, e tantomeno a capire.
Pian piano iniziò a ritornargli il senso del tempo e dello spazio. Sentiva il tessuto ruvido del materassino sopra il quale era stato steso e la pesantezza dell’aria. Lentamente aprì gli occhi e alzò la testa in direzione dell’unica finestrella presente, tra l’altro anche chiusa ermeticamente: a giudicare dall’assenza di luce calcolò che erano le due di notte. Sentì un vociare al di fuori della cella. Nulla di strano, si trattava solo del cambio di guardia. A quell’ora mettevano a controllarli un solo uomo, armato ovviamente, ma con il sonno molto facile e pesante.
Chissà questa volta cos’hanno sperimentato …
Non gli importava realmente. Non più. Si tirò su a sedere, si stropicciò gli occhi e iniziò a studiare la sua stanza nell’oscurità, come faceva tutti i giorni da quando si ricordasse. Quattro semplici pareti spoglie, poste a creare un cubo perfetto intorno a lui, uno specchio al centro del muro sulla sua destra e, appoggiato a terra, un piatto con dentro un qualche cosa di informe. La cena. Si soffermò a fissare una macchia di umidità enorme formatasi appena al di sotto dello specchio, senza realmente guardarla. Che strano … non se la ricordava affatto.  Aveva una sola cosa nella testa: fuggire.
Aveva ormai deciso: sarebbe scappato quella stessa notte, con il russare pesante della guardia, l’ora tarda e l’oscurità a suo favore. Barcollando si alzò dalla branda che emise uno spiacevole cigolio. Quell’umidità … chissà da dove arrivava, contando che quella cella veniva aperta solo quando venivano a prelevarlo … si avvicinò allo specchio, guardando il suo volto stanco solo per un istante, iniziando poi a forzarlo, silenziosamente. Poco dopo, con notevole difficoltà, era riuscito a staccarlo dalla parete e a farlo cadere sul pavimento, rompendolo in mille pezzi e portando alla luce una presa d’aria. Trattenne il respiro per la paura di essere stato sentito per quella che gli parve un’eternità. No, nulla, nessun altro rumore oltre il russare della guardia. Lasciò che un ghigno affiorasse sulle sue labbra. Strappò un pezzo di tessuto dalla coperta grande quanto un fazzoletto e lo avvolse intorno ad una scheggia di vetro. Forzò la grata della presa d’aria, infilò il coltello improvvisato nella tasca dei pantaloni e s’infilò in quello spazio angusto, nel quale aveva appena la possibilità di strisciare e non si vedeva nient’altro che buio. Procedette alla cieca.
Dopo minuti che gli parvero ore, vide un’altra grata, molto meno spessa dell’altra. La smontò e fu costretto a soffocare un senso di nausea, vedendo dov’era capitato.
A quanto pare, quella era una dei tanti luoghi dove i maghi facevano i loro oscuri esperimenti. Iniziò a camminare intorno alla stanza per imprimere per bene ogni singolo particolare nella sua memoria: al centro c’era una lugubre barella con lacci, utili per legare le “vittime”, dietro di lui c’era una gigantesca vetrata, dalla quale si poteva vedere benissimo il mare a centinaia di metri sotto di loro, con diversi scogli disseminati per la superficie, fino a raggiungere la terraferma. A sinistra e a destra restavano immobili diversi piani e mobiletti, completamente rivestiti d'innumerevoli boccette, becher e strumenti vari, per nulla rassicuranti.
Uno sparo. Un proiettile si conficcò a pochi centimetri dal suo volto nel metallo del mobile che stava in quel momento studiando. Con tutta la velocità che solo la disperazione può fornire, buttò a terra il tavolo così da creare un riparo, gli s'inginocchiò dietro ed estrasse il “coltello”. Il suo cervello lavorava febbrilmente.
-Avanti, 134B, non opporre resistenza. Verrai riportato alla tua cella in attesa della giusta punizione. Altrimenti, non avrai diritto ad un processo e verrai giustiziato qui.- Il tono della guardia che aveva parlato era quasi scherzoso. Non prendermi in giro... indietro non posso più tornare e nemmeno ci proverò.
Pensò. Si affacciò da dietro il tavolo per vedere quante guardie ci fossero … ben sei soldati, con tanto di armi imbracciate e manganelli assicurati alla cintura fissavano il suo fittizio nascondiglio. Inspirò profondamente, rendendosi conto di aver trattenuto il fiato fino a quel momento. Continuò a pensare in maniera follemente veloce ad un modo per fuggire.
-134B, dobbiamo prendere questo tuo “nascondiglio” come resistenza?- Sputò lì sghignazzando quello che sembrava il capo.
Silenzio. Il ragazzo fu attirato da una bottiglia da un litro buono poco più lontano da dov’era sdraiato in quel momento. La prese. "Ligroina”… etere di petrolio dunque? Estremamente infiammabile e nocivo. Lui aveva un potere, un potere di cui solo pochi maghi della struttura erano a conoscenza.
-Aprite il fuoco!-
Il lettino venne crivellato da proiettili senza però cedere, centinaia di boccette esplosero tutt’intorno. Il rumore era assordante. Il ragazzo dagli occhi rossi giunse i palmi, e iniziò a sussurrare piccole parole in una lingua del tutto sconosciuta. La lingua del fuoco. Quando aprì i palmi, ne uscì una fiammetta che seguì le sue istruzioni. Le “disse” di vorticare intorno alla bottiglia fino a quando non fosse giunta sulle teste delle sei guardie. Così facendo, il liquido all’interno della bottiglia si sarebbe espanso, facendo esplodere il contenitore ed esponendo l’etere di petrolio al calore della fiamma. Il resto viene da se. Con un grido, lanciò la bottiglia-bomba, si rifugiò nuovamente dietro al lettino e dispiegò la lama dal panno, premendosi quest’ultimo sul naso.
Sentì semplicemente delle urla miste all’odore acre di quel fumo chimico. E il calore. Si alzò dal suo riparo e ciò che vide fu a dir poco agghiacciante: uomini che gridavano cercando di spegnere quel fuoco che bruciava velocemente le loro pelli, alcuni erano già a terra, inermi.
Ne contò cinque.
-GWAAAAAAAAAAH!-
Il ragazzo vide fiondarsi conto una torcia umana armata di manganello, con la pelle consumata ormai a chiazze e un’espressione mista tra il furente e il dolorante.
Come un battitore, l’uomo scagliò l’arma sulla testa del ragazzo, facendolo cadere a terra e allontanare il fazzoletto dalla bocca. L’aria contaminata gli entrò nella gola, bruciando come l’inferno. Il soldato si fiondò nuovamente su di lui con tutta la forza che gli rimaneva in corpo. Questa volta riuscì a schivarlo. Ma il soldato fu più veloce di lui. Di nuovo. Lo agguantò alla vita e lo fece schiantare contro il vetro, frantumandolo e facendolo precipitare verso il mare. Un attimo dopo l’uomo si accasciò a terra, senza vita.
Il ragazzo dagli occhi rossi sentiva ancora la gola bruciare e nello stesso tempo si sentiva libero, leggero. Stava precipitando fuori dall’incubo, lontano dalla paura. Vedeva la sua “casa” fluttuante allontanarsi, secondo dopo secondo, divenire sempre più piccola.
Il suo volto s’increspo in un sorriso un attimo prima dell’impatto con la superficie dell’acqua, il quale fu piuttosto violento. Stava affondando, sempre di più, ingollando sorsate di scura acqua salata. Gli faceva quasi piacere sentirla scendere per la gola dolorante, ma non era scappato per morire, non poteva morire, non ancora. Iniziò a scalciare e, nuotando affannosamente, raggiunse lo scoglio più vicino, ignorando le ossa che urlavano.
Una volta lì,  con il fiato corto, iniziò a ridere. Non riusciva a smettere. “Sono libero” fu l’ultimo pensiero che solcò la sua mente, prima di perdere i sensi.

I successivi tre giorni li passò a nuotare da uno scoglio all’altro, lottando continuamente con il dolore alle ossa e alla fame. Unico traguardo: la terraferma.
Tempo addietro si era ripromesso di narrare al resto del mondo dell’esistenza di quel luogo, la fortezza che fluttuava in mezzo al mare nascosta da sguardi indiscreti non poteva più essere un segreto di stato. Voleva raccontare anche ciò che realmente accadeva lì dentro, di tutte le volte che si era svegliato con nuove cicatrici sul corpo, di tutti i test che venivano fatti, di tutte le nuove bestie che venivano create incrociando razze fra loro, costrette poi a vivere come dei topi da laboratorio: nascere in gabbia, crescere in gabbia per poi nella medesima gabbia morire … come lui d’altronde.
Ma, come ogni uomo la cui storia è degna di esser narrata, lui era scappato dal suo destino prestampato per raggiungerne un altro sconosciuto.

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Capitolo 2
*** Fuggire - capitolo 2 ***


Lonerin se ne stava lì, immobile, in piedi in mezzo alla calca di maghi medici dai guanti color porpora e di guardiani che spintonava in direzione della mensa, con l'arma puntata verso il basso e i verdi occhi che fissavano la porta blindata mentre Samir, il suo capo, contiuava a marciare imperterrito fra la ressa, convinto che il suo subordinato lo stesse ancora seguendo. Cosa c'era scritto su quella targhetta? Non riusciva a leggere. Non poteva leggere ciò che riportava.
Eppure lui non voleva essere lì. Fino al giorno prima era una semplice recluta, quando uno di quei disgraziati degli esaminatori si accorse che lui possedeva una forza e una mira invidiabili e lo inviarono in quell'inferno d'un "ospizio", dove devi sottostare ai capricci dei maghi e fare la guardia a qualche porta. O almeno era quello che aveva pensato fino a poche ore prima, mentre era ancora in viaggio su una navetta stipata di elfi, prigionieri di guerra e altre bestie strane, di cui non capiva la razza. Venne subito spostato in un reparto al 27 piano, dove la follia vigeva da padrona. Si rese immediatamente conto del fatto che i suoi superiori gli avevano raccontato solo una mezza verità: in quel luogo dove l'accesso era controllato e potevano accedere solo pochi membri scelti i detenuti non erano dei delinquenti, ma esperimenti di genetica portati avanti da prima che la Costruzione (così si chiamava quel luogo) venisse fatta fluttuare oltre il mar degli Epit.
-Lonerin?- scorse alle sue spalle una figura dall'aspetto imponente. Era Samir.
-Lonerin, muoviti. Al capo non piace aspettare.- la sua voce alle orecchie del soldato pareva provenire da un altro mondo, ovattata, mentre la folla si allontanava fino a lasciarli soli.
-Soldato, ti senti bene?-
-Lei lo sapeva?- chiese l'uomo dagli occhi smeraldo in un sussurro indicando con un gesto del capo la porta dinnanzi ai due che riportava la targa "Sala Nera N° 17". Aveva solo letto di quel luogo trasformato in leggenda: lì dentro venivano eseguiti esperimenti su cavie umane, volti a ricreare il soldato perfetto. Vennero eliminate e rese illegali tutte dopo la vittoria dell'ultima guerra, ma in quel luogo ne esistevano almeno diciassette.
-Certo che sì, soldato. Il tuo impiego d'ora in avanti sarà di presenziare agli esperimenti più delicati e far sì che i detenuti non fuggano, com'è successo due anni fa. Ora a muoviti, che il lavoro ci chiama.- queste poche parole trasformarono radicalmente la visione dell'uomo sul proprio capo: ora il suo superiore aveva un aspetto nauseabondo agli occhi di Lonerin e la sua voce era come una secchiata di acqua sporca. Girando il capo, l'uomo vide ciò che non avrebbe mai voluto vedere. Quattro porte più a sinistra una porta blindata identica a quella davanti la quale campeggiava al momento si aprì e ne uscirono quattro figure di cui due guardiani che reggevano quella che sembrava una bambina inerme e un mago medico. Qualcosa in lui si ruppe.
-Non sei contento di star per diventare una guardia scelta? Non dirmi ora che un p'o di sangue ti spaventa, soldato.- Samir fece il terribile errore di prenderlo per il braccio e tentare di trascinarlo.
Sempre con aria totalmente assente, Lonerin allontanò bruscamente la mano di Samir, armò il fucile con una velocità impressionante e fece fuoco, uccidendo quelle persone sporche, infette, quali il mago, il suo capo e i due guardiani. Con un movimento deciso strappò dal copricapo e dalla divisa il simbolo dell'esercito e lo gettò sopra il cadavere del superiore, quasi a voler lasciare una firma. Sapeva di aver appena combinato un disastro, di essere diventato un disertore e che di lì a poco sarebbero arrivati guardiani e militari a flotte, ma poco importava. Ora doveva solo riuscire a uscire da lì. Si avvicinò alla bimba svenuta, se la caricò in spalla e diede inizio alla sua fuga.

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Capitolo 3
*** Fuggire - capitolo 3 ***


Avanti... ancora un po'...pensava il ragazzo dagli occhi rossi mentre faticosamente raggiungeva la riva.
Era stanco, affamato e ancora un po' dolorante, ma speranzoso. Riuscì ad arrancare fin sotto un ponte in rovina che ricongiungeva due alture separate da un taglio netto, quasi fossero state divise da un gigante secoli prima.
Lì sotto il tempo pareva fermarsi, scandito solo dal ritmico scrosciare dell'acqua e dal repentino infrangersi delle onde contro lo scoglio sulla quale il ragazzo si era lasciato cadere. Ad asciugare i suoi vestiti vi era un venticello di un freddo pungente che penetrava fin dentro le ossa con fare maligno. Silenzio.
Prima sarà meglio per me mangiare. Penserò dopo al riposare. Con questo pensiero riuscì ad alzarsi dalla roccia e scalare la parete adiacente. Seppur essendo piuttosto malconcio rimaneva sempre molto agile e in meno di dieci minuti si trovava già in cima, oltre ad un guard rail sfasciato.
Non è possibile. Pensò, tirandosi in dietro un ciuffo dei suoi lunghi capelli corvini, sporchi di salsedine.
Gli pareva di essere capitato in un mondo post apocalittico: i palazzi, una volta centro di vita, erano ormai trasformati in macerie, l'asfalto era ridotto a grumi di catrame qua e là, non vi era anima viva. Dal cielo nevicava cenere. Il silenzio soffocante venva interrotto da scoppi lontani.
Guerra...
Non era rimasto nulla di ciò che si era immaginato: strade ingombre di gente, bambini che ridevano, o anche solo la luce del sole. Nulla.
Incominciò a girovagare senza una meta precisa, zoppicando lentamente e stringendosi nelle spalle per combattere il freddo. Come mai tutto è... è così? Questo pensiero lo assillava. La mancanza di conoscenza lo stava perseguitando da ormai troppo tempo. Decise di porre fine alla proria "stupidità" e di cercare un luogo dove potesse assimilare qualche informazione. Iniziò a dirigersi verso il centro.
Dopo diversi giri, rivelatisi utili solo ad accrescere la sua fame, il cielo stava iniziando a scurirsi e la sua visuale s'accorciava sempre più. Si ricordò di essere passato almeno una volta davanti a una chiesa mezza abbandonata, ma con le porte ben sbarrate. Magari lì avrebbe potuto trovare del cibo. La sua curiosità poteva aspettare ancora un giorno, i suo stomaco no.
Passò all'incirca un'oretta prima che riuscisse a ritrovare la strada, trovò la chiesa quando il cielo ormai aveva preso il colore dell'inchiostro. Superando agilmente alcune carcasse d'auto arrugginite e inciampando maldestramente in un buco del terreno riuscì a raggiungere il portone principale della costruzione. Applicando un briciolo di forza riuscì a staccare il legno che sbarrava la porta e a varcare la soglia.
L'interno era spettacolare: il mosaico di vetro una volta raffigurante chissà quale personaggio biblico era ormai in frantumi e lasciava entrare all'interno l'odore lontano del mare, le panche di legno che un tempo si trovavano al centro ora erano sistemate lungo le pareti, formando decine di scaffali stipati di barattoli di cibo, libri consunti e ferraglie varie. Su di un lato due panche erano state avvicinate e sopra erano state appoggiate delle coperte e alcuni cuscini, così da poter creare quello che doveva essere un letto di fortuna, oggetti di metalli consunti e tutti diversi stipavano gli angoli, il pavimento, il vecchio altare.
Libri, del cibo, un giaciglio... deve trattarsi della formula della felicità
Il ragazzo venne risvegliato dal suo scrutare dal rumore del proprio stomaco. Guardò lo scaffale con le scatolette di cibo. Non si osava nemmeno a sfiorarle, quello era il cibo di qualche sopravvissuto e a giudicare dalla quantità presente era stato già difficile riuscire a procurarsi quello... ma lui stava letteralmente morendo di fame. Decise di mangiare una piccola porzione e poi trovare un accordo con il legittimo proprietario per ripagarlo.
La sua mano protesa si fermò a mezz'aria quando una voce giunse al suo orecchio.
-Heilà amico! Vieni in pace?- Rimanendo in quella posizione il ragazzo girò lentamente lo sguardo verso il padrone della voce e si stupì del suo aspetto.
Era una persona molto bassa dalla corporatura secca, portava un paio di occhiali color del bronzo colmi di lenti mosse da piccoli bracci meccanici posati su un naso tropo grande, portava una bombetta nera sui lunghi capelli argento raccolti in una crocchia, un giubbotto senza maniche nero su una camicia bianca, un paio di pantaloni neri e dei mocassini del medesimo colore.
-Cos'è ragazzo, il cane ti ha mangiato la lingua? O forse era il gatto? Mah... tutti e due hanno delle zampe. Allora, come ti chiami? Giusto, giusto... prima mi devo presentare io: io mi chiamo Vecchio Rimbambito, ma la gente preferisce il mio nome di battesimo, Laurence.-
Il ragazzo si accorse solo allora che stava fissando il suo interlocutore con un'espressione stranita. Lentamente abbassò la mano e si girò verso la figura.
-Il mio nome? Hum...-
-Stai tranquillo 134B, non mordo mica!-
E questo chi sarebbe? pensò allarmato il corvino.
-Come sai il mio nome?-
-Ah, già...- l'uomo iniziò a frugarsi nei tasconi facendo cadere oggetti indefiniti sul pavimento, fino a quando non tirò fuori un foglietto di carta tutto stropicciato.
-Tieni-
Il ragazzo prese il foglietto e lo aprì, tenendo però sempre sott'occhio quell'uomo.
Gli si gelò il sangue: riconobbe il suo volto nell'identikit stampato sul volantino con la scritta sottostante a caratteri cubitali che recitava: "Fuggito piromane. Pericoloso. Numero di serie: 134B. Ricompensa: immunità politica."
Cosa!?
-Sta tranquillo ragazzo, non ti consegnerei mai a quei maghi. La proposta sarebbe anche allettante, ma loro non sono uomini di parola...- Laurence parve spegnersi per un secondo, assorto nei suoi pensieri, ma si riprese quasi subito.
-Vedo che sei messo molto male ragazzo: non hai un nome, un posto, cibo... che ne dici di rimanere qui? Io sono solo un vecchio e tu solo un bambino. In due magari ne faremo uno, no? Hahaha, che ne dici?-
-Io... v-va bene...-
-Haha, molto bene! Adesso dimmi, di cosa sei in cerca? Un uomo non fugge se non cerca nulla.-
-Sto cercando un po' di conoscenza-
-Io stavo cercando un qualcuno a cui insegnare. Siamo fortunati, ragazzo!- con movimento fluido prese una scatoletta dallo scaffale, la aprì e s'avvicinò a quello che una volta era un altare, ora usato come tavolo. Con il braccio spostò di lato tutti gli elementi presenti sul ripiano, posò la scatoletta e andò alla ricerca di due sedie. Ne trovò una e uno sgabello.
-Avanti ragazzo, vieni. Te l'ho detto, non mordo.- il ragazzo si avvicinò, prese lo sgabello e si sedette. Laurence gli porse il cibo e una forchetta.
-Stai tranquillo, io ho già mangiato. Per prima cosa mi piacerebbe trovarti un nome. Cosa ne dici di Crow? Assomigli un po' a un corvo con quei capelli neri scompigliati e gli occhi rossi... naaaaaa, troppo banale. Un nome, un nome... -
L'uomo si alzò dalla sedia e prese a girarovagare per la stanza, parlando fra se e se, suggerendosi dei nomi e litigando con se stesso. Iniziò a guardare all'interno dei suoi tomi preferiti, libri di storia, di leggende, grandi classici, leggendo parole, girando pagine e passando poi al libro successivo. Il ragazzo si divertiva a guardare quell'uomo. Chissà che nome avrebbe scelto...
-AH-HAAAA- Urlò ad un certo punto l'uomo, correndo verso il tavolo con in mano un libricino spesso nemmeno un pollice intitolato "Le fiabe del Bardo". Senza un minimo di grazia sbattè le mani sul piano facendolo sobbalzare. Per fortuna il ragazzo aveva allontanato appena in tempo la scatoletta di cibo.
-Ho trovato i nome perfetto! Che ne dici di Yors? La Y dura che da un inizio forte alla parola, la O lunga che da un senso di infinito e infine la R e la S che lo ultimano con un suono dolce e morbido. Perfetto! Eh? Che ne dici?- l'uomo guardava pieno di speranza la faccia del ragazzo con la bocca piena, il quale, vedendolo così felice, fece di sì con la testa, contento di avere un nome.

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Capitolo 4
*** Fuggire - capitolo 4 ***


Lonerin aveva raccolto la ragazzina dal pavimento, le aveva coperto il corpo e il volto con il proprio giaccone militare e si era messo a correre per i corridoi della struttura con lei in braccio. Non si era lasciato nemmeno il tempo di guardarla, tanto che non aveva capito se i suoi capelli fossero neri o biondi.
La sua era una corsa frenetica e di crescente intensità alimentata dal senso di colpa. Cosa aveva fatto? Aveva ucciso. Degli uomini, gente con un cervello, un modo di pensare e probabilmente anche una famiglia. Perchè l'aveva fatto? La risposta non era abbastanza esaustiva: per un ideale, un ideale a lui nemmeno tanto chiaro, quale quello della vita umana. Che razza di paradosso aveva creato.
Cosa doveva fare? Calmarsi. Frenò bruscamente e si mise a guardare lo spazio circostante: porte, porte e ancora porte, ognuna delle quali riportava una targa diversa. Avvistò uno sgabuzzino in lontananza e, trovandolo molto poco appariscente e quindi un buon nascondiglio, decise di raggiungerlo di corsa. Con il gomito aprì la porta ed entrò, richiudendola poi con il piede. L'interno era buio, stretto e ingombro di scaffali di metallo zeppi di materiale per le pulizie. Si accucciò dietro al più lontano ripiano e per la prima volta guardò veramente la ragazzina: era una bambina molto piccola, di circa undici anni, portava addosso una divisa arancione da carcerato e, cosa che l'uomo trovò assai strana, aveva sia la pelle che i capelli bianchissimi. Come aveva fatto a non accorgersene? Forse per via dell'adrenalina, forse per la paura.
Dopo un po' la bambina aprì gli occhi interrompendo il flusso dei pensieri di Lonerin. Erano occhi bellissimi, grandi e viola. Erano veramente strani per quella figura gracile, a prescindere dal colore: si trattava di occhi saggi, di chi ha vissuto centinaia di anni e che hanno visto migliaia di persone. Assai inadatti per una bambina.
La stessa cosa poteva dire la bambina degli occhi dell'uomo per niente in sintonia con il resto della figura. Lonerin possedeva un volto dai lineamenti molto duri, le labbra sottili facevano capolino da una corta barbetta ispida, due spalle larghe e possenti di chi era in grado di eseguire qualsiasi tipo di lavoro pesante erano coperte dal tessuto chiaro della camicia della divisa da soldato semplice. Eppure aveva due occhi di un colore verde smeraldo screziato di quello che pareva oro, lucidi come quelli di un bambino perennemente meravigliato.
-Come ti chiami?- fu la domanda che uscì di getto dalle labbra dell'uomo, seppur cosciente del fatto che la risposta sarebbe stata nient'altro che una serie di numeri.
-Niji- fu invece la risposta della ragazza - ho sempre detestato i numeri. Avanti, dimmi ora cosa vorresti fare. Perché mi hai "liberata"?- disse la bambina alzandosi in piedi seppur un po' barcollante. Con un volto serio, incrociò le braccia sul petto e guardò dall'alto in basso il volto incredulo del suo interlocutore con l'aria di chi sapeva già la risposta.
Che tipetta... pensò l'uomo credevo potesse essere spaventata, e invece...
-Allora?- richiese la ragazzina.
-C-come perché? Non sei contenta che...-
-Non hai risposto alla domanda- lo interruppe la bambina.
-Stavo dicendo- la fulminò l'uomo alzandosi da terra e indossando di nuovo il giaccone -non sei contenta di uscire da qui?-
-Certo che no!- fu la risposta smorza entusiasmo di Niji - ma, siccome sono una donna molto positiva, farò buon viso a cattivo gioco- così dicendo, si incamminò verso la porta dello sgabuzzino sulle sue gambe ancora un po' malferme e sbirciò il corridoio.
-La pausa pranzo non dev'essere ancora terminata. Si potrebbe tentare una corsetta?-
-Dubito che farsi una bella passeggiata in un corridoio quasi sempre pullulante di guardie possa essere una buona idea... e poi... dove potremmo dirigerci?-
-Non saprei... potremmo buttarci giù da una finestra come fece tempo fa il fratellone, prendere un pulmino, un... un qualcosa! Qualsiasi cosa!- rispose la ragazzina richiudendo la porta e tornando vicino all'uomo, intento a riempire il proprio cranio di domande come conosce veramente il fuggitivo? Oppure perché lo ha chiamato "Fratellone"?
-"Il fratellone" ha avuto solo fortuna, fidati. Il mare qui sotto è disseminato di scogli. Dubito che possa essere rimasto i vita per molto. Deve aver preso una bella botta... iniziamo con il curiosare qui in torno. Ci verrà pure un'idea...- detto questo, i due iniziarono a guardare gli oggetti sugli scaffali, leggere qua e là alcune righe di fogli sparsi, spostare i flaconi di detersivo in cerca di qualche cosa di utile, fino a quando...
-Vieni un po' qui... uh...coso-
-Lonerin, mi chiamo Lonerin-
-Per me rimani Coso. Guarda, ho trovato un ordine di smantellamento dei rifiuti. Pare vengano gettati in mare in grandi contenitori... si potrebbe fare un pensierino. Qui c'è scritto "gli scarti verranno raccolti nel settore ventitré, quarta piattaforma". Ora ci rimane solo da trovare il settore ventitré e la quarta piattaforma e siamo a cavallo!-
In effetti i rifiuti potrebbero attutire l'impatto... riflettè l'uomo ... probabilmente l'unica cosa che potrebbe farsi veramente male sarebbe il mio orgoglio.
-Io ho trovato la piantina di tutti i piani- disse, allontanandosi di un poco e sfilando un plico di fogli stropicciati da sotto un flacone di sgrassatore.
-Bene... ora sappiamo DOVE. Il problema rimane comunque il COME-
-Io un idea ce l'avrei... - disse l'uomo, voltando il capo verso un vecchio carrettino che di solito utilizzano gli addetti della pulizia.

Mi sembra superfluo spiegare di come i due, uno travestito da bidello e l'altra (mantenendo un broncio costante) nascosta nel carrettino a leggere la piantina e sommersa di cartacce, abbiano attraversato indisturbatamente l'intero edificio, anche quando iniziò a suonare l'assordante sirena che annunciava la scoperta del "regalino" lasciato da Lonerin e i soldati, spintonandolo, correvano in cerca del colpevole.
Prima di arrivare a destinazione, la testa di Niji fece capolino dalle cartacce.
-Senti Coso, ti dispiace se prima facciamo un salto dove tengono i documenti dei vari esperimenti? Vorrei trovare il mio e quello del fratellone...-
-Per me va bene- sussurrò Lonerin, spingendo la ragazza di nuovo sotto le cartacce -ma tu rimani al tuo posto. Qual'è il tuo codice?-
Dopo un attimo di silenzio, la ragazza rispose sottovoce -632. Conosci anche quello del fratellone?-
-E come faccio a non conoscerlo- borbottò fra se e se l'uomo ricordando tutte le volte che il suo gruppo era stato mobilitato per la cattura di quel ragazzo... e tutte le volte si trattava di uno stramaledetto falso allarme.
Giunto a destinazione, Lonerin si abbassò la visiera del cappellino da bidello, bussò alla porta con la targhetta "Documenti" ed aspettò che un qualche funzionario andasse ad aprirgli.
-Cosa vuoi?- Gli chiese un uomo basso e tarchiato dall'aspetto vagamente porcino.
-Sono qui per le pulizie- boffonchiò Lonerin abbassando ulteriormente la testa e mostrando il panno per la polvere che teneva in mano.
-Era ora!- grugnì l'uomo storcendo il naso e facendolo entrare -avanti, entra e datti una mossa. Non ho tempo da sprecare- disse volgendosi subito verso una scrivania ingombra di documenti ancora da compilare e cartacce sporche poggiata sul lato sinistro della stanza grigia, subito dopo si sedette, tolse il salvaschermo dal computer e continuò la sua partita a carte.
Lonerin fermò il carretto appena davanti ad alcuni alti mobili di ferro composti solo da cassetti contrassegnati con piccole targhette, alcuni addirittura straripanti. Fece uscire silenziosamente la ragazzina dal suo nascondiglio, prese uno spray per la polvere, si posizionò lontano dal trabicolo e si mise a pulire in maniera abbastanza rumorosa. In contemporanea Niji, facendo il meno rumore possibile, cercava i dossier che le interessavano. Una volta trovati, Lonerin aveva quasi finito di pulire e riordinare. Lei, cercando di rientrare da sola nel suo nascondiglio, scivolò cadendoci dentro e facendo un gran baccano. Per fortuna Lonerin fu svelto a coprire il rumore con un sonoro starnuto. Il "padrone dell'ufficio" sembrò non gradire.
-COS'HAI FATTO!? ESCI SUBITO DI QUI MAIALE!! MI RIEMPI L'UFFICIO DI GERMI!!- urlò l'uomo, spintonando l'ex soldato e il suo carretto fuori e, successivamente, sbattendogli sonoramente la porta in faccia.
-Ooooh, non fare quella faccia bimbo bello! Non sei affatto un maialino- continuava a canzonarlo sottovoce Niji da dentro il carretto.
-Dove si va ora?- chiese Lonerin al carrettino senza dar peso alle canzonature, il quale, resosi conto che questo tipo di prese in giro non facevano effetto, gli indicò la strada da intraprendere per arrivare ai container.

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Capitolo 5
*** Fuggire - capitolo 5 ***


Passarono solo due anni da quando quel ragazzo diventò apprendista del vecchio, ma bastarono per trasormarlo da un quattordicenne fuggito per poco da morte certa in un giovane creatore di vita artificiale partendo solo a poco più di un orologio da taschino o da un vecchio meccanismo malfunzionante. Proprio di questo trattavano gli insegnamenti del suo maestro: partire dal nulla per creare il tutto, dare la vita ad un'oggetto che vita non ha mai avuto. Tutte cose che possono parere anche impossibili ad un orecchio esterno ma realizzabili grazie alla meccanica mista ad anatomia, chimica, ore intense di studi e una mente brillante. Yors passava le proprie notti ad aiutare il suo "maestro" a creare piccoli animali meccanici e a sventare incendi scaturiti da una qualche candela dimenticata, a leggere e a studiare. Leggeva e imparava tutto ciò che gli capitava a tiro: vecchi tomi di fisica, chimica, matematica, meccanica, o anche solo antichi manuali di istruzioni, vecchie riviste... oppure disegnava. Amava studiare l'anatomia animale e riportare fasci muscolari, sistemi, apparati e ossa su fogli di carta, ricopiandoli naturalmente da sventurati esemplari catturati sui tetti o in strada, studi che poi gli sarebbero tornati utili durante la progettazione di una delle sue creaure meccaniche.

Almeno una volta al giorno usciva ad allearsi: aveva trovato a circa un chilometro di distanza dalla chiesetta un vecchio palazzo ridotto ad uno scheletro, con i muri crollati e le tubature pendenti. Si allenava soprattutto su tre delle sue grandi abilità: l'agilità, la velocità e il poter manovrare il fuoco.
Per cominciare tutti i giorni partiva di corsa in un piano a caso. Per lui era un gioco saltare i rimasugli di mobili distrutti, schivare pezzi di soffitto che crollavano dall'alto e eseguire evoluzioni in quegli spazi angusti con l'aria satura di polvre, correre sotto tubature bucate con l'acqua che gli sferzava il volto, i piedi che scivolavano sui vecchi pavimenti di marmo distrutto bagnati d'acqua, saltare dall'odore di vecchiume di un vecchio appartamento a quello dell'aria di pioggia che perennemente picchiettava placida sulla città in rovina.
Una volta finita la prima parte dell'allenamento partiva con la seconda: il fuoco. Scalava l'edificio fino alla cima dove lo spazio piano era largo e deserto. Lì sopra non vi era molto con cui distrarsi: il paesaggio riservato solo per il suo sguardo era minimalsta e diviso in tre lunghe strisce: una plumbea del cielo, una di un colore grigio bagnato del cemento e una grigia, perfettamente in sintonia con la vitalità del paesaggio circostante: un mare scuro ed edifici bruciati, distrutti e crollati.
In quel luogo riusciva a concentrarsi come mai gli era capitato prima. Giungeva i palmi e parlava al fuoco in quella lingua sibilante e scopiettante che solo loro due erano in grado di capire. Essi erano compagni, quasi fratelli e, come fra fratelli spesso accade, ci possono essere delle incomprensioni. Molto spesso accadeva che, magari per via di un gesto troppo veloce o di una parola mal pronunciata, il fuoco gli si rivoltasse contro, senza però riportare conseguenze più gravi di una qualche scottatura risolvibile con una fasciatura. Aveva raggiunto però risultati entusiasmanti: riusciva a trasformare la forma del fuoco e a fargli prendere somiglianze vagamente umane o animali, a modificarne la grandezza e i colore. Ciò gli consentiva di di passare da una piccola fiammella gialla grande quanto una noce in una vampata alta due metri di un colore blu elettrico. D'altronde si trattava solo di cambiare la temperatura.

Pur non esistendo stagioni, talvolta la temperatura diveniva ancora più rigida, costringendo quindi il ragazzo ad uscire dalla "tana" armato di cappotto lungo, borsa a tracolla e piccoli attrezzi utili per scassinare serrature.
Era solito uscire per una delle finestre posteriori per poi procedere arrampicandosi per i cornicioni esterni delle case con l'intento di non farsi scoprie da evetuali soldati (anche se da ormai un anno erano spariti gli scoppi lontani, facendo quindi pensare alla vittoria di uno dei due eserciti). Il suo compito era quello di racimolare più cibo e oggetti utili possibile. Compito assai semplice, se si sa come svolgerlo. La maggior parte della popolazione cittadina o era fuggita dai soldati avanzanti, o era morta.

Yors aveva imparato molto in quei libri, a partire dalla storia di quel mondo e amava ripeterselo mentalmente quasi si trattasse di una preghiera. Questo gli faceva ricordare in che mondo viveva. Malato sì, ma pur sempre il SUO mondo:

Decine di anni prima venne scoperta una mutazione genetica di alcuni individui, i quali possedevano la capacità innata di controllare una parte della loro energia psichica e di trasformarla in una forza palpabile. Questa capacità venne nominata Magia. Alle origini essa consisteva solo in giochetti futili, come ad esempio far volteggiare un cucchiaio o spezzare uno stuzzicadenti con la forza della mente, ma a coloro che la possedevano, essa non bastava. Cinque anni dopo circa uno scienziato scoprì che incanalando questa forza all'interno di un minerale specifico si riusciva ad ottenere un effetto del potere potenziato del 200%. Le tipologie di pietre variavano da mago a mago, a seconda dell'affinità che essi possedevano con la Madre Terra e gli elementi. Questa pietra doveva sempre trovarsi a contatto del soggetto per mantenere il potere costante e per far in modo che ciò potesse avvenire vennero forgiati gioielli che rachiudessero almeno un frammento del minerale in questione.
Alcuni maghi con una forte affinità capirono che per avere un aumento vertiginoso del proprio potere bisognava per forza eseguire dei sacrifici. Questi facevano sì che solo i pochi maghi che possedevano il coraggio (o la stupidità) di praticarli aumentassero il proprio potere. In comune accordo essi barattarono con la madre terra ciò che avevano di più caro: il sole.
Esso sarebbe sempre stato coperto da una coltre di nuvole impenetrabili, spesse come il cemento, la terra avrebbe smesso di creare riserve di calore provocando così un gelo pressapoco eterno e man mano sempre più forte. La terra avrebbe smesso di creare spontaneamente cibo. Si trattava di un enorme sacrificio a livello mondiale, quindi tutti i maghi poterono usufruire della potenza extra, trasformando così i loro trucchetti in veri e propri poteri, alcuni addirittura in grado di distruggere interi palazzi solo con lo schiocco delle dita.

Gli esseri umani non erano d'accordo con questa decisione ma, grazie al potere man mano acquisito dai maghi, vennero decimati e ridotti a vivere lontano dai centri sociali. La pace era finita. Gli umani però continuavano a resistere, anche se pareva di combattere lanciando sassolini contro una corazzata impenetrabile. La guerra più recente fu interna, maghi contro maghi, data per l'abolizione delle Camere Nere, stanze attrezzate ove i medici cercavano di ricreare un essere perfetto in tutto, in grado di svolgere qualsiasi tipo di mansione da loro richiesta. Questo progetto venne chiamato "Project B". Questo successe quarant'anni prima.
Anche se questa guerra venne vinta e gli esperimenti liberati, Yors sapeva fin troppo bene che i patti non vennero rispettati e che le ricerche continuarono. Aggiunse una pagina al libro di storia scritta con la sua scrittura sottile e allungata diversi appunti che aveva trovato in altri libri: la prigione volante si chiamava in realtà "La Costruzione" e si trattava di un enorme cubo di cemento intrinso di magia e energia lasciato volare al centro del mare degli Epit. Esso riceve rifornimento di cibo e cavie ogni mese. Gli uomini che ci lavorano dentro sono di tre categorie: i Maghi Porpora (chiamati così per via del distintivo colore dei guanti), i Guardiani (maghi guerrieri che indossano una tunica color sangue sopra un'armatura nero pece) e, in fine, i soldati semplici, incaricati di tenere a bada le cavie durante il corso degli esperimenti.

Quel giorno uscì dal suo covo passando per i tetti. Il mondo gli pareva ancora più desolato ora che era ripulito dalla cenere. Procedette, come sempre, celando le sue impronte. Potrebbe sembrare un gesto inutile contando che la città era desolata, ma lui a ormai quasi un mese percepiva sulla propria pelle lo sguardo di un inseguitore... paranoia?
Gli pareva strano che il Maestro avesse avuto tanta foga nel mandarlo fuori al "lavoro", e ancora di più che lui stesso gli avesse indicato il luogo. Mah, gli sarà di nuovo venuta la voglia di cioccolata...
In realtà si era reso conto della scarsità di cibo che li aveva colpiti ultimamente.
Laurence decise di farlo allonanare di qualche isolato in più del solito, mandandolo in una sezione residenziale in pessime condizioni vicino al mare dove avrebbe potuto moversi con più tranquillità. Non sapeva perché, ma il suo sesto senso lo assillava, continuava a "dirgli" di non avvicinarsi al palazzo che Laurence gli aveva chiesto di svuotare. Non credeva importasse molto in quale palazzo rovistasse. Decise quindi di attaccare quello vicino.
Si arrampicò con agilità fino al terzo piano (l'idea di tentare di prendere le scale non l'aveva nemmeno sfiorato, sapeva che sarebbero state quasi del tutto distrutte), sfondò la finestra ed entrò. Vigeva un silenzio irreale come nella maggior parte dei territori vinti ormai da tempo, ma non ci fece caso. Con poche falcate raggiunse la dispensa ove trovò due scatolette di tonno e un pacco di pasta, successivamente si spostò verso il bagno, dove sapeva che venivano tenute medicazioni di vario genere e eventuali medicine. Mezza scatola di cerotti con gli orsetti e due aspirine scadute. Mah... meglio di niente pensó.
Decise di salire al piano superiore. Si ritrovò in un appartamento molto ricco e pieno di oggetti inutili quanto costosi: bambole di porcellana andate in pezzi, teche di cristallo distrutte... libri, libri e ancora libri. Peccato non avere tanto spazio nella borsa per poterseli portare dietro e leggerseli poi una volta nel suo nascondiglio. Meglio utilizzarlo per il cibo pensò, rassegnandosi. Senza far troppo caso al resto degli oggetti si diresse verso la cucina... che trovò completamente svuotata. Tutti gli sportelli dei mobili erano aperti, alcuni penzolavano staccati dai cardini, i cassetti completamente svuotati. Non vi erano più piatti, posate o cibo. In compenso diverse impronte di fango erano sul pavimento. Non se lo sarebbe mai aspettato, a giudicare dal fatto che quello avvenuto lì doveva essere stato un attacco flash, di quelli che non lasciano nemmeno il tempo di preparare le valige. Iniziò a girare per l'appartamento con molta più circospezione. Lanciando delle occhiate distratte alle pareti si rese conto che l'uomo che tempo prima abitava li doveva essere stato un grande appassionato di armi. E di barche. L'appartamento era tappezzato di foto e disegni di pistole, coltelli e vari tipi di imbarcazoni. Il salotto era allucinante: lasciando perdere i mobili scuri dall'aspetto lussurioso e l'enorme televisore a schermo piatto (rotto), le pareti erano stipate di sostegni di metallo per le armi (anche lì, a quanto pareva, sempre il solito qualcuno doveva essere passato a fare spesa rubando solo fucili e pistole), pugnali e anche qualche spada. Yors rimase a bocca aperta e anche abbastanza intimorito. Superato lo stupore si avvicinò alle armi bianche. Ne era attratto, quasi come una calamita. Decise di prenderne una. Credeva che sarebbe stata una scelta difficile, e invece fu molto più semplice del previsto: le soppesò tutte, ne studiò la lunghezza, il peso e la forma e, solo dopo un'ora buona, si decise. Leggero, facilmente manovrabile e resistente, questo cercava.
La prescelta fu una katana slanciata ed elegante, con impugnatura intrecciata di strisce di seta nera su una base del medesimo colore, la lama era affilatissima, il fodero era nero come la notte, decorato finemente con disegni e ghirigori dorati.
Dentro un armadio trovò una sacca da trasporto della misura della spada, ve la infilò dentro e si avviò verso l'uscio salutando e ringraziando il nulla.
Riprese il giro di perlustrazione.

Una volta finito il proprio "lavoro" all'interno del primo palazzo si avviò verso il secondo, quello indicatogli da Laurence. Presto si sarebbe fatto buio ma la borsa era ancora mezza vuota, non voleva portare così poco all'uomo che l'aveva ospitato, sfamato e istruito. Si sentiva molto più sicuro con la sua katana dentro la sacca, sapeva di non avere la più pallida idea di come si usasse ma si rassicurava ripetendosi che presto avrebbe imparato. Magari ci sarebbero voluti un po' più di due cerotti con gli orsetti per tenere i pezzi insieme dopo gli allenamenti.
Appena in tempo udì quelle che gli parvero due voci rauche e riuscì a nascondersi dietro un muretto. Capì solo qualche parola qua e là del loro discorso: "vecchio pazzo" e "mentito". Parlavano sicuramente del Maestro! Doveva avvicinarsi di più, doveva capire su cosa gli avesse mentito e, soprattutto, cosa volessero da lui, loro con quelle facce così arrabbiate e le armi da fuoco nere come la morte. Vide i due uomini allontanarsi con passo lento dal secondo edificio. Appena furono talmente lontani da non poterlo più vedere si alzò dal suo nascondiglio grattandosi la testa con fare perplesso. Doveva arrivare prima di loro.
Da sempre Yors sapeva di possedere una vista e un olfatto invidiabili, ma non poteva dire lo stesso del proprio udito. Non si accorse dell'ammasso di muscoli parecchio più alto di lui che silenziosamente gli si era posto alle spalle con il mitra imbracciato. Solo il suo odore lo tradì. Yors si girò appena in tempo per vedere l'impugnatura dell'arma che gli si fiondava contro la fronte. L'ultima cosa che vide prima di perdere completamente i sensi furono gli stivali borchiati dell'uomo-montagna.

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